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Cognomi di Stabia
Storia • Etimo • Semantica • Frequenze

© 2021 Raffaele Fontanella


r.fontanella@remag.it

revisione generale
Ennio D’Alessio

progetto grafico
R&MAG Partners
www.remag.it

stampa
Tipolito TCE
www.tipolitotce.it

foto di copertina
© 2019 Enzo Criscuolo

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tutti i diritti di riproduzione, anche
parziale, dei contenuti sono riservati.

La quasi totalità delle immagini


presenti in questo libro sono di pubblico
dominio; negli altri casi sono state
debitamente citate le fonti.
Un grande ringraziamento va allo storico stabiese Catello Vanacore per lo scambio di
opinioni ed i suggerimenti ricevuti sul lavoro da svolgere ma, soprattutto, perché mi
ha fornito trascrizioni ed elaborazioni del catasto stabiese del 1753, fatte negli anni
Ottanta su fogli dattiloscritti per l’Archivio Storico di città.

Ad Antonino D’Esposito, parroco della Cattedrale, per la grande disponibilità offerta


nel reperimento dei testi e dei documenti d’archivio. Ancora, per le referenze fotogra-
fiche è doveroso ringraziare sia il sito web Libero Ricercatore (Gaetano Fontana, Corra-
do Di Martino, Giuseppe Zingone) che Giuseppe Plaitano per l’omonimo archivio.

Ringrazio l’amministrazione cittadina con, in primis, il sindaco Gaetano Cimmino ma


anche Stefania Amato e Mauro De Riso. Ancora poi tutto il personale delle bibliote-
che e degli archivi consultati che, nel tempo, mi hanno in vario modo aiutato e con-
sigliato nelle ricerche; in particolare: Gino De Iulio, Rosaria Marra, Ciro De Gennaro,
Francesco De Gregorio (Ufficio Anagrafe, Castellammare di Stabia); Giuseppe Lavagna,
Raffaele Mercogliano (Archivio Storico, Castellammare di Stabia); Egidio Di Lorenzo,
Pasquale Vanacore, Dina Cimmino (Museo Diocesano Sorrentino Stabiese, Castellammare
di Stabia); Filippo Merola, Gaetano Mauro (Museo Correale di Terranova, Sorrento).

La foto del quadro restaurato nel 2020 della Madonna di Portosalvo è stata gentilmente
concessa dall’Ufficio Beni Culturali della Curia Arcivescovile Sorrento-Castellammare.

Autorevoli contributi di: Enzo Caffarelli (esperto di onomastica e direttore della


Rivista Italiana di Onomastica), Francesco Bettarini (Università Ca’ Foscari di Venezia),
Roberto Bizzocchi (Università di Pisa), Sergio Lubello (Università di Salerno),
Michele Cartusciello (Museo del Cognome).

Amichevoli contributi di: Peppe Angiò, Aldo Cinque, Ciro Moses D’Avino, Nico-
la Cuomo, Salvatore Gallo, Anna Bellaviti, Elio Dattero, Mirella Banditelli, Gina
Soave, Simone Fontanella, Monica D’Alessio, Giulio Clemente, Pierluigi Fiorenza,
Paola Ocone, Attilio Masi, Olimpia Staiano, Ugo Carella, Patrizia De Iulio, Nicola
Longobardi, Carmen Matarazzo, Maurizio D’Alessio, Enrico Cesarano, Annamaria
Paolino, Vittoria Marino, Maurizio Santoro, Gelsomina Langella, Mauro Bubbico,
Pasquale Donnarumma, Maria Rosaria Napolitano, Giustiniano Cuccurullo, Antonio
Cuccurullo, Guglielmo Esposito, Gianni Giandomenico, Adriana Carella, Sofia Ocone,
Giulio D’Alessio, Antonio Violante, Agostino Martorano, Francesco Marigliano, Bia-
gio Vanacore, Maurizio Di Somma, Marcello Esposito di Cesariello, Anna Di Somma,
Francesca Del Cogliano, Patrizia Tavella, Carmine D’Amato, Alberto Festa, Francesco
Paternoster, Enrico D’Alessio, Roberto Elefante, Domenico Santo, Elodia Del Sorbo,
Francesco Annarumma, Rosanna Cesarano, Valentina Esposito…
© arsc

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Gaetano Cimmino
sindaco di Castellemmare di Stabia

Delibera del sindaco Mi ha sempre affascinato la ricerca attenta delle radici, specie se alla 7
Gaspare d’Avitaya per la
creazione della piazza del base della cultura e degli usi di un popolo. Non posso perciò che essere
Duomo (1814) conservata
nell’Archivio Storico di
felice ed orgoglioso del lavoro svolto da uno stabiese, Raffaele Fontanella,
Castellammare di Stabia per la comunità di Castellammare di Stabia e per il patrimonio storico e
culturale del Paese intero.

Un testo ricco, tecnico e particolarmente affascinante che sono certo


appassionerà non solo gli studiosi ma l’intera cittadinanza. Facciamo
con Fontanella un tuffo nel nostro glorioso passato per capire meglio il
presente, per prendere coscienza da dove veniamo. Un esercizio, questo,
che spesso ci regala squarci sull’attualità e ci fa capire meglio anche
dove siamo diretti. La città di Castellammare di Stabia ed i suoi cittadini
sono da sempre molto legati, e per buonissimi motivi, alla propria Storia.
Una Storia fatta di nomi e cognomi che riecheggiano ancora nelle nostre
strade, nelle nostre piazze e nei nostri palazzi. Parole di cui possiamo
sentire concretamente il peso e che portiamo con fierezza ovunque nel
mondo andiamo. Ci ricordano trovatelli e grandi uomini, mestieri umili
e nobili, una lingua sempre in evoluzione, regnanti, politici e sindaci, ma
non solo. I nomi ed i cognomi ci raccontano la nostra Storia.

Complimenti ancora, perciò, a Raffaele Fontanella che sono certo conti-


nuerà la sua opera di ricerca anche nel prossimo futuro.

© wikipedia

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Francesco Bettarini
genealogista e docente di Storia Medievale all’Università Ca’ Foscari di Venezia

Zodiaco marmoreo (1207) Quando Raffaele Fontanella mi ha contattato per condividere il suo 9
nella pavimentazione del-
la Basilica di San Miniato lavoro accennandomi alla sua esperienza di studio dei cognomi stabie-
al Monte di Firenze
si, confesso di essermi immaginato di trovarmi davanti ad uno studio
di microstoria genealogica, frutto della passione e dell’amore per la
propria terra. Mi sbagliavo. È questo ma anche molto di più. La storia dei
cognomi stabiesi è affrontata con una rigorosa esegesi storica e storio-
grafica nei diversi contesti documentari che hanno portato alla graduale
diffusione di questo attributo onomastico che lega il passato al nostro
presente nella pratica quotidiana, alla pari del nostro codice genetico.
Nella mentalità comune, riscontrata in tanti anni di impegno al servizio
degli studi genealogici, il rapporto con il proprio cognome è pervaso da
emozioni e sentimenti che vanno ben oltre il significato ed il ruolo che
esso assume nella nostra esistenza.

Il cognome può essere motivo di orgoglio o di improbabili origini no-


biliari ma anche costituire ragione di imbarazzo sostanziale anziché
estetico. Penso ad esempio ai Borromeo di Milano, dinastia di santi,
principi e statisti, che nel nobilitare la propria storia, evitano tutt’oggi
sui loro siti istituzionali di fare riferimento alle loro origini trecentesche,
quando il loro cognome era Borromei ed il loro mondo andava poco oltre
le colline che circondano la terra di San Miniato in Toscana. Come non
pensare poi ai Bresci che nel 1900 si presentarono in massa agli uffici
comunali della città di Prato per modificare il loro cognome in Breschi
© wikipedia
Luigi Baccio del Bianco e non essere più accomunati con il regicida Gaetano. Eppure, la storia
“La peste a Firenze” (1630)
conservato nel Museo giuridica del cognome è tutt’altro che antica. Come analizzato puntual-
della Misericordia di
mente dall’autore, è solo con il governo napoleonico, diretto o mediato,
Firenze
che esso diviene un attributo imprescindibile di ciascun individuo,
trasmissibile per ius sanguinis et adoptionis. Il cognome esiste già, certo, ed
è ampiamente diffuso da secoli su larga parte del territorio italiano ma
il suo ruolo è identificativo e non giuridico. Si tratta cioè di uno strumen-
to messo a disposizione delle istituzioni civili o ecclesiastiche quando
il patronimico, la professione ed il luogo di residenza non sono più
sufficienti per inquadrare un individuo all’interno di una comunità. Il
cognome non è perciò garanzia di antichità e lignaggio, né si configura
così fisso ed immutabile come può apparire ai giorni di oggi (lo dimostra
anche la recente riforma che autorizza l’adozione del cognome materno
al momento della nascita).

Perché allora è così importante parlarne? Questo volume lo dimostra 11


chiaramente. Studiare l’origine dei nostri cognomi significa innanzitutto
riconoscere l’importanza della storia sociale di una comunità al fianco
della storia politico-istituzionale ed economica, ritenuta ancora oggi di
maggior rilievo nella nostra cultura scolastica. Lo studio delle origini dei
nostri attributi nominali colloca il presente di ciascuno di noi in un pas-
sato che appare lontano solo se limitato al nozionismo di eventi dinastici
e bellici. Un passato dove i nostri antenati sono intervenuti nella storia
lasciando un segno che è possibile cogliere qualora si accetti di dare
valore alle tracce sopravvissute al volgere dei secoli. Nel 1630 la peste
raggiunse il piccolo borgo toscano dove vivevano i miei antenati. Era
la celebre epidemia raccontata dal Manzoni tra le pagine de I Promessi
Sposi. Dei tre figli maschi viventi al momento del suo passaggio, uno solo,
Bartolomeo, restò in vita, ed è solo per questo evento fortuito che il sotto-
scritto oggi è qui chiamato ad intervenire per introdurre questo volume.
Un libro che studia il passato con il rigore della ricerca e la passione
dell’interesse personale, riuscendo così a descrivere una comunità ricca
di storia e di cognomi.

[ …Un paese ci vuole,
non fosse che per il gusto
di andarsene via.
Un paese vuol dire
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non essere soli, sapere che
nella gente, nelle piante,
nella terra c’è qualcosa di tuo,
che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti… ]
© libero ricercatore
Michele Cartusciello
fondatore del Museo del Cognome di Padula (Salerno)

Citazione tratta dal Ho scelto questa citazione di Cesare Pavese perché descrive in poche e 13
romanzo “La luna e i falò”
di Cesare Pavese (1950) semplici parole ciò che il Museo del Cognome rappresenta non soltanto per
me, ma anche per coloro che, una volta varcata la soglia, fanno un tuffo
nel passato e scoprono nuovi, ma soprattutto vecchi mondi. Questa pic-
cola realtà nasce a Padula otto anni fa, un piccolo museo al piano terra di
un antico palazzo del centro storico, che contiene in sé la mia immensa
passione per la genealogia e anni e anni di ricerche sulla mia storia di
famiglia, e non solo sulla mia. Tutto ha inizio più di trent’anni fa, ero
un giovane ragazzo, avevo perso i tasselli importanti e sentivo il bisogno
di capire, scoprire. Nessuno riusciva a darmi le risposte che cercavo.
Quindi, ho fatto il primo passo. Ho bussato per anni alle porte di archivi
comunali, parrocchiali e archivi di Stato. Ho osservato, sfogliato, rigirato
e studiato manoscritti in italiano e latino, conservati in migliaia di fal-
doni impolverati e consumati dal tempo. Ho cercato ciò che mi avrebbe
permesso di tracciare le mie origini e ritrovare le tessere mancanti. Non
ho ancora finito, e continuo con instancabile volontà. La citazione fa
riferimento alla gente, alla terra, alle radici. Non è casuale, ma voluto.

È sempre vivo e forte in coloro che vivono oltreoceano il senso di appar-


tenenza al paese dei propri nonni, così come la ricerca di un’identità
materiale rimasta per molto tempo soltanto nelle parole e nelle storie
raccontate. Avere delle risposte alle tante domande, realizzare il sogno
di una vita e sentirsi concretamente legati al proprio passato. Il Museo
© franco maria ricci

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Tempera con le tipiche del Cognome, perciò, non è soltanto un luogo, ma un ponte, un punto di
vestiture delle donne
delle province del Regno riferimento dove si incrociano culture, storie, emozioni contrastanti e
di Napoli (xix secolo)
passioni. Qui, la ricerca genealogica diventa curiosità, scoperta. Avvici-
namento e attaccamento alle origini allo stesso tempo. Sto portando que-
sta mia passione in giro per l’Italia e per il mondo tra Stati Uniti, Brasile,
Argentina, Colombia dove milioni di italiani sono arrivati in cerca di
una vita migliore, lontano dal proprio focolare e dagli affetti. Gli sguardi
di tante persone. Gli occhi pieni di lacrime. La possibilità di trasmetterla
e di condividerla mi riempie di gioia e mi spinge a non fermarmi.

Ho conosciuto Raffaele tempo fa, la sua passione per la ricerca, l’attacca-


mento alla sua terra non lontana dalla mia ci hanno resi amici. Castel-
lammare di Stabia, una città che si affaccia sul Golfo di Napoli. Una città
fatta di persone, le stesse persone che compongono anche tanti nuclei
famigliari. I cognomi principalmente, e poi i lineamenti che distinguono
gli uni dagli altri. I 10 cognomi più diffusi a Castellammare di Stabia 15
sono: Esposito, Schettino, Longobardi, Cascone, Di Martino, Di Maio,
Somma, Coppola, Russo, Donnarumma. Mi piace immaginare Castel-
lammare nell’antichità. Vedo le belle donne del napoletano, e di più belle
non ce ne sono al mondo, corteggiate dai pescatori di passaggio. Le vedo
diventare mogli e madri. Sono le donne di uomini venuti dal mare. I
loro cognomi: Scala, Sorrentino, Messina, Genovese, Cosenza, Calabrese,
Manfredonia. Molto altro ci sarebbe da raccontare, ma questa è soltan-
to una piccola parentesi. In questi primi mesi del 2020, il male ci ha
obbligato a stare in casa. Il male ci ha allontanati dagli affetti più cari,
dagli amici, dalle serate goliardiche. Lo stesso male ci ha dato, nonostan-
te tutto, la possibilità di rallentare, di uscire da quella vita frenetica che
per anni ci ha negato la possibilità di ascoltare. Io l’ho fatto, ho ascoltato
tanto mia madre e credo che come me tanti lo avranno fatto con i propri
genitori o nonni. Ricordi vaghi, ma forti. Ricordi illustrati dalle foto
conservate nelle vecchie scatole, che ti trasmettono una vita mai vissuta,
che ti fanno vivere sentimenti sconosciuti. Purtroppo, molti nostri cari
sono stati portati via e con loro i ricordi. Per il futuro sarà fondamentale
coltivare l’interesse della scoperta e il desiderio di preservare ciò che mai
nessuno ci potrà togliere: le nostre origini.

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Antonino D’Esposito
parroco della Cattedrale di Castellammare di Stabia (Napoli)

Lapide con cognomi e In questo lavoro il Nostro Autore, con l’entusiasmo del ricercatore per 17
nomi di caduti stabiesi
della Prima Guerra Mon- passione, con un’indagine attenta e tenace, ci conduce in un viaggio
diale (1918) conservata
nella Cattedrale di Ca-
attraverso i secoli per farci conoscere l’origine dei cognomi e, in partico-
stellammare di Stabia lare, in che modo i trovatelli erano accolti e ricevevano un’identità, con la
fondazione di orfanotrofi e la promulgazione di leggi che ne regolassero
la materia. Importante il lavoro di ricerca nei registri sia delle istituzioni
civili che religiose, dai quali si attingono notizie preziose per ricostruire
una storia minore ma non per questo priva di fascino e di importanza,
non fosse altro che essa è anche la storia dei nostri antenati e delle
nostre famiglie. La ricerca ci fa comprendere come una società, certo non
priva di contraddizioni ma fecondata dall’annuncio del Vangelo, si sia
posta il problema di salvare i bambini abbandonati ed esposti ad una
morte quasi certa e assicurare loro un futuro dignitoso.

Questi abbandoni avevano, e ahimè hanno, molteplici cause: a volte di


carattere economico, per la miseria delle famiglie spesso numerose con
lavori precari e poco retribuiti, o di onore, perché il nascituro era nato
fuori da un legittimo legame, o per la mortalità che per mancanze di
cure mediche colpiva non solo i piccoli ma anche gli adulti. In taluni casi
poteva verificarsi anche un abbandono per cosi dire strategico, in attesa di
poter riprendere il figlio e magari, nel frattempo, averlo in affidamento
per un allattamento retribuito; un segno lasciato al nascituro avrebbe
potuto, in tempi migliori, permettere il ricongiungimento familiare.
© simone fontanella

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Lapide alla memoria di Leggendo queste gustose pagine, fa riflettere l’attualità di certe inven-
Raffaele De Rogatis (1757)
conservata nella Catte- zioni del passato; la famosa ruota degli esposti, che permetteva di lasciare i
drale di Castellammare neonati presso pie istituzioni di carità a tutte le ore e in anonimato, ab-
di Stabia
bia poi trovato in tempi recenti, in certi ospedali, una versione moderna
e sicura per salvare i bambini abbandonati nei modi più diversi con gra-
vi rischi per la loro incolumità. Certo, questa moderna ruota, al di là dei
numeri reali piuttosto bassi di casi censiti, serve anche da segno per ri-
cordare che oggi è possibile partorire in sicurezza e nell’anonimato, con
diritti all’assistenza garantiti a tutti indistintamente, e permettere al
piccolo, che la madre non vorrà riconoscere, di essere dato in adozione a
una coppia che desiderava il dono di un figlio e ne aveva gli opportuni
requisiti. È proprio vero, come affermato da qualcuno, che una società va
giudicata per il suo grado di civiltà, non solo per le sue conquiste scien-
tifiche, economiche, artistiche ma anche, e soprattutto, per l’attenzione
agli scartati, ai poveri, ai piccoli, ai malati, agli anziani, a coloro che non
hanno voce o non sono economicamente produttivi. 19

A tal proposito, gli storici attenti alle vicende del nostro meridione
hanno messo in luce iniziative ed istituzioni benefiche di quello che fu
il Regno di Napoli prima, e delle Due Sicilie poi, in cui tanta attenzione si
ebbe per i poveri. Ciò non sfugge al Nostro Autore che, tra le tante cose, ci
parla del brefotrofio della Reale Casa dell’Annunziata di Napoli con la sua
lunga e ricca storia, di cui gli archivi sono una preziosa testimonianza.
Colpisce non poco noi moderni il constatare che, nel summenzionato
grande complesso architettonico ancora visibile nella città, allora capita-
le del regno, i nostri antenati abbiano saputo coniugare in mirabile sin-
tesi la bellezza e la carità, come a ricordarci che anche i più poveri hanno
diritto alle cose belle dei nobili, perché tali sono anch’essi agli occhi di
Dio. Nel libro, la spiegazione di come si dava o si inventava un cognome,
mentre ci dice di una crescente attenzione alla dignità delle persone e
alla pubblica sicurezza, con un pizzico di ironia, ci narra della creatività
di alcuni nel forgiare nuove identità partendo da un particolare giorno,
da una festa, da una caratteristica fisica del trovatello. Ringraziamo l’Au-
tore per questa ricerca che stuzzica la nostra curiosità, ci fornisce tante
notizie interessanti e ci permette di sapere di più con l’altrui fatica, ben
sapendo che il sapere si moltiplica e si gusta condividendolo.

© banca stabiese

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abbreviazioni ricorrenti

ascs = Anagrafe Storica del comune di Castellammare di Stabia


arsc = Archivio storico del comune di Castellammare di Stabia
asc = Archivio storico della Concattedrale di Castellammare di Stabia
casc = Curia Arcivescovile Sorrento-Castellammare
mudiss = Museo diocesano sorrentino stabiese
cpcs = Congregazione del Purgatorio di Castellammare di Stabia
bnn = Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli
mcts = Museo Correale di Terranova di Sorrento

nelle due pagine precedenti


Enrico Gaeta “Banchina
da sbarco a Castellamma-
re” (1873)
24 Dizionario di linguistica

30 Introduzione

44 La storia dei cognomi


130 Dal latino al volgare
136 L’eredità onomastica dei Longobardi
144 I testamenti nel passato
150 Le abitudini notarili
158 Le alterazioni delle parole
172 Le influenze dialettali
178 I decreti napoleonici dal 1809

188 I patronimici e gli agionimi

194 I toponimi e le migrazioni

222 I mestieri e le cariche nel Medioevo

234 I soprannomi medievali

246 I cognomi di Stabia


358 Le fonti storiche
366 Gli atti parrocchiali
374 Gli stemmi delle famiglie

390 L’identità dei trovatelli

462 Il poster dei cognomi stabiesi

470 I cognomi nel mondo

480 Il futuro dei cognomi

496 Appendice

506 Bibliografia
Dizionario di Afèresi (o procope): eliminazione o scomparsa di uno o più suoni all’inizio di
linguistica una parola come, per esempio, il cognome Tognazzi è aferesi di Antognazzi.

Aggettivale: cognome formato da un aggettivo, per esempio: Ardito, Modesto,


Ricco, Grasso, Sordi.

Agglutinazione: fusione di elementi lessicali, in origine separati, in un’unica


parola come, per esempio, il cognome Labate si è formato per agglutinazione
dell’articolo lo con abate.

Agionimo: nome proprio di santi come i cognomi: Andrea, Marco, Pietro, Giovan-
ni, Evangelista, Sammartino, Mattei.

Agnomen: termine latino col quale viene indicato un quarto nome (oltre ai tre di
tradizione classica: praenomen, nomen, cognomen) che indicava una particolare
caratteristica o condizione, per esempio: Marcus (praenomen) Porcius (nomen)
Cato (cognomen) Censorius (agnomen); l’agnomen Censorius indicava la condizio-
ne di censore.

Alamanno: dialetto tedesco parlato nella Svizzera tedesca, nell’Alsazia, nel


24 Baden meridionale e ai margini occidentali della Baviera

Allitterante: ripetizione di un suono o di una serie di suoni uguali; sono allit-


teranti i cognomi: Abbattista da Battista, Abbascià da Bascià.

Apocope: scomparsa di uno o più suoni alla fine della parola come, per esempio,
Berlen è apocope del cognome Berlengieri.

Apotropaico: ha la funzione superstiziosa di allontanare o scongiurare malattie,


pericoli, influssi malefici, disgrazie; appartengono a questa categoria cognomi
come: Biseste, Brutti, Cafazzo.

Asemantico: ha funzione di suffisso privo di significato e, a volte, sono soltanto


decorativi; per esempio il suffisso -isio è asemantico come nel cognome Brando-
nisio (derivativo asemantico di Brandoni).

Assimilazione: fenomeno fonetico per cui un suono, trovandosi a contatto con


un altro di diversa articolazione, si trasforma in un suono simile o uguale; per
esempio il cognome Biunno è interessato da questo fenomeno in quanto in origi-
ne suonava Biundo (biondo) e mostra come la sequenza biconsonantica -nd- si sia
trasformata, per effetto del fenomeno assimilativo, in -nn- (la -n- ha assimilato la
-d-). Altro esempio è il cognome Lanni derivato da Landi.

Avestico: lingua persiana medievale appartenente alle lingue indoeuropee.

Betacismo: fenomeno e processo fonetico per cui la -b- può trasformarsi in -v- e
viceversa come, per esempio, Varvaro in Barbaro e Varnavà per Barnabà.

Biblico: sono quei cognomi che si rifanno alle Sacre Scritture come: D’Adamo,
D’Abramo, Noè, D’Elia, Giacobbe, Patriarca.
Campidanese: dialetto sardo parlato nella Sardegna meridionale.

Cognomen: nell’antica Roma individuava, per lo più come soprannome, una


singola persona all’interno di una gens, cioè di un grande gruppo familiare; così
Cicero (soprannome derivato da una verruca a forma di cece che Cicerone aveva
sul viso) risulta essere il cognomen di Marco Tullio.

Cognominizzazione: processo per cui un nome proprio o un soprannome si tra-


sformano in cognome. Il cognome Russo per esempio è la cognominizzazione di
un soprannome derivante dal colore rossiccio dei capelli o della barba; in latino
il colore rosso si diceva rufus ma nel latino volgare si pronunciava russus.

Deglutinazione: è il contrario della agglutinazione ovvero un fenomeno at-


traverso il quale una parola originariamente unitaria viene separata per errata
trascrizione o interpretazione; per esempio il cognome La Manna si è formato
per deglutinazione di Lamanna (variante alterata del cognome Alamanno/a)
interpretando erroneamente la prima sillaba la come articolo determinativo.

Deverbale: elemento lessicale derivato da un verbo; per esempio il cognome


Mondadori deriva da mondare cioè pulire, liberare da ciò che è nocivo.
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Dialettale: sono quei cognomi che derivano da termini dialettali ricalcati più o
meno fedelmente; per esempio: Acocella, Cocomazzi, Mustacciuoli, Ferraro.

Dissimilazione: è il contrario della assimilazione ovvero quel fenomeno e pro-


cesso fonetico per cui due suoni uguali trovandosi in contiguità o in prossimità
si differenziano; per esempio il cognome Pellegrino si è formato per dissimila-
zione di -r- in -l- all’interno del termine latino peregrinus (la prima -r- è diventata
-l- per il fenomeno della dissimilazione, quindi si è passati da pelegrinus, poi
pelligrinus ed infine Pellegrino).

Esponente: la parola o il nome base di un lemma, di un articolo di dizionari,


vocabolari, enciclopedie e repertori.

Etnico: nome che determina l’appartenenza ad un popolo o ad una stirpe op-


pure ad una nazione, paese, contrada, regione, città; sono etnici cognomi come:
Fiorentino, Greco, Pugliese, Calabrese, Francia, Albanese.

Fitonimo: cognome derivato da piante e fiori come: Giglio, Rosa, Frasca, Viola.

Gotico: lingua appartenente al ramo orientale del gruppo linguistico germanico.

Gratulatorio: termine autogratificante usato in cognomi come: Avvenente,


Bello, Bellomo, Bellifemine, Ricco, Abbondanza.

Grico: sono così denominati i dialetti parlati in alcune zone del Salento, Cala-
bria e, in passato, in aree più vaste del Meridione.

Idronimo: cognome derivato direttamente da nomi di corsi d’acqua; per esempio:


Fiume, Pantano, Di Lago, Adda.
Imperativale: sono quei cognomi costituiti dall’imperativo di un verbo seguito
da un sostantivo come, per esempio: Sciancalepore, Fieramosca (alterazione di
Afferramosca), Scognamiglio, Taglialatela, Mazzacane (con la forma imperativale
mazza del verbo ammazzare).

Ipercorrettismo: forma o pronuncia adottata nell’intento di correggere un pre-


sunto errore come, per esempio: Aducato per Educato, Affortunato per Fortunato,
Zabaglione per Zabaione.

Ipocoristico: forma abbreviata (per procope, sincope o apocope) o comunque


morfologicamente modificata di un nome personale di uso familiare, affettivo e
vezzeggiativo; per esempio: Beppe per Giuseppe, Cecco per Francesco.

Latineggiante o Plurale Sigmatico: cognomi che presentano la desinenza -is;


per esempio: Iacobellis, De Dilectis, De Bellis.

Lemma: ciascuno degli articoli dai quali sono formati i dizionari, enciclopedie,
repertori, riunito sotto una voce o nome chiamati esponente.

Lenizione: fenomeno attraverso il quale una consonante sorda si trasforma in


26 sonora o un’occlusiva in fricativa; per esempio la lettera -t- diventa -d- nella
parola padre mentre la -p- di ripa diventa -v- nella forma riva.

Logudorese: dialetto sardo parlato nella Sardegna centrale.

Matronimico: cognome che prende il nome della madre; per esempio: D’Anna,
De Maria, De Rosa, Martina, Agnese.

Metàtesi: fenomeno per cui si verifica lo spostamento di uno o più suoni all’in-
terno della parola; per esempio nel cognome Craparelli da Caprarelli.

Mitologico: sono cognomi legati alle narrazioni fantastiche e religiose del mon-
do greco-romano come: Eraclea, Ercoli, Mercuri, Orione, D’Apollo.

Nomen: termine col quale nell’antica Roma si indicava il secondo elemento


onomastico indicante l’appartenenza a una gens o a un grande ceppo familiare;
per esempio nella sequenza Caius Iulius Caesar il secondo termine Iulius indicava
l’appartenenza alla gens Julia.

Oronimo: nome derivato da montagne e colline; per esempio sono oronimi i


cognomi: Collina, De Monte, Montini, Ripetta, Del Piano.

Palatalizzazione: fenomeno per cui le consonanti (-k-g-s-z-) diventano pala-


tali, si articolano cioè portando la lingua verso il palato come, per esempio, nel
cognome Bianciardi (variante di Biancardi).

Panappulo: presente in tutta la Puglia; per esempio il cognome Albanese.

Panitaliano: comune in tutta l’Italia; per esempio i cognomi Rossi, Bianchi,


Negri, Martini, Ferrari, Costa.
Paretimologia: processo con cui una parola viene reinterpretata, con sommaria
etimologia popolare e non supportato da alcun fondamento scientifico, sulla
base di somiglianze di forma o di significato con altre parole.

Patrionimico: cognome derivato dal nome della patria di origine; per esempio
Francia, Olanda, Veneto, Calabria, Ferrara.

Patronimico: cognome preso dal nome del padre; per esempio: De Filippo, Di
Matteo, Daniele, Raffaele, D’Alessio.

Pluralizzato: lo sono quei cognomi che assumono la desinenza -i; per esempio:
Russi, Bianchi, Negri, Fornari.

Prenomen: termine latino che indicava nella sequenza onomastica il primo ele-
mento; per esempio nel nome completo Caius Iulius Caesar il prenomen era Caius.

Prostesi: aggiunta di elemento o elementi non etimologici, di solito all’inizio


della parola; per esempio: Abbascià per Bascià, Abbattista per Battista.

Rotacismo: processo fonetico per il quale una consonante diversa da -r- (di solito
-l- o -s-) si trasforma in -r-; per esempio: Cifaldi diventa Cifardi. 27

Rotazione consonantica: fenomeno e processo fonetico, tipico delle lingue


germaniche, per cui le consonanti, in determinate condizioni, subiscono uno
spostamento del tipo di articolazione. Così i nomi e poi i cognomi di origine ger-
manica del tipo Berti, se restano immutati sono di tradizione gotica o francone
mentre quelli del tipo Perti, Perta (con rotazione di -b- in -p-) appartengono alla
tradizione longobardica, bavarese o alamanna.

Sicano: antichissima lingua parlata dai Sicani, popolo stanziato nella Sicilia
meridionale e occidentale.

Signum o Supernomen: termine latino con il quale si indica il secondo nome,


di solito augurale e gratulatorio, che nella tarda latinità imperiale si affianca al
nomen gentilizio per poi lentamente sostituirlo, tanto da diventare il nome unico
tipico della fine del Medio Evo: un signum piuttosto diffuso in Italia è Vitale (in
latino Vitalis).

Sincope: scomparsa di uno o più elementi all’interno di una parola con con-
seguente fusione di due sillabe in una; per esempio nei cognomi Almanno per
Alemanno, Balsari per Baldassarri.

Slavo: sono quei cognomi di lingua slava come Bodulic, Petrovic, Schiavone.

Storico: sono quei cognomi tratti da personaggi illustri della storia come Carlo-
magno, Buonaparte, Colombo, Castriota.
nelle due pagine seguenti
“Acqua della Madonna”
Teoforo: nome personale che esprime e contiene il concetto di Dio; per esempio:
con il Cantiere navale Amen, Amodio, Deodato, Dioguardi, Servadio, Di Dio.
(xix secolo) •
28
29
© archivio plaitano

30
Introduzione

Nobildonna ai bagni di Se, per gioco temporale, facessimo riferimento proprio al periodo con- 31
Pozzano a Castellammare
di Stabia (1908) temporaneo per l’originazione dei cognomi, potremmo consegnare
ai posteri elenchi alfabetici con il signor Benzinaio o Elettricista, la pro-
fessoressa De Padania o Dell’Aeroporto, l’avvocato De Jessica o Deborah, il
maresciallo Fuxia o Stressato e così via. Balza sicuramente agli occhi il
fatto che le suddette parole siano prese dal linguaggio contemporaneo
e non da quello del periodo che va dall’XI al XVI secolo. Perché questa
provocazione? Proprio per far capire come la formazione dei cognomi ha
tenuto, in gran conto, del vissuto dell’epoca in cui avvenne tale trasfor-
mazione; infatti bisogna contestualizzare tale processo all’interno del
vivere quotidiano, delle vicende storiche, delle disposizioni legislative,
dei modi di essere del periodo in cui si sono originati.

Per studiare l’origine della parola, che diventerà poi il cognome, biso-
gna indagare sui nomi più diffusi, sui rapporti familiari, sui luoghi
più importanti, sui mestieri più diffusi e sui soprannomi utilizzati
nello specifico periodo. Questo libro risponde alla più spontanea delle
domande sulla propria identità e, cioè, sapere cosa significano i propri
cognomi e, in particolare, quelli tipici stabiesi ma anche conoscere tutte
le vicende del suo uso a cominciare dalla sua originazione. I cognomi si
sono lentamente e faticosamente formati, e poi stabilizzati, come conse-
guenza di un complesso processo d’interazione tra molti fattori: onoma-
stica personale, pratiche dei notai, procedure ereditarie e testamentarie,
peso della nobiltà, urbanesimo, storie dei santi, ruolo delle corporazioni,
importanza dell’individuo nella famiglia, posizione della famiglia nella
comunità di appartenenza, tutela dei bambini nati fuori dal matrimo-
nio e, infine, l’intervento delle autorità costituite come la Chiesa e i vari
Stati che hanno esercitato la sovranità nel nostro paese e, nel Sud Italia,
in particolare. Certamente affrontare l’origine dei cognomi ha, per me,
significato necessariamente (ri)studiare la macrostoria e la microstoria di
molti secoli (dal XI al XIX secolo), le tradizioni dei popoli, l’araldica e
gli stemmi, il latino, la geografia europea, i mestieri e la vita sociale del
Medioevo, le leggi locali, le migrazioni, la trasformazione dal latino al
volgare, la linguistica, i soprannomi, le prassi notarili. Per corroborare
questa storia ho studiato, oltre che la bibliografia esistente, anche le
fonti e le testimonianze storiche locali (lapidi, saggi, scritti, memorie, atti
giuridici, anagrafi, archivi parrocchiali, catasti).

32 Scopo di questo libro è stato quello di indagare i variegati processi che


hanno determinato l’evoluzione dei cognomi presenti nel territorio
stabiese; non può essere considerato esaustivo, spero sia almeno valido
come primo (o ulteriore) passo nella conoscenza dell’onomastica stabiese,
soprattutto nella sua dimensione storica. Studiare i cognomi consente di
dischiudere un mondo meraviglioso perché permette la ricostruzione di
vicende linguistico-culturali del passato, indaga le dinamiche dell’antro-
pologia per i contesti economico-sociali con mestieri tramontati o di cui
si è quasi persa la memoria, approfondisce la storia politica e culturale
con le famiglie celebri ma anche di sconosciuti uomini e donne, coin-
volge la demografia con l’incontro di antenati provenienti da altre città
d’Italia e d’Europa, celebra il ricordo di antichi culti ormai dimenticati,
fissa l’evoluzione delle istituzioni giuridiche e la storia del costume della
città con i soprannomi tipici. Ancor di più consente, dal punto di vista
strettamente linguistico, di dare il giusto peso ai dialetti, alle influenze
linguistiche dei dominatori, alle suffissazioni e ai vezzeggiativi, alla
fonetica, alla morfosintassi e al lessico. Alcuni nomi di battesimo, ad
esempio, indicano con una buona approssimazione l’età di una persona
(per esempio una persona di nome Benito sarà nata molto probabilmen-
te nel ventennio fascista così come chiamarsi Diego, nel napoletano,
significa essere nato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo
scorso). I cognomi che oggi utilizziamo hanno una radice nella storia
dei nostri antenati, raccontano un po’ di quello che abbiamo ereditato,
indicano a grandi linee dove il nome di famiglia si è formato ed anche se
si è fissato solo in una regione, in una provincia, qualche volta perfino in
un comune particolare. È un percorso a ritroso nella storia di ciascuno
di noi, nella cultura e nella geografia, nelle lingue e nei dialetti parlati,
nei culti religiosi, nei mestieri e nelle cariche onorifiche tramontate, nei
nomi di luogo, nell’aspetto fisico e morale della persona che si traduce-
va in soprannomi scherzosi o feroci. E quindi com’è stato attribuito ai
progenitori il cognome che ancora portiamo? Perché il nome del padre
(o della madre), il soprannome, il nome del luogo di provenienza o il me-
stiere svolto si sono tramandati nei secoli? Perché alcuni nomi personali
hanno generato decine o centinaia di cognomi differenti e altri neppure
uno sparuto nome di famiglia? Perché certi luoghi e non altri? Perché
certe attività artigianali, agricole o marittime sono largamente presenti
nel repertorio dei nostri cognomi e altri mestieri no? Bisogna distinguere
fra uso quotidiano e uso burocratico, perché quest’ultimo ha rappresen-
tato una vera e propria stabilizzazione. Il cognome moderno, come lo 33
intendiamo noi, nasce con lo stato civile dell’Italia unita, dunque nella
seconda metà dell’Ottocento; ma il processo di formazione, piuttosto che
una nascita puntuale nel tempo, è durato addirittura molti secoli ed è
stato il frutto dell’interazione fra motivazioni sociali e amministrative.

Nella mia esperienza di docente ho avuto modo di conoscere, tra gli altri,
due gemelli sordi. Ebbene, nella nostra frequentazione sono prevalsi gli
sguardi, i gesti e le posture; evidentemente non le parole. Uno dei due
gemelli un giorno, parlando di me ad una collega, mi ha indicato con un
gesto che mi ha incuriosito; ho chiesto lumi all’assistente alla comunicazio-
© raffaele fontanella

ne Rosanna Cesarano che conosce bene la lingua dei segni. Mi ha spie-


gato i gesti: la lettera R del mio nome con, in più, un gesto per indicare
la qualità di professore e cioè il movimento dell’avambraccio, ripetuto più
volte, con la trasformazione di un pugno in una mano aperta. Ho capito
che i sordi, per identificare una persona, utilizzano due segni: l’iniziale
del nome dell’interlocutore (perché non possono mimare tutte le lettere
del suo nome) e un codice aggiunto legato all’aspetto fisico, psicologico
o professionale. Un po’ come è avvenuto proprio per l’originazione dei
cognomi. La parola onomastica indica lo studio di tutti i nomi propri sia
personali, sia locali, sia etnici; si chiamano antroponimi i soli nomi propri
Gesti della lingua dei di persona (cioè nomi di battesimo, cognomi, nomi di casato, nomignoli,
segni per indicare la let-
tera “R” e il “professore” soprannomi) perché per gli altri si usa il termine toponimo. In particolare
il cognome (o nome di famiglia) ha la funzione di distinguere un indivi-
duo specificando l’appartenenza a una delle comunità minori (famiglia,
gruppo familiare) in cui si articola la collettività; esso viene assunto in
base a specifiche disposizioni di legge che riguardano la filiazione sia
legittima che naturale oppure gli istituti giuridici relativi all’adozione.
Come i toponimi, anche i nomi di famiglia (i cognomi) e quelli di per-
sona (cioè i nomi e i soprannomi) hanno in sé il valore di deposito della
memoria e di traccia di una storia linguistica; usando ogni giorno quei
termini che indicano nomi di località, cognomi, nomi e soprannomi,
riscopriamo, spesso in modo inconsapevole, dei piccoli tesori. In quelle
parole si è concentrato, nel tempo, un mondo che oggi in parte non esiste
più e di cui queste parole costituiscono preziosi reperti. Gli antroponimi
sono dei veri e propri fossili linguistici: attorno ad essi si è cristallizzato un
mondo fatto di storie, emozioni, culture, linguaggi talvolta scomparsi o
non più facilmente decifrabili. Si può affermare che la nostra comunità
34 stabiese abbia una sua specifica storia onomastica, pur se inserita in un
più ampio contesto napoletano, campano, meridionale e nazionale.

Lo studio dei cognomi ha già attirato nel passato l’attenzione degli stu-
diosi a partire da Ludovico Antonio Muratori che al tema dedicò nel 1738
la trattazione De cognominum origine; pochi anni dopo, nel 1756, Gennaro
Grande pubblicò il libro Origine de’ cognomi gentilizj nel regno di Napoli. Poi
nel 1978 Emidio De Felice pubblicò il libro Dizionario dei cognomi italiani
(Mondadori) ma la trattazione più corposa e autorevole si deve nel 2008
ad Enzo Caffarelli e Carla Marcato con I cognomi d’Italia. Dizionario storico
ed etimologico (UTET) che affrontano la tematica analizzando i cognomi
© wikipedia

presi dagli elenchi telefonici; gli autori illustrano la diffusione geogra-


fica, cercano di quantificare la presenza, ne documentano l’attestazione
Libro di Gennaro Grande storica e ne spiegano il significato. Questa ricerca ha preso le mosse dal-
“Origine de’ cognomi la curiosità di scoprire il significato del mio cognome e si è pian piano
gentilizj nel regno di
Napoli” (1756) allargata fino ad abbracciare la totalità dei cognomi della nostra città.

Negli anni ho sempre raccontato questa mia passione per l’onomastica a


parenti ed amici; tale argomento ha sempre destato grande curiosità con
le tipiche domande Qual è l’origine del mio cognome? Da dove provengono i
miei antenati? Chi erano, dove abitavano e come vivevano secoli fa? Per la gran-
de ricchezza culturale che è nascosta nella nostra lingua nazionale e nel
nostro dialetto, lo studio delle origini dei cognomi deve essere condotto
necessariamente dal punto di vista etimologico, non dal punto di vista
genealogico. Perché? Perché l’aspetto genealogico alimenta la curiosità di
conoscere le nostre origini e basta guardarsi un po’ intorno per scoprire
una marea di libri sui cognomi famosi, di siti web per ricerche genealogi-
che, di istituti araldici (o presunti tali) che appioppano stemmi nobiliari
a chicchessia. Spesso si tramandano presunti antenati celebri, pirati,
briganti, soldati di ventura, parentele illustri e altisonanti; poi ci sono
racconti suggestivi e romanzati, per non parlare degli attestati di nobiltà
rilasciati a pagamento su finta pergamena da variopinte bancarelle dove
ognuno, in cerca di sangue blu, può scoprire di essere discendente da
nobili. Uno degli esiti del processo di globalizzazione nell’ambito della so-
cietà post-moderna è aver alimentato la questione della definizione delle
nostre origini individuali; su questo percorso si spiega il crescere della
domanda di riscoperta delle proprie radici storiche, anche a partire dalla
microstoria individuale e familiare. Nel cognome che ciascuno di noi
eredita dai propri antenati si esprime un intreccio di informazioni che 35
attinge dalla storia, dalla linguistica, dalla geografia e dalla genealogia.

Forse non tutti sanno che l’Italia detiene, nel mondo, il primato per il
numero dei cognomi con ben 350.000 forme differenti! In Cina, dove
vivono più di un miliardo di abitanti, i cognomi sono complessivamente
più di 3.000 di cui 700 quelli più diffusi (tra cui Zhang, Wang, Li, Zhao)
rappresentano quasi il 90% della popolazione! Il nostro è un patrimonio
straordinariamente ricco e vario perché si è alimentato della frantuma-
zione linguistica che ha caratterizzato il territorio nazionale nei secoli
e, soprattutto, nella tardiva unificazione linguistica. Nell’uso quotidia-
no della lingua è accaduto che il nome di battesimo e il soprannome
venissero diffusamente modificati da storpiature, forme dialettali, errate
pronunce, vezzeggiativi, dispregiativi, diminutivi o accrescitivi; se poi
consideriamo che i cognomi sono assimilabili alle parole, ci accorgiamo
che la loro genesi è intimamente connessa alle lingue esistenti in un
determinato territorio. Infatti si sono affermati in periodi durante i quali
la penisola era suddivisa in diversi Stati che presentavano netti confini
politici fino al 1861, quando si realizzò l’unità nazionale. A riprova di
ciò si considerino le numerose varianti, dovute proprio alle numerose
alterazioni, del terzo cognome più diffuso in Italia e cioè Ferrari: Ferraro,
Ferrero, Ferreri, Ferri, Ferro, Fierro, Ferrario, Ferraris, Ferraiuolo, Ferraio-
li, Ferrigno, Ferré, Ferrer e quelli omologhi Fabbri, Magnani, Forgione.
Fotogrammi tratti da Quante volte Totò, di cui sono un grande appassionato, ha giocato in
diversi film di Totò
diverse gag con i cognomi? In alcune diceva Lei è un donatore di sangue?
Allora di cognome fa Sanguigno oppure in altre etichettava il presentatore
Corrado come scognomato; quante volte il principe Antonio De Curtis ha
maltrattato i cognomi delle sue spalle nei film deformandoli e beffeg-
giandoli? Tutti ricordiamo quando volutamente alterava il cognome del
tipografo Lo Turco, interpetato da Peppino De Filippo ne La banda degli
onesti, in Lo Turzo, Lo Turzo, Lo Curto, Turchesi, Lo Tripoli, Lo Struzzo,
Gianturco, Turchetti, Turco. Poi, nella celeberrima scenetta del vagone
letto avrebbe conosciuto il padre dell’onorevole Trombetta, e cioè quel
Trombone di suo padre!, ma anche, sapendo che la sorella era sposata con
un tale di cognome Bocca per cui faceva Trombetta in Bocca, gli avrebbe
risposto e dove la vuoi mettere la trombetta? Ancora in Totòtruffa 62, con
la complicità di Girolamo Scamorza (Nino Taranto), per la vendita della
Fontana di Trevi di Roma al malcapitato italo-americano Decio Cavallo,
36 sbeffeggiato come Caciocavallo!
© wikipedia

Fotogrammi dei film Di seguito alcuni cognomi originali ed eloquenti per i suoi personaggi:
“Totò a colori” (1952) e
“Totòtruffa 62” (1961) mastr’Agostino Miciacio (San Giovanni decollato), Antonio Casamandrei
(Totò al Giro d’Italia), Antonio Scannagatti (Totò a colori), Felice Sciosciam-
mocca (Un turco napoletano / Miseria e nobiltà / Il medico dei pazzi), Antonio
Cocozza (Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi), Antonio Guardalavecchia (Chi si
ferma è perduto), Antonio La Trippa (Gli onorevoli), Antonio Bonocore (La
banda degli onesti), duca Gagliardo della Forcoletta (Totò lascia o raddop-
pia?), Antonio Caponi (Totò, Peppino e… la malafemmena), Totò Scorcelletti
(Totò, Eva e il pennello proibito), Ottone Spinelli degli Ulivi detto Zazà
(Signori si nasce), Antonio Barbacane (Totò, Peppino e la dolce vita), Antonio
La Puzza e l’ammiraglio Canarinis (Totò e Peppino divisi a Berlino).
37

© wikipedia
Nel cognome si sono sedimentati i caratteri di intere generazioni, in-
fluenzate proprio da quel cognome. Nella vita di ognuno di noi la ripeti-
zione del cognome fissa un marchio di fabbrica sull’indole e sulla perso-
nalità. Alla nascita il cognome ci piomba addosso e non lo si pratica fino
all’età scolare; comincia ad essere adottato nell’uso non appena si diven-
ta, a qualche titolo, un soggetto pubblico (scuola, catechismo, palestra)
dove l’elencazione alfabetica porta a rispondere presente. Tutti abbiamo
nel cassetto il ricordo del professore che fa l’appello in aula; di seguito il
mio del 1979 in terza media: Avagnale, Carrubba, De Simone, Donnarumma,
Fontanella, Greco, Guadagna, Longobardi, Malafronte, Masi, Murolo, Pappalar-
do, Simoncini, Somma. Suscitava l’ansia dell’interrogazione, quando non
era programmata, e produceva la volatile confidenza e lo sfottò fra com-
pagni di scuola al liceo. Oppure ricordiamo i cognomi quando ripetiamo
la sequenza dei giocatori della squadra del cuore, come per la Nazionale
campione del mondo del 1982 in Spagna: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collo-
38 vati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani.

La nazionale italiana che


vinse il Campionato del
mondo di calcio in Spagna
nel 1982
© wikipedia
Le pagine di questo libro contengono le informazioni che sono riuscito a
recuperare, a partire dal 2016, su molti testi che trattano questo argo-
mento e dalle ricerche personali su archivi civili e religiosi della città;
vengono poi esposti i principali cambiamenti avvenuti nella denomi-
nazione degli abitanti di Castellammare di Stabia, a partire dalla prima
documentazione medioevale del XI secolo (precisamente il 1025 dC)
fino alla definitiva stabilizzazione avvenuta sul finire dell’Ottocento e
garantita dagli uffici anagrafici comunali. Sono evidenziati due aspetti
distintivi: innanzitutto la nascita dell’onomastica cognominale intorno
al XII secolo come risposta alla necessità di individuare con esattezza
ogni cittadino o famiglia all’interno di una comunità sempre più aperta
alle relazioni socio-economiche e, soprattutto, giuridiche; l’altro legato
alla dialettalità locale, ossia quell’insieme di caratteristiche fonetiche,
morfologiche e lessicali, tipiche dell’area linguistica napoletana, conser-
vatesi nei cognomi nonostante il processo posteriore di italianizzazione.
39
Di tutti i cognomi stabiesi ho cercato di individuare la storia (per alcuni
bisogna risalire a più di nove secoli fa), l’etimo che li ha generati, la
semantica, le frequenze e chiaramente l’ambiente socio-culturale di
insorgenza e diffusione. A completare il lavoro non mancano le curiosità
e i personaggi che hanno dato lustro, a partire dal Medioevo, ai cognomi
stabiesi. Alcuni di questi sono diffusissimi come Esposito, Schettino,
Longobardi, Cascone, Gargiulo, Russo, Donnarumma, Di Maio; altri, in-
vece, sono curiosi e particolari tanto che vale la pena farsi delle domande
sul come abbiano potuto avere origine. Qualche esempio? Graziuso,
Malafronte, Veropalumbo, Scognamiglio, Verdoliva, Zizzania, Scanna-
piecoro, Balzano (o Balsamo, Balzamo), Abagnale (o Abbagnale, Bagnale).

Spero che il lettore possa apprezzare questo libro che ci riporta indietro
nel tempo, nei ricordi, nelle persone e negli avvenimenti, tanto da aprire
nuovi orizzonti alla ricerca e alla conoscenza delle nostre radici. Tale
mia intenzione assume un certo rilievo documentario proprio per la
costante e rapida sparizione di numerosi cognomi a causa del calo delle
nascite in Italia; infatti molte famiglie, nelle quali sono presenti una o
piú figlie, sono condannate alla scomparsa del proprio cognome conside-
rato che da noi la trasmissione dei cognomi è solo patrilineare. Ritrovare
il proprio, nella marea dei cognomi formanti la grande famiglia stabiese,
dovrebbe essere una gradita sorpresa; per i riferimenti storici, biografici,
araldici, l’argomento è di notevole interesse anche per i non stabiesi e i
campani. Nel Basso Medioevo la nostra città era un piccolo borgo che
ospitava più o meno 1000 anime; da loro ci separano cinque o sei secoli
e, a seconda dei casi, circa 15-20 generazioni durante le quali le discen-
denze si sono ramificate fino a perdere il ricordo dell’antenato comune.
Ogni cognome ci può raccontare la storia dei capostipiti, cioè chi ci ha
preceduto e per primo ha portato il nostro cognome; come hanno trascor-
so la loro esistenza, più o meno fortunata, più o meno ignota, con una
Tempera con le tipiche
vestiture delle donne
delle province del Regno
di Napoli (xix secolo)

40
famiglia, una casa, un pezzo di terra o una bottega. I loro modi di nomi-
narsi si sono perpetuati e ci suonano familiari, li ritroviamo nei nostri
cognomi, sui citofoni e sugli elenchi telefonici. Con queste intenzioni ci
si rende conto immediatamente che per soddisfare la nostra curiosità
è indispensabile tornare indietro nel tempo, molto indietro, per capire
quando e come questa storia ha avuto inizio, poiché senz’altro un nostro
lontanissimo progenitore avrà dato l’originario input. Quindi è legittimo
farsi domande del tipo: quando è nato il proprio cognome? in relazione a quali
esigenze? che origini ha? che significato ha?

Per gli antroponimi bisogna risalire al Mille, a partire dal Basso Me-
dioevo, periodo nel quale si diffusero numerose formazioni sopranno-
minali e augurative. Non solo la storia è coinvolta in questo fenomeno
(con il Medioevo e il feudalesimo, i comuni e le signorie, le dominazioni
e le migrazioni, l’urbanesimo e l’agiografia); altre discipline concorro-
no in modo considerevole come la linguistica (dialetti e alterazioni), i 41
trovatelli, la giurisprudenza e le pratiche notarili, la trasformazione dal
latino al volgare, le pressioni demografiche che generavano omonimie, le
errate trascrizioni. Il tutto scoprendo i luoghi di provenienza, i mestieri,
le particolarità fisiche e morali dei nostri antenati, come si chiamava-
no tra loro, che lingua o dialetto parlavano. Chi si è occupato di storia
di famiglia e genealogia, chi ha cercato di risalire ai propri antenati
consultando documenti storici, si è spesso trovato di fronte a continui
cambi formali del nome di famiglia da una generazione all’altra, da una
documentazione all’altra.

I cognomi contemporanei non presentano infatti oscillazioni morfologi-


che ma fino al XVIII secolo questi mutamenti erano normali: i cognomi
si accordavano col genere e col numero della persona, variavano tra la
forma usata nel parlare e quella standardizzata in una lingua regionale
o in italiano (e prima in latino), erano soggetti a trascrizione errate e a
vari fraintendimenti; se si pretendesse di ritrovare il proprio cognome
inalterato lungo l’arco di molti secoli, si rimarrebbe fortemente delusi!
Tutti hanno un cognome: oggi è un fatto così scontato che lo si potreb-
be quasi considerare naturale. Però non è stato sempre così; in realtà
si tratta dell’esito di una lunga storia. Nel corso del tempo gli Italiani
si sono chiamati fra loro in tanti modi, e quello che noi chiamiamo
cognome si è sviluppato molto lentamente, come risultato dell’intera-
Miniatura che illustra
il mestiere del fabbro
ferraio (xiv secolo)

42
© wikipedia

zione di vari fattori: la coscienza di sé degli individui e delle famiglie (a


cominciare da quelle nobili perché per i contadini o le persone di umili
origini il cognome si sarebbe diffuso con grande ritardo), la necessità di
distinguersi e riconoscersi all’interno delle comunità di appartenenza, la
spinta proveniente dalla Chiesa e dagli Stati verso la regolamentazione
dell’identità onomastica di ognuno.

La nascita dei cognomi non è stata perciò un evento puntuale e irreversibi-


le ma un processo segnato da contraddizioni, deviazioni, passi indietro
e anche notevoli differenze fra una parte d’Italia e l’altra. È un tema
appassionante che intreccia le grandi questioni storiche, quali la persi-
stenza della tradizione romana nell’Alto Medioevo, la formazione delle
signorie territoriali, l’impatto del Concilio di Trento, l’azione di governo
delle burocrazie dell’assolutismo illuminato, con quelle a noi più vicine,
come il nazionalismo linguistico, le persecuzioni, le migrazioni del
Novecento e oggi la questione ancora aperta del diritto di trasmettere il
cognome materno. I cognomi, come etichette che servono a contraddi-
stinguere gli individui o gruppi di individui all’interno di una colletti-
vità, hanno perso il loro significato semantico; quando pronunciamo co-
gnomi come Volpe, Vacca, Riccio, Grosso, Calabrese, Scarparo quasi mai
li associamo al mondo animale, a persone dalla testa o dalla corporatura
grande, ad immigrati del sud Italia o persone che esercitano il mestiere
di ciabattino; per tale motivo si può affermare che la funzione socio-lin-
guistica ha, dunque, lasciato il posto a quella extra-linguistica. Il cognome
all’inizio aveva un significato; poi, quando si è stabilizzato attraverso
le generazioni, ha perso il suo senso originario: un Fabbri può fare il
medico, un Buonomo può essere un malavitoso, un Sottile può avere una
corporatura possente e così via. Chiaramente al netto dei casi in cui il
cognome sia stato imposto o alterato da un’autorità (per i trovatelli o per
chi ne ha fatto richiesta a termini di legge). Dopo il nome unico indivi-
duale è nato poi il nome di famiglia, che è comparso quando le città e i
paesi hanno cominciato a diventare piú numerose e quindi è diventato
necessario distinguere una persona dall’altra.
43
Se nel Medioevo, proprio nella nostra città vivevano tante persone che
si chiamavano Franco, si cominciò a chiamare il piú piccolo Franchino,
quello più grosso Francone, quello più spensierato Francischiello, quello
coi capelli color rame Franco ’o Russo, col nome di mestiere Franco ’o ferra-
ro, il figlio di Filippo con Franco de Filippo e cosi via.

Per il 75% dei cognomi esistenti risulta ancora comprensibile il signi-


ficato originario; gli altri hanno probabilmente subito qualche varia-
zione fonetica o grafica che ne ha stravolto il senso oppure derivano da
influenze straniere. Ma c’è di più: dallo studio linguistico del cognome è
possibile capire il luogo d’origine della famiglia che lo porta. Uno stesso
mestiere, per esempio quello del fabbro, ha prodotto cognomi diversi da
regione a regione e così, in Lombardia, Piemonte ed Emilia è diventato
Ferrari, Ferrario, Ferreri mentre in Toscana e Veneto è diventato Fabbri
e Favero, in Campania e Lazio si è trasformato in Forgione. Altri esempi
di etimologia: Berlusconi (da berluesch strabico), i campani Coviello (da
Iacovo, cioè Giacomo) o Russo (nulla a che vedere, naturalmente, con la
Russia perché equivale a rosso). Per non parlare del caso del cognome
siciliano Ficarotta, assolutamente innocuo, essendo diminutivo della voce
dialettale ficara cioè terreno con alberi di fico; emigrato al nord, qualcu-
no se lo fece, a ogni buon conto, mutare in Fecarotta o Fegarotti.

44
La storia dei cognomi

Il battesimo di un infante L’esigenza di differenziare l’uno dall’altro, ossia individuare un attributo 45


in un dipinto anonimo
(xvii secolo) che possa caratterizzare la persona e possa permettere ad ogni compo-
nente del gruppo di capire a chi ci si sta riferendo, ha generato il nome
come l’identificativo che distingue; il primitivo nome, con caratteristiche
simili all’odierno soprannome, nasce insieme con l’uomo quando da
animale questi si evolve in homo, cioè quando l’organizzazione del grup-
po impone l’identificazione dei vari componenti come elementi distinti.
La prima forma di nome prende ispirazione spontanea dalla Natura sia
per la carica emotiva o attrattiva sia per una qualche affinità a volte au-
gurata, a volte riscontrata; i nomi Volpe, Lupo, Orso, Montagna, Nuvola,
Sole sono solo esempi di questo tipo di identificativo.

Oltre ai riferimenti della Natura, si sono resi disponibili anche i rife-


rimenti ai propri genitori con io sono figlio di..., ai mestieri con io sono un
cacciatore, ai luoghi d’origine con io sono uno della montagna, alle eviden-
ze fisiche e caratteriali con io sono coraggioso. La vita sociale dell’uomo
primitivo condusse i nostri progenitori all’identificazione di se stessi
come appartenenti ad un gruppo e rese perciò indispensabile la defi-
nizione del proprio gruppo con un nome comune che potesse definire
l’appartenenza al gruppo stesso: è in ciò il germe del futuro cognome.
Con l’ampliarsi del gruppo, con l’aumento del numero dei singoli gruppi
familiari, con l’allargamento dei confini esplorati e delle genti conosciu-
te si è sentita l’esigenza di una struttura onomastica che consentisse,
Le piramidi di Cheope, in modo univoco ed organizzato, di identificare ogni singolo elemento
Chefren e Micerino
(xxv secolo aC) nella umano della società. I popoli antichi ignoravano l’uso dei cognomi
necropoli di Giza presso adottando il solo nome unico come per i faraoni egiziani Chefren, Cheope,
Il Cairo, Egitto
Micerino. Poi tra i Greci il numero dei nomi individuali era in pratica
illimitato e continuamente se ne inventavano di nuovi; i casi d’omonimia
erano perciò assai improbabili e non c’era quindi motivo per adoperare
un altro nome nello specificare la propria identità. Ricordiamo i filosofi
46 Aristotele, Socrate o Platone ma, col passare del tempo, solo per i re ed
i faraoni si è dovuto fare ricorso soprattutto agli appellativi numerali
come per Amenofi III, Ramsete II, Ciro II di Persia. Queste formule ono-
mastiche non erano del tutto codificate in ambito giuridico, e nemmeno
tramandate ereditariamente, ma svolgevano la medesima funzione del
cognome contemporaneo, cioè distinguevano una persona dall’altra.
È utile ricordare che in occidente le prime registrazioni anagrafiche si
devono all’imperatore Marco Aurelio; dopo essere stato in Egitto, dove
già vigeva l’obbligo per i funzionari dello Stato di registrare le nascite,
l’imperatore adottò tale disposizione nell’Impero Romano con l’obbligo
a carico di ogni cittadino di registrare entro trenta giorni la nascita di un
figlio. Roma era un crogiolo di razze ed era quindi fondamentale la di-
stinzione tra cittadini romani e stranieri nonché tra uomini liberi e non
liberi; tale obbligo fu imposto per poter determinare con certezza l’età e,
soprattutto, la condizione e l’origine di ciascun abitante dell’Impero.

Gli antichi vedevano una stretta correlazione tra la cosa e la parola che la
designava affermando con nomen omen che il nome è un auspicio, buono
o cattivo. Perciò imponevano ai figli nomi beneauguranti: Demostene
contiene il concetto di popolo e forza, Alessandro vuol dire protettore di
uomini, in Elena c’è il sole (elios). Analogamente, noi moderni battezzia-
mo i figli Placido, Clemente, Pio, Patrizia, Azzurra; mai ci sogneremmo
di chiamarli Inquieto, Spietato, Empio, Plebea, Scolorita!
L’onomastica nell’antica Roma

Nella Roma arcaica ad ogni individuo corrispondeva un nomen unicum


come, ad esempio, per Romolo e Numitore. Successivamente l’influenza
del popolo sabino (dal VIII al III secolo aC), nel quale era in uso il nome
doppio, favorì l’evoluzione binominale dell’onomastica latina (ricordiamo
i nomi doppi di alcuni re di Roma, la maggior parte dei quali proprio di
origine sabina o etrusca, come Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Mar-
zio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo).

Nell’età repubblicana (dal VI al I secolo aC) i nomi utilizzati erano pochi,


si ripetevano, diventano equivoci e scarsamente distintivi: Marco, Caio,
Publio, Sempronio e poi quelli numerali come Secondo, Quinto, Sesto.
Perciò cominciarono ad essere utilizzati anche i nomi gentilizi, ossia
quelli della propria famiglia ma anche questi erano pochi; la storia ci
dice che il popolo romano era diviso in circa 300 gentes cosicché, quando 47
la struttura sociale diventò più complessa e le famiglie si divisero in più
rami, fu necessario adottare un terzo elemento onomastico. In epoca
tardo-repubblicana (dal II al I secolo aC), a partire dall’età di Silla, per
distinguere i soli maschi della classe sociale dei liberi, ossia i cittadini
Il Pantheon di Roma fatto
costruire da Marcus
Agrippa nel 27 aC
48
Busto di Marco Tullio con pieno diritto, si diffuse la forma trinominale (tria nomina): il preno-
Cicerone (i secolo aC)
conservato nei Musei men era il vero nome personale usato soltanto da persone di confidenza,
Capitolini di Roma
dato al bambino nel nono giorno di vita e diventava ufficiale in occasio-
ne del conferimento della toga virilis; poi il nomen che, anche se il termine
inganna, corrispondeva al nostro cognome ed indicava la gens di appar-
tenenza, ossia l’insieme di famiglie che facevano capo ad un antenato
comune; infine il cognomen, da cum nomen, in quanto era un ulteriore
segno che serviva a distinguere meglio i diversi rami della stessa gens
ed era costituito da un soprannome derivato dal colore dei capelli, dalla
balbuzie, dal candore della pelle, dal luogo di provenienza oppure da
caratteristiche morali, da fatti che avevano caratterizzato quello specifi-
co individuo, da nomi di popoli da lui vinti.

Lo scrittore e oratore Marcus Tullius Cicero era soprannominato Cicero


per il fatto che il suo capostipite aveva sul naso una verruca a forma
di grosso cece (in latino cicer), Lucio Quinzio Cincinnato era così detto 49
perché aveva i capelli riccioluti (in latino cincinnatus), Gneo Marcio era
detto Coriolano per aver conquistato Corioli (cittadella dei Volsci presso
l’attuale Genzano di Roma); all’epoca era molto usata la denominazione
Priscus (basata sull’aggettivo priscus che significava antico e primitivo)
per distinguere, all’interno di una stessa famiglia, la persona più anzia-
na. Il soprannome che avrà grande diffusione, sia nell’Alto Medioevo sia
per noi contemporanei come cognome, sarà Barbaro (in latino barbarus)
cioè la parola onomatopeica con cui gli antichi greci, e successivamente
i Romani, indicavano gli stranieri (letteralmente i balbuzienti), cioè coloro
che non parlavano greco e quindi non erano di cultura greca.

I bambini invece ricevevano un soprannome indicante un difetto, una


peculiarità fisica o di altro genere, anche in funzione apotropaica (cioè
capace di allontanare le malattie e le disgrazie utilizzando proprio no-
mignoli negativi). Così una bambina che nasceva con un’infezione agli
occhi si chiamava Caecilia (cioè piccola cieca) sperando che non lo diven-
tasse, Claudius si temeva che diventasse zoppo, Strabo era forse strabico e
si sperava che il difetto passasse col nome, Proculus (basato sul termine
procul che vuol dire lontano) usato per designare bambini nati mentre il
padre era lontano da casa, Augustus era consacrato dagli àuguri o favorito
da buoni auspici, Caesar era nato con occhi celesti, Sedigitus aveva sei dita,
Flaccus aveva le orecchie a sventola, Nasone superfluo spiegarlo!
Proprio tali soprannomi rappresentavano l’elemento caratterizzante
di ogni individuo e, forse, per questo motivo il nostro attuale elemento
di distinzione deriva proprio dal cognomen di origine latina. In seguito
si fissarono perché furono tramandati di padre in figlio con lo scopo
di evitare omonimie e definire con maggior precisione il ramo genti-
lizio, cioè il nucleo familiare di appartenenza all’interno del più vasto
agglomerato familiare. Riporto di seguito alcuni esempi in latino delle
delizie e tormento dei nostri studi liceali: Quintus Horatius Flaccus,
Publius Vergilius Maro, Publius Ovidius Naso, Titus Maccius Plautus,
Publius Cornelius Tacitus, Caius Julius Caesar. Negli scritti e sulle lapidi
i prenomi si trovavano sempre abbreviati (C. Julius Caesar) perché, essendo
esigui di numero, non c’era possibilità di ambiguità o, forse, per paura
del malocchio. Altre abbreviazioni più comuni erano: Gnaeus o Cnaeus
(Cn), Decimus (D), Lucius (L), Marcus (M), Publius (P), Quintus (Q), Ser-
vius (Ser), Sextus (Sex), Titus (T), Tiberius (Ti).
50
Oltre al sistema del tria nomina poteva aggiungersi un quarto o un quinto
nome: era l’agnomen, una specie di ulteriore nome commemorativo di
qualche grande impresa compiuta. Ad esempio, Publio Cornelio Scipione
era chiamato Africano per le sue vittorie nella seconda guerra punica,
Marco Porcio Catone era detto Censore per il suo carattere severo e per il
suo austero moralismo, Gaio Giulio Cesare Germanico era detto Cali-
gola per l’abitudine di calzare i sandali militari detti caligae. La tipicità
onomastica romana a tre nomi (con la possibile aggiunta del quarto
ed anche del quinto) rappresentava un unicum e costituiva un’atipicità
rispetto alle civiltà precedenti.

Le donne, invece, avevano un solo nome, quello del clan gentilizio,


arricchito di qualche elemento distintivo rispetto alla figliolanza (ad
esempio Iulia Maior, Iulia Secunda) a denotare la loro subalternità rispetto
ai maschi e alla vita pubblica. Il sistema onomastico romano, in generale,
consentiva una sicura identificazione nell’ambito dell’aristocrazia e del
ceto equestre ma al di fuori dell’ufficialità, nella vita quotidiana, ognuno
era libero di chiamarsi con un nome unico che, secondo il tempo e le
circostanze, poteva essere il praenomen, il nomen o il cognomen. Marco
Tullio Cicerone, secondo il grado di confidenza con l’interlocutore, nelle
sue lettere si firmava ora Marcus, ora Tullius, ora Marcus Cicero ma anche
con l’intera denominazione Marcus Tullius Cicero.
Questo sistema onomastico andò in crisi nel II secolo dC a causa di tre
fattori. Per il primo, si verificò la proliferazione dei nomi degli aristo-
cratici, causata dal desiderio di fregiarsi di legami illustri e dall’obbligo
di riportare i nomi dei defunti da cui si ereditava; ciò determinò un al-
lungamento notevole degli elementi onomastici, addirittura più di dieci
nomi per indicare la stessa persona.

Per il secondo, si verificò anche il fenomeno opposto e cioè la riduzione a


un nome unico dell’identificazione personale, con una tendenza a servirsi
del solo cognomen, dovuto alla diffusione della religione cristiana nel
IV secolo che propagandava l’umiltà, l’uguaglianza tra gli uomini e la
rinuncia ad ogni orpello e distinzione superflua; l’orgoglioso aumento
degli elementi denominativi era, pertanto, in contrasto con i crescenti
sentimenti religiosi cristiani. Infatti molti artigiani, mercanti e con-
tadini convertiti, vollero abbandonare il paganesimo chiamandosi per
umiltà con un nome unico che, spesso, era quello di un martire o di un 51
apostolo. Con l’istituzione del nome di battesimo, il Cristianesimo minò
L’editto scritto in greco definitivamente il sistema antroponimico romano che rimase, in parte,
“Constitutio Antoninia- solo presso alcune famiglie nobili. Ancora poi, per cause sociali e politi-
na” emanato dall’impera-
tore Caracalla (212 dC) che perché dal 212 dC, con la Constitutio Antoniniana concessa dall’impe-
ratore Caracalla (Marcus Aurelius Severus Antoninus Pius Augustus ma così
soprannominato dal nome del mantello con cappuccio, di origine celtica,
da lui solitamente indossato), la cittadinanza romana fu estesa a tutti
gli uomini liberi dell’Impero; in tal modo la formula dei tre nomi, fino
a quel momento privilegio di un ristretto numero di cittadini romani,
perse il suo valore e prestigio di simbolo di classe. Tali nuovi cittadini
assunsero per legge il nomen della gens di Caracalla, cioè Aurelius, poten-
dolo trasmettere ai propri discendenti; per tale scopo si diffusero anche
altri nomi gentilizi degli imperatori che seguirono come Iulius, Flavius
e Claudius. Ben presto tali nomen, limitandosi a identificare l’esclusiva
condizione di uomo libero, finirono anch’essi col perdere ogni capacità
distintiva e di conseguenza furono progressivamente abbandonati.

Il terzo e ultimo fattore era legato all’aspetto linguistico perché i praeno-


men e i nomen, estesi a tutti i liberi ed agli immigrati, persero la loro fun-
52 zione identificativa, si banalizzarono per l’altissima frequenza e persero
così la funzione distintiva; basti pensare che i praenomen erano in tutto
una ventina e i nomen poche centinaia!

Dal II al V secolo, accanto ai nomi pagani, si registrò una grande quan-


tità di nuovi nomi che i Cristiani usavano per battezzare i neonati e che
furono mutuati sia dalla preesistente cultura giudaico-greca che dai
riferimenti del Nuovo Testamento. Tra i primi: Elisabetta, Michele, Raf-
faele, Gabriele; tra i secondi: Paolo, Pietro, Luca, Giovanni, Matteo, Marco,
Giuseppe, Maria, Salvatore, Andrea. Questi nomi avranno una diffusione
quasi planetaria e saranno utilizzati pochi secoli più tardi per generare,
come patronimici, i cognomi degli italiani e non solo.

Poi, l’ultimo periodo della storia romana registrò il disordine crescente


dell’apparato amministrativo, per cui sia il prenomen che il nomen persero
efficacia divenendo addirittura superflui e, pertanto, la funzione identi-
ficativa degli uomini di quel tempo si trasferì efficacemente ed esclusiva-
mente sui cognomen. Questi erano tratti dai soprannomi (chiamati signa
o supernomina) uscenti, come gli antichi gentilizi, in –ius; cominciarono a
diffondersi, pertanto, i nomi unici derivati anche dai vezzeggiativi in am-
bito familiare legati alle caratteristiche della persona, alla provenienza o
alla paternità: Ambrosius, Desiderius, Honorius, Innocentius, Hostilius,
Marcius, Priscus, Tullius.
L’onomastica nell’Alto Medioevo

Con la caduta dell’Impero Romano e l’invasione dei popoli barbari, agli


inizi del VI secolo si registrò una grande crisi nella vita politica e sociale
dell’Occidente; il governo e l’organizzazione del territorio che avevano
preso vita durante l’età imperiale scomparvero quasi del tutto senza la-
sciare il posto a nuove strutture politiche altrettanto ben definite. Unici
punti di riferimento, soprattutto nelle città più importanti, rimasero i
vescovi che, oltre ad essere le guide religiose della comunità, divennero
anche i capi sul piano politico svolgendo molte funzioni un tempo riser-
vate ai governanti romani.

L’insicurezza e la decadenza generale, le difficoltà nelle comunicazioni e


la drastica riduzione delle attività commerciali condussero l’Europa oc-
cidentale ad un tipo di economia che aveva il proprio centro nella grande
azienda agricola che, nell’incipiente epoca medievale, avrebbe preso il 53
nome di curtis (cioè corte); la sua organizzazione divenne il fondamento
della società feudale con un sistema politico, giuridico ed economico
destinato a caratterizzare l’Europa in modo duraturo. L’affermazione dei
poteri locali a scapito del potere centrale costituisce uno degli aspetti
caratterizzanti del mondo feudale insieme al consolidarsi di un’orga-
nizzazione economica e sociale, chiamata economia curtense, incentrata
sulle campagne che miravano ad essere del tutto autonome sviluppando
così un modello di economia autosufficiente e chiusa; al loro interno
veniva prodotto tutto quanto era necessario (cibo, vestiti, utensili, armi)
e gli scambi con l’esterno erano praticamente inesistenti. Gli acquisti e
le vendite di merci al di fuori dei confini di una curtis avvenivano solo
durante alcune fiere e mercati che avevano luogo solitamente in occasio-
ni di feste religiose; all’interno, invece, a motivo della scarsa circolazione
della moneta, gli scambi avvenivano quasi esclusivamente attraverso
forme di baratto.

Ciascuna curtis comprendeva generalmente un terreno coltivabile assie-


me al mulino, frutteti, boschi e altri fondi adibiti al pascolo ed era divisa
in due parti. Nella pars dominica, sottoposta direttamente al controllo
del signore (dominus), si trovava la casa del padrone dove risiedeva la sua
famiglia e i servi-domestici; intorno ad essa si estendevano i pascoli,
i boschi e le terre coltivate da servi posti alle dirette dipendenze del
54
L’avorio Barberini, noto proprietario. Costoro erano considerati proprietà del signore della curtis
come “Dittico Barberini”
(vi secolo) conservato e parte del suo patrimonio fondiario tanto che, per questo stretto legame
nel Museo del Louvre di
alla terra su cui lavoravano, vennero chiamati servi della gleba (la gleba
Parigi
era la terra o, meglio ancora, la zolla del fondo coltivato). L’altra parte, la
pars massaricia era divisa in appezzamenti più piccoli, detti mansi perché
il contadino aveva l’obbligo di risiedere (in latino manere) nel terreno e
nell’abitazione che gli erano stati assegnati; la loro ampiezza corrispon-
deva alla quantità di terreno che poteva essere lavorato da una famiglia
di contadini con una coppia di buoi e un aratro. Tali mansi erano affidati
ai massari, cioè servi che vivevano in regime di semilibertà (e godevano
di alcuni diritti, negati ai servi della gleba) oppure contadini liberi che si
erano posti sotto la protezione del signore. Questi ultimi erano tenuti
anche a lavorare gratuitamente per alcune giornate nelle terre della pars
dominica; tali prestazioni gratuite erano dette corvées (in francese opera
richiesta). Essi abitavano quasi sempre in un villaggio o borgo situato nei
pressi della dimora padronale potendo però utilizzare le sue attrezzature 55
come il mulino, il frantoio e il torchio per l’uva. Rispetto ai contadini, go-
devano di maggiore considerazione nell’organizzazione curtense i fabbri
e gli orefici. I primi fabbricavano utensili, attrezzi agricoli e armi in
ferro considerati di grande pregio perché le materie prime erano scarse; i
secondi lavoravano con grande abilità oro e argento usando anche pietre
preziose per creare gioielli e ornamenti destinati non solo ai ricchi ma
anche, e soprattutto, alle chiese e ai vescovi che disponevano di arredi e
suppellettili di grandissimo valore. Oltre a questi mestieri, c’erano anche
i falegnami, i conciatori, i tessitori.

Dalla caduta dell’Impero Romano e fino al X secolo, il deterioramento


della vita sociale causato dalle invasioni barbariche contribuì al processo
di riduzione onomastica dell’antica Roma; quindi ad indicare un indivi-
duo bastava, nell’uso comune, il nomen unicum che per lo più era formal-
mente un soprannome agiografico, cioè preso dal nome dei santi, non
solo per devozione ma anche per invocarne la protezione. Tale nome non
era ereditario, eventualmente era sostituito in ambiente familiare dai
suoi vezzeggiativi e talora era accompagnato da aggiunte alludenti alle
qualità della persona oppure patronimici o toponimi. Tale sistema era
sufficiente in una società poco strutturata e statica quale quella dell’Alto
Medioevo, caratterizzata da uno scarso dinamismo demografico, con
popolazioni disperse, radi insediamenti e modeste città.
A partire dal VI secolo arrivarono dal nord i popoli germanici che, anche
se la storiografia ce li ha proposti come violenti per le cruente scorri-
bande, adottarono una politica di convivenza e di dialogo con i Romani,
ritenuti depositari di una tradizione giuridica e amministrativa fonda-
mentale; basti pensare che i Longobardi (dal 568 al 774 dC) usarono la
lingua latina e si convertirono al Cattolicesimo.

Dal punto di vista onomastico, la fusione tra le due culture produsse,


come conseguenza, l’arricchimento di nuovi nomi di persona (Adalber-
tus, Alpertus, Alfredus, Abelardus, Arnaldus, Berengarius, Bernardus,
Henricus, Fredericus, Gilbertus, Goffredus, Grimaldus, Manfredus,
Rotpertus, Rodulfus, Raimondus) che si aggiunsero ai preesistenti nomi
latini e a quelli della tradizione giudaico-greca dell’Antico Testamento.
Questi nomi importati furono accolti con favore tanto è vero che, in una
stessa famiglia, potevano coesistere individui con nome cristiano e altri
56 con nomi germanici. Oggigiorno gli italiani non sanno di chiamarsi con
nomi di battesimo (e di conseguenza con i cognomi da essi derivati) presi
da questo enorme serbatoio di antroponimia che è stata l’età barbarica
dell’Alto Medioevo. Tradizionalmente i Germani (etnico che ingloba-
va tutti i popoli che migrarono verso il sud dell’Europa come i Goti, i
Vandali, gli Unni, i Longobardi, i Franchi) utilizzavano il nome unico per
distinguersi; quest’abitudine si sovrappose fluidamente con la coeva evo-
luzione onomastica romana che, come già detto, stava dando importanza
unicamente al cognomen, almeno per le persone non nobili.

È bene ricordare quali zone d’Italia fossero state occupate dai Longobar-
di e quali dai Bizantini; erano longobarde l’Italia settentrionale con la
Toscana e gran parte dell’Italia centro meridionale sotto i ducati di Spo-
leto e Benevento mentre appartenevano all’Impero Romano d’Oriente
l’estremo sud d’Italia con la Sicilia e la Sardegna, poi Venezia, Ravenna,
Roma e Napoli. Questi due governi differivano per impostazione politica
ma anche per la prassi onomastica. Da un lato, i Longobardi avevano una
forte propensione per il nome unico ad ogni livello, sia per i nobili che
per il popolo. Dall’altro lato, le aree ancora legate alla conservazione del
patrimonio linguistico e culturale della tradizione romano-bizantina
propendevano per denominazioni tipiche a due o più nomi. Se, talvolta,
nell’ambito di un villaggio capitava un caso di omonimia, lo si risolveva
indicando la paternità ossia che Marcus era il figlio di Johannes oppure
utilizzando la voce alter o qui vocatur o alius (cioè detto il) e il soprannome
così come in Johannes qui vocatur Vassus (Giovanni detto Vassallo). Mentre
si generalizza l’uso del nome unico, si restringe sempre più quello della
formula binomia o trinomia, limitata alle classi più elevate e all’uso
ufficiale, che si esaurisce nel primo Alto Medioevo per quanto non sia
da escludere una latinità tenacemente conservata, come potrebbe essere
il caso di Venezia dove la presenza del sistema binomiale moderno,
costituito da nome e cognome, è attestato assai precocemente. Quando,
per specifiche circostanze, si voleva definire con maggior precisione un
individuo, per esempio in occasione di una donazione o una compra-
vendita, accanto al nome unico si ricorreva ad alcuni elementi onomastici
accessori impiegati singolarmente o cumulativamente: in primo luogo
la filiazione con Athelardus filius Guilielmi (Atelardo figlio di Guglielmo),
Petrus de Patricia (Pietro di Patrizia), Albertus filius quondam Guidi (Alberto
figlio del fu Guido) o un altro rapporto di parentela con Albertus frater
Ildibrandi (Alberto fratello di Ildibrando), Guilla uxor Alberti (Guilla moglie 57
di Alberto). Poi si cominciò ad aggiungere il nome del titolo acquisito per
l’esercizio di cariche pubbliche come per marchio (marchese), comes (conte
come, ad esempio, Guarinus Comes Ferrariensis cioè Guarino conte di Ferra-
ra), vicecomes (viceconte o visconte), advocatus (avvocato), gastaldus (gastal-
do), notarius (notaio), judex (giudice), vassus (vassallo), presbyter (presbitero).
Ancora poi le dichiarazioni di status o di nazionalità (clericus, servus,
alamannus) con Albertus de civitate Florentia (Alberto della città di Firen-
ze); i nomi di mestiere (aurifex, magister, massarius, fornasarius, beccarius,
balisterius, caligarius).

Tali elementi, e in particolare i patronimici e i toponimici, non facevano


parte della denominazione vera e propria dell’individuo; lo dimostrano
l’occasionalità e l’opzionalità del loro impiego. Di norma, nelle carte pri-
vate (donazioni, locazioni, compravendite) il patronimico e il toponimico
sono usati in riferimento ai soli contraenti mentre, di rado, si impiegano
per gli attori secondari come i testimoni o i confinanti. Più stabili e coe-
renti nell’uso, e più spesso impiegati anche per chi non era attore princi-
pale del negozio giuridico, erano legati ai titoli pubblici ed ecclesiastici,
le dichiarazioni di status e i nomi di mestiere che erano usati con tale
sistematicità che li si potrebbe considerare a pieno titolo parte dell’iden-
tità onomastica di molti di coloro che li portavano, sebbene il nome unico
ne rimanesse il cardine. Nelle trascrizioni contrattuali degli atti notarili
i contraenti erano citati, all’inizio del documento, in forma estesa (per
esempio Albertus filius quondam Guidi de loco Neapolis) ma erano ricorda-
ti, in seguito, con il nome unico (nel nostro caso solo con Albertus). Non
altrettanto si può dire, invece, per gli altri elementi aggiunti che erano
certamente parte integrante del nome unico: se la prima trascrizione era
Iohannes clericus filius Alberti de civitate Capua o Ildebrandus comes filius
Rainerii comitis, le successive erano Iohannes clericus o Ildebrandus comes
e non semplicemente i soli Iohannes o Ildebrandus. Nell’Alto Medioevo,
insomma, i titoli e i mestieri erano elementi più stabili e meno accessori
dell’identità onomastica personale rispetto a patronimici e toponimici.

A dire il vero la corretta identificazione degli individui era già stata


presa in considerazione da una legge del Corpus Iuris Civilis, la raccolta di
diritto romano voluta dall’imperatore bizantino Giustiniano I nel 529 dC;
all’epoca si registrava la necessità di identificare nel modo più preciso,
58 e con quanti più elementi possibile, gli individui coinvolti in un atto per
evitare il rischio che, limitandosi ai soli nomi, insorgessero confusioni.
Quindi tutte le aggiunte onomastiche, inserite nelle scritture notarili,
avevano il ruolo di scongiurare il pericolo di ambiguità derivante dalla
citazione dei soli nomi personali.

L’impero di Carlo Magno (771-814 dC) era fondato su rapporti di natura


personale stabiliti fra il sovrano e i propri vassalli, cioè i nobili o com-
pagni d’armi ai quali veniva affidato un feudo, un territorio più o meno
vasto, nel quale erano compresi anche villaggi e chiese. Il vassallo giura-
va fedeltà al proprio signore, con la forma rituale dell’omaggio, impegnan-
dosi ad amministrare il proprio privilegio in nome del re e garantendogli
il proprio aiuto in caso di guerra; in cambio, il sovrano gli assicurava la
protezione e la facoltà di godere dei frutti derivanti dal feudo. Il vassal-
lo, tuttavia, non diventava padrone del beneficio affidatogli perché gli
veniva concesso a titolo di comodato; era solo possessore ma non godeva
della piena proprietà che quindi non poteva costituire oggetto di vendita
in alcun modo. Ancor di più, il vassallo non poteva lasciarlo in eredità
ai propri figli perché, alla sua morte, il feudo ritornava all’imperatore
che poteva decidere se offrirlo ad un membro della stessa famiglia del
defunto oppure ad un’altra persona. Nei secoli successivi, per garan-
tire un governo e una difesa più efficaci, il territorio del Sacro Romano
Impero venne suddiviso in contee e marche. Le contee, governate dai
conti (parola derivante dal latino comes che significa compagno d’armi),
erano costituite da territori situati nell’interno e disponevano di eserciti
piuttosto limitati. Le marche, che avevano a capo un marchese, erano
più vaste (potevano comprendere anche diverse contee) ed erano poste
nelle zone di confine essendo strategicamente assai importanti per la
difesa dell’impero. Incarichi di governo venivano affidati anche ai vescovi
che, oltre alla funzione religiosa, amministravano le città. Tutti (conti
e marchesi) erano controllati da funzionari speciali, detti missi dominici
(cioè inviati dal signore), che avevano il compito di verificare il rispet-
to e l’esecuzione delle leggi emanate dall’imperatore. Ma, nell’877 dC,
con il Capitolare di Quierzy i grandi feudatari ottennero da Carlo il Calvo,
nipote di Carlo Magno, la facoltà di lasciare i propri benefici in eredità
ai figli, seppur provvisoriamente in casi eccezionali come la partenza
del re per una spedizione militare; questa concessione fu fondamentale
per l’originazione dei cognomi di derivazione toponimica. Con questa
facoltà, la posizione dei feudatari si rafforzò notevolmente rispetto al 59
sovrano; di contrappunto l’autorità del re risultò assai indebolita perché,
di fatto, perse il controllo su gran parte del suo territorio. L’emancipa-
zione definitiva dal potere del re si ebbe soltanto dal 1037 quando ci fu
la vera ereditarietà, cioè quando i feudatari ottennero l’irrevocabilità e
la trasmissibilità ereditaria anche dei feudi minori con la Constitutio de
feudis (Organizzazione dei feudi) dell’imperatore Corrado II il Salico. Oltre
a esercitare il potere giudiziario e a riscuotere le tasse in sostituzione
Calcografie tratte da
“Romanorum Imperatorum
Effigies” di Giovanni Bat-
tista Cavalieri e Thomas
Treterus (1583) conservate
nella Biblioteca Comuna-
le di Trento
del re, ora potevano nominare altri vassalli che giuravano fedeltà solo a
loro e non più al sovrano. Era nata così la signoria feudale che in seguito si
trasformò ulteriormente; infatti con questi atti i feudi sfuggirono al con-
trollo del sovrano e, soprattutto, il rapporto di dipendenza personale, che
in origine era un patto privato tra due persone, divenne potere pubblico.
Per questo motivo il feudatario non solo era proprietario terriero (signo-
ria territoriale) ma espletava anche funzioni politiche ed disponeva di
una serie di poteri che facevano di lui la massima autorità all’interno del
feudo; la fusione tra proprietà della terra e l’esercizio del potere pubblico
è la caratteristica fondamentale del feudalesimo.

Alla base della gerarchia feudale, al di sopra dei contadini liberi e dei
servi della gleba, c’erano i milites e i caballari dotati di scarse risorse ma
aventi il diritto e le capacità economiche di possedere rispettivamente
un’armatura e un cavallo nonché di partecipare alla vita delle corti. La
60 gerarchia tra i nobili era, in ordine decrescente, la seguente: imperatore,
re, principe, duca, marchese, conte, visconte, barone, signore e cavaliere;
si noti come tali cariche diventeranno cognomi diffusamente presenti
in Italia. Bisogna ricordare la differenza fondamentale che intercorre
tra il feudo franco e il feudo longobardo. Il primo è il feudo che si potrebbe
definire puro, riscontrabile soprattutto in territorio francese: ha come
caratteristiche fondamentali l’indivisibilità, l’inalienabilità e l’impossi-
bilità ad essere trasmesso ereditariamente per via femminile. Un feudo
di questo tipo tende a generare una società in cui il possesso fondiario è
molto statico; ed infatti fu introdotto in Italia al momento della discesa
nel meridione della casa francese degli Angiò, alla fine del XIII secolo,
che favorì l’insediamento nel territorio italiano dell’aristocrazia d’oltral-
pe portando con sé i propri istituti e le proprie consuetudini.

Diversa è invece la situazione dell’Italia settentrionale, dove vigeva per lo


più il feudo longobardo: questo era infatti un feudo divisibile, alienabile,
trasmissibile per via femminile, tutti aspetti che conferivano senza dub-
bio maggiore dinamicità agli assetti della proprietà fondiaria. Oltre al
nome unico, i latifondisti avevano tutti gli interessi egemonici per essere
designati e di autodefinirsi con il nome del proprio feudo facendo nasce-
re la consuetudine dell’acquisizione del nome della signoria attraverso
l’acquisizione della terra. Tutte queste differenze avranno dei riflessi
anche sull’originazione dei cognomi.
Nell’evoluzione del diritto al nome, alcune procedure di origine romana
(come la diuturnitas, cioè la reiterazione di un determinato comportamen-
to di una collettività, e la opinio juris ac necessitatis, cioè la convinzione
diffusa che quel comportamento era non solo moralmente e socialmente
ma giuridicamente obbligatorio) fecero nascere consuetudini condivise
e percepite come giuridicamente obbligatorie da parte della popolazio-
ne; l’uso ripetuto della trasmissione del soprannome del padre ai figli
lo trasformò in nome patronimico e fece nascere la consuetudine della
trasmissione di esso attraverso i figli sia legittimi che naturali.

Nell’Alto Medioevo a tutti i figli si riconoscevano gli stessi diritti, anche


se in generale si preferiva la linea ereditaria maschile (che esponeva
meno al rischio di disperdere il patrimonio). Ciononostante una figlia
poteva subentrare ai genitori nella proprietà dei beni di famiglia o nei
titoli nobiliari; ciò valeva anche nel mondo contadino dove era normale
che una donna subentrasse a un uomo nel possesso o nella gestione 61
di un podere. L’orientamento patrilineare, cioè quello di preferire i figli
maschi, si impose tra molte resistenze perché era contrario al consuetu-
dinario ruolo delle donne radicato nella cultura medievale: la trasmis-
sione ereditaria privilegiata era proprio quella femminile tanto è vero
che l’origine di una dinastia, o addirittura di un popolo, nei miti e nelle
leggende medievali era spesso legata ad una donna.

Questa visione a un certo punto cambiò per motivi soprattutto economi-


ci: bisognava garantire la stabilità dei patrimoni e dei titoli ma, soprat-
tutto, bisognava evitare di perdere il controllo in seguito al matrimonio
di una figlia con il membro di un’altra casata. Per questo motivo si ac-
centuò lo stato di dipendenza sociale delle femmine rispetto ai maschi;
da allora in poi, il ruolo assegnato alle donne fu soprattutto quello di ga-
rantire, attraverso matrimoni ben studiati, l’alleanza con questa o quella
famiglia e ciò ebbe evidentemente riflessi anche sui cognomi. Quindi le
donne furono progressivamente emarginate dalla gestione dei beni di
famiglia e si affermò l’idea che solo i figli maschi (tendenzialmente solo
i primogeniti) potessero ereditare patrimonio e titoli del padre.

Lo svilimento della donna e dei suoi diritti si manifestò in modo analo-


go anche nel mondo rurale: fra i contadini liberi proprietari si affermò la
consuetudine (viva ancora oggi in certe regioni alpine italiane) secondo
62

La “Tabula Peutingeriana” la quale una proprietà di famiglia, il podere o maso chiuso, passava di pa-
con le vie militari dell’im-
pero romano (xii-xiii seco- dre in figlio in linea maschile, e solo al primogenito, non potendo essere
lo) conservata presso la
suddiviso per garantire così la continuazione del possedimento.
Hofbibliothek di Vienna

Nella società medievale il vincolo di matrimonio per molti secoli non


ebbe un carattere religioso: era un semplice contratto civile tra due indivi-
dui stipulato davanti ad un notaio o anche in forma privata. Con il pas-
sar del tempo la Chiesa iniziò a controllare più da vicino la vita sociale e
questo carattere laico del matrimonio si modificò. Nella seconda metà del
XII secolo il papa Alessandro III (1159-1181) incluse il matrimonio tra i
sacramenti, pur assegnando al sacerdote un semplice ruolo di testimone.
L’onomastica nel Basso Medioevo

Agli inizi del Mille si assistè ad una vera e propria transizione fra due
epoche: si organizzava definitivamente il regime feudale che legava
l’uomo alla terra e distingueva i gruppi sociali, separati e gerarchizzati.
Nell’Alto Medioevo le città avevano perso quasi ogni funzione; molte
erano sopravvissute a stento come centri di residenza vescovile, spopo-
landosi e contraendosi. A partire dal XI secolo vi fu una rapida e rigo-
gliosa rinascita. La crescente produttività agricola creava un’eccedenza di
prodotto (surplus) disponibile per essere venduto; poi, i progressi tecno-
logici richiedevano beni e strumenti che la curtis non poteva produrre
al suo interno nella quantità e qualità necessarie. La città venne quindi
assumendo un ruolo di centro di produzione artigianale e di mercato;
tale rinascita era dovuta alla sua nuova funzione economica, cioè alla
economia chiusa della curtis si sostituì l’economia aperta della città,
basata sulla divisione del lavoro tra città e campagna. Poi la maggiore 63
sicurezza nelle strade e il crescente volume di scambi rimise in movi-
mento i mercanti; la ricomparsa delle fiere e dei mercati portò con sé una
ripresa della circolazione monetaria come mezzo di scambio. Nelle fiere
più importanti comparvero i cambiavalute per scambiare le monete dato
l’alto numero delle autorità con diritto di battere moneta. Cominciarono
a svilupparsi forme di pagamento moderne (cambiali e lettere di credito)
ed il credito con il prestito ad interesse.

Dalla fine del IX secolo e nei due successivi, di fronte alla furia deva-
statrice dei nuovi invasori (Normanni, Ungari e Saraceni) si determinò
un generale clima di grande paura che causò, nelle aree più esposte agli
attacchi, l’abbandono delle proprie terre per luoghi ritenuti più sicuri e
quasi ovunque si verificò il fenomeno dell’incastellamento, cioè il prolife-
rare dei castelli di difesa. Molto diffusa fu la paura che vide protagonisti
i terribili Saraceni (i cosiddetti li turchi); si pensi poi che la parola orco
derivi dal francese ogre che stava per ungaro.

La famiglia medievale era mononucleare, cioè fondata sui legami di


sangue verticali caratterizzati dalla cellula genitori e figli. Questo sistema,
chiamato agnatizio perché derivato da ad natus (nato dopo), si usava per
indicare i rapporti di parentela in linea discendente, preferibilmente in
linea maschile (padre e figlio).
Il fuoco (l’unità di base identificata col focolare domestico) si componeva
di tre, quattro, cinque persone al massimo sia tra le classi nobili che tra i
ceti popolari delle città e delle campagne. Normalmente in famiglia non
vi erano ascendenti di terza generazione (i nonni) perché la vita media
delle persone era, in quei secoli, inferiore a 40 anni; era dunque impro-
babile, ma non tecnicamente impossibile, la coesistenza di tre generazio-
ni sotto lo stesso tetto.

Una possibilità molto frequente prevedeva che più famiglie vivessero


insieme costituendo la cosiddetta famiglia allargata e pertanto, oltre al
sistema agnatizio, si diffuse il sistema cognatizio che incorporava anche
i cognati estendendo la famiglia in senso orizzontale. La parola deriva
dal latino cognatus, cioè da cum natus (nato insieme e, per estensione, pa-
rente acquisito), e includeva il fratello o la sorella del coniuge ma anche
i mariti delle sorelle o le mogli dei fratelli. Questa modalità si diffuse
64 per l’evolversi degli istituti giuridici, per condividere gli stessi lavori, per
strategie politiche; tra i ceti agiati vigeva il principio della coesione paren-
tale che si prefiggeva di proteggere gli interessi del gruppo.

Il mondo della curtis si andava contemporaneamente trasformando;


piuttosto che mantenere la divisione tra pars dominica e pars massaricia,
molti proprietari trovarono più conveniente dividere le terre in lotti e
darle in affitto ricavandone una rendita. Le corvée vennero progressiva-
mente ridotte e, in molti casi, sostituite con rapporti di affitto o altri patti
agrari quali la mezzadria (contratto in base al quale una famiglia conta-
dina riceveva un appezzamento di terreno, lo lavorava e la produzione
era divisa a metà con il proprietario della terra) e l’enfiteusi (contratto che
prevedeva la cessione in affitto di un terreno per un lungo periodo di
tempo, finanche 99 anni). Quest’ultimo contratto era molto favorevole
alla famiglia contadina che, non più alle dipendenze del signore, voleva
ottenere il massimo raccolto dalla propria terra. I contadini e i fittavoli
più intraprendenti e fortunati riuscivano talvolta a costituirsi una picco-
la e media proprietà, elevandosi al di sopra dei servi e dei braccianti.

Nei primi decenni dell’XI secolo si verificò un netto miglioramento


sociale ed economico nelle condizioni di vita degli europei. La crescita
demografica che si verificò fu sostenuta da un notevole aumento della
produzione agricola, dovuto in primo luogo alla messa a coltura di nuove
terre; disboscamenti e bonifiche riconquistavano grandi estensioni di
terreno alla coltivazione agricola. Causa fondamentale fu anche la rior-
ganizzazione politica (con la ricostruzione dell’impero con Carlo Magno)
che determinò una ritrovata sicurezza delle vie di comunicazione per
mare e per terra, circostanze che ridiedero vita alle città. Ma un ruolo
determinante ebbe il rinnovamento della tecnologia e dei sistemi di col-
tivazione delle terre. Infatti fu inventato l’aratro pesante a ruote, adatto
per i duri ma fertili terreni dell’Europa settentrionale; poi la ferratura
Miniatura della città di
Bergamo (xiii secolo)

65

del cavallo, l’adozione del giogo rigido e, soprattutto, la rotazione trien-


nale delle colture. Le città ritornarono a popolarsi con i contadini che si
spostavano dalla campagna per raggiungere condizioni di vita migliori
e tale fenomeno prese il nome di urbanesimo. Nelle città gli ex contadi-
ni vennero utilizzati come manovali, operai e artigiani; si popolarono
anche di altri e nuovi mestieri legati alla vita cittadina come mercanti,
maestri di scuola, notai, medici, banchieri. Questi, e altri fattori, porta-
rono ad un aumento della prevalenza della famiglia rispetto all’indi-
viduo e poi all’affermazione delle consorterie, ossia i raggruppamenti
di famiglie abbienti che sovente si legavano con rapporti di parentela e
matrimoni incrociati. Tutte queste nuove dinamiche ebbero significative
influenze sui cognomi e sull’antroponimia in genere.
L’aumentata popolazione non poteva più essere contenuta nello spazio
ristretto e chiuso dell’economia curtense, così molti cercarono lavoro e
abitazione fuori dalla curtis. Tali fattori alimentarono tra il 1050 e il 1350
un processo di urbanizzazione di proporzioni tali da caratterizzare per
sempre il territorio europeo. D’altra parte le autorità locali, per invogliare
gruppi di contadini a dissodare terre ancora inospitali, favorivano la co-
struzione di villaggi liberi, cioè non soggetti a servitù feudali garanten-
done la libertà con atti scritti; il risultato evidente fu la toponomastica
di città nel cui nome sono presenti la parola nuovo o franco (nel senso di
libero, esente da imposte) come Villanova e Borgonuovo. Poi Villafranca che

66
si ritrova in vari nomi di città italiane come Villafranca di Verona, Villa-
franca in Lunigiana (Massa Carrara), Villafranca Padovana, Villafranca
Piemonte (Torino); ed anche Francavilla come Francavilla al Mare (Chieti),
Francavilla Fontana (Brindisi), Francavilla d’Ete (Ascoli Piceno), Franca-
villa di Sicilia (Messina), Francavilla Angitola (Vibo Valentia).

Di solito le città medievali si sviluppavano vicino ad un antico accam-


pamento romano, intorno ad un castello fortificato o al palazzo del
vescovo; inizialmente le città fronteggiarono la forte spinta dell’urbane-
simo riuscendo a contenere l’emigrazione ma, tra il XI e il XIV secolo, lo
spazio all’interno delle mura divenne insufficiente e gli immigrati furono
costretti a costruire le proprie abitazioni e le proprie botteghe attorno
alla città o lungo le strade che conducevano alle sue porte contribuendo
così alla nascita dei borghi. Questi nuovi insediamenti furono protetti
con l’allargamento progressivo delle cinte delle mura per garantire ai
loro abitanti la stessa sicurezza di quanti vivevano nel centro antico; 67
questo processo terminò quando si constatò che si era disposti ad acco-
gliere all’interno delle mura cittadine solo l’immigrato ritenuto utile alla
crescita economica della città e cioè gli operai specializzati, gli artigiani
migliori e le famiglie più ricche.

Gli abitanti dei borghi medievali furono chiamati borghesi; il loro ruolo
sociale crebbe rapidamente perché divennero indispensabili al processo
di crescita delle città stesse. Oltre al clero, alla nobiltà e ai contadini,
si presentò questa nuova classe sociale costituita da persone capaci di
migliorare, con le conoscenze e le capacità, la propria condizione sociale.

Il borghese poteva spesso vantare una ricchezza maggiore di un aristo-


cratico, ottenuta attraverso il lavoro che, invece, il ceto nobiliare disprez-
zava; proprio il lavoro e la capacità di accettare il rischio, connesso con
gli investimenti nelle attività commerciali e produttive, divennero le virtù
del borghese. Il commercio e le nuove attività imprenditoriali esigevano
infatti la piena disponibilità dei beni, la terra come il denaro, e richie-
devano una valutazione positiva dell’attività economica che era del tutto
estranea alla mentalità della nobiltà feudale e del clero, i cui ideali di
vita erano rappresentati rispettivamente dal guerriero e dal monaco. Per-
tanto questa nuova classe sociale prima affiancò, e poi sostituì, i nobili
nella guida politica ed economia della città.
La ripresa delle città e dell’economia favorì soprattutto le fortune di al-
cuni borghesi come i mercanti; la terra dava prodotti in abbondanza, al di
sopra dei bisogni di sussistenza tipici dell’autarchia dell’Alto Medioevo,
che si potevano vendere per procurare altre merci come stoffe, pietre pre-
ziose, libri, spezie. L’esigenza fondamentale del ceto borghese era quella
di essere libero nelle sue iniziative di produzione e di commercio dalle
tante limitazioni e dai tributi dovuti al signore feudale o al vescovo-con-
te che aveva il controllo della città. I nuovi abitanti delle città potevano
sperare di vivere finalmente liberi dai legami feudali che ancora pesava-
no sui servi della gleba; infatti nelle campagne il feudalesimo restava ben
vivo. La popolazione rurale doveva pagare al signore tasse per qualsiasi
cosa: per macinare il grano, per passare su un ponte, persino per attinge-
re acqua e per sposarsi.

L’esigenza di possedere una denominazione identificativa ed ereditaria


68 (nome di battesimo + nome aggiunto) non fu legata a motivazioni indivi-
duali o familiari ma fondamentalmente a fattori sociali. In quel periodo,
tra le principali difficoltà nell’individuare correttamente una persona
e registrarla, c’era la condizione di chi fuggiva dallo status di servo della
gleba per vivere in città; ciò determinò l’insorgenza e la prima fissazione
dei cognomi in Italia. Perché? Il feudatario, a differenza della schiavitù
dell’antica Roma, non aveva potestà sulla vita del servo della gleba che
però poteva essere venduto insieme alla terra, su cui aveva l’obbligo di
restare. Dai doveri rurali, in molte zone d’Europa, ci si poteva sottrarre
anche col trasferimento in città, come avvenne in Italia; infatti lasciare la
campagna era illegale ma con la formazione dei liberi Comuni i fuggia-
schi erano protetti da ritorsioni del signore feudale tanto è vero che, dopo
un anno solare, il feudatario perdeva il diritto di riportare il fuggitivo nel
feudo di provenienza.

Di solito la libertà era subordinata alla permanenza in città per 10 anni


in modo da ottenere un diritto di residenza iscrivendosi alle associazioni
di mestiere chiamate gilde o corporazioni; erano associazioni di settore
(mercanti all’ingrosso della lana, ad esempio) o di mestiere (come i sarti
e gli orefici). L’iscrizione alla corporazione era rigorosamente riservata
ai residenti della città e per accedervi bisognava fare un lungo tirocinio
e superare difficili prove che dimostrassero capacità e abilità; bisogna-
va dichiarare, con precisione, le proprie generalità fornendo il nome di
battesimo e un nome aggiunto derivante dalla provenienza, da un pregio o
difetto fisico, da un mestiere oppure dal nome del padre o della madre.

Alcuni Comuni medievali avevano regolamentato per tali fuggiaschi il


riscatto dalla proprietà dei loro padroni; tale intenzione era dettata non
tanto dall’offrire condizioni migliori ai servi liberati ma di aumentare
il numero dei soggetti tassabili, dato che i servi erano esenti dal fisco.
Frequentemente venivano etichettati con l’etimo che indicava lo stato
sociale della loro condizione, prima e dopo, di uomini liberi tanto che
molti di questi epiteti sono diventati cognomi molto diffusi: Schiavo,
Scavo, Schiavone, Scavone, Scavuzzo, Lo Schiavo, Lo Scavo, Verna (in
latino era lo schiavo nato in casa), Libero, Liberi, Liberato, Liberto, Di
Liberto, Franco, Di Franco, La Franca, Franchi, Nigro, Lo Nigro, De Nigro,
Lo Bianco, Fortunato, Salvo, Di Salvo.
Scena con cattura e puni-
zione dei servi fuggiaschi 69
in un dipinto anonimo
(xiv secolo)

© wikipedia
L’esperienza dei Comuni

L’età comunale indica un periodo storico del Medioevo che riguardò


vaste aree dell’Europa occidentale ma fu, per molti aspetti, tipicamente
italiano; infatti ebbe origine in Italia centro-settentrionale attorno alla
fine dell’XI secolo sviluppandosi, poco dopo, anche in alcune regioni
della Germania centro-meridionale e nelle Fiandre. In linea generale, il
Comune si fondò su princìpi opposti a quelli del feudalesimo: questo è
il punto di partenza per capire la dinamica che accompagnò lo sviluppo
del Comune in Italia e le lotte che esso dovette sostenere per affermarsi.

Mentre il mondo feudale (che era di origine germanica) fu agricolo e mi-


litare, e quindi verticale poiché fondato su una rigida gerarchia, il mondo
comunale fu cittadino e mercantile, e quindi orizzontale poiché prevedeva
la partecipazione al governo di tutti i cittadini, o quanto meno di una
70 buona parte di essi, su un piano di sostanziale parità. Tuttavia il Comu-
ne non portò al superamento definitivo del feudalesimo tanto è vero che
in Europa coesistevano zone rurali feudalizzate e Comuni autonomi. La
vita comunale contribuì a plasmare in modo durevole la geografia politi-
ca e culturale dell’Italia; le regioni settentrionali si andarono popolando
di queste piccole patrie, ciascuna gelosa della sua indipendenza e in pe-
renne rivalità con i Comuni vicini, mentre nel Meridione le forze feudali
e il potente regno dei Normanni soffocarono sul nascere le autonomie
locali. Dopo essersi arricchiti con la loro attività di mercenari, i cavalieri
normanni si erano stanziati nell’Italia Meridionale agli inizi dell’XI
secolo fondando diverse signorie; nel 1059 papa Niccolò II aveva incoro-
nato Roberto d’Altavilla (detto il Guiscardo cioè l’astuto) duca di Puglia e di
Calabria. Nel frattempo la Sicilia era caduta nelle mani di suo fratello,
Ruggero d’Altavilla, che nel corso di trent’anni sconfisse gli arabi dell’isola;
fu poi suo figlio Ruggero II a unificare l’Italia meridionale sotto il regno
di Sicilia, Calabria e Puglia diventandone il sovrano nel 1130. Si costituì,
così, un potente Stato che comprendeva tutta l’Italia Meridionale e che,
tra varie vicende, sarebbe rimasto sostanzialmente immutato sino all’an-
nessione nel 1861 al regno d’Italia.

In ambito di organizzazione militare, l’arma tipica del feudalesimo fu la


cavalleria costituita da una casta militare ben addestrata di professioni-
sti e signori della guerra; i Comuni, invece, mettevano in campo eserciti
il cui nucleo era costituito dalla piccola nobiltà e dalla fanteria, quest’ul-
tima formata da cittadini che prendevano occasionalmente le armi per
la difesa necessaria del Comune, e quindi non sempre addestrati. Nella
struttura mercantile dei Comuni italiani si cominciarono, con una certa
regolarità, a tenersi registri di vario genere e con diverse finalità (matri-
cole d’arti, libri censuali, memoriali dei contratti, rotuli universitari, cen-
simenti, giuramenti collettivi, elenchi di affittuari, elenchi dei banditi)
nel quale l’individuo veniva designato in modo ufficiale e pubblico.

I feudatari cercarono di imporsi anche in città ma qui i borghesi scopri-


rono di poter resistere associandosi tra loro. Associarsi, all’epoca, si dice-
va fare comune e proprio il Comune divenne la forma politica caratteristica
di molte città; si diffuse così il motto l’aria della città rende liberi. I borghesi
chiedevano al re (o al feudatario di quella regione) le franchigie, cioè il
permesso di governarsi da sé nell’area cittadina, oppure chiedevano la
Ambrogio Lorenzetti “Gli devoluzione delle regalie cioè il diritto di coniare moneta, di amministra- 71
effetti del buon governo”
re la giustizia, di riscuotere tasse e dazi per il passaggio su ponti e strade,
(1338) conservato nel Pa-
lazzo Pubblico di Siena di utilizzare i mulini del contado.
72
Particolare di un quadro, Queste entità comunali costituivano un piccolo mondo ma ben orga-
di probabile artista cam-
pano, con Gesù e Madonna nizzato, forte anche sul piano militare; persino l’imperatore Federico I
galaktotrophousa, cioè
Barbarossa nel 1176 sarà sconfitto dai Comuni italiani! Questa trasfor-
Maria che allatta, (xiii
secolo) conservata nella mazione territoriale ebbe una buona diffusione anche se non attecchì in
Chiesa di San Francesco
di Aversa tutte le città né in tutte le zone. In Italia si diffuse pienamente nel Centro
Nord; dagli archivi si registra che le prime città a fare comune furono, a
partire dal 1085: Pisa, Asti, Arezzo, Genova, Ferrara, Lucca, Cremona,
Bologna, Piacenza, Perugia. Al Sud, invece, dominavano ancora i grandi
feudatari o baroni e tali condizioni politico-sociali (dipendenza dalla
Chiesa e divisa tra Bizantini, Normanni, Arabi e principi longobardi) im-
pedirono che le città del Mezzogiorno beneficiassero dei miglioramenti
dovuti all’esperienza comunale con magistrati e leggi condivise.

Come in Inghilterra, anche il regno normanno del Sud Italia risultò forte
e ben organizzato; alcune città si opposero ma furono sconfitte a con-
ferma che nel Sud non era praticabile l’esperienza comunale. Nel 1231 73
l’imperatore svevo Federico II, come re di Sicilia e sovrano di tutta l’Italia
meridionale, fece promulgare un testo legislativo, detto Costituzioni mel-
fitane, mirato ad un’efficace organizzazione del potere amministrativo,
fiscale e giudiziario dello Stato. Per quest’ultima esigenza il re richiede-
va l’identificazione precisa di tutti gli individui che si erano resi colpe-
voli di un crimine; nei particolari richiedeva che per la persona colpita
dal provvedimento dovesse essere specificato il nome e il cognome, così
come nel testo in latino banniti nomen atque cognomen. Uno dei primi casi
dove, per legge, il cognome ufficialmente completava il prenome.

All’epoca il cognome, elemento non fisso, si accordava per genere e nu-


mero; infatti nel seguente testo (tratto dal libro di Giacinto Libertini, La
Baronia francisca, libero su internet e senza data) lo stesso cognome
Cancellario è scritto in tre modi diversi: Cancellarius, Cancellario e, poi,
la familia Cancellaria. Mandat ne Iacobus Cancellarius Urbis, Cintius de Can-
cellario et Iohannes de Cancellario, fratres, molestentur in possessione quorun-
dam bonorum sitorum in baronia Francischa, eis concessorum; que bona sunt
hec duo molendina, item villa Biniane, villa Casapuczane, quam dedit Raynaldus
de Avella Henrico de Sancto Arcangelo, villa Casolle Sancti Adiutorii, item bona
in Arpino et Ponte Silicis. Donat quibusdam de familia Cancellaria, militibus et
familiaribus, quedam bona, olim Raynaldi de Avella, de Baronia Francisca, in
Aversa et pertinentiis eius. È da notare inoltre che il termine Francisca, nella
lingua volgare dell’epoca, voleva significare francese o franco proprio
perché i Normanni di Aversa si autodefinivano, ed erano considerati,
Franchi: Ideoque ego Ugone ex genere francorum (Pertanto io Ugone della
stirpe dei Franchi). Nel Regno normanno, comprendente il Mezzogiorno
peninsulare e la Sicilia, la formazione di cognomi nobiliari sulla base
del luogo di origine, oltre che dal nome o soprannome di qualche ante-
nato, fu incrementata dalla monarchia stessa; i dominatore imposero
nelle varie regioni del paese vasto e multiforme la loro organizzazione
della nobiltà vassalla del sovrano.

Nel 1252 proprio i notai napoletani adottarono per se stessi un nuovo


sistema onomastico, con il prenome e il cognome, per sottoscrivere gli
atti compilati; cioè non più, ad esempio, firmavano Paxabantus tabularius
(Passavante notaio) ma Paxabantus Mammulus (Passavante Mammolo).
Questa nuova prassi era in rapporto con l’esperienza politica dei liberi
74 Comuni che stavano intanto fiorendo nell’Italia centro-settentrionale.

Dopo la morte di Federico II nel dicembre 1250 e fino alla riconquista


da parte di suo figlio Corrado nell’ottobre 1253, Napoli si resse infatti
come una comunità autonoma, dotata di consigli e magistrature civiche,
con a capo un podestà. Questi fermenti non fecero altro che sviluppare,
nelle procedure ufficiali di identificazione, una disciplina onomastica
più ordinata che andava di pari passo con l’evoluzione delle pratiche
amministrative in tutta l’Italia nel Basso Medioevo.

Le azioni di governo delle compagini statali (i Comuni, gli stati regionali


al centro e nord Italia, gli Svevi, gli Aragonesi, gli Angioini al sud) hanno
avuto un peso enorme per la storia dei cognomi; infatti tali poteri misero
a punto nuovi metodi di prelievo fiscale, di reclutamento o di esclusione
dalla politica, di leva militare e di esercizio della giustizia. Per fare ciò
avevano bisogno di acquisire una massa di informazioni e registrarla in
documenti scritti dove fosse possibile identificare con certezza e stabilità
i dati anagrafici delle persone. Quindi la trascrizione con secondi nomi
sempre diversi per una stessa persona risultò incompatibile con il buon
funzionamento della macchina amministrativa; perciò l’attività notarile
di redazione di atti per gli enti pubblici costituì un fattore di notevole
stabilizzazione e razionalizzazione del sistema onomastico. Pertanto
con la rinascita del Basso Medioevo, quando lo sviluppo dei commerci
cominciò a incrementare gli atti amministrativi e notarili, si ripropose il
problema di individuare meglio i cittadini con un secondo nome. Rima-
neva sempre problematico il rapporto tra la registrazione scritta e l’uso
quotidiano dei parlanti. All’epoca nelle trascrizioni i cognomi venivano
accordati con il prenome; in un parere di un notaio nel 1257 a Bologna si
legge per il motivo che nel bando non fu citato il cognome (non fuit appositum
cognomen) di Inginolfo, il quale cognome è detto Inginulfus Sedazarius filius
Simonis Sedazarii de Campore Majori, invece fu cognominato Inghinolfo di Mo-
dena (fuit cognominatus Inghinulfus de Mutina). Si fa sempre più forte
l’esigenza di indicare il cognome come elemento trasmissibile da una
generazione all’altra ma, nella suddetta citazione, il presunto cognome
appare un semplice aggettivo da accordare con il nome di battesimo (al
nominativo con Inginolfo e al genitivo col padre Simone) anziché nella for-
ma fissa e immutabile de Sedazariis con la preposizione minuscola de più
l’ablativo plurale che indicava inequivocabilmente un gruppo familiare
con cognome comune. 75

miniatura con allego-


ria dell’avarizia tratta
dal “Trattato sui Sette
Vizi Capitali del codice
Cocharelli” (1330-1340)
conservata nella British
Library di Londra
Nel XIII secolo ad Amalfi si verificò il consolidamento dei cognomi
nobiliari, dovuto alla proliferazione dei rami delle genealogie e all’inse-
rimento del ceto dirigente locale nel sistema della monarchia norman-
no-sveva e poi angioina. Infatti nel livello intermedio, cioè tra la corte
dei monarchi e il popolo, si annoverano i nobili che rivendicavano il
prestigio del cognome, universalmente noto, quale etichetta stabile da
una generazione all’altra e comune a tutti i discendenti; tale cognome
costituiva un carattere saliente dell’identità di un casato prestigioso che
traeva la sua non effimera potenza anche dal numero, dalla compattezza
e dalla solidarietà dei suoi membri. Per questo motivo furono general-
mente le famiglie eminenti ad assumere per prime un cognome. Un
modo tipico di formazione di un cognome nobiliare era il riconoscimen-
to del ruolo decisivo di un esponente di spicco dell’albero genealogico
familiare; anche se comandavano i maschi, un cognome matronimico
si spiegava con il riferimento di qualche antenata vedova più ricca e in-
76 fluente del marito o anche della segnalazione di una nascita illegittima.
Il cognome, quindi, si diffuse man mano che la società diventava sempre
più complessa, stratificata e organizzata. Il consolidarsi dell’uso del co-
gnome andava di pari passo col moltiplicarsi dei rapporti tra le persone
e lo strutturarsi dell’organizzazione sociale che cominciava a ruotare
irreversibilmente su tre fattori: l’individuo, la famiglia e lo Stato, struttu-
ra sociale che sorse in Italia con l’esperienza comunale.

Nella comunità feudale, nella fase che precede la nascita dei Comuni,
i sudditi del feudatario avevano scarse relazioni reciproche e scarsa
importanza gli uni per gli altri per poter acquisire una denominazione
complessa e per tale motivo bastava il solo nome unico. Col passare del
tempo i governi si videro costretti a registrare sempre più informazioni
sui cittadini nell’adempimento di doveri pubblici come, ad esempio, la
contribuzione fiscale e il servizio di leva; questi adempimenti comincia-
rono ad interessare una percentuale sempre crescente di popolazione (si
pensi all’aumento della natalità e al fenomeno dell’urbanesimo) renden-
do necessaria l’identificazione di ogni soggetto in modo inequivocabile.

All’inizio del secondo millennio si verificò un insieme di circostanze


che comportò, in fatto di onomastica, un elevatissimo tasso di omoni-
mia e problemi di distinzione: migliorarono le strade, crebbero i centri
abitati, aumentarono i luoghi di mercato, si sviluppò una forte mobilità
77

Laurentius de Voltolina sociale sia per gli aristocratici che per le classi contadine; ma anche il
“Henricus de Alemannia
con i suoi studenti a sistema più ampio di negozi giuridici come la compravendita, i lasciti
Bologna” (xvi secolo) con- testamentari, le donazioni. Il progressivo prevalere dei nomi germanici e
servato nella Kupfersti-
chkabinett di Berlino la conseguente decadenza dell’onomastica latina e cristiana, determina-
rono una semplificazione nella scelta dei nomi personali che contribuì
ad alimentare i casi di confusione nella identificazione delle persone.
Necessità tanto più sentita in quelle società nelle quali il numero dei
nomi utilizzati al battesimo era ristretto e le omonimie frequenti;
necessità ineludibile man mano che cresceva la popolazione (si calcola
che dal 950 al 1300 la popolazione italiana sia passata da 5 a 8 milioni
di abitanti) e si sviluppavano i centri urbani. In un piccolo villaggio la
quasi totalità dei nomi di battesimo era legata al culto particolare dei
santi, specialmente quando sussistevano devozioni per grazie ricevute; si
intuisce quindi che chi si chiamava Johannes o Petrus, nomi molto diffusi
all’epoca, necessitava di ulteriori elementi onomastici. Chiaramente il
nome aggiunto era utilizzato nel colloquio orale in modo informale ma
risultò necessario specialmente quando dovette essere trascritto ufficial-
mente su un contratto. Quindi l’uso del solo nome di battesimo si rivelò
insufficiente; si impose dunque la necessità di coniare nuovi epiteti da
aggiungere al nome unico individuale. Cominciò a farsi necessaria l’iden-
tificazione non equivoca delle persone per l’applicazione delle norme
Particolare di scultura
religiosa del xiii secolo

78

giuridiche, per far funzionare la giustizia e l’amministrazione, per le


transazioni economiche, i passaggi di proprietà, gli atti di successione.
Praticamente al nome unico utilizzato nell’Alto Medioevo si aggiungeva
spesso un secondo appellativo (nome aggiunto) che connotava l’individuo
e non ancora la famiglia; si utilizzavano sia gli antichi cognomen (cioè i
soprannomi del periodo romano) sia nomi nuovi, in particolare nomi di
mestiere e attributi fisici o morali della persona.

Facendo esempi di cittadini stabiesi, presi dalla letteratura locale esi-


stente, tale esigenza fu soddisfatta inizialmente dai soprannomi (Iohan-
nes cognomento Ricius), dal riferimento al nome paterno (Urso de Maria),
dal riferimento al nome paterno accompagnato da un’indicazione topo-
grafica (Nicolaus de Simone Terracinensis), dal riferimento al castrum (Ro-
gerius de Gariliano), dalla carica pubblica ricoperta dall’antenato (Iohannes
Castaldus). Il nome aggiunto che associarono al nome di battesimo fu posto
al genitivo, se questo indicava il nome paterno (quindi superando la
forma di X filius Y come in Berthus Marci a significare Berto figlio di Marco),
oppure al nominativo, se esso risultava dalla contrazione della forma
X qui vocatur Y e cioè come soprannome. Diffusamente tali soprannomi
erano preceduti da parole come alias (detto), filius (figlio di), quondam
(del defunto), de (di); per la verità, già nel periodo longobardo, accanto al
nome unico, poteva visualizzarsi un’ulteriore distinzione con la formula
figlio di o vedova di, molto utilizzata nei documenti scritti. Nelle abitudi-
ni del latino notarile ed ecclesiastico del Basso Medievo si formeranno
insoliti cognomi come Quondam, Vulgo, Amen, Paternostro.

Di solito, nel XII secolo il notaio o l’ufficiale preposto indicava ogni dato
onomastico pertinente ad una persona; il nome del padre da aggiunge-
re al proprio nome (Petrus Iohannis cioè Pietro figlio di Giovanni che si
distinge da Petrus Alberti cioè Pietro figlio di Alberto), il nome della terra 79
o luogo (Johannes de Capua, Michael de Nola), la dignità o ufficio (Petrus
vicecomes, magister Rainerius scriptor, o notarius, grammaticus), il mestiere
svolto (Petrus ferrarius, magister Caffolus murator, o pelliciarius, calzolarius,
aurifex, doctor, consul) o il ricorso a soprannomi (Petrus qui dicitur Grassus
o, direttamente, Petrus Grassus). Fu a partire da queste tipologie di doppio
nome (ancora personali, spesso instabili e comunque non ereditarie) che
nacquero vere e proprie forme cognominali.

Questa prassi sarà utilizzata con frequenza nella redazione degli atti e
documenti ufficiali; chiaramente per un pubblico ufficiale del XI secolo,
un notaio ad esempio, una cosa è ascoltare le generalità del richiedente
e un’altra cosa è la scrittura in latino, in un periodo storico nel quale si
assiste alla trasformazione linguistica dal latino al volgare. La trascrizio-
ne in latino delle generalità di una persona è il frutto del compromesso
tra il parlato comune e la redazione notarile. In un documento redatto
a Napoli nel 1120, il latino è così di facile lettura che si riescono ad ap-
prezzare le trascrizioni onomastiche in lingua volgare che, con tenacia,
metteranno da parte la lingua latina antica e formale; dal documento
è possibile stralciare alcune frasi scritte tutto in minuscolo: sergio de
ginnarum (qui il protocognome patronimico De Gennaro) qui nominatur
pappahasinum; sergio qui nominatur de porta noba (qui il protocognome
toponimico Portanova) marenario; drosu filia quondam gregorii marenarii
80
miniatura con allegoria (qui il protocognome di mestiere Marinaro) qui vocatur manco; sergio
dell’ingordigia tratta
dal “Trattato sui Sette marenario qui vocatur (detto) torto (qui il protocognome di soprannome
Vizi Capitali del codice
Torti) filio quondam (figlio del fu) stephani torti; iohanne fictiliario qui vocatur
Cocharelli” (1330-1340)
conservata nella British ascana filio quondam petri fictiliarii qui nominatur (soprannominato) ascana;
Library di Londra
maria filia quondam romani marenarii qui nominatur de anastasu; iohanne et
marinus uterinis germanis (fratelli) filiis quondam gregorii et quondam drosu;
iohanne filio quondam leoni cui super nomen (soprannominato) balabate.

L’originazione dei cognomi non fu un fenomeno puntuale ma fu un


processo continuo, protrattosi per più secoli e avvenne con il distacco
della designazione toponimica dall’effettiva residenza, dell’indicazione
di mestiere da quello effettivamente esercitato, con la ripetizione del so-
prannome e con la sua trasformazione in nome di famiglia; la diffusione
del cognome creò un legame verticale con gli antenati e i discendenti
(famiglia agnatica) quanto un legame orizzontale con i collaterali (famiglia
cognatica) come conferma la loro tendenza ad assumere la forma costruita 81
attraverso il de + ablativo plurale (per esempio Petrus de Albertis).

Quindi nel Basso Medioevo tale nome aggiunto, che in origine serviva ad
individuare una sola e definita persona, poco a poco, tese a consolidarsi
come vero cognome di famiglia, cioè come casato facendosi ereditario e
trasmissibile da padre in figlio e da questo alle generazioni successive; in
questo modo l’individuo era distinto anche per la sua appartenenza ad
una comunità minore, cioé alla sua famiglia.

Etimologicamente il cognome, appellativo unito al nome personale,


derivava dalle parole latine cum (con) e nomen (nome di battesimo). Quasi
tutti gli individui portavano ormai denominazioni costituite da due
elementi (nomen e cognomen), occasionalmente integrati da elementi
accessori; ma per il singolo individuo era ancora incerta la sua fissità nel
tempo e, ancor di più, la trasmissione ai discendenti. Infatti tali protoco-
gnomi non avevano ancora assunto una funzione prevalente nell’identità
dell’individuo e nella sua percezione da parte della società circostan-
te; solo in rari casi venivano trasmessi ai figli, in quanto l’importante
era distinguere un Francesco da un altro e non stabilirne i rapporti di
parentela. Infatti siamo ancora lontani dalla concezione del cognome in
senso moderno che è, per noi, il nome di famiglia ereditario, obbligatorio
e con funzione identificativa prevalente rispetto al nome proprio.
In parallelo con la nostra esperienza contemporanea, i nomi aggunti
dell’Alto Medioevo avevano una funzione e un valore analoghi a quelli
che hanno oggi la data di nascita, la residenza e il codice fiscale in una
dichiarazione ufficiale: informazioni volte ad una più sicura identifica-
zione personale ma non veri e propri elementi onomastici.

Questi nomi aggiunti contribuivano decisamente all’identificazione


personale ma non erano ancora da considerarsi cognomi come li inten-
diamo noi, cioè trasmessi ereditariamente da una generazione all’altra.
Perché? Perché il semplice nomen paternum cambiava di generazione
in generazione; se il padre di un individuo fosse stato un sarto (Petrus
Sartor, ad esempio) e il figlio un console, in un atto pubblico quest’ultimo
non sarebbe stato identificato con Iohannes Sartor (così come faremmo
oggi) ma con Iohannes Consul. Per i patronimici, in particolare, valeva la
regola secondo cui i figli, per identificare la propria persona o famiglia,
82 aggiungevano al proprio nome quello del padre o della madre; se poi l’u-
no o l’altra erano persone famose o degne di riconoscenza, anche i figli e
nipoti continuavano ad avvalersi di tali cognomi.

Il grande e scontato uso dei patronimici fa capire come i cognomi attuali,


per il 40%, abbiano alla base un nome personale che li ha generati.
Entrando nei particolari, esistevano modi diversi per rendere il patroni-
mico; a Napoli si usava de + ablativo: De Costanzo, D’Andrea, De Genna-
ro, De Matteo, De Filippo, Di Vincenzo, De Maria, D’Alessandro mentre
a Firenze si usava il genitivo: Uberti (che significava de Uberto), Donati,
Filippi, Rodolfi, Lamberti, Riccardi. Quindi l’unico elemento sicuro e im-
mutabile era il nome di battesimo mentre tutte le aggiunte per la corretta
identificazione (patronimico, toponimo, mestiere, soprannome) erano in-
tercambiabili, transitorie, modificabili e, soprattutto, non ereditabili; cioè
il notaio di turno avrebbe potuto chiedere per l’identificazione prima il
toponimo e poi il patronimico o prima il soprannome e poi il mestiere
svolto. Questa instabilità si spiegava col fatto che, in assenza di una
prassi notarile univoca, nell’identificazione ufficiale si poteva dare più
importanza alla paternità rispetto al mestiere o viceversa; ciò significava
che fondamentalmente l’individuo non aveva un nome aggiunto unico e
determinato. Tale instabilità si riscontra in tanti documenti nei quali la
stessa persona, in ambiti e momenti diversi, viene cognominata in modi
diversi cosa che all’epoca era normale. Di seguito un esempio dello sta-
biese Pietro Castaldi che veniva menzionato in un documento del 1269
con jud. Petrus Castaldus, poi nel 1279 con (…) mentio Petri Castaldi milite de
Castro Maris de Stabia, expensoris operis Sancte Marie de Regali Valle (…) e,
nel 1280, Petro Castaldo de Castro Maris a dimostrazione che il cognome
(ma anche il nome) non era ancora fissato e che la relativa trascrizione
risentiva delle diverse sensibilità, obblighi e grafie dei trascrittori.

Passo a fare una carrellata dei modi con cui venivano identificati gli
individui nel Basso Medioevo con la trascrizione in latino, preceduta
dall’anno, e la relativa traduzione in italiano.

83

Giovanni di ser Giovanni • Tratto dal libro Regii Napoletani Archivi Monumenta (1049-1114),
Guidi (detto Scheggia)
“Cassone Adimari” (1450) Napoli, Ex Regia Typographia, 1857.
conservato nella Galleria
dell’Accademia di Firenze
1050. Ideoque nos i sumus leo filius boniti et gizzo et petri et iohannes germani
filii quondam bonecari abitatori sumus de finibus liburie loco casale.
(Quindi noi siamo Leo figlio di Bonito e Gizzo, Pietro e Giovanni fratelli
figli del fu Bonecari siamo abitatori di un casale situato ai confini della
Liburia, cioè la Terra di Lavoro).
1090. Stephanus presbite, geraldus presbite, petrus de montorio, ricardus male-
tus, ragnulfus elemosinarius, nicholaus notarius et alii plures.
(Stefano sacerdote, Gerardo sacerdote, Pietro di montagna, Riccardo ma-
leto (?), Ragnulfo elemosinario, Nicola notaio e molti altri).
1114. Ego iohannes iudex, ego fulco miles testis sum, ego leo iudex, ego paganus
miles me subscripsi, ego berardus miles me subscripsi et testis sum, ego mignanus
presbyter et notarius manum posui.
(Io Giovanni giudice, io Fulco soldato sono testimone, io Leone giudice, io
Pagano soldato ho firmato, io Berardo soldato ho firmato e sono testimo-
ne, io Mignano prete e notaio ho posto la mano).
1114. Quoniam ego richardus musca nepos et heres rainaldi musce filii turol-
di musce pro redemptione anime mee et predicti avunculi mei rainaldi musce.
(Perché io sono il nipote di Riccardo mosca, nipote e erede di Rainaldo
mosca, figlio di Turoldi mosca per la redenzione della mia anima e del
suddetto mio zio Riccardo).
1114. Ego richardus musca me subscribere feci, ego radulfus tyrollus testis sum,
ego radulfus sainiscalcus testis sum.
(Io Riccardo mosca mi fece firmare, io Radolfo tirolese come testimone, io
Radolfo siniscalco come testimone).
1114. Ego petrus caprarus presente filio quondam bonalvicina.
(Io Pietro capraro figlio del fu Bonalvicina).
1114. Ego pandulfus filio domini landulfus, ego milo filio domino leo, ego petrus
diaconus et notarius suprascripte.
(Io Pandolfo figlio del signore Landolfo, io Milo figlio del signore Leone,
io Pietro diacono e notaio suddetto.
1114. Ego richardus ferrarius cum uxor melilla.
84 (Io Riccardo ferraro con la moglie Melilla).

• Tratto dal libro di Giacinto Libertini, La Baronia Francisca, libero su


Internet e senza data.
1266. Raynaldus de avello viene menzionato in un altro documento con un
presunto errore di trascrizione (o altra dizione) con Raynaldo de anello.
1270. Concessum est iacobo cancellario urbis, cincio de cancellario et iohanni
de cancellario, ville et bona alia de baronia que dicitur francisca, sita in aver-
sa, que tenuit raynaldus de avella, fidelis regius, ad manus curie devoluta, pro
unciis C; ita quod dictus iacobus habeat unciis L, cincius XXX et iohannes XX.
(Sono concessi a Giacomo Cancellario di città, a Cinzio de Cancellario e
a Giovanni de Cancellario, i villaggi e gli altri beni della Baronia detta
Francisca, sita in Aversa, che fu possesso di Rainaldo di Avella, fedele
regio, ritornata nelle mani della Curia, per once 100; di modo che il detto
Giacomo abbia once 50, Cinzio 30 e Giovanni 20).
1271. Mandat ne andreas de sirignano, alduinus de salerno, maria de bagnara,
petrus et franciscus de sancto arcangelo, riccardus musca, rogerius dopne perne,
goffridus de manzino, simon ianarius, angelus de blancacio et nicolaus staccio-
nus, feudatarii baronie francesce et unius molendini.
(Comanda che Andrea di Sirignano, Alduino di Salerno, Maria di Bagna-
ra, Pietro e Francesco di Sant’Arcangelo, Riccardo Musca, Rogerio Dopne
Perne, Goffredo de Manzino, Simone Ianarius, Angelo de Blancacio e
Nicola Staccionus, feudatari della baronia Francisca e di un mulino).
Coppo di Marcovaldo
“Madonna del Bordone”
(1261) conservata nella
Chiesa dei Servi di Siena

85
1272. Donat quibusdam de familia cancellaria qui il cognome Cancellario
veniva accordato al femminile per indicare l’intera famiglia.
1272. Assensus pro matrimonio contrahendo inter gerardum dictum de cremona
milite et mariam uxorem quondam henrici de sancto archangelo de aversa, cum
usufructu medietatis cuiusdam pheudi, quod petrucius de sancto archangelo,
eiusdem marie filius, tenet sub baronia francisca.
(Assenso per il matrimonio da contrarsi fra Gerardo detto di Cremona,
milite, e Maria moglie del fu Enrico di Sant’Arcangelo di Aversa, con
l’usufrutto della metà di un certo feudo, che Petruccio di Sant’Arcangelo,
figlio della stessa Maria, possiede sotto la baronia Francisca).
1273. Symonem de parisius (Simone di Parigi).
1278. Giullelmi dicti accroczamuri (Guglielmo detto Accrocciamuro).
1278. Actum neapoli presentibus leonardo cancellario achaye et angelo de marra
mag. rationalibus, gualterio de alneto, iohanne de fossomis senescalco viromandi.
(Redatto in Napoli presenti Leonardo Cancellario di Acaia e Angelo de
Tino di Camaino, lunetta
86
centrale (1325 circa) del
Marra Maestri Razionali, Gualterio de Alneto, Giovanni de Fossomis
Duomo di Napoli Senescalco di Viromandi).
Il processo di fissazione

In generale la diffusione del cognome si ebbe per gradi, sia economica-


mente che geograficamente. Prima nei ceti signorili e nobili, nelle élite
mercantili e borghesi, poi nel volgo e tra i contadini; prima nelle città e
poi nelle campagne; prima nelle regioni ad alta densità e poi nelle aree
meno popolate. La fissazione dell’odierno sistema cognominale è il frut-
to di un faticoso processo iniziato nel Medioevo e che si è protratto per
buona parte dell’Età Moderna nel corso del quale furono soprattutto le
esigenze e le disposizioni delle istituzioni (dal censimento delle anime
della Controriforma, all’attenzione all’individuo dello stato moderno) ad
imprimere finalmente una fissità burocratica all’uso delle designazioni
familiari con istituzioni e procedure amministrative che hanno com-
portato e sancito per legge l’obbligo della sua immutabilità. La spinta alla
fissazione dei cognomi è derivata dall’esercizio del possesso di beni, dal
vantare diritti sulla terra o qualifiche da trasmettere da una generazio- 87
ne a un’altra. Quando c’erano diritti da trasmettere agli eredi maschi,
allora i loro cognomi non avevano freni alla moltiplicazione. La corretta
identificazione era un problema amministrativo per chi aveva il compito
di tenere in ordine i libri contabili ma era anche un problema di interessi
da far valere per chi storicamente poteva pretenderli.

Analizzare le fonti comporta anche la comprensione di quale sia stata


la loro specifica funzione nel contesto storico e sociale in cui sono state
redatte; non sono rari i documenti nei quali il solo nome personale ri-
sultava più che sufficiente al corretto riconoscimento di una persona ed
altri nei quali, per lo stesso scopo, era necessario abbondare di ulteriori
informazioni identificative. L’assenza del cognome di un soggetto in un
dato documento non significava necessariamente che lo stesso ne fosse
privo ma dipendeva dalle finalità delle registrazioni. In un censimento
veneziano del 1670, ad esempio, si ritenne più utile indicare la professio-
ne degli artigiani che il loro cognome.

A differenza del nome di battesimo, il cognome non possiede dinami-


cità, cioè non è caratterizzato da un progressivo aumento quantitativo
ma, piuttosto, ha conosciuto una vastissima diffusione in origine, una
successiva cristallizzazione e poi una costante regressione a seguito
dell’estinzione di molti gruppi familiari. Bisogna tenere presente che,
una volta che questi cognomi cominciarono il processo di fissazione,
continuavano a mostrare la loro instabilità per cui non si può parlare di
cognomi in senso moderno almeno sino a quando la nascita di istitu-
zioni e procedure amministrative hanno comportato e sancito per legge
l’obbligo della sua immutabilità; una delle prove eloquenti è, fino al XIX
secolo, la persistente prassi burocratica di indicizzare alfabeticamente
gli elenchi di cancelleria con il nome di battesimo e non con il cognome,
come facciamo noi oggigiorno.

Questa prassi è registrata, per i documenti stabiesi, nel Catasto della città
del 1554, nel Catasto dei Terzieri del 1603, nel Catasto Onciario del 1753
nonché negli Archivi della Cattedrale e di Confraternite cittadine; ciò
mostra come all’epoca il cognome era un accessorio del nome di batte-
simo o, comunque, un elemento secondario tanto è vero che era suscet-
Veduta dal mare della
tibile di modificazioni, di accordi grammaticali per genere e numero.
88 città di Napoli nella Non era ancora divenuto una designazione stabile e ereditaria perché
“Tavola Strozzi” di Fran-
cesco di Lorenzo Rosselli legato alle vicissitudini storiche e alla discrezionalità della famiglia. La
(1470) conservata nel diffusione dei cognomi e l’amministrazione politica divennero intercon-
Museo Nazionale di san
Martino di Napoli nessi perché divenne essenziale l’accertamento, individuo per individuo,
della condizione dei cittadini attraverso il censimento, la redazione e
l’aggiornamento di matricole delle corporazioni, gli elenchi dei banditi, i
contribuenti fiscali; si consolidò un nuovo ruolo dello Stato nei rapporti
con i cittadini, divenuti soggetti di una intensa vita politica, amministra-
tiva, economica e sociale ma, soprattutto, giuridica e notarile. Per queste
ultime necessità l’individuo, in relazione alle attività e ai compiti che era
chiamato ad assolvere (cariche pubbliche, contratti commerciali, compra-
vendite, eredità e donazioni), doveva essere facilmente identificabile con
una precisa denominazione distintiva.

Ma prima che il cognome potesse diventare una denominazione perso-


nale e stabile, dovettero sussistere tre condizioni. La prima fu la cessa-
zione del significato letterale nella sua trasmissione agli eredi; i linguisti
sostengono che i cognomi siano l’unico tipo di parola priva di signi-
ficato. Pertanto la perdita di significato era più evidente per un nome
di mestiere o per un soprannome, aggiunti al nome di persona, che si 89
trasmettevano dal padre al figlio; in tal caso il figlio, non esercitando
più quel mestiere, o al quale non poteva più riferirsi il soprannome del
padre, trovava giusto e necessario adottare un suo soprannome.
All’epoca la paternità, o ancor più il soprannome, aveva un significato
ben preciso per identificare e distinguere la persona in un ambiente
circoscritto; scrivere Sergio de Ginnarum attestava che realmente il padre
di Sergio si chiamava Gennaro oppure scrivere Sergio Marenario signifi-
cava che Sergio realmente era un marinaio. Invece, quando il cognome
divenne immutabile, il figlio non trovò più inopportuno e inadeguato
il cognome Cavaliere del padre se lui intraprese, ad esempio, la carriera
ecclesiastica. Altro esempio: il progenitore chiamato Micheal Ferrari era
così chiamato perché era veramente un fabbro; egli potè trasferire a suo
figlio Franciscus lo stesso cognome (quindi Franciscus Ferrari) anche se
quest’ultimo era, ad esempio, un tessitore; oppure che i Lombardi non
abitavano più nel nord Italia, che i De Filippo non avevano il padre chia-
mato Filippo, che il Grasso era longilineo, che i Balestrieri non erano più
dei forgiatori d’armi o che, infine, i Buonomo erano dediti al malaffare.

90 La seconda condizione fu il verificarsi della fissazione e dell’immuta-


bilità della sua trascrizione nei vari documenti scritti e, a tal bisogno,
provvederanno le istituzioni religiose e, soprattutto, quelle civili. La terza
condizione fu legata ai sistemi amministrativi che determinarono auto-
maticamente la sua ereditarietà, cioè la trasmissione tra generazioni.

In generale, nella pratica quotidiana gli italiani usavano delle deno-


minazioni che non possiamo purtroppo riascoltare; conosciamo solo, e
parzialmente, le registrazioni scritte. Ma registrare più o meno nomi non
era un’operazione neutrale perché la tipologia di un documento avrebbe
determinato e influito sulla modalità di scrittura onomastica.

Le diverse scritture delle identità degli individui erano da attribuire alle


differenti (e anarchiche per l’epoca) abitudini dei notai che redigevano
gli atti; in particolare, un notaio poteva latinizzare i nomi in volgare che
ascoltava oppure li trascriveva in volgare così come li ascoltava. Ciò per-
ché il processo di originazione dei cognomi si innesta, con significativi
condizionamenti, nel periodo culturale-linguistico del Basso Medioevo
che fu caratterizzato dalla trasformazione del latino nei vari dialetti.
Un esempio su tutti del XII secolo (tratto dal libro di Roberto Bizzoc-
chi, I cognomi degli Italiani, Laterza, Bari, 2014): a Roma una stessa
persona è trascritta, in quattro anni diversi, con quattro diverse soluzioni
onomastiche e cioè con Romanus Acquirenspiper nel 1185 e nel 1195, con
Romanus Comparapiper nel 1190 e con Romanus Accattalpepere nel 1187.
Considerando che il secondo nome indicava il mestiere di compratore di
spezie (del pepe in particolare), nelle prime due denominazioni (Acqui-
renspiper e Comparapiper) si esplicita una trascrizione dotta in latino per-
ché il notaio ha tentato la traduzione di ciò che ha ascoltato nel dialetto
locale. Nell’ultimo caso (Accattalpepere) il notaio sarà stato più propenso
a trascrivere i nomi senza modificare il parlato volgare. Questa seconda
modalità di trascrizione notarile genererà, nel panorama cognominale
italiano, i cognomi derivanti palesemente dai dialetti italiani; tali dialet-
ti (ad esempio sardo, napoletano, friulano, siciliano, calabrese), nati nel
periodo di transizione tra il latino e l’affermazione del volgare (cioè dei
vari dialetti tra cui prevalse il dialetto toscano), hanno prodotto cognomi
molto riconoscibili per prefissi, suffissi e modi di dire.

In un elenco, indicante i funzionari del Regno aragonese dal 1446 al


1500, appare un certo Hieronymus Quattromano; è citato in altri documen- 91
ti come Hieronymus Quatuormanus, a seconda della prevalenza da parte
dello scrivente della traduzione in volgare dal latino rispetto a ciò che ha
ascoltato nel dialetto locale. Nel 1444 analoga procedura linguistica per
lo stabiese Loysium de Perilionibus che in altri documenti successivi era
citato, tradotto in volgare, con Luigi de’ Pierleoni.

Quindi si può concludere che le parole latine (e quindi i cognomi da esse


derivati) siano state le matrici delle corrispondenti parole in italiano
esplicitandone, pertanto, sia un esito dotto che uno popolare. Per com-
prendere appieno la genesi di tali trascrizioni, basterebbe rivivere una
scena del XIII secolo dal notaio o in tribunale; nella Napoli angioina
un notaio mi richiede le generalità. Io, incolto e popolano, gli rispondo
Giannino ’o scarparo; a questo punto un notaio dotto e ortodosso avrebbe
trascritto la mia identità in latino con Iohannes Calzolarius mentre un
notaio emancipato con Iohannes Scarparo. Altro esempio piemontese: la
voce dialettale calié, indicante il mestiere di calzolaio, era resa con Cali-
garius per il notaio latinista e con Caglieris per il notaio progressista. Per
semplificare, alcuni redattori traducevano totalmente (o in parte) i secon-
di nomi, altri si limitavano a riprodurre (o magari adattare) la parola
volgare, anche perché si verificava il progressivo arretramento del latino
in favore del dialetto toscano assurto a lingua nazionale. Quindi nei
documenti scritti non si frapponevano solo i condizionamenti imposti
dalla tipologia della fonte, dalla sensibilità del suo redattore e dall’inci-
denza del contesto ma anche, e soprattutto, dalla mediazione costituita
dalla traduzione linguistica. Le persone parlavano in italiano (o meglio
nei vari dialetti volgari) ma i documenti erano trascritti in latino per cui
i redattori tendevano a riportare i prenomi nella forma latina universal-
mente nota. Infatti, nonostante le diverse pronunce dialettali del nome
Giovanni (i toscani Gianni, i settentrionali Zanni e i meridionali Ianni) ed
anche del nome Domenico (che diventa Menico, Meni, Mengo, Beco, tutte
variazioni che a loro volta sono all’origine di cognomi), i redattori soli-
tamente li registravano nell’unica forma latina Iohannes e Dominicus. Ma
quando questi nomi di battesimo venivano citati dal comparente come
il nome del padre, influenzato dai vezzeggiativi e dal dialetto, allora la
trascrizione ufficiale risentiva della pronuncia dialettale; tale pratica ha
dato vita agli innumerevoli cognomi regionali legati ai nomi di battesimo
come, in particolare per il meridione: Iannelli, Iannini, Pascale, Mini-
92 chiello, D’Antuono e così via. Quindi gli ipocoristici (cioè le variazioni sul
Pianta a volo d’uccello tema) hanno contribuito ad aumentare la produzione di cognomi rispet-
della città di Napoli
(xv secolo) to ad un ristretto numero di basi.
I primi furono gli aristocratici

Per la grande nobiltà i cognomi dal XIV secolo, pur se già esistenti ma
non ancora considerati come l’elemento fondante dell’identità delle
persone, risultavano immancabili in tutti quei documenti, lettere o
registrazioni ai quali era riconosciuta una valenza politica; ad esempio,
nei provvedimenti di un re verso un nobile, nelle epigrafi celebrative e
funerarie oppure nella redazione degli statuti comunali dove il cognome
continuava a perpetuare la memoria e ad affermare la solidarietà fra
un determinato gruppo di parenti. In tutti questi atti pubblici si sareb-
be richiesta un’identificazione personale molto accurata (con nome di
battesimo e l’aggiunta di altre qualificazioni) a dimostrazione che per
le famiglie nobili il cognome aveva una funzione non tanto identificato-
ria, quanto autocelebrativa e, soprattutto, politica come strumento atto
a definire ambiti di potere e ad ostentare l’orgoglio della stirpe al pari
degli stemmi di famiglia. Invece gli atti scritti legati ad accordi privati 93
di natura patrimoniale, come le divisioni ereditarie di famiglie aristo-
cratiche molto note, avrebbero fatto avvertire l’indicazione del cognome
come superflua. Comunque anche se c’era l’assenza di un cognome in un
documento, ciò non sempre implicava la sua inesistenza nella realtà.

Dalla struttura e dalle dinamiche della società medievale provengono


le spinte alla formazione dei cognomi; innanzitutto quelle della nobil-
tà rurale per ovvie ragioni di trasmissione del patrimonio nonché per
i privilegi materiali e immateriali dei feudi da cui solevano prendere
il cognome. Dal XII secolo l’aristocrazia feudale fece seguire al nome
di battesimo il nome geografico del possesso feudale, più prestigioso e
durevole del patronimico dell’Alto Medioevo, perché rappresentava un
esplicito riferimento al centro del potere. Così facendo avevano modo di
richiamare l’ascendenza, di identificare la famiglia di appartenenza e
trasmettere diritti per eredità; questa prassi fu una semplice consuetudi-
ne prima di produrre un titolo identificativo.

In generale questa prassi fu adottata per la necessità di eliminare le


omonimie e rendere più funzionale l’organizzazione feudale al suo in-
terno. Pertanto questo lungo periodo registrò la grande frequenza del si-
stema nome + nome del luogo, a scapito dei nomi unici e dei nomina paterna.
L’opzione geografica fu determinata anche da più profonde e complesse
94
miniatura su pergamena motivazioni che progredivano di pari passo col sistema feudale e con le
di Jean Fouquet “Omaggio
di Eduardo I a Filippo il strutture parentali; la nuova percezione delle strutture familiari come
Bello” (1455 circa)
il lignaggio, cioè la nuova coscienza genealogica che serbava una memo-
ria coerente degli antenati nella discendenza orientata in linea retta,
assieme alla primogenitura rappresentavano un grande valore simbolico
da esplicitare. Tutto ciò ebbe notevoli influenze per la fissazione dei co-
gnomi proprio per la grande proliferazione dei lignaggi contraddistinti
dal carattere agnatico che teneva conto solo dei figli maschi.

Questi fenomeni segnano nell’antroponimia nobiliare una svolta fon-


damentale: in quei contesti territoriali e sociali dove si salvaguardava
l’unità dell’asse ereditario, i nomi ed i cognomi delle famiglie nobili non
subirono profonde modificazioni; al contrario, laddove si procedeva alla
divisione dei possedimenti nacquero, in seno ad una stessa famiglia,
nuovi cognomi, cognomi doppi o tripli! Per esempio, nel dividere i beni
paterni, quattro fratelli adottarono, oltre a ereditare quello del padre, 95
quattro nuovi cognomi, alcuni dei quali derivanti dal rispettivo feudo
avuto in eredità; i figli di Giovanni Caracciolo, vissuto nel XII secolo,
danno vita ai quattro rami dei Caracciolo Rossi, Caracciolo di Canella,
Caracciolo di Capua, Caracciolo Carafa. Ci sarà poi un cambiamento di
impostazione del cognome perché la classe dei nobili individuerà nel
plurale il modo migliore per indicare gli appartenenti al clan familiare;
ad esempio, l’originaria forma de Grifo sarà sostituita con la forma plura-
le latina de Griffis, esemplificata poi nel cognome italiano Griffi.

Anche se nelle campagne il nome unico individuale resistette più a lungo,


tuttavia anche i contadini registrarono interesse a vedere riconosciuto
il legame fra una generazione e l’altra ma anche quella di riconoscersi
e distinguersi all’interno di una comunità rurale; non ultima anche
l’esigenza di imitare le pratiche antroponomastiche per cui trasmettere il
proprio cognome divenne così una questione di prestigio. Chi non aveva
discendenti maschi tentava a volte di assicurare la sopravvivenza del
proprio cognome convincendo un parente in linea collaterale, come un
nipote e un cugino, ad adottarlo. Quindi, in generale, la maggior parte
delle persone, indipendentemente dal ceto sociale di appartenenza,
ambiva ad un proprio cognome ereditario che gli consentiva di identifi-
care in modo univoco la famiglia, stabiliva un legame con gli antenati e
preservava l’identità del soggetto nel tempo.
La diffusione in Italia

Oltre alle differenze sociali e politiche, l’Italia Settentrionale e l’Italia


Centrale erano riconoscibili per le tipicità del sistema antroponimico,
maturate con evoluzioni differenti. Della prima facevano parte Lombar-
dia, Veneto, Emilia, Liguria e Piemonte; della seconda Toscana, Marche,
Umbria e Lazio. A differenziare le due aree sono stati sia i tempi di
affermazione del nome doppio sia, soprattutto, le forme e le caratteristiche
assunte dal secondo elemento fino a quando si affermò definitivamente.

Solamente nell’Italia Settentrionale la sua trasformazione in nome di


famiglia fu un fenomeno significativo tra Alto e Basso Medioevo; qui il
superamento del nome unico fu precoce perché già nel secolo XI, a partire
dalle aristocrazie che furono le prime ad impiegarlo, il cognomen si diffu-
se dapprima in ambito urbano, poi negli insediamenti rurali maggiori e,
96 infine, anche nelle campagne. Non ignorando il patronimico, si comin-
ciavano ad elaborare in abbondanza altre forme di cognome derivandolo
dal mestiere, dal soprannome e, soprattutto, dal toponimo.

Nell’Italia Centrale, invece, era evidente la lentezza e la gradualità del


passaggio al nome doppio in favore della diffusione di nomina paterna; in
queste regioni la trasformazione si risolse per lo più nella sostituzione di
forme ellittiche del tipo Iohannes filius (quondam) Guidi con forme del tipo
Iohannes Guidi. Qualche linguista afferma che possa trattarsi solo di una
semplificazione notarile dovuta ad una velocizzazione delle pratiche scrit-
torie, priva di un reale riscontro nelle pratiche onomastiche quotidiane.

La spiegazione della contrapposizione tra il modello onomastico dell’I-


talia Settentrionale e quello dell’Italia Centrale è legato al fatto che, nel
primo caso, le famiglie avevano sviluppato poteri signorili di natura
territoriale e basavano, perciò, la propria influenza sul controllo di una
località (da cui spesso prendevano nome) con l’affermazione di forme
cognominali a base toponimica; almeno in città e fra i ceti eminenti, qui
il secondo elemento era un vero e proprio cognome, ereditabile e fisso.

Nel secondo caso, la diversa forma di gestione del territorio nell’Italia


Centrale spiega il ruolo marginale dei toponimici; la scelta quasi esclu-
siva di nomina paterna, come secondo elemento del nome doppio, tendeva
a generare ambiguità tra il patronimico e il cognome tanto da rallen-
tarne la fissazione. Ad esempio, alla morte di Petrus Alberti, se suo figlio
di nome Iohannes avesse dovuto acquistare un terreno, il notaio non lo
avrebbe identificato con Iohannes Alberti (cioè con il cognome del padre
come faremmo noi oggi) ma con Iohannes Petrus (cioè il patronimico
legato al nome del padre). Per la verità erano anche diffuse catene a tre, o
anche più, elementi come per Donatello la cui intera denominazione era
Donato di Niccolò di Betto Bardi mentre quella di Masaccio era Tommaso di
ser (signore) Giovanni di Mone Cassai. Il terzo elemento non era un cogno-
me ma semplicemente l’ultimo elemento di una catena di patronimici
che mutavano di generazione in generazione.

Nell’Italia Centrale del XIII secolo all’aumento delle possibilità di omo-


La Provincia di Napoli nimie e alla riduzione del nome unico non si rispose generalmente crean-
nella “Galleria delle
carte geografiche” di do dei cognomi ma, piuttosto, passando da uno a due (o più) patronimici;
Ignazio Danti (xvi secolo) ci fu la diffusa abitudine di affiancare al nome di battesimo quello del 97
conservata nei Musei
Vaticani di Roma padre o della madre al genitivo (con o senza le preposizioni de e di).
Ad esempio, il vero nome di Cimabue era Bencivieni di Pepo, così come
era un patronimico la denominazione estesa di Giotto di Bondone. An-
che Dante, Petrarca e Boccaccio sono diventati per noi celebri con un
cognome che al loro tempo era, in realtà, semplicemente il nome pater-
no; Dante (sincope del vero nome di battesimo Durante, che diverrà un
patronimico molto diffuso in tutta Italia) derivava il cognome dal nome
del padre Alighiero di Bellincione ma tale appellativo ebbe nel corso
della sua vita diverse scritture: con il de e l’ablativo come in De Allagheriis
oppure con il genitivo singolare con l’uscita in ii come in Dantem Alegerii
de Florentia. Anche l’aretino Francesco era il figlio del notaio Petracco,
latinizzato in Petrarca. Poi Giovanni Boccaccio, nato a Certaldo (Firenze),
era figlio di Boccaccio di Chiellino per cui, all’epoca, era chiamato Johan-
nes quodam Bocchacci de Certaldo cioè Giovanni (figlio) del fu Boccaccio da
Certaldo; egli stesso nel 1366 si firmerà con Giovanni di Boccaccio. Mi-
chelangelo raramente veniva associato al suo cognome perché, in realtà,
98 l’artista ne aveva due: Buonarroti ed anche Simone. Il tutto partiva dal suo
bisnonno, cioè Buonarrota di Simone; il padre di Michelangelo, invece,
si chiamava Ludovico di Leonardo di Buonarrota. L’artista, assieme i
suoi quattro fratelli, si cognominò indifferentemente Buonarroti o Simone
oppure con entrambi, spesso alternati durante la sua vita.
La lista della spesa che
Michelangelo Buonarroti
disegnò affinché il suo
servo analfabeta capisse
cosa comprare (1518)
© wikipedia
Particolare della
“Pietà” di Michelangelo
Buonarroti (1497 circa)
conservata nella Basilica
di San Pietro di Roma

99

© wikipedia
Infatti nel 1497, scrivendo al fratello Gismondo, si firmava come Buo-
narroto di Ludovicho Bonarroti; lo stesso fratello nel 1507, in risposta ad
altre lettere, lo chiamava dapprima Buonarotto Simoni, poi Michelagniolo
di Lodovico Simoni ed anche Michelagniolo di Lodovicho di Buonaroto. In una
lettera del 1532 compare come Bonniroti; firmerà la Pietà, il suo capolavo-
ro in marmo bianco di Carrara, in latino con Michael A(n)gelus Bonarotus
Florent(inus) faciebat cioè lo fece il fiorentino Michelangelo Buonarroti.

Quanto alle cause del graduale riallineamento, disteso tra Basso Medio-
evo ed Età Moderna, del sistema onomastico dell’Italia Centrale a quello
dell’Italia del Nord, si suggeriscono due principali fattori che stimolaro-
no il processo di cognominazione. Innanzitutto la gestione in comune di
importanti beni immobili come case e torri urbane, complessi signorili,
patronati ecclesiastici; le famiglie contadine si legarono alle piccole do-
tazioni fondiarie in modo più stabile acquisendone la proprietà.

Il fenomeno si manifestò in relazione al possesso dei mansi ereditari;


così nel gruppo dei contadini dipendenti comparvero cognomi fin dal
XII secolo per designare gruppi familiari, più o meno allargati, titolari di
determinati mansi. In tutti questi casi, il passaggio da una generazione
all’altra di un patrimonio e la sua gestione in comune, mantennero viva
la procedura per cui i contitolari costituivano un gruppo familiare il cui
cognome era la parte più importante; quindi si rafforzò la percezione di
far parte di un gruppo identificato dalla stessa residenza e dalla trasmis-
sione ereditaria dei beni che, oltre tutto, avveniva per sola linea maschile.

Il secondo fattore, ancor più importante nella crescita della diffusione


dei cognomi, fu quello politico-istituzionale. In ambito comunale le
grandi famiglie aristocratiche si disputavano il primato in un clima mol-
to vicino a quello delle lotte feudali tanto è vero che la nobiltà inurbata
aveva dovuto sostenere le rivendicazioni della borghesia, sempre più
potente e intenzionata ad assumere il controllo della vita politica.

Il tentativo di affermare le rivendicazioni della borghesia dei mestieri


100 rispetto alle famiglie aristocratiche si esplicitò nello sforzo delle magi-
strature di controllare la prepotenza dei nobili che volevano grandeg-
giare (da cui la parola magnati); praticamente furono emanate le leggi
antimagnatizie che impedivano l’esercizio dei pubblici uffici a tutte le fa-
miglie di antico lignaggio attraverso il controllo delle loro parentele con
l’emanazione delle liste dei magnati e la comparsa dei divieti di elezione
contemporanea dei consanguinei nei diversi consigli cittadini. In verità
tali leggi potevano escluderli dalle cariche pubbliche o includerli con
grandi condizionamenti; una di queste leggi compromissorie imponeva
Domenico di Michelino
“La Divina Commedia
illumina Firenze” (1465)
conservato nel Duomo di
Firenze
© wikipedia
loro di farsi di popolo, cioè rinunciare al proprio cognome come simbolo
riconosciuto e ostentato della loro vita precedente di aristocratici. Nel
1349 a Firenze una commissione di cittadini ebbe il compito di esami-
nare le richieste di coloro che intendevano essere riammessi al regime
di popolo e di modificare i loro cognomi cancellando ogni allusione al
passato; nella maggior parte dei casi furono colpiti i cognomi toponimici
poiché potevano ricordare il prestigio di un territorio e, al loro posto,
furono attribuiti innocui cognomi patronimici. Quindi, tale gestione del
potere costituì un importante incentivo all’adozione, alla fissazione e al
crescente uso di nuovi cognomi nella documentazione notarile tanto da
diventare l’elemento fondante dell’identità dell’individuo.

E nel Sud Italia? L’avvento del cognome sembra abbia seguito una tempi-
stica più in linea con quella riscontrata al Nord. Nell’Italia meridionale
il sistema feudo-vassallatico raggiunse nel Basso Medioevo il suo mas-
simo livello di strutturazione tanto da contrastare fortemente l’emergere 101
delle autonomie cittadine; con il Catalogus Baronum, redatto verso la metà
del XII secolo dai Normanni all’indomani della conquista dell’Italia me-
ridionale, si elencavano tutti i vassalli (conti, baroni e cavalieri), i relativi
possedimenti nonché i servigi che dovevano al sovrano. Nel Catalogus
è citato il primo feudatario dell’universitas di Castellammare di cui si
ha notizia, Jacobo Guarna, fratello dell’arcidiacono salernitano Roberto
anche se altre fonti riportano Alfano de Castello Maris dal 1140 al 1185.

Le terre del sud Italia nel IX e X secolo erano possedute da vari prìncipi
longobardi, divisi nei tre principati di Benevento, Salerno e Capua; tra
l’XI e il XII secolo, a poco a poco, queste si unirono sotto i prìncipi nor-
manni che ne possedettero alcune, prima con titolo di Conte e di Duca, e
poi tutte nel regno stabilitosi in Sicilia. Il processo di originazione dei
cognomi è iniziato nell’XI secolo proprio sotto i re normanni perché fu-
rono nominati tanti ufficiali della Corona e della Corte, tanti ministri di
giustizia e di governo per tutte le Province, tanti uomini d’arme provvisti
di feudi. Queste operazioni di corte resero nobili molte persone (conti,
duchi, capitani, militi, fedeli, vassalli) che, per distinguersi dall’altre di
basso lignaggio, cominciarono ad usare, oltre al nome di battesimo, qual-
che nome aggiunto derivato dai titoli, i feudi, dalla patria, dai padri; i loro
figli avevano tutto l’interesse a perpetuare il cognome dei padri tanto
che nelle famiglie il cognome divenne gentilizio e perpetuo.
Il ponte di Rialto di La precocità di Venezia e del Piemonte
venezia (costruito in
legno come ponte leva-
toio) tratto dal quadro
La cristallizzazione di questi vari nomi aggiunti in cognomi fu la conse-
di Vittore Carpaccio “Il
miracolo della reliquia guenza dello sviluppo dei Comuni; non fu un fenomeno puntuale perché
della Santa Croce” (1494)
conservato nelle Gallerie avvenuto in tempi diversi secondo le varie regioni. È accertato che sia
dell’Accademia di Venezia avvenuto prima nelle città dell’Italia settentrionale; tra le prime zone a
sperimentare l’uso del cognome ci furono Venezia e il Piemonte.

Il primo caso vide la precoce Venezia perché nell’impero di Bisanzio fu


la protagonista e la testimone tenace della conservazione della polino-
mia degli antichi romani; poi, il suo isolamento lagunare le consentì di
tenere alla larga gli invasori germanici (e quindi la diffusione dei loro
tipici nomi) e di aver evitato le guerre civili. Tutto ciò, assieme allo scarso
avvicendamento del potere nell’arco di un millennio, grazie al governo di
una aristocrazia che, di generazione in generazione, seppe mantenerlo
102 con le stesse famiglie. Chiaramente quest’analisi storico-politica non
poteva non riflettersi anche sul campo dell’onomastica; infatti in un do-
cumento dell’819 dC, molto prima rispetto al resto dell’Italia longobarda,
sono trascritte sei persone con due nomi ciascuno: Leonianus Talonicus,
Savinus Talonicus, Stephanus Talonicus, Bonus Clementius, Agnellus
Clentusius, Georgius Catuni. Questi secondi nomi possono essere già con-
siderati veri e propri cognomi perché fissi e ereditari. Prassi confermata
anche nel 1090 perché in un documento c’è la citazione di tantissimi
veneziani, tutti con il doppio nome come, ad esempio, Johannes Gradoni-
co, Petrus Contareni, Einricus Ursoiulo, Petrus Mauroceni, Petrus Benbo,
Marcus Maripedro, Johannes Fusscari, Johannes Justinianus, Dominicus
Quirino, Petrus Venerio.

I documenti all’epoca erano redatti in latino e, pertanto, era fondamen-


tale il caso grammaticale per capirne il significato. Sorprende, quindi,
il caso veneziano per l’evidente l’uso dell’ablativo con la desinenza in
–o per i secondi nomi; era una testimonianza fondamentale dell’in-
variabilità della parola, proprio come è invariabile il cognome per noi
contemporanei. Ciò poteva derivare dall’influsso del volgare oppure dal
fatto di sottintendere la preposizione de che, in latino, reggeva proprio
l’ablativo per denotare la provenienza da un gruppo familiare, funzione
fondamentale del nascente cognome. Addirittura sono comparse nel XIII
secolo denominazioni con formula trimembre, diffusa in ogni strato della
103
popolazione, composta da nome, cognome e soprannome; non solo il co-
gnome ma anche il soprannome diventerà ereditario dando un’ulteriore
distinzione a famiglie dallo stesso cognome. Una situazione onomastica
che sarà in anticipo di almeno due secoli rispetto al resto d’Italia, dovuta
ad una latinità tenacemente conservata all’ombra imperiale di Bisanzio.

Il secondo caso risulta particolmente significativo perché si riferisce alla


campagna e non alla città, dove è più naturale che le esigenze del com-
mercio favoriscano un sistema onomastico più certo. La complessità e
vivacità della vita quotidiana nelle città, particolarmente nel suo aspetto
economico e sociale (con atti notarili, registri parrocchiali, rilevazioni
fiscali, atti pubblici), pretendeva nuovi strumenti giuridici più adeguati e
più efficaci; anche se nelle campagne non vi era bisogno di segni di rico-
noscimento particolari, in Piemonte nel XIII secolo l’evoluzione dell’an-
troponimia si era spinta un po’ più in là. Accanto al sistema a due elementi
104 che altrove comportava la larga prevalenza delle forme composte da de +
ablativo, nel mondo contadino era già diffuso il sistema cognominale con
nome e cognome; quest’ultimo si presentava come un sostantivo sempli-
ce (Petrus Gallus, Iohannes Rava), declinato insieme al nome di battesimo.
Questi sostantivi, usati al nominativo (e non al genitivo o ablativo), indi-
cavano non più e non solo le singole persone ma, piuttosto, un gruppo
familiare e si trasmetteva, inalterato nella grafia, ai discendenti come,
ad esempio: Iacobus Borgna e Petrinus Borgna eius filius (Giacomo Borgna e
suo figlio Pietro Borgna) oppure Obertus Collus e Oddinus Collus eius frater
(Oberto Collo e suo fratello Oddino Collo).

La precocità del cognome nel Piemonte si relazionava al sistema eco-


nomico dove non esisteva la mezzadria; il possesso della terra si basava
sull’enfiteusi e la gestione risultava indivisa. Il possesso di un fondo
o l’obbligo di una rendita non erano attribuiti a un individuo ma a un
gruppo familiare; il soggetto economico e giuridico, titolare di diritti e di
doveri, era proprio la famiglia e non l’individuo. In questa situazione si
era affermata la tendenza a identificare ciascuna famiglia con un nome
fisso. Qui nel XIII secolo la diffusione e la stabilizzazione del cogno-
me apparvero, in conclusione, il frutto di una spinta dal basso: era la
comunità contadina stessa che tendeva a strutturarsi in gruppi familiari
duraturi nel tempo, detentori di un possesso fondiario ereditario, spesso
indiviso, e identificati da uno stesso cognome.
Dai comuni alle signorie

In Italia il fenomeno comunale andò esaurendosi nella prima metà


del XIV secolo con la modificazione degli equilibri politici interni, con
l’affermazione sociale di nuovi ceti e con la sperimentazione di nuo-
ve esperienze di governo. Alla fine del XIII secolo i Comuni dell’Italia
centro-settentrionale erano ormai ingovernabili per le lotte sempre più
violente tra le varie fazioni politiche che finirono col logorare progressi-
vamente la tenuta delle antiche magistrature comunali: quando pre-
valeva una parte, gli esponenti dell’altra venivano esiliati e i loro beni
confiscati, come accadde a Dante Alighieri che dovette peregrinare per
quasi vent’anni di corte in corte, per poi morire lontano dalla sua città.

Fu così che molte città si consegnarono a un diverso sistema di governo e


cioè la Signoria. A proclamarsi Signore di città era qualche volta il podestà
stesso, altre volte il Capitano del popolo cioè un magistrato che di solito 105
rappresentava i borghesi arricchiti; talora a diventare signore fu il Capo
della milizia cioè del piccolo esercito comunale. Quindi diventava Signore
chi riusciva a prevalere per le sue doti politiche e militari con il compito
di mediare fra le parti e garantire la pace. Le Signorie nacquero insomma
dentro i Comuni; i cittadini pensavano che un uomo forte potesse giovare
al bene di tutti. La crisi dei Comuni divenne irreversibile proprio quando
il nuovo Signore, allo scopo di rendere più stabile il suo potere, ottenne
dall’imperatore o dal Papa un titolo nobiliare diventando così vicario
imperiale o apostolico, spesso col titolo di duca; il Signore fu così investi-
to dall’alto di un potere enorme che gli diede il diritto di trasmetterlo per
via ereditaria ai membri della propria famiglia, di fondare una dinastia
e, soprattutto, di rendersi indipendente dalla volontà del popolo.

Presero così forma i principati, vaste realtà territoriali che intraprese-


ro una politica di espansione militare sottomettendo le città vicine e
cominciando a organizzarsi come piccoli regni. Le principali signorie
della penisola erano ubicate al centro-nord d’Italia: Milano, Ferrara,
Verona, Mantova, Rimini, Urbino. Altre importanti città come Firenze,
Ritratto di Piero della Genova e Venezia, rimasero prive di una signoria individuale anche se,
Francesca del signore di
Urbino Federico di Mon- formalmente Repubbliche, rette da un’oligarchia di famiglie potenti. Nel
tefeltro (1467) conservato complesso, la situazione della nostra penisola vide una separazione
nella Galleria degli
Uffizi di Firenze del modello politico. Nel centro-nord dominavano le città, patria della
borghesia, dove si imposero le signorie o resistevano le repubbliche di
stampo comunale; comunque, il perno della vita cittadina erano i bor-
ghesi con le loro attività: commerci, artigianato, piccola industria. Il sud,
invece, restò estraneo all’esperienza dei Comuni e delle Signorie perché
continuava ad essere dominato da un sistema di governo monarchico
e da un’organizzazione feudale; infatti l’intera regione era nelle mani
angioine mentre solo la Sicilia era sotto il controllo aragonese.

Alla fine di un lungo periodo di guerre, nel 1442 furono gli aragonesi,
con Alfonso V, ad impadronirsi del regno di Napoli aggiungendolo alla
Sicilia sulla quale governavano dal 1302. Gli argonesi imposero al Sud
un governo di sfruttamento: le manifatture, i commerci e le banche di-
vennero di proprietà spagnola e tutti i domini italiani dovettero fornire
i prodotti agricoli. La presenza di questa forte autorità centrale, assieme
ai baroni proprietari dei latifondi, impedì in tutto il Sud lo sviluppo del
106 movimento comunale: le città erano governate dai funzionari del re e i
cittadini non ebbero mai voce in capitolo nella gestione del potere.

Nella scala sociale del Basso Medioevo al di sotto dei nobili, per i quali
il cognome diventò un elemento stabile e trasmissibile dell’onomastica
personale, esistevano famiglie benestanti (come prestatori di denaro,
commercianti, artigiani, piccoli e medi proprietari, amministratori pub-
blici) che cominciarono a rivendicare emancipazioni di ogni sorta, tra
cui quella del prestigio familiare legato proprio al cognome.

Il cognome iniziò a diventare tale (così come lo conosciamo oggigior-


no) quando diventò indeclinabile restando uguale a se stesso anche, e
soprattutto, in latino a prescindere dal ruolo che svolgeva nella frase. Un
esempio del 1356 (tratto dal libro di Roberto Bizzocchi, I cognomi degli
Italiani, Laterza, Bari, 2014) del notaio Susinello Marino di Clodia
Minor, l’attuale Sottomarina di Chioggia, che registrò una transazione
legata ad un passaggio di proprietà di imbarcazioni: Caninus Donato
(cioè Giannino Donato, nel caso nominativo) filius quondam Adde Donato
(figlio del fu Adamo Donato, nel caso genitivo) paga del denaro a suo
fratello Anbrosio Donato (Ambrosio Donato, nel caso dativo) filius quondam
suprascripti Adde Donato (figlio del suddetto fu Adamo Donato, nel caso
genitivo). Questo cognome Donato può considerarsi una primitiva forma
di cognome perché si ripropone invariato anche nella versione latina
dove il protagonista si sarebbe dovuto nominare Caninus Donatus (e non
Donato) mentre il padre Adde Donati (e non Donato). In generale l’origi-
nazione del cognome è strettamente legato alle reali pratiche onoma-
stiche del passato, ai modi con cui le persone si chiamavano ed erano
chiamate nell’esperienza quotidiana del vivere e del parlare. E quello
che noi contemporanei conosciamo è dovuto all’identificazione di una o
più persone, trascritta a mano su carta per un qualche motivo nelle varie
circostanze di una vita; ma questi nomi scritti non ci svelano gli altri
modi possibili con cui quelle persone sono state chiamate in tutti gli
altri contesti e momenti della loro vita.

Noi contemporanei siamo abituati a vedere immutate le nostre generalità:


nell’atto di nascita, sul codice fiscale, sul libretto di proprietà dell’auto-
mobile, sul contratto di vendita della casa, sul verbale di contravvenzio-
ne. Nel Basso Medioevo e, addirittura fino al XVIII secolo, non era così
perché l’immutabilità non era un dato certo. Una stessa persona poteva 107
Francisco Javier Amérigo
“Il sacco di Roma” (1887), essere denominata in modo diverso a seconda del contesto, dell’atto giu-
ispirato alle vicende del ridico, del redattore del documento, della lingua parlata ed altro. Mentre
1527, conservato nel Mu-
seo del Prado di Madrid i nobili acquisivano ormai dovunque i loro cognomi, per la massa della
popolazione si riproponevano, a grandi linee, le stesse fonti di origi-
nazione dei cognomi dell’aristocrazia e della borghesia emergente; in
ordine sparso, nei fuochi delle comunità si utilizzava il patronimico o il
matronimico (con il genitivo o con il de + ablativo), la provenienza geogra-
fica, il mestiere svolto o il soprannome.

La peste che imperversò in quasi tutta l’Europa nella metà del XIV
secolo, sterminò una quota enorme della popolazione; questo fattore
contribuì decisamente alla scomparsa di molti cognomi preesistenti ed
anche alla riduzione dei processi di fissazione cognominale. Pertanto
la maggior parte di quelli che utilizziamo oggigiorno, al netto di errate
trascrizioni, risale ad almeno 600-700 anni fa! Una significativa quan-
tità di nuovi cognomi si inventerà (e si perpetuerà) nella prima metà del
XIX secolo allorquando le disposizioni napoleoniche obbligheranno gli
ufficiali giudiziari ad attribuire una nuova identità agli orfanelli.
108
I linguisti sono concordi nel ritenere che il periodo di fissazione dei
cognomi va dal Basso Medioevo all’Età Moderna, che per convenzio-
ne inizia con la scoperta dell’America nel 1492. Attorno alla metà del
Quattrocento si registrò la nascita dei primi veri Stati europei come la
Francia, la Spagna e l’Inghilterra; tali monarchie riuscirono ad unificare
il territorio nazionale imponendo la propria autorità a tutti i ceti sociali.
I grandi feudatari, le chiese locali, le città autonome furono sottomessi
al governo centrale e ridotti alla condizione di sudditi; in quest’opera di
accentramento politico, le monarchie reali si dotarono di nuovi poten-
ti strumenti di governo: dall’uso di personale politico specializzato
(funzionari e burocrati) alla creazione di eserciti personali permanenti
alle dirette dipendenze della corona, al sistematico prelievo fiscale che
manteneva la costosa macchina dello Stato.

Nella penisola italiana, invece, tra XIII e XIV secolo i Comuni ritrovaro-
no stabilità nella nuova forma della Signoria e, contemporaneamente, il
mosaico frantumato delle città-stato del Duecento venne riorganizzan-
dosi nei cinque stati regionali italiani, cioè quelli di Milano, Venezia,
Firenze, Napoli e Stato della Chiesa. Per la diffusione e la fissazione dei
cognomi questi nuovi scenari ebbero significative implicazioni con fat-
tori concomitanti: la migrazione entro e fuori dell’Europa, l’interscambio
tra diverse aree culturali, le nuove prassi religiose e burocratiche.
Il Concilio di Trento del XVI secolo

Alla fine del Medioevo tutti i nomi aggiunti iniziarono a fissarsi in modo
definitivo e per tutti i ceti sociali anche se queste denominazioni erano
molto spesso destinate ad un’esistenza controversa e provvisoria; non
erano più epiteti individuali ma si presentavano come cognomi della
discendenza diventando così un fatto ereditario.
Elia Naurizio “Il Cardina-
le Ercole Gonzaga presie-
de la seduta del Concilio
di Trento” (xvii secolo)
conservato nella chiesa
di Santa Maria Maggiore
di Trento

109

© wikipedia
Con le disposizioni del Concilio di Trento (1545-1563), il processo si ac-
centuò; imponendo la registrazione dei battesimi, dei matrimoni e delle
morti, la Chiesa Cattolica istituì di fatto il primo ufficio anagrafico della
popolazione, seppur per l’esigenza di evitare i matrimoni tra consan-
guinei. Alla fine del 1563, per risposta alle nuove dottrine protestanti di
Lutero, vennero prese delle decisioni che hanno avuto un significativo
ruolo nella fissazione dei cognomi italiani e che hanno rappresentato,
pertanto, uno spartiacque nella storia onomastica italiana. Tali disposi-
zioni stabilivano la trascrizione, in appositi registri, degli eventi reli-
giosi più importanti delle vite laiche e cioè il battesimo (e non la data di
nascita), la cresima, il matrimonio, il precetto pasquale della comunione,
la morte. Dopo mezzo secolo, nel 1614, un’altra disposizione ecclesiastica
previde che ad ogni Pasqua si redigesse lo Status animarum (Stato delle
anime), cioè una sorta di censimento che fotografava tutta la popola-
zione di un territorio comprendendo anche i bambini; nati per esigenze
religiose, questi registri sono preziosi per recuperare informazioni ana-
grafiche sull’identificazione delle persone e, in particolare, per i nomi,
cognomi, età, strutture familiari, parentele, mestieri, soprannomi.

Con lo Stato delle anime i componenti delle famiglie venivano registrati di


anno in anno con una denominazione stabile perché i parroci identifi-
cavano i propri fedeli con il prenome e il patronimico del capofamiglia.
In questo modo non si avvertì più la necessità di aggiungere ulteriori
elementi onomastici per identificare la persona e, di conseguenza, la
famiglia. Se le famiglie nobili potevano vantare un cognome di origine
antica, la maggior parte dei comuni mortali iniziò ad avere un cogno-
me soltanto a partire dalla metà del Cinquecento. Perché? Perché con i
decreti tridentini la burocrazia religiosa impose un cognome (fissandolo
sistematicamente per iscritto) ai neonati di ogni stato sociale, non solo
110 per i discendenti della nobiltà.

I tempi di attuazione furono lenti perché tali disposizioni risentivano


della rigidità o della flessibilità dei parroci incaricati; infatti occorse
circa mezzo secolo perché la cristianità si adeguasse alla normativa del
Concilio di Trento e basti pensare che a Castellammare di Stabia queste
registrazioni cominciarono soltanto nel 1575. Per procedere all’accer-
tamento delle cause che impedivano i matrimoni (uso che si aveva già
dalla fine del Trecento per evitare quello fra consanguinei), il Concilio
affermava anche la necessità dell’intervento sacramentale del parroco di
fronte al gran numero di coppie avviando, di fatto, la trasformazione del
contratto di tipo civile in quello religioso.

Ai neonati veniva attribuito il nome (con l’obbligo di battezzarli con il


nome di un santo) e da un patronimico, vale a dire l’indicazione del
nome paterno ma, talvolta, anche del nonno; tale patronimico avrebbe
dovuto essere trasmesso a tutti i discendenti diventando così il nostro
attuale cognome. Ad esempio, il cognome Coladonato deriva da Cola (ab-
breviazione di Nicola) e Donato; quindi potrebbe essere composto in ori-
gine dai due patronimici del padre e del nonno (cioè figlio di Cola, a sua
volta figlio di Donato). Un altro esempio: se Nicola avesse avuto un figlio
di nome Lorenzo, quest’ultimo sarebbe stato battezzato come Lorenzo di
Nicola, trascritto in latino con Laurentius Nicolai.
All’epoca tutti i documenti, tanto notarili quanto ecclesiastici, erano
redatti in latino; così il nostro Nicola, con tutta la sua prole, sarebbe
stato all’origine dei cognomi Nicolai, de Nicola o di Nicola a seconda che
avesse avuto più fortuna, col tempo e con le successive trascrizioni, la
versione latina o quella in volgare. Ma se Nicola avesse fatto un mestiere
particolare, se fosse stato originario di una certa città o avesse avuto un
certo soprannome, magari il parroco avrebbe potuto preferire indicarlo
rispettivamente come il fornaro, il fiorentino o il sordo dando così origi-
ne ai Fornari, ai Fiorentini e ai Sordi.

Anche se c’era l’obbligo della trascrizione scritta del nome e cognome


sui registri parrocchiali, la persona poteva essere chiamata (e registrata)
in modo diverso in un altro documento di vita civile come, ad esempio,
un contratto di compravendita; il tutto dipendeva dall’uso quotidiano e
dall’importanza del cognome nella vita sociale dell’epoca. Si consideri
che nella maggior parte dei casi i cittadini erano analfabeti che parlava- 111
no il dialetto e quindi era possibile una generalizzata dislessia tra il nome
pronunciato in famiglia, lo stesso nome detto in italiano e l’eventuale
nome ufficiale in latino presente nei registri religiosi o civili. Imponen-
do alle parrocchie dell’Italia intera l’obbligo di redigere tali registri, le
gerarchie ecclesiastiche hanno annotato i nomi ed i cognomi di genera-
zioni di padri e madri, di figli e figlie, di padrini e di compari.

Ciononostante il cognome non divenne il fulcro dell’identificazione


onomastica degli italiani; l’identità sociale di un uomo o di una donna
(la sua appartenenza a un gruppo, la sua provenienza da un luogo, la
sua reputazione entro un ambiente) continuò a pesare quanto la sua
identità individuale. Un esempio? Tra il XVI e il XVII secolo gli impu-
tati processati dall’Inquisizione di Napoli (tratto dal libro di Roberto
Bizzocchi, I cognomi degli Italiani, Laterza, Bari, 2014) vennero, per la
maggioranza di loro, trascritti nei registri del tribunale ecclesiastico con
nome e cognome mentre per altri si attribuirono designazioni assai poco
burocratiche, tratte dagli appellativi di vita sociale: Albenzia ai quartieri
spagnoli, Angela napoletana a Torre del Greco, Antonio sbirro del capitano
Palombara, Benedetto caporale della Gabella della Farina, Pasquale tessitore a
San Matteo dei Cocchieri, Andrea siciliano, Zeza calabrese, Donato delle parti
di Salerno, Camillo detto il santo, Francesca mammana, Giulia faccia cotta e
anche semplicemente Cecca, Carluccio, Minicuccio.
Quindi il Concilio di Trento non fece altro che estendere e burocratiz-
zare una prassi diffusa ma che già costituiva la regola in uso, ben oltre
le classi privilegiate. In seguito la Chiesa ha cercato di controllare e
uniformare tali trascrizioni imponendo regole di denominazione omo-
genee, indipendentemente dai luoghi, dalle persone alle quali vengono
applicate e dai parroci incaricati per le registrazioni; queste prescrizioni
tridentine puntavano a depersonalizzare i criteri di registrazione in modo
che la comprensione dei registri fosse possibile a tutti. Ciò perché i crite-
ri identificativi prima del Concilio erano piuttosto soggettivi, risentivano
in qualche misura della personalità del registrante che poteva interpre-
tare il suo ruolo in maniera più o meno aderente a quelle che erano le
intenzioni dell’istituzione che rappresentava; inoltre rispecchiavano ciò
che i parroci ritenevano necessario al riconoscimento di una persona
e l’utilizzazione del cognome era spesso legata al grado d’integrazione
della stessa persona nella comunità parrocchiale.
112
Per la verità il sacerdote non era un vero funzionario, capace cioè di
prendere le distanze dalla società e di farsi anonimo interprete delle isti-
tuzioni ma era, invece, una figura mediatrice ed espressione di una data
comunità all’interno dell’istituzione. Se per i nobili l’uso del cognome
poteva apparire scontato come elemento distintivo della propria repu-
tazione, altrettanto non si poteva dire per il resto del popolo per la cui
identificazione si continuava a ricorrere alle supplementari indicazioni
del patronimico, del luogo d’origine, del mestiere o del soprannome;
anche le donne, che erano poste in una condizione giuridica e sociale
inferiore, erano denominate in funzione della relazione di dipendenza
o familiarità in cui si trovavano. Perché queste prescrizioni omologanti?
Perché si voleva evitare che il parroco di un piccolo borgo, che conosceva
profondamente i propri fedeli, potesse identificarli in modo molto per-
sonale omettendo o aggiungendo degli elementi onomastici rispetto alla
formula tridentina del solo nome di battesimo + nome della famiglia.

Spesso la predilezione della denominazione popolare degli sposi, redatta


dai parroci nei libri dei matrimoni, denunciava proprio che questi nomi
erano sufficientemente e normalmente identificativi nell’esperienza rea-
le senza dover ricorrere a cognomi, o imporne; quindi la trascrizione nei
registri parrocchiali ha generato una marea di nuovi cognomi dovuti al
diverso grado di attenzione (e di istruzione) del prete redattore nel dare
più o meno peso al nome ufficiale rispetto a quello popolare. A dimostra-
zione che il sistema tridentino non era costantemente e scrupolosamente
applicato, una qualsiasi ricostruzione genealogica che dovesse risalire
proprio a quel periodo ci mostra un mondo poco affidabile, caratteriz-
zato da una persistente instabilità del cognome e da un’inattesa vitalità
delle designazioni alternative. In generale, la registrazione di un cogno-
me nelle trascrizioni civili o religiose ha sempre implicato una media-
zione, rappresentata dall’intervento (e dalla sensibilità) del redattore del
documento come il notaio, il parroco, l’ufficiale di stato civile; ma anche
dall’interessato stesso quando, più raramente, doveva scrivere di proprio
pugno il suo nome e cognome.

In ogni caso nei primi del Seicento, quando cioè il processo di intro-
Registrazioni di matri- duzione delle norme tridentine arrivò a maturazione, il processo di
moni (xvii secolo) nella
cattedrale di Castellam-
identificazione del singolo individuo mediante il cognome si estese a
mare di Stabia tutti i ceti della società. Infatti dal XVII secolo in poi, l’uso del cognome 113
è precisato in tutti i suoi risvolti sociali e giuridici; il collegamento fra
il cognome e la famiglia è ormai un fatto universalmente e definitiva-
mente acquisito. Quindi per il cognome si è decretata la sua immutabilità
potendo trasmetterlo in linea ereditaria maschile iure sanguinis; si è
affermato soprattutto perché ogni persona potesse essere identificabile
con certezza di fronte alle autorità pubbliche ed ecclesiastiche al fine di
garantire rigorose procedure sociali, civili (economiche, amministrative,
giuridiche, notarili) e religiose.

Presso l’Archivio Storico della Concattedrale di Castellammare di Stabia si


conservano i registri tridentini a partire dal 1575. Di seguito esempi di
trascrizione di atti battesimali stabiesi:
• A dì 30 de ottobro 1578 io dono Colantonio de Marino ho batticzata Pasca
Chaiesse figlia de Chimento Chaiesse.
• A dì 27 de luglio 1581 io donno Ferrante Coppula ho battizato Joan Iacomo
114 Scafarto figliolo de messer Nuccio Santo et sua matre Antonio Longobarda.
• A dì 13 de giugno 1597 io dono Salvatore Coppola ho baptizata Giulia figlia de
Gregorio Cuomo et de Pordentia Rapicano nata a lì 11 del sopradetto mese, la
tenuta Lucia Pica.
• A dì 19 de giugno 1599 è stato battizato da me donno Salvatore Coppola lo
figlio de Pompeo Cannavacciolo et de Giuditta Maresca et li ho posto nome Tito
Antonio nato a lì 16 del sopradetto mese, la mammana Lucia Pica.
Esempi di trascrizione di atti matrimoniali stabiesi:
• A dì 11 de febraro 1625 io don Gasparro de Marinis ha sollenizzato il matri-
monio tra Vicenzo d’Elia de Nocera et Isabella de Rosa de Castellammare.
• Lorenzo Fontanarosa della città di Tramonti ha contratto matrimonio con
Beatrice Cuomo della città di Castellammare di Stabia nella chiesa maggiore di
città sollennizato da me padre Thomaso Mosca il 5 agosto 1658.
• Tomase de Raffone della parrochia di Santo Matteo ha contratto matrimonio
et Lucretia di Falco suddita della Maggiore Chiesa di Castelamare de Stabbia
sollennizzato da me Gio. Battista Coppola curato in detta lì 6 di giugno 1649 in
casa della detta contraente.
• Nicola di Cosenza della Parochia di Santo Spirito di Quisisana ha contratto
matrimonio con Ventura Spignola di Giuseppe suddita di questa Maggiore Chie-
sa di Castell’amare di Stabia sollennizzato da me P. Marcho Mangrella canonico
e curato di questa Chiesa a lì 2 di febro mille e seicento ottantadue, posti testimo-
ni Domenico Celentano et Vincenzo di Somma, chierico Domenico Piedenegro
havendo fatta le solite pubblicazioni justa forma.
I cognomi nel Seicento

Oltre alle tradizionali fonti di formazione cognominale, a partire dal


Rinascimento se ne affermò un’altra legata alla filiazione professionale
da maestro ad allievo, un rapporto così importante da sostituirsi alla
stessa paternità genetica; ad esempio, il pittore fiorentino Piero di Cosimo
era così chiamato perché era figlio di un Lorenzo ma allievo di Cosimo
Rosselli. Questa prassi, assieme alla tipica precarietà dei cognomi del
Basso Medioevo, testimonia ancora una volta la scarsa essenzialità dei
cognomi degli italiani a partire dall’Età Moderna.

115

© wikipedia
Piero di Cosimo “Libera- Giunsero al loro apice la cultura dell’aristocrazia di sangue, l’esaltazione
zione di Andromeda” (1520
circa) conservato nella dell’antichità e lustro delle famiglie, l’esclusione dei non nobili dalle
Galleria degli Uffizi di
cariche pubbliche; ciò ebbe conseguenze anche sul piano onomastico.
Firenze
Infatti chi aveva ambizioni amministrative e aveva un cognome non
altisonante decideva opportunamente di cambiarlo con un altro dalle
risonanze prestigiose oppure chi godeva di una fortunata omonimia
manipolasse le carte per rivendicare presunti legami di sangue blu che
talvolta si ripete anche oggi quando le preposizioni Di e De si trasforma-
no in minuscole di e de per far credere discendenze nobiliari. A difesa del
cognome o dello stemma nobiliare sorsero delle commissioni incaricate
di controllare costantemente gli abusi. Spesso succedeva che il superstite,
Registro battesimale senza figli, di una famiglia nobiliare potesse adottare o nominare un
ordinato per nomi e
non per cognomi (xvii erede concedendogli il cognome (aggiungendolo al proprio) per perpe-
secolo) conservato
tuarne la memoria; tale procedura giustifica la presenza, ancor oggi, di
nella Cattedrale di
Castellammare di Stabia numerosi casati italiani costituiti da due cognomi.

In questo secolo lo sviluppo dei cognomi fu accompagnato dalla tra-


smissione ereditaria dei diritti di conduzione di appezzamenti di terre
e piccoli vigneti concessi, ad esempio, ai fittavoli dalle abbazie; queste
ultime, periodicamente, controllavano inequivocabilmente i debitori per
le pendenze contabili attraverso una corretta identificazione dei cogno-
mi. In altri casi, la partecipazione al godimento di beni collettivi per i
diritti di caccia in un bosco o per i diritti di pesca in una palude, veniva
attribuita ai capofamiglia storici ma anche ai discendenti, generazione
dopo generazione; pertanto si redigevano degli albi degli aventi diritto,
identificati per il fatto di portare un certo cognome. Di solito, dopo un
116 numero stabilito di anni c’era il rinnovo delle ripartizioni e quindi era
fondamentale il legame tra il diritto a partecipare e la discendenza da un
ceppo di cognome originario. Questa coerenza cognominale contribuì
fortemente alla sua stabilizzazione e perpetuazione allo scopo di non
perdere i diritti acquisiti dall’avo storico. In generale, quando le famiglie
davano scarso peso alla trasmissione del cognome è perché probabil-
mente mancavano proprietà e blasoni da far valere; quando c’era invece
un patrimonio da tramandare ai successori, allora al nome di famiglia si
è dato istintivamente più valore.

Nel XVII secolo la burocrazia civile ed i tribunali d’inquisizione ebbero


un ruolo determinante nella fissazione dei cognomi perché gli imputati
dovevano essere necessariamente registrati; chiaramente si hanno a
disposizione solo le fonti scritte e non quelle orali per cui non sapremo
mai come le persone si chiamavano nella vita quotidiana evidenziando
spessissimo una discrepanza tra il nome ufficiale scritto in un contrat-
to e quello pronunciato per strada per salutarsi, ad esempio. Siccome il
latino scritto restava la lingua ufficiale della burocrazia e l’italiano la
lingua parlata, nei diversi registri poteva riscontrarsi lo stesso nomina-
tivo nelle due lingue; tra le classi sociali meno abbienti regnava l’analfa-
betismo per cui se un popolano avesse dovuto firmare un atto pubblico,
avrebbe potuto firmare in modo diverso dalla sua registrazione ufficiale
scritta. Ad esempio, nella redazione in latino di un contratto di compra-
117
vendita alla menzione di Nicolaus Antonius Constantinus poteva corrispon-
dere la sua firma in calce Colantonio Costantino, con ovvie distonie. Nelle
trascrizioni periodiche di catasti o elenchi fiscali, il ruolo degli scrivani
era fondamentale; spesso essi annotavano la denominazione di base con
aggiunte o con correzioni generando, anche involontariamente, nuovi
cognomi nell’assecondare o promuovere la trasformazione di un topo-
nimico o patronimico in un cognome. Nei censimenti poteva accadere
che le persone venissero identificate non ancora con il cognome (come
ci aspetteremmo che sia) ma con il mestiere svolto poiché ai redattori
interessava informarsi sulle risorse economiche della città e sui mestieri
che vi erano svolti.

Ad esempio, nel 1670 i Provveditori della Sanità iniziarono un censimento


degli abitanti di Venezia (tratto dal libro di Roberto Bizzocchi, I co-
gnomi degli Italiani, Laterza, Bari, 2014); la rilevazione fu affidata al
118 sacerdote di ogni parrocchia coadiuvato da un nobile e da un cittadino
attraverso una scheda per ciascuno dei tre ordini della società venezia-
na: patrizi, cittadini, artefici (cioè gli artigiani). L’originalità di questo cen-
simento stava nel modo di identificare le persone secondo la loro condi-
zione sociale; se i nobili e i cittadini erano censiti col nome e cognome,
si raccomandava per tutti gli artigiani di sostituire il cognome con la
professione svolta (nelli artefici in loco del cognome si metterà l’esercitio).

In generale i criteri di identificazione dipendevano dalle finalità della


registrazione; in questo caso i Provveditori della Sanità erano motivati da
ragioni sanitarie, economiche e militari. Contare gli uomini significava
anticipare i bisogni, in particolari quelli frumentari e significava anche
valutare le risorse che potevano essere mobilitate per la difesa della Re-
pubblica di Venezia. Quindi, in generale, se gli artigiani erano designati
con il nome proprio seguito dalla professione, questo non significava che
non avessero un cognome ma solo che l’autorità incaricata della registra-
zione giudicava più utile sostituirla con il mestiere.

Tutto ciò porta a considerare il cognome non ancora il fulcro dell’identi-


ficazione onomastica delle persone; tanto è vero che sebbene i cognomi
fossero sempre più diffusi, negli indici e nelle liste le persone continua-
vano ad essere elencate in ordine alfabetico per nome di battesimo e non
per cognome. Questa prassi sarà abbandonata solo nel tardo XIX secolo!
I cognomi nel Settecento

Il filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham si occupò nel XVIII secolo


del modo di prevenire i crimini nella società vasta e complessa dove,
solitamente, i delinquenti sfuggivano alla giustizia grazie alla grande
facilità di confondersi in una indifferenziata moltitudine onomastica; il
riferimento era legato alle omonimie dei giovani ventenni iscritti negli
elenchi di reclutamento per la leva militare oppure alla difficoltà di
ricercare i disertori, i renitenti alla leva, i condannati, i fuggiaschi, i con-
dannati in contumacia e i contrabbandieri. Tali inconvenienti avrebbero
avuto ricadute negative sulle funzioni di controllo e di sorveglianza delle
Jeremy Bentham moderne istituzioni di polizia e militari.
(1748–1832)

Lo studioso affermava che la certezza della pena era strettamente legata


alla certezza della identificazione del presunto colpevole per cui auspi-
cava che ogni individuo avesse la sua propria distintiva denominazione 119
e che non prescindesse dall’accoppiata unica fatta dal nome di battesimo e
dall’immutabilità del cognome. Oltre alla mera repressione, per gli Stati del
Settecento era necessario conoscere e informarsi per governare meglio; il
riferimento è alle riforme dei fisco e ai nuovi catasti. Questa intenzione
fu attuata anche nell’ottica del giusnaturalismo, cioè l’atteggiamento po-
litico mirante ad affermare l’autorità della giurisdizione laica su quella
ecclesiastica; i regnanti dell’assolutismo illuminato emanarono, pertan-
to, alcune leggi per regolamentare e uniformare il modo in cui si gestiva
l’anagrafe parrocchiale. Pertanto le disposizioni di legge fornirono
modelli schematici entro cui inserire, tra le altre cose, il nome di battesimo
e il cognome; creando tali prassi di controllo anagrafico, si posero le basi
dello Stato moderno.

Nel XVIII secolo furono istituiti i primi rudimentali uffici di anagrafe


che iniziarono a registrare i cognomi; non di rado capitò che, nella tra-
scrizione anche dialettale, lettere e sillabe venissero storpiate dagli ana-
grafisti, il che spiegherebbe le numerose varianti d’uno stesso cognome.
Nell’Italia del Sud in epoca borbonica i cognomi esitevano ma erano
instabili e riformulabili all’occorrenza. Quando le autorità civili sentiro-
no la necessità di registrare presso i loro uffici le nascite, veniva spesso
apposto il prenome del padre come nome di famiglia; ciò spiega l’alto
numero di patronimici nell’Italia meridionale.
120
Silvester Scedrin “Fonta- Il ruolo del cognome si è ormai consolidato come elemento imprescin-
na grande di Castellam-
mare” (1820) conservato dibile dell’identificazione pubblica degli italiani; non è però possibile
nel Museo di Tyumen in parlare di cognomi in senso moderno almeno sino a quando la nascita
Russia
e l’affermazione di istituzioni e procedure amministrative non hanno
comportato e sancito per legge l’obbligo dell’immutabilità del cognome.

L’Illuminismo contribuì culturalmente alla diffusione di tali interventi


riformatori perché fu data più importanza all’individuo di fronte allo
Stato rispetto all’identificazione in quanto membri di una famiglia, di
una confraternita, di una corporazione così come succedeva nei secoli
precedenti. In questa ottica lo Stato necessitava conoscere con precisione
l’identità certa e qualsiasi atto compiuto da una persona, a garanzia reci-
proca. Nel Settecento (e nel passato in generale) per indicare l’indirizzo
della propria abitazione si usavano descrizioni poco oggettive utilizzan-
do luoghi generici come piazze, fontane, palazzi, parentele; nel Catasto
Onciario della nostra città nel 1753 è rilevata una sommaria indicazione 121
di luogo (…) possiede la casa, dove abita, nel luogo detto fuori la Fontana.

Fino alla Rivoluzione Francese gli indici nominativi allegati ai registri


notarili, parrocchiali e fiscali erano ordinati in base al nome proprio,
non a partire dal cognome salvo eccezioni molto rare. Nella seconda
metà del XVIII secolo il cognome cesserà di essere declinato per genere
e numero, cristallizzandosi nella sua forma; l’affermarsi generalizzato
dei cognomi non si traduce con la scomparsa dei qualificativi che ser-
vivano nel XVI secolo a designare le persone (nome del padre, origine,
professione, soprannome); restava comunque tra le persone l’esigenza di
assicurare una differenziazione ulteriore degli individui elencandone le
loro caratteristiche, quasi ad affermare che il cognome non potesse dire
tutto. Nel Settecento l’ondata liberale ed egualitaria della Rivoluzione
Francese coinvolse perfino il cognome. La prerogativa, tipica dei nobili
e delle classi elevate, di fregiarsi del cognome o addirittura di molti co-
gnomi (come per Camillo Benso Conte di Cavour) fu cancellata con un colpo
di spugna grazie ad un decreto del 1793; si stabilì che ogni cittadino può
chiamarsi come gli pare. Ma tale facoltà, per gli evidenti rischi di confusio-
ne e d’arbitrio sociale, fu presto revocata tanto è vero che una legge del
1803 sancí, al contrario, l’immutabilità dell’intera denominazione (nome
di battesimo + cognome) ma permise il cambiamento autorizzato per giusti
motivi, prevedendo anche l’eventuale opposizione di terzi.
Modulario con spazi I cognomi nell’Ottocento
preimpostati per nome e
cognome (1846) tratto dal
“Regolatore Amministra-
Se nel Settecento il cognome divenne immutabile ed ereditario ovunque,
tivo teorico e pratico”
in alcune regioni d’Italia si dovette attendere l’istituzione dell’anagrafe
comunale che, con l’Unità del 1861, cominciò a sostituire le anagrafi par-
rocchiali. Nei primi dell’Ottocento, con Napoleone in Italia, si procedeva
alla regolare identificazione degli individui con il prenome e il cognome ri-
cevuti all’atto di nascita; questa linea di governo fu esportata dai francesi
come continuazione della scia illuministica del secolo precedente.

La burocrazia francese usava con sistematicità la statistica come mezzo


di conoscenza e d’intervento politico nella convinzione di poter analiz-
zare la realtà sociale secondo schemi interpretativi preordinati e rigorosi.
La documentazione amministrativa dell’età napoleonica, importata in
Italia, vide l’abbondanza di tabelle, moduli, formulari, entro cui inserire
122 in modo guidato e uniforme tutti i singoli particolari; anche per l’ana-
grafe si registrò l’uso alla fissazione dei due elementi onomastici e, più
precisamente, prima il cognome e poi il nome di battesimo, così come
siamo abituati all’appello della scuola, nelle graduatorie per i concorsi
o nelle classifiche di sport individuale. Tutte disposizioni che resero il
cognome una parte fondamentale dell’identità delle persone.

Nel Regno di Napoli, pur senza la costituzione di un vero organismo di


anagrafe, fu imposta nel 1808 una sorta di carta di identità, detta carta di
ricognizione, obbligatoria per tutti i maschi sopra i 12 anni. In età napo-
leonica il riconoscimento delle persone si accompagnò alla determina-
zione del concetto di residenza, grazie alla denominazione di strade e alla
numerazione delle abitazioni (cosa che oggi diamo per scontato); quindi
non più nomi e indirizzi ballerini ma la residenza descritta in modo
univoco e il cognome stabilito con astratta fissità. Erano quindi informa-
zioni sulla persona capaci di essere riprodotte senza la mediazione di un
parroco o l’interpretazione soggettiva di un notaio.

La volontà razionalizzatrice delle burocrazie statali dell’Ottocento ridus-


se l’arbitrarietà precedente mediante i formulari a stampa, imprimendo
regolarità agli atti amministrativi. Nel 1813 Napoleone ordinò agli
italiani di assumere un cognome nel caso fossero sprovvisti; era prevista
una multa di 100 lire tanto da, addirittura, sottintendere un reato per chi
123
non lo avesse! Infatti prima del 1813 c’erano ancora in Italia persone che
non avevano un cognome univoco e fisso. Nei nuovi adempimenti napo-
leonici bisognava assumere come cognome uno dei tanti nomi aggiunti che
caratterizzavano l’identificazione individuata dai parroci negli Stati delle
anime; ad esempio, se nel registro battesimale una persona era nominata
Francesco di Giuseppe di Capua detto Grasso, nell’elenco dell’amministra-
zione napoleonica sarebbe potuta fissarsi con Francesco di Giuseppe o
Francesco di Capua o Francesco Grasso.

Di seguito alcuni stralci delle disposizioni: Gli abitanti del Regno d’Italia i
quali non hanno un cognome, o sia un nome di famiglia, devono entro tre mesi
prenderne uno e farne la dichiarazione avanti l’Ufficiale dello stato civile del
Comune in cui sono domiciliati. (…) I capifamiglia maschi sceglieranno il cogno-
me, che diverrà poi automaticamente quello di tutti i discendenti. In caso di più
maschi appartenenti alla stessa generazione senza un capo più anziano, il co-
124 gnome sarà scelto collettivamente, e in caso di mancato accordo sarà imposto dal
podestà o sindaco del comune. Non si potranno scegliere cognomi che suonino
nobiliari, in quanto corrispondenti a nomi di città, castelli, o luoghi di battaglie
famose. (…) I contravventori subiranno una multa di cento lire e un cognome im-
posto dal Podestà o Sindaco. Molte persone intravidero per questo obbligo
di legge un’occasione propizia per cambiare pagina della propria storia e
ridisegnare onomasticamente la propria identità familiare e sociale.

I cognomi inventati ex novo dopo il 1813 hanno avuto una sorte completa-
mente diversa da quelli originati a partire dal Basso Medioevo. Perché?
Perché sono stati inventati nel periodo della maturità della lingua italia-
na, non sottoposta al periodo di transizione dal latino, per cui tali nomi
sono arrivati a noi senza metamorfosi significative. Ci si riferisce alle pa-
role pescate dai vocabolari e dalla nomenclatura della cultura ottocen-
tesca, alcune delle quali per noi desuete come, ad esempio, Talamo, Tor-
nese, Panariello, Romito, Fabbricatore.

Invece in altri casi, come per le rivele (le dichiarazioni dei cittadini)
relative al censimento della città di Napoli e a quelli delle città della sua
provincia, si registravano disposizioni perentorie sulla situazione abita-
tiva e familiare degli intervistati; infatti si legge (…) in questa rivela dovrà
indicarsi la strada o vicolo ed il numero della casa, il piano e la qualità dell’ap-
partamento, il nome e il cognome, il genitore, il luogo di nascita e la condizione
dell’inquilino che è sloggiato, e la strada, numero e piano della nuova casa, in cui
quegli ha detta che passava ad abitare (…). Colpisce come ormai il nome e il
cognome fanno parte, in modo fisso e cogente, dell’identità dei cittadini
al pari del luogo e della data di nascita.

Nel 1834 in provincia di Teramo alcuni cittadini continuavano ad iden-


tificarsi ancora con il patronimico non fisso (tratto dal libro di Roberto
Bizzocchi, I cognomi degli Italiani, Laterza, Bari, 2014); cioè Giovanni
di Pasquale (con la preposizione minuscola perché era utilizzata proprio
per indicare il complemento di specificazione) aveva il figlio Antonio
che si chiamava Antonio di Giovanni e non Antonio di Pasquale. In relazione
alla costituenda fissazione dei cognomi, l’allora Ministro dell’Interno si
pronunciò sulla questione in questi termini: se i nomi battesimali (quelli dei
genitori) sono stati adottati nella qualità di nomi di famiglia in modo che passino
costantemente di padre in figlio, e nei suoi discendenti, e che invariabilmente
essi ne facciano uso negli atti, coloro i quali li portassero non saranno tenuti a 125
dimetterli e ad assumere un altro cognome.
I cognomi “De Apice”,
“D’Ammora” e “D’Alesio” Nell’Italia post-unitaria la data ufficiale della cristallizzazione dei
trascritti nell’elenco
sotto la lettera “A” degli cognomi degli italiani è legata alla creazione, a partire dal 1866, dell’A-
atti di nascita dell’ana- nagrafe dello Stato Civile che proseguì l’opera, fatta nei secoli precedenti
grafe di Castellammare
di Stabia (1823) dalla Chiesa, della registrazione della nascita, cittadinanza, matrimonio
Altri cognomi degli atti e morte di ogni soggetto dimorante nel territorio italiano, a prescindere
di nascita dell’anagrafe
126 di Castellammare di dal suo credo religioso. Tenere con cura i registri della popolazione, dove
Stabia (1809-1875)
poter annotare ogni fase della vita del cittadino, significava rispettare
l’indice alfabetico dei cognomi, e non dei prenomi così come nel passato;
ma le preposizioni da, di, de, del, lo, la non avrebbero avuto peso nell’ordi-
ne alfabetico tanto che, ad esempio, il cognome De Filippo sarebbe stato
incluso nella lettera F e non nella lettera D, come ci aspetteremmo oggi-
giorno. Anzi il cognome si sarebbe scritto posponendo la preposizione
(talvolta tra parentesi) cioè Filippo De, quasi come se il cognome vero non
fosse De Filippo ma Filippo.

Nonostante queste disposizioni cogenti, ogni individuo poteva assumere


un cognome diverso da quello del proprio padre e mutarlo nel corso della
vita; infatti anteriormente al 1861, risalendo le generazioni maschili ascendenti
degli individui, si possono riscontrare diversità nei cognomi usati, nella loro esat-
ta grafia, nelle trasformazioni, nelle aggiunte. Non essendovi atti autoritativi che
concedessero ad ogni famiglia un determinato cognome o riconoscessero quello
che era usato per un più o meno lungo periodo dai suoi membri, ne conseguiva
che soltanto il possesso pacifico e pubblico di un dato e stabile cognome, nel
succedersi delle generazioni maschili, era considerato titolo idoneo ad attribuire
il diritto al cognome così appalesato. Mentre nell’epoca attuale un cognome non
potrebbe acquisirsi con il suo uso reiterato in contrasto con quello segnato sugli
atti di stato civile; tale evenienza poteva accadere nei secoli anteriori alla istitu-
zione del servizio di Stato Civile.
I cognomi nel Novecento

Nonostante la nascita nel 1866 dell’Anagrafe dello Stato Civile (tratto dal li-
bro di Roberto Bizzocchi, I cognomi degli Italiani, Laterza, Bari, 2014)
ci saranno nel Novecento alcuni eventi che interesseranno e modifiche-
ranno i cognomi degli italiani. L’esito della Prima Guerra Mondiale (con
l’annessione dell’Alto Adige, della Venezia Giulia e dell’Istria) attribuì
al Regno d’Italia alcuni territori e, soprattutto, persone che non avevano
cognomi tipicamente italiani; tutto ciò perché durante la precedente
dominazione asburgica furono forzatamente modificati i cognomi degli
italiani. Quindi negli anni Venti si auspicava un ripristino o riduzione
all’originaria denominazione italica perché il sentimento nazionalisti-
co voleva correggere tale stortura con procedure attuate sia nell’ambito
dell’area linguistica germanica che in quella slava.

Nel primo caso non ci furono grandi e fattivi risultati perché di fronte a 127
un simile tentativo c’era il grande prestigio politico e culturale del mon-
do germanico per cui l’operazione era stata subito ostacolata, ancor pri-
ma che l’alleanza degli anni Trenta tra Germania e Italia la rendessero
inopportuna e di fatto impossibile. Per tali motivi i nostri connazionali
altoatesini hanno per lo più mantenuto i loro cognomi così come Gruber,
Lilli Gruber
Reinhold Messner Messner, Kostner, Thöni, Moser, Pircher, Huber, Mair, Merz, Zöggeler
Carolina Kostner (tratto da Cognomi in provincia di Bolzano 2010 dell’Istituto Provinciale di
Gustav Thöni
Francesco Moser Statistica della provincia autonoma di Bolzano).
128
Modulo della prefettura Invece tra gli anni Venti e Trenta del Novecento la campagna di naziona-
di trieste (1927) per la
riduzione del cognome in lizzazione dei cognomi (ma anche dei toponimi) nei confronti dell’area
forma italiana
linguistica slava ebbe un forte impatto a Trieste e nei territori circostanti;
qui tali operazioni incontrarono minori resistenze al confronto con il
versante germanico. Il funzionario ministeriale Aldo Pizzagalli pub-
blicò nel 1929 il libro Per l’italianità dei cognomi con lunghe appendici di
cambiamenti suggellati da decreti emessi e pubblicati nella Gazzetta
Ufficiale. Sotto il profilo linguistico si trattava quasi sempre di ritoc-
chi che dovevano mettere in evidenza la naturalezza della restituzione
attuata come Callegari per Callegarich, Adami per Adamic, Sossi per
Sosic, Franceschi per Francescovich. Dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale i cognomi e i toponimi restituiti nella versione italiana furono
ovviamente cancellati nelle zone passate sotto il controllo comunista
della ex Jugoslavia.

Alla fine di questa bella storia, tipicamente ed esclusivamente italiana, 129


è possibile fare qualche riflessione e fare un po’ di conti. Il cognome ha
assunto importanza nella denominazione degli individui quando sono
Copertina del libro “Per maturate tre trasformazioni significative: è diventato fisso ed immuta-
l’italianità dei cognomi”
di Aldo Pizzagalli (1929)
bile, si è potuto trasmetterlo ereditariamente ed, infine, ha perso il suo
significato semantico originario. Invece, dal punto di vista quantitativo
si stima che il 35% dei cognomi italiani derivi da nomi propri del padre
o del capostipite, un altro 35% abbia relazione con la toponomastica, un
15% sia relativo a caratteristiche fisiche del capostipite, un 10% derivi dal
mestiere o dalla carica, un 3% sia di derivazione straniera recente ed un
2% sia un nome augurale che la carità cristiana riservava ai trovatelli.

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130
Dal latino al volgare

il poeta Dante Alighieri La lingua italiana è il frutto di un’evoluzione lenta e deriva dal latino 131
in un ritratto anonimo
(xvi secolo) parlato nell’antica Roma; pertanto si definisce una lingua neolatina
perché tra il V ed il X secolo, a partire dalla caduta dell’Impero Romano,
il latino volgare parlato dal popolo si trasformò sempre più rapidamente
frantumandosi in tante parlate locali diverse. La lingua delle istituzioni
e della cultura rimase comunque il latino di Virgilio fino al Duecento e
oltre, grazie anche al carattere conservatore della Chiesa nelle cui scuole
religiose medievali, diffusissime e gratuite, era utilizzato come lingua
obbligatoria con cui impartire le lezioni.

Nel frattempo si andò affermando una vera e propria produzione lette-


raria in volgare, favorita dall’ascesa della classe mercantile che parlava e
scriveva appunto in volgare. Ci sono esempi di volgare umbro nel famo-
sissimo Cantico di Frate Sole di San Francesco D’Assisi; di volgare siciliano,
fiorito alla corte di Federico di Svevia, re di Sicilia, nel sonetto di Jacopo
da Lentini Io m’aggio posto in core a Dio servire. Componimenti simili
divennero sempre più frequenti tanto da documentare così il progressivo
diffondersi e rafforzarsi del volgare nonché l’intenzione di usarlo con
scopi o con caratteri differenti da quelli finora usati. Ci vollero mol-
ti secoli perché tale nuovo idioma, divenuto ormai lingua letteraria e
culturale, raggiungesse tutti i settori del sapere; il ritardo nello sviluppo
dell’italiano, tra l’altro non poco sfavorito dalla mancanza di unità po-
litica nella penisola e dalle faide dei signori che la dominavano, finì per
l’indovinello veronese
(ix secolo) conservato
nella Biblioteca
Capitolare di Verona

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consolidare quei tratti arcaici che furono invece ampiamente superati


dalle lingue europee, tratti che fanno però della lingua italiana di oggi
uno degli idiomi più fedeli al latino. Tra i diversi dialetti volgari il volgare
fiorentino divenne proprio la lingua che tuttora utilizziamo. Il più antico
documento in volgare italiano è un indovinello veronese, conservato
nella Biblioteca Capitolare di Verona, degli inizi del IX secolo; fu scritto
da un anonimo sul margine di un foglio di un libro di preghiere e recita
così: Se pareba boves / alba pratalia araba / albo versorio teneba / negro semen
132 seminaba = Spingeva davanti a sé i buoi (le dita) / arava i bianchi prati
(la carta) / teneva un bianco aratro (la penna) / seminava un nero seme
(l’inchiostro). È allusivo al lavoro dello scrivere ed al lavoro del copista.
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Stralcio del Placito Il primo documento ufficiale scritto in cui appare chiaramente la
capuano (x secolo)
contrapposizione del volgare al latino, e quindi la differenza delle due
lingue, è il Placito capuano nel X secolo. Si tratta di una sentenza giudi-
ziaria relativa ad una contesa fra il monastero di Montecassino ed un
privato, sorta per il possesso di alcune terre. Il giudice, nel verbale scritto
in latino, riporta la formula pronunciata dai testimoni per confermare
il possesso trentennale delle terre; i testimoni in questione parlavano in
volgare e la formula recita così: Sao ko kelle terre, per kelli fini queli contene,
trenta anni le possette parte sancti Benedicti (So che quelle terre con quei
confini le possedette per trent’anni il monastero di San Benedetto).
Certamente la chiave di volta è il Trecento; in questo secolo si verifica un
fenomeno significativo e cioè il prevalere, su tutte le parlate, del volgare
fiorentino. Questo accade perché è molto somigliante al latino; poi perché
Firenze è al centro della penisola e quindi la lingua può facilmente
diffondersi verso Nord e Sud. La città è certamente una delle più ricche
per le attività commerciali e finanziarie; i nostri padri della letteratura
(Dante, Petrarca, Boccaccio) composero le loro opere immortali proprio
in volgare fiorentino. In particolare, nella Divina Commedia di Dante la
lingua volgare arriva ad una altissima espressività tanto da diventare,
col tempo, la lingua letteraria nazionale. Nel Quattrocento il volgare ha
però una battuta d’arresto in quanto si diffonde quella corrente culturale
che prende il nome di Umanesimo che ha come caratteristica principale la
riscoperta dell’uomo attraverso la ricerca e la lettura dei classici latini e
greci; gli umanisti ritengono il volgare una lingua inferiore ed inadatta
all’espressione letteraria. Anche Dante viene criticato per aver preferito il 133
volgare alla lingua dotta.

Solo nella seconda metà del XV secolo il volgare ritorna in auge ed è


considerato lingua di pari dignità del latino; Leonardo da Vinci, Angelo
Poliziano, Lorenzo il Magnifico, Luigi Pulci ripresero a scrivere in volga-
re anche se, ancora alla metà del Cinquecento, la produzione in questa
lingua sia ancora nettamente inferiore a quella in latino.

Ma la rivoluzionaria invenzione della stampa a caratteri mobili, ad opera


del tedesco Johannes Gutenberg che consentirà una maggiore diffusione
dei testi letterari, darà modo di diffondersi ulteriormente e definitiva-
mente. Le copie aumentano notevolmente di numero ed i prezzi scendo-
no: la cultura amplia il suo pubblico. Nel Cinquecento l’Italia raggiunge
il suo massimo splendore culturale con il Rinascimento, periodo in cui
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vengono create opere di rara e straordinaria bellezza in tutte le arti. È


il secolo di Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Niccolò Machiavelli. Il
volgare acquista sempre più prestigio tanto che nasce la questione della
Johannes Gutenberg in
una stampa (xvii secolo)
lingua; ci si chiese apertamente quale dovesse essere il volgare standard
da usare e prevalse la posizione di Pietro Bembo che preferì non ispirarsi
al fiorentino della sua epoca rinascimentale ma a quello di due secoli
prima, cioè al fiorentino letterario di Dante, Petrarca e Boccaccio. Si
registrerà un declino del latino anche se sopravviverà come lingua franca
per i letterati e gli scienziati fino al XIX secolo (grandi scienziati come
Newton, Eulero, Gauss, Linneo pubblicarono tutte le proprie opere in
latino); quindi verrà soppiantato in questo ruolo dal francese e, in epoca
più recente, dall’inglese. Il lungo periodo di originazione dei cognomi si
innesta proprio con questa trasformazione linguistica dal latino al vol-
gare fiorentino e ne sarà significativamente influenzato. Sintomi di tale
convergenza sono i doppi esiti (dotto e volgare) delle parole che utilizzia-
mo ancor oggi; tutto ciò dipendeva dalle abitudini notarili.

Per l’esito dotto, si tratta di parole che non erano di uso comune ma che
i colti (i letterati, gli ecclesiastici, i giuristi) hanno attinto dal latino nel
corso dei secoli ed hanno immesso nell’italiano scritto, e quindi anche
parlato. Ad esempio, la parola latina mirabilia (e cioè miracolo) ha avuto
l’esito popolare, cioè la parlata quotidiana, con meraviglia mentre l’esito
dotto ha confermato mirabilia; stessa cosa per il latino parabolam che è
134 diventata parola con l’esito popolare e parabola con l’esito dotto. Dato in-
teressante è che la maggior parte delle parole delle lingue neolatine sono
la continuazione delle parole latine al caso obliquo (cioè con l’accusativo
e non al nominativo) come, ad esempio, la parola latina mater è arrivata
in italiano dall’accusativo matrem con madre; la -m finale è caduta e il
gruppo -tr- è diventato -dr-, così come patrem è diventato padre. Ma ci
sono stati anche casi in cui sono continuati entrambi i casi come, ad
esempio, il mestiere di sarto che è derivato sia da sartor al nominativo
(da cui sarto) sia da sartorem all’accusativo (da cui sartore). Il latino del
Cristianesimo conosce, accanto ad episcopus (vescovo), i derivati episcopalis
(episcopale), episcopatus (episcopato), episcopium (residenza del vescovo);
mentre la parola base è entrata per via popolare, grazie all’importanza
che i vescovi avevano non solo nel campo strettamente religioso ma an-
che in quello amministrativo e civile, diventando così vescovo (si notino
le due -p- tra vocali che sono divenute -v- con la caduta della vocale
iniziale), i derivati sono entrati per via dotta, in forma quindi più vicina
a quella latina, divenendo episcopale, episcopato, episcopio. Di conseguenza,
la diffusione dei cognomi derivati da questa parola, specie nel napoleta-
no, ha prodotto Piscopo, De Piscopo, Vescovo, Viscovo, Visco, Episcopo.

Risulta evidente che tale processo di genesi ha coinvolto anche i cogno-


mi, in quanto parole, oggetti di evoluzione e trasformazione più o meno
radicali; tanto è vero che la forma grafica dei cognomi attuali è diversa
da quella d’origine creando, talvolta, delle difficoltà di differenziazione
dei due registri linguistici e della loro rispettiva fonetica. Nei moder-
ni cognomi la maggior parte deriva dal patronimico, cioè dall’utilizzo
del nome proprio del padre trasferendolo in perpetuo alle generazioni
future; questa tipologia di cognomi derivò dai modi con cui indicare,
in latino, la relazione filiale: Lodoysius filius Landi, Oliverius filius Berardi,
Rogerius filius Rainaldi. Chiaramente nei tre esempi il nome del padre è
presente nel caso del genitivo latino. Nel tradurre in volgare tali formule
di relazione, dapprima ci si avvalse della preposizione di (scritta con il
minuscolo perché rappresentava una semplice preposizione) ottenendo
Luigi di Lando, Oliviero di Berardo, Ruggiero di Rinaldo sottintendendovi la
parola figlio (ed oggigiorno si sottintende la parola discendente) e lasciando
il nome del padre al nominativo; altri poi sottintendendo la proposizione
di scrissero Luigi Lando, Oliviero Berardo, Ruggiero Rinaldo.

Alcune volte questi cognomi erano espressi proprio come in latino: Luigi 135
Landi, Oliviero Berardi, Ruggiero Rinaldi sottintendendosi filius. In quest’ul-
timo caso, specialmente nel periodo di transizione dal latino all’italiano,
fu tradotto il solo nome proprio nel modo italiano lasciando il cognome
nella sua desinenza latina. Ecco come si avviò il processo di alterazione
di uno stesso cognome originario nei diversi luoghi, tempi e scritture:
Rinaldi, Rinaldo e Di Rinaldo; Gennari e Di Gennaro; Benedetto, Di
Benedetto e Benedetti; Buono, Buoni e De Buono; Mattei e Di Matteo; Li-
guori, Liguoro, e De Liguoro; Amico, Amici e D’Amico. Allo stesso modo
subirono alterazioni anche i cognomi derivanti da mestieri e cariche
sociali come Abbate, Abbati e dell’Abbate; Duce, Duci, Del Duce; Giudice,
Giudici e Del Giudice; Nobile, Nobili e dello Nobile. Non conoscendo la
procedura di originazione dei cognomi, qualcuno li alterò al punto che,
supponendo che forse i genitivi latini Mattei, Amici, Buoni, Benedetti
significassero De Mattei, Degli Amici, Del Buono, De Benedetti, (ri)
tradussero questi cognomi in latino De Matthaeis, De Amicis, De Bonis,
De Benedictis. Invece, i cognomi presi dalla patria o dal feudo non sono
stati oggetto di corruzione linguistica perché il nome della città è nor-
malmente scritto secco (sottintendendo sia la preposizione che la parola
cittadino), oppure anteponendo la preposizione di oppure con l’aggettivo
etnico: Capua, Di Capua e Capuano; Napoli, Di Napoli e Napolitano;
Valle, Della Valle e Vallese; Nocera, Di Nocera e Nocerino.

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136
L’eredità onomastica dei Longobardi

Miniatura con il principe Dalla caduta dell’Impero Romano nel 476 dC, la penisola italiana diven- 137
di Benevento Arechi II,
tratta dal “Codex Legum ne meta di scorribande per le popolazioni del nord Europa. I Longobardi
Langobardorum” (1005),
conservata nell’Archivio
saranno l’ultimo popolo barbaro che invase il mondo romano ma non
della Badia della Santis- giunsero in un impero ancora ricco e organizzato bensì in un’Italia
sima Trinitá di Cava de’
Tirreni, Salerno devastata e spopolata dalla terribile guerra greco-gotica; si ipotizza che
addirittura l’impero bizantino ne abbia favorito il trasferimento per
l’impossibilità di governare l’intera penisola. I Longobardi non furono
cinici invasori e spietati oppressori ma si fusero perfettamente con le
popolazioni locali; al loro arrivo in Italia, parlavano una lingua germa-
nica e il loro cristianesimo ariano convisse con pratiche di culti politei-
stici. Col tempo persero questa identità assimilandosi alle popolazioni
latinofone e cattoliche della penisola.

Questo popolo di migranti è stato capace di fondere diverse culture (ger-


manica, romana e bizantina), di integrarsi e di creare una società multi-
culturale. È sintomatico che il re Agilulfo, tra il VI e VII secolo, si nominò
per la prima volta gratia Dei rex totius Italiae. Così la longobardizzazione
dell’Italia rese sinonimi i termini Italia e Longobardia; l’etnico longobardi,
addirittura fino al XIII secolo, era il nome generico degli abitanti sia
dell’Italia centro-settentrionale (dalle Alpi alla Toscana), dove s’impose
la contrazione lombardi, sia del Mezzogiorno campano-pugliese. Da quel
momento gli abitanti d’Italia, dalla pianura Padana fino alla Puglia e
alla Basilicata, si consideravano tutti Longobardi. Questa è la prevalente
motivazione della grande diffusione panitaliana dei cognomi Longobardi
e Lombardi. Il 568 dC segna il loro arrivo in Italia e, al contempo, l’inizio
della frammentazione politica della penisola: l’unità, durata dal tempo
di Augusto fino al regno dell’ostrogoto Teodorico, non sarà più raggiunta
stabilmente fino al 1861. Quando il popolo germanico, guidato dal re
Alboino, dalla Pannonia (l’odierna Ungheria) oltrepassò le Alpi orientali
entrando nel Friuli e dilagando nel nord, le genti locali non opposero
resistenza; erano sfinite da una guerra ventennale feroce, nella quale gli
eserciti bizantini e goti si erano fronteggiati per la conquista dell’Italia
con conseguenze disastrose, un numero sterminato di perdite umane,
saccheggi e pestilenze. In pochi anni i Longobardi riuscirono a domi-
nare il territorio dell’Italia settentrionale e l’odierna Toscana mentre
altri gruppi si spinsero verso sud dove diedero origine ai possedimenti
di Spoleto, di Benevento e, in seguito, di Salerno. Saranno proprio i duces
del meridione a radicarsi maggiormente nel territorio mantenendo a
138 lungo la loro sovranità dopo la capitolazione del loro ultimo re Desiderio.

Grande merito al re Rotari che nel 643 dC promulgò il primo codice di


leggi scritte desunte dalla tradizione orale. Le norme da rispettare, in
388 paragrafi, stabilirono pene, confermarono abitudini, mitigarono
Miniatura con guerrieri
longobardi, tratta leggi troppo crudeli, introdussero il carcere fra le pene; furono redatte
dall’Exultet (x secolo)
conservata nell’Archivio
in latino, con parole germaniche che servivano da riferimento ma senza
Capitolare di Benevento alcun legame con la tradizione giuridica romana. Croci d’oro e plutei
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con simboli cristiani testimoniano invece la conversione ufficiale al
cattolicesimo, avviata dalla regina Teodolinda nel 680 dC. Il passaggio
alla nuova fede spinse re e aristocratici a fondare chiese e monasteri
come elemento di conservazione della propria memoria. Le monete e i
gioielli, di pregevole fattura, sono una chiave di lettura privilegiata per la
rappresentazione del potere sovrano e dei simboli ricorrenti quali croci,
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corone e la particolare devozione all’arcangelo Michele: per mantenere


buoni rapporti col papato, i Longobardi si impegnarono a fondo anche se
gli sforzi, alla fine, risultarono vani. Partì infatti dal pontefice romano
Adriano I, sempre più potente e contrario a subire la dominazione di un
sovrano residente in Italia che pretendeva tributi, la richiesta di un in-
tervento armato al cattolico Carlo Magno, re dei Franchi, che nel 774 dC
pose fine al regno con la battaglia alle Chiuse di Susa presso Torino.
tremisse (fronte e retro)
del viii secolo con l’effi-
gie di grimoaldo iii Alcune parole longobarde sono state lasciate in eredità alla lingua ita-
liana; i Longobardi parlavano una lingua germanica mentre in Italia si 139
parlava latino, un vernacolo che poi darà origine ai vari dialetti italiani
e alla stessa lingua italiana. Avevano nomi di battesimo come Liutpran-
do o Teutperto mentre gli italiani dell’epoca avevano nomi di origine
religiosa come Giovanni o Gregorio.

Successivamente i Longobardi hanno smesso presto di parlare il loro


linguaggio fondendosi con i locali e utilizzando quella forma di latino
parlata dal popolo. Da questa commistione nacquero neologismi compo-
siti aventi il primo elemento in latino e il secondo in longobardo come,
ad esempio, Magn-olfi, Boni-perto, Domni-chis, Luci-frido.

In generale le parole longobarde date in eredità sono quelle che hanno


a che fare con la violenza e cioè guerra, zuffa, tregua, faida, spranga,
trappola oppure verbi come spaccare, arraffare, russare; erano un popolo
sbrigativo, poco incline al pensiero e alla filosofia. Ancor di più, hanno
lasciato molte parole che indicano le parti del corpo: guancia, nocche,
stinchi, ciuffo, zazzera; ma anche palla, roba, tanfo. Hanno lasciato
anche la parola napoletana più diffusa al mondo: la pizza. Nel mondo
greco e romano era una focaccia di farina cotta al forno di legna con olio
chiamata pita ma i longobardi tendevano a trasformare la -t- in -z- ed
ecco che la pita si trasformò in pizza. Gran parte dei nomi germanici sono
attualmente in uso in italiano con la -o- finale e presentano derivazioni
dagli ablativi dei termini latini leggibili nei testi originali. La pronuncia
dei nomi dovrebbe essere alla tedesca e, ad esempio, la -g- dovrebbe essere
sempre dura come se si trattasse d’una -gh-. Di seguito una serie di nomi
longobardi utilizzati abitualmente in Italia come nomi di battesimo e
che hanno generato, a partire dal XI secolo, i cognomi come patronimici:
Adelchis (nobile freccia, da cui Adelchi e Adalgiso), Adelmo (elmo di nobiltà),
Aistulf (lupo valoroso, da cui Astolfo), Alberic (re degli elfi, da cui Alberico),
Alboin (nobile e caro agli dei, da cui Alboino), Adalgar (nobile lancia, da cui
Alighiero), Aldo (anziano, saggio), Alfrit (saggio e nobile nella pace, da cui
Alfredo), Alfus (valoroso in battaglia, da cui Alfonso), Ansehelm (protezio-
ne divina, da cui Anselmo), Aripert (illustre nel popolo in armi), Arnwald
(potente come un’aquila, da cui Arnaldo e Arnoldo), Atenulf (nobile lupo, da
cui Adolfo e Adinolfo), Audvin (anziano vincente, da cui Alduino e Ardui-
no), Berengario (orso con la lancia), Berto (famoso, illustre), Bertwalt (illustre
e potente) da cui Bertoldo che ha assunto un significato dispregiativo
140 come sinonimo di sciocco dopo la diffusione delle storie su Bertoldo e
Bertoldino), Eberhart (forte come un cinghiale, da cui Everardo), Ferdnand
(famoso fuori casa, da cui Ferdinando), Gandulf (lupo dotato di forza magica),
Garipald (valoroso con la lancia, da cui Garibaldo e Garibaldi), Gastald (am-
ministratore, da cui Gastaldo e Castaldo), Gerhard (forte con la lancia, da cui
Gerardo), Gisalpert (abile nel lancio delle frecce, da cui Gilberto), Gismund
(che protegge con la lancia, da cui Gismondo e Gimondo), Godefrit (in pace
con Dio, da cui Goffredo), Grimuald (capo con l’elmo, da cui Grimaldo), Hai-
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stdingen (veloce nel giudizio pubblico, da cui Ardengo), Heimirich (potente


in patria, da cui Enrico), Hilderic (signore della battaglia, da cui Ilderico),
Hrodepert (splendente di gloria, da cui Roberto), Humpert (orsacchiotto
illustre, da cui Umberto), Lampert (illustre nel suo paese, da cui Lamber-
to), Landulf (lupo valoroso nel proprio paese, da cui Landolfo), Maganhart
(valoroso e forte, da cui Mainardo), Maginfrit (potente e amante della pace,
da cui Manfredo), Orso (latinizzazione del germanico Bert), Pandulf
Orecchino aureo con (lupo, bandiera, da cui Pandolfo), Raginhart (valoroso per consiglio divino, da
decorazione a cloisonné
e pendente cruciforme cui Rainardo e Rinaldo), Raginmund (protezione divina, da cui Raimondo),
(vii secolo) conservato
nel Museo Archeologico
Rothari (capo glorioso, da cui Rotari), Sigismund (che protegge con la vittoria,
Nazionale di Napoli da cui Sigismondo), Theudebald (valoroso nel popolo, da cui Teobaldo e Te-
baldo), Walthari (comandante dell’esercito, da cui Walter e Gualtiero), Warin
(difensore, da cui Guarino e Guerino), Warinhari (protettore dell’esercito, da
cui Guarnieri, Guarniero e Irnerio), Wido (da cui Guido), Wifegard (saggio
e valoroso, da cui Guiscardo), Wulf (da cui Lupo).
Pluteo marmoreo con
agnello (vii secolo) con-
servato nei Musei Civici
di Pavia

141

Per essere più precisi, è necessario indicare i lemmi da cui sono deri-
vati i nomi longobardi e, poi, i cognomi italiani. Questi nomi propri
originari derivarono da soprannomi legati alle qualità dell’animo e del
corpo. Così da Hulf, che significa aiutante, si formarono i nomi Gisol-
fo (Gies-hulf, compagno aiutante), Rodolfo (Rad-hulf, aiutante celere),
Siginolfo (Siges-hulf, aiutante vincente), Sindolfo (Sind-hulf, aiutante
sensibile), Paldolfo (Pald-hulf, aiutante audace). Da Mund, che significa
bocca, si formarono i nomi Gundamondo (Gund-mund, bocca benevola),
Sigismondo (Siges-mund, bocca vincente), Guismondo (wife-mund, bocca
sapiente, con la pronuncia della -w- che si è trasformata in -gu- come
Guillelmus, Gualterius, Guido invece di Willelmus, Walterius, Wido),
Grimondo (Grim-mund, bocca irata), Ramamondo (Ram-mund, bocca
rinomata). Da Rich, che significa fornito o potente (da cui in italiano la
parola ricco) si formarono i nomi Atalarico (Atal-rich, nobile potenza),
Friderico (Frid-rich, signore della pace), Ilderico (Hilde-rich, potenza
straordinaria, con il cambiamento di vocale anche Alderico e Alderisio),
Roderico (Rode-rich, ricco di gloria, detto in spagnolo Rodrigues). Da
Wald, che significa potente si formarono i nomi Grimaldo (Grim-wald,
142
Pluteo con croce gemma- potente con l’elmo), Sesualdo (Sits-wald, potente come un montone, detto
ta (viii secolo) conservato
nel Museo di Santa Giulia poi Gesualdo), Walderada (Wald-rade, buon consigliere, reso in italiano
di Brescia
con Valderano), Walerano e Waleramo (Waleram, molto famoso, detto poi
Gallerano), Waldero (Wald-here, potente nell’esercito, detto poi Gualtiero
o Galdiero ed accorciato Galdo). Da Gis, che significa forte, si formaro-
no i nomi Algisio (Al-gis, certamente forte), Rachisio (Rat-gis, potente
consigliere). Da Frid, che significa pace, si formarono i nomi Warnefrido
(Warne-frid, custode della pace), Loffredo (Loef-frid, pace assoluta),
Gotofredo (Goten-frid, buona pace, detto in italiano Goffredo), Manfredo
(Man-frid, uomo di pace). Da Berd o Breht, che significa abbondante, si
formarono i nomi Bertarito (Breht-reita, grande cavalleria, poi accorciato
in Berto), Giselberto (Gisel-breht, molti amici, poi accorciato in Gilberto),
Alberto (Al-breht, abbondanza di tutto), Lamberto (Lama-breht, illustre
nel proprio paese), Raginberto (Ragin-breht, purezza abbondante). Da
Ragin, che significa puro, si formarono i nomi Raginero (Ragin-here,
uomo puro, poi detto Raniero), Reginaldo (Ragin-alda, anziano saggio, 143
poi detto Rinaldo). Da Here, che significa padrone, e Rausch, che significa
strepitoso, si formarono il nome Ravaschiero (Rausch-here, strepitoso pa-
drone). Da Baud, che significa audace, si formarono i nomi Balta e Baldo
(da cui l’italiano baldanza e baldanzoso) e i suoi derivati come Sinibaldo,
Frescobaldo, Balduina, Baldino.

Si può distinguere la sovrapposizione dei nomi longobardi con quelli


franchi dalle caratteristiche fonetiche; ad esempio sono longobardi i
nomi in -paldo, -perto, -prando (che presentano l’antica -b- trasformata in
-p- in seguito alla mutazione consonantica) mentre il franco mantiene la
-b- (-baldo, -berto, -brando).

Questi nomi propri dei Longobardi, e d’altri popoli germanici, si diffu-


sero notevolmente nell’alto Medioevo; e dai Normanni in poi si comin-
ciarono ad usare come cognomi, derivati come patronimici dai nomi dei
padri o delle madri come, ad esempio: Adinolfi, Airoldi, Aliprandi, An-
saldo, Ansuini, Arnone, Astolfo, Bernardo, Berteramo, Boniperti, Braida,
Castaldi, Farolfi, Filiberti, Garibaldi, Ghisolfi, Girardengo, Grimaldi,
Lamberti, Landolfi, Liprandi, Longobardi, Mainardi, Mannoni, Munari,
Pandolfi, Pertini, Prandi, Radaelli, Rinaudi, Romualdi, Siccardi, Tasso,
Totti, Trotti, Zangheri, Zilli, Zoff, Zotti…

wikipedia
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144
Il testamento nel passato

Testamento di Honofris La caduta dell’Impero Romano fu seguita da un’epoca di incertezze e ciò 145
de Rocco redatto in
latino dal notaio stabiese determinò una nuova organizzazione dei rapporti giuridici interperso-
Ajello (1632) conservato
nell’Archivio Storico di
nali per regolare la trasmissione dei beni a causa di morte; i modelli di
Castellammare di Stabia vita delle popolazioni barbare erano segnati dal bisogno pressante di
dare risposta alle esigenze basilari di sopravvivenza ed autotutela della
comunità. Pertanto nel diritto germanico prevalsero le tendenze natura-
listiche perché apparvero senz’altro più adatte ad affrontare la difficoltà
dei tempi. Nell’alto Medioevo i rapporti tra le generazioni erano regolati
secondo natura, cioè direttamente dai vincoli di sangue; il figlio, soprav-
vivendo naturalmente al padre, gli succedeva fisiologicamente quale
erede (senza un’evidente espressione di volontà né una sua modificabi-
lità come nel testamento moderno), e subentrava nella sua posizione in
tutti i rapporti giuridici, sia attivi che passivi.

Quindi con la caduta dell’Impero Romano, nell’alto Medioevo si registrò


la scomparsa del testamento per la regolazione delle vicende legate alla
successione mortis causa; ciò è da ricondursi al fatto che la volontà del
singolo veniva radicalmente compressa rispetto alle esigenze oggettive
del gruppo familiare e sociale. Questo atteggiamento evidenziò il netto
contrasto con la pratica testamentaria dell’Impero Romano perché
tutto ruotava attorno al volere sovrano del soggetto, non sindacabile né
eludibile, fino alle estreme conseguenze della frammentazione del pa-
trimonio in capo a più beneficiari che potevano anche non avere alcun
rapporto di parentela con il defunto. Cos’era cambiato rispetto al diritto
romano? Probabilmente si instaurò una diversa organizzazione sociale
e giuridica, fondata su una vera e propria rifondazione antropologica.
Infatti i bisogni, le preoccupazioni, le aspettative, le potenzialità dell’in-
dividuo mutarono radicalmente. Piuttosto che imporre la propria volontà
post mortem ed individuare in tal modo l’erede, l’uomo altomedievale sen-
tì forte la preoccupazione per la sorte della propria anima facendo preva-
lere l’assillo di garantirsi una speranza di salvezza nella vita ultraterre-
na. Quindi si cercavano modi efficaci per non perdere in vita l’esercizio
dei diritti patrimoniali sui propri beni, più rilevanti economicamente; si
diffuse, pertanto, l’attività giuridica della donazione in vita con reservato
usufructu, attenta a coniugare l’aspirazione alla salvezza nell’aldilà con
la salvaguardia d’interessi prettamente terreni mediante la possibilità di
ottenere in vita i profitti ricavabili dal proprio patrimonio.

146 Le migliorate condizioni economiche nel Basso Medioevo ed una rin-


novata fiducia nelle potenzialità di un individuo, non più costretto ad
annullarsi nella dimensione comunitaria per garantirsi la sopravviven-
za, determinarono anche la ricomparsa del testamento. Questa rinascita
fu favorita dalle nuove condizioni di vita dell’epoca, caratterizzate da un
mondo più sicuro ed aperto nel quale l’individuo, oltre alla successione
Dipinto che raffigura un
notaio nella redazione di
un testamento (xii secolo)
© wikipedia
Dipinto che raffigura un
notaio nella redazione di
un testamento (xv secolo)

© wikipedia
147

necessaria fondata sui legami di sangue che uniscono le generazioni,


aveva la possibilità di rifar prevalere la propria personalità con la succes-
sione volontaria. A questo rinnovato interesse verso il testamento fece da
sponda la ritrovata perizia tecnica dei notai delle città basso medievali,
perché protagonisti nel rispolverare il patrimonio giuridico del diritto
romano giustinianeo per merito della scuola bolognese, all’origine della
grande stagione della scienza giuridica medievale. Il ruolo del notaio ri-
mase così centrale nel contesto della rinata società urbana, in virtù della
sua capacità di redigere un ricco ventaglio di atti contenenti un’ampia
gamma di negozi giuridici attingendo dal fornitissimo arsenale tecnico
contenuto nel Corpus iuris civilis, offerto alla prassi ed opportunamente
aggiornato alla luce delle esigenze di un’epoca e di un’esperienza giuri-
dica comunque nuove e diverse.

A partire dalla metà del XII secolo in tutta Italia si rinnova, dopo una
interruzione di alcuni secoli, l’usanza della redazione degli atti d’ul-
tima volontà, sempre più particolari nella loro struttura e sempre più
corrispondenti alla configurazione romana. Nel testamento medievale
emerge di nuovo il profilo di un atto unilaterale con funzione patrimo-
niale, mortis causa, strettamente personale e sempre revocabile. Nono-
stante ciò le differenze tra l’istituto romano e la sua riedizione del Basso
© cpcs

148
Disposizioni testamenta- Medioevo sono evidenti ed assai rilevanti. Mentre l’essenza dell’atto di
rie per il legato di Saverio
Di Martino della Confra- ultima volontà a Roma contiene una istituzione di erede, il fulcro sostan-
ternita del Purgatorio
ziale intorno a cui si costruisce la versione medievale e cristiana è la
(1863) conservate nella
Chiesa del Gesù di Castel- preoccupazione per la sorte della vita ultraterrena, prima che per quella
lammare di Stabia
del proprio patrimonio. Scorrendo le righe dei vari testamenti, infatti, si
percepisce in maniera chiara ciò che era importante per l’uomo medie-
vale: la raccomandazione della propria anima, l’elemosina agli Ospedali,
la disposizione dei propri beni mobili e immobili e tanto altro.

La preoccupazione della salvezza eterna era attuata mediante una coe-


rente disposizione dei beni dell’asse ereditario nel tentativo di salvare
l’unità del patrimonio familiare e di trasmetterlo per via agnatizia, a
garanzia della sopravvivenza della famiglia sacrificando i diritti delle
figlie rispetto a quelli dei maschi. Pertanto le variegate disposizioni
testamentarie (cioè il luogo di sepoltura nel cimitero presso la chie-
sa dedicata al santo a cui si era devoti, i legati per l’anima in seguito 149
all’affermarsi della credenza nel Purgatorio per cui una contabilità dei
meriti acquisiti poteva essere migliorata anche post mortem, i lasciti pii a
favore della Chiesa e dei poveri come esplicitazione della pietas cristiana)
costituirono una parte fondamentale, se non addirittura preponderante,
del loro contenuto con l’introduzione di elementi trascendentali.

In tale contesto, la grande diffusione dei testamenti comportò la neces-


sità di dover identificare e distinguere gli individui con denominazioni
chiare (nome di battesimo + nome aggiunto) e, soprattutto, fisse nelle
varie occasioni di trascrizione delle proprie generalità. A favorire signi-
ficativamente la stabilizzazione dei cognomi furono esigenze di conserva-
zione della memoria di transazioni economiche, nella maggior parte dei
casi relative a trasmissioni di beni da una generazione all’altra; infatti,
nei passaggi ereditari appariva necessario agganciarsi senza ambiguità
ai medesimi nomi di famiglia delle generazioni che si succedevano e
il cognome ebbe modo, proprio grazie a queste necessità giuridiche, di
potersi consolidare nella quantità ma soprattutto nella qualità, cioè nel
divenire invariabile nella variabilità degli utilizzi.

© wikipedia

150
Le abitudini notarili

Quentin Massys “Ritratto Nel Basso Medioevo, a partire dal XI secolo, gli atti notarili hanno costi- 151
di un notaio” (1517) con-
servato nella Scottish tuito la documentazione più attendibile esistente a quell’epoca e costi-
National Gallery di Edim-
burgo, Gran Bretagna
tuiscono, oggi, un’imponente fonte di informazioni storiche. Pertanto i
notai, custodi di tutti i documenti privati e pubblici come testamenti o
concessioni, hanno avuto un ruolo determinante nella diffusione e nella
fissazione dei cognomi; nella diffusione, perché a loro era demandato il
compito formale di trascrivere negli atti, in modo univoco e distintivo,
l’identità di una persona con il nome di battesimo e altri nomi aggiunti.

La crescita demografica ed economica generò più atti giuridici e, pertan-


to, l’identità delle persone fu sottoposta a formule più ampliate e sofisti-
cate rispetto al semplice nome unico dell’Alto Medioevo. Tale inadegua-
tezza onomastica si rivelò maggiormente nel XIII secolo con la nascita
dei Comuni, creati su una base ampiamente democratica, per cui si de-
terminò un nuovo ruolo dello Stato; fu conseguente il cambiamento dei
suoi rapporti con i cittadini e le famiglie, divenuti soggetti di una inten-
sa vita politica, amministrativa, economica e sociale ma, soprattutto, giu-
ridica e notarile. Per queste ultime necessità l’individuo, in relazione alle
attività e agli obblighi che era chiamato ad assolvere (cariche pubbliche,
accordi commerciali, prestiti, compravendite, eredità, donazioni), doveva
essere facilmente identificabile con una precisa denominazione distin-
tiva. I notai, preoccupati nella redazione dei documenti di evitare ogni
possibile confusione sull’identità delle persone da costituire, tendevano
Sigilli notarili di notai a privilegiare i riferimenti alla discendenza paterna e, in ulteriori casi di
stabiesi (xvi-xix secolo)
omonimia, alla distinzione con il luogo di nascita, l’etnia, la professione
oppure i soprannomi personali. Nella fissazione, invece, perché gli atti
testamentari ebbero, rispetto all’antica Roma e all’Alto Medioevo, nuovo
vigore allo scopo di trasferire agli eredi sia cose materiali (denaro, terre-
ni, edifici) che, soprattutto, cose immateriali come il nome di famiglia (il
cognome) e lo stemma nobiliare; l’erede quindi non fu più identificato con
un qualsiasi nome aggiunto (il nome del padre o un suo soprannome) ma
potè utilizzare il cognome del padre e così trasmetterlo ai suoi discen-
denti senza che tale parola fosse oggetto di modificazioni, oscillazioni,
alterazioni o concordanze di genere e di numero.

Queste tendenze non si produssero dovunque in Italia e, specialmente


nei piccoli paesi; sarà solo dopo il Concilio di Trento nel XVI secolo che
cominciarono a stabilizzarsi i cognomi; ma a dimostrazione che la
152 fissazione non era ancora compiuta e che sopravvivevano designazioni
generiche e oscillazioni formali, ci furono famiglie il cui cognome non
venne trasmesso in maniera ereditaria tra generazioni. Nella tradizione
notarile e nell’anagrafica manoscritta, non di rado accadeva che una
persona potesse essere identificata in modo differente in più atti che la
riguardavano oppure il caso di membri della stessa famiglia che si ritro-
vavano il cognome in forma diversa.

Praticamente, oltre al nome di battesimo, il notaio aggiungeva un secon-


do nome (il cosiddetto nome aggiunto) derivante da un altro nome di batte-
simo (quello del padre o della madre), dal luogo di nascita, dal mestiere
o dal soprannome. Questi nomi aggiunti erano gli embrioni dei cognomi
che usiamo oggigiorno; erano embrioni perché sottoposti alla prassi
dei rogiti notarili e quindi suscettibili di grandi variazioni dovute alle
disposizioni di legge, alla sensibilità e alle abitudini dei notai dell’epoca.

Di solito la forma normale di identificazione era quella del nome di


battesimo + patronimico, eventualmente con qualche aggiunta. Per fare un
esempio, nell’Appendice III Fundatio Cappellaniae del 1268 (fonte: Archi-
vio Storico Diocesano di Castellammare di Stabia, proc. di beneficio, processo de
Rogatis, fol. 54r) è citato nel testo un certo Rogerius de Puteo Castrimaris de
Stabia Iudex (il giudice Ruggiero D’Apuzzo di Castellammare di Stabia);
nella trascrizione in latino egli era identificato, oltre al nome di battesi-
© arsc
153
mo, con altre tre diverse qualificazioni: de Puteo che era, probabilmente,
il cognome di famiglia che derivava da un toponimo comune (cioè la
famiglia era originaria laddove c’era un pozzo); poi Castrimaris de Stabia
per indicare la provenienza geografica dalla nostra città; infine Iudex per
indicare il mestiere o la carica vantata. Se il nostro Ruggiero fosse stato
trascritto in un altro atto notarile o nell’ambito di uno stesso documento,
il notaio di turno avrebbe potuto sintetizzare le generalità del suo cliente
dando importanza maggiore alla paternità (qui non presente) o al nome
di famiglia (e allora la persona si sarebbe denominata Rogerius de Puteo =
Ruggiero D’Apuzzo), al mestiere svolto (Rogerius Iudex = Ruggiero Giudice), al
toponimo (Rogerius Castrimaris de Stabia = Ruggiero Castrimaris o Ruggiero
Stabia) o, in ultima analisi, al suo soprannome.

In alcune trascrizioni notarili il patronimico non compare subito dopo


il prenome ma si aggiunge, semmai, come terzo elemento a un secondo
154 nome che invece tende a fissarsi come cognome. Se un notaio avesse
scritto le generalità di un comparente partendo dal toponimo, era molto
probabile che quest’ultimo sarebbe potuto diventare il suo cognome.
Tutte queste riflessioni fanno capire che le abitudini notarili erano fon-
damentali per documentare questa lenta evoluzione dell’antroponimia;
in questo processo si innesta forte la contemporanea nascita della lingua
italiana come evoluzione del latino al volgare.

Tutti gli atti legali venivano redatti in latino; nel XII secolo, ad esem-
pio, la maggior parte dei notai traduceva in latino ciò che i loro clienti
pronunciavano in volgare mentre altri notai, li definirei emancipati,
protendevano per la trascrizione dei nomi (e dei mestieri, dei luoghi
d’origine, dei soprannomi) in volgare, cioè il dialetto latino che parlava
il comparente. Nelle mie ricerche, quello che più mi ha colpito è stato il
cognome (trascritto in latino e derivato da soprannome) Bibentisaquam
che, tradotto in volgare, lo ritroviamo oggigiorno con Bevilacqua. È questo
il motivo principale della coesistenza di cognomi in lingua italiana e,
contemporaneamente, anche quelli derivati dalla parlata napoletana
come, ad esempio: Salierno, Sorriento, Napolitano. Pertanto, dal XIII secolo i
notai iniziarono ad utilizzare anche il volgare (sebbene filtrato dalle loro
conoscenze giuridiche e dalle abitudini grafiche del latino), probabil-
mente a fini di pubblica attestazione e divulgazione; si veda la dichia-
razione contenuta nel cosiddetto Placito Capuano che costituisce il primo
documento ufficiale scritto in latino e in volgare (cfr. pagina 132). I notai
possedevano un proprio sigillo, a forma di stemma araldico, visibile
nelle firme a calce dei contratti o nei diversi timbri; conteneva in genere
un’immagine ed un motto in latino con le iniziali del notaio.

Oltre ai cognomi, nei documenti medievali, anche i nomi personali spes-


so oscillavano: Paolo, per esempio, era più spesso Pavolo o Pagolo. In un
certo momento, tranne rare eccezioni, si sono fissati nell’unica forma che
ha visto il prevalere della forma toscana colta, la più vicina anche alla
forma latina, visto che i nomi di persona venivano per prassi trascritti
dai notai proprio in latino; se un comparente avesse dichiarato di chia-
marsi in dialetto napoletano Francischiello, il notaio avrebbe comunque
trascritto il nome di battesimo Franciscus.

Nel XIII secolo era diffusa, nei documenti ufficiali, l’usanza tra i notai
di omettere il cognome dei contraenti e tale abitudine ricorreva per tutti 155
i livelli sociali, per i baroni come per i semplici cavalieri, per i mercanti
come per i maniscalchi. Menzionarlo era una questione di gusti e pro-
pensioni personali, piuttosto che un’esigenza o un obbligo professionale.
Perché? Anche se i cognomi erano sicuramente già esistenti in quel pe-
riodo, i notai li omettevano nella redazione di atti di natura patrimoniale
come nelle indicazioni di confine, nelle compravendite o nelle locazio-
ni; tale comportamento trovava giustificazione con la natura privata
dell’atto o con l’agevole riconoscimento degli attori. Quindi appare
evidente che al cognome in quel periodo non veniva ancora riconosciuta
una funzione identificativa. Invece, primeggiava in tutti quei documenti,
lettere o registrazioni a cui era riconosciuta una valenza politica; infatti,
per le famiglie nobili, il cognome aveva una valenza autocelebrativa
con cui ostentare l’orgoglio della stirpe al pari degli stemmi di famiglia
così come per le cariche pubbliche o per le epigrafi tombali. Il cognome
aveva una funzione prettamente politica volta ad affermare solidarietà
tra i componenti del gruppo familiare, a definire ambiti di potere e, al
contempo, rimarcare le differenze rispetto ad altre genti.

Quanto detto trova conferma nei governi oligarchici di alcuni comuni


laziali o umbri del XV secolo dove la tendenza a concentrare i poteri
politici ed istituzionali nelle mani di poche famiglie ha certamente
favorito una generale adozione del cognome volta a stabilizzare uno stato
© arsc

156
Sigilli notarili di notai di potere e ad esibire una discendenza da ossequiare. Il ruolo dei notai
stabiesi (xvi-xix secolo)
sembra sia stato decisivo anche per la determinazione del singolare o del
plurale dei cognomi; ad esempio, il comune cognome Petri è un antico
genitivo o un plurale? Storicamente i plurali si sono diffusi nell’Italia
settentrionale mentre i cognomi terminanti in –o sono stati più frequen-
ti nell’Italia meridionale, in Piemonte e in Liguria.

Si è creduto che i cognomi terminanti in –i fossero genitivi notari-


li (Iohannes Petri stava per Giovanni Di Pietro, con Petri espresso col
genitivo, oppure da Petrus filius Pauli, con l’ellissi di elementi sintattici,
si è avuto Petrus Pauli cioè Pietro Paoli) ma ricerche più recenti hanno
provato che si trattava prevalentemente di plurali. I familiari di una per-
sona col nome aggiunto Fabbro si chiamavano e venivano chiamati i Fabbri
(modalità tuttora utilizzata in parecchi dialetti italiani); quindi Pietro
Fabbri non è dunque Pietro del Fabbro ma Pietro dei Fabbri.
157
Le tradizioni notarili (che ricalcavano la forma in latinizzata) predili-
gevano l’uscita in –is dei cognomi, talvolta con la preposizione De come
in De Robertis. Questi interventi, dovuti alle cancellerie notarili e agli
scrivani, hanno interessato anche i cognomi con la preposizione de,
che può essere una forma dialettale o una variante dotta per di; questa
particella costituisce l’espressione di relazione con il padre o la madre
come in De Roberto (o De Robertis, ricalcando la forma latinizzata di
tradizione notarile). Nell’opinione comune è indizio di nobile casato,
segnalato solitamente dal carattere minuscolo de; da qui il vezzo nobili-
tante di scriverlo in questo modo. Molti cognomi sono stati tramandati
in funzione del grado di cultura e della sensibilità del compilatore degli
atti; la semplice registrazione di un cognome, scritto a mano, ha sempre
implicato il soggettivo intervento di un redattore del documento cioè un
notaio, un parroco, un impiegato comunale o anche il diretto interessato.
S’intuisce quanto il grado di scolarizzazione, se non l’abitudine a scri-
vere, abbia potuto incidere sul risultato finale. Spesso chi era deputato
alla registrazione dei nomi, li trascriveva così come venivano pronunciati
senza un benché minimo tentativo di latinizzarli. Insomma, nello studio
delle forme onomastiche bisogna evidenziare il forte condizionamento
della mediazione dei notai tra ascolto e trascrizione nei atti scritti.

© raffaele fontanella

158
Le alterazioni delle parole

Miniatura con un monaco Le alterazioni linguistiche comprendono tutte le derivazioni morfologi- 159
amanuense (xiv secolo)
che delle parole e, tra queste, i cognomi che partecipano a tali trasfor-
mazioni attraverso i prefissi e i suffissi (questi ultimi con i diminutivi,
gli accrescitivi e i peggiorativi); ma anche la genesi involontaria con le
errate trascrizioni. Le procedure della suffissazione si sono applicate alle
diverse fonti di originazione dei cognomi italiani (nomi personali, topo-
nimi e etnici, soprannomi e nomi di mestiere). È fondamentale indagare
il rapporto che sussiste tra la categoria dei suffissi cognominali italiani
e la loro funzione nella formazione delle parole; tali suffissi possono
diventare, con le loro forme particolari, indizi della distribuzione areale
di un cognome. Infatti, con l’andar del tempo i cognomi hanno perduto
moltissimo della loro forma primitiva acquisendo, nei diversi popoli,
forme e desinenze talmente caratteristiche che, alla vista di un cognome,
siamo in grado di dire a quale nazionalità o etnia appartiene: a grandi
linee, la desinenza -u è rumena; -sohn, -mann, -burg è tedesca; -ski è po-
lacca; -ic è slava; -off è russa o bulgara; -ez è spagnola; -sen è nordica.

La suffissazione antroponimica, presente in un numero molto alto di


cognomi, risulta legata anche alle specificità dei dialetti italiani; tale
procedura ha subìto, nella tradizione scritta, interventi di adeguamen-
to all’italiano. Il cognome moderno serve ad individuare direttamente
un singolo referente senza attivare nella mente del parlante una vera
e propria rappresentazione semantica; ciò è dovuto allo scollamento
del cognome dal suo significato. In pratica, quando si parla del signor
Cavaliere non certamente ci si rivolge ad un appassionato di cavalli così
come il signor Di Francesco potrà non avere certamente il padre di nome
Francesco. I nomi di persona, nomi individuali e cognomi, hanno perso ogni
funzione significativa linguistica, e quindi il loro etimo, il loro fondamento e signi-
ficato lessicale non ha più alcun ruolo; la loro funzione è ormai esclusivamente
identificativa, extralinguistica come afferma Emidio De Felice nel suo libro
Dizionario dei cognomi italiani, Mondadori, Milano, 1997.

La vocale finale dei cognomi Belli, Bella e Bello non può essere inter-
pretata come desinenza grammaticale poiché i cognomi italiani non
vengono flessi secondo il sesso dei referenti, a differenza di quanto av-
viene nelle lingue russe; inoltre, un cognome come Vacchi presenta una
desinenza incompatibile con le regole della flessione italiana.

160 Come già detto, a moltiplicare la varietà dei cognomi sono intervenuti i
suffissi diminutivi, accrescitivi e spregiativi; i nomi personali, di solito
riservati per l’uso infantile o per l’uso affettivo, sono oggetto di vezzeg-
giativi; il nome è alterato con suffissi diminutivi (Pierino, Mariuccia) o
con l’aferesi come per Cesco (da Francesco) o Enzo (da Vincenzo); con
la sincope come per Bice (da Beatrice); con l’aferesi e la sincope assieme
come per Lisa (da Elisabetta) o Franco (da Francesco); infine con l’apoco-
pe come per Bartolo (da Bartolomeo).

Le dinamiche linguistiche relative alle alterazioni derivanti da suffissi


risentono, ad esempio per i cognomi tipici del napoletano e del Mez-
zogiorno d’Italia, delle regole di resa in dialetto degli accrescitivi e dei
diminutivi. In particolare, l’accrescitivo in napoletano si ottiene aggiun-
gendo il suffisso -one ma per usi dispregiativi si usa -accio o -acchio; su
quest’ultimo accrescitivo, in alcuni casi, si aggiunge un altro accrescitivo
in -one come in Lupacchione. Per rendere in napoletano il diminutivo ci
sono tantissime terminazioni; la più utilzzata è -iello (anche -jello) e -ella
anche per i nomi propri come in Santariello, Santarella Franceschiello;
poi per tutte le parole che terminano con -llo si rende con -uccio, -uzzo,
-uccia o -uzza come in Cappelluzzo, Galluccio, Cavalluccio. Poi anche con
-icchio e -ecchia per disprezzo come in Dottoricchio; ancora per le parole
terminanti in -ano o in -ese il diminutivo si fa con -otto o con -ottolo come
per Genoesotta (proveniente da Genova), Scrivanuottolo.
Un altro modo per le parole terminanti in -olo è con -etto come in Spa-
gnoletta; ancora con -illo come Paolillo, Santolillo, Perillo (piccolo pero),
Milillo (piccolo melo), Santillo. Poi con -iuolo (o -juolo) come in Cannavac-
ciuolo, Ferraiuolo; con -izzi, suffisso di derivazione greca con funzione
diminutiva come per Colizzi da Cola. Ancora con -ullo, suffisso dialettale
utilizzato per esprimere un diminutivo o un vezzeggiativo come per
Petrullo, Jacullo, Marullo, Crisafulli; -uso, suffisso di derivazione latina
indicante una qualità costante come per Mancuso, Amuruso; -uzzo,
suffisso dal valore diminutivo corrispondente all’italiano uccio come per
Antonuzzo, Jannuzzo, Peruzzo.

È interessante notare come si alterano in napoletano i nomi di persona


maschili e femminili; ciò per apprezzare come si sono generati i cognomi
di derivazione patronimica e matronimica. Antonio nel tempo si è diffe-
renziato in Antuono, Antoniello, Antoniuccio, Tonino, Tonno, Tonnillo;
Beatrice in Cicia, Cecella; Carlo in Carluccio, Carlucciello, Luccio; Carmi- 161
ne in Carmeniello, Meniello, Manniello; Caterina in Catarinella, Nina,
Ninella; Domenico in Dommineco, Mineco, Menecuccio, Minichiello,
Mimmo; Eustachio in Stacchio, Stacchiello; Francesco in Franceschiello,
Franceschetto, Ciccio, Cicco, Ciccillo, Ciccarella, Cicchella, Cicchitto, Cic-
co, Ciccone, Ciccolella; Giacomo in Jacovo, Jacoviello, Iachetti, Iacobucci,
Giacomino, Coviello; Giovanni in Gianni, Giannino, Giannetti, Iannelli,
Iannuzzo; Girolamo in Ciommo, Ciommetiello; Giulio in Ciulli; Ippolita
in Poppella; Marco in Marchetiello, Marchetti, Marcucci; Nicola in Cola,
Colecchia, Colella, Coluccio; Paolo in Paolillo, Pavolillo, Paoletti, Pau-
luccio; Pietro in Petrillo, Petruccio, Petraccone, Petrazzuolo, Petriccione,
Petrone, Perrella, Peroni, Peruzzo; Tommaso in Tommasino, Tommasiel-
lo, Maso, Masillo, Masuccio.

Altri nomi di persona, potenzialmente fonte di patronimici e matro-


nimici, possono essere forme derivative; partendo da Giovanni, ad
esempio, troviamo i vezzeggiativi (Vanni, Nanni), i derivati (Giovannino,
Giovanella), i doppi nomi (Colaianni, Colaiacono, Colandrea, Colapietro,
Colangelo, Colantuono, Ciccopieri, Giannantonio) o d’altro tipo (Quon-
damgiovanni con il prefisso di tempo latino quondam che identificava il
genitore defunto). Nelle composizioni con il suffisso -ieri si rivela spesso
un cognome di origine normanna: Berlingieri, Cambarieri, Canzonieri,
Franconieri, Gualtieri, Garnieri, Olivieri, Pellizzieri, Ruggieri, Zavettieri.
Miniatura tratta da una I diminutivi possono assumere semanticamente anche una funzione
Bibbia (xiii secolo)
patronimica; ad esempio Natalicchio e Pasquariello possono essere
interpretati sia evidentemente come piccolo Natale e piccolo Pasquale ma
anche come figlio di Natale e figlio di Pasquale.

La motivazione sottolinea l’importanza della relazione affettuosa tra


genitori e figli nella genesi di queste forme nel latino e nelle lingue
romanze. La relazione di parentela può essere espressa anche con forme
suffissate come il caratteristico -ic dei patronimici di origine slovena
e croata: Simonich (e varianti) è da intendere come figlio di Simone. Poi
con il suffisso -ante (panitaliano, ma presente specialmente nel Veneto
e in Campania come per Antonante), -esco (panitaliano per indicare il
collettivo familiare o etnico come per Barbaresco che indica un compo-
nente della famiglia Barbaro), -ina (suffisso che indica l’appartenenza di
una donna o dei vari componenti ad una famiglia come i Micelini erano
162 i componenti della famiglia dei Miceli); -inter (prefissi che in varie forme
cognomiali valgono appartenente alla famiglia di.

In qualche caso nel cognome è presente un prefisso che sembra avere


valore patronimico o di appartenenza alla famiglia; ad esempio in- che
è caratteristico dell’area meridionale e soprattutto della Sicilia; potrebbe
trattarsi di un riflesso dell’arabo ibn- con il significato di figlio di. Quelli
tipici del napoletano sono: -ante che ha valore verbale di participio ma
anche derivativo qualificativo e talvolta patronimico (Adorante, Caran-
nante, Ferrante, Parlante, Violante); -aro per i nomi di mestiere (Cor-
daro, Molinaro, Cannavaro); -ara designa un luogo comune come per
Ficara (un luogo piantato a fichi) e Caprara (una stalla per capre); -elli
o -ella (Mazzarelli, Porcelli, Santarelli, Pezzella, Montella, Colella); -illo
(Borzillo, Piccirillo); –iello (Martusciello, Vicariello, Borriello, Castiello,
Cerciello, Panariello, Porciello, Ricciardiello, Romaniello, Scaramuz-
ziello, Vitiello); -etta (Maruzzetta, Spagnoletta); -ieri (Olivieri, Ranieri);
-ino (Ambrosino, Bassolino, Iervolino, Lazzarino); -isi usato come etnico
(Campisi, Puglisi, Troisi, Parisi); -iuolo (Cannavaccuiolo, Mostacciuolo,
Raffaiuolo); -one (Mazzone, Picone, Stanzione); -eo (Maffeo, Mazzeo); -uo-
zzo è frequente come diminutivo, vezzeggiativo (Matuozzo, Capuozzo). Di
seguito una carrellata di suffissi che hanno generato miriadi di cognomi
italiani: -oli / -olli / -ari / -ori / -ardi / -ordi / -aldi / -oldi / -anzi / -enzi /
-onzi / -inzi / -ale / -ali / -assi / -essi / -issi / -acci / -occi / -ecci / -icci / -azzi /
© wikipedia
163
-ozzi / -ezzi / -izzi / -olfi / -alfi / -eschi / -oschi / -aschi / -aggi / -oggi / -eggi /
-arri / -orri / -erri / -onti / -unti / -igli / -agli / -ogli / -orli / -arli / -andi / -ondi
/ -eli / -audi / -auti / -uni / -ace / -auro / -auri / -ando / -ondo / -aldo / -oldo
/ -osso / -aro / -ese / -aso / -e / -é / -eo / -ei / -ela / -ele / -ella / -erto / -iero /
-etta / -ez / -es / -ante / -aglio / -iello / -iella / -ieri / -illo / -uoli / -aiuoli / -ollo
/ -olla / -ulla / -ullo / -utto / -ello / -aro / -esso / -asso / -atto.

Quindi gran parte dei cognomi sono il risultato di storpiature o abbre-


viazioni del nome del capostipite; numerosi quelli derivanti da diminu-
tivi e vezzeggiativi. Francesco figlio di Galeotto, figlio di Stefano della
Narda (Franciscus Galeocti Stefani Narde) era detto Cecco, non doveva
essere molto alto di statura se nei documenti veniva chiamato Cecherino,
poi Ceccarino ed infine Ceccarello, da cui il cognome Ceccarelli. Valen-
tino, figlio di Paolo, figlio del Lungo (Valentinus Pauli Lungi), nonostante il
soprannome del nonno (detto appunto il lungo) venne soprannominato
164 Lello, da cui Lelli. Poi Bernardino figlio di Pietro, di Gianni (Bernardi-
nus Petri Johannis) era soprannominato Fuoco e suo figlio Alessandro
(Alexander Fuoci) fu soprannominato Fochetto, da cui il cognome
Fochetti. Il cognome Chiricozzi ha origine invece da un Chirico (variante
locale del nome Quirico) detto Chiricozzo (Chiricotius Petri Chirici).
Miniatura della lettera
“G” maiuscola attribuita
a Attavante Attavanti
(circa 1480)
© wikipedia
La possibilità di incrementare il patrimonio cognominale aumentò
grazie alla varietà linguistica dell’Italia e, soprattutto, attraverso la com-
binazione dei suffissi alterativi; nel caso di Mazza troviamo, oltre agli in-
numerevoli derivativi (Mazzetti, Mazzini, Mazzola, Mazzotta, Mazzone),
la sequenza accrescitivo + diminutivo (come in Mazzoncini e Mazzonet-
to) ma anche la combinazione di due diminutivi (come in Mazzettino).

Anche per uno dei cognomi tipici stabiesi, Schettino, vale lo stesso ragio-
namento; probabilmente nel borgo medievale stabiese c’erano diversi
Francesco e bisognava distinguerli utilizzando i diminutivi (quindi uno
degli omonimi fu chiamato, ad esempio, Franceschetto) o, ancora di più,
con il diminutivo del diminutivo (quindi Franceschettino). Da quest’ulti-
ma denominazione si utilizzò, per aferesi, solo la parte finale e cioè solo
Schettino; questo nome divenne cognome nella sua funzione patronimica.
Secondo me tale cognome poteva derivare anche da un’alterazione della
parola schiatta (stirpe) in funzione dispregiativa per indicare un trovatel- 165
lo (un po’ come per Schiattarella) e cioè schiattina e poi Schettino.

Dal database dell’Ufficio Anagrafe di Castellammare di Stabia (con dati


aggiornati al 2 settembre 2019 su una popolazione di 65.567 residenti)
appena dopo il cognome Esposito, diffuso generalmente nel napoleta-
no ma anche in tutt’Italia, si posiziona il cognome Schettino tanto da
diventare quello più tipicamente stabiese con 1.109 individui. Quando
cominciò a diffondersi? Risulta interessante constatare che nei registri
notarili dell’era moderna, nel Catasto di città del 1554 e nel Catasto dei Ter-
zieri del 1603 tale cognome in città era assolutamente inesistente; iniziò
a diffondersi agli inizi del Settecento (XVIII secolo) tanto che nel Catasto
onciario del 1753 si contavano circa due dozzine di stabiesi (su circa 4.000
abitanti) con questo cognome. Tra le due ipotesi etimologiche (quella di
un patronimico derivato dal diminutivo di Francesco oppure quella del
derivato del dispregiativo di schiatta per i trovatelli) io propendo per la
seconda confidando nella massiccia sua attribuzione, assieme al cogno-
me Esposito, ai trovatelli stabiesi del XVIII secolo.

Un’altra grande porzione di cognomi, legata alle alterazioni della lingua,


deriva da errate trascrizioni; infatti in quanto forma linguistica, il
cognome odierno può aver subìto nel tempo cambiamenti attraverso la
trasmissione sia a livello di lingua orale che di tradizione scritta.
Il cognome Donnarumma
trascritto in modi diversi
(xvii secolo)

© asc

Attenzione a parte meritano i cognomi erroneamente scritti (o riscritti)


nell’unico modo possibile del passato e cioè con la grafia a mano. In tale
operazione era determinante il ruolo dei due soggetti coinvolti in un atto
pubblico o privato: il parlante (cioè chi dettava le sue generalità all’ad-
detto alla trascrizione) e lo scrivente (cioè chi riportava ciò che aveva
ascoltato o interpretato). Entrambi avevano una significativa responsa-
166 bilità per la corretta trascrizione e reiterazione del cognome stesso; tale
responsabilità si fondava sia sulla capacità (del primo) di ascoltare bene
il cognome pronunciato dal suo interlocutore, sia sulla capacità (del se-
condo) di pronunciare bene il suo cognome. Tale incongruenza dipende-
va anche dal modo di pronunciare, specie nei vari dialetti, alcuni gruppi
vocalici o consonantici con soluzioni strascicate o talvolta abbreviate;
infatti nel napoletano è molto diffusa la metatesi, cioè lo spostamento di
uno o più suoni all’interno della parola, come per identificare la pesca
gialla (che nasce precoce, quindi precox) con percox e cioè percoca.

Altri fattori che hanno contribuito al proliferare di tali varianti sono: le


interpretazioni, le manipolazioni, i fraintendimenti, l’evoluzione della
lingua e gli adeguamenti all’italiano, le tendenze nobilitanti, i proce-
dimenti paretimologici, la disattenzione e l’analfabetismo (capitava,
addirittura, che fosse la persona stessa a non sapere come scrivere o
pronunciare il proprio nome e cognome).

Dopo il Concilio di Trento (1545-1563) vennero istituiti i primi registri


battesimali nei quali, accanto al nome proprio, era annotato anche il
cognome. Fra il XVII e il XVIII secolo i primi rudimentali uffici di ana-
grafe iniziarono a registrare i cognomi e non di rado capitava che, nella
trascrizione anche dialettale, lettere e sillabe venivano storpiate dagli
anagrafisti, il che spiegherebbe le numerose varianti d’uno stesso cogno-
me: si pensi ai circa 300 derivati, spesso irriconoscibili, del nome proprio
Domenico fra cui Goi, Menegoi, Menego, Menico, Minghi, Minichiello,
Rumma, Donnarumma. L’atto della registrazione battesimale era redatto,
facendo uso di un apposito formulario, in una lingua latina quasi mai
pura, essendo frequenti le corruzioni, dovute ad ignoranza del redattore,
ad influssi dialettali e soprattutto alla mancanza di regole comuni che
ne permettevano una formulazione omogenea e costante.Per il cognome
del battezzato veniva di solito usato una forma italianeggiante (Bordo-
naro, Cannizzaro, Palumbo, Piraino), più raramente una forma latineg-
giante (Paternoster, Bonhomo, Di Benedicto, De Ignotis, De Dilectis). Ma
assai più frequente era l’uso di forme dialettali locali (Ferraro, Graziuso,
Piccirillo). Per quanto riguarda la scrittura, generalmente chi redigeva
l’atto si curava di gratificare l’esecuzione fonetica del cognome trascrit-
to ma spesso incorreva in evidenti errori di esecuzione grafica, per cui
venivano a realizzarsi nuove varianti. Ciò si nota, in particolare, nell’uso
di scrivere l’articolo o la preposizione unitamente al resto del cognome 167
in forme agglutinate (Laterza, Lasorella, Lamonaca, Lammoglia, Lonigro,
Lopopolo, Loprete, Lorusso, Lobello, Dellamorte) e perciò spesso veniva a
perdersi l’esatta cognizione del significato originario.

Quindi non poche volte i cognomi, così come anche i nomi, nelle annota-
zioni parrocchiali comportavano variazioni, spesso dovute alla fantasia
dei trascrittori. Ciò ha accresciuto enormemente i numeri dei cognomi
in Italia, arricchita nel tempo da tali variazioni lessicali o da processi
migratori. Nei registri ottocenteschi è visibile la lettera -i- che diventava
la consonante -j- quando era posta tra due vocali; in seguito le due lettere
vennero scritte una distinta dall’altra, come attualmente.
© arsc

Pertanto se un dipendente comunale avesse dovuto riscrivere in un altro


atto il cognome Di Maio, ad esempio, avrebbe potuto commettere un erro-
Nella scrittura del xix
secolo la lettera “i”, re di trascrizione e far nascere, involontariamente, il nuovo cognome Di
posta tra due vocali, Majo al posto del vero Di Maio. Da qui il doppio esito di alcuni cognomi
diventava la consonante
“j” come per Gennajo e in successive trascrizioni come Jovino e Iovino, Avitaja e Avitaia, Rajola
Febbrajo
e Raiola, Jacovo e Iacovo, Ferrajuolo e Ferraiuolo oppure Savoja e Savoia.
Quindi non sempre è facile risalire all’etimo di un cognome, specie di
quelli storpiati dalla tradizione orale e nella trascrizione anagrafica. Un
esempio è il cognome Parlato che non ha alcun nesso con il verbo parlare
ma è una semplice corruzione per metatesi del religioso prelato.
Il cognome Capriglione
erroneamente trascritto
in Crapiglione (xvi secolo)

© asc

Nella ricerca dei cognomi stabiesi mi è capitato di documentare tale


fenomeno per Capriglione, erroneamente scritto con Crapiglione. Qua-
si sicuramente non era un errore di trascrizione ma di pronuncia del
soggetto parlante, probabilmente analfabeta, che avrebbe pronunciato
168 proprio Crapiglione; in napoletano per metatesi la parola pietra si trasfor-
ma in preta, vetro in vrito e così anche capra si pronuncia crapa.

Anche il mio amico di scuole medie Silvestro Guadagna mi diceva di avere


un fratello con il cognome Guadagno! Come mai? Molto probabilmente
nelle continue trascrizioni manuali la terminazione superiore destra
della lettera -o (tipica della scrittura calligrafica) fu interpretata come
la gambetta della lettera -a e così, per magia, nacque un altro cognome.
Generalizzando si può dire che i vari documenti, in quanto compilati
da più scriventi di epoche diverse, presentano cognomi che, pur avendo
una comune origine, furono trascritti in maniera diversa risentendo del
grado di scolarità sia del dichiarante che dello scrivente; appaiono quin-
di sostanzialmente errori ortografici e/o superficialità dei redattori dei
documenti, non certamente uomini di cultura ed meticolosi. A prova di
ciò, negli atti notarili queste variazioni sono molto meno numerose che
delle registrazioni parrocchiali o quelle civili degli uffici anagrafe.

Facendo ricerche genealogiche, succede spesso di imbattersi in cognomi


che nei secoli cambiano sensibilmente; se non si fanno analisi appro-
fondite, si è ingannati tanto da poterli a volte considerare appartenenti
a famiglie diverse. Bisogna in ogni caso tenere presente che quando
questi cognomi si fissarono, una delle caratteristiche principali fu la loro
instabilità dovuta principalmente al fatto che la diffusa ignoranza non
permetteva di controllare come venisse trascritto il proprio cognome nei
vari atti pubblici; spesso accadeva che i cognomi venissero storpiati sia
per problemi di trascrizione che di pronuncia del parlante. La sensibilità
e la cultura del passato non attribuivano alcuna importanza al fatto che
un cognome potesse essere cambiato per il semplice gusto o piacere di
chi aveva il privilegio di saper scrivere ed era preposto alla registrazione
degli atti in genere compiuti dagli individui.

In alcuni casi lo storpiamento del cognome è avvenuto proprio nel mo-


mento del passaggio dalla lingua parlata alla necessaria trascrizione sui
registri parrocchiali o di stato civile, per l’uso invalso del dialetto locale
o per l’errata interpretazione, talvolta ipercorrettiva, di parroci e ufficiali
addetti alla compilazione; di conseguenza, anche nella tradizione nota-
rile e anagrafica manoscritta si riscontrano casi di persone della stessa
famiglia che hanno lo stesso cognome ma con varianti.
169
Altre curiosità ed errate trascrizioni celebri: il regista Franco Zeffirelli, il
poeta Salvatore Quasimodo e lo scultore Vincenzo Gemito. Per il primo
si riporta che nacque fuori dal matrimonio da Ottorino Corsi, un com-
merciante di stoffe originario di Vinci nel fiorentino e all’epoca sposato
con un’altra donna, e dalla sarta fiorentina Adelaide Garosi Cipriani.
La madre rimase incinta quando era ancora sposata con un avvocato
gravemente malato e divenne vedova durante la gravidanza. Il regista
ebbe un’infanzia tribolata dovuta alla prematura scomparsa della madre
e al mancato riconoscimento paterno che avvenne solo a 19 anni con
la nuova identità di Gianfranco Corsi; nonostante ciò ha continuato il
© wikipedia

suo prestigioso cammino artistico con il cognome inventato dalla madre,


appassionata di musica, e distorto involontariamente da un impiegato
Il regista Franco Zeffi- dell’anagrafe fiorentina. Mia madre tenne testa a una città intera e tutti lo
relli (1923-2019) sapevano: il bimbo nel suo grembo non poteva essere del marito, che si stava
spegnendo in sanatorio. Seguì il feretro con il pancione, vedova incinta di un
altro uomo: si può solo immaginare lo scandalo. Infatti sono figlio di ignoti, di
N.N. Ma c’era una regola: i cognomi degli illegittimi venivano scelti a partire da
una lettera, a rotazione. In quei giorni era il momento della Z. Cosi mia madre
suggerì che mi chiamassero Zeffiretti, da un’aria di Mozart da lei molto amata
(dell’Idomeneo). Nella trascrizione, l’impiegato fece un errore, mise due -ll- al
posto delle -tt-. Così io divenni Zeffirelli. E lo sono rimasto. Un cognome unico al
mondo che porto soltanto io, documento della sublime follia di mia madre.
170
Lo scultore Vincenzo Invece, nacque il cognome Quasimodo quando una ragazza madre si
Gemito (1862-1929) con lo
stabiese Raffaele Viviani presentò all’ufficio anagrafe di Ragusa per registrare il suo neonato;
l’anagrafista le chiese il cognome e la ragazza rispose Fate voi… L’ufficiale
di stato civile, appassionato lettore di Victor Hugo, le propose Vi piace
Quasimodo? E così Vincenzo Quasimodo, prima marinaio e poi caposta-
zione, diverrà il nonno di Salvatore, il poeta e premio Nobel del 1959.
Questo aneddoto è stato raccontato da Demetrio Vittorini, figlio dello
scrittore Elio (che sposò Rosina, sorella di Salvatore). Quasimodo, nella
cultura francese, ha un’origine letteraria ben motivata: creando il gobbo
di Nôtre Dame de Paris Victor Hugo volle rispecchiare anche nell’etimolo-
gia la caratteristica deformità fisica; infatti la voce viene dal latino quasi
modus cioè quasi (fuori) misura.

Infine, per Vincenzo Gemito nel corso dell’anno 1862 a Napoli fu scelta,
per un determinato giorno, la parola Genito come cognome da attribu-
ire ai bambini abbandonati; per un errore di trascrizione, il cognome 171
divenne Gemito e un bambino di nome Vincenzo divenne uno dei grandi
scultori italiani dell’Ottocento.

Come si vedrà, alcuni cognomi stabiesi hanno avuto nel tempo varia-
zioni e oscillazioni nella scrittura, spesso di poca importanza (è il caso
di Censone, Sansone o Sanzone); talvolta, invece, più rilevanti come per
De Aputeo, D’Aputeo, Del Pozzo, D’Apuzzo, Apuzzo fino ad assestarsi
nella forma odierna, in genere nell’Ottocento e soprattutto dopo l’Unità
d’Italia. Altri come Vaccaro, Coppola, Longobardi, Riccio, Afflitto hanno
avuto invece sempre (o quasi) la stessa forma fin dal loro apparire nella
documentazione scritta. Tutto ciò è dipeso da molteplici fattori, fra i
quali il più rilevante è stato sicuramente il tipo e il livello di conoscenza
della lingua (latino, longobardo, francese, spagnolo, italiano) usata da
chi quei cognomi ha in pratica scritto su carta o pergamena, in genere
i sacerdoti e i notai, con conseguenti storpiature, dialettizzazioni o, al
contrario, italianizzazioni.

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172
Le influenze dialettali

Libretto della canzone Nel panorama cognominiale italiano, degni di nota sono i cognomi nei 173
napoletana “Funiculì
Funiculà” composta dallo quali persistono numerose tracce dei dialetti e che derivano palesemente
stabiese Luigi Denza per
la festa di Piedigrotta
da trascrizioni in vernacolo. Nel periodo di transizione tra il latino e l’af-
del 1880 fermazione del volgare, i vari dialetti italiani hanno prodotto cognomi
molto riconoscibili per prefissi, suffissi e soluzioni espressive. Dal latino
hanno prelevato la maggior parte dei loro vocaboli adattandoli al proprio
modo di parlare, riuscendo anche a trasformarli pur di adattarli alle
proprie esigenze di pronunzia in quanto il problema era molto sentito
dalla massa popolare e si è dovuti ricorrere alla sostituzione delle sillabe
più impegnative con altre certamente meno.

Dal punto di vista della loro potenziale riconoscibilità linguistica è


possibile individuare quattro diverse tipologie di cognomi: i napoletani,
i calabro-siciliani, i sardi e quelli dell’area nord-est. In linguistica per
napoletano si intende un’area e una identità dialettale estesa, oltre alla
città e alla provincia di Napoli, dalla Sicilia a Civitella del Tronto (in
provincia di Teramo) e che presentano spesso caratteri propri del dialetto
napoletano, irradiatisi e affermatisi per il predominio politico e il presti-
gio culturale di Napoli; ebbene, in quest’area sono fortemente riconosci-
bili i cognomi Ferraiuolo, D’Antuono, Franzese, Sorriento, Grieco, Puglisi,
Maiuri (per Maiori), Pezzulo (per Pozzuoli), Nucera, Cusenza, Coppola,
Salierno, Spagnuolo, Napolitano. Poi ci sono i cognomi dell’area cala-
bro-siciliana in prevalenza derivanti dal grico, cioè l’insieme dei dialetti
neogreci parlati in alcune zone del Salento e della Calabria con la
caratteristica della sillaba terminale accentata come per Calì, Cannavò,
Catricalà, Sgrò, Calabrò, Spanò, Aricò, Laganà, Giuffrè, Managò, Nisticò,
Macrì, Cassarà, Zuccalà, Pellicanò, Praticò, Rodotà, Vetrò. Poi i cognomi
dell’area sarda talvolta brevi e che terminano generalmente con la vocale
-u o con la -s del catalano come per Nieddu, Ruju, Fresu, Scanu, Sau,
Frau, Soi, Loi, Cuccureddu, Piras, Cabras. Infine i cognomi dell’area del
nord-est che presentano la troncatura della vocale finale e che, pertanto,
terminano per consonante come per Venier, Trentin, Trevisan, Maran-
gon, Benetton, Furlan, Padoan, Sanson, Battaglin, Stefanel, Coin.

Russo, attualmente il cognome più diffuso in Italia, è un esempio dell’im-


portanza che hanno certi tratti linguistici che si rifanno a parlate dialet-
tali nell’interpretazione etimologica di un cognome; pertanto le trascri-
zioni cognominali derivate (o influenzate) dal dialetto sono quelle nelle
174 quali risultano evidenti le pronunce popolari, con le relative trascrizioni,
di certe parole raccolte ascoltando il parlante. Ad esempio, nell’area
napoletana del XVI secolo era più probabile ascoltare l’aggettivo Russo
al posto dell’italiano Rosso. Perché? Perché nella comunicazione orale
allo scrivente, quest’ultimo trascriveva proprio la parola che ascoltava in
dialetto e cioè russo; in napoletano tale aggettivo è accordato al maschile
mentre resta rossa (e non russa) per il femminile come, ad esempio, na
mela rossa; stessa cosa avviene per l’aggettivo nero che fa niro al maschile
e nera al femminile. Queste osservazioni confermano che l’ereditarietà
del cognome era esclusivamente fatta per linea maschile patrilineare.

Del suddetto cognome Russo è facile pensare che possa aver tratto origine
dall’aggettivo etnico russo (dalla Russia), così come esiste francese, tede-
sco, greco o bulgaro; un accostamento paretimologico (cioè superficiale
e non supportato da rilevanze scientifiche) che viene richiamato anche
da Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo: Poco dopo venne Russo, l’uomo
che il Principe trovava più significativo fra i suoi dipendenti. Svelto, ravvolto non
senza eleganza nella bunaca di velluto rigato con gli occhi avidi al di sotto di
una fronte senza rimorsi, era per lui la perfetta espressione di un cero in ascesa.
Ossequioso del resto, e quasi sinceramente affettuoso poiché compiva le proprie
ruberie convinto di esercitare un diritto (…) Questo era il paese degli accomoda-
menti, non c’era la furia francese; anche la Francia d’altronde, se si eccettua il
giugno del quarantotto, quando mai era successo qualcosa di serio? Aveva voglia
di dire a Russo, ma la innata cortesia lo trattenne: Ho capito benissimo: voi non
volete distruggere noi, i vostri ’padri’. Volete soltanto prendere il nostro posto.
Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio
di ducati. È così? Tuo nipote, caro Russo, crederà sincerameme di essere barone;
e tu diventerai, che so io, il discendente di un granduca di Moscovia, mercé il tuo
nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela.

Anche la metatesi (il processo di mutamento fonetico per cui l’ordine di


successione di due fonemi viene rovesciato e si verifica spesso in presen-
za delle lettere -r- e -l-), tipica del napoletano, ha generato cognomi tipici
come Cotroneo al posto di Crotone.

È davvero interessante notare come il dialetto ha influito fortemente


nella formazione di nomi, cognomi e soprannomi; nell’onomastica c’è
il riflesso dei cambiamenti della lingua che parliamo. Infatti il dialetto
svolge un ruolo determinante perché i cognomi si sono gradualmente 175
affermati circa 600 o 700 anni fa, quando era ben lontana la formazio-
Stampa che raffigura il
mestiere dell’acquajuolo
ne di una lingua nazionale unitaria. Contribuisce all’individuazione,
(xvii secolo) o alla documentazione, di forme toponomastiche, di aggettivi etnici,
di elementi lessicali che sono scomparsi ma che sono cristallizzati nei
cognomi. In napoletano, a livello fonetico, sono evidenti nelle parole (e
poi nei cognomi) le varie suffissazioni: -iéllo come in Auciello (uccello),
in Cappiello rispetto all’italiano Cappello oppure i movimenti vocalici
come Ruocco per Rocco, Salierno per Salerno, Sorriento per Sorren-
to, Sanzone per Sansone. Oppure la frequente mutazione della -b- in
-v- come per bilancia in valanza oppure per barca in varca. Di seguito
alcune coppie dello stesso cognome giunte a noi sia attraverso l’italiano
che attraverso il nostro dialetto: Guastaferro e Guastafierro, Grazioso e
Graziuso, Pasquale e Pascale, Paternostro e Paternuosto, Preti e Previti,
D’Antonio e D’Antuono, Bilancia e Valanza, Uccello e Auciello, Fornaro e
Furnaro, Fagioli e Fasulo, Greco e Grieco, Cecatelli e Cicatiello, Maestro e
Masto, Piccolo e Piccirillo, Pelosi e Peluso, Topo e Sorice, Longo e Luongo,
Leone e Lione, Colombo e Palummo, Pancia e Panza, Rotolo e Ruotolo,
Melo e Milo, Pero e Piro, Bocca e Musso, Gatto e Micillo, Merla e Merola…
176
Per generalizzare, si può affermare che molti cognomi dipendono da
parole dialettali, in parte, uscite dall’uso ma cristallizzate, appunto, nei
cognomi in modo da offrire sia un documento linguistico che antropo-
logico e culturale allo stesso tempo; si tratta, perlopiù, di appellativi con
un forte peso dialettale originatisi molto prima dell’affermazione di una
lingua nazionale unificata, che solo marginalmente o parzialmente riu-
scì a italianizzare vocaboli locali. Si possono ricordare i numerosi mestieri
della tradizione i cui nomi dialettali si sono persi da tempo o si stanno
perdendo; in napoletano i mestieri del passato erano: ferrajuolo, ferraro,
fabbricatore (sta per muratore), marenaro, cositore, scognamiglio, scassa-
canciello, potecaro, ortulano, notaro (sta per notaio), acquajuolo, mastro
buttaro, cositore, coppularo, accimatore (colui che rifiniva e riparava i
fregi dei tessuti), cannavaro (il venditore di tessuti di lino o canapa), fu-
naro, furnaro, scarparo, lattaro, mannese (il costruttore di carri), sanzaro
(sta per sensale, mediatore), sapunaro, siggiaro, vaccaro.

Il dialetto nei cognomi si evidenzia anche nel modo di rendere la pre-


posizione di provenienza da (che in napoletano si rende con ’a) come nei
cognomi Aponte, Apuzzo, Abagnale, Afasano, Afeltra, Amalfi. Questi
cognomi attingono dalla tradizione dialettale e derivano da registra-
zioni, falsate nel dialetto e dalla scarsa cultura degli impiegati all’a-
nagrafe, originate dal fatto che i capostipite provenivano da una certa
zona; ad esempio, nei pressi di un ponte, di un pozzo, dei bagni. Quindi
alla domanda di dove sei, da dove vieni? la persona rispondeva ’a Fasano,
cioè nell’italiano da Fasano. Lo scrivente registrava, per agglutinazione,
l’intera risposta ascoltata e cioè Afasano. Probabile stessa origine per il
cognome Afeltra dalla cittadina veneta di Feltre in provincia di Belluno
oppure dai territori del Montefeltro attualmente nella provincia di Pesa-
ro e Urbino. Anche il cognome Amalfi deriva dall’agglutinazione della
preposizione con la parola Malfi (corruzione di Melfi, la città lucana i cui
transfughi giunsero sulla costiera fondando la città) come si evince dallo
stralcio sono discesi de Ricci quegli che col medesimo nome habitano nella costa
di Malfi, tratto dal libro Gaetano Martucci, Esame Generale de’ debiti
istrumentarj della città di Castellammare di Stabia, 1786.

Anche se la lingua ufficiale era il francese, tuttavia gli angioini, alme-


no da Giovanna I in poi (dal 1343 al 1442), hanno parlato in napoletano
tanto è vero che ci sono pervenute alcune lettere scritte dalla regina in 177
questo idioma! Addirittura il napoletano sostituì il latino nei documenti
ufficiali a Napoli quando furono unificate le due Sicilie da Alfonso I nel
1442; conseguenza evidente è la rilevanza di alcune parole in dialetto al
pari di quelle ufficiali. Ma anche grandi scrittori del passato hanno uti-
lizzato il vernacolo napoletano nei loro componimenti; infatti Giovanni
Boccaccio ha trascorso la sua intera adolescenza a partire dal 1327 nella
La regina di Napoli Napoli del Trecento, culla della cultura dell’epoca.
Giovanna I d’Angiò

L’influenza della città partenopea è decisiva per quanto riguarda lo


stile ed i contenuti narrativi delle sue opere scritte in un antico dialetto
napoletano. Poi anche la canzone napoletana sarà il veicolo della diffu-
sione della passione per la poesia; nel XVIII secolo il napoletano diverrà
la lingua ufficiale del Regno e numerosi musicisti, ispirandosi ai cori
popolari, iniziarono a comporre farse, ballate e villanelle, quelle da cui
scaturirà la grande tradizione della canzone napoletana contemporanea.
Tutte queste manifestazioni della letteratura per dimostrare come l’uti-
lizzo del dialetto fosse condiviso e diffuso; ed anche come nella parlata
popolare la tipica pronuncia dei nomi di battesimo, dei luoghi geografici,
dei mestieri, dei soprannomi e dei modi di dire potessero costituire il
riferimento forte per l’originazione di nuovi cognomi fortemente ricono-
scibili nel panorama nazionale.

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178
I decreti napoleonici dal 1809

Anne-Louis Girodet de Il sistematico rilevamento statistico della demografia nazionale da 179


Roussy-Trioson “Ritratto
dell’imperatore Napoleo- parte delle autorità civili ebbe inizio nel Regno di Napoli, quindi anche a
ne Bonaparte” (xix secolo)
Castellammare di Stabia, durante il decennio napoleonico. L’arrivo dei
francesi a Napoli, avvenuto il 14 febbraio 1806, sancì una nuova stagio-
ne politica caratterizzata da un’enorme azione riformatrice i cui effetti
si avvertirono in tutti i campi sociali; il 31 marzo 1806 fu, pertanto,
istituito il Ministero dell’Interno con la competenza di formare i quadri
di popolazione, di economia e di statistica. Il Regio Decreto del 29 ottobre
1808 di Gioacchino Napoleone prescriveva che tutti i Comuni ricadenti
nel Regno di Napoli, con decorrenza 1 gennaio 1809, dovessero garanti-
re due nuovi fondamentali servizi pubblici di grande rilevanza sociale:
l’Anagrafe e lo Stato Civile. Fu stabilito l’affidamento a pubblici funzionari
o ufficiali dello Stato Civile (sindaci o secondi eletti) di registrare nascite,
matrimoni e morti; ogni registro doveva essere in duplice copia, una
conservata presso l’archivio del Comune, l’altra trasmessa al Tribunale
Provinciale alla fine di ogni anno.

Fino a tale data la compilazione degli atti dello Stato Civile era esclusiva
competenza del mondo religioso grazie ai diversi registri parrocchiali;
infatti il Concilio di Trento (1545-1563) aveva ordinato a tutti i parroci di
tenere un libro con l’annotazione del battesimo, cresima, comunione e
morte di ogni suo fedele. Con le disposizioni napoleoniche si attuò, in
un certo senso, una separazione fra l’autorità ecclesiastica e quella civile
Frontespizio degli atti ma, non essendoci precedenti strutture per un rilevamento statistico
dello Stato Civile (1809)
del comune di Castellam- di tipo moderno, all’inizio non si fece altro che raccogliere i dati dalle
mare di Stabia
parrocchie per poi trasferirli alle neonate istituzioni civili. Negli anni
successivi grandi attenzioni furono rivolte a dare risposte giuridiche alle
nuove esigenze di identificazione personale come, ad esempio, l’obbligo
di dare un cognome a persone che, loro malgrado, non ne avessero. Il Re-
gio Decreto n. 985 del 1811 stabilì che i fanciulli esposti dovessero portare
il cognome di coloro che ne avessero assunto la tutela; con questo decreto
ai trovatelli non si attribuì il cognome di Esposito ma il cognome che
richiamava l’orfanotrofio, come Annunziata, Grazia e Madonna.

Con l’Unità d’Italia, il nuovo Stato emanò leggi in materia di Stato Civile
con il R. D. 2602 del 1865, strumento normativo rimasto vigente per oltre
settanta anni; poi entrò in vigore il R. D. 1238 del 1939 che, con succes-
sive modificazioni e integrazioni, ha mantenuto la sua validità per circa
180 sessanta anni. Di recente ci sono state altre normative riguardanti lo Sta-
to Civile come la legge n. 127 del 1997 e il DPR 396 del 2000 Regolamento
per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile.

L’ordinamento dello Stato Civile rappresenta un fondamento giuridico di


grande importanza perché consente l’individuazione dello status di una
persona con riferimento a due ambiti sociali: lo Stato e la famiglia. Di
regola, lo Stato Civile di una persona inizia nel momento della sua na-
scita e termina con la sua morte ed è evidente, pertanto, la sua rilevanza
giuridica con l’esistenza di una prova scritta che possa attestarla.

Il decreto del 13 giugno 1815 recitava:

articolo 1. Gli abitanti del Regno, i quali non hanno un cognome, ossia un
nome di famiglia, dovranno entro tre mesi dalla pubblicazione del presente
decreto prenderne uno e farne la dichiarazione avanti l’ufficiale dello stato
civile del comune in cui sono domiciliati.

articolo 2. I forestieri che venissero ad abitare nel Regno e che fossero nel
caso previsto all’articolo precedente, saranno tenuti ad adempire alla stessa
formalità entro tre mesi successivi al loro ingresso nel territorio italiano e a
fare analoga dichiarazione avanti all’ufficiale dello stato civile del comune
in cui si propongono di stabilire il loro domicilio.
181

© ascs
articolo 3. Il nome di famiglia che il padre od altro ascendente paterno
di grado superiore, ove fosse ancora vivente, avranno dichiarato di voler
prendere, sarà dato a tutti i figli discendenti, i quali dovranno portarlo e
farne uso negli atti a quest’effetto il padre o altro ascendente come sopra
comprenderà nella sua dichiarazione i detti figli e discendenti, e il luogo
del loro domicilio, e questi si limiteranno a dichiarare l’esistenza ed il luogo
del domicilio del padre od altro ascendente paterno in grado superiore
ancora vivente.

articolo 4. Pei figli minori mancanti di ascendente paterno, la dichiarazio-


ne si farà dal tutore.

articolo 5. I membri di una medesima famiglia, i quali non avranno lo


stipite comune vivente, si uniranno onde scegliere il cognome che dovrà
essere a loro comune, ed in caso di discrepanza nella scelta, il cognome sarà
182 determinato dal podestà o sindaco del luogo. I membri della famiglia che
si trovassero assenti, saranno obbligati a conformarsi alla determinazione
presa dalla famiglia medesima.

articolo 6. Non saranno mai ammessi come nomi di famiglia i nomi di


città, di fortezze ed altri luoghi resi celebri da un qualche fatto d’armi o da
un fatto qualunque di interesse pubblico e generale.

articolo 7. I contravventori alle disposizioni comprese nei a precedenti ar-


ticoli saranno condannati ad una multa di lire cento e verrà loro dato, ove
occorra, dal podestà o sindaco del comune il cognome che saranno obbligati
di portare.

Successivamente venne emanata la circolare governativa del 29 novembre


1825 per dare un cognome particolare a ciascun esposto:

articolo 1. D’ora innanzi sarà dato a ciascun esposto un cognome partico-


lare.

articolo 2. Ove presso qualche luogo pio gli esposti avessero un cognome
comune per espressa disposizione di qualche testatore o benefattore, lo
stesso cognome sarà conservato, aggiungendovi però un altro cognome
particolare come sopra.
articolo 3. Questa disposizione sarà messa in esecuzione al più presto pos-
sibile e nel termine al più di tre mesi per tutti gli esposti che attualmente
appartengono a ciascun luogo pio, siano essi ricoverati e mantenuti entro lo
stabilimento, siano affidati a nutrici o custoditi fuori della pia casa.

articolo 4. Restano eccettuati quegli esposti che avessero già cessato defini-
tivamente di appartenere e stare a carico del luogo pio.

articolo 5. Così pure restano eccettuati da tale disposizione tutti quelli


esposti il di cui nome e cognome fosse già stato notificato alle rispettive
istanze pupillari, ai quali perciò verrà conservato l’antico nome sotto il
quale furono già annotati nei relativi registri.

articolo 6. Successivamente di mano in mano che sarà ricevuto un esposto


nel luogo pio gli verrà immediatamente imposto il proprio cognome partico-
lare, sarà con esso notato nei registri dello stabilimento. 183

articolo 7. A tal fine dovrà essere disposto un elenco abbastanza copioso di


cognomi differenti che possa essere sufficiente pel corso almeno di sei anni,
dopo i quali potranno riprendersi i cognomi medesimi nell’ordine stesso, in
cui si troveranno disposti nell’elenco. Qualunque vocabolo alterato, scom-
posto e ricomposto in diversi modi potrà servire alla formazione di cognomi
ideati con tutta facilità, avendo cura di evitare assolutamente quelli di
famiglie note e distinte.

articolo 8. Nel caso che qualche figlio venisse esposto con un cognome
particolare, gli sarà questo conservato (aggiungendovene al più un secondo
qualora le circostanze lo rendessero conveniente), potendo ciò servire al più
facile e sicuro suo riconoscimento.

articolo 9. Venendo legittimato o richiamato dai propri genitori qualche


figlio, lascerà egli il nome che gli sarà stato imposto nel luogo pio per pren-
dere quello della famiglia, cui appartiene, come è naturale.

articolo 10. In caso di adozione si osserveranno le disposizioni del


nelle due pagine seguenti paragrafo 182 del codice civile universale austriaco (cioè egli assumerà il
Panoramica del porto di cognome del padre adottivo o il nome di famiglia della madre adottiva,
Castellammare di Stabia
(xix secolo) conservato però quello impostogli).
© archivio plaitano

184
185
articolo 11. Di tre in tre mesi dovrà farsi la notificazione dei nomi che sa-
ranno stati applicati ai singoli esposti all’autorità comunale del luogo ove è
situato ciascun istituto degli esposti a senso del decreto dell’11 giugno 1813
e della circolare governativa del 2 agosto 1816.

articolo 12. Tutte queste disposizioni sono comuni agli esposti d’ambo i
sessi, ma per non moltiplicare eccessivamente i cognomi potranno servi-
re per le femmine gli stessi cognomi che si applicheranno ai maschi, non
potendo un tale duplicato produrre alcuna confusione.

articolo 13. L’esecuzione delle presenti disposizioni è intieramente affidata


ai direttori dei luoghi pii dei quali si tratta.

L’articolo 2 generò la diffusa registrazione del doppio cognome; per


alcuni segno di nobiltà grazie ai matrimoni tra aristocratici che deside-
186 ravano mostrare i blasoni delle due famiglie, per altri segno distintivo
dei trovatelli adottati da nuove famiglie. L’articolo 12 contrastava con la
diffusa consuetudine di attribuire alle neonate un cognome accordato al
genere femminile; fu emanata esplicitamente per ridurre la proliferazio-
ne di nuovi cognomi.

Frontespizio dei decreti


napoleonici (1818)
Poi la circolare governativa del 25 ottobre 1838, che abrogò una preceden-
te del 1835 a proposito dell’attribuzione di un cognome ai figli di parenti
ignoti, dispose che l’autorità comunale, per gli abitanti del suo circon-
dario privi di cognome e maggiorenni, li obblighi ad assumere entro tre
mesi un cognome particolare. Tra gli altri articoli, le disposizioni furono:

articolo 1. Ogni qual volta un parroco per occasione della formazione


dello stato delle anime della sua parrocchia (operazione di solito svolta nel
periodo pasquale per censire tutti i fedeli nel territorio di competenza) o di
altre operazioni di suo istituto verrà a scoprire trovarsi nei propri registri
dei nati inscritto un individuo senza cognome, dovrà entro tre giorni suc-
cessivi informarne la rispettiva delegazione provinciale, unendovi l’estratto
del relativo atto di nascita, acciocchè essa pratichi le indagini, chi abbia
ricevuto in custodia il figlio illegittimo, e dove questi si trovi, senza che però
tali indagini si possano estendere nemmeno indirettamente a scoprire il
vero cognome della madre. 187

articolo 2. Tutti i curati incaricati di tenere i libri degli atti di nascita nelle
rispettive parrocchie, allorché loro si presenta al battesimo un bambino
illegittimo d’ignoti genitori, di cui la madre naturale non sia contempora-
neamente notificata, debbono imporgli un cognome determinato, avverten-
do che a tenore del decreto italico dell’11 giugno 1813 non possono essere
imposti i nomi di fortezze, di città o di luoghi celebri per battaglie, come
a tenore del decreto aulico del 27 dicembre 1825, sono da evitarsi assolu-
tamente i nomi di famiglie già note e distinte, e che devesi nel libro stesso
aggiungere alla rubrica delle annotazioni l’osservazione che quel nome di
famiglia fu attribuito al bambino medesimo a senso di legge.

articolo 5. L’autorità comunale, venendo in cognizione in qualunque modo


di abitanti nel suo circondario privi di cognome, dovrà, se sono di età mag-
giore, ingiungere loro, con le avvertenze analoghe al disposto dall’articolo 6
del decreto italico dell’11 giugno 1813 e della seconda parte della gover-
nativa circolare del 29 novembre 1825 e sotto le comminatorie espresse
nel citato decreto, di assumere entro tre mesi un cognome particolare. E,
trattandosi di un minorenne, dovrà procurarsi le opportune informazioni se
gli sia stato dato o si proceda per dargli un cognome od occorra d’iniziare il
relativo procedimento.

© wikipedia © wikipedia

188
I patronimici e gli agionimi

Dipinto di Mattia Preti Nei tempi barbari era uso nominare gli uomini utilizzando il nome del 189
“Predica di san Giovanni
Battista” (1665 circa) padre; poi con i Normanni questa abitudine divenne stabile in modo
conservato nel Fine Arts
Museum di San Francisco,
che i discendenti di un individuo potessero usarlo come nome gentili-
Stati Uniti d’America zio di famiglia, cioè come cognome stabile e ereditario. Di seguito, un
caso campano: nel XIII secolo un certo Odofredo, nativo di Benevento,
insegnò a Bologna il diritto civile e i suoi discendenti si cognominarono
proprio Odofredi. Il capostipite era conosciuto (come era uso all’epoca)
con il solo nome di battesimo, cioè Odofredo, ma i suoi discendenti lo
usarono per indicare il legame con il padre come risulta dai documenti
per il figlio Alberto Odofredo (cioè figlio di Odofredo).

Di solito i nomi unici erano accompagnati dall’indicazione del padre


con la formula latina del Rogerius filius Boni, cioè Ruggiero figlio di Bono.
Ma anche con Berardus & Oderisius filii Rainaldi (Berardo e Oderisio figli di
Rinaldo) oppure con Oderisius Comes filius Rainerii Comitis (Conte Oderisio
figlio del conte Rainiero). Nella Cronaca di Volturno in una carta dell’817
dC con Ego Magipertus filius quondam Majoni (Io Magiperto figlio del fu
Maggioni); in un’altra dell’833 dC Ado & Lucefredo filii quondam Alunii (Ado
e Lucefredo figli del fu Aluni). Altra modalità era quella di premettere
al nome del padre la parola dominus o ser (o siri, sire o sir che significa
signore) come in Rogerius dominus Urso, cioè Ruggiero (figlio de) il signore
Urso che, per agglutinazione poteva diventare Donurso; oppure Ser Rao
(signor Raone) divenne il cognome Serao ed anche Serfilippo, Siripando.
Ancora, si premetteva la voce filius, come in Filius Marini che divenne Filo-
marino o Filius Angieri che divenne Filangieri. Oltre al padre poteva indi-
carsi anche in nome del fratello più conosciuto premettendo la voce frater
come in Frammarino, Fragianni, Fraricciardi e il corrotto Frallicciardi. I
cognomi potevano generarsi anche facendo precedere la preposizione di
nel significato di figlio di; si possono fare comparazioni con le altre lingue
per l’origine dei patronimici. In inglese si riconoscono dal suffisso –son
(cioè figlio di) come in Jackson (figlio di Giacomo o semplicemente Di
Giacomo) o Petterson (figlio di Pietro); in danese e norvegese –sen (Janssen,
© wikipedia

cioè il nostro Di Giovanni); in finlandese –nen (Heikkinen); quelli dei


popoli slavi terminano in -ic come Mihailovic (figlio di Michele) o Petrovic
(figlio di Pietro); per i popoli di ceppo russo terminano in -ov, per i bulgari
La rockstar americana
Michael Jackson in -off come Stefanov (figlio di Stefano); in greco –poulos (Papadopoulos,
cioè figlio di un prete). Ma anche come prefisso: Ap- in gallese (Apjohn,
cioè figlio di Giovanni), Mac- (o abbreviato in Mc) in scozzese e irlandese
190 (Macintosh), Fitz- in normanno (Fitzgerald e cioè figlio di Gerardo).

La preposizione semplice de era nei documenti in latino un modo per in-


dicare una famiglia, a prescindere dalla sua nobiltà. Se in un documento
si trova scritto Paulus Martini, cioè nominativo + genitivo, bisognerebbe
tendenzialmente tradurre Paolo di Martino; se, invece, si trova scritto Pau-
lus de Martinis, cioè nominativo + ablativo plurale, bisognerebbe tradurre
Paolo Martini. Ciò significa semplicemente che un patronimico si stava
trasformando in cognome stabile; in generale tali cognomi di parentela
possono essere espressi con il solo nome personale, il soprannome o il
nome aggiunto del genitore (come per i cognomi Daniele, Gaetano, Ange-
la, Raffaele, Simone) oppure preceduto solitamente dalla preposizione di
o de (come in Di Giovanni, De Maria, De Luca, D’Angelo, Di Francesco, Di
Maria, De Filippo, De Vito) o, tipici dell’Italia meridionale e della Sicilia,
i cognomi preceduti dall’articolo lo e la, anche al plurale li e le, che posso-
no essere seguiti da nomi di persona, soprannomi, toponimi come per La
Rosa, La Russa, Lo Monaco, Lo Nigro, Lo Bello, Le Grottaglie.

Il patronimico viene espresso in tutto il Sud anche premettendo la par-


ticella fi (apocope del francese fils e cioè figlio), di origine normanna, al
nome del padre: Firidolfi (figlio di Rodolfo), Fittipaldi (figlio di Tipaldo),
Firricardo (figlio di Riccardo). All’origine, quindi, dal nome della persona
si cominciò a denominare anche il gruppo familiare: così da Martino
si passò a Martini come plurale di valore collettivo, cioè la famiglia, la
casata, quelli di Martino. Appartengono a questa categoria anche i cognomi
latineggianti terminanti con l’ablativo in is: De Finis, De Leonardis, De
Filippis; lo stesso discorso vale anche per i cognomi di origine spagnola
terminanti in es o ez: Lopes o Lopez (cioè figlio di Lupo), Fernandez, Mar-
tinez. Ed infine anche quelli preceduti dall’articolo li: Liturri, Limotta,
Lisanti. Il patronimico poteva indicarsi anche con il prefisso Inter- con il
significato di appartenente alla famiglia di; l’elemento prefissato è sempre
un nome di persona come per Interbartolo, Interdonato, Internicola.

I cognomi possono derivare innanzitutto da un nome proprio di persona


(Augusto, Mariotto, Benvenuto, Baldovino) anche in forma di genitivo
patronimico, che indica cioè la discendenza da uno stesso padre o l’ap-
partenenza ad una famiglia derivante da un antenato comune. È questo
il caso del cognome Berti, attribuito originariamente a figli e discendenti
di un Berto e che può anche svilupparsi in forme diminutive o accresciti- 191
ve come nel caso di Bertini, Bertoni o Bertotti. Quindi i cognomi patro-
nimici non sono altro che i nomi propri dei padri, presi poi per cognomi
dai loro figli e discendenti.

La fonte dei nomi propri spiega l’influsso geo-storico del Medioevo


cristiano nella cognonomastica grazie al culto di Santi omonimi. L’uso
d’imporre nomi biblici (Daniele, Geremia, Isaia, Susanna) è abbastanza
praticato in Oriente, pochissimo in Occidente. Nel Medioevo si affermò
lentamente l’abitudine di dare nomi di apostoli o di santi, cioè gli agio-
nimi; sono tipicamente cristiani i nomi tratti da feste (come Paschasius)
e nomi teofori come Deogratias, Deusdedit, Quodvultdeus. Nell’epoca
angioina i nomi di battesimo (da cui discenderanno i cognomi patro-
nimici) più diffusi nel Mezzogiorno d’Italia erano: Giovanni, Pietro,
Nicola, Guglielmo, Paolo, Antonio, Bartolomeo, Benedetto, Dominico,
Falco, Francesco, Lonardo, Pandolfo. Invece, nell’epoca aragonese erano:
Giovanni, Domenico, Antonio, Benedetto, Luigi, Mattia, Paolo, Pascarel-
lo, Sabatino, Simeone, Francesco, Andrea, Angelo, Nicola, Maria, Santolo,
Tommaso, Aniello, Marino.

Nella nostra città sono molto diffusi i cognomi Sammarco, Santaniello,


Sanfilippo, Sangiovanni, Santomartino; chiaramente la diffusione dei
nomi di questi santi era la dimostrazione della sincera devozione e di
quanto fosse sentito il loro culto tra i fedeli cattolici. L’onomastica indi-
viduale in tutti i Paesi di religione cattolica era subordinata alle direttive
del Concilio di Trento (1545-1563) che aveva influenzato la popolazione
nella scelta degli agionimi con lo scopo di avvicinare, in contrasto con la
Riforma Protestante, il battezzato ad un santo, scelto per diventare suo
protettore e modello di vita; ciò mettendo contestualmente al bando i
nomi de’ Gentili e di coloro che sono stati uomini sceleratissimi dell’antichità.

Per indagare sui patronimici bisogna inevitabilmente indagare sui


nomi di battesimo; infatti i nomi personali raccontano molto del nostro
passato e del presente in cui viviamo. Alcuni nomi di battesimo indicano
con buona approssimazione l’età di una persona. I cognomi segnalano
l’origine dei nostri antenati, dove il nome di famiglia si è formato e fissa-
to: almeno una regione, una provincia, qualche volta perfino il comune.
I nomi propri sono quelli della storia, del passato, di un’epoca che forse
192 arriva fino alla metà del Novecento.

L’onomastica attuale vede la rottura degli schemi tradizionali consolidati


nei secoli, con la massiccia introduzione di nomi di persona derivati da
nomi e lingue straniere, da personaggi dello sport (vedi la grande diffu-
sione nel napoletano negli anni Ottanta e Novanta del nome Diego per
Diego Armando Maradona) e dello spettacolo (col successo delle serie tv
i nuovi italiani si sono chiamati Geiar, Suellen, Kevin, Maicol) e che non
segue norme condivise come poteva essere l’imposizione del nome del
nonno paterno al primogenito maschio oppure la derivazione devozio-
nale dai nomi dai santi, patroni, antenati, eroi.

L’argentino Diego Arman-


do Maradona (1988) con Normalmente era tradizione il rinnovo in famiglia dei nomi aviti: quello
la maglia del Napoli
del nonno (specie se era morto, perché in alcune località era considerato
di cattivo auspicio, vivendo il nonno, attribuire il suo nome a un nipote)
o quello del padrino; oppure, per motivi religiosi, relazionarsi al nome
di un santo cui la città o la famiglia avesse particolare devozione oppure
il santo del giorno della nascita, della registrazione o del battesimo.
Per motivi letterari con l’onomastica d’oltralpe che diffonde in Italia la
poesia cavalleresca (Orlando, Lancillotto); ancora per motivi politici con
il nome di un eroe nazionale (Menotti, Ricciotti, Anita, Galliano, Balilla),
il nome del sovrano o d’un membro della famiglia reale (Umberto, Elena,
Margherita, Vittorio, Maria Pia).
Un aneddoto interessante: nella Prima Guerra Mondiale il Bollettino
della Vittoria, con il quale il generale napoletano Armando Diaz comu-
nicava la vittoria italiana, terminava con la dicitura Firmato Diaz; ebbene
a molti bambini fu attribuito, come nome, proprio Firmato perché creduto
come il nome di battesimo del grande generale della Grande Guerra!

Il “Bollettino della vit-


toria” (1918) del generale
Armando Diaz

193

Le mode onomastiche durano talvolta per secoli oppure si esauriscono


brevemente; passano dalle classi più elevate alla plebe e poi si trivializ-
zano. In altri casi era la madre o la nonna a dare il cognome ai discen-
denti; poteva accadere, ad esempio, che la donna rimaneva prematura-
mente vedova e quindi i figli venivano identificati meglio con la madre
piuttosto che con il padre ormai defunto, come per il diffuso cognome
Della Vedova. Altri casi (come Labianca, La Maestra, La Tarantina, Laso-
rella, Labella, Labianca) rinviano a donne legate ad una lontana discen-
denza spuria ovvero a un padre ignoto. Anche il cognome Donnarumma
potrebbe derivare proprio da un matronimico; forse la madre a cui
fare riferimento si chiamava Domenica (in napoletano Rummeneca) ad
indicare quelli della signora Domenica per cui l’agglutinazione ha generato
Donna Rumma e poi Donnarumma.

© wikipedia

194
I toponimi e le migrazioni

Dipinto raffigurante i Toponimi ed etnici sono cognomi che indicano, per lo più, i movimenti 195
traffici mercantili di
una tipica città italiana migratori; la formazione di tali cognomi su base geografica (nazioni,
marinara del xv secolo
(anonimo)
regioni, città, villaggi, frazioni) rappresenta il 37% del totale dei nostri
nomi di famiglia. Si consideri che a Genova il cognome più diffuso è
Parodi (da Parodi Ligure in provincia di Alessandria ma storicamente
legato alla Liguria), a Milano è Brambilla (da Brembilla in provincia di
Bergamo), nella provincia di Ferrara è Mantovani, a Trieste Furlan (friu-
lano detto in dialetto friulano), a Palermo il cognome Messina è il più
diffuso e a Catania risulta tra i più frequenti.

Ve ne sono di varie specie che indicano sempre la provenienza o l’appar-


tenza ad un popolo; tra queste forme cognominali abbondano quelli de-
rivanti da toponimi, cioè da nomi di località. Dalla elevata concentrazio-
ne di tali nomi di famiglia nelle maggiori città italiane, si può desumere
che tale fenomeno sia da ricercarsi nelle trasformazioni socio-economi-
che subite dalla nostra penisola in certi momenti della sua storia; la crisi
delle istituzioni feudali, con la conseguente maggiore libertà di movi-
mento, determinò un flusso di migrazione interna, rilevante e durevole,
dalle località e dai piccoli centri verso le città vicine. Con il nome della
località di provenienza, o con l’indicazione dell’aggettivo etnico, pote-
vano essere designati gruppi più o meno consistenti di persone che, per
differenti motivi (commercio, ricerca di lavoro, persecuzioni), migravano
verso nuove località. Risulta lapalissiano ma cognomi del genere non
nascono se non in seguito ad un trasferimento; se un gruppo familiare
resta sul luogo dei suoi antenati, ad esempio Napoli, non sarà mai cogno-
minato Napolitano perché lì tutti sono napoletani. Il cognome quindi
non rifletteva un soprannome dato dai compaesani ma si ancorava a
dinamiche legate, da secoli, alla mobilità della gente che si trasferiva in
un’altra regione. È noto, per esempio, che numerosi cognomi israelitici
siano toponimi. Perché? Perché si sono formati tra il XV e il XVI secolo,
quando gli ebrei vennero espulsi dalla penisola iberica (sefarditi) e dal
centro-est d’Europa (aschenaziti); le continue persecuzioni cui erano
sottoposti, li costringevano a continui spostamenti verso centri più sicuri
e tolleranti tanto da abbandonare i loro cognomi originari per assumere,
per gratitudine, il nome della città che li accoglieva. Una curiosità: in
Portogallo questa abitudine era resa con gli alberi, così come per Pereira
(pero), Oliveira (ulivo), Pincheira (pino), Pimentel (pepe), Cardoso (cardo).

196 I cognomi Catania, Messina, Palermo, Milano, Faenza, Ancona, Seni-


gallia, Cremona, Venezia probabilmente si riferivano a città nelle quali
furono accolte comunità ebraiche. La crescita economica del Basso Me-
dioevo accrebbe enormemente la domanda di credito e ciò aprì spazi ai
finanziatori ebraici grazie agli sforzi della Chiesa per limitare la pratica
dell’usura da parte dei cristiani. Partendo da Roma, dove risiedeva la più
importante comunità ebraica d’Italia, i banchieri ebrei fondarono colonie
in Umbria, Marche, Toscana tra il XIII e XIV secolo. Tutte queste migra-
zioni erano un forte moltiplicatore per l’originazione di nuovi cognomi.

Un riflesso significativo di queste migrazioni è rappresentato proprio dai


cognomi; la conoscenza dei flussi demografici e quella linguistico-dia-
lettologica possono determinare con sufficiente chiarezza l’epicentro e
la diffusione di un cognome. In Italia i più diffusi risultano, in ordine di
frequenza: Greco, Lombardo e Lombardi, Sorrentino, Catalano, Cala-
brese, Albanese, Mantovani, Napolitano, Pugliese, Trevisan, Pisano e
Pisani, Romagnoli, Genovese, Tarantino, Cosentino, Toscano, Tedeschi,
Turco. Perché? Perché inizialmente questo aggettivo indicava veramente il
soprannome, legato alla provenienza geografica, di coloro che si trovava-
no in Italia di passaggio o per risiedere permanentemente. Ad esempio,
i lombardi erano popolazioni provenienti dall’Italia di nord-ovest che,
sotto gli auspici dei Normanni e degli Svevi, migrarono in Sicilia con lo
scopo di colonizzare e rinvigorire demograficamente le zone spopolate e
più impervie dell’isola. Invece l’etnico greco connotava in epoca medieva-
le le popolazioni provenienti dai Balcani, per lo più di origine albanese.
Ma tali aggettivi geografici spesso venivano utilizzati impropriamente;
soprannominare qualcuno nel Medioevo con il lombardo o il greco non
necessariamente significava riferirsi a qualcuno che provenisse dalla
Lombardia, o dall’Italia settentrionale nel suo complesso, oppure dalla
Grecia. Questi etnici avevano assunto valori legati al mestiere di banca-
rio e cambiavalute, il primo, e di osservante di rito bizantino, il secondo;
ma poi di usuraio, l’uno, e di astuto e ladro, l’altro. Invece, per il cognome
Tedeschi c’è da farsi una domanda: perché in italiano nel passato gli abi-
tanti della Germania erano detti alemanni e attualmente proprio tedeschi?
Perché il vocabolo viene dal latino medievale theodiscus = volgare, popolare
(a sua volta foggiato sul germanico theod = popolo) e indicò inizialmente il
dialetto parlato dal popolo nelle zone germaniche, contrapposto al latino
usato dai dotti; quando poi uno di tali dialetti divenne la lingua nazio-
nale, il termine tedesco passò a designare l’intera popolazione. 197

Altro caso: a Monte Argentario, nel grossetano, sappiamo di un forte


migrazione nei secoli scorsi da parte di pescatori del golfo di Napoli
(di Procida in particolare) tanto è vero che i cognomi lo confermano; è
frequentissimo il cognome Schiano, alterazione dell’aferetico di ischitano.
Alcuni di questi hanno cambiato la finale da -o in -i assumendo il tratto
morfologico tipico dei cognomi dell’Italia centrale al posto di quello
meridionale come per Vitiello che si è trasformato in Vitelli, Colantone in
Collantoni. Significativo, anche se ha seguito le regole di originazione del-
© wikipedia

la lingua araba, è il cognome del calciatore Adnan Al-Talyani della Na-


zionale degli Emirati Arabi Uniti; al campionato del mondo del 1990 svolto
Il calciatore Adnan proprio in Italia, si seppe che la traduzione del suo cognome Al-Talyani
Al-Talyani della Naziona-
le di calcio degli Emirati
era proprio l’italiano a testimonianza della forte componente toponoma-
Arabi Uniti stica ed etnica nella formazione dei cognomi in qualsiasi lingua.

Nelle trascrizioni del passato le parole (che poi sarebbero diventate co-
gnomi) subirono le influenze linguistiche dei vari dominatori e risenti-
rono dei fenomeni migratori che interessarono il Meridione d’Italia. Le
fonti per poter analizzare tali spostamenti derivano da censimenti della
popolazione, liste di concessione di cittadinanza, registri di battesi-
mo, rilevazioni fiscali, catasti, estimi, registri notarili. Per analizzare i
movimenti migratori sul territorio europeo, bisogna prestare attenzione
ai luoghi di origine di questi flussi per individuare tipologie causali di
valore generale; nel Basso Medioevo la penisola italiana è stata prota-
gonista di un’alta mobilità, con flussi migratori in arrivo e in partenza
di raggio variabile, di diverse tipologie sociali come lavoratori agricoli,
artigiani, studenti, gruppi di religiosi, militari, amministratori, mercanti,
mendicanti. Risulta, pertanto, fondamentale valutare il fenomeno con un
approccio multidisciplinare (dalla demografia all’economia, dalla geo-
grafia al diritto); in particolare, con la disamina delle caratteristiche geo-

La penisola italiana in
una cartina medievale

198

grafiche e dei comportamenti demografici delle località di partenza e di


arrivo tenendo presente l’aspetto politico, amministrativo e giuridico che
avrà potuto influire, in deterimanti periodi del Medioevo, con politiche
fiscali e legislazioni attrattive o repressive. Anche i lavoratori stagionali,
accolti in un nuovo paese, potevano essere indistintamente denominati
con il nome delle località d’origine (per esempio i Mantovani, i Pisani, i
Siciliani, i Toscani); così il diffusissimo cognome lombardo Bergamini ricor-
da i vaccari bergamaschi che dalle valli alpine scendevano nella Bassa
Padana così come Aquilani si chiamavano gli abruzzesi che scendevano a
Roma per lavorare alle acque di scolo. Invece, tra le maggiori migrazioni
straniere nella nostra penisola, bisogna menzionare quella proveniente
dal mondo germanico che si indirizzò verso l’Italia centro-settentrionale;
una forte presenza tedesca si riscontra all’interno di diversi settori lavo-
rativi come la manifattura tessile, l’industria mineraria e metallurgica.

Le migrazioni medievali cominciarono dalla decadenza dell’Impero


Romano continuando con gli spostamenti di popoli che modificarono
la composizione etnico-geografica dell’Italia fino al XVIII secolo. Tale
periodo comprende una grande varietà di fenomeni migratori che, di
fatto, hanno determinato significativi trasferimenti di popolazione; il
riferimento è ai movimenti di gruppi etnici derivanti dall’appartenenza
dell’Italia, o d’una parte di essa, a un sistema imperiale, che si tratti di
quello tardoromano o del bizantino; oppure agli spostamenti di intere
popolazioni alla ricerca di nuovi territori così come sono state le inva-
sioni barbariche nell’Alto Medioevo; ma anche ai trasferimenti legati da 199
conquiste militari che non comportarono una migrazione di intere po-
polazioni ma soltanto una sostituzione delle élite di governo così come
avvenne nel centro-nord con i Franchi e poi nel Mezzogiorno con gli
Arabi, i Normanni, gli Svevi, gli Angioini e gli Aragonesi; infine i vasti
movimenti di natura economica che si delinearono nel Basso Medioevo,
definiti come urbanesimo, con l’immigrazione dalla campagna alla città, i
trasferimenti di mercanti e artigiani, l’inserimento nel tessuto socio-
economico italiano di minoranze come ebrei, zingari, albanesi. Il tutto
per mostrare un quadro sufficientemente chiaro per capire quali sono
stati gli status di appartenenza etnica che hanno determinato l’esigenza di
indicare, come soprannome, la propria origine geografica.

Oggigiorno nella provincia di Napoli sono diffusissimi i seguenti cogno-


mi etnici: Fiorentino, Sorrentino, Franzese, Catalano, Pisani, Provenzale,
Aragona, Angiò, Genovese, Spagnuolo. Perché? Perché bisogna studiare
le migrazioni medievali che hanno interessato il nostro territorio e ne
hanno lasciato una traccia duratura. Per semplificare, già nell’Impero
Romano si ritrovano migrazioni etniche imposte con la forza per collo-
care i prigionieri come coloni sui latifondi, insediandoli su terre incolte
acquisite dal fisco oppure su latifondi privati, con uno status di coloni
soggetti alle imposte e alla leva; tali deportazioni avevano lo scopo di
impiegare i prigionieri come manodopera a basso costo. Al loro arrivo
in Italia, i Longobardi parlavano una lingua germanica e il loro cristia-
nesimo ariano conviveva con pratiche di culti politeistici; col tempo
essi persero questa identità assimilandosi alle popolazioni latinofone e
cattoliche della penisola. È sintomatico che il re longobardo Agilulfo, tra
il VI e VII secolo, si attribuisce per la prima volta l’appellativo di gratia
dei rex totius italiae (re di tutta l’Italia per grazia di Dio); e così cominciò
la longobardizzazione dell’Italia tanto che i termini Italia e Longobardia
erano sinonimi. L’etnico longobardi, addirittura fino al XIII secolo, di-
ventò il nome generico degli abitanti sia dell’Italia centro-settentrionale
(dalle Alpi alla Toscana) dove s’impose la contrazione Lombardi, sia del
Mezzogiorno campano-pugliese. Questa è la motivazione della grande
diffusione del cognome Lombardi e Longobardi. Ancor di più, si crearono
entità etniche a parte anche di consistenza ridottissima; ad esempio,
alcuni soldati dell’esercito longobardo di origine bulgara e ungherese si
insediarono in Toscana dando luogo a toponimi tuttora esistenti, come
200 Bolgheri in provincia di Livorno, ma anche con la grande diffusione dei
cognomi Bulgari, Bulgarelli, Ungaro, Ungaretti.

Come mai il cognome De Luca, molto diffuso nella nostra regione, lo tro-
viamo qui nel capitolo dedicato ai toponimi e non in quello dei patroni-
mici? Sì perché proprio in Campania, rispetto al resto dell’Italia, ha un’o-
rigine legata alla provenienza dalla Lucania, l’attuale Basilicata. Questo
cognome era solo uno dei tanti modi generici per riconoscere persone
originarie da questa terra di emigrazione. Nel Basso Medioevo si registrò
un primo flusso migratorio, verso la capitale del Regno di Napoli, con
moltissimi lucani che si fermarono fra la provincia di Napoli e di Saler-
no trovando fortuna specialmente nell’agricoltura e nella pastorizia; da
queste motivazioni nacquero i primi soprannomi, poi diventati cognomi.

La crescita dell’economia italiana a partire dal Mille, e fino all’inizio


del Trecento, si relazionò al fenomeno dell’urbanesimo, cioè nel costan-
te flusso di immigrazione dalle campagne verso le città. A trasferirsi
erano innanzitutto i proprietari terrieri del contado che continueranno a
trarre dall’agricoltura gran parte del proprio reddito, anche dopo essersi
integrati nella comunità cittadina abbracciando mestieri e professioni
urbane, dal mercante al notaio; costoro, tramite un giuramento di cittadi-
natico (atto con cui si diventa cittadini in cambio di alcuni obblighi), sono
accolti nella comunità politica urbana e fanno di tutto per edificare la
propria casa in città. L’immigrazione investe masse più ampie di conta-
dini poveri che soddisfano la costante richiesta di manodopera delle cit-
tà. I servi della gleba coltivavano i terreni che erano dati in concessione dal
re ai nobili; erano tali per nascita e non potevano lecitamente sottrarsi a
tale condizione senza il consenso del padrone.

Nei lavori per dissodare nuove terre, nel Medioevo il proprietario con-
cedeva, a chi sopportava l’onere di trasferirsi in nuove aree, particolari
libertà (dette franchigie) da cui il nome Villafranca dato a tante località. A
differenza degli schiavi, giuridicamente i servi della gleba non erano cose
ma persone con pochi diritti come la proprietà privata dei soli beni mo-
bili, possibilità di sposarsi e di avere figli ai quali lasciare un’eredità.
Il feudatario non aveva potestà sulla vita del servo, che però poteva esse-
re venduto insieme alla terra, nella quale aveva l’obbligo di restare. Per il
servo questo cambio di proprietà era rilevante solo se gli avessero impedito
di contrarre matrimonio; chi tentava di allontanarsi, veniva ricercato e 201
Cartina geografica del
mondo (xiv secolo) riportato indietro con la forza. Solamente quando un servo riusciva a
202

Pianta a volo d’uccello raggiungere una città, e otteneva di conseguenza il diritto di residenza,
della città di Napoli
realizzata dall’incisore poteva sottrarsi alla giurisdizione del proprietario fondiario; in generale,
Bastiaen Stopendaal lasciare la campagna era illegale ma i liberi Comuni proteggevano i nuo-
(1663)
vi cittadini da ritorsioni del feudatario. In Germania si diceva Stadtluft-
machtfrei ossia l’aria della città rende liberi. Nello statuto di Parma la libertà
era subordinata alla permanenza in città per 10 anni. I flussi migratori,
promossi dalla crescita economica del Basso Medioevo, hanno causato il
trasferimento di mercanti, membri di una nuova élite internazionale, che
si muovevano fra le corti e le città dell’Europea e del Mediterraneo. Da
una fase tardo-antica e alto medievale nella quale la penisola italiana è
stata oggetto di successive invasioni, che si presentano come flussi mi-
gratori di interi popoli, si è passati a spostamenti più diffusi che hanno
coinvolto realtà locali e situazioni individuali.
203

Semplificando, si potrebbe dire che dall’era delle migrazioni dei popoli si


passa a quella della migrazione degli individui. L’Italia occupava un posto
di rilievo nelle attività mercantili e bancarie, nell’artigianato e nella ma-
nifattura; le diverse voci che animavano l’economia attiravano, dunque,
una migrazione qualificata con numerosi mercanti e banchieri. Firenze
vantava un ruolo internazionale nel centro-sud mentre Roma rappre-
sentava un polo attrattivo per i forestieri da varie parti d’Europa perché
costituiva il centro della Cristianità.

Il Regno di Napoli era meta di flussi migratori dall’area provenzale e


catalana per effetto della dominazione angioina e, poi, aragonese. La
migrazione catalana era qualificata perché rappresentata da mercanti,
armatori e funzionari, specie per i vari consolati di rappresentanza.
Interessante segnalare la migrazione dei corsi (della Corsica) verso la co-
sta tirrenica e quella dei lombardi verso Genova e il Mezzogiorno. Come
tangibile testimonianza di un territorio diventato crocevia di flussi
migratori europei, già dal XVIII secolo nel Regno di Napoli esistevano
i seguenti cognomi geografici legati a città, regioni e etnici: Marsicano
(dalla Marsica, regione montuosa in provincia dell’Aquila), Salernitano,
Ostiense, Pugliese e Puglisi, Molise, Dell’Aquila e Aquilano, Ascolese,
D’Asti, Aversa, Aversano, Auletta (in provincia di Salerno), Bagnulo (dia-
letto per Bagnoli), Barile (in provincia di Potenza), Belmonte, Belvedere
(in provincia di Cosenza), Calabro, Campagna (in provincia di Salerno),
Canosa, Capaccio, Caramanico (in provincia di Pescara), Cassano (in
provincia di Avellino), Castelli (in provincia di Teramo), Chiaromonte (in
provincia di Potenza), Cosentini, Foggia, Fondi (in provincia di Latina),
Gaeta (in provincia di Latina), Gerace (in provincia di Reggio Calabria),
Gragnano (in provincia di Napoli), Gravina (in provincia di Bari), Lom-
204 bardo e Longobardo, Maiello (dalle montagne della Maiella), Marano
(in provincia di Napoli), Matera e Matarese, Montalto (Montalto Uffugo
in provincia di Cosenza), Montaquila (in provincia di Isernia), Monte e
Monti, Montefuscoli (antico nome dell’attuale Montefusco in provin-
cia di Avellino), Di Napoli, Di Nardo (da Nardò in provincia di Lecce),
Nicotera (in provincia di Vibo Valentia), Nola (in provincia di Napoli),
Paduano, Di Palma, Paternò (in provincia di Catania), Perugino, Pesca-
ra, Piperno (antico nome dell’attuale Priverno in provincia di Latina),
Pisa, Pisciotta (in provincia di Salerno), Potenza, Provenzale, Rapolla
(in provincia di Potenza), Ripa, Salerno e Salernitano, Sanframondo (da
Guardia Sanframondi in provincia di Benevento), Satriano (in provincia
di Catanzaro), Scala (in provincia di Salerno), Sessa (da Sessa Aurunca in
provincia di Caserta o da Sessa Cilento in provincia di Salerno), Siena,
Sorrentino, Stilo (in provincia di Reggio Calabria), Spano (proveniente
dalla Spagna, da hispano), Summonte (in provincia di Avellino), Supino
(in provincia di Frosinone), Telese e Telesino (in provincia di Benevento),
Teramo, Di Tora (da Tora e Piccilli in provincia di Caserta), Della Torre,
De Turris, Toscani, Del Vasto (in provincia di Chieti), Veneziani, Venosa
(in provincia di Potenza), Di Vico, Villanova.

Molti di questi cognomi gentilizi potevano derivare anche dai feudi


posseduti dagli aristocratici; non pochi baroni li usavano per distinguer-
si lasciandoli in retaggio ai discendenti. Tra questi: Amandolea, Caiano,
Avella, Ceccano, Aiello, Sanseverino, Di Tocco, Santangelo, Di Sarno,
D’Aquino, Sanguineto, Di Celano, D’Acquaviva, Di Sangro, Della Tolfa,
Di Valva, Di Senerchia, Di Castrocucco. Dal libro di Gennaro Grande
Origine de’ cognomi gentilizj nel regno di Napoli del 1756 è possibile indivi-
duare diversi esempi di cognomi presi dai feudi; dalla citazione Alexander
de Petra tenet in Petra dimidium feudum militis. Guirnisius de Guardia tenet in
Guardia feudem sono nati i cognomi de Petra e Della Guardia. Invece, per
dimostrare che nel XVIII secolo il cognome non era ancora un elemento
invariabile, è interessante analizzare un’iscrizione nella quale viene ci-
tato il fratello del suddetto Alexander de Petra; ci si aspetterebbe di ritro-
vare lo stesso cognome de Petra ma, invece, il nome del fratello Guglielmo
viene associato a quello del suo feudo di Messanello e cioè Guillelmus de
Messanello tenet de praedicto Alexandro fratre suo Messanellum.

I toponimi in generale hanno alla base l’indicazione del paese, della


città o del centro abitato, della località di residenza, di origine o di prove- 205
nienza, della persona o del gruppo familiare. Tale provenienza geografi-
ca può essere espressa in tre modi: in modo secco con il nome proprio o
comune (Milano, Napoli, Calabria, Alemagna, Francia, Spagna, Colli-
na, Costa, Monti, Ponte, Riva, Valle), espressa con un aggettivo etnico
(Albanese, Danese, Cosentino, Lucchese, Napolitano, Sardo, Montanaro,
Rivale, Vallese), espressa con il toponimo introdotto dalle preposizioni di
e da (Di Capua, Di Nola, Di Mare, D’Azeglio, D’Este, Della Casa, Del Poz-
zo, Del Monte, Della Valle, Da Ponte, Dalla Chiesa) o, nel Sud, determi-
nato dall’articolo lo e la (Lo Castro, La Rocca). In generale, l’utilizzo della
preposizione di sottintende cittadino o barone così come nei patronimici
un tempo si sottintendeva figlio e oggi si sottintende discendente.

Dalle tesi dello storico Carlo De Lellis si afferma che il primo feudatario
in età normanna fu Tancredi, il figlio di Pietro, menzionato in un docu-
mento riferibile a Santa Maria di Galeso in Puglia: (…) i Sanfelici preso ha-
vessero il lor cognome dal dominio che ebbero del Castello di Santo Felice posto
nelle due pagine seguenti nella Provincia di Terra di Lavoro e ch’il primo, che nel nostro Regno pervenisse,
Pianta a volo d’uccello
della città di Napoli
fusse stato Pietro ò vero il patre suo in compagnia de’ Principi Normandi poichè
(1572) realizzata dagli si trova fra le scritture di Santa Maria di Galeso in Puglia una donatione fatta
incisori Frans Hogenberg
e Georg Braun, conser- in Lucera ò sia Nocera de’ Saraceni nell’anno 1090. Sotto Rogiero Duca di
vata nell’Universitäts Puglia, da Tancredi di Sanfelice alla suddetta chiesa d’alcuni beni esistenti nel
Bibliothek di Heidelberg,
Germania territorio della città di Troia, per l’anima sua, e di Pietro, il qual dice essere stato
206
207
nominato di Santo Felice, e di Gertruda, suoi genitori. Nel documento in lati-
no è scritto Tancredus filius quondam Petri, qui de Sancto Felice fuit cognomi-
natus e cioè: Tancredi figlio del fu Pietro, che fu cognominato Sanfelice.

Oltre ai nomi propri, i toponimi potevano essere resi anche con nomi co-
muni; spesso il notaio o il parroco faceva diventare cognome l’appellativo
che rinviava al vivere di una certa famiglia all’interno della dimensione
spaziale come per Isola, Strada, Fontana, Valle, Rocca, Villa, Collina, Piazza,
Monte, Montagna, Arco, Fiume, Costa, Porta, Piane, Pozzi. Ad esempio, il Gio-
vanni che abitava sul Faito divenne per tutti Giovanni Montagna mentre
quello che viveva nei pressi del Sarno Giovanni Fiume. Risulta interessante
comparare tale originazione dei cognomi con esperienze di altre lingue
e di altre culture. Ad esempio, il concetto della provenienza è reso con
cognomi diffusissimi: in Portogallo con Silva (foresta); nel mondo anglo-
sassone con Bush (cespuglio), Ford (guado), Hill (collina) e Wood (bosco);
208 nel Belgio francofono Dubois (bosco); Dumont e Van der Berg (montagna)
nel Benelux; Dupont (ponte) in Francia; Van der Meer (lago) in Olanda; Del
Bosque in spagnolo. Ritornando all’italiano, in questa categoria rientra-
no tutti quelli che terminano con il suffisso -monti (Rigamonti), -boschi
(Tagliaboschi), -acqua (Passalacqua per indicare un ponte sul fiume).

In generale sia per i nomi propri che quelli comuni, perché certi luoghi e
non altri? Perché non è diffuso ampiamente il cognome come toponimo
della nostra città (ad esempio Stabia, Stabiese, Castrimaris, Castellammare)?
Eppure sono molto diffusi (addirittura alcuni a carattere nazionale come
Sorrentino) i cognomi derivati dalle cittadine nelle vicinanze: Gragnano,
Pompei, Sorrento, Scafatese (da Scafati), Letterese (da Lettere), Saviano,
Nola, Nocera, Aversa, Sarno, Scala, Siano, Ravallese (da Ravello), Striane-
se (da Striano), Angrisani (da Angri), Visciano, Capua, Salerno, Procida,
Marano, Giugliano, Maddaloni, Marigliano, Amalfi. Il ridotto utilizzo
del nostro soprannome etnico è dovuto al fatto che la nostra comunità,
all’epoca dell’originazione dei cognomi e cioè dal XI al XIII secolo, non
era considerata una vera e propria città rispetto ad altre; con la distruzio-
ne di Stabiae nel 79 dC, gli abitanti, ormai privati delle proprie abitazioni,
costituirono un villaggio lungo la costa più proteso nel mare rispetto
a quanto fosse in passato. Questo nuovo villaggio entrò a far parte del
Ducato di Sorrento e furono proprio i sorrentini a costruire il castello sulla
collina di Pozzano per difendersi dalle incursioni barbariche.
Questa condizione di subalternità produsse una scarsa riconoscibilità e
individuazione della provenienza degli stabiesi presso altre città; allora
si preferiva, forse, dire di provenire genericamente da Napoli e da Sor-
rento piuttosto che dire di essere uno stabiano o di provenire da Stabia. A
parziale consolazione, alcuni linguisti attribuiscono ai cognomi Staibano
e Staiano proprio la valenza etnica, anche se corrotti rispettivamente per
metatesi e sincope nella resa attuale, derivando dall’etnico stabiano che
indicava probabilmente, nel Medioevo, la provenienza dalla nostra città.

Diverso esito avrebbe potuto avere il toponimo Castellammare; in tanti


documenti storici, oltre al nome e cognome, gli stabiesi presentavano il
nome aggiunto di natura toponimica de Castromaris (o semplicemente
Castromaris) che, però, non si è perpetuato fino a noi contemporanei. Per
la verità un epiteto era in uso, anche se nella dimensione dispregiativa;
infatti nel XVI secolo (tratto dal libro di Giovan Antonio Summonte,
Historia della Città e del Regno di Napoli, Antonio Bulifon, Napoli, 209
1675) i napoletani di città consideravano veri e propri terroni ante litteram
gli uomini provenienti dalle sette C e cioè Castelluonichi, Caprare-
si, Costaioli, Cetaresi, Cavaiuoli, Cilentani e Calabresi. Perché? Forse
perché, a detta dell’autore, mostravamo cinismo e scaltrezza nel modo di
negoziare; non era la prima volta perché già Giovan Battista Basile, nel
suo Lo cunto de li cunte, dava parola a Giangrazio che diceva, certamente
non amorevolmente, a Castiello a Mare né ammice né compare. In genere
dai soprannomi ingiuriosi sono spesso derivati i moderni cognomi ma,
nonostante grandi ricerche, non sono riuscito a trovare, attualmente in
Italia e nel mondo, il cognome Castelluonico del XVI secolo.

Dalle province meridionali del Regno giungevano famiglie intere in cer-


ca di lavoro o in fuga da assalti dei pirati. Infatti nel 1533 il famigerato
pirata Sinan il Giudeo, terrore del mar Mediterraneo, assaltò la piccola cit-
tadina di Cetara, ora in provincia di Salerno; la saccheggiò e portò con sé
trecento prigionieri che, creando gran trambusto nella nave, costrinsero
i pirati a scaricarli al porto di Napoli rinunciando alla parte del bottino
derivante dalla tratta degli schiavi. Questi cetaresi, così come altri dei
paesi limitrofi, decisero di stabilirsi in città a cercare fortuna; ci riusciro-
no presto, dato che a Cetara erano eccellenti muratori che misero subito
a frutto la propria arte. Altri invece si diedero al commercio esibendo
Miniatura (xvi secolo) di
Sinan il Giudeo ottime abilità nelle trattative, come forse i nostri castelluonici.
Di fatto questi provinciali erano considerati immigrati che rubavano lavo-
ro ai napoletani dato che, ovviamente, i paesani che ottenevano successi
personali e commerciali a Napoli cominciavano ad attirare altre persone
dalle proprie terre d’origine. Ciò era dovuto perché Napoli registrava le
migliori condizioni economiche di tutto il Regno. Tale intolleranza si
esplicitò col tracciare precisi stereotipi: i Castellonicchi sono tristi, i Ca-
praresi sono cattivi, i Costaioli peggiori, i Cavaioli impraticabili, i Cetaresi nella
Litografia di Philippe malizia, i Cilentani intrattabili e senza ragione, e i Calabresi superano tutti.
Coignet “Chemin de
Castelamare a Vico” (1826) Nel finale del libro l’autore chiosa con l’ammonimento quando in città
tratta da “Vues pitto-
resques d’Italie, dessinées
incontrerai truffatori, venditori che cedono cose al doppio del prezzo, ladroni e
d’apres nature” assassini di strada, non farti ingannare, non sono napolitani, ma stranieri.

210
Come mai cognomi non proprio autoctoni, come Pisano e Toscano, sono
fra i più frequenti in Sicilia? Si tratta di un fenomeno di migrazione
interna alla rovescia! Le famiglie italiane del Medioevo non cercavano
fortuna spostandosi dal Sud al Centro-Nord; anzi, al contrario, conside-
rato che la Sicilia era una delle aree più ricche e produttive d’Italia, assai
numerosi erano i contingenti famigliari che, di frequente, si spostavano
verso il Sud dalla Toscana o dalla costa lucchese (nota fra l’altro per esse-
re infestata dalla malaria!).

Talvolta all’origine di queste emigrazioni potevano esserci situazioni di


crisi politica come, ad esempio, la conquista di Pisa da parte di Firenze
nel 1406 che stimolò una fuga di membri di famiglie dell’aristocrazia
locale in direzione della Sicilia. L’economia dell’Italia del Sud divenne
sempre più attraente, tanto da registrare una forte domanda di profes-
sionalità specifiche; infatti si produsse una massiccia migrazione verso
il Mezzogiorno di tecnici dell’economia, della finanza e dell’amministra- 211
zione. Invece l’immigrazione di diversa natura, cioè quella dei poveri, si
considerò una risorsa di breve periodo e col tempo si cercò di controllarla
impedendo il trasferimento in città dei lavoratori soggetti ai feudatari.

In età medievale le migrazioni furono in misura prevalente determinate


da motivi di lavoro o professionali, non solo e non tanto legati alla ricer-
ca di un’occupazione qualunque ma anche, e soprattutto, all’offerta da
parte del migrante di un determinato lavoro, di una competenza tecnica
e di un mestiere (già posseduti in origine) laddove questi potevano costi-
tuire una risorsa maggiormente valorizzata. Le città infatti rappresen-
tavano centri di offerta di lavoro che attraevano manodopera, da quella
specializzata a quella non qualificata, in un contesto generale di crescita
demografica che dal Mille giunse fino al Trecento. I comuni urbani
negoziavano anche a grande distanza per promuovere l’immigrazione
di maestranze specializzate, soprattutto nel settore tessile; ad esempio
il comune di Bologna nel 1231 stipulò accordi con lanaioli e setaioli
provenienti da diverse città toscane e lombarde, in particolare Lucca e
Verona, offrendo prestiti senza interessi, esenzioni fiscali e agevolazioni
per l’alloggio attirando così in città maestri con le loro famiglie. Poi, tra il
XV e il XVI secolo, gli albanesi (ma anche i greci e, in generale, gli slavi)
giunsero in Italia per sfuggire alla repressione ottomana o, semplice-
mente, per ricercare migliori opportunità di vita. Tale fenomeno migrato-
rio interessò decine di migliaia di persone tanto è vero che il censimento
del 1861 conterà nell’ex regno di Napoli oltre 55.000 albanesi; tutto ciò è
dimostrato dalla presenza al sud Italia dei cognomi Albanese, Durazzo e
Schipa (riflette l’etnico shqipe dell’emigrazione albanese o arbëreshë). Poi
il diffuso cognome Schiavo o Schiavone deriva proprio dalle migrazioni
degli slavi, termine corrotto poi in schiavi, cioè le popolazioni della spon-
da orientale dell’Adriatico durante l’Età Moderna.

La conquista angioina dell’Italia meridionale nel 1266 comportò il


trasferimento in Italia d’un gran numero di persone, soprattutto uomini
d’arme e balestrieri dell’esercito di Carlo d’Angiò, domestici e chierici
della sua corte, oltre a una ristretta élite di grandi vassalli, alti funzio-
nari e prelati. In tutto sono stati identificati circa 4.500 provenzali e
francesi del nord presenti in Italia dal 1265 al 1284: l’immissione di per-
Monumento funebre
212 angioino per Ladislao di
Durazzo realizzato da
Andrea Guardi (1414-1428
circa) all’interno della
Chiesa di San Giovanni a
Carbonara di Napoli
sonale transalpino fu così ampia che il francese sostituì il latino come
lingua amministrativa del Regno. Carlo d’Angiò promosse l’immigra-
zione con concessione di privilegi a mercanti e artigiani marsigliesi con
conseguenti spostamenti significativi nelle città siciliane, napoletane e
pugliesi. Per le ragioni anzidette, ciò contribuì a soprannominare (e poi a
creare veri e propri cognomi) gli immigrati con nomi etnici della Francia
come, ad esempio, Francia, Di Francia, Franzese, Franciosa, Frangione,
Marsiglia, Valois, Provenzano, Provenzale, Parisi (da Parigi), Corso e
Cossiga (da Corsica), Borgogna, Borgognoni, Piccardi, Savoia, Angiò e
D’Angiò (dalla dinastia degli Angoini). Anche san Francesco d’Assisi,
alla nascita battezzato con il nome di Giovanni (cioè Giovanni di Pietro
di Bernardone), fu così chiamato perché il padre, di ritorno dalla Francia
per affari, lo chiamò con l’etnico Francesco.

Diversamente, la monarchia aragonese promosse il ripopolamento con-


cedendo privilegi a mercanti e artigiani dalla penisola iberica verso l’Ita- 213
lia meridionale, con i catalani in prima battuta; insieme a uomini d’arme
e d’amministrazione, venuti a gestire il paese conquistato, si trasferirono
anche artigiani e contadini. Le comunità risultanti si rivelarono più
coese e di maggiore durata, tanto da dare vita ad alcune delle minoranze
linguistiche ancor oggi presenti in varie zone d’Italia. In alcuni casi,
come ad Alghero in Sardegna, ai coloni venne imposto di farsi raggiun-
gere dalle mogli entro sei mesi e di risiedere un minimo di 5 o 10 anni
prima di poter rivendere tutto e ripartire; il paese era abitato da una po-
polazione indigena che era guardata con sospetto dai conquistatori men-
tre le infrastrutture urbane e commerciali, interamente in mano a pisani
e genovesi, erano collassate al momento della loro espulsione. Anche per
la parentesi spagnola, gli immigrati erano soprannominati con nomi
etnici della Spagna come, ad esempio, Spagna, Spagnoli, Spagnuolo,
Maiolica (xv secolo) Spagnoletta, Spano (da Ispano), Catalano, Cattelan, Castigliano, Siviglia,
della “Fabbrica Reale
aragonese” di Napoli Cordova, Malaga, Toledo, Aragona (Ragone, Rago), Navarra, Galizia.

Sembra strano per noi contemporanei ma i movimenti migratori medie-


vali videro gli abitanti dell’Italia dirigersi fuori dai propri confini. Per-
ché? Perché per un mercante napoletano trasferirsi a Genova, a Firenze
o a Costantinopoli significava sempre e comunque uscire dalla propria
patria verso un paese forestiero attraversando la frontiera tra i due Stati.
Questa migrazione coinvolgeva soltanto nuclei ristretti di popolazione
urbanizzata e prevedeva il ritorno in patria dopo un breve periodo; tra
il XIII e il XVI secolo in ogni piazza commerciale dell’intera cristianità
europea, del Mediterraneo e del Medio Oriente, si potevano incontrare
diverse comunità stabili di mercanti italiani, per lo più organizzate in
nationes rivali come quella veneziana, genovese, lucchese, senese, fioren-
tina. Da sempre città aperta e ospitale, le migrazioni verso Napoli hanno
dato conferma della sua tradizionale predisposizione all’accoglienza: la
città si configurava come una attrattore multiculturale, pronta ad assor-
bire gli innumerevoli stimoli e influssi che vi convergevano dall’esterno.

A partire dall’anno Mille la città fu interessata da un continuo incre-


mento demografico che all’epoca andava attuandosi in tutto il resto
d’Europa; l’aumento della popolazione partenopea non era solo dovuto
all’impennata del tasso di natalità ma anche all’inurbamento degli
abitanti del contado e in gran parte alla consistente immigrazione, tem-
214 poranea o definitiva, di mercanti ed artigiani provenienti dai territori
del Regno e di stranieri; a questi si aggiungeranno, con la fondazione
dell’Università da parte di Federico II nel 1224, numerosi studenti e
docenti. Quando Napoli divenne capitale nel 1282, gli Angioini misero
in pratica un’accorta politica di privilegi e di franchigie, anche con la sti-
pula di trattati commerciali che favorirono la libertà di traffico per mer-
canti via terra e via mare, consentendo l’immigrazione di stranieri per
incrementare le attività manifatturiere. Tra i mercanti, molti giunsero
dalla costiera Amalfitana e si conserva la traccia nei cognomi di origine
toponomastica come per Scala, Ravellese, Amalfi, Amalfitano. Analoga
consistenza avevano i gruppi di pisani, genovesi e francesi (in particolare
marsigliesi, borgognoni, provenzali); interessante e significativo notare
la presenza attuale di tali cognomi nel napoletano.

La presenza fortissima dei mercanti genovesi a Napoli è testimoniata


anche da una chiesa a loro dedicata nella zona di via Medina, la chiesa
di San Giorgio dei Genovesi, costruita da questa ricchissima comunità pre-
sente sin dal X secolo che divenne stanziale in città durante i tempi della
Regina Giovanna I nel XIV secolo. La famiglia genovese più potente di
Napoli portava il cognome de Mari, cioè venuti dal mare; ma erano diffusi
anche Pallavicini, Sauli, Spinola, Doria, Grimaldi, Ravaschieri o Lomel-
lini. Le prime comunità erano chiuse e autoreferenti tanto da combinare
matrimoni tra gli stessi membri allo scopo di preservare l’origine genove-
se del cognome, anche se poi questa usanza si è persa nei secoli. Nel 1615
l’economista Antonio Serra spiegò quanto furono importanti i banchieri
e commercianti genovesi per Napoli e cioè i napoletani vogliono solo lavo-
rare d’intelletto: diventano magistrati, avvocati o medici, altrimenti muoiono di
povertà. Non hanno spirito imprenditoriale e tutte le industrie napolitane sono
gestite da fiorentini, pisani, bergamaschi e genovesi. Le banche che producono, in-
vece, sono tutte di proprietà di famiglie genoane. Alcune divennero così ricche
ed influenti da stabilirsi definitivamente a Napoli; nel XVII secolo molti
cognomi liguri iniziarono ad apparire fra le più alte cariche politiche
del vicereame di Napoli. La loro antica presenza è testimoniata, tra tanti
altri di origine diversa, dai vari cognomi toponimici diffusi anche nella
nostra città come Genova, Genovese, Genoese, Genovino, Genuino, Genoino.

Consentitemi ora una divagazione culinaria, pur se fuori tema, per par-
lare di uno dei più antichi (ancor prima del ragù, degli spaghetti e della
pizza) piatti della cucina napoletana: la genovese, appunto. Proprio nel 215
periodo tra il Trecento angioino e il Quattrocento aragonese risalirebbe
Sebastiano Luciani (detto
Del Piombo) “Ritratto
di Cristoforo Colombo”
(1519) conservato al
Metropolitan Museum of
Art di New York, Usa
la diffusione di questo piatto che si ottiene facendo cuocere molto (ma
molto a lungo!) carne e abbondanti cipolle con vino bianco. A portare
dunque questa prelibatezza a Napoli sarebbero stati proprio i Genovesi,
imprenditori e mercanti stanziati nelle zone prossime al porto dove pul-
lulavano le osterie e dove, appunto, la tradizione vuole che si sia cucinata
la prima genovese presso quella che ancora si chiama Loggia di Genova.
Cartina “il Regno di
Napoli diviso nelle sue
provincie” (1782) realizza-
ta da Antonio Zatta

216
Nello stesso periodo è documentata la presenza di artisti toscani (fio-
rentini in particolare) a Napoli. Questi vari gruppi di forestieri presto si
organizzarono in colonie dotate di legittimi governanti, i cosiddetti con-
soli nominati dalla città d’origine, che avevano il compito di pattuire con
l’autorità locale le condizioni d’accoglienza; si adoperarono anche nella
costruzione di chiese con l’antica titolarità del santo protettore della
comunità. A Napoli le nazioni più numerose furono quelle dei marsigliesi,
dei genovesi e dei pisani; oltre queste, si registrava la presenza di ebrei,
scalesi, greci, provenzali, lombardi, catalani. Tracce di queste migrazioni
si registrano nei cognomi napoletani come Marsiglia, Pisani, Genovese, Sca-
la, Greco, Provenzale, Franzese, Todisco, Toscani, Siciliano, Fiorentino, Lombardi,
Catalano, Lucchesi, Senesi e loro derivati.

Quando una persona decide di emigrare, porta con sé non solo il deside-
rio di cambiare vita e la speranza di trovare fortuna ma anche qualcosa
di più importante: il proprio cognome. Dunque, quante persone hanno 217
un cognome che, evidentemente, non si è originato nella provincia in cui
vivono? Per capirlo i ricercatori hanno considerato quasi 80.000 cogno-
mi diversi e, tramite un modello informatico, sono riusciti a stabilire
l’origine geografica di 50.000 di essi. Sono così riusciti a stabilire dove
vivevano i rispettivi antenati (maschi) intorno al 1500.

Analizzando la distribuzione geografica dei cognomi italiani, tale in-


teressante ricerca del 2012 ha ricostruito le migrazioni interne in Italia
grazie proprio per mezzo degli stessi; si tratta di uno studio scientifico,
pubblicato dalla rivista americana Human Biology, che ha analizzato
cinque secoli (dal tardo Medioevo a oggi) di spostamenti interni e che,
partendo dal cognome attuale, racconta dove sono emigrati gli italiani.
L’impresa è stata realizzata da Franz Manni, genetista ed antropologo di
Ferrara che lavora al Museo di storia naturale di Parigi; egli ha cercato di
ricostruire la relazione fra genealogia, identità culturale e geografia.

Tutto inizia dagli elenchi telefonici italiani del 1993; sono stati estratti
77.451 cognomi (corrispondenti a circa 17 milioni e mezzo d’individui)
escludendo o quelli estremamente rari o quelli troppo frequenti (tipo i
soliti Ferrari, Rossi, Verdi, Bosco, ecc). Tre quarti di questi cognomi (per
la precisione 49.117) provengono da una zona più o meno identificata e
quindi con un toponimo. L’autore dello studio è riuscito così a stabilire
dove vivevano i rispettivi antenati (maschi) intorno al 1500. Poi si è pas-
sati ad individuare dove vivevano i loro antenati maschi cinque secoli fa,
a partire dal 1545 quando, in seguito al Concilio di Trento, divenne ob-
bligatorio per ogni parrocchia registrare le nascite. Quello che è emerso è
che gli italiani non sono mai stati un popolo stanziale ma, anzi, si sono
spostati moltissimo sempre e non soltanto nell’ultimo secolo. Quindi
tutti i cognomi italiani non hanno un punto di partenza geografico pre-
ciso e, pertanto, la metà non potrà mai sapere dove abbia avuto origine;
ci si riferisce ad individui che hanno cognomi polifiletici come Bosco,
Fabbri, Ferrari, Esposito, le cui origini sono multiple e indipendenti, e
sono diffusi sull’intero territorio nazionale.

Il passo seguente è consistito nel confrontare la diffusione dei cognomi


di cinque secoli fa con quella del 1993 dividendo le province italiane in
quattro gruppi. Il primo è quello delle province non attrattive, quelle da
218 cui è emigrata più gente e ve n’è immigrata meno; sono quelle del Sud e
anche del Triveneto (che fino al secondo dopoguerra era poverissimo) ma
il record appartiene a Lecce. Nel secondo ci sono le province più attrattive
da cui nessuno emigra ma sono ambite da tutti; in testa, come prevedibi-
le, le tre grandi città: Roma, Milano e Torino. Secondo lo studio, tuttavia
proprio le metropoli, grazie alle numerose opportunità che offrono, sono
riuscite nel tempo, nonostante il continuo afflusso di nuovi abitanti, a
conservare un nucleo piuttosto stabile di cognomi indigeni. Nel terzo ci
sono le province isolate, quelle nelle quali nessuno si trasferisce ma dalle
quali nessuno emigra; sul podio Bolzano, Cagliari e Trento. Nel quarto
i corridoi, cioè le province di passaggio, dai quali molti sono partiti ma nei
quali molti vi sono arrivati; sono soprattutto in zona tirrenica, fra Ligu-
ria, Toscana e Lazio. Queste zone sono, in realtà, popolate da cognomi
provenienti da tutt’altre zone, spesso dal meridione d’Italia. Mobilità
massima in due province toscane: Grosseto e Livorno; per quest’ultima
città potrebbe spiegarsi con la sua nascita artificiale come porto franco.

Incrociando questi dati con le statistiche relative all’attuale distribu-


zione della popolazione italiana, gli antropologi sono riusciti a realiz-
zare una sorta di mappa geografica della migrazione dei cognomi che,
provincia per provincia, mostra com’è mutato il rapporto tra migranti e
indigeni nel corso degli anni. I cognomi toponimici derivano da luoghi di
origine, anche se coloro che li hanno quasi mai ne conservano la memo-
Percentuale di individui 10-20% 50-60%
il cui cognome non è del-
la provincia in cui vivono
20-30% 60-70%

30-40% 70-80%

40-50% 80-90%

219
ria o posseggono testimonianze della loro effettiva provenienza. Ma una
cosa è certa: l’antenato più antico, per qualche ragione, da lì proveniva.
Quanto a Castellammare di Stabia, ho analizzato i soli cognomi toponi-
mici derivati dall’elenco telefonico del 2007; tali dati fanno ovvio riferi-
mento a paesi o siti da cui è da supporre che sia partito il primo espo-
nente delle successive generazioni; alla rinfusa: Ungaro (dall’Ungheria),
Todisco (da tedesco), Troiano (da Troia in provincia di Foggia o nome colto
inventato per i trovatelli), Spagnuolo, Sorrentino, Sicignano (in provin-
cia di Salerno), Romano, Aiello (diversi comuni dell’Italia meridionale o
come nome comune derivato dal latino agellus cioè piccolo podere, campi-
cello), Paduano (da Padova), Nocera (nel XIV secolo è già documentato in
città il cognome de Nocera), Napolitano, Calabrese, Calvanico (in provin-
cia di Salerno), Castigliano (proveniente dalla regione spagnola della
Castiglia o per indicare chi parlava lo spagnolo), Celentano (dal Cilento),
Cosenza, Pisano, Milano, Pisa, Napolitano, Barletta, Cartagine, Algerino,
220 Francia, Trevisano, Cipriano (da Cipro), Albanese, Labriola (dalla citta-
dina lucana Abriola, in provincia di Potenza), Di Corato (in provincia di
Bari), Abruzzese, Saraceno, Calabrese, Messina, Palermo, Greco, Toscano,
Veneziano, Di Capua (in provincia di Caserta), Ferrara, Di Palma (Palma
Campania, in provincia di Napoli), Fiorentino, Formisano (da Formia),
Gaeta (in provincia di Latina), Lombardi, Longobardi, Manfredonia (in
provincia di Foggia), Genovese. In alcuni cognomi il riferimento topo-
nimico potrebbe essere generico indicando un luogo comune come in
Massa, D’Arco, Di Somma, Del Vasto, Di Palma.

È necessario richiamare la circostanza per cui non sempre un etnico o un


toponimo allude ad una provenienza; basti pensare ai vari nomi di per-
sona, derivati da nomi di luogo (propri e comuni), che possono determi-
Mercante fiorentino in
un dipinto del xv secolo
nare l’origine di cognomi patronimici come Romano, Italo e Italia, Fiorenzo
e Fiorentina da Firenze, Tosca (dal latino Tuscus che indicava la prove-
nienza dalla Tuscia, ossia l’attuale Toscana), Gaetano da Gaeta, Adriano
da Adria in provincia di Rovigo, Tiberio dal Tevere, Emiliano, Urbano dalla
città, Silvano dalla selva, Marino dal mare, Francesco dalla Francia, Mauri-
zio dalla Mauretania (antica regione che corrisponde all’attuale Marocco
e da non confondersi con l’attuale Mauritania), Giordano dal fiume me-
diorientale, Sebastiano dall’antica città turca di Sebaste, Cinzia dal monte
Cinto (Kýnthios) dell’isola greca di Delo, Ginevra, Asia, Siria.

Alla fine del XVI secolo a Sorrento si registrò una massiccia presenza di
individui con il cognome Fiorentino o Milano. Questi cognomi si diffusero
in seguito ad un’ondata di conversioni forzate al cristianesimo, così come
era già avvenuto nel XIII secolo. È interessante constatare che un numero
imprecisato di ebrei, nel tentativo di far perdere le tracce delle proprie
origini, abbia scelto proprio il panitaliano Sorrento o Sorrentino. 221

Dal punto di vista antroponomastico è interessante notare che molti


ebrei, cacciati nel 1511 dal Regno di Napoli, si stanziarono nella zona
meno popolata dei Campi Flegrei, all’estremità del golfo di Pozzuoli,
facendo rivivere l’antico borgo romano di Bauli, oggi Bacoli; tuttora nella
popolazione sono relativamente diffusi nomi veterotestamentari (Ester,
Gabriele, Geremia, Giacobbe, Gioacchino, Giona, Giuditta, Isaia, Mi-
chele, Mosè, Rachele, Raffaele, Samuele, Tobia) ed anche i due cognomi
Guardascione (cioè guarda Sion) e Salemme (Shalom) che hanno chiari
riferimenti ebraici. Di seguito i cognomi ebraici napoletani di derivazio-
ne sefardita, adottati dai marrani (ebrei costretti a convertirsi al Cristiane-
simo ma che rimasero, nel privato, fedeli alla religione giudaica), molto
diffusi anche a Castellammare di Stabia: Ascione (dall’ebraico a Sion),
Avino e D’Avino (cognomi derivati dall’ebraico avinu che significa nostro
padre, appellativo dato ad Abramo), Capuano, Carannante, Colandrea,
Costagliola, Del Giudice (traduzione dell’ebraico Dayan), Della Ragione
(cognome che indicava la guida spirituale della comunità, cioè i rabbini),
De Vivo, Di Benedetto, Di Meo e De Meo, Illiano, Liberti (appellativo
dato agli ebrei affrancati dalla schiavitù e deportati in Italia in seguito
delle guerre combattute da Roma contro la Giudea), Lucci, Pinto, Rubino,
Sacco (contrazione del nome Isacco).

© wikipedia

222
I mestieri e le cariche nel Medioevo

Stemmi delle corporazio- Quali erano i lavori e le occupazioni dei nostri avi, evidenziati dai co- 223
ni dei mestieri presenti
sulle facciate degli edifici gnomi giunti fino a noi dopo secoli? I cognomi come Cacciatori, Fabbri,
medievali di Firenze
Ferrari, Fornari, Fornaciari, Macellari, Molinari, Pastore, Pescatori sono
tutti corrispondenti a professioni che ancor oggi siamo in grado di
riconoscere; in altri casi, però, il significato di un cognome si riferisce a
lavori che non si fanno più; così i Mondadori, un tempo, mondavano (cioè
pulivano) i campi o le risaie dalle erbacce oppure lavavano le lane e le
stoffe. Mannesi e Mannara (variante dialettale di mannaia, cioè lo stru-
mento per tagliar la legna) erano, in lingua napoletana, i falegnami di
carri. Gli Arcari erano fabbricanti di arche (in pratica falegnami) o fun-
zionari che custodivano il tesoro delle comunità locali in un’arca (ovvero
in una cassa). I Baglioni erano funzionari statali addetti alla riscossione
delle tasse, all’esecuzione delle condanne e alla convocazione delle mili-
zie. Interessanti i cognomi Appicciafuochi o Buttafuoco che sono attinenti a
chi accendeva il fuoco dei lampioni per illuminazione pubblica ed anche
nelle case degli ebrei nel giorno di sabato, quando erano loro interdetti
persino i lavori domestici.

Ancora, si capisce facilmente che gli Acquaioli erano venditori ambu-


lanti d’acqua (o incaricati dell’irrigazione dei campi) o i vari Finocchiari
e Cipollari erano venditori dei prodotti dei campi mentre è più difficile,
rimanendo nell’ambito delle attività agricole, capire immediatamente
cosa facessero i Campari (custodi dei campi) oppure Somerari (che si occu-
pavano delle bestie da soma). Ogni villaggio si trovò ad avere i suoi Fabbri
e i suoi Sarti e non è detto che gli abitanti di un determinato villaggio
fossero necessariamente parenti degli individui del villaggio vicino. Tra
i cognomi più diffusi in Italia compaiono proprio i mestieri del fabbro
con: Ferraro, Ferraris, Ferrari, Ferrero, Fabbri, Fabris, Magnani, Frau,
Forgione; anche il ciabattino aveva le sue varianti dialettali con: Calzo-
laro, Callegaro, Zavattini, Scarparo; stesso discorso per il falegname con:
Marangone, Mastrodascia, Carpentiere.

In generale si riferiscono al mestiere esercitato da colui che per primo


ricevette questo epiteto. Erano nomi di mestiere e di professione (Barbie-
ri, Sarti, Medici, Balestrieri, Bombardieri, Pecoraro, Vaccaro, Cappellaro,
Magnani, Notaro, Speziale, Dottori, Orefici, Medici, Spadaro, Beccari,
Ortolani, Cacciatori, Capraro, Muratore, Porcaro, Fornari); o anche legati
all’oggetto della loro produzione come per Ferro, Acciaio, Scarpa, Lancia,
224 Spada. Poi i nomi derivanti da una carica e da un ufficio (Giudici, Nota-
ro, Confalonieri, Podestà, Tesoriere, Catapano, Cancellieri, Milite, Con-
testabile, Cameriere, Cancellieri, Castaldo, Alfieri, Guerriero, Siniscalco),
di titolo e di grado (Nobile, Consoli, Vassallo, Valvassori, Conte, Duca,
Marchese, Barone, Principe, Rettore, Regina, Messere, Cavaliere, Vicedo-
mini), di condizione sociale, civile, militare e religiosa (Nobile, Villano,
Schiavo, Soldati, Papa, Monaco, Preti, Parroco, Martire, Primicerio,
Presbitero, Vescovo, Sacristano, Sacerdote, Abate, Camerlingo, Chierico,
Decano, Capitolo, Reverendo, Piscopo, Canonico, Arcidiacono, Iacono,
Diacono) o anche con rapporto di parentela familiare (Padrino, Compare,
Nonno, Lasorella, Fratello, Della Vedova).

Molti cognomi sono costituiti dalla carica assieme a un nome proprio


come in numerosi composti con mastro- (Mastrandrea, Mastrangeli,
Mastrofilippo, Mastroianni), giudice- (Giudicianni), notaro- (Notarbartolo,
Notarnicola) e papa- (in area meridionale è un grecismo che corrispon-
de a prete come per Papalia che significa prete Elia). L’origine legata ai
mestieri è riscontrabile anche nei diffusi cognomi delle altre lingue del
mondo: Schmidt (fabbro), Schneider (sarto), Wagner (carradore cioè l’arti-
giano che costruiva carri), Fischer (pescatore), Meier (contadino), Weber
(tessitore), Schumacher (calzolaio), Kaufmann (mercante), Müller (mugnaio)
in Germania; Smith (fabbro), Goldsmith (orefice), Singer (cantore), Foster (nel
significato di adottato così come per i nostrani Esposito o Proietti), Cooper
© wikipedia
225

Bassorilievo del xiv (bottaio), Cook (cuoco), Gardener (giardiniere), Turner (tornitore), Potter
secolo che raffigura il
mestiere degli scalpellini (vasaio), Tailor (sarto), Weaver (tessitore), Miller (mugnaio) nel mondo an-
glosassone; Herrero e Fernàndez (fabbro), Contador (contabile), Sastre (sarto),
Zapatero (calzolaio), Pintor (pittore) in spagnolo; Lefèvre (fabbro), Boucher
(macellaio), Berger (pastore), Chevalier (cavaliere) in francese; Grüber (mi-
natore) in Austria; Melnyk (mugnaio) in Ucraina; Popa (prete) in Romania;
Hoxha (predicatore) in Albania.

Nel XIII secolo molti artigiani veneti e pisani dimoravano in Costan-


tinopoli; venivano inviati dall’Italia degli incaricati per assisterli nelle
loro necessità e affari. L’incaricato dei veneziani si chiamava bajulo (da
cui è derivato per metatesi il cognome Balivo) mentre quello dei pisani si
chiamava console (da cui è derivato l’omografo cognome); per quest’ultimo
caso nacque l’uso in Italia di chiamare console il residente di uno Stato
straniero che soprintende agli affari dei suoi connazionali.

Per tutto il Basso Medioevo l’intero settore tessile fu al centro di movi-


menti di personale specializzato; ma anche altri mestieri mostravano
analoghi sviluppi come, ad esempio, la specializzazione dei bergamaschi
nel settore del trasporto e del facchinaggio tanto è vero che in quella
provincia è molto diffuso il cognome Facchinetti o Facchetti.
Nel passato le persone di distinguevano col nome del mestiere; poi nel
Basso Medioevo quel soprannome, usato come semplice distintivo perso-
nale, cominciò a perpetuarsi alle generazioni successive. Quindi i figli e
i discendenti iniziarono a distinguersi col nome del mestiere o del titolo
del loro antenato trasformandolo in cognome gentilizio.

Stemmi delle arti e dei


mestieri di Orvieto (Terni)
nel 1602

226
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Di seguito in latino alcuni tipici mestieri medievali da cui sarebbe-
ro potuti nascere i cognomi: Acatapano (mastro di piazza preposto a
vigilare su pesi e misure nei mercati, nelle fiere, nei mulini), Albergator
(locandiere), Alferius (cavaliere, alfiere), Ambaxiator (rappresentante
all’estero di uno Stato), Apontalador (colui che metteva i tacchi alle
scarpe), Arginterius (produttore e commerciante d’oggetti in argento),
Auditor (qualifica di magistrato al grado iniziale della carriera), Aurifex
(orefice, proprietario di un’officina dell’oro), Bagactiere (prestigiatore,
ciarlatano, impostore), Baiulus (facchino, portalettere, portatore di pesi
per compenso), Balisterius (costruttore di archi e balestre), Barberius
(barbiere, dentista, chirurgo, praticante di salassi), Bardari (fabbricante
di basti, selle ed ornamenti per muli o cavalli), Barrilarius (fabbricante di
botti, barili, tini), Beccarius (macellaio), Boarius o Bovarius (conduttore di
buoi aggiogati a carri ma anche mediatore nella compravendita di questi
animali), Borsarius (realizzatore di borse, bisacce e sporte), Bucherius
(venditore di carne, macellaio), Buffettarius (fabbricante di borse, cinghie 227
e giberne), Burgenses (contadino, colono ovvero chi lavora le terre degli
altri avendole avute in affitto), Caballarius (colui che ha cura dei cavalli
da posta, da viaggio), Calafatus (maestro specializzato nell’impermeabi-
lizzazione delle navi con scafo in legno), Calcararius (addetto alla forna-
ce per la calce), Caldararius (fabbricante di stufe, scodelle e contenitori in
lamiera), Caligarius (riparatore di calzature), Calzolarius (fabbricante di
scarpe), Camberarius (cameriere), Camisarius (sarto che cuciva camicie),
Camparius (guardia campestre), Cancellarius (cancelliere), Cannavarius
(fabbricante di corde, sacchi e prodotti in canapa), Campanarius (addetto
al suono delle campane oppure fonditore), Canonicus (prete o chierico
facente parte di un capitolo ovvero dell’insieme di ecclesiastici addetti
al servizio di una chiesa cattedrale o collegiale), Cantor (cantore, musico,
corista), Capitaneus (titolo di dignità capitolare nelle chiese collegiate
che hanno la preminenza su altri parroci), Cappellarius (fabbricante di
cappelli), Carbonarius (produttore e venditore di carbone), Cardararius
(cardatore di canapa, lino, lana), Carpentarius (fabbricante di carri e
carrozze, a due o quattro ruote), Cartarius (fabbricante di carte, perga-
mene), Cartularius (achivista, notaio), Castaldus (ciambellano), Cirarius
(produttore e mercante di ceri), Cirurgicus (dottore, medico chirurgo),
Clericus (sacerdote, chierico, amanuense), Coadiutor (l’incaricato per
aiutare o supplire il titolare di un ufficio ecclesiastico), Consulis (console,
magistrato), Coppolarius (chi fa o vende berretti e copricapi), Cordarius
(fabbricante di corde di strumenti musicali, funi, capestri), Curviserius
(ciabattino, conciapelli, artigiano di basso rango), Cuccherius (conduttore
di carrozze patrizie), Doctor (insegnante, maestro, precettore), Fabbricator
(maestro muratore o titolare di impresa edile), Falcarius (artigiano che
fabbrica falci, falcetti da vigna e da bosco), Factor (conduttore di un’a-
zienda agricola), Flasconarius (costruttore di fiaschi in vetro, soffiatore),
Fiscalis (avvocato che difendeva gli interessi del demanio), Fornasarius
(addetto alla fornace per la produzione di laterizi), Furnarius (fornaio),
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Gamberius (fabbricante di gambiere, protezioni per gli stinchi), Gar-


giolarius (lavoravano e commerciavano in canapa), Gastaldus (in epoca
longobarda era un rappresentante del re preposto ad amministrare una
proprietà fondiaria appartenente al fisco), Hortulanus (ortolano, frutti-
Formella (xiv secolo) di vendolo), Iardinarius (addetto agli orti e giardini), Lanerius (importatore
Andrea Della Robbia che
raffigura il mestiere dei e mercante di panni di lana), Magister (maestro, direttore), Magnanus
lanaioli
(artigiano che fabbrica caldaie e altri recipienti di rame), Marangon
228 (garzone del calafato cioè del falegname delle navi in legno), Marescal-
cus (chi cura e ferra i cavalli), Marinarius (marinaio), Massarius (colono
che cede al padrone della terra una parte del raccolto), Matarazzarius
(materassaio), Mazzarius (canonico maggiore che portava la mazza
cerimoniale d’argento nel corso delle processioni solenni), Mercator
(ambulante generico), Messor (mietitore), Molinarius (gestore di mulino
per cereali), Mortellarius (mercante di mortella, detta anche mirto, in uso
per la concia delle pelli), Naclerius (nocchiero, marinaio, barcaiolo), No-
tarius (scrivano, copista, amanuense), Oddorisius (mercante di profumi),
Pectinarius (costruttore di pettini per la tessitura con telai), Pelliccerius
(conciavano e commerciavano pelli), Pistor (pestatore, macinatore, for-
naio), Porcarius (allevatore di maiali), Portulanus (comandante di porto
cui spettava il compito di riscuotere i dazi e controllare il traffico delle
merci), Procurator (amministratore, agente, fattore), Prothonotarius (capo
dei notai del re), Rusticus (uomo di campagna, semplice, rozzo), Sansari-
us (commerciante di olii commestibili e per l’illuminazione), Sartor (sar-
to), Scudarius (scudiero), Secretarius (redattore di verbali e resoconti di
riunioni), Sellarius (fabbricante di selle e imbottiture per sedili), Sensalis
(mediatore), Sericarius (setaiolo), Servens (militare adibito al maneggio
e al funzionamento di un cannone), Sindacus (controllore della corretta
amministrazione e l’osservazione della legge e dell’atto costitutivo), Si-
tarolus (chi lavora o vende la seta), Spatarius o Spadarius (fabbricante di
spade, pugnali ed armi da taglio), Sutor (calzolaio), Tabernarius (bottega-
io, oste, mercante a posto fisso), Tamburus (pubblico banditore con tam-
buro), Textor (tessitore), Thesaurarius (sacerdote incaricato alla custodia
del tesoro di una chiesa), Tutor (difensore, protettore), Vergarius (conta-
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dino anziano capofamiglia), Vicinus (residenti nella stessa parrocchia),


Villicus (amministratore di una fattoria), Zagarellarus (fabbricante di
fettucce, nastri, trine per orlare abiti), Zambatarus (custode dello zàmm-
ato, luogo dove alloggiavano gli animali e dove si lavorava il formaggio),
Formella (xiv secolo) Zappator (bracciante agricolo), Zavattinus (fabbricante di calzature).
di Andrea Pisano che
raffigura il mestiere dei
tessitori Variegato è l’ambito da cui avrebbero potuto attingere gli antichi cogno-
mi stabiesi indicanti i mestieri o cariche. Tra le cariche pubbliche ritro-
viamo: Castellano, Episcopo, Piscopo, De Piscopo, Baiulo, Balivo, Castal-
do, Catapano, Marchese, Giudice, Del Giudice, Barone, Maestro, Giurato,
Console. I mestieri legati alla tipica attività portuale: Portolano, Protono-
tario, Misuratore, Doganiere, Marenaro, Credenziere; ancora, le attività
legate all’agricoltura e all’allevamento: Montanaro, Cannavacciuolo 229
(nome derivato dagli scarti della maciullazione della canapa chiamati
in dialetto proprio ’e cannauccioli, cioè canapuccioli, dai fabbricanti di
corde), Vaccaro, Porcaro, Pecoraro. Poi Scafarto (un falegname di barche),
Bottega di sartoria in
seta (xiv secolo)

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Bottega di stoffe e pella- Carcararo (per le diverse fornaci di calce presenti a Castellammare nel
mi del xiii secolo
passato), Cositori (sia per l’attività di sarti che nella fiorente lavorazione
del cuoio). Nelle mie ricerche ho incontrato uno stabiese del 1451 che si
chiamava Astasio Bastasi; il cognome era legato al mestiere di facchino
perché derivava dal greco bastazos che significa portare sulle spalle.

Poi, nel XVI secolo nella nostra città è documentato il cognome Armo-
sano. Cosa indicava tale mestiere? Sul finire del XVI secolo vivevano a
Napoli più di una trentina di tessitori di armosino originari di Castellam-
mare; l’ermisino o ermesino (in napoletano armosino) era un tipo di stoffa
leggera di seta che prendeva il nome dalla città di Ormuz (golfo Persico),
luogo di provenienza del prodotto. Generalmente nel sud d’Italia, il
primo impulso alla seta fu dato dagli ebrei; poi, nell’anno 1477, il re Fer-
rante D’Aragona decise di istituire a Napoli il Consolato dell’Arte della Seta.
Era una corporazione molto potente che si distinse vantando agevola-
230 zioni fiscali e commerciali, un proprio governo, un proprio tribunale con
annesse carceri nella piazza della Sellaria. La dinastia aragonese darà
un grosso impulso all’arte serica incoraggiando l’arrivo a Napoli dei più
esperti lavoratori stranieri da Venezia, Genova, Firenze; dal 1580 al 1630
la provincia di Napoli sarà tra i primi posti in Europa nella lavorazione
della seta producendo notevole quantità di tessuto damascato, tipico della
Siria (Damasco) da cui il nome; a riprova dell’aspetto etimologico, lo
stesso baco nel dialetto napoletano veniva chiamato sirico.

A Castellammare di Stabia grande attenzione era riservata alla bachi-


coltura del gelso bianco; nella fase di apprezzamento dei beni catastali,
gli alberi di gelso erano valutati in base al colore rosso o bianco. Il gelso
bianco era molto più quotato perché utilizzato esclusivamente per la
produzione della seta mentre l’altro solo per l’alimentazione. Tale attività
era praticata dagli abitanti dei Terzieri e l’esportazione era gestita da
mercanti genovesi, pisani, lucchesi e fiorentini; l’unica traccia della
pregevole produzione serica sopravvive nei cognomi ancora oggi molto
diffusi in città come Setale, Setaro, De Seta, Sirico, Siro.

Nel 1541 il fiorentino Roberto Pepe comprò a Castellammare circa 500


libbre di seta (circa 160 Kg) per extraerle da poi et mandarle in Firenza. In
città c’è una testimonianza di questa tradizione nel toponimo, in prossi-
mità di piazza Orologio, di vico Gelso e, di fronte, largo Gelso; quest’ultimo,
231

© wikipedia
nel XVIII secolo, era una piazza molto più spaziosa tanto da essere uti-
lizzata anche per pubbliche riunioni. Come afferma Giuseppe Plaitano
nel suo omonimo archivio online, molti anziani del posto, riferendosi al
luogo specificato, lo ricordano ancor oggi come mmiez ’o cievezo (in mezzo
al gelso). Nel territorio cittadino esistono ancora diversi alberi di gelso:
uno di quelli bianchi è situato davanti all’ingresso della scuola elemen-
tare Basilio Cecchi, un altro esemplare si trova all’entrata dell’Ospedale
San Leonardo. Al momento rappresentano la testimonianza dell’eredità
lasciata dall’allevamento dei bachi da seta a Castellammare di Stabia.

A partire dal XII secolo i centri urbani che rifioriscono con lo sviluppo
economico del Basso Medioevo erano formati da classi sociali assai
differenti. In primis le famiglie nobili che, anche se possidenti di terre
lontane dal borgo, preferivano vivere in città piuttosto che nei castelli; in
città, invece, si registrò l’avvento della borghesia (parola derivata da borgo,
232 cioè il centro urbano fortificato) ossia la classe sociale impegnata nelle
libere professioni, cioè i mestieri non alle dipendenze di altri.
Manoscritto del ix secolo
che illustra le attività
mensili di una curtis da
gennaio a dicembre
© wikipedia
Al contrario della nobiltà, la ricchezza di questa classe era costituita
dal denaro e non dal possesso della terra. In particolare con il termine
borghesia si include il popolo grasso che svolgeva le Arti Maggiori (le attività
più redditizie come giudici e notai, banchieri, cambiavalute, produttori
di lana e seta, medici e speziali, vaiai e pellicciai) e il popolo minuto che
svolgeva le Arti Minori (mestieri di minore prestigio sociale e scarsa forza
economica come beccai, calzolai, fabbri, muratori, maestri di pietra e le-
gname, rigattieri, osti, albergatori, venditori di olio e formaggi, salumieri,
cuoiai e conciatori di pelli, cappellai, tessitori, legnaioli, fornai).

Tra i mestieri della media e piccola borghesia sorsero grandi vincoli di


solidarietà reciproca tanto da costituire le corporazioni, organismi che
raggruppavano tutti gli appartenenti ad una stesso mestiere, iniziando
così ad acquisire un potere maggiore a partire dal XII secolo; tali orga-
nizzazioni avevano statuti ben precisi allo scopo di controllare la qualità
della merce, assicurare l’equilibrio concorrenziale tra gli stessi membri e, 233
soprattutto, conservare il monopolio della loro particolare attività.

Negli statuti si regolamentava anche la potenziale minaccia di chi non


ne faceva parte sottoponendolo a controlli e multe; egli, praticando tarif-
fe più basse, avrebbe potuto sottrarre clienti agli artigiani che si erano
associati. Ma erano previste pene severe anche per quegli associati che
non rispettavano le regole della propria arte, regole legate alla qualità dei
manufatti prodotti ma anche le materie prime impiegate, gli strumenti
di lavoro e i procedimenti tecnici utilizzati, il numero di dipendenti di
una bottega, l’utilizzo di alcuni tipi di salariati, l’importazione di merci
concorrenziali da altre città e l’esportazione di materie prime, di mano-
dopera e di conoscenze tecniche.

Per ogni corporazione le ricorrenze religiose, i matrimoni, i funerali ri-


chiedevano la partecipazione dell’intera comunità che, spesso, aveva una
propria chiesa intitolata al Santo protettore; a tutto ciò si aggiungevano
forme di reciproca assistenza e soccorso. Il forte legame fra i componenti
e la convergenza di intenti si evidenziava anche nelle feste e relative
processioni pubbliche alle quali i titolati (priori, gonfalonieri o anche
anziani) e tutti i membri delle corporazioni partecipavano con le proprie
insegne e gonfaloni.

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234
I soprannomi medievali

Particolare dell’affresco Nei centri minori il cognome, in origine la denominazione popolare 235
di Simone Martini “L’inve-
stitura a cavaliere” (1317 aggiunta al nome proprio dell’individuo, spesso finiva per essere solo un
circa) conservato nella
Chiesa Inferiore di San
fatto burocratico poiché l’individuo aveva un soprannome (che poteva es-
Francesco, Cappella di sere individuale o familiare) ed è con questo che nella comunità fu uni-
San Martino, Assisi
vocamente riconosciuto; prima che i cognomi venissero legalmente fissati
e resi ereditari, non era raro per un soprannome accompagnarsi al nome
personale proprio per facilitare l’identificazione. Ancor oggi il manifesto
funebre rivela, proprio in extremis, l’identità precisa di una persona at-
traverso il suo soprannome, rigorosamente in dialetto: Pasquale Esposito
detto ’o barbiere oppure Mario Parmendola detto ’o guaglione.

La comunità esercita sugli individui una sorta di controllo sociale o una


censura che si materializza nell’attribuzione di un soprannome e a tale
controllo difficilmente l’individuo può sottrarsi. Pertanto, quando in
paese qualcuno parlava del ferraro o del russo non ci si poteva sbagliare
perché uno solo era quello che esercitava il mestiere di fabbroferraio ed
uno solo, tra tutti, era quello che aveva i capelli rossicci; così come anche
un uomo alto, il solo fra tutti gli altri di statura mediobassa, poteva
essere soprannominata longo (o luongo in dialetto). Chiaramente queste
situazioni si verificavano quando le omonimie erano molto frequenti e il
patrimonio dei cognomi era piuttosto ristretto; grosso modo si ripresen-
tava la stessa situazione che si era verificata nell’antica Roma. Pertanto
la necessità di aggiungere un’altra parola al cognome (cioè il sopranno-
Dipinto attribuito a Jean me) corrispondeva alla soluzione di questi problemi. Ma non è stata solo
Fouquet (1447-1450 circa)
“Ritratto del Buffone la scarsezza dei cognomi a dettare la necessità di coniare i soprannomi;
Gonella” conservato nel
i cognomi in un primo momento non erano fissi ma svolgevano la stessa
Kunsthistorisches Mu-
seum di Vienna, Austria funzione che, in seguito, avrebbero avuto proprio i soprannomi e cioè
potevano essere modificati a seconda che la comunità avesse l’esigenza
di indicare ed individuare con precisione le persone.

Man mano, però, che i cognomi iniziavano a rendersi stabili mediante


la scrittura nei vari registri amministrativi (anagrafe, parrocchia, tasse),
persero la loro capacità individuante nelle comunità; pertanto si rese ne-
cessaria la nascita di altri nomi aggiunti, cioè di altri soprannomi, che poi
sarebbero diventati nuovi cognomi. Il soprannome ha generalmente un
significato trasparente, come ad esempio mettere in risalto le caratteri-
stiche fisiche della persona che lo portava; il capostipite Rizzo aveva evi-
dentemente i capelli ricci. Nel Medioevo erano, di solito, introdotti dalle
236 formule latine: cui super nomen (il cui soprannome), qui vocatur (detto), qui
nominatur (nominato), alias (altrimenti detto) o in volgare con cognominato.

Il sistema della soprannominazione in generale comprende tutti i nomi


aggiunti rispetto al nome unico dell’alto Medioevo. Quindi, tra loro,
è possibile elencare i patronimici, poi i toponimi e i mestieri; ma la
tradizionale dizione di soprannome è da relazionarsi al nome aggiunto
che indicava particolari riferimenti fisici o caratteriali. Siccome molte
famiglie acquisirono per cognome perpetuo quello ch’era stato il sem-
plice soprannome di qualche loro antenato, allora ogni nome aggiunto fu
definito generalmente tale sia perché abbinato al proprio nome, sia per-
ché negli atti pubblici si scriveva non già dopo il nome di battesimo ma
proprio sopra di esso, da cui soprannome; un uso forse introdotto dai notai
del passato che, dopo aver scritto negli atti le generalità dei contraenti e
dei testimoni, erano soliti sovrapporre al nome di battesimo del compa-
rente il nome del padre, della patria, il mestiere svolto o qualche epiteto,
proprio per distinguerli meglio da altri nomi simili.

Esempi vari: Acconciaioco, Bellobuono, Boccatorta, Buoncompagno,


Buonocore, Caccialupo, Capobianco, Capograsso, Centomani, Curtopas-
si, Gambacorta, Gentilcore, Longobucco, Malacarne, Mezzacapo, Pansa,
Passamonti, Quattrocchi, Scannapiecoro, Scannasorice, Sgambato, Tren-
tamolla, Vinciguerra. Della stessa origine, esempi dei cognomi italiani
237

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Miniatura tratta dal
manoscritto Chansonnier
de Paris “Il gioco della
mosca cieca” (1280-1315)
conservato nel Musée
Atger di Montpellier,
Francia

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più lunghi: Abbracciavento, Ammazzalamorte, Boccadifuoco, Buoncri-


stiani, Catrogiovanni, Ciucciovino, Giuratrabocchetti, Guastadisegni,
Incantalupo, Ingannamorte, Moccicafreddo, Passacantando, Paternoster,
Quondamangelomaria, Saltalamacchia, Senzaquattrini, Sprecacenere,
Stampachiacchiere, Tontodimamma, Tremamondo.
238
Nei borghi contadini dell’Alto Medioevo il nome di battesimo era
sufficiente, anzi c’era il soprannome che assolveva a tutte le funzioni
di riconoscimento popolare. I primi nomi di famiglia (cioè i cognomi)
si sono formati nel Basso Medioevo e sono derivati da semplici inven-
zioni notarili, cioè necessità burocratiche per evitare omonimie e altri
rischi nel caso di eredità, dispute su beni e confini, censimenti fiscali. Le
persone non si chiamavano con quei nomi latinizzati e standardizzati
di notai e parroci ma usavano il nome di battesimo, perlopiù abbreviato
o tradotto in dialetto, con soprannomi di ogni tipo, soprattutto a causa
della riduzione numerica dei nomi individuali. Infatti le omonimie
divennero sempre piú frequenti sia perché si erano diffusi gli stessi
nomi, inflazionati dalle usanze e dalle devozioni, sia perché le comuni-
tà si andavano allargando fino a creare vere e proprie città. Fu così che
il sistema del nome unico si rivelò inadeguato perché in tutta l’Europa
cristiana l’onomastica era stagnante giacchè troppi di essi si ripetevano;
si sentì il bisogno di aggiungere al nome personale un nuovo elemento
che meglio servisse a distinguere gli individui. Ritornarono così in uso i
patronimici, i toponimici, i mestieri e i soprannomi canzonatori.

Nel passato per dire ho incontrato Michele, un anziano avrebbe potuto


dire ma Michele chi? perché in paese c’erano due o più persone con questo
nome e cognome; il dialogo poteva continuare con la domanda Michele il
figlio di Giovanni? o Michele il grasso? L’uomo, soprattutto nelle società piú
evolute, aveva il bisogno innato di affibbiare soprannomi e di ribattez-
zare a modo suo le persone; ma tali denominazioni non figuravano negli
atti pubblici e la loro importanza burocratica era assai ridotta. Oggi-
giorno il nome e il cognome di una persona sono più che sufficienti ad
individuarla; ciò perché la realtà sociale e culturale degli ultimi decenni
ha in modo più o meno evidente trasformato questa percezione: la sco-
larizzazione di massa, la burocratizzazione della vita sociale (patente di
guida, certificazioni e licenze varie, codice fiscale) hanno segnato, presso
le generazioni contemporanee, la supremazia del cognome sul sopran-
nome. Tuttavia il soprannome è sempre molto vivo nei ceti inferiori come
espressione dello spirito popolare in creazioni momentanee, per lo più
scherzose, che talora piacciono all’interessato stesso e talora sono ado-
perate alle sue spalle. Insomma, nelle comunità piccole il nome serve a
classificare l’individuo entro il sistema familiare, il cognome lo classifi-
ca a livello burocratico e il soprannome serve a classificarlo nel sistema 239
sociale della comunità.

Chiaramente comprendere i significati, spesso latenti, non solo lingui-


stici ma anche storici e antropologici del soprannome, contribuisce ad
approfondire la conoscenza della sua funzione sociale. Questi sopran-
nomi possono essere metaforici, scherzosi, ingiuriosi e non mancano i
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pornografici (o presunti tali): Caccavale, Caccavari, Cacopardo, Chiap-


palone, Chiappetta, Cullone, Marchetta. Il cognome Fumagalli, tipica-
Formella in pietra con un mente lombardo, nasconde un’attività truffaldina; infatti fumare è infatti
giullare (xiii-xiv secolo)
un’espressione gergale adoperata per indicare la cattiva abitudine di
saccheggiare i pollai stanando col fumo le galline.

All’origine della nascita dei cognomi spesso concorreva la cristallizzazione


di un nome proprio o di un soprannome personale che da un individuo
si trasmetteva ai suoi discendenti dando origine ad una famiglia ben
distinta. Può trattarsi di soprannomi attribuiti al capofamiglia e relativi
ad una sua caratteristica fisica o caratteriale ben precisa oppure riferiti
ad un episodio o ad un comportamento occasionale, comprensibile ma
non più ricostruibile storicamente nello specifico. Fino a un determinato
periodo erano personali e non si trasmettevano; almeno fino a quando i
figli e nipoti nel corso della loro esistenza hanno guadagnato a loro volta
un soprannome personale, che hanno tramandato ai propri discendenti.
Così è facile che, ricostruendo un possibile caso stabiese, da un primo
Francesco Maresca derivino, ad esempio, quattro diversi rami, uno per
ogni figlio maschio, ai quali siano stati attribuiti altrettanti diversi
soprannomi: Santino Maresca (come il padre e i cui figli però saranno
chiamati Santini), Domenico di Francesco (ossia figlio di Francesco la
cui discendenza si chiamerà Franceschi), Tommaso Maresca (detto Tom-
masone e i cui discendenti si chiameranno Tommasoni) e infine Michele
Maresca (di mestiere ferraro, i cui discendenti si chiameranno Ferrari).
Questa simulazione per mostrare che si formeranno così ben quattro
distinti cognomi a distanza di due o tre generazioni.

In genere i cognomi derivanti da soprannome sono, ad esempio: Tene-


riello, Amoriello, Cariello, Caruso (testa rasata), Lavecchia, Piccirillo, Lo-
storto, Losurdo, Occhiobello, Luongo, Biondi, Rossi, Neri, Negri, Marrone,
Bianchi, Barbato, Negro, Pinto, Magri, Piccolo, Gambelli, Peluso, Panzuto,
240 Tripputo, Occhionegro, Riccio, Tàmmaro (in napoletano stava per zotico,
rozzo, villano); poi quelli derivati da qualità o difetti fisici come per Ca-
puozzo, Musso, Musella, Storti, Quattrocchi, Calvi, Talento, Ingegno, Tar-
taglia, Onesto, Minutolo, Guerci, Muti, Sordi, Bellomo. Quelli derivanti
da qualità o difetti morali: Feroci, Meschini, Terribile, Cortese, Tranquil-
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lo, Sapio, Paccione, Pacifico, Centofanti, Malerba, Centolance, Spadafina,


Spadavecchia, Bracci; poi quelli derivanti da parti del corpo come per
Ciampolillo, Branca, Gammino, Testa, Recchia, Coscia, Ventrella. Ancora
quelli derivanti da capi di vestiario come per Cappiello, Giacchetta, Ma-
glione; quelli da attrezzi domestici e rustici come per Falcetta, Acocella
(da acucedda che indicava un grosso ago per cucire i sacchi), Tiano.

Quindi i soprannomi potevano nascere: da un intento puramente distin-


tivo, per fini scherzosi e ironici giocando magari sull’eccesso oppure per
scopi di spregio e di offesa (Cuccurullo indicava una persona sciocca, ter-
mine derivato dal vezzeggiativo di testone, cioè da cocuzza); si rilevavano,
Vignetta umoristica del pertanto, determinate caratteristiche fisiche e intellettuali oppure tratti
manoscritto musicale
“Gorleston Psalter” (xiv di carattere e di comportamento abituale della persona (o del gruppo
secolo) conservato nella familiare) così come quelli che alludono a fatti e azioni occasionali per
British Library di Londra,
Gran Bretagna cui è nota (o ricordata) la persona cosi denominata: Scippacercola (lavoro
da boscaioli per sradicare gli alberi di quercia), Carotenuto, Bevilacqua,
Buonpane, Guastaferro, Paternuosto, Verderame, Verdoliva, Capobianco,
Cinquegrana, Fattorusso, Piedipalumbo (assieme a Veropalumbo era un
cognome attribuito ai trovatelli per augurare loro di riprendere a volare),
Scognamiglio (lavoro da contadini per trebbiare il grano o miglio), Fuma-
galli, Mangiafico, Mangiameli, Pappalardo, Scannapieco (chi si occupava
di macellare le pecore), Bozzaotre (derivato da buzzo, cioè ventre, e otra
per indicare una persona grossa come un otre), Caccioppoli (dal latino
medievale scaczopulus che indicava un uomo di bassa statura), Cioffi
(da ciofo che indicava colui che cardava e pettinava la lana), Merolla (da
medulla, cioè midollo in latino), Brancaccio (è il dispregiativo di branca col
significato di zampa), Fogliamanzillo (per l’antica tradizione napoletana
di alimentarsi, ancor prima dei maccheroni, esclusivamente delle verdu-
re della Campania Felix e quindi il soprannome era mangia foglia), Frangi-
pane, Vinciguerra, Cantalupo, Passalacqua, Cantalamessa, Bevilacqua o
Taglialatela con notazioni fatte, per questi ultimi quattro, con una intera
Miniatura di teatranti
alle prese con travesti-
menti animali (xiii secolo)
241

© wikipedia
frase che ha addensato il verbo, l’articolo e il complemento oggetto!
Tipico del Napoletano, è il cognome Auriemma (anche Aurigemma) che,
in origine, era il sopranome di donne che avevano particolari requisiti di
bellezza perché, com’è evidente, la voce si compone di due parti, cioè auri
e gemma che vuol dire oro e pietra preziosa.

Molti cognomi risultano da processi di composizione che possono


associare due nomi oppure un titolo con un nome come nei numerosi
composti con mastro- (Mastrandrea, Mastrofilippo), notaro- (Notarbarto-
lo, Notarnicola), papa- (in area meridionale, è un grecismo e corrisponde
a prete, ad esempio Papalia cioè prete Elia) o con aggettivi come bello-, buo-
no- del tipo di Bellomo, Buonamico. La maggior parte di tali nomignoli
rimandano, in genere, alla cultura contadina con soprannominazioni
attinte a piene mani dal mondo animale, vegetale e da quello degli uten-
sili di uso quotidiano. La maggior parte dei soprannomi (poi diventati
cognomi) erano usati in senso figurato dato che l’uomo ha da sempre
avuto alcune analogie e similitudini con il mondo animale e vegetale;
proiettandovi attributi psicologici e fisici, diventavano metafore di deter-
minate qualità antropomorfe. Nel Medioevo agli uomini erano attribuiti
i nomi di animali noti per la diffusa caratteristica: Volpe ad una persona
furba e scaltra, Leone ad una persona valorosa e combattiva, Elefante ad
una persona di grossa corporatura, Pecora per la scarsa attitudine al co-
mando, Merlo per l’ingenuo che si lascia facilmente ingannare così come
l’uccello che facilmente si addomestica e si tiene in gabbia. In altri casi:
Agnello, Aquila, Bove, Cagnino, Caprini, Castorina, Cavallo, Colombo,
Coniglio, Cornacchia, Delfino, Dell’Aquila, D’Orsi, Drago, Falco, Farfalla,
242 Formica, Frongillo, Gallina, Gallo, Gatto, Grillo, Lepore, Lupo, Micillo,
Mosca, Palumbo (colombo in napoletano), Passero, Pavone (anche Paone
in napoletano), Pecora, Pellicano, Pesce, Piscitelli, Piccione, Pisacane (per
pescecane come approfittatore), Polli, Porcelli, Quaglia, Ragno, Rana, Ratti,
Sardella, Tonno, Topo, Tortora, Vespa, Vacca, Vitiello.

Per quanto riguarda i cognomi tratti dal mondo vegetale, si possono


elencare quelli derivanti da alberi e piante varie come per Arbore, La-
salvia, Fiore, Fiorello, Dellerba, Frasca; quelli derivanti da fiori come per
Giglio, Rosa, Garofalo, Viola. Ancora quelli derivanti da legumi e verdure
come per Ciciretti, Ceci, Dell’Accio (dialettale per sedano), Dell’Edera,
Bruccoli. Infine quelli derivanti da frutti come per Castagna, Meloni,
Amendola, Cotugno, Persichella, Oliva, Mele, Uva.

Poi i cognomi legati ad alte cariche politiche e religiose come per Re,
Papa, Principi, Marchesi, Conti, Baroni, Cardinale, Vescovi, Abbate,
Capitani; tutti questi raramente discendono da antenati che avevano
effettivamente tali titoli nobiliari o religiosi. Sono piuttosto i sopranno-
mi che venivano imposti a chi lavorava (come soldato, contadino, cuoco,
cameriere) presso questi potenti in castelli, palazzi patrizi, monasteri
e chiese oppure a chi si atteggiava, imitava, somigliava fisicamente ai
potenti del tempo e del luogo o ne aveva interpretato il ruolo in una
rappresentazione teatrale, in un gioco popolare o in una processione.
In questa mia lunga frequentazione dell’antroponomastica, mi hanno
sempre colpito i cognomi Papetti, Cardinaletti e Vescovini; lungi dal con-
siderarli soprannomi ironici al limite del vilipendio o della blasfemia
nei confronti del Papa, di un vero cardinale o vescovo, sono con grande
probabilità soprannomi scherzosi per qualcuno che vantava presunte
egemonie di potere o contatti clericali. Degni di nota sono i soprannomi
teofori (esprimono un ringraziamento a Dio per il figlio che ha concesso)
come Deodato (donato da Dio), Deogratias (dono di Dio), Teofilo (amico
di Dio), Timoteo (timorato di Dio), Diotaiuti, Diotallevi o quelli gratulatori
(cioè i nomi indicanti buoni auspici per il nascituro o l’infante) tra cui
Amato (amato da Dio), Anastasi (il risorto), Bonaccorso o Benvenuto (il
ben accolto), Lazzaro (l’assistito da Dio), Rubino (il figlio della Provviden-
za), Mieli (il bimbo dolce come il miele), Benfaremo, Pensabene.

Anche se tali nomi manifestano contentezza per la nascita del figlio, non
mancano quelli negativi come Incresciuto (nel senso di non desiderato), 243
Pocobelli, Schifata, Soperchia e Soperchina (napoletano per superfluo).
Poi i cognomi Rinato, Rifatto, Ritrovato, Conforti, Rimedio, derivano dai
nomi dati ai secondi, terzi e quartogeniti che avevano sostituito i fratel-
lini, vittime dell’elevata mortalità infantile. Anche il cognome Santoro,
molto diffuso nelle regioni meridionali, ha una derivazione religiosa;

Miniatura con giullare


di corte (xiv secolo) con-
servata nella “Bibliote-
ca Reale del Belgio” a
Bruxelles
244
Decreto del Ministro era un soprannome, spesso attribuito ai trovatelli nati proprio nella festa
dell’Interno Roberto
Maroni (2009) che uffi- di tutti i santi, tratto dalla frase latina Dies festus sanctorum omnium (cioè
cializza l’uso del “detto”
Giorno della festa di tutti i Santi). Un altro tipo di soprannomi era legato
nel comune di Chioggia in
provincia di venezia alle destinazioni dei pellegrinaggi nei luoghi santi del Medioevo; al ri-
torno, i credenti erano facilmente identificabili poiché portavano, cucito
sui mantelli o sui cappelli, i simboli che indicavano il luogo visitato nel
loro pellegrinaggio. Pertanto venivano diversamente soprannominati
in relazione al ritorno da Roma, da Gerusalemme in Terra Santa o da
Santiago de Compostela in Spagna. I nomignoli erano: Romei (per quelli
diretti verso Roma in visita alla tomba di San Pietro), Palmieri (i pellegrini
verso la Terra Santa, ricca di palmeti da cui il nome), Giacobei o Peregrini
(quelli diretti a visitare la tomba di San Giacomo in Spagna). Molto pro-
babile che tali soprannomi siano diventati cognomi.

Anche se oggigiorno la burocrazia attribuisce al cognome la massima


importanza, tuttavia il soprannome può diventare ufficiale, anagrafico 245
e addirittura ereditario. Si può citare il caso emblematico di Chioggia,
in provincia di Venezia, dove l’altissima frequenza dei cognomi Boscolo
e Tiozzo ha favorito la stabilizzazione del soprannome (deto in dialetto)
e quindi la formazione del cosiddetto doppio cognome del tipo Boscolo
Bianchi, sfatando la credenza comune che un doppio cognome sia inteso
come indice di casato nobile.

Nella mia famiglia allargata e nella cerchia delle mie amicizie ci sono
diversi esempi di soprannomi. Ad esempio, mia nonna paterna aveva
come cognome Liguori ma la sua progenie era conosciuta con una deno-
minazione di mestiere e cioè con il soprannome ’e trafilari, per le trafile
in bronzo nella produzione della pasta gragnanese; il mio caro amico
Vincenzo Giordano è soprannominato in città come ’o tarantino, per le
presunte origini pugliesi della sua parentela. Ma anche, scherzosamente,
l’altro mio caro amico Roberto Elefante che fu etichettato come Kojak
perché da ragazzini alle docce della palestra di via Alvino notammo la
vistosa mancanza di peli sui suoi genitali, che ci ricordava la testa pelata
dell’attore americano Telly Savalas. Alla rinfusa, altri miei amici iden-
tificati proprio dal soprannome: Michele quatt’capill, Attilio pedalino, Lello
mullicone (era il mio!), Franco palatone, Gaetano ’o cinese, Rosario draculino,
Michele ’o meticcio, Guglielmo scheletrino…

© arsc

246
I cognomi di Stabia

Firma del sindaco e degli L’uso dei cognomi in Campania, seppur non come li consideriamo 247
assessori stabiesi per una
delibera comunale (1837) oggigiorno, risale al periodo compreso tra il IV e il III secolo aC quando
conservata nell’Archivio
Storico di Castellammare
i suoi territori passarono sotto il dominio di Roma. Il riferimento era
di Stabia al cognomen con le tipiche tre denominazioni utilizzate per tanti secoli
nell’impero romano; tale modalità onomastica entrò in disuso con le in-
vasioni barbariche che, nel 476 dC, determinarono la caduta dell’Impero.
Successivamente in Campania ci fu, tra gli altri, il dominio dei Goti e dei
Longobardi. Il ritorno all’uso dei cognomi si verificò nel X secolo quando
Napoli, e tutta l’Italia meridionale, passò sotto il dominio normanno ma
riguardò esclusivamente le famiglie nobili. I cognomi formatisi in questa
epoca generalmente traevano origine dal nome del capostipite come
Amicone, Berardo, Borrello, Guarino, Maio, Miranda, Ranieri, Troisi.

Dopo il XIII secolo l’uso del cognome si diffuse anche tra gli strati meno
abbienti della popolazione per poi divenire obbligatorio con il Concilio di
Trento del 1564, al fine di evitare matrimoni tra consanguinei. I cognomi
delle famiglie residenti in Campania hanno alcune loro peculiarità; il
più diffuso è Esposito che deriva dal latino expositus, ovvero esposto, che
veniva assegnato ai neonati abbandonati alla nascita. Il primo Espo-
sito della storia fu registrato presso l’Ospedale dell’Annunziata il primo
gennaio 1623 e si trattava di Fabritio di due anni. L’assegnazione di
questo cognome avvenne fino ai primi dell’Ottocento; in epoca napole-
onica Gioacchino Murat, considerando quel cognome come un marchio
Successione delle domi- infamante, diede disposizione che i bambini abbandonati non fossero
nazioni nella storia della
città di Napoli dal XII al più così chiamati ma con un nome di fantasia (cfr. capitolo Le identità dei
XIX secolo
trovatelli a pagina 390). La maggior parte dei cognomi campani è di forma
singolare perché dovuta alle abitudini di trascrizione notarili. Altra loro
importante caratteristica, dovuta principalmente alle influenze dialetta-
li e ai derivativi, è la presenza dei suffissi -iello, -uolo, -illo e -icchio. Nume-
rosi cognomi campani derivano da soprannomi legati a caratteristiche
fisiche del capostipite come Capuozzo, Palumbo, Picariello, Caputo,
Caruso, Coppola, Cozzolino, Fusco, Gargiulo, Luongo, Longo, Ruotolo,
Russo, Varriale. Tra i cognomi derivati da soprannomi legati a mestieri
figurano, invece, Abate (e Abbate), Castaldo, Iodice, Monaco, Pastore,
Piscopo (e De Piscopo), Senatore. Significativa è anche la presenza di
cognomi derivati da prenomi come Annunziata, Bruno, Cirillo, Giorda-
no, Romano, Ruggiero, Santoro, Vitale, molti dei quali preceduti dalla
preposizione De come in D’Angelo, De Filippo, De Luca, De Martino, De
248 Lucia, De Rosa, De Simone, De Stefano. Sono presenti anche cognomi di
origine etnica come Formisano, Franzese, Provenzale, Greco, Irlanda, Na-
politano, Sorrentino o quelli derivati da toponimi come Aiello e Ferrara.

Per raccontare la storia dei cognomi stabiesi ritengo necessario mostrare


le tappe della storia di Napoli, a cui Castellammare è stata sempre anco-
rata, che interessano proprio il periodo della sua originazione e diffusio-
ne, cioè dal XII secolo al XIX secolo. Ciò per mostrare l’importanza data
al cognome nelle diverse abitudini amministrative ed esigenze socio-fa-
miliari che hanno attraversato questi sette secoli di storia meridionale.
In altre parole, far comprendere come le diverse dominazioni francesi e
spagnole hanno avuto influenze nelle prassi notarili delle disposizioni
ereditarie, nei mestieri, nelle provenienze, nella lingua che oggi ci ritro-
viamo e, anche se non ce ne accorgiamo, nei nostri cognomi.

Analizzando attentamente i catasti della nostra città nei diversi secoli


mi è stato possibile studiare la composizione linguistica e la rilevanza
numerica dei cognomi annotati. Se si esamina la derivazione etimologi-
ca, è possibile realizzare una classificazione in cinque gruppi: 1. cogno-
mi derivati da patronimici, cioè nomi personali di tradizione greco-la-
tina, cristiana e medioevale anche espressi solitamente da preposizioni
a indicare figlio di come, ad esempio, Oliviero, Hieronima, De Guido, De
Ianuccio, De Lamberto, De Miranda; 2. cognomi da toponimi ed etnici,
Federico II di Svevia
1130-1265 Regno Normanno-Svevo

Angioini dal 1266 al 1442


1266-1285 Regno di Carlo d’Angiò (conte di Provenza)
1285-1296 Regno di Carlo II d’Angiò
1296-1309 Vicariato del principe Roberto D’Angiò
1309-1342 Regno di Roberto D’Angiò
1342-1381 Regno della regina Giovanna I
1382-1414 Epoca durazzesca (re Ladislao)
1414-1435 Regno della regina Giovanna II
1435-1442 Guerra di successione tra Alfonso e Renato D’Angiò

Aragonesi dal 1442 al 1515


1442-1458 Regno di Alfonso I di Aragona
1458-1494 Regno di Ferdinando I di Aragona 249
1494-1495 Regno di Alfonso II di Aragona
1495-1496 Regno di Ferdinando II di Aragona
1496-1501 Regno di Federico di Aragona
1501-1515 Regno di Ferdinando III di Aragona

Periodo viceregnale dal 1515 al 1734


1515-1554 Regno di Carlo V
1555-1598 Regno di Filippo II
1598-1621 Regno di Filippo III
1621-1665 Regno di Filippo IV
1665-1700 Regno di Carlo VI
1700-1707 Regno di Filippo V
1707-1734 Regno di Carlo VII

Periodo borbonico dal 1734 al 1860


1734-1759 Regno di Carlo III
1759-1804 Regno di Ferdinando IV
1804-1815 Dominazione francese
1815-1825 Regno di Ferdinando I
1825-1830 Regno di Francesco I
1830-1859 Regno di Ferdinando II
1859-1860 Regno di Francesco II
desunti dal luogo di nascita o di provenienza, divisi in nomi propri ed
etnici e nomi comuni come, ad esempio, De Fasano, De Melito, De Montel-
la, Longobardo, Paduano, Romano, Sorrentino, De La Torre, Montanaro,
Porto, Vallese; 3. cognomi che rimandano a mestieri e cariche come,
ad esempio, Balestriere, Carrese, Vaccaro, Porcaro, Pecoraro, Barone, Mar-
chese, Primicerio, Conte; 4. cognomi nati da soprannomi fisici, caratte-
riali, augurali od invocativi come, ad esempio, Curto, Felice, Pappalardo,
Riccio, Verapalumbo; 5. cognomi nati per determinare l’identità dei
neonati abbandonati come, ad esempio, Balsamo, De Monaco, De Sancto.

In particolare, ho analizzato i cognomi degli stabiesi desunti da diffe-


renti fonti dove numerosa e significativa era la presenza di nominativi di
litografia a colori di cittadini stabiesi per variegate esigenze: Catasto di città del 1554, Catasto
Gaetano Dura “Costumi dei Terzieri del 1603, Catasto onciario del 1753, Censimento della popolazione
de’ dintorni di Napoli”
(1838) del 1871, Elenco telefonico del 2007.
250
Catasto di città del 1554

La totalità delle informazioni sono state desunte dal libro di Catello


Vanacore, Un comune dell’Italia Meridionale nel sec. XVI sull’uni-
versitas di Castellammare di Stabia e il Catastus Civitatis del 1554.
Il volume documenta con dovizia di particolari il Catasto di città indivi-
duando insediamenti, persone e cognomi stabiesi dei suoi casali rurali.
I catasti fecero sistematicamente la loro comparsa in epoca comunale a
causa del disgregamento del sistema feudale e ciò determinò il risveglio
di una nuova coscienza sociale che spinse le varie universitas a perseguire
una politica finanziaria più moderna. Agli inizi del XVI secolo la Napoli
© catello vanacore

aragonese cessò di esistere come formazione politica indipendente per


scadere al rango di Viceregno sotto il dominio spagnolo, durato circa due
secoli; pertanto ci fu il totale asservimento delle risorse del viceregno
alle esigenze della politica castigliana con una fiscalità progressivamen-
te crescente che portò al depauperamento delle risorse produttive e ad un 251
Libro di Catello Vanacore
“Un comune dell’Italia indebitamento del bilancio statale.
meridionale nel sec. xvi”
sull’universitas di
Castellammare di Stabia Per testimoniare ancora una volta la costruenda stabilizzazione del nome
e il Catastus Civitatis
del 1554 aggiunto in cognome, la dominazione spagnola promosse il censimento
per le contribuzioni fiscali attingendo in modo sistematico ai libri
parrocchiali dei nati e dei morti delle universitas; anche i notai delle città
erano tenuti a fornire le generalità delle persone che effettuavano com-
pravendite indicando esplicitamente i nomi e i cognomi.

Questo catasto fu pianificato con l’intervento delle cariche ammini-


strative cittadine: il magnifico Hieronymus Castaldus (sindaco), il nobi-
le Alessandro de Apuzo, il magnifico Antonio Bacharo, il messer Andrea
Coppula (tutti e tre come eletti dei nobili) e messer Joan Bernardino Bosi,
Vincenzo de Marino e Prospero Scafarto (tutti e tre come eletti dei Terzieri).
Nel catasto i contribuenti erano elencati indicando il nome e cognome
del capofamiglia, seguiti, per una più certa identificazione, dal patro-
nimico o dall’eventuale soprannome. Nella composizione del fuoco (il
gruppo familiare dell’epoca) vi figuravano solo gli elementi maschili,
debitamente identificati con il nome di battesimo e grado di parentela
rispetto al capofamiglia. La famiglia dell’epoca era di tipo cognatizia, cioè
era formata dal capofamiglia assieme alla moglie ed i figli ma anche dai
cognati, dai fratelli e sorelle, dalle nuore, nipoti e generi.
Alla sua redazione diedero il loro contributo anche tre estimatori (cioè co-
loro che dovevano descrivere e valutare i beni immobili dei contribuenti):
Salvatore de Marino, Marcus d’Alexio, Saurello Mascolo. Interessante riporta-
re i mestieri esercitati a Castellammare desunti dal catasto: accimmatore
(dal catalano acimador, rifinitore di panni e di orli), barbiere, barricchia-
ro (dal napoletano antico varrecchia per indicare il barile da cui varric-
chiaro, costruttore di barilotti), bocciere (detto anche voziero per indicare
il macellaio, derivato da buczaria ovvero luogo di macellazione di animali),
bottaro (quella dei bottai era una ricca congrega e nel 1577 promosse
la costruzione della chiesa dello Spirito Santo presso Fontana Grande),
bottegaio, bracciale (bracciante agricolo), calzolaio, carcararo (addetto
alle fornaci per la calce), cardatore (da cardatura, operazione manuale di
allargatura della lana), cassaro (cassaro o casciaro come costruttore di
casse), cerusico (si occupava di piccola chirurgia come fare salassi o estir-
pare denti), coiraro (dalla voce catalana cuyracer, cuyraro, lavoratore del
252 cuoio che nel XIX secolo rese Castellammare il polo conciario del Mez-
zogiorno), coppolaro, cucitore, cultraro (anche cotraro come fabbricante
di coperte derivante dal napoletano cotra, coltre, coperta), fabbricatore
(termine che stava per muratore), ferraro, industriante (questa denomina-
zione indicava un imprenditore o un commerciante), cucitore, mannese
(cioè falegname derivato dal latino manuensis per indicare la manualità),
marinaio, massaro, maestro d’ascia (questa categoria comprendeva anche
i costruttori di imbarcazioni che nel 1580 avevano costruito la Confrater-
nita dei Marinai, Pescatori e Padroni di barche, riunita nella cappella della
chiesa Santa Maria di Portosalvo), mercante, orefice, ortolano, padrone
di rete, padrone di barca, pescatore, rotellaro, salatore di pesci, seggiaro
(cioè o’ mpagliaseggie), setaiolo, spaccapietre, spataro, speziale, taverniere,
tessitore, vaticale (da viaticum per gli addetti al trasporto di merci e perso-
ne utilizzando le bestie da soma), zoccolaio. Molti di questi mestieri sono
diventati cognomi (barbieri, bocciere, bottaro, calzolai, cassaro, cerusico,
fabbricatore, ferraro, massaro, orefice, ortolani, seggiaro) mentre altri
avrebbero potuto diventarlo se avessero avuto più fortuna linguistica, e
mi riferisco a cultraro, coiraro, vaticale, ad esempio.

La determinazione delle tasse da pagare dipendeva da due diverse fonti:


l’accertamento fatto dall’alto dagli ufficiali fiscali ma anche con le rivele.
Queste ultime erano un documento comparabile all’odierna dichiarazio-
ne dei redditi ed era legata alla buona fede del contribuente; era un atto
obbligatorio tanto da essere sanzionato con pesanti pene in caso di de-
nuncia infedele o mancante. Da tali rivele è possibile riscontrare i diversi
modi di denominazioni degli stabiesi. All’epoca in città i cognomi si
concentravano nei cosiddetti quartieri di lignaggio, cioè rioni che derivava-
no il nome da un influente gruppo familiare. Era molto frequente che un
casale isolato venisse indicato col nome di chi vi abitava, tanto che il to-
ponimo originava dal cognome anche se di solito il processo è inverso. A
Castellammare esiste ancora una parte del centro antico, cioè Licerta, che
trae la sua etimologia dal cognome del gruppo più numeroso e influente
dell’epoca, cioè la famiglia Certa.
Frontespizio del “Cata-
stus Civitatis” del 1554

253
Per indicare il luogo, in napoletano il quartiere era nominato de li Certa;
l’antico articolo determinativo plurale li si è fuso per agglutinazione al
cognome tanto da generare un’unica parola. Stessa citazione per il rivo
li Volpora di Scansano che veniva anche chiamato Li Vorpe o Li Vulpura e
derivava il nome dalla famiglia Vulpura (cognome probabilmente deri-
vante dall’animale, simbolo di furbizia). Altro dato interessante è che a
Mezzapietra oltre la metà dei proprietari si chiamava Longobardi o Scarfati
mentre a Privati oltre la metà si chiamava Longobardi o Coppola. Per contro
il centro, che cominciava ad assumere un profilo urbano, presentava
sparute abitazioni tanto che anche i cognomi più diffusi non contabiliz-
zavano numeri significativi.

Bizzarri erano i soprannomi dei cittadini stabiesi: Gabriele de Fiumara


alias Trippa (forse per la sua grossa corporatura!), Beneditto Longobardo
alias Pezione (?), Andrea Coppola alias Francischiello, Marino Longobardo
254 alias Vecchio, Tomasaniello Scafarto alias Masone, Thomase Longobardo
alias Caparossa, Mario Longobardo alias Sanrocco anche se in un altro
caso era menzionato al contrario e cioè Mario Sanrocco alias Longobar-
do, Nicola de Rosa alias Murzillo, Andrea Chiaiese alias Marvizzo (nome
dialettale sia di un pesce che di un uccello), Antonio Bacharo alias
Jammusso, Santolo Longobardo dicto Fosca, Ioanne Longobardo alias
Piziolo, Domenico Abrentio alias Sinese (forse perché era originario di
Siena), Minico Coppola alias Tascata, Bartolomeo Longobardo alias Capo
de ferro, Geronimo Longobardo alias Faraldo, Antonio La Cerina alias de
Martino (probabilmente per distinguersi dallo stesso cognome dei cugini
con la menzione del padre Martino), Vincenzo Lancella alias Pichichone,
Masone Coppola alias Tomase, Paulo Vitello alias Cusano (proveniente
da Cusa nell’attuale provincia di Trapani), Pierro Antonio Palascandolo
alias Massese, Luciano Greco alias Mezo previte (per indicare la sua grande
religiosità), Ioanne Coppola alias Fasulo, Minico de Maio alias Pagliuzza
(forse per la sua esile corporatura!), Benedetto Boscaino alias Piccione.

Interessante notare che solo i cittadini normali, rispetto ai più ricchi


bonatenenti, avessero all’epoca un soprannome allo scopo di distinguerli
ulteriormente. Ancor di più, nelle note del catasto appaiono appellativi
(patronimici e toponimici) che sarebbero potuti diventare cognomi se le
cose fossero andate diversamente; cioè in un successivo catasto, il nuovo
compilatore avrebbe potuto dare più peso al soprannome che al cognome
stesso. Ad esempio Gasparro Senzone, annotato come vecchio et cecato,
aveva il figlio Cola Ioanne che, nel catasto, era menzionato di continuo
con Cola Ioanne Senzone di Gaspare; tale denominazione, nell’incertezza
delle trascrizioni, si sarebbe potuto perpetuare con Cola Ioanne Senzone
oppure Cola Ioanne Senzone di Gaspare oppure Cola Ioanne di Gaspare.

Un altro esempio riguarda un tale Marco Longobardo che era annotato con
la specifica supplementare di Battista ma in un’altra trascrizione dello
stesso catasto era menzionato con Marco di Battista Longobardo; tutto ciò
dimostra come la denominazione di un individuo era all’epoca poco
cristallizzata e si modificava nelle varie trascrizioni senza grandi vin-
coli, magari privilegiando il patronimico. Le altre notazioni più curiose:
Francesco Pappalardo era debetuso (fortemente indebitato), Luca Sicardo
era senex, malsano e debetuso (vecchio, malato e indebitato; niente più?),
Stefano Coppola era sexagenario (perché i sessantenni erano esentati
dalle imposte), Geronimo Donnarumma era povero, Colangelo Porco 255
era vecchio, Anna Coppola era vidua quondam Michele Lardaro (vedova del
defunto marito), Salvatore Scafarto era figlio della zoppa, Pietro de Serino
era di Gabriele, Cola Longobardo era di Brunetta, Minico Longobardo era
di Tudisco, Santoro Spignola era stroppiato, Petro de Miranda era malsano
et pelagruso (ammalato di pellagra), Francesco Carrese era di Colaioanne,
Felippo Scafarto era invalido.

La città aveva all’epoca circa 700 fuochi (di cui 597 rilevati) e, se ogni
fuoco contava in media 5 componenti, si può ipotizzare un totale di circa
3.500 abitanti con un totale di 286 diversi cognomi; l’elenco completo è
consultabile nell’appendice a pagina 496. Di seguito i cognomi raggrup-
pati in categorie intitolate alla loro possibile etimologia.

Patronimici • Adamiano, Basilio, Carlino, Censone, Cipriano, D’Alexio,


D’Amato, Damiano, De Alexio, De Amato, De Angelo, De Cataldo, De
Donato, De Guido, De Ianuccio, De Lamberto, De Marchese, De Maria,
De Marino, De Martino, De Miranda, De Rannuccio, De Ranuccio, De
Rosa, De Urso, Fabrizio, Felice, Gautiero, Giordano, Hieronima, Jacone-
janni, Oliviero, Sansone, Senzone, Sicardo

Toponimi (nomi propri ed etnici) • Albanese, Catalano (dalla Catalogna


in Spagna), Cepparano (da Ceppaloni in provincia di Benevento), Como,
Cuomo (alterazione della pronuncia di Como?), De Apece e D’Apice (in
provincia di Benevento), De Alamanno (dalla Germania), De Arpaia (in
provincia di Benevento), De Atella (in provincia di Potenza), De Avellino,
De Barletta, De Capua, De Ceppaluni, De Ceppaluno, De Cosenza, De
Durazzo (città dell’Albania), De Ebuli (da Eboli in provincia di Salerno),
De Fasano (in provincia di Brindisi), De Gariglia (dal fiume campano
Garigliano), De Melito (località della periferia di Napoli), De Montella
(in provincia di Avellino), De Napolda, De Narnia (Narni in Umbria), De
Nucera, De Palma (da Palma Campania?), De Parise (Parigi), De Parmero
(da Parma?), De Salerno, De Serino (in provincia di Salerno), Dell’Oglio,
Genoese (da Genova), Greco, Letterese (da Lettere in provincia di Napoli),
Longobardo, Mariconda (da un quartiere di Pompei), Marotta (in provin-
cia di Pesaro e Urbino), Paduano (da Padova), Romano, Scafatese, Scalese
(da Scala in provincia di Salerno), Sorrentino

256 Toponimi (nomi comuni) • Boscaino, D’Apuczo, D’Apuzzo, D’Apuzo, De


Apuzo, De Archo, De Casale, De Fiumana, De Fiumara, De La Cava, De
La Torre, De Levanto, De Lo Braccio, De Massa, De Masso, De Somma,
Della Cava, Della Rocca, Montanaro, Porto, Vallese

Mestieri e cariche • Balestriere, Boscaino, Caccavo (paiolo di rame o


di coccio), Cannavacciulo, Cannavaczulo, Cappiello, Carrese, Castaldo,
Cavaliere, Cavallaro, Cemino, Cimmino (coltivatori di cumino), Fabbrica-
tore, Fante, Ferraro, Imperato, Imperatore, Lancella, Lardaro, Magliano,
Marchese, Maresca, Medico, Monaco, Montanaro, Nachlerio (nocchiero),
Pelliccia, Prestiere, Prevete, Primicerio, Scafarto, Vaccaro

Soprannomi • Balsamo, Barba, Barbaro, Biancho, Bono, Bonofronte,


Caccioppulo, Cangiano, Cemino, Censone, Cimmino, Curto, De Cioffo,
Dellicato, Dolcefronte, Fasulo, Felice, Formichella, Grosso, Mascolo, Mus-
solongo, Palummo, Pappalardo, Paragallo, Persichiello, Picciolo, Picciulo,
Pisacane (pescecane), Pistachio, Porco, Quaranta, Riccio, Riczio, Rosso,
Russo, Sansone, Scannasorece, Senzone, Spenta, Spina, Sportiello, Stella,
Tortora, Tramparulo, Trentacapilli, Trentamolle, Vanacore, Verdeauliva,
Verapalumbo, Verapalummo, Vitello, Voccamaiello

Trovatelli • Balsamo, Bonofronte, D’Afflicto, D’Afflitto, De Afflitto, De


Monaco, De Sancto, Delli Santi
Catasto dei Terzieri del 1603

La città aveva all’epoca circa 740 fuochi e, se ogni fuoco contava in media
5 componenti, si può ipotizzare un totale di circa 3.700 abitanti con un
totale di 87 diversi cognomi; l’elenco completo è consultabile nell’appen-
dice a pagina 496. Nel catasto sono stati rilevati anche nomi di battesimo
in un napoletano antico: Vicienzo, Pascariello, Martiniello, Gioseppe,
Francisco, Funzina, Catarinella, Catiello, Beneditto, Alexandro, Saba-
tiello, Ribecca, Giovanniello, Faustina, Carluccio. Di seguito i cognomi
raggruppati in categorie intitolate alla loro possibile etimologia.

il “Liber ii Baptizatorum”
(dal 1590 al 1599) conser-
vato nell’archivio della
Cattedrale di Castellam-
mare di Stabia

257
I cognomi Certa (1609) e
Volpora (1627) in due regi-
strazioni matrimoniali e
il cognome Sansone (1648)
in una registrazione bat-
tesimale, conservati nella
cattedrale di Castellam-
mare di Stabia

258
© asc

Patronimici • De Valentino, D’Alessio, De Roberto, De Marino, De Fer-


rante, De Grimaldo, De Cataldo, D’Arrigo, De Donato, De Luise, De Rosa,
Felice, Gautiere (da Gualtiero), Iordano, Nicodemo, Sanzone, Vitale

Toponimi (nomi propri ed etnici) • Cosentino, De Nocera, De Varletta (da


Barletta), De Secza e De Sessa (da Sessa Aurunca?), D’Apece (da Apice in
provincia di Benevento), De Cosenza, Franceglia (francese), Romano, Sca-
lese (da Scala in provincia di Salerno), Senese, Troyano, Todisco (tedesco)

Toponimi (nomi comuni) • Chiaiese, Chiayese, D’Arco, De La Corte, De


Fiumara, De La Torre, Montanaro, Massa, Vignapiana

Mestieri e cariche • Carrese, Cannavacciolo, Imperatore, Lancelle,


Pignataro, Scafarto, Scarpa, Spignola (?), Scarrocchia (?), Venderuso (?)

Soprannomi • Biancho, Bianco, Buonocore, Buonocunto, Buondonno,


Chiareca (?), Cimmino, Felice, Fortunato, Fattoruso, Gallo, Mellone, Mas-
colo, Perillo (?), Russo, Tortora, Verdoliva, Verapalumbo, Voccamayello

Trovatelli • Buonocore, Buondonno, Felice, Fortunato, Vitale


Catasto onciario del 1753

La totalità delle informazioni è stata desunta dalle trascrizioni (e par-


ziali elaborazioni) del catasto stabiese del 1753 fatte negli anni Ottanta
dallo storico Catello Vanacore su fogli dattiloscritti per l’Archivio Storico
di città; forse erano la testimonianza della volontà di approfondire e
valorizzare la storia locale con un libro sul catasto stabiese.

In questo catasto ci sono tantissimi casi di trovatelli (detti anche figli d’al-
levo) che, nonostante facessero parte di una nuova famiglia, continuava-
no a portare il cognome da trovatello e cioè Esposito; di solito le femmine
avevano l’appellativo Esposita, accordato quindi per genere, come nel
caso di Geronima Esposita, la figlia adottiva di 18 anni del capofamiglia
Aniello D’Apice. Alcuni trovatelli mostravano, invece, la dicitura ossia
seguito dal cognome della famiglia ospitante come, ad esempio, per il
lavorante di remi Francesco Esposito ossia Pagano o per il marinaro Antonio 259
Esposito ossia Vingiano. Tale procedura avrebbe potuto determinare il
nascere del doppio cognome: ad esempio Crescenzo Esposito, adottato da
Mattia Sanzone, sarebbe potuto in successive trascrizioni essere identifi-
cato con il doppio cognome e cioè Crescenzo Esposito Sanzone.

Nel catasto era molto diffusa la dicitura sorella in capillis che indicava la
sorella da maritare; l’origine di questa formula va ricercata nella legge
romana dove virgo in capillis si riferiva alla condizione di verginità di una
ragazza legata all’abitudine di lasciare i capelli sciolti e scoperti, a volte
semplicemente legati in una coda di cavallo. Le donne sposate invece
mostravano diverso aspetto perché usavano portare i capelli legati, messi
insieme in una pettinatura complessa e spesso coperti.

La famiglia del XVIII secolo continuava ad essere di tipo cognatizio con la


convivenza, sotto lo stesso tetto, anche dei mariti delle figlie e delle mogli
dei figli, quindi i cognati e le cognate. Nel catasto del 1753 c’è la seguente
famiglia: Alesio Cinque (di mestiere mastro calafato) di 45 anni, la moglie
Lucia Curcio di 44 anni, il figlio Andrea di 6 anni, il figlio Michele di
1 anno, la figlia Diana di 8 anni, il figlio adottivo Giovanni Esposito,
poi Angiola Curcio cioè la cognata vedova del fu Gasparre Candela, poi
Nunzio Candela cioè il figlio della suddetta Angiola, poi Catello Candela
cioè il figlio di Nunzio ed, infine, la cognata Grazia Curcio.
Incisione di Francesco
Cassiano de Silva (1703)
tratta da “Regno di
Napoli in prospettiva” di
Giovan Battista Pacichelli

© libero ricercatore

260

Dall’esame dei dati era evidentissima la vocazione della città per il suo
mare per la quasi totalità dei suoi cittadini; su presunti 4.000 abitanti:
546 marinari, 103 pescatori, 16 mastri calafati, 4 mastri falegnami di
mare, 2 padroni di bastimento, 1 calafato, 1 lavorante di remi.

La nostra città aveva all’epoca circa 800 fuochi (di cui 606 rilevati) e, se
ogni fuoco contava in media 5 componenti, si può ipotizzare un totale
di circa 4.000 abitanti con un totale di 395 cognomi; l’elenco completo
è consultabile nell’appendice a pagina 496. Nel 1656 Napoli (e provin-
cia) fu flagellata dalla peste che uccise l’80% della popolazione; questa
riduzione fu evidente anche a Castellammare di Stabia perché, anche se
dopo quasi un secolo dalla peste e nonostante la tendenza ad un natu-
rale incremento, la popolazione risultò pressoché invariata. Di seguito i
cognomi raggruppati in categorie intitolate alla loro possibile etimologia.

Patronimici • Alfano, Anastasio, Andolfo, Angiola, Attanasio, Attardo,


Basile, Bonifacio, Bruno, Buonifacio, Cola, Colasanto, Cuomo, D’Alesio,
D’Ambrosio, D’Andrea, D’Angelis, D’Angelo, D’Angiola, D’Auria, De
Benedictjs, De Benedittis, De Beneditty, De Felice, D’Elia, De Luise, De
Martino, De Simone, Di Berardino, Di Biase, Di Costanza, Di Felice, Di
Francesco, Di Franco, Di Gennaro, Di Giovanni, Di Loise, Di Lojse, Di
Luca, Di Luise, Di Martino, Di Paolo, Di Roberto, Di Rosa, Di Ruggiero,
Di Scienzo, Di Simone, Donnarumma, D’Orazio, D’Orsi, D’Urso, Elia,
Fabiano, Femia (aferesi di Eufemia), Franco, Giobbe, Giordano, Iuliano,
Landolfo, Luise, Mauriello, Menechino (diminutivo di Domenico), Na-
talia, Perrone (derivante da Pietro), Pietro Paolo, Rafaele, Rocco, Ruocco,
Schettino (probabile variazione aferetica derivante dal diminutivo di
Francesco, cioè Franceschettino), Tomasino, Zaccaria

Toponimi (nomi propri ed etnici) • Avella (in provincia di Avellino), Avel-


lina (da Avellino), Calabrese, Calvanico (in provincia di Salerno), Celenta-
no (dal Cilento), Cosenza, Cosentino, D’Apice (in provincia di Benevento),
D’Aversa, D’Erchio (da Erchie, borgo marinaro del comune di Maiori in
provincia di Salerno), Di Capua, Di Cosenza, Di Gaeta, Di Longobar-
do, Di Napoli, Gaito (da Gaeta in provincia di Latina), Genovese, Greco,
261

© libero ricercatore
Incisione (1707) del car-
tografo Vincenzo Maria Grieco (dalla Grecia), Lajno (da Laino Borgo in provincia di Cosenza),
Coronelli Lombardo (dalla Longobardia), Longobardi e Longobardo (dalla Longo-
bardia), Montefusco (in provincia di Avellino), Montella (in provincia di
Avellino), Napoli, Palermo, Pistoia, Ravenna, Revella e Raviello (alterazio-
ne dialettale di Ravello in provincia di Salerno), Romano, Salerno, Savoja
(dalla regione alpina francese), Scalese (da Scala in provincia di Salerno),
Sciacca (in provincia di Agrigento), Serino (in provincia di Avellino), Sor-
rentino, Spagnuolo (etnico dialettale per provenienze eterogenee dalla
Spagna), Telese (in provincia di Benevento), Valanzano e Valenza (dalla
città catalana di Valencia in Spagna)
Toponimi (nomi comuni) • Acampora, Acanfora, Amendola (luogo di
coltivazione di mandorle), Casale (abitazione di periferia), Carcatella
(piccola fornace da calce), D’Acanfora, D’Ajello (da agellus, diminutivo di
ager, cioè campicello), D’Apozzo e D’Apuzzo (dal pozzo), Dell’Acqua, Della
Fratta, Della Rocca, Della Torre, Del Porto, Del Vasto, De Turris, Di Som-
ma, Fiumara, Maresca (dai campi coltivati a maresca), Massa, Montanile
(dalla montagna), Monte, Montuoro, Monturo (dal monte); è rilevata an-
che una generica (ma, per noi contemporanei, molto precisa) indicazione
di luogo e cioè Possiede la casa dove abita nel luogo detto fuori la fontana (…)

Mestieri e cariche • Arciulo (da boccale, orciuolo), Asciano, Balestrieri,


Bove, Caldaro, Caldiero, Candela, Cannavale, Cannavacciuolo, Cappiello,
Carrese (chi costruiva o guidava il carro), Cestaro, Ciampa (da zampa,
ferracavallo), Ceraso (ciliegio), Conte, Del Giudice, Del Monaco, Di Mo-
naco, Favo, Grano, Guarna (finimento per i cavalli), Langella, Martiello,
262 Pane, Porzio (da porcius, maiale), Scafarto (da scafo, barcaiolo), Scarpato,
Scognamiglio (da scognare cioè selezionare il miglio per l’alimentazione
animale), Vaccaro, Valanzuolo, Zinco, Zincone

Soprannomi • Balzano (dialetto per balsamo come sollievo e consolazio-


ne per un grande dolore), Barbarulo, Bello, Bonadia, Bonifacio, Bruno,
Buonifacio, Buono, Buonocore, Buonocunto, Buononato, Cacace (balbu-
ziente), Cafiero (derivato dal soprano Cafariello), Caruso, Cascone, Catuo-
gno (burbero), Cauciello (piccolo calcio), Celeste, Ciccimorto, Cimmino,
Cinco, Cinque, Cioffo, Colossa, Coppola, Cotena, Curcio (di bassa statura),
Dello Guasto, De Vivo, Di Vivo, Falanca, Falancola, Falanga, Falangola,
Farco (falco), Fiorillo, Firpo, Gallo, Gargiulo, Gaudiero, Granito, Graziuso,
Grosso, Infante, Iovene, Iovine, Lo Guasto, Lo Zuoppo, Maggio, Maresca
(dal carattere acidulo e amaro della maresca), Mascolo (nome aggiunto
ai nati maschi), Merolla (merla), Mollo, Muollo, Mosca, Naschiano, Naso,
Pagano, Palomba, Palomma, Palummo, Pappalardo, Piccolo, Piedenigro,
Pirozzo (alterazione di pero), Romeo, Rotundo, Rotunno, Russo, Sansone,
Sanzone, Scarfogliero (velo della cipolla), Scarocchia (?), Schiano (piano,
spianato, liscio), Stella, Tartaglione (balbuziente), Trambarulo (?), Tram-
parulo (?), Verdoliva, Volpe, Zito (in dialetto era il celibe o lo scapolo)

Trovatelli • Buonocore, Buononato, Della Monica, Esposito, Esposita,


Salavato, Salvato, Sollazzo, Ventorino, Ventura, Venturo
Censimento della popolazione del 1871

Dopo il primo censimento del Regno d’Italia nel 1861, se ne effettuò un


altro dieci anni dopo per mettere in pratica l’arte dell’amministrazione
pubblica grazie alla statistica che, usando una locuzione di quel periodo,
era addivenuta una scienza tanto è vero che la statistica giova alla vita pubblica
de’ popoli non meno che alla loro vita privata. Essa è necessaria a porre in luce il
numero della popolazione per l’esercizio de’ dritti civili e politici, per la riparti-
zione delle imposte, e per conoscere gli incrementi dell’istruzione e del commercio
(tratta dal libro di Domenico Milone, Municipio di Castellammare
© libero ricercatore

di Stabia, Relazione sul censimento della popolazione, Tipografia


Di Martino, 1874). Infatti questa disciplina consentiva allo Stato di
conoscere non solo la cifra complessiva della popolazione ma anche le
sue parti costituenti, le attinenze che avevano tra loro, gli elementi di
Copertina della relazione agiatezza e di pauperismo. Raffrontando i dati con quelli degli anni
sul censimento della
popolazione del Municipio precedenti era possibile conoscere l’andamento dell’età media, delle co- 263
di Castellammare di
Stabia (1873)
struzioni abitative, dei matrimoni, delle morti, dei mestieri, di chi sapeva
leggere e scrivere rispetto agli analfabeti.

Per la verità si erano già effettuati censimenti nel regno di Napoli ma


come estensione civile della pratica dello Stato delle anime di tradizione
religiosa. Gli esiti del censimento si ebbero nel 1873 e si registrarono
i seguenti risultati su 5 rioni cittadini (Castellammare, Botteghelle,
Scansano, Privati, Mezzapietra): 1.006 case censite, 5.767 famiglie, 13.543
maschi e 12.842 femmine per un totale della popolazione di 26.385
abitanti; di questi solo 7.227 maschi e 6.124 femmine sapevano leggere e
scrivere mentre gli analfabeti erano 13.044, divisi in 5.651 maschi e 7.383
femmine. Ma il dato più interessante per la trattazione dei cognomi fu la
metodica utilizzata per tali operazioni: la raccolta dei dati era trascritta
su registri suddivisi in fogli nei quali per ogni individuo veniva indicato
tassativamente il nome e il cognome a testimonianza che nel XIX secolo
era rarissimo un individuo senza un cognome!

Per il censimento fu affidato l’incarico al segretario municipale Dome-


nico Milone ed all’assessore Giuseppe Mosca; l’intero ufficio di statistica
era composto da Errico Brancati, Pasquale Aracri, Carlo Polito, Edoardo
Saltelli, Leopoldo Cascone, Giulio Des Loges, Pasquale Coppola, Paolo
Francesco Quarto, Eduardo Criscuolo, Giuseppe Jaccarino e dalla guar-
Comparazione dei dati dia municipale Vincenzo Landolfi. Per l’acquisto di scaffali appositi si
del 1861 e del 1871 sulla
popolazione di Castel- diede l’incarico all’architetto Nicola Coppola per il progetto e al falegna-
lammare di Stabia
me Luigi Buonocore per la realizzazione; il tipografo Raffaele Amodio si
occupò della stampa dei registri. Per la cronaca l’intera operazione costò
alle casse comunali 5.410,40 lire.

Dal quadro sinottico tra il 1861 e il 1871 si possono evincere informa-


zioni significative per l’emancipazione sociale, culturale e industriale
della nostra città; aumentò il numero di albergatori (fummo pionieri
del turismo italiano), appaltatori, calzolai, carpentieri, canapari, coc-
chieri, conciapelli, fornai, industriosi (cioè imprenditori o commercianti),
ingegneri navali, maccaronai, maestri, marinai, musicanti, spazzini,
spedizionieri, studenti, tessitori; e diminuì il numero di domestici, im-
mondezzai e mendicanti (un segno di crescita generale per le migliorate
condizioni sociali e culturali), filatori, giardinieri, guardiaboschi, sacer-
264 doti e monaci. Considerando tutti questi elementi positivi, il già citato
scrittore Domenico Milone fotografa un’incoraggiante fase di emanci-
pazione cittadina in quanto l’aumentato numero di coloro che sono addetti a
libere professioni o mestieri, e specialmente la diminuzione di tutte le condizioni
servili, fa rilevare che, nel decennio dal 1861 al 1871, Castellammare non rimase
indietro nella via del progresso alla quale istantemente è invitata dalle libere
istituzioni che reggono la nazione. Nei luoghi da’ quali l’ozio si allontana, è gioco-
forza che le virtù progrediscano, e che alla inerzia infruttifera subentri quel moto
di civiltà che è la vita vera de’ popoli.
Vetrino colorato del
fotografo italo-tedesco
Giorgio Sommer relativo
all’eruzione del Vesuvio
del 1872
© wikipedia
265
266
Pagina dell’elenco telefo- Elenco telefonico del 2007
nico Telecom (2007)

Questa raccolta di cognomi è basata esclusivamente sull’elenco telefoni-


co Telecom e perciò non tiene conto di molti altri che non vi compaiono.
Nei particolari, sono stati presi in considerazione solo quelli con una
frequenza assoluta di 12 nominativi per cognome; nel complesso si è
raggiunto un totale di 213 cognomi, distribuiti su 7.285 abbonati; l’elenco
completo è consultabile nell’appendice a pagina 496. Di seguito i cogno-
mi raggruppati in categorie intitolate alla loro possibile etimologia.

Patronimici • Bonifacio, Bruno, Cirillo, D’Alessandro, D’Aniello,


D’Antuono, De Falco, De Feo, De Gennaro, De Gregorio, Della Monica,
De Luca, De Martino, De Pascale, De Rosa, De Simone, De Stefano, Di
Martino, Tommasino

Toponimi (nomi propri ed etnici) • Ungaro, Todisco (da tedesco), Troia- 267
no, Spagnuolo, Sorrentino, Sicignano (in provincia di Salerno), Romano,
Paduano (da Padova), Nocera, Di Nocera, Napolitano, Calabrese, Calva-
nico (in provincia di Salerno), Castigliano (per spagnolo), Celentano (dal
Cilento), Cosenza, Di Capua, Ferrara, Fiorentino, Formisano (da Formia),
Gaeta, Genovese, Greco, Lombardi, Longobardi, Manfredonia, Messina,
Mauriello (da Mauritania, l’attuale Marocco)

Toponimi (nomi comuni) • Massa, La Mura, D’Arco, Del Vasto, Di Palma,


Di Somma, Fontana, Fontanella, Montuori, Somma, Torre

Mestieri e cariche • Balestrieri, Castellano, Castigliano, Cavaliere,


Cavallaro, Conte, Ferraiuolo (fabbro in dialetto), Guerriero, Palmieri (pel-
legrini verso la Terra Santa), Scarpato (fabbricante di scarpe), Scognami-
glio, Varone (per barone), Maresca (marinaio)

Soprannomi • Apicella, Barbato, Boccia, Cascone, Cinque, Cioffi, Ele-


fante, Gallo, Gargiulo, Gentile, Graziuso, Guerriero, Iovine, Iovino, Lepre,
Martone, Martoriello, Mauriello, Mosca, Pane, Pappalardo, Ricci, Roton-
dale, Russo, Stella, Vecchione, Verdoliva, Veropalumbo, Vitiello
nelle due pagine seguenti
I cognomi stabiesi sulle Trovatelli • Amodio, Bonifacio, Buondonno, Buonocore, Buonomo,
lapidi e sulle tombe del
cimitero cittadino Fortunato, Imparato, Infante, Ingenito, Malafronte, Mascolo, Salvato
© raffaele fontanella

268
269

© raffaele fontanella
La disamina storica di tutte le famiglie la cui origine può essere collegata
alla nostra città, ci induce ad alcune riflessioni legate al popolamento
dei casali e all’arrivo delle prime famiglie che hanno abitato i nostri ter-
ritori. Castellammare ha subìto, a causa dei conflitti, tre diversi spopola-
menti, più o meno intensi, avvenuti durante le guerre bizantino-
longobarda, svevo-angioina ed angioino-aragonese.

Dal V al X secolo (Alto Medioevo) l’abbandono del casale comportò un


ricambio generalizzato degli abitanti romani, soppiantati da nuovi sog-
getti portatori di un’onomastica di origine longobarda anche se si regi-
strava la presenza di autoctoni originari dalle famiglie di antica origine
romano-latina non completamente soppiantate dai Longobardi.

Dal XI al XIII secolo (Basso Medioevo) non si dispone di sufficienti


notizie almeno fino a quando nel XV secolo si verificò l’allontanamento
270 dal territorio delle famiglie angioine e l’arrivo di quelle aragonesi. A
Castellammare tale esplosione demografica fu appoggiata dal governo
spagnolo che intese ripopolare un territorio semidistrutto dalla guerra
contro i francesi grazie all’arrivo di famiglie da località sia limitrofe che
straniere. Infatti è possibile rilevare gruppi familiari del territorio napo-
letano e delle antiche cittadine limitrofe (Aversa, Pompei, Salerno, Capua,
Scala, Procida, Amalfi, Nocera, Nola, Sorrento, Sarno) che hanno lasciato
traccia eloquente nei cognomi che usiamo oggigiorno in città; ma anche
l’arrivo di stranieri (per l’epoca) come i fiorentini, i pisani, gli spagnoli, i
francesi e così via. Queste migrazioni storiche hanno comportato, come
riscontro tangibile, la diffusione di soprannomi toponomastici, probabil-
mente poi trasformatisi in cognomi.

È soltanto con il XVI secolo che, in un cambiamento generalizzato


delle famiglie esistenti, si rilevano gruppi di origini diverse. Elemento
fondamentale e decisivo per l’arricchimento del patrimonio dei cognomi
stabiesi fu la convergenza in città di famiglie provenienti da ogni parte
d’Italia e dall’estero, portatrici a loro volta di memorie più antiche, di
ascendenze normanne, francesi e spagnole. Queste antiche eredità e i
nuovi cognomi etnici si confusero e si intrecciarono con i patronimici,
con i cognomi di mestiere, con i soprannomi usati all’epoca. Chiaramen-
te molti di questi cognomi sono radicati da secoli, altri si sono estinti in
città per varie ragioni tra cui il complesso fenomeno dell’emigrazione.
Miniatura dell’Evange-
liario di San Medardo
di Soissons (ix secolo)
conservato nella Biblio-
teca nazionale di Francia
a Parigi

271

Nelle pagine che seguono passerò ad analizzare la trasformazione dei


cognomi degli stabiesi individuati dalle fonti documentali angioine
e aragonesi, dai libri dei battezzati e dei matrimoni della Cattedrale a
partire dal 1575, dai registri anagrafici a partire dal 1809 e, infine, dalla
grande letteratura incentrata sulla storia della nostra città.
272
Statua di Carlo I d’Angiò Il periodo angioino (1265 > 1442)
(1266–1285) sulla facciata
del Palazzo Reale di
Napoli
Per conoscere le prerogative delle modalità di denominazione degli
stabiesi risulta imprescindibile la consultazione delle fonti documenta-
rie angioine e, in particolare, i testi e i documenti di storia napoletana
pubblicati dall’Accademia Pontaniana; ma anche altri libri o documenti di
autori che hanno raccontato questo periodo dai quali poter recuperare
informazioni significative sulla nostra città e/o su qualche individuo in
particolare; ogni riferimento bibliografico sarà preceduto dal simbolo #
mentre ogni stralcio di testo sarà seguito dalla data di riferimento.

////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

# Dal libro Registri della cancelleria angioina ricostruiti da Ric-


cardo Filangieri con la collaborazione degli Archivisti Napoletani,
Napoli presso l’Accademia, 1957. 273

Dal libro I
• 155. (…) tibi mandamus quatenus arcem civitatis Stabiensis seu Castrimaris,
cure tue commissam, cum omnibus armis, Guillelmo Guilloti laori (…). (1265)
• 5. (…) et honorum Palmerii Coppule in Castromaris. (1266)

Dal libro III


• 99. Nella trascrizione latina sono presenti alcuni notabili stabiesi come
il giudice Rogerius de Puteo (traducibile in Ruggiero d’Apuzzo o Ruggiero
Del Pozzo), il notaio Gulielmus Iacta e i testimoni Simeon de Longa, Thoma-
sius Conus e Trasemune Certa. Poi è citato il cognome de Rogatis con diverse
soluzioni grammaticali a dimostrazione della mobilità e l’instabilità
dell’onomastica: de Rogata oppure (…) et generis de filiis Rogati oppure (…)
etiam domus Rogatae oppure (…) Rogato. Particolare interessante dell’epo-
ca era la grande importanza del nome di battesimo, più del cognome;
addirittura nel redigere un documento legale, il suddetto notaio scriveva
in calce al testo: Quod scripsi Ego praescriptus Gulielmus publicus Castrimaris
de Stabia Notarius, cioè ciò che ho scritto io predetto Guglielmo pubblico notaio
di Castellammare di Stabia e non Gulielmus Iacta. Un notaio contemporaneo
non scriverebbe mai il solo suo nome in calce ad un documento!
• 105. Iustitiario Principatus. Quod solvant descriptam pecuniam mutuatam (tra
tutti i mutuatori elencati, cioè i prestatori di denaro, si riportano alcune
famiglie stabiesi) a subscriptis familiis de Castromari: Venaro, Baraballo,
Cesario, Brentorre, Aliano, Plagese, Rogato, Coppula, Primicerio, Madio, Maroda,
Palumbo, Roberto, Longo, Filippo, Montenario, Scufauro, Boso, Livera, Presbitero,
Cannabaro, Alfano, Scarpato, Castaldo, Acuto. (1269)
• 185. (…) iudex Mattheus Castaldus, Thomasius Pinctus, Salvatus Coppula, de
portulanatu Castrimaris de Stabia (…). (1269)

Dal libro IV
• 234. Hominibus Castri Maris de Stabia, provisio pro restituzione mutui unc.
Auri LIX. Nomina illorum sunt: jud. (giudice) Petrus Vulpula, Ioannes de
Auferio, jud. Goffridus Castaldus, jud. Petrus Castaldus, jud. Symon Vergatus o
Vergara, et Jacobus de Sancto Marco. (1269)
• 562. Mag. (magistrato) Iacobo de Atrabato, provisio pro decima startie, quam
tenente et laborant nomine Castrimaris, in territorio Scafati, eidem mag. Iacobo
debita ratione cappelle S. Leonis de Nuceria Christianorum. (1270)
274 Acquaforte di Ciro Denza • 892. Mutuatoribus Castri Maris, provisio pro mutuo. Et nomina eorum sunt
(1873 circa) che raffigura
il Castello Angioino hec: iudex Petrus Castaldus, iudex Petrus Vulpula, iudex Mazziottus Vaccarius,
costruito nel 1268 Johannes de Oferia, Guilielmus iudicis Castaldi, Venutus de Alesio, not. (notaio)
Catellus Accursus de Sancto Marco, mag. Bartholomeus Montanarius, Johannes
Cannabasolus, Mactheus Coppula, Bartholomeus Tentamolle, Bonavita Siccar-
dus, Maresca, Bartholomeus Spina, Jacobus Cannavaciolus, Jacobus Coppula,
mag. Ventura Bosus, Johannes de Jacta, Stephanus Longobardus, Bartholomeus
Plagese, Rogerius Scafarus, et alii plurimi. (1270)
In questo elenco di prestatori di denaro sono presenti, dopo più di 750
anni (sic), cognomi ancora diffusi in città. Da notare la trascrizione della
particella de in minuscolo perché, all’epoca, aveva la semplice funzione
di introdurre i vari complementi di specificazione o di provenienza.

Dal libro V
• 234. Nominantur nomine qui in diversis locis Principatus mutuaverunt pecu-
niam Regi: (…) in Castellammare: Ungaro, Castaldo, ecc. (1272)

Dal libro VI
Nel 1270 c’era un inquisitore contro gli eretici chiamato Mattheo de Ca- 275
stromaris (Matteo di Castellammare) dell’ordine dei Predicatori.
• 685. Provisio super contenzione orta inter Mazzioctum Vaccarium et Iaco-
bum de Sancto Marco, de Castromaris, qui a R. Curia locaverunt baiulationem
dohane et fundici Castrimaris, et nob. (nobile) virum Radulfum de Suessione
Comitem Laureti et dom. Scafati, qui pretendit tenimenta Matine et Pontis de
Persica pertinere sibi ratione dominii dicte terre Scafati. (1271)

Dal libro XXII


• 561. (…) Nomina vero predictorum credenceriorum in eisdem undici statuto
rum sunt hec vide licet: in fundico salis Castri Maris, Angelus de Bona, Sergius
de Troppu, Nicolaus Stays, Petro Castaldo de Castro Maris, Leonardus Rapica-
nus, Durantus Vicedominus, Angelus de magistro Nicolao de Lictera, magister
Stephanus de Putheo, magister Guarnerius Mascalus, Imperator de Domna
Rama, magister Pascalis de Palumbo et Benedictus de Miro de Pimonte, Andreas
Ferrarius, Nigronus Citus, Petrus Surrentinus, Carnilavarius Iuvenis, Leo Tasul-
la, Madius Almapede, Marchisius Ferricellus, Matheus Spagnola, Iohannes de
Pulcaro et Petrus Longobardus de Graniano (…). (1279)
• 821. (…) Mentio Petri Castaldi mil. (milite) de Castro Maris de Stabia, expen-
soris operis Sancte Marie de Regali Valle (…). (1279)
Questa persona, cioè Petri Castaldi, veniva menzionato in un documento
del 1269 (libro IV. 234) con altra grafia, e cioè jud. Petrus Castaldus, mentre
nel 1279 (libro XXII. 561) con Petro Castaldo de Castro Maris a dimostra-
zione che il cognome non era ancora un elemento fisso e la sua variabili-
tà era dovuta alla trascrizione effettuata da persone con diverse sensibi-
lità, obblighi e grafie. Stessa sorte per il giudice Symon Vergatus o Vergara
(libro IV. 234), in altre trascrizioni Simon Virgara (libro XXV. 230).

Dal libro XXIII


• 231. In fundaco Castri Maris de Stabia: Alexander de Afflicto de Scalis, Urso
Rufulus, Iohannes de Iuvene, Marinus de Apuzo, Iohannes Thomasii de Avita-
bulo de Pino et Pimonte, iudex Goffredus de Tuppo, Milus de Milo, Guglielmus de
Auria, Angelus de Anagnara et Petrus Vitalis de Lictera, Riccardus de Anagnara,
Iohannes de Casolla frater domini Tancredi, Iohannes Coluzzus, Iohannes Ma-
ricanna, Iohannes Baronus, iudex Alderisius Maramarte, Pascalis de Sinerocco,
Thomasius de Cayano, Angelus de Pultayo et Mattheus de Brengano de Grania-
no, Thomasius Clipenna filius iudicis Flubini, Andreas de Summa, Iohannes de
Puteo filius Iohannis de Puteo de Flumine et Petrus de Puteo de Pimonte. (1280)
276
Dal libro XXV
• 230. In fundico Castrimaris creantur fundicarii: Simon Virgara, Petrus Vulpu-
la, Rogerius Marzato de Surrento et Bonitus Longus de Vito. (1280)
• 502. (…) In fundaco salis Castri Maris: magister Iohannes Coppula, Iohannes
Montanarus senes, Iacobus de Palumbo, Iohannes Stasartus de Privato, Iacobus
Coccus, Iacobus de Renda, Petrus Paradisus, Castaldus Barbaratanus, Iohannes
de Palumbo de Pantano, Stephanus de Rogato, Fredericus de Scala, Matheus de
Lurca de Castromari, Angelus de Bono, Georgius de Troppu, Nicolaus Plahese,
Leonardus Rapicanus, Durantus Vicedominus, Angelus de magistro Milo di
Lictera, magister Iohannes, magister Guarnerius Mascolus, Imperator de donna
Roma, magister Pascalis de Palumbo, Nicolaus de Abitaquilo, Benedictus de
Miro de Piriconte, Andreas Ferrarius Nigronus Cito, Petrus Surrentinus, Carne-
livarius Iuvenis, Leo Casolla, Madius Almapede, Martisius Fanicellus, Matheus
Spugnola, Iohannes de Pulcaro, Petrus Longobardus heres Manni Guindacii,
heres Iohannis Gattule notarii, Athenasii Alese, Iohannes de Rogerio de Masaca-
ne et Thomasius de Nastasio de Vico. (1281)
Pochi secoli dopo l’anno Mille i numerosi casi di omonimia (dovuti
all’utilizzo dei consueti e ripetitivi nomi di origine religiosa e ger-
manica) erano risolti aggiungendo al nome di battesimo un secondo
appellativo che potesse qualificare la persona per il patronimico, per
l’origine geografica, per il mestiere svolto e per un soprannome di tipo
fisico o morale. Ad esempio il cittadino stabiese Giovanni (Iohannes) del
XIII secolo poteva essere distinto con nomi aggiunti: Iohannes de Casolla
frater domini Tancredi, Iohannes de Puteo filius Iohannis de Puteo de Flumine,
Iohannes Thomasii de Avitabulo de Pino et Pimonte, Iohannes de Pulcaro, heres
Iohannis Gattule notarii, Iohannes de Rogerio de Masacane, Iohannes Stasartus
de Privato, Iohannes de Iuvene, Johannes de Oferia, Johannes Cannabasolus,
Johannes de Jacta, Iohannes Coluzzus, Iohannes Maricanna, Iohannes Baronus,
magister Iohannes Coppula, magister Iohannes, Iohannes Montanarus senes,
Iohannes de Palumbo de Pantano.

Dal libro XXX


• 490. Similes facte sunt capitaneo Castrimaris pro pred. Andrea De Vico. (1290)

Dal libro XXXII


• 25. Notantur Thomasius Coppula de Castromaris dominus unius navis. (1269)
• 43. (…) et cum iudice Matteo Castaldo de Castro Maris de Stabia tempore regis
aroli primi, compotum ed quietatio. (1289) 277
• 184. Notantur vir nob. Pontius de Montiilis capitaneus ducatus Amalfie Ansal-
dus de Lavandaria capitaneus Gayete dom. Radulfus de Capite Aque miles ca-
stellanus Castri Maris de Stabia et vir nob. Petrus Braherius mil. Custos. (1289)
• 25. Notatur Thomasius Coppula de Castromaris dominus unius navis. (1289)
• 51. Thomasio Coppule de Castromaris, provisio pro extractione (…). (1289)
Tommaso Coppola era originario di Scala in provincia di Salerno e,
assieme ad altri nobili, prestò mille once d’oro al re Carlo ricevendo in
pegno la corona regale ricoperta di pietre preziose; i suoi discendenti
diffusero il cognome tra Amalfi e Castellammare di Stabia. Per mostrare
l’incertezza della fissità del cognome, si può notare che Tommaso Cop-
pola nello stesso anno e nello stesso registro veniva trascritto con nome
e cognome diversi: Thomasius e poi Thomasio per il nome, Coppula e poi
Coppule per il cognome.
• 422. Scriptum est hominibus Castri Maris de Stabia Odoardus vicecastellanus
Castri Maris (…). (1289)
• 436. Notatur vir nob Dom. Radulfus de Grolay capitaneus Castri Maris. (1289)
• 405. Pro Curia et fabricandis muris castri Maris. Scriptum est (…) hominibus
Castri Maris de Stabia etc. Fracte et Scanzani (…) Iacobus de Bursone (…). (1289)
• 541. (…) Radaulfum de Corlajo capitaneus Castri Maris de Stabia et (…). (1289)

Dal libro XXXV


• 69. Notatur dom. Raullus De Gritto capitaneus Castrimaris de Stabia. (1290)
# Da un documento di Giuseppe D’Angelo, Nicola de Rogatis, uno sta-
biese alla battaglia di Benevento, www.gdangelo.it.

Si racconta che il 26 febbraio 1266 ebbe luogo la decisiva battaglia tra


Svevi ed Angioini per la conquista del Regno di Napoli. Tra i comandan-
ti angioini vi era anche il milite stabiese Nicola de Rogatis che, dopo la
battaglia, si era abbandonato assieme ai suoi uomini al saccheggio della
Basilica di Santa Sofia impadronendosi, tra l’altro, di os unum parvum
nec non duos dentis (non uno ma due denti della bocca) della reliquia di
Santa Paola Romana. La famiglia de Rogatis era giunta a Castellamma-
re da Padova in seguito alla persecuzione di Ezzellino III da Romano
(1194-1259), vicario imperiale e genero di Federico II di Svevia; si erano
poi schierati a favore di Carlo I d’Angiò. La famiglia, in quest’epoca, era
rappresentata dal capofamiglia Giovanni de Rogatis, dalla moglie Camilla
de Camposampiero e dai figli Nicola, Leone e Luigi. La famiglia si era
278 stabilita in Castellammare nei pressi del Real Palazzo di Quisisana che,
successivamente, si nominò proprio Casa de Rogatis.
Miniatura “Cronica nuo-
va di Giovanni Villani, la
battaglia di Benevento”
(xiii secolo) conservata
nella Biblioteca Aposto-
lica Vaticana a Roma

Questo saccheggio ad opera del figlio Nicola pesava sulla coscienza


dell’anziano Giovanni de Rogatis, divenuto consigliere regio; nel 1268,
infermo e moribondo, per atto del notaio stabiese Guglielmo Iacta donò
al Monastero di Santa Sofia di Benevento un braccio e un dente di San
Giacomo Apostolo, un dente di San Pietro Apostolo e un altro di Santa
Giustina. Donò, infine, trecentocinque once d’oro per eventuali altri
danni arrecati alla chiesa; inoltre obbligò il figlio Nicola, e in mancanza
la moglie con tutti gli altri figli, a costruire nella Cattedrale di Castel-
lammare di Stabia una cappella votiva per San Nicola.
La cappella fu costruita nel 1270 ed è, oggi, la prima a destra entrando in
Cattedrale. Vi campeggia, recentemente restaurato, un pregevole dipinto
su tela di San Nicola di Mira, di autore ignoto; da un documento del 1704
si evince che tale dipinto fu commissionato a Napoli nel 1611 da Fran-
cesco de Rogatis, castellano di Castell’a mare. Tale cappella presentava due
lapidi marmoree, ora non più esistenti; il suddetto documento ci racconta
cosa vi fosse scritto:

D.o.m. Sacellum Hoc Divo Nicolao Sachrum A Nicolao


Quondam De Rogata Milite Carolo Primo Andegavensi
Verum Potiente Erectum Gentilitie Eius Hac Posteri Ad
Meliorem Cultum Reformari Curaverunt In Quo Frangiscus
De Rogatis Legum Peritus Vincentio Fratri Suo Huius Templi
Tesaurario Monumentum Hoc Armoris Proprius
Posuit Anno Domini Mdcxi
279
Il documento continua nella descrizione: Nel mezzo della medesima cap-
pella in terra vi è una lapide sepolcrale seu un coverchio di sepoltura in cui vi è
scolpita l’arma seu impresa della detta famiglia de Rogati in marmo bianco con
la sottoscritta inscrittione, cioè a dire:

Dominus Cesar De Rogatis Tegumentum Hoc Marmoreum


Pro Sepultura Familiae De Rogatis Construendum Mandavit
In Testamento 1575 ... Franciscus De Rogatis Uid
Filius e (Sic) Haeres Iussu Fecit

Chiaramente l’autore ha ricostruito nei dettagli i fatti e i protagonisti


ma, in questo libro sui cognomi, interessa come venivano nominati e
trascritti gli stabiesi in quel periodo. Si può notare che nel XIII secolo il
cognome sembra essere de Rogatis anche se nel 1611, nella stessa lapide
marmorea verticale, viene scritto in due modi diversi e cioè de Rogata e de
Rogatis. Il primo con l’ablativo e il secondo con il genitivo, a dimostrazio-
ne che il cognome all’epoca non era fisso ma si accordava alle esigenze
della scrittura. Nella lapide sepolcrale orizzontale, invece, ritorna per
tre volte il cognome de Rogatis; la mobilità e l’instabilità dell’onomasti-
ca si rivela, infine, in un particolare interessante quando l’autore del
documento del 1704 scriveva in italiano (…) della detta famiglia de Rogati
riproponendo così un’improbabile accordatura al plurale.
# Dal libro di Pio Tommaso Milante, Della città di Stabia, della chie-
sa stabiana e de’ suoi vescovi, Tipografia Di Saverio Giordano, 1836.

In questo libro l’autore compendia la storia laica e religiosa della nostra


città; in un documento del 10 agosto 1255 compare, tra gli altri, il giudice
Pietro de Rogata (notare ancora qui il cognome diverso dal già citato
cognome de Rogatis). Questa famiglia, giunta a Castellammare da Padova,
si mostrò molto devota ai sovrani angioini tanto che Leone de Rogatis
nel 1269 fu nell’elenco dei mutuatores (cioè prestatori) di danaro a Carlo
d’Angiò, privilegio riservato solo a pochi. All’inizio del XV secolo, con la
fine della dinastia angioina e l’inizio del periodo aragonese, cominciò il
lento declino dei de Rogatis; questa illustre famiglia sarà costretta a ricor-
rere spesso alle aule giudiziarie per il riconoscimento dei propri diritti
nobiliari, all’epoca fonte di potere e di ricchezza.

280 Nell’indicare e magnificare l’estensione territoriale dell’antica giurisdi-


zione dei vescovi stabiani, l’autore riporta due pubblici istrumenti nei
quali poter riscontrare nomi e cognomi di cittadini stabiesi. Nel primo,
del 16 ottobre 1407, compaiono le firme sotto giuramento di Angelo de Jat-
ta, Josue Coppula, Richardus Castaldus, Andreas de Miranda, Sergius de Aputeo,
Marcus Aprilis; nel secondo, del 17 giugno 14o8, di Anellus Guidus, Marinus
Castaldus, Stephanus Scetta, Antonellus de Urso, Antonellus Surrentinus.

////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

# Dal libro Syllabus Membranarum, Regia Typographia, Napoli, 1824.

In questo libro sono collezionate le disposizioni del re Carlo d’Angiò


nel periodo che va dal 1266 al 1285; in una del 1280, firmata del notaio
stabiese Tommaso Castaldo, c’è una disposizione riguardante il porto
stabiese: Petrus Castanea, Guillelmus Vaccarus, et Florius Montanarius Statuti
ad custodiendos portus Castri-Maris, ut exsequantur mandatum Regium
denunciatum per litteras Bisancii de Vigiliis Magistri Portulani, et Procuratoris
Principatus, Terrae Laboris, et Comitatus Molisii, quae exscribuntur, declarant se
comperisse, post mandatum Universitatibus a se iniunctum die 2o. Martii nulla
victualia fuisse extracta. Per Thomasius Castaldum Notarium Castri-Maris. Il
Pio Tommaso Milante cognome del notaio si presenta qui con la grafia Castaldum rispetto ai già
(1750) “De Stabiis stabiana
ecclesia et episcopis ejus” citati Castaldi, Castaldus e Castaldo.
# Dal libro di Salvatore Marino, L’Archivio dell’Annunziata di Napoli,
Documenti dei secoli XII-XIX, Laveglia & Carlone, Salerno, 2015.

In un istrumento (cioè un atto giuridico o contratto), redatto nel 1435 dal


notaio stabiese Jacobo Romolo, si registra la donazione di alcuni beni
fatta dai coniugi Bartolomeo Ulcano e Colonna Brancazia assieme a Cicella
tavola del Codex Manesse Lambierto (probabilmente una figlia adottata) alla Chiesa dell’Annunzia-
“duca Giovanni I di Bra-
bante” (1304) conservata ta di Napoli; tale donazione era la manifestazione della loro generosità
nella Biblioteca dell’U- o, forse, l’esplicitazione del voto fatto dall’adottata per ringraziare la
niversità di Heidelberg,
Germania Provvidenza nell’essere stata accolta in una dignitosa famiglia.

281

nelle due pagine seguenti


I cognomi stabiesi sulle
lapidi e sulle tombe del
cimitero cittadino
© raffaele fontanella

282
283

© raffaele fontanella
# Dal libro Sorrento, Giovanni Raparo 3 gennaio–31 dicembre 1436, a
cura di Sandra Bernato, Laveglia Editore, Salerno, 2007.

Dalle trascrizioni del notaio sorrentino Giovanni Raparo, dell’intero


anno 1436, è possibile trarre delle informazioni preziosissime sui modi
di denominazione degli stabiesi. I cognomi dell’epoca non presentavano
ancora la caratteristica della fissità nelle diverse applicazioni; siamo nel-
la prima metà del Quattrocento ed ancora lontani dal Concilio di Trento
dove fu messa in campo un’efficace procedura per rendere invariabili i
cognomi, proprio come usiamo oggigiorno.
“Sorrento, Giovanni rapa-
ro 3 gennaio - 31 dicembre
1436” (2007) a cura di • 4 marzo 1436 • Nella requisicio (interrogatorio) del notaio Angelillo de
Sandra Bernato
Martino di Napoli erano presenti anche il giudice Philippello De Masso,
il giudice Zaccharia Guardato e i testimoni Petruczello Ciraso, Antonello de
Castromaris e Coluccio Raparo. Nella trascrizione era citato anche il testi-
284 mone Antonello a cui fu aggiunto il toponimo de Castromaris; questo ap-
pellativo avrebbe potuto far nascere il cognome di città ma non ha avuto
fortuna. Poi il notaio interrogò Coluccio Raparo; probabilmente quest’ul-
timo non comprendeva il latino e, pertanto, il dialogo si tenne in vulgari
sermone, cioè in un italiano abbastanza comprensibile: Coluczo, io te requeo
danante iudice, notario et testimonie che io so’ venuto apparichiato coli denari
che tu me dige actendere zocchè me ay promiso per mano de iudice Zaccharia, de
me fare la vendeta dell’orto per che io so’ apparichiato volerete actendere zocchè
te aio promiso per mano delo dicto iudice Zaccharia et farete la promessione dela
revendeta con quilli pacti che dicerà lo dicto iudice Zaccharia.

L’utilizzo di due lingue diverse, il latino ufficiale e il volgare parlato tra il


XIII e il XVII secolo, ha portato spesso alla nascita di uno stesso cogno-
me nelle due forme; infatti quando il notaio richiedeva le generalità alle
parti di un contratto, e supponiamo che le due parti fossero persone
ignoranti, redigeva l’atto trascrivendo il nome e il cognome nel modo che
riteneva più opportuno. Il notaio più scrupoloso e ortodosso traduceva in
latino i dati del soggetto mentre il notaio più pragmatico scriveva il nome
e cognome così come l’aveva ascoltato.

• 28 maggio 1436 • Il notaio stipulò l’atto per la quietanza di Antonino


Canzano di Castellammare con queste parole: Antoninus Canczanus de
Castromaris de Stabia, filius et procurator Viviani Canzani, de cuius procuracio-
ne nobis plenam fidem fecit publico procuracionis instrumento facto in civitate
Castrimaris predicta (…). Il cognome, all’epoca elemento non fisso, poteva
essere declinato in funzione del significato; in altre parole, il suddetto
cognome Canczanus appariva anche al genitivo per indicare il padre e
procuratore Viviani, appunto con il cognome Canzani.

• 25 settembre 1436 • Il notaio stipulò l’atto per il nolo di una saettia


(piccola imbarcazione a tre alberi con vele latine o quadre) di Palmerius
Stracius de Vico, chiamata Sancta Maria, dai richiedenti Zardullus de Arena
de Castromaris de Stabia e Angelillus Aurifex de Surrento. In questo caso non
possiamo considerare cognome il de Castromaris de Stabia perché la prassi
notarile richiedeva il nome, il cognome ed anche la provenienza.

• 26 ottobre 1436 • Masellus de Calabria de Castromaris de Stabia, qui sic se


nominari et cognominari asseruit, consenciens prius in me prefatum iudicem ut
in suum (…). Colpisce l’inciso, cioè che asserisce di nominarsi e cognominarsi 285
in questo modo, perché il cognominarsi era all’epoca la denominazione
aggiunta al nome di battesimo per distinguersi agli occhi della legge e
Ritratto del re di Napoli
Renato I (xv secolo) con-
servato nel Museo di
Storia di Marsiglia
286
Carta geografica “Italia del notaio; quindi probabilmente lo stabiese Masello era originario della
in suos quoscunq status
divisa” (xv secolo) dell’in- Calabria e pertanto così era soprannominato dagli altri. Ma in questo
cisore carolo allard
atto il notaio trascrisse, oltre al nome e al presunto cognome (de Calabria),
amstelod
anche il paese dove viveva generando un insolito doppio toponimo. Lo
stesso Masello, in un’appendice dello stesso atto, viene menzionato con
Masellus de Madio de Castromaris de Stabia; il termine Madio deriva da mo-
dificazioni dialettali aferetiche del nome Amadèo o Amadìo che si è evo-
luto, con spostamento di accento tonico, in Majo donde le attuali forme
Majo o Maio, con o senza la proposizione de o di. Il 23 dicembre lo stesso
notaio stipulò un altro atto per la vendita della metà della barca e lo
nominò di nuovo con Masellus de Calabria de civitate Castrimaris de Stabia.
In questo atto è menzionato un altro stabiese, il tale Thofanus Lardarus de
dicta civitate Castrimaris; oltre alla provenienza geografica, quest’ultimo
possedeva già un vero e proprio cognome, cioè Lardaro.

• 31 dicembre 1436 • Un provvedimento del capitano (era il reggente della 287


città come l’attuale sindaco) di Sorrento vide protagonista lo stabiese
Simmonellus de Iacta de Castromaris de Stabia. La preposizione semplice de
era sempre in minuscolo perché all’epoca aveva la semplice funzione di
introdurre il determinativo cioè il padre, la madre o il luogo di nascita.
Negli elenchi alfabetici del XV secolo le persone erano ordinate per
nome (e non per cognome); anche se nel XIX secolo furono ordinate per
cognome, la preposizione de o di non aveva il peso ufficiale. Il cognome
De Maria, ad esempio, era in elenco sotto la M e non sotto la D per cui
tale cognome si scriveva Maria (de).

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# Dal libro Sorrento, Giovanni Raparo 2 gennaio – 31 dicembre 1437, a


cura di Sandra Bernato, Laveglia Editore, Salerno, 2012.

• 21 gennaio 1437 • Contratto di commenda (cioè il contratto in cui una


parte investiva il proprio lavoro e l’altra il capitale, così come le attuali
società in accomandita). Simon Vallese de Castromaris de Stabia, nunc habi-
tator civitatis Surrenti, a Nicolao Canczano de civitate predicta Castrimaris (…).

• 9 febbraio 1437 • Contratto ad serviendum (cioè il contratto di apprendi-


stato per servitù domestica) di Dilicata Amalfitano di Piano di Sorrento.
(…) Simona de Aversana de Surrento, uxor quidem Martini Dompne Mira (Mar-
tino Donnamira) de Castromaris de Stabia (…). In questa trascrizione c’è la
menzione del matronimico Dompne Mira, cioè donna Mira; per identi-
ficare i figli di una donna rimasta prematuramente vedova, si preferiva
utilizzare il matronimico al posto del padre defunto.

• 3 marzo 1437 • Contratto di commenda. Bartholomeus Cimmini de Vico,


sponte coram nobis confexus fuit recepisse et habuisse ad partem secundam
usum in talibus observatum a Iacobo Ricio de Castromaris de Stabia.

• 5 marzo 1437 • Contratto di commenda. Angelillus, Zaccharia et Ricar-


dus Cacacius de Plano Surrenti, sponte coram nobis manualiter receperunt ad
partem secundam usum in talibus observatum a Nicolao Canczano de Castro-
maris. Qui il protocognome Canzano veniva trascritto in italiano e non
in latino come nella trascrizione del 28 maggio 1436.
288
• 25 maggio 1437 • Vendita di una vacca per 25 tarì. Pommella Scafarta de
Castromaris de Stabia, habitatrix Plani Surrenti, vidua iure romano vivens reli-
cta quondam Macthei de Trapana, et Antonellus de Trapana de Plano Surrenti.

• 7 agosto 1437 • Prestito di Giuliano Riccio. Nicolosa de Nuceria de civitate


Castromaris, qui sic se nominari et cognominari asseruit, sponte coram nobis
manualiter mutuo recepit gracia a Iuliano Ricio de eadem civitate Castromaris.

• 21 agosto 1437 • Contratto di commenda. Gregorio de Rubino de Vico (…)


sponte coram nobis confexus fuit recepisse (…) a Iuliano Ricio de Castromaris
de Stabia (…) quas portare promisit cum quadam sagictia quam patroniczat ad
presens Ceppa Vallese de Castromaris de Stabia (…).

• 7 settembre 1437 • Prestito di Agatella di Castellammare di Stabia.


Iohannellus Molignanus de Surrento, sponte coram nobis confexus fuit mutuo
recepisse gracia (…) ab Agatella de Castromaris de Stabia, abitatrice Surrenti,
vidua relicta quondam Philippi Imperatoris (…).

• 14 settembre 1437 • Tra i presenti nel contratto di locazione di un terre-


no del monastero di San Paolo di Sorrento, compaiono: il giudice Loysio
de Coronato e i testimoni presbitero Roberto de Angelo, Prisco Cota,
presbitero Petrillo Canczano, presbitero Nicolao de Amora de Castromaris.
• 16 settembre 1437 • Prestito di Mattia Certa. Galianus Romanus et Lisa
de Recupido de Castromaris de Stabia, iugales (coniugati), habitatores civitates
Surrenti (…) sponte coram nobis confexi fuerunt mutuo recepisse gracia (…) a
Macthia Certa de Castromaris de Stabia (…).

• 3 novembre 1437 • Vendita di barche confiscate dalla corte. Vici ipsum


invenisse in civitate ista Surrenti in maritima terciam partem ipsius barce Ste-
phani de Giccio de Castromaris de Stabia et aliam terciam partem ipsius barce
Cerii Vulpuli de prefata civitate Castrimaris (…).

• 14 novembre 1437 • Prestito del prete Giacomo Scatola di Gaeta. Rencius


Dompnamira de Castromaris de Stabia, sponte coram nobis confexus fuit mutuo
recepisse gracia (…) a provido viro presbitero Iacobo Scatula de Gayeta (…).
Qui è menzionato il cognome Dompnamira in modo diverso da quello
del 9 febbraio 1437, e cioè Dompne Mira, mostrando una leggerezza nella
scrittura perché il cognome allora non aveva un ruolo fondamentale. 289

• 3 dicembre 1437 • Promessa del canonico Santulo Spasiano di Sorrento.


(…) dictus presbiter Sanctulus pro secunda paga confexus est recepisse presencia-
liter et manualiter a Iuliano Ricio de Castromaris de Stabia (…).

• 22 giugno 1437 • Tra i presenti, compaiono all’atto notarile di capcio di


beni ereditari: il giudice Herrico Maresca e i testimoni Iohanne Eusebio,
Sansone Bulcano, Leone Certa de Castromaris de Stabia.

• 17 dicembre 1437 • Tra i presenti, compaiono all’atto notarile di asse-


gnazione di dote: il giudice Loysio de Coronato e i testimoni presbitero
Nardo Diometedede, presbitero Nicolao de Castromaris, Raynaldo Falangu-
la, Nicolao Palumba.

Dalla raccolta e dalla disamina dei documenti angioini (dal XIII al XV


secolo) si evince che le denominazioni ricorrenti delle famiglie stabiesi,
sia aristocratiche che dei ceti popolari, sono state (trascrivendo i cogno-
mi nella moderna grafia): Baccaro (o Vaccaro), Cannavacciuolo, Castaldo,
Coppola, de Majo, de Nocera, Santo Marco, Spina, Longobardi, Monta-
naro, Plagese, Scafarto, Sicardo, Trentamolla, Certa, de Rogatis, Cataldo,
Vergara, Firpo, Cenzone (o Sansone), de Napolda, Raffone, Miranda,
Riccio, Apuzzo, Avitaja, de Medici.
# Dal libro di Giovanni Reccia, Storia della famiglia De Cristofaro
alias De Reccia, Istituto di Studi Atellani, 2010.

Nella dissertazione sulla storia della famiglia De Cristofaro (detta anche


De Reccia) l’autore fa derivare il cognome De Reccia dalla corruzione del
cognome Ricci o Riccio di Castellammare di Stabia, venuti nel Regno di
Napoli provenienti da Firenze sotto Carlo I d’Angiò nel XIII secolo, giun-
ti prima ad Amalfi e, poi, a Castellammare di Stabia. La famiglia vantava
uno stemma controvaiato d’oro e d’azzurro riportante, in alto, il riccio.

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# Dal libro di Biagio Aldimari, Memorie Historiche di diverse famiglie


nobili così napoletane come forastiere, Stamperia Raillard, 1691.

290 Tra i tanti componenti delle famiglie napoletane, spicca nel 1291 l’huomo
nobile il signor Raullo de Grillo capitano (carica che corrisponde all’attuale
sindaco) di Castello à Mare di Stabia. Ed anche nel 1423 il nobile huomo
Miniatura con le cartiere
ad Amalfi (xii - xix secolo) Nicolò Antonio di Castello à Mare di Stabia, capitano della città di Trani.
# Tratto dalla tesi di laurea di Rosaria Falcone, Amalfi nei secoli XII
-XIII in Storia, Archeologia e Storia delle Arti, Università degli
Studi di Napoli Federico II, 2013.

Per approfondire la storia della repubblica d’Amalfi la tesista ha scan-


dagliato il grande repertorio delle fonti documentarie amalfitane: il
Monastero di Santa Maria di Fontanelle (1100-1269), il Monastero di San
Lorenzo (1100-1308), il Monastero di Santa Maria Dominarum (1270-
1308), l’Archivio vescovile di Ravello (1101-1308) e l’Archivio Arcivescovi-
le di Amalfi (1103-1308). Tra queste sono registrati alcuni atti notarili di
negozi giuridici riguardanti stabiesi dell’epoca i cui cognomi (come Bac-
caro, Capriglione e Spina) sono ancora utilizzati dopo circa nove secoli!

• 26 luglio 1172 • Robbaldo, arcivescovo di Amalfi, assegna a Giovanni


giudice di Castellammare, figlio del fu Zofri Baccari, una pezza di terra vacua
che il vescovado possiede presso Gragnano, in località at Foru, con l'ob- 291
bligo di coltivarla a vigna, per sei anni, secondo quanto stabilito nell’atto.

• 20 novembre 1271 • Filippa, figlia del fu Marino da Caprilloni e vedova di


Truysi Spina di Castellammare, dona pro remedio et salute animae, al capitolo
di Amalfi due membri e camminatam della sua casa sita in Amalfi nel
vico di San Samone a li Pili, obbligandosi alla pena di 6 once d'oro.

• (…) 1308 • Andrea (d’Alagno), arcivescovo di Amalfi, e Catello Vulpula di


Castellammare raggiungono un accordo per evitare la controversia giudi-
ziaria relativa a una terra sita a Varano.

A proposito dell’antico e diffuso cognome Cuomo, ho approfondito le


possibili fonti etimologiche attingendo dalle conclusioni degli esperti e
appassionati locali ma anche intervistando l’autorevole Enzo Caffarelli
(esperto di onomastica e direttore della Rivista Italiana di Onomastica). In
primis, lo studioso Aldo Cinque di Agerola crede plausibile la derivazio-
ne del cognome Cuomo dalla parola Como interpretabile sia come toponi-
mo che come apòcope della parola Comite, cioè conte. Dalle sue ricerche
è emerso un atto notarile del 1572, conservato nell’archivio della Badia
di Cava dei Tirreni, nel quale si tratta del tale Matheus Como de Ayerula
(tratto nel libro di Giuseppe Gargano, Terra Agerula, evoluzione so-
cio-economica e rivisitazione topografica, Centro di cultura e storia
amalfitana, 2016); ed anche un altro del 1620 (riportato nel libro di
Catello Salvati e Rosaria Pilone, Gli archivi dei monasteri amalfita-
ni negli anni 860-1645, Centro di Cultura e Storia Amalfitana, 1986)
nel quale si registra una vertenza con la citazione, tra gli altri, di Michele
e Bartolomeo Como. Gli inadempienti si vedono costretti a rinegoziare il
loro debito con i prestatori di denaro e, a garanzia del debito (pro caute-
la), Giovanni Ferdinando de Campora fu Andrea impegna la tenuta che
possedeva a li Comi di Bomerano (obligat territorium itum Agerole in loco
Memorani ubi dicitur a li Comi), confinante coi beni di Stefano Como e Bar-
tolomeo de Avitabile. Questo atto notarile, tra le altre cose, ci segnala e
dimostra che agli inizi del XVII secolo gli antenati degli attuali Cuomo si
chiamavano ancora Como; forse nel parlato quotidiano era già avvenuta
la dittongazione in uo della prima vocale ma solo nelle carte ufficiali si
ricordava la dizione originaria e corretta tanto è vero che quella zona di
Bomerano veniva detta appunto a li Comi, col senso di dai Como, indican-
292 do la zona dove erano concentrate, generazione dopo generazione, le case
ed i campi attorno alla dimora del patriarca capostipite. Analogamente
anche a Castellammare, così come riportato dalle ricerche dello storico
stabiese Catello Vanacore, c’era una contrada chiamata Li Cuomi, derivata
dalla corruzione del probabile cognome Como, Comi, Cuomo o Comite.

Di contrappunto, il linguista Enzo Caffarelli sosteneva che non è da


mettere in dubbio la derivazione dal nome Cosimo anche se le ipotesi pa-
retimologiche appaiono più probabili; infatti mi scrisse che (…) sottolineo
che il passaggio dalla -o- al dittongo -uo- (ossia da Como a Cuomo) è fenomeno
molto comune nella lingua napoletana (vedi i casi cotto > cuotto, fosso > fuosso,
morto > muorto e Rocco > Ruocco); poi non si tratta di un generico passag-
gio comune da -o- a -uo- ma di dittongamento che opera solo su -o- breve in
posizione metafonetica. Nella fattispecie, pare che il toponimo lombardo abbia la
-o- lunga in latino e che tutti gli esiti originari siano regolari da -o- lunga, quindi
senza dittongamento (né di tipo toscano, né di tipo napoletano). Non è chiaris-
simo poi perché si sia passati alla pronuncia attuale (toscana e standard) con
-o- aperta, ma la cosa dovrebbe essere recente. Inoltre, non mi sembra di leggere
nulla che smonti una possibile derivazione da Cosimo. Il problema sembra un
altro, che per chi non è esperto di lingua e dialettologia il riferimento a Como,
dato Cuomo, appare più immediato ed evidente che quello a Cosimo. Secondo me
l’unico modo per difendere questa ipotesi sarebbe trovare delle testimonianze in
testi napoletani antichi di Cuomo con riferimento al toponimo lombardo.
Date alcune premesse fondamentali, cioè sebbene le leggi delle fonetica
storica non giustifichino questo passaggio, almeno finché non potrà trovarsi una
documentazione storica a conferma, Enzo Caffarelli riteneva molto impro-
babile la derivazione dalla città lariana (e serica) affermando testual-
mente devo dirle che lei potrà convincermi solo quando mi mostrerà un testo in
napoletano in cui il toponimo Como, inteso come città, è indicato col dittongo:
Cuomo. Io ragiono da linguista e la linguistica ha le sue regole, non come la
matematica e la fisica, ma quasi.

Chiaramente queste argomentazioni autorevoli non mi hanno impe-


dito di indagare l’ipotesi alternativa raccogliendo con pazienza alcuni
documenti. In questi cinque anni di ricerca non sono riuscito a trovare
il testo in napoletano ma, forse, questo seguente del 1855 potrà rendere
(un po’ più) credibile l’ipotesi toponomastica. C’è una citazione (riportata
nel libro di Carlo Padiglione, Memorie storiche artistiche di Santa
Maria delle Grazie Maggiore a Napoli con cenni biografici di alcuni 293
illustri che vi furono sepolti, Stabilimento Tipografico Priggiob-
ba, Napoli, 1855) con la quale si descrive minuziosamente la cappella
posseduta dalla famiglia Como in quella chiesa napoletana. Quando
cita per la prima volta il cognome, l’autore vi mette una nota esplicativa:
(…) avremmo forse dovuto dir Cuomo, ma poichè l’arme (lo stemma) appartiene
ai Como dei Duchi di Casalnuovo, dicemmo Como; comunque dal nostro amico
Cavalier Luigi Como di Casalnuovo ci sia stato assicurato non essere nell’albero
genealogico di sua famiglia nè Agnello nè Benedetto. (…) Non vogliamo però
passar sotto silenzio che il Lumaga tra le famiglie che vivevano nobilmente in
Napoli (nell’anno 1726) ne segnava una dei Cuomo del Canonico, che con tutta
probabilità può esser quella cui apparteneva la cappella, e che parlandoci poi dei
nobili fuori seggio usava e Como e Cuomo.

In definitiva per Enzo Caffarelli è molto improbabile che i setaioli co-


maschi abbiano generato un cognome molto diffuso nel sud d’Italia. Egli
afferma che la trafila prevede Cuomo come sincope derivata da Cuosmo e da
Cuosemo. Semmai si potrebbe pensare a un Como (poi dittongato) da Giacomo
ma poiché le forme accorciate non perdono mai la vocale tonica, occorrerebbe
postulare dei suffissati, cioè una sequenza Giacomo > Giacomino (o Giacometto,
ecc.), Comino (o Cometto ecc.), Como e allora sì Cuomo. Ma, come facilmente si
deduce, è un percorso tortuoso e altamente improbabile. Pertanto, invito gli
altri al cimento per sbrogliare questa matassa!
294
Arco di trionfo (1443) di Il periodo aragonese (1442 > 1515)
Castel Nuovo di Napoli
(detto Maschio Angioino)
eretto la conquista di
Anche per questo periodo sono di fondamentale importanza i testi e i
Alfonso d’Aragona del
Regno di Napoli documenti di storia napoletana pubblicati dall’Accademia Pontaniana; non
solo ma anche altri libri o documenti di autori che raccontano questo pe-
riodo dal quale poter recuperare informazioni significative sulla nostra
città e/o su qualche individuo in particolare.

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# Dal libro Testi e documenti di storia napoletana pubblicati dall’Ac-


cademia Pontaniana, Fonti aragonesi a cura degli Archivisti Napo-
letani, Napoli presso l’Accademia, 1979.

Dal libro III


• Basilii de Miro de Graniano, civilista civitatis Castrimaris de Stabia, nihil solvat 295
quia rationalis Camere Summarie. (1452)
• Interati Longobardi de Castromaris de Stabia, moratoria unciarum viginti,
taxata solvat tarenos quinque. (1452)
• Nicolai Vulpine de Castromaris de Stabia, moratorio unciarium decem, taxata
solvat tarenos duo set grana decem. (1452)
• Notarii Ioannis Coppule et Bernengaie de Avitabulo de Castro Maris de Stabia
(…). (1452)

Dal libro IV
• Nob. viro Colucio de Aflicto de Scalis dohanerio seu fundicario maioris fundici
seu dohane Neapolis etc. Mandat quatenus viro nob. Jaymo Laurencio castellano
castri civitatis Castri Maris de Stabia (…). (1445)
Il nobiluomo doganiere Coluccio D’Afflitto era stabiese ma proveniente
da una famiglia originaria di Scala (in provincia di Salerno).
• Nob. viro Iacobo Caczano de Neapoli dohanerio seu fundicario fundici seu
dohane Castri Maris de Stabia etc. Mandat quatenus totum sal viri nob. Iohan-
nis de Monte Acuto militis (…). (1445)
• Nob. viro Iacobo Cazano de Neapoli, dohanerio Castrimaris de Stabia. Quia
vir nobilis Franciscus Porcus de civitate Castrimaris de Stabia satisfacere nequit
Villano de Aldemari (…). (1445)
• Nob. viro Marinello de Medicis, capitano civitatis Castrimaris de Stabia. (1445)
• Nob. viro Iuliano Ricio de Castro Maris de Stabia regio commissario (…). (1445)
• (…) Nos Rainaldus de Duracio miles etc. in presentia iudicis Iacobi Ramuli de
civitate Castrimaris de Stabia. (1449)

Dal libro VII


• Terre que tenebantur per Loysium de Perillyonibus. A Castro Maris de Stabia
taxatur. Dictus commissarius nichil recepit quia est immune. (1445)

Dal libro IX
• Nel 1480 una lettera del re Ferdinando I d’Aragona fu spedita ai nostri
governanti per la vendita della portolania, bagliva e mastrodattia (cioè
cariche amministrative dell’epoca): Ad tractatum devenimus cum nobilibus
et egregiis viris Ruffo Vergario, et Minichello Plagensio Syndicis, nec non cum
Marino Sicardo, et Paulo de Miranda, et Gabriele de Afflicto procuratoribus
Universitatis Civitatis jam dicte.
• Nel 1486 fu fatta una selezione dell’equipaggio di una nave per il
296 trasporto di merci in Sicilia; tra i tanti marinai, e cioè Ntonuzo Sorentino,
Bartolomeo Gienovese, Fabio de Pomigliano, Ntonio de Catania, Giuliano de
Aversa, Baldo Pisano, Tomaso de Pisotta, Gioani de Napoli, c’erano anche gli
stabiesi Ndrea de Castelo a Mare e Rfonzo de Castelo a Mare. Da notare che
tutte queste persone, di ceto inferiore, oltre al nome di battesimo non
avevano altro che il soprannome legato all’origine geografica.
• (…) Joannes Baptista Burrellus de Neapoli, regius dohanerius dohane salis Ca-
stri Maris, Bernardus Corbera catalanus credenzerius dicte dohane salis. (1487)
• Da Francisco de Marchese, sostetuto de Johan Battista Burriello, duaniere del
sale de Castello ad Mare, vinte secte ducati, disse sonno de dinare in soy mano
per venute dela dicta doana. (1487)
• Da Francisco Nagro, doanere magiore de Castello a mare de Stabia, (…) che
intro Francisco de Marchise per suo sostituto. (1487)
• In computo Francisci de Bonello substituti dohanerii salis Castri Maris anni
1495, penes Bartholomeum Felicem folio, (…) declaratur quod recognitis com-
putis temporis Narcisii Borel, partis dicti Joannis Baptiste, fuit copertum eidem
solutum esse ad rationem unciarum 12 per annum et sic mandatum solvi dicto
Joanni Baptiste. (1497)
• Et più dicti arrenda turi hanno liberato a dì 24 dicto ad Joanbaptista Burrello
de Neapoli, regio dohanero de la dohana de Castellammare del sale (…). (1499)
Nell’arco di dodici anni, dal 1487 al 1499, la stessa persona viene men-
zionata in quattro documenti, in latino e in italiano, con denominazioni
diverse, a testimoniare ancora della grande variabilità del cognome a
quel tempo: Baptista Burrellus de Neapoli, poi Johan Battista Burriello, poi
Joanni Baptiste Borel e infine Joanbaptista Burrello de Neapoli. Ciò si verifica
anche per Francisco de Marchese, menzionato anche Francisco de Marchise,
ed anche per Francisci de Bonello, menzionato anche Francisco Bunello.
• (…) substituendi fuisse concessum officium credenze rie dohane salis civitatis
Castrimaris de Stabia vacans in possessione Curie ob mortem Luce Mactey et
domini Martini de Graniano. (…) Assignat apodixam dicti domini secreta rii,
actam ultimo septembris 1498, confitentis recepisse a Francisco Bunello, substi-
tuto dohanerio fundici salis castri Maris de Stabia (…). (1497)

Interessante anche esaminare come veniva trascritto il nome della nostra


città. Il più antico documento che lo menziona risale all’anno 1086 e cioè
Episcopium de Castello da mare; dopo questo periodo l’antica Stabia prese
a chiamarsi Castellammare. Nel periodo tra il 1241 e il 1246 Castellam-
mare era detta Castro maris de Surriento sia per distinguerla dalle altre
città del regno, che già si appellavano Castellammare, sia per testimo- 297
niare la sua appartenenza al Ducato di Sorrento. Risulta interessante an-
che rilevare come, in un periodo di grandi trasformazioni linguistiche, si
alternavano accordature in latino, soluzioni in italiano e in spagnolo per
la lunga dominazione aragonese: Castro Maris de Stabia, Castelo a Mare,
Castello ad Mare, Castello a mare, Castromare, Castri-Maris, Castri Ma-
ris, Castri Maris de Stabia, Castrimaris, Castrimaris de Stabia, Castro-
maris, Castellimaris, Castello a mare de Stabia, Castella Mare de Stabia,
Castello à Mare di Stabia, Castello a mare di Stabia, Castellammare,
Castellamare, Castell’a mare, Castel di Stabia, Castrummaris de Stabia,
Castrum maris de Stabia, Civitatis Stabiae, Castellomaris, Castelloamare,
Scrittura del notaio
stabiese Vincenzo
Castello da mare, Castiello ad mare, Castromaris de Stabia, Castello da
d’Ayello (xvi secolo) mare, Castromari. Incredibile!
© arsc
# Dal libro di Roberto Delle Donne, Burocrazia e fisco a Napoli tra
xv e xvi secolo, Firenze University Press, 2012.

• Che de le intrate de la Dohana de Castello ad Mare se responda a li officiali


de le provisione et allo pesone de la Dohana et spese et dapo’ alli con cessionarii
et provisionati pro rata. Et che se observano le lettere de la inmunità lloro in la
Dohana de Napoli et Castello ad Mare iuxta la l(ite)ra de Re de Ragona (1444).
L’origine del cognome Rago o Ragone deriva dalla sincope o dall’aferesi
dell’etnico relativo alla regione spagnola dell’Aragona.
Roberto Delle Donne
(2012) “Burocrazia e fisco
a Napoli tra xv e xvi • Item quod dicti officiales ipsius Magnae curie Vicarie teneantur et debeant quo-
secolo” libet sabbati die dare inscripto dicte Regie camere Summarie nomina et cognomi-
na dictorum condepnatorum et bannitorum ac foriudicatorum pro annotatione
predicta fienda. Item quod magister seu custos carceris dicte curie teneatur et
debeat quolibet die veneris presentare inscriptis dicte camere Summarie nomina
298 et cognomina captivorum cum causis captionum et detemptionum (1444).
In questa disposizione si stabiliva sia che ogni sabato dovessero essere
trasmessi alla Sommaria (la Magistratura dell’epoca) i nomi e i cognomi
dei condannati con l’indicazione delle colpe e delle pene sia che ogni ve-
nerdì dovessero essere comunicati i nomi e i cognomi di coloro che erano
stati imprigionati con l’indicazione delle colpe di cui si erano macchiati.
Questo documento testimonia come il cognome iniziò ad essere conside-
rato un elemento fisso e imprescindibile dell’identità delle persone.

• Dohana de lo sale de Castello ad Mare de Stabia. Quando le nave veneno


carriche et scarricano in lo Fundico de Castello ad Mare son tenuti li padroni
dareno la subdicta quantità de sale a li sub scripti videlicet: a lo episcopo de
detta città th. doe, a lo castellano de detta città th. XII, a lo baglivo et iodice th.
8, a lo mastro portulano th. doi, a lo credenziero th. uno, a la mesura de lo tho-
molo che se vende in detta Dohana. Vide r(eges)tro Camere Comune quinto 1448
et 1451, folio 102 provisionem Camere cum inserta forma decreti regie Camere
(1444-1451).

• Capituli de tutte le cabelle de la città de Castello ad Mare fatti con Iacopo


Riczio. In Curie VII°, f. 68 (1465).

• Que Dohana Neapolis, Cayete (Gaeta in provincia di Latina) et Castri Maris


sint annexe et che milanise non godano lloro franchitie in dette Dohane. (1467).
• Dohana salis Castri Maris de Stabia: castellanus, episcopus, baiulus, iudices,
magister iuratus, consul venetorum, portulanus, protontinus, mensuratores,
dohanerius et credenzerii dicte Dohane pretendunt deberi certam quantitatem
salis ex causa exonerationis. In Curie VI°, f. 95 (1467).
Tra le cariche citate nella disposizione regia c’era quella del Maestro Por-
tulano a cui spettava la vigilanza sugli approdi, la cura della loro costru-
zione, il controllo delle esportazioni e la riscossione dei diritti di tratta.
Sotto gli Aragonesi divenne il più importante amministratore delle
finanze provinciali; alle sue dipendenze vi erano doganieri, fondachieri,
esattori, guardiani, misuratori del sale. Data la vocazione commerciale
della nostra città, furono concessi privilegi ed esenzioni ai fiorentini,
veneziani, ragusei, liparoti (dell’isola eoliana di Lipari), francesi, triesti-
ni, milanesi, baresi, capuani, cotronesi (crotonesi), amalfitani, mantioti
(abitanti di Amantea, in Calabria), tropeani, altamurani, montefusco-
lani (Montefusco in provincia di Avellino), cavesi, rossanesi (abitanti
di Rossano Calabro), sorrentini, messinesi, mazaresi, ischitani, leccesi, 299
tarantini, nolani, procitani. Risulta molto probabile la nascita di questi
cognomi toponimici derivanti dalla frequenza assidua con gli stabiesi.

• Li capituli dello fundico, dohana et tutte le cabelle de la città de Castello ad


Mare facti con Iacopo Riccio de Napoli per uno anno, incomenciando dal p° de
manoscritto di Melchior-
re Ferraiolo, “Cronaca
della Napoli Aragonese,
1498–1503” conservato
nella Biblioteca Morgan
di New York
septembre et fine per tutto augusto, per untie DXI, tr. II et gr. XVI°. In re(ges) tro
Curie VII°, f. 68. Uno de Castello ad Mare offerio de pagare doi carlini per cen-
tenaro de carne che volea salare; per lo dohanero era constritto ad pagare tutti
li deritti. Per la Camera fu provisto che li facesse pagare detto tarì per centenaro
acteso che facendolo pagare più anderia in terra de baruni in li lochi convicini et
la Corte ne perderia tutto lo deritto. (1477).

• Maczeus de Afflicto, Ormannus de Albicis, Antonius de Alexandro, Nicolaus


de Amato, Anellus Arcamonus, Petrus de Atissa, Cubellus Barnaba, Nicolaus
Baronus, Ioannes Baptista de Bentivoglis, Antonius Bichi, Troianus de Boctu-
nis, Andreas Boczutus, Marinus Boffa, Antonius de Bononia (Bologna), Ulixes
Bulcanus, Franciscus Caracciolus, Ioannes Carrafa, Antonius Carusius, Simion
Casolla, Aron Cibo, Antonius Cicinellus, Petrus Paulus de Corbis, Franciscus Co-
ronatus, Ioannes de Costantio, Onuphrius de Diano, Rodoricus Falco, Nicolaus
Filiach, Alphonsus de Finabellis, Arnaldus Fonelleda, Ioannes de Forma, Rentius
300 Gactula, Marcellus Gaczella, Nicolaus Antonius Gagliardus, Goffredus de Gaieta,
Berardinus Galeota, Petrus de Giptijs, Antonius Guastaferrus, Antonius de
Ianuario, Leonardus de Lama, Iacobus de Loreto, Iacobus de Lanciano, Petrus
Lupus, Iaymocta Malduit, Silvester de Masculis, Marinus Minutulus, Hieroni-
mus de Miroballis, Nicolaus de Montibus, Nicolaus de Oferio, Ioannes Olzina,
Nicolaus Antonius Orilia, Andreas de Pace, Raymundus de Palomar, Franciscus
de Pellatis, Caesar Pignatellus, Pirrus Pisanellus, Iacobus de Playa, Gualthe-
rius Poherius, Ioannes Pontanus, Nicolaus de Porcinarijs, Loysius de Raymo,
Antonius Rota, Ioannes de Sancto Severino, Angelillus Scannasorice, Franciscus
Scaranus, Marinus Sclavus, Iulius de Scorciatis, Lancilloctus Scriniarius, Leonar-
dus Serviviani, Lupus de Speio, Antonellus de Stephano, Bernardus Striverius,
Iacobus Tolomeus, Franciscus Zanoera, Giulielmus Zapporta (1484).
Questo elenco contiene i nominativi di tutti i funzionari della Sommaria.
Tra essi sono menzionati alcuni stabiesi la cui denominazione esplici-
ta la precarietà dell’identificazione delle persone; per alcuni di loro ci
sono anche tre o quattro diverse trascrizioni che spaziano tra il latino
e il volgare: Ioannes Aloysius de Actaldo (Ioannes Aloysius Attaldus), Ioan-
nes Belloflore (Ioannes Bellofior, Ioannes de Belloflore, Ioannes de Bellofiore),
Raynaldus Brancatius (Raynaldus Brancacius), Antonius de Cappellis (Antonius
Cappellus), Antonius Carusio (Antonius Carusius), Iacobus de Cilinis (Iacobus de
Cylinis), Ioannes Andreas Cioffus (Ioannes Andreas de Cioffis), Ciccus Guindacio
(Ciccus Guindacius), Berardinus Marchesius (Berardinus de Marchesio), Andreas
Mariconna (Andreas Mariconda), Hieronimus de Miroballis (Hieronymus de
Miraballis, Hieronymus Miraballus), Nicolaus de Oferio (Nicolaus de Offerio),
Franciscus Paganus (Franciscus de Paganis), Hieronymus Quattromano (Hie-
ronymus Quatuormanus), Michael Ricio (Michael Ricius), Iacopo Ricio (Iacopo
Riczio, Iacopo Riccio), Lupus de Speio (Lupus de Speyo, Lupus de Spechio), An-
dreas de Ursa (Andreas de Urso), Nicolaus Vilanus (Nicolaus Villanus).

• Liparoti franchi in Fundico di Castello ad Mare per exitura di legname (1506).

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# Dal libro di Elisabetta Scarton, Francesco Senatore, Parlamenti


generali a Napoli in età aragonese, Federico II University Press,
Napoli, 2018.

Nelle autentiche degli atti ufficiali del Parlamento, il 7 maggio 1451


viene citato un notaio stabiese, assieme ai nomi aggiunti legati alla 301
nostra città, con notarius Annecchinus Longobardus de Castro Maris de Stabia
dicte Magne Curie actorum magistri; in calce al documento il notaio si firma
con il nome e il cognome scritti in modo diverso e, soprattutto, senza il
toponimo: Ego predictus notarius Anichinus Longobardus dictarum curiarum
actorum magister interfui et subscripsi.

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# Dal documento di Giuseppe D’Angelo, La costruzione della torre


alfonsina in Castellammare di Stabia (1451-1453), 2003.

La Torre Alfonsina (così chiamata in onore di Alfonso d’Aragona) fu


eretta in riva al mare sulla strada che, da Castellammare, porta a Vico
Equense oltre la punta di Pozzano, nella località detta Portocarello. La
spesa complessiva per i lavori ammontò a circa 2.000 ducati, di cui 1.000
dati dal re ed i restanti dalla città assieme al Vescovo. I due mastri frabica-
turj furono il maestro Gentile de Julio e il maestro Rogerj de Aurilia de Cava
(di Cava de’ Tirreni in provincia di Salerno); le operazioni si svolsero sot-
to il controllo del re che, nel mese di ottobre 1452, venne a Castellamma-
re per verificare lo stato dei lavori. La torre sopravvisse sino agli inizi del
Novecento quale sede della Capitaneria di Porto, poi fu in parte demolita
nel 1905 per il passaggio della linea tramviaria per Sorrento.
Nel documento Cedula dela frabica de Castella Mare de Stabia per mano de
Joanne Rubio regio comesario, che testimonia la costruzione della Torre
Alfonsina dal 1451 al 1453, vennero citati stabiesi (e non) coinvolti in
questa operazione; in prima battuta il sindaco Catone Certa e poi i notai
Nardo de Miranda de Castelloamare e Jacobo Coppola de Castelloamare (da no-
tare le denominazioni dei notai arricchite dal toponimo cittadino). Venne-
ro designate le calcare che avrebbero fornito la calce per la costruzione;
si presume che i titolari siano tutti stabiesi: Angelillo Dealexio, Carobino
Mariconda, Jacobo Copola, Matiugio Longobardo, Natale Damiano, Guidone
Plagese, Geronimo Longobardo, Janoto Firpo, Astolfo Plagese, Gicho Pregansano,
Palomides Copola, Mastro Olivero Gerta, Loysello Scafarto, Jesuasi de Suma.

Gilbert De La Croix “Vue In altre trascrizioni compaiono i nomi e cognomi dei titolari delle
d’une tour antique prés
de Castel Amar sur le calcare stabiesi con l’aggiunta del toponimo cittadino o del quartiere
Golphe de Naples” (1798
circa) con la torre di
di provenienza: Jacobo Coppola de Castelloamare, Mathiuzo Longobardo de
302 Portocarello Privato, Natale Damiano de Castelloamare, Guidone Plagese de Scanzano,
© libero ricercatore
Jeronimo Longobardo de Castelloamare, Mathiello de Miranda de Castelloamare,
Cola Francisco Certa de Castelloamare, Janocta Firpo de Castelloamare. Nei
documenti compare la menzione di un altro fornitore di calce chiamato
Gervasi de Sinnaldo de Summa (chiamato in altra trascrizione solo con Ger-
vasi de Somma); il suo cognome poteva indicare la provenienza da Somma
Vesuviana o da un quartiere della nostra città posto in collina. Probabil-
mente tale toponimo, legato ad un luogo generico, genererà due cognomi
molto diffusi attualmente in città e cioè Somma e Di Somma.

Interessanti le menzioni di altri notai stabiesi: Boffillo Coppola de Castel-


loamare, Thomasi Lardaro de Castelloamare. Sono menzionati altri fornitori
di calce, probabilmente stabiesi: Simione Vulpula, Anello Montanaro, Picho
Sicardo, Petro Dauria (cognome che diventerà D’Auria), Jnnocente Cubelly,
Angilo de Urso, Francisco Scafarto, Petrucello Chiaese, Agiasi Certa, Olivie-
ri Certa, Johanne Archese, Cola Canzano, Bernardo Cota. Risulta evidente
la provenienza lontana di: Anello de Montella (in provincia di Avellino), 303
Cola de Ayrola (Airola in provincia di Benevento), Silvestro de Tramonti (in
provincia di Salerno), Johanne Calabrese, Bartholomeo de Orbino (Urbino).
Nei primi mesi del 1452 viene citato un fornitore di materiale ferroso,
trascritto con Johanne Belluso ferraro de Napoli; è questa l’abituale trascri-
zione di un individuo nel XV secolo nel quale, oltre al nome e al cogno-
me, venivano aggiunti il mestiere e/o la provenienza. Questi nomi aggiunti
avrebbero potuto diventare cognomi se un notaio (in un’altra trascrizione
a lui intestata) avesse dato la priorità proprio al mestiere o alla prove-
nienza generando Johanne Ferraro o Johanne de Napoli. Situazione simile
il 29 settembre 1452 quando fu pagato un certo mastro Novello ferraro per
la fornitura di una cancellata di ferro; è questa la trascrizione tipica delle
persone senza ancora un cognome nel quale il nome aggiunto avrà tutte le
probabilità di diventarne uno stabile.

Poi sono citati due magistri intallyaturi e cioè Costanzo Bonocore e Tropho-
nello de Balsano de Vico (di Vico Equense). Per la costruzione furono
richieste forniture di acqua a Benutolo de Raffone, forniture di legname a
Antonino Canzano e forniture di cordame di canapa a Salvato Cito. Nel set-
tembre 1452 Martino Certa ricevette 8 ducati per aver locato una casa di
Loyse Pagano a favore dei mastri frabicaturj. Poi Jacobo Rizo che realizzerà
un solaio della costruzione mentre Cola Cannabazulo e Raymondo Trenta-
molla parteciparono alla costruzione con altri incarichi.
Il Codice Cirsfid-Irnerio In alcuni casi nel documento c’è discordanza tra le diverse trascrizioni
(1459) dove si legge in
chiaro “dominus Michael della stessa persona, testimonianza della scarsa fissità del cognome a
Ricius de Castromaris”
quel tempo: Jacobo Copola (e Coppola), Angelillo Dealexio (e de Alesio), Gicho
Pregansano e Cicho Breazano, Natale Damiano (e Adamiano), Gentile de Iulio
(e de Julio), Palomides Copola e Palamidesso Coppola, Costanzo Bonocore (e Bo-
nacore); infine in 3 modi diversi sia per Angilo Durso, Angilo de Urso, Angelo
Urso che per Jnnocente Cubelly, Innocente Cobellis, Innocente Cubellis.

Un dato di fondamentale importanza per la ricerca storica è che nel


periodo aragonese i cognomi continuarono ad avere una connotazione
patronimica anche se emerse la preponderanza di cognomi aventi diver-
sa derivazione (toponomastica e di mestiere), testimonianza delle nuove
famiglie immigrate presenti nel territorio, provenienti da altre parti
d’Italia o dall’estero, portatrici di nuovi cognomi.

304 ////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

# Dal Codice 173, Recollectio, Cirsfid-Irnerio, 1459.

Il Cirsfid è un centro interdisciplinare in storia medievale, filosofia del


diritto e informatica giuridica; creato nel 2003 presso l’Università di Bo-
logna e intitolato al primus illuminator della scienza giuridica bolognese,
Irnerio, il progetto si è reso possibile grazie alla collaborazione del Real
Colegio de España, della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna e del Mini-
stero dell’Università, della Ricerca Scientifica e Tecnologica. Tra i tanti docu-
menti della sezione Super lib. II Codicis da folio 034v a 057v emerge quello
nel cui incipit è citato lo stabiese Michael Ricius: Huc usque legit dominus
Geronimus de Miraballis deinde (?) dominus Michael Ricius de Castromaris.
Rubrica de advocatis diversorum iudiciorum (…)

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# Dal libro di Alessandro Di Meo, Annali critico-diplomatici del


Regno di Napoli della mezzana età, Napoli 1819.

In un istrumento del 13 ottobre 1470 si cita un nostro concittadino, Ranie-


ri D’Apuzzo, in quanto il Not. Gio: Coppola, da cui apprendiamo la commes-
sione data dal Re Ferdinando, di distinguere i confini di Massa (l’attuale Massa
305
Lubrense), al Dottor Ranieri d’Apuzzo di Castellammare. L’autore del libro si
chiede chi mai fosse stato quel Ranieri d’Apuzzo, e se fu veramente di
Castellammare; per dare un saggio dei meriti dello stabiese, egli indica
quali azioni fece a favore dei propri Sovrani e quali meriti avesse da loro
ricevuto. Della famiglia d’Apuzzo, che fu anche detta d’Apozzo e da Pozzo,
e in latino Aputea e de Puteo, hanno scritto diversi autori. Vanta la sua
antica origine da Alessandria nel Ducato di Milano ma si ignora il mo-
mento e il motivo per cui si fosse trasferita nel napoletano; la sua prima
dimora fu a Pimonte, poco lontano da Castellammare, terra un tempo
compresa nel Ducato Amalfitano. Qui tale famiglia nobile acquistò molti
fondi e moltissime onorificenze col titolo di Nobili, di Militi e di Giudici.

Uno di questi fu il giudice Carletto d’Apozzo che, per la familiarità acqui-


sita con il re Ladislao, ottenne in privilegio nel 1412 la cittadinanza di
Castellammare e così questa famiglia divenne nostra concittadina; il re
306 Ladislao (dal 1342 al 1414) godeva assiduamente delle delizie del Real
Palazzo di Casasana in Castellammare così come, prima di lui, Carlo II
d’Angiò, il re Roberto e le regine Giovanna I e II.

Questo luogo, l’attuale Quisisana, in epoca angioina era appellato domus


de loco sano che, con l’italianizzazione di domus in casa divenne Casasana
e tale fu la denominazione fino al XVIII secolo. Solitamente le lingue
volgari, come l’italiano derivato dal latino, hanno registrato l’evoluzione
del linguaggio tendendo a preferire termini meno eleganti e quindi più
legati alle condizioni di vita dei ceti modesti (quindi casa in latino si in-
dicava con domus mentre il termine latino casa indicava solo una capan-
na, un tugurio). L’appellativo pertanto potrebbe essere stato determinato
da una costruzione (domus appunto) sita in un luogo accogliente per la
salubrità del clima, un luogo sano che probabilmente sanava, restituiva
vigore al fisico debilitato dalle continue pestilenze che anticamente af-
fliggevano l’umanità. Difatti in periodi di contagi, molti sovrani angioi-
ni qui si rifugiavano anche se successivamente lo elessero a palazzo reale
ove trascorrere la stagione estiva in condizioni di normalità.

Nel 1316 il re Roberto d’Angiò abitò continuamente in Casasana tanto


che le disposizioni regie erano da lì firmate e spedite nel Regno con la
dicitura datum in Casasana prope Castrummaris de Stabia. A Quisisana è
accertata la presenza di Giotto così come in questo luogo Giovanni Boc-
caccio ambientò la 96ª novella del Decamerone con protagonista il re Carlo
I d’Angiò. Con privilegio del 10 settembre 1458 era stata concessa la
castellanìa (la custodia di Quisisana) a Goffredo Scafarto di Castellamma-
re mentre il 7 aprile 1495 il palazzo fu concesso dal re Carlo VIII al suo
medico personale Pietro Morello con la delibera Magnifico magistro Pietro
Morello professor di Medicina di S.M. se li concede una casa nominata Casasa-
na, sita in Castellammare di Stabia, che fu di Pietro de Nocera padrone di galera
da D. Ferdinando d’Aragona, giusti suoi fini, per sé et suoi heredi. Agli albori
del XVI secolo era posseduto dalla famiglia stabiese de Nucera. Da un do-
cumento (atto del notaio Nicola de Masso del 30 gennaio 1484) si evince
che Francesco Coppola (conte di Sarno e, dal 19 ottobre 1481, castellano e
governatore a vita di Castellammare) il 29 gennaio 1484 aveva scritto a
Giovanni Freapane, allora Capitano della città: Capitaneo, lo Signore Re me
scrive lettera del tenor seguente videlicet: Rex Siciliae, Conte, Noi havemo dato
Casasana con tutte sue pertinenze in guardia al diletto nostro Pietro de Nucera,
nostro creato, in quello modo come lo tenea Goffredo Scafarto suo predecessore. 307
Però volemo et vi comandamo che ad ogni instanza del dicto Pietro, o d’altri per
sua parte, li debiate far dare la possessione di dicta Casasana, che l’habbia da
tener nel modo et forma supradicti. Datum Foggiae die 2 novembris 1483. Sicché
voi havete intesa la voluntà dello Signore Re per dicta lettera, osservate quanto
sua Maestà comanda. Napoli 29 januarii 1484.

Il primo dei tre figli di Carletto d’Apozzo fu appunto quel Ranieri men-
zionato nell’istrumento di Massa; il secondo ebbe nome Brancaleone e il
terzo Paride. I primi due si distinsero presso la Corte dei re aragonesi:
Brancaleone divenne il Segretario del re Ferdinando I mentre Ranieri
divenne così di famiglia tanto da ricevere direttamente dal re alcune
commissioni; infatti nel 1465, in un instrumento stipulato dal notaio sta-
biese Giovanni Coppola, si registrò che (…) per questa causa Re Ferrante fece
una commissione al Dottore Rainerio d’Apuzzo di Castell’a Mare. Per mostrare
come all’epoca il cognome fosse un elemento variabile, è utile comparare
le diverse trascrizioni della stessa persona nelle trascrizioni giuridiche:
nel 1461 Raynerio De Apuzzo, nel 1465 Rainerio d’Apuzzo, nel 1470 Ranieri
D’Apuzzo, poi De Apuczo ed anche D’Apozzo.

Ma lo splendore di questa famiglia derivò dai meriti e dall’onore del loro


terzo fratello Paride, insigne giureconsulto; anche se a noi giunto con
il cognome di Del Pozzo, nel 1452 il notaio Giacomo Ferrillo lo cita con
Egregius vir Paris de Putheo de Castromaris de Stabia. Poi nel 1472 lo stesso
Paride, nell’introduzione di un suo libro, scrive in terza persona con (…)
incomincia il libro de re militari in vulgar materno composto per il Generoso
Misser Paris de Puteo dottor di legge. Un altro esempio di variabile trascri-
zione riguarda Simone D’Apuzzo; egli era giudice nel 1516 e si firmava
con Simon a Puteo e Castro Maris de Stabia. In latino con la preposizione a
(che indica moto da luogo) si indicava il da in quanto derivazione e non
provenienza; e quindi da pozzo, poi apostrofato e semplificato con d’Apoz-
zo e d’Apuzzo. Mentre con e si indicava la provenienza topografica per cui
e Castro Maris de Stabia significava da Castellammare di Stabia.

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# Dal libro Archivio Storico per le Province Napoletane, pubblicato


a cura della Società di Storia Patria, Anno X, Fascicolo I, Federico
308 Furchheim Libraio, Napoli, 1885.

Tra le cedole di Tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli dal 1460 al


1504 ce n’è una, datata 30 settembre 1497, scritta nell’italiano dell’epo-
ca e con riferimenti a stabiesi: Da Francesco de Marchise, doganiere della
dogana di Castello a mare di Stabia, la R. corte riceve 66 d. contanti in conto
della gabella nuovamente imposta d’un tari a botte di greco, e mezzo ducato a
botte di latino. (…) Essendo seguito il sequestro delli stati in questo Regno del
Duca di Palma per decreto del Collaterale Consiglio con l’esequatur della Regia
Camera per ordine di S. M., il Viceré subito ha conferito il Governo della Città di
Castellamare, Baronia del detto Duca, a D. Gasparre del Torto che fu segretario
di giustizia in tempo del Conte Martiniz (…).

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# Da un documento di Giuseppe D’Angelo, in Bollettino Diocesano,


Archidiocesi di Sorrento. Diocesi di Castellammare di Stabia, n. 3
(maggio/giugno 1978).

Nel documento si narra di un eloquente epitaffio del 1581 posto sulla


lastra marmorea, che si conservava nell’Antiquarium Stabiano, del ca-
nonico capitolare D. Paolo Coppola; figlio di Antonello (nobile giudice
eletto della città), nacque nel 1496 nella nostra città. Il suo cognome era
annoverato tra le quindici famiglie patrizie stabiesi dell’epoca assieme a
Vaccaro, Cannavacciuolo, Castaldo, Certa, Longobardo, Trentamolla, de Majo, de
Nocera, de Rogatis, Montanaro, Plagese, Scafarto, Sicardo, Vergara.

Seguendo una lunga tradizione familiare, che si legava al patrono San


Catello, egli intraprese la via del sacerdozio. Fu garante delle sorti del
casato tanto che promosse: il matrimonio tra il nipote artium et medicinae
doctor Scipione con la nobile Caterina Provenzale, sorella dell’allora arcive-
Lo stemma della famiglia scovo di Sorrento monsignor Girolamo; il matrimonio tra Silvia Dommarco
Coppola (xvi secolo)
ed il nipote Andrea, già Real Capitano della terra di Angri; la carica di
Regio Credenziere della Dogana del sale di Castellammare al nipote
Nicola; ed infine la carica di Canonico e Tesoriere al nipote D. Giulio.
La lastra tombale in marmo reca scolpito, a grandezza quasi naturale,
le fattezze del canonico, ornato del suo stemma di famiglia e cioè una
coppa sostenuta da due leoni. Nello stesso ramo, e precisamente dal
conte D. Antonio Coppola (presidente della Regia Camera della Sommaria 309
nel XVIII secolo), in alternativa si usava un altro stemma fatto d’azzurro
con la coppa d’oro circondata da cinque gigli. La presenza delle coppe
nello stemma familiare evidenzia il riferimento sicuro per l’origine del
cognome Coppola. Ai piedi della lapide tombale si legge l’iscrizione nella
quale il cognome Coppola appare in due modi diversi: in un improbabile
ablativo Coppule e in un più rassicurante nominativo Coppula, a testimo-
nianza che il cognome all’epoca si accordava al senso della frase.

Paulo Coppule Generis Nobilitate Animi Corporisq.


Dotibus Ornatisso Ecclesie Stabiane Cantori Ac
Pluribus Annis Et Vacua Et Provisa Sede Vicario
Munere Quam Dignisse Functo Scipio Coppula
La lastra tombale del
Patruo Benemerenti Posuit Obyt A M Ccccc Lxxxi
canonico Paolo Coppola Aetatis Annor. Lxxxxv
(1581)

Di seguito le disposizioni testamentarie (facilmente leggibili nell’italia-


no dell’epoca) del canonico Coppola indirizzate al suo erede, il nipote
Scipione, e finalizzate alla realizzazione della sua tomba sepolcrale. Item
vole, ordina et comanda esso testatore che, al tempo che passarà da questa vita
presente, lo corpo suo se debbia sepellir nella Magior Ecclesia (la Cattedrale)
della città di Castellamare et proprie sotto le grade (i gradini) dell’Arco Magiore
di detta Ecclesia, dove se habbia da fare per detto suo erede (Scipione) una
marmora scolpita con la testa a... de homo avante, con accomodarsene dove
più sarà comodo in detto loco, et quando lo Rev.mo Vescovo o lo Capitolo non ci
consentesse, in tale caso se habbia da seppellir nella Cappella de Sancto Catello
de Casa Coppola... là farse la detta marmora.

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# Dal libro di Gaetano Martucci, Esame Generale de’ Debiti Istrumen-


tari di Castellammare di Stabia, Stamperia Simoniana, napoli, 1786.

In questo libro l’autore tratta la storia del Regno di Napoli, dei privilegi
acquisiti dai vari sovrani e dei vantaggi ottenuti dalla nostra città grazie
a nobili ed illustri suoi concittadini.

• Re Alfonso d’Aragona nel 1444 redige un solenne privilegio alla nostra


310 città nel quale viene citato il (…) Magnifici viri Loysii de Perilionibus, filii &
Gaetano Martucci (1786)
“Esame Generale de’ heredis Magnifici quondam Raymundi de Perilionibus Milites cioè il magnifico
Debiti Istrumentari di uomo Luigi de’ Pierleoni, figlio e erede del magnifico milite fu Raimondo de’
Castellammare di Stabia”
Pierleoni. Nel testo è menzionato anche il doganiere Coluccio d’Afflitto, di
famiglia stabiese anche se originaria di Scala (in provincia di Salerno).

• Il 10 aprile 1462 fu spedito un privilegio da Castellammare a Napoli nel


quale si cita (…) nostram vir magni ficus Joannes Gallart Miles, Castellanus e
gubernaor civitatis nostra Castrimaris de Stabia. Ed anche (…) Loisellum Sca-
fartum, et Notarios Jacobum Coppulam et Nardum de Miranda Syndico.

• In un punto del libro è citato Giovanni Gagliardi che, tra il 1460 ed il


1462, sotto Ferdinando d’Aragona fu castellano a Castellammare di
Stabia. Questi, spinto dalla moglie Margherita Capece Minutolo, lasciò il
castello senza opporre resistenza ai francesi. Ferdinando d’Aragona gli
confermerà comunque i suoi beni, compreso Castello a mare, accordo che
fu però disatteso da Ferrante d’Aragona. In tale contesto, in una parte
dell’intesa, si cita Iacopo Riccio di Castellammare di Stabia come segue: (…)
che il Re avesse fatto proprie ad esso Giovanni Gagliardi di tutta la robba, così
stabile, come mobile, che possedeva Iacopo Riccio della città di Castellamare, e
che niuno del cognome e famiglia Riccio, perniuno tempo avesse potuto pratti-
care, né palese, né occulto in quella città e facendo il contrario esso Giovanni gli
avesse potuto prendere e castigare come ribelli del medesimo Re. Tale Giovanni
Gagliardi era menzionato nel 1459 sia con Galiardi Hispani militis che con
Gio. Gagliardo mentre nel 1461 con Johannes Galiardus.

• Nella seguente trascrizione appare in latino il cognome Montanario in


due modi diversi: Ascanius Montanarius duas in Castromaris Franciscanorum
Basilica possidet aedes, ubi hoc legitur Epitaphium: Domino Joanni Baptistae
Montanario Stabiensi virtute insigni, Patriæ charo, Joannes Nicolaus et Joannes
Angelus germani fratres constructo aedicula hac ejusque jussu translata antiqua
generis Cappella ad perpetuam memoriani tanti viri, eorumque familiae posue-
runt anno D. 1591. Nel libro sono presenti altri individui con modi diversi
di scrivere lo stesso cognome: Michael Montanaria, Joannes Montanarius,
Nicolaus Montanarii, Petri Montanarii de Castromaris.

• In un altro punto l’autore utilizza impropriamente il plurale per indica-


re il cognome delle famiglie D’Apuzzo e Riccio proprio a dimostrare come
il cognome era considerato una parola da poter accordare per numero 311
e per genere alle persone di riferimento: Un nuovo assai più spinoso, e in-
tralciatissimo esame dobbiamo adesso intraprendere, intorno alla famiglia Ricci,
pur nostra concittadina, che ne’ stessi tempi Aragonesi fu feconda egualmente di
soggetti, che onorarono molto la patria: i quali siccome gareggiarono cogli Apozzi
nelle dignità, e nelle cariche, che sostennero, e forse li vinsero.

• Di seguito la denominazione di Giacomo Riccio trascritta nello stesso


documento sia con Jacovo Rizo che con Jacopo Riccio: (…) annullate qualsi-
voglia gratie in scriptis, o per parola ne havesse fatte, riservato quello, che Sua
Maestà concede al detto Messer Gioanne, secondo se contene in li detti capitoli,
tanto quelli, che possedeva Jacovo Rizo, quanto altro qualsivole Cittadino (…) che
il Re avesse fatto grazia ad esso Giovanni di tutta la roba così stabile come mo-
bile, che possedeva Jacopo Riccio nella Città di Castello a mare, e che niuno del
cognome, e famiglia di Riccio per niun tempo havesse potuto pratticare né palese,
né occulto in quella Città, e facendo il contrario esso Giovanni gli havesse potuto
prendere, e gastigare, come ribelli del medesimo Re.

• Per la verità il cognome Riccio è trascritto in diverse parti del libro in nu-
merosi modi: Michael Ricius de Castro Maris de Stabia J.C. Regius Consiliarus
sub Alphonso seniori Rege fuit anno 1445 cioè Michele Riccio di Castellam-
mare di Stabia, regio consigliere anziano sotto il re Alfonso nel 1445. In
un altro punto: A’ 28 Gennaro 1448 XI Indit, in Gragnano i Sindici della Terra
di Pimonte danno il giuramento di fedeltà al Sig. Michel Riccio di Castell’a mare
Dottor di legge, e Regio Commissario per parte della Sacra Regia Maestà. (…) E
parlando di lui (per error di stampa ne sbagliò la prima lettera del cognome) ci fa
comprendere il suo carattere: Michael Pitius (al posto di Ritius).

• Nel libro compare una citazione dello storico Niccolò Toppi a proposito
di una concessione nella quale è contenuto il più grande elogio per lo
stabiese Michele Riccio e suo figlio Pierluigi; e tanto più grande perché
viene direttamente dal re Alfonso: Nobili, et ingenuo adolescenti Petra Loysio
(Pierluigi) Ricio de Neapoli fideli nostro gratiam, et bonam voluntatem. Nello
stesso privilegio il cognome viene poi trascritto con Ricius a dimostrazio-
ne, ancora una volta, della sua debolezza nella fissazione: Et si Michael Ri-
cius olim pater vester, vir profecto omni studio, omnique doctrina refertus nobis
et familiaris, et necessarius vita defunctus est.

312 • Antonio Riccio, un fratello di Michele Riccio, divenne arcivescovo di


Reggio Calabria; fu seppellito nella chiesa di Monte Oliveto a Napoli
dove suo nipote Pierluigi acquistò una cappella gentilizia ponendovi
pochi anni dopo questa iscrizione: Antonio Ricio Archiepiscopo Regino, et
Michaeli Ricio Militi, et jureconsulto clarissimo, patruo (cioè lo zio paterno), et
patri benemerentibus Perloysius (Pierluigi) Ricius, anno 1491. Anche qui è da
Errico Gaeta (1868)
“Pozzano” notare la variazione del cognome nella stessa frase, cioè Ricio e Ricius.
• In un’altra trascrizione del libro viene menzionato, per tre volte, Giulia-
no Riccio: In fascicul. 4 Nobilis Julianus Ritius de Castromaris de Stabia, Nea-
poli commorans. (…) Postmodum vero dicitur: Honorabilis Julianus Ritius 1432.
(…) Julianus Rizius vir Nobilis de Neapoli Regius Dohanerius et Gabellotus Neap.
1448. Poi in una cappella gentilizia della chiesa di Santa Maria la Nova
a Napoli c’è un’iscrizione tombale a lui dedicata: Haec est sepultura Ma-
gnifici Militi Domini Juliani Ricii de Neapoli et suorum antiquitate deleta, A.D.
1452. In quest’ultimo caso il cognome è accordato al genitivo, modalità
improponibile per noi contemporanei; la grande instabilità di scrittura
dei cognomi mostra qui le trascrizioni con Ritius, Rizius e Ricii.

• In un istromento è menzionato lo stabiese Matteo d’Afflitto che esamina


il valore di un’ipoteca gravante su una casa di un tale Raymo (…) vendidit
D. Nicolao de Ritiis genitori D. Michaelis; anche qui un’altra versione del
cognome Riccio in una lingua a metà tra il latino e l’italiano.
313
• Nel 1500 Michele Riccio, insieme a suo fratello Girolamo, volle acquistare
una cappella gentilizia nella chiesa di San Domenico Maggiore di Na-
poli; sulla lapide i due nomi apparivano scritti con Michael et Hieronymus
Ricii anche se successivamente il cognome venne scritto con Primus prae-
fes praefuit Michael Riccius Neapolitanus historiae scriptor egregius. Nel 1506
viene menzionato, in latino, con Michaelam Ricium mentre il Guicciardini
lo cita (…) per disporre a queste cose il popolo più facilmente, mandò (il Re) a
Genova Michele Riccio Dottore. Ancora nel 1508 (…) mandò in questi dì il Chri-
stianissimo in Firenze per suo Oratore M. Michele Riccio Napoletano. Nel 1515,
nella stessa lapide sepolcrale, si riportava il suo nome e cognome nella
dedica scritta dal figlio Sebastiano, cioè Michaeli Riccio civilis pontificiique
juris consultissimo in Italia et Gallia aplissimis honoribus functo Sebastianus
Patri B.M. Anno MDXV, tradotto con Sebastiano (innalzò questo sepolcro)
al padre Michele Riccio di buona memoria espertissimo in diritto civile e canoni-
co esercitato in Italia e in Francia con grandissimi onori nel 1515.

• In un codice del 1501 della biblioteca di Sant’Angelo a Nilo a Napoli c’è


la trascrizione del suo stesso cognome in tre modi diversi (Riccii, Ricius
e Riccis), sempre a denotare la sua variabilità all’epoca: Filius fuit Nicolai
Riccii de Castromari Artium, et medicinae doctoris, ut in actis Not. Colambrosii
Casenove. ann0 1479 (…) Michael Ricius J.C. Regis Gallorum Consiliarius ascitus
ad Sedile Nidi anno 1501 per tres ex quinque et decem alios Nobiles: Vide in
Processu Mazzei de Afflicto in actis Híeronimi Bozzavote. (…) Duxit uxorem
Mariellam Carbonem. Hinc Marchesius scribens ad Hieronimum Carbonem,
cum dixisset de Riccis subjunnit.

• Nel 1569 il cognome Riccio veniva reso liberamente al plurale: Li Ricci


vennero da Castel a mare. O scritto normalmente: La famiglia Riccio è non
meno antica che nobile. Nel 1653 lo scrittore Carlo Borrelli, nella sua opera
in latino sulla nobiltà napoletana, cita il cognome Riccio accordandolo
al femminile per indicare la famiglia: At Ricia (familia) fluxit ab Stabiis, sed
illo aut Neapoli, aut Amalphi profectam nonnulli contendunt, propterea quod
eas quoque urbes incoluerit antiquitus. Ma nel 1655 Ferdinando Ughelli tra-
dusse (e adattò) in italiano l’opera del Borrelli: Ma la Casa Riccia venne da
Castello a mare: però alcuni portano opinione, che da Napoli, o da Surrento colà
passasse; conciosía cbe più anticamente soggiornarono i Ricci in quelle città.

314

Errico Gaeta (1867) Sebbene notevolmente diffusi, nel Seicento i cognomi non erano ancora
“La Torre di Portocarello
a Pozzano” un elemento fisso dell’antroponomastica; nella stessa frase dell’Ughelli
appare una prima volta il cognome accordato al femminile casa (e cioè
Riccia) e poi accordato al plurale (e cioè Ricci), quando il cognome vero era
Riccio. Nel 1662 lo stesso Ughelli scrive la Casa Riccio venne da Castello a
mare mentre nel 1786 lo scrittore Gaetano De Felice trasforma libera-
mente e impropriamente al plurale i cognomi Se abbiam veduto essi Ricci
legati in matrimonio colle Patrizie famiglie de’ Correali, de’ Carboni, de’ Galeoti,
de’ Barrili, e de’ Caraccioli (…). Poi Martucci, nel 1786, scrive il cognome
ancora in modo incerto: Ecco dunque quanto quegli Autori abusarono di quelli
aggiunti; e quanto fu rispettata in Napoli la famiglia del Ricci, in tempo che egli
stava al servigio del Re di Francia.

• C’erano, tuttavia, casi nei quali la traduzione (o la trasposizione) dal la-


tino al volgare non produceva dissonanze nei cognomi; infatti di seguito
la stessa persona è menzionata in due iscrizioni. In latino: Valentissimus
Doctor in Philosopbia Silvester Galiota Prothoamedicus Regis Ferdinandi I;
nell’iscrizione in italiano: Alli 8 di Novembre 1488 è morto Messer Silvestro
Galiota Medico dello Signor Re Ferrante, et è morto de Sabbato circa 23 hore.

Dalla raccolta e dalla disamina dei documenti aragonesi si evince che


le denominazioni ricorrenti delle famiglie stabiesi, sia aristocratiche
che dei ceti popolari, sono state (trascrivendo i cognomi nella moderna 315
grafia): Agozzino, Armosano, Avitabile, Barese, Cannavacciulo, Cioffo,
Coppola, Comparato, Cota, Cuomo, D’Afflitto, D’Apozzo, D’Avitaya, Del
Pozzo, Di Giglio, Di Sessa, Gatto, Liuzzo, Loyola, Mandarino, Marchesi,
Massa, Medici, Mira, Montanari, Montenegro, Nocera, Pandona, Parise,
Ricci, Rosano, Sasso, Scafarto, Scalese, Serpico, Spina, Spiniello.

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# Dall’articolo di Giuseppe D’Angelo, Il libro dei conti del canonico


Julio Coppola 1587-1589, in Cultura & Società, 2008.

Un documento che racconta nei particolari la costruzione della Catte-


drale di Castellammare di Stabia. Con delibera comunale del febbraio
1587, la nostra città decise l’edificazione eleggendo ad hoc una commis-
sione comunale; i deputati furono Johannes Baptista Castaldo, Jeronimo
de Massa e Johannes Jeronimo de Majo che affiancarono i deputati eccle-
siastici, nominati dal vescovo, nelle persone del vicario generale Luca
Longobardo, dell’arcidiacono Antonio Censone e del cantore Giulio Coppola,
come tesoriere. La copertura finanziaria dell’opera fu assicurata dall’im-
posizione di una nuova gabella, cioè quella del pagamento da parte
di tutti i cittadini di un tornese per ogni rotolo (antica unità di peso
napoletana equivalente a 890g, poco meno di 1Kg) di carne salata, sugna,
316
Il quadro restaurato nel caso (formaggio), oglio ed altre sorte de salsume che si vendono sia nelle poteche
2020 della “Madonna di
Portosalvo” (xvii secolo) dei potechari sia nella Regia Dogana. Le sue cappelle furono intitolate alle
conservato nella chiesa
famiglie Riccio, de Masso, Plagese, Certa, de Majo, Cacace, Sicardo, Castaldo,
omonima a Castellamma-
re di Stabia Scafarto, de Nocera, Vergara, Sansone, Cannavacciuolo, de Avitabulo, Chiaiese,
Coppola, d’Apozzo, Cotticelli, Longobardi, Giordano, Filose (Filosa).

Nell’archivio storico della famiglia Coppola (in possesso degli eredi del
compianto Giuseppe D’Angelo) è depositato il libro originale dei conti,
relativi ai primi tre anni di costruzione, che il canonico Giulio Coppola
consegnò al fratello dopo il controllo operato dai razionali (cioè i revisori)
affinché lo depositasse nell’archivio di famiglia: a dì otto de agusto 1589
io donno Julio Coppola, primigerio de Castiello ad Mare, ho avuta la liberatoria
de tutta la ministracione mia como ad cassa (cioè cassiere) delo novo Viscopato
dalo Magnifico Joannominico de Ranito rationale depotato, tanto dalo Reveren-
dissimo Monsignore Lodovico Maiorano quanto dali Signori sindico et eletti de
vedere li mei conti de tutti li denari, tanto delo introito como delo esito, et per che 317
a trovato per gratia delo Signore ogne cosa listo et integro me haffatta una libe-
ratoria amplissima, che la ho data alo Signore Scipione Coppola, mio fratello, che
la conserva con le soi scritturi. Io donno Julio Coppola primigerio mano propria.

In alcuni passaggi sono trascritti, nell’italiano dell’epoca, diversi nomi e


cognomi di persone, per la maggior parte stabiesi, coinvolte a vario titolo
nella costruzione della Cattedrale.

• A di 22 de aprile 1587 io donno Julio Coppola cantore de ditta cita de Castiello


ad Mare ho fatta polisa ad messer Joangilonimo de Granito de docati gento al
Bancho de la Santissima Nociata de Napole per lo partito che anno fatto con
esso li ditti Depotati de quattro milia pise de calge, dico ducati 100.

• A di 20 de agusto 1587 io donno Julio Coppola cantore hoffatta polisa a lo


Signore Joanbattista de Urso de docati vintidui et mezo correnti alo Banco dela
Santissima Nociata de Napole de tanta cauge che ave consignato ali Signori
proteturi de lo Novo Viscopato di Castiello ad Mare, dico duc. 22½.

• A di 16 de ottubro 1587 jo donno Julio Coppola cantore hoffatta polisa ad


messer Joangilonimo de Ranito de docati ginquanta correnti alo Banco dela San-
tissima Nociata de Napole per lo partito che anno fatto con esso li ditti Depotati
deli quatro milia pise de calge, dico ducati 50.
Da notare che il cognome del revisore Joangilonimo si trasforma da de
Granito (trascrizione del 22 aprile 1587) in de Ranito. Di seguito i nomi
e cognomi di quanti lavorarono e collaborarono alla sua costruzione:
Mucio Valetutto, Francesco Giovanni de Palma, Andrea de Oliviero, Ferrantiello
Mollo, Giovan Pietro Serlitto (in alcune trascrizioni compare Serbitto ed
anche il toponimo de Nucera), Clemente Buonocore, Nicola de Iecza, Simonello
Dellicato, Petrillo de Sollaczo (in alcune trascrizioni, oltre al patronimico,
compare anche il toponimo di Castellammare), Carlo de Nola, Nicola Carren-
se, Giovanni Tommaso Longobardo, Pompeo Imparato di Castellammare, Vigen-
zo Agnilo de Massa, Simone Preite de li Pagani, Angelo Lommardi, Ioanbatista
Spitalere, Matteo Coppola, Piereantonio de Santis, Anelo Cartolano, Bartolomeo
Antonio, Paulo Fasano, crerico (chierico) Pietro Chiaese, notaio Paulo Fedele,
notaio Gioangilonimo de Maio, mastro Marcantonio Palummo, mastro Tulio
Coragio, mastro Paulo de Napole, mastro Paulo Fasano, mastro Paulo de Palma
(trascritto anche con Paulo de Parma, sollevando il dubbio sulla sua pro-
318 venienza dalla vicina Palma Campania o dalla città emiliana anche se
forse il contabile scriveva ciò che sentiva e nel dialetto napoletano Palma
può esser pronunciato come Parma), mastro Santolo Cartolano, Teodono de
Parma (trascritto per errore anche con Paulo de Parna).

Nel libro dei conti del 21 febbraio 1588 il mastro Santolo Cartolano appare
con una notazione toponomastica in più e cioè Santolo Cartolano de Napo-
le, sempre a dimostrazione della scarsa fissità del cognome.

In questo archivio storico si registrano diverse trascrizioni del cognome


Coppola. Ad esempio: nella cappella della chiesa di Sant’Agostino della
Zecca di Napoli vi è un’iscrizione marmorea del 1807 che reca il nome
di Caesaris F. Coppula; da un’antica pubblicazione risulta una precedente
lapide nella stessa chiesa con la citazione, invece, di Dominico Coppolae.
Negli anni seguenti l’obbligo della invariabilità del cognome diventò più
incalzante e la sensibilità crebbe notevolmente tanto che nelle lapidi,
sebbene in latino, si riportavano i cognomi in italiano senza essere accor-
dati per genere e per numero; in un’altra lapide del 1818 è menzionato
Nicolaus ex comitibus (cioè della famiglia) Coppola. Stessa scrittura in una
lapide del 1834 nella chiesa di Santa Maria della Pace nella nostra città.
Stemma nobiliare della
famiglia Coppola (xviii Il cognome Coppola è molto diffuso al Sud, specialmente in Campania,
secolo) sull’altare della Puglia, Lazio e Sicilia. Si pone al settantunesimo posto in Italia, al sesto
cattedrale di Castellam-
mare di Stabia più diffuso a Napoli e all’undicesimo a Castellammare di Stabia (dati
cittadini aggiornati al 2019). Secondo l’etimologia popolare l’origine del
cognome Coppola deriverebbe dall’antico mestiere di vendere cappelli e,
più in particolare, dai berretti tondi con visiera, tipici del Meridione; ma
un’analisi più plausibile la fa derivare dal diminutivo di coppa, il bic-
chiere utilizzato dalle nobili famiglie specialmente durante i banchetti.
Quest’ultima ipotesi è avvalorata dagli stemmi di queste famiglie che
mostravano proprio una coppa dorata sorretta da due leoni.

Per molti secoli a Castellammare si è diffusa la credenza popolare che


il cognome del patrono San Catello fosse proprio Coppola. Questa favola
del cognome fu inventata da un certo padre Beatillo; dovendo inviare
ai bollandisti (termine con il quale veniva indicato un gruppo di eruditi,
guidati dal belga Ioannes Bollandus, che lavorò nella compilazione degli
Acta Sanctorum, una raccolta critica di fonti documentarie sui santi) una
breve vita di San Catello da inserire in tale raccolta nel 1643, per ingra-
ziarsi la facoltosa e potente famiglia Coppola attribuì la discendenza 319
proprio a tale famiglia. Questa pretenziosa illazione oggettivamente non
Frontespizio del libro
“Acta sanctorum” (1643)
stava in piedi perché c’erano grandi distanze di tempo tra San Catello
di Ioannes Bollandus che visse nel VI secolo e la nascita dei cognomi a partire dal XII secolo!

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# Dal libro di Giovanni Celoro Parascandolo, Il monastero di san


Bartolomeo Apostolo in Castellammare di Stabia, Edizione a cura
delle Adoratrici Perpetue dello stesso monastero, 1984.

Nel passato i monasteri erano considerati centri di potere dotati di no-


tevoli patrimoni fondiari in quanto la maggior parte di essi fu costruito
grazie a donazioni e, soprattutto, per volere dei nobili che ponevano a
capo della comunità le figlie o le sorelle che avevano deciso di dedicarsi
alla vita monastica; in genere non solo per l’aristocrazia ma anche per le
famiglie meno agiate il monastero rappresentava un futuro sicuro per si-
stemare le figlie nubili risparmiando così sulla loro dote. Tale tradizione
si è verificata anche nel nostro monastero di san Bartolomeo, tanto è vero
che la maggior parte delle badesse erano rappresentanti delle nobili ca-
sate stabiesi come madre Chiara Cannavaczuolo (XV secolo), madre Marzia
Ricia (qui probabilmente era resa l’accordatura al femminile del cognome
Ricio) nel 1566, madre Giulia Napolda nel 1576, madre Margherita de Apuz-
zo nel 1584, madre Antonia Longobardo nel 1613, madre Andreana de Avitaja
nel 1673, madre Teresa Plagese nel 1676, madre Candida de Avitaja nel 1678,
madre Caterina de Avitaja nel 1685, madre Giuditta de Avitaja nel 1691,
madre Maria Tecla Vaccaro nel 1706, madre Angela Michela de Bastarijs nel
1709, madre Maria Raffaela Vespoli nel 1716, madre Maria Alberta da Pozzo
nel 1743, madre Maria Angela Teresa Vespoli nel 1765, madre Maria Michela
de Avitaja nel 1795, madre Giulia de Avitaja nel 1820, madre Irene Galtieri
nel 1822, madre Maria Gabriela Vertocali nel 1837, madre Maria Vincenza
da Pozzo nel 1839, madre Maria Raffaela Perrotta nel 1851, madre Maria
Giustina Rocco nel 1902, madre Maria Luisa Cannavacciuolo nel 1924, madre
Carlotta Mannara nel 1943, madre Elisabetta Coppola nel 1960.

La maggior parte dei cognomi delle badesse rimanda ai cognomi delle


famiglie più influenti e prestigiose della città dal XV al XIX secolo come
Cannavaczuolo, Ricio, Napolda, de Apuzzo, da Pozzo, Coppola, Longobardo,
320 Plagese, Mannara, Vaccaro ma, tra tutte, prevale il duraturo tributo della
nobile famiglia stabiese de Avitaja (con ben sei badesse nell’arco di due
Giacinto Gigante “Veduta
di Castellammare” (1843) secoli!) alla guida spirituale del monastero.
# Dall’Archivio del Capitolo della Cattedrale di Castellammare di
Stabia, dal XVI secolo al XIX secolo

Da questa preziosa e variegata fonte documentaria è possibile ricostru-


ire le informazioni agiografiche, le storie di devozione cittadine nonché
individuare i religiosi e i laici stabiesi (con i loro nomi e cognomi) che
contribuirono alla costruzione delle varie chiese cittadine.

La chiesa del Gesù (intitolata originariamente a Santa Maria del Soccorso)


fu fondata nel 1609 dai Gesuiti per merito del Comune, del Vescovo e del
nobile stabiese Pirrus Joannis (Piergiovanni) de Nucera; nell’atto notarile è
esplicitamente affermato che il titolo originario fu imposto dallo stesso
nobile stabiese: Praefatus vero Pirrus Joannis sponte asseruit coram nobis, et
dicto Patre Provinciali praesenti etc. se ipsum Pirrum Joannem propter amorem
quem de continuo gessit, pro ut ad praesens gerit erga dictam Societatem Jesus,
et ejus Reverendos Patres, ac propter devotionem quam habet erga divam Ma- 321
riam dello Soccorso deliberasse et disposuisse in acie ejus mentis construi facere
in praedicta Civitate Castrimaris de Stabia Collegium Societatis Jesus sub titulo
Sanctae Mariae de Soccorso. Da notare come il nome e cognome del nobile
stabiese è trascritto nello stesso testo in due modi diversi in modo da
rispettare le accordature funzionali in latino e cioè Pirrus Joannis e Pir-
rum Joannem. Nel 1618 Diego e Placido Longobardi quondam not. Bernardinus
(cioè figli del fu notaio Bernardino) costruirono la sagrestia della chiesa
stessa; le sue cappelle gentilizie furono intitolate alle famiglie di Olimpia
de Concilio (vedova di Francesco Coronato), de Nocera, Anielo Longobardi, del
Giudice, Francesco Maria de Aputeo, Samuele Coticelli, Francesco Cuomo.

Per il convento di San Francesco a Quisisana è citato nel 1583 lo stabiese


Bartholomeus Scarfatum che vendette il bosco con ulivi per la sua costru-
zione. Invece le cappelle gentilizie dell’altro convento di San Francesco
(quello in prossimità dell’attuale piazza Municipio, detto dell’Oratorio)
furono intitolate alle famiglie Vaccaro, Avitaja, de Aputeo, Cota, Scarocchia,
Longobardi, Sansone, d’Ambra, Bosio, Sicardo, Vergara, Dammiano, Granito, de
Afflitto, Mosca, Ingletta, Soldano, de Comparato, Cigala, de Massa, Napolda,
Scalese, de Riso, Certa, Plagese, Montanaro, de Nocera, Scarfato, de Palma.

La chiesa di Santa Maria dell’Orto fu fondata nel 1580 dal notaio Giovan-
ni Jeronimo de Majo e Marco de Maio. I maestri ortolani della confraternita
erano Catello Longobardi, Giacomo de Monaco, Alfonso Chiaiese. I padri ago-
stiniani pagarono a Giuseppe De Cataldo l’estinzione del debito contratto
nella costruzione della chiesa; le cappelle gentilizie furono intitolate alle
famiglie Cataldo, Fedele, Pietro Imperatore.

La chiesa dello Spirito Santo fu fondata nel 1577 dalla confraternita dei
bottai tra cui Samuele Longobardi, Minico de Giglio, Felice de Buono, Ambrosio
de Cataldo, Geronimo Acampora, Agostino Cannavaczuolo. Invece la chiesa di
San Gioacchino fu fondata nel 1892 da Vincenzo Postiglione (il cui rione ha
Lapide (1625) con lo stem-
preso il suo nome), un ricco commerciante di semi d’ortaggi, aiutato da
ma dei bottai nella chiesa un comitato di fedeli che fu graziato da un’infezione colerica.
dello Spirito Santo di
Castellammare di Stabia
La chiesa di San Salvatore ha le cappelle gentilizie delle famiglie Galterio,
Scalisi, de Felice, Montanaro, comite (conte) Genovino, Barbella, Foglia, Sportiel-
lo. La chiesa di San Nicola fu fondata nel 1641 dal nobile Carlo Rocco. La
322 chiesa di San Eustachio fu fondata nel 1308 da Bernardinus Verdeauliva,
il notaio Iohanne Firpo, Cesare Longobardi, Francesco Coppula, Natale Cuomo;
ha le cappelle gentilizie delle famiglie Longobardi e d’Apece.

Per la chiesa di San Matteo sono annotati nel 1583 come deputati Cola
Francesco Ferrara e Johannes Roberto Coppola mentre nel 1584 Prospero de
Palma e Thomase Longobardi; ha la cappella gentilizia della famiglia di
Jeronimus Castaldo.

La chiesa della Maddalena nel 1554 vantava il patronato (nel diritto


canonico è il privilegio che spetta al fondatore di chiese e cappelle) dei
nobili Tommaso Plagese, Pietro Giovanni de Nocera e Pirro Johannes de Nuce-
ra. Quest’ultimo vi fondò il Conservatorio delle donzelle povere.

La chiesa di San Giovanni Evangelista nel 1484 vantava il patronato dei


nobili Pietro Cannavacziuolo, Eusebia Sicarda vidua relicta quondam Johannes
Trentamolla (cioè vedova abbandonata del defunto Giovanni Trentamolla) e
Laura Castaldo vidua quondam Raymundus Trentamolla (vedova del defunto
Raimondo Trentamolla). Poi il patronato passò alla famiglia Vaccaro.

La chiesa di San Giacomo Apostolo fu fondata nel 1362 da Laurentius


Certa filius Silvij de Castromaris (Lorenzo Certa figlio di Silvio di Castel-
lammare) e Benuchus de Raffone (Bennico Raffone); nel 1597 il patronato
spettò a Joanne Baptista Massa e Alfonso Sansone mentre nel 1684 passò
alle famiglie de Massa e Sansone. La chiesa di San Cataldo (o di Santa
Maria della Libera) vantava il patronato della famiglia Correa. Invece la
chiesa di San Tommaso Apostolo (ora Santa Maria della Sanità) quello
della famiglia Scafarto.

La chiesa di Santa Caterina è antichissima e di patronato comunale; nel


1589 l’universitas stabiese era rappresentata dal sindaco Fabio de Jacta e
dagli eletti Bartholomeo Certa, Nicolas Andrea Dammiano e Johannes Bat-
tista Longobardi. Questi cedettero la chiesa ai magnifici Giulio de Ruocco,
Scipione Buonocore e Iohanne Minico de Marinis, protettori del Monte della
Pietà fondato nel 1585 in città. Nel contratto è presente anche l’economo
Giovanni Angelo Montanaro.

La chiesa del Santissimo Crocifisso al quartiere del Caporivo fu fondata


nel 1632 da Oratio e Felice Sansone; invece la chiesa di Santo Stefano fu 323
fondata nel 1144 da Stephanus Certa filius Marino (Stefano Certa figlio di
Marino) dal cui santo prese il nome.

Nel 1565 la prima cattedrale della nostra città fu costruita a Varano pres-
so i terreni dello stabiese Nardo Lardaro; al suo interno c’erano i sepolcri
gentilizi delle famiglie Cannavaczulo, Certa, Longobardi, d’Avitaja.

Nel 1578 i governatori della chiesa di Pozzano erano Camillo Certa, il


reverendo Agazio Sansone, Johanne Vincenzo Sicardi, Johannes Minico de Gra-
nito. Nella Basilica di Pozzano le cappelle furono intitolate alle famiglie
stabiesi di Felice Scarfato, Francesco de Palma, Donnarumma, Certa, Johannes
Baptista Castaldo, Andrea de Miro, Marchese, Comparato, Riccio, Pavolo Sicar-
do, Camillo de Lanno, Longobardi, Cola Francesco de Puteo.

Nel 1585 il monastero di San Bartolomeo fu venduto alla signora Carac-


ciola Longobardi (vedova di Giovanni Ieronimo d’Aputeo e madre di Dezio,
Alessandro e Giovanni Angelo de Aputeo).

Il convento dei Carmelitani confinava con l’orto di Giovannangelo Corsale.


Le cappelle gentilizie furono intitolate alle famiglie Scipione Sollazzo,
nelle due pagine seguenti Correa, de Masso, Longobardi, Vincenzo de Levante, Giovanni Andrea Plagese.
Anonimo “Castellammare
di Stabia” (xviii secolo) La chiesa della Pace fu costruita nel 1525 dal nobile Francesco Sicardo; l’u-
324
325
niversitas stabiese partecipò ai lavori con i procuratori eletti Felice Vaccaro,
Loise Longobardi, Hieronymus de Massa. Nel 1569 per la sua ristrutturazio-
ne i patrocinatori furono Giovanni Baptista d’Urso, Nardo Angelo Lardaro,
Johanne Battista Montanaro.

Durante il ministero del vescovo spagnolo Giovanni Fonseca, nel 1393


il padre domenicano stabiese Marcus Plagese edificò il convento di Santa
Croce per il suo Ordine. Le cappelle gentilizie furono intitolate alle
famiglie Giacinto d’Arco, Claudia Soldano, Vergara.

Oltre ai contenuti tipicamente ecclesiastici, nell’archivio del Capitolo


della Cattedrale della nostra città è possibile rinvenire documenti sulla
vita laica e sulle cariche civili dell’epoca; nel periodo precedente l’avven-
fronte e retro del Tarì to di Federico II di Svevia, l’amministrazione delle città meridionali era
(1612) all’epoca di Filippo
equamente distribuita tra il vescovo ed il catapano, una sorta di sindaco
iii di Spagna
326 dei giorni nostri, come rappresentante del re. Ebbene, nei documenti
sono menzionati i sindaci tra il XVI e il XVII secolo; nel 1561 era Iacovo
de Rosania con gli eletti Giovanni Andrea d’Afflitto, Andrea Coppola e Cle-
mente Buonocore. Nel 1567 fu eletto capitano della torre di Rovigliano lo
stabiese Giovanni Leonardo Montanaro. Altri sindaci: nel 1568 Luca Andrea
Longobardi, nel 1578 Felice Scafarto, nel 1586 Nicolas Vincenzo Longobardi
con gli eletti Salvatore Plagese e Antonio Longobardi, nel 1605 Giuseppe de
Puteo con gli eletti Andrea de Comparato e Giovangiacomo Sicardo; nel 1631
Ascanio Plagese con l’eletto Andrea d’Avitaja.

Diversi erano i mestieri legati al mare presso la Dogana del porto nel
XIII secolo; infatti nel 1269 come portulanotti erano menzionati il giudice
Mattheus Castaldo, Thomase Pinto, Salvato Coppola. I baiuli erano Macziotto
Vaccaro, Jacobo de Sancto Marco. I credenzieri erano Alessandro de Afficto,
Ursus Rufolo, Johannes de Juvene, Marino d’Apozzo, Johanne Tommaso de
Avitabulo. I capitani marittimi erano Januarius de Lauro, Antonio Filosa,
Johannepaulo Benetti mentre gli addetti alla custodia nel 1280 erano Petro
Cutanea, Gulielmus Vaccaro, Florio Montanaro. Nel 1585 i capitani marittimi
erano Giovanroberto Comparato, Joanne Roberto Coppola.

C’è una trascrizione del 1681 che racconta di una costituenda società
marittima tra gli armatori stabiesi Sabbato Martorello e Giovanni Celona.
Nel 1692 si annoveravano, come costruttori marittimi, Alessio e Antonio
Bonifacio. Dal 1693 al 1750 sono menzionati gli armatori Raimo e Marco
del Giudice, Bernardo Cacace, Michele Vanacore, Antonio d’Aiello.

Nel 1554 erano governatori all’ospedale San Leonardo Francesco Vacca-


ro e il notaio Cesare de Rogatis mentre nel 1621 erano Lifardo de Avitaja,
Francesco de Cataldo, Giovanni Angelo Longobardi. Nel libro sono menzionati
anche alcuni medici di fiducia (quasi sicuramente stabiesi) al servizio
del clero locale nel XVIII secolo: Gennaro de Cavalieri, Raimondo de Majo,
Gaetano Martucci, Francesco di Giovanni, Luca Raffone.

327

Lapide (1817) della fonte Nel 1802 la Torre del Quartuccio fu venduta dal Comune a Michele Stan-
dell’acqua di San Giacomo
a Castellammare di Stabia zione che nel 1822 la rivendette a Baldassarre e Luigi Parise.

Una disamina a parte riguarda i vescovi stabiesi. Nel 1392 è citato Anellus
de Avitabulo abas (cioè abate). Nel 1421 fu eletto il nobile Loise Certa, figlio
di Giovanni, a sua volta fratello di Matteo, Martino e Giacomandrea; nel
1446 da questa nobile famiglia fu eletto il vescovo Lodovico Certa.
328

Particolare inferiore del # Dal libro di Padre Serafino de’ Ruggeri, Storia dell’immagine di S.
quadro della “Madonna
di Portosalvo” che raf- Maria di Pozzano, Stamparia di Giuseppe Guarracino, Napoli, 1743.
figura Castellammare di
Stabia nel xvii secolo
L’autore, prima di trattare la storia dell’immagine della Madonna di
Pozzano, magnifica Stabia evidenziando i personaggi legati alle varie
sfaccettature della sua storia; infatti (…) e per verità, chi le nostre e le stranie-
re Storie è vago di leggere, troverà (benché spartitamente ed in diversi libri) essere
stati gli Stabiesi in ogni stagione, così nella gloria dell’armi, come delle lettere, in
dignità ecclesiastiche e secolari, in Santità, ed in ogn’altra laudabil cosa, rinomati,
ed eccellenti. E benché mia intenzione non sia far qui di ciascun di essi minuto
racconto; contuttociò somma ingratitudine sarebbe, il tacer di tutti, e passar sotto
silenzio ancor il nome di coloro, che finora son alla mia notizia pervenuti.

Risulta preziosa, pertanto, la trattazione di questa prefazione per poter


individuare i cognomi stabiesi in un periodo di circa mille anni. Anche
se i religiosi potevano non essere stabiesi, egli annovera nel XVII secolo:
il frate Gioseppe Comparato (in altre trascrizioni questo cognome appa-
re anche come di Comparato e Comprato), il padre gesuita Bartolomeo de’
Rogati (cognome trascritto anche de Rogatis con la d- minuscola perché,
329

all’epoca, la lettera era utilizzata meramente come preposizione sempli-


ce in funzione patronimica o di provenienza), il frate Bartolomeo Rosa, il
frate Raimondo Rocco ed infine il sacerdote Decio Letterese.

Dopo gli illustri cittadini religiosi, l’autore esamina il mondo laico e


civile affermando che se poi dalle morali alle fisiche Virtù, e da Celesti a
mondani onori vorrem far passaggio, un’abbondante materia ci si para d’avanti
da celebrar le glorie di Stabia col racconto delle opere illustri e memorande de’
suoi egregi figliuoli, che o per lettere, o per ecclesiastiche dignità o per armi o per
cariche civili, a se ed alla patria immortali onori, e glorie acquistarono. Sono
menzionati i patrizi stabiesi Alesio e Ludovico Certa, ambedue vescovi
della città, il primo nel 1421 e il secondo nel 1447; poi Ferdinando Mar-
chese e Nicolò Sicardi, ambedue vescovi di Vico Equense; Girolamo Castaldi
(trascritto anche con Castaldi e Gastaldi), vescovo di Massa Lubrense nel
1506; Pietro d’Orso, vescovo di Montefiascone e Ottavio d’Apozzi, vescovo
di Catanzaro. Poi Basilio Cacace, vescovo di Efeso nel 1599; Antonio Ricci
(in altri libri il cognome è trascritto con Riccio), arcivescovo di Reggio Ca-
labria; Giovan Luigi Ricci, canonico e vicario capitolare di Napoli; Antonio
d’Apozzi (trascritto anche con di Apozzi e d’Apozzo), arcivescovo di Bari. C’e-
ra nel 1664 un certo frate Santo di Castellammare ed anche Amelio Sansone,
regio cappellano maggiore di Napoli. Il gesuita padre Andrea d’Apozzi
(trascritto anche con del Pozzo) nel 1674, governatore provinciale della
provincia di Napoli. Poi il padre Tommaso de’ Rogati che divenne teologo
del Cardinal Orfini, diventato Papa col nome di Benedetto XIII; ancora il
maestro Marco Plagese dei Padri Predicatori che, per la sua opera merito-
ria, meritò l’effigie nel chiostro di San Domenico Maggiore di Napoli con
la seguente iscrizione Frater Marcus Plagese Civitatis Castrimaris de Stabia
Sac. Theologiae Magister. Uomini dotti nelle umane e divine lettere furono
anche gli stabiesi Andrea Coppola e Errico Scalese.

L’autore magnifica poi le cariche civili e militari iniziando dal 1382


col giudice Bartolomeus Longobardi per citare poi i giudici dei tribunali
fronte e retro del Carlino penali Bartholomeus e Pavolo (cioè Paolo) de Massa; poi Franciscus Senzone
(1684) all’epoca di Carlo ii nel 1325, Stefanus e Nicholus de Miro nel 1309, Bernardus e Johannes Miro
di Spagna
330 (trascritto anche con de Miro), quest’ultimo giudice nel 1458. Poi il giudice
Prospero de Orso nel 1547.

Degna di nota è la famiglia Vaccaro che ha generato molti giudici tra i


quali: Mattheus nel 1270, Macziottus nel tempo del Re Carlo II d’Angiò,
Joanne che fu incaricato a sovraintendere alla costruzione del nostro Pa-
lazzo Reale di Quisisana. Poi Laurentius (Lorenzo) che fu nel governo di
Carlo Duca di Calabria, primogenito del Re Roberto e suo vicario, come
si evince da un’epigrafe Judex Laurentius Vaccarius de Castromaris de Stabia
devotus & fidelis regius. Infine Petrus e Mattheo, anch’essi giudici del Regno.

Oltre questi, altri patrizi hanno onorato la storia di Stabia come Paris
d’Apozzi (è giunto a noi contemporanei con la traduzione in Paride del Poz-
zo) che dal re Alfonso d’Aragona fu fatto Consigliere di Santa Chiara ed
educatore del suo primogenito Ferdinando Duca di Calabria. Poi Tomase
e Johannedominico Comparato, regi consiglieri; Johannes Camillo Cacace e An-
tonio Coppola, presidenti della Regia Camera. Niccolus Vaccaro fu giudice
della città di Altamura. Gabriel Longobardi fu filosofo e medico dell’Impe-
ratore Carlo VI nonché protomedico di tutto il regno di Napoli mentre il
nobile Antonio Massamormile garantì al sovrano fedeltà assoluta. Il regio
consigliere Francesco Rocco e suo figlio Johan Baptista, presidente della
fronte e retro del Ducato Regia Camera; Andrea de Orso, presidente della Regia Camera nel 1500.
(1693) all’epoca di Carlo ii
di Spagna L’autore passa alla trattazione dei militi (il nome latino milites venne
utilizzato nel Medioevo per designare gli uomini liberi, individuati dai
sovrani, per l’uso delle armi con lo scopo di creare la classe dei cavalieri
e, poi, quella dell’aristocrazia): Iohanne e Goffridus de’ Rogati, ambedue
consiglieri della corte regia; poi una lunga dinastia a partire da Julianus
Ricci de Stabia (anche qui la completa denominazione comprendeva, oltre
al cognome Ricci, il toponimo supplementare che, ahimè, non è stato
perpetuato fino ai giorni nostri), presidente della Regia Camera. Poi Bal-
dovino e Roberto, il primo regio consigliere e il secondo mastro giustiziere.
Ci furono anche due Michele Ricci, il primo ambasciatore presso Firenze
e il secondo, nato da Niccolò Ricci e dalla nobile sorrentina Mariella
Correale, fu per il vicerè di Luigi XII, re di Francia, mastro razionale del
sedile di Nilo, uno dei sette quartieri della Napoli del 1501. Termina la
lista dei Ricci con Anghelo, Franciscus e Baldovino.

331
Breviario (1805) del cano-
nico e teologo Michele
Esposito del capitolo
della Cattedrale di Ca-
stellammare di Stabia
332
Pianta del vecchio porto e Nel 1445, ai tempi del Re Alfonso I, si ritrova registrato Egregius Miles
progetto del nuovo molo
del porto di Castellam- Marinellus de Medicis de Castellomaris con la modalità tipica dell’epoca e
mare di Stabia (1726)
cioè distinguere le persone anche con il toponimo; suo figlio Camillo de’
Medici ebbe da Filippo II, re di Spagna, la toga di regio consigliere. Qui si
registra la trasformazione dal nome latino de Medicis nella trascrizione
in volgare de’ Medici (trascritto anche con de Medici). Inoltre è menzionato
Bartolomeus Massa quale tesoriere e maestro razionale del re Carlo III nel
1138; poi Pirro (cioè Pietro) Massa, portulano del regno nel 1381. Anche
per la dinastia de Miro (talvolta questo cognome, per errate trascrizioni o
per la traduzione in volgare, appariva come di Miro) si elencano Roberto,
Carluccjo, Petrus, Bartolomeus, Carolo, Anghelo, Gasparro; quest’ultimo fu
vicerè di Calabria al tempo di re Roberto nel 1262. Poi Cola Francesco
Rosania fu segretario del re Alfonso di Aragona nel 1494. Presidenti
della Regia Camera furono Andrea de Miro nel 1419 e Bartolomeo Vaccaro
nel 1640. Come maestro portulano della Campania e vicine province fu
nominato Johanne Loise Sansone; infine Francesco de Avitaya fu segretario 333
del Regno di Napoli al tempo dell’Imperatore Carlo V nel 1535.

Per il loro valore nel mestiere della guerra e per il comando delle armate
navali, si ricordano Bartolomheus Vaccaro e Francesco Sicardi come ammi-
ragli del regno di Carlo I d’Angiò mentre Pierus Nocera, per i suoi servigi,
ebbe in dono il Palazzo Reale di Quisisana. Così come in mare, ci furono
stabiesi illustri anche per meriti terrestri come il capitano Tomasangelo
d’Arcos, generale d’esercito in Italia, Spagna, Portogallo e Fiandra; anche
suo figlio Tomas Ignatio fu un alfiere di cavalleria. Poi per trofei militari
si ricordano Matteus Castaldi, Cesaris Coppula, Gioseppe de Giovanni. Ancora
come capitani di cavalleria sia Francesco de Avitaya che Fabritio Longobardi.
Come marescialli del re Roberto sia Laurino Massa Scutifero che Johanan-
tonio Sansone; poi capitano di cavalleria Johan Baptista de’ Rogati e Felice
Angelo de Orso, scudiero del papa Paolo III.

Essendo dunque Stabia così feconda di Uomini per Santità, per lettere, per
cariche, e per valore chiari ed illustri, non è meraviglia, che ella sia sempre stata
in tal guisa cara a Regi, che abbiano con titoli di Nobiltà, e di Feudi i suoi Patrizi
abbondevolmente arricchiti, siccome in autentiche scritture troviam registrato.
Per tali premesse Marino de Avitabile ricevette l’incarico della Bagliva e
Mastrodattia della Terra delle Franche (l’ufficio della Mastrodattia, dal
latino magister actorum, era nella burocrazia del Regno di Napoli gestito
334

Giacinto Gigante “Veduta da un funzionario addetto alla custodia degli atti pubblici e privati da
di Castellamare” (1833)
trasmettere per il pronunciamento del giudice o Balivo). Lorenuszo de
Apozzo fu segretario del re Ladislao. Carolus de Miro fu giudice della Gran
Corte della Vicaria nel 1392. Il milite Petrus Castaldi, essendo raccoglitore
del denaro fiscale del re Carlo I d’Angiò, ebbe per ricompensa in feudo
un gran tratto di territorio di Stabia, attualmente detto Schito. Anche il
milite stabiese Restaino Massa ricevette territori in feudo dai regnanti.
Il re Carlo II d’Angiò donò ricchi feudi a Giacomo Tentamolla de Stabia
(il primo cognome è trascritto in altri casi anche come Trentamolla); il
re Ladislao concesse nel 1414 al nobile Carluccio Vaccaro, morto in suo
servigio, la metà dello scannaggio (balzello imposto nel Regno di Napoli
sulla macellazione degli animali) di Castellammare, privilegio poi con-
fermato a suo figlio Bartholomeus dalla regina Giovanna e dal re Alfonso.
Poi Scipione Longobardi ebbe in feudo dall’Imperatore Carlo V i dazi della
stadera e misura di Castellammare; Humberto Ricci fu il ciambellano
(ossia il Camerier Maggiore) della regina Giovanna mentre Niccolò Ricci
fu barone del Casale de’ Latronici in Lucania. Christoforo de Orso ebbe in
dono alcuni beni feudali dal re Ladislao nel 1390.
Ne solamente di feudi, e di facoltà furono gli Stabiesi da suoi Signori arricchiti,
ma eziandio li nobilitarono col decoroso e ragguardevole titolo di Milite, il quale
non indifferentemente esi davano a tutti al rapporto di Camillo Tutini e di altri
celebri Autori, ma solamente a coloro, che erano di antiche ed illustri famiglie di
schiatta militare, e per lor proprio valore chiari e rinomati. Milite e cavaliere
Lionardo de Afflitto nel 1470, milite Marino de Avitabile (in un’iscrizione
del 1383 tale cognome in latino era trascritto come de Abitabulo ma è
possibile riscontrare anche la trascrizione con d’Avitaja) nel 1370, milite
Landolfo Caracciolo nel 1383; la regina Giovanna nel 1414 concesse il
privilegio di godere della Nobiltà e gli onori di Stabia al milite Masellus
de Avitabile. La famiglia Massa contò diversi militi ai servigi della regi-
na Giovanna: Ciccarello, Juliano, Marino e Amelio. Nel 1303 il re di Napoli
Carlo II nominò come milite Niccolò Castaldi Stabiese (da notare il secondo
cognome Stabiese, toponimo che non avrà grande diffusione). Tra i militi
della famiglia Castaldi ricordiamo Rinaldo, Pietro e Horatio, quest’ultimo
valoroso cavaliere dell’Ordine di Malta nel 1578. Anche la famiglia di 335
Rosania ebbe i suoi militi: Gregorio, Andrea e Giovanni (in altri libri sono
trascritti anche con de Rosania).

In ordine sparso, furono militi stabiesi: Carlo de Miro, Bartolomeus Mon-


tario (trascritto anche con Montanaro), Marinello de’ Medici, Francesco Ricci,
Lemmo e Zardullo Vergara. Nel 1326 Francesco d’Apozzi fu dichiarato nobile
dal re Carlo; il re Ladislao dichiarò nobile Carluccio di Apozzi (notare lo
stesso cognome trascritto in due modi diversi e cioè d’Apozzi e di Apozzi)
mentre il Re Ferdinando I dichiarò uomo nobile Colafrancesco d’Apozzi.
Altri uomini nobili della famiglia Vaccaro furono Girolamo e Pasquale.
Gualtieri d’Orso fu nel 1308 familiare del re Carlo II d’Angiò mentre Fio-
rella d’Orso fu damigella della regina Giovanna I. Vennero elevati a nobi-
luomini dalla regina Giovanna I il giudice e dottore Giacomo Tentamolla,
Carlo e Andrea di Miro mentre dal re Alfonso di Aragona Filippo di Miro.

L’autore del libro si sofferma, poi, sui matrimoni tra stabiesi e altre fami-
glie del regno di Napoli; in particolare, Rinaldo Sicardi con Caterina Carafa,
Giovanpaolo Sicardi con Aurelia Gambacorta, Niccolò Castaldi con Susina
Malerba, Marino di Avitabile con Catterina Caracciolo, Michele Avitabile con
nelle due pagine seguenti
Litografia (1850) che Cornelia Ippolita Ramirez, Giacomo Avitabile con Rosa Barretta, Gennaro Avi-
illustra in modo fanta- tabile con Saveria Marchese, Colantonio di Avitaya con Maddalena Miroballo,
stico una festa del mare
a Castellammare di Stabia Gasparo di Avitaya con Flaminia Cavafelice, Giacomo Avitaya (da notare che
© giuseppe d’angelo

336
337
338
Johann Rudolf Bühlmann questo cognome presenta il patronimico senza la preposizione semplice
“Veduta di Castellamma-
re di Stabia” (1875) oppure è semplicemente un’errata trascrizione, fonte cospicua di origi-
nazione di nuovi cognomi) con Ovidia Nocera, Cesare di Avitaya con Anna
Pagano, Mattia di Avitaya (seniore) con la sorrentina Maddalena Roviglione,
Mattia di Avitaya (juniore) con la sorrentina Francesca Roviglione, Girolamo
di Avitaya con nobile amalfitana Giulia del Giudice, Andrea di Avitaya con la
sorrentina Vittoria Acconciagioco, Baldassarre di Avitaya con Angela Zurolo.

339

Cartolina “Panorama dal Poi, Marino di Avitabile si casò con Catterina Caracciolo, dal qual matrimonio
Grand Hotel Quisisana”
(1901) ne nacque Ceccarella e Mariella Avitabile, la quale Mariella si sposò con Tan-
credi del Balzo Cavalier Capoano di chiara, nobilissima ed antica famiglia; qui
l’autore trascrive il cognome del padre con di Avitabile e, poi, con Avita-
bile quello della figlia in un’approssimazione tale che una trascrizione
successiva avrebbe, involontariamente, originato un nuovo cognome, cioè
Avitabile senza la preposizione semplice. Di seguito i matrimoni della
famiglia Longobardi: Paride con Camilla Afeltria, Giacomo con la nobile
napoletana Dianira Buccina, Scipione con la napoletana Porzia Spina.
La famiglia Massa si unì con la famiglia Mormile, onde un ramo di essa
fu detto di Massamormile (altro caso di originazione di cognomi). Ci
furono matrimoni anche con le famiglie napoletane Galeoti, Miroballo,
Afflitti, di Alessandro; ed anche con le famiglie Santomanco (di Salerno),
Guardati (di Sorrento) e Pagani (di Nocera). Anche la famiglia Pandona
Stabiese s’imparentò con persone di sangue nobilissimo: Aquini, Sangri,
Balzi, Acquaviva. Della famiglia Sansone, Francesco prese in moglie Giulia
Coronata; l’autore, poi, accorda il cognome Sasso al plurale: La famiglia
Sansone (…) poiché si unirono co’ Sassi, nobili di Scala, la di cui casa fu illustra-
ta dal Cardinal Lucio Sasso. Altro esempio nel quale c’è un uso libero del
cognome al plurale: (…) ma eziandio con le principali famiglie di tutti i Sedili di
Il registro delle nascite Napoli, cioè con i Galeoti, Caraccioli, Mormili, Miroballi. Finanche nel XVIII
(1811) conservato
all’Anagrafe Storica di secolo era usuale accordare il cognome originario con il femminile o con
Castellammare di Stabia
il plurale; ciò perché il cognome non era ancora diventato un elemento
totalmente fisso dell’identità di una persona.

Similmente i Rogati con nobilissime famiglie si congiunsero in matrimonio, come


fu un Gioseppe Rogati, che prese in moglie Apollonia Cumini; Domenico de’ Ro-
gati si casò con Camilla Rossi Nobile Napoletana; e Pietro de’ Rogati con Venere
Pignatelli cugina del Duca di Montalto. Da notare che nella stessa citazione
compaiono due trascrizioni diverse dello stesso cognome (Rogati e de’
Rogati) con un’involontaria leggerezza che, se paragonata allo stato di
diritto contemporaneo, determinerebbe identità diverse e distinte.

340

Abraham Louis Rodolphe Della famiglia de’ Risi, Cesare prese in moglie Giovanna Castaldi nel
Ducros (1801 circa) “Il Ve-
suvio da Castellammare” 1570, Domenichi (seniore) con la sorrentina Isabella Molignano nel 1668
e Domenichi (juniore) con Catterina di Miro nel 1681; poi Vincenzo con
la nobile nocerina Porzia Pagano nel 1626 e, in seconde nozze, sposò la
nobile amalfitana Felice del Giudice.
341
Paride d’Apozzo prese in moglie la dama napoletana Nardella Galeota men-
tre i Comparati si ritrovarono imparentati con Minutolo, Savedra, Severino
e Caracciolo. Al tempo di re Roberto, Filippella Vaccaro con il salernitano
Roberto Grillo, Maria Vaccaro con il celebre avvocato napoletano Camillo de

342

Giacinto Gigante “Piazza Medici Stabiese, Isolda Nocera con il barone Simone di Belvedere. Al tempo di
Municipio” (1839)
re Ladislao, Antonella Di Miro col nobile Cecco del Borgo e la loro figlia, Gio-
vannella del Borgo, con Francesco di Aquino; la stessa Antonella, in seconde
nozze, si sposò col conte Perdicasso Barile nel 1409. Altruda di Miro col con-
te Guaimarius Longobardo, Lisola Castaldi nel 1462 con Rinaldo de Durazzo,
figlio naturale del re Ladislao. Ippolita Longobardi con Felice Carmignano,
Laura di Avitaya col cavaliere napoletano Francesco Zurolo, Marino di
Avitaya col nobile capuano Siginulfo de’ Tomasi, Teresa di Avitaya con Nicolò
Baldini, Ovidia di Avitaya con il cavaliere amalfitano Giovanantonio Bonito,
Porzia de’ Rogati con Cesare Strina.
Il patriziato stabiese, oltre a legarsi in matrimonio con cavalieri e dame
sorrentini, capuani, nolani, salernitani, nocerini, preferirono anche le
principali famiglie napoletane: Liguoro, da Ponte, Carafa, Spina, di Gennaro,
di Alessandro, Carmignani. Fin dal XI secolo nella gerarchia sociale i nobili
stabiesi erano distinti dal clero e dal popolo; infatti l’arcivescovo Barbato
di Sorrento nella bolla della consacrazione di Gregorio come vescovo di
Stabia, così scrisse: Barbatus Dei gratia Archiepiscopus Sedia Sanctae Sur-
rentinae Ecclesiae, omnibus Fidelibus ortodoxis, Clero, Ordini, & Plebi consistenti
Ecclesiae Stabianae, dove per Ordini si intendono proprio i nobili cavalieri.
Sebbene in Stabia non vi sia stato alcun sedile, come in altre città del Re-
gno di Napoli, in città sono fiorite comunque famiglie nobilissime negli
ordini cavallereschi.

Nel 1390 in una bolla di monsignor Tipaldi, vescovo di Lettere, per


conferire i patronati in alcune chiese del circondario, nel latino ufficiale
dell’epoca si citano alcuni nobili stabiesi: (…) vide licet Nobilis Riccardus de 343
Abitabulo dictus Guasconus, Tervillus de Abitabulo, Fridericus Napolda, Jacobus
& Petrus Napolda de loco francorum, Mariella de Abitabulo vidua relicta
spectabilis quondam Tancredi de Baucio de Civitate Capuae militis, & Cecca-
rella eius soror uxor Nobilis Antonii de Matteudi habitatoris Neapolis, ex voce
quondam Marini de Abitabulo militis, dictarum sororum Patris & c. (…) Mariella
et Ceccarella de Abitabulo sororum, pupillarum filiarum et heredum quondam
Marini de Abitabulo militis de Castromaris. Il cognome de Abitabulo, tradot-
to nell’italiano volgare, diventò di Avitabile mentre de Baucio diventò del
Balzo; da notare che la preposizione semplice ricopriva la sola funzione
di accompagnare il vocabolo principale, non era parte integrante del
cognome stesso ed era trascritta, pertanto, in minuscolo.

Molte delle famiglie citate non erano originariamente stabiesi ma sono


giunte in epoche remote da varie parti, vicine o lontane, per motivazioni
diverse tanto da conseguire il diritto alla cittadinanza; e benché nelle natie
contrade Nobili e chiare state fussero, contuttociò a sommo onore si reputarono
di essere tra Patrizi, e nobili stabiesi annoverate.

La famiglia d’Apozzi era originaria di Alessandria, allora nel milanese;


Carletta d’Apozzi desiderò godere gli onori e cittadinanza di Stabia e, con
del re Ladislao, l’ottenne nel 1412. La famiglia d’Afflitto proveniva da
Scala (Amalfi); Gabriel d’Afflitto nel 1450 venne ad abitare a Stabia.
Dai popoli longobardi trassero origine le famiglie Longobardi, Pandona e
d’Orso; quest’ultima famiglia visse a Benevento dall’817 fino al 1283 per
trasferirsi a Napoli e poi a Stabia. La famiglia Nocera trasse il nome dalla
omonima città campana; il suo discendente più illustre fu Pietro Nocera
che divenne generale delle Galee e difensore del porto di Stabia.

Il nobile padovano Giovanni de’ Rogati, allontanatosi dalla sua Padova per
sfuggire alla tirannide del crudele Ezzelino, con un drappello di valorosi
cavalieri si unì all’esercito di Carlo d’Angiò per la conquista del regno di
Napoli; allorché poi i re Angioini elessero Stabia per luogo di loro delizie,
il milite e consigliere Giovanni de’ Rogati qui volle stabilire la sua dimora.
Vetturetta da nolo (xix La famiglia Rocco trae origine, invece, dalla vicina città di Lettere. La
secolo) tratta dal cata- famiglia Ricci trae la sua origine dalla città di Firenze per poi trasferirsi
logo della ditta stabiese
“Catello Scala & figli” a Napoli sotto il re Carlo I d’Angiò; in particolare, il ciambellano Umberto
Ricci fu molto legato alla Regina Giovanna dalla quale ricevette in dono il
344
castello delle Franche (presso Pimonte) e altri beni in Stabia. La famiglia
de’ Risi (trascritta anche con Risi) traeva origine da Napoli; nel 1525 Toma-
sino de’ Risi si trasferì in Stabia. La famiglia Vaccaro (trascritta anche con
il femminile Vaccara) era di origine romana; molti suoi rappresentanti si
trasferirono in Stabia per fiorire nelle lettere e nelle armi.

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# Dal libro di Aldo Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, archi-
tettura di Napoli e contorni, libero su Internet, 2017.

In questo interessante libro sulla storia del regno di Napoli sono men-
zionati diversi contratti giuridici redatti nel 1498 dal notaio stabiese
Fiorillo Testa di Castello a mare di Stabia che abitava a Napoli.

Nel 24 ottobre 1592 in un documento contabile del Banco dello Spirito 345
Santo (uno degli otto istituti di credito che, per tradizione, hanno dato
vita al Banco di Napoli nel 1539) c’è la menzione di uno stabiese: (…) Al
magnifico Gio:Battista Longo di Vico trentaquattro et per lui con pol.a di ducati
trentacinque al magnifico Francesco Avitaya di Castello à mare di Stabia d.o celi
paga per il prezzo di cinque statue di marmo gentile che l’ha vendute con una
porta di marmo quali giontam.te d.o ran.co l’ha da consignare nella massaria di
esso Francesco in territorio della Torre della Nunciata (l’attuale Torre Annun-
ziata) seu territorio di Vallo ad ogni semplice richiesta di Gio:Battista insieme
con la qual pol.a vi è declaratione di mano di dicto Francesco per la quale si
contenta pigliarsi ducati 34 citra preiuditio di recuperare il resto dal predicto
Gio:Battista, a lui c.ti ducati 34.

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# Dal documento di Gemma Teresa Colesanti, Appunti per la storia dei


cantieri e salari nel XV secolo: la fabrica del castello di Gaeta tra
il 1449 e il 1453, Quaderni Mediterranea, Palermo, 2011.

Nel documento sono narrati due anni dei lavori per la costruzione del
nelle due pagine seguenti
Catalogo della ditta castello di Gaeta. Sono registrate spese di pezzi di corde, chiodi, pali
stabiese di carrozzelle di legno, barili nuovi, recipienti grandi per passare la calce e altri per
“Catello Scala & figli”
(xix secolo) mischiare la calce; per alcune merci è individuato un fornitore stabiese
Cestina leggiera

346
Milordina

Bagherino con capote

Carrozzino

Biroccino
Vettura calabrese

Vis a vis

347

Carrozzino moderno

Bagherino

Domatrice
348
Litografia (1879) del come si evince dal testo scritto in catalano ma facilmente intuibile: Item
caricaturista napoletano
Mario Buonsollazzi alias a VIII de febrer donà a Senso de Moscha di Castellamar per VIII perxes longuts
Solatium
de castanya que d’el compra per fer menechs per les sapts de pastar calc e per le
palles de ferro a raò de III grans la petza (…).

Presso l’Archivio di Stato di Napoli, all’interno del fondo della Regia Came-
ra della Sommaria, si conserva il registro di contabilità del 1451 relativo
ai lavori di ristrutturazione delle mura e del castello di Castellammare
di Stabia; il responsabile del registro è Giovanni Rubio, regio commissario
per le opere di ristrutturazione.

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# Dal libro di Giulio Cesare Capaccio, Historiae Neapolitanae, libri


duo, Editore Gravier, 1771.
349
In questo libro, nell’ampia trattazione della storia di Napoli, sono men-
zionate alcune delle famiglie nobili di Castellammare; per la famiglia
Riccio appare una frase in latino dove il cognome è declinato al femmi-
nile e quindi variabile: (…) Riciam familiam duo Michaeles senior, atque junior
illustrarunt. In un altro passo lo stesso cognome compare in due modi
diversi, cioè sia Ricios che Ricio: (…) In oppidum Castrimaris Ricios profectos
Neapoli plerique censent, propterea quod Joanna I multos fundos in eo agro
daderat Humberto Ricio ejus Pincernae (quem etiam Ciambellanum dixerunt)
ob egregias ejus, et res bene gestas. Addunt cum fundis ei datum Francorum
Castrum, quod non longius Stabiis abest. Ancora poi (…) Ejus domus in Castro-
mari est cum insignibus Riciorum, quae ipse vidi, et vendita domus Francisco
Comparato seniori; qui un improbabile plurale Riciorum evidenzia la scarsa
fissità del cognome.

In diversi punti del libro l’autore ribadisce che il cognome Riccio ebbe
origine a Napoli ma si diffuse grazie al ciambellano Humberto Riccio
che si stabilì a Castellammare di Stabia dopo aver ottenuto dalla regina
Giovanna I, per ricompensa dei suoi servigi e dei suoi meriti, la proprietà
della nostra città ed anche la cosiddetta Terra de’ Franchi, che oggigiorno
è chiamata delle Franche e si trova a Pimonte. Egli ottenne la cittadinan-
za dal re Ladislao nel 1412, nello stesso anno in cui l’ottenne anche la
famiglia degli Apozzi.
Nel libro sono presenti, accordati in latino nei diversi casi, i cognomi:
Montagnaro (trascritto con Montanarius, Montanaria, Montanarii, Mon-
tanarium, Montanario), Apuzzo (con Aputea, Aputeam, de Puteo, de Aputeo),
Sansone (con Sansonam, Sansonum, Sansonis, Sansones, Sansona), Avitaia (con
Avitaja, Avitaiam, Abitabulam, de Abitabulo, de Avitabulo).

////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

# Dal libro di Pietro Antonio De Aragona, Nova Situatione de paga-


menti fiscali delle Province del Regno di Napoli, Regia Stampa di
Egidio Longo, Napoli, 1670.

Nel libro sono menzionati, tra gli altri, i debiti di stabiesi per le loro
attività produttive del XVII secolo; in particolare Claudia Vaccaro per la
tassa di 5,2 ducati per la metà del scannaggio (balzello imposto nel Regno di
350 Napoli sulla macellazione degli animali) della terra di Castello à Mare di
Stabia, deve per anno 7,2 ducati così come Geronimo Raffone e Luca Sanfelice
per la tassa di grana 15 come padroni della Selva Ceppatura in territorio di
Cartolina con la Cassa
Armonica (xix secolo) Castello à Mare di Stabia, deveno di adoho per anno 3 grani.
# Dal libro di Raymundus Tellerìa, Communicationes, 1743.

Nell’approfondita narrazione del mondo cattolico del XVIII secolo, in


questo libro c’è la menzione del vescovo stabiese Tommaso Falcoia nel
1731. Il cognome del vescovo appare in latino con Falcoiae e Falcoya anche
se in italiano si è diffuso con Falcoia. Infatti (…) Rev.mi Thomase Falco-
iae, Antistitis Stabiensis, clarum nomen ac beata, memoria semper fuerunt ac
manent in honore apud Congregationem nostrani, utpote qui huius cunabula
primumque vitae decennium honoravit et comminus stimulavit. Et mag.cis U.I.D.
Ioseph et Franciscus Falcoya, heredibus qm. Ioannis Hieronymi Falcoya, eorum
patrui ex testamento.

In alcuni passi del libro si trovano anche i nomi ed i cognomi di stabiesi


dell’epoca. At quoniam in vestigatione archivorum effugiunt nos fere semper
anguli plus m’inusve absconditi, attentionem convertere liceat ad notarios coae-
vos, fungentes munere suo in civitate Castri Maris (…) Quattuor saltem recensen- 351
tur notarii Stabienses pro tredecennio 1730-1743, nimirum: Antonius de Porto,
Stemma di città (1702) su Franciscus de Majo, Ianuarius Bruni et Ferdinandus Grosso.
una patente di navigazio-
ne rilasciata dai “Deputa-
ti della salute pubblica” Nel seguente stralcio sono menzionati cittadini stabiesi in un insolito
mix di latino e italiano Praesentibus Iudice M.co Catello Montella Regio ad
contractus Stabiensi, ac testibus R.do D.no D. Nicolao Crescuolo Scalensi, R.do
D.no D. Caesare Sportiello de Neapoli, R.mo D.no D. Mattheo Crescuolo Scalensi
et Vicario Gen.li d.ae civitatis, R.do D.no D. Bartolomeo Sorrentino, R.do D. Ni-
colao Longobardo, Clerico Catello de Majo et D.no F.co Luca Raffone Stabiensi.

In un altro il testo è scritto completamente nell’italiano del Settecento,


cioè A requisizione fattaci dall’Ill.mi Signori del Regimento di questa città, cioè
Sig. D. Ottavio Avitaya, sindaco de’ Nobili, Sig. Catello Marturi, sindaco de’
cittadini, Sig. Loffredo de Rogatis, eletto de’ Nobili, Sig. Nicola Cuomo, eletto del
popolo, e mag.co Notar Bartolomeo di Majo, eletto de’ 3ri (terzieri). (…) hanno
invitato tre altre persone per portare le dette tre aste, quali sono D. Giulio d’Api-
cello, D. Domenico d’Orsi e Giov. Btta d’Avitaya.

Ancora in un altro passo del 1735 sono citati anche altri stabiesi (…)
Avanti di noi Regio notaio, giudice a contratto, e testimonij e nella nostra Curia
se ne sono comparsi li R.mi Sig.ri D. Domenico d’Amore e D. Rogato de Rogatis,
cantore e decano del R.mo Capitolo di questa città.
352
Pianta di Castellammare # Dal libro di Domenico Antonio Parrino, Dell’antica Pompei, Taura-
di Stabia con i nomi dei
casali (1897) nia, Tora o Cora, Stabia, e moderna Torre dell’Annunziata e Castell’a
Mare di Stabia, volume II, Stamperia Parrino, Napoli, 1700.

In questo libro l’autore racconta, oltre alle bellezze storico-paesaggistiche


delle cittadine attorno al Vesuvio, anche la storia, la geografia, la religio-
ne e l’economia della Castellammare del XVII secolo.

Per quel che riguarda l’antroponimia, risulta interessante la disamina


delle famiglie nobili locali: (…) l’Afflitta, che qua venne da Scala, e vanta
l’origine da sant’Eustachio; la Puteo, di cui fu il famoso giurisconsulto Paride;
l’Avitaja, detta ancora Avitabola, chiamando quei della famiglia, Carlo III, Mili-
tes Castri Maris; Castalda; Certa; Comparata; Coppola; Coronata; Longobarda;
Marchese; de Masso; Medica; de Mirto o Miro; Montanara; Nocera; Pandona;
Plagese; Riccio, anche arrollata al sedile di Nido; Rosania; Sansone; Scafara;
d’Urso; Napolda; Lorenzia; de Rogatis; Sicarda; Vaccaria; Vergara; Trentamolla; 353
Boccia; ed altre famiglie appajono diverse memorie in marmo nelle chiese e negli
archivj, a’ quali ci rimettiamo per non esser troppo longhi nello scrivere.

////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

# Dal libro di Giovan Battista Pacichelli, Vita del servo di Dio P. Gio-
seppe Imparato, Napoli, 1686.

L’autore, nel raccontare l’intera vita dello stabiese Padre Gioseppe


Imparato, cita una stessa persona (cioè Lorenzo D’Aponte, scritto qui con
la grafia moderna) menzionando, al netto di eventuali errori di trascri-
zione (e poi di stampa), il cognome in quattro modi diversi: da Ponte, Da
Ponte, D’Apote, A Ponte. È la testimonianza che, anche al termine del XVII
secolo, il cognome stentava ad essere sempre trascritto allo stesso modo.
Molti cognomi si sono originati da errori di trascrizione o da cattiva
interpretazione della grafia tanto che alcuni sono molto somiglianti pur
Ritratto del Padre Giosep-
con variazioni di una o due lettere; la modernità ha ridotto al massimo
pe Imparato (1686) tratto tale disagio con la scrittura elettronica dei computer. Nel passato la tra-
da “Vita del servo di Dio
P. Gioseppe Imparato” di scrizione dei nomi era eseguita a mano con la propria calligrafia ed era,
Giovan Battista Pacichelli pertanto, fortemente equivocabile e vi assicuro che, in certi casi, è una
vera e propria impresa saper leggere (ed anche interpretare) la calligrafia
degli scriventi dei secoli passati!
Colonia estiva “Opera # Da un opuscolo delle Colonie estive a Castellammare, 1926.
ragazzi della strada”
dell’Oratorio San Giovan-
ni Bosco (1953)
Un’altra finestra della storia dei cognomi della nostra città ci riporta
nel ventennio fascista quando il regime, in collaborazione con l’Opera
nazionale Balilla e i Fasci femminili, gestiva un progetto di vacanze estive
per bambini, dai 6 ai 12 anni, denominato Colonie. Erano soprattutto figli
delle famiglie meno abbienti ad essere scelti; in tal modo queste fami-
glie riuscivano a garantire ai loro bambini pranzo, merenda e cena nel
periodo estivo. Nel 1926, nel periodo agosto-settembre, il Fascio Femminile
Stabiese, in accordo con l’allora podestà Francesco Monti, istituì la colo-
nia marina fascista stabiese Pro parvis et humilibus (Per i piccoli e poveri).
I locali adibiti furono quelli della scuola Complementare (ex seminario
in piazza Municipio), la cui palestra fu trasformata in cucina e refettorio.
La direzione sanitaria fu affidata allo stabiese Mario D’Ambrosio, tra
l’altro direttore del corso di Infermiere del Littorio; alle sue dipendenze
354 vi erano le allieve infermiere Ermelinda De Rosa, Olimpia Celotto, Cate-
rina e Ginetta Mottola, Luigia Serra, Franca Filosa. L’amministratrice era
Francesca Vanacore, segretaria del Fascio Femminile; era presente anche
Colonia estiva “Figli dei
ferrovieri” (1938) un agente municipale, cioè Vincenzo Schettino.
355
356
“Opera ragazzi della Ecco i nominativi dei 62 maschi: Amodeo Catello, Buondonno Luigi,
strada” dell’Oratorio San
Giovanni Bosco (1953) Balzano Mario, Balzamo Roberto, Caiazzo Giuseppe, Capeto Francesco,
Caruso Luigi, Cavallaro Catello, Cecere Antonio, Celotto Luigi, Cinque
Antonio, Cinque Raffaele, Colsanto Mario, Colasanto Gaetano, Celotto
Vincenzo, Cuomo Mario, Capriglione Raffaele, Cava Raffaele, De Carolis
Arnaldo, Del Pizzo Catello, De Filippo Antonio, Di Capua Giovanni, Di
Capua Catello, De Martino Michele, D’Orsi Giuseppe, Di Maio Salvatore,
Esposito Vincenzo di Vincenzo, Esposito Vincenzo di Catello, Esposito
Luigi, Esposito Carmine, Esposito Vincenzo, Gentile Gaetano, Gallo
Catello, Izzo Catello, Imparato Antonio, Luminoso Salvatore, Gentile
Giulio, Maggiorana Tullio, Massi Mario, Manzo Ciro, Muollo Antonio,
Palumbo Gennaro, Pepe Giuseppe, Polito Giuseppe, Ricci Umberto, Ricci
Domenico, Savarese Liberto, Sanges Vincenzo, Somma Vincenzo, Somma
Alberto, Sicignano Clemente, Schettino Catello, Salvati Giuseppe, Scarica
Francesco, Sorrentino Armando, Toscano Guglielmo, Vanacore Antonino,
Vanacore Stanislao, Vanacore Michele, Vanacore Francesco, Vanacore 357
Antonio, Vivenzio Catello.

Le 48 bambine: Amodeo Trentina, Cuomo Anna, Coppola Genoeffa,


Colasanto Fortunata, Caiazzo Nina, Coppola Immacolata, Cava Maria,
Cavallaro Raffaella, D’Auria Cristina, D’Auria Olimpia, De Carolis Ma-
ria, De Filippo Cira, Di Capua Eufemia, De Filippi Liberata, Di Marti-
no Carmela, Di Nocera Elisa, Di Nocera Carmela, Esposito Nunziata,
Franco Giuseppina, Franco Addolorata, Gentile Angela, Izzo Antonietta,
Longobardi Giovanna, Longobardi Carolina, Limpida Carlotta, Longo-
bardi Maddalena, Luminoso Concetta, Maggiorana Olga, Menduto Anna,
Palumbo Anna, Perna Anna, Pepe Carmela, Pellecchia Anna, Ricci
Nebula, Rapicano Anna, Ricciardi Giuseppina, Sicignano Anna, Schia-
vone Fidia, Schettino Anna, Sanges Maria, Salmi Iolanda, Tramparulo
Cristina, Toscano Ada, Vanacore Maria, Vanacore Rosa, Falcone Giulia.

Balzano all’occhio 5 bambini ed una bambina con il cognome Esposito,


probabilmente trovatelli. Per gli altri si registrano i soliti cognomi stabie-
si, con qualche eccezione per Capeto, De Carolis, Massi, Toscano, Del
Pizzo, Maggiorana, Salmi.

© raffaele fontanella

358
Le fonti storiche stabiesi

San Catello, il patrono di Lo studio etimologico dei cognomi può svilupparsi esclusivamente attra- 359
Castellammare di Stabia,
nel bassorilievo del verso la ricerca e l’approfondita analisi di tutti quei documenti, soprat-
portale in bronzo della
Cattedrale
tutto quelli più antichi, in cui è possibile trovare una loro traccia. Quali
sono state le fonti a cui ho fatto riferimento? Gli archivi, naturalmente,
che sono preziosi scrigni della memoria dove è conservata la vera storia
(qui volutamente scritta con la iniziale minuscola) delle persone comuni
e degli antenati della nostra città. E quindi gli archivi parrocchiali con
i registri di battesimi, matrimoni e morti nonché gli archivi di Stato con
i protocolli dei notai contenenti testamenti, contratti, compravendite.
L’esercizio di questa attività, da cui traspare netto il rapporto tra la storia
dei cognomi e le sue fonti, si rivela particolarmente ostico poiché proble-
mi di lettura, scarsa accessibilità, interpretazione ed autenticità frequen-
temente ne compromettono le causalità.

Le mie fonti consultate: 1) Archivi parrocchiali e diocesani; 2) Anagrafe


comunale; 3) Catasti cittadini del XVI e del XVIII secolo; 4) pubblicazio-
ni varie che riguardano la nostra città; 5) informazioni e ricerche di
carattere personale. La mia ricerca ha elaborato rispettivamente i dati
rilevati dai registri delle varie parrocchie e, in modo particolare, quel-
li della Cattedrale per il periodo che va dal 1575 al 1861, con tutte le
informazioni legate alla vita religiosa di una persona dell’epoca come il
battesimo, la comunione, la cresima, il matrimonio fino alla morte. E poi
per il periodo che va dal 1809 al 1875 ho consultato, in modo sistemati-
360

Incisione di Jules Coignet co, i registri anagrafici del Comune controllando (e correggendo) i dati
“Château de Castelama-
re” (1827) stampata dalla civili con quelli religiosi nel senso che i registri parrocchiali contengono
litografia Villeneuve e evidentemente solo atti religiosi e pertanto risultano carenti quando il
tratta dalla raccol-
ta “Vues pittoresques nascituro veniva registrato solo allo Stato Civile senza essere battezzato
d’Italie, dessinees d’apres
nature” o morto senza sacramenti; in generale i documenti religiosi registravano
i battesimi (ma non le nascite), i seppellimenti (ma non i decessi).

Per il reperimento delle informazioni di base e della particolare ricer-


ca storica sui cognomi stabiesi ho potuto, grazie alla sensibilità e alla
disponibilità del sacerdote Antonino D’Esposito (parroco della Cattedrale
di Castellammare di Stabia), esaminare i registri parrocchiali delle nascite,
delle morti e dei matrimoni della Cattedrale (preziosissimi documenti
che, in non pochi casi, necessitano di urgenti restauri) che vanno dal
1575 ai giorni nostri. La grande mole di informazioni rappresenta la
testimonianza dell’incredibile flusso di popolo che ha, per così dire,
sommerso la nostra città sotto una grande marea di cognomi.

Per quanto riguarda gli archivi delle Parrocchie, è noto che il Concilio di
Trento stabilì nel 1563, tra l’altro, l’istituzione dei registri parrocchiali
cioè che ogni parroco dovesse annotare in libri separati i battesimi e i
matrimoni, norma estesa poi anche ai morti con successive disposizioni
pontificie. Pertanto oggi è possibile rinvenire soltanto registri dalla se-
conda metà del secolo XVI, e per alcune parrocchie inadempienti, anche
più tardi; in seguito alla legge murattiana del 1808, quando tali registri
furono tenuti anche dai Comuni proprio per la nascita dell’Anagrafe
cittadina, le informazioni divennero via via più blande. Ciascun parroco,
poi, aveva anche l’obbligo di redigere un registro per i confirmati (cioè i
cresimati) ed uno Stato delle anime dei propri amministrati; per questi
ultimi registri né nell’Archivio Storico Diocesano né nelle parrocchie vi
è alcuna traccia, perché andati dispersi. Le parrocchie che conservano
i documenti più antichi sono, ovviamente, quelle di più remota istitu-
zione e, pertanto, di seguito indico le parrocchie a tutto il secolo XVII:
Cattedrale, Spirito Santo, San Matteo (Fratte), Santo Spirito (Quisisana),
Santissimo Salvatore (Scanzano), San Nicola (Mezzapietra), Sant’Eusta-
chio (Privati). Il fondo più cospicuo è costituito da quello della Cattedrale
che conserva la seguente documentazione: 33 tomi di Libri Baptizatorum
dal 5 agosto 1575 al 1861; 14 tomi di Libri Matrimoniorum dall’11 novem- 361
bre 1599 al 1861; 20 tomi di Libri Mortuorum dal 19 gennaio 1577 al 1861;
13 tomi di Libri dei Confirmati dal 13 ottobre 1658 al 1861.

Ho avuto l’autorizzazione dell’Archivio Storico per poter consultare le deli-


bere, i documenti, gli atti dei rapporti pubblici e privati dal 1513 al 1948.
In particolare, c’è il Fondo istituzionale, costituito da 4 diverse sezioni: 1)
Fascicoli, cioè dagli affari trattati correntemente dal Comune, articolata in
15 categorie, in relazione ai compiti istituzionali attribuiti ai vari uffici.
La documentazione complessiva, distribuita in circa 20.000 fascicoli,
copre l’arco di un secolo e mezzo, dal 1800 al 1948; 2) le Delibere Comunali,
costituite dai registri delle delibere comunali, Decurionali, di Giunta,
Commissariali, Podestarili e di Consiglio. La sotto serie più antica, cu-
stodita nel Fondo Museo, copre gli anni dal 1513 al 1550 ed è una fonte
insostituibile, se non unica, per la ricostruzione di quel periodo della
storia cittadina. La seconda sotto serie comprende le delibere comunali
dal 1722 al 1948; 3) i Conti Comunali che comprende molti volumi, dalla
metà del secolo XIX in poi. Ogni volume è articolato in modo da presen-
tare prima l’ordine o la delibera di pagamento ed anche la ratio della
spesa; segue sempre la ricevuta (fattura) del creditore. Risulta evidente
nella due pagine seguenti l’estremo interesse offerto da questa serie che, oltre a ricostruire aspetti
Salvatore Fergola “Vedu- minuti di vita cittadina, offre informazioni interessanti sull’onomastica
ta da Castellammare di
Stabia” (xix secolo) dei protagonisti stabiesi; 4) i Censimenti della Popolazione, documenti lacu-
© libero ricercatore

362
363
nosi pur conservando moltissimi fasci di schede di censimento. Ancora,
il Fondo Museo che è costituito da 4 sezioni: 1) Scritture d’Ayello in rife-
rimento alle scritture del notaio Vincenzo d’Ayello junior che, nel corso
della sua vita, raccolse quanto poté degli antichi documenti relativi alla
città distribuendoli in 20 volumi di affari civili e 4 di affari ecclesiastici.
Nel corso dei secoli i volumi ecclesiastici, più uno di indici, sono andati
dispersi, ad eccezione della seconda parte del quarto volume, attual-
mente conservato nell’Archivio Storico Diocesano. I volumi civili hanno,
per fortuna, subìto miglior sorte tanto è vero che oggi se ne conservano
ben 18. In generale tali scritture riguardano la nomina di diversi notai
(come Fiorillo Testa, Marino Buonocore, Tommaso Mangrella, Giovanni
Spenta), i libro dei conti della Città, il registro delle delibere comunali
dal 1513 al 1550, atti tra privati, atti dei vescovi stabiesi, il Catasto di
Castellammare dell’anno 1554, il Catasto dei terzieri (così erano chiamate le
frazioni di Quisisana, Fratte, Scanzano, Privati e Mezzapietra) dell’anno
364 1603, il registro dei Creditori Istromentarij della fedelissima Città di Castellam-
mare del 1617; 2) Debiti Istrumentari che comprende circa una ventina di
fascicoli che contengono atti dal XVI al XVIII secolo.

Nella prima meta del Settecento si manifestò l’esigenza, da parte dello


Stato, di controllare l’origine dei molti debiti contratti nei secoli dai
Comuni; pertanto fu inviato presso ogni amministrazione comunale un
attuario della Regia Camera della Sommaria con il compito di generare un
vero e proprio processo istruttorio circa l’origine dei vari debiti, nel timo-
re che tali oneri fossero stati artificiosamente creati allo scopo di favorire
determinate famiglie o enti. Pertanto gli interessati dovettero fornire la
cosiddetta probatio diabolica cioè esibire i titoli originari dei propri crediti.
Quindi ci sono agli atti dei documenti della prima metà del Cinquecento
con la causale del debito contratto. Attraverso questa documentazione,
apparentemente finanziaria, è stato possibile ricostruire moltissimi av-
venimenti che hanno avuto riferimenti onomastici utili per la storia dei
cognomi stabiesi: avvenimenti legati alla venuta di soldati in città, ai sac-
cheggi effettuati da pirati, alle costruzioni di chiese, alle riparazioni alle
fortificazioni ed altro; 3) Periodo Francese dove sono stati raccolti i residui
documenti della Repubblica Partenopea del 1799 e quelli del decennio
francese (1806-1815) poiché i governi restaurati provvidero alla sistema-
tica distruzione dei documenti prodotti in tali periodi. Per la Repubblica
Partenopea le unità d’archivio sono costituite da undici volumi di conti
comunali con l’ordine di pagamento intimato dall’autorità, con ampia
motivazione, e quietanza liberatoria. Invece, i documenti del Decennio
comprendono tutte le attività comunali legate al governo francese come,
ad esempio, le disposizioni sull’originazione dei cognomi per i trovatelli;
4) Atti Miscellanei che comprende una documentazione varia che non ha
trovato collocazione in altri fondi. Degno di nota è il Catasto Onciario dei
beni della città del 1801.

Poi, ho avuto la possibilità di accedere all’Archivio dell’Anagrafe della no-


stra città per poter consultare le registrazioni civili a partire da gennaio
del 1809, anno in cui fu istituito lo Stato Civile a Castellammare di Sta-
bia e fu resa obbligatoria la registrazione laica delle nascite, dei matri-
moni e delle morti. In particolare, conserva un fondo costituito da una
sezione preunitaria degli anni 1809-1865 e da una sezione post unitaria
degli anni 1866-1920; la sezione preunitaria comprende lo Stato Civile
napoleonico (1809-1815), lo Stato Civile del Regno di Napoli (1816-1860), 365
lo Stato Civile carloalbertino (1861-1865). Tutti i volumi sono conservati
in ottime condizioni rendendo facile la loro consultazione.

Quindi le fonti archivistiche civili di Castellammare di Stabia, utili per il


reperimento di dati significativi per la storia dei cognomi stabiesi, sono
stati i vari catasti che, per gli scopi istituzionali, abbondano di dati ono-
mastici dei sudditi, di provenienze geografiche, di mestieri, di rapporti
di parentela, di adozioni di trovatelli, di soprannomi; tali documenti
rappresentano una significativa fonte d’informazioni sulla storia eco-
nomica e sociale dell’Italia meridionale tra il Seicento ed il Settecento
tanto è vero che risultano essere tra i documenti maggiormente richiesti
e consultati dagli studiosi. In particolare, il Catasto Onciario fu uno stru-
mento teso ad eliminare i privilegi goduti dalle classi più abbienti che
facevano gravare i tributi fiscali sempre sulle classi più umili e, di fatto,
rappresentò uno dei più efficaci esempi di ripartizione proporzionale
del peso fiscale. I catasti stabiesi, ed altri atti amministrativi dell’epoca,
sono stati: Catasto di città del 1554, Catasto dei Terzieri del 1603, Catasto On-
ciario del 1753, Libro dei Conti della città del 1686, Atti decurionali dal 1722 al
1859, Città Catasto del 1684, Catasto Onciario del 1801, Catasto murattiano
del 1809, Catasto del Regno del 1888.

© wikipedia

366
Gli atti parrocchiali

Miniatura (xiv secolo) Gli atti parrocchiali rappresentano una sorgente inesauribile di infor- 367
che raffigura il sacra-
mento del Battesimo, mazioni legate all’onomastica e la consultazione di questi documenti
tratto da “Chroniques de
France ou de St. Denis”,
appare sicuramente molto più fruttuosa degli atti dello stato civile
conservato nel British perché coprono un periodo molto lungo tanto da poter rintracciare, se
Library di Londra
fortunati, atti fin dalla seconda metà del Quattrocento. Ogni singolo
documento rappresenta una raccolta di informazioni sia per gli antenati
protagonisti sia per le persone che li circondavano (per esempio, i padri-
ni ai battesimi oppure i testimoni ai matrimoni). Ufficialmente i parroci
erano obbligati a tenere ed aggiornare i Registri dei Battesimi e dei Matri-
moni a partire dall’entrata in vigore della risoluzione Tametsi durante la 24°
sessione del Concilio di Trento nel 1563, e quelli di Morte, delle Cresime e
gli Stati delle Anime con l’emanazione del Rituale romano nel 1614.

Non sempre la tenuta dei registri ha avuto inizio a partire da queste date
in quanto poteva variare da parrocchia a parrocchia. Purtroppo, nel cor-
so dei secoli, i motivi che hanno portato alla perdita o distruzione degli
archivi parrocchiali sono stati molteplici; gli incendi erano una delle
cause principali ma anche i bombardamenti, i terremoti o semplicemen-
te l’incuria degli stessi parroci. All’epoca la lingua usata era il latino ed
i registri parrocchiali erano costituiti da grossi libri con fogli bianchi
cuciti che, in rari casi, avevano appena l’accenno di qualche linea per
scrivere il testo perfettamente in orizzontale; erano pieni di abbrevia-
zioni per cui solo con la conoscenza e la pratica è possibile ricostruirne
© asc

368
Registro (xvii secolo) il senso. Questi registri spesso erano accompagnati da altri volumi che
con l’indice a rubrica dei
battezzati stabiesi contenevano gli indici dei nomi come una rubrica: riportavano il numero
progressivo dell’atto, il nome e cognome della persona, in qualche caso
la paternità, ed il numero di pagina corrispondente all’atto in questio-
ne. Fino alla fine del Settecento furono redatti solitamente in lingua
italiana su fogli prestampati e gli indici elencati in ordine alfabetico in
base all’iniziale del nome di battesimo, e non secondo quella del cognome;
solo a partire dall’inizio dell’Ottocento gli indici furono ordinati in base
al cognome. Pur avendo l’obbligo di tenere questi registri, i sacerdoti non
hanno mantenuto nel tempo un’uniformità nel redigere i vari atti; così
spesso si trovano metodi di registrazione diversi da parroco a parroco,
pur contenendo lo stesso tipo d’informazione.

369

© asc
Registrazione (1597) del Liber baptizatorum • Detto anche liber renatorum, conteneva l’anno, il
battesimo di una neonata
stabiese numero di pagina ed il numero progressivo a fianco del nome, la data di
battesimo, il nome ed il cognome del neonato, il nome del padre (e di suo
padre), il nome e cognome della madre (ed il nome di suo padre), la data
e l’ora di nascita, il nome del parroco, nome e cognome dei padrini (e dei
loro rispettivi padri) e la parrocchia dalla quale provenivano, se diversa
da quella dove il neonato era battezzato. In qualche caso era la stessa
ostetrica che amministrava il battesimo perché il bimbo era reputato
in pericolo di vita. A volte i padrini erano presenti in rappresentanza
di qualche nobile locale: la tendenza era quella di proteggere il figlio
assicurandogli padrini importanti in modo che, qualora fosse capitato
qualcosa ai legittimi genitori, ne prendessero cura. A partire dalla secon-
da metà dell’Ottocento sui registri erano annotati anche la professione
dei genitori e l’indirizzo cittadino.
370
© asc
Il “Liber matrimoniorum” Liber matrimoniorum • Riportava l’anno, il numero progressivo, la data
(1701) conservato
nella Cattedrale di del matrimonio ed il nome del parroco celebrante, le tre date obbligatorie
Castellammare di Stabia
di pubblicazione nei giorni festivi, i dati dello sposo, la sua professione,
la parrocchia di provenienza; per la sposa era annotato solo il nome, poi
anche il cognome, la paternità e maternità della sposa. Si scrivevano
anche informazioni, ricevute da parenti e vicini, raccolte dai preti per
accertare che gli sposi fossero fisicamente e psichicamente sani e non
avessero commesso alcun delitto come, ad esempio, essere già sposati
altrove. Già dal 1215 il papa Innocenzo III aveva proibito di contrarre
nozze tra parenti fino al quarto grado di consanguineità; ciò voleva dire
che se i due fidanzati avevano un trisavolo in comune dovevano chie-
dere un dispensa al vescovo con la celebrazione, durante la messa, del
cosiddetto bruciamento della parentela. Per tale motivo, molto importante
era l’eventuale annotazione di una possibile consanguineità degli sposi
stessi e il grado di tale legame; grazie infatti a questo tipo di annotazio-
ne era possibile risalire ad un eventuale antenato comune ad entrambi. 371
I testimoni erano annotati con i loro nomi e la loro paternità, la parroc-
chia dalla quale provenivano, se diversa da quella in cui si celebravano le
nozze. Nei tempi più remoti, come oggi, era consuetudine sposarsi nella
chiesa parrocchiale della sposa, salvo casi particolari concessi dal suo
parroco; le pubblicazioni matrimoniali, come quelle ancora in uso, erano
Registrazione di un
matrimonio (1658) affisse alla porta della chiesa generalmente nei tre giorni festivi prece-
conservato nell’Archivio denti il matrimonio; servivano per annunciare l’evento alla comunità e a
della Cattedrale di
Castellammare di Stabia coloro che, potenzialmente, avrebbero potuto opporsi.

© asc
© cpcs

372
Registro dei Legati Liber mortuorum • Tra i principali registri, era certamente quello che
della “Confraternita
del Purgatorio” (1935), conteneva il minor numero di informazioni utili; nei tempi più remoti
conservato nella
i defunti erano annotati sommariamente, in un elenco confuso, spesso
Chiesa del Gesù di
Castellammare di Stabia senza menzionarne nemmeno la paternità o l’età. Se il defunto era un
neonato o un lattante, si definiva infantulo e si usava la frase ad celum
evolavit per indicarne la morte. Nei registri si registrava l’anno, il numero
progressivo, il nome e cognome del defunto, la sua età, a volte la paterni-
tà ed in qualche caso la causa di morte, la data di morte, la data di sepol-
tura e l’indicazione dei sacramenti somministrati prima della morte.

Liber confirmatorum • Il registro dei cresimati riportava informazioni


molto stringate e conteneva la data della cerimonia, il nome del vescovo o
del sacerdote celebrante, nome, cognome e paternità del cresimato, nome
e cognome della madrina o padrino.

Status animarum • Era costituito da fascicoli di fogli legati assieme o 373


registri sui quali, annualmente e di solito in corrispondenza del periodo
quaresimale, venivano annotate tutte le persone presenti nella parroc-
chia, raggruppate per singole famiglie (dette all’epoca fuochi) e luogo di
abitazione. Purtroppo tali documenti sono andati dispersi nelle chiese
antiche della città; presentavano elenchi con la registrazione della fami-
glia al completo, con indicazione del rapporto di parentela, età e, più ra-
ramente, la professione del capofamiglia. Per ogni persona veniva anche
annotato, se ricevuto, il sacramento della Cresima e quello della Comu-
nione. Inoltre il parroco registrava se la persona si fosse confessata dato
che, solitamente, gli stati delle anime erano redatti in concomitanza del
giro di benedizione delle case, che si faceva in occasione della Pasqua.
Perciò, in questi documenti, i nomi delle persone si ritrovano seguite da
una, due o tre lettere C (Cresima, Comunione, Confessione).

Registro dei legati • Conteneva, con indicazioni stabilite mediante


testamento, l’obbligo per gli eredi del defunto di far celebrare messe in
suffragio della sua anima. Per alcuni anni consecutivi, a questo scopo,
la chiesa o il parroco designato ricevevano una certa quantità di denaro
o un pagamento in natura, solitamente sotto forma di cibo. Nel relativo
quaderno potevano essere elencati i nomi dei legatari, le cifre pagate e le
date delle celebrazioni.

© bnn

374
Gli stemmi delle famiglie

Stemmi delle famiglie Dopo il Mille cominciarono ad adottarsi i cognomi perché ciò che era 375
nobili del seggio di Nido
di Napoli (bnn) stato il frutto dell’ambizione e dello spirito aristocratico dei nobili guer-
rieri dell’epoca, fu sentito come un bisogno comune da tutte le altre clas-
si sociali. L’espansione demografica e l’urbanesimo contribuirono alla
moltiplicazione dei casali e, pertanto, fu necessario distinguerli; l’intro-
duzione dei cognomi in tutti gli ordini della società fu la naturale conse-
guenza per esplicitare, anche nel mondo civile, la varietà delle stirpi fra
le classi cittadine. Tuttavia tutti questi attributi familiari divennero veri
cognomi soltanto nel XIII secolo quando le famiglie nobili o i borghesi
più abbienti iniziarono a trasmettere il secondo nome di generazione
in generazione iure sanguinis, incastonandolo nei loro stemmi gentilizi.
Quindi il cognome, in un certo senso, ha svolto la stessa funzione degli
stemmi familiari che i nobili fecero scolpire o dipingere sulle facciate
delle case poste nelle zone urbane di loro massima influenza.

Nel passato i blasoni e le armi (cioè il complesso di tutte le figure, gli


emblemi, le pezze, gli smalti, i motti, gli ornamenti e i contrassegni
d’onore che attestavano la nobiltà di una famiglia) erano utilizzati per
l’uniforme dei guerrieri in battaglia; tali uniformi si arricchirono pro-
gressivamente di armature finché i combattenti risultarono protetti dalla
testa ai piedi. Poiché l’armatura metallica comprendeva anche l’elmo
per proteggere la testa, era pressoché impossibile distinguere un cava-
liere dall’altro. Per evitare equivoci sul campo di battaglia (con il rischio,
Lapide e stemma nobiliare magari, di ferire un amico), si rese necessario escogitare un sistema di
dello stabiese Dominico
Sicardo (1681) conservati identificazione dei combattenti. Dapprima si pensò ai colori tanto che
nella basilica di Pozzano
i cavalieri cominciarono a dipingerli, in modo coordinato, sul tessuto
a Castellammare di Stabia
degli indumenti indossati e sulle bardature dei cavalli. Poi anche una
forma geometrica o qualche animale simbolo di qualità umane come
l’ardimento e la passione. È significativo notare che negli stemmi non
compaiono le lettere dell’alfabeto perché l’araldica era un linguaggio per
analfabeti; doveva immediatamente comunicare il messaggio solo con
le immagini. Tali connotazioni costituivano un motivo d’orgoglio per i
vincitori e venivano esibite sui vessilli, insegne, divise e stemmi.

Perché solitamente gli stemmi hanno la forma di scudo? Perché sono


nati sugli scudi dei cavalieri che, in guerra o nel torneo, volevano essere
riconosciuti, chiusi nell’armatura che non permetteva di vedere la faccia.
Fu quindi una consuetudine legata al combattimento anche se poi co-
376 minciarono ad avere uno stemma anche personaggi del tutto pacifici.

Qualunque notaio nel Medioevo aveva il suo stemma, anche i papi, i ve-
scovi così come, oggigiorno, tutte le città hanno il proprio. Questi stemmi
hanno contraddistinto non soltanto i singoli ma anche i casati, le fami-
glie. All’inizio il cavaliere si faceva dipingere il suo simbolo sullo scudo;
poi diventò identificativo della famiglia perché andò di pari passo con
la nascita dei cognomi. Quando un nobile era, ad esempio, un Visconti o
uno Sforza, abituato a portare lo stesso cognome con tutti gli altri maschi
della famiglia, nacque l’idea che anche lo stemma dovesse essere uguale
per tutti. Quindi lo stemma diventò un’abitudine estesa agli altri ceti
della società; avere uno stemma equivaleva a sentirsi nobile.

Nel Basso Medioevo qualunque borghese arricchito, adottò uno stemma


spacciandosi per nobile. Preoccupati per questo andazzo, i re posero
rimedi; non si poteva concedere privilegi (tra cui l’esenzione dal pagare
le tasse) a chiunque ambisse a diventare nobile.

Si diffuse, pertanto, la procedura del consegnamento dello stemma; tutti


quelli che pretendevano di usare uno stemma dovevano presentarsi
presso un determinato ufficio e dimostrare di avere davvero tale diritto
di famiglia. Pur mancando tali prove, chiunque sborsava denaro pur di
poter esibire uno stemma che dava lustro alla propria famiglia.
377

© simone fontanella
© wikipedia

378
Xilografia su carta Man mano che nascevano nuovi motivi, si rese necessario registrare e
di Utagawa Kuniyoshi
raffigurante una scena depositare gli stemmi per tutelare i diritti d’autore ed evitare che più ca-
goliardica con samurai
valieri si avvalessero della stessa insegna. Si iniziò così a tenere appositi
del periodo Meiji
(1868-1912) registri, chiamati stemmari o armoriali, che conferivano a ciascun cavalie-
re il diritto d’uso esclusivo della rispettiva arma.

La disciplina che studia tali connotazioni si chiama araldica; parola de-


rivata da araldo cioè colui che, nel Medioevo, aveva il compito di registra-
re i blasoni in occasione di giostre e tornei, all’epoca molto diffusi. In tali
occasioni, ciascun combattente veniva presentato alla folla dall’araldo
che, dopo alcuni squilli di tromba, annunciava le gesta del cavaliere e ne
descriveva il blasone.

Successivamente, furono proprio gli araldi a introdurre la consuetudine


di registrare i blasoni negli armoriali per tutelarne i diritti di proprietà.
Gli stemmi sono un’invenzione occidentale; nel resto del mondo solo 379
il Giappone ha elaborato un sistema di stemmi simile al nostro per le
grandi famiglie dei samurai. Ciò perché il Giappone aveva una società
feudale molto simile alla nostra società del Medioevo.

L’araldica consente di studiare l’affascinante mondo medievale con i suoi


costumi e i suoi simboli e ci permette di fantasticare su come potesse es-
sere la vita dei nostri antenati. Per esprimere determinate caratteristiche,
aspetti particolari, fatti di importanza storica o aspirazioni personali, si
soleva far ricorso a simboli tratti dal linguaggio figurativo quali animali,
vegetali, elementi naturali o oggetti inanimati. Il capriolo, ad esempio,
era simbolo di protezione e veniva spesso dipinto sugli scudi per celebra-
re le gesta eroiche compiute dal cavaliere.

Alcuni blasoni si pongono anche come la trasposizione figurativa del


nome della persona; così, ad esempio, sul blasone della famiglia Marino
erano raffigurati delfini o pesci. L’arma può rivelare anche il mestiere
di una persona oppure esprimere caratteristiche meno tangibili quali
speranze, desideri ed aspirazioni dell’intestatario originario del blaso-
ne. Simbolo della speranza è un covone di grano, quello della gioia una
ghirlanda di fiori o una rosa rossa. Le croci e i simboli religiosi, invece,
indicano che la persona era molto credente, devota a qualche santo op-
pure che il cavaliere era reduce dalle Crociate.
Alcune famiglie hanno tramandate propri motti, frasi o sentenze attra-
verso i secoli; il motto poteva derivare da un antico grido di battaglia,
poteva esprimere pietà e speranza oppure commemorare un’azione o un
avvenimento passato.

Secondo le regole dell’araldica, solo ai primogeniti spettava il diritto di


portare lo stemma del proprio genitore; invece, i cadetti potevano uti-
lizzarlo solo a condizione di poter aggiungere, rispettando la tradizione
araldica detta spezzatura, nuovi e personali elementi così da distinguere
i diversi rami della stessa famiglia. Se il portatore di un’arma moriva
senza eredi maschi, la figlia poteva unire lo stemma del padre a quello
del marito, secondo la pratica detta bipartizione.

Lo studio degli stemmi ci permette di individuare, riconoscere e descri-


vere gli elementi grafici utilizzati, nel loro insieme, per identificare una
380 famiglia; per identificare una persona, invece, si usavano le armi. Per
esser più precisi, si può dire che gli stemmi hanno con le armi lo stesso
rapporto che i cognomi, presi come singole parole, hanno con le genera-
lità di una persona.

Il solo stemma consentiva di riferirsi a una famiglia ma occorrevano le


armi per identificare il singolo individuo dal momento che in esse sono
rappresentati anche gli elementi che indicano, ad esempio, gli eventuali
titoli di nobiltà della famiglia e della persona. A differenza di un cogno-
me, il cui uso è regolamentato dall’autorità pubblica e non può essere
arbitrario, oggigiorno l’uso di uno stemma non è più soggetto ad alcuna
normativa ufficiale, per cui chiunque può assumerne uno di proprio
gradimento senza dover richiedere o attendere alcuna autorizzazione.
Uno stemma ha due componenti: il campo e le figure. Il primo rappre-
senta lo scudo e può essere di un unico colore (detto scudo pieno) oppure
ripartito in aree distinte (le cosiddette partizioni) dei 7 colori utiliz-
zati (detti anche smalti araldici) che si dividono in 2 categorie: i metalli
rappresentati dall’oro e dall’argento, le tinture dal rosso, verde, azzurro,
nero e porpora. La maggior parte sono ornati da disegni (detti carichi)
che sono sempre molto stilizzati, talvolta in modo estremo, senza effetti
di tridimensionalità o di chiaroscuro (colore a tinta piatta, talvolta con
i contorni evidenziati da una linea). Le figure, invece, sono tutte quelle
forme che possono essere disegnate sul campo, in uno o più esemplari.
Le figure araldiche, a loro volta, si possono distinguere in figure (imma-
gini reali o inventate di persone, animali, vegetali, oggetti) e pezze (forme
geometriche elementari o complesse). Fra i carichi più rappresentati
troviamo la croce, il leone, l’aquila, il giglio.

Una pezza molto utilizzata fu il vaio, cioè una pelliccia (tessitura) costitu-
ita da un’alternanza di campanelle d’argento e d’azzurro, disposte in
allineamenti chiamati file; questi disegni traevano origine dall’uso di
decorare lo scudo con vere strisce di pelliccia animale e, tra queste, si im-
pose proprio il vaio, cioè uno scoiattolo petit-gris (Sciurus vulgaris varius)
originario della Russia dal ventre bianco ed il dorso grigio-azzurro.

Nella proporzione normale lo scudo è ricoperto da quattro file di campa-


© wikipedia

nelle; si dice vaio in palo quando le campanelle sono le une sotto le altre.
Le forme originali prevedono le campanelle d’azzurro con la punta in
Pelliccia composta con
alto, alternate con l’argento. Il disegno del vaio a campanelle è relativa- 381
strisce di vaio russo mente recente perché è stato preceduto da forme ondate (cioè ondulate),
definite anche vaio antico.

Tra le figure araldiche il leone, di solito, viene rappresentato in posizione


rampante, rivolto verso la sinistra dell’osservatore, con le quattro zampe
visibili e in modo da distinguere la lingua, gli artigli, la coda. Si par-
lerà di leone rivoltato per dire che insolitamente è rivolto verso la destra
dell’osservatore, di leone lampassato di rosso per quello che ha la lingua
colorata in rosso, di leone armato d’oro per gli artigli dorati, di leone coro-
nato per quello la cui testa è sovrastata da una corona, di leone passante
in posizione di cammino e non rampante, di leone bicipite per quello a
due teste, rivolte solitamente in direzione opposta.

Bozzetti preparatori degli


stemmi nobiliari
382

Stemmi delle famiglie no- Nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli, sita nel Palaz-
bili del regno di Napoli
zo Reale in piazza del Plebiscito, alla Sezione Manoscritti e Rari M.042 è
conservato uno stemmario seicentesco di autore ignoto. Alcuni scrittori
di storia locale e di araldica lo hanno consultato e spesso citato nelle loro
opere, qualche volta riportando anche immagini degli stemmi; infat-
ti erano presenti anche in bianco e nero nel libro Castellammare di
Stabia, Giovanni Celoro Parascandolo, tipografia Antonio Cortese,
Napoli, 1965. Nella raccolta del XVII secolo ci sono gli stemmi di più di
1.000 famiglie nobili del regno di Napoli; tra queste anche 24 di Ca-
stellammare e cioè: Afflitti, Castaldi, Certa, Sicardo, Napone, Rosania,
Riccio, Miro, Panno, De Avitaya, Plagese, De Nucera, Vergara, Comparato,
De Massa, De Rogatis, D’Apuczo, Marchese, Montanaro, Cannavacciuolo,
Coppola, Longobardo, Vaccaro, Suldano.

Questo stemmario manoscritto possiede diverse peculiarità: contiene


l’elenco delle famiglie dei 5 sedili nobili della città di Napoli, poi l’elenco
delle famiglie aristocratiche annoverate nei seggi di alcune importanti
città del regno di Napoli (tra cui la nostra Castellammare di Stabia),
infine la qualità pittorica degli stemmi delle famiglie che sono sempre
preceduti da quello della città di appartenenza. Nel 1861 con l’Unità d’I-
talia vennero abolite le attribuzioni a diversi seggi nobiliari e la Consulta
Araldica del Regno, nel riordino delle città già sedi di patriziato o nobiltà
civica, ritenne di non riconoscere la nobiltà ad alcune di esse, presenti
nel manoscritto, che sono nell’ordine: Brindisi, Capri, Caserta, Castel-
lammare di Stabia, Catanzaro, Cava, Chieti, Conversano, Eboli, Giffoni,
Gragnano, Ischia, Lanciano, Lecce, Manfredonia, Matera, Melfi, Molfetta,
Nardò, Nocera, Ostuni, Penne, Sessa, Stilo, Sulmona, Teano, Troia.

383

Stemmi delle famiglie no- Fra le città del Regno di Napoli riconosciute sede di patriziato, sono pre-
bili del regno di Napoli
senti nello stemmario: Napoli, Amalfi, Aversa, Aquila, Bari, Benevento,
Cosenza, Giovinazzo, Lucera, Pozzuoli, Ravello, Salerno, Scala, Sorrento,
Trani e Tropea. Invece, fra le città riconosciute sede di nobiltà civica, sono
presenti nello stemmario: Barletta, Bitonto, Capua, Crotone, Gaeta, Lette-
re, Monopoli, Nola, Reggio, Sanseverino, Taranto.
Lo stemmario delle famiglie nobili stabiesi

Come per altre città importanti del regno di Napoli, anche i blasoni delle
famiglie nobili stabiesi hanno attinto all’iconografia classica con simbo-
li, motivi e colori della grammatica araldica.

Gli Afflitti possedevano uno stemma con il vaio in palo, cioè le campa-
nelle d’azzurro su fondo argento disposte su quattro file, le une sotto le
altre; gli Afflitto, invece, vantavano sei file.

Lo stemma dei Castaldi recava, nel terzo superiore, due pesci che si incro-
ciano e, nei due terzi inferiori, fasce orizzontali ed oblique di color oro e
azzurro.

Quello della famiglia Certa una croce bianca partizionata su fondo az-
384 zurro e quattro stelle nei suoi intervalli.

Le famiglie Labierto e Lambierto (gli attuali Lamberto e Lamberti) possede-


vano stemmi simili: uno scudo con una fascia che separava due teste di
leoni e di gatto.

Quello della famiglia Iovene (gli attuali Iovino, Iovine e Iovieno) con i leoni
rossi che sorreggono un generico albero.

Lo stemma della famiglia Magrella era inquartato con coppie di leoni e


strisce oblique.

Per la famiglia Sicardo un leone rampante lampassato di rosso, cioè con


la lingua colorata in rosso, con tre rose rosse.

Lo stemma dei Rosania, molto simile a quello dei Sicardo, recava il leone
su fondo rosso e le rose argento.

Il cognome Napone presentava sette frecce argento, direzionate verso il


basso a sinistra, sullo sfondo azzurro.

Il blasone della famiglia Riccio presentava, nel terzo superiore, la raffigu-


razione del porcospino e, nei due terzi inferiori, il vaio antico.
Lo stemma degli Apvczo (Apuzzo ma anche Apozzo) presentava una tronca-
tura orizzontale; nella parte superiore un pozzo (da cui il nome) con due
uccelli mentre, nella parte inferiore, fasce oblique color argento e rosse.

385

Stemmi delle famiglie Seppur simile, lo stemma della famiglia D’Apvczo (anche D’Apuzzo) raffi-
nobili di Castellammare
di Stabia gurava due grifoni appoggiati al pozzo da cui fuoriusciva una croce.

Lo stemma dei Miro (anche De Miro) era troncato orizzontalmente: nella


parte superiore due torri con un giglio argento in mezzo mentre, nella
parte inferiore, un leone rampante azzurro su fondo argento.

Il cognome Panno recava un (presunto) pezzo di stoffa attraversato da


una striscia azzurra con tre gigli dorati.

Quello della famiglia De Avitaya presentava tre monti con inflorescenze


che si intrecciano.

nella due pagine seguenti La famiglia Plagese mostrava una palma sulle onde (l’etimologia della
Stemmi delle famiglie parola potrebbe indicare il significato di spiaggia), sorretta da due leoni
nobili di Castellammare
di Stabia rampanti e disposti uno di fronte all’altro.
© bnn

386
387

© bnn
Stemma della famiglia
nobile Longobardo di
Castellammare di Stabia

388

Molto simile era lo stemma della famiglia De Nvcera (anche De Nucera).

La famiglia Vergara era rappresentata da tre fiori e le strisce oblique.

Nello stemma dei Coparato (anche Comparato) i soliti due leoni lampassati
di rosso che sorreggevano una torre turrita, il tutto su fondo rosso.

La famiglia Motanaro (anche Montanaro) recava su fondo azzurro un cane


argento con un evidente collare rosso.
Lo stemma dei De Massa presentava una croce su fondo azzurro, una
fascia orizzontale e un leone all’interno di una fascia argentea disposta
ad angolo retto.
© raffaele fontanella

Quello della famiglia Suldano recava un fiore e un sole raggiante parzial-


mente nascosto.

La famiglia Lvognobardo (anche Longobardo) con un leone argento lampas-


sato di rosso che brandiva un grande ramo, il tutto su fondo azzurro.
Stemma nobiliare della
famiglia Giordano su una
lapide del 1825, conser- Lo stemma dei Marchese mostrava forme ondulate ad andamento vertica-
vata nella cattedrale di le, sormontate da una fascia obliqua argento con tre leoni rampanti rossi.
Castellammare di Stabia

Il blasone della famiglia De Rogati presentava un’aquila che, dall’alto, do-


minava il campo azzurro nel quale vivevano sei gigli dorati intramezzati
da un motivo geometrico. 389

Risultava immediatamente evidente lo stemma dei Vaccaro con una muc-


ca argento su fondo azzurro.

Quello della famiglia Quaranta mostrava coppie di leoni su fondo rosso e


campiture di argento.

Stesse cromie per quello dei Givrdano (anche Giordano) che presentava la
fascia orizzontale rossa con due conchiglie, un fiore e le onde del mare.

Il cognome Vitale presentava una fascia obliqua dorata che stava tra un
braccio con un compasso e una vipera di color argento.

Lo stemma dei Coppola mostrava due leoni lampassati di rosso che innal-
zavano una grande coppa (da cui il cognome).

Infine lo stemma dei Di Somma raffigurava due torri sul mare.



© wikipedia

390
Le identità dei trovatelli

Particolare dell’affresco La questione dell’infanzia abbandonata affonda le sue radici nella notte 391
di Domenico di Bartolo
“Accoglienza, educazione dei tempi. Si pensi che nell’antica Grecia era considerata una pratica
e matrimonio di una figlia
dello spedale” (1441)
legale mentre nella lunga storia di Roma si sono susseguiti diverse
conservato nel Pellegri- consuetudini per i neonati indesiderati. In un primo momento i bambini
naio di Santa Maria della
Scala di Siena malaticci, deformi oppure i figli arrivati in una famiglia già numerosa
venivano esposti (cioè abbandonati) sulla porta di casa, gettati nell’im-
mondizia se non, addirittura, direttamente asfissiati. Tali frequenti
infanticidi erano dovuti al bisogno di nascondere relazioni proibite o
alla povertà delle famiglie. Talvolta i problemi nascevano dal sesso del
neonato: la tendenza era di abbandonare prevalentemente le bambine,
data la condizione della donna impossibilitata a lavorare al di fuori della
propria casa e difficile da mantenere, soprattutto per le spese nuziali. Per
non ucciderli direttamente, i neonati cominciarono ad essere abbando-
nati per strada in posti poco visibili, lasciandoli morire di fame o riposti
dentro grandi giare per non essere sbranati dai cani randagi.

Per mitigare questa vera e propria strage, una possibilità si presentò ai


genitori che non intendevano riconoscere i propri figli: potevano lasciarli
alla cosiddetta columna lactaria, un luogo di ritrovo che aveva come rife-
rimento una colonna presso la quale si potevano portare i bambini per
essere nutriti con il latte di altre madri oppure adottati da donne che non
avevano figli; qui si potevano assumere balie, quando le madri naturali
non erano in grado o sceglievano di non allattare il neonato. Spesso il
bambino era raccolto dai mercanti di schiavi che, dopo averlo affidato a
una balia, lo vendevano appena era in grado di lavorare; in casi dispe-
rati, erano destinati alla pietà dei passanti, alla morte per fame o essere
immolati nei riti pagani a fini propiziatori. In effetti il termine esporre
venne usato per indicare l’abbandono e la rinunzia definitiva a qualsiasi
diritto su di lui. Col tempo le cose cambiarono e i genitori in difficoltà
© wikipedia

economiche non abbandonavano i figli ma li vendevano; i maschi per i


lavori dei campi e le femmine per la prostituzione. A queste pratiche si
opponeva la nascente dottrina cristiana che vedeva l’aborto e l’infan-
La Colonna Lactaria in
un’incisione medievale ticidio come peccati capitali tanto è vero che la condizione dei neonati
abbandonati poté cambiare anche grazie agli interventi sia dell’impera-
tore Costantino che, nel 315 dC, riservò parte del fisco al soccorso degli
abbandonati, sia di Giustiniano che, nel VI secolo, disciplinò l’abbando-
no come reato al pari dell’infanticidio.

392 Con la diffusione del Cristianesimo la cultura della morte si trasformò


in cultura della vita ed i bambini abbandonati vennero presi in cura
dalla stessa comunità; gli infanticidi vennero puniti con la morte dell’uc-
cisore. Intanto in Medio Oriente, come in Occidente, nascevano i primi
brefotrofi (dal greco brephotropheîon, composto da bréphos bambino e da
tréph nutro); nel VIII secolo a Milano fu istituito il primo ricovero per i
neonati abbandonati garantendo loro l’allattamento di nutrici stipendia-
te, vitto e alloggio fino al settimo anno di età. Ma con l’arrivo dei barbari
si ritornò alle eliminazioni cruente dei figli illegittimi; in questo periodo
si diffuse l’abitudine di depositare sui gradini delle chiese i neonati,
nella speranza che qualcuno potesse prendersene cura. Anche il mondo
civile regolamentò tali comportamenti: Federico II, nel XIII secolo, intro-
dusse la legge che proibiva la vendita delle femmine per la prostituzione.

La prima istituzione d’accoglienza nacque nel 1188 a Marsiglia in


Francia nell’ospedale gestito dai religiosi dell’Ordine di Santo Spirito
fondato dal Cavaliere degli Ospitalieri di Gerusalemme, Guy de Mont-
pellier, grazie alla sua esperienza in Terrasanta. Dieci anni dopo fu la
volta dell’Italia, dove si narra che papa Innocenzo III (Lotario dei conti
di Segni), impressionato dai tanti piccoli cadaveri (sicuramente abban-
donati da prostitute o da madri senza scrupoli) che venivano raccolti
dai pescatori nel Tevere, decise di costruire una struttura d’accoglienza
presso l’Archiospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma.
Il sito scelto nel 1198 fu un reparto dell’ospedale, già sorto nel VIII secolo
come centro di accoglienza dei pellegrini della comunità anglo-sassone
(Schola Saxorum, Saxia). Anche nel Regno di Napoli, a cominciare da
Carlo II d’Angiò (1254-1309) e poi dalla regina Giovanna II (1371-1435),
nacquero grandi brefotrofi per frenare l’infanticidio dilagante. Nel capo-
luogo si ebbe la Santa Casa dell’Annunziata, di cui si conservano migliaia
di documenti fino al XVII secolo; di pari dignità, e forse di più, fu la
Real Casa Santa Annunziata della Contea di Aversa, risalente allo stesso re
Carlo II ma costruita col contributo popolare e dei notabili aversani, allo
scopo di accogliere orfani, esposti, infermi e curarli, nutrirli, dando loro
una dignità. Il primo fondatore di un ospizio riservato esclusivamente
ad accogliere bambini abbandonati spetta al cittadino sangiminianese
Chiaro di Ubaldo Palmieri nel 1315; era l’Ospedale della Scala che si occu-
po’ anche di assistenza ai viandanti e ai pellegrini. Poco dopo, a Venezia
(Ospedale della Pietà) e in altre città italiane, si istituirono luoghi di
assistenza e, prima del Quattrocento, generalmente in ogni città vi era 393
un ospedale che si occupava anche degli esposti; ma è a Firenze che, nel
I putti di Andrea Della 1419, fu deciso di erigere un grande ospizio destinato esclusivamente
Robbia (xv secolo) allo agli esposti e nel 1445 lo Spedale degli Innocenti iniziò la sua attività dive-
“Spedale degli Innocenti”
di Firenze nendo un centro di rilievo europeo.

© wikipedia
Lapide presso l’Ospedale
della Pietà di Venezia
(1548)

© wikipedia

394
Diffuse forme di assistenza si avviarono tra il XVI e il XVII secolo.
Progressivamente si passò alla pratica detta oblazione, che consisteva nel
lasciare in dono i propri figli nei conventi; questa pratica fu utilizzata
diffusamente nel Settecento e in tutta la prima metà dell’Ottocento.

Le istituzioni religiose avevano adottato il sistema della ruota (o rota) per


dare la possibilità ai genitori di praticare l’abbandono restando anonimi.
L’abbandono avveniva generalmente nelle prossimità di una ruota gire-
vole, un meccanismo a forma di tamburo cavo di legno, dove si poteva
adagiare il bambino; di solito, era sistemata nascosta in un lato isolato
dell’edificio oppure a vista sulla strada al passaggio pubblico. La si faceva
ruotare con una breve spinta in modo da portare il bambino dentro
l’edificio senza essere visti dall’interno; c’era anche una campanella che,
al girare della ruota, avvisava l’addetta interna della presenza di un bam-
bino. La guardiana di turno era chiamata rotera o pia ricevitrice; di solito
era una laica (spesso una suora) che prestava i primi soccorsi salvando
da morte sicura tutti i bambini che la Chiesa definiva figli della colpa. In
effetti, erano figli non desiderati provenienti sia da famiglie normali, inca-
paci di provvedere al sostentamento, sia da incesto con padri e fratelli
incoscienti e senza scrupoli; oppure da fanciulle sventurate, analfabete,
ingannate da promesse di matrimonio o ricattate dai datori di lavoro ma,
di solito, anche da ragazze con disturbi mentali, deboli e indifese.
Una volta giunti all’istituto, i bambini abbandonati venivano preventi-
vamente registrati e in molti brefotrofi vi era l’abitudine, poco ortodossa,
di marchiare a fuoco o tatuare gli esposti per tutta la vita, per affermare
l’appartenenza alla nuova famiglia.

A Venezia era consuetudine la lettera P di pietà sul tallone, a Siena con


una scaletta, a Roma sulla spalla con una croce a doppio braccio dell’Ordine
di Santo Spirito. La Reale Casa dell’Annunziata di Napoli è stato l’unico
brefotrofio ad usare una medaglia, nel rispetto della persona; in par-
ticolare si metteva al collo un cordoncino con medaglietta detto merco,
termine derivato dalla marchiatura a fuoco del bestiame. Quest’ultimo si
realizzava con un torchio che numerava e sigillava definitivamente due
placche di piombo; su di esse si imprimevano, da un lato, l’immagine
dell’Annunziata e, dall’altro, il numero di matricola che era costituita
dalla lettera dell’anno in cui era arrivato il trovatello e dal numero pro-
gressivo di entrata. 395

Nell’Ottocento al piombo fu sostituita una medaglia, prima in ottone,


poi in metalli più nobili. Il merco era la dimostrazione vivente che il por-
© wikipedia

tatore era un esposto dell’Annunziata e che godeva dei benefici connessi a


questo status; non doveva mai esser tolto finché non si lasciava definiti-
Fronte e retro del merco vamente la Casa, cioè per rientrare in famiglia o per essere adottati. Le
di un esposto del 1956
ragazze se ne disfacevano appena prima delle nozze; poiché nei secoli
XVIII e XIX si immettevano anche bambini riconosciuti dai genitori, per
costoro le medagliette erano in rame e riportavano due lineette al di so-
pra del numero di matricola per indicare che si trattava di figli legittimi
anche se, comunque, abbandonati. Successivamente vennero annotati nei
Libri Maggiori a notte per registrare il pagamento delle mesate destinate
alle nutrici che allevavano i bambini fino a 3 anni e, poi, nei Libri Mag-
giori a mese per il pagamento delle mesate a quelle che li allevavano fino
a 6 o 8 anni. Per poter ricevere i pagamenti, le balie dovevano mostrare i
bambini con il merco attaccato al collo senza alcuna manomissione nel
piombo o nel laccio.

Dal Regolamento del 1739, all’articolo 8 si legge: (…) Perché si trova intro-
nella due pagine seguenti
La “ruota degli Esposti” dotto il detestabile abuso di rompersi il merco pendente dal collo degli esposti e
della chiesa dell’Annun- particolarmente dopo che sono usciti di paga, perciocché allora non ricevendo
ziata di Napoli con i due
fori per l’ispezione visiva le madri di allievo le mesate, non sono in obbligo di condurle alla Ruota, per
396
© giuseppe zingone
397
osservarsi dal magnifico ufficiale che ne ha il peso se sono gli esposti mercati
per farne il pagamento e dal detto abuso n’è derivato danno e pregiudicio alla
nostra Real Casa Santa, essendosi molte volte pagato non già per gli espositi ma
per li supposti somministrandosi le mesate per bambini morti e le doti a figliuole
che non erano della Casa, o se lo erano, non erano vergini facendo comparire
una persona per un’altra; li quali inconvenienti sebbene abbiano mosso il zelo
e l’attenzione dei signori Governatori nostri predecessori in vari tempi a fare
più e diverse determinazioni ed ordinazioni, ha niente di manco la esperienza
dimostrato che i rimedi niente han profittato, perciocché non si sono applicati a
svellere la radice del male. Per conseguir questo effetto han considerato che l’uni-
co e solo rimedio sarebbe stato quello di bollare gli esposti sopra le carni… Questo
espediente però fu reputato pericoloso per gli esposti… e persuadente con l’andar
del tempo la memoria non fu più introdotto.

Dall’istituto i bambini venivano prelevati e, per prassi, affidati a una


398 balia esterna, possibilmente a cittadine appartenenti alle comunità delle
vicinanze ritenute più salubri; venivano affidati spesso ad una donna
che aveva appena perso un neonato. Finito l’allattamento, erano man-
dati negli orfanotrofi; questi ultimi tentavano di far adottare i bambini,
Quadro di Gioacchino
Toma “La guardia alla
ruota dei trovatelli”
(1877) conservato nella
Galleria Nazionale d’Ar-
te Moderna di Roma
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Lo stemma “Ave Gratia
Plena” sulla grata del
cancello della Real Casa
dell’Annunziata di Napoli
e una medaglietta spezza-
ta in dote all’esposto

© raffaele fontanella

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specie nelle campagne. A quei tempi la mortalità infantile era elevatissi-
ma a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie e i trovatelli che
riuscivano a superare le grosse difficoltà dovute all’allattamento e alle
malattie infantili erano quasi sempre condannati a essere degli emargi-
nati sociali, soprattutto i maschi; la maggior parte delle femmine, invece,
grazie alla dote fornita dai conventi o dalle varie Opere Pie, potevano 399
sposarsi o rimanere in convento. Poi, allo scadere del 12° anno di alle-
vamento, il brefotrofio ritirava gli esposti: senza alcuna deroga nel caso
delle femmine, destinate alla vita matrimoniale o avviate a diventare
monache; con notevoli ritardi, sino al 16° anno ed oltre, e molte deroghe
nel caso dei maschi.

Numerose furono le famiglie stabiesi, particolarmente nella seconda


metà dell’Ottocento, che allevarono presso di loro bambini abbandonati,
attratte, almeno inizialmente, dal sussidio mensile che il brefotrofio
dava a quelle madri che si preoccupavano di allattarli.

Negli Stati delle Anime, cioè gli elenchi nominativi della popolazione
residente all’interno dei confini della parrocchia, sono registrati molti
casi di proietti presi a baliatico e adottati de facto da vari nuclei familiari
i quali, conservando il cognome imposto dal brefotrofio, andarono così
a costituire i capostipiti di numerose famiglie stabiesi dei nostri giorni.
Solo i fortunati potevano essere ripresi dai genitori, una volta superate le
difficoltà economiche. Ciò era possibile se il bambino veniva abbando-
nato con un oggetto che ne rendesse certa la riconoscibilità: una moneta,
una medaglietta, dei nastri colorati ai polsi o alle caviglie, un biglietto
con il nome dei genitori oppure la metà di un santino o di una meda-
glietta per dimostrare, con l’altra parte detenuta dalla madre, il legame di
La ruota degli esposti (xv sangue. Ma molto frequente era l’abbandono vero e proprio, senza segni
secolo) allo “Spedale de-
gli Innocenti” di Firenze di riconoscimento, quasi ad attestare una precisa volontà di rifiuto, ri-
flesso di un malinteso senso di colpa o conseguenza di un radicale stato
di disperazione o indigenza.

Il trovatelli in Italia sono stati per secoli nominati assegnando loro


solamente il nome di battesimo a cui si aggiungeva, di consuetudine, un
appellativo (non ancora definibile come un cognome) eguale per tutti e
indicante la comune esperienza di brefotrofio come expositus a Napoli,
projectus a Roma, venturinus in Piemonte, columbus a Milano, trovatus in
Sicilia. Infatti nel linguaggio notarile legato all’adozione o all’affida-
mento era sempre indicato, in latino, il nome del bambino esposto a favo-
re del quale era rogato l’atto, come ad esempio: adeptio in filium pro Petro
exposito oppure promissio pro Catarinella exposita Annuntiate. Da notare
come in questi due esempi le parole exposito o exposita appaiano in mi-
400 nuscolo perché indicavano un semplice aggettivo qualificativo (cioè un
nome aggiunto al nome di battesimo, al pari di un soprannome per tutte le
persone), ancora lontano dal divenire un cognome stabile da scrivere con
la maiuscola, come nella consuetudine contemporanea.

Se il nome di battesimo non generava grandi problemi, perché deter-


minato a caso o indicato dalla madre su qualche traccia nel momento
dell’abbandono, l’attribuzione del cognome era scontata ed inevitabile
perché agli abbandonati si imponevano sempre denominazioni conven-
zionali con varianti da città a città.

A Napoli era diffusamente utilizzato il cognome Esposito che deriva-


va dalla condizione di esposto (abbandonato) con le varianti Sposito,
Esposìto, Esposto, Esposti, Degli Esposti; il termine expositus in latino è
participio e aggettivo, derivato dal verbo exponere che, in una delle sue
varie accezioni, significa proprio abbandonare. Il cognome Esposito
veniva assegnato ai bambini abbandonati presso la Ruota degli Esposti
della basilica Santissima Annunziata Maggiore di Napoli, storico orfa-
notrofio religioso di Napoli che per anni ha raccolto migliaia di bambini
nati da parti illegittimi o pur legittimi ma abbandonati per vergogna o
per indigenza. Questa struttura fu fondata nel 1318, patrocinata dalla
congregazione della Santissima Annunziata, ed era dedicata alla cura
dell’infanzia abbandonata; nel 1343 la regina Sancha d’Aragona, moglie
401

© wikipedia
di Roberto d’Angiò, provvide a dotare la congregazione di sovvenzioni
reali attribuendole la veste giuridica di Real Casa dell’Annunziata di Napoli.
Questa istituzione fu così legata all’accoglienza e alla cura dei trovatelli
che la ruota degli esposti (detta in latino rota projecti) fu detta, popolarmen-
te, la ruota dell’Annunziata. La chiesa ha subìto rifacimenti nel XVI secolo
in forme rinascimentali e nel XVIII secolo, dopo un incendio, da Luigi e
Carlo Vanvitelli. All’esterno, al di sopra della ruota, vi era un puttino di
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marmo con la scritta: O padre e madre che qui ne gettate / alle vostre limosine
siamo raccomandati ed anche una feritoia nel muro, una specie di buca
Il foro dove era possibile
delle lettere, dove introdurre eventuali offerte in denaro o piccoli oggetti
introdurre le elemosine preziosi per contribuire alla cura degli esposti stessi. Gli ospiti dell’isti-
per i trovatelli
tuzione venivano chiamati figli della Madonna oppure figli d’a Nunziata e
godevano di particolari privilegi.

L’attività della ruota napoletana conobbe una sola interruzione in corri-


402 spondenza del decennio francese. Dal suo archivio storico è stato indivi-
duato il primo bambino (di cui si ha prova scritta) a cui il primo gennaio
1623 fu assegnato l’appellativo di puer expositus e si chiamava Fabrizio: A
primo di gennaro 1623, domenica. Numero 1. Fabritio, de anni due, venuto qua
co’ cartella quale dice Fabritio gettato all’Annuntiata de Napoli, ad hore tre et
media, et è batizato Fabrizio di Bononato. Faccia tonda, naso accorciato, occhi
nigri, fronte giusto et capelli castagnoli; vestito con cammisella, uno gipponcello
a’ fiocchitelli, una straccia di panno nigro et una lenza de cocitrigno (un tessuto
dell’epoca) per fascia; di numero 1, scritto in libro T de notte, numero 378.

Registrazione del primo


esposto (1623) alla Real
Casa dell’Annunziata di
Napoli
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Come si evince da questa testimonianza, il rotaro registrava minuziosa-
mente tutte le informazioni utili al riconoscimento dell’esposto; quanto
ai tratti somatici la faccia poteva essere chiatta, cioè paffuta, tonda, minuta,
minutella; il naso accorciato, chiatto, affilato; gli occhi negri, torchini, bianchi;
la fronte giusta, grande, bassa; infine, i capelli castagnoli, nigri, biondi. Anche
nella descrizione del vestiario non si tralascia alcun dettaglio, elencando
i singoli capi di abbigliamento indossati dall’esposto al momento dell’ab-
bandono. Solitamente il bambino indossava tessuti poveri: involtato con
un panno o straccio de lana, in un pezzo di coperta oppure in fascia de tela. A
volte con il capo coperto da una coppolella lavorata o vestito con camisa; in
alcuni casi, infine, il rotaro registrava la presenza di piccoli oggetti appe-
si al collo del bambino oppure annotava i nomi dei genitori dell’esposto,
indicati nella cartula, laddove presente.

A Roma, durante il papato, nel brefotrofio di Santo Spirito era comune


chiamare i trovatelli con il termine proietti, participio e aggettivo derivato 403
dal verbo proicio, is, proieci, proiectum, proicere che ha una doppia interpre-
tazione: da un lato significherebbe proiettato verso una nuova vita mentre,
dall’altro, equivale a gettar via, abbandonare. A Firenze e in Toscana,
invece, dove l’istituzione per l’infanzia abbandonata fu per secoli lo
Spedale di Santa Maria degli Innocenti, gli esposti ebbero tutti il cognome
di Innocenti nelle sue varianti di Innocente, Degli Innocenti o Nocenti
da cui i derivati Nocentini, Nocentino ma anche Gettatelli e Bastardi;
Innocenti era un nome benaugurante per il trovatello, quasi a volerlo
scagionare delle colpe dei suoi genitori. A Genova venivano usati i cogno-
mi Casagrande, Della Casa, Dellacasagrande mentre in Emilia Romagna
Registrazione dell’Archi- erano composti con casa (ca-) come per Cadei o Cadeo, rispetto al più tra-
vio Storico di Castel-
lammare di Stabia (1819) sparente Casadei, il cui significato è casa di Dio; specifico emiliano, della
nel quale l’esposto è un
“maschio avvolto in lace- zona che va dal reggiano al modenese, è anche il cognome Incerti, dalla
ri panni, che sembra nato forma latina medioevale Incertis Patris, con il significato di padre ignoto.
da circa tre giorni e senza
segno alcuno” A Milano, invece, l’istituto che si occupava dell’infanzia abbandonata
© ascs
© raffaele fontanella

404
Statua di Gioacchino era l’ospizio di Santa Caterina della Ruota, annesso all’antico complesso
Murat (1808-1815) sulla
facciata del Palazzo dell’ospedale sforzesco, che aveva come simbolo una colomba (e colombìt
Reale di Napoli
erano chiamati gli addetti all’ospedale e all’ospizio, per la colomba che
portavano come distintivo sulla giacca); perciò qui i trovatelli vennero
cognominati molto frequentemente come Colombo e Colombini. Per lo
stesso motivo a Pavia, ad esempio, gli esposti vennero chiamati spesso
Giorgi mentre a Siena furono denominati Della Scala: si rafforzava così
il legame filiale che legava il bambino abbandonato all’istituto che l’ave-
va accolto per cui il giovane assistito traeva dal padre putativo il proprio
cognome. In Sicilia si usava il cognome Ignoto o Trovato, dal significato
facilmente intuitivo.

Gli strascichi egualitari della Rivoluzione Francese del 1789 e l’emerge-


re, agli inizi dell’Ottocento, di una sensibilità illuministica tesa ad una
generale riabilitazione dei figli illegittimi, fece avvertire l’esigenza di
limitare (o di eliminare) l’esplicita trasparenza dei loro cognomi; lo scopo 405
era di non far gravare sul bambino la marginalizzazione sociale derivan-
te da una facile rintracciabilità della loro misera origine. A quei tempi era
un motivo di vergogna l’essere identificati come trovatelli e, pertanto, si
auspicava che ai bambini non fosse mai più imposto la solita etichetta
caricando così gli amministratori degli istituti di accoglienza dell’inso-
lito compito di stabilire nuovi modi di originazione dei cognomi degli
abbandonati. Fu allora che Gioacchino Murat, considerando quel cogno-
me come un marchio infamante, dispose che i bambini abbandonati non
fossero più chiamati Esposito ma che tutti quelli lasciati nella ruota in un
certo giorno ricevessero un nome di fantasia.

In Italia il primo atto ufficiale concepito in tal senso fu emanato nel re-
gno di Napoli nel 1811; tale disposizione fu introdotta in concomitanza
dell’istituzione dello Stato Civile. In particolare il decreto di Gioacchino
Murat recitava: Considerando che l’antica usanza in alcune Province del regno
di distinguere i proietti col cognome di espositi, lascia una macchia che impedisce
talvolta i vantaggi che potrebbero avere nello Stato Civile. Considerando che non
è consentaneo alla ragione che tali individui soffrano danno per motivi a loro
non imputabili, sul rapporto del nostro Ministro dell’interno, abbiamo decretato
e decretiamo quanto segue: Art.1- Tutti i fanciulli esposti porteranno da ora
innanzi un cognome che verrà loro imposto da coloro che a norma del nostro
decreto del 10 maggio 1810 sono incaricati della tutela dei medesimi.
Bollettino delle leggi del Art.2- I cognomi imposti saranno scritti nei registri dello Stato Civile nell’adem-
Regno d’Italia del 1813
pirsi all’atto di nascita prescritto dal codice Napoleone. Pertanto, dal primo ago-
sto 1811 si iniziò a imporre agli esposti cognomi a caso (raramente quello della
madre), ufficialmente indicati dal Governatore incaricato alla tutela degli esposti.

Chiaramente questi propositi umanitari non erano disgiunti dall’esigen-


za generica, individuata dal filosofo inglese Jeremy Bentham, di evitare
che la polizia potesse confondersi nell’identificare le persone pericolose
da quelle per bene.

Dopo la Restaurazione del 1815, nel Regno delle Due Sicilie e special-
mente nel Napoletano tra il 1820 e il 1836, molti Esposito ottennero il
cambiamento del cognome in un altro che non denunciasse la propria
origine come Assante, Garofalo, Giangrande, Martone, Pepe, Santoro,
Vitolo ma anche patronimici come De Luca, De Felice, De Pietro, De
406 Nicola. Gli stati della Restaurazione, e poi quelli dell’Italia unita, hanno
proseguito ad applicare le volontà dei decreti napoleonici vietando sia
i cognomi derivati dai nomi degli istituti di accoglienza sia gli altri
parimenti riconoscibili e offensivi. Il provvedimento intendeva annul-
lare i più marcati inconvenienti del precedente sistema ma creava anche
un’inevitabile confusione tra individui provvisti dello stesso cognome;
infatti gli istituti dovevano distinguere i molti casi di omonimia quando,
in un solo giorno, ricevevano una decina di bambini a cui corrispondere
lo stesso cognome Esposito (e spesso aventi anche lo stesso nome).

Il decreto napoletano fu una delle fonti di ispirazione da cui trasse


ispirazione nel 1813 un analogo provvedimento voluto dal vicerè d’Italia
Eugenio di Beauharnais che imponeva l’obbligo del cognome a tutti
gli abitanti del Regno d’Italia; tale ordinanza non faceva però esplicito
riferimento ai bambini abbandonati, per cui nelle regioni settentrionali
della Penisola solo la successiva circolare imperiale del 29 novembre
1825 impose la regola secondo cui ogni trovatello avrebbe dovuto ricevere
un cognome individualizzato.

In Toscana il nuovo sistema venne definito in maniera sistematica solo


con il decreto granducale del 13 luglio 1817; si impose che ai trovatelli
non venissero più assegnati cognomi che potessero indicare il loro stato
di esposto e che non fossero né indecenti, né ridicoli. Specialmente a Siena si
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407
abbandonò così l’uso di dare loro il consuetudinario cognome Della Scala
e iniziarono ad essere contraddistinti, il più delle volte, da un nome e da
un cognome che iniziava con la stessa lettera dell’alfabeto. Da allora, per
le istituzioni finalizzate all’accoglimento e all’assistenza dei trovatelli
si pose un nuovo problema: quello di inventare per ognuno di loro un
cognome di fantasia. Di fronte ad una tale mole di ingressi, il personale
addetto dovette necessariamente dotarsi di un vero e proprio metodo
per inventare e attribuire i cognomi al fine di poter registrare i bambi-
ni; serviva inoltre un codice che permettesse di poter risalire al giorno
dell’abbandono. Occorreva, in ogni caso, trovare un cognome che nessun
altro portasse per evitare che, in futuro, l’esposto si presentasse davanti
ad un soggetto con lo stesso cognome chiedendogli conto di una paterni-
tà rifiutata: ciò diventava fondamentale nel caso di figli illegittimi. Tutto
ciò comportò che i cognomi vennero attribuiti a tavolino e adeguati per
ciascun bambino in relazione alle caratteristiche fisiche, alle sue origini
408 sociali o geografiche, al periodo dell’anno o altre stramberie come un ri-
chiamo a fatti storici o di cronaca del momento; gli organi preposti a tale
compito (parroci, responsabili degli orfanotrofi e funzionari comunali) si
trovarono nella necessità di dover inventare cognomi insospettabili che,
non poche volte, hanno sortito l’effetto contrario oltre a risultare troppo
poetici, bizzarri e improbabili. Molti di questi cognomi attribuiti d’uffi-
cio divennero ereditari e sono sopravvissuti fino a noi.

Inventare un cognome di fantasia per ogni trovatello costituiva la rap-


presentazione dell’immaginario, della mentalità e degli accadimenti
all’epoca della sua attribuzione. Insomma questa operazione creativa fu
il frutto di pura e casuale estrosità denominativa; è molto probabile che
la cultura liceale classica dei parroci e degli ufficiali di Stato Civile abbia
partorito nomi aulici, mitologici o semplicemente strani. In molti casi
questa scelta volle prefigurare possibili destini di vita oppure, in altri
casi, evocare un clamoroso fatto di cronaca o un preciso evento storico.

Spesso gli inventori si ispiravano ai Santi del giorno della registrazione


con cognomi come Gennari, Santamaria, Antonini, Giuseppi, Sangrato;
poi, cognomi che ricordano Dio, Gesù e Maria come Madonna, Gesu-
mio, Mariano, Diotiallevi, Amodio. Non mancano cognomi relativi a
feste patronali, religiose oppure agli eventi del calendario liturgico che
ricorrevano nel giorno del ritrovamento per cui abbiamo trovatelli che
si chiamarono Valentino Carnasciale (registrato il 14 febbraio 1469) ma
anche Ulivo, Uliva, Ulivetta, Pasquale, Pasqualino (se abbandonati a Pa-
squa), Natale, Natalino, Silvestro (se lasciati a Natale) oppure Befanìa (re-
gistrato all’Epifania). Altri sistemi creativi furono legati al momento del
ritrovamento del bambino (come l’ora del giorno, il giorno della settima-
na, il giorno del mese, il mese dell’anno, la stagione, la festività); rispetti-
vamente: Bonora, Meriggi, Tramontin, De Luna, Della Chiara, Giornetta,
Sabbatino, Del Sabato, Domenicali, Dominici, Domenichini, Menico,
Necha (questi due ultimi legati all’alterazione del nome Domenico o
Domenica), Cinque, Tredici, Sedici, Quaranta, Quinto, Sisto, Gennari, Di
Marzo, Marzolino, Aprile, Di Maggio, Maggioni, De Julii, Lugli, Agosti,
Agostini, Augusti, Settembrini, Dell’Anno, Bonanno, Inverni, Invernizzi,
Primavera, Santoro, Annunziata, Rosario, Festa. Invece Fortunato, Felice,
Speranza, Salvato, Deodato erano nomi di buon auspicio. Non manca-
vano, poi, nomi particolari e Basilico, Zuccone, Tradita (dai genitori?) ne
sono un esempio. S’inventarono anche cognomi da ricondurre ai carat- 409
teri somatici e caratteriali dell’abbandonato; pertanto fu dato il cognome
Maschio, Mascolo, Femmina, Mancino, Alto, Basso, Grande, Scura, Ro-
busto, Ridenti, Amabile, Terribile, Pacifico, Fastidio, Digiuni, Immobile,
Identici (forse riferito a gemelli), Pietosi, Placido, Allegro, Giusti, Pietosi,
Chiatto, Giocondo, Smilzo, Enorme, Delicata, Lieta, Olivastra, Rosato,
Naso, Ciglio, Gola, Grido, Piede, Gigante. Altri riferiti alle condizioni
sociali come Modesti, Poveri, Ricchi, Agiati; ancora, si andava dai nomi
di frutta e cibo (Susina, Sorbo, Focaccia, Pera, Ovo, Oliva) ai fenomeni
climatici del periodo dell’abbandono (Vento, Tuono, Neve, Natale).

È quindi molto probabile che i cognomi dei trovatelli si siano formati


da elementi lessicali o espressioni la cui semantica è eloquente, cioè
dichiara la condizione di nascita sia in modo esplicito che implicito.
Il modo esplicito poteva essere diretto, con appellativi che alludevano
all’abbandono o ad una nascita illegittima (come, ad esempio, i già citati
Esposito, Proietti ma anche Orfano, Trovati, Ignoti, Incerti, Incogniti,
Portati, Venuti, Disgraziati, Abbandonati, Ostacolo, Bastardo, Bastardi,
Dell’Incerti, D’Ignoto, D’Ignoti, D’Incerti, D’Incerto, D’Incertopadre,
Ignoto, Ignoti, Incerto, Incerti, Incertopadre, Parentignoti, Spurio, Spuri,
Vago, Mainati, Soccorsi, Lasciati, Ventura, Venturini, Fallaci, Donati,
Inciampi, Inutile, Vianello, Manca, Avanzi, Vanzetti, Amari) o indiretto,
per lo più attraverso la pietà pubblica o religiosa con la denominazione
dell’orfanotrofio (come Abbondio, Del Pio Luogo, Pionato, Rota, Rodari,
Rotelli, Girardengo, Barilla, Mangano, Bottai, Tornelli, De Bortoli, Della
Pietà, Laudadio, Pregadio, Casagrande, Annunziata, Innocenti, Colombo,
Rondinelli, Palumbo, Palombelli, Tortora, De Angeli); ma anche le forme
composte con ca(sa) come Cadèi, Cadèo nonché il più trasparente Casadèi
cioè casa di Dio, in forma latineggiante, per evocare orfanotrofi religiosi.

Il riferimento poteva indicare, invece, il luogo probabile della nascita o


del ritrovamento (come ad esempio Piazza, Chiesa, Campanile, Ponti,
Aponte, Fontana, Pozzo, Riva, Fiume, Collina, Montagna, Costa, Canali,
Strada, Campo, Sacrestia, Scala, Valle). Il modo implicito, invece, espri-
mendo (con formazioni cognominali di tipo teoforico) l’affidamento a
Dio: Benvenuti, Diotaiuti, Deodato, Amen, Amodio, Angeli, Cherubini,
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Di Dio, De Santis, Benedetto, Eco (acronimo derivato dalla formula


gratulatoria Ex Coelis Oblatus, cioè donato dal cielo), Diotallevi, Deus
410 Il cognome di Umberto Scit, Deuscit, Diolosà (questi ultimi tre probabilmente riferiti a figlio di
Eco deriva da un acroni-
mo gratulatorio padre ignoto), Paternostro, Paternoster, Pionati, Sperindio, Madonna,
Gesumio, Laudadio, Laudando, Servadio, Pregadio, D’Annunzio, Campa-
nile, Mariano, Cantalamessa, Del Frate, Del Monaco, Vescovi, Piscopo,
Battisti, Battiato, Prete, Previti, Cardinale, Del Santo, Fedeli, Fede. Infine
come segno di augurio e per infondere forza ai trovatelli privi delle cure
genitoriali, considerando che oltre un terzo dei trovatelli morivano entro
il primo anno di vita: Ognibene, Battaglia, Bonagura, Bennato, Di Bello,
Infante (dal latino infante(m), che non (in) può ancora parlare (fantem), de-
rivato dal participio presente del verbo parlare fari), Ingenito, Di Meglio,
Di Vita, Vitale, Viviani, Redenti, Riscatti, Felici, Fortunato, Re, Bonfante,
Guerra, Guerriero, Battaglia, Vinciguerra, Perfetti, Migliore, Buonaventu-
ra, Piacente, Bonagura, Boninsegna, Sarai (di nome Fortunata!), Sansone,
Ercoli, Valenti, Vigorosi, Valorosi, Buononato, Benigno, Bonadies (che
sia un buon giorno), Bonifacio (che abbia una buona sorte), Buonocore
(che sia generoso), Carotenuto (tenuto caro, amato), Centonze (che abbia
tanto denaro, addirittura 100 once!), Guadagno (utile alla famiglia). Poi,
tutti quei cognomi d’origine apotropaica che hanno avuto la funzione
superstiziosa di allontanare o scongiurare malattie, pericoli, influssi
malefici, disgrazie; in pratica si utilizzavano parole negative sperando che
la vita riservasse all’orfanello l’esatto contrario! Esempi: Abbandonato
(che non abbia nessuno), Addolorato (pieno di guai), Afflitto (sventurato),
Brutto (che sia brutto a vedersi), Caricato (oppresso, aggravato da pesi),
Incerto (non darà mai certezze), Infruttuoso (non produrrà mai nulla di
buono), Indelicato (irrequieto, mai soddisfatto), Malafronte (che sia poco
intelligente), Malagodi (che non possa esser mai felice), Malanima (che
sia infedele), Malatesta (che ragioni male), Maldonato (pessimo regalo),
Malerba (che sia dannoso), Malgioglio (cattivo loglio, pianta erbacea
spontanea e infestante), Nonafede (ateo o pagano), Pecora (senza corag-
gio e indifeso), Pocobelli (che sia non bello), Riverso (intrattabile), Spento
(morto, inutile), Sperduto (che nessuno lo cerchi), Spina (dolore, cruccio),
Stanco (che non abbia forza alcuna), Terribile (che sia intrattabile).

Dagli archivi della Casa Santa dell’Annunziata di Napoli, in particolare


relativi al periodo dal 16 dicembre 1816 al 31 ottobre 1817, si registravano
i cognomi Campania, Molise, Basilicata, Puglia, Abruzzo; si utilizzavano
anche i nomi dei quartieri come Mercato, Marano, Marianella, Forcella.

Quando l’estro creativo tendeva a ridursi, gli istituti erano soliti affibbia- 411
re cognomi scelti dopo aver consultato un atlante o un testo di geografia;
sono stati inventati cognomi come Inghilterra, Portogallo, Polonia, Scozia,
Romania, Svezia, Olanda, Vaticano, Belgio, Austria, Danimarca. Risul-
ta fuorviante pensare alle reali provenienze proprio perché i cognomi
furono concepiti a tavolino. Stessa conclusione per indicare l’ardita inven-
zione legata ad un pianeta o una stella come per gli improbabili cognomi
Saturno, Mercurio, Plutone e Sirio. Altri avevano cognomi imbarazzanti
come Scarafaggio (!) o come il cognome Te l’ho fatta registrato a L’Aquila
da un meschino e sadico ufficiale di stato civile. Altri, invece, avevano
cognomi presi dalle famiglie più diffuse e altisonanti del paese, per cui
era difficile identificarli come proietti e altrettanto difficile intuire di chi
fossero figli. In alcuni casi succedeva l’opposto: per dissimulare un amo-
re segreto (specie tra un nobiluomo ed una serva, ad esempio), si dava il
cognome Parascandalo che, letteralmente, significa nascondere lo scandalo.
In altri casi il bambino veniva registrato come proietto ma con il cogno-
me del padre; tale manovra sottintendeva un inganno ai danni dello
Stato perché le famiglie povere approfittavano dell’allora pratica diffusa
di registrare un figlio come proietto per poi riprenderlo in affidamento a
baliatico esterno (le balie avevano la libertà di sceglier l’infante da nutrire)
affinché la mamma legittima, qui nell’insolito ruolo di nutrice mercena-
ria, fosse pagata fino ai 5 anni d’età del piccolo. In altri casi, il cognome
dell’abbandonato trasse spunto da un clamoroso fatto di cronaca, come
per i cognomi inventati tra il 1885 ed il 1896 legati a località, personag-
gi e fatti connessi con la prima cruenta colonizzazione italiana: Adua,
Alagi, Ambalagi, Asmara, Dogali, Eritreo, Macallè. In altri casi sono stati
mutuati dalla natura (fauna e flora): Tassi, Tassoni, Carpini, Volpi, Gab-
biani, Caprioli, Elefante, Formica, Cervi, Grilli, Orsi, Orsini, Pavone, Lupi,
Serpi, Tacchini, Delfino, Dentice, Falco, Gallo, Erba, Fiore, Giglio, Lilla,
Pietra, Pioppi, Peri, Susini, Limoni, Rosai, Gelsomini, Garofalo, Gerani,
Felci, Alberi, Allori, Alberoni, Arbusti, Giacinti, Nespoli, Ontani, Peri,
Sorbi, Susini, Bosco.

Per alcuni la fonte di ispirazione fu legata agli oggetti usuali (Sasso,


Mestoli, Quaderni, Inchiostri, Mazza, Bacchetta, Crivello, Tavolo, Tetti,
Valigi, Zerbino); per altri, i libri di storia con personaggi famosi o della
letteratura (Diana, Cassandra, Buonaparte, Carlomagno, Napoleone, Ma-
ria Stuarda, Shakespeare, Capuleti, Montecchi, Colombina, Arlecchino,
412 Gianduia, Pulcinella, Tartaglia, Sodoma). In altri casi era di fondamen-
tale importanza poter rintracciare velocemente il bambino per scoprire,
prima di tutto, se fosse ancora in vita ed eventualmente a chi fosse stato
affidato. Non si palesavano problemi per i bambini con evidenti segni
identificativi come medagliette, lineamenti marcati, piccole disabili-
tà, voglie particolari, monili o altro; per tutti gli altri veniva utilizzato
un codice alfabetico semplice: la prima lettera del cognome inventato
individuava l’anno del trovatello (ad esempio la R), la seconda lettera il
mese (ad esempio la E), la terza lettera la settimana (ad esempio la D) e
la quarta lettera il giorno (ad esempio la O); poteva, per questo esempio,
nascere il cognome inventato di Redo dal quale, grazie alla decrittazione,
si poteva risalire alla sua età.

Un altro espediente consisteva nel generare il cognome adattando al


plurale il nome del bambino registrato precedentemente; ad esempio,
a Mauro Fanti seguiva Giorgio Mauri, poi Gaetano Giorgi ed ancora
Marcello Gaetani e così via. A Torino, invece, si cambiava ogni mese
l’iniziale del cognome cercando di non replicare nomi già esistenti;
oppure aggiungendo una sillaba o modificando una lettera del cognome
del neonato dell’atto precedente. A volte venivano modificati cognomi
già esistenti cambiando le vocali (Aschi/Eschi oppure Ameri/Amiri) o le
consonanti (Faci/Fami, Fadi/Fapi/Fasi). Infine si inventava il cognome
molto simile al nome di battesimo (Anna Annetti, Ciro Ciri, Oliviero
Olivi, Stella Stellati). In certi casi se i cognomi si posponevano, venivano
a comporsi frasi ridicole e indecenti come, ad esempio, Ligna Emma (o
Emma Ligna) oppure Cava Luca (o Luca Cava); ed era proprio la versione
tra parentesi che i maligni o i buontemponi utilizzavano. Queste ultime
strategie creative, utilizzando anagrammi e sarcastici giochi linguistici,
erano probabilmente dovute a stanchezza di ispirazione di fronte all’ob-
bligo di escogitare soluzioni cognominali sempre nuove.

Presso l’Annunziata di Napoli inizialmente fu attribuito il medesimo


cognome ai piccoli giunti nello stesso giorno, poi furono scelti cognomi
adeguati per ciascun esposto legati alle sue caratteristiche somatiche, le
condizioni fisiche o il periodo dell’anno in cui era arrivato, col risultato
di cognomi strani, talvolta anche ridicoli. Nei registri a partire da agosto
1811 si legge: Pietro Abbadessa di giorni due, maschio, venuto da Marigliano, è
stato da me battezzato, faccia tonda, naso affilato, occhio e capello negro e pezze
di tela bianca; seguono Liborio Abbadessa venuto da Forcella e Raffaele Abba- 413
dessa venuto dall’Avvocata, tutti giunti nello stesso giorno. Quindi furono
attribuiti i cognomi Abbate e Abbadessa, seguendo l’ordine alfabetico. Da
questa consuetudine si ricorda un caso in particolare del 1862; la parola
scelta per quella giornata era Genito e tale cognome fu attribuito ad
uno dei bambini abbandonati. Per un errore di trascrizione, il cognome
divenne Gemito ed al bambino in questione, Vincenzo, fu attribuito quel
cognome; in età adulta, sarebbe diventato uno dei grandi scultori italiani
dell’Ottocento. Per evitare omonimie, a Milano nel 1825 il cognome
Colombo fu abolito e se ne inventò uno nuovo con l’iniziale uguale a
quella del nome, spesso scelto per iscritto dai genitori naturali. Tra gli
altri modi di operare, lo Spedale degli Innocenti di Firenze dal 1812 attribuì
un cognome distinto per ogni trovatello; qui i cognomi scelti terminava-
no con la lettera i al fine di armonizzarli con la prevalente terminazione
vocalica di quelli più diffusi in Toscana.

Altra impostazione usata fu quella di segnalare, nel nome e cognome,


la data particolare di accoglienza (ad esempio, nel Capodanno del 1855
fu registrata Prima Gennai, il bambino successivo Secondo Dell’Anno, poi
cambiando la vocale Prudenza Dell’Enno, poi Pazienza dell’Inno, poi Pietro
dell’Onno, poi Perpetua dell’Unno). Per limitare gli abbandoni clandestini il
30 giugno 1875 fu l’ultimo giorno di funzionamento; pertanto gli ultimi
bambini accolti furono gli eloquenti Laudata Chiusuri ed Ultimo Lasciati.
Analogamente, con la creazione di un apposito ufficio civile per le ado-
zioni, fu chiamato Primo Riformi il primo arrivato del 1 luglio 1875. A Pa-
via, nel Pio Luogo degli Esposti cessò la già segnalata usanza di denomina-
re tutti i suoi ospiti con il cognome di Giorgi alla fine del 1825 (a seguito
della ricordata circolare imperiale di quello stesso anno) e si adottò un
sistema per cui ogni anno veniva prescelta la lettera iniziale dei cognomi
da scegliersi sempre attingendo da una lista predisposta sufficientemen-
te variegata da poter essere impiegata per almeno un decennio.

Fino al 1839 si ricorse a cognomi spesso quasi impronunciabili derivati


dalle denominazioni scientifiche delle piante, per poi decidere di usare
anagrammi e giochi di parole che potevano rifarsi alle caratteristiche fi-
siche e caratteriali dei trovatelli (Accampoloni = mano piccola) o ad azioni
compiute dall’infante (Aberlacusi = se baci urla) o ad atteggiamenti dei
genitori (Decorcipo = cedi corpo) o ad azioni compiute dall’inventore del
414 cognome (Cittastore = te riscatto). In alcuni paesi della Sicilia, nonostante
ci fosse l’obbligo, il cognome non veniva attribuito affatto e i trovatelli
venivano semplicemente registrati con il solo nome, non solo alla nascita
ma anche per tutto il resto della vita. Ad esempio una tale Sebastiana,
che all’atto di nascita viene registrata come Sebastiana, annotazioni projet-
ta, all’atto di matrimonio è Sebastiana projetta (proprio così scritto in
minuscolo perché era un appellativo, non un cognome) e così alla morte.
Poi a Messina ai trovatelli maschi veniva affibbiato un cognome geogra-
fico come Africano, Francese, Tarantino mentre alle bimbe un cognome
botanico come Garofano, Ficodindia, Limone.

Il primo senza famiglia di cui si ha ufficialmente notizia a Barletta è una


bimba, registrata nel 1809, alla quale fu imposto il cognome, datole con
tanta fantasia e forse anche un pizzico di spietatezza, di Maria Emma-
nuella Fatalità. Sempre a Barletta, in un atto del 25 marzo 1823 Arcan-
gela Cifuni, balia dei proietti, dichiarava di aver trovato, dietro la porta
della propria abitazione, un fanciullo (…) nato di fresco, quale sembra essere
stato abbandonato dagli autori de’ suoi giorni coverto in un pannolino di cottone
bianco rigato, ravvolto in una fascia anche di cottone bianco rigata senza segni,
cifra o lettera alcuna (…) a cui si da il nome di Nunzio Marzatico; risulta facile
cogliere la corrispondenza con il mese della sua nascita. Quello del mese,
come spunto per creare il cognome di un neonato, era uno dei metodi
adottati; c’erano i nomi dei santi, situazioni particolari ed ancora agget-
tivi. Ma si poteva anche attingere dalla storia e dalla letteratura: un bam-
bino nato il 19 gennaio 1843 e trovato dietro la porta della casa di Rosa
Dellaquila, balia dei proietti, fu portato al Sindaco, Michele De Donato,
il quale decise di imporgli il nome di Ettore Fieramosca; il Sindaco era
sicuramente un cultore della storia cittadina e conoscitore di libri. Infatti
solo dieci anni prima D’Azeglio aveva pubblicato il suo Ettore Fieramosca.

Sbagliando si crede che il fenomeno dell’abbandono sia stata una pratica


diffusa nelle popolazioni del sud ma in realtà il fenomeno era molto
più esteso nel nord Italia. Fino all’Unità d’Italia, e in particolare al nord
Italia, raggiunse picchi molto alti, circa il 10% mentre al sud era al 4%.
Dopo il 1861 il fenomeno si estese in ogni regione della penisola, dal
Piemonte al Regno delle due Sicilie. Negli anni successivi all’Unità
d’Italia le dimensioni del fenomeno divennero così vaste da rappresen-
tare una vera e propria piaga sociale. Basti pensare che nell’anno 1871,
nel solo Spedale degli Innocenti di Firenze, i gettatelli furono più di 2.000. 415
Sul finire del XIX secolo fu prevalente nel Mezzogiorno, perché questa
pratica era concepita dalle famiglie povere come una forma assistenziale
che veniva offerta dalla società.

La questione dell’infanzia abbandonata in Italia nell’ultimo quaranten-


nio dell’800 fu densa di implicazioni sociali: 150mila bambini, in genere
al di sotto dei dieci anni, assistiti annualmente dai brefotrofi e dalle am-
ministrazioni locali; circa 40mila neonati abbandonati ogni anno alla
carità pubblica e privata. Le cause di questo fenomeno sociale erano varie
e difficilmente individuabili: spesso il movente era costituito dalle mise-
re condizioni delle famiglie d’origine. Un altro fattore che probabilmente
contribuiva a mantenere alto il numero delle esposizioni era la mentalità
dell’epoca che non ammetteva la procreazione fuori dal matrimonio.

Per attutire i patimenti del trovatello, sia psicologici che sanitari, nella
seconda metà dell’Ottocento si diffuse la consuetudine di piazzarne
la maggior parte presso tenutari esterni piuttosto che all’interno degli
istituti; queste famiglie ritiravano dai brefotrofi i bambini quasi uni-
camente perché li ritenevano un buon investimento. Una volta cresciuti,
sarebbero potuti diventare nuova forza-lavoro o nuove fonti di entrate.
Un altro aspetto del problema dell’infanzia abbandonata si collega alle
scarse condizioni igienico-sanitarie dei brefotrofi del Regno, tanto che
davvero alta fu la mortalità infantile all’interno di queste istituzioni.
L’incapacità economica da parte dei brefotrofi di gestire un numero così
elevato di bambini, l’alta mortalità infantile e la convinzione da parte
delle autorità che la ruota rendesse troppo facile per chiunque liberarsi
di un figlio, portarono alla sua abolizione. La prima città che lo fece fu
Ferrara nel 1867, poi Brescia nel 1871, Napoli e provincia nel 1874. A par-
tire dal 1875 pian piano furono abolite in luogo di appositi uffici per le
adozioni, dislocati in tutto il territorio nazionale, affinché i bambini non
portassero nel cognome il ricordo indelebile della loro sventura. Tutte le
ruote scomparvero ufficialmente nel 1923 con il Regolamento generale per
il servizio di assistenza agli esposti del primo Governo Mussolini, sostituito
con legge del 1925 dall’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia).

In seguito con l’istituzione degli asili e dei presidi sanitari, l’accoglien-


za ed il riconoscimento dei trovatelli fu più semplice e rispettoso della
416 dignità umana. Interessante constatare che, fino al 1955, in Italia vi era
l’obbligo dell’indicazione anche del nome paterno nei documenti di
identità, che nel caso dei figli naturali veniva indicato con la sigla N.N.;
pratica discriminatoria abolita grazie alla legge 1064 del 1955 di cui fu
promotrice Lina Merlin, la senatrice che nel 1958 farà abolire la pro-
stituzione legalizzata in Italia. Allorché l’istituto riceveva l’esposto, era
obbligato a portarlo all’ufficiale dello Stato civile e poi dal parroco per il
battesimo, se non ricevuto, con l’iscrizione in un apposito registro.

Il brefotrofio certamente mirava all’adozione mentre la nuova disciplina


incentivava gli affidi: anche il comune o la pia commissione istituita nel
comune poteva provvedervi, rivolgendosi ad una figura specifica, quella
della levatrice, che riceveva una sorta di stipendio. Le balie si impegnava-
no ad allevare il bambino per un anno; generalmente, una volta preso in
consegna il piccolo, lo tenevano presso di sé sempre divenendo tenutarie.
Se, dopo lo svezzamento, lo avessero riconsegnato al brefotrofio, si sareb-
be tentato di ricollocare subito l’esposto presso altri allevatori campagnoli.

Al posto dell’adozione, in molti paesi del Mezzogiorno era consuetudine


la compravendita annuale di manodopera minorile, il cosiddetto mercato
dei valani cioè i bifolchi o gli addetti al bestiame che venivano ingaggiati
il giorno dell’Assunta di ogni anno. Era una consuetudine secolare con la
quale nella piazza principale del paese avveniva la pubblica esposizione
Il mercato di piazza del
Duomo a Benevento nel
xix secolo

© wikipedia
e la conseguente vendita dei garzoni, ingaggiati come salariati fissi nelle 417
campagne al servizio degli agricoltori più abbienti. I contratti venivano
pattuiti oralmente il 15 agosto ma dall’8 settembre avveniva la consegna
dei lavoratori. Si trattava per lo più di ragazzi tra i sette e i tredici anni;
giovani che, appartenendo a famiglie numerose di braccianti o di con-
tadini poverissimi, dalle stesse famiglie venivano venduti per un anno
in cambio di un tozzo di pane e di un giaciglio per servire da schiavi
nei lavori più umili e duri delle campagne, privi di ogni diritto sancito
dalle leggi sul lavoro. A Benevento, fino alla fine degli anni Cinquanta,
questo insolito mercato si teneva in piazza Duomo, addirittura dinanzi
all’ufficio comunale di collocamento. Oggi il fenomeno si è praticamente
estinto; le leggi dell’adozione sono molto più protettive e garantiscono a
chi viene adottato almeno una vita senza stenti.

Tutti i cognomi originati per un atto onomaturgico (atto di creazione di


parole nuove) da chi era preposto alla loro imposizione, e possiamo rife-
rirci ai cognomi generati (o inventati) a partire dai primi dell’Ottocento,
non hanno avuto abbastanza tempo per moltiplicarsi fino a raggiungere
una frequenza significativa. Moltissimi di questi cognomi sono rimasti
in archivio, data l’alta mortalità infantile in quel periodo. I cognomi
femminili, ovviamente, si sono estinti in seguito ai matrimoni; una parte
è scomparsa in seguito alle adozioni. In ogni caso, sono molti ancora
quelli che sussistono ancor oggi.
Le ragioni dell’abbandono

Il fenomeno delle nascite di illegittimi e del conseguente abbandono fu


molto diffuso nei paesi di provincia e nelle campagne. I sindaci e i par-
roci facevano del loro meglio per fronteggiarlo ma l’ambiente, le conven-
zioni sociali, i pregiudizi, le credenze popolari rappresentavano una re-
sistenza notevole alla soluzione del problema. Le scomuniche dei vescovi
non erano un efficace deterrente per limitare gli abbandoni, soprattutto
di individui femmine, perché la condizione delle donne di quel tempo
era di subalternità rispetto al maschio. Erano perciò allevate in modo
diverso e, se sopravvivevano alle ristrettezze, erano destinate a occupare
in famiglia un ruolo minore (se non di schiavitù) venendo escluse anche
dall’eredità che spettava al primogenito, o comunque, al maschio.

A tale destino non potevano sottrarsi, altresì, le bambine nate da donne


418 delle classi più povere o dalle meretrici che venivano svezzate prima e
nutrite male a vantaggio dei fratelli maschi; ciò spiega anche il maggiore
coefficiente di mortalità di bambine da uno a due anni. Pertanto, quando
sorgeva un qualche impedimento allo svolgersi sereno della maternità,
molte donne, specie se lasciate sole, non avevano altra soluzione che
abbandonare la loro creatura.
Il momento dell’abban-
dono del neonato in una
illustrazione al tratto
del xviii secolo
© wikipedia
© asc
La registrazione del Fino a pochi decenni fa la maggior parte delle nascite avveniva in casa
battesimo dell’esposto
stabiese Antonio Nicola ma se la madre non poteva permettersi una levatrice, andava a partorire 419
Caietano (1654) conser- all’Opera della Maternità e lì lasciava il neonato.
vata nella Cattedrale di
Castellammare di Stabia
Non in tutti i borghi esisteva, nel passato, la ruota e, pertanto, gli abban-
doni si verificavano dove capitava, sui banchi o sulle scale di una chiesa,
presso le residenze dei benestanti oppure davanti alla casa dell’oste-
trica del paese; posti dove il neonato poteva essere facilmente ritrovato
e accudito. Ma spesso, nudi dentro una cesta anche in pieno inverno,
venivano trovati morti. L’abbandono della piccola creatura, venuta alla
luce poche ore prima, avveniva di solito verso alle prime ore dell’alba, in
un luogo poco lontano dal villaggio, appartato e nascosto alla vista dei
passanti. Di solito, la madre ricorreva ad una terza persona la quale, die-
tro adeguato compenso, si addossava il delicato incarico dell’abbandono
impegnandosi altresì al più assoluto segreto.

La letteratura italiana che ha trattato questi drammi ci racconta che la


vera madre posava il vivo fardello, gli dava l’ultimo bacio, prendeva un
santino, lo baciava e poi lo tagliava a metà; poneva una parte nel suo
petto mentre l’altra tra i pochi indumenti di lana o di cotone del bambi-
no. Facendo attenzione a non essere vista, raggiungeva il luogo ancora
deserto per poi far finta di tornare a casa dalla campagna. La sua metà
del santino avrebbe costituito l’unica speranza di poter riconoscere un
giorno il suo bambino. Poco più tardi un contadino, sentendo il pianto,
il “Liber vii Baptizatorum” avrebbe trovato il fagottino; in assenza di un’istituzione pubblica, lo
(dal 1649 al 1657) conser-
vato nella Cattedrale di raccoglieva portandolo velocemente alla casa della pia ricevitrice. Apriva la
Castellammare di Stabia finestrella della scafetta, una ruota ante litteram, posizionava il neonato
nello scivolo e lo spingeva dolcemente dentro. Quindi tirava la corda
che faceva suonare l’apposita campanella in modo da avvisare la donna
all’interno; le spiegava dove, quando e come aveva scoperto il trovatello
cosicché la pia donna si preoccupava di dargli le prime cure. Il giorno
seguente, quest’ultima avvertiva il sindaco che dava disposizioni agli im-
piegati pubblici affinché il proietto venisse visitato dal medico per poter
accertare il suo stato di salute; poi essere registrato come figlio di ignoti e
con il nome scritto sulla cartula, il documento identificativo contenente
tutti i dati all’accoglienza, cioè tutto quello che indossava e qualsiasi
segno particolare, in modo da rendere più facile un eventuale riconosci-
mento da parte dei genitori.

420 L’impiegato comunale attribuiva il nome ispirandosi al santino tagliato;


nello stesso tempo avvisava il parroco che avrebbe provveduto a battez-
zarlo e ad iscriverlo nell’apposito registro con la nota che faceva capire
che era figlio di ignoti. Successivamente il neonato, ormai ufficialmente
esposto, veniva consegnato alle amorevoli cure di una balia che, fornita di
un libretto per un piccolo sussidio, si rendeva disponibile ad allattarlo.

Dopo lo svezzamento, il piccolo era affidato per i primi cinque anni ad


una buona famiglia che, magari, ne aveva fatto richiesta o che aveva
esaudito le richieste del parroco di compiere un atto di carità cristiana.
Al compimento del settimo anno il bambino poteva essere reclamato
dalla famiglia che lo aveva abbandonato, per poterlo utilizzare come aiu-
to nei lavori dei campi. Spesso venivano adottati da artigiani senza figli
per garantire un aiuto economico per la vecchiaia o dai contadini per
avere braccia in più per lavorare la terra; molto spesso ai trovatelli veniva
attribuito un cognome derivato dal datore di lavoro come si evince dal
conto del deposito di Margherita de Eliseo, servitrice di Eliseo de Raimo.
Di solito il versamento poteva essere eseguito anche da una persona di-
versa dal titolare del conto e ciò accadeva spesso per le esposte che anda-
vano a servizio con contratti di lavoro di alcuni anni tanto da acquisire il
cognome del datore di lavoro, che aveva preventivamente aperto un conto
a nome della sua serva; lo stipendio veniva depositato presso l’istituto di
credito allo scopo di costituire la dote della ragazza.
421

© asc
L’attribuzione ex novo di cognomi agli infanti abbandonati, a partire
dai primi dell’800, ha dato origine alla categoria dei cosiddetti cogno-
mi inventati dei quali è possibile conoscere, quasi certamente, la data di
nascita e le cause della loro origine; questi cognomi sono accomunati dal
fatto che vengono a mancare due delle caratteristiche costitutive di ogni
cognome: l’indeterminatezza storico-cronologica della sua genesi e la
tendenziale fissità nel tempo della sua forma.

Altri casi di invenzione sono: i cognomi modificati coattivamente nel


periodo tra le due guerre (cognomi di minoranze alloglotte inserite
all’interno dei confini italiani), poi quelli provenienti dall’Islam o anche
ebrei ma convertiti al cristianesimo ed, infine, quelli di chi ha voluto
deliberatamente cambiare il proprio cognome considerandolo disdicevo-
le. A Castellammare di Stabia si verificò un caso di cambio di cognome a
causa delle continue offese ricevute; lo stabiese Giovanni Turzo, nato nel
422 1828, dopo 55 anni e in veneranda età, ricevette nel 1883 la sentenza del
Il decreto del 1883 per la Tribunale Civile di Napoli per la rettifica del proprio cognome da Turzo
rettifica del cognome di
un cittadino stabiese (forse allusivo e dispregiativo) al più rassicurante Turcio.
© ascs
La registrazione degli esposti

I neonati abbandonati venivano registrati, fino alla prima decade del


XIX secolo, nei libris baptizatorum delle chiese con l’appellativo di filius ex
patre et matre incerti (ma anche expositus o spurius) e, successivamente, con
figlio d’ignoto o figlio del popolo. Dal 1809 in poi presso l’ufficio anagrafe
dei comuni italiani verranno sinteticamente registrate tutte le vicende
dei bambini dal momento successivo all’ingresso nell’istituto fino al
termine dell’assistenza; pertanto contengono le annotazioni inerenti gli
affidamenti, i riconoscimenti, le affiliazioni, le adozioni, gli eventuali
cambiamenti di cognome e la registrazione dell’avvenuto matrimonio.

L’ufficiale pubblico stilava subito il verbale di immissione in cui indicava


l’ora del giorno o della notte in cui era stato abbandonato, la presunta
epoca della nascita, la matricola, la lettera dell’alfabeto che corrisponde-
va all’anno in corso, il nome che gli veniva attribuito nel battezzarlo, le 423
caratteristiche somatiche e le condizioni fisiche in cui era giunto, ciò che
portava addosso o lo accompagnava; inoltre se presentava particolari se-
gni sul corpo che potevano servire da identificazione, l’eventuale identità
della persona che lo aveva portato.

Accanto al bambino, alcune madri lasciavano un oggettino, un sacchet-


to, una lettera che venivano scrupolosamente appuntati su un foglio,
chiamato cartula, sul quale si scriveva il numero di matricola e la firma
del Capo dell’ufficio degli esposti. Il bambino giunto privo di alcuno di
questi segni di accompagnamento, veniva registrato come venuto senza
cartula. Ogni piccolo all’interno della casa era identificato con la sua
matricola: la lettera dell’anno in cui era arrivato (ogni anno era indicato
con una lettera in ordine alfabetico) ed il numero progressivo di entra-
ta. I bambini venivano in ogni caso accolti senza alcun controllo e così
illegittimi, legittimi, figli di ricchi o di povera gente entravano a far parte
della categoria degli esposti, i figli di N.N. (da nomen nescio, cioè non si
conosce il nome) o filius matris ignotae, abbreviato in filius m.ignota (da cui,
forse, il dispregiativo romanesco mignotta).

Spesso si sapeva chi era la madre del trovatello, perché la donna aveva
partorito nel reparto ostetrico annesso al brefotrofio; tuttavia il neona-
to veniva registrato come figlio di ignoti. Se la madre era benestante,
pagava una certa somma; se era povera si prestava come balia all’interno
dell’istituto per un certo periodo. Molti bambini venivano lasciati nelle
ruote con qualche segno particolare: una medaglia, l’immagine di un
santo, un foglio con una frase qualsiasi in cui si avvertiva che erano già
stati battezzati e si precisava il nome che era stato loro imposto.

Spesso si ritrovavano anche corredini completi e talvolta somme di


denaro forse perché il piccolo era frutto di un amore proibito di donne
facoltose che ripulivano la propria coscienza mettendo nel cilindro non
solo il bimbo ma tali oggetti preziosi.

Gli amministratori dei brefotrofi o gli incaricati comunali che si occupa-


vano degli esposti annotavano scrupolosamente, accanto al numero d’or-
dine con cui i bambini venivano registrati negli atti d’ingresso, tutti questi
potenziali elementi di riconoscimento; si riteneva infatti che indicassero
424 la volontà, da parte delle madri, di rintracciare un giorno i propri figli.

Di seguito alcuni esempi di registrazioni progressive:

Anno Domini die 29 maggio 1679. Andreana di giorni quindece venuta


senza cartola et tal nome l’è stato imposto da noi nel sacro Battes(i)mo;
faccia tonda, naso accorciato, occhi et capelli negri; involta con straccio di
canovaccio di sacco, un poco di fascia di tela vecchia et con una pezza in
capo; scritta in libro Q di notte n. 264, di n.3.

Anno Domini die 30 maggio 1679 martedì. Camillo di giorno uno venuto
senza cartola et tal nome l’è stato imposto da noi nel sacro Battes(i)mo;
faccia tonda, naso accorciato, occhi et capelli negri; involto con fasciatoio;
straccio torchino, fascia di coverta seu (oppure) manta di lana, et con una
pezza in capo; scritto in libro Q di notte n. 265, di n.1.

Anno Domini die 31 maggio 1679 mercordì. Domenico al(ia)s France-


sc’Antonio di mese uno, venuto con cartola dovo dice che non ha padre, è
battezzato a S. M. d’Ogni Bene, et se chiama Francesc’Antonio et da noi
poi l’è stato permutato il nome; faccia tonda, naso affilato, occhi negri et
capelli castagnoli, involto con fasciatolo, straccio negro, con fascia pure
negra, et coppolella sempia (così si legge nell’originale); scritto in libro Q di
notte n. 266. n.1.
Un’altra registrazione di maggio 1679 raccontava che il bambino abban-
donato per povertà arrivava involto con canovaccio di sacco, un poco di tela
vecchia e con una pezza in capo; ma vi era anche chi giungeva involto con
fasciatolo e manto di lana o involto in fasce di lino e tela ricamate!

Il rotaro registrava l’ingresso dei bambini su fogli che venivano poi,


insieme con le cartule, infilzati in uno spago munito di punteruolo e
fatti pendere dal soffitto, dette filze di projetti. A fine anno erano rilegati
in cordame ritorto a mano e budella animale con piatti generalmente in
montone, più tardi in carta e con la lettera dell’anno sul dorso: Registri di
Ruota o Registri delle immissioni.

I verbali di immissione costituivano i documenti ufficiali degli esposti


ed erano validi a tutti gli effetti quali certificati di nascita. Risulta inoltre
che i maschi illegittimi venivano abbandonati soprattutto nei primi
giorni di vita mentre le femmine a qualsiasi età e principalmente per 425
Le “filze di projetti” (1665)
povertà, in quanto economicamente improduttive; per tal motivo il loro
dell’archivio della chiesa
dell’Annunziata di Napoli numero superò sempre di gran lunga quello dei maschi.

© wikipedia
I cognomi dei figli d’allievo

Le vicissitudini seguite all’abbandono, legate alle pratiche dell’alleva-


mento o dell’affiliazione, generavano problematiche sull’identità ono-
mastica del bambino. L’allevamento era definito come l’altra faccia della
medaglia dell’abbandono; in Italia solo nel 1942 il Codice Civile disci-
plina giuridicamente il rapporto di allevamento grazie all’introduzione
dell’istituto dell’affiliazione, in base al quale chi allevava un esposto per
tre anni poteva chiedere al giudice tutelare di affiliarsi il bambino e, se
voleva, di dargli il proprio cognome. Il tutto ancora secondo un concetto
largamente ispirato alla carità cristiana ma, comunque, con l’intento
di dare una disciplina giuridica ad un rapporto di allevamento che, per
tradizione, si praticava largamente in tutta Italia.

In un’approfondita e interessante trattazione, apparsa su Meridiana


426 (numero 9 del 1990) e intitolata Un fratello per marito. Gli esposti in una co-
munità ottocentesca, l’autrice Annunziata Berrino ha raccontato le genea-
logie delle famiglie di Torca, una frazione del comune di Massa Lubrense
in penisola sorrentina che, a metà Ottocento, contava poco più di 700
abitanti. Nell’analizzare le generalità di tutti i suoi abitanti, si è scoperto
un dato sorprendente e cioè che un gran numero di individui non appar-
tenevano alle discendenze: non erano nati nel casale ma vi erano stati
portati per essere nutriti e quindi allevati. La loro presenza ha generato
notevoli problemi d’analisi perché tali soggetti nei vari documenti non
venivano registrati sempre con lo stesso cognome.

Un parroco, prima dell’epoca napoleonica, aveva a disposizione varie


possibilità per registrare, nei propri atti, questi bambini presenti in
alcune famiglie della parrocchia e i figli di questi stessi esposti allevati.
Le varianti erano almeno tre:
1. il bambino allevato era detto Gennaro Esposito allievo di Giuseppe
Schisano, e i suoi figli erano battezzati con il cognome Esposito;
2. il bambino allevato era detto Gennaro allievo di Giuseppe Schisano
ed i suoi figli erano battezzati ricavando il cognome dal suo nome di
battesimo, cioè Di Gennaro;
3. il bambino allevato era detto Gennaro allievo di Giuseppe Schisano
ed i suoi figli erano battezzati con il cognome della famiglia d’allie-
vo, cioè Schisano.
Il cognome Esposito, attribuito a gran parte di questi bambini soprattut-
to nel corso del XVIII secolo, creava enormi problemi di identificazione;
così come stabilito dalle leggi napoleoniche dell’Ottocento, l’attribuzione
del cognome Esposito diminuì nettamente così come scomparve anche la
pratica di derivare il cognome dal nome di battesimo, come ad esempio
Di Francesco, Di Gennaro, Di Pietropaolo, Di Antonio.

Pertanto era l’ufficiale dello stato civile a dare il cognome al bambino


nel momento in cui, da chiunque fosse stato trovato abbandonato, veniva
portato per essere registrato all’anagrafe. Questo comunque non vietava
che qualche bambino fosse chiamato ancora Esposito o che assumesse il
cognome della famiglia di allievo.

In seguito a tali consuetudini i bambini abbandonati, se non posti


direttamente nella ruota di un istituto, erano portati allo stato civile lo-
cale, registrati e poi affidati ad un orfanotrofio di Ave Gratia Plena, la cui 427
amministrazione curava di affidarli a balia in un comune vicino dove
venivano distribuiti. Questo processo era controllato dalle locali Inten-
denze di Finanza anche perché le balie erano stipendiate dai Comuni.

Compiuto il baliatico, che si protraeva fino al compimento del settimo


Negli atti di registrazio- anno di età del bambino, la balia poteva trattenerlo con sé o poteva riaf-
ne (1812) la sigla A.G.P.
identificava i proietti fidarlo all’Istituto di assistenza che lo avrebbe, a sua volta, nuovamente

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428
La facciata della chiesa affidato. La legge, dunque, poneva i bambini esposti a carico delle ammi-
dell’Annunziata di Napoli
nistrazioni locali, stabilendo anche che in ogni comune dovesse funziona-
re una ruota con una pia ricevitrice che avrebbe poi consegnato i bambini a balie
stipendiate. Ma è chiaro che, per motivi economici, la responsabilità dei projetti
veniva palleggiata tra province, comuni e istituzioni di beneficienza. Pertanto
è lecito pensare che il destino di questi soggetti esposti non interessasse
nemmeno alle autorità locali che pure ne avevano tutta la responsabilità.
Ad esempio, nel 1823 anche il comune di Massa Lubrense non era in
circostanza di dare i soccorsi alle notrici per li ristretti mezzi del peculio comuna-
le, per cui si rendeva indispensabile d’implorare dal governo il pagamento delle
mesate loro assegnate e finora arretrate per dieci mesi, tanto più che andandosi
incontro alla rigida stagione d’inverno, quelle han bisogno delle dette mesate per
vestire i projetti e per apprestarne loro quegli alimenti che la nuda campagna
non offre, e che debbono comprare col denaro.

Ho compiuto un’analisi utilizzando i dati del catasto di Castellammare 429


di Stabia redatto nel 1753; furono registrati un gran numero di esposti
all’interno dei nuclei familiari. Essi, nell’elencazione che il catasto fa-
ceva dei vari componenti del fuoco, erano trascritti per ultimi dopo i figli
maschi e le figlie femmine; ciò era un’evidente spia della posizione che
essi occupavano all’interno della famiglia.

Nelle rivele (cioè una sorta di autocertificazione dei componenti delle


famiglie) troviamo, accanto alla registrazione del nome di questi esposti,
l’espressione figlio o figlia aduttiva oppure le iniziali A.G.P. (cioè Ave Gratia
Plena in omaggio all’istituzione principale di Napoli e cioè la chiesa
dell’Annunziata sulla cui facciata compare tale frase in latino per il
saluto che l’angelo rivolge alla Madonna nell’annunciazione del concepi-
mento di Gesù). Il trovatello che veniva allevato da una famiglia diveniva,
in una certa maniera, figlio adottivo. Il catasto ne registrò ben 206, tutti
provenienti dalla Casa Santa dell’Annunziata di Napoli e sovente viventi
all’interno di famiglie numerose, con già quattro o cinque figli; spesso
due o tre figli d’allievo vivevano all’interno di uno stesso fuoco. L’alleva-
mento di questi bambini era un’espressione di devozione verso la chiesa
dell’Annunziata ma anche indice di una mortalità infantile piuttosto
elevata, per cui essendoci latte materno a disposizione, le donne più mise-
rabili si offrono per nudrire a casa loro un bambino, a fine di godere del salario
di pochi carlini al mese.
Stemma dei trovatelli Un particolare significativo ha rivelato che le famiglie stabiesi più ricche
della chiesa dell’Annun-
ziata di Napoli non allevavano. Quelle che allevavano bambini erano tutte famiglie di
piccoli e piccolissimi proprietari che esercitavano mestieri, tipici stabiesi
dell’epoca, con grande bisogno di manodopera come per i lavori legati al
mare (padroni di barche, marinai, pescatori, falegnami).

La maggior parte aveva il cognome Esposito, come era consuetudine


prima delle disposizioni napoleoniche, ed aveva un’età compresa tra 2 e
30 anni. Una volta accolti in famiglia, partecipavano alla vita lavorativa
e, a partire dai 12 anni in su, al pagamento delle relative imposte. Ebbe-
ne, alcuni figli adottati o d’allievo prendevano il cognome della famiglia
adottante mentre altri avevano già un certo cognome perché attribuito
loro dagli ufficiali comunali.

Rientra nel primo caso la famiglia Telese che, nonostante avesse già 7
430 figli, adottò tre bambini (Carmine di 9 anni, Paolo di 8 anni e Matteo
di 6 anni) ai quali fu dato il cognome; stessa cosa per la famiglia Girace
che allevò tre trovatelli, cioè Pascale di 12 anni, Giacinto di 16 anni e
Rosa di 22 anni. Nel secondo caso, invece, la famiglia Di Simone adottò
due bambini (Vincenzo di 5 anni e Antonio di 1 anno) che già avevano
il cognome Esposito; oppure, tra gli altri, la famiglia Sciacca che adottò
Bonifacio Esposito di 4 anni, la famiglia Ferraro che adottò Gennaro
Cosenza di 7 anni e la famiglia D’Apreja che adottò Sabbato Longobardo
alla tarda età di 25 anni.

Un caso atipico è quello nel quale si adottarono sia bambini senza cogno-
me sia altri già con un cognome: nella famiglia Longobardo fu adottato
Nicola Casale di 15 anni ma anche Antonio di 13 anni e Rosolina di 23
anni ai quali fu dato il cognome Longobardo. Tutti questi adottati pote-
vano perpetuare, per i loro figli, il cognome del brefotrofio o quello dei
genitori d’allievo e ciò dimostra la discrezionalità e la variabilità con la
quale si assumeva e si poteva trasmettere il cognome. Oltre che per otte-
nere la retta, che la Casa Santa dell’Annunziata concedeva a chi allevava
gli esposti e che permetteva di integrare il reddito familiare, la presenza
di questi trovatelli, soprattutto presso braccianti, marinai o comunque
presso famiglie i cui capo-fuochi esercitavano un mestiere che richiede-
va l’apporto di molte braccia, può far supporre che ci fosse un interesse ad
avere più braccia a disposizione.
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Atto di registrazione I proietti a Castellammare di Stabia
(1809) per un bambino
nato da un legittimo
matrimonio
Dalla consultazione dei registri dell’Anagrafe Storica del nostro comune
ho potuto effettuare un’analisi profonda e capillare degli atti di nascita
con i relativi cognomi a partire dal 1809 fino al 1874. Infatti solo dopo
l’istituzione dello stato civile (ufficio che disciplina gli atti di nascita,
matrimonio e morte), avvenuta sotto l’amministrazione napoleonica con
il Real Decreto del 29 ottobre 1808 ed andato in vigore il primo gennaio
1809, si è potuto attribuire consistenza numerica a tutti quei neonati che
prima di quella data erano noti soltanto agli istituti religiosi o a qualche
famiglia benestante che si accollava l’onere di crescerli ed educarli.

Con l’annessione del Regno di Napoli al Regno Italico (1806-1815) ad


opera dei francesi di Napoleone, la ruota dei proietti venne ufficialmente
istituita anche nei comuni dell’Italia meridionale per la tutela pubblica
dell’infanzia abbandonata. Le ruote dei proietti erano situate a Napoli 433
e nei centri, allora, più grandi; nella nostra città ce n’era una presso la
chiesa di Santo Spirito ma tale servizio era svolto anche da popolane che
accettavano anonimamente i neonati divenendo un punto di riferimen-
to per le famiglie indigenti. Tali popolane erano chiamate rotere o pie
ricevitrici e disponevano di un cilindro girevole situato accanto alla porta
d’ingresso della propria abitazione; di quest’attività spesso ne faceva
un business. Dopo l’accoglienza, la rotera annunciava la presenza, presso
di sé, di un bambino per le vie cittadine allo scopo di cercare qualcuno
disposto ad adottarlo legalmente. Se questo accadeva, il contratto era
presto chiuso con la corresponsione di un compenso in denaro che la
rotera prontamente incassava. Se invece non trovava a chi venderlo, aveva
la possibilità di consegnarlo alle istituzioni pubbliche o religiose, dopo
averlo privato di tutto ciò che il piccolo aveva in dote; in quest’ultimo
caso la rotera poteva usufruire del baliatico (cioè un compenso per le
balie) per allattare gli infanti abbandonati, ricevendo una retta per ogni
bambino recuperato e assistito, con inclusi il latte, i panni per l’intimo, il
corredo di vestitini e altro.

La prima pia ricevitrice stabiese, documentata a partire dal 1809, fu Petro-


nilla Manzo che fece da testimone a tante nascite di trovatelli. Un’altra
rotera, la stabiese Anna Longobardi di 50 anni domiciliata alla strada di
San Giacomo alle case di De Nicola, denunciò il 22 giugno 1809 la nasci-
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434
Atto di registrazione ta di un bambino al quale dette il nome di Pietro; dichiarò poi di affidar-
della nascita (1809) e
successivo decreto (1832) lo all’orfanotrofio Deputazione dell’Opera de’ Proietti, istituzione pubblica a
per il cambio di cognome
Castellammare ubicata in via Gesù. Interessante l’annotazione del 1832
di un proietto stabiese
(quando l’individuo raggiunge i 23 anni nel regno di Ferdinando II) po-
sizionata alla sinistra del documento stesso (numero 348) che così recita:
Con Real Decreto del quattordici febbraro Milleottocentotrentadue, Sua Maestà
ha permesso che il cognome di Esposito dovuto al controscritto projetto Pietro sia
cangiato in quello di Filose. Undici Aprile Milleottocentotrentadue. Il Sindaco.

Il primo neonato registrato ufficialmente a Castellammare di Stabia


all’anagrafe cittadina, a partire dal 1809, fu Pietro Spagnuolo (nato il
primo gennaio da Catello Spagnuolo e Maria Giuseppa Raffone) mentre
il primo neonato senza famiglia fu Carolina Francesca Napoleone (nata il
24 gennaio, presentata dall’ostetrica Fortuna Polito di 50 anni).

Di solito gli atti di nascita non venivano sempre redatti il giorno della 435
nascita del bambino; pertanto risulta importante non confondere la data
di nascita con la data di registrazione. Il 12 febbraio 1813 la già citata
Anna Longobardi denunciò la nascita di una bambina all’ufficiale di
Stato Civile che scrisse che è stata presentata nella Ruota de’ Proietti una fan-
ciulla avvolta in laceri vestimenti, e senza alcun segno, la quale ci ha presentata
essendo stata da noi osservata, si è creduto essere una femina che appariva nata
nel giorno antecedente a cui è stato dato il nome di Luisa Longobardi. In quel
periodo l’attribuzione del cognome generico Longobardi era molto diffu-
so ma qui probabilmente era stato dato lo stesso cognome della rotera. Il
18 ottobre ancora Anna Longobardo (notare l’errata trascrizione del suo
cognome rispetto alla denuncia di febbraio) presentò un altro neonato
chiamandolo, invece, Giuseppe Di Luca.

Un’altra rotera era Emmanuela Scelzo, di 42 anni, domiciliata in salita


San Giacomo presso le case di San Nicola Manieri; nella sua denuncia si
cita che ci ha presentato un maschio avvolto in laceri panni, che sembra nato da
circa tre giorni e senza segno alcuno secondoché abbiamo ocularmente ricono-
sciuto, ed ha dichiarato che lo stesso è stato esposto (…).
nelle due pagine seguenti
Atti di registrazione
(1809) del primo bambino I cognomi inventati erano accordati per genere, cioè i cognomi maschili
nato da un legittimo Imperatore, Benedetto, Abate, Allegro, Bianco, Bellino, Bello, Graziuso,
matrimonio e del primo
proietto stabiese Gioioso, Spagnuolo, Giusto, Marino, Monaco, Moribondo, Miracoloso,
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Atto di registrazione Mauro, Glorioso, Candeloro, Freddo, Conte, Colombo, Imperatore, Re,
(1813) per la proietta
Luisa Longobardi Scarico, Candido, Santo, Fausto avevano anche i corrispondenti femminili
come, ad esempio, le trovatelle Francesca Contessa e Carolina Spagnuola.
In alcune lingue orientali (come ad esempio il russo) si usa ancora oggi
modificare al femminile il cognome, cosicché la moglie di Gorbacev si
chiamò Gorbaceva e Brezneva quella di Breznev. Eppure nei Registri
Parrocchiali il femminile dei cognomi è cosa comunissima, fino ai primi
anni del Novecento, e troppo frequente perché il fenomeno possa essere
liquidato come errore ortografico. La fantasia degli ufficiali di Stato Civi-
le, che dovevano imporre un cognome inventato ai pargoletti non ricono-
sciuti o abbandonati, non aveva limite.

Nell’analisi degli atti dei nati a Castellammare di Stabia dal 1809 al 1874
ho trovato moltissime cose strane ed interessanti; ho ordinato i cognomi
inventati in relazione a diversi fattori quali: l’accoglienza, i mestieri, i
patronimici, la religiosità, i toponimi, le stranezze. 439

Il registro degli atti di


nascita (1834) del comune
di Castellammare di
Stabia

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Registrazione civile del Cognomi legati all’accoglienza • Nell’Ottocento si attribuivano
battesimo (1799) di un
esposto al comune di Ca- cognomi ex novo in relazione alle impressioni che registrava l’incaricato
stellammare di Stabia
al momento della presentazione del neonato (come l’ora del giorno, il
giorno della settimana, il giorno del mese, il mese dell’anno, la stagione,
il santo del giorno o la festività); in Italia si sono registrati: Bonora, Me-
riggi, Tramontin, De Luna, Della Chiara, Sabbadin, Del Sabato, Dome-
nicali, Dominici, Domenichini, Tredici, Sedici, Quattordici, Gennari, Di
Marzio, Marziano, Aprile, Di Maggio, Maggioni, De Julii, Lugli, Agosti,
Agostini, Augusti, Settembrini, Inverni, Invernizzi, Primavera, Gennari,
Santamaria, Antonini, Giuseppi, Sangrato, Santoro, Natali, Pasqualin,
Pasquetto, Quaresimino, Annunziata, Rosario, Carnevale, Festa.

Di seguito i cognomi attribuiti ai trovatelli stabiesi: Primo (registrato l’1


gennaio 1840), Gennaio (registrato il 12 gennaio 1855), Epifania (regi-
strato il 6 gennaio 1836), Crisostomo (registrato il 27 gennaio, giorno
440 in cui si festeggia tale onomastico), Candelora (registrato il 2 febbraio,
giorno in cui si festeggia tale ricorrenza religiosa), Carnevale (per i nati
in questo periodo), Marzo (registrato il 14 marzo 1874), Tiriano (altera-
zione o errata trascrizione di Tiziano, registrato il 3 marzo, giorno in cui
si festeggia tale nome), Passione (registrato il 3 aprile 1860, cioè nella
settimana santa della Pasqua dell’8 aprile 1860), Quaranta (registrato il
2 marzo nel periodo di Quaresima, cioè nei quaranta giorni prima della
Pasqua del 26 marzo 1826), Quaresima (registrato il 19 marzo 1836, nei
quaranta giorni prima della Pasqua del 3 aprile), Quaresimale (registrato
il 19 marzo 1847, nei quaranta giorni prima della Pasqua del 4 aprile),
Penitente (registrato il 21 aprile, due giorni prima della Pasqua del 23
aprile 1848), Di Palma (registrato il 31 marzo, il giorno prima della do-
menica delle Palme dell’1 aprile 1860), Sabato Santo (registrato il 4 aprile
1869, in prossimità della Pasqua), Pasqua (registrato il 26 marzo, giorno
di Pasqua del 1837), Risurrezione (di nome Pasquale, registrato il 12 apri-
le, giorno di Pasqua del 1857), Pozzano (registrato il 15 aprile 1868, nei
giorni successivi la Pasqua del 12 aprile, per la tradizionale gita stabiese
presso il santuario omonimo), Bailon e Baylon (registrato il 17 maggio,
giorno in cui morì San Pasquale Baylon il cui culto si concentrò in due
grandi e celebri conventi francescani di Napoli ancora esistenti: San
Pasquale a Chiaia e San Pasquale al Granatello, quest’ultimo nella città
di Portici), Maggio (registrato l’8 maggio 1830), Di Maggio (registrato il 14
maggio 1839), Luglio (registrato il 10 luglio 1849), Giovedì (registrato il 4
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442
L’impegno di spesa (1799) agosto 1842, proprio di giovedì), Agosto (registrato il 19 agosto 1868), Set-
del comune di Castellam-
mare di Stabia a favore tembre (registrato il 2 settembre 1840), Sette (registrato proprio il giorno
della “mammana” stabiese
7 settembre 1873), Piedigrotta (registrato il 7 settembre 1852 proprio in
Rosa Rescigno
concomitanza della festa che solitamente si svolgeva nella notte tra il 7 e
l’8 settembre), Ottobre (registrato il 27 ottobre 1846), Novembre (registra-
to il 19 novembre 1854), Martedì (registrato l’11 luglio 1843, proprio di
martedì), Mercoledì (registrato il 29 giugno 1864, proprio di mercoledì),
Vento (registrato il 17 novembre, forse in un giorno ventoso!), Pioggia (re-
gistrato il 5 dicembre, forse in un giorno piovoso!), Dicembre (registrato il
1 dicembre 1854), Vigilia (di nome Natale, registrato il 24 dicembre 1822),
Natale (registrato il 26 dicembre 1837, di nome Stefano!), Mustacciuoli
(registrato il 24 dicembre 1859, di nome Natale!), Mustacciuolo (registrato
il 23 dicembre 1847), Capodanno (registrato il 29 dicembre 1844 e, un al-
tro, registrato il 30 dicembre 1849), Capodanni (registrato il 31 dicembre
1846), Dell’Anno (registrato il 31 dicembre 1843).
443
Seguono i cognomi concepiti all’atto della registrazione in relazione
all’aspetto del neonato; mi riferisco a percezioni legate al presunto carat-
tere, al colore, alle misure, all’età e alle prospettive del suo futuro.
• 1811 Bruni / 1812 Ricciardi, Brunelli, Fiore, Pinto, Pepe, Forte / 1813
Bonajuto, Apprendente, Venturo (da bonaventura, cioè augurare buona
fortuna) / 1814 Buonocore, Vanacore (deformazione dialettale per betaci-
smo del cognome Bonocore), Cioffi (per ciuffo di capelli), Fortunato, De
Rosa, Mollo, Scarpetta (dotazione all’arrivo) / 1815 Grasso, Rosa / 1816
Russo (dialetto per rosso), Serio / 1817 Amaro, Ingenito (nel senso di
non registrato da regolare matrimonio), Gagliardi / 1818 Buonati, Curcio
(dialetto per corto), Dello Schiavo, Finto, Verdoliva, Gargiulo (da gargia
ovvero bocca e quindi mento sporgente) / 1819 Gentile / 1820 Terribile,
Ambrosio, Buonoregistrato, Famiello, Vitaglione, Vitale, Graziuso (dia-
letto per grazioso) / 1821 Rigenerata, Vittorioso, Ercole, Infante, Sagace /
1822 Bevilacqua, Famella, Tenneriello / 1823 Pacifico, Vivo, Veropalumbo
(trattasi di un vero colombo), Pane / 1825 Allegro, Fusco (termine antico
per bruno, scuro) / 1826 Acanfora, Balsamo, Faceto, Miccio (in napole-
tano sta per piccolo, minuto) / 1827 Bello, Lodevole, Presentata / 1829
Dell’Orto (di nome Maria, come la chiesa del centro città), Benvenuto,
Martire, Modesto, Manna / 1830 Pace, Gioia / 1831 Rosario (dotazione
all’arrivo) / 1833 Buono, Pietoso, Principe, Pura, Miele, Ricci / 1834 Vin-
centi, Contento, Juniore (forse, tra due trovatelli, quello più piccolo) / 1835
444

La ruota degli esposti Rosato, Buonanno, Parascandolo (il prefisso para- significa evitare come
(vista dall’interno) della
chiesa di san Bartolomeo nel sinonimo di ombrello, parapioggia, e cioè abbandonare il neonato
di Castellammare di era un modo per evitare lo scandalo di una relazione extraconiugale) /
Stabia (xix secolo)
1836 Allegretta / 1837 Brunone, Moribondo (scelta incomprensibile se
non per la diffusione del colera proprio in quell’anno) / 1838 Bisogno,
Vittoria / 1839 Valente, Vegliante, Ebano (forse per il colore scuro della
pelle) / 1840 Pecora, Assiduo, Rosetta, Bottone (dotazione all’arrivo),
Furia, Fracasso, Guerriero, Marziano, Sposata (nome augurale) / 1841
Peccatore, Furore, Innocente, Valoroso, Spinoso / 1842 Freddo, Fuggi-
ta, Pazzo, Pecorella, Lamento, Cardillo, Canario, Cinise (per l’aspetto
orientale), Spenta, Sfortunata (nome apotropaico), Scirocco / 1843 Febbre,
Iovane, Iovino, Iovine, Letizia, Mezzanot (l’ora dell’arrivo, scritto così
proprio senza le lettere finali) / 1844 Benigno, Ricatti / 1845 Ricevuto,
Grande, Fruncillo (dialetto per fringuello), Sollazzo, Peluso (dialetto per
peloso), Selvaggio / 1846 Buontempo, Labruna, Virgulto (pianta giovane),
Luminoso / 1847 Notturno (l’ora dell’arrivo), Rosanova, Piccirillo (dialetto
per piccolo) / 1848 Risorto, Basso, Piccolo, Coscia, Sincero / 1849 Sepolta
(scelta incomprensibile!) / 1850 Salute / 1851 Belgioioso, Celeste / 1852
Rotondale, Umile, Capone (dialetto per testa grande) / 1853 Perla, Luongo
(dialetto per lungo) / 1854 Rinato, Provvidenza, Gioiello, Lione (dialetto
per leone) / 1855 Pastorella, Verginella, Buonsanti / 1856 Rosella, Risorso
(da risorsa) / 1858 Stella / 1859 Bagnato, Pesante, Della Vittoria, Cioc-
colata (forse per il colore scuro della pelle) / 1860 Il Grande, Prezioso,
Seniore (forse, tra due trovatelli, quello più grande) / 1861 Venturino (da
bonaventura, cioè augurare buona fortuna) Ceraso / 1862 Gemma / 1863
Brillante / 1864 Ubertosa (fertile, abbondantemente produttiva), Cascone
(dialetto per testa grande), Farfariello / 1867 Gloriosa, Maltempo / 1868
Ventorino / 1869 Furiosa, Rossi, Redenta, Rossini / 1870 Arrivabene,
Biondo, Mezzanotte (l’ora dell’arrivo) / 1871 De Grandis, De Grandi, Il
Giusto, Rossetto / 1872 Di Rosa, Giovane, Pocobello / 1873 Perla, Tesoro,
Altezza, Bonafronte / 1874 Ardita, Argento, Ridente, Riccio, Avorio (forse
per il colore chiaro della pelle), Bennato, Moretto, Secondo. Nonostante
nella maggior parte si evidenzino appellativi bonari e pieni di compas-
sione, restano tuttavia incomprensibili (per durezza e impietosità) i casi
di Moribondo del 1837 e di Estinto e Sepolta, entrambi del 1849! Per
attutire la crudeltà dell’epoca, si può dire che i cognomi, così come gli
amuleti tanto cari alla napoletanità popolare, potevano avere anche una 445
funzione apotropaica (cioè allontanare o annullare un influsso maligno);
si attribuiva il cognome Sfortunata (1842) per augurare, invece, una vita
La ruota degli esposti
(vista dall’androne) della fortunata alla trovatella oppure attribuire il cognome Moribondo (1837)
chiesa di san Bartolomeo
di Castellammare di
per augurare una vita piena e sana, proprio nell’anno del devastante
Stabia (xix secolo) colera a Castellammare di Stabia.
Cognomi legati ai mestieri e cariche sociali • Risulta ovvio ricordare
che tutti i cognomi elencati si riferiscono a mestieri e cariche medievali
ad esclusione di alcuni che sono legati al periodo in cui sono stati gene-
rati, cioè dal 1809 al 1875. Generalmente si esplicitava il mestiere svolto
oppure l’oggetto della sua produzione come, ad esempio, Ferro, Frutta,
Forno. • 1812 Vinaccia (in riferimento all’attività vinicola), 1817 Abate,
Regina / 1818 Ferreri, Del Giudice, Della Merce / 1819 Ferraro / 1820
Conte / 1821 Ferraiolo, Siniscalchi (in epoca medievale era il maggior-
domo dei signori feudali; in seguito, divenne un alto dignitario ammini-
strativo), Fabbrini / 1822 Ferrante, Cavaliere / 1826 Marchese, Sensale /
1828 Pastore, Vescovo / 1829 Falconieri / 1830 Prete / 1837 Del Re / 1838
Imperatore / 1839 Tagliamonte (attività legata all’estrazione ed alla lavo-
razione dei materiali da costruzione), Ferro / 1840 Guerriero, Artigliero
/ 1841 Pescatore, Padrone / 1842 Contessa, Favà (alterazione di favaro,
termine desueto per fabbro) / 1843 Soldato, Marinaro, Deputato / 1844
446 Saponaro, Monaco / 1845 Nobile, Fabbricatore (muratore) / 1846 Viscon-
ti / 1847 Abbadessa, Imperatrice, Ferri / 1848 Favaro (vedi Favà) / 1849
Cardinale, Dottore / 1850 Carpentiero, Re (di nome Ferdinando, in onore
al re Ferdinando II che regnò dal 1830 al 1859) / 1851 Proteggitore / 1852
Vicedomini / 1853 Forno / 1854 Frutta / 1856 Ferrentino / 1857 Mangano
(nell’industria tessile era la macchina che rendeva liscia la superficie
dei tessuti), Castellano / 1858 Ferrajuolo / 1859 Pecoraro, Ferrigno /
1860 Monaca / 1861 Scognamiglio (dialetto per trebbiare il miglio) / 1862
Cavallaro / 1864 Manganaro / 1866 Carpentiere, Carpentieri, Balestrieri
/ 1870 Spaccapietra, Presidente, Primigerio (da primicerio, dignitario di
confraternite religiose), Alfieri / 1871 Fontanaro / 1872 Pellegrino / 1873
Rotaro (l’addetto alla Rota dei proietti), Medici / 1874 Liberta, Fante.

Cognomi legati ai patronimici • L’attribuzione del cognome di origine


patronimica può derivare dal nome del genitore o di un santo; quest’ul-
timo caso si relaziona alla diffusione del culto dei santi negli ambiti reli-
giosi cattolici. Così, ad esempio, troviamo il cognome Di Raffaele (1814)
perché il culto tardivo di san Raffaele cominciò proprio nell’Ottocento
a diffondersi tra i fedeli. • 1809 Giacchino, Salvatore, Maria, Michela
/ 1811 Polito (alterazione di Ippolito) / 1812 Prisco, Marinucci, De Meo,
Iannotti / 1813 Raimondo, Quirino, Uliano, D’Andrea, De Luca, Di Luca,
Cuomo (da Cosimo, alterazione del dialetto Cuosemo) / 1814 Di Leonar-
do, Ruggiero, Di Raffaele, De Rosa, Di Pascale, Ilardo, Di Gregorio / 1815
Paolino, De Nicola, Rosa / 1816 Tommasino, Di Nicola / 1817 Susanna,
Guglielmino, Di Martino, Mauriello / 1818 Fausto, Giordano, Paolina /
1819 Romeo, Rocco, Venturino / 1820 Vitale, Graziano, D’Alessio / 1821
Pietrangelo, Guglielmi, Eufemia, Solimene, Martinelli / 1822 Oliviero,
Vanni (diminutivo di Giovanni), Carletta, Camillo, Alberto / 1823 Pasca
(da Pasquale), Vivo, Valerio, Aurelio, Alberti / 1824 D’Angelo, Paoletta,
Eusebio / 1825 Perez, Franco, Franchini / 1826 Mauro, Fabrizio, De Simo-
ne / 1827 Attanasio, Nuele (alterazione di Emanuele), Matteo / 1828 Sabi-
no, Floriana / 1829 Silvio, Potito, Chantal / 1830 Visco, Ruffino, Fiorenzo,
De Paoli, Onesimo (sant’Onesimo di Bisanzio), Celestino, Oresta, Sergio,
D’Alessandro, Massimo / 1831 Rosario, Giustiniano, Oresto (Oreste?), Ve-
nanzio, Virenzio / 1832 Petrillo (da Pietro), Porzio / 1833 Jaccarino / 1834
Adelaide, Raimo (alterazione di Raimondo), Leonardo, Di Lorenzo, Di
Fiorenza / 1835 Di Tommaso, Ruocco (alterazione di Rocco), De Vincenzo,
Federico, Policarpo (da Policarpo di Smirne) / 1836 D’Antonio, Salvadore,
Del Carmine, Rinaldi / 1837 D’Aniello, Vittorio / 1838 Vittoria, Ottone, 447
Pollio, Callisto, Sisto, Riccardi, Blasio (per Biagio) / 1839 Ubaldo, De Feli-
ce, Orazio, Massimiliano, Cesario, Stefano, Baldino, Tiriano (alterazione
di Tiziano), Valente / 1840 Rosetta, Di Girolamo, Alessandro, Fabiano,
Massimino / 1841 Sebastiano, Di Paola, Marcello, Costantino, Ippolito,
Vivenzio, Vito / 1842 Clorinda / 1843 Climaco, Longino, De Leo, Lauro,
Amelia, Di Giacomo, Sabatino, Savino, Severino, D’Anzelmo / 1844 Zino,
Giuliani, De Leonardis / 1845 Gabriella, Vespasiano, Giuliano, Loffredo,
Fernando, Felice, Clemente / 1846 Di Gaetano, Gerardo / 1847 Nicola,
Di Gennaro, Sofia, Calogero, Costanzo, Baldi, Isidoro / 1848 Ranieri,
Rodriquez, Virgilio, Liborio, De Giovanni / 1849 De Luca, Valentino, Di
Paolo, Geronima, Iaccarino, Iannaccone / 1850 Aureliano, Lorenzo, Di
Lorenzo, Luise (dialetto per Luigi), Palladino (diminutivo di Pallade) /
1851 Fiorenza, Laurenza, Rodiquez (alterazione di Rodriquez), De Rober-
tis, Rocco / 1852 Augusto, Riccardo, Patrizio / 1853 Giannino, Corrado /
1854 Ottaiano, Ottaviani, Di Giorgio, D’Antuono / 1855 Di Onofrio, De
Mattia, Ursini (dal nome Orso) / 1856 Marco, Vitagliano (da Vitaliano),
Rosella, Colasanto (agglutinazione di Nicola Santo) / 1857 Crisostomo,
Laura, Reginella, Petrino (diminutivo di Pietro) / 1858 De Perez, Mattia /
1859 D’Orsi, De Stefano, Tobia / 1861 Luciano / 1862 Cirillo, Urzomanno
(dal nome Orso) / 1863 Ursino (dal nome Orso), Di Maria / 1864 Maura,
nelle due pagine seguenti De Cesare / 1865 Iolando, Ulliano / 1867 Perrelli (da Pietro), Gianmario /
Orfanelli a Castellamma-
re di Stabia (xx secolo) 1868 Pompilio / 1869 Guido / 1870 Pompeo, Ugo, Raniero, Renzi (altera-
© archivio plaitano

448
449
zione di Lorenzo), Pucci (derivato da Filippuccio o Iacopuccio), Orlando,
Olivieri, Di Ottone / 1871 Di Vincenzo, Perrono (da Pietro), Perrone (da
Pietro), Pantaleone (da Pantaleone di Nicomedia), Gerardi, Giannetto /
1872 Di Rosa, Pipino, Violante, Di Prisco, Giampaolo, Carlotta, Giancola,
Giannelli / 1873 Leone, Gemmina, Orlandino, Giannone, Lara / 1874
Gelsomino, Lucilla.

Cognomi legati alla religiosità • Erano i cognomi inventati coe-


rentemente con la fede nella religione cattolica e potevano esplicitarsi
nell’attribuzione di nomi legati alla cariche, agli eventi, ai luoghi, ai
vangeli, alle virtù, ai santi. • 1813 Abate / 1814 Delli Casta, Rota (la
Rota dei proietti) / 1815 Pagano / 1817 De Sanctis / 1819 Croce, Custode,
Neri (registrato il 25 maggio con il nome Filippo, proprio come il santo,
come ricorrenza dell’onomastico del 26 maggio) / 1820 Bonifacio, Vitale,
Lauritano / 1821 Pagani, Candeloro, Carnevale, Mariano / 1822 Vigi-
450 lia, Amodio, Assisi, Lauro, Santaniello, Santo / 1823 Assunta, Zaccaria,
Papa, Natale (per i nati nelle festività natalizie) / 1824 Addolorata, Ario,
Palma, Santoro / 1826 Quaranta (riferimento alla Quaresima) / 1827
Attanasio, Zenone / 1828 Pastore, Vescovo, Bailon (agionimo per Pasqua-
le Baylon che, nella tradizione popolare napoletana, è spesso accostato
all’universo femminile quale santo protettore e da qui l’invocazione: San
Pasquale Baylonne protettore delle donne, fammi trovare marito, bianco, rosso
e colorito, come te, tale e quale, o glorioso san Pasquale!), Evangelista, Santa,
Palmieri (nome dato a chi ritornava dal pellegrinaggio in Terra Santa) /
1829 Palestina, Arcangelo, Sanfelice, San Marco / 1830 Amodeo, Vergine,
Barabba, Prete, Pace / 1831 Cristiano, Rosario, Sales / 1832 Sammarco /
1833 Gaudioso, Gloria, Sposa, Samaria, Santolia / 1834 Anastasio, Basile
/ 1835 D’Angelo, De Angelis, Della Croce, Trafitta, Sabba / 1836 Epifania,
Festa, Quaresima, Santarpia / 1837 Pasqua / 1838 Universale, Annun-
ziata / 1839 Passione / 1840 Sposata / 1841 Santa Croce / 1843 Paradiso,
Fedele, Suarato, Speranza, San Giacomo / 1844 Abbadessa, Belisario, Isa-
ia, Monaco / 1845 Sangermano / 1847 Apostolo, Abele, Aronne, Assunta,
Basilica, Pazienza, Borromeo (agionimo per Carlo Borromeo), Gerusa-
lemme, Quaresimale, Santillo, Sangiovanni / 1848 Risorto, De Custo-
de, Pangrazio (da san Pangrazio), Penitente, Di Sales, Giacobbe / 1849
Agostiniano, Taumaturgo (chi compie atti miracolosi), Oloferno (per Olo-
ferne, personaggio biblico), Montevergine / 1850 Giuda, Del Prete / 1851
Proteggitore, Profeta, Paderbono (alterazione di Padre Buono), De Liguori
(per devozione a sant’Alfonso Maria de Liguori), Orléans (da santa Gio-
vanna d’Arco, chiamata la pulzella d’Orléans) / 1852 Sanseverino, Umile /
1853 D’Orléans (vedi Orléans) / 1854 Incoronata, Protettore, Provvidenza,
Protegge, Prudente, Protettrice, Protege / 1855 Ursini, Pastorella, Baylon
(agionimo per Pasquale Baylon il cui culto, oltre che in Spagna, si diffuse
particolarmente a Napoli nei lunghi anni del viceregno), Candelora,
Della Grazia / 1856 Calvaria, Santa, Salesio, Sabbato / 1857 Vescovile,
Risurrezione, Della Libera (riferimento alla chiesa stabiese?), Delli Santi
© wikipedia

/ 1858 Orsini (da Papa Benedetto XIII, al secolo Pietro Francesco Orsini),
1859 Pastorale, Della Pace, Santella, Del Buon Consiglio / 1860 Monaca,
la Pulzella d’Orléans Di Palma, Passione, Nazzareno / 1861 Agnello / 1862 Pulzella (vedi Or-
Santa Giovanna d’Arco léans), 1864 Del Gaudio, Purgatorio, Santarpino / 1866 Crisostomo / 1869
Giobbe, Sabato Santo (nato in prossimità della Pasqua), Santobuono,
Redenta / 1870 Primigerio (da primicerio, dignitario di confraternite reli-
giose), Di Natale, Salette / 1871 Sammartino / 1872 Di Pasqua, Pellegrino,
Cardinale / 1873 Natalizia / 1874 Presepe, Episcopo, Organo, Mistica. 451

Cognomi legati a toponimi • Erano i cognomi inventati in relazione


alla presunta o certa provenienza del neonato o dei genitori; così come
nell’originazione dei cognomi in generale, anche per questi cognomi
inventati i luoghi sono indicati in modo secco (Napoli, Lucca), con la
preposizione di (Di Loreto, Della Torre) oppure con l’aggettivo etnico
(Greco, Calabrese) • 1811 Capua / 1812 Roscigno (in provincia di Saler-
no), Monteforte (Monteforte Irpino, in provincia di Avellino) / 1813 Greco,
Persico (della Persia), Navarra (regione spagnola), Longobardi / Ajello
(Aiello del Sabato, in provincia di Avellino) / 1814 Romano, Girace
(Gerace, in provincia di Reggio Calabria), Lucca / 1816 Rescigno (altera-
zione di Roscigno), Calabrese / 1817 La Cava, Di Somma / 1818 Di
Nocera, Di Casola, Salerno, Catalano, Da Cortona / 1819 Armenio, Di
Capua, Parmigiano (da Parma), Palermo, Della Grecia (il piccolo fu
chiamato Achille) / 1820 Picerno (in provincia di Potenza), Piedimonte
(Piedimonte Matese, in provincia di Caserta), Damasco, Di Padova, Di
Napoli, Cosenza, Genovese / 1821 Valle, Napolitano, Gragnano, Smirne
(città della Turchia), Ascolese, De Apice (in provincia di Benevento) / 1822
Vesuvio, Assisi, Pisano, Penza (per Pienza?), Cava, Sorrentino / 1823
nelle due pagine seguenti
Orfanelli a “Villa La Aversa, Gaeta, Ponza, Amalfi / 1824 Milano, Calvanico (in provincia di
Romita”, attuale Hotel La Salerno), Nola / 1825 Pisciotta (in provincia di Salerno) / 1826 Parisi
Medusa, di Castellamma-
re di Stabia (1904) (dialetto per Parigi), Patti (in provincia di Messina) / 1827 Andrisano,
452
© archivio plaitano
453
Cagliari, Gauro (vulcano non attivo dei Campi Flegrei) / 1828 Frascati (in
provincia di Roma) / 1829 Cordova, Palestina, Arezzo, Villanova (nome
generico di città nuova) / 1830 Barletta, Paparone (frazione del comune di
Seminara in provincia di Reggio Calabria), Paduano (da Padova), Montel-
la (in provincia di Avellino) / 1831 Molino, Egiziaca, Lombardo, Durazzo
(città dell’Albania), Avellino / 1832 Parmisano (da Parma), Bonito (in
provincia di Avellino), Della Marca, Metese (da Meta di Sorrento, in
provincia di Napoli) / 1833 Di Scozia, Vinci (il paese natio di Leonardo),
Lima (capitale del Perù o arnese del falegname?) / 1834 Del Pozzo, Tolosa
(in Francia), Tolentino (in provincia di Macerata), Pisanelli (da Pisa), De
Nocera, Sannito (del Sannio), Bologna / 1835 D’Ungheria, Vallenova
(nome generico di città nuova), Pontecorvo (in provincia di Frosinone), Di
Siracusa / 1836 Trapani, Ungaro (dall’Ungheria), Del Vasto (nome
comune di luogo), Padovano (da Padova), Di Svezia / 1837 Grieco (per
greco), Portogallo, Celentano (per cilentano) / 1838 Vallata, Svedese, Di
454 Siena, Matera, Girgenti (il nome di Agrigento fino al 1927) / 1839 Anguil-
lara (Anguillara Sabazia, in provincia di Roma) / 1840 Napoli, Torino,
Tedesca / 1841 Palmigiano (da Parma), Portoghese, Montagna, Di Spagna,
Piemontese, Ponticelli (nome comune di luogo), Di Loreto (in provincia di
Ancona) / 1842 Paragino (da parigino?), Visanola (frazione della nostra
città), Trapanese, Francese, Pozzuoli (in provincia di Napoli), Procida (in
provincia di Napoli), Procedano (da Procida), Del Porto (nome comune di
luogo), Fontanella (nome comune di luogo), Nizzo (per Nizza?), Messina,
Meta (Meta di Sorrento, in provincia di Napoli), Cinise (per cinese),
Fiorentino, Spagnuolo, Spagna, Sorrento, Salernitano, Londra, Indiano,
Americano, America, Asia / 1843 Rodi, Gravina (in provincia di Bari),
Isernia, Scafati, Spagnuola, Torre (nome comune di luogo oppure da
Torre Annunziata o Torre del Greco, in provincia di Napoli), Della Torre
(vedi Torre), Scalese (di Scala in provincia di Salerno), Venezia, Corinto /
1844 Ravelli (per Ravello), Rossano (per Rossano Calabro, in provincia di
Cosenza), Potenza, Marrocco (dialetto per Marocco), Durazzano (in
provincia di Benevento), Francia, Levante, Cuma (in provincia di Napoli),
Visciano (in provincia di Napoli), Albanese, Algerini / 1845 Siculi (della
Sicilia), Rupe (nome comune di luogo), Di Perugia, Selva, Frejus (città
francese), Amalfitano / 1846 Ragusa, Rivelli (per Ravello), Etna, Persia,
Marano (in provincia di Napoli), Fasano (in provincia di Brindisi),
Savoia, Sassone, Serinese (di Serino in provincia di Avellino), Sansevero
(San Severo, in provincia di Foggia), Afragola, Calabria, Alessandria
(chissà se il riferimento è legato alla città piemontese o alla città egizia-
na) / 1847 Toscano, Riva, Brescia, Sofia (capitale della Bulgaria?), Sessa
(Sessa Aurunca, in provincia di Caserta), Siberia, Sassano (in provincia
di Salerno) / 1848 Telese (in provincia di Benevento), Troia (antico sito
storico dell’Asia Minore o cittadina in provincia di Foggia), Sales
(cittadina francese dell’Alta Savoia dove nacque Francesco di Sales,
ispiratore della congregazione della Famiglia Salesiana fondata da San
Giovanni Bosco), Villafranca (nome generico di città nuova), De Sieno (da
Siena), Spano (alterazione di spagnolo), Inglese, Capuano / 1849 Padova,
Italiano, Vienna, Montevergine (santuario in provincia di Avellino),
Svizzera, Nicea (antica città dell’Asia minore), Ferrarese, Lavello (in
provincia di Potenza), Lucchesi (di Lucca in Toscana), Bari (il piccolo fu
chiamato Nicola), Arpaia (in provincia di Benevento) / 1850 Perugia,
Siviglia, Squillace (in provincia di Catanzaro), Alemagna (alterazione di
Germania in spagnolo), Canade (per Canada?) / 1851 Torrese (da Torre
Annunziata o Torre del Greco, in provincia di Napoli), Agerola (in 455
provincia di Napoli), Pavia, Siracusa, Algieri (Algeri) / 1852 Nocera,
Toscana, Tolendino (da Tolentino), Scanzano (quartiere della nostra
città), Belgio, Cesarea, Cartagine, Cosentino, Messinese, D’Assisi / 1853
Stabiano (Catella, nata il 15 marzo 1853), Quisisana (la collina dove c’è la
nostra Reggia angioina) / 1854 Gela (in provincia di Caltanissetta),
Costantinopoli, Formisano (da Formia, in provincia di Latina) / 1855
Molise, Fratta (da Frattaminore o Frattamaggiore, in provincia di Napoli)
/ 1856 Da Pozzo (nome comune di luogo), Sardegno (da Sardegna),
Spagna, Germania, Montefusco (in provincia di Avellino), Monte, Monti,
Solofra / 1857 Tedesco, Eboli, Della Rocca, Como / 1858 Sardegna / 1860
Di Lima (capitale del Perù o arnese del falegname?) / 1861 Savoja,
Piemonte (forte il richiamo all’Unità d’Italia), Francavilla / 1862 Cilento,
Una proietta stabiese alla Scala (in provincia di Salerno) / 1863 Milanese, Piemontese, Maiori (in
quale fu attribuito il
cognome Telese provincia di Salerno), Staiano (per molti linguisti è un’alterazione,
© ascs
assieme a Staibano, del nostro toponimo stabiano) / 1864 Napoletani,
Ercolano, Atripaldi / 1865 Lombardi, Maiorica (dell’isola di Maiorca
nelle Baleari) / 1866 Gargano / 1867 Persico (della Persia), Di Padua (di
Padova), Di Lione (in provincia di Avellino), De Siena, Manfredonio (da
Manfredonia, in provincia di Foggia), Avezzano (in provincia de L’Aquila)
/ 1868 Pozzano (frazione della nostra città), Nolano, Stabiese (Concetta,
nata il 16 dicembre 1868) / 1869 Sicignano (Sicignano degli Alburni, in
provincia di Salerno), Del Libano, Di Boscoreale / 1870 Di Persia, Ragusi
(per Ragusa), Inghilterra, Di Nantes (città francese), Frusinone (da
Frosinone), Tropeano (da Tropea in Calabria), Terracina, Viterbo, Casoria
/ 1871 Verona, Vico (da Vico Equense?), Vettica (frazione di Amalfi),
Velletri (in provincia di Roma), Aragona, Manfredonia (in provincia di
Foggia), Piazza (nome comune di luogo o da Piazza Armerina in provin-
cia di Enna), Praiano (in provincia di Salerno), Pimonte (in provincia di
Napoli), Del Ponte (nome comune di luogo), Marino, Firenze (la città fu
456 capitale d’Italia dal 1865 al 1871), Silvano (aggettivo di bosco), Stabia
(Annunziata, nata il 19 ottobre 1871), Serra (Pratola Serra, in provincia di
Avellino), Di Londra, Longridige (la scrittura corretta è Longridge, città
dell’Inghilterra), Ravella (per Ravello), Civitavecchia / 1872 Turco, Scilla
(in provincia di Reggio Calabria), Capaccio, Altamura / 1873 Piccardo
(dalla Piccardia, regione della Francia), Prato (nome comune di luogo o il
capoluogo della provincia toscana), Marrocca (da Marocco), Francone
(sinonimo di francese), Savoiardo / 1874 Armenia, Parisiello (da Parigi),
Vistola (fiume della Polonia), Tripoli, Ortona, Orta (lago del Piemonte). Il
toponimo della nostra città è stato attribuito ai trovatelli dell’Ottocento
con diverse denominazioni: nel 1853 Stabiano per la trovatella di nome
Catella, nel 1863 Staiano (che per molti linguisti è l’alterazione, assieme
a Staibano, del nostro toponimo stabiano), nel 1868 Stabiese (qui a
dibattere e perpetuare il dilemma sull’etnico cittadino, e cioè stabiese o
stabiano?), nel 1871 Stabia (di nome Annunziata). Oltre alla città, furono
attribuiti cognomi legati anche alle frazioni: nel 1842 Visanola, nel 1852
Scanzano (anche se tale toponimo potrebbe essere legato al comune
Scanzano Jonico in provincia di Matera), nel 1868 Pozzano. Purtroppo
tali cognomi, se attribuiti a femmine o a maschi che non hanno avuto
figli, non hanno avuto grande diffusione; da ricerche si è appurato che
sopravvive, in pochissimi casi, il solo cognome Stabia. A tal proposito ho
ricercato nel sito https://heritage.statueofliberty.org i nominativi degli
stabiesi emigrati negli Stati Uniti d’America nel secolo scorso ed ho
trovato: Marino Stabiano arrivato nel 1902 e proveniente da Cesinola
(frazione di Cava de’ Tirreni in provincia di Salerno); Geljonina Stabia
nata nel 1892 a Oliveto (Salerno) e arrivata a New York nel 1909; Prosfero
(penso sia un’errata scrittura di Prospero) Stabia, neonato nel 1955. Ci
sono altri casi il cui cognome richiama Stabia, vuoi per errata trascrizio-
ne o per pronuncia e adeguamento alle diverse lingue: Jacques Estabial
(Francia), Stanislao Stabiad (Russia), Kazimierz Stabiak e Katha Stabiak
(Polonia), Rodolfo Stabiali (Aquino in provincia di Frosinone), Garabet
Stabian (Turchia), Alexdr Stabianska (Russia), Anna Stabianski (Russia).

Cognomi legati a stranezze • Erano i cognomi derivati da improba-


bili riferimenti, senza un significato logico; probabilmente, nei periodi
di scarsezza creativa, l’incaricato inventava il cognome consultando a
caso un atlante, un libro di zoologia o un manuale di botanica. Conte-
stualizzando tali scelte, si può constatare che agli inizi dell’Ottocento
gli strascichi rivoluzionari delle posizioni ideologiche legate alla laicità 457
portarono (almeno in Francia) alla cancellazione dei nomi dei santi dal
calendario, considerati frutto di false credenze e quindi non utilizzati
più come nomi di battesimo; attraverso l’abbandono degli agionimi si
esprimeva l’adesione, più o meno trasparente, (o la contrapposizione)
all’ideologia anticlericale che si andava diffondendo. Così si privilegia-
vano, di contrappunto, i cognomi attinti dai tre regni della natura, riferiti
sempre ad animali, vegetali e minerali poco comuni; ma anche dai
grandi personaggi della storia antica, dalla geografia, dalla mitologia,
dalla letteratura e dalla cultura, sia scientifica che letteraria. I riferimen-
ti dotti attingevano anche dal linguaggio giuridico e burocratico utiliz-
zando addirittura voci latine, più o meno correttamente trasmesse; sacro
e profano si incrociavano strettamente tanto è vero che, di solito, il nome
del bambino era di origine sacra mentre il cognome prevalentemente
laico. Un’indagine generica registra molti spunti dalla natura (Incendio,
Grandine, Lava, Raggio, Caligine, Neve, Scirocco, Vento, Notte, Tempesta,
Terra, Fumo, Stagno, Diamante, Ambra, Onice, Opale, Alabastro, Zinco),
poi dal mondo vegetale (Tronco, Giardino, Carofano, Quercia, Ramo, Ro-
veto, Olmo, Giardiniera, Varra, Patana, Cipolla, Mirto, Carciofi, Gelsomi-
no), poi dal mondo animale (Pitone, Capra, Pecorella, Serpino, Serpenta,
nelle due pagine seguenti Palumbo, Pellicano, Delfino, Lupo, Fruncillo, Cardillo, Canario, Gallina,
Orfanelli alla Cattedra- Treglia) ma sono poco, al confronto, dei grassi cognomi pasquali Salsic-
le di Castellammare di
Stabia (1949) cio, Sanguinaccio e Soppressata! Ancora, spunti dotti e derivati dalla
© archivio plaitano

458
459
letteratura (Salomè, Castore, Polluce, Sanzio, Minerva, Saturno, Nestore,
Marte, Minossi, Giove, Anarchia, Faraone, Pulzella, Temistocle, Tetrarca,
Venere). Infine i cognomi presi, pari pari, da cose e oggetti quotidiani
(Gerla, Bottiglia, Organo, Cielo, Chiodi, Pungolo, Pagnotta, Presepe,
Miele, Popolo, Marmo, Torta, Gelone, Trombetta, Streppone, Cottone,
Pizza, Tempesta, Talamo, Porta, Canestro) • 1812 Cotone, Zuppa, Oliva,
Pepe, Tortora, Vinaccia, Pollice, Cocurullo / 1813 Tartaglione, Trampa-
ruolo, Venturo, Palumbo (dialetto per colombo), Pica, Misto / 1814 Mollo,
Scarpetta / 1815 Cece, Petti, Caccioppoli, Nettuno / 1816 Eremita / 1817
Piatti, Gambardella, Amaro / 1818 Dello Schivo, Finto, Passa, Pratilli,
Della Merce / 1819 Verdoliva (il colore verde dell’oliva), Mercurio, Salomè,
Carrozza / 1820 Troiano, Mosca, Saturno, Castore, Polluce / 1821 Cane-
stro, Pesce, Procedura, Valle, Tramparulo, Quarto (dei fratelli?) / 1822
Tornese (la moneta), Paragallo, Mercolella (dall’erba mercorella), Leopar-
do / 1823 Decimo (dei fratelli?), Preta (dialetto per pietra), Vacca, Pane,
460 Rana, Passaro (per passero), Calamita / 1824 Barca, Volpe / 1825 Passero
/ 1826 Arancio, Renna, Pallotta, Prima, Petraglione, Avanzo, Sanzio
(cognome dell’artista Raffaello) / 1827 Coda, Panica, Panza, Fumo / 1828
Minerva, Pastore, Porta, Nestore / 1829 Saturnino, Boccia / 1830 Vergi-
ne, Paparone, Silenziario / 1831 Pacca / 1832 Della Marca / 1833 Marte,
Miele, Popolo, Proto, Compagno, Garofalo, Guarracino, Crescente / 1834
Vallin, Bacchetta, Parziale / 1835 Notabene, Porri, Cantieri, Minossi (per
Minosse?) / 1836 Giove, Noce, Porpora, Ottavo, Nocella / 1837 Ruta, Uva,
Visita, Terra, Zucca, Finocchio, Patata, Pomo, Panico, Pergola, Papavero,
Platano, Cipresso / 1838 Universale, Talamo, Treglia (dialetto per triglia),
Arangio (alterazione di arancio), Vigna, Viola, Palazzo, Penna, Patella,
Panaro, Capitone, Balcone / 1839 Scatola, Velleggiante, Vegliante, Sino-
nimo, Limone, Lapide / 1840 Pecora, Trapunto, Tempesta, Tirone (recluta
dell’esercito romano che dopo un anno di istruzione diventava soldato),
Notte, Rafaniello, Ronda, Sposata, Marziano, Mercuriale, Sardella, Fi-
nestra, Verde, Sedia, Vipera (?), Vento, Villa, Spada, Guerriero / 1841 Tra-
bacolo (imbarcazione tipica del mar Adriatico), Brigada, Salute, Spinoso,
Patanella, Padrone, Scirocco, Grifone, Guerra, Mandorle, Malvato / 1842
Trenta, Contessa, Tronco, Tromba, Giardino, Fiocco, Giardiniera, Pignolo,
Varra, Pizza, Pagnotta, Patana (dialetto per patata), Panaro (dialetto per
cesto), Panariello (vedi Panaro), Navetta, Capra, Nastro, Pazzo, Del Pezzo,
Pecorella, Nota, Neve, Caramella, Cocozza, Spenta, Sfortunata, Serpino,
Serpenta, Salsiccio, Soppressata / 1843 Vinto, Carciofi, Sporta, Mezzanot
(per mezzanotte, così senza le due lettere finali), Prola, Malerba / 1844
Capretti, Teatro, Eletto, Vadalà (un insulto dell’epoca!), Stoppa, Ricatti,
Sorveglia / 1845 Rupe, Riegler, Lepre, Pagliara, Piano, Vispier, Scalan-
drone, Selva, Selce, Fruncillo (dialetto per fringuello), Delfino, Carbone,
Codice, Grandine, Incendio / 1846 Temistocle, Fox (volpe in inglese?),
Parente, Quinto (dei fratelli?), Cespuglio, Candele, Caligine, Sollecito,
Anguillo / 1847 Carpe, Picaro, Pazienza, Moribondo, Mustacciuolo, Vec-
chi, Vermiglio, Rubino / 1848 Simplicio, Parziale, Semmola (dialetto per
semola), Truppa, Tony, Anarchia / 1849 Sepolta, Bisaccia, Gatta, Estin-
to, Terrone, Testa, Tortoriello, Montetamburro / 1850 Toro, Dilettante,
Meschino, Cosa, Vanespen, Wolf, Le Rouge, Vascello, Del Vecchio / 1851
Appetito, Missione, Tetrarca, Sosamello / 1852 Umile, Romito, Cipolla,
Lupo, Cottone (dialetto per cotone), Gallina, Anguilla / 1853 Sanguinac-
cio, Tambur (chissà perché proprio così senza la vocale finale), Perla,
Forno / 1854 Sepressata, Moribonda, Miracolosa, Pigna, Frutta / 1855
Miracoloso, Delle Galline / 1856 Papà / 1857 Scarola, Cardillo, Canario / 461
1858 Geniale, Percuoco, Venere, Marvizzo (dialetto per tordo, sia uccello
che pesce), Galletta (riferimento al biscotto stabiese?) / 1859 Kosta, Del
Buon Consiglio, Mustacciuoli / 1860 Prezioso, Caribaldi (dialetto per
Garibaldi) / 1861 Pappalardo, Melone / 1862 Polimeno, Della Mercede,
Rapacciuolo, Medaglia, Colaps, Calaps, Susamello, Streppone / 1863
Tele, Tamburo / 1864 Margine, Ubertosa / 1865 Percoco / 1866 Passeggia,
Ratti, Raia, La Porta, Fasolino / 1867 Oriente, Maltempo / 1868 Carofano
(dialetto per garofano), Pellicano / 1869 Palummo (dialetto per colom-
bo), 1870 Cantido (dialetto per candido), Mezzanotte, Posta, Presidente,
Menta / 1871 Quercia, Trotta, Mollica, Faraone, Cuoro (dialetto per cuore)
/ 1872 Zampa, Verdetto, Zuccone, Rosone, Tulipano, Spalice (dialetto per
asparago), Pocobello / 1873 Tesoro, Tasso, Trombetta, Pino, Pomo, Puca,
Pira, Cima, Ramo, Raggio, Roveto, Otto, Olmo, Scialuppi, Muro, Zero,
Cappiello (dialetto per cappello), Cingoli (i cordoni di lana che vengono
indossati dal sacerdote sul camice all’altezza della vita), Violetta, Gelone,
Pirro, Pitone, Cardenia (dialetto per gardenia) / 1874 Ordini, Lava (negli
anni precedenti il Vesuvio aveva eruttato), Torta, Terno, Muto, Navicella,
Mina, Piroga, Picca, Radice, Rotolo, Prato, Pista, Pungolo, Presepe, Mar-
mo, Mirto, Scoppola, Erba, Gerla, Gelsomino, Organo, Bottiglia, Battaglia
/ 1875 Cielo, Chiodi.

© raffaele fontanella

462
Il poster dei cognomi stabiesi

Il poster con tutti i Il poster visualizza il numero dei residenti di Castellammare di Stabia 463
cognomi dei residenti a
Castellammare di Stabia aventi lo stesso cognome con dati aggiornati al 2 settembre 2019 (database
al 2 settembre 2019
fornito dall’Ufficio Anagrafe con autorizzazione alla pubblicazione). L’infografi-
ca, cioè la sintetica e efficace modalità di esporre i dati statistici, diventa
così un manifesto delle proprie radici; ogni cognome rappresenta un
pezzo dell’identità delle persone e della nostra città. Le caratteristiche
tecnico-grafiche del poster sono esplicitate con l’infografica a cascata
partendo dal cognome più diffuso, 2.838 individui con cognome Esposi-
to, fino al cognome attribuito ad un solo individuo; sono rappresentati in
tutto 5.019 cognomi. La diffusione dei cognomi è visualizzabile sia con il
numero ma anche attraverso la dimensione del testo; infatti più grande è
il corpo del carattere tipografico con cui è scritto, più alto sarà il numero
delle persone a cui è attribuito e viceversa.

Esistono due modi per visualizzare l’infografica: da lontano, vedendo così


solo i cognomi più diffusi proprio perché hanno un carattere molto gran-
de, e da vicino, visualizzazione che permette di immergersi in centinaia
di cognomi alla ricerca del proprio o di quelli di amici e parenti; inoltre,
addentrandosi nella lettura ci si ritroverà immersi in tanti cognomi che
regalano delle sorprese come, tra le altre, la convivenza dei cognomi tipi-
ci stabiesi con quelli stranieri: cinesi, sud americani o nord africani. Nel
poster, in dettaglio, è visualizzato in rosso il numero totale di individui
aventi il relativo cognome; quando due o più cognomi sono rappresentati
L’impaginazione dei 5.019 dallo stesso numero di persone, appariranno separati da uno slash (/).
cognomi nel poster dei
cognomi della città di Ad esempio, il rigo 407 Criscuolo / Del Gaudio significa che in città ci
Castellammare di Stabia
sono 407 persone con cognome Criscuolo e 407 persone con cognome
Del Gaudio. Nel poster è interessante segnalare quelli lunghissimi come
Lubrano Di Scassacanciello, Siqueira Rose De Carvalho, Mohammed Mahmoud
Nasr, Maranhao Araujo Da Silva, Amarathunga Arachchige, Pereira Da Silva
De Freitas e La Madrid Carmen De Coppola oppure cognomi cinesi di appe-
na due lettere come Ni, He, Du, Mo, Hu, Su, Lo, Ye nonché un insolito Md
con sole consonanti; poi anche la presenza curiosa dei cognomi Giovedì
e Giovedi, con e senza accento. Questi dati devono generare un modo
nuovo di guardare la nostra città, sempre più tollerante e cosmopolita.

Nel complesso il numero dei cognomi stabiesi non può comunque


considerarsi fisso e inamovibile: con il tempo può contrarsi, per l’estin-
guersi di alcune famiglie, o essere incrementato, viceversa, dall’afflusso
464 di cognomi stranieri. Ma vi è di più, si può coniare un nuovo cognome:
quando un bimbo trovatello non sia adottato da alcuna famiglia e viene
battezzato con un cognome dagli ufficiali di Stato civile; quando una per-
sona ha un cognome ridicolo o volgare e richiede il cambiamento legale;
infine quando possono verificarsi errate ed involontarie trascrizioni,
peraltro molto rare al giorno d’oggi.

Uno degli aspetti di questo studio che più mi ha colpito, a mano a


mano che procedevo nel lavoro, è stato l’incredibile numero e varietà di
cognomi etnici legati, via via crescendo, alla dimensione della provincia
napoletana, del Mezzogiorno d’Italia, del centro e nord Italia, dell’Euro-
pa continentale. Ciò sposta l’attenzione dal campo semantico a quello
storico; mette, cioè, l’accento su una geografia umana (in grandissima
parte datata a partire dal XVI secolo) che trova parziale giustificazio-
ne non solo nei fatti di guerra, dominazioni ed emigrazioni ma anche
nella realtà socio-economica della nostra città, da sempre richiamo (dal
circondario e da più lontano) di professionalità stagionali e stanziali
in prevalenza di carattere agricolo, tessile e marinaro. Questa valuta-
zione socio-storica offre un piccolo affresco della società stabiese dalla
metà del Cinquecento ai giorni nostri. In particolare, per apprezzare
meglio i dati che esporrò bisogna fare due premesse: la prima riguarda
la geografia e il concetto di patria nel Medioevo in modo da considerare
viaggio all’estero il semplice spostamento di un mercante napoletano verso
465
466
Carta geografica (1782) Firenze, ad esempio; la seconda è che ho elaborato sommariamente solo i
“il Regno di Napoli diviso
nelle sue provincie” del cognomi che hanno una certa ed evidente etimologia, al netto di dubbi e
cartografo e tipografo
ulteriori approfondimenti. Quindi cominciamo con i cognomi derivati da
Antonio Zatta
un primo antenato che viveva in una città dell’attuale regione Campania:
Somma (da Somma Vesuviana in provincia di Napoli o dal luogo comune
derivato dalla sommità di una collina o montagna), Napoli e Di Napoli,
Napolitano e Napoletano, Di Nola (Na), Sorrentino (etnico di Sorrento),
Procida (Na), Di Palma e De Palma (Na), Massa (Na), Marigliano (Na),
Strianese (etnico di Striano in provincia di Napoli), Saviano (Na), Viscia-
no (Na), Marano (Na), Giugliano (Na), Pompei (Na), Quagliano (Na), Stai-
bano (presunto etnico di Stabia, in provincia di Napoli), Gragnano (Na),
Gragnaniello (da Gragnano), Salerno e Salierno (dialetto per Salerno),
Nocera e Di Nocera (Sa), Nucera (dialetto per Nocera), Nocerino (etnico
di Nocera), Pisciotti (alterazione di Pisciotta in provincia di Salerno),
Scala (Sa), Cilento, Celentano (etnico del Cilento), Calvanico (Sa), Cava
(Sa), Sicignano (Sa), Rescigno (alterazione di Roscigno, in provincia di 467
Salerno), Padula e La Padula (Sa), Apadula (agglutinazione della prepo-
sizione a-, complemento di provenienza, con Padula), Scafato (da Scafati),
Siano (Sa), Battipaglia (Sa), Sarno e Di Sarno (Sa), Sarnataro (etnico di
Sarno), Aversa (Sa), Amalfi (Sa), Angrisani (etnico di Angri in provin-
cia di Salerno), Acierno (dialetto per Acerno, in provincia di Salerno),
Montesano (Sa), Ravallese (alterazione dell’etnico di Ravello), Caserta, Di
Capua (Ce), Capuano (etnico di Capua), Maddaloni (Ce), Caiazzo (Ce), Te-
ano (Ce), Lusciano (Ce), Aversano (etnico di Aversa), Avellino, Monteforte
(Av), Mercogliano (Av), Atripaldi (alterazione di Atripalda in provincia di
Avellino), Aiello (Av), Montefusco (Av), Gesualdo (Av), Forino (Av), Forine-
se (etnico di Forino), D’Apice (Bn), Vitulano (Bn), Limatola (Bn).

I cognomi derivanti dalla Puglia: Manfredonia (Fg), Viesti (alterazione


di Vieste, in provincia di Foggia), Di Nardo (da Nardò, in provincia di
Lecce), Puglia, Barletta, Afasano (agglutinazione della preposizione a-
con Fasano, in provincia di Brindisi), Taranto, Bari e De Bari, Ostuni (Br),
Pugliese, Puglisi e Pugliesi (etnico della Puglia), Di Bitonto (Ba), Bitonti
e Di Bitondo (alterazione di Bitonto), Barese (etnico di Bari), Altamura
(Ba), Tarantino (etnico di Taranto), Gargano (area geografica in provin-
cia di Foggia), Fasano (Br), Massafra (Ta), Brindisi, Lecce, Canosa (Bat),
Minervino (Bat), Leccese (etnico di Lecce), Rutigliano (Ba), Cassano (Ba),
Medugno (alterazione di Modugno, in provincia di Bari).
I cognomi derivanti dalla Calabria e Basilicata: Cosenza, Girace (dialetto
per Gerace, in provincia di Reggio Calabria), Calabrese (etnico della Ca-
labria), Cosentino e Cosentini (etnico di Cosenza), Rossano (Cs), Nicastro
(fino al 1968 il nome di Lametia Terme, in provincia di Catanzaro), Cala-
brì (alterazione dell’etnico della Calabria), Potenza, Nicotra (da Nicotera,
in provincia di Vibo Valentia), Tropeano (etnico di Tropea, in provincia
di Vibo Valentia), Labriola (agglutinazione dell’articolo la- con Abriola, in
provincia di Potenza).

I cognomi derivanti dalla Sicilia: Messina, Girgenti (fino al 1927 il nome


di Agrigento), Palermo, Trapani, Catania, Mistretta (Me), Siciliano e
Siciliani (etnico della Sicilia), Siracusa, Raguseo (alterazione di Ragusa),
Caltagirone (Ct), Sicilia.

I cognomi derivanti dal centro e dal nord Italia: Romano (etnico di


468 Roma), Ferrara, Gaeta (Lt), Genovese (etnico di Genova), Abbruzzese (etni-
co dell’Abbruzzo), Lombardi e Lombardo (etnico generico di provenienze
dal nord Italia), Formisano (etnico di Formia, in provincia di Latina), Fio-
rentino (etnico di Firenze), Florentino e Florenzano (alterazione dell’et-
nico di Firenze), Arpino (Fr), Milano, Palmigiano (alterazione dell’etnico
di Parma), Aquino (Fr), Lucchese e Lucchesi (etnico di Lucca), Padovanese
e Padovano (etnico di Padova), Casalbordino (Ch), Piombino (Li), D’Assisi
(Pg), Genovino (alterazione dell’etnico di Genova), Pisano (etnico di Pisa),
Senigalliesi (etnico di Senigallia, in provincia di Ancona), Cremona,
Piemontino (alterazione dell’etnico del Piemonte), Tolentino (Mc), Par-
migiani (etnico di Parma), Toscano (etnico della Toscana), Lucca, Firenze,
Bergamasco (etnico di Bergamo), Mestre (Ve), Abbruzzo, Longobardo
(etnico generico di provenienze dal nord Italia), Genova, Treviso, Ancona,
Bolognese (etnico di Bologna), Gaetani (etnico di Gaeta, in provincia di
Latina), Senese (etnico di Siena), Piemonte, Novara, Paduano (alterazione
dell’etnico di Padova), Pavia, Pontecorvo (Fr).

Infine i cognomi derivanti dall’estero: Greco e La Greca (etnico della


Grecia), Grieco (dialetto per l’etnico della Grecia), Spagnuolo (dialetto
per l’etnico della Spagna), Spagnolo e Spagnoletti (etnico della Spa-
gna), Catalani (etnico della Catalogna in Spagna), Galizia (regione della
Spagna), Tedesco (etnico della Germania), Tudisco e Todisco (alterazione
dell’etnico della Germania), Alemagna (sta per Germania), Alemagno
(etnico della Germania), Ungaro (etnico dell’Ungheria), Savastano (etnico
dell’antica città turca di Sebaste), Tripoli e Libia (probabilmente attribuiti
ai trovatelli nel XIX secolo), Parisi (etnico di Parigi), Nizza (città fran-
cese), Provenza (regione della Francia), Francese (etnico della Francia),
Franzese (dialetto dell’etnico della Francia), Armeno (etnico dell’Arme-
nia), Elveti (etnico di Svizzera), Persia (probabilmente attribuito ai trova-
telli nel XIX secolo), Danese (etnico della Danimarca), Albanese (etnico
dell’Albania), Durazzo (città dell’Albania), Maltese (etnico di Malta),
Turco (etnico medievale che indicava genericamente le terre oltre il mar
Adriatico), Inghilterra, Inglese (etnico dell’Inghilterra).
Il poster e il packaging del
poster con i cognomi di
Matera del 2013

469

© francesco paternoster
Questa idea è stata presa in prestito da un collega grafico di Matera,
Francesco Paternoster, che l’ha realizzata nel 2013; la sua infografica
è stata fra i finalisti degli European Design Awards 2015, nell’ambito del
concorso Open Data Matera. Lo scopo del concorso era quello di rendere
più fruibile al pubblico la lettura dei database che il comune di Matera
rilascia periodicamente online; tra questi, il più interessante era proprio
quello sui cognomi della città. Il mio amico Francesco ha commentato
che i dati hanno anche un volto umano. Quando gli ho chiesto l’autoriz-
zazione per realizzare lo stesso poster della mia città non ha mostrato
alcuna esitazione, anzi orgoglioso che la sua idea potesse essere replicata
democraticamente e liberamente per altre città!

© wikipedia

470
I cognomi nel mondo

Con il passare del tempo i cognomi sono diventati parte integrante della 471
nostra identità e tutti ne abbiamo almeno uno ma, stranamente, non
sono in uso in ogni stato del mondo. I tibetani e gli abitanti dell’isola di
Giava (Indonesia) non lo utilizzano; l’ex presidente indonesiano Sukarno
si chiamava col nome Sukarno e basta. Non hanno cognome i membri di
molte stirpi reali come quella inglese e giapponese. Altro aspetto della
questione è che nel mondo è comune per le donne cambiare il proprio
cognome con quello del marito dopo il matrimonio; infatti alcune nazio-
ni, ad esempio il Giappone o la Romania, non permettono che la mo-
glie mantenga un cognome diverso da quello del marito. Altre nazioni,
invece, permettono di mantenere il cognome da nubile ma il cambio è in
qualche modo suggerito o incentivato; altre ancora permettono l’opposto,
cioè che l’uomo prenda il cognome della moglie.

Come mai grammatiche diverse per la formazione dei cognomi nel mon-
do? Comparando le fonti dell’originazione del caso italiano con quelle di
altre parti del mondo, si possono giustificare percorsi creativi e motiva-
zioni diverse perché differenti sono le abitudini, i mestieri, i rapporti fa-
miliari, le prassi notarili e le successioni ereditarie nelle varie esperienze
nazionali. In definitiva la varietà di cognomi e le diverse originazioni
nel mondo rispecchiano bene l’eterogeneità dei vari continenti, formati
da popoli con origini simili ma molto diversi per lingua, cultura, usi e
costumi; chiaramente alcune nazioni hanno prediletto i patronimici,
altre i toponimi, altre i mestieri ed altre ancora i soprannomi. Di seguito
cenni sulle tipicità di originazione dei cognomi nel mondo.

Ungheria • Le donne sposate sono chiamate ufficialmente con il cogno-


me e il nome del marito seguiti dal suffisso -né; ad esempio, la moglie di
un uomo di nome János Szabó (o Szabó János, nell’ordine ungherese che
pone prima il cognome) è chiamata Szabó Jánosné.

India • I figli prendono come cognome il nome proprio del padre mentre
le spose cambiano cognome prendendo quello del marito.

Islanda • È l’unico paese europeo dove in luogo del cognome è in uso


il patronimico. Vale a dire, ogni persona assume come cognome il nome
del padre seguito dal suffisso –son se maschio, -dóttir se femmina. Quin-
di, solo i fratelli maschi o sorelle femmine avranno cognome uguale fra
472 loro mentre nella stessa linea di fratelli e sorelle ci saranno due cognomi.
L’elenco del telefono è compilato in ordine del nome di battesimo. Quindi
i cognomi cambiano di generazione in generazione rendendo difficile
districare le parentele. Se il signor Karl di Reykjavik ha due figli, Anna
e Magnús, questi si chiameranno Anna Karlsdóttir (cioè figlia di Karl) e
Magnús Karlsson (cioè figlio di Karl); per fare un esempio più efficace, la
famosa cantante Björk è ufficialmente Björk Guðmundsdóttir, che significa
La cantante e attivista
islandese Björk
la figlia di Guðmund. Chiaramente i cognomi islandesi non sono ereditari
per cui in ogni generazione successiva si ripartirà con altri patronimici.

Belgio • Nel nord del paese i cognomi sono per lo più di origine olan-
dese mentre il resto del paese risente dell’influenza della Francia e, in
particolare, del dialetto vallone.

Portogallo • I nobili e ricchi feudatari portoghesi cominciarono a uti-


lizzare i cognomi a partire dal XI secolo divenendo ereditari solo nel XVI
secolo. Capitava spesso che i nobili scegliessero come cognome il nome
del proprio feudo e così, quando il costume si diffuse anche negli strati
inferiori della popolazione, questi ultimi per emulazione si avvalsero dei
toponimi. Sia in Portogallo che in Brasile i figli assumono, nell’ordine,
il primo cognome della madre e il primo cognome del padre. Esempi di
cognomi: Henrigues (figlio di Enrico), Marques (discendente di Marcus),
Souza (proveniente da una salina).
Repubblica Ceca • I cognomi dei cechi sono imparentati con quelli
polacchi ma sono spesso più brevi e facili da pronunciare perché con-
tengono meno consonanti. Molto frequenti sono i cognomi derivanti da
soprannomi così come i diminutivi. Molti cechi hanno nomi tedeschi o
germanizzati; particolarmente diffusi sono i cognomi Hovorka (persona
molto loquace), Kostal (abitante in una zona utilizzata per la coltivazione
dei cavoli), Melnick (mugnaio).

Cina • Benchè la Cina conti più di un miliardo di abitanti, i cognomi


cinesi sono circa 3.000 ma solo una settantina vengono utilizzati comu-
nemente; in più, i cinesi hanno la rigida abitudine di abbinarli ad appena
una ventina di nomi, pur esistendone molti di più. Lo stesso governo,
vista la povertà di cognomi, ha chiesto alla popolazione di usare più
fantasia nell’attribuire nomi ai figli ma i risultati latitano. In generale i
cognomi cinesi sono monosillabici e facili da pronunciare; derivano da
tratti somatici oppure sono di natura descrittiva. Poiché i legami familia- 473
ri sono molto forti, raramente i cognomi hanno subìto variazioni. I cinesi
continuano ad anteporre il cognome al nome, abitudine questa caduta in
disuso per gli individui che vivono in Occidente. I più diffusi sono Wang
(giallo), Wong (grande bacino d’acqua), Chan (vecchio), Chew (monte).

Danimarca • La stragrande maggioranza dei cognomi danesi è patro-


nimica ed è caratterizzata da suffisso –sen. Prima del 1860 i cognomi
non erano ereditari ma cambiavano da una generazione all’altra. Il figlio
di Jorgen Petersen portava così il cognome Jorgensen (nel senso di figlio
di Jorgen). Nel 1904 il governo cominciò a promuovere l’uso di cognomi
diversi; così molte persone, al tradizionale cognome terminante in –sen,
aggiunsero un toponimo o un termine connesso alla propria professio-
ne dividendo i due termini con un trattino. Altri tipici cognomi danesi:
Henricksen (figlio di Enrico, insigne regnante), Krog (cameriere), Pedersen
(figlio di Pietro ma anche con il significato di roccia), Jorgensen (figlio di
Giorgio ma anche con il significato di agricoltore).

Grecia • La maggior parte dei cognomi è di origine patronimica o topo-


nimica; il cognome più diffuso è Pappas che significa discendente di un
sacerdote. Altri hanno origine religiosa o derivano da tratti somatici come,
ad esempio: Krailos (seguace di Dio), Xenos (lo straniero), Galanis (uomo
dagli occhi blu), Psiharis (che contribuisce alla salvezza della sua anima).
474
Il packaging delle zuppe Scozia • Nel Medioevo il tasso di mortalità infantile in Scozia era molto
americane Campbell’s (co-
gnome di origine scozzese) elevato; a tutti i figli di una stessa famiglia si usava dare lo stesso cogno-
diventato icona nell’arte
me per assicurare la sopravvivenza di più discendenti qualora i bambini
del xx secolo grazie ad
Andy Warhol fossero sopravvissuti. Gli scozzesi solevano inoltre cambiare cognome
quando mutavano luogo di residenza. Fino alla fine del XVIII secolo
molte donne scozzesi mantenevano il proprio cognome anche dopo
sposate. Probabilmente si trattava della reminiscenza di una tradizione
ancora più antica in base alla quale era l’uomo che, con il matrimonio,
acquisiva il cognome della donna. I cognomi scozzesi si dividono in due
gruppi: quelli dello Highland e quelli del Lowland. I primi si diffusero
lentamente e la tradizione di portare il nome del padre venne abbando-
nata solo nel XVIII secolo; la conservazione delle tradizioni più antiche è
stata favorita anche dall’organizzazione sociale basata sui cosiddetti clan.
Quando un uomo, per essere tutelato, entrava a far parte di un clan, ne
adottava anche il cognome per dare prova della sua devozione (in genere
veniva utilizzato il prefisso Mac- seguito dal nome del capo). Poiché la 475
carica di capo era ereditaria, i cognomi diventarono per lo più di origine
patronimica. Nel Lowland, invece, i cognomi si diffusero parallelamente
a quelli inglesi anche se con un’evoluzione più lenta. Esempi: Campbell
(che ha la bocca storta), Anderson (figlio di Andrew, cioè Andrea), Macdo-
nald (figlio di Donald), Scott (deriva dal popolo degli Scoti, il nome con cui
i Romani indicavano le popolazioni gaeliche provenienti dall’Irlanda
che nel VI secolo si insediarono in Scozia).

Giappone • Fino al XIX secolo solo la nobiltà usava portare un cognome;


le cose cambiarono quando, alla fine del 1800, l’Imperatore dichiarò che
tutti avrebbero dovuto avere un cognome. Fu così che interi villaggi adot-
tarono lo stesso cognome; è per tale motivo che in Giappone non esistono
più di diecimila cognomi che per lo più, derivano da toponimi. Esempi:
Arakawa (fiume), Yamada (monte o risaia), Hata (fattoria), Shishido (porta).

Inghilterra • Alla fine del XIII secolo i nomi e cognomi inglesi avevano
ormai varcato i confini dell’Inghilterra diffondendosi in molte regioni
della Scozia, Galles e Irlanda. Alcuni cognomi erano tratti dalla Bibbia
o dai nomi dei santi e martiri della prima Chiesa cristiana come, ad
esempio, per Cuthbert. Molti erano di origine normanna, altri di origine
anglosassone. Esempi dell’intera Gran Bretagna: Smith (fabbro), Wood
(bosco), Taylor (sarto), Wilson (figlio di William cioè Guglielmo).
John Fitzgerald Kennedy, Irlanda • I cognomi ereditari cominciarono ad essere utilizzati nel X
il 35° presidente degli
Stati Uniti d’America di secolo ma questa abitudine si diffuse solo nel XII secolo. Poiché la pro-
origini irlandesi
prietà della terra veniva trasmessa in base al principio ereditario, gli al-
beri genealogici sono stati conservati con la massima cura e scrupolosità.
Ed è proprio in virtù di questo interesse per la discendenza che la mag-
gior parte dei cognomi irlandesi è di origine patronimica come mostrano
i prefissi O-, Fitz- e Mac- (a volte abbreviato in Mc-). Il primo sta per il
vecchio dittongo gaelico ua che significa discendente da mentre il secondo
e il terzo significano figlio di. A causa delle persecuzioni, molte persone
eliminarono tali prefissi dal proprio cognome anche se, nel secolo scorso,
sono stati reintrodotti. Esempi: McClary (figlio di un sacerdote), Rogan (dai
capelli rossi), O’ Brian (figlio di Brian), Fitzgerald (figlio di Gerard).

Olanda • I cognomi ereditari cominciarono ad essere utilizzati nel


XIV secolo ma si diffusero nell’intero paese solo verso la metà del XVII
476 secolo, Molti cognomi olandesi si riconoscono dai prefissi Van-, Van der-,
Van den-, Ver- che significano proviene da. Il Van- olandese, però, non è
sinonimo di nobiltà come il tedesco Von-. Molti cognomi derivano da
soprannomi oppure, come in altre culture, sono di origine patronimi-
ca; esempi: Drukker (stampatore), Zylstra (guardiano della chiusa), Groen
(giovane), Hartig (forte e robusto).

Spagna • La leggenda narra che i cognomi spagnoli nacquero come grida


di ammonimento lanciate dalle famiglie cristiane per segnalare l’arrivo
dei Mori. Oggi, la maggior parte dei cognomi è di origine patronimica
o toponimica. Prima che i cognomi diventassero ereditari, si utilizzava
come cognome il nome del padre. Alcuni di questi cognomi, caratteriz-
zati dal suffisso –es e –ez (cioè figlio di) divennero, col tempo, ereditari. I
nobili tendevano ad utilizzare come cognome il nome del proprio feudo,
a volte associato ad un patronimico. In epoca più recente si diffuse
anche il costume di unire il cognome del padre e quello della madre. Nei
cognomi di questo tipo, il cognome del padre viene al primo posto ed è
separato da quello della madre da una y (cioè la e congiunzione) oppure
da un trattino. Nei paesi ispano-americani i figli assumono sia il primo
cognome del padre che il primo della madre, eccetto che in Argentina e
in Uruguay, dove i figli assumono solo il cognome paterno. Esempi: Palo
(abitante nei pressi di un albero), Tirado (tiratore scelto), Labrador (conta-
dino), Seda (mercante di seta).
477
Francia • Se si prescinde dalle differenze linguistiche, i cognomi fran-
cesi possono dirsi di origine analoga a quelli inglesi. La causa di questa
analogia va rintracciata nei frequenti contatti che i francesi ebbero con
gli inglesi proprio nel periodo in cui cominciarono ad essere utilizzati ii
cognomi in Inghilterra. Alcuni esempi: Chevrier (pastore di capre), Legault
(abitante dei boschi), Pegues (mercante di cera), Rozier (amante delle rose).

Galles • I cognomi ereditari sono stati introdotti solo in epoca recente;


prima che venissero resi obbligatori dalla legge, si utilizzavano cognomi
patronimici che consentivano di ricostruire la genealogia di una fami-
glia poiché ogni generazione veniva legata alla successiva tramite ap- che
significa figlio di. Denominazioni come Llewelyn ap Dafydd ap Leuan ap
Griffith ap Meredith costituivano quindi la norma. Alla fine del XIX secolo
questa tradizione scomparve e si cominciò a formare i cognomi unendo
ap- ad un nome come per Upjohn (da Apjohn) e Powell (da Aphowell). Altri
478 esempi: Heavens (discendente di Evan che è il termine gallese per Gio-
vanni), Mattock (figlio di Madog o Madoc, termine che significa fortuna),
Parsons (figlio di un predicatore o di Pietro), Ryder (cavaliere).

Svezia • Dall’inizio del X secolo gli svedesi usarono adottare un cogno-


me connesso ai possedimenti familiari. I cognomi svedesi sono di ori-
gine più recente e, per lo più, di tipo patronimico. Un aneddoto curioso
narra che, data l’enorme quantità di cognomi terminanti con -sons, a un
certo punto il governo svedese si vide costretto ad imporre l’istituzione
di altri nuovi cognomi; per tale motivo, le ricerche genealogiche in Svezia
sono più semplici. In generale nei paesi scandinavi e baltici prevalgono
i cognomi derivati agli elementi naturali. Esempi: Utter (lontra), Berg
(montagna), Virtanen (torrente), Hallberg (masso e monte).

Svizzera • I cognomi elvetici sono pochi e la maggior parte è di origine


francese, tedesca, italiana e romanza. I più diffusi sono di origine tede-
sca; esempi: Pallin (abitante nei pressi di una palude), Gonda (abitante su
pendici scoscese), Rush (persona irascibile), Pestalozzi (tagliatore di ossa).

Germania • La maggior parte dei cognomi tedeschi deriva da nomi di


mestieri, colori e toponimi. Alcuni sono di tipo descrittivo (tratti somati-
ci) come Klein (piccolo) e Gross (grande); altri esempi: Kreuser (uomo con i
capelli ricci), Schlüter (secondino), Tobler (abitante delle foreste).
Russia • Nella tradizione russa tutti hanno tre nomi: il nome proprio di
persona, il secondo nome di origine patronimica e il cognome. Il secondo
nome è formato dal nome proprio del padre più i suffissi -ovich, -off, -evich
o -ich per gli uomini e -evna, -ovna o -ichna per le donne; ad esempio, la
denominazione completa del presidente Putin è Vladimir Vladimirovich
Putin. La maggior parte dei cognomi deriva da toponimi; dopo la rivo-
luzione del 1917 molti cognomi di origine religiosa vennero cambiati
per renderli più accettabili agli occhi del partito comunista, ateo per
definizione. E fu nello stesso periodo che anche i contadini cambiarono
cognome per liberarsi dei nomignoli offensivi loro assegnati all’epoca
della servitù della gleba. I cognomi delle donne sono accordati per genere
per cui, ad esempio, la moglie di Gorbaciov portava come cognome Gor-
baciova. Esempi: Droski (cocchiere), Shiroff (figlio di uomo forte e robusto),
Kosloff (persona simile ad un caprone), Rosoff (figlio di Rosa).

Polonia • La caratteristica più evidente dei cognomi è data dai suffis- 479
si –ski e –orocki utilizzati originariamente dalla nobiltà per distinguersi
dal resto della popolazione. Col tempo, poi, il loro uso si è diffuso anche
agli strati inferiori nel significato di figlio di. Data l’influenza della vicina
Germania, sono molti i polacchi che hanno cognomi tedeschi anche se,
dopo la seconda guerra mondiale, molti preferirono cambiare cognome
per cancellare il doloroso ricordo dell’occupazione tedesca. Nei cognomi
polacchi è possibile assegnare diversi suffissi per distinguere la moglie
o la figlia; mediante il suffisso -owna aggiunto al cognome paterno ci
si riferisce alla figlia mentre col suffisso -owa si indica la moglie per
cui Nowakowna è la figlia del signor Nowak e Nowakowa ne è la moglie.
Attualmente anche in Polonia si sta procedendo verso una sola forma
di cognome che non varia nel genere. Altri esempi: Drozd (tordo), Pajak
(persona che somiglia ad un ragno), Rudzinski (abitante in prossimità di
una miniera), Gorcyzka (coltivatore di senape).

Stati Uniti d’America • Una coppia può decidere di chiamare il figlio


con il cognome della madre o, comunque, aggiungerlo e anteporlo al
cognome paterno: ad esempio, una coppia in cui il cognome di lui è Wil-
liams e quello di lei Hayes, una figlia può essere chiamata Julia Hayes
Williams, dove Julia Hayes è il nome e Williams il cognome.

© emanuele sabatino

480
Il futuro dei cognomi

Fumetto genealogico È dal Medioevo che al nome di battesimo si unisce quello di famiglia; 481
e romanzo illustrato
in spagnolo del “Museo ancor di più in Italia viene trasmesso in via patrilineare e la donna
del Cognome” di Padula
(Salerno)
sposata conserva il suo cognome. Negli ultimi tempi si è sentita la
necessità di adottare altri sistemi per la trasmissione del cognome e non
esclusivamente da parte del padre; infatti una Commissione del Senato
ha lanciato la proposta secondo cui i genitori hanno quattro possibilità
di trasmetterlo: il cognome del padre, della madre, ambedue in ordine
padre-madre o madre-padre. Poiché i figli, i nipoti e gli altri discendenti
potrebbero fare, a loro volta, difformi libere scelte, il percorso generazio-
nale diventerebbe un groviglio onomastico dal quale sarebbe difficile
poter risalire agli antenati sia per diletto genealogico che per ragioni
giuridiche come l’eredità.

Eppure nel mondo occidentale, e in paesi all’avanguardia nella tutela dei


diritti individuali, convivono senza traumi sistemi diversi: gli islandesi
danno ai figli un cognome formato dal nome di battesimo del padre e da
un suffisso che significa figlio di o figlia di; in area ispanica e portoghese i
figli hanno il doppio cognome, in ordine padre-madre nella prima e ma-
dre-padre nella seconda. La spinta armonizzatrice dell’Unione Europea,
per fortuna, non è stata ancora promossa in questo delicato campo; si
potrebbe affermare che nell’era dell’informatica non ci sia più bisogno
del cognome fisso. Dal 1990 la prima missiva, che ogni neonato riceve,
proviene dall’Agenzia delle Entrate e contiene il tesserino di plastica
Dipinto di Luigi Muccilli verde col codice fiscale che permette, quasi sempre, la giusta individua-
“Albero genealogico di un
ramo collaterale della zione d’ogni persona. Con tale sistema si possono facilmente collegare i
famiglia Correale” (1873)
vari codici personali per individuare legami in famiglie, discendenze e
conservato nel Museo
Correale di Terranova gruppi. Perché dunque aggrapparsi alla tradizione del cognome e perché
di Sorrento
non permettere a ciascuno di identificarsi come meglio crede? Eppure ha
un senso dare valore alla discendenza familiare per sottolineare la con-
tinuità disponendo che ai figli vengano trasmessi entrambi i cognomi. E
che l’ordine sia fisso; una volta per tutte, si decida di dare il primo posto
al cognome del padre come è tradizione del mondo ispanico o cedendo il
passo alla madre secondo l’amabile usanza di tradizione lusitana.

A dire il vero, per i portoghesi e i brasiliani si può dire che il cognome


paterno va mantenuto comunque sia per l’uomo che lo trasmette alla
moglie e ai figli, sia per la donna che conserva sempre quello paterno
aggiungendo quello del marito. Infatti qui i figli assumono nell’ordine,
482 l’ultimo cognome della madre e l’ultimo cognome del padre, in modo
che non scompaia il cognome paterno. Per esempio il figlio di Mario
Ferrari Rossi e Maria Garibaldi Bianchi si chiamerà Giovanni Bianchi
Rossi. Quando egli si sposerà, trasmetterà a sua moglie il cognome Rossi,
in quanto quest’ultimo è il cognome di suo padre; quindi sua moglie,
Giovanna Lambertucci Paolini, col matrimonio perderà il cognome della
propria madre, conserverà quello del padre aggiungendone quello del
marito passando da Giovanna Lambertucci Paolini a Giovanna Paolini
Rossi. Un cittadino non sposato dovrebbe avere sempre un cognome se-
condo l’ordine prenome + cognome materno + cognome paterno mentre una
donna sposata prenome + cognome del padre + cognome del marito.

Stranamente in Italia nessuna legge impone l’assegnazione del cogno-


me paterno ai figli nel momento della nascita ma il tutto è frutto di una
consuetudine antica, prevalentemente maschilista e patriarcale. Questa
consuetudine è nata quando la donna era considerata alla pari dei bam-
bini e degli incapaci di intendere e volere; non aveva capacità giuridica,
non poteva prendere nessun tipo di decisione, non poteva esercitare le
professioni, non poteva fare testamento o ereditare e quindi non poteva
trasmettere il proprio cognome ai figli. Il nostro sistema familiare rima-
ne patrilineare nonostante non sia più di carattere patriarcale. In Italia
i casi in cui viene assegnato il cognome materno sono limitati: quando
il figlio viene riconosciuto soltanto dalla madre o quando viene disco-
483
nosciuto dal padre, quando viene adottato dalla sola madre e altri casi.
Rispetto alla consuetudine italiana, nei vari Paesi europei l’attribuzione
del cognome al figlio legittimo funziona in modo totalmente diverso.

Spagna • Viene utilizzato il doppio cognome, cioè i figli nel momento


della nascita assumono il cognome di entrambi i genitori con ordine di-
screzionale; se si verifica un disaccordo, al figlio viene assegnato il primo
cognome del padre assieme al primo cognome della madre. Poi una volta
raggiunta la maggiore età, il soggetto può richiedere di invertire l’ordine
dei cognomi o scegliere quale cognome mantenere. Ma come la Spagna
anche altri paesi utilizzano il doppio cognome o, per lo meno, la scelta
è affidata ad entrambi i coniugi. Per i figli naturali, se il figlio viene
riconosciuto da entrambi i genitori, riceve il primo elemento del cognome
paterno e materno. Nel caso in cui viene riconosciuto da un solo geni-
tore, assume i due cognomi di quest’ultimo; stessa cosa accade in caso
484 di adozione e cioè il figlio assume i due cognomi se viene adottato da
entrambi i genitori, al contrario riceve il cognome del genitore adottante
se l’adozione viene effettuata da una sola persona.

Svizzera • Ai figli di genitori sposati viene assegnato il cognome


coniugale degli stessi. Se essi portano cognomi diversi il figlio assume
il cognome da celibe o da nubile, da essi scelto per i figli comuni, in
occasione del matrimonio. Entro un anno dalla nascita del primo figlio,
i genitori possono chiedere congiuntamente che il figlio porti il cognome
da celibe o nubile dell’altro genitore. Il figlio di genitori non sposati tra
di loro assume il cognome da nubile della madre.

Gran Bretagna • L’attribuzione del cognome ai figli non è disciplinata


da specifiche disposizioni ma è riservata all’autonomia dei genitori in-
vestiti della parental responsibility. Nel momento in cui avviene la registra-
zione della nascita, al figlio può essere assegnato il cognome del padre,
della madre o di entrambi i genitori. In aggiunta è possibile, anche se
non è frequente come prassi, attribuire un cognome diverso da quello dei
genitori. In caso di adozione o di riconoscimento del figlio naturale viene
autorizzata, attraverso il consenso dei genitori o per effetto di un provve-
dimento giudiziale, la modifica del cognome al momento della forma-
zione del nuovo atto di nascita. Una nuova registrazione della nascita è
necessaria in caso di un successivo matrimonio dei genitori naturali.
Francia • Il figlio legittimo può ottenere il cognome di un genitore,
dell’altro o entrambi i cognomi. La disciplina che riguarda l’assegnazio-
ne del cognome ai figli è stata modificata in modo progressivo a partire
dal 2002 attraverso una riforma che è ancora in stato di compimento.
L’attribuzione non è più legata allo stato matrimoniale dei genitori ma
al fatto che la filiazione sia riconosciuta contemporaneamente o suc-
cessivamente alla nascita. In questo modo non esiste più la distinzione
tra madre e padre ed il figlio può ricevere il cognome di uno dei due o
entrambi i cognomi affiancati.

Germania • Per l’attribuzione del cognome ai figli non viene fatta


alcuna distinzione tra i figli nati all’interno del matrimonio e quelli nati
fuori dal matrimonio. I coniugi possono mantenere il proprio cognome
oppure decidere quale cognome coniugale adottare e assegnare ai figli;
inoltre il cognome può essere sia preceduto e sia seguito dal proprio.
Nel caso in cui i genitori non possiedono alcun cognome coniugale e la 485
potestà spetta ad entrambi, ai figli viene assegnato il cognome del padre
o della madre su accordo dei genitori.

Ritornando ai fatti italiani, nel 2014 la Camera dei Deputati ha approva-


to un testo di legge che ha cambiato la storia dei cognomi; tale disposi-
zione intendeva far cadere l’obbligo consuetudinario di attribuire a ogni
nuovo nato il solo cognome del padre. Il Ministero dell’Interno è interve-
nuto per risolvere i problemi pratici incontrati dagli ufficiali dello stato
civile nell’applicazione della storica sentenza della Corte Costituzionale
numero 286 del 2016 che ha stabilito l’incostituzionalità dell’obbligato-
ria apposizione del solo cognome paterno al figlio. Attualmente, secondo
la scelta dei genitori, al figlio potrà essere dato il cognome del padre, il
cognome della madre o il cognome di entrambi con il cognome della
madre affiancato alla spagnola a quello del padre. In questa direzione
vanno tutte le disposizioni giuridiche per il cambiamento di cognome o
di aggiunta di altro cognome al proprio; la procedura, di competenza del
Prefetto della provincia, può essere iniziata quando il cognome risulta
ridicolo, vergognoso o perché rivela l’origine naturale. Tali provvedimenti
rivestono carattere eccezionale e possono essere ammessi solo ed esclu-
sivamente in presenza di situazioni oggettivamente rilevanti, supportate
da adeguata documentazione e da significative motivazioni. Il Prefetto
effettua l’istruttoria e, in presenza dei requisiti previsti, emana il decreto
con il quale autorizza l’affissione dell’istanza medesima nell’albo preto-
rio del comune di nascita e del comune di attuale residenza. Durante il
periodo di 30 giorni di affissione, eventuali oppositori possono presen-
tare istanza; poi il Prefetto emana il provvedimento definitivo che, se
favorevole, andrà trascritto e annotato nel registro di stato civile.

Negli ultimi anni ho riscontrato un diffuso bisogno di riscoprire il pro-


prio passato a partire dai propri antenati; questo diletto genealogico deve
fare i conti col tempo e le risorse a disposizione. Ma è necessario anche
un minimo di competenza nello scegliere la fonte giusta, nel decifrare le
scritture antiche, nell’interpretare le leggi del passato e nel mettere tutto
armonicamente assieme. Anni fa ho conosciuto Michele Cartusciello di
© michele cartusciello

Padula (Salerno) che ha convertito nel 2012 la sua attività di ristorato-


re nel Museo del Cognome; come amante delle tradizioni e della cultura
locale, è diventato un genealogista in seguito alla creazione dell’albero
486 genealogico della sua famiglia che lo ha condotto a frequentare archivi
comunali, parrocchiali e di Stato. Il Museo, situato al piano terra di una
casa del Settecento, è unico al mondo nel suo genere; di stampo preva-
Marchio del “Museo
lentemente didattico, prevede, al suo interno, un percorso appositamente
del Cognome” di Padula creato per aiutare il visitatore a muovere i primi passi nella ricerca gene-
(Salerno)
alogica. In una sezione sono esposti i documenti riguardanti l’emigra-
zione italiana con liste di imbarco, censimenti e richieste di passaporto.

I servizi del Museo sono: ricerca genealogica, ricerca di origini nobiliari


(stemmi), analisi grafologica, genealogica e didattica per bambini, digi-
talizzazione documenti, richieste cittadinanza, visita guidata al museo,
fumetto genealogico e romanzo illustrato in varie lingue, ancestors tour
e percorso genealogico-archivistico. I servizi, secondo me più interessan-
ti, sono gli ultimi due. Il primo, il fumetto genealogico e il romanzo illustrato
in varie lingue, è un’idea geniale per fissare con il fumetto i racconti e i
personaggi che, solitamente, si tramandano tra i parenti solo verbalmen-
te; tali fumetti e romanzi illustrati possono riportare, nelle nuvolette, le
parole dei protagonisti di famiglia tradotte nelle maggiori lingue dei ri-
chiedenti e cioè in inglese, spagnolo, portoghese; il tutto a beneficio degli
attuali discendenti che sono nativi dei luoghi individuati dall’emigrazio-
ne italiana. Il secondo, ancestors tour e percorso genealogico-archivistico, è la
realizzazione del sogno alla scoperta dei luoghi d’origine che coinvolge
tutti coloro che sono emigrati in terra d’America (e non solo) e che, nel
corso della loro vita hanno immaginato più volte l’Italia, e in particolar
modo il paese natio, spesso descritto in modo dettagliato grazie ai rac-
conti dei propri nonni.

487

Fumetto genealogico e Mi auguro che nel futuro i cognomi possano, così come nel recente pas-
romanzo illustrato del
“Museo del Cognome” di sato, continuare ad essere la fonte inesauribile di invenzione di neologi-
Padula (Salerno)
smi; mi riferisco, in particolare, ai deonimici cioè nuove parole derivanti
da un nome proprio, frequentemente da un cognome, in genere basato
sul reale nome di un inventore oppure su determinate proprietà conven-
zionalmente attribuite a un personaggio storico reale o fittizio (ercole,
fariseo, adone, venere, mecenate, dongiovanni).

Tale procedimento semantico ha a che fare con la reinterpretazione (per


antonomasia, metonimia o altro spostamento di significato) di un nome
proprio in nome comune scrivendolo, appunto, con l’iniziale minuscola.
Si pensi alla parola cicerone che, fuori dall’ambito della classicità latina,
connota (e non soltanto in Italia) la guida turistica, la cui chiacchiera viene
associata a quella dell’oratore romano Marco Tullio Cicerone.
Numerosi sono questi slittamenti, che si utilizzano con frequenza, di
cui si ignora l’origine; di solito il cognome del personaggio, il cui nome
proprio è all’origine della traslazione linguistica, può essere il creatore di
un nuovo oggetto che non aveva ancora un preciso nome.

Cosa si cela dietro un nome comune come brugola o paparazzo? Il nome


comune brugola deriva da Egidio Brugola che fondò nel 1926 le officine
per produrre viti e bulloni; l’azienda è diventata, nel tempo, leader mon-
diale nella produzione delle viti critiche che fissano la testata al motore
di un’auto. Tale invenzione, definita formalmente come vite a testa incava
esagonale, fu riconosciuta dal brevetto depositato nel 1945 all’Ufficio
Italiano Brevetti. Invece, nel mondo del cinema il termine paparazzo fu
scelto da Federico Fellini, assieme allo sceneggiatore Ennio Flaiano, per
il film La dolce vita del 1960 ispirandosi al cognome inventato del perso-
naggio di un libro di George Gissing, un tale Coriolano Paparazzo, che
488 era il proprietario d’albergo che ospitò lo scrittore inglese a Catanzaro
durante il viaggio in Italia del 1897 descritto in Sulla riva dello Jonio. Da
La “vite a brugola” inven-
tata da Egidio Brugola quel momento, quel nome proprio divenne il nome comune per indicare
(a volte in modo dispregiativo) un fotografo specializzato nel riprende-
re personaggi famosi in occasioni pubbliche o nella loro sfera privata,
cercando le situazioni più compromettenti.

Il giunto cardanico fu inventato da Gerolamo Cardano nel XVI secolo e tubi


innocenti da Ferdinando Innocenti negli anni Trenta del secolo scorso.
L’unità di misura della differenza di potenziale elettrico (il volt) prende
il nome dallo scienziato comasco Alessandro Volta che inventò la pila
nel 1801. Il nome comune zampirone è derivato dal farmacista Giovan-
ni Battista Zampironi, inventore nel 1862 della piramide che brucia e
allontana le zanzare. Il cappello borsalino è derivato dal cognome del suo
fabbricante Giuseppe Borsalino. Il sostantivo bignami invece dall’auto-
re-editore Ernesto Adamo Bignami con i suoi fortunatissimi volumetti,
pubblicati a partire dal 1931, che compendiano le materie delle scuole
Pubblicità spagnola della
piramide “Zampironi” superiori. Galateo (sinonimo di buona educazione) è il titolo del famoso
libro di buone maniere, scritto da monsignor Giovanni Della Casa per
il vescovo e letterato Galeazzo Florimonte (in latino Galatheus). Il carpac-
cio, il piatto preparato con sottili fette di carne, fu ideato a Venezia da
Giuseppe Cipriani dell’Harry’s Bar nel 1963 in occasione di una mostra
dedicata all’omonimo artista veneziano Vittore Carpaccio.
Dalla scoperta del geologo francese Dieudonné de Dolomieu della com-
posizione di alcune rocce delle Alpi, si determinò, in suo omaggio, nel
1792 il nome dolomia; la regione italiana delle Alpi orientali avrà il nome
di Dolomiti solo dopo la Grande Guerra, quando questo territorio entrò a
far parte del Regno d’Italia.

Nel 1915 la famiglia friulana Jacuzzi si trasferì in California per iniziare


una nuova vita. Dopo aver inventato eliche per l’aeronautica, pompe per
l’irrigazione e una superventola di aria calda per combattere le gelate
in agricoltura, Candido Jacuzzi si dedicò agli adattamenti delle pompe
idrauliche per i bagni domestici, spinto dall’esigenza di alleviare i dolori
del figlio Ken affetto da artrite reumatoide; egli realizzò nel 1956 la pri-
ma pompa a immersione da applicare alla vasca casalinga per simulare,
e continuare, le sedute idroterapiche fatte dal ragazzo in ospedale. Nel
1968 il nipote Roy Jacuzzi progetterà un sistema a idromassaggio con ri-
ferimento all’invenzione dello zio. Un successo che da quel momento in 489
poi prenderà il nome della famiglia Jacuzzi e diventerà uno degli esempi
di volgarizzazione del marchio, secondo cui i nomi dei brand diventano
La prima pompa ad immer- parole di uso comune rendendo così indipendente il termine dall’azien-
sione Jacuzzi del 1956 per
le vasche da bagno da che ha ideato originariamente il prodotto.

Da che cosa deriva la parola taxi? Sembra essere di origine straniera


perché contiene l’insolita lettera -x-; stando alla teoria più accreditata,
ha un’origine italianissima perché legata a uno dei grandi nomi della
nostra letteratura: Torquato Tasso, nato a Sorrento da famiglia bergama-
sca. Ebbene, la famiglia Tasso per secoli ebbe il monopolio dei trasporti
postali in gran parte dell’Europa; quando un ramo di famiglia si trasferì
nell’Impero Asburgico, cambiò il nome in Taxis, proseguendo quell’atti-
vità postale che era rapida e puntualissima, tanto da dare poi il nome ai
taxi che, sin dalla loro nascita, erano contraddistinti per la loro velocità.
La Fiat 600 Multipla
utilizzata come taxi dalla
fine degli anni Cinquanta
del secolo scorso
Oltre ai deonimici della nostra Italia, analizziamo quelli internazionali.
La parola pullman derivata dal nome dell’imprenditore americano George
Mortimer Pullman che ideò le carrozze-letto per i treni anche se poi
il nome passò ad indicare gli autobus; il nome del motore diesel deve il
nome al suo inventore, l’ingegnere tedesco Rudolf Diesel. In Irlanda visse
un ufficiale britannico dal cuore di pietra, Charles Cunningham Boycott,
amministratore delle terre di lord Erne; possedimenti sconfinati, abitati
da contadini che l’amministratore vessava con feroci provvedimenti. Un
giorno i contadini si unirono e proclamarono uno sciopero contro di
lui rifiutando perfino di portargli il cibo. Abbandonati i campi al loro
destino, andarono perduti i raccolti e lord Erne corse ai ripari licenzian-
do lo sciagurato amministratore, contro il quale si era sollevata tutta la
popolazione. Boycott dovette lasciare l’Irlanda e da questa disavventura
nacque il neologismo to boycott, in italiano boicottare.
Il primo dagherrotipo
490 (1838) con presenza umana
al “Boulevard du Temple”
di Parigi

Nel XIX secolo le primissime fotografie erano dette dagherrotipi, nome


derivato dal francese Louis Jacques Daguerre che ne determinò il proces-
so di stampa. Non sempre si tratta d’invenzioni positive. Il fucile d’assal-
to kalashnikov deve il suo nome al russo Michail Timofeevic Kalašnikov,
così come la pistola dei western colt allo statunitense Samuel Colt. La
ghigliottina invece a Ignace Guillotin, medico francese che ne consigliò
l’uso per, strano a dirsi, ridurre la sofferenza dei condannati a morte.
Il sistema braille per la
scrittura degli ipovedenti

Anche le scoperte umanitarie hanno un debito onomastico: il processo


di sterilizzazione del latte è detto pastorizzazione perché inventato dal
francese Louis Pasteur; il sistema di scrittura per ciechi braille è dovuto al 491
francese Louis Braille. D’altra natura, la nicotina delle sigarette: deriva da
Jean Nicot, medico e ambasciatore di Francia in Portogallo, che nel 1561
fece conoscere il tabacco alla regina Caterina de’ Medici. La mongolfiera
fu così chiamata perché ideata dai fratelli Montgolfier; stessa sorte per la
maggior parte delle unità di misura (ampère, pascal, kelvin, coulomb, joule,
siemens, ohm, watt) derivate dagli omonimi scienziati.

Un deonimico può derivare anche dal cognome di un personaggio legato


Il pallone aerostatico a una moda o alla foggia di un capo d’abbigliamento: l’ampio giaccone di
dei fratelli Montgolfier lana con cappuccio e alamari, il montgomery, ha assunto il nome dal tipi-
conservato al London
Science Museum co cappotto abitualmente indossato dal generale Bernard Montgomery.
Stessa cosa accade con un prodotto alimentare: la salsa besciamella fu
inventata dal maggiordomo di Luigi XIV, Louis de Béchamel, mentre il
sandwich deriva il suo nome da John Montague, conte di Sandwich, il cui
cuoco inventò questo modo frugale di cibarsi per permettere al nobile di
non abbandonare il tavolo da gioco; la torta sacher porta il cognome del
cuoco del Principe di Metternich, Franz Sacher, che la creò nel 1832.

Nel 1525 si combattè a Pavia una battaglia che vide contrapposti gli
imperiali di Carlo V e i francesi di Francesco I; il maresciallo francese
Jacques de la Palisse morì affrontando così valorosamente il nemico che i
suoi soldati lo immortalarono con un eloquente e appassionato epitaffio:
Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il ferait encore envie (Qui
giace il signore de La Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia).
Tuttavia, con il tempo la effe di ferait (farebbe) fu letta esse (a quel tempo
le due grafie erano simili) diventando quindi serait (sarebbe) e la parola
envie (invidia) divenne en vie (in vita); il nuovo testo recitava se non fosse
morto, sarebbe ancora in vita (si il n’était pas mort, il serait encore en vie).
Da qui il significato di ovvietà attribuito all’aggettivo lapalissiano per in-
dicare una cosa ovvia e tanto palese da non poter essere messa in dubbio,
come la condizione che un uomo, prima di morire, sia ancora vivo!

Il sassofono trae origine dal cognome dell’inventore, il belga Adolphe Sax


che lo brevettò nel 1846. Tale strumento musicale a fiato di ottone venne
usato inizialmente nelle bande, poi adottato anche in orchestre jazz e di
musica leggera. Il neologismo fu proposto da un amico dell’inventore, il
compositore Hector Berlioz, in un suo articolo giornalistico sull’inven-
492 zione tanto che la parola divenne immediatamente popolare.
Il musicista James Senese
con il suo sassofono
Il metodo elettronico dolby per eliminare il rumore di fondo (cioè il
fruscìo) nelle riproduzioni sonore è derivato dal cognome dell’ideatore
statunitense Ray Dolby. Nella cinematografia, con particolare riferimen-
to alle colonne sonore, fu introdotto nel 1979 il sistema dolby stereo che
utilizza un sistema di riduzione di rumore per il miglioramento delle
prestazioni audio.

Il termine silhouette deriva da Etienne de Silhouette che, nel 1759, fu per


pochi mesi un severissimo controllore delle finanze francesi; per la fama
della sua eccessiva parsimonia e dell’insensibilità al carico fiscale è
passato ad indicare il ritratto nero su fondo bianco che riproduce il solo
contorno di una persona o di un oggetto. Il rimmel viene usato, in ita-
liano, come sinonimo di mascara: è il cognome del profumiere francese
del XIX secolo, Hyacinthe Mars Rimmel, che con suo figlio Eugene si
trasferì nel 1834 a Londra per avviare una nuova impresa cosmetica. La
loro fama mondiale è legata al prodotto capace di modellare, allungare e 493
riempire le ciglia delle donne.
Pagina pubblicitaria (1884)
del profumiere Rimmel
La mansarda (documentato in italiano dal 1803) deriva dal nome dell’ar-
chitetto François Mansart vissuto nel XVII secolo, celebre per aver porta-
to in auge un particolare tipo di copertura, peraltro già esistente nel Me-
dioevo, specie in Francia. Invece l’origine del termine linciaggio deriva dal
cognome dal giudice di pace Charles Lynch della Virginia (Usa) che ado-
però metodi extralegali per sopprimere i sostenitori degli inglesi durante
la Rivoluzione americana alla fine del XVIII secolo. Infine la penna a
sfera, conosciuta come penna biro, fu inventata dall’argentino-ungherese
László József Bíró che la brevettò nel 1938 per rimediare alle macchie di
inchiostro dalle penne stilografiche; anche se ideò un oggetto rivoluzio-
nario, ad arricchirsi non fu lui ma l’imprenditore torinese (naturalizzato
francese) Marcel Bich che acquistò il brevetto nel 1950 e riuscì a produrre
la biro su larga scala. Chiamò la penna con il nome Bic; la -h finale del
cognome fu volutamente eliminata per evitare la pronuncia inappropria-
ta in lingua inglese (bitch significa prostituta).

La Bic è la biro più vendu-


ta nel mondo
494
495
Appendice Catasto di città del 1554

Rilevazione statistica • Di seguito i cognomi in ordine alfabetico, preceduti dal


numero che indica la quantità per ogni lettera dell’alfabeto: 5 Abrentio, Adamiano,
Albanese, Amet, Arvaiolo • 16 Baccaro, Bacharo, Baldaxina, Balestriere, Balsamo, Bar-
ba, Barbaro, Basilio, Biancho, Bono, Bonofronte, Boscaino, Boso, Breazano, Bregazano,
Briazano • 34 Cacace, Caccavo, Caccioppulo, Cangiano, Cannavacciulo, Cannavaczulo,
Cantella, Cappiello, Carlino, Carrese, Castaldo, Catalano, Cavaliere, Cavallaro, Cemi-
no, Censone, Cepparano, Cerriulo, Certa, Cesario, Chiaese, Chiemento, Cimmino, Ci-
priano, Como, Coppola, Coppula, Corsale, Cota, Covarello, Crisconio, Criscono, Curto
• 115 d’Afflicto, d’Afflitto, d’Alexio, d’Amaro, d’Amato, Damiano, Dammora, d’Amora,
d’Apice, d’Apreya, d’Apuczo, d’Apuzo, d’Apuzzo, d’Avitaia, de Accetto, de Accietto,
de Afflitto, de Alamanno, de Alexio, de Altelda, de Amaro, de Amato, de Ambrase,
de Ammora, de Angelo, de Apece, de Apuzo, de Archo, de Armensia, de Armenza, de
Arpaia, de Asancte, de Atelda, de Atella, de Auria, de Avellino, de Avitaia, de Barletta,
de Bono, de Buono, de Capua, de Casale, de Cataldo, de Ceppaluni, de Ceppaluno,
de Cioffo, de Cisale, de Comparato, de Cosenza, de Cuccari, de Donato, de Durazzo,
de Ebuli, de Fasano, de Fenitio, de Fiumana, de Fiumara, de Gariglia, de Giglio, de
Granito, de Guido, de Ianuccio, de Ieza, de Jatta, de la Cava, de Lamberto, de la Torre,
496 de Levanto, della Cava, della Rocca, Dellicato, delli Santi, dell’Oglio, de lo Braccio, de
Maio, de Marchese, de Maria, de Marino, de Martino, de Massa, de Masso, de Melito,
de Miranda, de Miro, de Monaco, de Montella, de Napolda, de Narnia, de Nucera, de
Palma, de Parise, de Parmero, de Raffone, de Ranito, de Rannuccio, de Ranuccio, de
Recupido, de Rise, de Rogatis, de Rogato, de Rosa, de Rosania, de Salerno, de Sangilio,
de Sancto, de Scelzo, de Scola, de Serino, de Somma, de Urso, de Vivo, Ditta, Dolce-
fronte, Donnarumma, Dragut • 9 Fabbricatore, Fabrizio, Fante, Farricello, Fasulo, Feli-
ce, Ferraro, Firpo, Formichella • 7 Gautiero, Genoese, Giordano, Gisale, Golano, Greco,
Grosso • 1 Hieronima • 7 Jaconejanni, Iammusso, Iecza, Iezza, Imperato, Imperatore,
Inglietta, Inserra • 6 La Cerina, Lancella, Lardaro, Lembo, Letterese, Longobardo •
13 Magliano, Marchese, Maresca, Mariconda, Marotta, Mascolo, Masturzo, Medico,
Monaco, Montanaro, Mosca, Moscano, Mussolongo • 1 Nachlerio • 1 Oliviero • 20
Paduano, Palascandolo, Palummo, Pannone, Pappalardo, Paragallo, Pelliccia, Perillo,
Persichiello, Picciolo, Picciulo, Pisacane, Pistachio, Piza, Plagese, Porco, Porto, Prestie-
re, Prevete, Primicerio • 1 Quaranta • 8 Rabicano, Rapicano, Rendena, Riccio, Riczio,
Romano, Rosso, Russo • 19 Sachoccia, Sagese, Sansone, Sautante, Scafarto, Scafatese,
Scalese, Scannasorece, Scarrochia, Scola, Senzone, Sicardo, Soldano, Sorrentino,
Spenta, Spignola, Spina, Sportiello, Stella • 4 Tortora, Tramparulo, Trentacapilli, Tren-
tamolle • 18 Vaccaro, Vallese, Vanacore, Varvella, Veneruso, Verdeauliva, Verapalumbo,
Verapalummo, Vergara, Vetrano, Vigna, Vignapiana, Visceglia, Vitello, Voccamaiello,
Volpura, Vorpora

Statistica con frequenze assolute • Di seguito i cognomi in ordine alfabetico con il


nella due pagine precedenti numero che indica la quantità: Abrentio 1, Adamiano 3, Albanese 1, Amet 1, Arvaiolo
Stampa dell’incisore 2, Baccaro 1, Bacharo 11, Baldaxina 1, Balestriere 3, Balsamo 1, Barba 3, Barbaro 2,
Jakob Philipp Hackert Basilio 2, Biancho 2, Bono 1, Bonofronte 1, Boscaino 1, Boso 1, Breazano 8, Bregaza-
“Il cantiere di Castel-
no 2, Briazano 1, Cacace 6, Caccavo 1, Caccioppulo 3, Cangiano 1, Cannavacciulo 7,
lammare di Stabia” (1786)
che raffigura il varo del Cannavaczulo 1, Cantella 1, Cappiello 2, Carlino 1, Carrese 26, Castaldo 7, Catalano
vascello Partenope 1, Cavaliere 1, Cavallaro 1, Cemino 1, Censone 2, Cepparano 1, Cerriulo 1, Certa 15,
Cesario 4, Chiaese 43, Chiemento 1, Cimmino 1, Cipriano 1, Como 7, Coppola 60,
Coppula 2, Corsale 1, Cota 13, Covarello 1, Crisconio 1, Criscono 1, Cuomo 5, Curto
1, d’Afflicto 1, d’Afflitto 4, d’Alexio 3, d’Amaro 1, d’Amato 8, Dammora 1, d’Amora
1, d’Apice 5, d’Apreya 1, d’Apuczo 1, d’Apuzo 1, d’Apuzzo 11, Damiano 2, d’Avitaia 3,
de Afflitto 1, de Accetto 8, de Accietto 2, de Alamanno 1, de Alexio 4, de Altelda 1, de
Amaro 2, de Amato 1, de Ambrase 5, de Ammora 6, de Angelo 5, de Apece 1, de Apuzo
2, de Archo 1, de Armensia 1, de Armenza 1, de Arpaia 2, de Asancte 2, de Atelda 1,
de Atella 2, de Auria 4, de Avellino 4, de Avitaia 2, de Barletta 2, de Bono 3, de Buono
1, de Capua 3, de Casale 5, de Cataldo 2, de Ceppaluni 1, de Ceppaluno 1, de Cioffo 6,
de Cisale 5, de Comparato 1, de Cosenza 1, de Cuccari 2, de Donato 1, de Durazzo 3,
de Ebuli 2, de Fasano 1, de Fenitio 1, de Fiumana 3, de Fiumara 14, de Gariglia 2, de
Giglio 1, de Granito 1, de Guido 1, de Ianuccio 1, de Ieza 2, de Jatta 2, de la Cava 3, de
la Torre 6, de Lamberto 2, de Levanto 1, de lo Braccio 2, de Maio 16, de Marchese 3, de
Maria 3, de Marino 10, de Martino 7, de Massa 2, de Masso 1, de Melito 1, de Miranda
7, de Miro 6, de Monaco 3, de Montella 4, de Narnia 1, de Nucera 16, de Palma 4, de
Parise 1, de Parmero 2, de Raffone 13, de Ranito 3, de Ranuccio 3, de Recupido 1, de
Rise 2, de Rogatis 5, de Rogato 8, de Rosa 23, de Rosania 3, de Salerno 1, de Sangilio
1, de Sancto 1, de Scelzo 2, de Scola 5, de Serino 3, de Somma 5, de Urso 1, de Vivo
2, dell’Oglio 1, della Cava 1, della Rocca 1, delli Santi 1, Dellicato 7, Ditta 2, Dolce-
fronte 2, Donnarumma 7, Dragut 1, Fabbricatore 1, Fabrizio 1, Fante 3, Farricello 2, 497
Fasulo 2, Felice 13, Ferraro 4, Firpo 13, Formichella 1, Gautiero 10, Genoese 2, Gisale
3, Giordano 1, Golano 4, Greco 3, Grosso 7, Hieronima 1, Iammusso 1, Iecza 4, Iezza 1,
Imperato 10, Imperatore 3, Inglietta 2, Inserra 1, Jaconejanni 3, La Cerina 3, Lancella
1, Lardaro 8, Lembo 1, Letterese 2, Longobardo 117, Magliano 6, Marchese 5, Maresca
1, Mariconda 2, Marotta 1, Mascolo 2, Masturzo 2, Medico 1, Monaco 1, Montanaro
11, Mosca 8, Moscano 1, Mussolongo 1, Nachlerio 1, Oliviero 4, Paduano 1, Pala-
scandolo 2, Palummo 1, Pannone 1, Pappalardo 9, Paragallo 4, Pelliccia 2, Perillo 3,
Persichiello 1, Picciolo 1, Picciulo 1, Pisacane 1, Pistachio 1, Piza 1, Plagese 4, Porco
5, Porto 1, Prestiere 1, Prevete 2, Primicerio 3, Quaranta 1, Rabicano 1, Rapicano 3,
Rendena 1, Riccio 4, Riczio 2, Romano 2, Rosso 1, Russo 5, Sachoccia 1, Sagese 1, San-
sone 22, Sautante 1, Scafarto 64, Scafatese 1, Scalese 19, Scannasorece 1, Scarrochia 8,
Scola 1, Senzone 3, Sicardo 14, Soldano 2, Sorrentino 3, Spenta 9, Spignola 6, Spina 2,
Sportiello 3, Stella 1, Tortora 5, Tramparulo 4, Trentacapilli 1, Trentamolle 3, Vaccaro
2, Vallese 9, Vanacore 8, Varvella 12, Veneruso 2, Verdeauliva 11, Verapalumbo 6,
Verapalummo 3, Vergara 2, Vetrano 1, Vigna 1, Vignapiana 2, Visceglia 1, Vitello 1,
Voccamaiello 1, Volpora 4, Volpura 2, Vorpora 1

Statistica con frequenze relative • Di seguito i cognomi, rilevati su 597 fuochi,


con una frequenza relativa maggiore o uguale a 5 fuochi: Longobardo (19,6%), Scafarto
(10,7%), Coppola (10%), Chiaese (7,2%), Sansone (4,5%), Carrese (4,3%), de Rosa (3,8%),
Scalese (3,2%), de Fiumara (2,8%), de Maio (2,7%), de Nucera (2,7%), Certa (2,5%),
Sicardo (2,3%), Cota (2,2%), de Raffone (2,2%), Felice (2,2%), Firpo (2,2%), Varvella (2%),
Bacharo (1,8%), d’Apuzzo (1,8%), Montanaro (1,8%), Verdeauliva (1,8%), Gautiero (1,6%),
Imperato (1,6%), Pappalardo (1,5%), Spenta (1,5%), Vallese (1,5%), Breazano (1,3%), d’A-
mato (1,3%), de Rogato (1,3%), Lardaro (1,3%), Mosca (1,3%), Scarrochia (1,3%), Vanacore
(1,3%), Cannavacciulo (1,2%), Castaldo (1,2%), Como (1,2%), Dellicato (1,2%), de Martino
(1,2%), de Miranda (1,2%), Donnarumma (1,2%), Grosso (1,2%), Cacace (1%), de Ammora
(1%), de la Torre (1%), de Miro (1%), Magliano (1%), Spignola (1%), Verapalumbo (1%),
Ambrase (0,8%), Cuomo (0,8%), d’Apice (0,8%), de Angelo (0,8%), de Avitaia (0,8%), de
Casale (0,8%), de Cisale (0,8%), de Rogatis (0,8%), de Scola (0,8%), de Somma (0,8%),
Marchese (0,8%), Russo (0,8%), Tortora (0,8%)

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Catasto dei Terzieri del 1603

Rilevazione statistica • Di seguito i cognomi in ordine alfabetico, preceduti dal


numero che indica la quantità per ogni lettera dell’alfabeto: 5 Biancho, Bianco,
Buonocore, Buonocunto, Buondonno • 9 Chiaiese, Chiayese, Chiareca, Carrese, Cop-
pola, Cuomo, Cimmino, Cannavacciolo, Cosentino • 32 d’Accetto, d’Alessio, d’Amato,
d’Amora, d’Apece, d’Arco, d’Arrigo, de Cataldo, de Cosenza, de Donato, de Ferrante,
de Fiumara, de Grimaldo, de la Corte, de la Torre, Dellicata, de Luise, de Marino, de
Mayo, de Nocera, de Roberto, de Rogato, de Rosa, de Satta, de Scola, de Secza, de Sessa,
Desiato, de Valentino, de Varletta, de Vivo, Donnarumma • 7 Felice, Franceglia, Fran-
zese, Fortunato, Fatturusso, Fattoruso, Firpo • 3 Gallo, Gautiere, Gianco • 2 Imperatore,
Iordano • 1 Lancelle • 4 Montanaro, Mellone, Massa, Mascolo • 1 Nicodemo • 2 Perillo,
Pignataro • 2 Romano, Russo • 9 Spenta, Sanzone, Scafarto, Solimena, Scalese, Scarpa,
498 Senese, Spignola, Scarrocchia • 3 Tortora, Troyano, Todisco • 9 Venderuso, Vagnulo,
Varnella, Vitale, Verdoliva, Verd’Oliva, Vignapiana, Verapalumbo, Voccamayello

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Catasto onciario del 1753

Rilevazione statistica • Di seguito i cognomi in ordine alfabetico, preceduti dal


numero che indica la quantità per ogni lettera dell’alfabeto: 17 Acampora, Acanfora,
Alfano, Ambrasano, Amendola, Amitrano, Anastasio, Andolfo, Angiola, Arciulo,
Asciano, Astarita, Attanasio, Attardo, Avella, Avellina, Avitaja • 16 Balestrieri, Bale-
striero, Balzano, Barbarulo, Basile, Bello, Bonadia, Bonifacio, Bove, Branco, Bruno,
Buonifacio, Buono, Buonocore, Buonocunto, Buononato • 55 Cacace, Cafiero, Calabre-
se, Caldaro, Caldiero, Calvanico, Candela, Cannavacciuolo, Cannavale, Cappiello, Ca-
ratu, Carcatella, Carcea, Carrese, Caruso, Casale, Cascone, Caso, Catuogno, Cauciello,
Celentano, Celeste, Celo, Celona, Celono, Celotto, Cemmino, Ceraso, Cerchia, Cestaro,
Chiajese, Chiocca, Ciampa, Ciccimorto, Cimmino, Cinco, Cinque, Cioffo, Cobuzio,
Cola, Colasanto, Collosa, Colossa, Conte, Coppola, Corraro, Correa, Cosentino, Co-
senza, Costabile, Cotena, Coticella, Criscuolo, Cuomo, Curcio • 97 d’Acanfora, d’Ajello,
d’Alesio, d’Amato, d’Ambrosio, d’Ammora, d’Amora, d’Amore, d’Andrea, d’Angelis,
d’Angelo, d’Angiola, d’Apice, d’Aprea, d’Apreja, d’Apozzo, d’Apuzzo, d’Arco, d’Auria,
d’Aversa, d’Aveta, de Angelis, de Benedictjs, de Benedittis, de Beneditty, de Felice, del
Giudice, del Guasto, d’Elia, della Cerra, dell’Acqua, della Fratta, della Monica, della
Rocca, della Seta, della Torre, dello Guasto, del Monaco, del Porto, de Luise, del Vasto,
de Martino, d’Erchio, de Rogatis, de Santis, de Simone, de Turris, de Vivo, di Berar-
dino, di Biase, di Blasio, di Capua, di Cobuzio, di Cosenza, di Costanza, di Falco, di
Felice, di Feo, di Florio, di Francesco, di Franco, di Gaeta, di Gennaro, di Giovanni, di
Guida, di Leone, di Levo, di Lieti, di Longobardo, di Loise, di Lojse, di Luca, di Luise,
di Maio, di Majo, di Martino, di Massa, di Monaco, di Napoli, di Nocera, di Pace, di
Paolo, di Roberto, di Rosa, di Ruggiero, di Santo, di Scelzo, di Scienzo, di Simone,
di Sinno, di Somma, di Vincenti, di Vivo, Donnarumma, d’Orazio, d’Orsi, d’Urso • 3
Elia, Esposita, Esposito • 20 Fabiano, Falanca, Falancola, Falanga, Falangola, Famella,
Farco, Farriciello, Favo, Femia, Ferrajolo, Ferraro, Filosa, Filoso, Fiorillo, Firpo, Fiu-
mara, Frallo, Franco, Frezza • 20 Gaito, Galdieri, Galente, Gallo, Gargiulo, Gaudiero,
Gelormino, Genovese, Giacchi, Ginco, Giobbe, Giordano, Girace, Granito, Grano, Gra-
ziuso, Greco, Grieco, Grosso, Guarna • 7 Iezze, Imparato, Infante, Iovene, Iovine, Irace,
Iuliano • 9 Lajno, Landolfo, Langella, Lo Guasto, Lombardo, Longobardi, Longobardo,
Lo Zuoppo, Luise • 26 Maggio, Magliano, Manfuso, Maresca, Martiello, Martone,
Martoriello, Masco, Mascolo, Massa, Massamormile, Maurece, Mauriello, Menechino,
Merolla, Mirra, Mollo, Montanile, Monte, Montefusco, Montella, Montuoro, Monturo,
Morra, Mosca, Muollo • 4 Napoli, Naschiano, Naso, Natalia • 27 Pagano, Palermo,
Palomba, Palomma, Palummo, Pane, Pannella, Pappalardo, Parito, Parlato, Pennella,
Perrone, Petrone, Pettorina, Pezzella, Pica, Piccolo, Piedenigro, Pietro Paolo, Pignatel-
la, Pignatelli, Pinto, Pirozzo, Pistoia, Polito, Porzio • 22 Rafaele, Raffone, Raja, Rajmo,
Rajno, Rallo, Ravenna, Raviello, Rescigno, Revella, Rispo, Rispoli, Rispolo, Rocco,
Romano, Romeo, Ronga, Rotundo, Rotunno, Ruocco, Russo • 34. Saccardo, Salavato,
Salerno, Salvato, Santaniello, Santolino, Santomarco, Sansone, Sanzone, Savoja,
Scabione, Scafarto, Scalese, Scarfogliero, Scarocchia, Scarpato, Schettino, Schia-
no, Sciacca, Scieccozo, Sciercozo, Scognamiglio, Scola, Serino, Solimena, Sollazzo, 499
Sorrentino, Spagnuolo, Spina, Stanzione, Starace, Stella, Sullo, Suponato, Santillo •
12 Talamo, Tartaglione, Telese, Tizzano, Todaro, Tomasino, Trambarulo, Tramparulo,
Trofa, Troiano, Trojano, Turci • 1 Uliano • 19 Vacante, Vaccaro, Valanzano, Valanzuo-
lo, Valenza, Valenzano, Vanacola, Vanacore, Ventorino, Ventura, Venturo, Verdoliva,
Vincenti, Vingiano, Vitaglione, Volano, Voliano, Vollano, Volpe • 7 Zaccaria, Zavarese,
Zeccone, Zinco, Zincone, Zito, Zullo

Statistica con frequenze assolute • Di seguito i cognomi in ordine alfabetico


con il numero che indica la quantità: Acampora 3, Acanfora 2, Alfano 3, Ambrasano
1, Amendola 2, Amitrano 9, Anastasio 1, Andolfo 3, Angiola 2, Arciulo 3, Asciano
1, Astarita 6, Attanasio 2, Attardo 6, Avella 1, Avellina 7, Avitaja 3, Balestrieri 1,
Balestriero 2, Balzano 1, Barbarulo 2, Basile 1, Bello 1, Bonadia 3, Bonifacio 3, Bove 1,
Branco 2, Bruno 6, Buonifacio 1, Buono 3, Buonocore 7, Buonocunto 10, Buononato 7,
Cacace 11, Cafiero 11, Calabrese 3, Caldaro 1, Caldiero 1, Calvanico 9, Candela 3, Can-
navacciuolo 23, Cannavale 1, Cappiello 1, Caratu 1, Carcatella 1, Carcea 1, Carrese 10,
Caruso 1, Casale 16, Cascone 2, Caso 2, Catuogno 1, Cauciello 2, Celentano 3, Celeste
1, Celo 1, Celona 1, Celono 2, Celotto 12, Cemmino 11, Ceraso 2, Cerchia 1, Cestaro 1,
Chiajese 1, Chiocca 4, Ciampa 1, Ciccimorto 1, Cimmino 2, Cinco 2, Cinque 1, Cioffo
3, Cobuzio 7, Cola 1, Colasanto 1, Collosa 3, Colossa 1, Conte 6, Coppola 15, Corraro
1, Correa 3, Cosentino 5, Cosenza 4, Costabile 1, Cotena 2, Coticella 1, Criscuolo 3,
Cuomo 14, Curcio 6, d’Acanfora 3, d’Ajello 15, d’Alesio 1, d’Amato 10, d’Ambrosio 1,
d’Ammora 1, d’Amora 2, d’Amore 3, d’Andrea 1, d’Angelis 2, d’Angelo 14, d’Angiola 1,
d’Apice 3, d’Aprea 4, d’Apreja 2, d’Apozzo 1, d’Apuzzo 18, d’Arco 18, d’Auria 2, d’Aversa
1, d’Aveta 2, de Angelis 2, de Benedictjs 2, de Benedittis 1, de Beneditty 1, de Felice 1,
del Giudice 5, del Guasto 3, d’Elia 4, della Cerra 1, dell’Acqua 1, della Fratta 2, della
Monica 1, della Rocca 2, della Seta 3, della Torre 13, dello Guasto 5, del Monaco 3, del
Porto 2, de Luise 1, del Vasto 1, de Martino 1, d’Erchio 1, de Rogatis 3, de Santis 1, de
Simone 6, de Turris 1, de Vivo 1, di Berardino 1, di Biase 1, di Blasio 2, di Capua 42, di
Cobuzio 6, di Cosenza 7, di Costanza 1, di Falco 3, di Felice 4, di Feo 2, di Florio 4, di
Francesco 1, di Franco 2,di Gaeta 4, di Gennaro 1, di Giovanni 4, di Guida 3, di Leone
1, di Levo 1, di Lieti 2, di Longobardo 2, di Loise 1, di Lojse 1, di Luca 1, di Luise 5, di
Maio 20, di Majo 2, di Martino 46, di Massa 2, di Monaco 2, di Napoli 26, di Nocera 3,
di Pace 1, di Paolo 1, di Roberto 1, di Rosa 23, di Ruggiero 7, di Santo 1, di Scelzo 7, di
Scienzo 1, di Simone 23, di Sinno 1, di Somma 23, di Vincenti 1, di Vivo 2, Donna-
rumma 34, d’Orazio 1, d’Orsi 1, d’Urso 1, Elia 2, Esposita 4, Esposito 82, Fabiano 1,
Falanca 5, Falancola 2, Falanga 2, Falangola 1, Famella 3, Farco 3, Farriciello 2, Favo
1, Femia 2, Ferrajolo 2, Ferraro 15, Filosa 13, Filoso 1, Fiorillo 1, Firpo 8, Fiumara
3, Frallo 1, Franco 3, Frezza 1, Gaito 1, Galdieri 2, Galente 1, Gallo 13, Gargiulo 10,
Gaudiero 1, Gelormino 3, Genovese 3, Giacchi 2, Ginco 1, Giobbe 1, Giordano 3, Girace
2, Granito 2, Grano 1, Graziuso 3, Greco 1, Grieco 3, Grosso 6, Guarna 2, Iezze 2, Impa-
rato 10, Infante 2, Iovene 2, Iovine 3, Irace 1, Iuliano 7, Lajno 2, Landolfo 1, Langella 1,
Lo Guasto 2, Lombardo 2, Longobardi 3, Longobardo 61, Lo Zuoppo 2, Luise 3, Maggio
2, Magliano 7, Manfuso 1, Maresca 4, Martiello 1, Martone 1, Martoriello 7, Masco 1,
Mascolo 8, Massa 2, Massamormile 2, Maurece 1, Mauriello 3, Menechino 1, Merolla
5, Mirra 2, Mollo 4, Montanile 1, Monte 1, Montefusco 1, Montella 2, Montuoro 1,
Monturo 2, Morra 1, Mosca 3, Muollo 3, Napoli 1, Naschiano 1, Naso 1, Natalia 1, Pa-
gano 12, Palermo 3, Palomba 3, Palomma 1, Palummo 5, Pane 1, Pannella 2, Pappalar-
500 do 2, Parito 1, Parlato 4, Pennella 2, Perrone 2, Petrone 2, Pettorina 18, Pezzella 2, Pica
5, Piccolo 1, Piedenigro 1, Pietro Paolo 2, Pignatella 1, Pignatelli 2, Pinto 3, Pirozzo
1, Pistoia 1, Polito 7, Porzio 6, Rafaele 1, Raffone 12, Raja 2, Rajmo 1, Rajno 1, Rallo
5, Ravenna 1, Raviello 1, Rescigno 2, Revella 1, Rispo 1, Rispoli 2, Rispolo 4, Rocco 1,
Romano 1, Romeo 4, Ronga 2, Rotundo 2, Rotunno 3, Ruocco 9, Russo 11, Saccardo 1,
Salavato 1, Salerno 1, Salvato 21, Santaniello 2, Santolino 1, Santomarco 1, Sansone
1, Sanzone 13, Savoja 1, Scabione 1, Scafarto 4, Scalese 1, Scarfogliero 1, Scarocchia
1, Scarpato 2, Schettino 5, Schiano 4, Sciacca 2, Scieccozo 1, Sciercozo 2, Scognami-
glio 5, Scola 5, Serino 3, Solimena 2, Sollazzo 1, Sorrentino 8, Spagnuolo 1, Spina 5,
Stanzione 1, Starace 2, Stella 2, Sullo 1, Suponato 2, Talamo 1, Tartaglione 11, Telese
2, Tizzano 1, Todaro 11, Tomasino 7, Trambarulo 2, Tramparulo 6, Trofa 2, Troiano 1,
Trojano 2, Turci 3, Uliano 3, Vacante 1, Vaccaro 2, Valanzano 9, Valanzuolo 1, Valenza
1, Valenzano 2, Vanacola 1, Vanacore 18, Ventorino 1, Ventura 1, Venturo 1, Verdoliva
4, Vincenti 2, Vingiano 11, Vitaglione 11, Volano 1, Voliano 8, Vollano 28, Volpe 1,
Zaccaria 2, Zavarese 14, Zeccone 1, Zinco 1, Zincone 1, Zito 1, Zullo 2

Statistica con frequenze relative • Di seguito i cognomi, rilevati su 606 fuochi,


con una frequenza relativa maggiore o uguale a 5 fuochi: Esposito (13,5%), Longobardo
(10,0%), di Martino (7,6%), di Capua (6,9%), Donnarumma (5,6%), Vollano (4,6%), di Na-
poli (4,3%), Cannavacciuolo (3,8%), di Rosa (3,8%), di Simone (3,8%), di Somma (3,8%),
Salvato (3,5%), di Maio (3,3%), d’Apuzzo (2,9%), d’Arco (2,9%), Pettorina (2,9%), Vanacore
(2,9%), Casale (2,6%), Coppola (2,5%), d’Ajello (2,5%), Ferraro (2,5%), Cuomo (2,3%),
d’Angelo (2,3%), Zavarese (2,3%), della Torre (2,1%), Filosa (2,1%), Gallo (2,1%), Sanzone
(2,1%), Celotto (1,9%), Pagano (1,9%), Raffone (1,9%), Cacace (1,8%), Cafiero (1,8%), Cem-
mino (1,8%), Russo (1,8%), Tartaglione (1,8%), Todaro (1,8%), Vingiano (1,8%), Vitaglione
(1,8%), Buonocunto (1,6%), Carrese (1,6%), d’Amato (1,6%), Gargiulo (1,6%), Imparato
(1,6%), Amitrano (1,5%), Calvanico (1,5%), Ruocco (1,5%), Valanzano (1,5%), Firpo (1,3%),
Mascolo (1,3%), Sorrentino (1,3%), Voliano (1,3%), Avellina (1,1%), Buonocore (1,1%),
Buononato (1,1%), Cobuzio (1,1%), di Cosenza (1,1%), di Ruggiero (1,1%), di Scelzo (1,1%),
Iuliano (1,1%), Magliano (1,1%), Martoriello (1,1%), Polito (1,1%), Tomasino (1,1%), Asta-
rita (1,0%), Attardo (1,0%), Bruno (1,0%), Conte (1,0%), Curcio (1,0%), de Simone (1,0%),
di Cobuzio (1,0%), Grosso (1,0%), Porzio (1,0%), Tramparulo (1,0%), Cosentino (0,8%),
del Giudice (0,8%), dello Guasto (0,8%), di Luise (0,8%), Falanca (0,8%), Merolla (0,8%),
Palummo (0,8%), Pica (0,8%), Rallo (0,8%), Schettino (0,8%), Scognamiglio (0,8%), Scola
(0,8%), Spina (0,8%)

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Elenco telefonico del 2007

Rilevazione statistica • Questa indagine sui cognomi non è chiaramente esaustiva


come un censimento, in quanto determinata dallo spoglio sistematico dei soli abbo-
nati alla Telecom e non da tutti i cittadini di Castellammare di Stabia in quell’anno;
ancor di più, è parziale e limitata perché riflette non gli individui ma gruppi familiari
eterogenei. Ciononostante i dati possono essere considerati dei campioni rappresen-
tativi delle vere frequenze dei cognomi in città. Di seguito i cognomi in ordine alfa-
betico, preceduti dal numero che indica la quantità per ogni lettera dell’alfabeto: 14
Abagnale, Acanfora, Aiello, Alfano, Amato, Amendola, Amodio, Amore, Angellotti,
Apicella, Aprea, Apuzzo, Ascione, Avitabile • 11 Balestrieri, Balzano, Barbato, Barretta, 501
Boccia, Bonifacio, Borrelli, Bruno, Buondonno, Buonocore, Buonomo • 30 Cacace, Ca-
fiero, Caiazzo, Calabrese, Calvanico, Cannavacciuolo, Cannavale, Capriglione, Carre-
se, Cascone, Castellano, Castigliano, Cavaliere, Cavallaro, Celentano, Celoro, Celotto,
Cerchia, Cesarano, Cimmino, Cinque, Cioffi, Cirillo, Conte, Coppola, Cosenza, Cotti-
celli, Cozzolino, Criscuolo, Cuomo • 32 D’Alessandro, D’Amato, D’Amora, D’Aniello,
D’Antuono, D’Apice, D’Arco, D’Auria, De Angelis, De Falco, De Feo, De Gennaro, De
Gregorio, Del Gaudio, Della Monica, Del Sorbo, De Luca, Del Vasto, De Martino, De
Pascale, De Riso, De Rosa, De Simone, De Stefano, Di Capua, Di Maio, Di Martino,
Di Nocera, Di Palma, Di Ruocco, Di Somma, Donnarumma • 2 Elefante, Esposito • 8
Ferraiuolo, Ferrara, Filosa, Fiorentino, Fontana, Fontanella, Formisano, Fortunato •
17 Gaeta, Galasso, Gallo, Gallotti, Gambardella, Gargiulo, Genovese, Gentile, Gian-
nattasio, Giordano, Girace, Graziuso, Greco, Grimaldi, Guarino, Guerriero, Guida • 9
Iaccarino, Iezza, Imparato, Infante, Ingenito, Iovine, Iovino, Iozzino, Izzo • 8 La Mura,
Landolfi, Langellotti, Lepre, Liguori, Lombardi, Longobardi, Luise • 15 Macera, Ma-
lafronte, Manfredonia, Manzo, Marciano, Maresca, Martone, Martoriello, Mascolo,
Massa, Matrone, Mauriello, Messina, Montuori, Mosca • 3 Napolitano, Nastro, Nocera
• 2 Orazzo, Ottone • 10 Paduano, Palmieri, Palomba, Palumbo, Pane, Pappalardo,
Parmendola, Parmentola, Polito, Porzio • 9 Raffone, Raimo, Rapicano, Ricci, Ricciar-
di, Romano, Rotondale, Ruocco, Russo • 23 Sabatino, Salvato, Sansone, Santaniello,
Santarpia, Santoro, Sarcinelli, Savarese, Scarfato, Scala, Scarica, Scarpato, Scelzo,
Schettino, Scognamiglio, Sicignano, Somma, Sorrentino, Spagnuolo, Staiano, Starace,
Stella, Suarato • 5 Todisco, Tommasino, Torre, Tramparulo, Troiano • 1 Ungaro • 11 Va-
lanzano, Vanacore, Varone, Vecchione, Verdoliva, Veropalumbo, Vingiani, Vitaglione,
Vitiello, Vollono, Vuolo • 3 Zingone, Zurlo, Zurolo

Statistica con frequenze assolute • Di seguito i cognomi in ordine alfabetico con il


numero che indica la quantità: Abagnale 28, Acanfora 27, Aiello 39, Alfano 40, Amato
51, Amendola 21, Amodio 28, Amore 24, Angellotti 30, Apicella 19, Aprea 14, Apuzzo
© roberto elefante

La Cassa Armonica (1900) 81, Ascione 16, Avitabile 12, Balestrieri 28, Balzano 15, Barbato 22, Barretta 18, Boccia
progettata dall’architet- 13, Bonifacio 24, Borrelli 12, Bruno 19, Buondonno 19, Buonocore 38, Buonomo 13,
to Eugenio Cosenza
502 Cacace 31, Cafiero 25, Caiazzo 29, Calabrese 30, Calvanico 19, Cannavacciuolo 16,
Cannavale 68, Capriglione 30, Carrese 29, Cascone 149, Castellano 40, Castigliano 19,
Cavaliere 26, Cavallaro 34, Celentano 12, Celoro 12, Celotto 28, Cerchia 30, Cesarano
68, Cimmino 51, Cinque 20, Cioffi 32, Cirillo 41, Conte 39, Coppola 95, Cosenza 20,
Cotticelli 13, Cozzolino 16, Criscuolo 71, Cuomo 96, D’Alessandro 15, D’Amato 26,
D’Amora 23, D’Aniello 39, D’Antuono 18, D’Apice 56, D’Arco 20, D’Auria 81, De An-
gelis 26, De Falco 12, De Feo 12, De Gennaro 13, De Gregorio 27, Del Gaudio 61, Della
Monica 21, Del Sorbo 32, De Luca 40, Del Vasto 19, De Martino 67, De Pascale 13, De
Riso 21, De Rosa 37, De Simone 101, De Stefano 14, Di Capua 72, Di Maio 86, Di Mar-
tino 109, Di Nocera 38, Di Palma 19, Di Ruocco 24, Di Somma 68, Donnarumma 85,
Elefante 59, Esposito 428, Ferraiuolo 12, Ferrara 23, Filosa 18, Fiorentino 13, Fontana
14, Fontanella 13, Formisano 12, Fortunato 14, Gaeta 18, Galasso 15, Gallo 23, Gallotti
12, Gambardella 20, Gargiulo 79, Genovese 19, Gentile 20, Giannattasio 21, Giordano
62, Girace 21, Graziuso 31, Greco 43, Grimaldi 14, Guarino 19, Guerriero 13, Guida
36, Iaccarino 39, Iezza 40, Imparato 76, Infante 20, Ingenito 42, Iovine 12, Iovino 31,
Iozzino 15, Izzo 51, La Mura 21, Landolfi 30, Langellotti 24, Lepre 12, Liguori 13,
Lombardi 24, Longobardi 109, Luise 21, Macera 13, Malafronte 49, Manfredonia 12,
Manzo 20, Marciano 12, Maresca 61, Martone 62, Martoriello 19, Mascolo 32, Massa
40, Matrone 29, Mauriello 16, Messina 12, Montuori 18, Mosca 50, Napolitano 13,
Nastro 28, Nocera 21, Orazzo 28, Ottone 12, Paduano 12, Palmieri 19, Palomba 15, Pa-
lumbo 32, Pane 16, Pappalardo 25, Parmendola 20, Parmentola 41, Polito 18, Porzio 31,
Raffone 38, Raimo 29, Rapicano 18, Ricci 12, Ricciardi 13, Romano 26, Rotondale 12,
Ruocco 32, Russo 91, Sabatino 21, Salvato 32, Sansone 33, Santaniello 51, Santarpia
22, Santoro 13, Sarcinelli 28, Savarese 41, Scarfato 18, Scala 19, Scarica 23, Scarpato
20, Scelzo 21, Schettino 139, Scognamiglio 31, Sicignano 69, Somma 96, Sorrentino 67,
Spagnuolo 33, Staiano 40, Starace 47, Stella 12, Suarato 19, Todisco 23, Tommasino 19,
Torre 13, Tramparulo 28, Troiano 15, Ungaro 12, Valanzano 12, Vanacore 81, Varone
33, Vecchione 12, Verdoliva 46, Veropalumbo 28, Vingiani 30, Vitaglione 41, Vitiello
45, Vollono 61, Vuolo 12, Zingone 19, Zurlo 20, Zurolo 38
Statistica con frequenze relative • Di seguito i cognomi, rilevati su 7.285 abbonati,
con una frequenza relativa maggiore o uguale a 12 abbonati: Esposito (5,9%), Cascone
(2%), Schettino (1,9%), Di Martino (1,5%), Longobardi (1,5%), De Simone (1,4%), Cuomo
(1,3%), Somma (1,3%), Coppola (1,3%), Russo (1,2%), Di Maio (1,2%), Donnarumma
(1,2%), Apuzzo (1,1%), D’Auria (1,1%), Vanacore (1,1%), Gargiulo (1,1%), Imparato (1%),
Di Capua (1%), Criscuolo (1%), Sicignano (0,9%), Cannavale (0,9%), Cesarano (0,9%), Di
Somma (0,9%), De Martino (0,9%), Sorrentino (0,9%), Giordano (0,8%), Martone (0,8%),
Del Gaudio (0,8%), Maresca (0,8%), Vollono (0,8%), Elefante (0,8%), D’Apice (0,8%),
Amato (0,7%), Cimmino (0,7%), Izzo (0,7%), Santaniello (0,7%), Mosca (0,7%), Mala-
fronte (0,7%), Starace (0,6%), Verdoliva (0,6%), Vitiello (0,6%), Greco (0,6%), Ingenito
(0,6%), Cirillo (0,6%), Parmentola (0,6%), Savarese (0,6%), Vitaglione (0,6%), Alfano
(0,5%), Castellano (0,5%), De Luca (0,5%), Iezza (0,5%), Massa (0,5%), Staiano (0,5%),
Aiello (0,5%), Conte (0,5%), D’Aniello (0,5%), Iaccarino (0,5%), Buonocore (0,5%), Di
Nocera (0,5%), Raffone (0,5%), Zurolo (0,5%), De Rosa (0,5%), Guida (0,5%), Caval-
lar (0,5%), Sansone (0,5%), Spagnuolo (0,5%), Varone (0,5%), Cioffi (0,4%), Del Sorbo
(0,4%), Mascolo (0,4%), Palumbo (0,4%), Ruocco (0,4%), Salvato (0,4%), Cacace (0,4%),
Graziuso (0,4%), Iovino (0,4%), Porzio (0,4%), Scognamiglio (0,4%), Angellotti (0,4%),
Calabrese (0,4%), Capriglione (0,4%), Cerchia (0,4%), Landolfi (0,4%), Vingiani (0,4%),
Caiazzo (0,4%), Carrese (0,4%), Matrone (0,4%), Raimo (0,4%), Abagnale (0,4%), Amodio
(0,4%), Balestrieri (0,4%), Celotto (0,4%), Nastro (0,4%), Orazzo (0,4%), Sarcinelli (0,4%), 503
Tramparulo (0,4%), Veropalumbo (0,4%), Acanfora (0,4%), De Gregorio (0,4%), Cavaliere
(0,4%), D’Amato (0,4%), De Angelis (0,4%), Romano (0,4%), Cafiero (0,3%), Pappalardo
(0,3%), Bonifacio (0,3%), Amore (0,3%), Di Ruocco (0,3%), Langellotti (0,3%), Lombardi
(0,3%), D’Amora 23 (0,3%), Ferrara (0,3%), Gallo (0,3%), Scarica (0,3%), Todisco (0,3%),
Barbato (0,3%), Santarpia (0,3%), Amendola (0,3%), Della Monica (0,3%), De Riso
(0,3%), Giannattasio (0,3%), Girace (0,3%), La Mura (0,3%), Luise (0,3%), Nocera (0,3%),
Sabatino (0,3%), Scelzo (0,3%), Cinque (0,3%), Cosenza (0,3%), D’Arco (0,3%), Gambar-
della (0,3%), Gentile (0,3%), Infante (0,3%), Manzo (0,3%), Parmendola (0,3%), Scarpato
(0,3%), Zurlo (0,3%), Apicella (0,3%), Bruno (0,3%), Buondonno (0,3%), Calvanico (0,3%),
Castigliano (0,3%), Del Vasto (0,3%), Di Palma (0,3%), Genovese (0,3%), Guarino (0,3%),
Martoriello (0,3%), Palmieri (0,3%), Scala (0,3%), Suarato (0,3%), Tommasino (0,3%),
Zingone (0,3%), Barretta (0,2%), D’Antuono (0,2%), Filosa (0,2%), Gaeta (0,2%), Montuori
(0,2%), Polito (0,2%), Rapicano (0,2%), Scarfato (0,2%), Ascione (0,2%), Cannavacciuolo
(0,2%), Cozzolino (0,2%), Mauriello (0,2%), Pane (0,2%), Balzano (0,2%), D’Alessandro
(0,2%), Galasso (0,2%), Iozzino (0,2%), Palomba (0,2%), Troiano (0,2%), Aprea (0,2%), De
Stefano (0,2%), Fontana (0,2%), Fortunato (0,2%), Grimaldi (0,2%), Boccia (0,2%), Buo-
nomo (0,2%), Cotticelli (0,2%), De Gennaro (0,2%), De Pascale (0,2%), Fiorentino (0,2%),
Fontanella (0,2%), Guerriero (0,2%), Liguori (0,2%), Macera (0,2%), Napolitano (0,2%),
Ricciardi (0,2%), Santoro (0,2%), Torre (0,2%), Avitabile (0,1%), Borrelli (0,1%), Celentano
(0,1%), Celoro (0,1%), De Falco (0,1%), De Feo (0,1%), Ferraiuolo (0,1%), Formisano (0,1%),
Gallotti (0,1%), Iovine (0,1%), Lepre (0,1%), Manfredonia (0,1%), Marciano (0,1%), Mes-
sina (0,1%), Ottone (0,1%), Paduano (0,1%), Ricci (0,1%), Rotondale (0,1%), Stella (0,1%),
Ungaro (0,1%), Valanzano (0,1%), Vecchione (0,1%), Vuolo (0,1%)

504
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settembre 2021

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