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Collana di Psicologia clinica e Psicoterapia

diretta da Franco Del Corno


LA MENTE OSSESSIVA

Curare il disturbo
ossessivo-compulsivo

a cura di
Francesco Mancini


&gfaello Cortina Editore
www.raffaellocortina.it

ISBN 978-88-6030-822-1
© 2016 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4
Prima edizione: 2016

Stampato da
Consorzio Artigiano LVG, Azzate (Varese)
per conto di Raffaello Cortina Editore

Ristampe
o 2 4 5
2016 2017 2018 2019 2020
INDICE

Autori IX

Introduzione
(Francesco Mancini) XIII

Ringraziamenti XVII

Parte prima
La teoria
Capitolo I
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi
che solleva (Francesco Mancin� Stefania Fadda,
Antonella Rainone) 3

Capitolo II
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi
ossessivi (Francesco Mancin� Francesca D'Olimpio) 39

Capitolo III
I processi cognitivi nel DOC
(Francesco Mancini, Amelia Gangemi) 69

Capitolo IV
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC
(Francesco Mancinz; Antonella Rainone) 91

Capitolo V
Disturbo ossessivo-compulsivo e psicosi:
quale relazione? (Maria Pontillo,
Francesco Mancini) 111

v
Indice

Capitolo VI
Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo
ossessivo-compulsivo di personalità: una tesi
sui processi di funzionamento (Roberta Trincas) 1 19

Capitolo VII
Lo spettro ossessivo: disturbo ossessivo-compulsivo
e disturbi correlati (Claudia Perdighe,
Francesco Mancini) 13 1

Capitolo VIII
I modelli neuropsichiatrici del DOC
(Barbara Basile, Marco Saettonz� Francesco Mancini) 147

Capitolo IX
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo
(Stefania Fadda, Andrea Gragnanz�
Alessandro Couyoumdjian, Francesco Mancini) 175

Capitolo X
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo
(Katia Tenore) 1 99

Parte seconda
La clinica
Capitolo XI
Introduzione alla terapia: il rationale dell'intervento
(Francesco Mancinz� Teresa Cosentino) 219

Capitolo XII
La ricostruzione dello schema di comprensione
del disturbo: obiettivi, procedura, difficoltà
(Giuseppe Romano) 235

Capitolo XIII
Tecniche di ristrutturazione cognitiva
(Andrea Gragnanz� Carlo Buonanno) 249

Capitolo XIV
Disgusto e contaminazione: interventi cognitivi
antidisgusto (Claudia Perdighe, Francesco Mancini) 269
Capitolo XV
L'accettazione del rischio: tecniche cognitive
(Claudia Perdighe, Andrea Gragnani, Antonella Rainone) 289

VI
Indice

Capitolo XVI
L'E/RP come pratica dell'accettazione ( Olga Ines Luppino) 319
Capitolo XVII
La mindfulness per il trattamento del disturbo
ossessivo-compulsivo (Barbara Barcaccia) 347
Capitolo XVIII
L'intervento per la riduzione della vulnerabilità
attuale al DOC ( Teresa Cosentino, Angelo Maria Saliani,
Claudia Perdighe, Giuseppe Romano, Francesco Mancini) 371
Capitolo XIX
Il lavoro sulla vulnerabilità storica
(Katia Tenore, Andrea Gragnani) 3 85
Capitolo XX
La prevenzione delle ricadute e la conclusione
della terapia (Andrea Gragnanz; Katia Tenore) 399
Capitolo XXI
Il ruolo dei familiari nel mantenimento del DOC:
psicoeducazione e psicoterapia (Angelo Maria Saliani,
Teresa Cosentino, Barbara Barcaccia, Francesco Mancini) 407
Capitolo XXII
Trappole durante il trattamento:
credenze e scopi che le determinano e soluzioni
(Angelo Maria Salianz; Francesco Mancini) 437

Bibliografia 459

VII
AUTORI

Barbara Barcaccia, psicologa e psicoterapeuta, didatta della Scuola di Psicote­


rapia Cognitiva (sre) e dell'Associazione di Psicologia Cognitiva (APe), insegna
"Accettazione e Mindfulness in psicoterapia" presso la " Sapienza" Università
di Roma. È formatrice AeT, istruttrice di protocolli basati sulla mindfulness e
chairperson del SIG internazionale sul disturbo ossessivo-compulsivo dell'EABeT
(European Association for Behavioural and Cognitive Therapies).
Barbara Basile, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, è trainer e supervi­
sore in Schema Therapy. Dottore di ricerca in Neuropsicologia, docente presso
la Scuola di Psicoterapia Cognitiva (sre) e l'Associazione di Psicologia Cognitiva
(APe), ha pubblicato su riviste scientifiche nazionali e internazionali nell'ambito
del DOe, di altri disturbi psicologici e di neuroscienze.
Carlo Buonanno, psicologo e psicoterapeuta, è docente e didatta dell'Associa­
zione di Psicologia Cognitiva (APe) e della Scuola di Psicoterapia Cognitiva
(SPC). Svolge la propria attività professionale tra Roma e Viterbo.
Teresa Cosentino, psicologa, psicoterapeuta, docente e tutor di project presso
la Scuola di Psicoterapia Cognitiva (sre) e l'Associazione di Psicologia Cogni­
tiva (APe), è consigliere della Società Italiana di Terapia Comportamentale e
Cognitiva per la regione Lazio (SITee Lazio) e socia dell'Associazione Italiana
Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Amoe).
Alessandro Couyoumdjian, ricercatore universitario, è docente di psicologia cli­
nica e psicoterapia cognitiva alla "Sapienza" Università di Roma. Presso il dipar­
timento di Psicologia dirige il laboratorio di Neuro-psicopatologia sperimentale
e svolge attività di psicoterapeuta a orientamento cognitivo-comportamentale.
Francesca D'Olimpio, psicologa e psicoterapeuta, è dottore di ricerca in Psico­
biologia e professore associato alla Seconda Università degli Studi di Napoli.
Responsabile del laboratorio di Valutazione dei processi cognitivi normali e
patologici, si occupa di ricerca nell'ambito della cornice teorica cognitivo­
comportamentale. È autrice di diverse ricerche su riviste internazionali, sui
disturbi d'ansia e in particolare sul DOC.

TX
Autori

Stefania Fadda, psicologa e psicoterapeuta, lavora presso il Centro di Psicote­


rapia Cognitiva di Roma e dirige il Centro Assistenza Bambini Sordi e Sordo­
ciechi (eABSS).
Amelia Gangemi, psicoterapeuta, è docente della Scuola di Psicoterapia Cogni­
tiva (sPe) e dell'Associazione di Psicologia Cognitiva (APe). Professore associato
di Psicologia generale all'Università di Messina, insegna Psicologia cognitiva
presso il corso di laurea triennale in Scienze della comunicazione e di laurea
magistrale in Scienze cognitive.
Andrea Gragnani, psicologo, psicoterapeuta, è didatta delle Scuole di Psicote­
rapia Cognitiva APe e SPe e della Società Italiana di Terapia Comportamentale
e Cognitiva (snee), socio fondatore e segretario dell'Associazione Italiana Di­
sturbo Ossessivo-Compulsivo (AIDOe).
Olga Ines Luppino, psicologa, psicoterapeuta, psicologa giuridica, svolge attività
clinica, didattica e di ricerca. È co-didatta di training di base per la Scuola di
Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva (sPe), membro dell'équipe clinica e
di ricerca in Psicopatologia sperimentale del Centro di Psicoterapia Cognitiva di
Roma e membro della segreteria di redazione della rivista Cognitivismo Clinico.
Francesco Mancini, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, dirige la Scuola
di Psicoterapia Cognitiva (sPe) e l'Associazione di Psicologia Cognitiva (APe).
Professore associato di Psicologia clinica all'Università Guglielmo Marconi,
è autore di numerose ricerche su DOe, senso di colpa, processi cognitivi nella
psicopatologia e rapporti tra processi cognitivi ed emozioni. Per le nostre edi­
zioni ha curato, con Barbara Barcaccia, Teoria e clinica del perdono (20 1 3 ) e,
con Claudia Perdighe, Il disturbo da accumulo (2015).
Claudia Perdighe, psicologa e psicoterapeuta, lavora a Roma, presso il Centro
di Psicoterapia Cognitiva e Psicopatologia Sperimentale. È didatta nei corsi
di specializzazione della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (spe) e dell'Associa­
zione di Psicologia Cognitiva (APe). Nelle nostre edizioni ha pubblicato, con
Francesco Mancini, Il disturbo da accumulo (20 15).
Maria Pontillo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e dottore di ricerca
in Neuroscienze cognitive, svolge la propria attività presso l'Ospedale Pedia­
trico Bambino Gesù. È autrice di numerose pubblicazioni scientifiche sul tema
degli esordi psicotici in età evolutiva.
Antonella Rainone, psicologa e psicoterapeuta, lavora a Roma, presso il Centro
di Psicoterapia Cognitiva, è didatta della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (spe)
e dell'Associazione di Psicologia Cognitiva (APe), e socio didatta della Società
Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITee).
Giuseppe Romano, psicologo e psicoterapeuta, docente e didatta delle Scuole
di Psicoterapia Cognitiva APe e SPe, coordina, insieme a Lorenza Isola, l'équipe
per l'età evolutiva presente all'interno della Scuola di Psicoterapia Cognitiva
(spe) e dell'Associazione di Psicologia Cognitiva (APe) ed è socio didatta della
Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITee).

x
Autori

Marco Saettoni, psichiatra e psicoterapeuta, è dottore di ricerca in neurop­


sicofarmacologia clinica, dirigente medico ASL Toscana Nordovest e didatta
della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) e dell'Associazione di Psicologia
Cognitiva (APC).
Angelo Maria Saliani, psicologo e psicoterapeuta, è docente e didatta della
Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC), dell'Associazione di Psicologia Cogni­
tiva (APe) e socio didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e
Cognitiva (SITCC). Ha insegnato Psicologia clinica presso l'Università degli Studi
dell'Aquila. Ha pubblicato diversi lavori sulla relazione terapeutica e sui proces­
si interpersonali implicati nel mantenimento del disturbo ossessivo-compulsivo.
Katia Tenore, psicologa e psicoterapeuta, svolge attività clinica e si occupa di ri­
cerca nell'ambito della psicopatologia sperimentale. È docente presso l'Associa­
zione di Psicologia Cognitiva (APC) e la Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC).
Roberta Trincas, dottore di ricerca in Psicologia cognitiva, è autrice di diver­
se pubblicazioni scientifiche su emozioni, cognizione e psicopatologia. Come
psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale svolge l'attività clinica,
di ricerca e didattica presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) di Roma.

XI
INTRODUZIONE
Francesco Mancini

Molte persone nel corso della propria vita hanno sfumate e transito­
rie manifestazioni ossessive o sintomi subclinici. Non è raro che si torni
indietro per fugare il dubbio di aver chiuso male la porta di casa o che
ci si senta contaminati avendo usato un bagno pubblico e per questo
ci si lavi un po' più del normale o che si abbia la spiacevole sensazione
che le cose non siano a posto come dovrebbero essere o che una propria
azione non sia stata eseguita con la dovuta accuratezza e che quindi sia
meglio tornarci sopra, magari più volte. Pensieri aggressivi, blasfemi o
sessualmente perversi o comunque ritenuti moralmente disdicevoli pos­
sono intrudere nella mente di tutti e a volte accade che ci si impegni nel
tentativo di neutralizzarli. Nella maggior parte dei casi si tratta di mani­
festazioni occasionali, di breve durata, che non intaccano la qualità di
vita delle persone. Tuttavia, in alcune persone questi sintomi sono così
pervasivi e invalidanti da meritare la diagnosi di DOC. Quante persone,
nel mondo, stanno soffrendo per il DOC? In accordo con le ricerche epi­
demiologiche si tratta di circa tre persone ogni duecento abitanti della
Terra. Non ci sono differenze tra i sessi e nemmeno tra le culture. Nella
maggioranza dei casi il disturbo è iniziato nell'adolescenza, di solito in
modo non improvviso ma ingravescente, e si è cronicizzato. È possibile
che il DOC si manifesti anche in età precoce, più raro è invece l'esordio
in età avanzata. n disturbo implica sofferenze molto intense e prolun­
gate, compromette seriamente il funzionamento sociale, lavorativo e la
qualità della vita nel suo complesso. Riduce, infatti, la possibilità di rag­
giungere obiettivi scolastici e occupazionali adeguati alle potenzialità
del paziente: per esempio, può ritardare o rendere impossibile il com­
pletamento degli studi universitari. Determina discontinuità lavorativa
e perdita del lavoro, compromette le relazioni sociali, familiari e senti-

XIII
Introduzione

mentali. Incide pesantemente sulla qualità di vita dei familiari conviven­


ti (Abramowitz, 2006; Andrews, Creamer, Crino et al., 2003 ; Dèttore,
2003; Ravizza, Boggetto, Maina, 1997 ) . È importante osservare che tra
le ossessioni e le compulsioni patologiche e quelle non patologiche non
esiste una differenza qualitativa ma solo quantitativa. Contrariamente
a quanto accade per le malattie organiche, per porre diagnosi di DOC si
ricorre a un criterio quantitativo e convenzionale: i sintomi devono du­
rare più di un'ora al giorno o causare disagio clinicamente significativo
o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in
altre aree importanti (DSM-5; APA 2013 ) .

L a letteratura scientifica sul DOC è pressoché sterminata, tuttavia è


possibile distinguere cinque approcci principali. Il primo è l'approccio
neurologico e assume che la causa del DOC andrebbe primariamente ri­
cercata in un'alterazione biochimica, funzionale o anatomica del SNC,
a sua volta dovuta in parte a fattori ereditari, in alcuni casi pediatrici a
fattori autoimmunitari e in molti altri a cause ancora da stabilire. Un se­
condo approccio è di tipo neuropsicologico e assume che alla base del
DOC vi sia un deficit delle funzioni esecutive, per esempio del controllo
inibitorio o del monitoraggio, la cui origine potrebbe essere in patolo­
gie del SNC a tutt'oggi non chiarite. Un terzo approccio cerca di ricon­
durre il DOC a particolari disposizioni come, per esempio, il perfezio­
nismo, la tendenza ad attribuire importanza ai propri pensieri, a essere
intolleranti all'incertezza o all'incompletezza, cioè alla sensazione che
le cose, o le proprie azioni, non siano come dovrebbero essere. Gli au­
tori che seguono quest'approccio, di solito, lasciano però in sospeso la
questione se tali disposizioni siano conseguenza di patologie neurolo­
giche, di particolari esperienze o apprendimenti, o se siano funzione di
specifici stati mentali. Un quarto approccio è strettamente psicologico e
fa esplicito riferimento agli scopi e alle assunzioni del paziente, alla sua
intenzionalità; in definitiva, a ciò che lo rende persona. Infatti, conside­
ra la sintomatologia ossessiva come espressione di uno specifico stato
mentale caratterizzato dalla percezione di una minaccia e dai tentativi
di sottrarvisi. Un quinto approccio, cosiddetto biopsicosociale, assume
che ciascuno dei precedenti sia valido e che tutti assieme concorrano a
spiegare il DOC. Purtroppo non è per niente definito il ruolo esplicativo
che spetta a ciascun approccio e nemmeno come questi interagiscano fra
loro. Di conseguenza il modello biopsicosociale appare più un tentativo
di accostare spiegazioni diverse che una reale integrazione. Spesso, in­
fatti, non è chiaro se si tratti di spiegazioni davvero diverse o se invece si

XIV
Introduzione

tratti di spiegazioni che appartengono a piani diversi di realtà. Per esem­


pio, le peculiarità che si riscontrano nel cervello dei pazienti DOC sono
interpretabili o come il substrato neurale degli stati mentali tipici del
disturbo oppure come l'espressione di una neuropatologia. Nel primo
caso non c'è nessuna integrazione da tentare, trattandosi semplicemente
di due piani diversi di descrizione dello stesso fenomeno. Nel secondo
caso si dovrebbe mostrare come la neuropatologia e gli stati mentali del
paziente interagiscano producendo la complessa fenomenica ossessiva.
Questo libro svolge una tesi strettamente psicologica, secondo la qua­
le alla base di ossessioni e compulsioni vi sarebbe un esasperato timore
di colpa. La tesi è molto specifica, è evidence based, è in grado di ren­
der conto dei numerosi interrogativi posti dalla complessità del DOC,
indirizza interventi terapeutici di efficacia dimostrata e si innesta su
un'antica tradizione che vede nelle esagerate preoccupazioni morali la
radice del disturbo.
il DOC, soprattutto il problema delle intrusioni ripetute e persisten­
ti di pensieri blasfemi, perversi e aggressivi, incongrui con i valori della
persona, era ben noto ai mistici dell'antichità. Per esempio, nel libro La
Scala del Paradiso, scritto nel VI secolo d.C. da san Giovanni Climaco,
un monaco vissuto nel deserto del Sinai, si trova un capitolo intitolato
" A riguardo degli innominabili pensieri blasfemi" . Nel Cinquecento
sant'Ignazio di Loyola, fondatore dell'ordine dei Gesuiti, riferì, nella
sua autobiografia, i propri scrupoli morali e le conseguenti confessioni
compulsive. Nel 1605 Shakespeare mise in scena Lady Macbeth con le
sue compulsioni di lavaggio, esplicitamente connesse al senso di colpa
per l'uccisione del re Duncan. Nel 1 660 un vescovo inglese, Taylor, ri­
portò accuratamente il caso di un uomo che compulsivamente leggeva
e rileggeva libri di preghiere assalito dal dubbio di non averli letti con
la giusta concentrazione e devozione. Taylor sottolineò il ruolo cruciale
della scrupolosità in questi sintomi ossessivi e definì in modo mirabile
lo scrupolo come il dubbio che sorge dopo aver raggiunto la certezza.
Le prime descrizioni mediche risalgono al Seicento e riguardano pa­
zienti che soffrivano di ossessioni, compulsioni di lavaggio, timori di
contagio. L'ingresso a pieno titolo del DOC nella letteratura medica lo
si deve a Esquirol ( 1 83 8) che descrisse il caso di una donna con gravi
compulsioni di controllo legate all'idea ossessiva di aver accidentalmen­
te rubato qualcosa nascondendolo negli abiti.
Fin qui è trasparente come la stragrande maggioranza dei casi descrit­
ti fosse caratterizzata da timori di colpa e contaminazione. Il senso di
colpa e l'orrore, emozione questa che coinvolge disgusto e paura, gio-

xv
Introduzione

cano un ruolo fondamentale nel famosissimo caso dell'uomo dei topi,


descritto da Freud ( 1909) . L'eccessiva preoccupazione morale, in parti­
colare lo spiccato senso di responsabilità, è alla base delle teorizzazioni
e della vasta attività di ricerca e clinica di Rachman ( 1993 ) e Salkovskis
( 1985 ) , due psicoterapeuti cognitivo-comportamentali che hanno dato
un impulso cruciale alla conoscenza scientifica e alla terapia evidence
based del disturbo.
n ruolo della moralità, dunque, è stato ampiamente riconosciuto nel­
la storia prescientifica e scientifica del DOC. La tesi argomentata nel pre­
sente volume è un tentativo di far avanzare questa tradizione in quattro
direzioni: definire in modo più accurato il tipo di colpa temuto dai pa­
zienti ossessivi, vale a dire il senso di colpa deontologico; mostrare co­
me questo specifico senso di colpa incrementi la sensibilità al rischio di
contaminarsi con sostanze disgustose; illustrare come il timore di colpa
possa rendere ragione dei numerosi punti interrogativi sollevati dalla
complessa fenomenica ossessiva; soprattutto, migliorare la compren­
sione dei pazienti e la loro terapia.
n libro è diviso in due parti. La prima è dedicata principalmente al­
la spiegazione psicologica del DOC. Sono considerate anche spiegazioni
neurologiche e neuropsicologiche, delle quali si è cercato di illuminare
punti di forza e limiti. In tre capitoli si affrontano altrettanti temi clas­
sici della psicopatologia: il rapporto tra DOC e psicosi, tra DOC e distur­
bo di personalità ossessivo, e tra DOC e disturbi a esso correlati, cioè lo
spettro ossessivo. La seconda parte è dedicata alla terapia psicologica.
I capitoli presentano diverse modalità di intervento in cui si articola il
protocollo, evidence based, utilizzato dal gruppo di psicoterapeuti che
ha contribuito a questo volume (Mancini, Barcaccia, Capo et al. , 2006).

XVI
RINGRAZIAMENTI

A volte, raramente, la fortuna offre l'opportunità di rapporti profes­


sionali straordinari. Voglio ringraziare la fortuna per aver consentito
l'incontro tra gli autori dei diversi capitoli e averci aiutato a costruire
un gruppo di lavoro affiatato, ma anche per averci immerso in un am­
biente incredibilmente ricco di stimoli come la Scuola di Psicoterapia
Cognitiva (SPC) e l'Associazione di Psicologia Cognitiva (APC). Debbo
alla fortuna un ringraziamento personale e speciale per avermi concesso
il confronto, lungo tutta la mia vita professionale, con persone fuori dal
comune per cultura, rigore intellettuale e scientifico, e dedizione pro­
fessionale: Antonio Semerari, Giovanni Liotti, Cristiano Castelfranchi e
Tito Magri sono gli amici ai quali è ampiamente dovuto il buono che si
può trovare in questo libro. La fortuna ha anche avuto il merito di met­
tere sulla strada degli autori di questo volume altre tre persone di ecce­
zionale valore scientifico e umano: Phil Johnson-Laird, Marcel van den
Hout e Ruvi Dar. Il ringraziamento più importante va a una paziente,
Maria, insostituibile fonte di insegnamento sul DOC. Questo libro non
sarà mai letto da Franco Baldini, scomparso due anni fa, per vent'anni
responsabile della SPC-APC di Verona e particolarmente esperto di DOC.
Anche in questo caso, tuttavia, la fortuna va ringraziata per aver consen­
tito un'amicizia e una collaborazione lunga e fruttuosa.
Francesco Mancini

XVII
PARTE PRIMA

LA TEORIA
I

LE CARATTERISTICHE DEL DOC


E GLI INTERROGATIVI CHE SOLLEVA
Francesco Mancinz; Stefania Fadda, Antonella Rainone

Era sera, Maria aveva finito il suo lavoro in ufficio e stava rientrando a casa.
Era molto stanca, da qualche tempo si sentiva giù di morale: la vita aveva preso
una piega molto diversa da quella che si aspettava. Non era per nulla conten­
ta di sé e delle sue scelte. n matrimonio si stava rivelando una routine piatta e
deludente; il figlio, amatissimo, era anche fonte di incombenze e responsabili­
tà senza fine; la gestione della casa rappresentava un peso senza contropartita.
Maria si rimproverava aspramente per non essere riuscita a dare alla propria
vita quella svolta che aveva sognato e che avrebbe dovuto compensarla delle
frustrazioni, delle squalifiche e delle critiche che la madre le aveva sempre in­
flitto. Fin da bambina aveva avuto l'impressione di non andare per niente bene
alla madre, di sbagliare in continuazione suscitando critiche e accuse. Maria
però si rimproverava allo stesso tempo anche per non riuscire ad apprezzare la
famiglia, il lavoro stabile, una buona sicurezza economica.
Due fatti nelle ultime settimane avevano contribuito a peggiorare il suo sta­
to: aveva saputo che la malattia che aveva portato alla morte un caro amico di
famiglia era l'AIDS e dei ladri erano entrati in casa sua lasciando tutto sporco
e in disordine. Dopo questi eventi qualcosa era cambiato dentro di lei: aveva
iniziato a provare uno strano disagio, un disagio che assomigliava molto alla
sensazione di essere stata contaminata, sporcata. Aveva cominciato a essere più
attenta allo sporco e più accurata nelle pulizie, aveva iniziato anche a pensare
alle possibili abitudini sessuali dei suoi colleghi e conoscenti e si era informata
su internet sulle modalità di trasmissione dell'AIDS.
Quella sera Maria era ormai arrivata a casa, stava entrando e già sognava
di stendersi sul letto per riposarsi, ma mentre ripercorreva nella mente i mo­
menti della giornata, si ricordò che un collega l'aveva presa sottobraccio con
una confidenza che le aveva lasciato una sensazione sgradevole, e un pensiero
preoccupante le attraversò la mente: e se il collega avesse avuto l'AIDS e toccan­
dola l'avesse contagiata? Sarebbe stato un disastro, la catastrofe della sua vita.
Come aveva potuto essere così sbadata, non poteva pensarci prima ed evitare
il contatto? Un momento, ma perché avrebbe dovuto essere sieropositivo?
Forse era omosessuale, in fondo che ne sapeva lei della vita che conduceva . . .

3
La teoria

A volte poi, a pensarci bene, aveva qualche atteggiamento un po' effeminato.


Ma no ! Non era possibile, si ricordava che aveva avuto almeno una fidanzata.
Sì, ma questo non provava con certezza nulla, mica poteva escludere che fosse
sieropositivo. Va bene, ma non poteva essere così esagerata, e poi era stanca di
preoccuparsi, voleva riposare, e lo sapeva che il contagio dell'AIDS avviene in
altro modo: rapporti sessuali, trasfusioni, siringhe . . . Ma forse il collega aveva
un taglietto sulla mano, non ricordava bene, però le sembrava di sì. Comunque
poteva stare tranquilla perché lei non aveva ferite sulla pelle. No ! Invece aveva
un taglio sulla mano destra ! Sì, ma il collega l'aveva presa sotto il braccio sini­
stro e il graffio era sul lato destro . . . Ma ne era sicura? Ricordava bene? Forse si
sbagliava e l'aveva presa sotto il braccio destro. E se ci fosse stato un contatto
tra il taglietto del collega e il suo graffio? No, stava esagerando, basta. Non ne
poteva più di preoccupazioni e angosce, non era giusto essere così tormenta­
ti da guai e problemi e avere nella vita solo cose brutte! Poi era stanca, aveva
diritto di riposarsi, la preoccupazione era assurda! Ma se avesse avuto ragio­
ne? Era in ballo la sua vita e, forse, anche quella del marito e del figlio: una
responsabilità non da poco. Doveva provvedere, sì, ma che poteva fare? Forse
era sufficiente lavarsi il braccio accuratamente, magari non sarebbe servito a
niente però questo poteva fare e questo dunque doveva fare. Ma si era lavata
bene? Non era meglio ripeterlo? Be' , sì . . . Poi aveva fatto trenta, tanto valeva
fare trentuno. Però, se aveva preso questo provvedimento, allora doveva an­
che lavare quello che aveva toccato entrando in casa e soprattutto la borsa che
aveva tenuto al braccio destro. Ma come poteva lavarla? Tanto valeva buttarla,
in fondo era ben poca cosa rispetto al rischio di contrarre l'AIDS, oppure era
più semplice chiuderla dentro un armadio. Per giunta così poteva smetterla
di tormentarsi e finalmente riposare e poi provvedere alle faccende di casa.
Adesso si sentiva più tranquilla, aveva un momento di quiete, si era stesa sul
divano, si sentiva ancora scossa dalla crisi angosciosa che aveva attraversato,
le veniva quasi da piangere per il brutto momento appena passato e per la sua
assurdità. Ora era più serena, stava andando in cucina quando un pensiero le
aveva attraversato la mente: " E se, mentre mi lavavo come una pazza in bagno,
con il braccio avessi contaminato gli asciugamani che poi ho usato? Ero così
sconvolta che magari ho combinato qualche pasticcio ! " . " Ora devo lavarmi di
nuovo, ma non ce la faccio più ! Sì, però ti rendi conto di che razza di rischio
stai correndo? Non puoi lasciar correre, devi lavarti ! Accidenti a me, ma po­
tevo stare più attenta! " Il giorno dopo si sentiva più tranquilla, ma era meglio
evitare di farsi toccare dal collega, meglio non rischiare il contagio, non si sa
mai, e poi non aveva nessuna voglia di ricominciare con l'angoscia del giorno
prima. " Ma, un momento, ora che ci penso, entrando nel mio ufficio ho toc­
cato la maniglia della porta e la mia compagna di stanza ha spesso a che fare
con il collega, dunque può toccarlo o toccare le carte sulle quali lui lavora e
contaminarsi, poi entra nella nostra stanza, tocca la maniglia, la contamina,
io tocco la maniglia e io pure mi contamino ! Che incosciente che sono ! Pote­
vo pensarci prima e stare più attenta ! D'ora in poi meglio evitare di toccare
ciò che è venuto a contatto con il collega, e intanto vado in bagno a lavarmi
le mani, e, già che ci sono, meglio lavare anche la penna che ho usato subito

4
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

dopo aver toccato la maniglia e dare una passata di disinfettante alla tastiera
del PC. Sarà pure esagerato, ma non si sa mai, meglio un lavaggio in più che
rischiare di prendere l'AIDS. Posso però consultare il mio medico e avere da
lui la conferma che i miei timori sono assurdi. "

Da allora il disturbo ossessivo di Maria si aggravò progressivamen­


te, via via si aggiunsero nuovi eventi capaci di attivare i suoi timori e i
tentativi di proteggersi dal rischio di contagio divennero più elaborati e
presero sempre più spazio nella sua vita.
Al momento della prima visita dallo psichiatra, dopo circa tre anni
dall'esordio, Maria non riusciva a passare un'ora della sua giornata sen­
za avere il sospetto di essere stata contaminata ( " E se la persona che mi
ha toccato è sieropositiva? E se sulla maniglia della porta del bar c'era­
no tracce del virus dell'HIV? E se, senza accorgermene, ho toccato una
pratica del collega? " ) e per contenere questo timore s'impegnava in la­
vaggi, evitamenti, ruminazioni e richieste di rassicurazioni. Queste con­
dotte erano persistenti, ritualizzate, ripetitive, accurate e spesso vissute
in modo compulsivo.
I lavaggi, per esempio, avvenivano numerose volte durante il giorno
secondo una procedura particolare. Maria apriva il rubinetto con la ma­
no sinistra, si insaponava accuratamente tre volte, si sciacquava, lavava il
rubinetto, si insaponava altre tre volte, si sciacquava, chiudeva il rubinet­
to, si scrollava le mani e lasciava che si asciugassero da sole. Non usava
gli asciugamani per evitare il rischio di un nuovo contagio . Se aveva l'im­
pressione di non aver eseguito bene una parte del rituale, per esempio di
non aver insaponato bene gli spazi interdigitali, sentiva di dover ripetere
l'intera procedura: per lei, infatti, contava più l'ineccepibilità dell'azio­
ne che l'esito effettivo, e lo stesso accadeva se aveva l'impressione di non
ricordare bene i gesti compiuti. I lavaggi più accurati precedevano l' en­
trata nella propria stanza e il mettersi a letto. Stanza e letto, infatti, erano
assolutamente da proteggere, erano una sorta di luoghi sacri da mante­
nere incontaminati. Anche andare in bagno o comunque toccare le pro­
prie parti intime era preceduto da lavaggi particolarmente prolungati.
Evitava di andare al cinema, nei mezzi pubblici e nei locali per non
rischiare di toccare qualcuno. Anche in casa aveva delle zone tabù, per
esempio non toccava l'armadio in cui aveva messo la borsa che anni pri­
ma era stata toccata dal collega.
I familiari erano coinvolti nelle sue precauzioni: li costringeva a lavag­
gi ed evitamenti, chiedeva continuamente rassicurazioni sulla corretta
esecuzione delle sue precauzioni o sull'effettiva pericolosità dei contatti.

5
La teoria

Maria passava ore a ruminare sulla possibilità del contagio. Le rumi­


nazioni erano di due tipi. In un primo caso consistevano nel ricordare
più volte, e con grande attenzione ai dettagli, eventi potenzialmente
pericolosi, per esempio l'essere stata in ufficio, per fugare il sospetto di
qualche contatto a rischio, cioè per essere certa di non aver corso alcun
pericolo. Si immaginava, per esempio, di aver toccato una persona o
un oggetto potenzialmente contaminato per poi cercare nella memo­
ria il ricordo che potesse dimostrarle che il contatto non era avvenu­
to, per esempio il ricordo di aver trascorso ogni minuto da sola nella
sua stanza. Era molto frequente che non riuscisse a trovare il ricordo
rassicurante e che, al contrario, le venissero in mente altre possibilità
minacciose. In un secondo caso la ruminazione consisteva in un vero
e proprio ragionamento dialettico con cui cercava di dimostrare a se
stessa, con certezza assoluta, che l'evento temuto era impossibile. Ma
anche in questo caso, il più delle volte, trovava sequenze di eventi che
lo rendevano possibile. Spesso si trattava di sequenze del tutto bizzarre
e improbabili, ma che non potevano essere escluse con certezza asso­
luta, e ciò era sufficiente perché Maria, pur consapevole dell'assurdi­
tà, si sentisse costretta a dar retta alle conclusioni alle quali giungeva.
Maria, a un certo punto, smise di acquistare e leggere i giornali perché
temeva di poter contrarre l'AIDS attraverso il contatto con fotografie di
persone malate. Il timore era sorto un giorno che aveva preso in mano
un rotocalco con la fotografia di un famoso attore, omosessuale, mo­
rente di AIDS. Il ragionamento con cui Maria collegava contatto e con­
tagio era il seguente:

Oddio, toccare questa foto mi fa impressione, è come se stessi toccan­


do davvero il malato. E se mi fossi contagiata? Sarebbe terribile, che
sbadata sono stata, potevo stare più attenta!
No, ma che sto pensando! È assurdo!
Però come posso esserne così sicura?!
Non posso, il fotografo è stato vicino a R. H . . . Infatti la foto è un primo
.

piano, e dunque potrebbe essere stato contagiato.


Sì, ma l'AIDS non si contrae mica con la vicinanza, ci deve essere un con­
tatto intimo.
Già, ma io che ne so se c'è stato un contatto intimo? li fotografo stesso
poteva essere omosessuale.
In effetti, sembra improbabile che ci sia stata dell'intimità in una stanza
d'ospedale e con un malato grave.
Ma io non ero lì, dunque come posso escluderlo?
Sì, ma anche se il fotografo fosse stato contagiato, come potrebbero es­
sere arrivati a me i virus?

6
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

Il fotografo è certamente un professionista e quindi ha sviluppato le


foto lui stesso e dunque potrebbe averle contaminate con il virus
dell'HIV.
Ok, ma io non ho toccato il fotografo e nemmeno le sue foto.
No, certo, ma i tipografi che hanno stampato questa copia forse sì, e ma-
gari l'hanno anche toccata.
Sì, ma i virus muoiono in circa mezz'ora, se non sono nel corpo.
Vero, ma i virus mutano e magari qualcuno è soprawissuto.
Sì, ma ci vuole una certa carica virale.
E io che ne so di quanti virus ci vogliono?
Ok, tuttavia sarebbero dovuti entrare nel mio corpo e io non ho tagli,
graffì o escoriazioni sulle mani.
Un momento! Ma questa pellicina è alzata, forse, quando ho toccato il
giornale, era anche aperta.
Però non usciva sangue, me ne sarei accorta . . . E se ero distratta? D'al­
tra parte mi sono agitata subito e non ho certo fatto attenzione alla
pellicina.
Oh mio Dio ! ! ! Allora dawero ho corso un rischio! ! ! Ma potevo pen­
sarci prima! ! !

I provvedimenti presi da Maria, spesso, erano vissuti in modo com­


pulsivo, cioè si sentiva obbligata a metterli in atto pur riconoscendo che
dipendevano dalla sua intenzionalità. A volte, al contrario, sull'onda
del timore, era molto desiderosa di ricorrere ai provvedimenti e se, per
esempio, era ostacolata dai familiari, reagiva con rabbia.
Nel corso della prima visita, dunque in studio e lontano da eventi at­
tivanti, lo psichiatra chiese a Maria se fosse convinta della fondatezza dei
suoi timori e lei disse che non lo era per niente e che le sue erano delle
palesi assurdità. Ma la stessa domanda riceveva una risposta del tutto
diversa se le era rivolta quando si trovava di fronte a una situazione cri­
tica, per esempio entrare in un bagno pubblico. Era consapevole degli
enormi costi della sua sintomatologia, della devastazione che implicava
nella sua vita e in quella dei suoi familiari e si sentiva anche molto in col­
pa per questo, tuttavia, nonostante le migliori intenzioni, non riusciva a
contrastare adeguatamente il suo disturbo.
La sintomatologia di Maria può essere rappresentata in uno schema
(schema 1 . 1 ).
Al primo punto possiamo collocare un evento, per esempio l'aver
sfiorato qualcuno per la strada. L'evento può essere percepito, ma an­
che ricordato o soltanto ipotizzato: " E se, senza accorgermene, avessi
sfiorato qualcuno per la strada? " .
Al secondo punto vi è l'attribuzione all'evento del potere di compro­
mettere uno o più scopi del paziente. Nel caso di Maria gli eventi critici

7
La teoria

SCHEMA 1.1

Evento
"E se, senza accorgermene, avessi sfiorato qualcuno per la strada?"

t
Prima valutazione
"E se avessi contratto l'AIDS a causa della mia sbadataggine?"

t
Tentativo di soluzione 1
Lavaggi, ruminazioni, evitamenti, richieste di aiuto e rassicurazione.

Seconda valutazione

"l miei timori di contrarre l'AIDS sono esagerati", inoltre: "l tentativi di soluzione
hanno notevolmente ridotto la qualità della mia vita e di quella dei miei familiari",
"Con loro ho frequenti contrasti", "Temo di poter rendere ossessivo mio figlio",
"La dermatite mi sta devastando le mani", "Ho la sensazione di essere schiava
del disturbo", "Ho l'impressione svii ente di essere una pazza".

t
Tentativo di soluzione 2
Tentativi di scacciare dalla mente il pensiero del contagio dell'AIDS. Evitamento del­
le situazioni attivanti, lavaggi preventivi, ruminazioni, richieste di rassicurazione.

erano considerati minacciosi perché capaci di causare l'AIDS. Come ve­


dremo, in realtà il timore di Maria non era tanto il contagio quanto di
esserne responsabile a causa di una propria sbadataggine.
Al terzo punto vi sono i tentativi di soluzione, vale a dire tutto ciò che
Maria faceva per prevenire o neutralizzare la minaccia, dunque i lavag­
gi, le ruminazioni, gli evitamenti, le richieste di aiuto e rassicurazione.
Al quarto punto si trova la critica di Maria, che era in due direzioni.
Da una parte Maria riteneva esagerati i suoi timori e dall'altra riteneva
troppo elevati i costi dei tentativi di soluzione. I costi erano la notevole
riduzione della qualità della vita sua e dei suoi familiari, i contrasti con
i familiari, il timore di poter rendere ossessivo il figlio, la dermatite che
le devastava le mani, la sensazione di essere schiava del disturbo, l'im­
pressione svilente di essere una pazza.
Al quinto punto vi sono i tentativi di contenere il disturbo. Alcuni di
questi erano efficaci, anche se per breve tempo; per esempio si era re­
sa conto che, a volte, riusciva a contenere la crisi ossessiva se si mette­
va in contatto con delle amiche. Altri, invece, erano controproducenti,
due in particolare. Per esempio, Maria tentava di scacciare dalla mente

8
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

il pensiero del contagio dell'AIDS e l'effetto era quello paradossale noto


come fenomeno "orso bianco" (Wegner, Schneider, Carter et al., 1987;
Wegner, 1 989, 1994):1 ci pensava ancora di più. Un altro tentativo para­
dossale di contenere i costi del suo disturbo consisteva nel prevenire le
crisi ossessive, evitando le situazioni che lei prevedeva attivanti o lavan­
dosi preventivamente, cioè giocava d'anticipo. Di conseguenza si lavava,
evitava, ruminava o chiedeva rassicurazioni, non solo al fine di preve­
nire il contagio ma anche per non essere travolta dall'ansia e per conte­
nere i costi del disturbo stesso. Il risultato era un aumento dei sintomi.
In sintesi, Maria appariva molto spaventata dalla possibilità di con­
trarre l'AIDS e, come vedremo, soprattutto dal timore di essere respon­
sabile lei stessa, magari per distrazione, del contagio. Al fine di preveni­
re o neutralizzare questa possibilità, s'impegnava in lavaggi, evitamenti,
richieste di rassicurazione e ruminazioni.
È interessante osservare che i sintomi ossessivi di Maria sono una
versione esasperata di preoccupazioni e provvedimenti che possono
ritrovarsi in tante persone che non meritano la diagnosi di DOC. Le ri­
cerche ci dicono, infatti, che esiste un continuum tra DOC e normalità,
vale a dire che non vi sono differenze qualitative ma solo quantitative.
Non esiste un criterio netto che possa distinguere tra sintomi ossessivi
e manifestazioni ossessive normali (vedi criterio B del DSM-5. Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali; APA, 2013 ) . Se il DOC è una
versione esasperata della normalità allora, per descriverla e spiegarla, è
ragionevole ricorrere agli stessi strumenti concettuali che si utilizzano
per rendere conto delle condotte normali. I sintomi di Maria, quindi,
andrebbero descritti e spiegati sulla base dei suoi scopi e delle sue rap­
presentazioni. Ma quali scopi e quali credenze possono rendere ragio­
ne di palesi assurdità come quelle di Maria? Com'è possibile prendere
sul serio l'ipotesi che si possa contrarre l'AIDS toccando una foto? Che
senso ha lavarsi in modo così esasperato e fuori luogo?
Per illustrare i problemi che i sintomi ossessivi pongono a chi inten­
de spiegarli assumendo per buona l'ipotesi del continuum è opportuno
paragonare Maria a un'ipotetica altra persona- chiamiamola Dario­
non ossessiva, che, al pari di Maria, abbia lo scopo di non contrarre una
malattia grave come l'AIDS. Immaginiamo che Dario possieda le stesse
conoscenze sull'AIDS di Maria al momento dell'esordio ossessivo, e cioè
negli anni Ottanta (all'inizio, quindi, dell'epidemia).

l. Wegner dimostrò che il tentativo di sopprimere un pensiero implica l'effetto paradossale di


renderlo più frequente e persistente. Del resto, se si ha lo scopo di non pensare a qualcosa, si deve
controllare di non averla pensata ma per far questo la si pensa.

9
La teoria

In primo luogo, possiamo immaginare che anche Dario, occasionai­


mente, possa aver avuto un pensiero intrusivo del tipo: "Mi sono seduto
sul water di un bagno pubblico . . . E se fosse stato usato da un malato di
AIDS? Potrei essermi contagiato!". Questa possibilità è confermata da
numerose ricerche (Abramowitz, Schwartz, Moore, 2003 ; Ladouceur,
Freeston, Rhéaume et al., 2000; Freeston, Ladouceur, Thibodeau et al.,
199 1 ; Salkovskis, Harrison, 1 984; Rachman, de Silva, 1 978) che dimo­
strano come pensieri intrusivi, analoghi a quelli dei pazienti ossessivi,
possano presentarsi in tutti, ma certamente con una frequenza assai mi­
nore. Un primo quesito, dunque: perché nei pazienti ossessivi le idee
intrusive si presentano con tanta frequenza?
Un secondo quesito: perché Maria, a differenza di Dario, dava credi­
to a possibilità di pericolo improbabili o addirittura implausibili, come
per esempio poter contrarre l'AIDS urtando un passante?
Un terzo quesito strettamente connesso con il precedente: perché
Maria continuava a dar credito a possibilità di pericolo, non occasio­
nalmente ma in modo protratto e sistematico, nonostante tutte le infor­
mazioni di cui disponeva le avrebbero dovuto dimostrare il contrario, e
nonostante pagasse un enorme prezzo di sofferenza e limitazioni?
Una quarta domanda: perché Maria, consapevole dell'esagerazione
della sua credenza di pericolo, cercava di contrastarla ma senza successo?
Muris, Merckelbach e Clavan ( 1 997 ) e Ladouceur, Freeston, Rhéaume
e collaboratori (2000) hanno dimostrato che la maggior parte delle per­
sone cerca di gestire pensieri intrusivi simili a quelli di Maria con strate­
gie del tutto sovrapponibili a quelle ossessive. Supponiamo, quindi, che
Dario avesse preso sul serio, come Maria, la possibilità di contagio e che,
per risolvere il problema, si fosse lavato. Molto probabilmente sarebbe
stato un lavaggio non accurato, ripetitivo e persistente come quello di
Maria. Un quinto quesito, quindi: perché i tentativi di soluzione osses­
sivi sono così accurati, ripetitivi e persistenti?
Spesso, nel corso del disturbo i tentativi di soluzione diventano ritua­
listici, cioè seguono regole precise. Un sesto problema: perché i tentativi
di soluzione ossessivi spesso sono ritualizzati?
Se Dario avesse preso dei provvedimenti rispetto al timore del conta­
gio, probabilmente l'avrebbe vissuto come frutto di una sua scelta, men­
tre per Maria, in molte circostanze, i provvedimenti erano compulsivi,
cioè Maria si sentiva costretta a metterli in atto suo malgrado, come se
non fossero frutto di una sua libera scelta. Pertanto abbiamo un settimo
problema: perché Maria viveva atti intenzionali, frutto di una sua scelta,
come degli atti obbligati?

10
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

L'ottavo punto critico: Maria era consapevole dell'esagerazione dei


suoi provvedimenti, era anche consapevole di quanto rovinassero la
qualità della sua vita e dei suoi legami affettivi, si sforzava di contrasta­
re e di contenere le sue condotte ossessive, ma senza risultato: perché,
dunque, perseverava nelle condotte ossessive pur sapendo di poter agi­
re diversamente, pur consapevole che, tutto considerato, sarebbe stato
meglio astenersi dai rituali?
Un nono problema: perché i timori di Maria erano settoriali? Perché
Maria temeva di essere contagiata dal contatto con una foto, con una ma­
niglia o con estranei, ma non aveva paura di avere rapporti sessuali con
il marito? Seguendo lo stile delle sue preoccupazioni ossessive avrebbe
potuto arrivare a considerare pericoloso il contatto con il marito quanto
quello con altre persone. In fondo, avrebbe potuto sospettare avventure
extraconiugali del marito o, ancor peggio, contatti tra il marito e delle
prostitute; del resto, si rendeva perfettamente conto di quanto questa
possibilità fosse realistica.
Il decimo problema è illustrato da un aneddoto (Mancini, 2005 ) .
Maria un giorno dovette cambiar casa. Si affidò, per il trasloco, a una
ditta che le fece trovare tutti gli oggetti della vecchia casa nella nuova.
Quando Maria mise piede nel nuovo appartamento fu assalita dal pa­
nico. Tutto, ma proprio tutto- mobili, vestiti, suppellettili, utensili da
cucina, biancheria- era stato toccato dai trasportatori. Tutto, dunque,
poteva essere stato contaminato ed essere a sua volta fonte di contagio.
Nell'arco di pochi istanti (molti di meno di quelli normalmente richiesti
dalla naturale estinzione della risposta d'ansia) realizzò che la possibile
diffusione della contaminazione era talmente vasta da rendere pratica­
mente inutile qualunque tentativo di decontaminazione. A seguito di
questa considerazione Maria si tranquillizzò completamente. Se si ritie­
ne che l'ansia di Maria fosse collegata alla previsione di contrarre l'AIDS
allora la tranquillizzazione appare paradossale: infatti, la scoperta di es­
sere impotente di fronte a una minaccia avrebbe dovuto tradursi in un
aumento dell'ansia, non nella sua scomparsa. Che cosa davvero temeva?
Infine, un secondo aneddoto aiuta a illustrare un'ultima questione.
Maria, nel corso degli anni passò dal timore di contrarre l'AIDS a quello
del cancro. Le informazioni che le davano i medici si infrangevano con­
tro il modo iperprudenziale con cui Maria le elaborava: "E se i medici
si sbagliassero? Mi dicono che non ci sono prove della contagiosità del
cancro, ma non mi danno prove certe che non sia contagioso, mica mi
dimostrano con certezza che è impossibile! E se mi fido di loro e abbas­
so la guardia e poi si scopre che ho ragione io? È chiaro che molto pro-

11
La teoria

babilmente hanno ragione loro e io mi sbaglio, ma come posso esserne


sicura?". Non c'era modo di superare la resistenza al cambiamento della
sua idea di contagiosità del cancro. Un giorno, purtroppo, al marito fu
diagnosticato un tumore metastatico. Nell'arco di poco tempo, supera­
to lo sconcerto iniziale, Maria cessò di considerare il cancro contagio­
so. Da notare che in quella tragica circostanza non ricevette alcuna in­
formazione nuova riguardo alla contagiosità del cancro, semplicemente
rielaborò diversamente dal solito le informazioni ricevute. Come mai?
Attraverso quale processo?
Questi dieci punti interrogativi riguardano il profilo interno dei sin­
tomi di Maria, ma si devono aggiungere almeno altre due serie di que­
siti. La prima riguarda la copresenza, accanto al timore di contagio, di
altre manifestazioni ossessi ve. Il timore del contagio era fortemente in­
fluenzato dal disgusto: infatti, era più accentuato se Maria toccava qual­
cosa o qualcuno che suscitava in lei l'impressone di sporco. In genera­
le, Maria era molto sensibile al disgusto, come del resto molti pazienti
ossessivi e, a volte, i lavaggi erano finalizzati a neutralizzare l'impres­
sione di essere stata contaminata da sostanze disgustose, per esempio
escrementi, anche senza che ciò implicasse il timore di una malattia.
Nell'anamnesi psicopatologica di Maria si notava la presenza di sintomi
ossessivi del tipo checking. Nella tarda adolescenza Maria aveva avu­
to un periodo in cui era stata ossessionata dalla possibilità di lasciare
il rubinetto del gas aperto, di aver chiuso male la porta di casa, di non
aver attivato l'allarme quando usciva. Temeva che a causa di una sua
sbadataggine potesse verificarsi un danno grave. Per prevenire questa
evenienza si impegnava in prolungati rituali di controllo che avevano le
stesse caratteristiche dei suoi rituali di lavaggio. Ora, che nesso esisteva
tra timore di contagio, timore di contaminazione disgustosa e timore
di essere responsabile di un danno grave? Perché per Maria, come per
tanti altri pazienti ossessivi, i tre timori erano interscambiabili? La se­
conda serie di quesiti riguarda le cause del disturbo ossessivo: perché
Maria diventò ossessiva e perché ciò avvenne in certi momenti della
sua vita e non in altri?
I sintomi principali di Maria rientrano nel sottotipo cosiddetto wa­
shing, cui sono da aggiungere almeno altri tre sottotipi: checking, pen­
sieri proibiti e ordine e simmetria. Tre brevi vignette cliniche esemplifi­
cano ciascun sottotipo.

Giovanni è affetto da un disturbo ossessivo del tipo checking. Anche oggi


Giovanni è in ritardo per arrivare al lavoro. Finalmente è riuscito a infilare la

12
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

porta di casa quando un pensiero gli attraversa la mente: "E se avessi chiuso
male il rubinetto del gas?" , e una morsa gli stringe lo stomaco. Cerca di ripren­
dere fiato e di tranquillizzarsi: "Lo sai che l'hai chiuso bene, lo hai controlla­
to almeno tre volte", ma subito un altro pensiero: " E se ti fossi sbagliato? Sei
sicuro che fossero tre volte? Magari proprio aprendo e chiudendo più volte
per controllare, ti sei confuso e lo hai lasciato aperto ! Eri pure agitato" . " Sì,
ma sei in ritardo, non puoi continuare a dar retta a questi dubbi, perderai il
lavoro anche questa volta ! " " Ma se poi c'è una fuga di gas? A casa non c'è
nessuno che possa accorgersene. Poi magari una scintilla fa scoppiare tutto,
del resto basta la piccola scintilla che fanno gli interruttori della luce quando li
si accende. Potrebbero morire anche quei bambini del piano di sopra e i due
anziani dell'appartamento accanto! Sarebbe un disastro e tutto per la tua su­
perficialità ! " " Meglio rischiare di arrivare in ritardo, torno indietro e faccio
un ultimo controllo, dai, è roba di pochi istanti. E poi non posso stare tutto il
giorno con questo sospetto terribile in testa. "
Giovanni rientra in casa, va in cucina, guarda il rubinetto, lo vede chiuso, si
sente sollevato, ma: "Forse non è chiuso del tutto bene, meglio controllare, del
resto sono tornato indietro apposta". Apre il rubinetto e lo richiude: "Meglio ri­
petere, non si sa mai", lo riapre e lo richiude ancora una volta, ma: "Ho sentito
bene che la chiavetta è arrivata a fine corsa? Non sono sicuro, meglio ripetere".
A quel punto, per superare i dubbi, cerca di fissare nella memoria l'immagine del
rubinetto chiuso, va verso la porta di casa, esce, fa qualche passo, di nuovo il dub­
bio appare nella sua mente, cerca di fugarlo rievocando l'immagine del rubinetto
chiuso, ma non riesce a fidarsi del ricordo: " Mi ricordo bene? E se mi stessi con­
fondendo? ". Rientra in cucina e questa volta fissa il rubinetto del gas a lungo, per
imprimersi bene nella memoria l'immagine del rubinetto chiuso. Dopo qualche
minuto di fissazione, comincia ad avere una strana sensazione, vede il rubinet­
to, e lo vede chiuso, ma nello stesso tempo non riesce a fugare l'impressione che
possa essere aperto. Si sente angosciato, confuso, e ad aumentare l'esasperazione
interviene anche la consapevolezza che sta rischiando seriamente di perdere il la­
voro e di essere preda di un meccanismo folle. Questa consapevolezza si traduce
in autoistruzioni: " Smettila, di controllare! Piantala, esci da questa casa, perde­
rai il lavoro e stai diventando matto ! " . Ma queste istruzioni non sono di alcun
aiuto, anzi, sono esasperanti e in alcuni casi diventano controproducenti: "Ok,
adesso torno indietro, controllo un'ultima volta ma per bene, così finalmente mi
convinco, mi tranquillizzo, la pianto con tutta questa follia e corro al lavoro ! ".

Anche in questo caso possiamo schematizzare il sintomo ossessivo di


Giovanni (schema 1 .2 ) .
Al primo punto possiamo collocare la chiusura del rubinetto del gas
quando sta per uscire o è già uscito di casa.
Al secondo punto vi è il sospetto di aver lasciato il rubinetto del gas
chiuso male, e che quindi, per una propria sbadataggine, ci possa esse­
re una fuga di gas, un'esplosione, danni gravi e diverse vittime e che per
tutto questo sarebbe gravemente colpevole.

13
La teoria

SCHEMA 1 .2

Evento
Chiudo il rubinetto del gas.
t
Prima valutazione
"E se lo avessi chiuso male e, quindi, per una mia sbadataggine, ci fosse una fu­
ga di gas, un'esplosione, danni gravi e diverse vittime?"

t
Tentativo di soluzione 1
Controlli ripetuti del rubinetto del gas, tentativi di rassicurazione imprimendo nel­
la memoria l'immagine del rubinetto chiuso e, successivamente, ripercorrendo
mentalmente i momenti in cui il gas è stato chiuso, telefonate per verificare che
non ci siano state fughe di gas, ricerca di informazioni sui meccanismi di sicurezza
utilizzati dalla società del gas, posizionamento di segnalatori di eventuali perdite.

t
Seconda val utazione
"l miei timori sono folli, così come i tentativi di soluzione che metto in atto", inol­
tre: "Questo disturbo ha ricadute negative sul mio lavoro " .

t
Tentativo di soluzione 2
Tentativi di imporsi la cessazione dei controlli e tentativi consistenti in "un ultimo
controllo, così finalmente mi tranquillizzo e posso andare al lavoro".

Al terzo punto vi sono i tentativi di soluzione, vale a dire i con­


trolli ripetuti e i tentativi di imprimersi nella memoria l'immagine del
rubinetto chiuso. Quando era lontano da casa, Giovanni ripercorre­
va nella mente i momenti in cui aveva chiuso il gas, sempre al fine di
rassicurarsi, oppure telefonava alla madre, con la quale conviveva, o
ai vicini, magari con una scusa, per sincerarsi che non ci fossero state
fughe di gas. Si era pure informato sui meccanismi di sicurezza utiliz­
zati dalla società del gas e aveva anche fatto mettere dei segnalatori di
eventuali perdite.
Al quarto punto si trova la critica di Giovanni, che, come nel caso di
Maria, era in due direzioni. Giovanni riteneva "folli" sia le sue preoc­
cupazioni sia i provvedimenti, e si rendeva benissimo conto dei costi
del suo disturbo, in particolare per la sua ricaduta negativa sul lavoro.
Al quinto punto vi sono i tentativi di contenere il disturbo, cioè i ten­
tativi, di solito fallimentari, di imporsi la cessazione dei controlli e quelli,
paradossali, consistenti in " un ultimo controllo, così finalmente mi tran-

14
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

quillizzo e posso andare al lavoro" . Istruzione paradossale, quest'ultima,


perché in realtà avviava una nuova sequenza di controlli.
Come nel caso di Maria, i pensieri intrusivi di Giovanni sono quali­
tativamente normali: chi uscendo di casa non ha avuto qualche volta il
dubbio di aver lasciato il rubinetto del gas aperto? Chi, in alcuni casi,
non è tornato indietro a controllare? La differenza tra Giovanni e le per­
sone non affette da disturbo ossessivo è solo nella gravità del dubbio,
nella sua frequenza e nelle dimensioni dei provvedimenti.
Il caso di Giovanni suscita gli stessi punti interrogativi di Maria.

Davide, 26 anni, studente in ingegneria in ritardo con gli esami, vive con i
genitori e un fratello minore, è fidanzato. Il suo disturbo ossessivo è del sotto­
tipo pensieri proibiti.

Lasciamo che lui stesso ci racconti come si è svolta una crisi ossessiva.

Non riuscivo a dormire, ero eccitato perché avevo bevuto un caffè


tardi, mi sentivo pieno di energie, con grande fiducia nelle mie possibili­
tà, la testa faceva progetti per il futuro, gli esami da fare, sposarmi, avere
dei bambini. Pensavo: " Certo, potrei fare un sacco di soldi, quelli che
ora non mi mandano in vacanza". In casa non ci sono soldi, i miei han­
no un'assicurazione sulla vita, se fanno un incidente becchiamo qualco­
sa, sono sempre più agitato, mi preoccupo di quello che sto pensando:
"Voglio che i miei muoiano? sono come Pietro Maso? Lo farei?" . So­
no terrorizzato, mi sento solo, comincio a immaginare le scene, mi vedo
arrabbiato come uno psicopatico, allora voglio la morte di mio padre e
io sono l'esecutore, ho il dubbio che potrei farlo, e il fatto di avere que­
sti dubbi accresce la sensazione che io voglia fare queste cose, mi sento
confuso, sfiduciato.

Nella prima parte del resoconto il paziente ci illustra un flusso di pen­


sieri caratterizzato da ottimismo e indirizzato a esplorare in modo lasso
progetti per il futuro. In questo procedimento incontra una difficoltà:
la mancanza di soldi. Sull'onda dello stesso atteggiamento rilassato e
per nulla sistematico mette a fuoco una possibile soluzione: l'assicura­
zione sulla vita dei suoi genitori; se i genitori muoiono, allora "becchia­
mo qualcosa" . Anche in questo caso, non c'è nulla di strano o di parti­
colare nella comparsa di un pensiero del genere mentre si è impegnati
in una fantasticheria rilassata e orientata a superare e risolvere le diffi­
coltà. Come abbiamo già detto, infatti, numerose ricerche dimostrano
che pensieri intrusivi con contenuti analoghi a quelli che preoccupano
gli ossessivi sono normalmente presenti in tutte le persone. Di solito le

15
La teoria

persone non danno peso più di tanto a questo genere di pensieri, non
se ne preoccupano e passano ad altro. Davide, invece, attribuisce un si­
gnificato drammatico all'aver pensato di poter profittare della morte dei
genitori; infatti, per lui, è l'indizio di un sospetto terribile: desiderare la
morte dei genitori ed essere uno psicopatico omicida.
Al fine di fugare il sospetto, Davide inizia dei test mentali in cui simula
la scena dell'omicidio per controllare se questa suscita in lui orrore o se
tutto sommato invece si sentirebbe di uccidere il padre. Per rendere più
realistico il test, ovviamente, è costretto a immaginarsi arrabbiato come
uno psicopatico. La soluzione tentata da Davide è piuttosto comune e non
ha nulla di speciale. Tutti, infatti, se dobbiamo stabilire cosa ci sentiamo
di fare o di non fare, per esempio se ci va o meno di accettare l'invito in
campagna di un amico, ricorriamo a un sistema simile: ci immaginiamo
di passare il weekend in campagna per vedere che effetto ci fa. Natural­
mente, affinché il test sia più valido, è opportuno immaginarsi i momenti
più caratteristici del weekend in campagna, per esempio la sera intorno al
fuoco o la partita a biliardo o la passeggiata nel bosco. Non sarebbe mol­
to significativo immaginarsi il momento in cui usciamo di casa, saliamo in
macchina e ci avviamo, perché, dato che sono azioni che facciamo quasi
ogni giorno, immaginare come ci sentiremmo non ci aiuterebbe molto a
capire se vogliamo passare il weekend con l'amico oppure no. Per una ra­
gione analoga Davide si immagina arrabbiato come uno psicopatico; infat­
ti se si limitasse a immaginare di uccidere il padre, per esempio quando la
mattina prendono assieme il caffè, il risultato sarebbe falsato dall'implau­
sibilità della scena, diverso se si immagina di uccidere il padre in preda alla
rabbia. Davide, però, a differenza di chi non è ossessivo, non si contenta
di una sola simulazione, ma la ripete più e più volte, anche perché più la
ripete più l'esito del test gli appare confuso e quindi più si spaventa. Ma
passare ore e ore delle sue giornate a immaginarsi arrabbiato come uno
psicopatico che uccide il proprio padre rafforza in lui il sospetto di avere
intenti omicidi: " Non è normale pensare tutto il giorno a come ammaz­
zare il proprio padre, c'è in me qualcosa di grave che non va bene, forse
sono davvero uno psicopatico" . Anche il non riuscire a convincersi di non
avere desideri omicidi diventa a sua volta un nuovo indizio: " Se non rie­
sco a rendermi conto con chiarezza che non voglio la morte di mio padre,
allora, forse, è proprio perché la desidero" (Mancini, 2005 ) .
Possiamo descrivere la sequenza ossessiva con uno schema analogo
a quello che abbiamo utilizzato per Maria e per Giovanni (schema 1 .3 ) .

Diversamente da quanto accade nel caso di Maria e di Giovanni, l'e­


vento è un pensiero: "I miei hanno un'assicurazione sulla vita, se fanno un

16
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

SCHEMA 1 .3

Evento
" l miei hanno u n'assicurazione sulla vita, se fan no un incidente
becchiamo qualcosa."

.t
Prima valutazione
"E se il fatto di aver avuto questo pensiero sign ificasse che sono u no psicopatico
disposto a uccidere i miei genitori per averne l'eredità?"

Tentativo di soluzione 1
Immaginazione ripetuta dell'uccisione del padre. Tentativi di scacciare dalla men­
te le immagini aggressive. Confessione al padre dei propri sospetti. Ricerca nella
vita passata di elementi che confermino il sospetto di poter essere un parricida.
Ricerca su internet delle caratteristiche dei parricidi.

Seconda valutazione
"Questo sospetto è esagerato", inoltre "l tentativi di liberarmi del sospetto sono
costosi perché ostacolano lo studio e causano ritardo nel dare gli esami."

Tentativo di soluzione 2

Tentativi di imporsi uno stop dei pensieri e tentativi di liberare la mente sottopo­
nendosi a un ulteriore test con la speranza che sia risolutivo.

incidente becchiamo qualcosa" . Davide considera la comparsa di questo


pensiero nella sua mente un indizio che giustifica il sospetto di essere uno
psicopatico disposto a uccidere i genitori per averne l'eredità.
I tentativi di soluzione consistono in una ruminazione in cui Davi­
de simula nell'immaginazione più e più volte la scena dell'uccisione del
padre per controllare se gli suscita orrore e avere quindi la prova che il
sospetto è infondato. Notiamo che i tentativi di soluzione non solo so­
no inutili ma addirittura, come spesso accade, controproducenti. Da­
vide ricorre anche ad altri tentativi di soluzione, per esempio cerca di
cacciare dalla testa le immagini aggressive, confessa al padre i propri
sospetti, ripercorre più volte la sua vita passata per vedere se ci sono
elementi che confermino il sospetto, si informa tramite internet sulle ca­
ratteristiche dei parricidi. Davide è consapevole dell'esagerazione dei
suoi sospetti e si rende anche conto di quanto i suoi tentativi di liberar­
si del sospetto siano costosi, in particolare di quanto ostacolino il suo
studio e ritardino gli esami. Per cercare di contrastare il disturbo cer-

17
La teoria

ca di imporsi uno stop dei pensieri con risultati paradossali, spiegabi­


li con il fenomeno "orso bianco" (Wegner, 1 994) . In altre circostanze,
per esempio quando si avvicina la data di un esame e sente l'urgenza di
mettersi a studiare, cerca di liberare la mente, per potersi concentrare,
sottoponendosi a un ulteriore test con la speranza che sia risolutivo, ma
di solito accade il contrario.

Roberto è affetto da sintomi ossessivi del sottotipo denominato ordine e sim­


metria: passa ore nel tentativo di mettere in ordine i libri e i fogli sulla scrivania,
di allinearli perfettamente al bordo della scrivania. Se non lo fa, e in modo per­
fetto, teme che possa accadere qualcosa di brutto ai suoi cari, per esempio un
incidente o una malattia, e che ciò sia colpa sua. Si rende conto dell'assurdità
delle sue preoccupazioni ma, al dunque, ritiene che sia da incoscienti correre il
rischio: " Lo so che è implausibile, ma se fosse vero? Non posso mica essere si­
curo al l OO% che se non metto perfettamente in ordine non succederà nulla. E
se poi succede? Sarebbe colpa mia". Anche la consapevolezza del tempo perso
e dei danni alla sua carriera professionale non è sufficiente a fargli accettare il
rischio. Per cercare di contenere i costi del disturbo a volte cerca di imporsi di
interrompere i rituali, ma i risultati sono scarsi e soprattutto transitori. I tenta­
tivi di autoconvincersi dell'assurdità dei suoi rituali e delle sue preoccupazioni
si infrange contro l'impossibilità di essere certo al l OO% che se non li mette in
atto non accadrà qualcosa di brutto ai suoi cari.

Lo schema del problema di Roberto (schema 1 .4) è il seguente. L'e­


vento sono i libri e i fogli non perfettamente allineati sulla sua scriva­
nia. Ha l'intuizione che questo disordine possa causare un incidente o
una malattia ai suoi cari. Sa che ciò è implausibile, ma non può esclu­
derlo con certezza assoluta, dunque si giudicherebbe gravemente col­
pevole se trascurasse questa possibilità. I tentativi di soluzione sono,
appunto, i rituali di ordine e simmetria. Roberto è consapevolmente
critico sia dell'infondatezza ed esagerazione dei suoi timori sia del co­
sto che paga per compiere i rituali. I suoi tentativi di contenere il di­
sturbo sono le autoistruzioni di interrompere le compulsioni di ordi­
ne e simmetria e i tentativi di autoconvincersi dell'infondatezza delle
sue preoccupazioni.
Spesso accade che le compulsioni di ordinamento dei libri e dei fo­
gli siano automatiche. È sufficiente vedere un libro leggermente fuori
posto, affinché si attivi una sensazione molto sgradevole per lui, la Not
Just Right Experience, cioè la sensazione che i libri sulla scrivania non
siano come dovrebbero essere, e si inneschi la ricerca dell'allineamento
perfetto, senza che compaia l'idea di essere responsabile di un ipotetico
danno scaramantico per i suoi.
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

SCHEMA 1 .4

Evento
Libri e fogli non perfettamente allineati sulla scrivania.

j,
Prima valutazione
"E se questo disordine causasse un incidente o una malattia ai miei cari? So che è
implausibile, ma posso forse escluderlo con certezza assoluta? Sarei gravemente
colpevole se trascurassi questa possibilità."

j,
Tentativo di soluzione 1
Rituali di ordine e simmetria.

Seconda valutazione
"l miei timori sono infondati ed esagerati " , inoltre: "l tentativi di soluzione
hanno un alto costo".

Tentativo di soluzione 2
Autoistruzioni di interrompere le compulsioni di ordine e simmetria e tentativi di
autoconvincersi dell'infondatezza delle preoccupazioni.

OSSESSIONI E COMPULSIONI NEL DSM-5

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nella sua ver­


sione più recente (DSM-5; APA, 2013 ) , riassume le caratteristiche distin­
tive del DOC (tabella 1 . 1 ) .

Ossessioni

Le ossessioni, quindi, sono pensieri ricorrenti e persistenti o imma­


gini che vengono vissuti nel corso del disturbo come intrusivi e indesi­
derati e che nella maggior parte degli individui causano ansia o disagio
marcati. Ci sono diversi tipi di ossessioni (tabella 1 .2 ) .

L'intrusività delle ossessioni

Con il termine intrusivo si intendono tre diversi aspetti dei pensieri


ossessivi. In primo luogo, il fatto che possono comparire nella mente del
paziente in modo del tutto scollegato dal contesto e dal suo stato men­
tale. Per esempio, nel caso di Maria, il dubbio di aver toccato qualcosa

19
La teorù1

Tabella 1 . 1 Criteri diagnostici del disturbo ossessivo-compulsivo (tratto da APA, 2013 ).

A. Presenza di ossessioni, compulsioni, o entrambi:


Le ossessioni sono definite da l) e 2):
l. Pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, i n qualche
momento nel corso del disturbo, come intrusivi e indesiderati
e che nella maggior parte degli individui causano ansia o disagio marcati.
2. n soggetto tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini,
o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni (cioè mettendo in atto una
compulsione) .
L e compulsioni sono definite da l ) e 2):
l. Comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi l e mani, riordinare, controllare)
o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente)
che il soggetto si sente obbligato a mettere in atto in risposta a un'ossessione
o secondo regole che devono essere applicate rigidamente.
2. I comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre l'ansia
o il disagio o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; tuttavia, questi
comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico
con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono
chiaramente eccessivi.
Nota: I bambini piccoli possono non essere in grado di articolare le ragioni
di questi comportamenti o azioni mentali.
B. Le ossessioni o compulsioni fanno consumare tempo (per es. , più di l ora
al giorno) o causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

di potenzialmente contaminante poteva comparire mentre era a casa da


sola e guardava un film alla TV. Tuttavia un'analisi accurata, di solito,
rileva che il pensiero è la conseguenza di un'attività automatica di con­
trollo. Per esempio, il ricordo di aver toccato qualcosa di potenzialmente
contaminante appariva nella mente di Maria in momenti di quiete per­
ché, per potersi concedere di stare tranquilla, doveva controllare che
tutto fosse a posto e che non stesse trascurando qualche contatto peri­
coloso, che magari aveva dimenticato o sottovalutato. In secondo luo­
go, le ossessioni sono intrusive nel senso che sono esperite dal paziente
in contrasto con i suoi valori: per esempio, nella mente di una persona
profondamente religiosa può intrudere un pensiero blasfemo o in con­
trasto con l'immagine di sé, mentre in una persona che si definisce "ra­
zionale" possono intrudere pensieri privi di senso. In terzo luogo, le os­
sessioni possono essere intrusive perché incongrue con la visione che il
paziente ha della realtà: per esempio, nel caso di Roberto, il dubbio che
sarebbe potuto accadere qualcosa di dannoso a sé o ai suoi familiari se
non avesse fatto i rituali scaramantici era incongruo con le sue convin­
zioni sul funzionamento della realtà, che non considerava regolata da

20
Le caratterùtiche del DOC e gli interrogativi che solleva

Tabella 1.2
Principali ossessioni riportate da 145 pazienti con DOC (ripresa e adattata
da Abramowitz, 2006, tabella 1.2, pp. 9-10).

Categoria Descrizione Esempi


Contaminazione Pensieri o immagini mentali "TI mio collega ha l'herpes
relativi al dubbio di poter e ha toccato la mia spillatrice;
essere entrato in contatto, adesso mi verrà l'herpes"
anche indiretto, con sostanze
"Tornando a casa potrei aver
ritenute pericolose calpestato una siringa ed
o disgustose
essermi contaminato"
Danno Pensieri o immagini mentali " Se non correggo gli errori
relativi a potenziali danni a sé dei miei colleghi, sarà colpa
o ad altri, di tipo materiale, mia se la fabbrica fallirà"
economico o emotivo, dovuti
"Se non documento tutti
a proprie disattenzioni,
i sintomi del mio paziente,
leggerezze o mancanze
sarà colpa mia se non riceverà
la giusta cura"
Scaramantiche Pensieri o immagini mentali "Se dico cancro, qualcuno
relative a eventi negativi che della mia famiglia avrà
possono accadere a sé o ad altri il cancro"
in futuro, qualora non si seguano
"Alcuni numeri possono
certe regole di comportamento o
provocare danni"
non si intervenga neutralizzandone
l'effetto negativo
Somatiche Eccessiva preoccupazione per "Ho qualcosa che non va
parti del corpo o per il proprio nel muscolo dello sfintere
aspetto (dismorfofobia) anale"
Aggressive Pensieri, immagini mentali o Immagine dei genitori in
impulsi di far del male a persone un incidente d'auto mortale
care o a se stessi pur non
Impulso di urlare parolacce
desiderandolo
durante una lezione
Impulso di accoltellarsi
Omosessuali Pensieri, immagini mentali, " Se ho apprezzato
fantasie o impulsi a contenuto l'abbigliamento
omoerotico, che attivano nel di quel ragazzo significa
soggetto eterosessuale il dubbio di che sono gay"
poter essere un omosessuale latente
Relazionali Dubbi sull'adeguatezza o meno "Un collega passando forse
del proprio partner e sul mi ha sfiorato, potrei aver
sentimento nei confronti di tradito il mio fidanzato"
quest'ultimo; pensieri, immagini
"Ho riso con un'amica,
mentali, fantasie o impulsi sessuali
e se questo significasse che
nei confronti di persone diverse
non sono più innamorato
dal proprio partner, che innescano
della mia ragazza? "
nel soggetto il dubbio ossessivo
di non essere innamorato
di quest'ultimo

21
La teoria

Categoria Descrizione Esempi


Religiose Pensieri o immagini mentali Involontaria immagine
e morali a contenuto blasfemo, come di Gesù che si masturba
bestemmie, insulti ai defunti, sulla croce
fantasie sessualizzate verso
" Forse senza accorgermene
immagini sacre, ecc.
potrei aver imbrogliato
all'esame"
Sessuali Pensieri, immagini mentali, Involontaria immagine
e di pedofilia fantasie o impulsi sessuali dei genitali di un genitore
nei confronti di persone
"Un bambino, correndo,
sconvenienti quali parenti,
mi ha sfiorato, e se questo
animali, bambini, ecc.
significasse che sono
pedofi.lo? "
Ordine Bisogno di simmetria, uniformità, " I quadri devono essere
e simmetria equilibrio o esattezza. Sensazione appesi a distanze tra loro
che qualcosa non sia fatto proprio equivalenti"
nel "modo giusto"
"Il tappeto deve essere
attaccato al divano"

nessi causali magici. Nella tabella 1 .3 riportiamo le caratteristiche prin­


cipali delle sei forme di ossessioni (Abramowitz, 2006).
Un'ipotesi suggestiva potrebbe essere che il disturbo ossessivo sia
riducibile all'intrusione di pensieri o immagini mentali, tuttavia alcune
ricerche (Abramowitz, Schwartz, Moore, 2003 ; Ladouceur, Freeston,
Rhéaume et al. , 2000; Freeston, Ladouceur, Thibodeau et al. , 1 9 9 1 ;
Salkovskis, Harrison, 1 984; Rachman, d e Silva, 1 978) hanno riscontrato
l'intrusione occasionale di pensieri con contenuti simili a quelli ossessivi
in circa 1'80% della popolazione generale. Tanto sono simili i pensieri
intrusivi dei pazienti e quelli dei non pazienti, che professionisti della
salute mentale fanno fatica a distinguere i primi dai secondi basandosi
sul contenuto (Rachman, de Silva, 1978). La differenza, infatti, sta nella
frequenza delle intrusioni e, soprattutto, nel fatto che i pazienti osses­
sivi valutano molto negativamente le ossessioni, mentre la popolazione
generale tende a non dar loro importanza e dunque ad accettarle più
facilmente (Rachman, de Silva, 1 978).
La frequenza e il contenuto delle intrusioni sono influenzati dagli stati
mentali. Per esempio, nella mente di genitori che hanno appena avuto
un figlio facilmente intrudono pensieri, non voluti e disturbanti, di poter
far del male al neonato o compiere gravi errori nella cura del bambino
(per esempio, Abramowitz, Schwartz, Moore et al., 2003 ; Abramowitz,
Moore, Carmin et al., 200 1 ) . Non stupisce, dunque, che i pensieri che

22
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

Tabella 1.3Caratteristiche delle sei forme di ossessioni (ripresa e adattata da Abra­


mowitz, 2006, tabella 1 .3, p. 1 0) .

Forma Caratteristiche Esempi


Dubbi Persistente incertezza "Forse non ho chiuso la porta e un ladro
ossess1v1 sull'aver completato potrebbe entrare"
un compito o sull'essere
"Potrei aver pestato feci di cane e non
(o poter arrivare a essere)
essermene accorto"
responsabili di un danno
"Cos'era quel rumore? Ho urtato qualcosa
lungo la strada o ho investito qualcuno?"
Immagini Persistenti immagini Immagini di persone care gravemente
ossessive mentali che danno ferite o morte
preoccupazione e angoscia
Immagini non desiderate dei nonni
che fanno sesso
Immagini del pene di Cristo
Impulsi Impulsi o idee non Impulso di spingere un anziano a terra
ossessivi desiderate di comportarsi
Voglia di urlare oscenità in chiesa
in modo inappropriato,
spesso dal punto di vista Impulso di saltare sotto un treno
sessuale o in modo o un'automobile in arrivo
aggressivo Stimolo non desiderato ad aggredire
sessualmente qualcuno
Paure Eccessiva preoccupazione " Potrei accoltellare mia moglie
ossessive di perdere il controllo nel sonno?"
e agire impulsivamente
" Potrei annegare il mio bambino? "
Pensieri Continui rimuginii su esiti "Una persona con herpes può aver usato
ossess1v1 futuri negativi il bagno prima di me e io potrei aver preso
l'herpes e contagiare la mia famiglia"
"Forse Dio non ha gradito la cosa che
ho appena detto e io sono condannato
all'Inferno? "
Continui rimuginii chiedendosi se s i è
una persona moralmente a posto
Ossessioni Pensieri, parole, numeri ll numero 666
miste e così via che procurano
La parola cancro o morte
disagio e sono difficili
da abbandonare

intrudono nella mente dei pazienti ossessivi riflettano i loro timori. In­
fatti, chi è preoccupato di poter danneggiare gli altri ha frequentemente
pensieri intrusivi di tipo aggressivo, chi è preoccupato della propria reli­
giosità ha pensieri blasfemi, chi teme di commettere errori di sbadatag­
gine ha pensieri intrusivi che suggeriscono che qualcosa di importante
possa essere sfuggito al proprio controllo.

23
La teorza

Ossessioni endogene e reattive


Il sostantivo "ossessione" è ambiguo, facendo riferimento a fenome­
ni psicologici diversi fra loro. In primo luogo è opportuno distinguere
due tipi di ossessioni: endogene e reattive (Lee, Kwon, 2 003 ) . Le osses­
sioni endogene includono i cosiddetti pensieri proibiti, cioè pensieri o
immagini blasfemi, sessualmente perversi e aggressivi che vengono per­
cepiti dal paziente come egodistonici e inaccettabili in sé e per sé. Tali
ossessioni possono intrudere nella mente del paziente in modo sponta­
neo (per esempio, l'idea di subire un rapporto omosessuale o di avere
un vantaggio finanziario dalla morte dei genitori) o vengono elicitate
da situazioni esterne (per esempio, un'immagine erotica mentre si sta
compiendo un atto religioso) . Nello schema che è stato proposto per
descrivere il profilo interno del disturbo andrebbero inserite nella ca­
sella "Evento" . Le ossessioni endogene costituiscono un problema per
il fatto di essere state pensate; i seguenti esempi aiutano a comprende­
re le valutazioni del paziente: "Questo pensiero è peccaminoso" , " Se
penso una cosa del genere allora desidero che accada" , " Se penso una
cosa del genere allora vuol dire che sono una persona strana, perversa,
immorale" , " Se penso una cosa del genere e non riesco a controllarla,
allora rischio di metterla in atto" . Le soluzioni caratteristiche sono ten­
tativi di scacciare e controllare il pensiero mediante compulsioni mentali
come preghiere e formule di annullamento o mediante la sostituzione
del pensiero proibito con uno "giusto" . Se il pensiero suscita nel pa­
ziente il sospetto di poter avere intenzioni o desideri perversi o aggres­
sivi, spesso, come nel caso di Davide, il tentativo di soluzione consiste
nell'immaginare le situazioni per cercare la prova certa di non avere sif­
fatti desideri o intenzioni.
Le ossessioni reattive includono pensieri, timori o dubbi su fatti co­
me contaminazioni ( ''E se dando la mano a quella persona mi fossi con­
tagiato?"), errori ( "E se avessi dimenticato di firmare quell'importante
documento ? " ) , incidenti ( " E se guidando avessi investito qualcuno? ")
e asimmetrie ( "E se lascio in disordine i libri e poi succede una disgra­
zia a mio padre? " ) . Tali ossessioni tendono a essere elicitate da stimoli
esterni identificabili, vengono percepite come relativamente realistiche
e considerate minacciose per le possibili conseguenze negative che il pa­
ziente teme possano accadere. Infatti, gli stimoli che le attivano sono, di
solito, connessi con il contenuto delle ossessioni in modo logico e spesso
realistico. In altre parole, le situazioni che attivano le ossessioni sono le
stesse che il paziente tenta di correggere mediante le compulsioni, al fine
di prevenire o evitare gli eventi temuti. Tali eventi vengono valutati dal

24
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

paziente come minacciosi rispetto ai propri scopi; per esempio: " Se ho


pensato che può accadere qualcosa di terribile, devo agire al fine di pre­
venire che accada; in caso contrario, qualora si verifichi, sarà colpa mia.
Quando questi pensieri si presentano, non fare niente è sbagliato, igno­
randoli potrei essere responsabile di gravi danni" (Lee, Kwon, 2003 ) .
Nello schema del profilo interno del DOC, le ossessioni reattive an­
drebbero inserite nella casella " Prima valutazione" , mentre nella casella
"Evento" andrebbe ciò che costituisce l'oggetto della preoccupazione
del paziente: per esempio un tocco, la possibile dimenticanza della firma,
il possibile incidente d'auto, la malattia del padre. I tentativi di soluzio­
ne possono essere di tutti i tipi: compulsioni di lavaggio, di controllo, di
ordine e simmetria, evitamenti, richieste di rassicurazione, ruminazioni.

Ossessioni e ruminazioni
Il termine "ossessione" nasconde anche un'altra ambiguità. Infatti,
quando il paziente dice: " Sono ossessionato da . . . " , fa riferimento a due
fenomeni funzionalmente ben diversi fra loro. Il primo consiste nella
comparsa di ossessioni endogene o reattive: per esempio, in un pazien­
te ossessionato dall'idea di contrarre l'AIDS, può presentarsi l'ossessione
reattiva: "E se dando la mano a quella persona avessi contratto l'AIDS? ! " .
Il secondo fenomeno consiste, invece, nelle protratte ruminazioni che
il paziente compie al fine di convincersi che la possibilità temuta non
si possa realizzare. Le ruminazioni sono, quindi, tentativi di soluzione
del problema posto dall'idea ossessiva. A causa di entrambi i fenomeni
il paziente ha la mente sistematicamente e persistentemente occupata
da pensieri ossessivi.

Compulsioni e altri tentativi di soluzione

Le compulsioni sono comportamenti osservabili o azioni mentali fi­


nalizzati a fronteggiare la minaccia posta al paziente dalle ossessioni o
a contenerne il distress. Nel primo caso vengono definite overt, nel se­
condo covert. Riportiamo nella tabella 1 .4 i diversi tipi di compulsioni.
Le compulsioni hanno alcune caratteristiche in comune: innanzitutto
sono ripetitive e spesso ritualizzate, inoltre sono motivate e intenziona­
li e, per tale ragione, diverse dai comportamenti ripetitivi, meccanici e
"robotici" che si osservano, per esempio, in malattie neurologiche come
la demenza franto-temporale (Rachman, 2006) . Che siano atti intenzio­
nali e liberi è dimostrato da una semplice osservazione: se al paziente, nel

2 '5
La teoria

Tabella 1.4 Principali compulsioni riportate da 145 pazienti con DOC (ripresa e adattata
da Abramowitz, 2006, tabella 1 .4, p. 14).

Categoria Esempi
Checkinglcontrollo Controlla serrature, finestre, luci, apparecchi
Controlla il bambino mentre dorme per vedere se sta ancora
respirando
Controlla e ricontrolla gli incarichi di lavoro
Washingllavaggio Rituali nel fare la doccia
Usa i guanti di gomma per toccare il bucato
Pulisce il box doccia prima di fare la doccia
Risciacqua le mani più di 40 volte al giorno
Ordine e simmetria Riordina i libri rispettando una particolare simmetria
Rituali mentali Ripete a se stesso la frase: "Niente, nessuno, da nessuna parte"
Ripete tra sé e sé tre volte: "Amo Gesù Cristo con tutto
me stesso"
Neutralizza i pensieri inaccettabili con pensieri "buoni"
Ripercorre mentalmente le conversazioni per essere sicuro
di non aver usato imprecazioni
Ripetizione Riscrive gli assegni bancari
di azioni
Accende e spegne la luce più volte finché non si sente a posto
Conteggi Conta i respiri per evitare i numeri pari
Accumulo Raccoglie e accumula buste e sacchetti vuoti della spesa
Raccoglie oggetti che potrebbero essere utili
per lavori artistici
Miste Confessa tutti i pensieri " cattivi" alla madre
Fa le stesse domande più volte per avere rassicurazioni
Confessa più volte gli stessi peccati al sacerdote

momento in cui sta per mettere in atto una compulsione, il costo della
stessa appare molto elevato, egli rinuncia alla compulsione o magari la
rimanda. Per esempio, molti pazienti riescono a procrastinare le com­
pulsioni se si trovano in mezzo a estranei per evitarne i giudizi negativi.
Spesso la compulsione è anche un atto deliberato; infatti in molte cir­
costanze è preceduta da un dibattito interno sull'opportunità o meno
di metterla in atto. Come accennato, le finalità delle compulsioni sono
risolvere il problema posto dalle ossessioni e il disagio emotivo che ne
deriva - per esempio, la possibilità di contagio e l'ansia conseguente - e
contenere la necessità di ulteriori e più costose compulsioni. Le com­
pulsioni nel DOC, quindi, sono finalizzate a prevenire o neutralizzare una

26
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

possibilità negativa o a ridurre il distress, mentre nei disturbi del con­


trollo degli impulsi (shopping compulsivo) sono messe in atto perché
producono piacere o gratificazione.
In accordo con la descrizione del DSM-5 , le compulsioni sono modi
poco realistici - per esempio, le compulsioni scaramantiche - o esage­
rati - per esempio, le prolungate e ripetitive compulsioni di lavaggio -
di affrontare il problema posto dalle ossessioni.
Le compulsioni hanno anche due altre caratteristiche. La prima è che,
nonostante siano intenzionali e, spesso, anche deliberate, vengono vis­
sute non come atti liberi, ma come atti coatti, come suggerito dal nome
stesso. La seconda è che rientrano in quella classe di conflitti noti come
akrasie (Ainslie, 1 992 , 200 1 ; Magri, Mancini, 1 99 1 ) , in cui, sistematica­
mente e non per ragioni occasionali, la persona agisce intenzionalmente
in un certo modo, nonostante si renda conto che potrebbe agire in un
altro modo che, tutto considerato, sarebbe per lei migliore (il termine
akrasia deriva dal greco antico, dove l'alfa privativa a precede il termine
kratos, che significa "potere, forza"; dunque akrasia sta per "fallimento
della volontà" ) . Un esempio di akrasia è il cedimento alle tentazioni: una
persona diabetica sa che è bene per lei astenersi dai dolci, ha l'intenzio­
ne di evitarli ma, ciò nonostante, al ristorante ordina una porzione di
millefoglie. In molte circostanze le compulsioni sono agite nonostante
il paziente si renda conto che sarebbe meglio per lui non metterle in at­
to e non voglia metterle in atto. Tuttavia, non sempre i tentativi di solu­
zione descritti dal DSM-5 sono vissuti come compulsivi e akratici; infatti,
è possibile osservare circostanze in cui il paziente desidera fortemente
mettere in atto le compulsioni e, se è ostacolato da qualcuno, reagisce
insistendo, a volte anche con aggressività.
Sebbene le compulsioni siano finalizzate a ridurre il distress, a volte
esse stesse implicano un distress aggiuntivo (Rachman, Hodgson, 1980) .
Questo può dipendere dal conflitto tra lo scopo di raggiungere una cer­
tezza rassicurante e la consapevolezza della propria esagerazione. Alcu­
ne compulsioni, in particolare quelle di lavaggio, possono essere parti­
colarmente faticose e dolorose perché la pelle può essere molto irritata
dai tanti lavaggi precedenti. In altri casi il distress dipende dalla sensa­
zione di essere preda di compulsioni che appaiono al paziente stesso ir­
ragionevoli. In altre circostanze è la reazione esasperata dei familiari ad
aumentare il distress.
Le compulsioni non sono gli unici tentativi di soluzione cui ricorrono
i pazienti ossessivi (Abramowitz, 2006; Ladouceur, Freeston, Rhéaume
et al., 2000; Freeston, Ladouceur, 1 997) . Si riscontrano infatti evitamen-

27
La teoria

ti, tentativi di distrarsi o di sopprimere i pensieri ossessivi, richieste di


rassicurazioni, confessioni, ruminazioni (Ladouceur, Freeston, Rhéau­
me et al., 2000) . Una paziente, per esempio, era ossessionata dal dub­
bio di aver rubato del denaro o di aver dato adito ad altri di sospettarlo
(Capo, 2005) . Per cercare di risolvere il problema, oltre a contare e ri­
contare il denaro in suo possesso, chiedeva spasmodicamente ad amici e
parenti di scrivere e firmare foglietti in cui dichiaravano che la paziente
non gli aveva rubato nulla e che non doveva restituire alcuna somma. A
volte si autoaccusava e proponeva di dare soldi anche se non era certa di
averli rubati, evitava di avere a che fare con denaro di altri e addirittura
di avvicinarsi alle casse dei supermercati, spendeva ore ripercorrendo
con la memoria ciò che aveva fatto per escludere con certezza di aver
rubato. Esasperata dal dubbio e dalla difficoltà di risolverlo, cercava di
sopprimerlo e di non pensarci.
Questi tentativi di soluzione condividono con le compulsioni l'esse­
re intenzionali e finalizzati a risolvere il problema posto dalle ossessio­
ni (per esempio, Salkovskis, Westbrook, Davis et al., 1 997; Rachman,
Shafran, Mitchell et al., 1 996) . In particolare, sono anch'essi tentativi
di escludere con certezza la possibilità che si verifichi ciò che è temuto.
Un tentativo di soluzione che merita particolare interesse è la rumina­
zione. La ruminazione ossessiva può avere la forma di un ragionamento
vero e proprio o svolgersi in immaginazione. Il ragionamento ossessivo
è piuttosto caratteristico e ne abbiamo visto un esempio presentando il
caso di Maria. La ruminazione in immaginazione, invece, può avvenire in
due modi: retrospettiva o anticipatoria. Nel primo caso si ripercorre con
la mente un evento per controllare ciò che si è fatto: per esempio, aver
chiuso bene il rubinetto del gas o aver detto qualcosa di offensivo o aver
toccato qualcosa di contaminante. Nel secondo caso si immagina una
situazione per verificare che cosa si sarebbe disposti a fare: per esempio,
Davide, come abbiamo visto in precedenza, immaginava ripetutamente e
a lungo di uccidere il proprio padre per controllare se effettivamente era
un gesto che sarebbe stato disposto a compiere. Ruminazioni analoghe
sono utilizzate da pazienti ossessionati dal sospetto di avere desideri ses­
suali che giudicano disdicevoli. Per esempio, Paolo era ossessionato dal
timore di essere omosessuale, che per lui aveva una valenza moralmente
negativa. Al fine di fugare tale sospetto si impegnava per ore a immagi­
nare di avere rapporti omosessuali cercando la prova certa e definitiva
che i contatti sessuali con un uomo avrebbero suscitato in lui disgusto.
È interessante osservare che tutti gli esseri umani ricorrono a ragio­
namenti, a ricostruzioni del ricordo di eventi o ad anticipazioni di si-

28
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

tuazioni per risolvere problemi simili a quelli che si pongono i pazienti


ossessivi. In altre parole, chiunque, al fine di comprendere meglio che
cosa sarebbe disposto a fare, può ricorrere a immaginazioni analoghe a
quelle di Davide. Per esempio, se mi offrono un lavoro e sono incerto,
allora, oltre a ragionare sui vantaggi e gli svantaggi, posso immaginarmi
nella nuova situazione lavorativa per vedere se l'effetto emotivo che mi
suscita è positivo o negativo.
Alcuni studi (Ladouceur, Freeston, Rhéaume et al. , 2000; Muris,
Merckelbach, Clavan, 1 997 ) hanno dimostrato che la maggior parte
delle persone non ossessive ricorre a soluzioni simili a quelle adotta­
te dai pazienti ossessivi per gestire problemi posti da pensieri intrusi­
vi dal contenuto simile a quello delle ossessioni patologiche: controlli,
comportamenti scaramantici, ragionamenti, immaginazione retrospet­
tiva o anticipatoria, ricerca di rassicurazioni e soppressione dei pensie­
ri. La differenza principale è nell'accuratezza, nella ripetitività e nella
persistenza dei tentativi di soluzione ossessivi, che dipendono dalla lo­
gica che li guida: la ricerca della prova certa che l'evento temuto non
sia possibile.

L'INSIGHT CRITICO

La maggior parte dei pazienti ossessivi è, almeno in certi momenti,


critica nei confronti delle proprie preoccupazioni ossessive e dei tenta­
tivi di soluzione che mette in atto.
L'insight critico è oscillante e le oscillazioni dipendono dalla distanza
psicologica che il paziente vede tra sé e l'evento temuto. Maggiore la di­
stanza, maggiore, di solito, l'insight critico che, invece, tende a perdersi
se il paziente si percepisce a ridosso dell'evento temuto.
La critica che i pazienti fanno del loro disturbo può essere di due ti­
pi. Il primo riguarda i costi del disturbo: praticamente tutti i pazienti si
rendono conto che il disturbo, in particolare le compulsioni e gli altri
tentativi di soluzione, ha un impatto negativo sulla propria vita e sulla
vita di coloro che gli stanno attorno. Di conseguenza, spesso, i pazienti
tentano di contrastare e contenere il disturbo, per esempio anticipando
o procrastinando i tentativi di soluzione. La consapevolezza dei costi del
disturbo, ancorché oscillante, è presente in quasi tutti i pazienti, com­
presi i bambini. Per esempio è di comune osservazione che i ragazzi con
compulsioni scaramantiche tendono a concentrarle prima dell'ingresso
in classe, per evitare di dover fare rituali davanti ai compagni ed essere

29
La teoria

presi in giro. La critica che i pazienti fanno del loro disturbo può essere
anche doxastica, cioè il paziente ritiene le sue preoccupazioni ossessive
esagerate o francamente irrealistiche, come Maria che temeva ossessi­
vamente di contrarre l'AIDS: " So benissimo che l'AIDS non si contrae nel
modo che io temo ! " . Questa critica non è presente in tutti i pazienti e
spesso è assente nei bambini.

LE SPIEGAZIONI DEL DOC

Le ricerche scientifiche dedicate a spiegare il DOC possono essere


riassunte in tre filoni principali: neurologico, neuropsicologico e psi­
cologico.
ll primo presuppone che il piano ottimale di spiegazione del DOC sia
quello neurale, negli aspetti anatomofunzionali e/o biochimici (gli studi
sono riassunti e discussi nel capitolo VIII).
Il secondo cerca di individuare deficit cognitivi, per esempio delle
funzioni esecutive, che caratterizzino i pazienti ossessivi e diano ragio­
ne della sintomatologia (gli studi sono riassunti e discussi nel capitolo
IX di questo volume) .
Il terzo assume che per dare una spiegazione del DOC sia opportuno
ricorrere agli scopi e alle rappresentazioni con cui il paziente dà signi­
ficato e importanza agli eventi. Rientrano in questo filone le cosiddette
Appraisal Theories, che sono accomunate dall'idea che i sintomi ossessivi
siano sostanzialmente la conseguenza di alcune specifiche valutazione
che il paziente fa di se stesso e della realtà che lo circonda.
Il modello del DOC presentato in questo libro si inserisce in questo
filone di ricerca. Le Appraisal Theories del DOC, attualmente più diffu­
se, fanno riferimento a specifiche credenze (belie/s) come determinanti
prossimi dei sintomi ossessivi. Per esempio, Salkovskis attribuisce un
ruolo cruciale alla cosiddetta inflated responsibility, definita come "la
credenza che un individuo abbia il potere cruciale di determinare o
prevenire esiti negativi soggettivamente molto importanti. Questi esi­
ti vengono rappresentati dall'individuo come essenziali da prevenire.
Possono essere reali, cioè avere conseguenze nella realtà, e/o a livel-
2. li termine "valutazione" indica l'atto cognitivo con cui si attribuisce o si riconosce a un evento
il potere di aumentare o diminuire la distanza tra la realtà percepita e i propri scopi. La valutazione
può essere un atto cognitivo consapevole e deliberato, per esempio un ragionamento con il quale
si conclude che la persona amata si sta allontanando e che, quindi, un proprio scopo sentimentale
è compromesso, ma può consistere anche nella semplice percezione di un bambino di 3 anni che,
in un luogo sconosciuto e pieno di estranei, vede la mamma allontanarsi compromettendo, così, il
suo scopo dell'attaccamento (Miceli, Castelfranchi, 1992).

30
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

lo morale" (Salkovskis, Forrester, 2002) . In questa definizione è enfa­


tizzato il peso delle credenze fattuali (''La credenza che uno abbia il
potere cruciale di . . . " ) e valutative ( " . . . esiti negativi soggettivamente
molto importanti. Questi esiti vengono rappresentati dall'individuo
come essenziali da prevenire" ) , ma restano impliciti gli specifici cri­
teri delle valutazioni, cioè gli scopi, i valori, i bisogni rispetto ai quali
gli esiti sono valutati soggettivamente molto importanti o sono rappre­
sentati come essenziali da prevenire. Il modello del DOC che presentia­
mo in questo libro, invece, dà un'enfasi maggiore agli scopi coinvolti
nelle valutazioni alla base dei sintomi ossessivi. L'idea è che la mente
sia un apparato di regolazione finalistica (Castelfranchi, 2012; Carver,
Scheier, 1 998; Bowlby, 1 969; Miller, Galanter, Pribram, 1 95 3 ) costan­
temente attivo per rilevare e ridurre le discrepanze tra la rappresenta­
zione di come sono i fatti e la rappresentazione di come li si vorrebbe
o di come si assume che dovrebbero essere. Le rappresentazioni pos­
sono essere implementate a livello somato-sensoriale o come immagi­
ni mentali o come proposizioni e p ossono essere consapevoli o incon­
sapevoli. Gli scopi sono una famiglia di rappresentazioni che include
valori, desideri, aspettative, bisogni, obiettivi. In questa prospettiva,
dunque, le o ssessioni reattive sono pensieri con cui il paziente valu­
ta un evento discrepante, o meglio minaccioso, rispetto ai suoi scopi
(''E se toccando quella persona mi fossi contagiata? ! " ) ; mentre le os­
sessioni endogene, cioè i pensieri proibiti, sono eventi che il paziente
valuta discrepanti rispetto ai propri scopi o valori ( " Se penso di poter
guadagnare dalla m orte di mio padre allora forse sono uno psicopati­
co perverso e pericoloso che può arrivare al punto di uccidere il padre
per soldi ! " ) . Le emozioni negative che accompagnano le ossessioni
sono segnali della percezione della discrepanza e le compulsioni sono
dei tentativi di ridurla.
Vi sono diversi argomenti a favore dell'idea che i determinanti psico­
logici prossimi dei sintomi ossessivi siano scopi e credenze.

n primo argomento

n disturbo ossessivo è caratterizzato da emozioni negative e le emo­


zioni negative rimandano al riconoscimento di una discrepanza fra stato
percepito e stato desiderato. Esistono due approcci fondamentali alle
emozioni, cognitivista e non cognitivista. La differenza tra i due sta nel
fatto che il primo assume che l'evento attivante sia valutato tramite un
atto cognitivo, l'appraisal, mentre il secondo ritiene che "l'emozione

31
La teoria

stessa costituisca l' appraisal" (Prinz, Nichols, 2010, p . 1 19). L' appraisal
è l'atto con cui si riconosce se e quanto un evento compromette o soddi­
sfa i propri scopi, desideri, bisogni o le proprie aspettative (Miceli, Ca­
stelfranchi, 1 992) . Per i nostri fini attuali poco conta se l'appraisal è un
atto cognitivo o se è implicito nell'emozione stessa, ciò che conta è che
entrambi gli approcci, cognitivo e non cognitivo, assumono che alla base
dell'esperienza emotiva vi sia il riconoscimento di un effetto dell' even­
to critico sui propri scopi, bisogni o valori. Se si riconosce che l'evento
minaccia i propri scopi o li compromette o ne ritarda il raggiungimento
(Carver, Sheier, 1998) , allora si sperimentano emozioni negative. Le os­
sessioni attivano emozioni negative e le compulsioni tentano di ridurle.
Si potrebbe ribattere che, come afferma il DSM-5, siano possibili os­
sessioni che non evocano ansia. Questa affermazione, tuttavia, è com­
patibile con la tesi che le ossessioni siano, agli occhi del paziente, una
minaccia ai suoi scopi. Infatti, in alcune circostanze le compulsioni e gli
altri tentativi di soluzione, in particolare gli evitamenti, sono molto au­
tomatizzati ed efficaci, per cui l'ansia evocata dalle ossessioni è imme­
diatamente risolta. In questi casi, tuttavia, è sufficiente interrompere le
compulsioni e gli altri tentativi di soluzione per veder comparire l'ansia.

n secondo argomento

Secondo il DSM-5 sono possibili ossessioni senza compulsioni e, vi­


ceversa, compulsioni senza ossessioni. Ciò implicherebbe la non neces­
sità del legame funzionale tra ossessioni e compulsioni e dunque l'idea
che le ossessioni possano non costituire un problema per il paziente
e le compulsioni possano non avere il ruolo di tentativo di soluzione.
Foa, Kozak ( 1 995; citato in Abramowitz, 2006) hanno condotto uno
studio multicentrico su 4 1 1 pazienti. Il 96% ha riportato sia ossessioni
sia compulsioni nella lista di sintomi della Y-BOCS (Yale-Brown Obses­
sive Compulsive Scale; Goodman, Price, Rasmussen et al. , 1 989), so­
lo il 2 , 1 % ha riferito di avere prevalentemente ossessioni e solo 1' 1 ,7 %
ha riportato di avere prevalentemente compulsioni. A quanto sembra
nessuno ha riferito di avere soltanto compulsioni o soltanto ossessioni.
Per giunta 1'84 % ha riferito di mettere in atto le compulsioni o per pre­
venire un danno o per ridurre il distress. Questi dati suggeriscono che
una stragrande maggioranza di pazienti ha sia ossessioni sia compulsio­
ni e che per la maggior parte le compulsioni sono agite deliberatamente
con lo scopo di ridurre il problema posto dalle ossessioni (Abramowitz,
2006). Da notare che è possibile che ci siano ossessioni senza compul-

32
Le caratterz5tiche del DOC e gli interrogativi che solleva

sioni perché i pazienti possono ricorrere a tentativi di soluzione diversi


dalle compulsioni, come evitamenti e ruminazioni. Per esempio, Davi­
de, come abbiamo visto in precedenza, ricorreva a ruminazioni per ri­
solvere il sospetto indotto dai pensieri intrusivi, ma non metteva in at­
to comportamenti o atti mentali compulsivi come quelli descritti dal
DSM-5 . Le compulsioni possono essere automatizzate, quindi non è ne­
cessario che siano sistematicamente precedute da ossessioni, e perciò
possono apparire non finalizzate a uno scopo. I pazienti possono non
riferire il fine delle compulsioni per vergogna o per difficoltà introspet­
tive. Ulteriore supporto alla tesi che esiste un legame funzionale tra os­
sessioni e compulsioni viene da studi dai quali risulta che specifici tipi
di ossessioni e compulsioni sono statisticamente connessi fra loro: per
esempio, compulsioni di lavaggio sono connesse con ossessioni di con­
taminazione ma non con ossessioni di ordine e simmetria (Abramowitz,
Franklin, Schwartz et al. , 2003 ; Summerfeldt, Richter, Antony et al. ,
1999; Leckman, Grice, Boardman et al., 1 997). Inoltre, più frequenti e
stressanti sono le ossessioni, più intense e prolungate sono le compul­
sioni (Deacon, Abramowitz, 2005 ) .

n terzo argomento

Ci sono effettivamente dei casi in cui le ossessioni e le compulsioni


possono apparire prive di senso, che tuttavia si scopre con un'osserva­
zione più accurata.

Il paziente Giuseppe, di circa 50 anni, era afflitto da dubbi intrusivi, persi­


stenti e ripetuti che riguardavano eventi da lui stesso riconosciuti come assolu­
tamente banali e irrilevanti. Se per esempio, camminando per la strada, passava
davanti a un cartellone pubblicitario, dopo pochi metri era assalito dal dubbio
se sul cartellone vi fosse la pubblicità della FIAT o della FORD. Si sentiva a quel
punto costretto, per chiarire il dubbio, a tornare indietro e controllare. L' ope­
razione poteva protrarsi per ore. Il dubbio poteva riguardare altri fatti altret­
tanto banali, come, per esempio, se un passante avesse i baffi oppure no, se un
certo collega lo stesso giorno dell'anno precedente fosse stato di servizio oppu­
re in ferie o in malattia. Il paziente era disperato per l'assurdità dei suoi dubbi,
che gli apparivano del tutto insensati: "Ma a me non importa nulla se era una
FIAT o una FORD ! ! ! " . Era anche molto preoccupato per lo sconvolgimento che
il controllo dei dubbi arrecava alle sue giornate ma, soprattutto, era spaventa­
to per la funzionalità della sua mente.

L'interesse di questo caso sta nel fatto che apparentemente si tratta di


un controesempio dell'assunto cognitivista che attribuisce una finalità

33
La teoria

all'attività ossessiva. I dubbi e i controlli di Giuseppe sembravano infatti


insensati, come del resto lui stesso affermava, ma un'accurata indagine
clinica permise di rintracciarne il significato. Giuseppe, che viveva con
la moglie, una figlia e un cognato, non aveva mai avuto problemi di in­
teresse psichiatrico. La sintomatologia ossessiva era esplosa all'improv­
viso circa un anno prima dell'inizio della psicoterapia, qualche giorno
dopo un episodio per Giuseppe molto sgradevole. Il cognato era omo­
sessuale e circa una volta l'anno tentava degli approcci che Giuseppe
aveva sempre respinto con decisione. Quell'ultima volta, invece, aveva
reagito con un lieve ritardo, con qualche incertezza; insomma, non con
la prontezza di sempre. Nei giorni successivi si era preoccupato molto
della lentezza della sua reazione e gli si era insinuato il sospetto di un
possibile decadimento delle sue facoltà mentali e di poter commettere,
di conseguenza, quelli che per lui erano atti immorali. Per rassicurarsi e
per allenarsi, aveva cominciato a controllare il funzionamento della sua
memoria. Si metteva alla prova per vedere se riusciva a ricordare quello
che aveva mangiato il giorno prima, la pubblicità che era apparsa in te­
levisione nell'ora precedente, dove era andato lo stesso giorno dell'an­
no prima. Dopo un paio di giorni aveva avuto l'impressione che il gio­
co gli fosse sfuggito di mano e che, anzi, lo stesse prendendo troppo,
distraendolo da compiti più importanti. Allora aveva cercato di scac­
ciare dalla mente i dubbi, di non porsi più domande finalizzate a prova­
re la sua memoria. Questo tentativo si rivelò disastroso, poiché i dubbi
cominciarono ad aumentare e con loro anche la paura di Giuseppe, il
quale cominciò seriamente a temere di essersi messo sulla strada della
follia. Come soluzione, Giuseppe incrementò i tentativi di soppressione
dei propri pensieri e in questo modo ebbe sempre più la netta sensazio­
ne di affondare nelle sabbie mobili. Da notare che tutta l'attenzione di
Giuseppe era ormai attratta dai dubbi, dai tentativi di controllarli, dal
terrore della follia e, soprattutto, dalla dolorosa impressione di essere
lui stesso il principale responsabile del guaio in cui stava precipitando
ogni giorno di più. L'episodio originario e le ragioni dei dubbi erano
passati completamente in secondo piano e avevano ceduto il passo a una
preoccupazione ben più importante (Mancini, 2005) .

n quarto argomento

Le Appraisal Theories sono state oggetto di una critica interessan­


te. Per esempio MacLeod ( 1993 ) sostiene che le spiegazioni finalisiche
delle condotte ossessive si fondano sui resoconti dei pazienti che, per

34
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

esempio, riferiscono di controllare perché temono di essere responsabili


di un danno grave. In realtà, suggerisce MacLeod ( 1993 ) , i resoconti in­
trospettivi sono poco affidabili perché, per esempio, potrebbero essere
un tentativo di razionalizzare dei comportamenti che in realtà potreb­
bero essere l'espressione di processi neurali privi di qualunque motiva­
zione psicologica.
In realtà sono state identificate cinque caratteristiche, evidence ba­
sed, che differenziano condotte finalistiche da comportamenti meccanici
e automatici (Martin, Tesser, 2009). Esse sono: la persistenza sino al rag­
giungimento di un obiettivo, l' equifinalità, l'attitudine ad apprendere, la
variazione dello stato d'animo e lo sforzo. Per descrivere questi markers
(marcatori) utilizzeremo, come esempi, sintomi del tipo washing.
La prima caratteristica è la persistenza sino al raggiungimento di un
obiettivo e si riferisce alla tendenza di un organismo a perseguire uno
scopo finché non sia stato raggiunto; per esempio, una persona cerca
del cibo e, una volta trovato, lo mangia. Se dopo interrompe la ricer­
ca di cibo, è ragionevole pensare che quella persona avesse lo scopo
di mangiare. La tipica risposta di un paziente alla domanda "Perché
ti lavi le mani? " è: "Perché voglio prevenire una possibile contamina­
zione" . Coloro che si oppongono alle Appraisal Theories potrebbero
obiettare che questa non sia una risposta affidabile, bensì una raziona­
lizzazione a posteriori. Al contrario, noi riteniamo che la risposta sia
corretta: l ) perché il paziente interrompe i rituali di lavaggio una volta
raggiunta una sensazione accettabile di pulizia e una volta dissipati i
dubbi che sia ancora sporco; 2) perché quando il paziente è obbligato
a interrompere il rituale di lavaggio - per esempio, finisce l'acqua -,
egli riprende il rituale non appena l'acqua è nuovamente disponibile;
3) perché, quando il paziente non ha alcuna sensazione o dubbio di es­
sere sporco, egli non mette in atto le compulsioni di lavaggio; 4) perché
le compulsioni persistono finché il paziente teme di essere contamina­
to, ma se la soluzione adottata elimina il timore, i pazienti non cercano
altre soluzioni. Se, per esempio, si sentono rassicurati, non ricorrono
ai rituali di lavaggio.
La seconda caratteristica è l' equifinalità, che si riferisce alla capacità
di perseguire uno scopo attraverso più di una strategia. Per esempio,
siamo legittimati a ritenere che la condotta di ricerca del cibo sia rego­
lata da scopi e rappresentazioni e non segua uno schema fisso d'azione,
se osserviamo il ricorso a soluzioni diversificate a seconda delle circo­
stanze. Se una persona ha lo scopo di saziare la fame, allora si osserva
che può ricorrere a diverse soluzioni: può andare al ristorante; se lo tro-

35
La teoria

va chiuso, può entrare in una panetteria e comprare un panino; se non


lo trova, può tornare a casa propria e cucinarsi delia pasta o andare al
mercato e acquistare della frutta. È possibile osservare l' equifinalità an­
che nei pazienti ossessivi. Per esempio, quando i pazienti con ossessioni
di contaminazione non possono lavarsi le mani, cambiano comporta­
mento pur mantenendo lo stesso scopo: evitano di toccarsi con le ma­
ni sporche, ruminano sulla possibilità di essersi contaminati, chiedono
rassicurazioni, cercano altri modi diversi dall'acqua per pulirsi le mani
quali, per esempio, l'uso di disinfettanti.
La terza caratteristica è l'attitudine ad apprendere, cioè la tendenza
dell'organismo a "stabilizzarsi" sulla modalità più efficace per raggiun­
gere uno scopo. Una persona può imparare, per esempio, che mangiare
un panino soddisfa la sua fame più dei biscotti o di una mela. Esaminan­
do con attenzione le compulsioni dei pazienti con DOC, è possibile no­
tare come esse siano ottimizzate. Per esempio, il paziente può smettere
di utilizzare l'asciugamano per evitare di sporcarsi nuovamente o usare
una spazzolina per pulirsi le unghie al fine di rendere più accurato il la­
vaggio. In accordo con Carr ( 197 4 ) , la ritualizzazione stessa ha lo scopo
di ottimizzare le compulsioni, perché è un modo per ridurre il rischio
di errori nella procedura.
La quarta caratteristica che può aiutare a identificare i comportamen­
ti finalizzati è la variazione dello stato d'animo. Infatti, compiere progres­
si verso il raggiungimento di uno scopo è associato a stati d'animo posi­
tivi, mentre allontanarsi dal raggiungimento di uno scopo è associato a
stati d'animo negativi. Si osserva che, se le compulsioni di lavaggio van­
no a buon fine, il distress decresce, mentre, se le compulsioni vengono
ostacolate, il distress aumenta.
La quinta caratterisitca è lo sforzo: quando gli individui sono motiva­
ti al raggiungimento di uno scopo, possono dedicarvi impegno e sforzi
notevoli, che aumentano in proporzione alle difficoltà. Lo sforzo può
essere valutato mediante parametri fisiologici quali pressione sistoli­
ca e battiti cardiaci, ma anche considerando i sacrifici che il paziente è
disposto a compiere pur di mettere in atto le compulsioni. Per esem­
pio, se un paziente si sente contaminato, pur di lavarsi può rinunciare a
mangiare e a bere. Le compulsioni di lavaggio aumentano se aumenta il
grado di contaminazione sospettato dal paziente, cioè i suoi sforzi e sa­
crifici sono proporzionali alla gravità del rischio temuto e alla difficoltà
nel porre rimedio.

36
Le caratteristiche del DOC e gli interrogativi che solleva

SOMMARIO

I sintomi ossessivi possono essere distinti in quattro sottotipi: wa­


shing, checking, pensieri proibiti, ordine e simmetria. Ciascuno di essi è
composto da due elementi: ossessioni e compulsioni. Le ossessioni pos­
sono essere distinte in endogene, i cosiddetti pensieri proibiti che fan­
no sorgere nel paziente sospetti sulla propria moralità, e reattive, che
consistono in preoccupazioni per possibili eventi: per esempio, essere
responsabili, per sbadataggine, di una fuga di gas. Le compulsioni, as­
sieme ad altre attività quali evitamenti, ruminazioni e richieste di rassi­
curazioni, sono tentativi di risolvere il problema posto dalle ossessioni.
Il nesso funzionale tra ossessioni e compulsioni è cruciale per la com­
prensione del DOC. La natura finalistica delle compulsioni è dimostrata,
soprattutto, dall'equifinalità: si osserva che il paziente, per risolvere il
problema posto dalle ossessioni, è capace di ricorrere a diversi tentati­
vi di soluzione, cosa che non si osserverebbe se le compulsioni fossero
schemi fissi e automatici d'azione, vale a dire, se non fossero regolate

Tabella 1.5 Gli interrogativi posti dal DOC.

l. Perché nei pazienti ossessivi le idee intrusive si presentano con tanta frequenza
e sono così persistenti?
2. Perché i pazienti ossessivi danno credito a possibilità di pericolo improbabili
o addirittura implausibili, come per esempio poter contrarre l'AIDS scontrando
un passante?
3. Perché continuano a dar credito a possibilità remote di pericolo, non
occasionalmente, ma in modo protratto e sistematico, nonostante tutte
le informazioni di cui dispongono dovrebbero dimostrare loro il contrario,
nonostante paghino un enorme prezzo di sofferenza e limitazioni e nonostante
siano consapevoli di rappresentarsi la minaccia in modo esagerato?
4. Perché i tentativi di contrastare la propria credenza di pericolo, che i pazienti
sanno essere esagerata, non hanno successo?
5. Perché i tentativi di soluzione ossessivi sono così accurati, ripetitivi e persistenti?
6. E perché spesso sono ritualizzati?
7. Perché i tentativi di soluzione sono compulsivi ovvero pur essendo atti
intenzionali, frutto di una scelta, vengono vissuti dal paziente come atti obbligati,
che si sente costretto a fare?
8. E se sono atti intenzionali, perché i pazienti perseverano nelle condotte ossessive
nonostante sappiano di poter agire diversamente e che sarebbe meglio farlo,
lo desiderino e provino a contrastare le richieste del DOC?
9. Perché i timori dei pazienti ossessivi sono settoriali?
10. Quale insieme di scopi e credenze può rendere ragione delle incongruità
e delle variazioni che caratterizzano la sintomatologia ossessiva?

37
La teoria

da scopi. Il problema che sorge è individuare la natura degli scopi che il


paziente percepisce minacciati dalle ossessioni e che cerca di proteggere
con le compulsioni. Più in particolare, si tratta di identificare lo specifi­
co stato mentale, cioè l'insieme di scopi e credenze che possono rende­
re ragione degli interrogativi posti dal DOC, riepilogati nella tabella 1 .5
e cui daremo risposta nel capitolo IV di questo volume.

38
II

SCOPI E CREDENZE DETERMINANTI PROSSIMI


DEI SINTOMI OSSESSIVI
Francesco Mancini, Francesca D'Olimpio

Maria, come abbiamo visto precedentemente era ossessionata dall'i­


dea di contrarre l'AIDS. In particolare, il pensiero ossessivo "E se toc­
cando quella persona fossi stata contagiata? ! " appariva nella sua mente
spesso e in modo intrusivo, evocava in lei ansia e la sensazione di es­
sere sporcata. Maria cercava di neutralizzare la minaccia con compul­
sioni di lavaggio, richieste di rassicurazioni, evitamenti e ruminazioni.
Dunque, sia il suo distress emotivo sia le compulsioni di lavaggio, gli
evitamenti, le ruminazioni e le richieste di rassicurazione dipendeva­
no da contatti che venivano interpretati come una minaccia probabile,
incombente, ma, soprattutto, insopportabile e inaccettabile, e perciò
da eliminare del tutto e con certezza. Ma quali scopi erano minaccia­
ti? La salute?
L'aneddoto del trasloco, narrato nel capitolo precedente, dà un'im­
portante indicazione: quando Maria realizzò che la contaminazione
era talmente vasta da essere inaffrontabile, si tranquillizzò completa­
mente. Se la preoccupazione di Maria fosse stata la salute, allora l'ansia
sarebbe dovuta aumentare proprio per il fatto di scoprirsi impotente.
Invece, l'improvvisa e rapida tranquillizzazione derivò da un'inferenza
di Maria: se tutto era contaminato, allora non ci poteva fare nulla e se
si fosse contagiata, allora non sarebbe stata colpa sua. Ad impossibilia
nemo tenetur. Ciò suggerisce che la vera minaccia per Maria non fosse
il contagio, ma la colpa di averlo causato per sbadataggine, superficia­
lità o disattenzione.
Giovanni era ossessionato anche dall'idea di aver chiuso male la porta
di casa e, dunque, dalla minaccia che potessero entrare i ladri. Tentava
di risolvere questa minaccia con controlli ripetuti, con ruminazioni e ri­
chieste di rassicurazione. Anche in questo caso, la minaccia per Giovan-

39
La teoria

ni, non era tanto il danno materiale, quanto la colpa di averlo facilitato
per sbadataggine. Giovanni, infatti, non era ossessionato dalla possibi­
lità che la madre, con cui conviveva, lasciasse aperta la porta di casa, in
quanto, qualora fossero entrati i ladri non sarebbe stata colpa sua.
Davide soffriva di ossessioni endogene cioè pensieri del tipo: "Se i
miei muoiono becchiamo qualcosa " , che considerava indizi della pos­
sibilità di essere un assassino psicopatico disposto a uccidere i genitori
per l'eredità e, dunque, una persona moralmente indegna.
Roberto era ossessionato dall'ordine e dalla simmetria. Se non avesse
messo in ordine libri e fogli sulla sua scrivania, si sarebbe sentito colpe­
vole di far rischiare ai suoi cari incidenti e malattie.
L'analisi di questi casi suggerisce che la minaccia costituita dalle os­
sessioni sia una minaccia a scopi morali e che le compulsioni e le altre
attività siano finalizzate a prevenire o neutralizzare tale rischio.
La tesi su cui si fonda questo libro è che il determinante psicologico
prossimo dei sintomi ossessivi sia lo scopo di prevenire una colpa, più
specificatamente, come vedremo, una colpa deontologica, vale a dire
una colpa legata alla trasgressione di norme morali. L'eventuale falli­
mento di tale scopo è percepito come una catastrofe inaccettabile e in­
sopportabile.
L'idea che alla base del DOC vi sia un esagerato senso morale è antica.
Come anticipato nell'introduzione, già nel XVII secolo Taylor ( 1660) , un
vescovo che per primo descrisse in modo accurato il disturbo ossessi­
va-compulsivo (DOC), riteneva che alla radice del disturbo vi fosse una
scrupolosità esagerata, un eccesso di religiosità e una spiccata attitudi­
ne alla preoccupazione morale. Freud stesso ( 1909), nel famoso saggio
Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell'uomo dei
topi), ha sottolineato la rilevanza del senso di colpa. Più recentemente
la letteratura cognitivista (Salkovskis, Forrester, 2002; Obsessive Com­
pulsive Cognition Working Group [OCCWG] , 1 997 ; Rachman, 1 993 ;
Salkovskis, 1 985 ) , ha attribuito un ruolo cruciale per lo sviluppo e il
mantenimento del DOC all' inflated responsibilityl e al timore di colpa
(Mancini, Gangemi, 2004) .
Attualmente un'ampia serie di ricerche, sia di natura correlazionale
sia sperimentale, ha approfondito la relazione che esiste tra in/lated re­
sponsibility, timore di colpa e DOC.

l. I.: in/lated responsibility è la convinzione di avere il potere cruciale di causare o prevenire


esiti negativi soggettivamente molto importanti. Questi esiti sono rappresentati come essenziali da
prevenire. Essi possono essere reali, vale a dire che possono avere conseguenze nel mondo reale
e/o a livello morale (Salkovskis, Forrester, 2002) .

40
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

LE RICERCHE CORRELAZIONALI

Esiste un'associazione specifica tra responsabilità e colpa e la sinto­


matologia ossessiva. Numerosi studi hanno evidenziato che sia i pazienti
ossessivi sia i soggetti con sintomi simil-ossessivi tendono ad avere pun­
teggi più alti alle misure di responsabilità e di colpa (Menzies, Harris,
Cumming et al. , 2000; Salkovskis, Wroe, Gledhill et al. , 2000; Wilson,
Chambless 1999; Steketee, Frost, Cohen, 1998; Shafran, Watkins, Char­
man, 1996; Ladouceur, Rhéaume, Freeston et al., 1995; Rachman, Thor­
darson, Shafran et al. , 1 995 ; Rhéaume, Freeston, Dugas et al. , 1995a;
Rhéaume, Ladouceur, Freeston et al. , 1995b; Frost, Steketee, Cohn et
al., 1994; Freeston, Ladoceur, Gagnon et al., 1993 , 1 992; Steketee, Quay,
White, 199 1 ) . Questa associazione, inoltre, sembra essere specifica per
il DOC, in particolar modo per i checkers, e non è presente nei disturbi
d'ansia (Foa, Sacks, Tolin et al. , 2002 ; Foa, Amir, Bogert et al., 200 1 ;
Salkovskis, Wroe, Gledhill e t al., 2000).
Alcune ricerche hanno rilevato una correlazione positiva tra l'in/lated
responsibility e la gravità della sintomatologia ossessiva (Viar, Bilsky,
Armstrong et al., 20 1 1 ; Wheaton, Abramowitz, Berman et al., 2010).
Tuttavia, i risultati degli studi che hanno esplorato il legame esisten­
te tra credenze su responsabilità e colpa e il DOC non sono ancora con­
clusivi, giacché altre ricerche sembrano contraddire questi risultati da
almeno tre punti di vista.
Primo: secondo alcuni studi (Fergus, Wu, 201 1 , 2010; Calleo, Hart,
Bjorgvinsson et al. , 2010; Myers, Fisher, Wells, 2008; Tolin, Brady,
Hannan, 2008), i livelli di responsabilità non sembrano fortemente cor­
relati alla sintomatologia ossessiva.
Secondo: alcune ricerche riportano che la suscettibilità a colpa e re­
sponsabilità non sono specifiche del DOC, ma sono presenti anche nel
disturbo depressivo maggiore (Belloch, Morillo, Luciano et al., 20 10;
Fuchs, 2002 ; Bybee, Zigler, Berliner, 1996) , nel PTSD (Viar, Bilsky, Arm­
strong et al., 20 1 1 ; Hathaway, Boals, Banks, 2010; Wilson, Drozdek,
Turkovic, 2006) e in alcuni disturbi d'ansia (Tolin, Worhunsky, Malt­
by, 2006).
Terzo: non risulta chiaro se la suscettibilità a colpa e responsabilità
sia specifica del sottotipo checking. Infatti alcuni autori hanno riporta­
to la stessa associazione in pazienti del sottotipo washing (Taylor, Coles,
Abramowitz et al. , 2010; Tolin, Brady, Hannan, 2008; Coles, Horng,
2006; Sica, Taylor, Arrindell et al. , 2006; Obsessive Compulsive Cogni­
tion Working Group [OCCWG] , 2005 ; Menzies, Harris, Cumming et al.,

41
La teoria

2000) mostrando come le credenze relative all'in/lated responsibility e


alla sovrastima della minaccia siano dei predittori del senso di contami­
nazione nei DOC (Wheaton, Abramowitz, Berman et al. , 2010).
Riassumendo, l'ipotesi che la patologia DOC sia caratterizzata da
un'eccessiva propensione alla colpa e alla responsabilità è supportata
da numerose ricerche, ma non da tutte.
Considerando in maniera specifica il ruolo della colpa nel DOC, quin­
di, almeno tre quesiti restano aperti.
- I pazienti con DOC presentano una maggiore propensione alla colpa,
se paragonati a soggetti tratti dalla popolazione generale o a pazienti
con altri disturbi d'ansia?
La propensione al senso di colpa è correlata solo alla sintomatologia
checking o anche agli altri tipi di sintomi, in particolare alla sintoma­
tologia washing?
- La propensione al senso di colpa è correlata alla gravità dei sintomi
ossessivi?
In una ricerca di D'Olimpio, Cosentino, Basile e collaboratori (20 13)
è stato utilizzato il Guilt Inventory, un questionario più specifico per
il senso di colpa rispetto ai questionari utilizzati nella maggior parte
delle altre ricerche, e i risultati hanno corroborato l'ipotesi che i pa­
zienti DOC siano più suscettibili alla colpa rispetto ai soggetti ansiosi e
ai controlli non clinici. La propensione al senso di colpa era significa­
tivamente collegata con la gravità della sintomatologia ossessiva e non
sono state osservate differenze tra i sottotipi DOC. Inoltre, lo studio ha
osservato che la propensione al senso di colpa correlava con la propen­
sione al disgusto e che questo fenomeno era presente solo nel gruppo
dei pazienti ossessivi.
È possibile, tuttavia, che alcuni pazienti ossessivi abbiano punteg­
gi bassi ai test che misurano la propensione al senso di colpa, ma ciò
non falsifica la tesi che attribuisce al timore di colpa un ruolo cruciale
come determinante prossimo della sintomatologia ossessiva. Infatti,
per esempio, alcuni pazienti sono ossessionati dallo specifico timore
di essere blasfemi e di offendere Dio, ma ciò non implica che loro stes­
si presentino un'elevata propensione a sentirsi in colpa in altri domi­
ni morali che per loro non sono critici. Il timore di colpa, infatti, può
essere confinato in un dominio morale specifico, basato, per esempio,
su un'educazione religiosa rigida. Di conseguenza, i punteggi a test
che misurano la propensione alla colpa in tutti i domini possono ri­
sultare bassi.

42
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

LE RICERCHE SPERIMENTALI

Diversi studi sperimentali hanno dimostrato che, nei pazienti osses­


sivi, la diminuzione della responsabilità implica una diminuzione della
preoccupazione e dell'urgenza di eseguire i rituali di controllo compulsi­
vo. In uno studio (Lopatcka, Rachman, 1 995 ) lo sperimentatore stipula­
va un contratto con il paziente per cui la responsabilità del controllo, per
esempio del rubinetto del gas, era addossata completamente ed esclu­
sivamente allo sperimentatore, sollevando del tutto il paziente da ogni
possibile colpa legata a un'eventuale fuga di gas. A queste condizioni,
l'ansia del paziente per il rischio di una fuga di gas e l'urgenza di met­
tere in atto le compulsioni diminuivano significativamente, diminuiva
anche la probabilità attribuita al danno temuto. Anche Shafran ( 1997) ,
utilizzando u n campione d i pazienti con DOC, h a ottenuto risultati si­
mili. Questi risultati sono rafforzati da altre ricerche che prevedevano
la manipolazione della responsabilità e del timore di colpa in sogget­
ti non clinici (Mancini, D'Olimpio, Cieri, 2004; Ladouceur, Rhéaume,
Freeston et al. , 1995 ) . Da tali studi è emerso, infatti, che l'incremento
del senso di responsabilità per l'esito di un compito e, soprattutto, del
timore diumnnetfereet:mri_colpevoli, induce, in soggetti normali, com­
portamenti simil-ossessivi quali esitazioni, controlli ripetuti e prolungati,
e reazioni emotive corrispondenti a quelle riferite dai pazienti ossessivi,
come senso di incertezza, forte dubbiosità e ansietà. Questi studi hanno
tuttavia lasciato aperti due dubbi. Innanzitutto, negli studi di Lopatcka
e Rachman ( 1 995 ) e Shafran ( 1 997) l'incremento sperimentalmente in­
dotto di senso di responsabilità nei pazienti ossessivi, sempre nel domi­
nio sintomatico, non implicava un aumento della sintomatologia. Gli
autori hanno spiegato questo risultato suggerendo un effetto "tetto" ,
vale a dire che il senso d i responsabilità dei pazienti era già ai massimi
livelli e quindi non poteva essere ulteriormente aumentato. Senza la di­
mostrazione che l'aumento del timore di colpa implicasse un aumento
dei sintomi restava tuttavia il sospetto che la diminuzione del senso di
responsabilità potesse avere un effetto aspecifico sulla sintomatologia
ossessiva. In secondo luogo, gli studi fin qui citati avevano fatto riferi­
mento solo a sintomi e pazienti di tipo checking e, dunque, rimaneva
aperta la questione dell' estendibilità dei risultati anche ad altri tipi di
sintomi ossessivi, in particolare a quelli del tipo washing. Infine, gli studi
citati non avevano dimostrato che nei pazienti ossessivi vi fosse, rispetto
ai non ossessivi, un effetto maggiore dell'induzione di responsabilità e
del timore della colpa di non essere all'altezza delle proprie responsabi-

43
La teoria

lità. In un successivo studio, Arntz, Voncken e Goosen (2007) hanno ri­


solto questi dubbi mostrando che l'aumento della responsabilità e della
paura della colpa, anche in domini non sintomatologici, implica in tutti
i sottotipi DOC, e non solamente nei checkers, un aumento dei controlli
maggiore rispetto ai soggetti ansiosi e ai soggetti non clinici.
Inoltre, interventi terapeutici che riducono il senso di responsabilità
nel dominio sintomatico (Vos, Huibers, Arntz, 2012) o facilitano l'ac­
cettazione della colpa, anche in domini non sintomatologici (Cosentino,
D'Olimpio, Perdighe et al. , 2012), hanno mostrato di poter ridurre si­
gnificativamente tutti i tipi di sintomi ossessivi. Questi risultati suggeri­
scono che non soltanto i sintomi di tipo checking, ma anche quelli degli
altri sottotipi DOC, siano legati a un'elevata paura di sentirsi colpevoli.
Alcune ricerche dimostrano che un ipertrofico senso di responsabili­
tà predice ricadute del DOC e la comparsa di sintomi ossessivi nel post­
partum (Abramowitz, Schwartz, Moore et al., 2003 ) .
Anche studi d i neuroimmagine hanno prodotto prove a favore di
questa relazione. Per esempio, Takahashi, Yahata, Koeda e collaboratori
(2004) e Shin, Dougherty, Orr e collaboratori (2000) hanno trovato che
uno stato di colpa, in partecipanti non clinici, è legato ad attivazioni in
aree cerebrali simili a quelle implicate nel DOC.

DUE SENSI DI COLPA:


DEONTOLOGICO E ALTRUISTICO

Ma quale colpa preoccupa i pazienti ossessivi? La domanda nasce da


alcuni dati sperimentali e da alcune osservazioni cliniche. Come abbia­
mo visto sopra, la preoccupazione dei pazienti ossessivi rispetto a un
evento pericoloso, come per esempio un'esplosione di gas, è drastica­
mente ridotta se la responsabilità dell'evento non è attribuita a se stessi,
ma a qualcun altro (Lopatcka, Rachman, 1995 ) . Ciò suggerisce che la
preoccupazione dei pazienti ossessivi non sia rivolta a eventuali vittime
dell'esplosione, ma alla possibilità di esserne responsabili. I pazienti os­
sessivi sono spesso preoccupati di commettere peccati religiosi o contro
la morale sessuale, anche se nessuno ne è danneggiato. Come, per esem­
pio, il timore di desiderare rapporti sessuali con animali.
Dunque, sembra che a essere coinvolta sia una colpa per la quale la
presenza di una vittima non è necessaria. Questo senso di colpa non cor­
risponde al prototipo della colpa, come definito nella psicologia morale:
"Il tema relazionale, centrale per la colpa, è riassumibile in: 'Qualcuno

44
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

di cui ho cura è stato danneggiato e io ne ho la responsabilità in virtù di


ciò che ho fatto o ho omesso di fare'" (Prinz, Nichols, 2010, p. 134). Se­
con do gli autori, il prototipo di colpa, almeno nell'odierna cultura occi­
dentale, implica: l ) aver causato un danno, per azione o omissione e 2)
aver violato una norma morale. In effetti, molti dei sentimenti di colpa
che proviamo nella nostra quotidianità corrispondono al prototipo di
Prinz e Nichols e di solito derivano dall'assunzione di aver trasgredito
una norma morale e di non essersi comportati in maniera altruistica, per
esempio danneggiando gli altri.
Tuttavia, questi due tipi di assunzioni possono agire indipendente­
mente. Infatti è possibile provare un senso di colpa per la violazione
di un principio altruistico senza la trasgressione di una norma morale
(colpa altruistica), ed è altresì possibile provare un senso di colpa per
la trasgressione di una norma morale senza che ci sia una vittima (col­
pa deontologica) .
Per esperire una colpa altruistica sono necessari una vittima e l' assun­
zione di non aver agito in modo altruistico, ma può non essere presente
la violazione di norme morali. Al contrario, nel senso di colpa deonto­
logico può non esserci alcuna vittima, ma deve essere presente la tra­
sgressione di una norma morale.

n senso di colpa altruistico

Per provare senso di colpa altruistico è necessaria l'assunzione di aver


compromesso con un'azione/omissione un proprio scopo altruistico2 e
l'assunzione che si sarebbe potuto agire diversamente. n senso di col­
pa altruistico consiste in un senso di pena e di angustia per la vittima; il
dialogo interno è del tipo: "Povero amico, quanto soffre" , "Cosa posso
fare per lui? " e implica la tendenza ad alleviare la sofferenza della vitti­
ma a proprie spese.
Riportiamo di seguito due esempi:

Avevo dei sintomi sospetti e fui ricoverato in ospedale. Durante que­


sto periodo divisi la mia camera con un'altra persona, con cui diventai
amico. Dopo dieci giorni il medico mi informò che tutto era a posto e che

2. Uno scopo altruistico è uno scopo terminale che ha due contenuti: il bene dell'altro, inteso
sia come bene oggettivo (per esempio, che un figlio vada a scuola) sia come bene soggettivo (per
esempio, che il figlio non soffra). Un contenuto meno ovvio, che però appare evidente in caso di
legami affettivi stretti, è il desiderio di stare vicino all'altro se questi è in difficoltà (Parisi, 1977).
La vicinanza può anche essere non strettamente fisica e assumere la forma della partecipazione,
della condivisione: per esempio si ha il desiderio di stare accanto a un caro amico che ha subito un
lutto partecipando al suo dolore, tra l'altro, evitando di andare a divertirsi.

45
La teoria

sarei potuto tornare a casa. Stavo preparando la mia borsa quando il mio
amico entrò in camera. Era sconvolto: il medico gli aveva diagnosticato
un cancro. Ancora adesso non riesco a sopportare l'idea che io ho ripreso
la mia vita e lui è rimasto in ospedale affrontando un'esperienza terribile.
Mi sento in colpa per non aver condiviso la sua sorte. (Mancini, 2008)
Mi trovavo di guardia nel mio reparto ospedaliero quando mi hanno
chiamato da un altro reparto dove era ricoverato mio padre. Appena ar­
rivato mi resi conto che mio padre era entrato in coma e stava per mo­
rire. Tornai di corsa nel mio reparto per avvertire un paziente che non
avrei potuto parlarci quel giorno. Ritornai da mio padre e vidi che nel
frattempo era morto. A distanza ormai di diversi giorni mi sento ancora
molto in colpa per non essergli stato accanto, lo so che non sarebbe ser­
vito a niente, neanche a consolarlo, visto che era già in coma. Mi ripeto
anche, che mi sono allontanato per una buona ragione e che non pensa­
vo proprio che mio padre sarebbe morto così rapidamente, tuttavia mi
sento in colpa per non essergli stato vicino in quel momento, per non
avergli tenuto la mano mentre moriva. (Ibidem)

In questi esempi, il senso di colpa deriva dalla compromissione di


scopi altruistici, in particolare, dello scopo di essere accanto, condi­
videre, partecipare alla sofferenza della vittima. Non sembra che sia
coinvolta la trasgressione di una norma morale. Entrambi i protagoni­
sti avrebbero voluto stare accanto alla vittima, non per senso del do­
vere ma per amicizia e affetto. Si noti che loro stessi non avrebbero
condannato un'altra persona che si fosse comportata come loro. Ciò
suggerisce che il loro senso di colpa non deriva dal mancato rispetto
di una propria norma morale. Una norma infatti, per essere morale,
deve essere universale, nel senso che si assume che valga non solo per
se stessi ma anche per tutti gli altri, indipendentemente da contingen­
ze, come per esempio la presenza di una relazione affettiva. La norma
" non uccidere" vale per tutti nei confronti di tutti, non solo nel caso
di un legame affettivo.
Altre dimostrazioni che si possa provare senso di colpa anche senza
una chiara trasgressione provengono da alcune ricerche sull'amore non
corrisposto (Baumeister, Wotman, 1 992) . Infatti, chi si trova a essere
oggetto dell'innamoramento di un'altra persona e non contraccambia
questo sentimento, può sentirsi in colpa anche se è consapevole di non
aver fatto nulla per incoraggiare le attenzioni amorose dell'altro e di
non aver trasgredito alcuna norma morale. Questo esempio sembra di­
mostrare, quindi, che ci si può sentire in colpa anche se ci si trova sem­
plicemente coinvolti nella sofferenza immeritata di un altro e non si sa
cosa fare per alleviarla.

46
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

n senso di colpa deontologico

Il senso di colpa deontologico, diversamente da quello altruistico, de­


riva dall'assunzione di aver violato una propria regola morale, comporta
la sensazione di essere indegni, il dialogo interno è del tipo: "Come ho
potuto fare ciò ! " , implica la ricerca o l'aspettativa della punizione, può
essere alleviato anche attraverso la confessione e le scuse.
Riportiamo, anche in questo caso, due esempi:

Julie e Mark sono fratello e sorella. Stanno viaggiando insieme in


Francia durante le vacanze estive. Una notte sono soli in cabina vicino
alla spiaggia. Decidono che potrebbe essere interessante e divertente
provare a fare l'amore. Sarebbe una nuova esperienza per entrambi. J u­
lie già prende la pillola anticoncezionale, e Mark usa un preservativo,
per essere sicuro. A entrambi piace aver fatto l'amore, ma decidono di
non farlo mai più. Considereranno quella notte come un segreto spe­
ciale che li renderà perfino più vicini l'uno all'altro. (Haidt, Bjorklund,
Murphy, 2000)

Questa vignetta è stata sottoposta ad alcune migliaia di persone ap­


partenenti a culture diverse e tutti hanno giudicato moralmente disdi­
cevole la condotta dei due, nonostante fosse chiara l'assenza di conse­
guenze negative per alcuno ed entrambi fossero adulti e consenzienti.

Mi ero appena laureato in medicina, e avevo iniziato da poco le guar­


die in una clinica. Una sera, montando di guardia, trovai un paziente che
era entrato in coma a causa di un cancro dell'intestino ormai all'ultimo
stadio, anche nel sapore del coma il paziente si lamentava per i dolori. Il
primario mi disse di somministrare forti dosi di morfina che avrebbero
ridotto i dolori e avrebbero accelerato la morte. Mi accingevo a iniettare
la morfina, ma un pensiero mi traversò la mente: " Chi sono io per poter
decidere della vita e della morte di questa persona? Chi mi dà l 'autorità
di compiere un tale gesto e sostituirmi a Dio? " . Sfilai l'ago, altrimenti mi
sarei sentito troppo in colpa. (Mancini, 2008)

Questo è il resoconto di un'esperienza realmente vissuta. È da sot­


tolineare che il rispetto della norma morale ha implicato la sofferenza
del paziente, vale a dire che l'atto del medico non è stato finalizzato a
salvaguardare il bene o il diritto del paziente, ma a evitare la trasgres­
sione di una norma morale intuitiva, Not Play God, per la quale l'essere
umano non ha il diritto di decidere della vita e della morte di nessuno,
neanche della propria, ma deve rispettare autorità più elevate quali la
divinità per i credenti, il destino o l'ordine naturale per i non credenti.

47
La teoria

Prove empiriche della differenza


tra senso di colpa altruistico e deontologico

Diverse ricerche hanno dimostrato che questi due sentimenti di col­


pa sono distinti da un punto di vista sia comportamentale sia neurale.
Una prima serie di studi è stata condotta sulle scelte morali, utiliz­
zando il "dilemma del trolley" (Foot, 1967 ) . Nella sua forma originale
il dilemma del trolley chiede di immaginare che un carrello ferrovia­
rio stia correndo senza controllo su un binario dove si trovano cinque
persone che, se il carrello continuerà la sua corsa, verranno travolte e
uccise. Ai soggetti viene dunque chiesto se tirerebbero la leva di uno
scambio, deviando così il carrello su un altro binario dove, però, si trova
un'altra persona che sarà certamente travolta e uccisa. Questo dilem­
ma è particolarmente interessante per la distinzione tra le due colpe,
infatti, richiede ai partecipanti di scegliere tra due opzioni incompati­
bili, una altruistica/umanitaria e una deontologica. L'opzione altruisti­
ca/umanitaria consiste nel muovere lo scambio e causare la morte di
una persona al fine di salvarne cinque. Tuttavia, muovere lo scambio
equivale a prendersi la responsabilità di modificare il corso già segnato
degli eventi, cioè intervenire modificando l'ordine naturale. L'opzione
deontologica consiste nell'omettere di muovere lo scambio e lasciare
che cinque persone muoiano, ma non ci si prende la responsabilità di
modificare l'ordine naturale degli eventi e quindi si rispetta il principio
deontologico Not Play Cod. Secondo Sunstein (2005 ) questo principio
è in grado di spiegare la preferenza morale per l'inazione che si riscon­
tra tipicamente in questi dilemmi, dal momento che l'azione interferi­
sce con l'ordine naturale. In linea con questi studi, Gangemi e Man­
cini (2013 ) hanno mostrato che le persone che scelgono di non agire,
tendono a giustificare le loro scelta con il principio Not Play God (per
esempio: "Non posso decidere chi vive e chi muore " ) , mentre chi sce­
glie di agire si appella alla minimizzazione della sofferenza altrui, dun­
que a un principio altruistico/umanitario (per esempio: "Meglio che
muoia una persona piuttosto che cinque" ) . Inoltre, gli stessi autori han­
no evidenziato come l'induzione di colpa deontologica porti a una pre·
ferenza maggiore per l'inazione, mentre l'induzione di colpa altruistica
porti i partecipanti a fare scelte di azione (Mancini, Gangemi, 2015).
Uno studio di D'Olimpio e Mancini (2015) ha confermato il risultato
aggiungendo la prova che la preferenza per scelte omissive è ascrivibile
al senso di colpa deontologico e non alla vergogna. Un ulteriore studio
ha evidenziato come porre l'immagine di una autorità (per esempio,

48
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

un giudice o un poliziotto) accanto al soggetto aumenti le scelte di tipo


omissivo, mentre chiedere al soggetto di immaginarsi vicino alle cin­
que vittime aumenti le scelte di azione (Migliore, Curdo, Mancini et
al., 2014 ; Gangemi, Mancini, 2013 ) .
Altri ricercatori hanno riscontrato che il rispetto della norma morale
"Non si dicono le bugie" può frenare anche nel dire bugie bianche, dalle
quali deriverebbe un beneficio per l'ingannato e un piccolo danno per
l'ingannatore, e bugie di Pareto, in cui sia l'ingannato sia l'ingannatore
avrebbero un vantaggio. Il rispetto della norma morale, dunque, sem­
bra poter sopravanzare l'effetto della disposizione altruistica e coopera­
tiva (Biziou-van-Pol, Haenen, Novaro et al. , 2015 ) . Mancini e Mancini
(2015), utilizzando il paradigma dell'Ultimatum Game in terza persona/
hanno riscontrato che le persone in cui è attivo il senso di colpa deonto­
logico si percepiscono moralmente meno autorevoli, cioè si ritengono
meno autorizzate a esprimere giudizi morali su altre persone, di quanto
accada inducendo senso di colpa altruistico.
Nella stessa direzione vanno i risultati dello studio di Basile e Mancini
(201 1), dove gli autori hanno attivato separatamente i due tipi di colpa
usando come stimoli espressioni facciali e frasi del dialogo interno tipica­
mente associate a quel sentimento di colpa. Facce arrabbiate e sprezzanti
con frasi del tipo "Come mi sono potuto permettere! " , e facce tristi con
frasi del tipo "Come ho potuto !asciarla sola " . Inoltre, Basile, Mancini,
Macaluso e collaboratori (20 1 1 ) , in uno studio che ha utilizzato la riso­
nanza magnetica funzionale, hanno trovato un'attivazione dell'insula e
della corteccia cingolata anteriore nella condizione di colpa deontologi­
ca, e delle aree prefrontali mediali nella condizione di colpa altruistica.
Questi risultati appaiono particolarmente interessanti non solo perché
mostrano che le due colpe possono essere "tracciate" su circuiti cerebrali
diversi e, dunque, sono due emozioni diverse, ma anche per le specifi­
che aree implicate nei due sensi di colpa. Infatti, le aree prefrontali me-
3. Nell Ultima tum Game il cosiddetto proponente riceve una somma che deve condividere
'

con il ricevente. Il proponente può decidere quanta parte dare al ricevente e quanta parte tenere
per sé. Il ricevente può decidere se accettare o rifiutare la proposta. Se la rifiuta nessuno dei due
ottiene nulla. Da notare che, nell' Ultimatu m Game, una proposta può essere considerata equa,
per esempio se è 50% per ciascuno, o iniqua, se per esempio il proponente lascia solo il 20% al
ricevente, ma le proposte sono sempre finanziariamente vantaggiose per il ricevente perché l'al­
ternativa è non avere nulla e, dunque, chi la rifiuta lo fa esclusivamente per ragioni di giustizia.
Nella versione cosiddetta in terza persona, utilizzata nell'esperimento citato, la decisione di ac­
cettare o rifiutare la proposta del proponente spettava a un giudice che decideva per conto del
ricevente, senza che gliene derivasse alcun beneficio. Nell'esperimento, i soggetti in cui era stata
indotta fierezza morale e quelli in cui era stato indotto senso di colpa altruistico, consideravano
inique e inaccettabili proposte che i soggetti non si sentivano in diritto di sanzionare rifiutandole,
pur considerandole ingiuste.

49
La teoria

diali sono attivate da compiti di teoria della mente e sono associate alla
rappresentazione delle intenzioni altrui (vedi per esempio Blair, 1995 o
Shallice, 2001 ) e alla esperienza di empatia e compassione. Sono dunque,
aree coinvolte nella comprensione della mente della vittima (Moli, de
Oliveira-Souza, Moll et al., 2005 ) . L'insula, invece, è associata a esperien­
ze di disgusto e auto-rimprovero (Rozin, Haidt, McCauley et al., 2000).

IL RUOLO DELLA COLPA DEONTOLOGICA NEL DOC

In un recente studio (Basile, Mancini, Macaluso et al. , 2013 ) di riso­


nanza magnetica funzionale (fMRI, functional Magnetic Resonance Ima­
ging) gli autori hanno investigato la risposta cerebrale di pazienti osses­
sivi, durante il processamento di stimoli legati alla colpa deontologica
e altruistica. Se paragonati ai soggetti sani, i pazienti ossessivi mostrano
una riduzione dell'attivazione nella corteccia cingolata anteriore, nell'in­
sula e nel precuneo, quando processano stimoli legati alla colpa deonto­
logica. Nessuna differenza è presente, invece, se sono processati stimoli
legati alla colpa altruistica, o ad altre emozioni quali rabbia o tristezza.
Gli autori hanno suggerito che un'attivazione ridotta può riflettere l' ef­
ficienza cerebrale del paziente, che deriva dalla frequente esposizione
al senso di colpa deontologico, fenomeno conosciuto come Neural Ef­
fìciency Hypothesis4 (Neubauer, Fink, 2009).
In due ulteriori esperimenti, D 'Olimpio e Mancini (2014) si sono
chiesti se l'induzione di colpa deontologica, ma non quella altruistica,
possa attivare comportamenti di controllo e di lavaggio simil-ossessivi.
I risultati hanno mostrato che l'induzione della colpa deontologica, ri­
spetto a quella altruistica, produce maggiori dubbi e sofferenze, oltre
che un numero maggiore di controlli e comportamenti di lavaggio.
In una ricerca successiva (Mancini, Gangemi, 2015) si è visto che
pazienti ossessivi risolvono quasi sempre il dilemma del trolley in mo­
do emissivo, cioè non muovendo lo scambio, contrariamente a quanto
avviene in altri soggetti clinici e non clinici, ma similmente a quanto av­
viene in chiunque si senta in colpa deontologica. D'Olimpio e Mancini
(20 15 ) hanno trovato che soggetti con alta propensione a ossessioni e
compulsioni, ma senza diagnosi di DOC, prediligono scelte emissive, an­
che dopo aver controllato l'effetto di ansia e depressione.
4. La Neural Efficiency Hypothesis postula che individui addestrati mostrano un'attivazione
corticale minore di individui meno addestrati (Neubauer, Fink, 2009). Come dire che una persona
molto addestrata può risolvere un Sudoku con un'attivazione corticale minore di quella richiesta
da una persona meno addestrata.

50
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

A questi si aggiungono altri dati che mostrano una correlazione, sta­


tisticamente significativa, fra religiosità e DOC (Abramowitz, Deacon,
Woods et al., 2004) e fra scrupolosità e DOC (Huppert, Siev, Kushner,
2007 ; Sica, Novara, Sanavio, 2002 ) .
L a possibilità di avere una colpa, in particolare deontologica, appare
ai pazienti ossessivi non come un evento molto spiacevole e doloroso,
come è per i più, ma come una catastrofe, vale a dire come qualcosa di
imperdonabile, insopportabile, attraverso il quale non si può passare.
A riprova ci sono alcuni dati di ricerca.
Enholt, Salkovskis e Rimes ( 1999) hanno messo in evidenza che i p a­
zienti con DOC riferiscono il timore che gli altri possano considerarli in
modo negativo, molto più dei pazienti con disturbi d'ansia e di soggetti
di controllo non ansiosi, e, in particolare, che possano provare disgusto
e disprezzo nei loro confronti, qualora fossero responsabili di errori dan­
nosi. In altri termini, i pazienti ossessivi sembrerebbero particolarmente
sensibili ad accuse e a critiche sprezzanti a causa delle loro colpe, reali
o temute. Alcune osservazioni cliniche suggeriscono la possibilità che il
timore di meritare disgusto e disprezzo sia, per i pazienti ossessivi, un
timore assai concreto, vale a dire legato alla possibilità effettiva di tro­
varsi di fronte persone con espressioni disgustate o rabbiose.
Mancini, Gangemi e Johnson-Laird (2007) hanno trovato che, di
fronte a espressioni di disprezzo e rabbia immaginate come meritata­
mente rivolte verso di sé, i pazienti ossessivi rispetto a pazienti con di­
sturbi d'ansia reagiscono con maggior disagio emotivo, spesso dram­
maticamente intenso. I pazienti ossessivi si aspettano molto più di altri
pazienti che, se i loro timori dovessero realizzarsi (per esempio, se Maria
contraesse l'AIDS per propria superficialità), si troverebbero di fronte a
espressioni aggressive e sprezzanti. Queste espressioni facciali ben rap­
presentano le conseguenze interpersonali della colpa, in particolare di
quella deontologica, diversamente da espressioni come la tristezza, che
sono più compatibili con le conseguenze interpersonali di una colpa al­
truistica (Basile, Mancini, 201 1 ) .

LA RELAZIONE FRA SENSO D I COLPA


DEONTOLOGICO E DISGUSTO

Il DOC si manifesta con sintomi esplicitamente connessi al timore di


colpa e sintomi legati alla contaminazione da parte di sostanze non solo
pericolose, ma disgustose. Dunque, per chi intende spiegare il DOC è di

51
La teoria

particolare interesse la relazione tra senso di colpa e disgusto e, in par­


ticolare, tra senso di colpa deontologico e disgusto.
A partire dalla constatazione che in tutte le religioni, i peccati spor­
cano la coscienza e il lavaggio la purifica, la letteratura scientifica ha
suggerito l'esistenza di una forte relazione tra senso di colpa e disgusto
(Lee, Schwarz, 201 1). Diversi studi hanno confermato la relazione tra
la componente fisica del disgusto, la contaminazione morale e la neces­
sità di lavarsi (per esempio, Doron, Sar-EI, Mikulincer, 2012 ) . A questo
proposito Zhong e Liljenquist (2006) hanno descritto "l'effetto Lady
Macbeth" (o "effetto Macbeth" ) , spiegando come "una minaccia alla
purezza morale implica l'esigenza di lavarsi" e come la pulizia fisica al­
levia le conseguenze del comportamento immorale e riduce la minac­
cia alla propria immagine morale (Lee, Schwarz, 2010; Schnall, Ben­
ton, Harvey, 2008; Schnall, Haidt, Clore et al., 2008). Tuttavia, diversi
studi non hanno replicato questo effetto (per esempio, Earp, Everett,
Madva et al. , 2014; Gamez, Diaz, Marrero, 201 1 ; Fayard, Bassi, Bern­
stein et al. , 2009).
La diversità di risultati ottenuti può essere spiegata se si conside­
ra che l'effetto Macbeth sia dovuto alla componente deontologica del
senso di colpa e non a quella altruistica. In tutti gli studi citati, infat­
ti, non erano state controllate le due componenti, altruistica e deon­
tologica.
Che esista un legame specifico fra il disgusto e la componente deonto­
logica del senso di colpa, ma non quella altruistica, è suggerito dai risul­
tati di Basile, Mancini, Macaluso e collaboratori (20 1 1 ) che, come abbia­
mo visto sopra, mostrano che il disgusto condivide parte del substrato
neurale con il senso di colpa deontologico ma non con quello altruistico.
Vanno nella stessa direzione i risultati di Radomsky e Elliott (2009),
che hanno mostrato che giovani donne alle quali era richiesto di imma­
ginare di subire un bacio indesiderato si sentivano sporcate e avevano
l'impulso di lavarsi, ma ciò che è interessante ai nostri fini è che la sen­
sazione di essere sporcate e l'impulso di lavarsi erano maggiori se le si
induceva a immaginare di essere state responsabili del bacio e, ancor di
più, se l'autore del bacio era immaginato come una persona immorale.
Rachman, Radomsky, Elliot e collaboratori (2012) hanno osservato che
i maschi che immaginavano di dare un bacio non consensuale a una ra­
gazza riferivano sensazioni di sporcizia, urgenza di lavarsi e, se gli veni­
va chiesto di immaginare altri elementi di trasgressione, allora l'urgenza
di lavarsi e il senso di sporcizia aumentavano ulteriormente, fenomeno
che testimonia l'importanza della componente trasgressiva nel desiderio

52
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

di lavarsi. Similmente Lee, Blumenfeld e D'Esposito (2013) hanno di­


mostrato che la contaminazione mentale può essere evocata ricordando
eventi associati con il tradimento e l'immoralità, ma che non concernono
la violazione fisica. Quando Rozin ha indagato le reazioni alla prospet­
tiva di indossare una camicia di Hitler, perfettamente lavata, la maggior
parte delle persone ha riferito di non sentirsi a proprio agio: " La con­
taminazione del disgusto è generalizzata alle questioni morali, e questa
è una caratteristica profonda del disgusto" (Jones, 2007 ) . Similmente,
Coughtrey, Shafran e Rachman (2014) hanno riscontrato che immagina­
re di indossare abiti appartenuti a persone immorali porta a sensazioni
di contaminazione e all'urgenza di lavarsi. Lee e Schwarz (2010) hanno
chiesto ai partecipanti all'esperimento di comunicare, all'interno di un
gioco di ruolo (role playing) , una bugia attraverso un messaggio voca­
le (utilizzando la bocca, quindi) o via e-mail (usando le mani). Si noti
che si trattava di una trasgressione morale pura della norma " Non si di­
cono bugie" , poiché ai soggetti non era suggerito che la bugia avrebbe
potuto causare un danno a qualcuno. Successivamente, ai partecipanti
veniva chiesto di valutare diversi prodotti di consumo, inclusi colluto­
rio e disinfettante per le mani. Come ci si aspettava, i partecipanti che
avevano pronunciato la bugia preferivano il collutorio al disinfettante
per le mani, mentre coloro che avevano scritto la stessa bugia preferiva­
no il disinfettante per le mani al collutorio. Inoltre, i partecipanti erano
disposti a pagare di più il prodotto che avrebbe pulito la loro parte del
corpo "sporca" . Quando le persone ricevono offerte ingiuste nell' Ulti­
matum Game, il loro programma motorio facciale del disgusto è attivato
ed è più probabile che riportino un disgusto maggiore ( Chapman, Kim,
Susskind et al. , 2009) . Il già citato studio di D'Olimpio e Mancini (2014)
rivela che l'induzione del senso di colpa deontologico, ma non di quel­
lo altruistico, implica una maggior tendenza ai lavaggi e che il lavaggio
riduce il senso di colpa deontologico, ma non quello altruistico. Questi
risultati suggeriscono una relazione stretta, quasi una sovrapposizione,
fra senso di colpa deontologico e disgusto.

La relazione fra senso di colpa deontologi co


e disgusto nel DOC

Se, come abbiamo sostenuto in precedenza, i pazienti ossessivi sono


più propensi e sensibili al senso di colpa deontologico rispetto ad altre
persone, allora dovrebbero presentare anche una connessione fra senso
di colpa e disgusto più stretta rispetto ad altre persone. A sostegno di

53
La teoria

questa ipotesi vi sono alcuni dati. Innanzitutto, l'effetto Macbeth, vale


a dire la tendenza di chi si sente in colpa, a sentirsi anche sporco e a tro­
vare un sollievo morale nei lavaggi, è decisamente più netto nei pazienti
ossessivi che in altri soggetti (Reuven, Liberman, Dar, 2013 ) . Inoltre, il
disgusto morale nelle persone con bassa sintomatologia ossessiva è me­
taforico, mentre ha le stesse caratteristiche fisiologiche del disgusto fisico
in coloro che presentano una tendenza ad avere ossessioni e compulsio­
ni (Ottaviani, Mancini, Petrocchi et al. , 2013 ) . Infine, solo nei pazien­
ti ossessivi la colpa di tratto e la propensione al disgusto sono correlati
(D'Olimpio, Cosentino, Basile et al., 2013 ) .
Dagli ultimi due paragrafi sembra di poter trarre due conclusioni. La
prima è che il senso di colpa deontologico, ma non quello altruistico,
facilita il disgusto e attiva il desiderio di pulizia, mentre il lavaggio lo ri­
duce. La seconda è che nei pazienti ossessivi il timore di contaminazio­
ne da parte di sostanze disgustose sia influenzato o addirittura sovrap­
ponibile al timore di colpa deontologica. Nei due paragrafi successivi
considereremo prima la relazione fra disgusto e morale e poi il timore
di contaminazione nel DOC.

IL DISGUST05

Nell'opinione dei più, il disgusto è un'emozione di base, la cui funzio­


ne evolutiva è la protezione della salute da malattie contagiose e dall'in­
gestione di sostanze tossiche (Oaten, Stevenson, Case, 2009; Rozin, Fal­
lon, 1987) . Si ritiene che con l'evoluzione della società, la repulsione per
sostanze materiali si sia espansa ai domini socio-morali (Rozin, Haidt,
2013 ) . Pertanto, accanto al disgusto fisico, attivato dal cibo contamina­
to, dai prodotti corporei (per esempio, feci e vomito), da specifici ani­
mali (per esempio, vermi e scarafaggi) , vi è il disgusto morale suscitato
da trasgressioni socio-morali. Più specificatamente, ci sono due tipi di
disgusto morale: comportamenti sessuali immorali (per esempio, in­
cesto, sesso con gli animali, pedofìlia, masturbazione, prostituzione) e
comportamenti immorali non sessuali (per esempio, ingannare, rubare
e uccidere) (Tybur, Lieberman, Kurzban et al., 2013 ; Tybur, Lieberman,
Griskevicius, 2009; Borg, Lieberman, Kiehl, 2008).
Secondo Rozin, Haidt e McCauley (2008) il disgusto segnala un par­
ticolare insieme di preoccupazioni morali - descritte in origine da Ri-
5. li disgusto e le modalità con cui gli esseri umani si rappresentano come avviene la contami·
nazione saranno descritti con maggiori dettagli nel capitolo XIV di questo volume, dedicato agli
interventi sul disgusto.

54
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

chard Shweder (Shweder, Much, Mahapatra et al., 1997 ) ed elaborate


da Haidt (2012) - che includono la santità, la divinità e la protezione di
ciò che viene percepito come essere un valore o un oggetto sacro. Esem­
pi includono il consumo di carne per gli induisti, l'incesto, la blasfemia,
il tradimento e le azioni che sono viste come " abiette" o "sub-umane" .
Coloro che trasgrediscono sono visti come "inquinati" e le persone spes­
so non vogliono toccarli o entrare in contatto con cose che sono state da
loro toccate. Rozin, Haidt e McCauley (2008) hanno evidenziato come
diverse culture immaginino una dimensione verticale della cognizione
sociale, con la/le divinità al vertice e i demoni e gli animali alla base. Gli
stessi autori affermano che, per provare disgusto morale, una persona
deve valutare che un altro essere sia sceso lungo questa dimensione ver­
ticale. "Gli occidentali contemporanei hanno gradualmente perso con­
tatto con l'etica della divinità, riducendo il dominio morale a ciò che
Shweder chiama 'l'etica dell'autonomia'6 (Rozin, Lowery, lmada et al.,
1999; Shweder, Much, Mahapatra et al. , 1997), ma il disgusto e le preoc­
cupazioni per la dimensione divina, continuano a giocare un ruolo im­
portante in diverse controversie politiche, dall'aborto e l'eutanasia, ai
matrimoni gay e al rispetto per i simboli, come la bandiera nazionale"
(Rozin, Haidt, 2013 ) .
In conclusione, s e consideriamo l a relazione fra senso di colpa e di­
sgusto, a partire da quest'ultimo ritroviamo una relazione stretta fra le
due emozioni, se non addirittura una vera e propria sovrapposizione.

n ruolo del disgusto


e del timore di contaminazione nel DOC

Il disgusto e il timore di contaminazione sono tra i determinanti psi­


cologici prossimi di alcuni sintomi ossessivi, in particolare delle com­
pulsioni di lavaggio. Più specificatamente, le compulsioni di lavaggio
6. [L'Etica dell'Autonomia] Violazioni alla libertà/diritti individuali. In questi casi un'azione
è sbagliata perché danneggia direttamente un'altra persona, o infrange i suoi diritti come indivi­
duo. Per decidere se un'azione è sbagliata, si prenda in considerazione tutto ciò che ha a che fare
con il danno, i diritti, la giustizia, la libertà, l'equità, l'individualità e l'importanza della scelta in­
dividuale e la libertà.
[L'Etica della Comunità] Violazioni alla comunità!gerarchia. In questi casi un'azione è sbaglia­
ta perché una persona non rispetta i propri doveri verso il gruppo, o la gerarchia sociale all'interno
del gruppo. Per stabilire se un'azione è sbagliata si prenda in considerazione tutto ciò che ha a che
fare con il dovere, gli obblighi legati al ruolo, il rispetto dell'autorità, la lealtà, l'onore di gruppo,
l'interdipendenza e la conservazione della comunità.
[L'Etica della Divinità] Violazioni alla Divinità/integrità. In questi casi una persona non rispetta
la sacralità di Dio, o provoca degrado a se stessa o agli altri. Per decidere se un'azione è sbagliata,
si rifletta su tutto ciò che riguarda il peccato, l'ordine naturale delle cose, la santità e la protezione
dell'anima o del mondo dalla degradazione e dalla sporcizia spirituale.

55
La teoria

hanno almeno tre motivazioni connesse con il disgusto e il senso di


colpa. La prima è l'allontanamento di sostanze disgustose, ma non pe­
ricolose. Per esempio, un adolescente con un grave disturbo ossessivo
metteva in atto rituali di lavaggio, che potevano durare anche un'intera
notte, dopo aver defecato o urinato pur di non sentirsi disgustosamen­
te contaminato dai propri escrementi. Da notare che i lavaggi non era­
no finalizzati a salvaguardare la salute sua o di altri; infatti non pensava
che la contaminazione da parte dei propri escrementi potesse causare
qualche malattia. Piuttosto, si intravedeva un nesso con il senso di colpa
deontologico: infatti, riferiva che la sensazione di disgusto che prova­
va al contatto con i propri escrementi era molto simile a quella di colpa
dopo aver commesso degli atti sessuali, a suo awiso, peccaminosi. Rife­
riva, inoltre, che se non si fosse lavato si sarebbe sentito in colpa, come
se avesse dato l'assenso al proprio degrado morale. In secondo luogo,
le compulsioni di lavaggio possono avere lo scopo di neutralizzare il di­
sgusto morale. Per esempio, un paziente ricorreva a rituali di lavaggio
per purificarsi dal contatto con persone che ipotizzava aver commesso
atti, a suo awiso, immorali, come rapporti omosessuali. 7 In terzo luogo,
i pazienti ossessivi possono essere spaventati da contaminazioni non so­
lo disgustose ma ritenute pericolose per la salute propria o altrui, come
nel caso di Maria. In questi casi, non agire le compulsioni di lavaggio
implica la colpa di aver trascurato il dovere di salvaguardare la salute
propria e/o altrui. In tutti e tre i casi, quindi, sembra di cogliere un nes­
so fra contaminazione disgustosa e senso di colpa.
La relazione fra DOC e propensione al disgusto, cioè la tendenza a
provare spesso e intensamente il disgusto, è stata oggetto di numerose
ricerche con le quali si è cercato di rispondere a tre domande:
I pazienti ossessivi mostrano una maggiore propensione al disgusto
rispetto ai soggetti con disturbi d'ansia o ai soggetti non clinici?
I sottotipi checking e washing mostrano differenze nella propensione
al disgusto?
Esiste una correlazione tra propensione al disgusto e gravità dei sin­
tomi ossessivi?
La risposta al primo quesito appare sostanzialmente affermativa. Infat­
ti, diverse ricerche che hanno utilizzato misure self-report (Melli, Chiorri,
Carraresi et al., 2015; Cisler, Brady, Olatunji et al., 2010; Olatunji, Cisler,
7. il concetto di contaminazione morale è parzialmente sovrapponibile alla menta! contamina­
tion di cui parla Rachman (2006). In realtà, il concetto di menta! contamination include due aspetti,
ben diversi fra loro: la possibilità di sentirsi contaminati anche senza un contatto fisico e la possi­
bilità di sentirsi contaminati dal disgusto morale.

56
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

McKay et al., 2010; Cisler, Olatunji, Lohr, 2009; Schienle, Stark, Walter et
al., 2003 ; Thorpe, Patel, Simonds, 2003 ; Charash, McKay, 2002; Woody,
Tolin, 2002; Mancini, Gragnani, D'Olimpio, 200 1 ; Muris, Merckelbach,
Nederkoorn et al. , 2000) e compiti comportamentali - di evitamento ­
(Deacon, Olatunji, 2007 ; Olatunji, Cisler, Deacon et al. , 2007a; Tsao,
McKay, 2004) hanno mostrato che la propensione all'esperienza del di­
sgusto è associata alla sintomatologia ossessiva. Altri studi hanno riscon­
trato che i pazienti ossessivi mostrano una maggiore propensione al di­
sgusto rispetto ai soggetti con disturbi d'ansia o ai soggetti non clinici
(D'Olimpio, Cosentino, Basile et al., 2013 ; Olatunji, Tart, Ciesielski et al.,
201 1). Molte ricerche hanno dimostrato una relazione fra propensione al
disgusto e sintomi del tipo washing (Nicholson, Barnes-Holmes, 2012;
Olatunji, 2010; David, Olatunji, Armstrong et al., 2009; Cougle, Lee,
Horowitz et al. , 2008; Sawchuk, Olatunji, De Jong, 2006; Tolin, Woods,
Abramowitz, 2006; Olatunji, Williams, Lohr et al., 2005 ; Schienle, Stark,
Walter et al., 2003 ) . Olatunji (2010) ha trovato che la diminuzione del­
la reattività a stimoli disgustosi precede la riduzione dei sintomi del ti­
po washing in dodici settimane di trattamento intensivo. Altre ricerche,
tuttavia, hanno riscontrato che l'alta propensione al disgusto consente
di prevedere anche sintomi del tipo ordine e simmetria (Melli, Chiorri,
Carraresi et al., 2015) e sintomi del tipo checking e che questa relazio­
ne è indipendente dai livelli di ansia e di depressione (D'Olimpio, Co­
sentino, Basile et al. , 2013 ; Nicholson, Barnes-Holmes, 2012; Olatunji,
2010; Olatunji, Sawchuk, Lohr et al., 2004; Mancini, Gragnani, D'Olim­
pio, 2001). n dato non stupisce perché un'ampia percentuale di pazienti
soffre contemporaneamente di sintomi dei diversi tipi o, nel corso della
propria vita, è transitata da un tipo a un altro. Per esempio, è frequen­
te che pazienti il cui sintomo principale sono ossessioni e compulsioni
di controllo, soffrano anche per sintomi del tipo washing o ne abbiano
sofferto in passato. Infine D'Olimpio, Cosentino, Basile e collaboratori
(2013) hanno riscontrato una correlazione significativa tra propensione
al disgusto e gravità dei sintomi ossessivi.

IL RUOLO DELLA NOT JUST RIGHT


EXPERIENCE NEL DOC

La NotJust Right Experience (NJRE) è la sensazione che qualcosa non


è come dovrebbe essere, cioè che esiste un mismatch tra ciò che perce­
piamo e alcuni nostri criteri di riferimento (Fergus, 2014; Coles, Frost

57
La teoria

Heimberg et al. , 2003 ) , ma non tutti. Per esempio, immaginiamo uno


studente che entra nel sito della sua università per controllare l'esito di
un esame da poco sostenuto; supponiamo che si aspetti di aver preso
un buon voto e veda che, invece, è stato bocciato. In questo caso, seb­
bene vi sia un mismatch tra ciò che lo studente vede e i suoi criteri di
riferimento, cioè la sua aspettativa, sembra poco appropriato attribuir­
gli la sensazione che le cose non sono come dovrebbero essere, mentre
appare più appropriato attribuirgli il sentimento della delusione o l'e­
mozione della tristezza, della colpa o della rabbia. Immaginiamo, ora,
una persona alla quale il medico diagnostica una malattia gravemente
invalidante come la sclerosi multipla. È senz' altro appropriato dire che
questa persona percepisce una discrepanza fra la realtà comunicata dal
medico e uno dei suoi criteri di riferimento, vale a dire lo scopo e l'a­
spettativa di essere sana; anche in questo caso non proverà la NJRE, cioè
la sensazione che le cose non siano come dovrebbero essere, ma incre­
dulità, paura e disperazione.
I criteri di riferimento coinvolti nella NJRE hanno a che vedere con l'or­
dine, la normalità, l'esattezza, l'estetica e non con la sicurezza/pericolo
o il successo/insuccesso sociale o l'appartenenza/esclusione. Ciò che è
discrepante può essere un oggetto, una situazione, uno stato interno o
un comportamento. La NJRE ha le caratteristiche dell'intuizione: infatti
spesso non siamo in grado di identificare con chiarezza ciò che abbiamo
percepito dissonante e nemmeno di esplicitare i criteri di riferimento.
La NJRE è esemplificata da dieci item (riportati nella tabella 2 . 1 ) nel Not
Just Right Experiences-Questionnaire-Revised (Ghisi, Chiri, Marchetti
et al., 2010; Coles, Heimberg, Frost et al., 2005 ) . Per ciascuno dei dieci
item si chiede di indicare la gravità della sensazione, cioè la frequenza,
l'intensità, il disagio nell'immediato, il disagio successivo, la ruminazio­
ne, l'urgenza di rispondere e il senso di responsabilità a essa associati.
La NJRE può essere l'occasione per un'inferenza collegata ad altri cri­
teri o scopi. Per esempio, supponiamo di entrare in una casa di campa­
gna a noi familiare e di avere la sensazione, tra la sorpresa e la sgradevo­
lezza, che qualcosa non sia come dovrebbe essere. Non sappiamo dire
che cosa ci sembra anomalo, irregolare, diverso dal solito e non sappia­
mo neanche esplicitare i criteri rispetto ai quali intuiamo che qualcosa
non sia come dovrebbe essere, tuttavia è plausibile che da questa sensa­
zione inferiamo la possibilità che in casa ci sia un estraneo e che perciò
si attivi un'emozione di paura.
Janet, nel 1 903 , osservò nei racconti dei pazienti ossessivi il ricorren­
te riferimento a "un senso interno di imperfezione" e descrisse l'espe-

58
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

Tabella 2.1 Item del Not Just Right Experiences-Questionnaire-Revised, versione ita­
liana (Ghisi, Chiri, Marchetti et al., 2010; Coles, Heimberg, Frost et al., 2005).

l. Dopo essermi vestito ho avuto la sensazione che parti dei miei indumenti
(etichette, colletti, gambe dei pantaloni, maniche di camicia, ecc.) non calzassero
nel modo giusto.
2. Riponendo un libro sullo scaffale, ho avuto la sensazione che non fosse al posto
giusto con gli altri libri.
3. Chiudendo a chiave la porta di casa, ho avuto la sensazione che lo scatto della
serratura non fosse corretto come al solito.
4. Piegando i miei vestiti, ho avuto la sensazione che non avessero l'aspetto dei vestiti
piegati a dovere.
5. Prendendo nota di qualcosa, ho avuto la sensazione che le mie parole non
apparissero come avrei voluto.
6. Mentre parlavo con qualcuno, ho avuto la sensazione che le mie parole non
suonassero bene.
7. Ordinando la mia scrivania, ho avuto la sensazione che fogli, quaderni e altre cose
non fossero sistemati nella maniera giusta.
8. Mentre imbucavo una lettera, ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di
sbagliato nel modo in cui mettevo la busta nella cassetta delle lettere.
9. Dopo essermi lavato le mani, ho avuto la sensazione di non sentirmele pulite nel
modo in cui le mani dovrebbero sentirsi una volta lavate.
10. Appendendo un quadro alla parete ho avuto la sensazione che non fosse appeso
nel modo giusto.

rienza così: "Hanno la sensazione che le loro azioni siano state compiute
in modo incompleto e che non producano la soddisfazione ricercata"
(Pitman, 1987b, p. 226). La NotJust Right Experience può manifestarsi
attraverso diverse modalità sensoriali: attraverso la vista (per esempio,
di documenti o oggetti propri), attraverso l'ascolto preferenziale (per
esempio, per un suono monotonico), attraverso il tatto (come il tocco di
un tessuto) e attraverso la propriocezione (per esempio, la sensazione di
aver completato un'azione) . La NJRE può riguardare anche stati mentali
come mettere bene a fuoco un'immagine mentale o prodotti astratti co­
me la completezza di un calcolo mentale (Summerfeldt, 2004). Secondo
Rasmussen e Eisen ( 1992) i pazienti ossessivi spesso riportano una spinta
interna connessa al desiderio di avere le cose perfette, assolutamente cer­
te o completamente sotto il proprio controllo (Rasmussen, Eisen, 1 992,
p. 756). Finché questa sensazione di correttezza non è raggiunta, sono
afflitti dalla NJRE (Coles, Frost, Heimberg et al. , 2003 , p. 682). Coles e
collaboratori (Coles, Heimberg, Frost et al. , 2005 ; Coles, Frost, Heim­
berg et al. , 2003 ) concludono, quindi, che i pazienti ossessivi spesso ri­
portano la sgradevole sensazione che le cose non siano come dovrebbero

59
La teoria

essere. Inoltre, queste persone spesso descrivono di sentirsi costrette a


mettere in atto rituali finché non raggiungono la sensazione che le cose
sono come dovrebbero essere. La difficoltà a raggiungere questo stato
interno implica la tendenza a persistere in azioni tese a neutralizzare la
NJRE (Coles, Frost, Heimberg et al. , 2003 ) .
U n dato ricorrente è che quasi tutti gli individui sperimentano la
NJRE, a prescindere dalla presenza o meno di psicopatologia. Le espe­
rienze notjust right riportate più frequentemente sono: "Mentre parlavo
con qualcuno, ho avuto la sensazione che le mie parole non suonassero
bene" (60,7 % dei partecipanti) , "Prendendo nota di qualcosa, ho avu­
to la sensazione che le mie parole non apparissero come avrei voluto"
(3 8 % ) e "Dopo essermi lavato le mani, ho avuto la sensazione di non
sentirmele pulite nel modo in cui le mani dovrebbero sentirsi una volta
lavate" (33 % ) (Ghisi, Chiri, Marchetti et al. , 2010) .
La gravità della NJRE appare correlata con il DOC più di quanto lo sia
con sintomi di distress generale (Taylor, McKay, Crowe et al., 2014), con
sintomi di altri disturbi come ansia sociale, ansia di tratto, tendenza alla
preoccupazione e depressione (Ghisi, Chiri, Marchetti et al., 2010; Coles,
Frost, Heimberg et al. , 2003 ) . Le NJRE che si riscontrano più spesso nei
pazienti ossessivi sono: "Dopo essermi lavato le mani, ho avuto la sensa­
zione di non sentirmele pulite nel modo in cui le mani dovrebbero sentirsi
una volta lavate" (73 % ), "Mentre parlavo con qualcuno, ho avuto la sen­
sazione che le mie parole non suonassero bene" (57 % ) , "Ordinando la
mia scrivania, ho avuto la sensazione che fogli, quaderni e altre cose non
fossero sistemati nella maniera giusta" (50 % ) (Ghisi, Chiri, Marchetti et
al., 2010). Secondo alcune ricerche, per esempio Fergus (2014), la NJRE è
correlata con molte altre psicopatologie e il fatto che possa apparire spe­
cificatamente correlata con il DOC dipende dal fatto che gli item presenti
nel questionario utilizzato per valutare la NJRE sarebbero troppo vicini
alla fenomenologia ossessiva. Come dire che un paziente è diagnosticato
ossessivo, e non in altro modo, proprio perché riferisce temi analoghi agli
item del NotJust Right Experiences-Questionnaire-Revised.
Un ulteriore dato su cui concordano le ricerche è che la tendenza a
provare in modo grave la NJRE sembra correlata, soprattutto, con sin­
tomi del tipo ordine e simmetria (Ferrao, Shavitt, Prado et al. , 2012;
Ecker, Gonner, 2008; Coles, Frost, Heimberg et al., 2003 ) . Più contro­
versa la correlazione tra propensione a provare in modo grave la NJRE,
esordio precoce, tic e sindrome di Tourette (Ferrao, Shavitt, Prado et al.,
2012; Miguel, do Rosario-Campos, da Silva Prado et al., 2000; Leckman,
Walker, Goodman et al. , 1 994) .

60
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

In molte circostanze, i pazienti ossessivi, inferiscono dalla NJRE l'esi­


stenza di un pericolo. Per esempio, nel caso di Giovanni il timore di aver
chiuso male il rubinetto del gas era spesso sostenuto dall'impressione
che il gesto non fosse stato eseguito nel modo giusto o non avesse dato
quella sensazione di "fine corsa" che si ha quando si chiude il rubinetto
per bene. Altri pazienti, come Roberto, attribuiscono alla NJRE legata,
per esempio, all'imperfetto ordine delle carte sulla scrivania, il potere
di causare un danno grave a sé o ai propri cari, in base a un'inferenza
del tipo: "Se qualcosa sul mio tavolo è storto, allora qualcosa di impor­
tante può andare storto ". In altri casi, per esempio nello studio, la NJRE
segnala al paziente che non ha imparato come dovrebbe e che quindi è
inadempiente rispetto ai suoi doveri e per questo si autobiasima.
Tuttavia, in alcune circostanze, la NJRE sembra giocare un ruolo senza
essere connessa a minacce di un danno per sé o per altri, cioè indipenden­
temente da quella tendenza che alcuni autori chiamano Harm Avoidance
(HA)8 (Sica, Battesi, Orsucci et al., 2015; Taylor, McKay, Crowe et al., 2014;
Ghisi, Chiri, Marchetti et al., 2010; Summerfeldt, 2004). In questi casi la
N]RE non si accompagna ad ansia, ma consiste in un disagio che permane
finché il paziente, tramite i rituali, non riesce a ristabilire l'ordine giusto.
Rachman ( 1 97 4) descrive un sottogruppo di pazienti DOC con len­
tezza ossessiva che passano molto tempo a ripetere compiti di routine
come, per esempio, leggere e scrivere, vestirsi, sistemare oggetti o attra­
versare una porta. La ragione della loro lentezza sembra essere il bisogno
di compiere queste azioni in una modalità che dia loro la sensazione di
averle compiute nel modo giusto (just right) . Nel caso in cui ciò non ac­
cada, il paziente non riferisce particolari conseguenze negative, a parte
il persistere della sgradevole NJRE.
Summerfeldt (2004) descrive un caso clinico che ben esemplifica
questa possibilità:

Ben presentava una iperconsapevolezza cronica dell'ambiente in cui


viveva e dell'adeguatezza delle sue azioni in quasi tutte le attività quoti­
diane. Ben aveva una serie di ossessioni caratterizzate da tre temi princi­
pali: il bisogno di conoscere o ricordare dettagli, il bisogno di esattezza
nei comportamenti e precisione nei gesti, il bisogno di simmetria nel suo
ambiente e l'esigenza che tale ambiente rimanesse sempre identico, per

8. L' Harm Avoidance è definita come la credenza che la minaccia sia sempre presente, che l'in­
certezza sia intollerabile, che i pensieri intrusivi indesiderati siano pericolosi e che l'individuo sia
personalmente responsabile della prevenzione di un danno avendolo previsto (Frost, Steketee,
2002). Alti livelli di Harm Avoidance sono caratterizzati da un'eccessiva preoccupazione per la
minaccia, da notevoli sforzi compiuti al fine di evitarla (per esempio, eccessiva prudenza), da spa­
vento e timore (Cloninger, Svrakic, Przybeck, 1993).

61
La teorza

esempio, nell'allineamento dei libri o nello stato degli oggetti personali.


Diverse ossessioni avevano la forma del dubbio rispetto al modo "mi­
gliore" di fare le cose. Il distress era legato non tanto al contenuto delle
ossessioni, quanto piuttosto allo stato che involontariamente le accom­
pagnava: un senso di iperconsapevolezza e insoddisfazione dal quale era
tormentato. Per esempio, Ben descriveva di essere consapevole persino
del numero di passi necessari per andare da una stanza all'altra, "la mia
mente non si riposa mai" affermava. Per sedare il senso di spiacevolezza
associato alle preoccupazioni, Ben metteva in atto una serie di compul­
sioni, alcune delle quali di tipo mentale. Per esempio, compiere rituali
mentali quali "mettere a posto nella mia mente" e in particolare, analiz­
zare e dare un ordine di priorità alle attività; perfezionare il "miglior"
modo di fare le cose (aveva, per esempio, dedicato anni ad analizzare,
documentare e allenarsi nella perfetta pastura da adottare per sciare);
curare nel dettaglio e mettere a posto l'aspetto fisico; rileggere e riscrive­
re; utilizzare eccessivamente liste. Questi ultimi esempi ci danno un'idea
della pervasività delle compulsioni di Ben e di quanto inficiassero l'attivi­
tà lavorativa. Ben dedicava quotidianamente due o tre ore a controllare,
esaminare e organizzare l'agenda degli appuntamenti, inoltre utilizzava
regole rigide affinché il suo aspetto fisico apparisse sempre il medesimo.

In accordo con Summerfeldt si può concludere che " questi indivi­


dui non sperimentano ansia anticipatoria, bensì un tormentoso stato di
insoddisfazione rispetto allo stato delle cose. Da un punto di vista mo­
tivazionale, non sono guidati dalla volontà di prevenire un danno, ma
dall'esigenza di correggere un senso profondo di imperfezione, dal bi­
sogno che le esperienze siano conformi a criteri di 'esattezza' che spesso
sono difficili da definire" .
In questi pazienti, dunque, la NJRE appare connessa a eventi appa­
rentemente privi d'importanza per il paziente stesso, e le compulsioni
sembrano avere il fine ultimo di neutralizzarla, senza però che si capi­
sca il valore che abbia per lui il raggiungimento di ciò, a parte la ridu­
zione del disagio.
In questi casi la NJRE sembra segnalare un mismatch tra la realtà per­
cepita e i criteri di riferimento con due caratteristiche peculiari, la pri­
ma delle quali è che gli standard per il match sono molto più elevati di
quanto accada normalmente, e quindi la NJRE si attiva facilmente ma si
disattiva con difficoltà; la seconda è che i criteri di riferimento appaio­
no sconnessi da scopi rilevanti per il paziente, in particolare sembrano
non riguardare la prevenzione di un danno. Al contrario, per esempio,
in pazienti checker come Giovanni, il criterio di riferimento " rubinet­
to del gas chiuso " ha anch'esso standard molto elevati, cioè di certezza
della chiusura, ma è connesso allo scopo di prevenire un'esplosione e

62
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

la relativa responsabilità, quindi a qualcosa di importante per lui. Ana­


logamente, in Roberto la NJRE si attivava facilmente e con difficoltà riu­
sciva a disattivarla perché gli standard con cui valutava l'ordine dei suoi
oggetti erano molto elevati, ma inferiva la possibilità che se non avesse
messo a posto, cioè neutralizzato la NJRE, allora sarebbe potuto accade­
re qualcosa di grave a se stesso o ai suoi cari. In Ben, invece, il criterio
di riferimento rispetto al quale, per esempio, i suoi libri non erano ade­
guatamente allineati appariva caratterizzato da standard molto elevati,
ma sconnesso da possibili danni. Lo scopo ultimo delle sue compulsioni
sembrava soltanto la neutralizzazione della NJRE.
Questi casi sollevano una domanda: la NJRE, contrariamente alle ap­
parenze, è connessa alla compromissione di scopi del paziente? Ma, se
sì, quali? O, al contrario, è sostanzialmente indipendente dagli scopi del
paziente? E, in questo caso, da cosa dipende, perché è così frequente e
perché per il paziente è così importante neutralizzarla?
Alcuni ricercatori propendono per la seconda possibilità. Summer­
feldt (2004 ), per esempio, suggerisce:

Nel DOC possono essere identificati due temi abbastanza distinti. n pri­
mo è simile a quello che si osserva in altri disturbi d'ansia. In questo caso,
si notano chiaramente il ruolo primario dell'ansia anticipatoria, la sensi­
bilità a una potenziale minaccia e un esagerato evitamento del pericolo.
Questa visione è quella che ha influenzato in misura maggiore la diagnosi
e il trattamento del DOC. Tuttavia, i clinici che si occupano di pazienti os­
sessivi spesso notano che il profilo dei propri pazienti non corrisponde a
questa descrizione. n secondo tema, è quello che attiene alla N]RE.

La NJRE sarebbe sostanzialmente indipendente dagli scopi del pa­


ziente e sarebbe la conseguenza della disfunzione del meccanismo
cibernetico con cui si confronta lo stato percepito e lo stato di rife­
rimento (Pitman, 1987a) . Tale disfunzione avrebbe la forma di un co­
stante "segnale di errore" che falsamente e inutilmente prepara l'indi­
viduo a inutili azioni correttive (Russo, Naro, Mastroeni et al. , 2014;
O'Tool, Weinborn, Fox, 2012; Brown, Friston, Bestmann, 201 1 ; Maltby,
Tolin, Worhunsky et al., 2005 ; Aouizerate, Guehl, Cuny et al. , 2004;
Szechtman, Woody, 2004 ; Van Veen, Carter, 2002 ; Schwartz, 1 999;
Pitman, 1 987a). In modo analogo, Szechtman e Woody (2004) sugge­
riscono che il DOC sia la conseguenza di un'inabilità a generare la nor­
male "sensazione di familiarità/noto/conosciuto" , che segnala il com­
pletamento di un compito e disattiva il sistema volto alla ricerca della
sicurezza. La NJRE nei pazienti ossessivi, quindi, sarebbe frutto di una

63
La teoria

disfunzione cognitiva la cui genesi sarebbe svincolata dal sistema di sco­


pi e credenze del paziente e sarebbe a sua volta riducibile a una disre­
golazione del sistema fronto-striatale (per esempio, Piras, Piras, Calta­
girone et al., 201 3 ; Melloni, Urbistondo, Sedeiio et al., 2012; Gehring,
Himle, Nisenson, 2000; Brieter, Rauch, Kwong et al., 1996), la cui natura
e causa, tuttavia, non sono state identificate. Questa tesi può declinarsi
in due versioni. Summerfeldt, Richter, Antony e collaboratori ( 1 999) ,
come accennato, propongono l'esistenza di due dimensioni poste in un
continuum: l'evitamento del danno e la sensazione che le cose non sia­
no a posto. Tali dimensioni spiegano tutti i tipi di sintomi overt e la loro
combinazione sarebbe alla base della maggior parte dei disturbi ossessi­
vi. L'altra versione suggerisce che la NJRE possa causare sintomi ossessivi
indipendentemente dalla Harm Avoidance (HA) in un sottogruppo di
pazienti ossessivi caratterizzati anche da prevalenza di sintomi del tipo
ordine e simmetria, con un esordio precoce, comorbilità con tic e Tou­
rette (Ferrao, Shavitt, Prado et al. , 2012).
I dati della ricerca suggeriscono quanto segue.
NJRE (misurata con il questionario di Coles) e HA erano correlate ma
distinte a un'analisi fattoriale (Taylor, McKay, Crowe et al. , 2014; Pie­
trefesa, Coles, 2008) .
- NJRE predice i sintomi ossessivi anche quando sono controllate l'HM
e le credenze disfunzionali legate al DOC (Taylor, McKay, Crowe et
al. , 2014).
Questi dati e, soprattutto, alcuni casi clinici, come per esempio Ben,
suggeriscono che, in effetti, la NJRE possa giocare un ruolo indipenden­
temente dallo scopo di prevenire o neutralizzare la minaccia di un dan­
no a sé o ad altri.
La tesi di Summerfeldt, in particolare l'idea che la NJRE sarebbe la
conseguenza di una disfunzione neuropsicologica che causa la sistema­
tica emissione di segnali di errore falsati, non sembra tener conto di al­
meno due fatti. In primo luogo, la NJRE che entra in gioco nei pazienti
ossessivi si riferisce a oggetti di loro proprietà o a loro performance ed è
sempre dominio-specifica. Se ci fosse una disfunzione neuropsicologica
i pazienti ossessivi dovrebbero avere la NJRE anche quando confrontano
oggetti o performance di altri con propri criteri di riferimento, e in tutti
i domini, ma questo non sembra accadere.
In secondo luogo, la sensazione che un nostro oggetto, o una nostra
performance, non sia come dovrebbe essere rappresenta un'esperien­
za diffusa, tuttavia siamo motivati a mettere le cose a posto in maniera

64
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

differenziata, a seconda dell'importanza che gli attribuiamo. Per esem­


pio, se guardo la libreria del mio studio ho una netta sensazione di di­
sordine ma non gli do molta importanza, al contrario se guardo la mia
agenda e ho la sensazione che gli appuntamenti siano in disordine, non
solo provo una NJRE ma sono anche motivato a controllare e mettere a
posto. Ovvero, una disfunzione neuropsicologica può spiegare perché
la NJRE si attiva spesso e a sproposito, ma non spiega perché e quando il
paziente gli dà importanza ed è motivato a ridurla. Quindi, la tesi del­
la disfunzione del meccanismo cibernetico con cui si confronta lo sta­
to percepito e lo stato di riferimento dovrebbe essere integrata con gli
scopi e i valori del paziente che rendono più rilevante una NJRE rispetto
a un'altra. Tuttavia, anche questa integrazione non sarebbe sufficiente;
infatti, resterebbe da spiegare perché il paziente sia motivato a ridurla
anche quando l'errore segnalato riguardi domini che, apparentemente,
non sono importanti per lui. Ci chiediamo, quindi: perché alcuni pa­
zienti ossessivi investono risorse per neutralizzare NJRE che segnalano
mismatch poco importanti per loro? Oppure: tali mismatch, nonostante
le apparenze, sono per loro importanti?
Ci sono almeno tre possibili spiegazioni. lnnanzitutto, è possibile
che nel corso del tempo la ricerca della Just Right Experience perda il
suo significato originario e si automatizzi. Per esempio, Roberto, ini­
zialmente, attribuiva alla NJRE il potere di segnalare un pericolo e neu­
tralizzarla era un modo per prevenire la responsabilità di un danno
per i propri cari. Nel corso del tempo, la ricerca dell'esperienza just
right era diventata un automatismo e Roberto non metteva più in at­
to le compulsioni per salvaguardare i propri familiari ma per levarsi la
sgradevole sensazione che le cose non fossero come avrebbero dovu­
to essere. Del resto, il passaggio da una condotta intenzionale, rego­
lata da valutazioni esplicite, a una automatica, regolata da sensazioni,
è un'esperienza usuale. Quando, per esempio, impariamo a guidare,
eseguiamo i movimenti per cambiare la marcia in modo intenzionale,
ma man mano che acquisiamo l'abitudine cambiamo la marcia senza
pensarci, esclusivamente reagendo in modo automatico al rumore del
motore che sale o scende di giri. Non stupisce, quindi, che le sensazio­
ni possano prendere il posto delle valutazioni, cioè di eventi mentali,
nel regolare la condotta. Nei pazienti ossessivi il ruolo delle sensazioni
è ben documentato (Ferrao, Shavitt, Prado et al. , 2012 ) : per esempio, i
rituali di lavaggio possono essere regolati dalla sensazione di una p ati­
na di sporco che il paziente sente diffusa sulle mani e sugli avambracci,
e non da valutazioni esplicite.

65
La teoria

In secondo luogo, è possibile che la ricerca della condizionejust right


perda la sua finalità originaria e, paradossalmente, sia mantenuta per­
ché la N]RE può disturbare altre attività del paziente. Luca era comple­
tamente preso dalla ricerca di immagini mentali "giuste" . Per esempio,
spendeva ore del suo tempo per sovrapporre mentalmente l'immagine
di un numero e l'immagine di una bottiglietta, finché non aveva la sen­
sazione che la sovrapposizione fosse "giusta" . Luca era farmacista e il
rituale mentale era iniziato come modo per ricordare di aver control­
lato bene le confezioni di medicine che preparava. Con il tempo, il ri­
tuale mentale si era svincolato dalla ragione iniziale ed era finalizzato a
neutralizzare la NJRE la cui presenza, a suo avviso, gli avrebbe impedito
di svolgere le sue mansioni con coscienziosa attenzione.
A queste due spiegazioni se ne aggiunge una terza. Mancini, Gange­
mi, Perdighe e collaboratori (2008) hanno svolto due esperimenti. In
entrambi, i partecipanti non erano pazienti ossessivi e, una settimana
prima della prova sperimentale, era stato somministrato loro un test per
misurare il senso di colpa di tratto, vale a dire quanto fossero propensi a
provare cronicamente senso di colpa. Fu chiesto al gruppo sperimenta­
le di rievocare un evento per il quale si sentivano ancora in colpa. A un
gruppo di controllo, invece, fu chiesto di ricordare un evento neutro e,
a un secondo gruppo di controllo, un evento in cui erano stati vittime
di un torto. Una volta indotto il senso di colpa, a tutti i partecipanti fu
proposto un compito che consisteva nel mettere in ordine quindici tes­
sere del domino, utilizzando il criterio di ordine che a loro avviso era il
migliore, cioè che dava loro maggior soddisfazione. L'obiettivo era in­
durre la NJRE. Dopo aver eseguito il compito, ai soggetti fu chiesto di ri­
spondere alle domande dello State-NJRE Survey Questionnaire (Coles,
Frost, Heimberg et al. , 2003 ). Il questionario inizia con la presentazione
ai partecipanti della NJRE: "Mentre stavo svolgendo il compito ho avu­
to la spiacevole sensazione che non stessi facendo le cose esattamente
come avrei dovuto o nel modo in cui mi sarebbe piaciuto farle" . Suc­
cessivamente, ai partecipanti fu chiesto di indicare se avevano esperito
la NJRE durante l'esecuzione del compito e il livello di tale sensazione.
I risultati hanno mostrato che l'induzione di senso di colpa in sogget­
ti non clinici, ma con alta propensione al senso di colpa, implicava una
N]RE maggiore di quanto avvenisse in soggetti con bassa propensione al
senso di colpa e di quanto avvenisse se si induceva un'emozione negati­
va diversa dal senso di colpa. Inoltre, i soggetti con alta propensione al
senso di colpa e con alta NJRE erano anche quelli più propensi a osses­
sioni e compulsioni.

66
Scopi e credenze determinanti prossimi dei sintomi ossessivi

In questo esperimento la NJRE riguardava un dominio differente da


quello legato alla colpa. Inoltre, la NJRE non aveva nulla a che fare con
la moralità, bensì con standard estetici o di ordine. In ultimo, non era
legata a eventi o situazioni soggettivamente importanti: infatti, la NJRE
era legata al riordinamento di tessere del domino e il criterio di riferi­
mento, di cui i soggetti dovevano tener conto, era esclusivamente este­
tico e non connesso a danni. In sostanza, in persone che tendono croni­
camente a sentirsi in colpa, la riattivazione di questa emozione implica
una più intensa NJRE, anche se riferita a oggetti e performance banali
per l'individuo.
Ciò suggerisce che in pazienti ossessivi come Ben, la frequenza e la
sgradevolezza della NJRE legata a situazioni poco rilevanti per gli scopi del
soggetto possa dipendere dall'attivazione cronica e sistematica del senso
di colpa. A sostegno della plausibilità di questa ipotesi evidenziamo co­
me i soggetti con alta colpa di tratto e con maggiore tendenza a provare
NJRE legata al compito sperimentale fossero anche quelli che presentava­
no ossessioni e compulsioni subcliniche. Un altro elemento di sostegno
potrebbe essere l'osservazione che nei pazienti ossessivi la NJRE riguarda
prevalentemente oggetti e performance che, pur essendo banali, appar­
tengono al dominio personale del paziente, e non di altre persone. Per
esempio, i pazienti ossessivi non provano la NJRE o non le danno molto
peso se si trovano di fronte al disordine della scrivania di un'altra persona.
In definitiva sembra che tra il senso di colpa e la NJRE possa esistere
un nesso analogo all'effetto Macbeth che, come abbiamo visto, lega il
senso di colpa al disgusto: se la coscienza non è a posto, allora si tollera
di meno che qualcos'altro non sia a posto.
li caso di Lucio esemplifica questa possibilità:

Lucio era quasi costantemente impegnato a controllare che ogni suo ge­
sto fosse compiuto perfettamente, stava bene attento in modo da prevenire la
NJRE e da ricordare ogni passaggio compiuto: entrare e uscire dal bagno, lavar­
si, come pure orinare ed evacuare, vestirsi, allacciare le scarpe e uscire di casa
erano svolti con la massima attenzione. Se sentiva di aver eseguito male queste
semplici azioni quotidiane, si sentiva costretto a ripeterle finché non riusciva a
raggiungere laJust Right Experience. Per Lucio agire "male" non aveva alcuna
implicazione di danno, nemmeno di tipo magico-superstizioso; piuttosto, riferi­
va con chiarezza che la NJRE era, per lui, sovrapponibile alla sensazione di esse­
re una persona moralmente indegna. Non a caso la sintomatologia peggiorava
se si sentiva in colpa, in particolare in tre circostanze: se aveva avuto rapporti
sessuali con prostitute o transessuali, se non aveva adempiuto il suo dovere di
studente e se aveva mancato di rispetto alla madre, soprattutto se questa non
gli parlava e appariva imbronciata.

67
La teoria

CONCLUSIONI

Gli scopi minacciati dalle ossessioni, e che il paziente cerca di salva­


guardare con le compulsioni e con altri tentativi di soluzione, appaio­
no riducibili allo scopo di non essere colpevole in senso deontologico.
Questa conclusione può aiutare a rispondere a una delle domande che
abbiamo sollevato parlando del caso di Maria, la quale, come tanti altri
pazienti ossessivi, era transitata, nel corso della sua vita, tra sintomi del
tipo checking, washing, ordine e simmetria e pensieri proibiti, e, in alcuni
periodi, aveva sofferto contemporaneamente di sintomi di tipo diverso.
Il passaggio da una sintomatologia all'altra, o la compresenza nello stes­
so paziente di sintomi appartenenti a sottotipi diversi, potrebbe essere
giustificata dalla comune radice emotiva e motivazionale.

68
III

I PROCESSI COGNITIVI NEL DOC


Francesco Mancinz; Amelia Gangemi

INTRODUZIONE

Abbiamo concluso il capitolo precedente proponendo la tesi che alla


base della sintomatologia ossessiva vi sia il timore di essere colpevoli in
senso deontologico e che questa possibilità sia, agli occhi del paziente,
una catastrofe inaccettabile e incombente.
In questo capitolo intendiamo mostrare come tale stato mentale, e
più in particolare il timore di essere colpevoli di un danno ingiusto, nei
pazienti DOC ma anche in soggetti non clinici, orienti in modo peculia­
re i processi cognitivi con cui si elaborano le informazioni di pericolo e
di sicurezza e si valutano gli esiti dei propri tentativi di soluzione. L'o­
rientamento cognitivo indotto dal timore di colpa deontologico è fina­
lizzato infatti al raggiungimento della certezza di NON essere venuto
meno ai propri doveri e quindi di NON aver irresponsabilmente sotto­
valutato la minaccia e di NON aver utilizzato in modo approssimativo le
risorse per neutralizzare e prevenire la minaccia stessa. E come se il pa­
ziente si aspettasse di dover rendere conto a un giudice che è disposto
a dichiararlo NON colpevole solo di fronte alla prova certa che il fatto
non sussiste e/o che NON c'è stata alcuna trascuratezza nei tentativi di
prevenirlo o neutralizzarlo. Una strategia quindi che punta a escludere
con certezza possibilità negative: la certezza che non sia, piuttosto che
la certezza che sia.
Supponiamo che Maria urti casualmente un passante dall'apparenza
malata e trasandata, e che nella sua mente appaia il dubbio: " E se fosse
malato? E mi avesse contagiato con una malattia? E se fosse l'AIDS? ! " .
La strategia protettiva di Maria consiste in una serie di passaggi. In-

69
La teoria

nanzitutto, focalizza due ipotesi: una di pericolo, "Potrei essere stata


contagiata " ; una di colpa, " Ma potevo stare più attenta ! ". Ciò accade
nonostante queste possibilità siano suggerite solo dal pensiero intrusi­
va e non dall'evento o dalle sue conoscenze generali; per esempio, poco
o nulla suggerisce che il passante possa essere sieropositivo, e nessuna
informazione disponibile a Maria sostiene l'idea che urtare un passante
possa essere motivo di contagio. Per giunta, urtare un passante potreb­
be essere considerato anche casuale e dunque imprevedibile o, semmai,
colpa dell'altra persona. Queste possibilità alternative non sono prese
in considerazione. La focalizzazione selettiva delle possibilità peggiori,
contagio e colpa, è congrua con lo scopo di Maria di prevenire l'auto­
rimprovero di aver sottovalutato il rischio e la propria responsabilità.
Lo stesso scopo orienta anche il modo, automatico e veloce, con cui
Maria rintraccia prove ed esempi congrui con l'ipotesi peggiore: rie­
voca la notizia di alcuni casi di contagio avvenuti per contatti casua­
li e superficiali come potrebbe essere stato l'urto, come pure ripesca
dalla memoria quanto affermato anni prima da alcune fonti di infor­
mazione, che suggerivano la possibilità del contagio anche attraverso
il respiro. In breve, conclude che l'intuizione iniziale potrebbe essere
fondata. Non solo, ma Maria, come tutte le persone che si sentono in
colpa, sempre per evitare di doversi rimproverare di aver sottovaluta­
to il rischio, tende a immaginare non solo le possibilità più gravi, ma
anche ad attribuire a queste probabilità elevate, senz' altro più elevate
di quelle che attribuirebbe chi non si sente in colpa (Menzies, Harris,
Cumming et al. , 2000). Inoltre Maria, come tutti quelli con alta colpa
di tratto, tende a interpretare anche l'emozione negativa che accompa­
gna l'intero episodio, e cioè la paura del contagio e della colpa, come
prova che il rischio esiste davvero e che la responsabilità è sua perché
avrebbe potuto e dovuto stare più attenta (vedi più avanti il mecca­
nismo affect as in/ormation) . A questo punto Maria cerca di risolvere
il dubbio dimostrando a se stessa che il fatto non sussiste, vale a dire
che non ha corso alcun rischio di contagio e che quindi non ha nulla di
cui rimproverarsi. Immaginiamo che entri nel sito del Ministero della
Salute per cercare la prova che le sue conclusioni sono false. Eviden­
temente non trova nessuna informazione che avalli i suoi timori, ma
l'assenza di prove che dimostrino la pericolosità dell'urto non ha per
lei grande valore: "Certo, stando ai dati del Ministero, le probabilità
che il passante fosse sieropositivo sono molto basse, ma d'altra parte
mica è impossibile, e poi, in effetti, sembrava malato" ; " Il Ministero
non dice esplicitamente che le possibilità di contagio sono solo quelle

70
I processi cognitivi nel DOC

indicate e che tutte le altre sono impossibili, mica c'è scritto che scon­
trarsi con un passante sieropositivo per la strada NON è pericoloso" ;
"Nel sito c'è scritto che il contatto con il sangue è pericoloso, e se quel
passante avesse avuto dei tagli o fosse stato sporco di sangue? NON
posso mica escluderlo ! Mi sembra di no, ma potrei ricordare male" ;
"Come pure NON posso escludere che il Ministero non voglia creare
allarmi e dunque non indichi tutte le possibilità di contagio" . Maria
vuole la prova certa di non aver corso alcun pericolo a causa della sua
sbadataggine. Vuole la prova sicura che tutte le possibilità di pericolo,
anche quelle che lei stessa riconosce come poco plausibili, siano fal­
se. Supponiamo, per assurdo, che Maria consulti un infettivologo che,
dopo aver aver sottoposto il passante ad analisi opportune, le dica che
non c'è stato alcun rischio di contagio, e dunque di colpa. Si tranquil­
lizzerebbe? Non è detto, perché potrebbe dubitare, per esempio, del­
la competenza dell' infettivologo e dell'accuratezza delle analisi da lui
compiute. È facile prevedere che Maria, nonostante i suoi sforzi, non
riesca a trovare la prova che cerca. Sempre al fine di essere certa di non
aver nulla da rimproverarsi, Maria si impegna in lavaggi che, magari,
non servono a eliminare il rischio di contagio, ma d'altra parte questo
può fare, dunque questo deve fare. Ma quanti lavaggi sono necessari
per essere certa di averli eseguiti in modo non superficiale e approssi­
mativo? Evidentemente tanti. A complicare le cose intervengono altri
due fenomeni. Il primo: la ripetizione dello stesso gesto implica in tutte
le persone, anche in quelle non ossessive, una perdita della fiducia nel
ricordo dei gesti stessi, e dunque alimenta il dubbio di averli eseguiti
male. Il secondo: aver messo in atto i lavaggi, cioè dei comportamenti
di ricerca della sicurezza, implica, nei pazienti ossessivi, una conferma
dell'idea che il pericolo esistesse dawero (vedi più avanti il meccani­
smo behaviour as input) .
Ad aumentare la motivazione di Maria a falsificare e neutralizzare
con certezza il rischio contribuisce anche un'altra conseguenza del suo
stato mentale: chi, anche non ossessivo, si sente in colpa per ragioni pru­
denziali tende a essere awerso alle scelte rischiose. Nel caso di Maria, la
scelta rischiosa sarebbe non prendere prowedimenti e risparmiarsi tanti
sacrifici (Mancini, Gangemi, 2003 ; Mancini, Gangemi, 2004).
Dunque, il timore di colpa è gestito con una strategia che si artico­
la in diversi passaggi e che persegue due obiettivi. Da una parte essere
certi di non aver sottovalutato il pericolo e di non aver soprawalutato
gli esiti dei tentativi di soluzione. Dall'altra non essere stati trascurati e
superficiali nei tentativi di prevenirlo o di neutralizzarlo.

71
La teana

LE PROVE

Presentiamo ora le prove per cui il timore di colpa implica una stra·
tegia articolata nei passaggi che abbiamo esemplificato qui sopra, sia ir
pazienti ossessivi sia in persone non affette da DOC, ma nelle quali il ti·
more di colpa è stato sperimentalmente indotto.

Prove ch e il timore di colpa orienta i processi cognitivi


prudenzialmente verso l a focalizzazione d elle possibilità negative

I dati sperimentali dimostrano che, in tutte le persone, esiste un nes­


so fra lo scopo di prevenire una colpa e la focalizzazione delle possibi­
lità peggiori.
Alcune ricerche (vedi Mancini, Gangemi, 2004, 2 006; Gangemi,
Mancini, 2007) hanno indagato specificamente l'influenza del senso di
colpa sulla focalizzazione. Secondo gli autori, la focalizzazione degli
elementi che costituiranno gli oggetti della scelta è influenzata dal sen­
so di colpa, il quale porta in particolare alla focalizzazione delle possi­
bilità peggiori. Di conseguenza, se ci si sente responsabili di una scelta,
per esempio formulare una diagnosi medica, e soprattutto se si teme di
commettere errori colpevoli, allora si focalizzano come possibili le ma­
lattie più gravi e si trascurano quelle più innocue.
Entrando più nel merito, un ampio e accreditato filone di studi ha di­
mostrato che le strategie di decisione portano normalmente a focalizzare
opzioni rese esplicite dalla formulazione del problema (/ocussing ef/ect)
e a trascurare quasi del tutto quelle implicite, fallendo così nella gene­
razione di possibilità alternative (Jon es, Menzies, 1 997 ; Jones, F risch,
Yurak et al., 1 998; Legrenzi, Girotto, Johnson-Laird, 1 993 ) . Tuttavia, è
stato dimostrato che, in generale, il processo di focalizzazione dipende
non solo dal tipo di opzione esplicitata, ma anche dallo stato intenzio­
nale attivo in quel momento nella mente del soggetto. L'influenza dello
stato mentale sembra essere addirittura maggiore della formulazione del
problema. In particolare, in due differenti studi si è visto che dopo aver
indotto sperimentalmente, mediante istruzioni, uno stato di responsa­
bilità e timore di colpa, i soggetti focalizzavano la possibilità peggiore,
anche se implicita nella formulazione del problema.
Nel primo esperimento, i soggetti responsabili e timorosi di colpa
posti di fronte a un'ipotesi favorevole esplicita, per esempio diagnosi di
influenza, generavano un elevato numero di alternative negative: cioè, se
veniva loro richiesto di elencare possibili diagnosi alternative, elencava-

72
I processi cognitivi nel DOC

no soprattutto malattie gravi. Nel secondo studio, i responsabili e timo­


rosi di colpa posti di fronte a un'ipotesi diagnostica benigna esplicita e
a una maligna implicita, per esempio leucemia, focalizzavano l'ipotesi
grave, selezionando un più elevato numero di domande a essa relative,
nonostante nella formulazione del compito presentato la diagnosi ma­
ligna fosse implicita. In entrambi gli esperimenti, infine, i soggetti chia­
mati a effettuare una scelta da considerare come decisione finale (per
esempio, scegliere fra una diagnosi grave implicita e una più favorevole
esplicita) optavano per l'ipotesi negativa implicita, per esempio la dia­
gnosi grave. I soggetti in cui non erano stati enfatizzati la responsabilità
e il timore di colpa focalizzavano l'ipotesi esplicita, anche se benigna.
In un'altra ricerca Uohnson-Laird, Mancini, Gangemi, 2006) si è di­
mostrato che la focalizzazione delle possibilità negative, anche se im­
plicite nella formulazione del problema, è mediata dalla costruzione di
modelli mentali di sé e del mondo coerenti con lo stato mentale e affet­
tivo di colpa. I risultati hanno evidenziato, infatti, che i partecipanti cui
era stato indotto sperimentalmente uno stato di colpa, di fronte ad as­
serzioni a contenuto colpevole (per esempio, "L'allarme di casa suona e
mi sento colpevole"), tendevano a elencare come possibile un maggior
numero di eventi di colpa, sia rispetto alle equivalenti possibilità a con­
tenuto neutro (per esempio, "L'allarme di casa suona e mi sento stan­
co"), sia rispetto ai soggetti cui non era stata indotta alcuna colpa. An­
cora, i soggetti colpevoli, di fronte ad asserzioni a contenuto colpevole,
tendevano a elencare come impossibile un maggior numero di eventi di
non colpa, sia rispetto alle equivalenti impossibilità a contenuto neutro
sia rispetto ai soggetti non colpevoli. In breve, si è dimostrato che se c'è
attivazione dello stato mentale ed emotivo del timore di colpa, allora di
fronte ad asserzioni a contenuto colpevole i soggetti costruiscono un
modello mentale della realtà in cui sono rappresentati prevalentemente
i casi congrui con il loro sentimento di colpa e tendono a essere esclusi
i casi coerenti con l'idea di essere innocenti.
Riprendendo l'esempio di Maria: urto di un passante - "Potrei es­
sermi contagiata ! " = paura e "Ma potevo stare più attenta ! " = senso di
colpa - attivazione modello mentale di sé colpevole e rappresentazione
di diversi modi in cui il contagio potrebbe essere accaduto - focalizza­
zione dell'ipotesi peggiore, cioè che il contagio sia avvenuto, anche se
non suggerita dall'evento e dalle informazioni disponibili, e defocalizza­
zione delle ipotesi favorevoli (cioè che l'urto sia stato innocuo, casuale
e difficilmente prevedibile) , peraltro esplicitamente suggerite dalle ca­
ratteristiche dell'evento e dalle comuni nozioni mediche.

73
La teoria

Prove che il timore di colpa orienta il processo di controllo ingenuo


delle ipotesi negative in modo confirmatorio e prudenziale:
la strategia Better S afe Than Sorry (BSTS)

La strategia Better Safe Than Sorry (BSTS) entra in gioco in tutte le


persone a seguito della valutazione di un evento come minaccioso. Le
emozioni che seguono alla valutazione di minaccia, l'ansia o la paura,
e, nel caso dei pazienti ossessivi, anche il timore di colpa, attivano la di­
sposizione a sottrarsi alla minaccia o a prevenirla. Tale disposizione si
realizza, tra l'altro, con l'attivazione dello scopo di evitare errori di sotto­
valutazione del pericolo. Nel caso dei pazienti ossessivi questo scopo ha
una valenza doppia: è importante non sottovalutare la minaccia perché
così si evita il rischio di non prendere provvedimenti opportuni, ma so­
prattutto è importante perché si evita il rischio di doversi rimproverare
di essere stati superficiali. L'elaborazione delle informazioni è orientata
da tale scopo e pertanto sono privilegiate, oltre alla focalizzazione dell'i­
potesi di pericolo, anche la raccolta di dati congrui con tale ipotesi, la
produzione di inferenze confirmatorie, e dunque la conferma dell'ipo­
tesi focale di pericolo e la sua assunzione.
Torniamo nuovamente a Giovanni, il quale dice a se stesso:

Sono appena uscito di casa e mi viene in mente che potrei aver lascia­
to il gas aperto, come mi è già successo un'altra volta e come è successo
a quella famiglia di Foligno che ho visto ieri sera al telegiornale; a me
l'altra volta non è successo nulla ma a loro è scoppiata la casa. Poveretti,
sono finiti in un ospizio di beneficenza ! Un mese fa poi l'uomo che viene
a controllare il contatore si è pure tanto raccomandato di fare attenzio­
ne perché, mi è sembrato di capire, in questo periodo la società del gas
manda un gas che è particolarmente infiammabile e privo di odore, così
è anche possibile che i vicini non si accorgano di un'eventuale perdita.
Meglio tornare a controllare, anche se arriverò tardi in ufficio per l'en­
nesima volta e rischio di essere licenziato. Ma non posso mica rischiare
di far saltare in aria tutto il palazzo!

Non è difficile rintracciare nel resoconto di Giovanni i passi della


strategia BSTS (Johnson-Laird, Mancini, Gangemi, 2006) :
il paziente focalizza un pericolo, in questo caso la possibilità di aver
lasciato il gas aperto, che porta ad ansia elevata e all'ipotesi che pos­
sa esserci un'esplosione per la quale lui sarebbe colpevole;
cerca prove che confermano questa ipotesi tra le fonti di informazio­
ne a disposizione, come per esempio un caso sentito al telegiornale

74
I processi cognitivi nel DOC

o un'analogia con fatti accaduti ad altri o quanto gli sembra di aver


capito dall'incaricato della ditta del gas;
- inferisce la conferma della sua ipotesi;
- conclude che la sua ipotesi ha un fondamento;
- inferisce che se va a controllare e il gas è chiuso si sarà messo in dif-
ficoltà con il suo datore di lavoro, ma se non va a controllare e il gas
è aperto, allora le conseguenze saranno catastrofiche e la responsa­
bilità sarà sua;
- decide che il costo di non controllare è maggiore del costo di control­
lare.
Questo ragionamento è chiaramente prudenziale (vedi de Jong,
Mayer, van den Hout, 1 997 ; de Jong, Haenen, Schmidt et al. , 1 998;
Smeets, deJong, Mayer, 2000) e ha degli innegabili vantaggi. Infatti, ri­
spetto a scopi cruciali come, per esempio, la sopravvivenza, è di gran
lunga preferibile dar credito a tanti falsi allarmi rispetto anche a un solo
allarme ingiustificatamente mancato, che potrebbe però risultare fata­
le. Tale strategia rientra nel normale processo di controllo delle ipotesi.
Un ampio numero di ricerche ha in effetti dimostrato che, in generale,
lo stato mentale e intenzionale di un individuo influenza il modo in cui
tale processo si realizza (de Jong, Mayer, van den Hout, 1997 ; deJong,
Haenen, Schmidt et al. , 1998; Evans, Over, 1 996; Kirby, 1 994; Manci­
ni, Gangemi, 2002a; Manktelow, Over, 199 1 ; Smeets, de Jong, Mayer,
2000). Per esempio, in una serie di esperimenti, de Jong e collaborato­
ri (de Jong, Mayer, van den Hout, 1997; de Jong, Haenen, Schmidt et
al., 1998) e Smeet, de Jong e Mayer (2000) hanno dimostrato che, se si
trovano in un contesto di minaccia, i soggetti chiamati a valutare la fon­
datezza di un'ipotesi condizionale (se ho la tosse, allora ho un cancro
al polmone) , sono più propensi a ricercare selettivamente informazioni
che confermino l'ipotesi di pericolo. Più specificamente, gli autori han­
no osservato che, in uno stato mentale di pericolo o minaccia, i soggetti
non clinici tendono a ricorrere a una strategia confirmatoria se posti di
fronte a ipotesi di pericolo (del tipo: se ho la tosse, allora ho un cancro
al polmone), mentre adottano una strategia falsificazionista con ipotesi
di sicurezza (del tipo: se ho la tosse, allora ho una tracheite) . Questi ri­
sultati confermano che la semplice percezione di una minaccia è suffi­
ciente ad attivare la strategia orientata dallo scopo di non sottovalutare
un pericolo al fine di prendere provvedimenti ovvero la BSTS. In linea
con questi dati, numerosi esperimenti hanno dimostrato che anche uno
stato mentale di timore di colpa può influenzare il modo in cui i sog-

75
La teoria

getti controllano le ipotesi di sicurezza e di pericolo (Mancini, Gange­


mi, 2002a, 2002b; Gangemi, Balbo, Bacchi et al., 2002). In particolare,
in questi esperimenti si è visto che uno stato mentale di timore di colpa
induce i soggetti a controllare le ipotesi in un modo peculiare definito
iperprudenziale. Con esso i soggetti timorosi di colpa focalizzano l'ipo­
tesi peggiore, ricercano attivamente esempi che la confermano, cioè la
controllano in modo verificazionista, mentre controllano informazioni di
sicurezza in modo falsifìcazionista, giudicando i controesempi che la fal­
sificherebbero come insufficienti. Alla fine concludono prendendo per
buona l'ipotesi di pericolo. In un altro esperimento (Gangemi, Mancini,
2007) i soggetti, invitati a immedesimarsi nel ruolo di un medico che ha
già commesso diversi errori diagnostici in passato, erano chiamati a for­
mulare una diagnosi, della quale sarebbero stati i soli responsabili (sta­
to mentale di responsabilità e timore di colpa) . Date queste condizioni,
ai soggetti era presentata una tra due possibili diagnosi: una positiva di
Influenza e una negativa di Leucemia. Era quindi richiesto loro di dire
se preferivano continuare a ricercare informazioni e andare avanti nel
processo diagnostico, e in caso affermativo, quale diagnosi volevano ap­
profondire (positiva Influenza vs negativa Leucemia ) e attraverso quale
- -

strategia (confirmataria, ricerca di informazioni a favore vsfalsificazioni­


sta, ricerca di informazioni contrarie) . I risultati mostrano che i sogget­
ti responsabili e timorosi di colpa preferivano continuare il processo di
controllo dell'ipotesi se inizialmente era proposta una diagnosi favorevo­
le. Inoltre, tendevano prudenzialmente a focalizzare e confermare l'ipo­
tesi diagnostica peggiore. Al contrario, i soggetti solo responsabili della
diagnosi (e dunque non anche timorosi di essere colpevoli di eventuali
altri errori diagnostici) , manifestavano una preferenza a controllare in
maniera prudenziale le ipotesi (quindi focalizzando e cercando confer­
me della diagnosi peggiore) solo se inizialmente posti di fronte alla dia­
gnosi peggiore. Non manifestavano invece alcun interesse a continuare il
processo di controllo della diagnosi in caso di ipotesi iniziale favorevole.
In questo si dimostravano in linea con il gruppo non clinico di control­
lo. In generale, tali dati dimostrano che essere timorosi di colpa spinge
i soggetti a controllare le ipotesi di sicurezza e di pericolo in un modo
prudenziale: si cerca di confermare le seconde, anche di fronte a prove
contrarie. È utile sottolineare come il solo sentirsi responsabili non por­
ti alla stessa tendenza a persistere in attività preventive e a rigettare le
informazioni rassicuranti, propria invece dei soggetti timorosi di colpa.
Concludendo, in tutte le persone il timore di essere colpevoli, e dun­
que l'attivazione dello scopo di non sottovalutare i pericoli, implica non

76
I processi cognitivi nel DOC

solo la focalizzazione delle possibilità più pericolose ma anche la ricerca


di prove a favore dell'ipotesi peggiore, le inferenze che la confermano
e la loro assunzione.

Prove che il timore di colpa implica sovrastima della minaccia

Chi teme di essere colpevole tende a sovrastimare la probabilità e la


gravità del danno di cui può essere responsabile (Menzies, Harris, Cum­
ming et al., 2000). Ai soggetti veniva chiesto di immedesimarsi nella se­
guente storia: "Sei ospite a casa di un tuo amico, esci per ultimo, quando
sei ormai lontano ti viene in mente che potresti non aver chiuso bene la
porta di casa" . Poi era proposta una versione leggermente diversa della
stessa storia: " Sei ospite a casa di un tuo amico, il tuo amico esce per ul­
timo, quando sei ormai lontano ti viene in mente che potrebbe non aver
chiuso bene la porta di casa" . Dopo la presentazione delle storie veniva
chiesto di stimare la probabilità e la gravità di un eventuale furto. Nel
caso della prima storia, quella in cui il responsabile del rischio di furto
era il soggetto stesso, i partecipanti stimavano la probabilità e la gravità
del furto molto maggiore che dopo la seconda storia, nella quale il re­
sponsabile era l'amico.
Questo effetto è maggiore se si induce senso di colpa tramite la rie­
vocazione di colpe pregresse, ed è ancora maggiore se i soggetti hanno
un elevato senso di colpa di tratto ( Gangemi, Mancini, van den Hout,
2007), come nel caso dei pazienti ossessivi (D'Olimpio, Cosentino, Ba­
sile et al. , 2013 ). Oltre all'effetto sulla stima della gravità e della proba­
bilità della minaccia, l'induzione di senso di colpa implica che si elevano
gli standard di valutazione che i soggetti adottano per valutare le pro­
prie performance e, dunque, l'ipotesi che le proprie performance siano
inadeguate riceve più facilmente conferme (Gangemi, Mancini, van den
Hout, 2007 ). In breve, la presenza dell'emozione di colpa è presa come
prova che il danno di cui si potrebbe essere responsabili è probabile e
grave e che la propria performance è inadeguata. Il fenomeno è noto
come a/fect as in/ormation (Arntz, Rauner, van den Hout, 1995 ) o ragio­
namento emozionale. È importante dare un'altra informazione. Negli
esperimenti citati il senso di colpa veniva attivato chiedendo ai soggetti
di rievocare un episodio per il quale si sentivano ancora in colpa. Dun­
que, si trattava di un'emozione non connessa con il compito sperimen­
tale. Come dire che se una persona con alta colpa di tratto ha attivo un
senso di colpa legato a un dominio, allora tende a sovrastimare i danni
di cui potrebbe essere responsabile e a sottostimare la propria perfor-

77
La teoria

mance, anche in un altro dominio. L' a/fect as in/ormation dunque può


contribuire a generalizzare e ad alimentare il timore di colpa.
Un fenomeno simile all' a//ect as in/ormation è il behaviour as input. I
pazienti con disturbi d'ansia e i pazienti ossessivi mettono in atto com­
portamenti per difendersi dalle minacce temute e tendono a prendere
questi comportamenti come prova dell'esistenza del pericolo, per pre­
venire il quale i comportamenti stessi erano stati messi in atto. Anche
le persone senza problemi clinici, evidentemente, mettono in atto com­
portamenti di prevenzione e difesa dalle minacce ma non li considerano
prove dell'esistenza della minaccia ( Gangemi, Mancini, van de Hout,
2012; van den Hout, Gangemi, Mancini et al., 2014; Engelhardt, van
Uijen, van Seters et al., 2015 ) .
I pazienti ossessivi, rispetto a persone non DOC, sembrano sovrasti­
mare la probabilità degli eventi negativi che possono capitare a loro, in
particolare nel dominio sintomatico, ma non quelli che possono accade­
re in generale a tutti. In uno studio di Moritz eJelinek (2009), gli autori
hanno confrontato tre gruppi di soggetti (con disturbo d'ansia, DOC e
controlli non clinici) e hanno chiesto loro di valutare la probabilità che
in futuro accadessero loro eventi positivi, negativi o eventi rilevanti per
il dominio sintomatico. Successivamente, è stato chiesto loro di valuta­
re la probabilità che questi stessi eventi accadessero a un'altra persona
dello stesso sesso e della stessa età. Dai risultati è emerso che i soggetti
non DOC mostravano un bias ottimistico: sottostimavano la probabilità
di essere coinvolti in eventi negativi se messi a confronto con altri sog­
getti e, nello stesso confronto, sovrastimavano la probabilità di vivere
eventi positivi. Invece, i pazienti con DOC si aspettavano che eventi ne­
gativi e relativi al proprio dominio sintomatico potessero accadere con
maggiore probabilità più a loro che ad altri, mentre sottostimavano la
probabilità di accadimento di eventi positivi. In un recente studio, con­
dotto con tre gruppi di pazienti (con DOC, fobia sociale e controlli non
clinici) , Zetsche, Rief, Westermann e collaboratori (20 15 ) , utilizzan­
do una versione modificata del Probabilistic Classifìcation Task (PCL;
Knowlton, Squire, Gluck, 1994 ) , hanno dimostrato che la sovrastima
della minaccia nei pazienti con DOC sia contesto-dipendente. I soggetti
con ooc differivano dai controlli principalmente per la sovrastima del
proprio personale rischio di esperire eventi negativi ma non differivano
dai controlli nella stima generale della probabilità che questi eventi po­
tessero accadere. Ciò appare compatibile con la tesi qui sostenuta, che
la sovrastima della minaccia dipenda dallo scopo di prevenire la colpa
di aver sottovalutato i rischi.

78
I processi cognitivi nel DOC

Prove che il senso di colpa implica evitamento


della sottovalutazione delle proprie risorse

A partire dall'influenza del senso di colpa sulla valutazione dei pos­


sibili esiti e sulla valutazione delle proprie performance, alcuni studio­
si (vedi Gangemi, Miceli, Mancini, 2004) hanno esaminato se tale stato
influenza nei soggetti normali anche la valutazione delle risorse e delle
difficoltà, vale a dire le potenzialità disponibili e i propri limiti. La tesi
è che se ci si sente in colpa allora si ha lo scopo di prevenire altre colpe
e dunque di evitare, tra l'altro, la possibilità di doversi rimproverare di
aver usato male le proprie risorse, vale a dire di non essere stati attenti a
svolgere al meglio i propri doveri. Ciò implica un orientamento cogni­
tivo finalizzato a non sottovalutare le proprie risorse.
In una ricerca gli autori hanno dunque esaminato l'influenza dell'e­
mozione di colpa sulla valutazione delle risorse disponibili, e in parti­
cole su una risorsa specifica: il tempo. Le ragioni di questa scelta sono
state essenzialmente due. In primo luogo, il tempo è, fra le tante risorse
che si possono considerare, quella più basica e fondamentale. n tempo a
disposizione è sempre una condizione necessaria per l'esecuzione di un
compito, anche se ovviamente non ne è mai una condizione sufficiente.
In secondo luogo, sembra interessante esplorare la possibilità di ricon­
durre all'emozione di colpa la lentezza ossessiva e la generale scarsa con­
siderazione dei limiti temporali, che sembrano caratterizzare gli ossessivi.
Per analogia con quanto accade nella valutazione degli esiti possibili,
è stato ipotizzato che chi si sente in colpa, soprattutto se ha un'elevata
colpa di tratto, tende a sottovalutare il tempo necessario per svolgere un
compito. Più in particolare si è ipotizzato che l'induzione di un senso di
colpa tramite il ricordo di una colpa pregressa, in individui con elevata
colpa di tratto, avrebbe influenzato la valutazione: l ) del tempo neces­
sario per svolgere un compito; 2) del numero di compiti che è possibile
svolgere in un determinato lasso di tempo. L'influenza va nella direzio­
ne di una diminuzione del tempo stimato necessario per un compito e
nell'aumento del numero di compiti che si stima possano essere svolti
in un lasso definito di tempo. Diminuzione e aumento rispetto a quan­
to accade in soggetti nei quali non è stato attivato un senso di colpa e
rispetto a soggetti con bassa colpa di tratto. Al fine di verificare queste
ipotesi sono stati condotti due esperimenti. Un primo esperimento pre­
vedeva la somministrazione di un compito di stima della durata tem­
porale di alcune tipiche attività quotidiane (per esempio: sistemare gli
indumenti nell'armadio 4 paia di pantaloni, 2 magliette e 3 camicie;
-

79
La teoria

ordinare la scrivania - agenda, penne, matite, block-notes, appunti va­


ri; rifare il letto, ecc.).
Anche il secondo esperimento prevedeva la somministrazione di un
compito di stima della durata temporale di eventi appartenenti alla vita
quotidiana. In questo caso, però, dopo la fase di induzione dell' emozio­
ne di colpa secondo una procedura analoga a quella dell'esperimento
precedente, ai soggetti appartenenti a entrambe le condizioni sperimen­
tali (gruppo "colpa" vs gruppo di controllo) veniva richiesto di stimare
il numero delle stesse attività quotidiane elencate per il primo esperi­
mento, che era possibile svolgere all'interno di un intervallo temporale
stabilito dallo sperimentatore (per esempio, 30 minuti) .
In linea con le ipotesi, nel primo esperimento, i soggetti "colpevoli"
sottostimavano la quantità di tempo necessaria per svolgere un certo nu­
mero di attività quotidiane. Tale effetto appariva maggiore nei soggetti
propensi a esperire cronicamente la colpa (alta colpa di tratto) . Nel se­
condo esperimento, i partecipanti " colpevoli" sovrastimavano il numero
di attività quotidiane che a loro avviso era possibile svolgere all'interno
di un intervallo di tempo definito. Anche in questo esperimento, tale
effetto era maggiore nei soggetti con alta colpa di tratto.
Da tali risultati sembra possibile immaginare che nei pazienti osses­
sivi lo stato emozionale di colpa possa implicare: l ) sottostima del tem­
po necessario per prevenire i danni di cui si sentono responsabili e 2)
sovrastima delle risorse temporali a disposizione per lo stesso scopo.

Prove ch e i pazienti ossessivi tendono


a ricercare la certezza CHE NON • • •

Le osservazioni cliniche dimostrano, inoltre, che i pazienti ossessivi,


dopo aver confermato attraverso la strategia BSTS l'ipotesi peggiore, si
impegnano in tentativi di soluzione che possono muoversi lungo due
strade. La prima strada consiste nel tentare di determinare un cambia­
mento nella realtà, per esempio con le compulsioni e con gli evitamenti,
che renda impossibile l'evento. Questa strada è percorsa se al paziente
appare possibile un intervento sulla realtà. A volte l'intervento è di ti­
po magico-superstizioso, come per esempio nel caso di Roberto, citato
nel capitolo I. La seconda strada è percorsa, invece, se l'intervento sul­
la realtà appare impossibile e consiste nel trovare la prova certa che la
possibilità temuta non si sia realizzata o non si realizzerà. Per esempio,
perché l'evento appartiene al passato remoto, come poteva accadere a
Maria se il contatto pericoloso era accaduto tempo prima e dunque a

80
I processi cognitivi nel DOC

ben poco sarebbero serviti i lavaggi, o perché i controlli sono impossi­


bili, come poteva capitare a Giovanni se si trovava troppo lontano da
casa per poter tornare a controllare, o perché, come nel caso di Davi­
de, è impossibile cambiare una personalità che dovesse rivelarsi psico­
patica. Come si vede, questa seconda strada utilizza la ruminazione e il
ragionamento. Le due strade hanno in comune il fine ultimo di creare
le condizioni per cui non ci si deve autorimproverare di essere stati tra­
scurati, superficiali e menefreghisti nella gestione della minaccia. I pa­
zienti con DOC sono infatti più interessati a dimostrare di non essersene
fregati, piuttosto che a cambiare realmente i fatti, come si vede anche
dal loro fissarsi nel ripetere lo stesso tentativo di soluzione piuttosto che
cercare e usare strumenti più efficaci.

La prima strada

La prima strada è esemplificata da Giovanni, il quale, dopo essersi


confermato mentalmente la possibilità di aver lasciato il rubinetto del
gas chiuso male, e che quindi, per una propria sbadataggine, ci potes­
se essere una fuga di gas, un'esplosione, danni gravi e diverse vittime e
che per tutto questo sarebbe stato gravemente colpevole, effettuava dei
controlli ripetuti, volti a scongiurare il danno immaginato. Tuttavia, la
certezza di aver chiuso il rubinetto, che Giovanni tentava di raggiungere
con le compulsioni di controllo, sembrava finalizzata a prevenire l'au­
toaccusa di essere stato superficiale, irresponsabile o poco scrupoloso.
Ciò traspare dal fatto che Giovanni tendeva a concentrarsi soprattutto
su uno dei tanti tentativi di soluzione possibili, il controllo del rubinet­
to, trascurando altre possibili soluzioni, come per esempio installare
un rilevatore di fughe di gas con allarme o usare una cucina elettrica, e
cercando di svolgere i controlli senza imperfezioni, tanto che li ripeteva
numerose volte proprio perché non tollerava il sospetto di averli eseguiti
male. Queste due osservazioni suggeriscono quanto già argomentato nel
capitolo II, e cioè che la ricerca della certezza di aver chiuso il rubinetto
fosse strumentale a non aver nulla da rimproverarsi.
Tutte le persone, e ancor più i pazienti affetti da disturbi d'ansia, di
fronte a un indizio di pericolo tendono a focalizzare l'ipotesi che la mi­
naccia sia vera, a confermarla. Questa procedura è strumentale a difen­
dersi dal pericolo. Nei pazienti ossessivi, invece, sembra che questo stes­
so processo abbia il fine ultimo di prevenire l'autoaccusa di non essere
stati all'altezza dei propri doveri e le azioni sulla realtà, come sono per
esempio le compulsioni di controllo, sembrano strumentali a questo fine

81
La teoria

ultimo, perché il pericolo per il paziente ossessivo non è la fuga di gas in


sé ma il proprio eventuale menefreghismo rispetto a questa possibilità.

La seconda strada
La seconda strategia è di tipo dialettico/dibattimentale. Si anticipa
un'accusa che dà per scontata la colpevolezza (il paziente avrebbe do­
vuto agire in maniera più responsabile) e si cerca di dimostrare al di là
di ogni ragionevole dubbio che ogni possibile ragione di accusa sia falsa.
Prendiamo per esempio il resoconto di Maria, il cui disturbo era cen­
trato sulla possibilità di contrarre l'AIDS da cui cercava di proteggersi con
rituali di lavaggio ed evitando di toccare oggetti a suo avviso pericolosi,
tra cui i giornali. La ragione di questo specifico evitamento era il timore
che nel giornale vi fosse la foto di un qualche paziente malato di AIDS e
che toccandola avrebbe potuto contagiarsi.
n tutto era iniziato un giorno di diversi anni prima in cui la paziente
aveva acquistato una rivista e, sfogliandola, aveva trovato la fotografia
di un famoso attore americano morente di AIDS.
Riprendiamo adesso la ricostruzione del dialogo interno della pa­
ziente:

Oddio, toccare questa foto mi fa impressione, è come se stessi toccan­


do davvero il malato. E se mi fossi contagiata? Sarebbe terribile, che
sbadata sono stata, potevo stare più attenta !
No, ma che sto pensando! È assurdo!
Però come posso esserne così sicura? !
Non posso, il fotografo è stato vicino a R. H . . . . Infatti la foto è un primo
piano, e dunque potrebbe essere stato contagiato.
Sì, ma l'AIDS non si contrae mica con la vicinanza, ci deve essere un con­
tatto intimo.
Già, ma io che ne so se c'è stato un contatto intimo? Il fotografo stesso
poteva essere omosessuale.
In effetti, sembra improbabile che ci sia stata dell'intimità in una stanza
d'ospedale e con un malato grave.
Ma io non ero lì, dunque come posso escluderlo?
Sì, ma anche se il fotografo fosse stato contagiato, come potrebbero es­
sere arrivati a me i virus?
Il fotografo è certamente un professionista e quindi ha sviluppato le foto
lui stesso e dunque potrebbe averle contaminate con il virus dell'HIV.
Ok, ma io non ho toccato il fotografo e nemmeno le sue foto.
No, certo, ma i tipografi che hanno stampato questa copia forse sì, e ma­
gari l'hanno anche toccata.
Sì, ma i virus muoiono in circa mezz'ora, se non sono nel corpo.
Vero, ma i virus mutano e magari qualcuno è sopravvissuto.

82
I processi cognitivi nel DOC

Sì, ma ci vuole una certa carica virale.


E io che ne so di quanti virus ci vogliono?
Ok, tuttavia sarebbero dovuti entrare nel mio corpo e io non ho tagli,
graffì o escoriazioni sulle mani.
Un momento! Ma questa pellicina è alzata, forse, quando ho toccato il
giornale, era anche aperta.
Però non usciva sangue, me ne sarei accorta . . E se ero distratta? D'al­
.

tra parte mi sono agitata subito e non ho certo fatto attenzione alla
pellicina.
Oh mio Dio ! ! ! Allora davvero ho corso un rischio ! ! ! Ma potevo pen­
sarci prima! ! !

È possibile identificare e descrivere i passi del ragionamento dialetti­


co/dibattimentale a partire dal resoconto della nostra paziente ossessiva:
l. Maria focalizza un pericolo, per esempio considera contaminante il
tocco del giornale in modo del tutto intuitivo e impressivo, e attiva
una sensazione emotiva di disgusto e paura che porta all'ipotesi di
un contagio e dà il via al ragionamento: "Oddio, toccare questa foto
mi fa impressione, è come se stessi toccando davvero il malato . . . " .
2. Focalizza dunque l'ipotesi di pericolo, nonostante, come spesso ac­
cade ai pazienti, fosse per lei stessa implausibile, almeno inizialmen­
te: "E se mi fossi contagiata? " .
3 . Fa seguire un commento critico all'ipotesi di contagio: "No, m a che
sto pensando ! È assurdo ! " .
4. Valuta insufficiente l a forza critica del commento rassicurante, poiché
usa standard molto elevati: "Però come posso esserne così sicura? ! ".
2 bis. Focalizza una nuova possibilità di pericolo: "Il fotografo è stato
vicino a RH . . . . Infatti la foto è un primo piano" .
3 bis. Ne cerca di nuovo la falsificazione: "Sì, ma l'AIDS non si contrae
mica con la vicinanza, ci deve essere un contatto intimo" .
4 bis. Valuta insufficiente la forza critica del commento rassicurante:
"Già, ma io che ne so se c'è stato un contatto intimo? " .
2 ter. Focalizza una nuova possibilità di pericolo: "Il fotografo stesso
poteva essere omosessuale" .
3 ter. Ne cerca d i nuovo la falsificazione: "In effetti, sembra improba­
bile che ci sia stata dell'intimità in una stanza d'ospedale e con un
malato grave" .
4 ter. Valuta insufficiente la forza critica del commento rassicurante:
"Ma io non ero lì, dunque come posso escluderlo? " .
E così via . . .

83
La teorù1

In generale, sembra che i pazienti ossessivi, almeno nel dominio sin­


tomatico, cerchino di immaginare tutte le possibilità negative e poi cer­
chino di falsificarle una per una, ma sono disposti a rigettare l'ipotesi
di pericolo solo a condizione che ne sia certa l'impossibilità. In breve,
sembrano voler dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il
pericolo non sussiste. Il risultato paradossale, però, è che partendo da
una credenza soggettivamente implausibile, il paziente finisce col vedere
un numero sempre più alto di possibilità di pericolo e dunque è sempre
più difficile abbandonarla e sempre più naturale darle credito.
n paziente ossessivo ricorre dunque al ragionamento dialettico/di­
battimentale, perché focalizza l'ipotesi di pericolo, in quanto teme di
essere accusato di aver determinato il pericolo stesso. Cerca la falsifica­
zione dell'ipotesi di pericolo perché vuole difendersi dall'accusa e dun­
que vuole contestarla. Usa standard molto elevati per valutare la portata
della falsificazione perché ritiene, by default, che il giudizio sarà severo,
nel senso che terrà conto solo della possibilità che sia colpevole e non
che sia innocente.
In sintesi, il nostro paziente, per difendersi da possibili autoaccuse
severe e sottrarsi quindi al rischio di essere oggetto di espressioni ag­
gressive e critiche sprezzanti, esamina tutte le possibilità di pericolo, e
cerca di dimostrarle tutte false, con certezza assoluta, cioè al di là di ogni
ragionevole dubbio.
Che prove abbiamo che dimostrano che i nostri pazienti ossessivi, se
devono neutralizzare una colpa o il timore di contaminazione, ragiona­
no in termini dialettici, e che questo stile di ragionamento è tipico del
DOC, a differenza del BSTS che caratterizza in generale anche gli altri di­
sturbi d'ansia?
Uno studio che si è avvalso della collaborazione di un gruppo di psi­
chiatri ha consentito di verificare se costoro erano in grado di riconoscere
o come tipici del DOC o come tipici di altri disturbi di ansia (per esempio,
ipocondria, paranoia, disturbo d'ansia generalizzata o GAD) , indipenden­
temente dal loro contenuto, ragionamenti prodotti seguendo rispettiva­
mente i passi tipici del ragionamento ossessivo (caratterizzato da prove
a favore e contro l'ipotesi di pericolo) o del BSTS (caratterizzato invece
dalla ricerca di dati congrui con l'ipotesi di pericolo) (Johnson-Laird,
Mancini, Gangemi, 2006). Agli psichiatri sono state mostrate alcune cop­
pie di resoconti verbali di pazienti, ciascuna delle quali con il contenuto
tipico di alcuni disturbi psicopatologici presi in esame (DOC in due va­
rianti - contaminazione e controllo - ipocondria, ansia generalizzata, fo­
bia specifica, e paranoia) . I due resoconti di ciascuna coppia, pur se con

84
I processi cognitivi nel DOC

lo stesso contenuto, differivano tra loro per la forma del ragionamento:


uno dei resoconti era formulato secondo lo stile del ragionamento osses­
sivo e l'altro invece era formulato secondo lo stile proprio del BSTS. Agli
psichiatri è stato chiesto di dire quale diagnosi era possibile formulare a
partire da ciascuno dei due resoconti. I dati raccolti dimostrano che gli
psichiatri con grande facilità riconoscevano come tipici del DOC ragiona­
menti nello stile dialettico/dibattimentale e ciò indipendentemente dal
contenuto. Questa ricerca sembra avvalorare la nostra tesi: il ragiona­
mento dialettico/dibattimentale è caratteristico del DOC e i passi da noi
identificati come tipici del ragionamento ossessivo producono effettiva­
mente questo genere di ragionamento. Quando invece i pazienti osses­
sivi devono prevenire un danno piuttosto che neutralizzare una colpa o
il timore di contaminazione, ricorrono al ragionamento Better Sa/e Than
Sorry, esattamente come tutti gli altri pazienti affetti da disturbi d'ansia.

Prove che il senso di colpa


orienta le scelte ri schiose in modo prudenzi ale

Abbiamo già visto come il timore di colpa possa influenzare le scelte


in vari modi. Influenza sia la stima della probabilità e della gravità de­
gli esiti previsti sia la focalizzazione degli eventi tra i quali scegliere. n
senso di colpa influenza però le scelte anche attraverso la modulazione
della propensione o avversione al rischio. Diversi esperimenti condotti
con soggetti normali (Mancini, Gangemi, 2003 , 2004; Gangemi, Baldini,
Carini et al. , 2003 ) hanno infatti indagato l'influenza del timore di colpa
sulle decisioni prese in condizioni di incertezza. Convenzionalmente si
parla di incertezza quando ci si riferisce a situazioni in cui l'individuo
non conosce con certezza quale sarà esattamente l'esito che otterrà una
volta effettuata la scelta (basti pensare ai giocatori di borsa). Il proble­
ma dell'incertezza è centrale nello studio dei processi decisionali dal
momento che le conseguenze delle azioni che l'individuo intraprende
spesso si prolungano nel futuro e non si può essere completamente si­
curi che l'esito sperato si verifichi realmente.
Secondo il matematico Bernoulli, una scelta è certa o contraria al ri­
schio se si p referisce un esito certo a un azzardo. Una scelta è invece
rischiosa o tendente al rischio se si rifiuta un esito certo a favore di un
azzardo. Per esempio, supponiamo che si vada al borsino della propria
banca e ci venga fatta la seguente proposta: possiamo scegliere un in­
vestimento che ci garantisce con certezza assoluta un guadagno del 2 %
della somma investita all'anno oppure un altro investimento che ha il
La teoria

50% di probabilità di fruttare il 4 % della somma, e il 50% di non farci


guadagnare nulla. Optare per la prima scelta equivale a compiere una
scelta certa o, per dirla con un altro termine, avversa al rischio. Il guada­
gno in questo caso è infatti certo. Optare per la seconda equivale invece
a privilegiare una scelta rischiosa, infatti l'investimento può, è vero, farci
guadagnare il doppio dell'altro, ma è anche vero che può non farci gua­
dagnare nulla. L'esito di tale scelta è dunque incerto. Si noti che in que­
sto esempio il valore monetario delle due opzioni possibili è lo stesso.
In generale, la vita quotidiana ci pone sistematicamente di fronte alla
necessità di scegliere tra la certezza o il rischio. Da che cosa dipendono
la preferenza per l'uno o per l'altro?
Recenti studi hanno dimostrato che le emozioni possono differen­
temente influenzare le scelte individuali (per esempio, Lerner, Keltner,
200 1 ) . In linea con questa prospettiva, in due diversi esperimenti ab­
biamo voluto indagare in che modo l'emozione di colpa influenzi le de­
cisioni in condizioni di incertezza (Gangemi, Bussolon, Ruozzi et al.,
2006). La nostra ipotesi era che la colpa avrebbe spinto gli individui a
effettuare la scelta più funzionale al perseguimento dello scopo di retti­
ficare, e in particolare di prevenire ulteriori colpe o espiare (vedi Haidt,
2003 ; Mancini, 2008). In entrambi gli esperimenti, abbiamo considerato
scelte i cui esiti erano pene pecuniarie imposte all'individuo. In partico­
lare, in un primo studio, un gruppo di soggetti è stato assegnato in ma­
niera casuale a una delle due condizioni sperimentali (induzione colpa
vs induzione rabbia) . Subito dopo, ai partecipanti è stato presentato un
problema decisionale in una versione neutra, nella quale ai soggetti non
veniva specificato nulla riguardo la loro colpevolezza o meno relativa­
mente a una multa ricevuta (''Torni a casa e trovi una multa per eccesso
di velocità di 1 .200 euro " ). Le opzioni di scelta erano del tipo: a) Se saldi
subito, allora paghi 800 euro; b) Se fai ricorso, c'è 113 di probabilità di
non pagare nulla e 2/3 di probabilità di pagare 1 .200 euro. Infine, dopo
aver terminato il compito, ai partecipanti è stato richiesto di completa­
re un questionario volto a valutare quanto si sentissero colpevoli rispet­
to alla multa ( ''Quanto ti senti in colpa dopo aver letto il problema? ";
"Quanto ti senti in colpa per la multa? " ) e quanto ritenessero legittima
la stessa ( ''Quanto ti sembra giusta la multa? " ) .
I n linea con le nostre ipotesi, i partecipanti assegnati alla condizio­
ne di colpa hanno effettuato la scelta certa, poiché l'unica che avrebbe
consentito loro di pagare con certezza e dunque di riparare. La scelta
rischiosa avrebbe invece offerto loro la chance di non pagare nulla e
dunque il rischio di commettere un'ulteriore colpa. Al contrario, in ac-

86
I processi cognitivi nel DOC

cordo con la letteratura (vedi Lerner, Keltner, 2000, 2001), la preferenza


dei partecipanti assegnati alla condizione di rabbia è andata alla scelta
rischiosa. Le risposte dei nostri partecipanti sembrano dunque guidate
essenzialmente dalla rappresentazione del problema decisionale in ac­
cordo con lo stato emozionale indotto (colpa/rabbia). I partecipanti col­
pevoli sembrano aver preferito infatti la scelta certa perché orientati non
solo a espiare ma anche a evitare un'ulteriore colpa, come dimostrato
dai punteggi più elevati riportati in tutte e tre le scale del questionario,
in base alle quali hanno considerato la multa come più meritata, e ri­
spetto alla stessa si sono valutati più colpevoli dei soggetti "arrabbiati" .
Questo studio ha lasciato però aperta una questione fondamentale:
come possiamo essere certi che l'emozione indotta, la colpa, abbia spin­
to i soggetti a preferire la scelta certa per via dello scopo di espiare e
prevenire ulteriori colpe, e non più semplicemente per una più generica
avversione al rischio? n secondo esperimento è stato condotto proprio
per dirimere la questione. Rappresenta in qualche modo una replica del
primo, ma i compiti sono stati modificati, così da ottenere anche opzio­
ni rischiose e al contempo in grado di soddisfare lo scopo di espiare ed
evitare così un'ulteriore colpa. Dal momento che nel primo esperimento
mancava una condizione di controllo, in questo studio abbiamo esami­
nato tre gruppi di soggetti assegnati casualmente a una delle tre condi­
zioni di emozione indotta (colpa/rabbia/neutrale) . In particolare, dopo
l'induzione delle emozioni, realizzata sempre attraverso la rievocazione
di un evento autobiografico, a ciascun partecipante è stato presentato
uno dei problemi decisionali ottenuti variando sistematicamente nella
storia il ruolo di chi paga per la scelta (vittima/ colpevole) . In particolare,
i problemi presentavano una storia i cui p rotagonisti, un imprenditore e
un architetto, ricevevano una multa durante la realizzazione di un palaz­
zo ( "Immagina di essere il titolare di un'impresa edile, in un cantiere al
quale lavori un controllo dei carabinieri accerta un'infrazione alle norme
di sicurezza . . . "). n problema continuava poi in maniera differente a se­
conda della condizione sperimentale cui i soggetti erano stati assegnati.
Se a pagare per la scelta era la vittima il testo, per esempio, continuava
con: "L'architetto, in quanto direttore dei lavori, ti aveva avvisato delle
misure di sicurezza richieste ma tu per negligenza non ne hai tenuto con­
to. . . L'architetto dovrà pagare 3 0.000 € di multa" . Se a pagare era invece
il colpevole, continuava con: " . . . Tu dovrai pagare 3 0.000 € di multa" .
L a nostra ipotesi era che, se a pagare per l a scelta era il colpevole, allora,
nella condizione di colpa indotta, l'opzione certa era quella che avrebbe
consentito di espiare e di evitare altre colpe ("Se non fai ricorso pagherai

87
La teoria

20.000 €"), mentre la scelta rischiosa poteva invece offrirgli la chance di


non pagare nulla e dunque di commettere un'ulteriore colpa ( " Se fai ri­
corso hai 2/3 di probabilità di pagare tutti i 3 0.000 € e 1/3 di non pagare
nulla"). Sempre nella condizione di colpa indotta, se a pagare era inve­
ce la vittima, allora l'opzione rischiosa era quella che avrebbe consenti­
to al colpevole di evitare una negligenza che avrebbe implicato ancora
una volta una colpa di cui rimproverarsi ( " Se fai ricorso l'architetto ha
2/3 di probabilità di pagare tutti i 30.000 € e 113 di non pagare nulla").
Ci aspettavamo quindi che i partecipanti con colpa indotta avrebbero
scelto l'opzione (rischiosa o certa) che avrebbe consentito loro di evita­
re comunque una colpa futura. In linea con la letteratura (vedi Lerner,
Keltner, 2001), ci aspettavamo invece che i soggetti del gruppo rabbia
avrebbero comunque preferito la scelta rischiosa, indipendentemente
dal ruolo che avrebbe pagato per la scelta. I risultati hanno corrobora­
to ancora una volta le nostre ipotesi. L'unico fattore che ha influenzato
significativamente le preferenze dei soggetti (scelte rischiose vs scelte
certe) è stato infatti la rappresentazione del problema decisionale in ter­
mini di emozioni, più che la semplice avversione al rischio.
I risultati ottenuti nell'evidenziare l'influenza del timore di colpa sul
processo decisionale e, in particolare, sulle scelte certe o rischiose sugge­
riscono la possibilità che l'attitudine alla scelta certa tipica degli ossessivi
possa essere ricondotta non tanto a una generica intolleranza all'incer­
tezza o al rischio (principio spesso erroneamente invocato), ma, piutto­
sto, al fatto che nelle condizioni di vita quotidiana e nello stato mentale
di timore di colpa il paziente avversa prudenzialmente il rischio per evi­
tare la possibilità di commettere una colpa per cui si rimprovererebbe
domani (l'esplosione della casa se non controllo il gas). In questa acce­
zione, la predilezione per la certezza (controllare il gas) e l'intolleranza
per il rischio implicano tra le altre cose anche la tendenza a perseverare
nell'attività preventiva. Essere disposti a fermarsi soltanto quando si è
certi del risultato implica che si cammini più a lungo e, dunque, che si
paghi di più: ma tutto va bene pur di sottrarsi al sospetto di essersene
fregati e quindi di essere colpevoli.

CONCLUSIONI

Il timore di colpa implica processi cognitivi simili a quelli che si ri­


scontrano nei pazienti ossessivi. Più specificatamente, il timore di colpa
attiva lo scopo di evitare autorimproveri per aver sottovalutato pericoli

88
I processi cognitivi nel DOC

che si ha il dovere di prevenire (contagi, esplosioni del gas, incidenti dei


propri cari, proprie intenzioni omicide) e per aver trascurato precau­
zioni doverose. Un siffatto scopo è perseguito con una strategia cogni­
tiva iperprudenziale che implica la focalizzazione della ipotesi peggiore
e la defocalizzazione di quella più favorevole, indipendentemente dai
dati disponibili. A ciò seguono la ricerca di prove a favore dell'ipotesi
peggiore e inferenze confirmatorie della credenza di pericolo, che por­
tano ad assumerla per valida. Quest'assunzione è facilitata anche dal
ragionamento di Pascal, cioè dalla consapevolezza che i costi di omet­
tere erroneamente la credenza di pericolo sopravanzano i costi dell' er­
rore inverso. L'attivazione dell'emozione di colpa, nei soggetti con al­
ta colpa di tratto, implica la sovrastima della probabilità e della gravità
della minaccia e anche la sovrastima della risorsa tempo a disposizione.
I tentativi di soluzione seguono due percorsi. Il primo consiste nel ten­
tare di prevenire o di neutralizzare con certezza assoluta la minaccia. Il
secondo percorso consiste nel considerare tutti i modi in cui potrebbe
realizzarsi la possibilità peggiore e nel cercare la prova certa che ciascu­
na di queste possibilità sia falsa. Si fa ricorso alla prima se si può preve­
nire la minaccia agendo sui fatti. Si fa invece ricorso alla seconda se non
c'è la possibilità di agire sui fatti. In entrambi i casi, non solo i risultati
ottenuti, ma anche i propri sforzi sono valutati con standard molto ele­
vati. Il fine ultimo di tutta la strategia, soprattutto se il timore è di col­
pa deontologica, è prevenire l'autoaccusa di non essere stati adeguati
ai propri doveri. Vedremo nel capitolo successivo come i processi co­
gnitivi coinvolti in questa strategia protettiva possano aiutare a rispon­
dere ad alcuni dei quesiti riguardanti il DOC, sollevati nel capitolo I. In
particolare, questa strategia iperprudenziale ha almeno quattro risulta­
ti. Il primo è che aumenta, dal punto di vista del paziente, il numero e
la tipologia di eventi critici, e questo generalizza la sintomatologia. In
secondo luogo, la credibilità soggettiva delle credenze di minaccia au­
menta e quindi aumenta la resistenza al cambiamento. In terzo luogo, a
causa degli standard elevati, le proprie performance protettive tendono
a essere valutate inadeguate e dunque il paziente ci investe più tempo ed
energie. Anche in questo caso la sintomatologia si espande. In quarto
luogo, soprattutto nel secondo percorso, accade che, immaginando tut­
ti i modi in cui possa realizzarsi una minaccia, anche i meno plausibili,
e seguendo la regola che vanno presi sul serio a meno di non riuscire a
falsificarli con certezza, facilmente accade che una possibilità bizzarra,
ma non impossibile con certezza, sopravviva ai tentativi di falsificazio­
ne e che il paziente si senta obbligato a darle credito. Il risultato è che il

89
La teoria

paziente può investire tempo e risorse per prevenire possibilità che, ai


suoi stessi occhi, sono bizzarre e poco plausibili, come per esempio nel
caso di Maria che si lavava per ore le mani se le capitava di toccare un
giornale perché non poteva escludere con certezza che ci sarebbe po­
tuta essere la foto di un malato di AIDS e che il contatto avrebbe potuto
essere contagioso.

90
IV

LE RISPOSTE AGLI INTERROGATIVI


SOLLEVATI DAL DOC
Francesco Mancini, Antonella Rainone

In questo capitolo intendiamo rispondere ai quesiti sollevati dalla


sintomatologia ossessiva e anticipati nel capitolo 1.

IL PRIMO QUESITO

Perché nei pazienti ossessivi le idee intrusive si presentano con tanta


frequenza e sono così persistenti?
Per rispondere a questa domanda è necessario riprendere la distin­
zione fra ossessioni autogene, vale a dire i cosiddetti pensieri proibiti,
presenti per esempio nel caso di Davide, in cui alcuni pensieri attivava­
no il sospetto di essere disposto a uccidere i genitori per soldi, e osses­
sioni reattive, cioè quei pensieri che si riferiscono a eventualità minac­
ciose, presenti per esempio nel caso di Maria che era ossessionata da
pensieri intrusivi del tipo: "E se urtando quella persona avessi contratto
l'AIDS? ! ". I pensieri proibiti sono più frequenti e persistenti per diverse
ragioni. Innanzitutto, poiché sono particolarmente temuti, il paziente
investe molte risorse nel tentativo di prevenirne la comparsa o di sop­
primerli e scacciarli dalla mente. Ma, per il fenomeno " orso bianco"
(Wegner, 1994) , questi tentativi hanno un risultato paradossale. Infatti,
se si vuole prevenire la comparsa di un pensiero o sopprimerlo, proprio
al fine di controllare se si è riusciti in questo intento, ci si deve pensare.
Nel caso delle ossessioni reattive, per prevenire la minaccia si orienta
l'attenzione verso la ricerca degli eventi potenzialmente minacciosi. Per
esempio, Maria diceva di se stessa che, quando camminava per la stra­
da, girava "con gli occhi composti" , come quelli delle mosche capaci di
avere una visione a 360°, alludendo alla ricerca sistematica e continua di

91
La teoria

contatti potenzialmente pericolosi e dunque da evitare. In questo mo­


do era molto probabile che Maria notasse un evento capace di attivare
il dubbio ossessivo "E se avessi contratto l'AIDS? ! " . Inoltre, le ricerche
(riassunte in Rachman, 2002) confermano che sia le ossessioni endogene
sia quelle reattive intrudono più frequentemente se il paziente incontra
stimoli attivanti, per esempio i coltelli facilitano l'intrusione di pensie­
ri aggressivi e il tocco di una persona sporca facilita l'intrusione del so­
spetto di un contagio, ed è più probabile incontrare stimoli attivanti se
ci si presta attenzione al fine di proteggersi.
In sintesi, nel caso di ossessioni endogene: più timore - più investi­
mento protettivo - più tentativi di soppressione dei pensieri proibiti -+
più pensieri intrusivi.
Nel caso di ossessioni reattive: più timore - più investimento pre­
ventivo --7 più attenzione selettiva - più trigger percepiti - più pen­
sieri intrusivi.
Pertanto la frequenza delle intrusioni dipende dall'investimento pro­
tettivo. Ciò spiega anche un altro fenomeno. I pazienti riferiscono che il
pensiero ossessivo può intrudere nella mente anche in momenti in cui
nulla sembra suggerirlo. Per esempio, come abbiamo già detto, il pen­
siero "E se stamane, toccando quella persona avessi contratto l'AIDS?"
poteva intrudere nella mente di Maria quando era in casa, tranquilla, in
procinto di godersi un film alla TV. Anche in questo caso, l'intrusione
dipendeva da un controllo preventivo messo in atto prima di conceder­
si qualcosa di piacevole, al fine di evitare di rilassarsi senza aver adem­
piuto ai propri doveri.

IL SECONDO QUESITO

Perché Maria dava credito a possibilità di pericolo improbabili o addi­


rittura implausibzlz; come per esempio poter contrarre l'AIDS urtando un
passante? Perché Roberto credeva che se non avesse eseguito in manie­
ra perfetta i suoi rituali di ordine e simmetria, i suoifamiliari avrebbero
potuto essere vittime di un incidente mortale? Perché per Davide l'aver
pensato ai vantaggi economici che avrebbero potuto derivargli dalla mor­
te del padre costituiva un serio indizio di essere uno psicopatico omicida?
Dallo stato mentale caratteristico dei pazienti ossessivi, deriva una
strategia prudenziale che abbiamo descritto nel capitolo precedente e
che consiste nel mettere a fuoco tutte le possibilità negative, anche quel­
le improbabili e implausibili, e prenderle seriamente in considerazione a

92
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

meno che non si riesca a neutralizzarle o escluderle con certezza. Poiché


è difficile riuscire a escludere con certezza tutte le possibilità immaginate,
è chiaro che una strategia del genere porta facilmente a dar credito anche
a possibilità di pericolo improbabili, implausibili o addirittura bizzarre,
come per esempio la possibilità di contrarre l'AIDS urtando un passante.
li caso di Fabio aiuta a illustrare come il timore di doversi rimprove­
rare di essere stato poco prudente orienti i processi cognitivi al punto
che il paziente arriva a dar credito a idee assurde, che per lui stesso so­
no implausibili.

Fabio, studente liceale di 17 anni, aveva la mente completamente invasa


da formule di annullamento di un patto che temeva di aver stipulato, suo mal­
grado, con il diavolo. Alcuni mesi prima, si era trovato in un momento di gra­
ve difficoltà con i compagni di scuola, dai quali si sentiva sminuito ed escluso.
Aveva cercato una rivincita attraverso il successo scolastico e, dunque, si era
impegnato moltissimo nello studio. Dopo un periodo di grande sforzo si era
reso conto che il suo impegno cominciava a vacillare e che sempre più spes­
so era portato a distrarsi, ad alzarsi dalla scrivania, a fare un giretto per casa,
magari andando in cucina per un bicchiere d'acqua. Infastidito e preoccupato
per questi cedimenti, trovò la soluzione nel patto col diavolo. Si disse: "Faccio
un patto col diavolo tale per cui se mi alzo dalla scrivania allora lui ha il diritto
di prendersi la mia anima quando morirò" . Il meccanismo sembrò funzionare
e allora il ragazzo decise di utilizzarlo anche per migliorare la sua concentra­
zione. Si era accorto, infatti, che tendeva a distrarsi anche se non si alzava dal
tavolo. Fece dunque un patto col diavolo tale per cui gli avrebbe ceduto la sua
anima se si fosse distratto nello studio. Inevitabilmente ogni tanto si distraeva
e capì che non poteva concentrarsi a comando. Decise allora di annullare con
una formula il patto col diavolo. Dopo aver eseguito la formula fu però assalito
dal dubbio che il diavolo, essendo per definizione un mascalzone, avrebbe po­
tuto approfittare di ogni minima imperfezione nella formula di annullamento
per continuare a considerare valido il patto. Era opportuno, dunque, ripetere
la formula di annullamento. Il problema si complicò ulteriormente quando si
rese conto che, proprio per poter svolgere le formule di annullamento, doveva
pensare al patto e che, in questo modo, dava l'occasione al diavolo di ritenere
stipulato un nuovo patto. Il ragazzo si rendeva conto che le sue compulsioni
mentali erano esagerate e soprattutto si rendeva conto che non riusciva più a
studiare e che quindi il suo progetto di rivincita era destinato a fallire misera­
mente. Ma nonostante questa consapevolezza non riusciva a interrompere le
compulsioni mentali.

Il punto interessante è il rapporto che il paziente aveva con l'idea


dell'esistenza del diavolo. Fabio proveniva da una famiglia atea e lui
stesso non era credente, non aveva pertanto una convinzione positiva
circa l'esistenza del diavolo. Alla domanda: "Ma tu credi davvero che

93
La teoria

il diavolo esista ?", Fabio rispose che non ci credeva, anzi gli sembrava
un'idea implausibile ma, d'altra parte, riteneva di non poter escludere
con certezza l'esistenza del diavolo e che, trattandosi di un'entità mal­
vagia e pericolosa ed essendo la posta in gioco drammaticamente ele­
vata, era meglio comportarsi come se il diavolo esistesse davvero. Un
ragionamento del tutto sovrapponibile a quello di Pascal a proposito
dell'esistenza di Dio. Pascal diceva che, non potendo dimostrare l'esi­
stenza di Dio, ma d'altra parte non potendo nemmeno dimostrarne la
non esistenza, si trovava inevitabilmente in una condizione di incertezza
e perciò non gli restava che scommettere. Se avesse scommesso sull'esi­
stenza di Dio e si fosse sbagliato allora si sarebbe inutilmente sacrificato
per rispettare i vincoli della religione, ma se avesse scommesso sulla non
esistenza di Dio e avesse sbagliato, allora il costo sarebbe stato immen­
samente più grande, perché si sarebbe trattato della perdita della vici­
nanza eterna a Dio. Gli conveniva, quindi, scommettere sull'esistenza di
Dio e vivere come se Lui esistesse; poi, aggiungeva Pascal, piano piano,
si sarebbe abituato all'idea che Dio esistesse, al punto da convincersene.
Dunque, il paziente dà credito a ipotesi improbabili e implausibi­
li perché teme di sottovalutare colpevolmente una minaccia che non è
certo di poter escludere.
Ad aumentare le probabilità attribuite a eventi poco probabili, con­
tribuisce anche il senso di colpa, in due modi che abbiamo visto nel ca­
pitolo precedente. Menzies e collaboratori (Menzies, Harris, Cumming
et al., 2000; Jones, Menzies, 1997) hanno riscontrato che soggetti non
clinici, soprattutto se con alta colpa di tratto, se si ritengono responsa­
bili di un possibile danno, allora lo reputano più probabile e più grave.
Gangemi, Mancini e van den Hout (2007) hanno mostrato come questo
effetto sia più accentuato se si incrementa la colpa di stato con ricordi
di colpe non connesse con il compito sperimentale.

IL TERZO QUESITO

Perché i pazienti ossessivi continuano a dar credito a possibilità diperi­


colo remote, e non occasionalmente ma in modo persistente e sistematico,
nonostante tutte le informazioni di cui dispongono dovrebbero convincerli
del contrario? La domanda, in sostanza, è: perché i pazienti ossessivi non
si rassicurano nonostante abbiano tutte le informazioni che lo giustifi­
cherebbero? Ci si può porre anche la domanda inversa: perché i pazienti
non rinunciano all'investimento protettivo e accettano il rischio temuto?

94
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

Ancora, e, più in particolare, perché i pazienti ossessivi continuano a ri­


tenere efficaci tentativi di soluzione i cui risultati sono scarsi e di breve
durata? Per esempio, le ruminazioni di Davide riuscivano ad allontana­
re solo per poche ore, a volte per pochi minuti, il sospetto di essere un
potenziale omicida. Perché lo scopo di prevenire una colpa non perde
di importanza agli occhi del paziente, nonostante gli enormi costi impli­
cati dal perseguirlo? Per esempio, Giovanni per neutralizzare il rischio
di essere colpevole di una fuga di gas, aveva perso diversi impieghi, con
un notevole danno sia economico sia di realizzazione professionale. Gli
esseri umani relativizzano il valore soggettivo di uno scopo se si rendono
conto che il costo di perseguirlo è molto elevato. Perché i pazienti os­
sessivi continuano a dare tanta importanza allo scopo di prevenire una
colpa da compromettere altri scopi molto importanti per loro, come la
realizzazione lavorativa e affettiva?
La difficoltà a rassicurarsi dipende dalla strategia prudenziale con
cui i pazienti elaborano le informazioni rassicuranti e da alcuni proces­
si ricorsivi legati ai tentativi di soluzione. La strategia prudenziale che
abbiamo esaminato nel capitolo precedente implica che un'informazio­
ne rassicurante è accettata dal paziente ossessivo solo se costituisce una
falsificazione certa dei suoi timori - evenienza ovviamente assai rara. Ma
quand'anche il paziente riesce a dar credito a una rassicurazione, la revi­
sione delle credenze minacciose è frenata dall'euristica dell'ancoraggio.
L'euristica dell'ancoraggio è una modalità di elaborazione delle in­
formazioni assolutamente normale e vuole che:

La revisione di un giudizio intuitivo, impulsivo, non sarà mai tale da


annullarlo completamente. Consciamente o inconsciamente resteremo
sempre ancorati al giudizio iniziale e faremo correzioni solo a partire da
questo. [ . . . ] Gli apparati di propaganda ben conoscono questo effetto,
sfruttato abilmente anche dall'amministrazione Bush durante la guerra
del Golfo. I bollettini tipici riportavano, a seguito dei bombardamenti al­
leati, due, tre, dodici vittime tra la popolazione civile irachena. Per quanto
uno potesse essere scettico (e io ero uno dei tanti) sulla verosimiglianza di
queste cifre, l'aggiustamento mentale "in alto" restava pur sempre "an­
corato" a quelle cifre. Si moltiplicava in cuor nostro, magari per dieci, o
perfino per cento, ma non per diecimila, come poi è risultato doversi fa­
re. Solo molti mesi dopo la fìne del conflitto si è sentito parlare di decine
e decine di migliaia di vittime. (Piattelli Palmarini, 1 993 , pp. 134-135)

Per esempio, Adele era ossessionata dal timore che per superficialità
e scarso impegno, qualche informazione importante potesse sfuggirle
quando studiava; era convinta di non imparare nulla e che per questo

95
La teoria

sarebbe stata bocciata. Sostenuta dalla psicoterapeuta, vinse le proprie


resistenze e si presentò a un primo esame, prese il massimo dei voti e
così per altri quattro esami. Dopo ogni successo, quando riprendeva lo
studio per un nuovo esame, ammetteva che la valutazione della propria
preparazione era esageratamente negativa, ma comunque, a suo avviso,
la sua preparazione era inadeguata: rimaneva sistematicamente ancora­
ta all'idea iniziale.
A ostacolare il cambiamento delle credenze ossessive e ad aumenta­
re la loro credibilità intervengono anche alcuni processi ricorsivi legati
ai tentativi di soluzione, messi in atto dai pazienti. Tra i tentativi di so­
luzione vi è la ruminazione, sia sotto forma di ragionamento sia di im­
maginazione, che rende i contenuti di minaccia più disponibili e più
frequenti. E se un evento è più facilmente e frequentemente rappre­
sentato, soprattutto se emotivamente caldo, allora è anche considerato
più probabile per l'intervento delle euristiche della disponibilità e del
copione (Kahneman, Tversky, 1979). Tutti gli esseri umani, certamente
non solo gli ossessivi, fanno normalmente ricorso alle euristiche. Nel ca­
so dei pazienti ossessivi, la ruminazione amplifica la capacità di queste
tre euristiche di innalzare la probabilità attribuita agli scenari temuti.
L'euristica della disponibilità è così descritta da Piattelli Palmarini
(1993 ) : " Il verificarsi di un tipo di evento, o di situazione, è da noi giu­
dicato tanto più probabile (corsivo nostro) quanto più ci è facile im­
maginarlo mentalmente, e quanto più ci impressiona emotivamente"
(Piattelli Palmarini, 1 993 , p. 136). E questo il pregiudizio per il quale
tendiamo a rallentare l'auto dopo aver visto un incidente stradale, o ci
attribuiamo maggiori possibilità di soffrire di una malattia se veniamo a
sapere che un nostro caro amico ne è affetto. Per esempio, Maria rumi­
nava a lungo sulla possibilità di essere stata contagiata e, per l'euristica
della disponibilità, attribuiva a questa possibilità una probabilità più
alta. Quindi più ruminava, più il contagio le sembrava probabile, più
cercava di risolvere ruminando, più il contagio le sembrava probabile.
L'euristica del copione ci mostra come:

Il nostro giudizio in materia di probabilità si lascia influenzare dalle


narrazioni, comprese certe narrazioni che sappiamo essere il frutto di pu­
ra invenzione. [ . ] Tracciare una sequela "plausibile" di eventi tra di loro
. .

conseguenti ci fa di colpo rivalutare "in alto" una stima probabilistica.


Basta che gli anelli intermedi della catena tengano bene tra di loro, per
vedersi avvicinare con l'occhio della mente l'anello terminale. E, come
abbiamo visto, ciò che ci riesce più facile immaginare diventa ipso facto
più probabile. Anche una bassissima probabilità del primo anello della

96
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

catena viene presto dimenticata. " Supponiamo che . . . " e poi si parte da
lì per sciorinare una sequela di conseguenze, magari assai "plausibili".
[ . . . ] L'ultimo anello diventa più rappresentabile alla nostra mente, e la
nostra accresciuta facilità di rappresentazione mentale ce lo fa sembrare
più probabile. (Piattelli Palmarini, 1 993 , pp. 143 e seguenti)

Per esempio, Giovanni, se stava lontano da casa, ripassava più volte


le immagini di quando, prima di uscire, aveva controllato la chiusura
del rubinetto del gas, cercava l'immagine che gli avrebbe dato la certez­
za di aver chiuso il rubinetto, non la trovava e a quel punto ipotizzava
di averlo lasciato aperto e immaginava più volte cosa sarebbe accadu­
to: il gas che usciva, espandendosi negli appartamenti vicini, qualcuno
che accendeva la luce, la scintilla che faceva esplodere il gas, il crollo dei
muri, la coppia di anziani del pian terreno che rimaneva sepolta, i bam­
bini del piano di sopra schiacciati dalle travi crollate, l'arrivo dei soc­
corsi, la polizia che lo arrestava al suo ritorno, le accuse, la condanna e
lui completamente sopraffatto dal senso di colpa. Il film scorreva nella
sua mente coerente e ogni scena era collegata in modo plausibile con la
precedente, con il risultato che la probabilità attribuita all'ultima scena
aumentava ogni volta che ruminava.
In conclusione, la ruminazione, che è uno dei tentativi di soluzione
messi in atto dai pazienti ossessivi, implica che gli scenari temuti siano
rappresentati più facilmente, più spesso e più a lungo, e ciò a sua vol­
ta implica che, per l'intervento delle euristiche della disponibilità, del
copione e dell'ancoraggio, aumenti la probabilità attribuita agli scena­
ri temuti.
La ruminazione può contribuire a incrementare e mantenere i timori
ossessivi anche per un'altra strada. Per esempio, Davide riteneva che le
prolungate ruminazioni in cui immaginava di uccidere il padre fossero
la prova a favore del suo sospetto di essere uno psicopatico, e non un
tentativo di rassicurarsi, come di fatto erano: " Comincio a immaginare
le scene, mi vedo arrabbiato come uno psicopatico, allora voglio la mor­
te di mio padre e io sono l'esecutore" .
Più in generale, come si è visto nel capitolo precedente, i pazienti os­
sessivi tendono a interpretare i propri tentativi di soluzione, per esempio
evitamenti e compulsioni, come prova dell'esistenza di un pericolo e co­
me conferma di avere sulle proprie spalle la responsabilità di prevenire il
pericolo stesso (van den Hout, Gangemi, Mancini et al., 2014; Gangemi,
Mancini, van de Hout, 2012; Lopatcka, Rachman, 1 995 ) . Come detto
precedentemente, il fenomeno è stato denominato behavior as input e lo
si riscontra anche nei disturbi d'ansia. Implica che comportamenti agiti

97
La teoria

al fine di risolvere i timori dei pazienti, paradossalmente, aumentano i


timori stessi innescando così un processo ricorsivo.
Perché i pazienti ossessivi continuano a considerare efficaci tenta­
tivi di soluzione che in realtà non lo sono o lo sono molto parzialmen­
te e in modo effimero? Per esempio, è chiaro che i lavaggi, per quanto
prolungati e accurati, non potranno mai dare la certezza di aver levato
ogni traccia di contaminante e, ammesso che si creda questo, è altret­
tanto evidente che dopo poche ore, se non minuti, il dubbio di essere
contaminati risorge. Perché, dunque, il paziente continua ad avere fi­
ducia nell'efficacia delle sue condotte preventive e neutralizzanti? Una
risposta possibile sorge dai risultati di alcune ricerche che dimostrano
un fenomeno interessante che si riscontra in tutte le persone. Una con­
dotta è considerata più efficace se sono elevati i sacrifici e gli sforzi che
richiede. Per esempio un corso di lingua tende a essere considerato più
fruttuoso di un altro identico, se ha un costo maggiore, se è lontano o
si svolge in un orario scomodo. Li e Dingle (2012) , suggeriscono che i
soggetti alcol-dipendenti potrebbero percepire l'alcol come un mezzo
efficace per ridurre l'ansia, in modo particolare quando lo ritengono
dannoso per altri scopi, come avere una buona salute. Risultati analoghi
sono stati ottenuti da Labroo e Kim (2009) e Connor, Gullo, Feeney e
collaboratori (20 1 1 ) . I pazienti ossessivi sono consapevoli degli sforzi
e dei sacrifici che sono richiesti per attuare i tentativi di soluzione (TS),
per esempio le compulsioni, e ciò, quindi, potrebbe aumentare l'effica­
cia che gli attribuiscono. L'efficacia attribuita a uno strumento aumen­
ta con l'importanza dell'obiettivo che si persegue con quello strumento
(Schumpe, Kruglanski, 2015 ) . L'obiettivo che i pazienti ossessivi perse­
guono con i TS ha un'elevata importanza soggettiva e ciò può contribui­
re ad aumentare l'efficacia attribuita ai TS.
L'importanza soggettiva degli scopi ossessivi, a sua volta, può aumen­
tare per diverse ragioni.
Innanzitutto, diversi studi mostrano che la consapevolezza degli sfor­
zi e dei sacrifici spesi per uno scopo, aumenta il valore soggettivo dello
scopo stesso. Nella loro ricerca, Kruger, Wirtz, Van Boven e collabo­
ratori (2004) trovano che i soggetti danno alle opere d'arte valutazioni
più alte in qualità, valore e piacevolezza, quando ritengono che il lavoro
abbia comportato più tempo e sforzo. Il valore soggettivo di uno scopo,
dunque, aumenta quante più risorse abbiamo investito per esso. Il fe­
nomeno dei sunk cast (Tversky, Kahneman, 1 98 1 ) conferma il feedback
positivo che esiste fra valore soggettivo di uno scopo e investimento. Tale
fenomeno consiste nella tendenza a mantenere un investimento, anche

98
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

se ormai è chiaro che è a perdere, perché si ha l'impressione che inter­


romperlo equivalga a perdere anche gli investimenti pregressi.
Ben noto è l'esperimento in cui Tversky e Kahneman (198 1 ) invitano
un gruppo di soggetti a immaginare di essere il direttore e proprietario
di una società che produce aerei, che al momento ha speso 900 milioni
di euro per completare il 90% di un progetto per la costruzione di un
modello innovativo. Mancano altri 1 00 milioni di euro, per completare
la progettazione e iniziare a vendere aerei. Viene inoltre detto che, però,
tutto a un tratto una società concorrente mette in vendita un aereo con
caratteristiche nettamente migliori dell'aereo progettato da loro, a un
prezzo concorrenziale. Ai soggetti viene chiesto di scegliere se spendere
altri 100 milioni di euro, rischiando di fallire, per completare il progetto
oppure lasciar perdere il progetto e impiegare quei 100 milioni di euro
in qualcos'altro. Generalmente i soggetti scelgono di finire il progetto,
a differenza del gruppo ai quali viene invece specificata solo la cifra da
dover ancora spendere ( 100 milioni) e non quella già investita (900).
Questi ultimi infatti scelgono di cambiare progetto. La persistenza in
un investimento, quindi, dipende non solo da quanto ci si aspetta che
renda ma anche da quanto ci si è investito.
Analogamente, è plausibile che i grandi costi che il paziente osses­
sivo sente di pagare e di aver pagato per raggiungere il suo scopo, au­
mentino, ai suoi occhi, il valore dello scopo stesso e, dunque, rendano
più difficile abbandonarlo.
A mantenere elevato il valore relativo dello scopo connesso alla mi­
naccia ossessiva, cioè quanto "pesa" rispetto ad altri scopi, interviene
anche la compartimentazione, che può essere sia automatica sia inten­
zionale. Se si investe molto in uno scopo, gli altri scopi sono automa­
ticamente disattivati, per esempio perché l'attenzione selettivamente
esclude quegli stimoli che potrebbero attivare scopi in conflitto e che,
quindi, potrebbero modificare la destinazione delle risorse, compromet­
tendo il successo dello scopo in corso. Lo stesso risultato può essere la
conseguenza dell'evitamento intenzionale di mettere in discussione il
proprio obiettivo. Per usare le parole di un paziente che aveva il timore
ossessivo di essere pedofilo: "Per me è inaccettabile anche solo prende­
re in considerazione la possibilità di accettare il più piccolo sospetto di
avere istinti pedofili" .
Ad aumentare l'investimento protettivo interviene anche la valutazio­
ne secondaria. Infatti, in molte circostanze, i pazienti ossessivi tentano di
contenere i costi del disturbo cercando di neutralizzare la minaccia che
è alla base dei sintomi ossessivi (vedi il caso di Lucia). Si tratta eviden-

99
La teoria

temente di una soluzione paradossale simile a quella dell'alcolista che si


rende conto che smettere di bere è più facile se non si ha voglia di bere e,
al fine di non avere voglia di bere, beve. Infine l'investimento protettivo
spesso si traduce in condotte, per esempio ripetute richieste di rassicu­
razioni, che determinano reazioni esasperate, aggressive e colpevoliz­
zanti da parte degli altri, ma anche del paziente stesso, che accentuano
il suo senso di colpa e, dunque, la sua sensibilità agli stimoli ossessivi.

IL QUARTO E L'OTTAVO QUESITQI

Meritano di essere trattati assieme: Perché la consapevolezza dell'esa­


gerazione e del costo di continuare a dar retta alle minacce ossessive, non
era sufficiente affinché Maria cambiasse idea, soprattutto nonostante lei
stessa cercasse di contrastarle?
Per rispondere a questa domanda è opportuno ricordare quanto ab­
biamo anticipato parlando dell'insight critico. La consapevolezza critica
di Maria, e dei pazienti ossessivi in generale, tende a essere oscillante:
è presente a distanza e si riduce da vicino. La ragione di questa oscilla­
zione è da ricercare in un fenomeno ben noto in psicologia generale: il
temporal discounting (Ainslie, 1 992, 200 1 ) . La distanza temporale, ma
più in generale la distanza psicologica (vedi Construal Level Theory,
Liberman, Trope, 1 998), modifica in modo iperbolico il valore attribui­
to agli esiti. Ciò può implicare un'inversione sistematica delle preferen­
ze e far scegliere ciò che, tutto considerato, il soggetto stesso considera
subottimale. L'esempio più semplice è quello dell'uovo e della gallina.
Supponiamo di proporre a una persona di scegliere fra un uovo e una
gallina. Se sceglie l'uovo, gli sarà dato dopo una settimana. Se sceglie la
gallina, gli sarà data dopo otto giorni. La maggior parte delle persone
sceglie la gallina. Ma se si ripropone la scelta al settimo giorno, e dunque
si chiede di scegliere fra l'uovo subito e la gallina domani, la maggior
parte delle persone sceglie l'uovo. A distanza, il valore soggettivo della
gallina è maggiore di quello dell'uovo, ma a ridosso, il valore soggetti­
vo dell'uovo è aumentato in modo iperbolico e ha sopravanzato quello
della gallina. Si tratta di un fenomeno pervasivo, che affligge in partico-
l. Il quarto quesito: perché Maria, consapevole dell'esagerazione della sua credenza di perico­
lo, cercava di contrastarla ma senza successo?
rottavo quesito: Maria era consapevole dell'esagerazione dei suoi prowedimenti, era anche
consapevole di quanto rovinassero la qualità della sua vita e dei suoi legami affettivi, si sforzava di
contrastare e di contenere le sue condotte ossessive, ma senza risultato: perché, dunque, perseve­
rava nelle condotte ossessive pur sapendo di poter agire diversamente, pur consapevole che, tutto
considerato, sarebbe stato meglio astenersi dai rituali?

100
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

lare chi decide di resistere alle tentazioni. Per esempio, se si confronta


il piacere di un piatto di pastasciutta e il piacere di essere magri, di so­
lito quest'ultimo appare maggiore del primo, ma quando ci si trova da­
vanti al piatto di pasta e il dimagrimento appare lontano, il risultato del
confronto facilmente si inverte. Nulla di strano dunque che la critica di
Maria fosse inefficace quando toccava qualcosa che le appariva perico­
loso. Lo stesso contatto aveva per lei un valore molto diverso a seconda
che lo considerasse da lontano o da vicino.
In alcune circostanze, tuttavia, la consapevolezza critica era presente
anche quando si trovava di fronte agli eventi temuti. In questi casi l'inef­
ficacia era dovuta al fatto che, per cambiare le credenze ossessive, avreb­
be dovuto cambiare strategia cognitiva, cioè rinunciare alla ricerca della
certezza di poter escludere ogni immaginabile possibilità di pericolo, ma
per far questo avrebbe dovuto accettare il rischio di compromettere lo
scopo di non essere colpevole. Operazione assai complessa e certamen­
te di non immediata attuazione. Maria, al contrario, cercava di impor­
si di smettere di dar retta alle credenze ossessive o di cacciare i pensie­
ri ossessivi o di interrompere le compulsioni. E le imposizioni o erano
inutili o controproducenti o davano un beneficio parziale e transitorio.

IL QUINTO E IL SESTO QUESITO

Perché i tentativi di soluzione ossessivi sono così ripetitivt� persistenti


e accurati? E perch� spesso, nel corso del disturbo i tentativi di soluzione
diventano ritualistici, cioè seguono regole precise?
Presentando il caso di Maria abbiamo citato Ladouceur, Freeston,
Rhéaume e collaboratori (2000) e Muris, Merckelbach e Clavan ( 1997),
i quali hanno dimostrato che l a maggior parte delle persone cerca di ge­
stire i pensieri intrusivi, simili a quelli dei pazienti ossessivi, con strate­
gie analoghe. Per esempio, se una persona prende sul serio il pensiero
intrusivo "E se avessi lasciato la porta di casa aperta? " , torna indietro
e controlla; se dà credito all'idea "E se toccando quella persona mi fos­
si contaminato? " , risolve lavandosi; se nella sua mente intrude una be­
stemmia, cerca di annullarla recitando una preghiera; se gli viene in
mente "Se non metto quest'oggetto dritto qualcosa di importante può
andare storto" , può metterlo dritto. A differenza dei pazienti ossessi­
vi, tuttavia, si tratta di provvedimenti brevi e soprattutto non ripetitivi
né altrettanto accurati. Perché, invece, i provvedimenti ossessivi hanno
queste caratteristiche?

101
La teoria

La maggiore persistenza è legata alla valutazione del risultato rag­


giunto che è iperprudenziale per le stesse ragioni e negli stessi modi della
valutazione degli eventi critici, che abbiamo esaminato sopra. Per inter­
rompere i tentativi di soluzione e contentarsi di tentativi di soluzione più
brevi o approssimativi si devono realizzare due condizioni: l ) o l'esito
è valutato adeguato; 2) o si accetta il rischio connesso con una soluzio­
ne parziale. La prima condizione si realizza a prezzo di sforzi prolun­
gati perché è come se il paziente, dopo aver messo in atto un tentativo
di soluzione, si chiedesse se ha fatto tutto il possibile per prevenire la
colpa, e la risposta a una domanda del genere molto facilmente è un no.
Accettare il rischio è altrettanto difficile, perché la posta in gioco, evita­
re di avere una colpa, è un valore irrinunciabile. Alcune ricerche (vedi
capitolo III) mostrano che, se ci si sente in colpa, si preferisce una scelta
certa rispetto a una rischiosa anche se in generale è meno vantaggiosa/
purché sia quella che espone di meno ad autorimproveri. La predile·
zione per la certezza e l'intolleranza per il rischio implicano la tenden­
za a perseverare nell'attività preventiva. Come già detto nel capitolo III,
essere disposti a fermarsi soltanto quando si è certi del risultato implica
che si investa di più e, dunque, che si paghi di più: ma tutto va bene pur
di sottrarsi al sospetto di essere colpevoli.
Contribuiscono ad aumentare l'investimento prudenziale anche al­
cuni fattori ricorsivi.
Lopatcka e Rachman (1995) hanno sperimentalmente riscontrato che,
nei pazienti ossessivi, prendere provvedimenti aumenta paradossalmente
il senso di responsabilità e dunque la motivazione a provvedimenti iper­
prudenziali e dunque a persistere. Ad aumentare ricorsivamente la moti­
vazione iperprudenziale, come abbiamo già visto in questo capitolo, entra
in gioco, nei pazienti ossessivi, la tendenza a prendere i comportamenti
di ricerca di sicurezza come prova dell'esistenza del pericolo. Interviene
anche la sfiducia nella propria memoria e nella propria percezione indot­
ta dalla ripetizione stessa degli atti compulsivi (vedi capitolo IX). È stato
ampiamente dimostrato, infatti, che la ripetizione di un'azione, come può
essere un controllo o un lavaggio, implica sfiducia nel ricordo dell'azione
stessa e, a volte, nella propria percezione. Più si ripete un gesto, meno ci
si fida del ricordo di averlo compiuto e del suo esito. Questo fenomeno
è più accentuato se ci si sente responsabili (Radomsky, Rachman, Ham-
2. Immaginiamo di andare da un broker per investire dei soldi e immaginiamo che il broker ci
proponga due opzioni: la prima è un investimento con un reddito basso ma con la garanzia che il
reddito e il capitale sono al sicuro. La seconda implica la possibilità di guadagnare molti soldi ma
anche la possibilità di perderne molti. La prima è una scelta certa, la seconda a rischio.

102
Le rz5poste agli interrogativi sollevati dal DOC

mond, 2001). Ciò implica un paradossale incremento della motivazione


a persistere nei tentativi di soluzione.
Infine la persistenza è dovuta anche al fatto che spesso il paziente
utilizza una regola di stop mal definita, per esempio la scomparsa del­
la sensazione notjust right o della sensazione di patina contaminante o
dell'ansia o della sensazione di dubbio.
L'accuratezza e, dunque, anche la ripetitività meritano una spiega­
zione aggiuntiva rispetto alla persistenza. Infatti, si può essere accurati
ma non persistenti e persistenti senza essere accurati. L'accuratezza e
la ripetitività dipendono dal particolare tipo di motivazione che entra
in gioco, la prevenzione di una colpa, che riguarda più la performance
che il risultato. Per i pazienti ossessivi spesso è più importante la per­
formance irreprensibile che il risultato . È più importante studiare bene
una pagina, che in modo approssimativo tutto il capitolo ( ''Almeno per
quanto riguarda questa pagina non avrò nulla da rimproverarmi" ) . Si
noti anche che se un paziente ossessivo, mentre svolge le sue compul­
sioni, ha il dubbio di aver saltato o mal eseguito un passaggio, di solito
ripete l'intera procedura dall'inizio e non soltanto il passaggio in que­
stione. Per esempio, se Maria, in un rituale di pulizia, aveva il dubbio
di aver saltato un lavaggio, allora ripeteva l'intera procedura dall'inizio
e non si limitava a ripetere quella parte che dubitava di aver eseguito.
Ciò suggerisce nuovamente che il problema di Maria non fosse tanto
prevenire un contagio, quanto evitare di doversi accusare di essere sta­
ta irresponsabilmente approssimativa e superficiale, altrimenti avrebbe
lavato solo quella parte che sospettava di aver lavato male.
Lo scopo del paziente ossessivo è la certezza di non essere colpevole
e non di rendere poco probabile la propria colpevolezza, quindi il suo
scopo è del tipo tutto o nulla e non uno scopo graduato che può essere
raggiunto in parte maggiore o minore. Pertanto, trascurare un dettaglio
di un provvedimento è grave quanto trascurare tutto il provvedimento,
poiché si è comunque esposti al rischio di essere colpevoli.
Infine, la ritualizzazione dei tentativi di soluzione ha due finalità che
sono quelle tipiche di tutte le procedure codificate. Da una parte limi­
tare i rischi di errore e dall'altra contenere i costi dei tentativi di soluzio­
ne. Nei pazienti ossessivi spesso la ritualizzazione fallisce entrambi gli
obiettivi, perché il paziente facilmente mette in dubbio di aver rispetta­
to le regole della procedura.
Considerando tutti i meccanismi che, a partire dal timore di colpa,
intervengono nel rendere ripetitivi e persistenti i tentativi di soluzione,
sorge la questione circa il modo in cui essi si interrompono.

103
La teoria

L'osservazione clinica ci dice che i tentativi di soluzione si interrom­


pono in diversi modi: raramente con la soddisfazione del risultato rag­
giunto; a volte perché il paziente, consapevole dei propri sforzi e della
propria sofferenza, sente che non sarebbe giusto chiedere di più a se stes­
so e che quindi, anche se l'esito temuto si verificasse, non avrebbe molto
da rimproverarsi; spesso perché subentra un nuovo evento critico o per­
ché il paziente è richiamato da altre incombenze; in alcune circostanze,
per la disperazione di non riuscire a essere all'altezza dei propri doveri.

SETTIMO QUESITO

Perché i tentativi di soluzione, essendo un'attività finalizzata e inten­


zionale, sono compulsivz; vale a dire perché il paziente si sente costretto
a metterli in atto?
Una risposta possibile è che il paziente effettivamente sceglie, a vol­
te anche in senso stretto, di mettere in atto i tentativi di soluzione ma
non ha scelto il dominio di scelta all'interno del quale si trova a dover
scegliere. La condizione del paziente è simile a quella di una p ersona
cui puntano una pistola e gli dicono: " O la borsa o la vita ! " . E chiaro
che è libero di scegliere e che dare la borsa è frutto di una sua scelta e
di una sua intenzione, tuttavia è altrettanto chiaro che non ha scelto di
trovarsi nella circostanza di dover compiere una tale scelta e nemmeno
l'ha accettata, piuttosto la subisce. Dando la borsa non sentirà certa­
mente di esercitare il proprio libero arbitrio ma piuttosto si sentirà co­
stretto ad agire in questo modo. Se potesse compiere quella che per lui
è una vera scelta, certamente si sottrarrebbe al ricatto (Mancini, Seme­
rari, 1991 ) . Essere liberi di scegliere in un dominio di scelta che non si
è scelto, è un'esperienza frequente nella vita quotidiana, soprattutto se
sono coinvolti dei doveri. Qualcosa di molto simile accade quando la
sveglia la mattina interrompe il nostro sonno. Sappiamo bene che dob­
biamo alzarci e andare al lavoro ma, allo stesso tempo, preferiremmo
continuare a dormire. La decisione di alzarci e rinunciare a dormire è
libera, tuttavia percepiamo la nostra decisione come obbligata perché
non abbiamo il potere di scegliere di non trovarci di fronte alla scelta
fra dormire e andare al lavoro. Analogamente il paziente non ha scelto
di dover scegliere tra rischiare di essere colpevole e pagare il prezzo dei
tentativi di soluzione. Le compulsioni, dunque, sono un'attività inten­
zionale finalizzata a raggiungere scopi del paziente, ma allo stesso tem­
po sono frutto di una costrizione che il paziente subisce e non accetta.

104
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

IL NONO QUESITO

Perché i timori delpaziente ossessivo sono settoriali e dunque gli inve­


stimenti incongruenti?
La tesi sostenuta in questo volume afferma, in estrema sintesi, che la
sintomatologia ossessiva è un superinvestimento finalizzato a prevenire
una colpa, in particolare deontologica, considerata catastrofica. L' os­
servazione clinica, tuttavia, solleva due obiezioni connesse fra loro. In
primo luogo, in alcuni casi la colpa che il paziente cerca di prevenire
con la sua sintomatologia non appare quella moralmente più grave per
lui. Per esempio, Maria temeva la colpa di contrarre l'AIDS per sbada­
taggine, superficialità e distrazione, ma non investiva altrettanto nella
prevenzione di una colpa che per lei sarebbe stata certamente più gra­
ve, e cioè contagiare il figlio. Un altro paziente, Alfonso, si preoccupava
ossessivamente della chiusura della porta di casa, temendo la colpa di
facilitare un furto, ma non si preoccupava più del normale della possi­
bilità di causare un incidente d'auto mortale.
Va premesso che non ci sono studi sperimentali che abbiano affron­
tato queste incongruenze nel DOC. Sono tuttavia possibili diverse spie­
gazioni. Innanzitutto il timore del contagio e della conseguente colpa
era caratterizzato, in Maria, da un'intensa sensazione di disgusto, che
aumentava decisamente la motivazione ai lavaggi e più in generale alle
precauzioni. In secondo luogo, la madre era sempre stata molto preoc­
cupata per la salute di Maria, la quale ne ricordava il volto angosciato
e critico, in particolare quando Maria dimenticava di prendere delle
precauzioni. Quindi, si può presumere che la colpa per un contagio
avesse per Maria una valenza speciale. Ma perché non si preoccupava
in modo ossessivo che il figlio si contagiasse? Una spiegazione plausi­
bile è che il marito di Maria era molto presente e palesemente assume­
va su di sé il maggior carico della responsabilità del figlio. Dunque, è
plausibile che Maria si sentisse deresponsabilizzata nei confronti della
salute del figlio.

E nel caso di Alfonso? Ricostruendo la storia del suo timore si osservava che
il sospetto di aver chiuso male la porta di casa era intruso nella sua mente po­
chi giorni dopo che un suo amico era stato vittima di un furto. La prima volta
aveva reagito all'intrusione sgradevolmente sorpreso di non aver mai preso in
seria considerazione questa possibilità, di essere stato quindi un po' superfi­
ciale. Aveva cominciato a essere più accurato e attento nella chiusura, ma pro­
gressivamente, grazie ai meccanismi ricorsivi che abbiamo descritto più sopra,
la sua preoccupazione era diventata sempre più forte, la probabilità di essere

105
La teoria

causa di un furto, e anche di un furto grave, era via via aumentata ai suoi occhi;
si era, come dire, sempre più focalizzato sulla possibilità di aver chiuso male
ed essere responsabile del furto.

Si tratta di un processo analogo a quello per cui si creano dei sentieri


nei boschi. All'inizio un cinghiale, per allontanarsi da un rumore sospet­
to, si infila in un piccolo varco tra due cespugli, allargandolo. Magari,
dopo qualche giorno, un cane, seguendo la traccia del cinghiale, passa
anche lui tra i due cespugli, allargandolo un po' di più. Poi un altro cin­
ghiale in cerca di cibo, vedendo che c'è un comodo varco, ci si infila. In
breve, attraverso una serie di microeventi, ciascuno dei quali facilita il
successivo, si crea un sentiero che viene sempre più percorso.
Nel caso dei pazienti ossessivi, paradossalmente, può entrare in gio­
co anche la consapevolezza critica del proprio disturbo. Per introdurre
questo concetto è utile osservare cosa accade, per esempio, nei disturbi
d'ansia, in particolare nelle fobie specifiche. Immaginiamo un paziente
con la fobia dei cani che, oltre ad avere paura di essere morso, teme an­
che di doversi giudicare un vigliacco, proprio per via della sua fobia. n
primo effetto di questo stato psicologico è che la paura dei cani tende
ad aumentare (Couyoumdjian, Ottaviani, Petrocchi et al., 2015), per la
semplice ragione che il cane costituisce una duplice minaccia, quella di
essere morso e quella di rivelare la propria vigliaccheria. TI secondo effet­
to è che si investe di più in strategie protettive e, dunque, anche in stra­
tegie cognitive, per cui il paziente tende a falsificare o comunque a dar
poco credito a informazioni rassicuranti. In terzo luogo, e questo è l'a­
spetto più interessante ai nostri fini, ci può essere un effetto paradossale
per il quale il paziente può aver più paura dei cani piccoli e amichevoli
che di quelli grandi e aggressivi. Infatti, provare paura di fronte a un cane
grande e aggressivo certamente non è da vigliacchi, dunque la minaccia
è limitata alla possibilità del morso e non c'è di mezzo alcun rischio per
l'immagine di sé. Provare paura di fronte a un cane piccolo è invece da
vigliacchi: il cane piccolo rappresenta una minaccia piccola per l'integri­
tà fisica, ma una minaccia grande per l'autostima e per l'immagine di sé.
Nei pazienti ossessivi può accadere qualcosa di molto simile.

Lucia aveva il timore ossessivo di poter contagiare i familiari ed eventua­


li ospiti con germi che lei stessa poteva portare in casa. Per prevenire questo
rischio, si impegnava in lunghi lavaggi quando rientrava a casa. Il marito era
estremamente intollerante nei confronti dei suoi lavaggi e se la vedeva impe­
gnata a lavarsi l'attaccava in modo duro e sprezzante, accusandola di voler ro­
vinare la famiglia. Per Lucia l'ipotesi di avere germi pericolosi sulle mani era

106
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

dunque doppiamente problematica: da una parte, perché si sentiva responsa­


bile di eventuali contagi e, dall'altra, perché i lavaggi per lei erano fonte di do­
lorosi attacchi da parte del marito. Essendo così carico di implicazioni dram­
matiche, il timore dei germi acquistava per Lucia un valore molto più grande
di quello connesso alla semplice possibilità del contagio. Il timore di essere re­
sponsabile del contagio di altri interagiva con il timore di essere meritatamen­
te accusata dal marito, aumentando di gran lunga il timore complessivo e la
motivazione preventiva.

Alcuni pazienti sono, inoltre, consapevoli che gli altri non si pongono
gli stessi problemi che si pongono loro, che gli altri non ci pensano o se
ne disinteressano, e questo è proprio quello che gli altri dicono o con­
sigliano loro di fare. Al paziente, proprio nei domini ossessivi, dunque,
manca un metro di paragone, il criterio del buon padre di famiglia, del­
le linee guida morali che gli dicano quante risorse è doveroso investire
per prevenire il danno temuto.
In secondo luogo, anche se la colpa che il paziente cerca di prevenire
è effettivamente una colpa per lui molto grave, può essere incongrua la
prevenzione. Come afferma il DSM-5, le compulsioni, spesso "non sono
collegate in modo realistico con ciò che sono designate a neutralizzare
o prevenire".

Per esempio, Roberto temeva che i l padre potesse avere una ripresa di ma­
lattia e cercava di prevenire questa possibilità con rituali scaramantici, ma non
si ossessivizzava nella prevenzione medica alla quale dedicava, invece, tempo
e attenzioni normali. Le risposte di Roberto ad alcune obiezioni, aiutano a ca­
pire. Lo psichiatra gli chiese se effettivamente pensava che i rituali scaraman­
tici potessero salvare il padre, e Roberto rispose: " Certo che non credo che i
rituali possano salvare mio padre ! " . "Ma allora perché li fa? " , chiese ancora
lo psichiatra. E Roberto replicò: "Lei o qualcun altro mi può garantire che se
non li faccio non succederà nulla a mio padre? E poi, consideri che mio padre
a tutt'oggi sta bene e io ho fatto i rituali. E se fosse dipeso proprio dai miei ri­
tuali? Come potrei escluderlo con certezza? Posso essere sicuro che sia un ca­
so? ". Roberto, quindi, non aveva una vera convinzione circa l'efficacia delle
sue scaramanzie, ma scommetteva sulla loro efficacia, al pari di Pascal e di tan­
te persone che, per esempio, evitano i gatti neri: " Lo so che è una sciocchezza
ma non si sa mai" . Lo psichiatra, proprio tenendo conto del ragionamento di
Pasca!, insistette: "Capisco, nessuno può darle la certezza, ma lei paga un costo
elevatissimo per i rituali, non sarebbe più utile investire queste risorse nel cer­
care i migliori centri oncologici, affinché controllino che la salute di suo padre
sia ben curata? Insomma investirle direttamente negli aspetti medici? ". La ri­
sposta di Roberto fu folgorante: "Dottore, ma io sono ossessivo ! Si immagina
la confusione che potrei creare se mi occupassi della salute di mio padre? E poi
sono laureato in scienze politiche e non ho competenze mediche, come potrei

107
La teoria

prendermi una tale responsabilità? Delle questioni mediche è meglio che se ne


occupino i medici, e a quest'altro fronte, che è poco plausibile ma che non posso
rischiare di sottovalutare, e di cui comprensibilmente non si occupa nessuno, è
meglio che mi ci dedichi io. E certamente danno a mio padre non ne faccio! " .

IL DECIMO QUESITO

Quale insieme di scopi e credenze può rendere ragione delle incongruità


e delle variazioni che caratterizzano la sintomatologia ossessiva?
Maria a un certo punto della sua vita era ossessionata dal timore di
essere contagiata dal cancro. In quel periodo fu diagnosticato al mari­
to un tumore metastatico. Maria accompagnò il marito alla prima visita
all'ospedale oncologico; la sua reazione fu drammatica.3 Già alla secon­
da visita si era tranquillizzata, ma quello che è più interessante è che ces­
sò di considerare il cancro contagioso. Non ricevette nessuna informa­
zione nuova, ma le informazioni sulla non contagiosità del cancro non
trovarono più, in lei, l'obiezione: "Ma come posso essere sicura che la
scienza medica non si sbagli? " , e dunque furono sufficienti perché ces­
sasse di considerare il cancro contagioso. Come mai cambiò modo di
porsi di fronte al rischio di essere contagiata dal cancro? La risposta è
nel cambiamento delle motivazioni che seguì la notizia della malattia del
marito. Prima della notizia, il dovere morale di fare quanto in suo po­
tere per prevenire il contagio del cancro, e quindi di non contentarsi di
rassicurazioni men che certe, non aveva concorrenti. Dopo la notizia, il
dovere di accudire il marito malato e il desiderio affettivo di stargli ac­
canto prevalsero sul dovere di proteggersi e, dunque, i processi cogni­
tivi non furono più orientati in senso iperprudenzialmente difensivo e
quindi poté rinunciare a richiedere la certezza per accettare le informa­
zioni della scienza medica.
Un altro esempio illustra bene il punto. Una paziente era infermie­
ra in ospedale nel reparto delle malattie infettive ed era affetta da un
DOC da contagio. il dato interessante è che non aveva alcuna ossessio­
ne di contagio né compulsione di lavaggio quando era nel suo reparto,
mentre ossessioni e compulsioni erano violentissime fuori dall'ospedale.
Per esempio, se per tornare dal lavoro prendeva la metropolitana, uti-
3 . Da notare, per inciso, che il suo terrore non era legato alla possibilità di essere contagiata
dal marito, ma dagli altri pazienti. Ciò probabilmente è dipeso dal fatto che il timore del contagio
segue gli stessi percorsi psicologici del timore di contaminazione disgustosa (Mancini, Gragnani,
2003 ) e quindi è sensibile ai legami affettivi: la sensazione di poter essere contaminati da una per­
sona diminuisce se c'è un legame affettivo.

108
Le risposte agli interrogativi sollevati dal DOC

lizzava dei guanti e appena entrata in casa si doveva cambiare e lavare


dalla testa ai piedi. Una spiegazione plausibile è che mentre in ospedale
correre dei rischi era parte del suo dovere professionale e quindi, se si
fosse contagiata, ciò sarebbe stato moralmente accettabile, altrettanto
non accadeva quando era fuori dal lavoro. In particolare, le ossessioni
di contagio erano più frequenti se si trovava in contesti di divertimento,
per esempio in discoteca.

CONCLUSIONI

L'approccio cognitivista assume che tra sintomi ossessivi e manifesta­


zioni normali vi sia una differenza quantitativa e non qualitativa. Pertan­
to, i sintomi ossessivi possono essere spiegati con gli stessi concetti che
si utilizzano normalmente per spiegare e comprendere gli stati mentali
degli esseri umani, le loro emozioni, i loro processi di pensiero, i com­
portamenti e le scelte (scopi e assunzioni). Nei capitoli precedenti abbia­
mo argomentato a favore di una tesi forte: alla base del DOC vi sarebbe il
timore di essere colpevole, che il paziente rappresenta come catastrofi­
co. Questo timore orienta i processi cognitivi in modo iperprudenziale
e ciò innesca una serie di processi ricorsivi che tendono a mantenere e
aggravare la sintomatologia ossessiva e a spiegarne alcune caratteristi­
che problematiche, che abbiamo riassunto nel capitolo I .

109
v

DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO E PSICOSI


QUALE RELAZIONE?

Maria Pontillo, Francesco Mancini

INTRODUZIONE

Il rapporto tra disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi psicotici è


oggetto di discussione sin dal secolo scorso. Nel corso del XIX secolo,
numerose descrizioni di casi clinici evidenziavano la presenza di sin­
tomi psicotici in soggetti con prevalenti ossessioni e compulsioni. Le­
grand du Saulle ( 1875 ) , per esempio, pur classificando il DOC tra i di­
sturbi nevrotici, riferiva, in alcuni pazienti, di sintomi e comportamenti
francamente psicotici. Nello stesso periodo (1878), Westphal descrisse
"l'irrazionalità e la bizzarria" sconcertanti di certi fenomeni ossessivi,
i quali lo indussero a sospettare di trovarsi più spesso di fronte a veri e
propri prodromi o a varianti di una "psicosi abortiva" . In effetti, non è
raro osservare pazienti ossessivi che sembrano aderire in modo acriti­
co a credenze bizzarre anomale e non condivise dal gruppo di apparte­
nenza. Per esempio, non sono rari pazienti ossessivi ossessionati dal ti­
more che avere il pensiero di un incidente dei propri cari possa causare
l'incidente stesso e che, al fine di prevenire questa tragica possibilità, si
impegnano in rituali scaramantici che possono occupare ore della gior­
nata a discapito di impegni urgenti e importanti (Goods, Rees, Egan et
al., 2014; Thompson-Hollands, Farchione, Barlow, 2013 ) .
Dunque, s e credenze bizzarre e anomale sostenute con convinzione
intensa (insight critico parziale o addirittura assente) costituiscono l'e­
pifenomeno del delirio e quest'ultimo è uno dei sintomi principali del­
le psicosi, risulta lecito chiedersi: quale è la relazione tra DOC e psicosi?
Nel corso di questo capitolo proveremo a rispondere a questa do­
manda illustrando in maniera critica le principali posizioni presenti in
letteratura.

111
La teoria

DOC E PSICOSI: POSIZIONI TEORICHE ED EVIDENZE


SCIENTIFICHE A CONFRONTO

Prima di entrare nel vivo della discussione circa le possibili relazioni


tra disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi psicotici riteniamo neces­
sario partire da alcuni dati.
Diverse ricerche (Fontenelle, Lopes, Borges et al. , 2008; Fear, Sharp,
Healy, 2000; Eisen, Rasmussen, 1993 ; lnsel, Akiskal, 1986) hanno iden­
tificato una sottocategoria di pazienti ossessivi in cui è stata riscontrata la
sovrapposizione delle manifestazioni tipiche del DOC con aspetti propri
dell'area psicotica. Da qui la definizione disturbo ossessivo-compulsivo
(DOC) con manifestazioni psicotiche. Dal punto di vista epidemiologico,
la prevalenza di tale condizione è stata stimata, nell'ambito delle stesse
ricerche citate in precedenza, come compresa tra il 10% e il 25 % . Lavori
più recenti, quali quello di Pelizza e Pupo (20 1 3 ) , stimano tale prevalen­
za come compresa tra il 15 % e il 30 % . Va considerato, tuttavia, come la
validità di tali dati epidemiologici risulti relata al tipo di campionatura
effettuata. Negli studi citati si tratta, infatti, di campioni reclutati presso
centri di salute mentale e/o cliniche; il che fa sì che il dato di prevalenza
risenta inevitabilmente della maggiore gravità dei partecipanti reclutati.
Esaminando il quadro clinico di questi pazienti, emerge come i pazienti
con DOC con manifestazioni psicotiche si caratterizzino per un'età d'e­
sordio della sintomatologia ossessivo-compulsiva molto precoce, per
un decorso maggiormente cronico, per la presenza di livelli più elevati
di depressione associata e, soprattutto, per tre caratteristiche cliniche
rilevanti ai fini della nostra discussione.
• La presenza di deliri con contenuto non ossessivo:
contenuto persecutorio;
contenuto di colpa (intendiamo non il timore di colpa tipico
dell' ossessivo ma la colpevolizzazione delirante che spesso nasce
da un quadro di depressione grave, così come evidenziato in Cas­
sano e Pancheri, 1999) ;
- contenuto di riferimento;
fenomeni di trasmissione e/o furto del pensiero.
• Critica parziale o addirittura assente nei riguardi di idee bizzarre o
anomale e bassa attività di contrasto alla sintomatologia ossessiva.
• Elevata prevalenza di disturbo schizotipico di personalità associato.
Una volta illustrata, individuata e compresa tale sottocategoria di
pazienti, diventa chiaro come la questione più generale della relazione

1 12
Disturbo ossessivo-compulsivo e psicosi

tra disturbo ossessivo-compulsivo e psicosi si trasformi nella questione


più specifica della relazione tra DOC con manifestazioni psicotiche (DOC
psicotico) , DOC senza manifestazioni psicotiche e psicosi.
In letteratura, le posizioni teoriche sono essenzialmente tre.
La prima suggerisce che il DOC psicotico possa rappresentare un di­
stinto sottotipo di schizofrenia (definito con il termine "OCD-schizo­
phrenia" ) . Il DOC con manifestazioni psicotiche rientrerebbe dunque
nello spettro schizofrenico e non in quello DOC. Si tratterebbe quindi
di uno pseudo DOC. I principali sostenitori di tale ipotesi (Sevincok,
Akoglu, Arslantas, 2006; Bogetto, Bellino, Masi et al. , 1 999) pongono
a supporto di essa il dato per cui la sottocategoria DOC con sintomi psi­
cotici si caratterizza per un'elevata prevalenza di disturbo schizotipico
di personalità, il cui legame con l'area p sicotica è stato documentato in
numerosi lavori (Barrantes-Vidal, Grant, Kwapil, 2015; Chun, Barran­
tes-Vidal, Sheinbaum et al. , 2015; Kendler, McGuire, Gruenberg, 1993 ) .
La seconda posizione sostiene che il DOC psicotico sia u n sottoti­
po di DOC che si pone al limite massimo del continuum tra forme lievi
e forme gravi di DOC. In particolare, seguendo questo filone, Insel e
Akiskal ( 1 986) hanno descritto quattro pazienti con DOC, inquadrati
poi in DOC con caratteristiche psicotiche, che manifestavano, lungo un
decorso di malattia particolarmente grave, veri e propri deliri. I sog­
getti descritti ritenevano realistiche e ragionevoli le proprie ossessio­
ni, senza esercitare su di esse alcuna critica. Sulla base di tale riscon­
tro questi autori dunque hanno concettualizzato il confine tra DOC e
psicosi facendo riferimento alla possibile esistenza di differenti gradi
di insight, per cui esisterebbero pazienti in grado di riconoscere la na­
tura eccessiva e senza senso delle loro preoccupazioni e altri in cui le
ossessioni sarebbero ritenute realistiche e ragionevoli. La presenza o
meno di insight è stata da sempre considerata criterio di confine tra il
DOC puro e il DOC psicotico.
La terza posizione è quella della comorbilità. Essa fa riferimento ai
principali sistemi nosografici tradizionali per cui, nei pazienti nei quali
i fenomeni ossessivi raggiungono proporzioni deliranti, è più opportu-
.
no porre una diagnosi di disturbo delirante o di disturbo psicotico non
altrimenti specificato (NAS) in comorbilità con il DOC. Insomma, il DOC
psicotico sarebbe dovuto alla presenza contemporanea di un disturbo
ossessivo e di una psicosi o di tratti psicotici, come per esempio la schi­
zotipia, o quantomeno di una condizione di rischio psicotico (sindro­
me di rischio psicotico; Nelson, 2014 ) . Questa terza posizione ha tutta­
via un corollario: nei pazienti con DOC psicotico alcune caratteristiche

1 13
La teoria

della psicosi "colorirebbero" il DOC, conferendogli le tre caratteristiche


psicotiche: lo scarso insight critico, la bizzarria e l'anormalità delle cre­
denze ossessive.
Illustrate queste tre posizioni e le evidenze su cui i sostenitori di cia­
scuna si poggiano, ci sembra il caso di considerare anche eventuali ar­
gomenti contrari a ciascuna di esse.
Per quanto concerne la prima posizione, ovvero quella del DOC con
manifestazioni psicotiche come sottotipo di schizofrenia, potremmo
considerare le seguenti prove contrarie. Innanzitutto, i pazienti con DOC
psicotico hanno sintomi psicotici, ma non rispondono pienamente ai cri­
teri per un disturbo psicotico vero e proprio. Pensiamo per esempio ai
pazienti descritti da lnsel e Akiskal ( 1986) , in cui la transizione dalle os­
sessioni al delirio non comportava una condizione di comorbilità con la
schizofrenia, ma perlopiù condizioni di psicosi reattive transitorie. Una
seconda prova contraria potrebbe essere data dall'evidenza opposta, in
altre parole quella per cui i pazienti che rispondono pienamente ai cri­
teri per la schizofrenia hanno sintomi ossessivi o simil-ossessivi, ma ra­
ramente un DOC vero e proprio. Cunill, Castells e Simeon (2009) descri­
vono questi casi sottolineando come essi non corrispondano al gruppo
pazienti DOC con manifestazioni psicotiche, in cui un DOC vero e pro­
prio è invece presente. Infatti, i sintomi simil-ossessivi possono essere la
conseguenza aspecifica della gravità psicopatologica di alcuni pazienti
schizofrenici. Gli stessi autori evidenziano anche come i pazienti schi­
zofrenici possano presentare sintomi di altri quadri psicopatologici in
maniera più o meno grave, a seconda della gravità della sintomatologia
psicotica in atto. Cassano e Pancheri ( 1 999) descrivono come molti sin­
tomi ansiosi, per esempio gli attacchi di panico, siano tutt'altro che rari
nella schizofrenia. Come terza prova contraria, il dato per cui anche Ko­
zak e Foa ( 1 994) hanno riscontrato che la prevalenza della schizofrenia
vera e propria, e non solo di sintomi psicotici, nella popolazione osses­
siva è sovrapponibile a quella che si osserva nella popolazione genera­
le. Dati simili vengono da uno studio condotto su adolescenti e giovani
adulti con DOC da Niendam, Berzak, Cannon e collaboratori (2009), in
cui si evidenzia come la probabilità di transizione a una psicosi franca
non differisca significativamente tra pazienti con DOC e una condizione
di rischio psicotico e pazienti con DOC ma senza condizione di rischio
psicotico. Ciò suggerisce dunque una sostanziale indipendenza tra i due
disturbi e rende meno plausibile l'idea che il DOC possa essere una fer­
mata d'autobus prima dell'esordio psicotico. Nel complesso tutto ciò
suggerisce una disomogeneità tra DOC psicotico e schizofrenia.

1 14
Disturbo ossessivo-compulsivo e psicosi

Per quanto riguarda la seconda posizione, cioè quella del DOC con ma­
nifestazioni psicotiche come sottotipo del DOC, abbiamo essenzialmente
tre prove contrarie. La prima è che il contenuto dei deliri, caratterizzanti
questi pazienti DOC rispetto ad altri pazienti DOC, è quello tipico dei de­
liri psicotici e non del DOC. Ciò quindi deporrebbe a favore dell'ipote­
si del DOC con manifestazioni psicotiche e del DOC vero e proprio come
due disturbi a sé stanti. La seconda riguarda l'insight critico: quest'ulti­
mo non può essere considerato come unica variabile discriminante nel
supposto continuum tra DOC e DOC con manifestazioni psicotiche. Dai
dati di Kozak e Foa ( 1994) risulta infatti che l'insight critico nei pazienti
DOC è oscillante e dipende dalla distanza dello stimolo temuto, dalla du­
rata del disturbo ossessivo e dallo stato d'animo di base, da fattori cioè
che normalmente influenzano l'adesione alle credenze. Nei pazienti con
DOC psicotico, al contrario, la carenza di insight critico sembra una ca­
ratteristica stabile. Infatti, nella ricerca di Pelizza e Pupo (201 3 ) l'insight
critico, misurato con gli item dedicati della Y-BOCS ( Goodman, Price, Ra­
smussen et al., 1989) , è correlato con i punteggi alla SAPS (Scale for Asses­
sment of Positive Symptoms; Andreasen, 1996) , strumento volto a rileva­
re la sintomatologia positiva della schizofrenia. Le domande sull'insight
critico sono state poste sia ai pazienti DOC con tratti psicotici sia a quelli
"puri", in condizioni identiche, quindi caratterizzate dalla medesima di­
stanza da stimoli attivanti, e in una condizione emotiva stabile. Anche la
durata del disturbo ossessivo risultava sovrapponibile tra i due gruppi.
Quindi la differenza di insight critico era ascrivibile ai tratti psicotici del
gruppo DOC psicotico, nel quale la critica deficitaria nei confronti del­
le credenze ossessive sembra più un tratto stabile che una variabile di­
pendente da quei fattori che normalmente influenzano l'adesione di un
individuo alle proprie credenze. In breve, se la disposizione ad aderire
in modo acritico a credenze bizzarre e anomale è una caratteristica dei
pazienti con alti tratti psicotici, allora non stupisce che questa disposi­
zione si attualizzi nel caso in cui questi pazienti soffrano anche di DOC.
La terza prova contraria al considerare il DOC psicotico come sottotipo
di DOC è la presenza, abbastanza frequente in questi pazienti, di distur­
bo schizotipico di personalità. In Pelizza e Pupo (2013) ben il 30% dei
pazienti con DOC psicotico presenta disturbo schizotipico di personalità
contro il solo 6% dei pazienti con DOC puro. Da questi dati dunque, an­
cora una volta, risulta più plausibile l'idea di una chiara distinzione tra
DOC con manifestazioni psicotiche e DOC vero e proprio. Infatti, proprio
l'elevata prevalenza di disturbo schizotipico di personalità tra i pazienti
con DOC psicotico ci consente di fare una riflessione sulle caratteristiche

1 15
La teoria

della bizzarria del pensiero che solitamente caratterizza questi pazienti


e in qualche misura anche i DOC. Cominciamo da una precisazione cir­
ca il rapporto fra il paziente DOC e le sue idee ossessive bizzarre. Come
abbiamo visto parlando di Fabio, un paziente ossessivo può dar credito
a idee bizzarre non perché aderisca davvero a tali idee, ma perché non
riesce a essere certo che siano false e perché teme le conseguenze che
potrebbero derivare se lui sbagliasse a non prenderle per vere. Nel caso
delle idee deliranti, il rapporto tra il paziente e l'idea delirante è diverso:
per lui la verità dell'idea delirante è autoevidente, è tutt'uno con la sua
percezione dei fatti. Per esempio, consideriamo un paziente, affetto da
un delirio persecutorio, convinto di essere sistematicamente e ingiusta­
mente ridicolizzato e disprezzato dai suoi interlocutori. Immaginiamo
che incontri per la strada un conoscente che si ferma per salutarlo: è fa­
cile supporre che si convinca di essere trattato con disprezzo e sarcasmo,
tuttavia il paziente non giunge a questa conclusione grazie a inferenze
che prendono spunto dall'osservazione di alcuni indizi, come potrebbe­
ro essere per esempio il tono di voce del conoscente o l'espressione del
volto; piuttosto il paziente vede e sente lo sfottimento e il disprezzo nel
tono di voce del conoscente o nell'espressione del suo volto. L'adesione
è senza mediazioni, invece nel paziente DOC "puro" tende a essere "per
scommessa". Un interessante studio di Lee, Cougle e Telch (2005) mostra
che pazienti ossessivi hanno una vera credenza nella fusione fatti-pensieri
solo a condizione di avere importanti tratti schizotipici.
Dunque, potremmo concludere che se una delle caratteristiche del
disturbo schizotipico di personalità è la disposizione a credenze bizzar­
re e anomale, allora le caratteristiche schizotipiche "colorano" il distur­
bo ossessivo.
Nel complesso, tutti i dati e le argomentazioni proposte contro le
precedenti posizioni appaiono invece congrui con la terza posizione,
quella della comorbilità. Il DOC con manifestazioni psicotiche sarebbe
dunque una condizione in cui il DOC coesiste con una psicosi o con tratti
psicotici o, ancor più semplicemente, con sintomi psicotici sottosoglia
indicativi di un rischio psicotico. Nel quadro di questa comorbilità, il
corollario per cui in questi pazienti alcune caratteristiche della psicosi
quali la bizzarria, lo scarso insight critico e l'anormalità delle credenze
ossessive "colorirebbero" il DOC rende ragione del fatto che queste va­
riabili siano state da sempre oggetto di discussione nell'esame della re­
lazione tra DOC e psicosi.
Nessuna di esse, insomma, può essere dirimente nella misura in cui
conferisce " coloritura" a un quadro clinico in cui il disturbo ossessi-

1 16
Disturbo ossessivo-compulsivo e psicosi

ve-compulsivo coesiste con tratti (per esempio, schizotipia) e/o sinto­


mi psicotici.
Contrario alla posizione della comorbilità potrebbe essere il dato per
cui il DOC psicotico si riscontra in percentuali variabili dal 15 al 29 ,4 %
dei pazienti DOC (Pelizza, Pupo, 2013 ) .
Nonostante tale prevalenza, come detto in precedenza, sia per certi
versi discutibile, non si può tuttavia pensare che essa sia del tutto casua­
le, e ciò condurrebbe quindi nuovamente all'ipotesi del DOC psicotico
come sottotipo del DOC.
È possibile tuttavia una contro-obiezione. li DOC, come si è suggerito
in capitoli precedenti, è caratterizzato, in sintesi, dalla valutazione cata­
strofica di pensieri intrusivi/ossessioni. La valutazione dipende dalla cre­
dibilità e dalla gravità attribuite alla minaccia rappresentata dalle osses­
sioni. I pensieri ossessivi sono presenti nella mente di tutti e la stragrande
maggioranza delle persone non li valuta come minacce gravi, perché ne
considera bassa la probabilità che si realizzino e/o poco importanti gli
scopi minacciati. Nel caso di pazienti con disturbo schizotipico di per­
sonalità, poiché essi tendono ad attribuire alta credibilità a possibilità
anche bizzarre e normalmente ritenute remote o implausibili, la credi­
bilità della minaccia è alta, anche se è relativamente basso il valore del­
lo scopo minacciato. Per esempio, tutti provano disagio e, se possono,
evitano di dire anche dentro di sé la frase: " In questo momento XY (il
nome della persona più cara che ho) viene investito da un'automobi­
le". n disagio è legato a un'intuizione magica per cui si tende a dare per
scontato che se lo si pensa, allora possa avvenire. La maggior parte delle
persone riesce tuttavia a superare la difficoltà dicendosi che un pensiero
è pur sempre solo un pensiero, senza, quindi, la necessità di sopprimere
il pensiero o neutralizzarne il presunto effetto tramite rituali scaraman­
tici. Diverso il caso di chi invece dà molta importanza al rischio che un
proprio pensiero possa contribuire a causare un incidente alla persona
cara. Supponendo che il valore affettivo della persona cara immaginata
sia uguale, l'importanza dipende da due fattori: dal valore dato al fatto di
poter essere responsabile del danneggiamento e da quanto si crede che
un proprio pensiero possa davvero causare un danno reale. Si può ipo­
tizzare che nei pazienti DOC "puri" l'importanza data ai propri pensieri
dipenda principalmente dalla gravità attribuita alla propria responsa­
bilità. Come nell'esempio di Fabio, un paziente DOC "puro" il quale dà
grande peso alla possibilità di sbagliare qualora non desse credito a una
possibilità che lui stesso reputa implausibile, ma che non può escludere
con certezza. Per esempio, di fronte all'intuizione magico-superstiziosa

1 17
La teoria

del tipo: " Se penso a un incidente dei miei cari, allora aumenta la pro­
babilità che abbiano davvero un incidente" , questi pazienti si dicono
cose del tipo: "Lo so che questo pensiero è esagerato e implausibile, ma
non ho la prova certa che sia impossibile, e se poi fosse vero? E se non
faccio nulla per neutralizzarlo e poi succede un incidente? Sarebbe col­
pa mia ! N on me lo potrei mai perdonare ! N on posso tollerare questo
rischio. Devo assolutamente scacciare il pensiero o neutralizzarlo con
una formula scaramantica ! " . La credenza che i propri pensieri possano
influire direttamente sulla realtà è presa per buona non per una reale
convinzione, ma perché non si può escluderla con certezza e non tener­
ne conto; e poi scoprire che ci si è sbagliati avrebbe un costo, soprattut­
to in termini di colpa, inaccettabile per il paziente. Pertanto è il timore
di una colpa inaccettabile che facilita il dar credito a possibilità che ap­
paiono bizzarre al paziente stesso, almeno inizialmente. Al contrario, un
paziente affetto da disturbo schizotipico, quindi propenso a credenze
bizzarre, tenderà a credere realmente all'intuizione che i propri pensie­
ri possano influire direttamente sui fatti, o ad altre possibilità bizzarre,
e dunque a temere di essere responsabile di eventi che, agli occhi della
maggior parte delle persone, appaiono del tutto improbabili e implau­
sibili. È sufficiente, pertanto, che questo paziente abbia un timore di
colpa un po' accentuato, per cui possa innescarsi un DOC. Ciò potrebbe
spiegare la prevalenza di DOC psicotico. Le persone affette da disturbo
schizotipico di personalità, e con maggior propensione al senso di col­
pa, sarebbero più vulnerabili al DOC.

CONCLUSIONI

Nel complesso, allo stato attuale la ricerca clinica non fornisce dati
certi, dirimenti e discriminanti circa la relazione tra DOC con manifesta­
zioni psicotiche e DOC puro. Nonostante questo, il nostro esame critico
della letteratura disponibile ci consente di concludere che, probabil­
mente, nella globalità dei pazienti DOC un certo numero di casi, come
avviene per altri disturbi, può presentare una comorbilità con un di­
sturbo psicotico o una condizione di rischio psicotico. In quest'ultimo
caso, la comorbilità più frequente sarebbe con il disturbo schizotipico
di personalità in cui la disposizione a credenze anomale e bizzarre "fa­
ciliterebbe" il DOC stesso.

118
VI

DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO E DISTURBO


OSSESSIVO-COMPULSIVO DI PERSONALITÀ
UNA TESI SUI PROCESSI DI FUNZIONAMENTO

Roberta Trincas

INTRODUZIONE

La sovrapposizione tra il disturbo ossessivo-compulsivo di perso­


nalità (DOCP) e il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è stata a lungo
oggetto di controversia. Le prime descrizioni cliniche dei due disturbi
erano molto simili tra loro. In uno dei suoi primi lavori sul DOC, Pier­
re Janet descriveva caratteristiche come il perfezionismo, l'indecisione
e una limitata espressione emotiva come precursori dello sviluppo del
DOC (Janet, 1903 ). Tuttavia, trent'anni dopo, Lewis sosteneva che, seb­
bene alcuni pazienti con DOC avessero tratti di personalità compulsiva,
molti altri non presentavano tali caratteristiche (Steketee, Barlow, 2002).
Questa controversia persiste ancora adesso tra clinici e ricercatori che
cercano di indagare se questi disturbi possono essere considerati simi­
li, in sovrapposizione o se devono essere distinti sulla base di specifiche
caratteristiche.
Attualmente, in letteratura esistono diverse prospettive che riguar­
dano la relazione tra DOC e DOCP, tra queste una delle più interessan­
ti è quella che prende in considerazione l'esistenza di sottotipi di DOC
(Summerfeldt, Anthony, Swinson, 2000) e DOCP (Hummelen, Wilberg,
Pedersen et al. , 2008) e la sovrapposizione tra specifiche dimensioni di
questi sottotipi. Da un'analisi approfondita dei dati di letteratura si può
evincere che nel DOCP si possano distinguere due sottotipi, uno carat­
terizzato da rabbia/aggressività e un altro connotato da scrupolosità. E
sarebbe proprio questo secondo sottotipo a presentare una significativa
comorbilità con il DOC.
In questo capitolo verranno sintetizzati i principali dati sulla relazione
tra DOCP e DOC. In particolare, saranno analizzate criticamente alcune

1 19
La teoria

questioni inerenti i motivi per cui esistono dati controversi sull'associa­


zione tra i due disturbi. Infine, partendo da un'analisi delle dimensioni
che accomunano DOC e DOCP, verrà sviluppata una plausibile spiega­
zione dei meccanismi di funzionamento dei disturbi coerente con la tesi
presentata in questo libro.

IL DOC DI PERSONALITÀ:
CARATTERISTICHE DISTINTIVE ED EPIDEMIOLOGIA

Caratteristiche diagnostiche

Il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (DOCP) è caratterizza­


to da eccessivo perfezionismo, bisogno di controllo, ordine ed estrema
attenzione al fare le cose nel "modo giusto" (Mancebo, Eisen, Grant et
al. , 2005 ) . In particolare, il DOCP presenta otto tratti di personalità: rigi­
dità, taccagneria, perfezionismo, eccessiva attenzione per i dettagli, ec­
cessiva devozione per il lavoro, incapacità di liberarsi di oggetti vecchi
o inutili, rigidità morale e incapacità di delegare compiti ad altri (APA,
2000). La quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei distur­
bi mentali (DSM-5) riporta due insiemi di criteri diagnostici per il DOCP
(APA, 2013 ) . Il primo, di tipo categoriale, rimane invariato rispetto al
DSM-IV (APA, 1994) e il DOCP è caratterizzato da preoccupazioni per l'or­
dine, perfezionismo e controllo (Starcevic, Brakoulias, 2014). Il secon­
do insieme di criteri è di tipo dimensionale e rappresenta un'alternativa
rispetto alla concettualizzazione ufficiale; comprende le difficoltà nello
stabilire e mantenere relazioni intime, associate a un perfezionismo ri­
gido, inflessibilità ed espressione emotiva limitata.

Caratteristiche cliniche

Il bisogno di controllo meticoloso e di attenzione al "fare le cose nel


modo giusto" è connesso a una rappresentazione di sé come persona in- 1
capace di agire, disorganizzata e disorientata, che soltanto appellandosi
a un ordine rigoroso e a solidi sistemi esterni di regole riesce a soprav­
vivere, evitando di sbagliare in continuazione - ciò si definisce "ecces­
siva responsabilità" . Secondo Beck e Freeman ( 1 990) una delle creden­
ze centrali è che le cose debbano essere fatte perfettamente, in modo
corrispondente alle "giuste" procedure, in quanto improvvisazione e
spontaneità portano sempre a cattivi risultati. Quanto alla responsa-

120
Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo ossessivo-compulsivo di personalità

bilità, essa si lega all'idea di essere a conoscenza - grazie all'adesione


a un sistema di regole o di valori esterno a sé - di quale sia "il meglio"
e provare a perseguirlo con tutte le proprie forze e nel modo più me­
ticoloso possibile. Gli altri sono spesso considerati eccessivamente in­
dulgenti con se stessi, tendenzialmente irresponsabili o incompetenti e
per questa loro superficialità e trascuratezza vengono criticati e puniti.
Le situazioni più problematiche che creano allarme riguardano la
perdita del controllo sugli eventi, come avviene nelle occasioni nuove,
impreviste, che stravolgono ritmi e procedure abituali. Se si presentano
situazioni di questo tipo, il soggetto tende a irrigidire ulteriormente le
sue consuete strategie: verificare, riverifìcare, pianificare, dubitare, rimu­
ginare. Le emozioni che caratterizzano questa modalità di funzionamen­
to sono connesse alla percezione dell'imperfezione propria (pentimen­
to, senso di colpa, depressione) e altrui (disprezzo, castigo, delusione),
nonché alla continua aspirazione a standard di perfezione assoluta, vis­
suta con estrema ansia.

Prevalenza

Secondo il DSM-IV il DOCP è presente in circa l' l % della popolazio­


ne e rappresenta circa il 3 - 10% dei contesti clinici (American Psychia­
tric Association, 1994) . Inoltre, risulta uno dei disturbi più frequente­
mente diagnosticati nei campioni clinici (Pinto, Liebowitz, Foa et al. ,
201 1; Stuart, Pfohl, Battaglia et al. , 1998; Sanderson, Wetzler, Beck et
al., 1994) .

Comorbilità

I disturbi che si osservano più comunemente nei pazienti DOCP so­


no la depressione maggiore (75,8% ), il disturbo d'ansia generalizzata
(29,4 % ) , la dipendenza da alcol e sostanze (29,4 % ) e il DOC (20,9% )
(McGlashan, Grilo, Skodol et al. , 2000) . Infine, i disturbi di persona­
lità con cui il DOCP è in comorbilità sono l'evitante (27 ,5 % ) , il bor­
derline (9 ,2 % ) e il narcisistico (7 ,2 % ) (McGlashan, Grilo, Skodol et
al., 2000) .

Funzionamento

La difficoltà nel funzionamento interpersonale è una caratteristica


riguardante tutti i disturbi di personalità, e ciò sembra essere partico-

121
La teoria

larmente valido per il DOCP (Pincus, Wiggins, 1 990). In particolare,


le descrizioni cliniche (Pollak, 1 987) delineano specifiche caratteristi­
che del DOCP: standard elevati, rigidità, estrema aderenza all'autorità,
inflessibilità morale/etica, e difficoltà nel comprendere il punto di vi­
sta e le emozioni degli altri. Queste caratteristiche possono generare
dei conflitti interpersonali. I DOCP tendono a sottomettersi all'auto­
rità, mentre con i subordinati tendono a essere richiedenti e punitivi
(Millon, 1 98 1 ) . li loro bisogno di controllo interpersonale può porta­
re a ostilità e occasionali manifestazioni eccessive di rabbia, sia a casa
sia al lavoro (Villemarette-Pittman, Stanford, Greve et al. , 2004) . A
tal proposito, Stein, Trestman, Mitropoulou e collaboratori ( 1 996) ri­
portavano una maggiore incidenza di aggressività e impulsività in un
campione di DOCP confrontato con controlli normali e disturbi di per­
sonalità non compulsivi.
In accordo con Skodol, Pagano, Bender e collaboratori (2005 ) , no­
nostante il DOCP sia associato a minori difficoltà nel funzionamento ge­
nerale rispetto ad altri disturbi di personalità, il 90% di pazienti DOCP
ha una difficoltà o scarso funzionamento in almeno un ambito di vita
(lavoro, famiglia, amici, tempo libero, ecc.). In un follow-up a 2 anni
(Skodol, Pagano, Bender et al. , 2005 ) è stato osservato che un migliora­
mento nei DOCP, identificato mediante la percentuale di riduzione dei
criteri diagnostici, aveva tuttavia uno scarso impatto sulle difficoltà di
funzionamento.
Il perfezionismo è una delle caratteristiche del DOCP che è stata spes­
so esaminata. Studi recenti suggeriscono che una forma di perfezio­
nismo disadattivo, caratterizzata dalla tendenza a considerare inaccet­
tabile qualsiasi prestazione che non risulti perfetta, sembra essere un
aspetto stabile e un fattore significativo di vulnerabilità allo sviluppo di
depressione (Rice, Vergata, Aldea, 2006 ). Uno studio, per esempio, in­
dica che la presenza di perfezionismo ostacola il trattamento della de­
pressione, probabilmente a causa delle relazioni con la rigidità (Blatt,
Zuroff, Bandi et al. , 1 998) .

LA RELAZIONE TRA DOC E DOCP

Negli ultimi cento anni la ricerca scientifica ha cercato di indagare


la potenziale relazione tra il DOC e il DOCP (Coles, Pinto, Mancebo et
al. , 2008). Con l'introduzione del DSM-III è stato messo in evidenza che
il DOCP presenta con maggiore frequenza una comorbilità con il DOC,

122
Disturbo ossessivo-compu/sivo e disturbo ossessivo-compulsivo di personalità

rispetto ai vari disturbi di personalità (Black, Noyes, Pfohl et al., 1 993 ;


Baer, Jenike, Ricciardi et al. , 1990; Mavissakalian, Hamann, Jones, 1 990;
Black, Yates, Noyes et al., 1989; Joffe, Swinson, Regan, 1988). Viceversa
si evidenziano percentuali considerevolmente alte di soggetti DOC che
presentano anche un DOCP (Coles, Pinto, Mancebo et al. , 2008; Pinto,
Mancebo, Eisen et al., 2006; Albert, Maina, Forner et al. , 2004; Tenney,
Schotte, Denys et al. , 2003 ; Samuels, Nestadt, Bienvenu et al. , 2000;
Eisen, Goodman, Keller et al., 1999; Bejerot, Ekselius, von Knorring,
1998; Diaferia, Bianchi, Bianchi et al. , 1 997 ; Eisen, Rasmussen, 1 99 1 ;
Stanley, Turner, Borden, 1990) . Tra gli studi che hanno preso i n con­
siderazione i criteri diagnostici del DSM-IV in generale è stato osserva­
to che tra il 23 e il 4 7 % di pazienti con diagnosi di DOCP soffre an­
che di DOC, una percentuale relativamente alta rispetto al campione di
controllo di soggetti sani ( 1-3 % ) , e altrettanto rilevante se confronta­
ta con la comorbilità tra il DOCP e altri disturbi (Friborg, Martinussen,
Kaiser et al., 2013 ; Gordon, Salkovskis, Oldfìeld et al., 2013 ; Starcevic,
Berle, Brakoulias, 2013 ; Pinto, Liebowitz, Foa et al. , 201 1 ; Garyfallos,
Katsigiannopoulos, Adamopoulou et al., 2010; Coles, Pinto, Mancebo
et al., 2008; Hummelen, Wilberg, Pedersen et al., 2008; Albert, Maina,
Forner et al. , 2004).
Diversi studi suggeriscono che i pazienti che presentano una comor­
bilità tra DOC e DOCP tendono ad avere specifiche caratteristiche sinto­
matologiche comuni. Per esempio, un'eccessiva tendenza a fare delle
liste può essere considerata una caratteristica del DOC se ripetitiva, se
comporta una perdita di tempo e se implica disagio; tuttavia, può esse­
re anche vista come una preoccupazione per i dettagli, e in tal caso rap­
presenta uno dei criteri per il DOCP secondo il DSM-IV (Pinto, Liebowitz,
Foa et al. , 201 1 ) . Inoltre, il perfezionismo insieme alla preoccupazione
per l'ordine e i dettagli, il timore di errore, il dubbio riguardo alle azioni
e l'inflessibilità sono dimensioni che caratterizzano sia il DOCP sia il DOC
(per esempio, DOC con una predominanza di ossessioni e compulsioni di
simmetria e ordine) (Starcevic, Brakoulias, 2014; Gordon, Salkovskis,
Oldfìeld et al. , 201 3 ; Lochner, Serebro, van der Merwe et al. , 2 0 1 1 ;
Wetterneck, Little, Chasson et al. , 201 1 ; Garyfallos, Katsigiannopoulos,
Adamopoulou et al., 2010; Moretz, McKay, 2009; Coles, Pinto, Mance­
bo et al., 2008; Eisen, Coles, Shea et al. , 2006; Suzuki, 2005; Baer, 1 994 ) .
Altri studi osservano che le sensazioni di incompletezza e di non esse­
re a posto (No t J ust Right Experience-N]RE, vedi capitolo n) possono
spiegare il legame tra alcuni tratti del DOCP, come il perfezionismo, e i
sintomi DOC, come l'ordine e il controllo (Ecker, Kupfer, Gonner, 2013 ;

123
La teoria

Starcevic, Berle, Brakoulias, 2013 ; Wetterneck, Little, Chasson et al.,


201 1 ; Lee, Prado, Diniz et al. , 2009; Summerfeldt, 2004). In particola­
re, sembra che i tentativi del DOCP di evitare o ridurre la NJRE abbiano
una straordinaria somiglianza con la ricerca di perfezionismo e ciò sug­
gerisce una sovrapposizione tra alcuni tratti ossessivo-compulsivi e sin­
tomi. In linea con ciò, Hummelen, Wilberg, Pedersen e collaboratori
(2008) hanno identificato due sottotipi di DOCP, uno caratterizzato da
rabbia/aggressività e uno caratterizzato da scrupolosità/perfezionismo.
La comorbilità con il DOC sembra riguardare solo quest'ultimo sottotipo
di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (Hummelen, Wilberg,
Pedersen et al., 2008).
Nonostante vi siano diversi dati che indicano un'associazione tra DOC
e DOCP, altri studi portano prove a favore dell'idea che DOCP e DOC sia­
no due disturbi differenti, e che vi sia solo una parziale sovrapposizione
tra i due disturbi (Taylor, Asmundson, Jang, 201 1 ; McGlashan, Grilo,
Skodol et al., 2000) . Per esempio, Albert, Maina, Forner e collaborato­
ri (2004) hanno analizzato 15 studi condotti dal 1990, che hanno cal­
colato la prevalenza di DOCP in campioni di pazienti con DOC, e hanno
osservato che nonostante la percentuale di comorbilità della diagnosi
variasse considerevolmente (3 -36 % ), solo il 1 8 % di pazienti DOC soddi­
sfaceva i criteri diagnostici del DOCP. Wu, Clark e Watson (2006) hanno
osservato che la percentuale di pazienti DOC con DOCP risultava relativa­
mente bassa ( 1 5 % ) e che il DOCP non era il disturbo di personalità più
frequentemente diagnosticato tra i pazienti DOC; piuttosto appariva più
frequentemente un'associazione con i disturbi di cluster C - evitante-di­
pendente-schizoide (Wu, Clark, Watson, 2006) . In diversi studi è comu­
ne trovare un'ampia percentuale di pazienti DOC che soddisfano uno dei
criteri diagnostici di altri disturbi di personalità (Bejerot, Ekselius, von
Knorring, 1 998; Horesh, Dolberg, Kirschenbaum-Aviner et al. , 1997;
Cassano, Del Buono, Catapano, 1993 ; Horesh, Kimchi, Kindler, 1993;
Baer, Jenike, Ricciardi et al. , 1990; Mavissakalian, Hamann, Jones, 1990;
Steketee, 1 990; Black, Yates, Noyes et al. , 1989; Joffe, Swinson, Regan,
1 988). I risultati di questi studi portano a sostenere che il DOC ha un'alta
comorbilità con i disturbi di personalità in generale, anche se non con
il DOCP in particolare.
Questa apparente contraddizione può essere ben spiegata dall'idea
che i DOCP in comorbilità con il DOC potrebbero rappresentare uno
specifico sottotipo di DOCP che presenta caratteristiche simili a quelle
del DOC. Tale tesi è avvalorata da diversi studi (Hummelen, Wilberg,
Pedersen et al. , 2008; Summerfeldt, 2004; Rachman, Hodgson, 1980).

1 ?.::1
Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo ossessivo-compulsivo di personalità

Già in passato alcuni autori hanno cercato di determinare se l'inciden­


za di personalità ossessivo-compulsive nei disturbi ossessivo-compul­
sivi potesse variare in funzione di una particolare costellazione di tratti
e sintomi. Per esempio, Lewis ( 1936) identificò due tipi di personalità
ossessivo-compulsive: una caratterizzata da incertezza, dubbio e ten­
tennamento, e l'altra da testardaggine, inflessibilità, suscettibilità e ir­
ritabilità. Sebbene entrambe sembrassero associate con lo sviluppo di
un DOC, solo la prima mostrava un'associazione più stretta con il di­
sturbo. Queste osservazioni portarono all'idea che specifiche espres­
sioni sintomatiche del disturbo ossessivo-compulsivo potessero essere
legate in modo differente a una costellazione di tratti rispetto ad altre
(Rachman, Hodgson, 1980).
Ciò è in linea con l'idea sostenuta da Hummelen e condivisa dagli
autori del presente lavoro, secondo la quale vi sarebbero due sottoti­
pi di DOCP, con caratteristiche molto diverse tra di loro (Hummelen,
Wilberg, Pedersen et al. , 2008). In un campione di 2237 pazienti, di
cui il 54% aveva una diagnosi di personalità, è stato riscontrato che il
77 % di quelli con DOCP presentava anche un altro disturbo di perso­
nalità. In particolare, risultava un'associazione significativamente for­
te tra DOCP e il disturbo paranoide di personalità, il disturbo narcisi­
stico e schizoide. Mediante un'analisi fattoriale, Hummelen, Wilberg,
Pedersen e collaboratori (2008) hanno individuato alcuni aspetti che
sembrano caratterizzare il DOCP rispetto ad altri disturbi di personali­
tà; nello specifico: la preoccupazione per l'ordine, il perfezionismo e la
taccagneria. Sulla base di questi risultati, gli autori hanno concettualiz­
zato due specifiche dimensioni del DOCP: il perfezionismo e l' aggressi­
vità. La prima dimensione, il perfezionismo, era significativamente as­
sociata solo con il DOC; mentre la seconda dimensione, l'aggressività,
includeva due criteri DOCP, la riluttanza a delegare e la testardaggine,
e si associava ad alcuni criteri per i disturbi di personalità paranoide,
antisociale e borderline.
In conclusione, è stato stabilito che vi è comorbilità tra DOC e un
particolare sottotipo di DOCP, caratterizzato da scrupolosità e perfe­
zionismo. Gli studi sui sottotipi, infatti, suggeriscono l'idea che vi sia
una parziale sovrapposizione tra DOC e DOCP, caratterizzata dalla con­
divisione di alcune dimensioni specifiche, come l'incompletezza o NJRE
(Summerfeldt, Anthony, Swinson, 2000) e il perfezionismo (Hummelen,
Wilberg, Pedersen et al. , 2008). Tale sovrapposizione, secondo la nostra
tesi, spiegherebbe in parte il motivo per cui in letteratura vi siano dati
controversi rispetto alla relazione tra DOC e DOCP.

125
La teoria

LA RELAZIONE DOC-DOCP: OSSERVAZIONI CRITICHE


SECONDO IL MODELLO SCOPISTICO

I dati sulla relazione tra DOC e DOCP sembrano essere contradditori:


alcuni degli studi portano prove a favore della comorbilità tra i due di­
sturbi, altri ritengono siano due disturbi distinti. Secondo la nostra tesi,
quest'apparente contraddizione può essere ben spiegata da tre diverse
argomentazioni. l ) Una riguarda il perché studi diversi sulla comorbilità
tra DOC e DOCP hanno portato a risultati differenti. La ragione sembra
essere dovuta all'utilizzo di diversi set diagnostici, come verrà illustrato
più avanti. 2) Un'altra si riferisce a un'apparente confusione concettuale
presente in letteratura, che può essere però spiegata facendo riferimen­
to ai due diversi cluster di sintomi DOCP. 3 ) Un'altra questione riguarda
lo sviluppo di una spiegazione plausibile della relazione specifica che
si osserva tra sintomi DOC e dimensioni del DOCP (Summerfeldt, 2004;
Hummelen, Wilberg, Pedersen et al., 2008) , e che si spiega facilmente
se si considera che la sovrapposizione tra sintomatologia DOC e DOCP si
osserva in particolare per quel sottotipo di pazienti DOCP con le carat­
teristiche di scrupolosità/perfezionismo.
illustreremo di seguito in modo più dettagliato le questioni su esposte.
l . Innanzitutto, si hanno percentuali di comorbilità tra DOC e DOCP
molto diverse tra loro a seconda dello studio considerato. In genera­
le, gran parte di tale differenza sembra essere dovuta all'utilizzo di cri­
teri diagnostici diversi. Si osserva, infatti, che gli studi basati sui cri­
teri del DSM-III indicano una bassa percentuale di prevalenza di DOCP
(da O% a 6 % ) nei pazienti con DOC (Black, Noyes, Pfohl et al. , 1993;
Baer,Jenike, Ricciardi et al. , 1990; Mavissakalian, Hamann,Jones, 1990;
Black, Yates, Noyes et al., 1 989; Joffe, Swinson, Regan, 1 988). Diversa­
mente, la maggior parte degli studi che utilizzano il DSM-III-R e il DSM­
IV riporta un'alta comorbilità tra DOC e DOCP (da 23 % a 3 6 % ) (Coles,
Pinto, Mancebo et al., 2008; Pinto, Mancebo, Eisen et al. , 2006; Albert,
Maina, Forner et al. , 2004; Tenney, Schotte, Denys et al., 2003 ; Samuels,
Nestadt, Bienvenu et al. , 2 000; Eisen, Goodman, Keller et al. , 1999;
Bejerot, Ekselius, von Knorring, 1 998; Diaferia, Bianchi, Bianchi et al.,
1997 ; Stanley, Turner, Borden, 1 990). Questa discrepanza sembra esse­
re dovuta alle differenze dei criteri per il DOCP tra il DSM-III e il DSM-III­
RIIV; in particolare, nel DSM�III�R aumenta il numero di criteri necessa­
ri per la diagnosi; inoltre, vengono integrati nuovi criteri diagnostici in
aggiunta a quelli prettamente di tradizione psicodinamica (Baer, Jenike,
Ricciardi et al. , 1 990). Garyfallos, Katsigiannopoulos, Adamopoulou e

126
Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo ossessivo-compulsivo di personalità

collaboratori (2010) hanno osservato una bassa percentuale di comorbi­


lità tra DOC e DOCP, mentre il 46% dei soggetti DOC presentava un altro
disturbo di personalità. Questa osservazione è coerente con altri studi
che hanno dimostrato frequentemente una comorbilità tra DOC e distur­
bo evitante, dipendente, passivo aggressivo e borderline (Baer, J enike,
Ricciardi et al. , 1 990) . Infine, si può assumere che parte dei risultati
contradditori rispetto alla relazione DOC e DOCP possono essere dovu­
ti all'utilizzo di strumenti diagnostici e/o di misura diversi da parte dei
vari studi. Per esempio, riguardo alla dimensione del perfezionismo dei
DOCP, alcuni studi utilizzano i criteri diagnostici del DSM-IV, altri ancora
la Frost Multi-Dimensionai Perfectionism Scale (FMPS; Frost, Marten,
Lahart et al., 1990) che tuttavia non è specifica per il perfezionismo che
caratterizza il DOCP.
2. In letteratura vengono utilizzati diversi termini, alcuni dei quali sem­
brano indicare le caratteristiche di un'unica dimensione. Per esempio, il
termine "incompletezza" si riferisce a una sensazione di imperfezione o
a un disagio associato a uno stato soggettivo che le cose non siano a po­
sto, in altre parole ha le stesse caratteristiche della NotJust Right Expe­
rience. In linea con ciò, altri autori hanno osservato che la combinazione
di due dimensioni, l'inflessibilità e il dubbio rispetto alle azioni, si asso­
ciano a una manifestazione clinica simile alla NJRE (Wetterneck, Little,
Chasson et al., 201 1 ) e a sintomi DOC più severi. La prima dimensione è
caratterizzata da una scarsa adattabilità al cambiamento, alta rigidità e
bisogno di fare le cose "nel modo giusto" , mentre il dubbio rispetto al­
le azioni comprende l'insoddisfazione per la prestazione e il bisogno di
correggere i modi in cui si svolgono le azioni (per esempio, "Mi ci vuo­
le molto tempo per fare qualcosa che vada bene" ) , entrambe caratteri­
stiche che si osservano anche nel DOCP. Ancora, la coscienziosità, una
dimensione che caratterizza il DOCP, corrisponde all'eccessivo senso di
responsabilità che si osserva anche nei DOC (Manos, Cahill, Wetterneck
et al., 20 10; Salkovskis, Wroe, Gledhill et al., 2000). Secondo la nostra
tesi, e coerentemente con il modello dei sottotipi (Hummelen, Wilberg,
Pedersen et al. , 2008) , sembra che "incompletezza" , "dubbio rispetto
alle azioni" e "coscienziosità" si riferiscano alla dimensione del perfezio­
nismo che si osserva nel sottotipo di DOCP caratterizzato da scrupolosi­
tà. Mentre la dimensione dell'inflessibilità sembra avere caratteristiche
simili a quelle identificate per il DOCP caratterizzato da rigidità.
3.Infine, cosa caratterizza nello specifico i DOC in comorbilità con i
DOCP? Considerando i risultati presenti in letteratura possono essere

127
La teoria

sintetizzate alcune manifestazioni sintomatiche che accomunano i due


disturbi e quelle più specifiche che consentono di distinguerli. In linea
con questo, alcuni ricercatori hanno osservato che i sintomi motivati
dalla sensazione di incompletezza/NJRE sono associati ai tratti di per­
fezionismo del DOCP, piuttosto che ai tratti di rigidità e difficoltà inter­
personali del disturbo di personalità (Summerfeldt, Anthony, Swinson,
2000). Tale osservazione è stata poi confermata da Hummelen, Wilberg,
Pedersen e collaboratori (2008) che hanno individuato due cluster di­
versi di sintomi nel DOCP, uno caratterizzato da perfezionismo e N]RE, e
che si osserva in comorbilità con il DOC; un altro caratterizzato da infles­
sibilità morale, che implica la tendenza a imporre le proprie regole agli
altri e rigidità/aggressività (Hummelen, Wilberg, Pedersen et al. , 2008).
Riguardo a quest'ultima dimensione la tesi degli autori sostiene che la
rabbia del DOCP si osserva in reazione all'imprevedibilità del partner e
all'impossibilità di spiegarsi il comportamento dell'altro secondo la pro­
pria logica (Hummelen, Wilberg, Pedersen et al. , 2008; Villemarette­
Pittman, Stanford, Greve et al. , 2004) .
Coerentemente con il modello qui presentato, quindi, si può soste­
nere che il sottotipo di DOCP caratterizzato da NJRE e perfezionismo
probabilmente presenta un funzionamento simile a quello da noi ipo­
tizzato per il DOC, con le stesse motivazioni e gli stessi stili di pensiero e
condotta. In linea con ciò, alcune dimensioni del perfezionismo (dubbio
rispetto alle azioni, timore di errore) si associano alla NJRE in entrambi i
disturbi. A tal proposito, la tesi che viene sostenuta in letteratura è che
i comportamenti di ricerca di perfezione vengano attuati in risposta al­
la sensazione che le cose non siano a posto, quindi a un'intolleranza al­
la N]RE (Wetterneck, Little, Chasson et al., 201 1 ; Summerfeldt, 2004).
Come è stato ampiamente illustrato nei capitoli precedenti, la tesi soste­
nuta in questo volume è che i pazienti DOC sono caratterizzati da iper­
sensibilità alla NJRE, perfezionismo, standard morali elevati, dubbio e
timore di errore, tutte caratteristiche riconducibili a un'intolleranza per
errori colpevoli che motiverebbe le strategie messe in atto per evitar­
li (per esempio, le ossessioni, le compulsioni e il perfezionismo) . I pa­
zienti con DOCP, invece, presentano due insiemi di caratteristiche: uno
simile e riducibile all'intolleranza per gli errori colpevoli, che implica le
strategie per evitarli e alti standard morali, l'altro che ruota intorno alla
sospettosità/aggressività. I DOCP che hanno ben rappresentato il primo
insieme di caratteristiche hanno spesso anche il DOC, quelli che han­
no prevalente la rigidità/aggressività non hanno sintomi DOC. Questa

128
Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo ossessivo-compulsivo di personalità

tesi spiegherebbe la sovrapposizione di sintomi (NJRE, perfezionismo,


standard morali elevati) che si osserva tra DOC e un particolare sottoti­
po di DOCP (Hummelen, Wilberg, Pedersen et al., 2008; Summerfeldt,
Anthony, Swinson, 2000) .
In sintesi, i dati in letteratura sembrano coerenti con la tesi qui pre­
sentata, secondo la quale gli stili di condotta e di pensiero dei pazienti
DOC sarebbero spinti dal timore di essere colpevole di aver commesso
errori/danni e dallo scopo di prevenire tale eventualità, e questo stile di
funzionamento potrebbe ben spiegare anche le caratteristiche del sot­
totipo di DOCP in comorbilità con il DOC.

129
VII

LO SPETTRO OSSESSIVO
DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO E DISTURBI CORRELATI

Claudia Perdighe, Francesco Mancini

INTRODUZIONE

Idealmente la funzione di una diagnosi e delle classificazioni dia­


gnostiche è favorire una maggiore comprensione di un disturbo o con­
dizione riferibile a una manifestazione di specifici sintomi ( dal greco
diaghign6skein, "capire").
Nella tradizione del DSM, in quest'ottica, c'è lo sforzo di individuare
macrocategorie, ovvero categorie sovraordinate che mettono insieme
disturbi che condividono tutti qualche caratteristica importante (per
esempio, disturbi d'ansia o disturbi dell'alimentazione del DSM-IV-TR) .
Lo sforzo di mettere a fuoco i caratteri comuni e, soprattutto, distin­
tivi di gruppi di disturbi ha il merito, oltre che di semplificare il proces­
so diagnostico per il clinico, di migliorare la comprensione del singolo
disturbo.
L'adozione nel DSM-5 (APA, 2 0 1 3 ) del concetto di spettro, benché
tradotto con "Obsessive-Compulsive Disorder and Related Disorders"
(disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati) , è in linea con que­
sta tradizione. L'Obsessive-Compulsive Spectrum è un concetto pro­
mosso principalmente da Hollander e collaboratori (Hollander, Evers,
2004; Hollander, Kim, Zohar, 2007 ; Hollander, Braun, Simeon, 2008),
ma discusso in letteratura da almeno due decadi (Phillips, Stein, Rauch
et al., 20 10).
Il concetto di spettro, adottato dalla fisica, è basato sulla constatazio­
ne che alcuni disturbi condividono specifiche caratteristiche sintomato­
logiche e aspetti riguardanti cause e decorso, e in particolare la risposta
positiva allo stesso trattamento (in questo caso specifico, farmaci SSRI) .
L'introduzione della nuova macrocategoria diagnostica disturbo osses-

13 1
La teoria

sivo-compulsivo e disturbi correlati nel DSM-5 secondo gli autori "riflette


la crescente evidenza della stretta interconnessione tra questi disturbi
nei termini di una gamma di validatori diagnostici, così come l'utilità
clinica di raggruppare questi disturbi all'interno dello stesso capitolo"
(APA, 2013 , p. 27 1 ) .
Al di là della bontà del tentativo di aumentare la comprensione dei
tratti peculiari di questo gruppo di disturbi, il problema riguarda pro­
prio l'utilità e la validità di questa categorizzazione: davvero i caratte­
ri individuati come comuni e distintivi sono tali? E, dunque, davvero
il concetto di spettro (o dell'equivalente categoria disturbo ossessivo­
compulsivo e disturbi correlati) aumenta la comprensione dei disturbi
inclusi e può migliorare la pratica clinica?
In questo capitolo, dopo una breve presentazione dei disturbi inseriti
in questa nuova categoria come " disturbi correlati" , saranno esaminate
le criticità di questa classificazione. Vedremo che il principale aspetto cri­
tico riguarda il fatto che se da un lato negli ultimi decenni si è arrivati a
una comprensione sempre più accurata dei determinanti psicologici del
disturbo ossessivo-compulsivo, questa comprensione rischia di disperder­
si nel momento in cui si promuove una concettualizzazione dei disturbi
mentali in termini di condivisione di segni e forma dei sintomi, come fa
il DSM-5 con l'introduzione del concetto di spettro ossessivo-compulsivo.

I DISTURBI CORRELATI
AL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO

La categoria disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati com­


prende, oltre al disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo di dismorfi­
smo corporeo, il disturbo da accumulo, la tricotillomania, il disturbo da . ,

escoriazione (skin picking), oltre a disturbi con sintomatologia ossessivo-


compulsiva dovuta ad altre condizioni.
Precedenti concettualizzazioni della categoria prevedevano un nume­
ro molto più ampio di disturbi, che condividevano qualche aspetto con
il disturbo ossessivo-compulsivo (Phillips, Stein, Rauch et al., 2010). Si
è poi arrivati a questi che sono stati inclusi sulla base di una serie di cri­
teri considerati come qualificanti, i cosiddetti validatori.

La tricotillomania (o disturbo da strappamento di peli )

La caratteristica centrale di questo disturbo è la presenza di compor­


tamenti ripetitivi di strappamento di capelli o peli. I peli possono es-

132
Lo spettro ossessivo

sere strappati in qualsiasi parte del corpo in cui crescono, anche se più
frequentemente riguarda i capelli, le sopracciglia e ciglia. La zona dello
strappamento può variare nel tempo, anche banalmente per ragioni co­
me il fatto che si cercano zone più nascoste o perché i peli non ricresco­
no più nella zona in cui abitualmente erano strappati.
In alcuni casi è un disturbo che si presenta in modo episodico, con
lunghi periodi di latenza, ma più tipicamente è un disturbo che si pre­
senta in modo costante con più episodi al giorno.
Si tratta di un disturbo che può causare un disagio significativo per il
soggetto. Di solito inizia nell'adolescenza e può durare decenni.
La ragione per cui è stato inserito nella stessa macrocategoria del di­
sturbo ossessivo-compulsivo riguarda principalmente la somiglianza dei
sintomi, anche se come vedremo si tratta di una somiglianza fenomeno­
logica e che, come qualunque clinico che tratti questi disturbi può os­
servare, non riguarda gli stati mentali e le motivazioni alla base del com­
portamento "ripetitivo e compulsivo" presente in entrambi.

n disturbo da escori azione (skin picking)

È un disturbo che presenta grandi similarità con la tricotillomania,


tanto che Phillips, Stein, Rauch e collaboratori (2010) li trattano insie­
me. Riguarda comportamenti ripetitivi di escoriazione e lesione della
pelle, stimolati in particolare dalla percezione di una qualche imperfe­
zione della cute (brufoli, punti neri, peli incarniti, ecc.) . Più facilmente
il comportamento di skin picking ha come bersaglio il volto e le braccia,
ma qualsiasi parte del corpo può essere presa di mira.
Può creare un disagio significativo, anche per le conseguenze inter­
personali del disturbo (essendo visibili gli esiti dei sintomi).
Come la tricotillomania, lo skin picking è apparentato al disturbo
ossessivo-compulsivo soprattutto per la somiglianza sintomatologica
riguardante la ripetitività e compulsività del comportamento.

n disturbo di dismorfi smo corporeo

Riguarda la preoccupazione di avere difetti o imperfezioni nell' aspet­


to fisico, non evidenti in modo significativo agli altri, e che si traduce
in comportamenti ripetitivi overt (per esempio, guardarsi ripetutamen­
te allo specchio o chiedere rassicurazioni sul proprio aspetto) o covert
(come confrontarsi continuamente con altre persone) , tesi a ridurre la
preoccupaziOne.

133
La teoria

Si tratta di un disturbo caratterizzato sicuramente da condotte ripe­


titive ed egodistoniche, aspetto in cui presenta una somiglianza con il
disturbo ossessivo-compulsivo.
Anche quando nel disturbo ossessivo i sintomi riguardano aspetti
somatici, però, le due condotte sembrano regolate da motivazioni dif­
ferenti; in particolare, nel dismorfismo corporeo la preoccupazione di
avere difetti somatici ed estetici non sembra assimilabile alle motivazio­
ni che di solito regolano l'attività ossessiva, attinenti al dominio morale.

n disturbo da accumulo (o disposofobia)

Solo con l'ultima edizione del DSM è stato riconosciuto come distur­
bo autonomo e riguarda la difficoltà, persistente e associata a disagio
significativo, a buttare o separarsi dai propri beni, cosa che si traduce
nell'accumulo di una notevole quantità di oggetti, indipendentemente
dalla loro reale utilità e valore. La difficoltà a separarsi dagli oggetti per­
cepiti come "propri" ha di solito come conseguenza (salvo intervento
di familiari, servizi sociali o altre figure) l'ingombro della casa fino alla
compromissione della possibilità di usare le varie stanze secondo l'uso
appropriato (per esempio, è possibile che la camera da letto sia inagi·
bile e il soggetto e i suoi familiari siano costretti a dormire in salotto).
Questo disturbo è stato incluso nello spettro ossessivo attraverso un
percorso diverso dagli altri disturbi: nel DSM-III ( 1 980) era tra i criteri
diagnostici del disturbo ossessivo-compulsivo di personalità; dal DSM­
IV appare la specificazione che quando il comportamento di accumulo
è particolarmente invalidante, si pone diagnosi di disturbo ossessivo­
compulsivo.
L'associazione tra comportamento d'accumulo e disturbo ossessivo­
compulsivo è radicata nella descrizione di Freud ( 1 908) del carattere
anale, caratterizzato tra l'altro, da difficoltà a dare e tendenza a tratte­
nere in senso letterale e metaforico.
A partire da questa tradizione dell'accomunare comportamento di
accumulo e disturbo ossessivo, si è inserito il disturbo da accumulo nel
ventaglio dei disturbi da valutare per l'inclusione nello spettro ossessivo
(Phillips, Stein, Rauch et al. , 2010). La candidatura del disturbo alla ca­
tegoria, quindi, non ha niente a che vedere con gli aspetti di somiglianza
dei sintomi come criterio di inclusione.
È altresì vero che esiste comorbilità tra i due disturbi: circa il 25-30%
delle diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo presenta anche disturbo
di accumulo e circa il l 0- 15 % delle diagnosi di disturbo di accumulo

134
Lo spettro ossessivo

presenta comorbilità con disturbo ossessivo-compulsivo. Anche quan­


do si presentano insieme, però, il rapporto tra accumulo e disturbo os­
sessivo-compulsivo può essere di due tipi: l'accumulo è un sintomo del
DOC, secondario e riferibile a ossessioni/compulsioni tipiche; oppure,
l'accumulo è un disturbo indipendente in comorbilità con il disturbo
ossessivo-compulsivo.

Altri disturbi legati al disturbo


ossessivo-compulsivo o di sturbi associati

Queste categorie si applicano ai quei disturbi con sintomi classificati


come ossessivo-compulsivi per la ripetitività e la compulsività, ma che
sono secondari ad altre condizioni mediche (per esempio, alcune forme
di demenza) , a farmaci o in cui comunque non sono soddisfatti tutti i
criteri per fare diagnosi di altro disturbo incluso nella categoria distur­
bo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati.
A titolo d'esempio, anche la gelosia ossessiva può essere classificata
in questa categoria.

I VALIDATORI: LE CARATTERISTICHE
CLINICHE COMUNI E DISTINTIVE
DEI DISTURBI DELLO SPETTRO OSSESSIVO

Prendiamo in considerazione di seguito quattro descrizioni cliniche.

Da anni Fabio passa buona parte della giornata a riflettere, argomentare e


controargomentare nella sua mente sul tema " Sono o non sono omosessuale? " .
È un ragionare ripetitivo e doloroso per il paziente: spende in questo molto
tempo della sua giornata e, quando non riesce a rassicurarsi sul fatto che la ri­
sposta è quella desiderata, viene preso da sentimenti di ansia e dal timore di
mandare in rovina la sua vita e anche quella della sua fidanzata.
Mario, quando torna a casa, passa molto tempo (a volte anche diverse ore) a
lavare accuratamente i suoi oggetti e il suo corpo. In particolare verifica di non
essersi inawertitamente sporcato con gli escrementi di un piccione: si controlla
allo specchio, controlla attentamente tutti gli indumenti indossati e, in ultimo, si
lava. E un comportamento che Mario trova molto faticoso e vorrebbe non farlo
più. Anche per questo, quando si sente molto stanco, dorme vestito sulla poltro­
na del salotto, piuttosto che in camera sua; in questi casi si limita a lavarsi le mani.
Da quando era adolescente Carlo, tutti i giorni o quasi, passa almeno un'o­
ra al giorno a toccare, carezzare e/o strappare i suoi peli o capelli. In passato
soprattutto i capelli, ora prevalentemente sopracciglia e pizzetto. Si vergogna

135
La teoria

molto di questo comportamento e della conseguente alopecia, ma dice "di non


riuscire a non farlo" anche se "non ne capisce il senso e non sa perché lo fa".
Spesso, tra l'altro, è un comportamento del tutto automatico: qualche volta gli
è capitato di strapparsi quasi tutte le sopracciglia mentre guardava la TV o stu­
diava "senza rendersene conto", in modo automatico. Solo quando crea zone
di alopecia molto visibili rasa completamente la parte e allora, per qualche set­
timana, non mette più in atto il comportamento e dice di sentirsi più sereno.
Inoltre riesce a non mettere in atto il comportamento, anche per diversi giorni,
quando viene a trovarlo da Milano la fidanzata.
Antonio è molto attento alla sua salute: mangia solo cibi sani, evitando tutti
i cibi che potrebbero rendere faticosa la digestione. Questo però non è suffi­
ciente a farlo sentire sereno: passa infatti molto tempo a preoccuparsi del signi­
ficato di qualche sensazione fisica e della possibilità di essere malato. Tutte le
mattine controlla la pressione, osserva il colore delle sue urine e, se sente qual­
cosa che non va o qualche sensazione somatica che reputa anomala, fa dei con­
trolli. Per esempio, si controlla il numero e la regolarità dei battiti del cuore, se
ha l'impressione di una qualche aritmia; oppure va su internet, a controllare la
possibile origine di quel "sintomo". Quando non riesce a tranquillizzarsi o un
"sintomo" dura per troppo tempo, va dal suo medico. Si rende conto che passa
molto tempo a occuparsi della sua salute, togliendolo al lavoro e alla famiglia,
e che è spesso "esagerato" , ma non riesce a farne a meno.

Di questi casi, i primi due, per quanto piuttosto diversi nella loro
manifestazione, sono lo stesso disturbo, ovvero il disturbo ossessivo­
compulsivo. Il terzo, la tricotillomania, è un disturbo correlato. Il quar­
to non fa parte dei disturbi inclusi in questa categoria, anche se sembra
somigliare molto al primo caso (è un paziente ipocondriaco, classificato
ora tra i disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati) .
Cosa ci fa dire che i primi due individui hanno il disturbo ossessivo, il
terzo ha un disturbo correlato e il quarto non ha né un disturbo ossessi­
va-compulsivo né un disturbo correlato? Le somiglianze e le differenze
tra questi pazienti secondo noi rimandano a quelli che sono forse i due
principali problemi dei criteri di inclusione nello spettro.
I validatori considerati da Phillips, Stein, Rauch e collaboratori
(2010), in una review della letteratura esistente commissionata dal DSM-5
Anxiety OC-spectrum, Post-traumatic and Dissociative Work Group (la­
voro poi utilizzato per la definizione dei disturbi da includere o meno
nello spettro) , sono undici: analogie sintomatologiche, alta comorbilità
tra disturbi, corso della malattia, familiarità, aspetti genetici, fattori di
rischio ambientali, substrati neurali, biomarkers, temperamento, anoma­
lie cognitive ed emotive, risposta al trattamento. n primo, le analogie nei
sintomi (la symptom similarity) , che deriva dalla diretta osservazione e
valutazione clinica del disturbo, è per noi il più interessante.

136
Lo spettro ossessivo

Come messo in luce da Dèttore (2013 ) , grandi sono i limiti pratici e


concettuali dell'utilizzare questi come criteri d'inclusione nella catego­
ria disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati, poiché non tutti
i disturbi condividono le caratteristiche definite dai validatori o, al con­
trario, disturbi non inseriti nello spettro le condividono maggiormente
di quelli dentro: si pensi, per esempio, alla maggiore comorbilità del di­
sturbo ossessivo-compulsivo con disturbi depressivi piuttosto che con
alcuni disturbi inclusi nello spettro.
Il punto maggiormente critico è rappresentato dal fatto che non è
definito il quanto della somiglianza o differenza sia necessario avere per
stare dentro o fuori la categoria, visto che si tratta di disturbi " distinti
ma correlati" (Phillips, Stein, Rauch et al., 2010).
L'unica conclusione possibile, guardando le ricerche sui validatori, è
che alcuni disturbi correlati hanno somiglianze con il disturbo ossessivo­
compulsivo. I dati di ricerca però non sembrano escludere, per quanto
ne sappiamo noi, che le correlazioni tra disturbo ossessivo e disturbi cor­
relati siano dovute agli stessi individui per tutti i validatori. Per esempio,
i tricotillomaniaci e le persone con disturbo ossessivo-compulsivo condi­
vidono alcuni validatori, ma pazienti con skin picking e quelli con distur­
bo ossessivo-compulsivo ne condividono altri, diversi dai precedenti.
D'altra parte la stessa variabilità nel tempo dei disturbi proposti co­
me disturbi correlati è un indizio della non facile definizione dei crite­
ri di inclusione; come osservano Phillips, Stein, Rauch e collaboratori
(2010), la prima concettualizzazione dello spettro ossessivo includeva
una larga gamma di potenziali candidati. Per esempio, secondo Hollan­
der, Kim e Zohar (2007) e Hollander, Braun e Simeon (2008) ci sono
forti evidenze a supporto dell'inclusione nello spettro del disturbo di
Tourette e dell'ipocondria e ci sono minori evidenze per altri disturbi
come il disturbo da accumulo. Di fatto, nell'ultima versione dello spet­
tro il disturbo di Tourette e l'ipocondria non sono inclusi nello spettro,
mentre c'è il disturbo da accumulo.

LA DIMENSIONE DESCRITTIVA DEI SINTOMI:


EGODISTONIA E RIPETITIVITÀ COME CARATTERISTICHE
CLINICHE CONDIVISE DAI DISTURBI DELLO SPETTRO OSSESSIVO

n primo e più importante criterio d'inclusione della categoria riguar­


da la somiglianza nei sintomi tra disturbi. La valutazione delle analogie
nei sintomi, però, come messo in luce da Abramowitz (2006), è appiat­
tita sulla dimensione descrittiva dei sintomi. Non viene considerata la

137
La teoria

funzione o la dimensione motivazionale, ma solo la forma o topografia


dei sintomi.
In questa dimensione descrittiva, la somiglianza messa in luce riguar­
da essenzialmente la ripetitività dei pensieri e comportamenti sintomati­
ci e l'aspetto unwanted (non voluto) o egodistonico dei sintomi, ovvero
il fatto che si tratta di comportamenti che non si vorrebbero mettere in
atto, ma che non si riesce a inibire.
Un primo aspetto critico della somiglianza dei sintomi come crite­
rio di inclusione riguarda il fatto che, come evidenziato da Abramowitz
(2006), non è affatto autoevidente il perché della scelta di questi come
tratti distintivi del disturbo ossessivo piuttosto che altri. Per esempio,
se guardiamo alla letteratura e alla storia dello studio del disturbo, altre
caratteristiche sono via via messe in luce come almeno altrettanto di­
stintive e caratteristiche: tra le principali, l'intrusività dei pensieri, l'in­
tolleranza all'incertezza, il perfezionismo e la forte sensibilità morale, la
Not Just Right Experience.
D'altra parte, anche ammesso che siano aspetti qualificanti più di al­
tri, si tratta di vedere quanto davvero siano tratti condivisi da tutti i di­
sturbi inclusi nello spettro ossessivo e quanto siano specifici di questi e
non anche di altri disturbi non inclusi nello spettro ossessivo.

Le condotte non volute come caratteri stica


condivisa dal disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati

Il termine unwanted, come detto, riguarda e cerca di rendere conto


del fatto che il soggetto mette in atto delle condotte, anche se contem­
poraneamente ha il desiderio di non emetterle, e dopo le critica. Nello
specifico le condotte unwanted sono gli atti ripetuti e soggettivamen­
te percepiti come "obbligatori" ( ''spinti da" , non scelti) , come i rituali
ossessivi (quello che in letteratura è a volte descritto come deficit nella
capacità di ritardare o inibire un comportamento) .
Il concetto di unwanted come aspetto distintivo e qualificante del di­
sturbo ossessivo-compulsivo, però, presenta diversi problemi. Innanzi­
tutto non sempre i suoi sintomi sono unwanted e spesso sintomi non ri­
feribili a disturbi inclusi nello spettro ossessivo sono invece unwanted.
Si pensi a pazienti con fobia sociale, depressione, bulimia: quanta parte
delle condotte sono non volute dal soggetto? La bulimica che si abbuffa
molto spesso lo fa nonostante desideri non farlo o provi disgusto per se
stessa nel farlo; tanto che dopo si sente in colpa e mette in atto condot­
te (per esempio, dieta restrittiva) tese a compensare le calorie ingerite.

138
Lo spettro ossessivo

Il fobico sociale evita i luoghi di contatto sociale per lui ansiogeno, ma


vorrebbe non farlo. In senso stretto il concetto di unwanted si applica
a una grande parte dei disturbi psichiatrici, cioè a tutti i sintomi che
sono criticati dal paziente (aspetto peraltro strettamente connesso alla
sofferenza e alla richiesta di trattamento) . In questo senso, il fatto che i
sintomi siano messi in atto anche se non voluti dal soggetto non sembra
qualificare i sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo più dei sintomi
di tanti altri disturbi (un depresso vuole ruminare? Riesce a non farlo?
Un'anoressica vuole passare la maggior parte del tempo di veglia a oc­
cuparsi del peso? Riesce a non farlo?).
D'altra parte i sintomi ossessivi non sempre sono unwanted dal sog­
getto. Per esempio, se il paziente tocca qualcosa che per lui è contami­
nante e che suscita una sensazione di disgusto, allora il lavaggio del­
le mani può essere fortemente desiderato dal paziente e tutt'altro che
unwanted. Se si prova a bloccare un ossessivo che, dopo essere salito in
macchina, è preso dal dubbio di non avere chiuso il gas e vuole torna­
re a controllare, si ha una prova evidente di quanto il paziente "vuole"
controllare, di quanto questa condotta sia in quel momento tutt'altro
che non voluta (tanto che può anche reagire con rabbia e aggressività
verso chiunque tenti di bloccarlo) .
Se osserviamo u n paziente ossessivo mentre è in contatto con la si­
tuazione attivante, le compulsioni sono nella gran parte dei casi wanted
(salvo poi essere criticate in un secondo momento) . Ciò che notiamo è
la comparsa di un pensiero ossessivo, un dubbio, cui il paziente rispon­
de con un qualche comportamento compulsivo teso ad annullare o al­
lontanare quell'ossessione. Il paziente vorrebbe non avere il dubbio,
l'ossessione, piuttosto che non fare il controllo; se ha il dubbio, vuole
fare il controllo.
Il problema è che il termine unwanted è ambiguo e tende a confonde­
re condotte akratiche e condotte compulsive. Il termine unwanted può
avere, infatti, almeno due significati. Il primo fa riferimento al caso noto
in filosofia e in psicologia con il termine akrasia, vale a dire fallimento
del potere su di sé, di cui si è parlato nel capitolo I. In questo senso una
condotta è unwanted se l'individuo agisce pur riconoscendo che sareb­
be per lui possibile e conveniente agire diversamente. Un caso classico
è il cedimento alla tentazione, per esempio quello del soggetto che vor­
rebbe non bere, per evitare le conseguenze negative dell'alcol, ma non
riesce a non cedere: beve in quanto "non sono riuscito a controllarmi" .
Una condotta, tuttavia, può essere unwanted anche nel senso di
"compulsiva" , come spesso sono le condotte ossessive. Come è stato

139
La teoria

detto nei capitoli precedenti, affinché una condotta sia compulsiva si


richiede che l'individuo la riconosca come frutto di una propria scelta,
come per esempio è il lavaggio delle mani, ma che, al contempo, egli
stesso non riconosca di avere scelto o di avere accettato quel dominio
di scelta. Così come di fronte al rapinatore che ci chiede di scegliere tra
"la borsa o la vita" , scegliamo di dare la borsa ma abbiamo la sensazio­
ne di essere stati costretti a darla, alla stessa maniera il paziente sceglie
di tornare indietro a controllare il gas per risolvere il dubbio di averlo
lasciato aperto, ma, non avendo scelto di avere il dubbio e non volen­
dolo avere, si sente "costretto" a controllare. Di fronte al bivio, andare
al lavoro o tornare a controllare, sceglie la seconda possibilità (perché
vuole sì andare a lavorare e non fare ritardo, ma non è disposto a ri­
schiare di mandare a fuoco il palazzo), tuttavia non ha scelto di trovarsi
di fronte a questo bivio e potendo non l'avrebbe scelto. Per questo non
ritiene di avere scelto in senso pieno ( ''Mi sento costretto a controlla­
re" ) ; quello che "davvero vorrebbe" è di non trovarsi davanti al bivio
"faccio tardi o rischio di lasciare il gas aperto" . In altri termini, unwan­
ted fa riferimento a due fenomeni. Da una parte, le compulsioni sono
akratiche, cioè contrarie al miglior giudizio del paziente, che le agisce
pur sapendo che sarebbe possibile e opportuno non agirle. Dall'altra, le
compulsioni, pur essendo intenzionali, sono vissute come atti obbligati
e non liberi, perché il paziente non ha scelto né accettato di trovarsi di
fronte al dilemma tra correre il rischio minacciato dalle ossessioni, per
esempio il rischio di contagio, e il costo delle compulsioni, per esempio
le ore spese in bagno a lavarsi.

Le condotte ripetitive come carattere comune


e distintivo del disturbo ossessivo e dei disturbi correlati

Sebbene la ripetitività all'apparenza sembri un criterio comune e di­


stintivo abbastanza chiaro e univoco, in realtà non lo è: oltre a non esse­
re del tutto chiaro cosa si intenda per ripetitività, anche in questo caso
due condotte possono essere ripetitive in modi estremamente diversi tra
loro e non è del tutto evidente in che senso tutti i disturbi inclusi nello
spettro siano caratterizzati da ripetitività. Questo criterio presenta al­
meno due problemi.
Il primo problema può essere così rappresentato: per tutti i disturbi
dello spettro si può a/fermare che la ripetitività sia un carattere distintivo?
E lo è in modo specifico per i disturbi inclusi in questa categoria, cioè non
lo è per i disturbi non inclusi?

140
Lo spettro ossessivo

Un esempio che sembra contrastare questa evidenza è il disturbo da


accumulo, incluso nello spettro anche se la ripetitività non ne è segno
caratteristico: il comportamento d'accumulo può essere considerato
ripetitivo solo nel senso che è persistente e continuativo nel tempo. Se
per ripetitività, però, si fa riferimento a condotte ripetute sempre si­
mili a se stesse, più volte al giorno e secondo schemi e manifestazioni
esterne molto simili (come controllare ripetutamente il gas, chiudere
la porta tre volte, lavarsi ripetutamente le mani, domandarsi ripetuta­
mente se si è omosessuali) , allora è difficile considerare il disturbo da
accumulo un comportamento ripetitivo: l'accumulo è ripetitivo solo
nel senso della costanza dello scopo che lo regola (acquisire e conser­
vare oggetti) .
Anche nella tricotillomania, il modo in cui i comportamenti sono ri­
petitivi è estremamente variabile. Si passa da una ripetitività che feno­
menologicamente somiglia molto alla ripetitività del rituale ossessivo
(condotta che appare come rigidamente predefinita, tendenzialmente
stabile e uguale a se stessa), a casi in cui il comportamento sembra un
binge, ovvero una messa in atto del sintomo in modo intenso, per un
tempo limitato e in modo non regolare nel tempo.
D'altra parte anche nel disturbo ossessivo-compulsivo uno dei sin­
tomi centrali è l'evitamento, funzionale a prevenire il realizzarsi di un
danno temuto, che però non è un sintomo ripetitivo in senso stretto (non
c'è una condotta rigidamente ripetuta) ; semmai è un comportamento
molto accurato in relazione allo scopo.
Non solo dire che tutti i disturbi inclusi nello spettro ossessivo so­
no caratterizzati da ripetitività non rappresenta un'affermazione auto­
evidente, ma è anche possibile asserire che molti disturbi non inclusi
in questa categoria presentano sintomi ripetitivi. Si pensi al paziente
ipocondriaco: ha pensieri e comportamenti ripetitivi correlati alla sa­
lute, che sono nell'aspetto di ripetitività difficilmente distinguibili da
quelli di un paziente con disturbo ossessivo-compulsivo. O si pensi al
body checking della bulimica: cosa distingue questi comportamenti dai
sintomi ossessivi o da quelli del disturbo dismorfofobico (incluso tra i
disturbi correlati) ?
li punto è che è difficile considerare simili o diverse due condotte solo
sulla base del loro "aspetto" , cioè della dimensione descrittiva. È come
decidere se le condizioni di due pazienti siano uguali o diverse a partire
da sintomi come la febbre o la faticabilità (che evidentemente possono
rimandare a quadri patologici completamente differenti, dalla banale
influenza stagionale a gravi malattie che minacciano la vita).

141
La teoria

Questo ci porta al secondo problema: due condotte simili accomuna­


te da ripetitività sono necessariamente espressione dello stesso fenomeno
psicologico?
Una condotta ripetitiva può essere simile o diversa da un'altra con­
dotta ripetitiva per i suoi determinanti prossimi e per i meccanismi che
ne regolano la ripetizione. Esaminiamo la seguente condotta:

Un paziente è impegnato nel lavaggio delle mani: lo fa secondo uno schema


molto rigido che prevede aprire l'acqua con un movimento preciso, sciacquare
il sapone e il portasapone, insaponarsi, sciacquarsi, posare il sapone, ripetere
per cinque volte, asciugarsi accuratamente. Se viene interrotto o se qualcosa
non va secondo il suo schema (per esempio, il sapone tocca il lavandino), ri­
comincia da capo.

Possiamo osservare una condotta simile a quella descritta in un pazien­


te ossessivo, ma anche per esempio in un paziente con sindrome di Asper­
ger o schizofrenico (com'era il caso del paziente descritto) o con demen­
za. È una condotta ripetitiva, ma davvero possiamo immaginare che sia
sempre "lo stesso sintomo" e che, quindi, ci sia somiglianza di disturbi?
In realtà, se consideriamo i determinanti prossimi di una condotta,
possiamo tracciare una prima distinzione fra schemifissi d'azione e con­
dotte corrette secondo uno scopo.
Gli schemi fissi d'azione sono condotte stereotipe, simili a un rifles­
so, attivate da un trigger; può esserlo l'automatic-habitual hair pulling
di alcuni pazienti con tricotillomania. Gli schemi fissi d'azione si carat­
terizzano per i trigger attivanti, per il tipo di comportamento e per le
condizioni di stop.
La caratteristica delle condotte corrette secondo uno scopo non è
tanto il fatto di raggiungere un risultato prevedibile (questo accade an­
che con gli schemi fissi d'azione), quanto di raggiungerlo attraverso un
preciso processo: da un ampio repertorio di movimenti stereotipati o
variabili, il sistema seleziona i comportamenti non casualmente, e in mo­
do che essi portino l'organismo sempre più vicino allo scopo stabilito
(Bowlby, 1988) . In sintesi, se una condotta corretta secondo uno scopo
è ostacolata, allora l'individuo tende a sostituirla con altre disponibili
nel suo repertorio, mentre se uno schema fisso d'azione è ostacolato,
non è sostituito da altre condotte.
Le condotte di questo tipo, dunque, si caratterizzano fondamental­
mente per lo scopo perseguito.
Condotte simili possono essere regolate da scopi diversi e lo stes­
so scopo può regolare condotte differenti. In ambito psicopatologico,

142
Lo spettro ossessivo

per esempio, l'evitamento del treno può essere finalizzato a prevenire


un attacco di panico in un luogo chiuso dal quale non ci si potrebbe al­
lontanare, ma anche a prevenire il contatto con sostanze sporche e di­
sgustose; allo stesso modo, due comportamenti diversi possono essere
regolati dallo stesso scopo: per esempio, lavarsi ripetutamente le mani
dopo avere toccato un computer caldo e non usare uno smartphone
ricevuto in regalo possono essere finalizzati allo stesso scopo di proteg­
gersi dalla contaminazione da radiazioni.
Ora, se osserviamo il paziente ossessivo impegnato in un rituale di
lavaggio, si può avere l'impressione che sia attivo uno schema fisso
d'azione, ma se si allarga il campo di osservazione appare evidente che
il risultato finale, la scomparsa della sensazione di contaminazione, è
perseguito dal paziente non solo tramite i lavaggi ma anche con altri
comportamenti che sceglie in base alle circostanze; per esempio, il pa­
ziente evita di toccare determinati oggetti, oppure li tocca utilizzando
un fazzoletto, chiede rassicurazioni, rumina sulla possibilità che un og­
getto sia contaminato.
Le condotte corrette secondo uno scopo possono essere pienamen­
te consapevoli e intenzionali ma anche automatiche; in questo secondo
caso si differenziano di nuovo dagli schemi fissi d'azione perché, se so­
no ostacolate, sono sostituite da altre condotte.
Al contrario, per esempio, in alcuni pazienti con tricotillomania sem­
bra che il comportamento sintomatico sia più simile a uno schema fis­
so d'azione attivato da uno stato di tensione o di noia che non corretto
secondo uno scopo; infatti, se viene interrotto o ostacolato, il paziente
non ricorre a comportamenti alternativi. Per giunta, diversamente da
quanto accade nel disturbo ossessivo-compulsivo, durante la ripetizio­
ne del comportamento sintomatico, il paziente non si descrive focaliz­
zato sull'esecuzione del sintomo che, invece, può essere messo in atto
in specifici momenti in cui è concentrato su altre attività, per esempio
studiare o riflettere, o fantasticare ( ''Mentre rifletto davanti al compu­
ter mi ritrovo quasi inconsapevolmente a strapparmi in capelli" , " Lo
. faccio soprattutto la sera, a letto, mentre penso prima di addormentar-
mi, quasi senza accorgermene" ) . È pur vero, tuttavia, che altri pazienti
con tricotillomania sembrano perseguire uno scopo simile alla neutra­
lizzazione della Not Just Right Experience (Coles, Heimberg, Frost et
al., 2005) come, per esempio, eliminare capelli che non sono a posto,
magari perché bianchi, o i peli delle sopracciglia troppo folte o vicine,
e, a questo fine, non solo strappano ma ricercano anche accuratamente
i peli "non a posto" , controllano ripetutamente il risultato che spesso

143
La teoria

appare insoddisfacente e che, perciò, induce a ripetere lo strappo. In


questi casi, il paziente appare concentrato sull'esecuzione del compito,
che non raramente è anche vissuto come akratico.
Ancora, in altri pazienti lo scopo dello strappo nella tricotillomania
sembra finalizzato a contenere emozioni negative intense, con finalità
simili a quelle perseguite dai pazienti con disturbo borderline di perso­
nalità attraverso gli atti autolesivi.
Quindi, come visto, la ripetitività di un pensiero o comportamento
può rimandare a tipi di condotte distinti, per funzione e significato, e
può essere letta in almeno due modi, estremamente differenti tra loro:
come espressione di uno schema fisso d'azione, di una stereotipia,
ovvero riconducibile a una scarsa flessibilità del repertorio compor­
tamentale del soggetto;
come espressione di una forte focalizzazione su uno scopo, ovvero
riconducibile all'impegno profuso nel raggiungere un determinato
scopo.
Nel disturbo ossessivo-compulsivo, anche ove l'automatizzazione del
comportamento possa farlo somigliare a uno schema fisso d'azione, di
fatto abbiamo sempre una condotta orientata da uno scopo. È lo scopo
a essere "fisso" , non la condotta volta a attenerlo. Nella tricotillomania
possiamo osservare entrambi i tipi di ripetitività a seconda dei pazienti.
Nel disturbo da accumulo, come nel disturbo ossessivo-compulsivo, co­
me detto, abbiamo condotte ripetitive solo nel senso che sono regolate
dallo stesso scopo di "conservare" o non buttare gli oggetti.
Infine, la ripetitività può essere alimentata anche da alcune specifiche
caratteristiche degli scopi e meccanismi. Per esempio, le condotte sono
più ripetute se gli standard di raggiungimento di uno scopo sono elevati
o se gli scopi sono formulati in negativo (rendendo più difficile indivi­
duare una regola di stop). I meccanismi che facilitano la ripetizione so­
no essenzialmente di due tipi: l ) i tentativi di sopprimere una condotta
(per esempio, criticare e contrastare i lavaggi) o i suoi determinanti (per
esempio, sforzarsi di eliminare la voglia lavarsi) ; 2) la resa precoce alla
possibilità di inibire la condotta al primo fallimento.
La valutazione della somiglianza su un piano descrittivo tra condot­
te sulla base della ripetitività, senza la considerazione dei determinanti
e meccanismi sottesi, è un ottimo esempio di come si possano mettere
sullo stesso piano sintomi molto differenti tra loro. Infatti, una condot­
ta può essere o diventare ripetitiva attraverso processi estremamente
diversi.

144
Lo spettro ossessivo

CONCLUSIONI

Negli ultimi decenni si è arrivati a una comprensione sempre più ac­


curata dello stato mentale che regola i pensieri e i comportamenti osses­
sivi. Questa comprensione della complessa fenomenologia del disturbo
ossessivo-compulsivo rischia di perdersi nel momento in cui, come fa il
DSM-5, si promuove una comprensione dei disturbi in termini di mera
lista di segni e sintomi; l'individuazione dei meccanismi psicologici che
sottendono una condotta è sostituita da un approccio checklist che tra­
scura completamente il significato e la funzione dei sintomi.
Riconosciamo i meriti dello sforzo di individuare, con le macrocate­
gorie, aspetti comuni e distintivi di gruppi di disturbi, ma non partendo
dalla mera collezione dei sintomi, prescindendo dalla loro motivazione o
funzione, ovvero fermandosi alla dimensione descrittiva di un disturbo
che si basa sul cosa Fa piuttosto che sul cosa Motiva o sul Perché di una
condotta (Abramowitz, 2006) ; o sulla base di una parziale condivisione
di aspetti scelti come "indicatori di somiglianza" tra disturbi, come fa­
miliarità o comuni substrati neurali.
Innanzitutto gli aspetti individuati come comuni e distintivi non lo so­
no, o non lo sono in modo chiaro e univoco. In particolare, da un lato la
somiglianza dei sintomi (symptom similarity), individuata soprattutto nella
condivisione delle caratteristiche di ripetitività e unwanted dei pensieri e
comportamenti sintomatici, non è realmente condivisa da tutti i disturbi
dello spettro, ma risulta invece condivisa da altri disturbi non inseriti nello
spettro; dall'altro questa somiglianza descrittiva non rende conto in nes­
sun modo della reale e sostanziale somiglianza tra disturbi. Per considera­
re simili o diverse due condotte, come più volte sottolineato, è necessario
tenere conto dei loro determinanti psicologici e in particolare dell'aspetto
motivazionale. Peraltro, il "quanto" della somiglianza nei sintomi e rispet­
to ai validatori non è affatto definito, lasciando spazio a grandi ambiguità.
Un approccio descrittivo ai disturbi mentali, oltre al rischio di far­
ci fare passi indietro di decenni con il ritorno ad approcci riduzionisti,
. dimenticando la conoscenza accumulata negli ultimi decenni, rischia
di essere enormemente confusivo o inutile anche sul piano clinico. Dal
momento che il concetto di clinica! utility è, nelle intenzioni degli auto­
ri del DSM-5 , uno dei criteri, forse il più importante, da considerare nel
definire una macrocategoria diagnostica (Phillips, Stein, Rauch et al. ,
2010), il fatto che la categoria di disturbo ossessivo-compulsivo e distur­
bi correlati rischi di complicare il processo diagnostico e non migliorare
la pratica clinica, non costituisce un fatto secondario.

145
La teoria

Infatti, come messo in luce da Phillips, Stein, Rauch e collaboratori


(2010) nella review sui disturbi da includere nello spettro, se è vero che
le macrocategorie non influenzano la diagnosi del singolo disturbo, è
altresì vero che come i disturbi sono raggruppati ha importanti impli­
cazioni per la pratica clinica_
Abbandonando gli aspetti motivazionali e funzionali nella compren­
sione di un disturbo, si rischia di mettere insieme comportamenti che
somigliano nell'aspetto, ma non nel loro funzionamento; per cui, estre­
mizzando, si potrebbe mettere insieme la ripetitività dell'autistico, del
paziente con una addiction e di quello con disturbo ossessivo-compulsivo.
Il concetto di spettro o disturbi correlati, dunque, secondo noi non
è utile per il clinico: non si può comprendere un disturbo mentale pre­
scindendo dalla mente del soggetto ovvero dai determinanti e dal fun­
zionamento interno che regola la sintomatologia; altrimenti è come crea­
re la categoria "pazienti con febbre" , trattando la febbre non come un
sintomo che rimanda a quadri molto differenti, ma come un carattere
distintivo di un gruppo di disturbi.

146
VIII

I MODELLI NEUROPSICHIATRICI DEL DOC


Barbara Basile, Marco Saettoni, Francesco Mancini

INTRODUZIONE

A fianco delle teorie psicologiche, i modelli di tipo biomedico ricor­


rono a spiegazioni di tipo organicistico, attribuendo le cause del DOC a
fattori di tipo genetico, a disfunzioni biochimiche e neurotrasmettito­
riali, a disfunzioni del sistema immunitario e ad alterazioni anatomofun­
zionali. In questo capitolo spiegheremo brevemente ciascuno di questi
modelli, abbozzando le metodologie di indagine e riepilogando i risul­
tati principali a oggi raccolti nello studio del DOC. Nel paragrafo con­
clusivo del capitolo indicheremo i limiti metodologici e cercheremo di
integrare i diversi modelli, discutendo le implicazioni cliniche dei dati
disponibili in letteratura.

L'IPOTESI GENETICA

Per comodità espositiva, riprendendo un lavoro di Smoller, Block e


Young (2009) , possiamo sintetizzare il contributo degli studi di geneti­
ca alla comprensione dei meccanismi di insorgenza e sviluppo del DOC,
vedendo quali risposte la ricerca può dare attualmente a tre quesiti.
- il DOC è un disturbo con caratteristiche di familiarità?
- Se sì, quanto contribuiscono i geni?
- Quali geni sono coinvolti?
I rispettivi metodi di ricerca per questi tre quesiti sono gli studi fa­
miliari, gli studi sui gemelli e le adozioni e gli studi di linkage e associa­
zione genica (tabella 8 . 1 ) .

147
La teoria

Tabella 8.1 Contributo della genetica.


Quesito Metodo di ricerca appropriato
l. Il DOC è un disturbo con familiarità? l . Studi familiari
2. Quanto contribuiscono i geni? 2. Studi sui gemelli e soggetti adottati
3. Quali geni sono coinvolti? 3 . Studi di linkage, di associazione
e di genetica molecolare

ll DOC è un disturbo con familiarità?


Che cosa dicono gli studi familiari

Dalle osservazioni cliniche e dai dati in letteratura (Pauls, Abramo­


vitch, Rauch et al., 20 14; Pauls, 2010) emerge frequentemente che tratti
ossessivi siano presenti anche tra i familiari dei pazienti affetti da questo
disturbo. Ciò potrebbe derivare da fattori ambientali (per esempio, stile
genitoriale, modalità educative, imitazione e modeling) o da influenze
di tipo genetico. Le primissime ricerche a favore di un'ipotesi genetica
del DOC risalgono agli anni Trenta e si basano sullo studio dei familiari
dei pazienti. La raccolta della "storia familiare" tramite un solo membro
della famiglia prevedeva la collezione di informazioni su tutti i suoi com­
ponenti con lo scopo di confermare, o meno, la possibile influenza fa­
miliare nella trasmissione del disturbo. Lo studio di " raccolta familiare"
più importante (Rosenberg, 1967) non ha rilevato nessuna associazione
tra le caratteristiche di personalità dei familiari e i tratti ossessivi osser­
vati nei pazienti. Un'altra serie di ricerche si è focalizzata sulla raccolta
di informazioni da parte di tutti i membri della famiglia dei pazienti. Il
primo studio che ha coinvolto l'intero nucleo familiare (McKeon, Mur­
ray, 1987 ) , ripreso in seguito da Black, Noyes, Goldstein e collaboratori
(1992) , non ha rilevato nessuna associazione tra i sintomi osservati nei
pazienti ed eventuali tratti ossessivi nei familiari, mentre, in anni più re­
centi, questo dato è stato smentito sia su popolazioni americane (Pauls,
Abramovitch, Rauch et al. , 2014), sia coinvolgendo famiglie europee
(Grabe, Ruhrmann, Ettelt et al., 2006).
In generale, gli studi sulla familiarità del disturbo ossessivo mostra­
no grande variabilità con ricerche assai diverse per numerosità del cam­
pione esaminato (da 30 a più di 3 00 soggetti e tutti i parenti di primo
grado disponibili) e per risultati, tanto che il tasso di rischio per un DOC
nei parenti di primo grado è risultato variare dal 6 % al 55 % . Orienta­
tivamente, la maggior parte delle ricerche concorda su un tasso oscil­
lante fra il 10% e il 20% , significativamente maggiore della prevalen­
za lifetime del disturbo nella popolazione generale, stimata fra 0,7 % e

148
I modelli neuropsichiatrici del DOC

3% (Browne, Gair, Scharf et al., 2014). Arumugham, Cherian, Baruah


e collaboratori (20 14) sottolineano che il rischio di sviluppare un DOC
sub-sindromico è maggiore nei genitori dei soggetti affetti, rispetto ai
controlli ( 1 6 % vs 3 % ) , e che, quando gli studi sono effettuati su sog­
getti in età evolutiva o con esordio precoce del DOC, la familiarità risul­
ta ancora maggiore. Gli stessi autori, attraverso una ricerca condotta su
un campione di 802 soggetti ( 19% dei quali con familiarità positiva),
concludono che la familiarità nel DOC si associa a specifiche caratteri­
stiche fenomenologiche, come i rituali compulsivi di ordine e lavaggio
e i temi ossessivi di contaminazione, simmetria e accumulo. Uno dei
maggiori contributi nell'ambito degli studi sulla genetica deriva dagli
studi di segregazione familiare (che, analizzando dati provenienti da
più famiglie, permettono di verificare se una variazione del genoma è
ereditata, e quindi familiare, oppure comparsa de nova) e implica la ve­
rifica di specifici modelli genetici. Questo metodo permette di creare
dei modelli volti a stimare l'impatto di fattori ereditari nello sviluppo/
incidenza di una certa patologia.
L'analisi di segregazione costituisce il principale strumento statisti­
co per analizzare l'eredità di qualsiasi tipo di carattere genetico e per­
mette di determinare se nell'eziologia di un carattere fenotipico è coin­
volto un fattore genetico preponderante. I pochi studi di segregazione
familiare condotti sul DOC vanno a favore di una certa probabilità di
trasmissione genica, ma solo in riferimento ad alcuni aspetti ossessivi.
Per esempio, si è osservato che le ossessioni sono significativamente più
trasmissibili dai familiari, rispetto alle compulsioni (Nestadt, Samuels,
Riddle et al. , 2000).
In conclusione, gli studi sulla familiarità non consentono di stabilire
se la trasmissione di variabili connesse con il DOC sia una trasmissione
genetica o sia legata all'educazione o all'imitazione. Gli studi sui gemelli
hanno lo scopo di superare questo limite.

Quanto contribuiscono i geni alla familiarità del DOC?


Studi gemell ari e su soggetti adottivi

Gli studi gemellari si basano sulla distinzione tra gemelli monozigo­


ti, geneticamente identici, e dizigoti, che (a parità degli altri familiari) ,
invece, condividono solo il 5 0% del patrimonio genetico. Se un tratto,
o un disturbo, è influenzato geneticamente, entrambi i gemelli monozi­
goti dovrebbero presentare il medesimo tratto. La differenza della con­
cordanza osservata tra gemelli monozigoti e dizigoti può essere utiliz-

149
La teoria

zata per stimare la percentuale della varianza di un certo fenotipo che


può, quindi, essere attribuito a fattori genetici. L'assunto implicito ne­
gli studi che confrontano gemelli monozigoti e dizigoti è che l'ambiente
interpersonale sia lo stesso in entrambi i casi. Tuttavia, in generale, ciò
che conta non è tanto l'ambiente in sé, quanto come l'ambiente è vissu­
to dall'individuo, e questa differenza potrebbe essere maggiore tra due
gemelli dizigoti che omozigoti. Inoltre, soprattutto nel caso dei gemel­
li dizigoti, non è per nulla detto che la disposizione dei genitori verso i
due fratelli sia uguale. Infine, non è da sottovalutare anche l'interazio­
ne fra gemelli. Per esempio, i dizigoti tendono a darsi identità diverse,
cioè spesso desiderano fortemente e cercano in molti modi la diversifi­
cazione reciproca, mentre negli omozigoti sembra accadere il contrario.
Nell'ambito dell'applicazione di questa metodologia al DOC, un primo
importante contributo a sostegno della familiarità del DOC risale al 1965
attraverso l'analisi di una serie di casi singoli (case series) con il dato di
una più alta concordanza per il disturbo ossessivo fra i gemelli monozi­
goti, rispetti ai dizigoti (lnouye, 1965 ) .
A oggi, però, solo un paio di ricerche (Tambs, Czajkowsky, R0ysamb
et al. , 2009; Bolton, Rijsdijk, O'Connor et al. , 2007) ha utilizza­
to campioni sufficientemente ampi (includendo oltre 850 gemelli)
da essere considerati attendibili. In uno studio condotto su bambi­
ni di 6 anni è stata stimata un'ereditabilità del DOC del 47 % (Bolton,
Rijsdijk, O'Connor et al., 2007 ) , mentre in un secondo lavoro (Tambs,
Czajkowsky, R0ysamb et al. , 2009) è stata riportata un' ereditabilità dei
sintomi ossessivi del 55 % . In quest'ultimo studio, tuttavia, la percen­
tuale stimata includeva la condivisione di fattori genetici coinvolti non
solo nei sintomi ossessivi, ma anche in altri cinque disturbi d'ansia, com­
promettendo quindi notevolmente l'attendibilità del dato rilevato, non
specifico per la sintomatologia ossessiva. La ricerca numericamente più
estesa e con maggiore validità statistica ha trovato un tasso di concor­
danza fra i gemelli monozigoti pari a 0,52 e a 0,2 1 per i dizigoti, con
una globale familiarità del DOC stimata intorno al 48 % (Browne, Gair,
Scharf et al. , 2014).
Ulteriori evidenze sulla possibile eziologia genetica di un tratto o di
un disturbo derivano dagli studi di adozione. Questi permettono di con­
frontare tra loro individui geneticamente imparentati che non condivi­
dono lo stesso ambiente familiare. Le eventuali somiglianze identificate
rappresenterebbero così una stima del contributo genetico. Purtroppo,
però, a oggi, non ci sono ricerche che abbiano utilizzato questo metodo
in relazione al DOC.

150
I modelli neuropsichiatrici del DOC

Quali geni sono coinvolti ?


Studi di linkage e associazione

I cosiddetti studi di linkage esaminano la possibilità che markers


(marcatori) di DNA localizzati in intervalli diversi lungo il genoma siano
cotrasmessi assieme a una malattia all'interno di gruppi familiari (que­
sti studi hanno consentito di individuare i geni di malattie come la Co­
rea di Huntington e la fibrosi cistica). In altri termini, questa metodica
si pone il quesito: "Dove sono dislocati nel genoma i geni della malat­
tia?" , e cerca la risposta attraverso l'individuazione di eventuali markers
in specifiche regioni cromosomiche che siano trasmessi con il fenotipo
più di quanto possa essere legato al caso. Come sottolineato da Smoller,
Block e Young (2009), gli studi di linkage sui disturbi d'ansia hanno in­
teressato diverse regioni cromosomiche con risultati, però, largamente
inconclusivi. Per il DOC alcune prove di linkage hanno interessato le re­
gioni 3 q27 -q28, 9p24, 10p l5 e 14q. Uno studio assai dettagliato è quello
condotto dall'ocD Collaborative Genetics Study con il coinvolgimen­
to di l 008 soggetti e 2 1 9 famiglie e il riscontro di regioni suggestive di
linkage sui cromosomi l e 3 . Usando criteri più allargati per la diagnosi
di DOC (ovvero includendo anche soggetti subclinici) si sono trovate pro­
ve di coinvolgimento di markers del cromosoma 3 q27 -28, senza, però,
quella forza statistica che possa consentire di definire specifici geni real­
mente di impatto in queste famiglie (Pauls, Abramovitch, Rauch et al. ,
2014; Nestadt, Grados, Samuels, 2010). Altri studi di linkage, condotti
su campioni molto piccoli, hanno identificato altri possibili marcatori,
ma, anche in questi casi, la significatività dei risultati non raggiungeva
la soglia statistica minima necessaria. Sebbene sia stata applicata al DOC,
in realtà, questa metodica sarebbe più adatta nello studio di patologie
in cui sono già stati identificati uno o due geni responsabili. Di contro,
stando a quanto finora riportato, il DOC rappresenta una patologia com­
plessa, di cui ancora non si conosce l'eventuale influenza ereditaria, per
cui questa tecnica non sembra particolarmente adatta.
Gli studi di associazione hanno lo scopo di indagare quali geni sono
coinvolti in una certa patologia esaminando le possibili correlazioni fra
specifici alleli e il fenotipo in esame. La maggior parte di questi studi è
stata sviluppata su alcuni "geni candidati" ; in altre parole su quei geni
che sono sospettati di avere un ruolo nel disturbo, in conformità a prece­
denti prove biologiche (i cosiddetti "candidati biologici" ) o, in altri casi,
su geni dislocati in regioni cromosomiche già indagate in studi di linkage
(i cosiddetti geni candidati "per posizione" ) . Si tratta di geni codificanti

15 1
La teoria

recettori, trasportatori ed enzimi di sintesi dei sistemi neurotrasmettito­


riali target dei trattamenti farmacologici (per esempio, serotonina, nora­
drenalina, glutammato, dopamina) e di neuropeptidi implicati in modelli
animali dell'ansia (per esempio, il sistema di rilascio delle corticotropine,
neuropeptide Y, BDNF - Brain-derived neutrophic/actor l fattore neuro­
trofìco di derivazione cerebrale) . Sono stati indagati soprattutto due tipi
di variazione in questi loci: il primo costituito dai polimorfìsmi di un sin­
golo nucleotide all'interno di singole basi di DNA (le più comuni forme di
variazioni genomiche, con una frequenza media di l per l 000 basi della
sequenza di DNA) ; il secondo comprendente brevi sequenze ripetute di
2-4 nucleotidi che compaiono in tratti di varia grandezza all'interno dei
geni (talvolta chiamati microsatelliti) . In particolare, gli studi più accu­
rati riguardano la ripetizione di un di-nucleotide compreso nella regione
del promoter del gene per il trasportatore della serotonina, definito 5HTT
promoter length polymorphism o 5HTTLPR. L'allele corto del 5HTTLPR,
mancante di 44 coppie di basi della sequenza presente nell'allele lungo,
correla con una ridotta attività del gene per il trasportatore della sero­
tonina. Questo polimorfìsmo è assai comune interessando circa il 45%
dei soggetti di origine europea e americana e, negli studi di associazio­
ne, l'allele corto è stato associato ai tratti di nevroticismo, all' evitamen­
to della sofferenza (Harm Avoidance) e, in alcuni casi, al DOC. Purtrop­
po la validità di queste associazioni è risultata assai discutibile e questo
polimorfìsmo è stato così diffusamente studiato che ha finito per essere
associato a un inverosimilmente vasto numero di fenotipi psichiatrici (e
non solo), tanto da far pensare alla presenza di troppi falsi positivi. È an­
che da sottolineare che questo filone di ricerca evidenzia che i parenti di
soggetti con disturbo d'ansia generalizzata ( GAD, Generalized Anxiety
Disorder) hanno un rischio maggiore di presentare un GAD, ma anche un
disturbo da attacchi di panico, così come i parenti di pazienti con DOC
hanno un rischio più elevato di avere DOC, ma anche altri disturbi fobici o
da attacchi di panico (Smoller, Block, Young, 2009). Corregiari, Bernik,
Cordeiro e collaboratori (2012) hanno analizzato i polimorfìsmi T102C e
C5 16T del gene per il sottotipo di recettore serotoninergico 2A, trovando
che il polimorfìsmo T102C è più rappresentato nei soggetti DOC rispetto
ai controlli e che il C516T è più frequente nei non-responders, rispetto ai
responders al trattamento farmacologico.
Infine, oltre alle indagini sul gene per il trasportatore della serotonina,
alcune ricerche si sono focalizzate sul gene per il recetto re dopaminergico
di tipo 4 (DRD4 ) , mentre il gene per il recettore D2 è stato correlato al DOC
con comorbilità per i tic, ma non alle forme di OOC che non presentano

152
I modelli neuropsichiatrici del DOC

questa comorbilità. Potrebbero peraltro essere anche implicati nel DOC i


geni per la catecol-0-metilltransferasi e la monoaminossidasi e sono stati
indagati (senza comunque giungere a risultati univoci) i geni per il tra­
sportatore del glutammato (SLClAl ) e per il recettore glutammatergico
(SAPAP3 ) , per il locus BDNF, per i recettori dell'acido gamma-aminobutirri­
co tipo l (GABBRl ) e per le glicoproteine mieliniche degli oligodendrociti.
In conclusione, la limitatezza delle conoscenze sui geni, sulle loro in­
terazioni e su possibili correlazioni con i meccanismi eziopatogenetici
e i risultati sin qui contrastanti impediscono di associare il DOC a speci­
fici geni candidati.

Genotipi, fenotipi ed endofenotipi

Nell'ambito della genetica, un concetto chiave è l' ereditabilità. Que­


sto si riferisce alla probabilità di una persona di sviluppare una determi­
nata malattia ereditaria, sulla base della presenza di un gene difettoso.
Fattori quali la genetica, l'ambiente e il caso contribuiscono a spiegare
le differenti caratteristiche osservabili (il fenotipo, appunto) negli indivi­
dui. L' ereditabilità studia il contributo di ciascuno di questi fattori nello
spiegare la varianza fenotipica, cioè le differenze osservate in una po­
polazione. In termini statistici, il coefficiente di ereditabilità non è altro
che un coefficiente di correlazione, che indica la forza dell'associazione
tra due o più variabili, ma senza dare indicazioni sul rapporto di causa­
lità tra le variabili indagate. Un'alta ereditabilità non corrisponde quin­
di a un'elevata influenza genetica, né a una bassa influenza ambientale,
ma indica semplicemente il grado di associazione tra due variabili. Un
esempio: è stato osservato che il QI è altamente ereditabile in famiglie di
ceto medio (dove la varianza dovuta all'ambiente è bassa) , ma lo è molto
meno in famiglie più povere (dove la varianza ambientale è molto più
elevata) (Bentall, 2015 ) . Questo, però, non significa che il QI dipende
da fattori genetici, ma, anzi, rimarca il ruolo fondamentale dell' ambien­
te nella determinazione del QI individuale. Analogamente, nel caso del
DOC, è importante considerare il ruolo di determinati fattori ambientali.
Per esempio, è stato osservato (Stewart, Yen, Stack et al. , 2006; Angst,
Gamma, Endrass et al. , 2004; Stewart, Geller, Jenike et al., 2004; Skoog,
Skoog, 1999) che un basso status socio-economico, la presenza di ge­
nitori iperprotettivi o emotivamente assenti (Cavedo, Parker, 1994) ed
esperienze di abuso sessuale solo nelle donne (Cath, van Grootheest,
Willemsen et al., 2008) rappresentano fattori di rischio specifici per lo
sviluppo di un DOC. Analogamente, lo studio di una patologia psichica
La teoria

come il DOC è fortemente legato al contesto socio-culturale in cui le ri­


cerche vengono condotte. Pochi studi sulle possibili basi genetiche del
DOC sono stati condotti in Europa e la stessa etichetta diagnostica del
disturbo può risentire della cultura di appartenenza. Di conseguenza è
necessario interpretare con estrema cautela gli indici di ereditabilità re·
lativi a una patologia come il DOC, senza affidarsi ciecamente ai risultati
ottenuti dagli studi nell'ambito di questo disturbo.
Parlando dei tratti semplici, i concetti di genotipo e fenotipo sono
sufficienti: una mutazione di un certo gene provocherà immancabil­
mente uno specifico fenotipo derivante dalla diversa funzione del gene
mutato. Le cose, però, si complicano quando si parla di tratti comples­
si, in quanto, come abbiamo visto, il fenotipo finale non è il risultato
diretto dell'azione del genotipo, ma è il prodotto dell'interazione del
genotipo con molteplici fattori ambientali. Un'acquisizione, relativa­
mente recente, rispetto alla genetica dei tratti complessi è quella dei co­
siddetti "endofenotipi" o "fenotipi intermedi" , che rappresentano un
punto intermedio nel tragitto che va dal genotipo al fenotipo. Gli endo­
fenotipi sono markers biologici posti tra il genotipo e il fenotipo finale
che possono indicare la suscettibilità allo sviluppo di una patologia o
rappresentarne segni precoci. La cosa più importante, però, è che gli
endofenotipi rappresentano il prodotto diretto dell'azione dei singoli
geni che predispongono allo sviluppo di un tratto complesso. Nel caso
del DOC, complesso e variegato, vi potrebbero essere alcuni aspetti ge­
netici che, interagendo con l'ambiente, possono aumentare la suscetti­
bilità a sviluppare il disturbo. Pensiamo, per esempio, ad alcuni aspetti
di personalità, fortemente associati al DOC, tra i quali i più diffusi sono
un senso di responsabilità ipertrofico e il perfezionismo. Questi tratti
possono dipendere dall'interazione tra fattori di vulnerabilità genetici
e fattori legati a specifici stili parentali, come l'ipercriticismo genitoria- !
le, gli standard e le aspettative elevati e tratti perfezionistici nei genitori
stessi (F rost, Lahart, Rosenblate, 1991). Entrambi questi fattori possono
contribuire a una maggiore suscettibilità a sviluppare un certo disturbo.
Un senso di responsabilità elevato, invece, sembrerebbe essere legato a
un'eccessiva iper-responsabilizzazione del bambino da parte dei genitori
e da codici di comportamento particolarmente rigidi e severi, che pos­
sono trasmettere al bambino la sensazione di impotenza di fronte alpe­
ricolo e di non avere le capacità per fronteggiarlo (Salkovskis, Shafran,
Rachman et al., 1999) . In uno studio (Rector, Cassin, Richter et al., 2009)
è emerso che i familiari di chi soffriva di un DOC avevano un senso di
iper-responsabilità, nonché la tendenza a sovrastimare il pericolo rispet-

154
I modelli neuropsichiatrici del DOC

to a soggetti sani di controllo. Questi dati vanno a favore di un modello


di vulnerabilità del disturbo che sostiene il ruolo della trasmissione fa­
miliare di alcuni degli ingredienti cognitivi più significativi presenti nel
DOC; rimane però aperta la questione se si tratti di trasmissione genica
o di trasmissione per imitazione e apprendimento.

SISTEMI NEUROTRASMETTITORIALI

I sistemi neurotrasmettittoriali indagati nella fisiopatogenesi del DOC


sono molteplici, ma indubbiamente il primato fra questi è da attribuire
al sistema serotoninergico. Lo studio delle alterazioni di questo sistema
e, in particolare, l'ipersensitività dei recettori 5 -HT postsinaptici (Zohar,
Insel, 1987) si è sviluppato appoggiandosi a tre tipi di osservazioni: gli
studi di efficacia dei trattamenti farmacologici, le ricerche su marcatori
biologici e le indagini di induzione di sintomi DOC con l'uso di agonisti
e antagonisti serotoninergici. Fra queste tre linee di indagine i risultati
più consistenti provengono dalla letteratura farmacologica, la quale sot­
tolinea la diversa e maggiore efficacia degli inibitori della ricaptazione si­
naptica della serotonina rispetto ad altri composti (sempre ad azione an­
tidepressiva) nella riduzione dei sintomi ossessivi (Abramowitz, 1997).
Dati contrastanti e non dirimenti s i sono ottenuti dai vari studi su
markers biologici come i livelli dei metaboliti della serotonina nel siero
o nel liquor (Insel, Mueller, Alterman et al. , 1 985 ) . Anche le indagini
effettuate con paradigmi sperimentali di induzione farmacologica risul­
tano largamente incompatibili con l'ipotesi serotoninergica (Hollander,
Stein, Decaria et al., 1 992) .
La somministrazione d i MK-212, un agonista serotoninergico con alta
affinità per i recettori 5-HT lA e 2C non ha determinato effetti sul com­
portamento sia in pazienti con DOC sia in soggetti di controllo. Vale la
pena aggiungere che una disfunzione del sistema serotoninergico è in­
dicata in vari altri disturbi psicologici e rimane non chiarita la questio­
ne su quale tipo di aberrazione del sistema indirizzi verso un disturbo
piuttosto che verso un altro.
n sistema dopaminergico è strettamente embricato con quello sero­
toninergico e la loro reciproca interazione influenza la presentazione dei
sintomi ossessivi, come evidenziato da ricerche di neuroimaging e farma­
cologiche (Bokor, Anderson, 2014) . Agonisti dopaminergici e inibitori
della ricaptazione sinaptica di dopamina possono scatenare o peggiora­
re il decorso dei sintomi ossessivi. La cocaina può indurre sintomi oc in

155
La teoria

soggetti non oc, ma con una familiarità positiva per questo disturbo (N i­
colini, Cruz, Camarena et al., 1996); il quinpirolo (agonista dei recettori
D21D3) aumenta i comportamenti tipo rituali di controllo in alcuni para­
digmi sperimentali (Eagle, Noschang, d'Angelo et al. , 2014). Un'ulteriore
prova del coinvolgimento del sistema dopaminergico nel DOC è fornita
dalla constatazione dell'efficacia terapeutica dei bloccanti dopaminergi­
ci nei casi con sintomatologia resistente (Pittenger, Kelmendi, Bloch et
al. , 2005 ; McDougle, Goodman, Leckman et al., 1994; Goodman, Price,
Rasmussen et al., 1989) .
Altro sistema neurotrasmettitoriale indagato è quello glutammater­
gico. I recettori glutammatergici sono di due tipi, ionotropi e metabo­
tropi. Riguardo il recettore ionotropico NMDA è stata trovata un'associa­
zione fra il polimorfismo nella subunità NR2B e il rischio di DOC (Arnold,
Rosenberg, Mun do et al., 2004 ), e studi con la memantina, farmaco che
antagonizza i recettori NMDA, sono risultati promettenti (Stewart, Jenike,
Hezel et al., 2010; Aboujaoude, Barry, Gamel, 2009; Feusner, Kerwin,
Saxena et al. , 2009). Il glutammato può inoltre distribuirsi al di fuori
del vallo sinaptico e, mentre l'attivazione dei recettori NMDA postsinap­
tici comporta una trasmissione sinaptica di informazioni, plasticità del­
la stessa sinapsi ed effetti trofici sui neuroni, l'attivazione dei recettori
NMDA extrasinaptici inibisce questi stessi processi e può comportare un
danno neuronale (Hardingham, Bading, 2010), tanto che un eccesso di
glutammato può portare al fenomeno detto di eccitotossicità. Per que­
sto motivo la concentrazione di glutammato è finemente modulata da
specifici trasportatori di cellule gliali (astrociti perlopiù), che rimuovo­
no la molecola dagli spazi peri- ed extra-sinaptici (Danbolt, 2001 ) . Una
frazione minore del glutammato è rimossa dagli stessi spazi attraverso
un trasportatore neuronale denominato EAAC1/EAAT3 e il polimorfismo
del gene che lo codifica è stato per questo ripetutamente associato al
DOC (Shugart, Wang, Samuels et al. , 2009; Stewart, Fagerness, Platko
et al., 2007 ; Arnold, Sicard, Burroughs et al. , 2006; Dickel, Veenstra­
VanderWeele, Cox et al., 2006). Circa una decina di studi ha conferma­
to questa associazione con un livello di replicazione dei risultati alto e
piuttosto insolito per gli studi genetici dei disturbi psichiatrici (Bloch,
Pittenger, 2010).
Comunque sia, le ricerche di genetica centrate sul sistema glutamma­
tergico mostrano molti limiti; la maggior parte delle associazioni geniche
studiate non è stata significativamente replicata (Bloch, Pittenger, 2010),
fatta forse eccezione per il trasportatore EAAT3 , codificato dal gene SlclAl
(Wang, Adamczyk, Shugart et al. , 2010; Kwon, Joo, Nam et al., 2009;

156
I modelli neuropsichiatrici del DOC

Wendland, Moya, Timpano et al. , 2009; Shugart, Wang, Samuels et al.,


2009; Stewart, Fagerness, Platko et al. , 2007 ; Arnold, Sicard, Burroughs
et al., 2006; Dickel, Veenstra-VanderWeele, Cox et al. , 2006).

SISTEMA IMMUNITARIO

È stata ipotizzata l'associazione tra il DOC e alcuni disturbi autoimmu­


ni che coinvolgono i gangli della base. L'osservazione di pazienti affetti
da febbre reumatica con Corea di Sydenham e classici sintomi DOC ha
suggerito la possibilità di un nesso causale fra infezioni da streptococco
beta-emolitico di gruppo A ( GABHS, Group A Beta-hemolytic Streptococ­
cal In/ections) e un sottogruppo di DOC, così come per lo sviluppo della
sindrome di Tourette e l'autismo (Moretti, Pasquini, Mandarelli et al. ,
2008) , e indotto il National Institute of Mental Health, nel 1998, a co­
stituire uno specifico gruppo di lavoro per caratterizzare meglio quello
che è stato definito PANDAS (Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Di­
sorders Associated with Streptococcal in/ections) . Oltre ai sintomi osses­
sivi, si osservano cambiamenti di personalità, crisi rabbiose, calo delle
prestazioni scolastiche, peggioramento nella scrittura, sintomi di tipo
ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder l Disturbo da deficit
di attenzione/iperattività), ipersensibilità a suoni, rumori, luce e min­
zione frequente; inoltre questi bambini mostrano più frequentemente
ansia da separazione, comportamenti oppositivi e oscillazioni del tono
dell'umore rispetto ai soggetti con solo DOC. L'infezione streptococci­
ca precede l'insorgenza o la riesacerbazione (nel caso di un preesisten­
te DOC ) dei sintomi ossessivi e si associa a un aumento degli anticorpi
anti-Streptolisina O (mancano altri specifici markers biologici) . Si ipo­
tizza la produzione di anticorpi anti-GABHS che avrebbero una reazione
crociata con il tessuto neuronale così come avviene nei postumi infetti­
vi glomerulonefritici; tale ipotesi è rafforzata dall'osservazione del bru­
sco esordio di un DOC in un piccolo gruppo di adulti dopo infezione da
GABHS (Bodner, Morshed, Peterson, 200 1 ; Greenberg, Murphy, Swedo,
1998; Monasterio, Mulder, Marshall, 1998) - sintomi ossessivi peraltro
scomparsi, così come l'infezione, a seguito di specifica terapia antibio­
tica. Nonostante tutto, l'associazione è a tutt'oggi controversa; la mag­
gior parte dei soggetti inclusi negli studi PANDAS infatti mostrava ampia
comorbilità psichiatrica, in special modo con ADHD, anoressia nervosa,
distonia, tricotillomania, episodi depressivi maggiori o disturbo d'ansia
di separazione (Dale, Heyman, Giovannoni et al., 2005 ; Snider, Lougee,

157
La teoria

Slatterly et al. , 2005 ; Pavone, Bianchini, Parano et al. , 2004; Swedo, Leo­
nard, Garvey et al. , 1998) e rimane non chiarito se queste manifestazioni
cliniche siano indipendenti, secondarie allo sviluppo del PANDAS o, al­
meno in alcuni casi, condividano una comune via patogenetica. Inoltre,
il criterio temporale fra infezione da GABHS, ad alta incidenza in soggetti
in età scolare, ed esordio o peggioramento di sintomi neuropsichiatrici
non significa necessariamente causalità.

IL MODELLO ANATOMOFUNZIONALE

L'applicazione delle tecniche di neuroimaging funzionale al DOC si è


concentrata sullo studio dei meccanismi neuronali alla base dell'elabo­
razione emotiva e di specifiche abilità cognitive coinvolte nel disturbo.
Abbiamo visto che i pazienti ossessivi presentano un'elevata sensibilità
e propensione al disgusto, e che, in particolare, questa sensibilità è più
elevata in pazienti con DOC da contaminazione o con ossessioni a con­
tenuto religioso, rispetto agli altri sottotipi (Berle, Phillips, 2006). In
ambito scientifico, lo studio dell'elaborazione emozionale avviene prin­
cipalmente attraverso la somministrazione di stimoli (visivi o olfattivi),
durante la quale è rilevata l'attività cerebrale del soggetto. L' applicazio­
ne di questi paradigmi su individui sani durante l'elaborazione del di­
sgusto ha mostrato il coinvolgimento di specifiche aree cerebrali, tra cui
l'insula, i gangli della base (GB) e la corteccia parietale (Phillips, Drevets,
Rauch et al., 2003 ). Durante la somministrazione di stimoli disgustosi a
pazienti ossessivi, sono state osservate risposte emotive e attivazioni ce­
rebrali più intense proprio in quelle aree normalmente attivate duran­
te l'elaborazione del disgusto nelle persone sane (per esempio, l'insu­
la, le cortecce orbito e prefrontale, il giro paraippocampale e il nucleo
caudato, una struttura dei GB) (Shapira, Liu, He et al., 2003 ) . Un dato
interessante deriva da un recentissimo studio pilota che ha usato la ri­
sonanza magnetica funzionale (fMRI) real-time (Buyukturkoglu, Roett­
gers, Sommer et al., 2015) e che ha rilevato che, dopo un adeguato trai­
ning di inibizione emotiva, i cinque pazienti ossessivi reclutati avevano
imparato a regolare/inibire l'intensità dell'attività cerebrale dell'insula
(una regione del sistema limbico, che rappresenta la parte emotiva e più
primitiva del cervello) durante l'elaborazione dell'emozione di disgusto
(evocata tramite appositi stimoli trigger) .
Oltre al disgusto, abbiamo visto che i pazienti ossessivi mostrano una
specifica sensibilità all'emozione di colpa, e, in particolare, a una colpa

158
I modelli neuropsichiatrici del DOC

di tipo deontologico (Basile, Mancini, Macaluso et al. , 2013 ; Mancini,


Gangemi, 201 1 ) . Negli individui sani l'elaborazione del senso di colpa
generico (indagato tramite la fMRI e la tomografia a emissione di positro­
ni, PET - Positron Emission Tomography) coinvolge un circuito cerebrale
che interessa aree corticali e sottocorticali (per esempio, la corteccia an­
teriore e posteriore del cingolo, l'insula, la corteccia prefrontale e il solco
temporale superiore) (Shin, Davis, Vanelzakker et al., 2013 ; Takahashi,
Yahata, Koeda et al. , 2004), mentre l'elaborazione di tipi di colpa diversi
(per esempio, colpa deontologica e altruistica) coinvolge aree cerebrali
differenti (Basile, Mancini, Macaluso et al., 201 1 ) . In particolare, è emer­
so che una colpa di tipo deontologico attiva la corteccia del cingolo an­
teriore e l'insula, mentre una colpa di tipo altruistico coinvolge princi­
palmente regioni prefrontali, comunemente attivate durante l'empatia
e la lettura della mente altrui (Shallice, 200 1 ) . Tra l'altro, è interessante
notare come il substrato neuronale coinvolto nell'elaborazione della col­
pa deontologica condivida un pattern cerebrale simile a quello osserva­
to nell'elaborazione del disgusto. Infatti, entrambe le emozioni attivano
l'insula e, difatti, è stato osservato come il disgusto, nella sua accezione
socio-morale, presenti un alone emotivo-cognitivo e comportamentale
simile a quello della colpa deontologica (Rozin, Haidt, McCauley, 2000).
Analogamente, la colpa deontologica si può assodare a un disgusto di
tipo "morale" . Un recente studio fMRI (Basile, Mancini, Macaluso et al.,
2013 ) h a indagato il substrato neuronale durante il processing di diversi
tipi di colpa in un gruppo di pazienti ossessivi, confermando la presenza
di una risposta cerebrale atipica solamente durante l'elaborazione della
colpa deontologica (con uno specifico coinvolgimento dell'insula), ma
non di quella altruistica. Questo risultato si aggiunge a una serie di dati
clinici che, come vedremo nel corso del libro, hanno provato la specifi­
ca sensibilità dei pazienti ossessivi alla colpa deontologica e a tematiche
di tipo morale (Mancini, Gangemi, 201 1 ; Franklin, McNally, Riemann,
2009) . Infine, un altro recente studio fMRI (Hennig-Fast, Michl, Miiller
et al., 2015) ha rilevato un'attività cerebrale diversa tra pazienti ossessivi
e individui sani nelle aree frontotemporali e limbiche (senza però coin­
volgere l'insula) , durante l'elaborazione della colpa generica.
il DOC è caratterizzato anche da specifiche peculiarità nel funziona­
mento cognitivo (Abramowitz, 2008). I soggetti ossessivi possono diffe­
rire dai sani nel prendere decisioni, nel pianificare e monitorare le infor­
mazioni, nell'inibire e controllare il comportamento e nello set-shi/ting
(cioè, la capacità di alternare l'attenzione) . Queste differenze possono
essere alla base della difficoltà dei pazienti nell'inibire e arrestare i com-

l
La teoria

portamenti compulsivi che insorgono in seguito ai loro pensieri ossessi­


vi. Se normalmente queste funzioni cognitive attivano le regioni del cir­
cuito fronto-parieto-cerebellare (Nowrangi, Lyketsos, Rao et al., 2014),
nei pazienti con DOC, allo svolgimento di queste abilità, corrisponde una
diversa risposta neuronale in alcune aree del medesimo network (per
esempio, le cortecce orbito e prefrontali, il cingolo anteriore, la corteccia
parietale e i GB; Kuelz, Hohagen, Voderholzer, 2004 ) . Il circuito fronto­
parieto-cerebellare include aree coinvolte nell'elaborazione degli aspetti
emotivi sottesi ad alcuni processi cognitivi (rappresentando, per esem­
pio, i concetti di punizione e rinforzo che si presentano nel momento in
cui si prendono delle decisioni) e regioni coinvolte negli aspetti moti­
vazionali e nel controllo motorio, entrambi implicati nei comportamen­
ti compulsivi. È importante considerare che non tutti gli studi vanno
nella stessa direzione. In una rassegna, Kuelz, Hohagen e Voderholzer
(2004) riepilogano le frequenti inconsistenze dei risultati ottenuti nello
studio del processing cognitivo nel DOC. Non tutte le ricerche rilevano
delle differenze nel funzionamento cognitivo tra pazienti e individui sa­
ni. Inoltre, data la vasta eterogeneità delle numerose funzioni cognitive,
non sempre i risultati dei vari studi sono sovrapponibili e riconducibili
alla medesima funzione.
A fianco dei più consueti studi sull'attività cerebrale legata a un
compito specifico, nell'ultimo decennio ha preso largamente piede lo
studio della connettività funzionale durante lo stato di riposo (Resting
State, RS) . Questo metodo permette di misurare le variazioni della con­
nettività cerebrale " di fondo" , mentre, cioè, non siamo impegnati in
nessuna specifica attività mentale. La rilevazione dell'attività cerebra­
le a riposo ha permesso di identificare dei network di aree anatomica­
mente separate, ma funzionalmente connesse che, sebbene a riposo,
riflettono processi cognitivi, sensoriali e motori specifici. Per esem­
pio, la componente più nota del default-mode network (che coinvol­
ge il cingolo posteriore, il precuneo, le cortecce parietali inferiori e
quelle prefrontali mediali) riflette un'attività cognitiva di fondo, co­
me il fantasticare e il rimuginare (Gusnard, Raichle, Raichle, 2001).
L' applicazione del metodo del RS a soggetti ossessivi ha evidenziato
una connettività funzionale atipica nei pazienti, all'interno del sopra­
citato network cognitivo Gang, Kim, Jung et al., 2010). Inoltre, un'as­
sociazione significativa è stata osservata tra i parametri di connettività
funzionale e l'intensità della sintomatologia DOC, in particolare quella
relativa ai pensieri ossessivi a contenuto sessuale-religioso (Harrison,
Pujol, Soriano-Mas et al. , 2012) .

160
I modelli neuropsichiatrici del DOC

In conclusione, gli studi di imaging funzionale hanno mostrato che


nei pazienti ossessivi i meccanismi neuronali alla base di alcuni ingre­
dienti emotivi e cognitivi (per esempio, propensione al disgusto, sen­
sibilità alla colpa, in particolare quella deontologica, e alcune funzioni
cognitive coinvolte nell'inibizione di comportamenti compulsivi) , rile­
vanti nel DOC, sono diversi rispetto a quelli identificati negli individui
sani, con un particolare coinvolgimento delle aree del network fronto­
parieto-sotto-corticale.
Nelle ultime decadi, a fianco delle tecniche di imaging funzionale, lo
sviluppo di acquisizioni strutturali ha favorito il proliferare di una serie
di metodiche quantitative in grado di fornire degli indici che riflettono
informazioni circa le strutture tissutali e 1' eventuale danno patologico a
livello macra- e microscopico. Queste tecniche permettono di rilevare
alterazioni nella sostanza grigia e in quella bianca, in vivo. La morfome­
tria basata sui voxel (VBM, Voxel-Based Morphometry) , per esempio,
permette di misurare i volumi di sostanza grigia, fornendo informazioni
quantitative sul livello di atrofia cerebrale. La VBM applicata a pazienti
con DOC ha evidenziato differenze volumetriche, rispetto ai sani, in al­
cune aree del circuito fronto-parieto-sotto-corticale (per esempio, nelle
cortecce orbita e prefrontali, nel cingolo anteriore, nel nucleo caudato
e nel lobo parietale; Radua, van den Heuvel, Surguladze et al. , 2010).
Inoltre, uno studio ha rilevato un'associazione positiva tra la gravità dei
sintomi clinici e il volume dei GB (Radua, van den Heuvel, Surguladze
et al., 2010), indicando una possibile relazione tra manifestazione clini­
ca e morfologia cerebrale, senza però spiegare (essendo una ricerca cor­
relazionale) la natura del legame tra i due indici misurati (per esempio,
"È il sintomo clinico a modificare, e quindi precedere, la struttura cere­
brale o, invece, il contrario? " ) . Vimaging con tensore di diffusione (DTI,
Diffusion Tensor Imaging) , con le sue diverse applicazioni, è una tra le
più promettenti tecniche strutturali e permette di avere informazioni
sulle dimensioni, la morfologia e l'orientamento delle strutture cerebra­
li, in particolare della sostanza bianca. La DTI si basa sul fenomeno fisico
della diffusione e consente di rilevare il movimento microscopico delle
molecole d'acqua che compongono i tessuti biologici. Questa metodica
applicata a chi soffre di DOC ha permesso di rilevare incrementi o riduzio­
ni nella connettività strutturale (rispetto a individui sani) in diversi fasci
e fibre del cervello. Nello specifico, differenze negli indici di diffusione
sono stati osservati nelle fibre che collegano tra loro le regioni frontali,
parietali e temporali (il cingolo) e i due emisferi cerebrali (il corpo callo­
so; Koch, Reess, Rus et al. , 2014).

161
La teoria

In generale, sebbene gli studi che rilevano la morfologia del cervel­


lo (per esempio, VBM o DTI) non permettano una diretta associazione
tra una funzione emotiva o cognitiva e la corrispondente modificazione
strutturale, essi supportano i dati a favore di uno specifico coinvolgi­
mento delle aree del circuito fronto-parieto-sotto-corticale nella mani­
festazione della sintomatologia ossessiva. Rimandiamo alle conclusioni
di questo capitolo per la discussione e il commento riguardanti le dif­
ferenze cerebrali rilevate nei vari studi di neuroimaging tra pazienti con
DOC e individui sani.

MODELLI NEUROFISIOLOGICI

Gli studi neurofisiologici si avvalgono di metodiche come l' elettroen­


cefalografia (EEG) e la magnetoencefalografia (MEG) per identificare,
tramite elettrodi posti sullo scalpo dell'individuo, la sorgente anatomi­
ca di una componente del segnale che avviene in concomitanza con un
determinato stimolo_ I potenziali evocati (EP, Evoked Potential) e i po­
tenziali evento correlati (ERP, Event-Related Potential) rappresentano
le componenti del segnale estratto che rendono misurabile la risposta
cerebrale corrispondente a un'attività mentale.
La Error-Related Negativity (ERN) e la Errar Positivity (PE) rappre­
sentano le onde maggiormente studiate. La ERN (Gehring, Goss, Coles
et al., 1993 ; Falkenstein, Hohnsbein, Hoormann et al. , 1 990) indica il
picco negativo che si osserva nei siti franto-centrali, con una latenza di
50- 100 millisecondi successivi all'emissione di un feedback che segnala
un errore nella risposta fornita dal soggetto e riflette l'attività di un siste­
ma di monitoraggio dell'azione. La ERN è sensibile a fattori motivazionali
(per esempio, maggiore l'impegno nello svolgere il compito, maggiore
è l'ampiezza della componente) e a fattori psicologici, come l'ansia. Per
esempio, soggetti più ansiosi hanno una ERN più ampia rispetto a indi­
vidui non ansiosi, con la ERN che viene generata a livello della corteccia
cingolata anteriore. In generale, i pazienti che soffrono di DOC si mostra­
no iper-reattivi durante la performance di un compito. Oltre al senso di
responsabilità ipertrofìco, gli individui DOC sono iperattivati durante il
monitoraggio delle loro azioni, con lo scopo di evitare qualsiasi possibi­
le errore. Il timore di poter esperire la NJRE, associata all'ansia, inoltre,
spinge i pazienti ossessivi a sforzarsi esasperatamente nel monitorare i
propri comportamenti compulsivi di controllo, lavaggio, ecc. Lo studio
della ERN nel DOC ha mostrato una netta sovrapposizione tra il network

1 62
I modelli neuropsichiatrici del DOC

cerebrale coinvolto nella sintomatologia DOC (per esempio, la cortec­


cia del cingolo anteriore, i GB, i nuclei talamici, la corteccia prefronta­
le e l'insula) e il network neuronale coinvolto nel monitoraggio della
performance e dei comportamenti. In una recente rassegna, Endrass e
Ullsperger (20 14) ripercorrono i risultati degli studi sui potenziali evo­
cati durante il monitoraggio della performance in pazienti con DOC. A
oggi, sono stati condotti una decina di studi su pazienti adulti, ancor
meno su pazienti in età pediatrica, e due lavori hanno indagato il mo­
nitoraggio dell'azione in familiari di primo grado di pazienti ossessivi.
In alcuni studi è stata osservata una maggiore ERN, rispetto ai sani, du­
rante lo svolgimento di un compito conflittuale (per esempio, durante
il flanker, lo Stroop e il Go/No-Go task), sia nei pazienti sia in individui
sani con tratti ossessivi subclinici. Al contrario, invece, altri dati non
confermano una differenza nella ERN tra pazienti affetti da DOC e sani,
così come mancano dati sull'attesa associazione tra ampiezza dell'ERN e
intensità della sintomatologia ossessiva.
Altri studi hanno indagato la positività dell'errore (o Error Positivity,
PE; Falkenstein, Hoormann, Christ et al., 2000; Falkenstein, Hohnsbein,
Hoormann et al. , 199 1 ) , una misura anch'essa correlata ai processi di
controllo della risposta che spesso, ma non necessariamente, segue la ERN
(Van Veen, Carter, 2002). La PE ha una distribuzione posteriore, essendo
massima nei siti parietali, e una latenza tra i 200-500 millisecondi successi­
vi alla comunicazione della commissione dell'errore stesso. È interessante
notare che, mentre la ERN emerge anche dopo il feedback relativo a erro­
ri parziali (risposte covert sbagliate, cui corrisponde una risposta fornita
dal soggetto corretta), la PE emerge esclusivamente dopo risposte circa
errori completi (dove c'è corrispondenza tra la risposta neurofisiologica
e quella comportamentale). Secondo Falkenstein, Hoormann, Christ e
collaboratori (2000) la PE rappresenterebbe un indice dell'elaborazione
successiva alla detezione dell'errore, come il consapevole riconoscimen­
to dell'errore o la valutazione della sua salienza. È stato ipotizzato che
la PE potrebbe anche rappresentare l'elaborazione emotiva dell'errore
(Van Veem, Carter, 2002). A favore di questa ipotesi ci sono l' osservazio­
ne che l'ampiezza della PE è maggiore nei soggetti che commettono con­
sapevolmente più errori e anche il fatto che il generatore della PE è stato
localizzato nella porzione più rostrale della corteccia anteriore del cingo­
lo, correlata più specificamente all'elaborazione emozionale (Bush, Luu,
Posner, 2000). A oggi, tuttavia, i pochi studi che hanno misurato la PE in
pazienti con DOC non hanno rinvenuto differenze significative tra indi­
vidui sani e pazienti ossessivi (Riesel, Kathmann, Endrass, 2014; Riesel,

163
La teoria

Endrass, Kaufmann et al. , 201 1 ; Endrass, Schuermann, Kaufmann et al.,


2010; Endrass, Klawohn, Schuster et al., 2008).
Infine, altri studi neurofisiologici si sono occupati della misurazione
del segnale corrispondente all'esecuzione di risposte corrette (Correct­
Response Negativity, CRN; Ford, 1 999) . Sebbene il meccanismo del­
le CRN sia ancora poco chiaro, alcuni studi preliminari mostrano che
i pazienti ossessivi presentano CRN più ampi rispetto ai soggetti sani
(Riesel, Kathmann, Endrass, 2014; Endrass, Schuermann, Kaufmann
et al., 2010; Endrass, Klawohn, Schuster et al. , 2008). La natura di tali
differenze rimane, tuttavia, ancora insoluta.
In conclusione, seppur avvalendosi di metodiche promettenti, a oggi
manca un reale approfondimento del significato delle diverse misura­
zioni neurofisiologiche individuate. Inoltre, in futuro sarebbe auspica­
bile favorire un'adeguata integrazione dei dati ottenuti nelle diverse ri­
cerche, in modo da utilizzare i parametri e le caratteristiche relativi alle
componenti neurofisiologiche, anche per distinguere gli aspetti emoti­
vi e cognitivi coinvolti nei processi decisionali, comunemente implicati
nella patologia ossessiva.

CONCLUSIONI

Gli studi riassunti in questo capitolo hanno esplorato gli aspetti neu­
robiologici del DOC, aumentando in modo considerevole le nostre co­
noscenze sui meccanismi che sottostanno alla sintomatologia ossessiva.
Sono opportuni, tuttavia, alcuni commenti.
Gli studi sull'ereditarietà si prestano a tre osservazioni. Innanzitutto,
hanno dei limiti metodologici legati alle oggettive difficoltà di questo
genere di ricerche. Abbiamo visto, infatti, come negli studi sui gemelli
siano stati usati campioni molto piccoli; non sempre siano stati seguiti
gli stessi criteri clinici per diagnosticare il DOC; talora siano stati coinvolti
anche individui con tratti ossessivi subclinici e come, infine, in molti ca­
si, le diagnosi dei soggetti coinvolti fossero note agli sperimentatori (stu­
di non doppio cieco) , inficiando l'oggettività delle rilevazioni. Appare,
poi, rilevante l'assenza di studi di adozione e, nel complesso, la scarsa
riproducibilità dei risultati degli studi genetici effettuati nel corso degli
anni, che dipende soprattutto dalla mancanza di uniformità nella sele­
zione dei campioni indagati. In secondo luogo, non è chiaro che cosa
è ereditato e rende vulnerabili a un fenomeno complesso come il DOC.
Sono stati proposti molti possibili endofenotipi, da un'elevata propen-

164
I modelli neuropsichiatrici del DOC

sione a sentirsi responsabili ad alcune funzioni esecutive, ma nessuno di


essi è stato definitivamente confermato. In terzo luogo, si può affermare
che il disturbo ossessivo non è ereditario nello stesso senso forte in cui
lo è la Corea di Huntington, dove i geni sono una condizione necessa­
ria e sufficiente per la malattia; infatti, se uno di due gemelli monozigo­
ti soffre di DOC non è detto che pure l'altro ne soffra. Il disturbo non è
ereditario nemmeno nel senso della fenilchetonuria, nella quale i geni
coinvolti determinano l'assenza di un enzima necessario per metaboliz­
zare correttamente la fenilalanina, per cui si determina un accumulo di
metaboliti nel cervello che lo danneggiano irreparabilmente causando,
tra l'altro, insufficienza mentale. Ma affinché ciò accada, è necessario che
la dieta contenga alimenti, per esempio i fagioli, nei quali sia presente
la fenilalanina. Se si escludono tempestivamente dalla dieta questi cibi,
allora il disturbo non si manifesta. In questo caso, quindi, l'ereditarietà
è una condizione necessaria, ma non sufficiente, poiché serve anche la
presenza di fenilalanina nella dieta, cioè serve anche un fattore ambien­
tale. La trasmissione ereditaria del DOC non corrisponde a quella della
fenilchetonuria, anche perché non è per nulla chiaro quale sia il gene o
i geni coinvolti e nemmeno è chiaro come il gene influenzi il fenotipo.
È diversa soprattutto perché nella fenilchetonuria il fattore ereditario è
necessario per avere i danni alle facoltà mentali, mentre non è detto che
lo sia nel DOC. Infatti, la varianza spiegata dall'ereditarietà riguarda il
DOC nel suo complesso e non i singoli pazienti; pertanto è possibile che
il fattore ereditario abbia un ruolo molto importante in alcuni pazien­
ti, e nullo in altri, o che abbia un ruolo facilitante in tutti, ma che non
sia necessario in nessuno. Quello che si può dire, dunque, è che esiste
una certa influenza ereditaria ma, d'altra parte, qualunque caratteristi­
ca psicologica, anche normale e non psicopatologica, è plausibilmente
influenzata in qualche grado dall'ereditarietà. Pertanto, la vulnerabilità
ereditaria non sembra essere una condizione sufficiente affinché si pos­
sa considerare il DOC un disturbo neurologico. Un'ultima considerazio­
ne riguardante il ruolo dell'ereditarietà nel DOC, sulla quale vi è un ac­
cordo pressoché unanime, è che per lo sviluppo del DOC sia necessario
l'intervento di fattori ambientali, come per esempio eventi traumatici o
modelli familiari disfunzionali.
Un altro problema dei modelli neurobiologici riguarda l'interpre­
tazione dei dati che derivano dallo studio degli effetti dei farmaci se­
rotoninergici. L'ipotesi serotoninergica nasce dall'osservazione che la
clomipramina, un antidepressivo triciclico con spiccata azione serotoni­
nergica, ha efficacia maggiore sul DOC, rispetto agli altri composti dello

165
La teoria

stesso gruppo (imipramina, desipramina, ecc. ) , così come buona effi­


cacia è mostrata dai cosiddetti inibitori selettivi della ricaptazione del­
la serotonina (SSRI) (Zohar, Insel, 1 987 ) . Questa osservazione, tuttavia,
non consente di affermare che alla base del DOC vi sia un'alterazione del
sistema serotoninergico; infatti, i modelli eziologici non possono basarsi
unicamente sui dati relativi all'efficacia del trattamento (Abramowitz,
2006). Per esempio, è ben noto che il litio stabilizza il tono dell'umore,
ma ciò non autorizza a dire che le alterazioni dell'umore nel paziente bi­
polare dipendono da una bassa litiemia, infatti il litio non è normalmen­
te presente nel corpo umano. L'ipotesi serotoninergica dovrebbe essere
supportata da ricerche controllate che dimostrino le differenze nel fun­
zionamento serotoninergico tra chi soffre, o meno, di DOC. Il risultato
sarebbe ulteriormente confermato qualora vi fossero studi che dimo­
strino che la somministrazione di antagonisti della serotonina induce o
esacerba la sintomatologia ossessiva. I risultati delle ricerche su questo
punto sono piuttosto contrastanti, l'unico dato robusto è che i farma­
ci serotoninergici riducono la sintomatologia ossessiva in più del 50%
dei pazienti ossessivi, anche se non sono specifici per il DOC, poiché essi
sono efficaci pure nella depressione e in diversi disturbi d'ansia ( Gross,
Sasson, Chorpa et al., 1998; Goodman, Price, Rasmussen et al., 1989).
Quindi, appare verosimile che il sistema serotoninergico sia coinvolto
nel DOC, ma l'evidenza scientifica, a oggi disponibile, non dimostra che il
DOC sia causato da un'anomalia nel funzionamento del sistema serotoni­
nergico (Abramowitz, 2006). Un secondo problema riguarda la carente
spiegazione di come eventuali alterazioni biochimiche spieghino la sinto­
matologia ossessiva. Per esempio, non esiste una spiegazione dettagliata
e coerente di come le anomalie neurotrasmettitoriali o neuro-anatomi­
che si manifestino a livello clinico. Come, per esempio, l'ipersensibilità
dei recettori post-sinaptici causa i pensieri intrusivi, l'ansia, i rituali o i
comportamenti di neutralizzazione (Abramowitz, 2006)? In terzo luo­
go, i modelli puramente n euro biologici non sono in grado di spiegare la
specificità dei sintomi ossessivi rispetto a determinati stimoli, e non altri.
Per esempio, come notato da Rachman ( 1997 ) , le ossessioni sulla possi­
bilità di causare danni ad altri riguardano bambini, anziani e, in genere,
gente indifesa e non soggetti forti e robusti. Vi sono, infatti, molti stimoli
rispetto ai quali i pazienti che soffrono di DOC non sviluppano nessun ti­
more, il che farebbe pensare che l'eventuale neuropatologia sottostante
dovrebbe, in qualche modo, interagire con fattori psicologici per poter
risultare in un timore ossessivo di importanza clinica. Fra le ricerche che
hanno studiato le funzioni della serotonina, di grande interesse il lavo-

166
I modelli neuropsichiatrici del DOC

ro di Marazziti, Akiskal, Rossi e collaboratori ( 1999), i quali, partendo


dalle somiglianze fra l'ossessione del DOC e l'ossessione amorosa tipica
delle fasi passionali e romantiche dell'innamoramento, hanno rilevato,
sia in pazienti ossessivi sia in persone innamorate, un'alterazione del tra­
sportatore 5-HT. In altre parole, i soggetti che si trovavano all'inizio di
una relazione amorosa non mostravano alcuna differenza, se confron­
tati con i pazienti ossessivi, rispetto ai livelli del trasportatore 5-HT nelle
piastrine (ed entrambi mostravano un valore più basso rispetto ai con­
trolli sani e non-innamorati). Questo dato è importante perché mostra
che le alterazioni del sistema serotoninergico possono rappresentare il
substrato di stati mentali ed emotivi sani e normali, come appunto l'in­
namoramento, e che quindi riscontrare un'alterazione della serotonina
nel cervello dei pazienti ossessivi non sia una condizione sufficiente per
assumere che ci si trova di fronte a una patologia del SNC.
I limiti delle spiegazioni autoimmunitarie sono di tre generi. Innan­
zitutto, la definizione clinica della PANDAS è ancora non del tutto soddi­
sfacente, tanto è vero che non è stata esplicitamente inserita nel DSM-5 .
Si tratta di una condizione polimorfa in cui risulta difficile individuare
specifici meccanismi etiopatogenetici per i vari sintomi e segni osserva­
ti e i loro rapporti reciproci. In secondo luogo, si osserva che solo una
percentuale degli esordi ossessivi è correlata con fenomeni autoimmu­
nitari e, per converso, sviluppa il DOC solo una minoranza dei pazien­
ti affetti da sindromi neurologiche autoimmuni, legate a infezioni da
streptococco, come la Corea di Sydenham. Per giunta, in diversi casi la
lesione neurale peggiora una sintomatologia ossessiva già esistente. In
terzo luogo, l'osservazione clinica di alcuni casi suggerisce, per esem­
pio, che la lesione neurologica implica disregolazione emotiva e, a volte,
difficoltà a controllare i movimenti, dunque una pervasiva sensazione di
discontrollo e ciò può costituire un fattore di stress psicologico che sla­
tentizza o peggiora la sintomatologia ossessiva, soprattutto in individui
che hanno una particolare esigenza di controllo, come sono i pazienti
ossessivi. È possibile osservare un fenomeno analogo anche in casi in
cui la compromissione del SNC è dovuta a fattori non autoimmuni. Per
esempio, in una paziente la sintomatologia ossessiva fu slatentizzata da­
gli effetti collaterali psicologici, allucinazioni e alterazioni dello stato di
coscienza, indotti dalla clorochina, un farmaco usato per la prevenzio­
ne della malaria. Questi sintomi furono interpretati dalla paziente co­
me espressione di una sua sostanziale fragilità psicologica che avrebbe
potuto farle commettere errori gravi di cui sarebbe stata responsabile.
Questo timore si tramutò in sintomi ossessivi consistenti in controlli

167
La teoria

della chiusura del gas e delle porte di casa, e in particolare attenzione a


pensieri aggressivi che gestiva con compulsioni mentali e ruminazioni.
Similmente è possibile osservare sintomi ossessivi, per esempio com­
pulsioni di conteggio, in pazienti che hanno perdite di memoria legate
a processi degenerativi iniziali.
D'altro canto, parecchi sono anche i limiti delle metodiche di neu­
roimaging e l'affidabilità dei dati ottenuti in questo campo. Per quanto
dettagliati e affascinanti, i metodi a oggi disponibili non sono ancora in
grado di rilevare tutti i meccanismi alla base del funzionamento cerebra­
le. Inoltre, l'utilizzo di gruppi di pazienti, ciascuno con le proprie carat­
teristiche sintomatologiche, rischia di aumentare la variabilità all'interno
del campione esaminato. Se, infatti, nella diagnosi clinica si tiene conto
delle specificità del paziente, studiare i parametri cerebrali medi di un
gruppo eterogeneo di pazienti (seppure con la stessa diagnosi) , può far
perdere informazioni sul singolo individuo. Ancora, l'utilizzo di para­
digmi sperimentali poco controllati (per esempio, il soggetto può non
eseguire il compito richiesto o addormentarsi durante l'esperimento,
mentre si trova nell'apparecchiatura della RM) e l'arbitrarietà con cui il
ricercatore sceglie l'evento cerebrale su cui concentrare le proprie rile­
vazioni rischiano di rendere fuorvianti e non sovrapponibili i risultati
ottenuti nelle varie ricerche. Infine, i paradigmi sperimentali usati per
studiare determinati processi mentali possono non riflettere esattamen­
te la funzione sottesa. Il rischio, in questo caso, è che, per studiare una
certa abilità, vengano utilizzati compiti che rispecchiano processi men­
tali differenti da quelli che il ricercatore intende studiare. Un problema
simile sul piano metodologico si riscontra rispetto agli studi neurofisio­
logici, dove il significato da attribuire alle misurazioni ottenute non è
ancora chiaro.
Ora, sicuramente le neuroimmagini hanno dato un grande contribu­
to alla descrizione e alla localizzazione nel cervello di alcuni dei prin­
cipali processi alla base dei sintomi più rilevanti nel DOC (per esempio,
propensione al disgusto, sensibilità alla colpa, soprattutto deontologica,
e processi cognitivi legati alla pianificazione e al monitoraggio di infor­
mazioni o all'inibizione del comportamento), riuscendo, in alcuni casi,
a trovare un'associazione diretta tra gravità sintomatologica e intensità
della risposta cerebrale in alcune aree del network fronto-parieto-sotto­
corticale. Tuttavia, occorrerebbe chiedersi: "Ma le differenze cerebrali
osservate nei pazienti sono il risultato di una patologia neurologica? O,
piuttosto, sono il substrato, o la conseguenza, del malfunzionamento
psicologico ? " . Per esempio, si riscontrano comportamenti ripetitivi si-

168
I modelli neuropsichiatrià del DOC

mil-ossessivi nella demenza franto-temporale (DFT) , ma in questi casi


il SNC dei pazienti non solo è diverso da quello dei non-pazienti, ma è
diverso anche da quanto prescritto dalle leggi dell'anatomia e della fi­
siologia che discriminano il SNC neurologicamente sano da quello neu­
ropatologico . Non basta riscontrare una diversità anatomofunzionale
per affermare l'esistenza di una patologia neurologica, nemmeno se la
diversità corrisponde a una psicopatologia. Serve anche che la differen­
za osservata abbia le caratteristiche delle patologie neurologiche dege­
nerative, tumorali, infiammatorie, come accade nella DFT, ma non nel
ooc, con la possibile ma parziale eccezione dei casi di PANDAS. Inoltre,
è fondamentale ricordare che a oggi non è stato nemmeno ben com­
preso come definire propriamente un " circuito cerebrale" (network) ,
né come tradurre l'attività o le immagini mentali (derivate dalle meto­
diche di neuroimmagini) nei termini di " cosa effettivamente accade
nel cervello " . In altre parole, una semplice "cartografia" cerebrale, che
eventualmente spiega dove certi processi mentali hanno luogo, non è
sufficiente per spiegare la natura dei processi che sottendono al fun­
zionamento psichico (Castelfranchi, 2015), né tantomeno permette di
identificare in questi processi la causa di un disturbo psichico, quale il
DOC. A sostegno dell'idea che le peculiarità anatomofunzionali riscon­
trate con le tecniche di neuroimaging non rappresentino l'espressione
di una neuropatologia, ma rispecchino un malfunzionamento psichico,
vi sono alcuni dati. Per esempio, le ricerche che hanno usato la SPECT
(tomografia a emissione di fotone singolo, Single Photon Emission Com­
puted Tomography) e hanno rilevato una differenza nel flusso sanguigno
nella corteccia orbitofrontale di pazienti con DOC, non necessariamen­
te dimostrano l'esistenza di una anomalia neuroanatomica. Osservare
una correlazione tra la sintomatologia clinica e l'intensità del flusso san­
guigno nella corteccia non permette di spiegare la natura di eventuali
differenze tra sani e pazienti, né tantomeno di inferire una relazione di
causalità tra quanto osservato e il sintomo conclamato. Anzi, vi sono
ricerche che mostrano esattamente il contrario. Sembrerebbe, infatti,
che sia la ripetizione di pensieri ossessivi a causare un cambiamento a
livello del funzionamento cerebrale, e non il contrario. A sostegno di
questo dato, per esempio, uno studio PET ( Cottraux, Gerard, Cinotti et
al., 1996) ha riscontrato come soggetti sani che pensavano a ossessioni
normali mostravano una risposta cerebrale sovrapponibile a quella di
pazienti ossessivi, impegnati in un'analoga attività mentale. Ancora, è
stato osservato che persone sane sottoposte a stimoli volti a suscitare
ansia attivavano le stesse aree cerebrali " accese" in pazienti ossessivi

169
La teoria

durante un compito di provocazione sintomatologica (Mataix-Cols,


Cullen, Lange et al., 2 003 ) . Infine, è presente una serie di studi che
hanno misurato le modificazioni neuronali in seguito a interventi psi­
coterapici efficaci. Queste ricerche dimostrano come una psicoterapia
di successo implichi una riorganizzazione cerebrale proprio in quelle
aree del circuito fronto-parieto-sotto-corticale, comunemente coinvolte
nel disturbo ossessivo (Morgiève, N'Diaye, Haynes et al. , 2014; Shin,
Davis, Vanelzakker et al., 2013 ; Freyer, Kloppel, Tiischer, 201 1 ; Baxter,
Schwartz, Bergman et al. , 1992 ) . Non da ultimo, il dato recentissimo
(Buyukturkoglu, Roettgers, Sommer et al. , 2015 ) in cui è stato mostra­
to come pazienti ossessivi sottoposti a training per ridurre la sensibi­
lità al disgusto avessero imparato a modulare l'intensità della risposta
cerebrale nell'insula (notoriamente coinvolta nell'elaborazione di que­
sta emozione) , quando confrontati con stimoli disgustosi. In sostanza,
questi studi suggeriscono che i pattern di attivazione cerebrale osservati
nei pazienti ossessivi siano il substrato dei particolari stati mentali che
caratterizzano il DOC o la conseguenza della reiterazione di un proces­
sing emotivo e cognitivo disfunzionale (per esempio, la propensione a
iperutilizzare determinate abilità mentali, come la ruminazione) e non
l'espressione di una neuropatologia.
Le obiezioni alla tesi che "il DOC rappresenta una disfunzione del
cervello" qui sopra riassunte, di solito sono risolte facendo appello al
modello biopsicosociale, secondo cui cause biologiche, psicologiche e so­
ciali interagirebbero nel determinare i disturbi psicopatologici. Questa
soluzione, a nostro avviso, non è del tutto convincente per diverse ragio­
ni. lnnanzitutto è banale, perché può valere per qualunque fenomeno:
anche la tubercolosi è multifattoriale. Per sviluppare la malattia, infatti,
serve il bacillo di Koch, un calo delle difese immunitarie, magari faci­
litato da cause psicologiche, un ambiente sociale degradato, cioè pro­
miscuo e insalubre, ed entra in gioco un fattore genetico: per esempio,
i longilinei sono più a rischio di tubercolosi perché ventilano di meno
gli apici polmonari, facilitando la permanenza del bacillo di Koch, ed
essere longilinei è geneticamente determinato. In secondo luogo, a dif­
ferenza di quanto accade per la tubercolosi, il modello biopsicosociale,
applicato alla psicopatologia, non mette in chiaro i modi dell'interazio­
ne fra aspetti biologici, psicologici e sociali, perché è prevalentemente
fondato su correlazioni fra variabili che non consentono di defìnire la
direzione e la qualità dei nessi fra le variabili. Il modello biopsicosociale,
proprio perché privilegia la ricerca basata su correlazioni, non è in gra­
do di differenziare tra cause necessarie e/o sufficienti e semplici fattori

170
I modelli neuropsichiatrici del DOC

di vulnerabilità, e, quindi, può consentire tutt'al più previsioni proba­


bilistiche, ma non spiegazioni.
Tuttavia, il vero limite della tesi che il DOC possa essere, almeno in
parte, causato da una neuropatologia è che si presta ad alcuni equivoci.
Due, in particolare, connessi fra loro, ma ben distinti. Il primo equivo­
co riguarda non solo la psichiatria, ma anche le neuroscienze nel loro
complesso e nasce dall'idea, del tutto condivisibile, che mente e cervel­
lo siano la stessa cosa e che parlare di mente e cervello significhi utiliz­
zare due piani di descrizione diversi. L'equivoco sorge se si ritiene che
assumere la riducibilità della mente al cervello implichi l'inutilità del­
le descrizioni e delle spiegazioni mentali. Cioè l'idea che la ricerca sul
cervello renderà superflua la psicologia. Assumere una posizione ma­
terialista, cioè che mente e cervello siano la stessa cosa, non implica as­
sumere che la ricerca sul cervello renderà ragione dei fenomeni mentali
soppiantando le spiegazioni psicologiche, che si riveleranno superflue.
Sulla presunzione che le descrizioni mentali siano inutili ci sono, infat­
ti, delle perplessità. La crosta terrestre è indiscutibilmente composta di
atomi e, dunque, ogni cambiamento della crosta terrestre è riducibile a
un cambiamento dei suoi atomi, la cui dinamica è conoscibile e preve­
dibile grazie alle leggi della fisica atomica. Ma se il problema è prevede­
re i terremoti, forse il piano di descrizione della fisica atomica non è il
più adatto. Tentare di descrivere, spiegare e prevedere i movimenti del­
la crosta terrestre ricorrendo alle sole leggi della fisica atomica, appare
un'impresa a dir poco assai complicata, ma soprattutto con il rischio di
lasciarsi sfuggire fenomeni che si svolgono a un livello assai più macro­
scopico, per esempio il tempo necessario perché due parti della crosta
terrestre arrivino a toccarsi. Siamo sicuri che la conoscenza strutturale
o funzionale del cervello sia il piano ottimale per spiegare, per esempio,
come gli esseri umani traggono inferenze, come calcolano le probabilità
di un evento, le condizioni alle quali cambiano opinione, provano ver­
gogna, costruiscono o rompono relazioni? Un'accurata indagine psico­
logica, per esempio, può consentire di prevedere e spiegare le specifiche
circostanze in cui una persona proverà vergogna e quelle, apparente­
mente simili, in cui non la proverà. Un'indagine neurale può arrivare a
tanto? Difficile da credere. Ma ammesso che lo sia, sarebbe vantaggioso
o non sarebbe più utile il linguaggio mentalistico? La questione andreb­
be ribaltata. La conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione del­
la mente e dei suoi processi, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze
psicologiche. Se non si tiene conto di quanto la ricerca psicologica ci
ha fatto capire delle relazioni fra emozioni e processi cognitivi, che sen-

171
La teoria

so potremmo dare alle scoperte sull'interazione fra amigdala, corteccia


prefrontale e ippocampo? Certamente la conoscenza del cervello è utile
per mettere alla prova ipotesi psicologiche. Per esempio, si tende a dare
per scontato che il senso di colpa sia un'emozione unitaria, in realtà la
ricerca sul cervello suggerisce l'opportunità di distinguere almeno due
sensi di colpa (Basile, Mancini, Macaluso et al. , 201 1 ) e ci mostra anche
che uno dei due è strettamente connesso al disgusto (Basile, Mancini,
Macaluso et al. , 201 1 ; Rozin, Haidt, McCauley, 2000) . Ma senza un'a­
deguata analisi psicologica del senso di colpa, che significato potremmo
dare ai risultati delle neuroscienze? !
Connesso al precedente, ma distinto da esso, è il problema della natu·
ra neurologica o psicologica dei disturbi mentali. Ovviamente il proble­
ma è empirico, tuttavia alcuni equivoci inquinano l'interpretazione dei
risultati della ricerca. Esistono malattie psichiatriche che sono malattie
del cervello, l'esempio più chiaro è la paralisi progressiva. Si tratta di
una grave forma di lesione del cervello causata dal treponema della sifi­
lide che si manifesta, tra l'altro, con alterazioni dell'umore e con deliri,
a volte di grandezza. La sintomatologia è prevalentemente psichiatrica
e la causa è esclusivamente neurologica, in particolare infettiva. Consi­
deriamo un caso diverso. È ben noto che l'incidenza di psicopatologia
nelle persone con ritardo mentale sia più elevata della norma. Difficile
mettere in discussione che alla base del ritardo mentale vi sia un dan­
no del cervello causato da noxae infettive, metaboliche, traumatiche o
genetiche. È altrettanto evidente che gli esiti cognitivi di questi danni
interagiscono con variabili psicologiche, per esempio con una maggio­
re difficoltà a regolare le emozioni, e con variabili sociali, per esempio
l'emarginazione, che a sua volta interagisce con altre variabili psicologi­
che come l'autostima, producendo sintomi psichiatrici. Anche in questo
caso esiste un danno neurologico, ma la lesione cerebrale e le sue conse­
guenze cognitive sono un fattore di vulnerabilità psicopatologica e non
la causa, necessaria e sufficiente, come invece accade nella paralisi pro­
gressiva. Il cervello delle persone con paralisi progressiva e con ritardo
mentale è diverso da quello di altre persone senza sintomi psichiatrici.
Anche il cervello dei pianisti professionisti (Bengtsson, Nagy, Skare et
al., 2005) è diverso da quello di altre persone, ma non nello stesso senso
dei due casi precedenti, nei quali i neuroni sono patologici, cioè anomali
rispetto alle leggi dell'anatomia e della fisiologia. N el caso della paralisi
progressiva e nel ritardo mentale i neuroni sono lesionati, anche se lo so­
no in modi diversi e per ragioni diverse. Nel caso dei pianisti, i neuroni
sono diversi da quelli dei non-pianisti, ma non sono lesionati, piuttosto

172
I modelli neuropsichiatrici del DOC

sono ben funzionanti rispetto alle leggi della neuroanatomia e della neu­
rofisiologia. Analogamente, possiamo supporre che un appassionato ed
esperto di calcio abbia una struttura e un funzionamento cerebrale di­
verso da una persona del tutto disinteressata al calcio. Anche in questo
caso possiamo parlare di diversità, ma non possiamo dire che il cervello
del tifoso sia anomalo rispetto alle leggi biologiche che definiscono un
cervello sano e lo differenziano da uno patologico. È evidente che non
basta osservare una diversità per parlare di neuropatologia ! Consideria­
mo, ora, il caso di una persona che è mossa da una passione che non è
per la musica o per una squadra di calcio, ma è per la pulizia ed è esper­
ta non di pianoforti e nemmeno di schemi di gioco, ma di prevenzione
e neutralizzazione di contaminazioni. Osserviamo che il suo cervello è
diverso da quello di altre persone. Supponiamo ora che uno psichiatra
ci dica che è affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, cioè da una psi­
copatologia. Questa diagnosi sarebbe sufficiente per affermare che la
diversità osservata sia analoga a quella del paziente affetto da paralisi
progressiva o da ritardo mentale? No, a meno di non osservare condi­
zioni anatomofunzionali che siano anomale rispetto alle leggi biologi­
che, quelle che discriminano un sistema nervoso sano da uno patologico,
per esempio lesioni degenerative, esiti di traumi, segni di infezione o di
reazioni autoimmunitarie. Suggeriamo, dunque, che non sia legittimo
inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche
se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia !
Se non si ammette questo vincolo, si rischia un paradosso. Possiamo
presumere, per i nostri fini attuali, che il cervello di una persona omo­
sessuale sia diverso da quello di un eterosessuale. Nessuno, oggigiorno,
direbbe che l'omosessualità sia una forma di psicopatologia, dunque la
diversità osservata appare analoga a quella riscontrata nei pianisti: di­
versi interessi, diversi modi di essere che corrispondono a diversi cer­
velli. Ora supponiamo di tornare indietro nel tempo, a sessant'anni fa.
L'omosessualità era considerata una forma di psicopatologia. Questo
avrebbe implicato che la diversità del cervello degli omosessuali fosse
analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva? Cioè, può
una diversità cerebrale essere neuropatologica o cessare di esserlo, sol­
tanto come conseguenza di decisioni convenzionali su cosa è, o non è,
psicopatologico?

173
IX

DEFICIT COGNITIVI
E DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
Stefania Fadda, Andrea Gragnani,
Alessandro Couyoumdjian, Francesco Mancini

INTRODUZIONE

Negli ultimi anni, riprendendo soprattutto concetti e paradigmi


sperimentali provenienti dalla tradizione neuropsicologica e dalla psi­
cologia sperimentale, sono stati portati avanti molti studi tesi a iden­
tificare in diversi disturbi mentali (per esempio, depressione, schi­
zofrenia, disturbi alimentari) disfunzioni, in altre parole deficit, nei
processi di base dell'elaborazione dell'informazione, come attenzione,
memoria e pensiero. Ciò sembra essere coerente con quello che, non
di rado, lamentano i pazienti (per esempio, difficoltà di concentrazio­
ne o distrazione, vuoti di memoria, prestazioni lavorative carenti) o
che è osservato da professionisti e familiari (per esempio, "Non ci si
può fare affidamento . . . è sempre distratto " ) . In generale, alla base di
questa prospettiva vi è l'idea che siano tali disfunzioni a spiegare, al­
meno in parte, i sintomi di un particolare disturbo mentale e che quin­
di, mediante specifici programmi riabilitativi (per esempio, training
attentivo) , sia possibile risolvere il disturbo stesso o almeno ridurne
la sintomatologia.
In virtù delle sue caratteristiche sintomatologiche (vedi capitolo I) ,
diversi studi si sono interessati anche all'individuazione nel disturbo
ossessivo-compulsivo di particolari deficit, in particolare a carico del­
le funzioni esecutive e della memoria.
n presente capitolo ha come obiettivo presentare e analizzare criti­
camente questa prospettiva attraverso otto principali linee di ricerca:
memoria, monitoraggio della realtà, percezione, attenzione, compren­
sione di testi, ragionamento, in/erential con/uszòn e controllo inibitorio.

175
La teoria

MEMORIA

Alcuni autori hanno ipotizzato che i sintomi ossessivi possano essere


causati da un'anomalia nel funzionamento della memoria (de Vries, de
Wit, Cath et al. , 2013 ; Tukel, Gurvit, Ertekin et al. , 2012; Nedeljkovic,
Kyrios, Moulding et al. , 2009) . Tale anomalia, o deficit di memoria, è
stata presa in considerazione soprattutto per spiegare la ripetitività e la
persistenza delle compulsioni di controllo. È stato, per esempio, ipotiz­
zato (Woods, Vevea, Chambless et al. , 2002) che il checking compulsi­
vo possa essere la conseguenza di una capacità deficitaria della memo­
ria episodica (per esempio, non riuscire a ricordarsi se sia stata chiusa
o meno la porta di casa, spento il forno o staccato la spina del ferro dal
stiro) . In effetti, la presenza di un deficit di memoria nei pazienti osses­
sivi appare plausibile e, se fosse confermata, consentirebbe di spiegare il
comportamento di un paziente che ricontrolla il gas per la terza, quarta,
quinta ed ennesima volta, ipotizzando che i precedenti controlli siano
stati semplicemente dimenticati.
Tra gli autori che, tra i primi, si sono occupati di investigare l'ipotesi
del deficit di memoria citiamo Ecker e Engelkamp ( 1 995 ) , i quali hanno
osservato che i pazienti ossessivi checkers, in compiti di richiamo di azio­
ni da essi compiute, mostravano prestazioni peggiori rispetto ai control­
li; questo potrebbe suggerire la presenza di uno specifico deficit di me­
moria. Risultati simili sono stati osservati da Rubenstein, Peynircioglu,
Chambless e collaboratori ( 1 993 ) , da Sher, Frost, Kushner e collabora­
tori ( 1989) , e da Sher, Frost e Otto ( 1983 ) . Inoltre, in una meta-analisi
su 22 studi e 794 partecipanti sulla memoria nel checking compulsivo,
Woods, Vevea, Chambless e collaboratori (2002) hanno evidenziato per­
formance inferiori nei checkers, rispetto ai non-checkers, sia in test sulla
memoria di lavoro che in quella episodica a lungo termine.
Alcuni autori hanno ipotizzato che gli individui con DOC non abbia­
no deficit di memoria generali, ma specifici per gli ambiti interessati dai
propri timori ossessivi. Questo potrebbe spiegare, per esempio, come
mai un paziente che tema di subire dei furti in casa dedichi ore a con­
trollare che le porte d'accesso all'esterno siano state chiuse, mentre non
senta l'impulso di controllare la porta del bagno o le ante di un arma­
dio (Abramowitz, 2006). Al fine di verificare tale ipotesi, Tolin, Abra­
mowitz, Brigidi e collaboratori (200 1 ) hanno presentato stimoli rilevanti
per il dominio sintomatico a individui con DOC, ansiosi e di control­
lo, non riscontrando nel primo gruppo alcuna evidenza della presenza
di deficit di memoria. Risultati simili sono stati osservati da Karadag,

176
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

Oguzhanoglu, Ozdel e collaboratori (2005) e da Ceschi, Van der Linden,


Dunker e collaboratori (2003 ) . Studi successivi, che hanno esaminato
l'esistenza di un deficit selettivo della memoria nei pazienti ossessivi,
suggeriscono persino che tali pazienti abbiano una memoria più vivida
per le informazioni minacciose e rilevanti rispetto ai propri sintomi os­
sessivi. Al fine di verificare questa ipotesi, Radomsky e Rachman ( 1999)
hanno chiesto a soggetti non-DOC e DOC con compulsioni di lavaggio,
di guardare oggetti di uso quotidiano che potevano essere o non essere
contaminati, per esempio un righello che era stato toccato da una stoffa
pulita o da uno straccio sporco. In seguito, ai soggetti, senza che fosse­
ro stati avvisati prima, era richiesto di ricordare gli oggetti presentati.
I pazienti con DOC richiamavano alla mente più oggetti " contaminati"
che "puliti" e questi ultimi erano inferiori rispetto a quelli richiamati
dai soggetti non-DOC. Radomsky, Rachman e Hammond (2001 ) hanno
replicato tali risultati in uno studio con pazienti checkers, giungendo al­
le medesime conclusioni. Tali risultati suggeriscono che i pazienti con
DOC abbiano una memoria migliore per gli eventi ansiogeni e rilevanti,
che per gli eventi non ansiogeni e irrilevanti, in accordo con le ricerche
di Kovacs e Beck ( 1978), che suggeriscono come le persone investano
maggiori risorse di memoria per elaborare informazioni congrue al pro­
prio stato emotivo. Nel caso dell'ansia questa è una strategia particolar­
mente adattiva e può essere concettualizzata come parte della normale
risposta alla minaccia percepita.
Possiamo, quindi, concludere che sebbene l'ipotesi della presenza
di un deficit di memoria nei pazienti con DOC possa sembrare, di pri­
mo acchito, affascinante, essa non ha ricevuto solido supporto (Muller,
Roberts, 2005).
Sono, invece, disponibili vari studi che evidenziano come i controlli
ripetuti producano una riduzione della fiducia nella memoria.
Van den Hout e Kindt (2003 a, 2003b, 2004) hanno condotto esperi­
menti sul memory distrust in soggetti non clinici mostrando come con­
trollare più volte la chiusura e l'apertura di alcuni fornelli a gas implicas­
se una netta diminuzione della vividezza, dei dettagli e soprattutto della
fiducia del ricordo di quali fossero stati lasciati aperti e quali chiusi. La
ripetizione dei controlli non incideva, invece, sulla capacità di ricorda­
re correttamente. Gli autori hanno ipotizzato il seguente meccanismo:
la ripetizione dei controlli aumenta la familiarità con gli stimoli - l'au­
mentata familiarità promuove un'elaborazione di tipo concettuale, la
quale inibisce l'elaborazione percettiva - l'inibizione dell'elaborazione
percettiva fa sì che il ricordo sia meno vivido e dettagliato - la riduzio-

177
La teoria

ne della vividezza e del dettaglio promuove una sfiducia nella memoria.


Normalmente ci si fida di un ricordo quanto più esso è vivido e detta­
gliato. A riprova, Boschen, Wilson e Farrell (20 1 1 ) hanno dimostrato
come l'introduzione di nuovi dettagli negli oggetti controllati, favorendo
un'elaborazione di tipo percettivo, attenui la perdita di fiducia.
Se volessimo rispondere alla seguente domanda: perché i pazienti
ossessivi non si fidano della propria memoria dopo aver controllato più
e più volte? Potremmo rispondere nel seguente modo: la fiducia nel
ricordo dipende, tra le altre cose, da quanto il ricordo è vivido e det­
tagliato (Wolters, 2000) . A loro volta, vividezza e dettaglio del ricordo
sono influenzate dalla familiarità con lo stimolo, o l'evento, che si de­
ve ricordare: più familiare è tale stimolo e meno dettagliato e vivido è
il ricordo (Johnston, Hawley, 1 994; Roedinger, 1 990) . La ragione per
la quale la familiarità riduce la vividezza e il dettaglio è che con il cre­
scere della familiarità l'elaborazione dell'informazione diviene sempre
più di tipo semantico e sempre meno di tipo percettivo (colori, forme,
ecc . ) . È proprio l'inibizione di questo secondo tipo di elaborazione
dell'informazione che rende il ricordo di stimoli familiari meno vivido
e dettagliato. In breve: con il crescere della familiarità, l'individuo dà
priorità all'elaborazione di aspetti semantici a discapito di quelli per­
cettivi, con il risultato di una diminuzione della vividezza e del detta­
glio del ricordo. Tale diminuzione indebolisce la fiducia nella memoria
per ogni singolo stimolo all'interno di un gruppo di stimoli familiari.
Più un paziente ossessivo controlla e più lo stimolo oggetto del con­
trollo, e il controllo stesso, diviene familiare. La familiarità rende il ri­
cordo meno vivido e dettagliato e questo diminuisce la fiducia rispetto i
al controllo effettuato.
La ripetizione dei controlli, inoltre, ha implicato nei partecipanti de­
gli stati soggettivi simili a quelli che sono spontaneamente riferiti dai
pazienti ossessivi (Reed, 1 985 ) , quando sono impegnati in compulsioni
di controllo: "È come se il mio ricordo fosse lì, ma non fosse abbastan­
za definito" ; "Mi ricordo di averlo fatto, ma è tutto confuso" ; "Posso
ricordare di averlo fatto, ma la memoria non è chiara" . Oltre a questo
la ripetizione dei controlli ha implicato sintomi di tipo dissociativo, si­
mili a quelli che i pazienti ossessivi riferiscono di provare durante la
ripetizione delle compulsioni: confusione, sensazione di estraniamen­
to e di irrealtà.
Coles, Radomsky e Horng (2006) hanno riscontrato, sempre in sogget­
ti sani, che l'effetto si presenta anche con meno di 20 controlli; in parti­
colare, il decremento maggiore della sicurezza nella memoria, della niti-
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

dezza e dei dettagli si riscontra tra la 5" e la 15• ripetizione, ma anche solo
dopo 2-5 ripetizioni si evidenza un leggero effetto di memory distrust.
Radomsky e Alcolado (2010) hanno riscontrato che anche i controlli
mentali ripetuti producono una riduzione della nitidezza, dei dettagli e
della sicurezza nei ricordi. È interessante notare che queste diminuzio­
ni della fiducia nella memoria erano modalità-specifiche, infatti, i con­
trolli mentali ripetuti non hanno avuto effetti di memory distrust per i
controlli concreti e viceversa.
Nei pazienti ossessivi, similmente a quanto accade nei soggetti non
clinici, la ripetizione dei controlli riduce la fiducia nella memoria dell'e­
sito dei controlli stessi, per ragioni identiche, cioè perché la ripetizione
implica riduzione della vividezza e aumento della familiarità del ricor­
do (Boschen, Vuksanovic, 2007; Moritz, Wahl, Zurowski et al. , 2007) .
I pazienti con DOC spesso riferiscono che l a tendenza a controllare
ripetutamente e a lungo sia una specifica risposta alla sensazione di in­
certezza - "Siccome non posso essere sicuro di averla chiusa, allora con­
trollo per essere più sicuro" (Reed, 1985). Clinicamente si riscontra che
tali condotte non producono una diminuzione della sensazione di incer­
tezza, ma, paradossalmente, aumentano l'incertezza stessa e dunque il
ricorso ai controlli (per esempio, Rachman, 2002 ; Salkovskis, Forrester,
2002; Mancini, 200 1 ) .
Radomsky, Rachman e Hammond (2001 ) hanno trovato che l a sfi­
ducia nella propria memoria peggiora in condizioni sperimentali di in­
duzione di responsabilità. Infatti, i pazienti ossessivi, poiché temono di
essere responsabili per esiti negativi, si preoccupano molto dell'accura­
tezza della loro memoria e cercano di compensare mediante i controlli
ripetuti; la ripetizione dei controlli diminuisce la fiducia nella propria
memoria. In uno studio su memory distrust condotto su pazienti DOC e
soggetti normali venne aggiunta una condizione di manipolazione della
responsabilità: sbagliare il controllo implicava causare una scossa elet­
trica (debole, non dannosa) a un altro partecipante all'esperimento. I
risultati dimostrano che nella condizione di elevata responsabilità i pa­
zienti mostravano una ancora più marcata riduzione della sicurezza nella
memoria rispetto ai soggetti del campione non clinico.
Osservazioni cliniche confermano questi risultati: una paziente, per
esempio, riportava di dedicare ore a controllare che non avesse scritto
parolacce nei messaggi che avrebbe dovuto spedire a una collega, mentre
non controllava affatto i messaggi che avrebbe spedito ai familiari. Questo
fenomeno si osserva frequentemente nei pazienti e sarebbe molto difficile
da spiegare con una riduzione della memoria o con un deficit di memoria.

179
La teoria

Infatti, come si spiegherebbe una memoria migliore per messaggi spediti


ad alcune persone, mentre non per quelli spediti ad altre? (Abramowitz,
2006) . È più probabile che la differenza sia dovuta al timore di essere re­
sponsabili per esiti negativi, che implica una maggiore preoccupazione
per l'accuratezza della propria memoria, per cui aumentano i controlli;
ma la ripetizione dei controlli diminuisce la fiducia nella propria memo­
ria, alla quale i pazienti provvedono ripetendo ancor di più i controlli (Ra­
domsky, Rachman, Hammond, 200 1 ) . Un'altra osservazione clinica lega
la responsabilità al numero di controlli: spesso il numero dei controlli di­
minuisce in presenza di una persona di fiducia e aumenta in sua assenza.
In ultimo, Alcolado e Radomsky (2015 ) hanno prodotto, attraverso
un intervento specifico di due sedute con focus sulle credenze negative
riguardanti la memoria nei pazienti con DOC, un cambiamento delle cre­
denze stesse, una riduzione dei controlli e dei sintomi associati, nonché
un innalzamento delle prestazioni della memoria.
In conclusione, i fenomeni finora considerati possono essere spiegati
alla luce di meccanismi a circolo vizioso, alimentati dalla necessità di non
rischiare di essere colpevoli di un esito negativo. Quando un paziente DOC
esperisce un maggiore senso di responsabilità, gli standard di giudizio sul­
le proprie prestazioni (''Avrò chiuso bene il gas?") e sull'affidabilità delle
propria memoria ( ''Sarò andato a chiudere il gas prima di uscire?") di­
ventano più severi, alimentando uno stato ansioso di dubbio ("E se non
l'avessi chiuso? ") e rendendo più probabili valutazioni negative (''Non
l'ho chiuso bene! "); ciò si traduce nell'impulso irrefrenabile a controlla­
re. Con il ripetersi dei controlli si osserva una riduzione della vividezza e
dei dettagli dei ricordi, che alimentano la sfiducia nella propria memoria
e dunque la sensazione di incertezza. Per provvedere a ciò i pazienti ri­
corrono a nuovi controlli. Inoltre, se ascoltiamo le narrazioni dei pazien­
ti con DOC, durante e dopo i controlli ripetuti, la loro esperienza assume
caratteristiche simil-dissociative (Hand, Rufer, Fricke et al., 2006; Merck­
elbach, Wessel, 2000; Grabe, Goldschmidt, Lehmkuhl et al., 1999). "So
che la porta è chiusa a chiave, ma il ricordo è vago" ; "Credo di ricorda­
re bene, ma il ricordo è offuscato, come se io non fossi lì" (Reed, 1985).

MONITORAGGIO DELLA REALTÀ

Secondo alcuni autori (Zermatten, Van der Linden, Laroi et al.,


2006; Ecker, Engelkamp, 1995 ; Rubenstein, Peynircioglu, Chambless
et al. , 1 993 ) i sintomi ossessivi, in particolare la ripetitività e la persi-

180
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

stenza delle condotte ossessive di controllo, potrebbero essere causati


da un deficit nel monitoraggio della realtà, vale a dire, da una difficol­
tà nel discernere se un'azione, per esempio chiudere il gas, sia sta­
ta realmente compiuta o solo immaginata (Johnson, Raye, 1 98 1 ) . La
presenza di un deficit di monitoraggio della realtà nei pazienti osses­
sivi costituirebbe, quindi, un'ipotesi alternativa a quella della memo­
ria nella spiegazione del checking ripetuto. L'ipotesi è che la persona
non abbia " dimenticato" l'azione, per esempio di aver controllato il
gas, bensì non sappia se il proprio ricordo sia il risultato di un'azione
realmente compiuta o dell'immaginazione dell'azione stessa: " Ho vera­
mente controllato il gas, oppure ho solo immaginato di farlo? " (Ecker,
Engelkamp, 1995 ) .
Gli studi che hanno esaminato la capacità di monitoraggio della real­
tà nei pazienti ossessivi hanno ottenuto risultati contrastanti. Solo un
ristretto numero di studi ha riscontrato una compromissione della ca­
pacità di monitoraggio della realtà nei pazienti ossessivi. Ci riferiamo
agli esperimenti di Rubenstein, Peynircioglu, Chambless e collaboratori
(1993 ) e di Zatterman, Van der Linden, Laroi e collaboratori (2006) con­
dotti su campioni subclinici, e agli studi di Ecker e Engelkamp ( 1 995)
condotti su un campione di pazienti ossessivi.
La maggioranza degli studi (Hermans, Martens, De Cort et al., 2003 ;
Merckelbach, Wessel, 2000; Constans, Foa, Franklin et al. , 1995 ; Brown,
Kosslyn, Breiter et al. , 1 994 ; McNally, Kohlbeck, 1 993 ; Sher, Frost,
Otto, 1983 ) suggerisce, tuttavia, che il disturbo ossessivo non sia carat­
terizzato da un deficit del monitoraggio della realtà. Brown, Kosslyn,
Breiter e collaboratori ( 1 994) ritengono, addirittura, che i pazienti con
disturbo ossessivo presentino una più spiccata competenza di moni­
toraggio della realtà. Woods, Vevea, Chambless e collaboratori (2002)
hanno condotto una meta-analisi su cinque studi confermando che non
vi sono differenze tra pazienti con DOC e gruppo di controllo. Hermans,
Martens, De Cort e collaboratori (2003 ) hanno sottolineato come molti
degli studi che evidenziavano un deficit nei pazienti ossessivi avessero
utilizzato materiali irrilevanti per i pazienti ossessivi stessi. Gli autori
hanno, quindi, ipotizzato che il deficit potesse riguardare solo domini
rilevanti per il paziente, vale a dire i domini sintomatici. L'ipotesi, sotto­
posta a un riscontro sperimentale è stata falsificata (Hermans, Martens,
De Cort et al. , 2003 ) .
Sulla base dei risultati presentati è possibile concludere che vi siano
prove deboli circa la presenza di un deficit di monitoraggio della realtà
nei pazienti ossessivi (Hermans, Engelen, Grouwels et al., 2008 ) .

181
La teoria

Che spiegazione si può dare, dunque, di quanto riferiscono i pazienti,


cioè che in molte circostanze ripetono i controlli perché non riescono a
dirimere se un'azione, per esempio chiudere il gas, sia stata realmente
compiuta o solo immaginata? La spiegazione non è in un deficit di mo­
nitoraggio, ma nella sfiducia che i pazienti ossessivi hanno nell'origine
del proprio ricordo. Sfiducia che nasce da una sequenza simile a quella
che porta a sfiducia nella propria memoria.

PERCEZIONE

I pazienti con DOC riportano incertezza anche rispetto alla percezione


( ''Vedo che la luce è spenta, ma non mi fido di ciò che vedo"; Nedeljkovic,
Kyrios, 2007) e cercano di fronteggiare queste forme di incertezza osses­
siva mediante altri comportamenti perseverativi, per esempio fissazioni
prolungate dello sguardo. Tuttavia, anche in questo caso, proprio la fis­
sazione incrementa la sensazione di incertezza in una spirale di manteni­
mento e aggravamento del disturbo (van den Hout, Engelhard, Smeets
et al., 2009; van den Hout, Engelhard, de Boer et al. , 2008) e, per giunta,
dà luogo a sensazioni di tipo dissociativo (trance).
Al fine di investigare se la fissazione visiva di oggetti avesse effetti si­
mili a quelli del checking ripetuto, van den Hout, Engelhard, de Boer e
collaboratori (2008) hanno chiesto a un campione non clinico di mettere
in atto, per l O secondi, una condotta simile a quelle che mettono in atto i
pazienti ossessivi durante le compulsioni, cioè fissare a lungo degli stimo­
li, in questo caso un fornello. Gli autori hanno successivamente chiesto
ai soggetti di esprimere un giudizio in merito alla propria certezza o in­
certezza percettiva e alle sensazioni di tipo dissociativo esperite. Esempi
di item utilizzati per misurare l'incertezza percettiva sono stati: "In un
certo senso l'ho visto, ma era come sfocato" oppure " Sono sicuro di ciò
che ho visto nei 10 secondi in cui ho guardato il fornello". La dissocia­
zione è stata misurata mediante la Clinician-Administered Dissociative
State Scale ( CADSS, Bremner, Krystal, Putman et al., 1 998) . I risultati mo­
strano nel gruppo sperimentale un significativo e sostanziale incremento
dell'incertezza percettiva e la presenza di sensazioni di tipo dissociativo.
In un secondo studio, van den Hout, Engelhard, Smeets e collabora­
tori (2009) hanno chiesto a dei soggetti di fissare un fornello per una du­
rata di O sec., 7 ,5 sec., 15 sec., 3 0 sec., 3 00 sec. Sono state, quindi, misu­
rate l'incertezza percettiva e le esperienze dissociative sia prima sia dopo
il trial. Gli item della CADSS sono stati, in questo secondo studio, adattati

182
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

per misurare in modo più preciso le esperienze dissociative legate alla


percezione visiva. Alcuni esempi sono: l ) il fornello sembrava irreale
come se fossi in un sogno; 2 ) sembrava che il fornello fosse diverso da
come me l'aspettavo; 3 ) ho visto i colori del fornello sbiaditi e i contor­
ni sfocati; 4) ho percepito il fornello come se fossi in un tunnel, o come
se stessi guardando attraverso una lente; 5 ) era come se stessi guardan­
do il fornello attraverso la nebbia, come se fosse più lontano e sfocato.
I risultati di questo secondo esperimento hanno evidenziato come,
anche dopo brevi periodi di fissazione, si inducano incertezza rispetto
alla percezione e sintomi dissociativi. Il 75 % dell'effetto totale è stato
riscontrato dopo 3 0 sec. di fissazione, ma anche dopo 15 sec. l'effetto
era sensibile (50%). Anche in questo caso si evidenzia come le condotte
di fissazione prolungata producano un aumento dell'incertezza percet­
tiva e dei sintomi dissociativi. I risultati di questi studi suggeriscono che
gli effetti negativi della fissazione prolungata sulla fiducia nell'efficienza
della percezione sia un caso particolare di una modalità generale di fun­
zionamento, dove la ripetizione e la perseverazione causano incertezza
rispetto alle abilità cognitive che sono coinvolte. È lecito ipotizzare che
questo accada anche nei pazienti DOC.

ATTENZIONE

Un'altra ipotesi è che i pazienti ossessivi non si fidano della propria


attenzione. A riprova di ciò, Hermans, Martens, De Cort e collaboratori
(2003 ) , mediante la somministrazione del Meta-Cognitions Question­
naire (MCQ; Cartwright-Hatton, Wells, 1997) a un campione di pazienti
ossessivi e a uno di controllo, hanno riscontrato una differenza signifi­
cativa nella sottoscala relativa alla "fiducia nel mantenere il focus atten­
tivo" ("Mi distraggo facilmente", "Ho difficoltà a mantenere l' attenzio­
ne focalizzata su una determinata cosa per lunghi periodi di tempo"). I
pazienti ossessivi potrebbero, quindi, ripetere i comportamenti di con­
trollo poiché li ritengono poco accurati o completi. Infatti, non fidando­
si della propria attenzione, ritengono che qualche segnale importante,
come per esempio una piccola scintilla rossa nel posacenere, possa esse­
re stato inavvertitamente trascurato o essere sfuggito per disattenzione.
Per quanto riguarda gli effetti del checking ripetuto, sappiamo che
con l'aumento dei controlli l'elaborazione percettiva lascia il posto a
quella concettuale, la quale genera un ricordo meno vivido e dettaglia­
to (van den Hout, Kindt, 2003 a) . Quest'ultimo, a sua volta, compor-

183
La teoria

ta, da parte dell'individuo, una minore fiducia nella propria memoria.


Hermans, Martens, De Cort e collaboratori (2003 ) hanno riscontrato,
in un campione di pazienti ossessivi, una diminuzione della fiducia nella
propria attenzione anche dopo solo cinque controlli ripetuti. Gli autori
hanno ipotizzato che il meccanismo coinvolto sia il medesimo riscon­
trato da van den Hout e Kindt (2003a) per la memoria, ritenendo che
l'inibizione dell'elaborazione percettiva in favore di quella concettuale
porti l'individuo a fidarsi meno anche delle proprie capacità attentive.
Un'altra ipotesi formulata da Hermans, Martens, De Cort e collabo­
ratori (2003 ) è che durante i primi controlli, quando l'elaborazione è an­
cora di tipo percettivo, l'individuo scopra nuovi dettagli dello stimolo da
ricordare. Per esempio, una persona che tiri il freno a mano per preveni­
re che la macchina si muova e quindi possa investire accidentalmente un
bambino, potrebbe scoprire, controllo dopo controllo, che tale semplice
azione è associata ad altri indizi percettivi non notati precedentemente.
Potrebbe , per esempio, notare che si odono tre " click" prima che il fre­
no sia tirato su al massimo e sia, quindi, in posizione di sicurezza, che il
terzo di questi tre "click" è più forte dei precedenti due, che se la mano
viene tolta troppo presto dal freno a mano mentre lo si tira su, si risente
il secondo click, ecc. Di conseguenza, l'individuo noterebbe la presen­
za di sempre più dettagli ai quali dover prestare attenzione per sentirsi
"sicuro". Proprio tale "arricchimento percettivo" potrebbe contribuire
a una riduzione della fiducia nella propria attenzione.
Sembra quindi che sia più corretto parlare di bias cognitivi piuttosto
che di deficit cognitivi. Abramowitz ha riassunto in modo efficace i ri­
sultati delle ricerche sui deficit cognitivi esprimendosi in questo modo:

n risultato che emerge in modo costante dalle ricerche sulla memoria


e sul monito raggio della realtà nel DOC è che i pazienti ossessivi, rispetto
ai controlli, mostrano meno fiducia nella propria memoria e percezio­
ne. Quindi, vi è una solida evidenza che il checking compulsivo sia il ri­
sultato, almeno in parte, di una diminuzione della fiducia nella propria
memoria, in particolare nelle situazioni in cui vi è la percezione di essere
responsabili di commettere errori. (Abramowitz, 2006, p. 6 1 )

COMPRENSIONE D I TESTI E RAGIONAMENTO

Alcuni studi recenti suggeriscono che la ripetizione e la perseverazio­


ne inducano, in tutte le persone, sfiducia anche in altre funzioni menta­
li, quali la comprensione di testi scritti ('' Sto comprendendo nel modo
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

corretto ciò che leggo?") e il ragionamento ( " È corretto concludere che


la situazione X sia realmente innocua? " ) .
In riferimento alla comprensione di testi, van den Hout, Dek, Giele
e collaboratori (2012) hanno descritto il caso di un paziente, un tecni­
co, il quale, poiché non si fidava d'aver compreso le istruzioni per l'in­
stallazione di un impianto di riscaldamento, rileggeva più e più volte il
manuale delle istruzioni.
Il caso della fiducia nel ragionamento è più complesso. I pazienti
ossessivi spesso riferiscono che quando si trovano di fronte a una si­
tuazione apparentemente innocua, si chiedono se, per quanto impro­
babile, possa verificarsi un esito negativo. Proprio il timore che possa
verificarsi tale esito spinge i pazienti a impegnarsi in lunghi ragiona­
menti dove, passo per passo, vengono ipotizzati i possibili scenari che
condurrebbero all'esito temuto. Una ragazza, per esempio, dopo avere
lasciato un chewing gum sulla barra di protezione di una cabina di una
ruota panoramica, fu assalita dal dubbio "E se fosse accaduto qualco­
sa di disastroso a causa del chewing gum da m e lasciato sulla barra? " ,
e tentò di risolverlo con il seguente ragionamento: "Qualche bambi­
no che si trovava su un'altra cabina potrebbe essersi sporto con l'in­
tenzione di prendere il chewing gum e in quello stesso istante la ruota
panoramica potrebbe aver iniziato a muoversi; il bambino potrebbe,
quindi, essere caduto e aver perso la vita. In questo caso sarei io la re­
sponsabile della morte del bambino ! " . Questo tipo di ragionamento è
"perseverativo" e sortisce l'effetto di aumentare l'incertezza circa l'e­
sito temuto, proprio come controllare ripetutamente che la porta sia
stata chiusa rende meno sicuri circa la sua effettiva chiusura (van den
Hout, Dek, Giele et al. , 2012).

Comprensione di testi

Un gioco che spesso i bambini amano fare è quello di ripetere una pa­
rola per molte volte di fila: "Mucca mucca mucca mucca mucca, ecc. " .
L'effetto che n e consegue è familiare alla maggior parte degli individui
e consiste in una sorta di alienazione soggettiva, come se la parola di­
venisse strana o irreale, sebbene il significato della parola stessa riman­
ga integro. Questo fenomeno prende il nome di semantic satiation ed è
molto simile all'esperienza di alcuni pazienti ossessivi, i quali affermano:
"Comprendo ciò che ho letto, ma non sento di poterne essere sicuro" ,
e ripetono la lettura o l a pronuncia di intere frasi al fine di aumentare
la sensazione di sicurezza rispetto alla comprensione di quanto letto.

185
La teoria

Vink (2009) si è chiesto se l'incertezza circa la comprensione di un testo


sia conseguenza della ripetizione della lettura. Al fine di verificare tale
ipotesi ha chiesto a un campione di 1 03 studenti di ripetere frasi come
"C'è una minaccia o un danno" e di valutare successivamente il grado
di sicurezza nella comprensione della frase e di sintomi simil dissocia­
tivi esperiti. Gli item utilizzati furono: " Ho in qualche modo compre­
so la frase, ma il significato ha un qualcosa di vago" oppure " È come
se il significato della frase sia meno ovvio" . I risultati mostrano che con
il procedere delle ripetizioni l'insicurezza e i sintomi simil dissociati­
vi aumentavano. L'incertezza si manifestava anche nel momento in cui
era chiesto ai soggetti di pronunciare la frase. Possiamo, quindi, con­
cludere che l'incertezza rispetto alla comprensione di testi dia luogo a
comportamenti ripetitivi i quali, a loro volta, non riducono l'incertezza
bensì l'aumentano.
Anche van den Hout, Dek, Giele e collaboratori (2012) hanno di­
mostrato che ripetere più volte una stessa frase produce un rapido
incremento dell'incertezza, la quale si accompagna, anche in questo
caso, a sintomi simil dissociativi: " Ho compreso la frase, ma il signifi­
cato è un po' vago" ; "Era come se il senso della frase fosse meno evi­
dente per me" .

Ragionamento

Come menzionato sopra, nei pazienti ossessivi è stato osservato un


particolare pattern di ragionamento che possiamo descrivere con il se­
guente esempio tratto da van den Hout, Engelhard, Smeets e collabo­
ratori (2009). Una paziente quando arrivava nel centro di psicoterapia
dove era in cura aveva bisogno di lavarsi le mani prima di stringere la
mano al terapeuta. La paziente per arrivare al centro aveva preso l'auto­
bus e toccato altri passeggeri. Non poteva essere sicura che nessuno di
essi avesse l'HIV e, di conseguenza, non poteva essere sicura che il virus
non fosse sulle sue mani. Se non si fosse lavata, non sarebbe stata sicura
di non aver passato il virus al terapeuta attraverso la stretta di mano e
che, quindi, il suo terapeuta non contraesse il virus, eventualità quest'ul­
tima di cui lei sarebbe stata responsabile qualora non si fosse, appunto,
lavata. Un aspetto interessante di questo tipo di ragionamento è il que­
sito al quale cerca di dare una risposta: "Posso asserire con certezza che
questa cosa non accada ? " . La risposta, infatti, è inevitabilmente nega­
tiva e il ragionamento che ne consegue appare di tipo perseverativo e
non porta all'acquisizione di nuove informazioni.

186
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

INFERENTIAL CONFUSION

Da alcuni anni è stata proposta una teoria (Aardema, O'Connor,


2003 ; Aardema, O'Connor, Pélissier et al. , 2009; O'Connor, Robil­
lard, 1 995 , 1999) per spiegare perché i pazienti ossessivi dubitano, per
esempio, che la porta di casa sia chiusa nonostante la vedano chiusa
e nonostante possano toccar con mano che è chiusa. Secondo questa
teoria, ciò dipenderebbe da una disfunzione cognitiva: l' in/erential
con/usion.
L'inferential confusion sarebbe una forma di elaborazione delle in­
formazioni caratterizzata da sfiducia nei confronti delle informazioni
che provengono dai propri sensi, come la vista e il tatto, e un eccesso di
fiducia nelle possibilità che il paziente considera o immagina. Secondo
alcuni, per esempio Liotti e Costantini (20 1 1 ), l'inferential confusion
sarebbe connessa con la difficoltà a discriminare tra fatti e proprie rap­
presentazioni dei fatti, quindi con un deficit metacognitivo.
In accordo con questa teoria, il paziente ossessivo continuerebbe a
sospettare che il rubinetto del gas non sia chiuso bene o che la porta di
casa non sia ben serrata, nonostante i sensi della vista e del tatto gli dia­
no un'informazione chiara e precisa, perché si affiderebbe di più a delle
possibilità astratte che immagina (''Potrei non avere girato del tutto la
chiave" ) , che alle informazioni provenienti direttamente dai sensi. La
tesi della inferential confusion non fa alcun riferimento a scopi e cre­
denze del paziente, ma solo a disfunzioni strettamente cognitive o, for­
se, metacognitive.
Questa teoria ha due meriti. Il primo è il supporto sperimentale; il
secondo è che la teoria è formulata in modo sufficientemente preciso
da essere falsificabile.
L'esperimento più robusto a sostegno merita di essere presentato per
sommi capi. A pazienti ossessivi e a un gruppo di controllo è stato chie­
sto di immedesimarsi nel protagonista del seguente episodio.

Immagina che stai guidando l'auto per andare in ufficio. Questa mat­
tina hai letto sul giornale di un incidente in cui l'autista di un camion
ha investito una persona e si è allontanato senza essersene accorto. Ti
chiedi come sia possibile che non ci si accorga di una cosa del genere.
Mentre guidi, arrivi a un incrocio e ti fermi al semaforo. C'è molta gente
che aspetta di attraversare. Noti un gruppo di ragazzi che si inseguono
correndo avanti e indietro attraverso la strada. Appena il semaforo di­
venta verde parti accelerando. Attraversando l'incrocio odi un grido e
senti un colpo.

1 87
La teoria

A questo punto gli sperimentatori chiedevano ai soggetti di indica­


re le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente.
Poi ai soggetti erano presentate delle informazioni del tipo: " Guardi
nello specchietto retrovisore e vedi una buca " , cioè un'informazione
proveniente dalla realtà percepita visivamente e che suggeriva una spie­
gazione del colpo rassicurante e alternativa all'aver investito un passan­
te. A questa informazione ne seguiva un'altra: "La buca potrebbe non
essere stata profonda abbastanza da causare il colpo" , che riguardava
una possibilità astratta, non sostenuta dai fatti percepiti e contraria alla
rassicurazione precedente. Seguivano altre due coppie d'informazioni
in cui si alternavano informazioni rassicuranti, provenienti dalla realtà
percepita attraverso i sensi; e informazioni allarmanti, riguardanti pos­
sibilità astratte. Dopo ognuna si chiedeva ai partecipanti di rivalutare
le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente. I
risultati sono stati che i pazienti ossessivi aumentavano le probabilità
attribuite all'incidente molto più dei controlli, soprattutto dopo che
avevano ricevuto informazioni su possibilità astratte e, a differenza dei
controlli, non tenevano in gran conto le informazioni provenienti dalla
realtà percepita. Secondo gli autori ciò dimostrerebbe la tesi della infe­
rential confusion. Tuttavia, nell'esperimento c'è un possibile baco. In­
fatti, a ben vedere, le informazioni di realtà erano sempre rassicuranti
mentre quelle astratte erano sempre di pericolo. Quindi è possibile che
i pazienti ossessivi abbiano dato peso alle informazioni astratte perché
erano informazioni congrue con i loro timori.
Gangemi, Mancini e Dar (2015), al fine di chiarire il dubbio, hanno
realizzato un esperimento che ha utilizzato lo stesso scenario e la stes­
sa procedura dell'esperimento originario, ma con una differenza. Nel
nuovo esperimento è stata invertita la valenza delle informazioni, cioè
quelle provenienti dai sensi erano di pericolo (''Guardi nello specchiet­
to retrovisore e non vedi alcuna buca nella strada" ) , mentre quelle ipo­
tizzare erano rassicuranti ( ''La buca potrebbe non essere visibile attra­
verso lo specchietto") .
L'esperimento così congegnato ha dato risultati contrari alle previsio­
ni della tesi della inferential confusion, ma compatibili con le Appraisal
Theories, cioè quelle teorie che attribuiscono a scopi e credenze un ruo­
lo cruciale nella spiegazione del DOC. I pazienti ossessivi, infatti, hanno
cambiato la probabilità attribuita all'evento temuto sulla base della va­
lenza delle informazioni ricevute (informazioni di pericolo o rassicuran­
ti) senza tener conto se queste provenivano dai sensi o se riguardavano
una possibilità astratta.

188
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

I pazienti ossessivi, quindi, sospettano, per esempio, che la porta di


casa sia aperta nonostante la vedano chiusa e nonostante possano toccar
con mano che è chiusa, non per una disfunzione cognitiva ma perché
elaborano le informazioni in modo congruo con le proprie preoccupa­
zioni. Vale a dire, come numerose altre ricerche suggeriscono (vedi ca­
pitolo III) congrue con il timore di doversi rimproverare di aver lasciato
aperta la porta di casa e dunque di aver facilitato l'ingresso dei ladri. Se
si teme di doversi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa,
allora è meglio non sottovalutare la possibilità che sia rimasta aperta,
anche se i sensi suggeriscono il contrario.

CONTROLLO INIBITORIO

Per controllo inibitorio si intende la capacità di controllare l'inter­


ferenza di stimoli irrilevanti al fine di perseguire l'obiettivo prefissato.
Negli ultimi decenni, i ricercatori hanno mostrato un crescente inte­
resse nello studio di tale costrutto (Bari, Robbins, 2013 ) , sviluppando
paradigmi neuropsicologici volti a esplorarlo compiutamente (Nigg,
2000).
li controllo inibitorio, tuttavia, non è un costrutto unitario. In par­
ticolare, il carattere intrusivo e ripetitivo dei pensieri ossessivi e la dif­
ficoltà a controllarli hanno suggerito l'ipotesi che i pazienti DOC abbia­
no un deficit nell'abilità a dismetterli o inibirli, un deficit nel controllo
dell'interferenza. Inoltre, alcuni autori hanno ipotizzato che nei pazienti
ossessivi sia deficitaria l'inibizione della risposta, cioè la capacità di in­
terrompere azioni preponderanti "inappropriate" , quali i rituali com­
pulsivi (Snyder, Kaiser, Warren et al, 2014; Chamberlain, Blackwell,
Fineberg et al., 2005 ) .
Al fine di investigare il primo aspetto, e in particolare l'ipotesi che nei
pazienti ossessivi vi sia un deficit nel controllo cognitivo necessario per
prevenire l'interferenza di stimoli (Nigg, 2000), sono stati utilizzati com­
piti quali lo Stroop test. Nella versione classica, durante l'esperimento di
Stroop, sono mostrate al soggetto delle parole scritte con colori diversi.
li compito consiste nel pronunciare a voce alta il colore dell'inchiostro
con cui è scritta la parola. Pertanto, il colore è l'informazione rilevante
per lo svolgimento del compito, mentre il significato della parola, che
non deve essere letto, è l'informazione non rilevante. L'effetto Stroop,
dunque, consiste nel produrre una risposta con latenza più lenta nel ca­
so della condizione incongruente (parola " rosso" scritta in verde) e più

189
La teoria

veloce nel caso della condizione congruente (parola "rosso" scritta in


rosso) . il test, nelle sue varie versioni, costituisce un classico indice di
capacità inibitoria.
Gli esperimenti che hanno utilizzato lo Stroop test mostrano risultati
contrastanti. Infatti, sebbene la maggioranza degli studi evidenzi per­
formance inferiori nei pazienti ossessivi, principalmente un aumento
dell'interferenza Stroop (Abramovitch, Dar, Schweiger et al., 201 1 ; Pe­
nades, Catalan, Andres et al. , 2005; Martinot, Allilaire, Mazoyer et al.,
1 990) , altri studi non hanno trovato differenze tra pazienti ossessivi e
campioni di controllo (Rao, Reddy, Kumar et al., 2008; Moritz, Birkner,
Kloss et al., 2002 ) .
Al fine di verificare l'ipotesi che i pazienti ossessivi abbiano più dif­
ficoltà dei soggetti non ossessivi a dimenticare e a sopprimere i pensie­
ri negativi, specialmente se attinenti al dominio sintomatico, rispetto ai
pensieri positivi o neutri, Wilhelm, McNally, Baer e collaboratori (1996)
hanno realizzato un esperimento di directed/orgetting. Nell'esperimen­
to, gli autori hanno mostrato una serie di parole positive, negative e
neutre a partecipanti con DOC e ai controlli, chiedendo loro, di volta in
volta, di ricordare o di dimenticare una determinata parola dopo aver­
la vista. I test di richiamo e di riconoscimento hanno evidenziato che i
pazienti DOC avevano più difficoltà a dimenticare le parole negative ri­
spetto a quelle positive o neutre, mentre i partecipanti di controllo non
presentavano tale difficoltà. Tolin, Hamlin e Foa (2002) hanno ripetuto
ed esteso questi risultati dimostrando che l'attinenza della parola al do­
minio sintomatico del DOC, piuttosto che il contenuto minaccioso in sé,
fosse predittiva della difficoltà a dimenticare.
È stato ipotizzato che una scarsa inibizione cognitiva possa compor­
tare una maggior frequenza di pensieri intrusivi, rendendo i tentativi
deliberati di sopprimere tali pensieri più difficoltosi. I risultati del di­
rected/orgetting esposti sono complementari a quelli di un altro studio,
nel quale è stata data l'istruzione ai partecipanti con DOC, con ansia so­
ciale e di controllo, di sopprimere il pensiero " orso" ed è stato misurato
se essi fossero in grado di riconoscere la parola "orso" rispetto ad altre
parole che non erano state soppresse (Tolin, Hamlin, Foa, 2002). I pa­
zienti con DOC avevano tempi di riconoscimento più veloci rispetto agli
altri gruppi, risultato che suggerirebbe la presenza di un deficit nell'a­
bilità di soppressione.
In letteratura, le prestazioni dei pazienti ossessivi differiscono a se­
conda del paradigma utilizzato per misurare l'inibizione della rispo­
sta (Abramovitch, Cooperman, 2015 ) . Infatti, il compito Go/No-Go

190
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

(Donders, 1 969) e il Continuous Performance Test (ePT) (Rosvold,


Mirsky, Sarason et al. , 195 6) sono utilizzati per investigare la capacità
di inibire un'azione, mentre lo Stop-Signa! Task (SST) (Logan, Cowan,
Davis, 1994) fornisce una misura della capacità di interrompere il flus­
so di un'azione in corso.
Nel compito Go/No-Go è chiesto ai soggetti di rispondere nella
maniera più veloce e accurata possibile agli stimoli (tipicamente delle
lettere) attraverso la pressione di un tasto; allo stesso tempo i soggetti
sono tenuti a inibire la risposta alla comparsa di uno stimolo diverso
dai precedenti. Così, un esempio di Go trial può essere costituito dal­
le lettere "A, B, C, D " , mentre il No-Go trial può essere rappresenta­
to dalla lettera "X". Essendo i No-Go trial in numero inferiore ai Go
trial, la risposta più spesso richiesta è premere il tasto, mentre la rispo­
sta meno frequente è non premere il tasto. L'indice del controllo ini­
bitorio è dato dal numero di volte che si preme il tasto quando non si
dovrebbe, cioè dal numero di errori cosiddetti di commissione (Band,
van Boxtel, 1 999) .
Nel compito CPT è chiesto a i soggetti di identificare una specifica let­
tera tra le lettere presentate al ritmo di circa una al secondo. In partico­
lare, tra tutte le lettere presentate, il soggetto deve identificare la lettera
X. Nella seconda condizione, il soggetto deve dare una risposta solo se
la lettera X è preceduta dalla lettera A.
Solo una minoranza degli studi che ha utilizzato il compito Go/No­
Go o il CPT ha evidenziato un numero di errori di commissione più alto
nei pazienti DOC rispetto ai soggetti non-DOC (Ghisi, Battesi, Freeston
et al., 2013 ; Abramovitch, Dar, Schweiger et al. , 201 1 ; Penades, Cata­
lan, Rubia et al., 2007 ) ; mentre la maggioranza degli studi ha riporta­
to un numero simile di errori di commissione nel gruppo sperimenta­
le e in quello di controllo utilizzando il compito CPT (Krishna, Udupa,
George et al., 201 1 ; Tolin, Villavicencio, Umbach et al. , 201 1 ; Lee, Yost,
Telch, 2009; Ursu, Stenger, Shear et al. , 2003 ) e il compito Go/No-Go
(Thomas, Gonsalvez, Johnstone, 2013 ; Page, Rubia, Deeley et al. , 2009;
Bohne, Savage, Deckersbach et al., 2008; Watkins, Sahakian, Robertson
et al., 2005 ) .
Rasmussen, Siev, Abramovitch e collaboratori (2016) hanno utilizza­
to il compito Go/No-Go in pazienti DOC che presentavano soltanto os­
sessioni di contaminazione. Gli autori non hanno riscontrato differenze
nei tempi di reazione, errori di commissione e omissione tra campio­
ne sperimentale e di controllo. I risultati confermano studi precedenti
condotti su pazienti DOC con sole ossessioni di contaminazione, i quali

191
La teoria

riportano performance neuropsicologiche simili ai controlli (Nakao,


Nakagawa, Nakatani et al. , 2009; Cha, Koo, Kim et al. , 2008) o per­
sino migliori performance neuropsicologiche (Hashimoto, N akaaki,
Omori et al. , 2 0 1 1 ) .
Ghisi, Battesi, Freeston e collaboratori (20 13 ) hanno notato che la
performance in compiti del tipo Go/No-Go è peggiore nei soggetti con
alta sensibilità alla Not Just Right Experience, che indica la sensibilità
agli errori di performance e che è elevata nei pazienti ossessivi.
Per quanto riguarda lo Stop-Signal Task, in un tipico esempio è chie­
sto ai partecipanti di svolgere un compito durante il quale, occasionai­
mente e in maniera casuale, è presentato un segnale di stop. I soggetti,
alla comparsa del segnale di stop, devono interrompere lo svolgimento
del compito. li compito assegnato consiste nel ripetere velocemente let­
tere dell'alfabeto (Friedman, Miyake, 2004) o parole che sono presenta­
te in successione rapida, casuale e con la stessa probabilità di comparsa
(Aron, Fletcher, Bullmore et al. , 2003 ) . Quando la comparsa del target
è accompagnata dallo stop-signa!, il soggetto deve inibire la risposta mo­
toria, cioè la ripetizione della lettera o della parola.
La maggioranza degli studi ha evidenziato una riduzione della perfor­
mance in questo compito da parte dei pazienti ossessivi rispetto ai sog­
getti di controllo, ma alcuni studi hanno riscontrato performance simili
nei due gruppi (de Wit, de Vries, van der Werf et al., 2012; Penades, Ca­
talan, Rubia et al. , 2007; Chamberlain, Blackwell, Fineberg et al. , 2005).
Tuttavia, sempre utilizzando lo Stop- Signal Task, Linkovski,
Kalanthroff, Henik e collaboratori (20 1 5 ) hanno voluto esplorare, in
un campione non clinico, gli effetti del checking ripetuto e della familia­
rità sulla capacità di inibizione della risposta. Gli autori hanno riscon­
trato come la familiarità comprometta l'inibizione della risposta verso
stimoli familiari, ma non verso stimoli nuovi. In particolare, i risulta­
ti dell'esperimento dimostrano che il checking ripetuto non influenza
l'abilità generale di inibizione della risposta, mentre la familiarità di
uno stimolo riduce la capacità di interrompere le risposte rivolte allo
stimolo stesso. Questo si evince dall'aumento della percentuale di er­
rori verso gli stimoli familiari rispetto a quelli non familiari e dai più
brevi tempi di reazione nei Go trial. I risultati dell'esperimento sugge­
riscono che l'inibizione della risposta sia inficiata da comportamenti
che rendono gli stimoli più familiari, come sono quelli che attivano le
compulsioni.
Differenze metodologiche tra gli studi che hanno esaminato il co­
strutto dell'inibizione della risposta possono contribuire ai risultati con-

192
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

trastanti ottenuti in questo dominio. Come accennato, infatti, nel com­


pito Go/No-Go viene chiesto ai partecipanti di non rispondere allo
stimolo No-Go, mentre il compito SST implica l'interruzione di un'a­
zione in corso (Eagle, Bari, Robbins, 2008) .
Ricerche recenti hanno suggerito che vi sono differenti substrati neu­
rali e correlati neurochimici associati al costrutto dell'inibizione del­
la risposta e che vengono misurati dal Go/No-Go, CPT o dal SST (Van
Velzen, Vriend, de Wit et al. , 2014; Swick, Ashley, Turken, 201 1 ; Eagle,
Bari, Robbins, 2008).
A causa dei risultati contrastanti delle ricerche, delle variazioni nella
metodologia utilizzata e del non sempre chiarissimo significato clinico
(una compulsione di lavaggio è davvero equiparabile a un compito Go/
No-Go?), la presenza di un deficit di inibizione della risposta e il suo
eventuale ruolo nell'eziologia del DOC è oggetto di controversie. Pertan­
to sono state suggerite spiegazioni alternative.
Abbiamo visto come il deficit inibitorio consista nella difficoltà di ini­
bire stimoli interferenti con l'attività diretta a un obiettivo. Ma diversi
autori si chiedono se dare retta a certi pensieri intrusivi che preoccupano
il paziente sia un dirottamento dagli obiettivi più importanti per il pa­
ziente stesso o sia, al contrario, un modo per perseguirli. Immaginiamo,
per esempio, un paziente ossessionato dalla possibilità di essere una per­
sona blasfema. Supponiamo che una bestemmia intruda nella sua mente
ed egli rivolga la sua attenzione a essa e si impegni in ruminazioni tese
a stabilire se effettivamente avesse avuto l'intenzione di offendere Dio,
distogliendosi dal compito che stava svolgendo, per esempio corregge­
re gli elaborati dei suoi studenti. Si può legittimamente affermare che
abbia avuto difficoltà a inibire il pensiero intrusivo o che, al contrario,
dal suo punto di vista, abbia avuto buoni motivi per spostare l' attenzio­
ne dalla correzione degli elaborati alla possibilità di essere una persona
blasfema? È ragionevole affermare questa seconda possibilità poiché,
per lui, rassicurarsi di non aver offeso Dio è uno scopo ben più impor­
tante della correzione dei compiti.
Analogamente, a proposito di inibizione comportamentale, e dun­
que per quanto riguarda le compulsioni, supponiamo un paziente osses­
sionato dalla contaminazione, nella cui mente intruda il ricordo di aver
toccato qualcosa di contaminato, per esempio i soldi che il giornalaio
gli ha dato di resto, e che, per questo, inizi dei rituali di lavaggio, ab­
bandonando l'attività che stava svolgendo, per esempio terminare una
pratica d'ufficio. Anche in questo caso, si può legittimamente dire che
non è riuscito a inibire le compulsioni di lavaggio a causa di un deficit?

193
La teoria

A ben vedere, per lui proteggersi dallo sporco è una priorità, e dunque,
perché dovrebbe inibire le compulsioni a favore di un compito che, in
quel momento, gli appare meno importante? Si potrebbe obiettare che
in molti casi il paziente voglia interrompere le compulsioni ma non ci
riesca. Come abbiamo visto nei primi capitoli, quest'evenienza può es·
sere spiegata in modi diversi dal deficit delle capacità inibitorie e, forse,
migliori perché meno ad hoc. La difficoltà a resistere alle compulsioni
è spiegabile, come è spiegabile la difficoltà di resistere alle tentazioni in
generale. Come ampiamente dimostrato da Ainslie ( 1 992, 2001), si de­
ve tener conto del fenomeno noto come temporal discounting (vedi an­
che capitolo IV): il valore che il paziente attribuisce all'evento critico,
per esempio il pensiero blasfemo intrusivo o il ricordo di un contatto
contaminante, aumenta quando si confronta con l'evento e diminuisce
quando la distanza temporale aumenta. Pertanto, il paziente ritiene che
sarebbe stato più importante non farsi distrarre dal pensiero ossessivo
e continuare l'attività in corso, quando l'evento critico è lontano; pensa
il contrario quando ne è a ridosso.
Si potrebbe obiettare che, a volte, i pazienti ossessivi mentre sono
impegnati nelle compulsioni, tentino di inibirle senza riuscirei. Il falli­
mento dei tentativi di inibire i pensieri intrusivi e le compulsioni men­
tali è spesso legato al fenomeno " orso bianco" (Wegner, Schneider,
Carter et al. , 1 987 ) , vale a dire che i tentativi di sopprimere i pensieri
hanno l'effetto paradossale di aumentarli. Il fallimento dei tentativi
di inibire le compulsioni, comportamentali e mentali, può dipende­
re anche dal fatto che il paziente non sia disposto a pagare il rischio
soggettivo di non metterle in atto. Come se cercasse di imporsi uno
stop, senza accettare i costi dello stop stesso. I costi sono la minaccia
rappresentata dall'evento attivante e le relative emozioni negative che
essa comporta.
"Nella pratica clinica è frequente osservare la capacità, da parte dei
pazienti ossessivi, di posticipare o interrompere i rituali in determinate
circostanze (per esempio, per evitare l'imbarazzo) . Tale capacità rap­
presenta la prova che l'abilità di inibire tali comportamenti è integra"
(Abramovitch, Abramowitz, 2014, p. 253 ) .
In conclusione, "le compulsioni nel disturbo ossessivo non sono atti
impulsivi involontari che dipendono da un'incapacità dell'individuo di
inibire la risposta. Al contrario, le compulsioni sono atti pianificati ed
eseguiti con precisione e solitamente programmati con precisione in ri­
sposta alle ossessioni" (ibidem) .

194
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

RIFLESSIONI E CONCLUSIONI

Due fatti concorrono a suscitare interesse per il ruolo dei deficit co­
gnitivi nelle spiegazioni del DOC. In primo luogo, appaiono facilmente
compatibili con l'approccio neurologico al DOC, cioè con l'idea che il
DOC sia la manifestazione di una patologia del SNC e, in secondo luo­
go, sono suggeriti da alcuni aspetti della sintomatologia ossessiva. Per
esempio, la ripetizione dei controlli di un paziente fa venire in mente,
senza grandi difficoltà, che alla base ci possa essere un deficit della ca­
pacità di ricordare l'esito dei controlli. Analogamente, un paziente che
riferisce di non essere sicuro di aver visto il rubinetto del gas chiuso o di
averlo immaginato, suggerisce un deficit della capacità di discriminare
fra fatti percepiti attraverso i sensi e le proprie immagini mentali. Come
pure l'ipotesi che il paziente sia affetto da una distorsione del processo
con cui si compiono inferenze può essere suggerita dall'osservazione
che egli dia maggior credito a possibilità astratte, non suffragate da al­
cun dato sensibile, per esempio che sulla maniglia della porta di un bar
vi siano tracce di escrementi, rispetto a possibilità sostenute da dati di
realtà provenienti dai suoi stessi sensi, cioè che non ci siano escrementi
perché non se ne vede alcuna traccia e non se ne sente il minimo odo­
re.1 L'ipotesi di un deficit di inibizione cognitiva e comportamentale è
suggerita dal fatto che i pazienti faticano a inibire i pensieri intrusivi e
le compulsioni.
Nonostante l'interesse che le teorie del deficit possono suscitare, so­
no possibili tre tipi di critiche.
• I deficit cognitivi non rappresentano una condizione sufficiente per

rendere conto dei sintomi ossessivo-compulsivi, giacché non spiegano:


- perché i sintomi sono dominio-specifici; ammesso che, per esempio
Giovanni, soffrisse di un deficit di memoria che gli rendeva difficile
ricordare di aver chiuso il rubinetto del gas, e che per questo tornava
indietro a controllare più volte, come si spiega che non avesse pro­
blemi se si trattava di ricordare di aver firmato un assegno?
l. L'inferential confusion presuppone, implicitamente, che la mente umana, sana e norma­
le, proceda, nel costruire le proprie credenze, come dovrebbe procedere uno scienziato che si
ispira ai principi dell'empirismo inglese, vale a dire derivandole dall'esperienza sensibile. L'in­
ferential confusion presuppone, sempre implicitamente, che derogare da questa procedura e
fondare le proprie credenze sul ragionamento, sia anomalo e patologico. Perciò, credere, sen­
za prove provenienti dai sensi, che sulla maniglia della porta di un bar vi possano essere tracce
di escrementi, lasciate da chi non si è lavato le mani dopo avere usato la toilette, sarebbe frutto
di una distorsione cognitiva e non una supposizione realistica, alla quale si può dare un peso
maggiore o minore.

195
La teoria

- perché i sintomi si riducono o si accentuano a seguito dell'aumento


o della diminuzione della responsabilità (Arntz, Voncken, Goosen,
2007 ; Shafran, 1 997 ; Lopatcka, Rachman, 1995 ) .
la complessità della fenomenica ossessiva, per esempio la sensibilità
al disgusto, alla NJRE, l'ansia per pensieri blasfemi; il deficit di memo­
ria potrebbe rendere ragione del perché le compulsioni si ripetano
a lungo, ma non del perché lo sporco, il disordine o alcuni pensieri
turbino così tanto i pazienti ossessivi.
È evidente che, quand'anche fosse coinvolto un deficit cognitivo,
questo non sarebbe sufficiente a spiegare la sintomatologia ossessiva.
Sarebbe comunque necessario ricorrere a scopi e credenze del pazien­
te che, interagendo con i presunti deficit, possano rendere conto della
fenomenica ossessiva e delle sue variazioni nei diversi domini e condi­
zioni di responsabilità.
A sostegno dell'insufficienza delle teorie del deficit e della necessità di
introdurre anche altri costrutti esplicativi, si aggiungono due considera­
zioni. La prima è che microdeficit neuropsicologici sono stati riscontrati
in diversi disturbi dell'umore, d'ansia e del comportamento alimentare
(Abramowitz, 2006; Alarcon, Libb, Boli, 1994 ) , e ciò dimostra che, se
si vuole rendere ragione delle molteplici sintomatologie psicopatologi­
che, è necessario introdurre altri costrutti. La seconda è che se i deficit
fossero una condizione sufficiente per il DOC, allora non si spiegherebbe
l'efficacia della terapia cognitiva e comportamentale, che certamente è
diversa da un intervento riabilitativo finalizzato a ridurre un deficit co­
gnitivo (Abramowitz, 2006) .
• I supposti deficit cognitivi non sono nemmeno una condizione neces­
saria per i sintomi DOC. Numerosi studi hanno dimostrato la possibilità
di indurre sintomi simil-ossessivi in soggetti non clinici, che quindi sono
ragionevolmente privi di deficit cognitivi. A titolo di esempio, citiamo il
lavoro di D'Olimpio e Mancini (2014) che hanno riscontrato come sia
sufficiente indurre un timore di colpa deontologica, in soggetti senza
deficit cognitivi, per avere comportamenti di controllo e lavaggio simili
a quelli presenti nei pazienti ossessivi. Questo studio, come diversi altri
citati nel capitolo II, suggerisce che la presenza di deficit non sia neces­
saria per avere una sintomatologia ossessiva.
• Esistono davvero deficit cognitivi nei pazienti ossessivi?
Abramovitch, Abramowitz e Mittelman (2013) hanno condotto una
meta-analisi su 1 15 studi che si sono occupati di investigare disfunzioni

196
Deficit cognitivi e disturbo ossessivo-compulsivo

neuropsicologiche e cognitive in 3252 pazienti DOC, concludendo che


vi è scarsa evidenza che deficit neuropsicologici o fattori neuropsicolo­
gici possano essere considerati causa o concausa del DOC. La ricerca, a
oggi, non supporta questa tesi e l'ipotesi dell'inferential confusion, in
particolare, è stata falsificata da risultati sperimentali (Gangemi, Man­
cini, Dar, 2015).
Al contrario, la ricerca sui deficit cognitivi dimostra che gli stessi pos­
sono essere una conseguenza dei pensieri intrusivi o dell'ansia di com­
mettere errori (Abramowitz, 2006). Su questa linea, Clayton, Richards
e Edwards ( 1 999) hanno dimostrato che i pazienti ossessivi presentano
performance inferiori rispetto ai soggetti di controllo e a quelli con di­
sturbo di panico, nei compiti a tempo, ma non in quelli non a tempo.
Questo risultato fa emergere la possibilità che eccessiva cautela e len­
tezza nella risposta, piuttosto che un deficit, inficino l'esito della perfor­
mance stessa (Abramowitz, 2006). Tenendo in considerazione tale ipo­
tesi, è plausibile che i pazienti mostrino tempi di reazione più lenti nei
test neuropsicologici a causa di un problema di indecisione. È possibi­
le, quindi, che le ridotte performance dei pazienti ossessivi, nei compi­
ti sperimentali, dipendano, non da un deficit cognitivo, ma dallo stato
mentale ed emotivo del paziente.

197
x

LA VULNERABILITÀ
NEL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
Katia Tenore

PREMESSA

In questo capitolo esploreremo le condizioni che rendono una perso­


na vulnerabile allo sviluppo del DOC. In particolare, porremo attenzio­
ne alle esperienze di vita, soprattutto di natura relazionale, che contri­
buiscono a una rappresentazione catastrofica della colpa deontologica,
che, in accordo con la tesi di questo volume, rappresenta una condizio­
ne specifica e necessaria per lo sviluppo del DOC.
Non reputiamo di particolare interesse, per la comprensione dello
stato mentale del paziente ossessivo, l'analisi di quei fattori di vulnera­
bilità, causali e correlati, aspecifici, quali i fattori sociali, demografici o
genetici, che si collocano all'esterno del campo di comprensione psico­
logica e dunque di applicazione psicoterapeutica.

IL CONCETTO DI VULNERABILITÀ

Lo sviluppo di una patologia non è determinato dalla presenza di un


unico fattore. Se questo assioma caratterizza la scienza medica in genera­
le, risulta ancora più veritiero nell'ambito della salute mentale (Cicchet­
ti, Sroufe, 2000) . La catena di eventi, che esita in una condizione patolo­
gica, include sia cause distali sia prossimali. I fattori prossimali agiscono
come cause dirette o quasi dirette del problema, mentre le cause distali
si collocano anteriormente nella catena causale e non agiscono attraverso
influenze dirette, ma attraverso numerose cause mediatrici (WHO, 2013) .
I fattori che conducono allo sviluppo di una patologia, dunque, pre­
sentano le loro radici in una complessa catena di eventi che possono es­
sersi presentati anni prima dell'esito morboso.

1 99
La teoria

Il concetto di vulnerabilità, in generale, fa riferimento a tutti quegli


elementi di debolezza di un sistema, su cui un eventuale attacco ester­
no produrrebbe più facilmente un danno. Il termine vulnerabile deriva
dalla parola latina vulnus che letteralmente significa ferita. Vulnerabile
è, dunque, tutto ciò che è esposto alla possibilità di essere ferito, vio­
lato o danneggiato. È importante sottolineare che con l'aggettivo vul­
nerabile si indica una condizione potenziale e non una già in atto, nel
senso che è vulnerabile chi potrebbe essere danneggiato, non chi lo è o
lo sarà con certezza.
In psichiatria, con il concetto di vulnerabilità, sono indicati tutti quei
fattori che possono indurre lo sviluppo di un disturbo mentale.

FATTORI DI RISCHIO

I fattori di rischio sono quelle condizioni che, se presenti, rendono un


individuo, piuttosto che un altro, estratto a caso dalla popolazione gene­
rale, più incline a sviluppare un disturbo (Werner, Smith, 1992; Garmezy,
1983 ) . Si tratta di variabili che si caratterizzano per essere anteceden­
ti all'esordio del disturbo e la cui presenza aumenta la probabilità di
sviluppare il disturbo. Alcuni fattori di rischio possono rappresentare
delle cause non sempre identificabili prima dell'esordio, in altri casi i
fattori di rischio sono semplicemente dei correlati che segnalano la po­
tenzialità del disturbo di manifestarsi, ma non la determinano (Mrazek,
Haggerty, 1994 ) . Nella letteratura sul DOC i termini " fattori di rischio"
e "correlati" sono spesso utilizzati in maniera interscambiabile, dando,
a volte, origine a fraintendimenti. Secondo Kraemer, Kazdin, Offord e
collaboratori ( 1997 ) , che si sono occupati di fare chiarezza sull'argomen­
to, la terminologia "fattore di rischio" è giustificabile se l'esistenza di un
dato fattore è antecedente la condizione d'interesse clinico. Nel caso in
cui l'antecedenza non può essere dimostrata, sia concomitante sia cor­
relato sono termini appropriati (Kraemer, Kazdin, Offord et al. , 1997).
L'analisi dei fattori di rischio può essere soggetta a bias, in quanto
le popolazioni in cui le associazioni vengono misurate spesso sono un
sottogruppo delle popolazioni cliniche che si intende studiare. Questo
elemento risulta particolarmente determinante se si pensa al fatto che la
ricerca di aiuto, in particolare in contesti di assistenza privata, può essere
influenzata anche da fattori demografici quale lo status socioeconomico
e il livello di istruzione, comportando quindi lo studio di popolazioni
autoselezionate e pertanto non rappresentative.

200
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo

In una revisione sistematica della letteratura sull'epidemiologia del


DOC, Fontenelle e Hasler (2008) hanno cercato di descrivere correla­
ti e fattori di rischio causali associati con lo sviluppo del DOC. L'analisi
ha riguardato caratteristiche demografiche (quali età, genere, impiego,
stato civile, scolarità, razza e stato socioeconomico) , fattori ambientali
(quali stagione di nascita, ordine di genitura, composizione familiare,
complicazioni in gravidanza o al parto, abuso di sostanze ed eventi di
vita, inclusi quelli traumatici) e condizioni in comorbilità.
Dallo studio emerge che le persone a più alto rischio di sviluppare un
DOC sono i tardoadolescenti e persone che presentano nella loro storia
di vita pochi eventi desiderabili oppure eventi fortemente indesidera­
bili, inclusi problemi perinatali.
Sono a più alto rischio di sviluppare un DOC coloro che sono disoc­
cupati, specialmente se donne.
Persone che fanno uso di sostanze in generale e che utilizzano con­
temporaneamente cocaina e marijuana o che presentano una storia di
abuso di sostanza sembrerebbero essere più esposte allo sviluppo del
DOC, come anche coloro che presentano una diagnosi di depressione
maggiore, disturbi bipolari, disturbi fobici, ADHD, tic, ansia da separa­
zione nell'infanzia o una storia familiare positiva per il DOC.
Gli autori prendono anche in considerazione l'infezione da strepto­
cocco, che sembrerebbe dare il via al DOC in alcune popolazioni cliniche
(Swedo, Leonard, Garvey et al. , 1998; Swedo, Rapoport, Cheslow et al.,
1989), ma non esistono studi sulla popolazione generale.
Gli autori (Fontenelle, Hasler, 2008) sottolineano anche l'importan­
za di fare attenzione alla definizione di correlati quando si considerano
i dati relativi all'impiego, allo stato socioeconomico e al livello intellet­
tivo, in quanto potrebbero essere effetti del disturbo e quindi non par­
ticolarmente informativi. Sarebbe più opportuno stimare la gravità del
DOC rispetto a disfunzioni socioeconomiche o intellettive, valutando, per
esempio, se la depressione associata dà ragione anche degli svantaggi
sociali fra pazienti con DOC.

RESILIENZA

Negli ultimi anni, oltre all'analisi dei fattori di rischio, un filone di


ricerca derivato dalla psicologia dello sviluppo ha cercato di rilevare gli
elementi che costituiscono dei fattori protettivi, potenzialmente capaci
di moderare gli effetti dello stress, di contribuire a promuovere il benes-

201
La teoria

sere psicologico e di prevenire lo sviluppo della psicopatologia anche


in caso di esposizione a fattori stressanti (Masten, Reed, 2002; Luthar,
Cicchetti, Becker, 2000; Rutter, 2000) .
In generale sono riconosciute tre categorie di fattori protettivi: l) le
disposizioni personali, 2) la coesione familiare e 3 ) le risorse sociali ester­
ne all'ambito familiare (Garmezy, 1993 ; Werner, 1993 , 1989).
In uno studio di Hjemdal, Vogel, Solem e collaboratori (20 1 1), su una
popolazione di adolescenti, la resilienza (misurata in termini di compe­
tenza personale, competenza sociale, stile strutturato, risorse familiari
e coesione familiare) è negativamente correlata con i sintomi ossessivo­
compulsivi.
In uno studio su un campione di adolescenti cinesi (Sun, Li, Buys et
al., 2014) è confermata la stessa relazione tra resilienza e sintomatologia
ossessiva. Gli adolescenti cinesi con buone disposizioni personali e con
un buon supporto sociale a scuola hanno minori probabilità di presenta­
re un disturbo ossessivo, laddove livelli più bassi degli stessi fattori sono
stati associati con la sintomatologia ossessiva. Nello studio, la resilienza
spiega oltre il 44 % della varianza dei sintomi ossessivi. La componen­
te della resilienza che sembra avere un maggior peso nella spiegazione
della varianza è quella relativa alle disposizioni personali, con una com­
ponente del 40,9 % . Il contributo dell'ambiente scolastico e dell'unità
familiare è basso, con circa il 2,5 % e 1 ,0 % della varianza.
Partendo da tali risultati gli autori (Sun, Li, Buys et al., 2014) affer­
mano che le disposizioni personali, quali una motivazione verso obiet­
tivi irrealistici, inflessibilità e bassi livelli di autostima, giocano un ruolo
centrale nello sviluppo del DOC.

FAMILIARITÀ ED ENDOFENOTIPO

Una delle prospettive attraverso cui è stata osservata l'eziopatogenesi


del DOC è quella genetica. Motivazione a sostegno dell'ipotesi genetica
è la prevalenza di una diagnosi di DOC tra familiari di primo grado di
persone affette dalla stessa patologia, che varia dall' l all' 1 1 ,7 % , mentre
quella tra controlli sani varia da O a 2 ,7 % (Fyer, Lipsitz, Mannuzza et
al., 2005 ; Lipsitz, Mannuzza, Chapman et al. , 2005 ; Nestadt, Samuels,
Riddle et al. , 2000; Pauls, Alsobrook, Goodman et al. , 1995; Black, No­
yes, Goldstein et al., 1992; McKeon, Murray, 1 987). Un risultato simile è
stato ritrovato anche tra persone che non fanno richiesta di trattamento,
in cui la diffusione del DOC tra parenti di primo grado di persone affette

202
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo

da DOC è del 10,3 % , mentre tra le persone non affette è del 2 % (Grabe,
Ruhrmann, Ettelt et al., 2006).
Connesso al tema della genetica è il concetto di endofenotipo, che fa
riferimento a tratti misurabili, di natura sia biologica sia cognitiva, che rap­
presentano una variabile intermedia che connette i geni a un determinato
disturbo. Secondo Gershon e Goldin ( 1986) una caratteristica, per essere
definita endofenotipica, deve necessariamente soddisfare certi criteri. In
particolare, secondo gli autori, l' endofenotipo dovrebbe rappresentare
una caratteristica che si rintraccia maggiormente nelle famiglie di persone
affette rispetto alla popolazione generale, deve essere ereditabile e stato­
indipendente, cioè manifesta nell'individuo anche se il disturbo non è atti­
vo, e deve co-segregare all'interno delle famiglie. Secondo Kendler e Neale
(2010) gli endofenotipi che soddisfano questi criteri possono sia mediare
tra geni e fenotipo clinico su un percorso causale, oppure essere indica­
tori di rischio, che condividono una serie di geni con il fenotipo clinico.
La letteratura scientifica ha individuato, come endofenotipi candida­
ti per il DOC, aspetti neurocognitivi quali deficit del controllo inibitorio
(Chamberlain, Fineberg, Menzies et al. , 2007 ) , deficit nel set-shzfting
(Viswanath, Reddy, Kumar et al., 2009; Chamberlain, Fineberg, Menzies
et al. , 2007 ) , disfunzioni della corteccia orbita frontale (Chamberlain,
Menzies, Hampshire et al. , 2008 ) , deficit nella pianificazione, nella
working memory (Delorme, Goussé, Roy et al., 2007) e nel processo di
decision making (Viswanath, Reddy, Kumar et al. , 2009) .
Per quanto concerne invece le componenti cognitive, Taylor e Jang
(2011) hanno cercato di approfondire il ruolo giocato dalle credenze os­
sessive nella sintomatologia ossessiva in un ampio campione di gemel­
li. Nello specifico gli autori hanno ipotizzato e messo a confronto tre
modelli di spiegazione. Nel primo modello fattori genetici e ambientali
influenzerebbero credenze e sintomatologia ossessiva e le credenze, a
loro volta, influenzerebbero la gravità dei sintomi. Il secondo modello
sostiene, invece, l'ipotesi che i sintomi causino le credenze. Nell'ultimo
invece si suggerisce l'idea che le credenze e i sintomi siano causati da
fattori comuni, genetici e ambientali, e che i sintomi non siano causa­
ti dalle credenze. Attraverso l'utilizzo della metodologia dei modelli di
equazioni strutturali, gli autori concludono che il modello più rappre­
sentativo è il primo, sottolineando il ruolo eziologico che le credenze
disfunzionali svolgono nello sviluppo del DOC.
Le credenze ossessive sembrano giocare un ruolo importante anche
nel cambiamento della sintomatologia ossessiva nel corso del tempo. In
uno studio prospettico (Coles, Horng, 2006), un campione di studenti

203
La teoria

è stato valutato a distanza di sei settimane rispetto a credenze ossessi­


ve, eventi di vita e sintomatologia ossessiva. Dallo studio emerge che le
credenze ossessive e gli eventi di vita avversi sono entrambi predittori
del cambiamento residuo nel corso delle sei settimane. Questi risultati
sono in linea con uno studio successivo (Coles, Pietrefesa, Schofield et
al. , 2007) in cui è mostrato che le credenze ossessive predicono la gravità
della sintomatologia ossessiva futura, per esempio a sei mesi di distan­
za. Lo stesso dato non è stato confermato in uno studio successivo, con
l'eccezione dell' inflated responsibility o responsabilità esagerata (N ava­
ra, Pastore, Ghisi et al. , 201 1 ) .
U n importante fattore cognitivo coinvolto nelle fluttuazioni sintoma­
tologiche, nel corso del tempo, è il senso di responsabilità. In particolare
è stato notato come alcuni eventi di vita ordinari e comunemente rico­
nosciuti come non avversi, quali per esempio il matrimonio, la nascita di
un figlio e il post-partum, possono essere delle condizioni in cui il livello
di responsabilità percepita aumenta. L'influenza delle credenze ossessive
sui sintomi del DOC è stata studiata da Abramowitz, Khandker, Nelson
e collaboratori (2006), che hanno analizzato, sia nella fase della gravi­
danza sia nel post-partum, un campione di futuri genitori, in attesa della
nascita del primo figlio. Dallo studio è emerso che le credenze ossessive
presenti prima del parto sono predittori dei sintomi ossessivi nel post­
partum. Questa relazione è stata osservata solamente in alcune delle di­
mensioni della sintomatologia ossessiva, in particolare nella dimensio­
ne del checking, del washing e nelle ossessioni pure, ma non per quanto
riguarda i comportamenti di neutralizzazione, ordine e accumulo.
In uno studio successivo, che ha preso in esame l'interpretazione dei
pensieri intrusivi sul bambino nel post-partum da parte di genitori di
un primogenito, Abramowitz, Nelson, Rygwall e collaboratori (2007)
hanno cercato di approfondire la modalità con cui le credenze ossessive
conducono ai sintomi del DOC. Lo studio ha dimostrato come le inter­
pretazioni negative di tali pensieri durante le prime settimane del post­
partum possano mediare la relazione tra credenze ossessive durante la
gravidanza e sintomi DOC nelle settimane successive del post-partum.

LA VULNERABILITÀ COGNITIVA

Come precedentemente affermato, è importante distinguere i fatto­


ri distali, presenti prima dell'insorgere del problema, dai fattori pros­
simali, che invece sono caratterizzanti il momento in cui la condizio-

204
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo

ne psicopatologica si presenta (Abramson, Metalsky, Alloy, 1 989) . I


fattori cognitivi distali consistono in predisposizioni cognitive, che
spesso agiscono in maniera automatica e che inducono l'individuo ad
affrontare le situazioni stressanti in una modalità maladattiva. In un
certo senso, questi fattori possono essere considerati come dei tratti,
in quanto stabili nel corso del tempo, e costituiscono dei temi salien­
ti del singolo individuo. Diversamente, i fattori cognitivi prossimali
sono situazionali e consistono in specifici pensieri o processi menta­
li che si presentano nel corso dell'episodio sintomatologico (Riskind,
Alloy, 2006) .
Nello specifico del DOC, i fattori cognitivi distali possono essere defi­
niti come quei temi centrali, presenti anche prima dell'espressione sin­
tomatologica, che caratterizzano la mente ossessiva e che sono comuni
a molti soggetti con sintomatologia DOC.
L'Obsessive Compulsive Cognitions Working Group (OCCWG,
1997) , ha cercato di identificare i domini cognitivi centrali nella sinto­
matologia del DOC, giungendo a identificarne: responsabilità esagerata,
controllo dei pensieri, importanza dei pensieri, sovrastima del pericolo,
intolleranza all'incertezza e perfezionismo. A partire da tale concettua­
lizzazione a sei fattori, è stato elaborato l'Obsessive Beliefs Question­
naire (OBQ-87 ; OCCWG, 2003 , 200 1 ) , ma la successiva osservazione di
un'elevata correlazione tra le scale ha condotto alla creazione di una
versione ridotta ( OBQ-44) che accorpa i sei domini in: responsabilità/
stima del pericolo, perfezionismo/ certezza e importanza/controllo dei
pensieri (OCCWG, 2005 ) .
Questi domini cognitivi sono centrali nella comprensione del di­
sturbo ossessivo e costituiscono delle lenti attraverso cui la persona in­
terpreta e valuta gli eventi che si presentano. Passano attraverso questi
filtri sia l'analisi degli eventi esterni, quali episodi situazionali o relazio­
nali, sia l'interpretazione degli eventi interni, quali pensieri, immagini
o sensazioni. La formazione delle credenze, che rappresentano quindi
i temi sensibili di una persona, si plasma dalla storia di vita del paziente
ed è strettamente connessa ai suoi valori e ai suoi scopi (Mancini, Bar­
caccia, 2014; Huppert, Zlotnick, 2012 ) .
Come discusso nei primi capitoli sono stati identificati, nella sinto­
matologia DOC, due scopi principali: la prevenzione della possibilità
di essere colpevoli e dell'entrare in contatto con sostanze disgustose.
Ma da dove nasce la necessità di prevenire queste condizioni? Qua­
li sono le esperienze che predispongono a focalizzarsi su questi scopi e
non su altri? Come sono apprese tali sensibilità?

205
La teoria

ESPERIENZE SENSIBILIZZANTI CONNESSE


AL TIMORE DI COLPA

Contesto interpersonale, atmosfera familiare e determinati stili edu­


cativi possono costituire l'humus in cui la vulnerabilità cognitiva al DOC
trae origine. Pochi sono i dati disponibili rispetto alla formazione di que­
sto tipo di sensibilità, ma, in generale, i teorici del modello cognitivista
del disturbo sottolineano che le assunzioni sono frutto di apprendimenti
legati a esperienze passate (Salkovskis, Shafran, Rachman et al. , 1999).
Di conseguenza, le esperienze precoci giocano un ruolo fondamentale
nel determinare credenze disfunzionali, alla base della sintomatologia
ossessiva, che si svilupperà successivamente, quando determinati eventi
stressanti andranno a incontrarsi con tale sensibilità.
Familiari di pazienti DOC presentano rigide credenze ossessive (Albert,
Barcaccia, Aguglia et al., 2015 ) , in particolare legate alla responsabilità
esagerata e alla sovrastima della minaccia (Rector, Cassin, Richter et al.,
2009) . Quando sono presi in considerazione i familiari di pazienti DOC
con esordio precoce, non solo tale effetto è maggiore, ma sono anche
presenti credenze ossessive legate al Perfezionismo e alla Intolleranza
all'incertezza.
Familiari di primo grado di pazienti DOC non differiscono dai con­
trolli rispetto al dominio cognitivo Importanza/Controllo dei pensieri,
suggerendo che questa credenza sia causalmente meno rilevante e si for­
mi successivamente, in risposta alle ossessioni.
L'osservazione clinica e la raccolta della storia di vita dei pazienti os­
sessivi rilevano ricorrenze e similitudini nelle descrizioni del clima fa­
miliare e delle tipologie di interazioni nella diade genitore-bambino, in
particolare nelle situazioni di disapprovazione del comportamento del
bambino. n clima familiare è descritto come rigido e caratterizzato da
una spiccata attenzione alla moralità e al comportamento normativa.
Inoltre sono spesso riportati racconti che evidenziano una sproporzione
tra quanto " commesso" dal bambino e la reazione genitoriale, esperita
come inspiegabile e violenta da parte del bambino. La reazione geni­
toriale alla trasgressione di una regola, non necessariamente già chia­
ra al bambino, risulta ai suoi occhi incongrua e talvolta accompagnata
da distanza affettiva e da una peculiare mimica facciale, rappresentata
dal "muso" . Si tratta di una strategia manipolativa, di tipo passivo-ag­
gressivo, che non rimanda al bambino solo l'inappropriatezza di un suo
comportamento, quanto la sua globale inaccettabilità e la minaccia della
continuità della relazione stessa. Una così grave minaccia potrebbe es-

206
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo

sere la spinta a comportarsi in maniera impeccabile, motivazi<;me tipica


della mente ossessiva. Inoltre, se al muso non segue una riconciliazio­
ne esplicita, la sensazione immediata è di un pericolo scampato, che da
un lato genera sollievo, ma dall'altro rafforza l'idea che esso non potrà
essere perennemente eluso. Di qui si struttura la necessità di anticipa­
re ogni eventuale mancanza e responsabilità. li problema risiederebbe,
quindi, sia in standard di condotta particolarmente severi sia nella rea­
zione genitoriale alla trasgressione della regola, condizione che può es­
sere anche interiorizzata in maniera indiretta, a partire dall'osservazione
del trattamento riservato a qualcun altro.
Un'atmosfera familiare caratterizzata da controllo e criticismo geni­
toriale, da aspettative elevate, dalla spinta verso standard perfezionisti­
ci, può contribuire alla creazione di credenze perfezionistiche nei figli
(Van Noppen, Steketee, 2009; Waters, Barrett, 2000).
L'inevitabile trasgressione di regole di condotta troppo rigide o lo
scostamento dagli standard perfezionistici proposti può determinare l'e­
sperienza di sentirsi colpevoli per non essere stati all'altezza o per aver
causato sofferenza nell'altro.
Doron e Kyrios (2005) affermano che l'esperienza di aspettative elevate
da parte dei genitori può determinare visioni di sé e del mondo rilevanti
nello sviluppo e nel mantenimento del DOC. Le precoci esperienze di at­
taccamento influenzerebbero le credenze centrali, le aspettative e le rap­
presentazioni sul sé e sul mondo, che ai pazienti DOC appare come peri­
coloso da un lato, ma come controllabile dall'altro (Doron, Kyrios, 2005 ) .
La formazione del senso di responsabilità esagerata è stata approfon­
dita in maniera pionieristica da Paul Salkovskis nel 1 999 (Salkovskis,
Shafran, Rachman et al., 1999) , che ha esaminato il ruolo delle esperien­
ze familiari nella formazione di credenze maladattive relative al tema del­
la responsabilità. Si tratta di condizioni in cui non viene trasferito ai figli
un atteggiamento adattivo rispetto all'idea di poter essere responsabili;
si assiste, infatti, alla polarizzazione verso l'iper-responsabilizzazione o
l'ipo-responsabilizzazione, condizioni che, sebbene opposte, determi­
nano, allo stesso modo, cognizioni disfunzionali su tale tema. Salkovskis
(ibidem) individua tre tipologie di esperienze che possono condurre a
questo tipo di condizione. In un caso, una figura significativa promuove
un precoce senso di responsabilità nel bambino. La seconda condizione
è invece legata a un clima familiare caratterizzato da rigidi codici di con­
dotta. Nella terza tipologia di esperienza, invece, è presente, nel corso
dell'infanzia, un'esenzione completa da qualsiasi tipo di responsabili­
tà, che comporta la successiva sensazione di incapacità di fronteggiare

207
La teoria

pericoli o rischi. La credenza maladattiv�, una volta creata, può restare


a lungo latente e interagire con successivi fattori stressanti, come per
esempio condizioni di aumento di responsabilità, quali la nascita di un
figlio o una promozione lavorativa.
Salkovskis (ibidem) individua, inizialmente, cinque percorsi che pos­
sono condurre a un senso di responsabilità esagerata.
n primo percorso fa riferimento a un tipo di esperienze infantili in cui
il senso di responsabilità è deliberatamente o implicitamente incorag­
giato. In alcuni nuclei familiari, viene chiesto ai bambini di assumere re­
sponsabilità che non sono proporzionate alla loro età, come per esempio,
quando a causa di un parenting inadeguato, al bambino viene imposto
di prendersi cura dei fratelli più piccoli o nel caso dei parental child. A
partire da questo tipo di esperienze, il bambino svilupperebbe un gran­
de senso di responsabilità, che si generalizzerà poi ad altri ambiti della
propria esistenza, come per esempio nel lavoro o in ambito sociale. Ciò
che spesso si osserva è che quando, a partire da un aumento del carico
di impegni, la persona non riesce a soddisfare gli standard interni di per­
fezionismo o coscienziosità, sperimenta sensazioni di fallimento e colpa.
Il secondo percorso che conduce a un senso di responsabilità esage­
rata è rintracciabile in quelle esperienze in cui il bambino assiste e inte­
riorizza rigidi codici di condotta e di dovere. L'impeccabilità del proprio
comportamento e dei propri pensieri subisce in questo caso un continuo
confronto con il modello interiorizzato che, essendo estremamente in­
flessibile, determina inevitabilmente una sensazione di inadeguatezza.
L'idea di poter peccare o di trasgredire una regola attraverso i pensie­
ri (sin by thought e thought action /usion) oltre che in ambito familiare,
secondo Salkovskis, può essere appresa anche attraverso altre agenzie
educative quali per esempio la scuola.
Un altro percorso infantile che può condurre a un senso di respon·
sabilità esagerata deriva da esperienze in cui la formazione di tale sen­
sibilità nasce dal non essere mai messi a confronto con essa. Nelle fa­
miglie in cui il livello di preoccupazione è elevato, i genitori, attraverso
un atteggiamento iperprotettivo, cercano di prevedere e prevenire ogni
condizione di possibile minaccia, assumendo quindi l'incapacità del
bambino di farne fronte. Questo atteggiamento può associarsi anche a
un'eccessiva indulgenza nei confronti del bambino, con una conseguen­
te incapacità di quest'ultimo a farsi carico delle proprie responsabilità.
La quarta strada fa riferimento a esperienze in cui una propria azione
o omissione comporta un danno reale per se stessi o per qualcun altro.
In questo caso si tratta di un concreto legame in termini di responsabi-

208
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo

lità con un determinato evento negativo, in cui è presente l'assunzione


di avere un ruolo in questo incidente.
L'ultima strada descrive esperienze in cui la persona immagina che a
causa di un suo pensiero o di una propria a21ione/ omissione qualcuno
abbia potuto subire un serio danno. Un esempio riportato dagli autori
descrive la circostanza in cui un bambino, arrabbiato con un adulto, ne
desidera la morte e a breve tale condizione si realizza. La thought action
/usion, è owiamente, estremamente coinvolta in questo tipo di percorso.
Partendo dalla teoria di Salkovskis, Shafran, Rachman e collaboratori
(1999), Coles e Schofield, (2008) hanno elaborato la Pathways to Infla­
ted Responsibility Beliefs Scale (PIRBS) , dalla quale è emerso però che i
pathways 3 e 4 saturano sullo stesso fattore e che una soluzione a quat­
tra fattori è preferibile. Le proprietà psicometriche della scala sono state
analizzate anche da uno studio successivo, che sostiene il ruolo di media­
zione della Responsabilità esagerata tra le esperienze infantili e la sinto­
matologia DOC (Smari, Thornorsteinsdottir, Magnusdottir et al. , 2010).
Approfondimenti successivi hanno mostrato che le condizioni di
aver realmente causato un danno o di autoattribuirsi la responsabili­
tà di aver causato un danno immaginario sono sovrapponibili (Coles,
Schofield, 2008).
Le persone che nel corso della propria infanzia hanno percepito una
pressione verso l'iper-responsabilizzazione o che si sentono responsabili
di aver provocato un danno reale o immaginario tendono a ritenersi mol­
to responsabili, temono di poter essere colpevoli e presentano più sintomi
ossessivi (Adams, 2012; Careau, O'Connor, Turgeon et al., 2012). In altre
parole la tendenza a ritenersi molto responsabili e a temere di essere colpe­
voli media la relazione tra le esperienze sensibilizzanti e i sintomi ossessivi.
Anche esperienze di " Incoerenza nel rinforzo" , condizioni in cui a
un'azione o a un'espressione del bambino seguono reazioni incoerenti,
sono allo stesso modo associate a elevati livelli di Responsabilità (Ca­
reau, O'Connor, Turgeon et al. , 2012) . I bambini che non riescono a
rintracciare una prevedibilità nella reazione genitoriale al proprio com­
portamento, non sviluppano particolari sensibilità legate all'intolleranza
all'incertezza, quanto piuttosto si sentono responsabili di dover preve­
nire la reazione genitoriale. Le condizioni in cui il bambino percepisce
la necessità di mettere i propri bisogni in secondo piano rispetto a quelli
degli altri, sono associate a elevati livelli di Perfezionismo in età adulta
(Careau, O'Connor, Turgeon et al. , 2012). Le esperienze di sociotropia
e percezione della minaccia risultano essere predittori dell'intolleranza
all 'incertezza. Esperienze di percezione della minaccia sono associate

209
La teoria

alla credenza di Sovrastima della minaccia dell'OBQ e, in generale, co­


stituiscono il maggiore predittore delle credenze ossessive totali. Sem­
brerebbe quindi che le esperienze che maggiormente si associano alle
credenze ossessive siano quelle caratterizzate da una continua sottoli­
neatura dei pericoli presenti nel mondo.
Diversi studi si sono occupati di analizzare quali siano le pratiche ge­
nitoriali maggiormente associate allo sviluppo di sintomi ossessivi. Trat­
tandosi molto spesso di informazioni retrospettive, non è possibile par­
lare di rapporti causali, tuttavia la letteratura scientifica sull'argomento
riporta associazioni specifiche.
Lo stile genitoriale, che caratterizza i report dei pazienti ossessivi, vie­
ne descritto come "autoritario" ed è associato sia con la sintomatologia
ossessiva sia con le credenze ossessive (Timpano, Keough, Mahaffey et
al., 2010). Mentre lo stile autoritario è associato con la sintomatologia
ossessiva, lo stile " autorevole" , caratterizzato da elevato calore e con­
trollo comportamentale, è negativamente correlato con la stima della
responsabilità o della minaccia e con l'importanza attribuita ai pensieri
o al loro controllo.
Guidano ( 1988), descrive la famiglia del futuro ossessivo come com­
posta da una figura marginale, che presenta minore rilievo emotivo e da
una figura dedita all'educazione morale e sociale del bambino. Sebbene
votato all'educazione del bambino, il comportamento di tale genitore
appare carente di affetto e di connotazione emotiva. Secondo Guida­
no (ibidem) la contemporanea presenza di attenzione per lo sviluppo
morale del bambino e disattenzione per gli aspetti emotivi costituisce
un prerequisito per lo sviluppo del disturbo ossessivo. I momenti di
espressione dell'affettività, come nel caso di un abbraccio, sono gestiti
in maniera goffa dal genitore, con la conseguenza che il bambino si sen­
te cinto in una maniera ambivalente, come se qualche sua caratteristica
intrinseca fosse causa di repulsione.
Ugazio ( 1 997) ha approfondito gli aspetti che connotano le famiglie
di chi svilupperà un DOC. Secondo l'autrice, in queste famiglie dove la
dinamica emotiva è caratterizzata dalla contrapposizione fra bene e ma­
le, la polarità semantica critica "buono-cattivo" si declina nella contrap­
posizione tra colpa/innocenza e disgusto/godimento dei sensi.
La contrapposizione tra bene e male, in questo caso sarebbe opposta
a quella agostiniana, dove il male risulta nell'assenza di bene. Nelle fa­
miglie ossessive il bene, al contrario, rappresenta l'assenza del male, da
cui il suggerimento del comportamento astinente. Il male, però, proprio
perché identificato con la vitalità, genera una forte attrazione.

2 10
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo�compulsivo

Nelle famiglie ossessive, la polarità tra bene e male è alla base di un


conflitto tra una moralità ambita, ma percepita come "mortifera" , e
un'immoralità temuta ma, al contempo, desiderata perché "vitale" .
Uno studio (Mariaskin, 2009) che si è occupato d i esplorare il ruolo
del parenting, delle credenze ossessive, della moralizzazione sociale e
della sintomatologia DOC, ha mostrato che le credenze ossessive media­
no la relazione che esiste tra il parenting e i livelli della sintomatologia
ossessiva. Un dato molto interessante riportato dallo studio è relativo
al tipo di disciplina utilizzato dai genitori delle persone che poi presen­
teranno forti credenze ossessive. Questi ultimi riportano racconti di un
tipo di disciplina che impiegava, come veicolo di punizione, la rottu­
ra o la minaccia di rottura della relazione con il genitore. Strategie che
utilizzano questa forma di punizione condurrebbero a elevati livelli di
emozioni autocoscienti, connesse al modo con cui ci percepiamo e al
modo con cui immaginiamo gli altri ci percepiscano e costituirebbero
un supporto per le credenze ossessive. In altre parole, la minaccia alla
relazione supporta la formazione della credenza che dal proprio com­
portamento possa derivare la salvaguardia o la fine della relazione con
le figure importanti e determina quindi il potere/dovere di evitare que­
sto esito. Inoltre, questo tipo di stile educativo comporta la credenza
di un'accettazione condizionata, per cui l'affetto sarebbe vincolato al
comportamento del bambino.
Stili educativi critici e richiedenti possono essere considerati come
un fattore di vulnerabilità nello sviluppo delle credenze e dei compor­
tamenti ossessivi. Elevati livelli di criticismo caratterizzano gli ambienti
familiari di pazienti DOC, sia pediatrici sia adulti (Leonard, Swedo, Le­
nane et al. , 1 993 ; Tynes, Salins, Winstead, 1 990) . In una revisione del
tema, Pace, Thwaites e Freeston (20 1 1 ) , hanno ipotizzato che i com­
portamenti ossessivi possano svilupparsi come modalità, utilizzate dal
bambino, per guadagnarsi l'approvazione dei genitori ed evitare il cri­
ticismo. Credenze ossessive potrebbero svilupparsi a partire dal criti­
cismo esperito e comportamenti ossessivi potrebbero avere lo scopo di
prevenire il criticismo futuro ( Cameron, 1 94 7 ) .

LA FORMAZIONE DELLA SENSIBILITÀ AL DISGUSTO

La modalità con cui viene appresa la sensibilità verso sostanze disgu­


stose è stata indagata da un esiguo numero di studi, che hanno cercato
di approfondire l'acquisizione delle disposizioni verso categorie alimen-

211
La teorùt

tari, verso gli animali e verso elementi collegati all'aspetto morale, ma


nessuno di questi si è focalizzato sulle specificità del DOC.
Rozin, Haidt e McCauley (2000), affrontano il tema dell'acquisizio­
ne dell'avversione a sostanze alimentari e affermano che alcune parti­
colari categorie che elicitano l'emozione del disgusto appaiono in una
determinata sequenza durante lo sviluppo. Secondo gli autori, l' avver­
sione (ripugnanza in termini di gusto) è la prima ad apparire e fa rife­
rimento all'innata reazione di ripugnanza verso i sapori amari (Steiner,
1979) . Questa fase è seguita dal disgusto di base (core) che concerne
l'imminente minaccia di ingerire alcune sostanze elicitanti quali cibo,
prodotti corporei e animali. Emergono successivamente forme di di­
sgusto morale.
Tale categoria include elicitanti legati alla sessualità (come per esem­
pio l'incesto), la morte, l'igiene e le violazioni dei limiti corporei come
nel caso di ferite aperte. Le ultime ad apparire sono le forme di disgu­
sto interpersonali (quali evitare persone malate o ritenute immorali) e
quelle socio-morali.
Tybur, Lieberman, Kurzban e collaboratori (20 12) ipotizzano che
l'espressione del disgusto morale sia una strategia rapida e cross-cultu­
ralmente riconoscibile, attraverso la quale segnalare la trasgressione di
un comportamento socialmente atteso; le persone la indirizzano ai tra­
sgressori di una regola, per segnalare a individui appartenenti alla stes­
sa comunità la presenza della trasgressione. La finalità dell'espressione
del disgusto morale risiederebbe nel sottolineare la condivisione del giu­
dizio e motivare la comunità alla punizione. In questo caso il disgusto
morale non sarebbe accompagnato dalla motivazione all' evitamento del
contatto, tipica del disgusto patogeno (legato al contatto con agenti po­
tenzialmente pericolosi) , ma si assocerebbe a un vissuto di rabbia, che
spinge all'aggressione e di conseguenza alla vicinanza fisica. Pur soste­
nendo l' evitamento di relazioni sociali con i trasgressori della norma, il
disgusto morale non eliciterebbe una risposta di repulsione fisica, quan­
to il rifiuto e il desiderio di punizione. Attraverso le espressioni vocali
e facciali si pone l'accento sul carattere collettivamente condiviso della
trasgressione, a custodia dei valori propri di una collettività, che per­
mette ai singoli membri di riconoscersi come "appartenenti" , e, dunque,
chiamati a condannare chi trasgredisce e a segnalare agli altri la necessi­
tà di allearsi per punire e rifiutare.
Sia Rozin, Haidt e McCauley (2000) sia Tomkins ( 1 963 ) affermano
che la via attraverso cui i bambini acquisiscono nuovi elicitanti per il
disgusto sarebbe attraverso una "trasmissione" genitore-bambino. A

2 12
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo

partire da un incontro con un particolare stimolo da parte del bambi­


no, il genitore può reagire attraverso una specifica espressione vocale o
verbale di disgusto, oppure da un punto di vista comportamentale, al­
lontanando il bambino dallo stimolo. L'ipotesi della trasmissione è cor­
roborata anche dall'osservazione che genitori e figli adulti presentano
moderate correlazioni nelle misure di sensibilità al disgusto e alla con­
taminazione (Rozin, Fallon, Mandell, 1984 ) .
Negli adulti l'osservazione di espressione facciale di disgusto com­
porta un pattern di attività neurali simile a quello dell'entrare in con­
tatto con un oggetto disgustoso (Wicker, Keysers, Plailly et al. , 2003 ) .
L'interpretazione dell'espressione genitoriale in risposta a certi stimoli
elicitanti potrebbe causare una risposta mimica facciale di disgusto che
indurrebbe a sua volta una sensazione di disgusto (Rozin, Fallon, 1987;
Tomkins, 1963 ). Alternativamente, osservare l'espressione disgustata del
genitore potrebbe non elicitare direttamente una risposta, ma il bam­
bino potrebbe utilizzare questa informazione per formare una risposta.
L'espressione facciale non è l'unica forma di comunicazione per ma­
nifestare le emozioni; possono essere presenti anche altri canali, come
per esempio le vocalizzazioni dirette o indirette (come suoni e risa) o
gesti (Hejmadi, Davidson, Rozin, 2000).
Genitori che presentano un'elevata hand hygiene transmission, cioè
che propongono maggiormente dei comportamenti di lavaggio delle ma­
ni, dirigono anche più comportamenti di comunicazione collegati al di­
sgusto e soprattutto verso i figli più piccoli (Oaten, Stevenson, Wagland
et al., 2014).
Il modello di Rozin, Haidt e McCauley (2000) è stato testato anche in
uno studio successivo (Stevenson, Oaten, Case et al., 2010), che ha sot­
tolineato un'ulteriore differenza degli elicitanti concreti (quegli stimoli
che generano disgusto a partire dalla loro apparenza) da quelli astratti
(che generano disgusto a partire dal loro significato) .
In tale studio gli autori rintracciano una piccola ma significativa as­
sociazione tra la responsività genitoriale a certi elicitanti animali e quel­
la dei loro bambini. La correlazione è stata rintracciata anche per l'a­
spetto del disgusto di base ed è, inoltre, emerso che i figli di genitori
più reattivi agli elicitanti di base sono molto reattivi anche agli elicitanti
socio-morali.
Gli autori concludono che la responsività genitoriale al disgusto pre­
senta un ruolo nella formazione della reazione del bambino agli stimoli
socio-morali. Prove della trasmissione genitore-bambino è stata anche
osservata nella reazione dei genitori di quei bambini piccoli che pro-

2 13
La teoria

pendono verso un maggiore evitamento. Dallo studio emerge che i ge­


nitori di questi bambini generano più espressioni facciali di disgusto ri­
spetto ai genitori dei bambini che non mettono in atto comportamenti
di evitamento.
In uno studio del 1 993 , Davey, Forster e Mayhew dimostrano che la
paura degli animali riconosciuti universalmente come spaventosi, co­
varia con l'emozione di disgusto e in molti casi con la tendenza ad asso­
ciare l'animale con lo sporco e le malattie. La paura dei predatori invece
non cavaria con la tendenza ad associare l'animale con disgusto, sporco
e malattie, ma solamente con la tendenza ad associare l'animale con un
danno fisico. La sensibilità al disgusto influenza la paura degli animali.
Davey ( 1 992) propone diverse spiegazioni al perché gli animali rilevan­
ti rispetto al tema della paura possano assumere la capacità di evocare
disgusto. Queste includono: perché direttamente diffondono malattie
e possono essere fonte di contaminazione; perché sono associati per
contingenza (temporalmente o spazialmente) con la contaminazione e
lo sporco; o perché possiedono delle caratteristiche che naturalmente
elicitano disgusto. Secondo Davey ( 1 992) se la paura degli animali è me­
diata dalla reazione di disgusto, l'acquisizione può coinvolgere processi
che riflettono la trasmissione del disgusto e la sensibilità alla contami­
nazione in generale. Secondo l'autore questa possibilità è coerente con
l'idea che la paura degli animali possa non essere appresa individual­
mente ma che possa essere mediata da fattori familiari, dato corrobo­
rato dall'evidenza che esiste un'aggregazione familiare nelle fobie de­
gli animali e da una successiva ricerca (Davey, Forster, Mayhew, 1993)
che dimostra l'esistenza di strette interrelazioni familiari tra sensibilità
al disgusto e fobia degli animali. La sensibilità al disgusto genitoriale
rappresenta il primo predittore della paura degli animali da parte del­
la prole, ma non è presente una relazione quando l'animale in causa è
associato in maniera preponderante ad attacchi violenti (come nel caso
degli squali) . Secondo gli autori, questo dato sarebbe coerente con un
modello di evitamento delle malattie delle comuni fobie degli animali,
che sostiene che la paura di certe categorie di animali sia strettamente
associata con la risposta di avversione al cibo del disgusto (Davey, 1992;
Matchett, Davey, 1 99 1 ) .
L e credenze sulla paura e gli evitamenti aumenterebbero come risul·
tato dell'apprendimento vicario del disgusto. Alcuni esperimenti dimo·
strano che i bambini iniziano ad apprendere che un animale è disgusto­
so a partire dall'osservazione di un adulto che risponde con disgusto a
esso (Askew, çakir, Pòldsam et al. , 2014).

2 14
La vulnerabilità nel disturbo ossessivo-compulsivo

CONCLUSIONI

Ogni comportamento è motivato da scopi e regolato da credenze.


Anche le condotte ossessive, dunque, sono governate da questi due ele­
menti, in particolare dallo scopo di evitare di essere colpevoli, associa­
to alla credenza che essere colpevoli sia catastrofico (Mancini, Saliani,
2013 ; Mancini, Gangemi, 2006). Ulteriore scopo che muove l'attività
ossessiva è quello di evitare di entrare in contatto con sostanze disgu­
stose (Mancini, Gangemi, 201 1 ) . Dall'analisi della letteratura sul distur­
bo ossessivo-compulsivo, emerge che il tema della responsabilità e del
timore di essere colpevole sono particolarmente salienti non solo nel
momento dell'espressione sintomatologica, ma risultano implicati, an­
che, nello sviluppo della sintomatologia stessa e, più in generale, nell'e­
sistenza del paziente.
L'acquisizione delle credenze maladattive, in generale, avviene in fa­
si precoci dello sviluppo (Young, Klosko, Weishaar, 2003 ; Beck, Rush,
Shaw et al. , 1979), a partire da esperienze in cui i familiari falliscono nel
soddisfare alcuni bisogni di base del bambino. Nel caso dei genitori di
futuri pazienti ossessivi sono presenti difficoltà nel trasferire un adegua­
to approccio in tema di responsabilità. Sembrerebbe infatti che le strade
che conducono allo sviluppo della sintomatologia ossessiva siano sul ver­
sante sia dell'iper-responsabilizzazione sia dell'ipo-responsabilizzazione
(Salkovskis, Shafran, Rachman et al., 1999) . Ciò comporta la formazione
della credenza che commettere errori sia catastrofico e, di conseguenza,
l'assoluta necessità di prevenirli. Dall'osservazione clinica emerge che
spesso nelle famiglie di persone con disturbo ossessivo è presente un
elevato criticismo e la tendenza a drammatizzare la colpa. Nei racconti
della loro infanzia, relativi alle modalità educative, i pazienti ossessivi
riportano spesso una sproporzione tra la gravità dei loro errori e la rea­
zione genitoriale, definita spesso come inaspettata. Come notato dallo
studio di Careau, O'Connor, Turgeon e collaboratori (2012), esperien­
ze di risposte incoerenti da parte dei genitori si associano a elevati livel­
li di responsabilità. Ciò suggerisce che il non riuscire a rintracciare una
coerenza nelle conseguenze delle proprie azioni strutturi l'idea di dover
porre particolare attenzione a esse perché, anche se non comprensibi­
li, le reazioni degli altri dipendono da qualcosa di compiuto o omesso.
A seguito di un evento che comporta un errore o un danno, i com­
ponenti delle famiglie dei pazienti con DOC si impegnano, inoltre, nella
ricerca del responsabile e della sua colpevolizzazione. Tale ricerca è te­
sa, in alcuni casi, allo scarico di responsabilità personali, poiché l' attri-

2 15
La teoria

buzione della colpa all'altro comporta la sensazione di innocenza (Ca­


stelfranchi, Mancini, Miceli, 2002 ) . La reiterazione di questo tipo di
atteggiamento struttura l'intollerabilità della possibilità di commettere
errori. La mancata accettazione di questa possibilità e la conseguente
accresciuta esperienza di colpa, conducono alla ricerca dell'impeccabi­
lità. Tale ricerca risulta maggiormente necessaria se, oltre allo scopo di
non essere colpevoli, viene minacciato lo scopo della vicinanza con un
altro significativo. Se la disciplina che segue a un errore comporta la mi­
naccia della relazione con il genitore, il bambino si impegnerà a preveni­
re il dispiacere e la delusione dei genitori, modalità che poi potrebbero
generalizzarsi ad altri contesti di vita. La minaccia o la realizzazione del
ritiro dell'affetto da parte di figure significative è una strategia di col­
pevolizzazione che " consiste proprio nel fatto che la punizione è [ . . ] .

tutta interna al senso di colpa" (Miceli, 1 994, p. 1 65 ) , cioè far sentire in


colpa diventa la punizione stessa. n peso dato alla condotta, che deriva
da espressioni di rimprovero, che potremmo definire, microtraumatiche
ma frequenti e sistematiche, è uno degli aspetti che muovono verso il
comportamento ossessivo e che sensibilizza rispetto alla credenza di non
essere perdonabili. L'esperienza di colpevolezza è sgradevole per ogni
persona, ma per quelle ossessive risulta intollerabile, perché ritengono
che un loro errore non sia ammissibile. Ciò che caratterizza le persone
con DOC è forse il fatto di non considerare che lo sbaglio di ordine mo­
rale sia umano e inevitabile (Mancini, Saliani, 2013 ) .
Le aspettative su di sé e sugli altri costituiscono dei fattori psicologi­
ci centrali che, se non modificati dal processo terapeutico, rischiano di
rendere più probabile la ricaduta sintomatologica. Per prevenire la rica­
duta e per modificare i fattori di vulnerabilità, è necessario intervenire
per giungere a una riattribuzione dei significati associati alle esperienze
precoci, in termini di senso di sé e di aspettative sugli altri.

2 16
PARTE SECONDA

LA CLINICA
XI

INTRODUZIONE ALLA TERAPIA


IL RATIONALE DELL'INTERVENTO

Francesco Mancinz; Teresa Cosentino

Nel progettare il piano di trattamento di un paziente con disturbo os­


sessivo-compulsivo, come peraltro nel caso di altri disturbi, è utile avere
ben chiari da una parte i meccanismi di funzionamento del disturbo, i
determinanti della sua condotta, i fattori che contribuiscono al suo man­
tenimento, e dall'altra gli elementi sui quali è consigliabile intervenire
per promuovere il cambiamento, le modalità e le procedure che con più
probabilità renderanno efficace il nostro intervento.
In questo capitolo ci proponiamo di illustrare il rationale dell'inter­
vento che deriva dalla concettualizzazione del DOC fin qui presentata.
Nei capitoli successivi si entrerà poi nel merito delle singole fasi e delle
specifiche procedure dell'intervento, la cui efficacia complessiva è già
stata documentata in uno studio effettuato su un gruppo di 37 pazien­
ti, non selezionati né sulla base delle comorbilità né della gravità della
sintomatologia (Mancini, Barcaccia, Capo et al. , 2006). Prima dunque
ci soffermeremo sul cosa riteniamo opportuno e possibile fare e, nei ca­
pitoli successivi, sul come farlo.
Al fine di introdurre il rationale dell'intervento per il DOC è utile rica­
pitolarne il profilo interno, così come descritto nel capitolo L
Per la maggior parte dei pazienti ossessivi è possibile definire un
evento critico.
L'evento può essere direttamente percepito dal paziente, come per
esempio per Maria essere urtata da un passante, può essere ricordato,
per esempio l'immagine di aver urtato un passante, e può essere un even­
to soltanto ipotizzato, come nel caso di Giovanni che uscendo di casa
aveva il dubbio di aver lasciato aperto il rubinetto del gas. L'evento può,
inoltre, essere un pensiero, come accadeva a Davide e in generale nelle
cosiddette ossessioni endogene, cioè i pensieri proibiti.

219
La clinica

L'evento è interpretato dal paziente, alla luce della prima valutazio­


ne, come una minaccia che pende su di lui. La valutazione può essere
sostituita da una sensazione, come per esempio la Not Just Right Ex­
perience (NJRE) o la sensazione di patina contaminante, attraverso un
processo di automatizzazione o per l'effetto Macbeth. Come illustrato
nei capitoli precedenti, il denominatore comune delle diverse minacce
e sensazioni alla base dei sintomi ossessivi sembra essere la minaccia di
una colpa deontologica.
La percezione di una minaccia o la sensazione specifica di patina
contaminante e la NJRE attivano i Tentativi di Soluzione di primo ordi­
ne (TS l ) , una reazione complessa composta da emozioni negative (an­
sia, disgusto e timore di colpa) , processi cognitivi (attenzione e memoria
selettive, euristiche, orientamento del controllo delle ipotesi) , condotte
mentali (compulsioni mentali, ruminazione sia immaginativa sia pro­
posizionale) e comportamenti (evitamenti, richieste di rassicurazione,
compulsioni, neutralizzazioni) . Tale reazione in buona misura automa­
tica piuttosto che intenzionale e deliberata, dovrebbe essere funzionale
al sottrarsi alla minaccia o a neutralizzarla.
In realtà, nel paziente ossessivo questa complessa reazione ha un effet­
to paradossale perché determina, in diversi modi, l'aumento del numero
e del tipo di eventi giudicati minacciosi (generalizzazione), l'incremento
della credibilità delle rappresentazioni di minaccia e, contemporanea­
mente, una riduzione della credibilità delle rappresentazioni di sicurez­
za, un aumento del valore dello scopo minacciato rispetto agli altri scopi
del paziente, i quali perdono di importanza, e un aumento dell'efficacia
attribuita ai tentativi di soluzione. In questa maniera i TS 1 , per effetto dei
meccanismi descritti nel III e IV capitolo, rendono più probabili gli eventi
attivanti, più probabile, grave e incombente la minaccia percepita, più
probabili e difficili da tollerare le sensazioni disturbanti e aumentano la
resistenza al cambiamento perché rafforzano gli scopi e le credenze alla
base della sintomatologia ossessiva. I TSl , dunque, oltre che essere inef­
ficaci perché il fìne, cioè la neutralizzazione completa di minacce e sen­
sazioni sgradevoli, è irraggiungibile, si dimostrano anche controprodu­
centi, poiché da una parte rendono l'attivazione ossessiva più frequente
e intensa e dall'altra aumentano la resistenza al cambiamento.
A complicare la situazione, in molti casi interviene la metavalutazio­
ne o seconda valutazione, cioè la critica che il paziente rivolge sia alla
prima valutazione che ai TSl . La critica, infatti, spesso è autosvilente e
colpevolizzante e la flessione dell'umore che ne deriva peggiora la sin­
tomatologia ossessiva (Salkovskis, 1 985 ) , soprattutto se legata alla col-

220
Introduzione alla terapia

pevolizzazione. Per giunta, la consapevolezza dei costi pagati in conse­


guenza del disturbo spinge i pazienti a cercare di contenere i sintomi con
i tentativi di solzione di secondo ordine (TS2) che, come abbiamo visto,
in molti casi aumenta paradossalmente la sintomatologia. In particolare
ciò accade se al fine di contenere la necessità di altri e più gravi TSl il pa­
ziente cede alle richieste del disturbo (vedi il caso della paziente Lucia) .
Infine, contribuiscono al mantenimento e aggravamento della sin­
tomatologia anche le reazioni dei familiari al disturbo, i quali di solito
oscillano fra cedimenti alle richieste del paziente, tentativi di convincer­
lo dell'assurdità delle sue preoccupazioni e dei suoi comportamenti, cri­
tiche, anche dure e colpevolizzanti, ed esasperazioni (vedi capitolo XXI).
In sintesi, è possibile identificare tre processi ricorsivi che manten­
gono e aggravano il DOC: il primo coinvolge gli eventi critici, la prima
valutazione e i TSl ; il secondo riguarda la prima valutazione, i TS l, la
metavalutazione e i TS2 ; il terzo processo coinvolge i sintomi ossessivi e,
dunque, anche i TSl e le reazioni dei familiari.
Uno degli obiettivi principali della terapia del ooc è l'interruzione
o, almeno, la riduzione di questi processi per contrastare il disturbo e
ottenere una diminuzione significativa della sintomatologia.
Il secondo obiettivo della terapia del DOC è fare in modo che il pa­
ziente sia meno vulnerabile al disturbo, vulnerabilità perlopiù ascrivi­
bile alla generale sensibilità del paziente verso l'esperienza della colpa
e alla sua propensione a considerare catastrofiche e inaccettabili, o co­
munque gravi, colpe che normalmente non sono considerate tali o che,
in base agli indizi di cui dispone il paziente ossessivo, sono considerate
solitamente molto improbabili.
La disposizione a sentirsi moralmente disprezzabile, oltre che trovare
diretta espressione nel dominio sintomatico, il più delle volte si mani­
festa anche nelle altre sfere della vita quotidiana del paziente, con una
tendenza piuttosto stabile e pervasiva a monitorare e prevenire le possi­
bili colpe e ad autocriticarsi e colpevolizzarsi anche per comportamenti
banali, per esempio per come ci si è vestiti, come si è preparata la co­
lazione o organizzata l'agenda, se si perde del tempo o se ci si dedica a
qualcosa di piacevole (Rachman, Hodgson, 1980). Questa disposizione
a monitorare e catastrofizzare le possibili colpe ovviamente rende più
probabile l'innesco del disturbo e, dunque, un intervento finalizzato alla
riduzione di tale sensibilità dovrebbe rendere il paziente meno vulnera­
bile all'attivazione della sintomatologia ossessiva.
Come illustrato in capitoli successivi, sono possibili diversi interventi
che agiscono fuori dal dominio sintomatico, su memorie recenti e anti-

22 1
La clinica

che piuttosto che su esperienze attuali, utili a ridurre la sensibilità del


paziente verso l'esperienza della colpa e a renderlo così meno vulnera­
bile all'innesco del disturbo.
Dunque, nella psicoterapia del DOC due sono gli obiettivi strategici
da perseguire: l ) l'interruzione o, più realisticamente, la riduzione dei
tre processi ricorsivi e 2) la riduzione della vulnerabilità al DOC.
Abitualmente si persegue prima la riduzione dei processi ricorsivi e
successivamente la riduzione della vulnerabilità. Il più delle volte, infatti,
il paziente è così assorbito dal disturbo, dalla dimensione sintomatica, e
i meccanismi ricorsivi sono così prepotenti che non accetterebbe e non
avrebbe le risorse necessarie per sganciarsi dall'area sintomatologica e
lavorare sulla generale sensibilità alla colpa. In tali casi, dunque, è op­
portuno prima intervenire sui processi ricorsivi nell'area sintomatica e
poi sulla sensibilità del paziente al senso di colpa. Infatti, seppure l'in­
tervento sui processi ricorsivi che alimentano e mantengono il disturbo
avrà prodotto una sostanziale remissione della sintomatologia, la sensi­
bilità del paziente verso la colpa e la sua tendenza a catastrofizzare tale
esperienza saranno molto probabilmente ancora presenti rendendo il
paziente vulnerabile al disturbo e aumentando, così, il rischio di ricadute
future. L'intervento diretto alla riduzione di tale vulnerabilità, attraver­
so la decatastrofizzazione delle esperienze della colpa fuori dal dominio
sintomatico, dovrebbe garantire, quindi, una maggiore stabilità ai risul­
tati ottenuti con l'intervento sui processi ricorsivi.
D'altra parte alcuni dati (Cosentino, D'Olimpio, Perdighe et al.,
2012; Cosentino, Mancini, 2012; Perdighe, Mancini, 2012a) suggeri­
scono che l'intervento sulla vulnerabilità da solo, senza passare per l'in­
tervento sui processi ricorsivi, è in grado di produrre una riduzione
clinicamente significativa della sintomatologia. Come sarà illustrato in
particolare nel capitolo XVIII, tale dato si rivela di specifica utilità in tutti
quei casi in cui diversi fattori rendono impraticabile l'intervento diretto
nel dominio sintomatologico.

LA RIDUZIONE DEI PROCESSI RICORSIVI


DI MANTENIMENTO E AGGRAVAMENTO DEL DOC

Il primo passo di questa strategia è la ricostruzione e condivisione con


il paziente dello schema del disturbo presentato nel capitolo I. La rico­
struzione consente la programmazione delle fasi successive del trattamen­
to e la sua condivisione aiuta il paziente a ridurre la valutazione negativa
che ha nei confronti della propria sintomatologia. Per esempio, vedere

222
Introduzione alla terapia

con chiarezza che si controlla di aver chiuso il rubinetto del gas un nume­
ro esagerato di volte per un fine moralmente apprezzabile, cioè per non
essere responsabili di un grave rischio per altri, può aiutare il paziente
a contenere le critiche autosvilenti e colpevolizzanti per i costi dei con­
trolli. Ciò lo aiuterà, inoltre, a comprendere meglio il senso del proprio
disturbo, a esserne meno spaventato e dunque a ridurre gli spasmodici e
controproducenti tentativi di contrastarlo, favorendo modalità più effi­
caci e funzionali di gestione. La condivisione dello schema del disturbo,
dunque, può essere già un modo per ridurre il secondo processo ricorsivo.
A volte, tale condivisione può altresì aiutare il paziente a modulare la
J?rima valutazione e, quindi, a ridimensionare il primo processo ricorsivo.
E il caso, per esempio, dei pazienti ossessionati da pensieri proibiti che,
grazie alla comprensione dello schema di funzionamento del disturbo, ca­
piscono che la frequenza e la persistenza dei pensieri proibiti dipendono
dal tentativo di neutralizzarli e non sono la manifestazione di desideri e
disposizioni perverse, malvagie o comunque immorali. Per esempio, Gio­
vanna, una paziente afflitta dal timore di poter far del male a suo figlio, si
tranquillizzò dopo la condivisione e comprensione dello schema, notando
che la frequenza con cui comparivano questi pensieri e la loro persistenza
erano diretta conseguenza dei suoi tentativi di prevenirli e sopprimerli: più
lei stava attenta alla loro comparsa, più tentava di neutralizzarli e scacciarli,
più i pensieri tendevano a ricomparire, ancora più prepotenti e invadenti.
Altro vantaggio che deriva dalla condivisione dello schema è il rico­
noscimento, da parte del paziente, che lo psicoterapeuta ha una rap­
presentazione realistica, accurata e non giudicante del suo disturbo, e
ciò, come è noto (Webb, DeRubeis, Amsterdam et al. , 201 1 ) , favorisce
l'alleanza terapeutica, cioè la disposizione del paziente a collaborare e
impegnarsi nella terapia.
La conoscenza dello schema, inoltre, aiuta il paziente a prendere le
distanze dalla sintomatologia, vale a dire a vederla dall'esterno e, quindi,
a creare le condizioni propizie per intervenire sul suo disturbo. Infine,
può essere utile condividere lo schema del disturbo anche con i familiari
allo scopo di aiutarli a modulare le loro reazioni ai sintomi del paziente,
agendo così sul terzo processo ricorsivo e preparando il terreno per un
eventuale intervento incentrato su di loro.
Nel prossimo capitolo saranno presentati i modi per ricostruire lo
schema, le difficoltà che si possono incontrare, come superarle e come
sfruttarne i vantaggi.
Completata questa prima fase è possibile muoversi in tre direzioni,
ciascuna finalizzata a ridurre uno dei tre processi ricorsivi. Pur mancan-

223
La clinica

do dati che suggeriscano quale sia la successione ottimale con cui af­
frontare i tre processi ricorsivi, indicazioni utili possono derivare dalla
ricostruzione dello schema del disturbo.
Posto che la scelta il più delle volte ricade sul primo processo ricorsi­
vo - poiché racchiude il cuore del disturbo ossessivo-compulsivo, i mec­
canismi e i processi che più contribuiscono al suo mantenimento - in al­
cuni casi è opportuno dare al piano di trattamento un ordine di priorità
differente. Per esempio, conviene intervenire sul processo ricorsivo di
secondo tipo se il paziente si colpevolizza e si svilisce molto o se è assai
spaventato dalla sintomatologia. In questo caso, infatti, l'intervento sui
processi ricorsivi di primo tipo può essere ostacolato dal momento che
è difficile affrontare un problema che non si accetta di avere (De Silve­
stri, 1999) . È pure utile iniziare dal secondo processo ricorsivo se il fine
principale perseguito dal paziente con le compulsioni e i TS in genera­
le è il contenimento dei costi del disturbo stesso (vedi il caso di Lucia).
È opportuno, invece, iniziare dal terzo processo ricorsivo se l' ambien­
te familiare è caratterizzato da elevata emotività espressa, dalla tenden­
za dei familiari a criticare, disprezzare o colpevolizzare il paziente per il
suo disturbo. È ben noto, infatti, che l'alta emotività negativa espressa
sul sintomo peggiora la prognosi di tutti i disturbi psicopatologici e il
DOC non fa eccezione.

L'intervento sul primo processo ricorsivo

Tale intervento, dettagliatamente descritto in capitoli successivi, ha


tre obiettivi principali:
la modulazione della prima valutazione;
l'accettazione della minaccia rappresentata nella prima valutazione
e, se questa è assente o implicita, delle sensazioni NJRE e di patina di
sporco e l'accettazione della rinuncia ai TSl ;
l'addestramento pratico ad accettare concretamente di rinunciare ai
TSl attraverso esercizi di esposizione e prevenzione della risposta, di
mindfulness e tecniche ACT (Acceptance and Commitment Therapy).
Questa parte dell'intervento mira a interrompere il primo processo
ricorsivo, dove risiede il nucleo centrale del disturbo, i meccanismi e i
processi che motivano il paziente a mettere in atto i TSl e che li mantengo­
no, il più delle volte esacerbandoli. Per ottenere tale risultato, si cercherà
di favorire, da una parte, l'accettazione della possibilità che la minaccia
rappresentata nella prima valutazione si realizzi e, dall'altra, la rinuncia

224
Introduzione alla terapia

a mettere in atto i TSl finalizzati a prevenirla o a neutralizzarla. Se questi


ultimi sono l'espressione del tentativo del paziente di evitare una colpa,
allora, accettando un livello di rischio maggiore diminuirà l'investimento
prudenziale e ciò produrrà cambiamenti sia nel suo orientamento cogni­
tivo (per esempio, attenzione non più focalizzata sui segnali della minac­
cia) sia nella sua condotta (meno evitamenti e comportamenti protettivi) .
Il raggiungimento dell'obiettivo " accettazione della minaccia" sa­
rà certamente più agevole se prima, strategicamente, si sarà aiutato il
paziente a modulare la percezione di tale minaccia rendendola ai suoi
occhi meno credibile, meno probabile e dalle conseguenze meno gra­
vi, addolcendo la pillola, per così dire. Così facendo diminuirà l'entità
della minaccia percepita e ne deriverà un minor ricorso ai tentativi di
soluzione, finalizzati proprio alla sua prevenzione o neutralizzazione, e
aumenterà la disposizione a correre dei rischi maggiori.
Nel capitolo XIII saranno descritte le procedure che vanno proprio in
questa direzione e hanno per obiettivo la riduzione della credibilità delle
valutazioni di minaccia, della sovrastima del danno, in termini di quanto il
paziente lo ritiene probabile, grave e irrimediabile, e della sovrastima della
responsabilità, ossia quanto il paziente si giudica responsabile dell'evento
e quanto gravi percepisce le conseguenze di tale personale responsabilità.
Gli interventi di questo tipo, sebbene si siano dimostrati utili nell' aiu­
tare il paziente a ridurre la sovrastima del danno e della responsabili­
tà (van Oppen, Arntz, 1994 ) , si scontrano di solito con l'orientamento
iperprudenziale del paziente che persegue la neutralizzazione certa delle
minacce e delle sensazioni sgradevoli. Per il paziente la riduzione del­
la sovrastima della probabilità e della responsabilità spesso non è suffi­
ciente: "Per quanto piccola, la probabilità che accada esiste e, seppure
in parte, sarebbe colpa mia ! " . Questa obiezione è inattaccabile a meno
che egli non rinunci alla certezza e quindi accetti un certo grado di ri­
schio che la minaccia si verifichi.
Queste considerazioni indicano l'opportunità di perseguire il secon­
do e il terzo obiettivo terapeutico, con interventi finalizzati a motivare
il paziente a rinunciare ai TSl e ad accettare la possibilità che le minacce
si verifichino e a tenersi le sensazioni sgradevoli.
Gli esseri umani investono nel raggiungimento di uno scopo quanto
più ritengono da una parte di avere il potere di perseguirlo e, dall'al­
tra, vantaggioso e doveroso, in termini etici, l'impegno in tale direzione
(Mancini, Gragnani, 2005 ; Mancini, Perdighe, 2012) .
Dal punto di vista della dinamica degli scopi, la rinuncia allo scopo
"prevenire/evitare la colpa deontologica" e l'accettazione di una sua "pos-

77"i
La clinica

sibile compromissione" implicano, dunque, la revisione delle credenze


che sostengono la sua adozione, ovvero che sia possibile e realistico non
rendersi responsabile di nessuna colpa, che rientri tra i propri doveri pre­
venirla e le credenze circa le conseguenze catastrofiche per la propria vita
se la minaccia di colpa dovesse realizzarsi. Semplificando, in questa parte
dell'intervento lo scopo non è più modificare le credenze circa l'esistenza
di una minaccia di colpa e le probabilità che si concretizzi, ma direttamen­
te, a monte, le credenze che sostengono l'iperinvestimento nell'evitare che
ciò accada. Ristrutturando tali credenze (valore dello scopo, possibilità di
successo e doverosità) si otterranno l'accettazione della sua parziale o to­
tale compromissione e una maggiore disposizione a esporsi alla minaccia.
Come capitò a Maria quando accettò di correre il rischio di ammalar­
si di cancro decidendo di restare accanto al marito cui fu diagnosticata
proprio quella malattia, tale cambiamento avrà per effetto la riduzione
o l'azzeramento delle attività preventive finalizzate a evitare la minaccia
e, dunque, dell'attività ossessiva stessa. In altre parole, non giudicando
più possibile, vantaggiosa e doverosa la prevenzione della colpa, la per­
sona non s'impegnerà più così massicciamente nelle attività finalizzate
a evitare tale esperienza, accettando, di contro, il rischio che ciò possa
verificarsi (Mancini, Perdighe, 2012 ) .
Come sarà dettagliatamente descritto nel capitolo XV, si può iniziare
con l'agire sulla credenza che ci siano possibilità di successo, impiegan­
do tecniche e procedure tese ad aiutare il paziente a vedere i suoi ten­
tativi di contenere la minaccia (TSl) come insufficienti, inutili, visto che
il beneficio che producono è al massimo parziale e transitorio, o come
controproducenti, dato che alimentano in modo ricorsivo l'esposizione
agli eventi critici e la gravità della prima valutazione.
A questo tipo di interventi il paziente potrebbe obiettare che è pur
sempre meglio ridurre di un po' o per un po' la minaccia e il disagio piut­
tosto che per niente. Questa obiezione si presta a una contro-obiezione:
"Il beneficio ottenuto vale il costo pagato per attenerlo? " , che introdu­
ce un secondo insieme di interventi finalizzati ad aiutare il paziente a ri­
vedere le sue credenze sulla convenienza dell'investimento, favorendo
l'integrazione dei costi di rinunciare ai TSl con i costi del metterli in atto
(rappresentati nella metavalutazione).
n più delle volte il paziente è consapevole dei costi che paga, altrimenti
non intraprenderebbe una terapia, ma non li integra con i costi derivanti
dalla rinuncia ai TSl . Come dire che si trova in una sistematica alternanza
di valutazioni opposte, senza che ci sia un momento in cui le mette diret­
tamente a confronto. Per esempio, quando si trova a ridosso dell'evento

226
Introduzione alla terapia

critico le ragioni a favore dei TSl si fanno prepotenti e assorbono le sue ri­
sorse, anche cognitive, rendendogli difficile tener conto contemporanea­
mente anche della metavalutazione. L'inverso accade quando il paziente
si trova lontano dall'evento critico e si confronta con le conseguenze ne­
gative del suo sintomo. È importante, quindi, aiutare il paziente a tener
conto contemporaneamente di entrambi i tipi di costi e confrontarli, so­
prattutto nei momenti in cui si trova esposto agli eventi critici ed è attiva
la prima valutazione o le sensazioni disturbanti (vedi capitolo xv).
Anche se il paziente realizza che il costo dei TSl è maggiore del costo
del rinunciarvi, di solito pone un'altra obiezione, forse la più importante
per un paziente ossessivo: "Se sono consapevole del rischio di un danno
che posso tentare di prevenire, se ho un sospetto terribile su di me, se
mi sento sporco e non a posto e non tento di fare nulla, neanche a livel­
lo simbolico, cioè faccio spallucce come se niente fosse, allora sono un
menefreghista, un irresponsabile, uno che si lascia andare allo sporco e
alla sensazione di non essere a posto e quindi una persona sporca e non
a posto" . Se il paziente è consapevole dell'esistenza di una minaccia, au­
menta la percezione di avere il potere di fare qualcosa per prevenirla e,
dunque, di avere il dovere di farlo: " Se non sono consapevole della mi­
naccia non posso farci niente! Nel momento in cui mi viene il pensiero,
sento di poter fare qualcosa per impedire che accada e non farlo sarebbe
imperdonabile". Come affermano Wroe e Salkovskis (2000), la decisio­
ne di non fare nulla, pur essendo a conoscenza di possibili danni, rende
la persona un agente causale delle eventuali conseguenze negative. Così
il presentarsi di un pensiero intrusivo circa possibili danni, unitamente
alla percezione della propria responsabilità, trasforma un danno cau­
sato dall'omissione in una situazione in cui la persona ha - attivamente
e deliberatamente - consentito il verificarsi del danno. Disinteressarsi
delle minacce e delle sensazioni di sporco e Not Just Right Experience
comporta, dunque, per i pazienti ossessivi una colpa e, di conseguenza,
la percezione della diminuzione del proprio valore morale.
Prima di indicare la strategia di gestione di questo punto, la doverosi­
tà dell'impegno a prevenire la minaccia, riteniamo opportuno spendere
alcune parole su come gli esseri umani si rappresentano il valore morale
e la sua dinamica. Molte ricerche (per una review, Brandt, Reyna, 201 1 )
dimostrano come gli individui ricorrano a una dimensione verticale per
collocare tutti gli esseri viventi, compresi se stessi, all'interno di una gerar­
chia morale che vede al vertice il Bene supremo e al fondo il Male assoluto.
Le stesse ricerche mostrano come peccare, ma anche essere conta­
minati da sostanze disgustose, sia associato alla percezione di una di-

227
La clinica

scesa nella gerarchia morale che comporta una diminuzione del valore
e della dignità che ci si riconosce e che si assume sia riconosciuta da­
gli altri, accompagnata dall'impressione che chi scende nella gerarchia
sia anche "deumanizzato" e, per esempio, sia più facilmente oggetto di
ostracismo e maltrattamenti. Noi presumiamo che questa sia la discesa
morale intuita dai pazienti nel caso in cui non mettessero in atto i TSl.
Alla luce di queste considerazioni, per aiutare il paziente a rinuncia­
re ai TSl senza diminutio e senza alterare i suoi criteri morali è opportu­
no aiutarlo a riconoscere che la colpa temuta è compatibile con il rango
morale cui sente di appartenere, cioè riconoscere che certe colpe fanno
parte della vita quotidiana, dell'ordine naturale delle cose e che un'im­
perfezione morale non implica indegnità.
A questo punto dell'intervento un'ultima obiezione dei pazienti di
solito è: "Sì, d'accordo su tutto, ma se non ricorro ai TSl sto troppo ma­
le, non lo posso sopportare" . È implicita, in questa obiezione dei pa­
zienti l'aspettativa che se non mettono in atto i TSl la sofferenza e il disa­
gio cresceranno e dureranno per sempre. I pazienti non considerano la
possibilità che la sofferenza e il disagio tendono a diminuire se si accet­
tano e non si contrastano, cioè se si ha modo di familiarizzare con essi.
L'intervento terapeutico su questo primo processo ricorsivo, infatti,
si conclude proprio con l'addestramento pratico a tenersi la percezione
di minaccia e le sensazioni sgradevoli correlate, rinunciando ai TSl , per
dare modo al paziente di verificare che, per quanto sgradevole, tale espe­
rienza è transitoria e tollerabile. Come descritto nei capitoli specifici,
tale addestramento si può realizzare in diversi modi, da quello più tra­
dizionale con l'esposizione e prevenzione della risposta (capitolo XVI),
alla mindfulness (capitolo XVII) e alle pratiche della ACT (capitolo xv) .
In sintesi, al termine dell'intervento sul primo processo ricorsivo ci
aspettiamo che il paziente abbia ridotto il ricorso ai TSl perché ha una
percezione differente della minaccia: la considera accettabile, possibile
e anche tollerabile.

L'intervento sul secondo processo ricorsivo

Questa parte dell'intervento (descritta approfonditamente nel capi-


tolo XIII), ha due obiettivi principali:
la modulazione della valutazione critica della sintomatologia ossessi­
va (seconda valutazione);
la rinuncia ai tentativi di contenere l'attività ossessivo-compulsiva
(TS2) .

??R
Introduzione alla terapia

n secondo processo ricorsivo di mantenimento e aggravamento del


disturbo coinvolge la valutazione critica dei propri stessi sintomi e i ten­
tativi di contenerli. n paziente, infatti, spesso giudica esagerati i propri
timori e/o i comportamenti che mette in campo per prevenirli; altre vol­
te la critica è espressa in termini di dannosità della condotta preventiva,
per la sua ricaduta negativa sulla qualità della propria vita e di quella di
chi lo circonda, in termini di compromissione di altri scopi esistenziali
importanti. Il paziente, il più delle volte, pensando ai propri timori e ai
tentativi di contenerli si giudica colpevole per la propria incapacità di
contrastare il disturbo e per gli effetti negativi che esso produce nella
propria vita e in quella dei suoi cari.
Lucio, per esempio, richiedeva la continua assistenza della sorella per
evitare il contatto diretto con sostanze da lui ritenute contaminanti. Ciò
comportava, tra le altre cose, che la sorella si svegliasse molto presto la
mattina per rendere più agevoli i rituali che accompagnavano i lavaggi
e la colazione, che tornasse a casa per la pausa pranzo per poterlo assi­
stere durante il pasto, che andasse a letto molto tardi per somministrar­
gli i farmaci prima dell'addormentamento, ritardato dai suoi rituali di
lavaggio, e che limitasse al minimo indispensabile le sue assenze da ca­
sa. Lucio si criticava aspramente per la propria incapacità di contenere
la sintomatologia e per le ripercussioni che essa aveva sulla sua vita e su
quella della sorella. Sentiva di sprecare la vita: "La mia vita è bloccata da
questo disturbo, da questi miei timori folli . . . Mi sembra di essere fermo
a una stazione e veder passare continuamente treni su cui non riesco a
salire . . . Sto sprecando la mia vita ! . A questo si aggiungeva il rimorso
"

di condizionare pesantemente anche la vita della sorella con il proprio


disturbo. Si sentiva molto in colpa nel vederla a volte crollare dal son­
no sul tavolo in cucina, nel notare che lei non aveva più una vita sua, e
tentava di porvi rimedio cercando di contenere i suoi sintomi con TS2,
in particolare con evitamenti e rituali ancora più massicci finalizzati a
prevenire le crisi ossessive stesse, non solo la contaminazione.
La valutazione critica di solito, come nel caso di Lucio, non prende
in considerazione le ragioni dei sintomi ed è globalmente autosvilente e
spesso autocolpevolizzante, accentuando lo stato emotivo alla base del­
la sintomatologia. I successivi tentativi di contrastare il disturbo che ne
derivano (TS2) , spesso controproducenti, sono di diverse tipologie (Fre­
eston, Ladouceur, Gagnon et al. , 1993 ) :
l . Tentare di modificare direttamente lo stato mentale, allontanando
pensieri e immagini, cercando di sostituire i contenuti mentali ossessi­
vi con altri contenuti non ossessivi (ci si concentra su altri argomenti)

229
La clinica

o cercando di sopprimere i pensieri ossessivi con l'effetto paradossale


di rafforzarli;
2. Ridurre l'attività ossessiva cercando di azzerare il timore di colpa utiliz­
zando l'attività ossessiva stessa, come l'alcolista che per smettere di bere
vuole ridurre il desiderio di bere e, per ottenere questo risultato, beve;
3 . Criticare le credenze che sostengono il timore di colpa, riflessione fal­
limentare però perché non arriva a mettere in discussione la necessità
di evitare del tutto la possibilità della colpa.
Per interrompere questo secondo processo ricorsivo, dunque, è op­
portuno innanzitutto aiutare il paziente a modulare la seconda valutazio­
ne attraverso la normalizzazione dell'attività ossessiva e la restituzione
di un significato e una funzione alla sua condotta, rintracciando e rico­
noscendo le ragioni che sono alla base della sintomatologia.
A questo scopo torna a essere di nuovo preziosa la ricostruzione dello
schema di funzionamento del disturbo e la sua condivisione con il pa­
ziente per aiutarlo a vedere i suoi sintomi come tentativi di fronteggiare
una minaccia che sente incombente e grave, in grado di compromettere
scopi per lui importanti, spesso esplicitamente morali.
In altre parole, in questa parte dell'intervento bisogna far in modo
che il paziente comprenda che la sua condotta, apparentemente bizzarra
e irrazionale, è l'espressione di un disturbo, di cui lui stesso è la vittima
e non il colpevole, e che agisce in quel modo nel tentativo di preservare
scopi moralmente rilevanti.
Se il paziente arriverà ad avere una migliore comprensione del suo
disturbo e della logica sottesa alla sua sintomatologia sarà meno spa­
ventato dai sintomi e meno critico nei confronti della sua condotta e, di
conseguenza, diminuiranno i suoi tentativi disfunzionali di contenerla.
L'ultimo obiettivo di questa fase dell'intervento consiste nell'aiutare
il paziente a rinunciare ai TS2 controproducenti, a non impegnarsi nel­
le attività tese a ridurre la frequenza e l'intensità delle ossessioni o dei
rituali e ad aumentare quelli efficaci. A tale scopo si possono impiegare
compiti di auto-osservazione, prescrizioni comportamentali paradossali
ed esperimenti comportamentali che aiutino il paziente a riconoscerli e
individuarli e a comprenderne l'effetto negativo.

L'intervento sul terzo processo ricorsivo

Il terzo processo ricorsivo coinvolge la risposta dei familiari alla sin­


tomatologia del paziente e gli effetti che tali reazioni hanno sul paziente

230
Introduzione alla terapia

e sulla sintomatologia stessa. L'obiettivo di questa fase è fondamental­


mente l'interruzione dei cicli interpersonali disfunzionali che si instau­
rano tra paziente e familiari, che rischiano di mantenere ed esacerbare
la sintomatologia ossessiva stessa.
Quando è preda delle crisi ossessive, spesso il paziente richiede, più
o meno esplicitamente, rassicurazioni ai familiari, la loro partecipazio­
ne alle compulsioni o aiuto per mettere in atto i suoi evitamenti. Tali
richieste perlopiù sono accolte e soddisfatte dai familiari al fine di evi­
tare le complicazioni che deriverebbero da un eventuale rifiuto, quali
la rabbia del paziente, l'aumento dell'ansia e della sofferenza, del tem­
po speso nelle compulsioni. Secondo la nostra esperienza, a rendere di­
sfunzionali i cicli interpersonali che si generano tra paziente e familiari
non è solo la loro adesione alle richieste, ma anche la modalità con cui
ciò si realizza. Poiché la vita accanto a un paziente ossessivo può essere
esasperante, non c'è da stupirsi che i familiari reagiscano con irritazione.
Soprattutto se protratte nel tempo, i familiari tendono a rispondere
con critiche e disprezzo alle richieste del paziente, giudicandole assur­
de e bizzarre, o colpevolizzandolo per ciò che comportano, per le con­
seguenze che hanno sulla sua vita e su quella di tutti i componenti della
famiglia (Saliani, Barcaccia, Mancini, 201 1 ) .
Entrambi questi fattori, ossia l'adesione alle richieste del paziente e
le modalità di risposta a tali richieste, contribuiscono a nostro avviso a
mantenere e rinforzare le credenze che sostengono l'investimento pro­
tettivo del paziente. Le critiche, i rimproveri e le colpevolizzazioni che
il paziente riceve direttamente dai familiari non fanno che rendere con­
creta la minaccia di colpa deontologica che tenta di evitare. La sofferen­
za che ne consegue, il senso di colpa, la rabbia, la tristezza e la vergogna
che sperimenta rinforzano le credenze che sia suo dovere prevenire che
ciò si ripeta e che abbia il potere di farlo aumentando il suo investimen­
to preventivo e, dunque, l'attività ossessiva stessa.
Nel progettare un piano terapeutico è, quindi, opportuno valutare,
in fase di assessment, l'eventuale presenza di cicli interpersonali disfun­
zionali che coinvolgono il paziente e i suoi familiari per poi aiutarli a
comprendere come e in che misura questi cicli contribuiscano al man­
tenimento e all'aggravamento del disturbo. Si potrà decidere, in alcuni
casi, di affiancare al percorso terapeutico del paziente interventi rivolti
ai familiari finalizzati alla psicoeducazione sul disturbo e al potenzia­
mento delle abilità di problem-solving e assertive per costruire modali­
tà di risposta alla sintomatologia del paziente più utili e funzionali alla
risoluzione del disturbo (capitolo XXI) .

23 1
La clinica

RIDURRE LA VULNERABILITÀ AL DISTURBO


E PREVENIRE LE RICADUTE

Il secondo obiettivo strategico della terapia del DOC, come anticipato


nell'introduzione, è aiutare il paziente a ridurre la propensione a con­
siderare catastrofiche le colpe, al di fuori del dominio sintomatologico,
con l'aspettativa di abbassare così la generale vulnerabilità del paziente
verso il disturbo e, dunque, il rischio di ricadute future.
La riduzione della vulnerabilità al disturbo può essere ottenuta in
due differenti modi:
- ristrutturando le credenze che sostengono l'attuale investimento nel­
la prevenzione dell'esperienza della colpa;
rielaborando le memorie di episodi passati che hanno reso il paziente
sensibile al senso di colpa.
Nel primo caso si tratta di interventi cognitivi che hanno per obiettivo
la ristrutturazione delle credenze che sostengono l'attuale investimento
sulla prevenzione della colpa, al di fuori del dominio sintomatologico,
mostrando al paziente che la colpevolezza è una categoria dell' esisten­
za che non può essere sempre evitata, è un'evenienza che va accettata, e
che l'impegno a prevenire tale esperienza, pur essendo destinato al fal­
limento, impone dei costi elevatissimi. Le procedure esperienziali, inol­
tre, consentiranno al paziente di modificare le sue credenze circa l'in·
tollerabilità e la catastroficità della colpa. In altre parole, si tratta dello
stesso intervento descritto prima per favorire l'accettazione delle colpe
intraviste nella prima valutazione, questa volta indirizzato a colpe estra­
nee al dominio sintomatico.
Attraverso tale intervento il paziente arriverà ad accettare la possibili­
tà di esser colpevole, giudicandola un'esperienza inevitabile, parte della
normale esistenza, dell'ordine naturale, oltre che tollerabile e transitoria
e, in conseguenza di tale accettazione, diminuirà l'investimento preventi­
vo e dunque la sua vulnerabilità al disturbo e il rischio di ricadute future.
Nel secondo caso l'intervento mirerà alla riduzione della vulnerabilità
al disturbo attraverso la rielaborazione dei ricordi di episodi di colpa/
rimprovero che probabilmente hanno contribuito all'iperinvestimen­
to nella loro prevenzione. Speckens, Hackmann, Ehlers e collaboratori
(2007) , seppure in un piccolo campione, hanno riscontrato che 1'8 1 %
dei pazienti ossessivi da loro intervistati (29/3 7 ) riferiva la presenza di
immagini intrusive relative a ricordi di eventi avversi passati, o a essi cor­
relate, e che tali immagini intrusive avevano importanti associazioni con

232
Introduzione alla terapia

le credenze che i pazienti avevano su di sé e sulla propria responsabilità.


Per esempio, una nostra paziente spesso ripensava a quando in un' occa­
sione, da ragazzina, aveva nascosto un coltello sotto la maglia per difen­
dersi dall'eventuale ennesimo maltrattamento da parte del padre e in tale
suo gesto trovava conferma di quanto lei fosse "malvagia, cattiva, capace
di fare cose spregievoli" . I risultati dello studio di Speckens sono in linea
con le osservazioni di altri autori che hanno già evidenziato il possibile
ruolo delle esperienze traumatiche nella genesi del DOC (De Silva, Marks,
1999, 200 1 ; Pitman, 1993 ; Janet, 1903 ) , come riportato nel capitolo x.
La rielaborazione può avvenire rievocando le memorie degli episodi
critici perché rivivere il ricordo consente la riattivazione degli schemi do­
minanti che diventano così più accessibili al cambiamento (Amtz, We­
ertman, 1999). Come è spiegato nel capitolo XIX dedicato al lavoro sulla
vulnerabilità storica, il cambiamento può essere ottenuto non apportando
modifiche all'evento ricordato, ma attraverso il cambiamento del signifi­
cato attribuito a quell'esperienza (Amtz, 201 1 ). Al termine di questo pro­
cesso, per esempio, il paziente potrebbe arrivare ad attribuire l'accaduto a
fattori diversi dalla propria condotta, allora non considerati "Quello che è
accaduto non dimostra che io sono cattivo o indegno, semmai è l' espres­
sione dell'eccessivo rigore morale di mio padre, della sua rigidità, dei suoi
disturbi emotivi o psicologici"; a considerare l'accaduto come un'eccezio­
ne piuttosto che come la regola "li fatto che papà abbia reagito così non
è predittivo della reazione di tutti gli altri o di come funziona il mondo";
come un'esperienza dolorosa ma tollerabile che rientra nell'ordine natu­
rale. Dunque, anche attraverso queste procedure esperienziali si produ­
ce un cambiamento delle credenze che sostengono l'investimento sullo
scopo dell'evitare la colpa deontologica. Per dirla con le parole di Giada:
Era come vivere in uno stato di perenne coprifuoco, sapendo che da
un momento all'altro papà avrebbe trovato qualcosa per cui prendersela
con me, rimproverarmi e picchiarmi; ora mi rendo conto che per quanto
impegno potessi metterei non avrei mai potuto annullare il rischio di tali
reazioni, non era in mio potere né mio dovere . . . Ero solo una bambina !
Ora mi rendo conto che le sue reazioni erano dovute al suo caratterac­
cio e anche al difficile momento lavorativo che stava attraversando . . . Io
c'entravo poco o nulla!

Sempre nell'ottica della prevenzione di future ricadute, è bene dedi­


care l'ultima parte della terapia proprio alla normalizzazione della possi­
bilità che i sintomi si ripresentino per impedire che una tale evenienza sia
assunta dal paziente come indice della propria inguaribilità e che si attivi­
no meccanismi che facilitano una vera e completa ricaduta nel disturbo.

233
La clinica

Per farlo si può procedere innanzitutto con l'anticipare e prevedere la


possibilità che i sintomi si ripresentino, sdrammatizzando tale eventuali­
tà e sottolineando il ruolo che in ciò avrebbero gli automatismi ricorsivi.
Si continua poi con l'individuare, assieme al paziente, le circostanze che
potrebbero facilitare la ricomparsa dei sintomi, per esempio episodi di
auto- o eterocolpevolizzazioni (esser coinvolto in un incidente stradale,
errori sul lavoro, ecc.) o carichi maggiori di responsabilità (nascita di un
figlio, matrimonio, incarichi dirigenziali, ecc.). Si cerca, infine, di iden­
tificare i segnali precoci che indicano un rischio di ricaduta (per esem­
pio, piccoli sintomi ossessivi, ripresa degli evitamenti, ecc.) e le possi­
bili strategie di fronteggiamento, così da aumentare il senso di fiducia
del paziente nelle proprie capacità di rispondere in maniera efficace a
episodi sintomatici. A questo fine, nelle ultime sedute è utile ripercor­
rere per sommi capi i momenti della terapia, le procedure e le tecniche
impiegate, per poi rintracciare assieme al paziente ciò che ritiene gli sia
stato più utile e invitarlo a continuare ad allenarsi in tale direzione an­
che una volta che la terapia sarà conclusa.

CONCLUSIONI

In questo capitolo abbiamo tentato di sintetizzare il rationale dell'in­


tervento che consegue dalla concettualizzazione del DOC presentata in
questo libro, i punti cardine da avere in mente nel progettare il piano
terapeutico. Nello specifico, è possibile contrastare il DOC perseguendo
due obiettivi strategici: l ) l'interruzione o riduzione dei processi ricor­
sivi che alimentano e mantengono il disturbo; 2) la riduzione della sen­
sibilità del paziente verso la colpa, la sua disposizione generale a sentirsi
moralmente disprezzabile. Ci si aspetta, come riscontrato in studi che
hanno valutato l'efficacia delle tecniche e delle procedure utilizzate, che
il primo tipo di intervento produca una remissione sintomatologica e
che il secondo tipo di intervento riduca la vulnerabilità all'innesco del
DOC e il rischio di ricadute.
A partire da tale rationale, e in generale da quanto sostenuto finora
in questo volume, nei capitoli che seguiranno sarà presentato il tratta­
mento che noi proponiamo, le fasi che lo compongono con i rispettivi
obiettivi, procedure e tecniche d'intervento, dimostratosi efficace nel
suo complesso nello studio già citato di Mancini, Barcaccia, Capo e col­
laboratori (2006) .

234
XII

LA RICOSTRUZIONE DELLO SCHEMA


DI COMPRENSIONE DEL DISTURBO
OBIETTIVI, PROCEDURA, DIFFICOLTÀ

Giuseppe Romano

IL RATIONALE DELL'INTERVENTO E IL MODELLO ABC

La prima fase dell'intervento sul DOC prevede la ricostruzione del­


lo schema del disturbo e la successiva condivisione con il paziente. La
procedura facilita la descrizione della condotta del paziente, adottando
un modello utile a delineare il profilo interno del disturbo in cui inseri­
re scopi, intenzioni e rappresentazioni personali.
Lo schema è un'evoluzione del paradigma d'analisi di base della te­
rapia cognitiva, l'ABC di Ellis (De Silvestri, 198 1 ; Ellis, 1962), che assol­
ve anche alla funzione di assessment degli elementi coinvolti in una si­
tuazione problematica. Lo schema ABC è un modello a tre colonne da
utilizzare per descrivere valutazioni cognitive e conseguenti emotivi e/o
comportamentali a partire da un evento attivante (vedi tabella 12.1).
L'Antecedente (prima colonna A) si riferisce alla ricostruzione degli
eventi che precedono le valutazioni cognitive (seconda colonna B) e una
data sequenza emotiva e comportamentale (terza colonna C) . Gli eventi
antecedenti sono collegati alle valutazioni, presenti nella colonna B, in
diversi modi: possono riguardare il contenuto delle valutazioni cogniti­
ve, possono attivare uno specifico stato mentale o far avviare una certa
sequenza di pensieri. Nell'esempio riportato nella tabella 12. 1 , l'evento

Tabella 12.1 Riformulazione del modello ABC di Albert Ellis.

A B c
Mentre sto uscendo Potrei essermi Ansia
dal bagno, sfioro contaminato e adesso
Rientro a lavarmi
inavvertitamente con le mani trasferire la contaminazione
le mani
la maniglia della porta dappertutto

235
La clinica

antecedente è "Sfiorare con le mani un oggetto potenzialmente contami­


nato", che può attivare un pensiero del tipo "Potrei essermi contaminato
e adesso trasferire la contaminazione dappertutto" e far sperimentare al
paziente ansia e una specifica disposizione all'azione (nella colonna C).
La colonna C, o conseguente, si riferisce quindi alle reazioni emotive
e comportamentali (anche in termini di progetti, disposizioni, intenzio­
ni ad agire) che seguono l'evento antecedente: accade l'evento "sfiora­
mento maniglia" cui segue la reazione di ansia e disposizione (anche in
termini di desiderio) a effettuare un nuovo lavaggio (''Rientro a lavarmi
le mani"). Cosa regola, però, una specifica e personale emozione o con­
dotta comportamentale?
Secondo il modello cognitivista, come ribadito più volte nei prece­
denti capitoli, la risposta si trova nelle inferenze e, soprattutto, nelle va­
lutazioni che determinano il "particolare" significato personale che il
soggetto attribuisce all'evento, ricostruito attraverso l'approfondimento
effettuato dal terapeuta con domande mirate e riportato nella colonna
B (appunto belie/s, credenze) dello schema. Attraverso l'analisi delle B,
ovvero delle variabili cognitive, è possibile dunque identificare i con­
tenuti e i processi mentali attivi in un dato momento in relazione a un
evento stimolo. Il fatto che uno stesso evento, per esempio il "toccare
inavvertitamente la maniglia della porta del bagno" , possa produrre in
una persona una forte reazione di ansia, in un'altra rabbia e in un'altra
ancora tristezza "dipende" dalla valutazione (dal valore e dal significa­
to) che la persona attribuisce a quell'evento; la valutazione è il risultato
di un processo inferenziale, più o meno automatico, più o meno consa­
pevole e più o meno funzionale, basato sulle convinzioni del soggetto e
sugli scopi dello stesso (Perdighe, Mancini, 2010). Individuare lo spe­
cifico rapporto tra credenze e scopi è fondamentale per comprendere la
visione del mondo del paziente, poiché una credenza sul mondo diventa
una valutazione proprio sulla base degli scopi personali del soggetto: la
credenza "Potrei essermi contaminato" può essere una condizione da­
vanti alla quale il soggetto si mostra indifferente o, con qualche sforzo
di fantasia, anche avere delle caratteristiche positive; diventa "negativa"
se è colorata emotivamente attraverso uno scopo che viene minacciato:
"Non devo assolutamente contaminarmi" .
Tra eventi e significati (tra A e B ) , dunque, esiste una relazione di ti­
po idiosincratico, ovvero specifico per ciascun soggetto, perché costrui­
to sulla base delle proprie esperienze, delle proprie convinzioni e dei
propri scopi. Quando uno stesso evento viene interpretato e valutato in
modi differenti può attivare parallelamente reazioni emotive e compor-

236
La ricostruzione dello schema di comprenswne del dzsturbo

tamentali diverse. Per esempio " aver toccato inavvertitamente la mani­


glia del bagno" può farmi sentirmi sia in ansia sia triste. In tal caso, la
tristezza sarebbe giustificata da una valutazione del tipo: "Avevo appena
finito di fare i miei rituali di lavaggio e adesso sono nuovamente conta­
minato" . In tal caso, il nostro assessment presumerà la presenza di ABC
paralleli (tabella 12.2).

Tabella 12.2 Riformulazione del modello AB C d i Albert Ellis.

A B c
Mentre sto uscendo Potrei essermi contaminato Ansia
dal bagno, sfioro e adesso trasferire la
Rientro a lavarmi
inavvertitamente contaminazione dappertutto
le mani
con le mani la maniglia
della porta Avevo appena finito di fare Tristezza
i miei rituali di lavaggio
Senso di impotenza
e adesso sono nuovamente
contaminato

Un ultimo chiarimento riguarda la definizione di ABC secondario. Fre­


quentemente, una reazione emotiva o comportamentale (individuabile
nella colonna C) può diventare essa stessa oggetto di una valutazione,
avviando un'ulteriore sequenza ABC. Gli stati emotivi o comportamentali
del paziente, infatti, possono essere essi stessi oggetto di valutazione, e
generare nuove risposte emotive e comportamentali, innescate dalla C
di un altro ABC temporalmente precedente.
Per ABC secondario (anche definito "problema secondario"), quin­
di, si intende il problema che insorge quando il paziente valuta la pro­
pria condotta comportamentale o la propria reazione emotiva come un
problema. Nel nostro esempio, il paziente potrebbe valutare il proprio
comportamento ( ''Rientro a lavarmi le mani" ) con un pensiero del tipo:
"Non posso continuare a lavarmi in questo modo . . . Ho le mani com­
pletamente rovinate . . . Sono davvero uno stupido" (Bl ) , quindi critica­
re il proprio operato e sentirsi emotivamente triste (Cl) (tabella 12.3 ).
Frequentemente, in fase di assessment, il terapeuta incontra difficoltà
a individuare le ragioni specifiche che portano un paziente ad attribui­
re particolari significati all'evento che ha vissuto. Nel nostro esempio,
la valutazione presente in B, che in questo caso riguarda una possibile
minaccia (''Potrei essermi contaminato e adesso trasferire la contamina­
zione dappertutto" ) , frequentemente non è sufficiente a giustificare l'in­
tensità dell'emozione sperimentata o la specifica disposizione all'azione,
né la modalità con cui l'azione viene in seguito attuata (la durata, la per-

237
La clinica

Tabella 12.3

A B c
Mentre sto uscendo Potrei essermi contaminato Ansia
dal bagno, sfioro e adesso trasferire la
Rientro a lavarmi
inavvertitamente con le contaminazione dappertutto
le mani
mani la maniglia della porta
C/Al Bl Cl
Rientro a lavarmi le mani Non posso continuare a lavarmi Tristezza
in questo modo . . . Ho le mani
completamente rovinate . . .
Sono davvero uno stupido

vasività, ecc.). In questi casi è possibile utilizzare una tecnica di appro­


fondimento dei pensieri presenti nelle valutazioni, chiamata laddering
o "tecnica della freccia discendente" (Salkovskis, Richards, Forrester,
1995 ; Salkovskis, Westbrook, 1987) .
È una procedura di assessment, m a adottabile anche in termini tera­
peutici, finalizzata a definire la sequenza delle variabili cognitive (pen­
sieri, inferenze, valutazioni, credenze e scopi) implicati nella problema­
dca del paziente. Partendo dall'individuazione e descrizione del primo
pensiero che riporta il paziente, si approfondiscono le diverse interpre­
tazioni e/o valutazioni di primo e secondo livello effettuate su di essa,
fino a giungere alla comprensione degli scopi in gioco che stanno al ver­
tice del funzionamento mentale del paziente.
In questo modo il soggetto riesce a divenire maggiormente consape­
vole di come un pensiero, apparentemente poco significativo, può pro­
durre una sofferenza emotiva intensa e duratura. Inoltre, in un momento
successivo, questa procedura permette allo psicoterapeuta di affrontare e
mettere in discussione le diverse valutazioni che il paziente riporta.
Riprendendo il nostro esempio, il pensiero "Potrei essermi conta­
minato e adesso trasferire la contaminazione dappertutto" può essere
approfondito discutendo su cosa teme il paziente nell'eventualità in cui
tale scenario si dovesse realizzare. Si può, quindi, procedere chieden­
do: "Che succederebbe se si fosse contaminato e trasferisse la contami­
nazione dappertutto? " . A questa domanda, solitamente, il paziente ri­
sponde descrivendo la conseguenza temuta, ma spesso non affrontata
poiché considerata estremamente minacciosa o perché, come vedremo
più avanti, è focalizzato sulla necessità di prendere provvedimenti o, an­
cora, ha ormai automatizzato il processo di azione (a questa valutazione
segue necessariamente l'azione "Rientro a lavarmi le mani").

238
La ricostruzione dello schema di comprensione del disturbo

Nello schema seguente è riportata una catena di pensieri e alcune


domande che il terapeuta può porre al paziente a partire dall'esempio
descritto in precedenza (schema 12. 1 ) .
In alcuni casi, il paziente può avere difficoltà a identificare il pensie­
ro (la valutazione) presente in B. Allora può essere utile tentare di rico­
struire la sequenza di pensieri a partire dall'emozione sperimentata, dal
comportamento messo in atto, o riportare il paziente a descrivere l' epi­
sodio in modo accurato, come se lo stesse vivendo in quel momento da­
vanti a noi. Per esempio, rispetto alla focalizzazione sul comportamento
si potrebbe chiedere: "Qual è la cosa peggiore che immaginava sarebbe
accaduta se non avesse messo in atto quel comportamento? " . Per far
mettere a fuoco una valutazione che risulta poco chiara si potrebbe chie­
dere: "Immagini che questa scena si stia svolgendo in questo momento:

SCHEMA 1 2.1

Paziente: Potrei essermi contaminato e adesso trasferire


la contaminazione dappertutto.

t
Terapeuta: Che succederebbe se si fosse contaminato e trasferisse
la contaminazione dappertutto?

t
Paziente: Sulla maniglia ci sono sicuramente residui di sostanze provenienti
dalle mie parti intime e se ciò accadesse sarebbe terribile . . .

t
Terapeuta: Per quale ragione sarebbe così terribile?

t
Paziente: Perché diffonderei il "mio sporco " (residui di sostanze provenienti
dalle mie parti intime) in giro per casa e contaminerei tutti i miei familiari.

t
Terapeuta: E se ciò accadesse quali sarebbero le conseguenze?

t
Paziente: l miei figli sarebbero contaminati con sostanze provenienti
dalle mie parti intime . . . Sarebbe come avere un contatto sessuale con loro.

t
Terapeuta: E questa evenienza per quale ragione è inaccettabile?

t
Paziente: Sarei un depravato, un padre che commette un incesto . . .
E sarei imperdonabile.

239
La clinica

lei ha appena toccato inavvertitamente la maniglia; proprio in questo


momento, che cosa le passa per la mente ? " . Continuando con questo
tipo di domande terapeuta e paziente arrivano a mettere in evidenza
gli scopi e le credenze in gioco, in questo caso l'antiscopo: " Non essere
colpevole di comportamenti amorali verso i miei figli". Questi scopi e
credenze diventeranno l'oggetto privilegiato dell'intervento terapeutico.

IL PROFILO INTERNO DEL DISTURBO:


DESCRIZIONE DELLO SCHEMA

Lo schema che utilizziamo nella ricostruzione del profilo interno del


disturbo, già descritto più volte nei precedenti capitoli, è un ABC in cui
sono presenti un ABC primario e un ABC secondario, senza essere ripor·
tate le emozioni, non in quanto assenti, ma per evitare confusioni e con­
centrarsi prevalentemente sull'individuazione di stati mentali e determi­
nanti psicologici che giustifichino la sintomatologia presentata.
La funzione principale della ricostruzione dello schema è dare un
senso alla sofferenza che il paziente sta sperimentando poiché, spesso,
viene esperita come priva di senso e soprattutto dannosa e controprodu­
cente rispetto ai propri scopi e obiettivi. L'utilizzo dell' ABC e l'individua­
zione delle motivazioni (spiegazioni) soggettive che il paziente adduce
per spiegare la propria condotta, attraverso la procedura di laddering,
permettono al paziente di ritrovare il significato del proprio disturbo.
Le cinque parti di cui è composto lo schema sono le seguenti: evento
critico, prima valutazione, tentativi di soluzione di primo ordine (TSl),
seconda valutazione, tentativi di soluzione di secondo ordine (TS2). Nel­
la descrizione delle parti del profilo interno del disturbo utilizzeremo
un esempio riportato nel capitolo I, il caso di Giovanni, paziente affetto
dal DOC del tipo checking (schema 12.2 ) .
Per evento critico s i intende u n evento occasionale che attiva la con­
dotta ossessiva. Può riguardare: una circostanza specifica, un avveni­
mento concreto (essere entrati in contatto con un oggetto, aver pronun­
ciato una parola, aver compiuto un determinato gesto); aver avuto un
pensiero; avvertire la comparsa nella mente di un'immagine; o provare
una sensazione, come per esempio la NJRE (vedi capitolo n).
Giovanni, prima di uscire da casa, compie un gesto normale e abituale
- chiude il rubinetto del gas - come probabilmente fanno molte persone
quando lasciano la propria abitazione incustodita per qualche ora o, sem­
plicemente, quando non intendono utilizzare, per qualche tempo, il gas.

240
La ricostruzione dello schema di comprensione del dùturbo

La prima valutazione riguarda la valutazione che il paziente fa dell'e­


vento sulla base dei propri scopi. In questa parte dello schema, quindi,
è possibile individuare gli scopi che regolano la condotta ossessiva; co­
me affermato nel capitolo II, gli scopi minacciati dalle ossessioni, che
il paziente cerca di proteggere con la propria attività compulsiva, pos­
sono essere ricondotti a un unico scopo: non essere colpevole in senso
deontologico.
Nel caso di Giovanni la semplice ipotesi di aver lasciato il rubinet­
to del gas chiuso male determina la rappresentazione di una minaccia.
La catastrofe prevista, come conseguenza della propria sbadataggine, è
la presenza di una fuga di gas e quindi di un'esplosione, che arrecherà
danni gravi e causerà numerose vittime.
I tentativi di soluzione di primo ordine includono i comportamenti
(le compulsioni) che il soggetto compie, intenzionalmente o automati­
camente, con lo scopo di prevenire, fronteggiare o neutralizzare la mi­
naccia percepita. Tra le diverse forme di comportamenti abbiamo: gli

SCHEMA 1 2.2

Evento
Chiudo il rubinetto del gas.

J.,
Prima valutazione
"E se lo avessi chiuso male e, quindi, per una mia sbadataggine, ci fosse una fuga
di gas, una esplosione, danni gravi e diverse vittime?"

J.,
Tentativo di soluzione 1
Controlli ripetuti del rubinetto del gas; tentativi di rassicurazione imprimendo
nella memoria l'immagine del rubinetto chiuso e, successivamente, ripercorrendo
mentalmente i momenti in cui il gas è stato chiuso; telefonate per verificare che
non ci siano state fughe di gas; ricerca di informazioni sui meccanismi di sicurezza
utilizzati dalla società del gas; posizionamento di segnalatori di eventuali perdite.

J.,
Seconda valutazione

"l miei timori sono folli, così come i tentativi di soluzione che metto in atto " , inol­
tre "Questo disturbo ha ricadute negative sul mio lavoro".

J.,
Tentativo di soluzione 2
Tentativi di imporsi la cessazione dei controlli e tentativi consistenti in "Un ultimo
controllo, così finalmente mi tranquillizzo e posso andare a lavoro".

4
La clinica

evitamenti, i controlli, le neutralizzazioni (come per esempio i rituali di


lavaggio) , le richieste di rassicurazione e le ruminazioni, con le quali il
paziente ragiona sulla possibilità che si possa effettivamente realizzare
la minaccia temuta.
Giovanni adottava diverse modalità per cercare di prevenire la mi­
naccia: controllava ripetutamente la chiusura del rubinetto del gas op­
pure cercava di rassicurarsi imprimendo nella memoria l'immagine del
rubinetto chiuso o, ancora, ripassava mentalmente tutti i movimenti at­
tuati durante le operazioni di chiusura del rubinetto del gas. In alcuni
casi, non appena fuori casa, telefonava ai familiari per chiedere di veri­
ficare la presenza di fughe di gas, ecc.
La seconda valutazione riguarda la valutazione critica del soggetto sul­
la propria condotta, attuata per fronteggiare la minaccia; in altri termi­
ni, riguarda la critica che il paziente fa circa la propria sintomatologia,
ovvero verso gli stessi rituali e compulsioni messi in atto. Solitamente la
critica riguarda due specifici aspetti: l'esagerazione delle proprie preoc­
cupazioni e dei provvedimenti messi in atto e la preoccupazione per le
conseguenze, a lungo termine, del mantenimento di queste condotte, sia
per se stesso sia per i propri familiari, ovvero i costi dei sintomi. Subito
dopo aver messo in atto le compulsioni descritte in precedenza, Giovan­
ni criticava i suoi stessi comportamenti giudicandoli "folli" , così come
i timori, a quel punto, considerati privi di fondamento. Non meno fre­
quentemente, inoltre, subentrava la consapevolezza di produrre pesanti
ripercussioni sul rendimento lavorativo.
I tentativi di soluzione di secondo ordine comprendono i comporta­
menti/le azioni che il paziente mette in atto con l'intento di contenere
la sua preoccupazione e la stessa attività ossessiva. Poiché l'attività os­
sessiva è intenzionale e finalizzata, il paziente mette in atto una serie di
condotte con lo scopo di interrompere la sofferenza e il disagio, frutto
del conflitto presente nella seconda valutazione e, coerentemente con
le valutazioni critiche sulla propria condotta, cerca di contenere i sinto­
mi. È possibile individuare due principali categorie di comportamenti:
quelli di "contrasto" e quelli del tipo "più di prima " . I rituali di "con­
trasto" , generalmente, riguardano modalità comportamentali di neutra­
lizzazione o annullamento.
Quelli "più di prima" , invece, sono descritti nel caso di Giovanni. TI
paziente tenta di obbligarsi a smettere di attuare i controlli e ne esegue
altri di tipo paradossale, consistenti in tentativi di realizzare alcuni "ul­
timi controlli" , con lo scopo di tranquillizzarsi definitivamente e poter
riprendere le normali attività (nello specifico poter andare al lavoro).

242
La ricostruzione dello schema di comprensione del disturbo

Questa autoistruzione risulta paradossale poiché, in realtà, avviava una


nuova sequenza di controlli.

I VANTAGGI DELLA RICOSTRUZIONE DELLO SCHEMA

Per il paziente affetto da DOC, dare un senso alla propria sofferenza,


attraverso il riconoscimento della componente intenzionale della pro­
pria condotta, serve a riacquistare potere circa la possibilità di orien­
tare il proprio comportamento in una direzione diversa. Di frequente
il soggetto affetto da DOC descrive le compulsioni come atti "più forti
di lui " , qualcosa di cui rimproverarsi e liberarsi in modo rigido e sen­
za transigere, mentre, attraverso la ricostruzione del pro@o interno, le
compulsioni possono essere considerate come tentativi infruttuosi che
alimentano le stesse preoccupazioni che le avevano generate.
Tuttavia, fra i vantaggi che comporta la costruzione dello schema ve
ne sono altri ben più importanti e significativi sia ai fini della costruzio­
ne della relazione terapeutica sia per la guarigione dal disturbo. Due,
fra tutti, sono particolarmente rilevanti.
Il primo riguarda un effetto di normalizzazione: il paziente com­
prende che esiste una ragione per cui agisce in quel modo. Quando il
terapeuta riporta in uno schema le diverse parti di cui è composto il di­
sturbo, e insieme al paziente lo articola con i suoi contenuti, permette
al soggetto di iniziare a guardare al suo disturbo non più come una ma­
lattia inevitabile, un disturbo inguaribile, da cui molto spesso si sente
affetto solo lui, ma come un problema psicologico conosciuto in modo
approfondito e su cui è possibile intervenire.
Inoltre, vedere descritto e riprodotto in forma schematica il DOC,
attraverso la condivisione del modello, produce nel paziente la sensa­
zione di sentirsi compreso, capito e ben rappresentato nella mente del
terapeuta, favorendo l'instaurarsi dell'alleanza terapeutica e la costru­
zione di un saldo legame tra terapeuta e paziente, necessario soprattut­
to all'inizio del percorso terapeutico (DeRubeis, Evans, Hollon et al. ,
1990). Tra gli effetti indiretti vi è anche u n incremento della motivazione
al trattamento, poiché lo psicoterapeuta, cercando di spiegare le ragio­
ni da cui derivano i rituali, permetterà al paziente di sperimentare una
modalità relazionale "nuova", in cui non verrà accusato o rimproverato
per i comportamenti che mette in atto.
Il buon esito della realizzazione di questa fase, solitamente, è se­
gnalato da due reazioni del paziente: il sorriso immediato, che accom-

243
La clinica

pagna il momento in cui si ritrova descritto nello schema, quando ha


compreso che il terapeuta ha colto il funzionamento del suo disturbo;
e la self-disclosure, che si realizza attraverso uno spontaneo aumento
delle informazioni fornite al terapeuta senza che questi indaghi ulte­
riormente.
In ultimo, avendo compreso il meccanismo di mantenimento e di raf­
forzamento delle stesse compulsioni (presenti nello schema come tenta­
tivi di soluzione di primo ordine) , il paziente si può sentire incoraggiato
e supportato nell'intervenire sulla riduzione della sensazione di urgen­
za di mettere in atto i comportamenti di "contrasto" o del tipo "più di
prima" che seguono alla seconda valutazione.
La ricostruzione dello schema, in questo senso, è in linea anche con
la realizzazione di uno dei principi fondamentali della terapia cogniti­
va standard: l'empirismo collaborativo (Semerari, 2000). Paziente e te­
rapeuta potranno rifarsi costantemente alla descrizione del disturbo in
tutte le sue componenti, individuando obiettivi e fasi del trattamento
in funzione degli elementi presenti nello schema, definendo le priori­
tà da seguire nel processo di psicoterapia e collaborando attivamente a
realizzare l'alleanza terapeutica attraverso l'accordo e la collaborazione
rispetto agli scopi del trattamento. È indubbio che questo fattore con­
tribuisca ad aumentare, da parte del paziente, la fiducia nella possibilità
che la terapia abbia effetto.

PROCEDURA E DIFFICOLTÀ
NELLA RICOSTRUZIONE DELLO SCHEMA

Per giungere a una rappresentazione grafica dello schema è possibi­


le iniziare con il farsi descrivere un episodio recente, preferibilmente
quello che preoccupa maggiormente il paziente, in cui siano emersi o
un pensiero o un'immagine intrusiva. Procedendo in questo modo, il
paziente avrà la possibilità di identificare circostanze ed eventi che in­
nescano l'attività ossessiva e, attraverso l'individuazione di più episodi,
trovare alcuni denominatori comuni.
Se da una parte l'accuratezza con cui verrà descritto il pensiero
intrusivo faciliterà la ricostruzione del profilo interno del disturbo,
dall'altra, già in fase iniziale, non di rado, il terapeuta incorre in una
prima difficoltà, dovuta allo stile "tipico" del paziente con DOC, adot­
tato nella descrizione dei propri problemi al terapeuta (vedi anche ca­
pitolo XXII) .

244
La ricostruzione dello schema di comprensione del disturbo

Nel riferire gli eventi, infatti, tende a essere attento e preciso, a non
tralasciare particolari che, dal suo punto di vista, potrebbero dare adito
a fraintendimenti, incomprensioni e quindi farlo incorrere nella possi­
bilità di avere la colpa di non potersi fare aiutare nel modo "giusto" . La
tendenza a riportare i fatti nel dettaglio e il ricorrere a un'elevata accura­
tezza nella descrizione possono essere caratteristiche comuni a pazienti
affetti da diversi disturbi ma, nel caso del DOC, tralasciare qualcosa da
comunicare non sarebbe solo spiacevole e doloroso, ma potenzialmente
catastrofico oltreché assolutamente imperdonabile, in quanto potrebbe
compromettere colpevolmente la presa in carico e l'esito della psicotera­
pia. Inoltre, il timore di poter essere accusato, successivamente, di aver
commesso un errore del genere induce il paziente a insistere nella pre­
cisione per sottrarsi a tale evenienza.
A questa difficoltà, legata specificamente a un'esigenza del paziente,
generalmente se ne aggiunge un'altra, che riguarda lo psicoterapeuta che
dovrà gestire, con fatica, una grande quantità di informazioni racconta­
te con dovizia di particolari e in modo farraginoso. La delicatezza della
questione riguarda anche il fatto che il paziente, se interrotto o solleci­
tato a stringere sugli aspetti più salienti della propria situazione, potreb­
be etichettare l'operato del terapeuta come superficiale e poco attento.
Tra le difficoltà tecniche più specifiche, però, senza dubbio ve ne so­
no alcune che rendono complicato questo primo passaggio della tera­
pia. In primis, l'individuazione dell'episodio originario e le ragioni dei
dubbi. Spesso, infatti, il paziente affetto da DOC, come riferito in prece­
denza, sposta la propria attenzione sulla condotta sintomatica che di­
venta condizione principale della sua sofferenza e condizione di man­
tenimento del problema.
Per esempio, nel caso di Giuseppe, descritto nel capitolo I (il pa­
ziente di 50 anni, afflitto da dubbi intrusivi, persistenti e ripetuti, che
riguardavano eventi da lui stesso riconosciuti come totalmente normali
e insignificanti) , non era facilmente possibile individuare l'avvenimen­
to originario che lo aveva portato a sviluppare un disturbo, in quanto,
all'inizio della psicoterapia, era preoccupato di aspetti considerati (da
lui) molto più importanti, come la gestione dei dubbi, il tentativo di con­
trollarli, la forte paura di poter essere folle e la consapevolezza amara e
dolorosa di essere il responsabile della permanenza nella condizione di
sofferenza in cui si trovava.
Un'altra difficoltà riguarda l'automatizzazione dei rituali. Molti pa­
zienti, infatti, riferiscono di non riuscire a individuare eventi attivanti o
valutazioni di primo livello, ma riportano soltanto la presenza dei ritua-

245
La clinica

li, delle rassicurazioni e delle neutralizzazioni (tentativi di soluzione di


primo e secondo ordine) . La ragione principale, il più delle volte, è che
nel tempo i rituali vengono regolati non più dalla valutazione effettuata
a seguito dell'evento critico, seppure presente in modo inconsapevole,
quanto piuttosto da una generica sensazione che "qualcosa non è a posto
come dovrebbe essere" : la NJRE. Nel tempo, la ricerca della Just Right
Experience diventa lo scopo da raggiungere e il paziente sembra aver
perso di vista il motivo specifico che animava la propria condotta ori·
ginaria. Circa il 50% dei pazienti affetti da disturbo ossessivo-compul­
sivo, sottotipo ordine e simmetria (Pertusa, Frost, Mataix-Cols, 2010),
tendono a regolare la propria attività compulsiva sulla base di questa
sensazione e, dunque, fanno più fatica rispetto ad altri pazienti a indi­
viduare i vari elementi del profilo interno.
In alcune circostanze, compulsioni e altri tentativi di soluzione, in
particolare gli evitamenti, sono così automatizzati ed efficaci che il pa­
ziente riferisce anche di non provare ansia, poiché è immediatamente
risolta con il tentativo di soluzione attuato. Come procedere, dunque,
in casi come questi? Il più delle volte è sufficiente chiedere di interrom­
pere le compulsioni e gli altri tentativi di soluzione per veder compari­
re l'ansia e accedere con maggiore facilità alla ricostruzione della prima
valutazione.
Una volta individuato l'evento critico, alcune domande possono esse­
re utili a ricostruire le restanti parti dello schema. Per esempio, per evi­
denziare la prima valutazione, possiamo chiedere al paziente: "Quando
ha sfiorato quell'oggetto o ha avuto questo pensiero, proprio in quel mo­
mento specifico, che cosa le è passato per la mente? " . Questa domanda
permette al paziente di soffermarsi a ragionare sull'esistenza di un lega­
me tra la condizione attivante e l'attuazione di un rituale.
Anche focalizzandoci sulle condotte compulsive possiamo ricostrui­
re a ritroso la prima valutazione. Chiedendo, per esempio: "Qual è la
cosa peggiore che temeva sarebbe potuta accadere se non avesse messo
in atto quel comportamento (quella neutralizzazione) ? " , il paziente può
soffermarsi sull'idea di danno che è alla base della catastrofe temuta.
Quando l'evento critico concerne tematiche che, secondo l'opinione
del soggetto affetto da DOC, mettono in luce le sue qualità immorali, può
mostrare ritrosia o timore a riferirli al terapeuta, temendone il giudizio
(vedi anche capitolo XXII) . Frequentemente ciò accade con le ossessioni
endogene (descritte nel capitolo I), ovvero pensieri considerati proibi­
ti perché blasfemi, aggressivi o a carattere sessuale perverso. La perce­
zione di egodistonia, vissuta dal paziente, ne determina l'inaccettabilità

246
La ricostruzione dello schema di comprensione del disturbo

e la difficoltà a parlarne. Davide, descritto nel capitolo I, per esempio,


attribuiva un significato angoscioso all'aver considerato di trarre pro­
fitto dalla morte dei propri genitori, considerando tale pensiero come
il segno di un dubbio inaccettabile: essere uno psicopatico omicida per
aver considerato (in termini di desiderio) la morte dei propri genitori.
Le ossessioni endogene sono un problema in quanto, una volta pensate,
il paziente ossessivo le considera la prova di essere una persona riprove­
vole secondo un ragionamento del tipo: " Se penso una cosa del genere
allora vuol dire che sono una persona immorale" .
In un ultimo caso, ancora, si incontrano ostacoli nella ricostruzione
dello schema, e riguarda la circostanza in cui il racconto dell'evento cri­
tico diventa motivo di attivazione della compulsione. Questa condizione
si verifica con maggiore frequenza quando il paziente non riesce a descri­
vere l'evento critico, poiché la comunicazione o anche l'immaginazione
(o il ricordo) diventano esse stesse condizioni attivanti le valutazioni di
primo ordine. Quando le ossessioni sono di natura endogena e riguar­
dano, soprattutto, temi di natura blasfema o religiosa, raccontare il con­
tenuto del proprio pensiero diventa estremamente complicato. Un paio
di esempi possono servire a descrivere meglio ciò che stiamo esponendo.
Agata ha iniziato ad avere pensieri intrusivi di natura blasfema du­
rante le serate in parrocchia con gli amici. In alcuni momenti, sia di pre­
ghiera sia di semplice animazione e gioco, mentre si trovava nei locali
della parrocchia o in chiesa, nella sua mente comparivano bestemmie
che cercava di contrastare dapprima con preghiere e successivamente
con l'utilizzo di parole che contenessero lettere che considerava "pu­
re", in quanto legate ad alcune figure di santi. Per Agata, quindi, riferi­
re che i suoi pensieri avessero come contenuto la bestemmia implicava
bestemmiare e dunque dover attivare i rituali di contrasto descritti in
precedenza.
Andrea ha seguito un gruppo di amici in una bravata. Era al corrente
che tre su quattro fossero ubriachi e non godessero di una buona fama
nella compagnia, ma nonostante tutto ha deciso di stare con loro in una
serata in cui, per scherzo, hanno prima adescato una ragazza, successi­
vamente l'hanno fatta ubriacare e infine l'hanno molestata in gruppo.
Andrea ha partecipato in modo passivo, assistendo alla scena senza in­
tervenire, ma ricorda perfettamente di essersi sentito immediatamente
in colpa per non aver fatto interrompere la molestia e anche per essersi
fatto coinvolgere in quell'esperienza. Sulla strada del ritorno verso casa
ha avuto la sensazione di essersi irrimediabilmente sporcato la coscien­
za. Poiché non si riconosceva in ciò che aveva fatto (si considerava ed

247
La clinica

era considerato un ragazzo per bene, attento agli altri, di sani principi
morali, ecc.) ha iniziato a pensare che potesse essere stato contaminato
da Satana e che, poiché si era impossessato di lui, doveva agire per cac­
ciarlo via dalla sua vita. Nel tempo le formule che applicava sembravano
rassicurarlo, ma, quando doveva parlarne con me, il dover rievocare il
ricordo originario implicava annullare l'effetto delle formule che, fino
a quel momento, sembravano aver consentito a Andrea di non essere
posseduto da Satana.

CONCLUSIONI

La ricostruzione dello schema del disturbo e la successiva condivisio­


ne con il paziente sono i primi passaggi da compiere nella psicoterapia
del DOC. Come abbiamo visto, questa fase permette di creare le condi­
zioni che favoriscono l'adesione al trattamento da parte del paziente e
consente il raggiungimento di diversi obiettivi terapeutici, alcuni strate­
gicamente importanti e altri necessari ai fini della formulazione del caso
e della pianificazione del percorso terapeutico.

248
XIII

TECNICHE DI RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA


Andrea Gragnani, Carlo Buonanno

INTRODUZIONE

In questo capitolo presenteremo alcune tecniche che si sono rivelate


utili per ristrutturare, almeno parzialmente, le valutazioni di primo e di
secondo ordine. La ristrutturazione delle valutazioni di primo ordine im­
plica ridurre la probabilità e la gravità attribuite all'evento temuto, ridur­
re l'idea che i propri comportamenti siano cruciali per prevenirlo e che
se ne sia i principali responsabili (Vos, Huibers, Arntz, 2012; Salkovskis,
2007; Mancini, Gragnani, 2004; Andrews, 2003 ; Gragnani, Toro, De Lu­
caet al., 2003 ; Salkovskis, 1999; Wells, 1997 ; van Oppen, Arntz, 1994). Se
la ristrutturazione della prima valutazione ha successo, allora è ragione­
vole attendersi che diminuisca l'investimento protettivo che, come abbia­
mo visto, contribuisce al mantenimento e all'aggravamento del disturbo.
L'intervento di ristrutturazione della seconda valutazione ha l'obiettivo
di ridurre i tentativi disfunzionali che i pazienti ossessivi spesso mettono
in atto per contenere i sintomi, e dunque i costi del disturbo stesso, ma
che si rivelano paradossalmente controproducenti.

GLI INTERVENTI DI RISTRUTTURAZIONE


DELLA PRIMA VALUTAZIONE

Vediamo ora alcune tecniche di intervento che si sono dimostrate


utili per la ristrutturazione delle credenze connesse alla prima valuta­
zione. Le schematizziamo nella tabella seguente (tabella 13 . 1 ) per dare
al lettore una visione d'insieme, e successivamente le descriveremo nel
dettaglio.

249
La clinica

Tabella 13. 1 Tecniche di ristrutturazione della prima valutazione.

- Tecnica della torta delle probabilità


- Tecnica della probabilità cumulata
- Tecnica della torta per la riduzione delle responsabilità
- Tecnica del tribunale
- Tecnica dell' awocato difensore
- Interventi di normalizzazione dei pensieri proibiti
- Esperimento di soppressione del pensiero
- Registrazione dei pensieri intrusivi
- Tecnica delle due alternative (Teoria A e Teoria B)
- Tecniche per contrastare la fusione pensiero-azione
- Tecniche per contrastare la fusione pensiero-realtà

Tecniche per la riduzione


delle probabilità attribuite agli eventi

I pazienti ossessivi tendono a sovrastimare la probabilità di acca­


dimento degli eventi temuti (Sookman, Pinard, 2002 ; Steketee, Frost,
Rhéaume et al. , 1 998; Foa, Kozak, 1985 , 1 986), quindi sarà necessario
intervenire su questa variabile, per aiutare il paziente a rassicurarsi.

La tecnica della torta delle probabilità


La tecnica della torta (Wells, 1997 ; van Oppen, Arntz, 1994) è un in­
tervento teso alla riduzione della probabilità attribuita all'evento temu­
to, che il terapeuta utilizza per aiutare il paziente a considerare possibili­
tà alternative a quella peggiore. Si applica soprattutto a sintomi ossessivi
del tipo checking e washing.
La procedura è la seguente.
Prima fase: si definisce con il paziente un evento critico, per esempio,
aver toccato una macchia rossa e scura al supermercato; si chiede poi al
paziente cosa teme che possa accadere in conseguenza dell'evento cri­
tico, per esempio contrarre il virus dell'HIV. Infine, gli si chiede quanto
a suo avviso è probabile che l'evento critico, cioè il tocco della macchia,
possa causare l'evento temuto, cioè il contagio, per esempio il 40% di
probabilità. Nel caso di un paziente checker, l'evento critico potrebbe
essere "aver l'impressione di aver chiuso male il rubinetto del gas " , la
conseguenza temuta "la distruzione della casa e la morte degli inquili­
ni" , e 30% la probabilità attribuita alla possibilità che all'impressione
di aver chiuso male il rubinetto del gas seguano distruzione e morte.

250
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

Seconda fase: si chiede al paziente di immaginare, in maniera acritica,


tutte le possibili alternative alla sequenza peggiore.
Terza fase: chiediamo al paziente di costruire una lista che includa tutte
le alternative emerse, collocando al primo posto l'evento temuto, per
non dare l'impressione che si sottovaluti il suo timore. Il paziente, poi,
dà una stima della probabilità che ciascuna alternativa si realizzi, par­
tendo dall'ultima voce della lista e procedendo verso l'alto, ricordando
che la somma delle probabilità dovrà corrispondere a 100. Si consiglia
di partire dall'ultima voce, per facilitare la focalizzazione delle possibi­
lità alternative.
Quarta fase: dopo aver attribuito a ciascuna possibilità la relativa pro­
babilità di accadimento, al paziente è richiesto di riempire il grafico
della torta, attribuendo una fetta a ogni alternativa, tenendo conto che
la grandezza di ogni fetta è data dalla stima della probabilità fornita in
precedenza.
È importante che il paziente produca molte possibilità, almeno sei
per lui plausibili. In questo modo si contrasta la tendenza a focalizzare
solo l'eventualità più temuta e si apre la strada per una ristrutturazione.
Vediamo ora l'esempio del caso di Ginevra che temeva di aver con­
tratto il virus dell'HIV dopo aver toccato una macchia rossa e scura in
un supermercato. Di seguito, la lista e il grafico a torta costruiti dalla
paziente, nei quali è possibile osservare una distribuzione delle probabi­
lità più articolata, utile a favorire la defocalizzazione dall'ipotesi temuta
(tabella 13 .2 e figura 13 . 1 ) .

Tabella 13.2 Elenco spiegazioni alternative dell'evento "Contrarre il virus dell'HIV".

Spiegazioni Stima probabilità


di accadimento %
Ho toccato una macchia rosso scuro, era sangue infetto 5
e ho contratto il virus dell'HIV
Non era sangue umano, ma il siero della carne 13
Non era sangue, ma una macchia d i sporco 15
Anche se fosse stato sangue infetto, era secco e dunque innocuo, 20
perché il virus dell'HIV resiste pochi minuti fuori dal corpo umano
Anche se fosse stato sangue umano, non era di un sieropositivo 20
Era sangue infetto, ma il tocco è avvenuto sulla pelle intatta 15
di una mano e dunque è stato innocuo
La quantità di sangue (e quindi l'eventuale carica virale) 12
era insufficiente a causare contagio

25 1
La clinica

Ho toccato una macchia rosso


scuro, era sangue infetto
La quantità di sangue era e ho contratto il virus dell'HIV
i nsufficiente a causare 5%
contagio 1 2 %

Non era sangue umano,


ma il siero della carne
Era sangue infetto,
1 3%
ma il tocco è awenuto
sulla pelle i ntatta
di una mano e dunque
è stato innocuo
Non era sangue, ma
1 5%
era una macchia di sporco
1 5%

Anche se fosse stato sangue


Anche se fosse stato sangue umano, infetto, era secco e dunque innocuo,
non era di u n sieropositivo perché il virus dell'HIV resiste pochi
20% minuti fuori dal corpo umano
20%

Figura 13.1 Grafico a torta delle probabilità dell'evento "Contrarre il virus dell'HIV".

La tecnica può essere utilizzata anche in casi di pazienti washers, per


esempio nel caso di Giovanni che temeva di uscire di casa senza aver
adeguatamente chiuso il rubinetto del gas e quindi tornava più volte a
controllare, per evitare di essere responsabile di un'esplosione (tabella
13 .3 e figura 13 .2) .

Tabella 13.3 Elenco spiegazioni alternative dell'evento "Esplosione abitazione".

Spiegazioni Stima probabilità


di accadimento %
L'impressione è vera, ci sarà una fuga di gas, un'esplosione 5
e quindi morte e distruzione
L'impressione è falsa e il rubinetto è chiuso, com'è successo 25
tante altre volte
Il rubinetto è rimasto solo un poco aperto ed è uscito 20
pochissimo gas, insufficiente per un'esplosione
Il rubinetto è rimasto aperto, ma è scattata la valvola di sicurezza 20
Se ci fosse stata una fuga di gas i vicini se ne sarebbero accorti 5
e mi avrebbero avvisato
Se c'è una fuga di gas abbondante, si sente l'odore e si evita 10
di accendere l e luci
Il rubinetto centrale del gas è rimasto aperto, ma tutti i fornelli 15
erano chiusi

252
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

Il rubinetto centrale del gas


è rimasto aperto, ma tutti L'impressione è vera, ci sarà
i fornelli erano chiusi una fuga di gas, un'esplosione
1 5% e quindi morte e distruzione
5%

Se c'è una fuga


di gas abbondante,
si sente l'odore e si evita
di accendere le luci L'impressione è falsa
1 0% e il rubinetto è chiuso,
com'è successo
tante altre volte
Se ci fosse stata una
25%
fuga di gas, i vicini se ne
sarebbero accorti e mi
avrebbero awisato
5%

Il rubinetto è rimasto solo


Il rubinetto è rimasto aperto, un poco aperto ed è uscito
ma è scattata la valvola pochissimo gas, i nsufficiente
di sicurezza per un'esplosione
20% 20%

Figura 13.2 Grafico a torta delle probabilità dell'evento "Esplosione abitazione" .

La tecnica della probabilità cumulata


La probabilità cumulata è una tecnica che aiuta il paziente a rivalu­
tare la probabilità che all'evento critico segua l'evento temuto, tenendo
conto della probabilità di accadimento di ciascun anello della catena
causale che lega il primo al secondo (van Oppen, Arntz, 1994). La pro­
cedura è la seguente: l ) si chiede al paziente la stima della probabilità
dell'evento temuto; 2 ) lo si aiuta a costruire un elenco degli eventi ne­
cessari affinché si realizzi l'evento temuto (si consiglia di far emergere
almeno 5 step) e di assegnare una probabilità a ciascun evento e, quin­
di, di valutare la probabilità cumulata degli eventi combinati; 3 ) infine,
si chiede al paziente di confrontare le probabilità che aveva assegnato
inizialmente con la probabilità che accadano tutti gli eventi della catena
che lega l'evento critico a quello temuto.
L'analisi così ottenuta può essere rappresentata graficamente. Di se­
guito, un esempio tratto da un paziente di 52 anni, ex imprenditore edi­
le, preoccupato per l'eventualità del crollo di un palazzo.

- Stima iniziale della probabilità dell'evento "Crollo del palazzo": 20% .


- Elenco step e relative stime (tabella 13.4).
- Rivalutazione delle probabilità che l'evento temuto accada. Al pa-
ziente è fatto notare che inizialmente aveva stimato la probabilità del
crollo del palazzo al 20% e ora, dopo la rivalutazione dei vari fattori,

253
La clinica

Tabella 13.4

Step Probabilità Probabilità


cumulate
l. L'ingegnere ha commesso errori di calcolo 1/10 1/10
2 . I l direttore dei lavori non ha controllato 1/10 1/100
adeguatamente il calcolo dell'ingegnere
3 . Il geometra e gli operai non si sono 1/10 1/1 .000
resi conto del suo errore
4. La procedura di collaudo non ha funzionato 11l 00 1/100.000
5. Ci sono stati degli evidenti segnali 1/100 1/10.000.000
di cedimento e nessuno ha notato niente
6. Mi accorgo troppo tardi di quello l/lO 1/100.000.000
che sta succedendo

è arrivato a dare una stima pari a 1/100.000.000, che corrisponde a


una percentuale quasi nulla (0,00000001 % ) .
L'efficacia delle tecniche appena descritte è riconducibile a due aspetti
connessi fra loro. Da una parte, infatti, la procedura aiuta il paziente a ri­
baltare l'orientamento con cui valuta l'evento critico. I pazienti ossessivi
tendono a considerare pericoloso l'evento critico se non hanno la prova
certa che sia innocuo. Le tecniche qui descritte aiutano il paziente ad ab­
bandonare questa impostazione e a considerare le probabilità che l'evento
critico sia pericoloso. Dall'altra, aiuta il paziente a focalizzare possibilità
alternative e dunque a non vedere soltanto la possibilità temuta. L'effica­
cia delle tecniche appena descritte dipende da quanto il paziente riesce
a sganciarsi dall'ipotesi temuta e a produrre scenari alternativi. Ciascuna
tecnica può essere proposta in modo proposizionale o grafico ma ciò non
fa differenza in termini di efficacia ( Gragnani, Toro, De Luca et al., 2003).
Queste tecniche hanno due limiti principali connessi fra loro. Il pri­
mo è che incidono poco sul timore di base, che è la colpa di aver sotto­
valutato il pericolo e di non essersi dati da fare per cercare di prevenirlo;
il secondo, conseguente al primo, è che questa pressione motivaziona­
le riprende facilmente il sopravvento e spinge il paziente a concentrar­
si sulla possibilità temuta, escludendo le altre. Sono opportuni, quin­
di, due provvedimenti. Uno è che il paziente si impegni ripetutamente
nell'esecuzione delle tecniche, ripetendole sistematicamente quando si
confronta con gli eventi critici, finché diventa un'abitudine. L'altro è il
ricorso a tecniche rivolte a modulare la responsabilità ipertrofica di non
sottovalutare i rischi e di non trascurare prevenzioni.

254
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

Tecniche per la riduzione della responsabilità

Vediamo alcune tecniche utili e ridurre il senso di responsabilità che


spinge il paziente a intervenire sulla catena causale che lega l'evento cri­
tico a quello temuto.

La tecnica della torta per la riduzione della responsabilità


La tecnica della torta può essere utilizzata non solo per modulare le
probabilità attribuite all'evento temuto, ma anche la responsabilità che
ciò accada. La tecnica è sovrapponibile a quella descritta sopra a propo­
sito delle probabilità, ma con due differenze. La prima è che si chiede
al paziente di immaginare che l'evento temuto sia accaduto e la secon­
da è che il paziente deve indicare altri fattori responsabili, oltre alla sua
azione o omissione. A ciascun fattore il paziente attribuisce una per­
centuale di responsabilità e, soltanto alla fine, indica quella che ritiene
imputabile a se stesso, ricordando sempre che la somma del punteggio
dovrà essere pari a 100. È importante che il paziente generi almeno 6
cause alternative, riservandoci la possibilità di intervenire direttamente
nei casi in cui le ipotesi siano insufficienti, suggerendone altre, ma non
prima di averlo sollecitato e stimolato a produrne da solo.
Con i dati così ottenuti, si costruisce un grafico a torta in cui è ben
visibile la redistribuzione delle percentuali. È importante notare come
lo scopo dell'intervento non sia convincere il paziente che non è respon­
sabile, ma aiutarlo a considerare le corresponsabilità.
L'esempio seguente (tabella 13.5 e figura 1 3 .3 ) è tratto dalla ricostru­
zione di un paziente, che si sentiva responsabile del possibile crollo di un
palazzo costruito dalla propria ditta, per aver utilizzato una quantità di ce-

Tabella 13.5 Fattori causali che contribuiscono alla responsabilità dell'evento temuto
"Crollo del palazzo".

Fattori causali %
Mia omissione 10
Assenza per malattia del capo mastro 5
Ingegnere deputato al calcolo del cemento armato 25
Collaudatore del comune 10
Ingegnere secondo collaudatore 5
Necessità di fare in fretta, causa freddo 35
Operaio della betoniera 10

255
La clinica

Collaudatore del comune


Operaio
1 0%
della betoniera
1 0%
Assenza per malattia
del capo mastro
5%

Ingegnere deputato
Necessità di fare al calcolo del
in fretta, causa freddo cemento armato
35% 25%

Ingegnere secondo
collaudatore ----·-"'�::- · Mia omissione
5% 1 0%

Figura 13.3 Torta della Responsabilità dei fattori causali dell'evento "Crollo del palazzo",

mento a suo avviso insufficiente. n paziente lamentava una responsabilità


totale ("L'eventuale crollo dipende dalla mia omissione e solo da essa") ,
Una delle obiezioni che frequentemente si incontra nel ricorrere alla
tecnica della torta è nel peso attribuito alla propria quota di responsabi­
lità. In altri termini, è possibile che il paziente risponda che "È proprio
quel lO% che mi costringe ad agire e che vorrei eliminare del tutto. _ , pe­
sa come se fosse il l 00% " _ In questi casi, il paziente potrebbe non sentirsi
completamente sollevato, perché la riduzione della responsabilità perce­
pita non azzera l'eventualità di una colpa futura e non riduce la minaccia
alla compromissione dello scopo di essere moralmente integro, per cui
rimane intatta l'indisponibilità ad abbassare la guardia e a esporsi.

La tecnica del tribunale

Vos, Huibers e Arntz (2012) hanno proposto una tecnica di ristrut­


turazione del senso di responsabilità, che condivide obiettivi analoghi
a quelli della tecnica della torta. N ella tecnica del tribunale, chiediamo
al paziente di immaginare uno scenario in cui l'evento che teme si sia
avverato, e che lui sia chiamato a risponderne. Gli si propone poi un
role-playing nel quale terapeuta e paziente assumono, alternativamente,
i ruoli di pubblico ministero, avvocato difensore e giudice. Per esempio,
il terapeuta nella veste di avvocato può difendere il suo cliente dall' accu­
sa di aver commesso un reato che corrisponde a uno dei maggiori timo­
ri del paziente (per esempio, la responsabilità del crollo del palazzo). Il

256
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

pubblico ministero accusa l'imputato e l'avvocato difensore s'impegna


per dimostrare l'innocenza del suo assistito. Alla fine, il paziente assume
il ruolo del giudice che pronuncia il verdetto, una sentenza assolutoria
espressa in seduta a voce alta, simbolicamente rivolta al pubblico mini­
stero ma indirizzata, soprattutto, al paziente stesso.

La tecnica dell'avvocato dzfensore


Un altro intervento per ridurre la tendenza del paziente ad assumer­
si le responsabilità degli eventi è quella dell'avvocato difensore (Leahy,
2003 ) . Tale tecnica si fonda sul fatto che frequentemente i pazienti os­
sessivi hanno un atteggiamento più benevolo verso gli altri rispetto a
quello che hanno verso se stessi.
Nel corso della procedura, il paziente assume la prospettiva di chi de­
ve sforzarsi di trovare le prove a favore della propria innocenza. Difat­
ti una parte del rationale poggia sulla necessità di favorire l'assunzione
del ruolo di chi si oppone all'accusa, un ruolo al quale il paziente non
è abituato. In questo senso, più volte nel capitolo abbiamo sottolineato
l'importanza di favorire la comparsa di un ragionamento più articolato
che non si arrenda al timore di colpa. La tecnica può essere introdotta
in questo modo:

Adesso prova a immaginare di essere chiamato a difenderti da un


pubblico ministero che ti accusa, che continua ad attaccarti e a darti
dell'irresponsabile e del colpevole. Ora sei pronto per assumere il ruolo
di avvocato che deve minare la credibilità dei testimoni a sfavore e deve
attaccare la logica che sottende l'accusa. Il tuo ruolo non sarà quello di
dichiarare semplicemente l'innocenza del tuo assistito, ma costruire una
difesa vigorosa, fatta di prove e testimonianze a favore. Come avvocato
difensore, non è necessario che tu creda nell'innocenza del tuo cliente,
ma che svolga il lavoro seriamente e con impegno.

L'esempio seguente è tratto dalla presentazione della tecnica a un p a­


ziente che era solito indulgere in estenuanti rituali di pulizia e lavaggio
che, nel corso del tempo, avevano danneggiato lo sfintere anale e cau­
sato dermatiti e lesioni alle mani:

Nel corso degli ultimi anni, hai trascorso tanto tempo a considerarti
una persona non all'altezza delle tue responsabilità, nonché distratta e
incline all'errore, accusandoti di essere sporco e irresponsabile. Hai con­
tinuato a impegnarti in rituali interminabili di pulizia e lavaggio, per evi­
tare di contaminare con le tue feci i tuoi vestiti, le tue mani, gli oggetti e

257
La clinica

l'ambiente circostante. Adesso vorrei che tu vestissi i panni dell' avvoca­


to di Gianni, per difenderlo da queste accuse infamanti. Non è necessa­
rio che tu creda che Gianni sia innocente, ma è importante che tu agisca
come avvocato competente. Io assumerò la parte dell'accusa e parlerò
male di Gianni. Tu lo difenderai.

A fine seduta, possiamo proporre un homework che consisterà


nell'impegnarsi a costruire una difesa ancora più articolata, risponden­
do alle domande che poco prima abbiamo utilizzato come canovaccio,
per aiutarlo ad assumere la prospettiva di avvocato.
Quale legge è stata infranta dal mio assistito?
Qual è il crimine che ha commesso?
Le prove sono sufficienti per condannarlo?
La giuria è convinta?
Ci sono spiegazioni alternative per il comportamento del mio assistito?
n mio assistito ha agito in un modo tale da ottenere l'approvazione
di una persona ragionevole?
È totalmente colpevole o le responsabilità sono condivise?
Se applichiamo lo stesso metro di giudizio agli altri, sarebbero tutti
colpevoli?
Le tecniche del tribunale e dell'avvocato difensore sono utilizzabili
non solo per i sintomi di tipo washing e checking ma anche per i sintomi
legati ai timori scaramantici e ai pensieri proibiti. Per esempio, si chie­
derebbe a Roberto di immaginare di non aver fatto i rituali scaramanti­
ci, che accada un incidente ai suoi cari e che di questo è chiamato a ri­
spondere in tribunale. Nel caso di un paziente con pensieri blasfemi, gli
si chiederà di immaginare che una bestemmia è intrusa nella sua mente
e che un'autorità morale lo chiami a difendersi.
Nel caso di Davide, gli si dovrebbe chiedere di non badare al sospet­
to di essere un potenziale parricida e di immaginare di aver ucciso i ge­
nitori. È chiaro che le tecniche del tribunale e dell'avvocato difensore
mal si prestano ad affrontare questo problema. Può essere utile, invece,
ricorrere a interventi tesi a normalizzare i pensieri proibiti, a ridefinirli
come conseguenza del fatto che li si temono e a contrastare l'idea, che
spesso accompagna i pensieri aggressivi e perversi, secondo la quale
pensarli possa, non solo essere indizio di disposizioni peccaminose, ma
anche facilitare azioni corrispondenti.1
l . L a credenza che pensare di compiere un'azione possa facilitare il mettere in atto l'azione
stessa è nota nella letteratura sul DOC come fusione pensiero-azione (Wells, 2008; Shafran, Thor­
darson, Rachman, 1996; Rachman, 1993 ).

258
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

Anche nel caso dei timori scaramantici può essere adeguato un in­
tervento diverso, teso a mettere in discussione le credenze magico-su­
perstiziose del paziente in virtù delle quali, come è noto nella lettera­
tura sul DOC, egli crede che un pensiero possa avere direttamente un
effetto sulla realtà.2

Interventi di normalizzazione dei pensieri proibiti

Come evidenziato nel capitolo I, alcuni pazienti ossessivi interpretano


pensieri, che normalmente intrudono nella mente di tutti, come indizio
di una propria disposizione moralmente inaccettabile. A tale scopo può
essere utile, come suggerito da Abramowitz (2006) , incoraggiare il pa­
ziente a riferire al terapeuta i pensieri che lo turbano e ritrovarli nell'e­
lenco (tabella 13 .6) di quelli che, come le ricerche dimostrano, intrudo­
no nella mente delle persone normali (Abramowitz, 2006; Abramowitz,
Whiteside, Kalsy et al. , 2003 ; Rachman, de Silva, 1978).
Un'altra tattica suggerita dall'autore è invitare il paziente a chiedere
ad alcuni familiari e amici, con cui è in maggiore confidenza, se e quante
volte capita loro di essere colti da pensieri intrusivi e sgradevoli.
Tra le obiezioni che abitualmente il paziente oppone è che, se è vero
che tutti possono avere pensieri intrusivi simili ai suoi, tuttavia i propri
sono più frequenti. Una risposta possibile è che la frequenza è dovu­
ta proprio all'importanza che lui dà a questi pensieri e alla preoccupa­
zione che essi gli suscitano. Per esempio, si può chiedere al paziente di
prendere in considerazione una madre che ha appena partorito il suo
primo figlio, che si sente non del tutto adeguata a questo nuovo ruolo
e che perciò è spaventata dalla possibilità di non essere una buona ma­
dre. "Troverebbe sorprendente che nella mente della madre intrudano
pensieri disturbanti di poter fare del male al neonato o commettere er­
rori che ne possano compromettere lo stato di salute? O, al contrario,
questo è un fenomeno normale e che dimostra il desiderio di essere una
buona madre e il timore di non esserlo? " Analogamente, nel caso di un
paziente ossessivo, la costante preoccupazione di essere responsabile
di un danno cagionato ad altri potrebbe rendere particolarmente sgra­
devoli pensieri intrusivi a contenuto aggressivo. Così come nel paziente
con preoccupazioni a tema religioso, è più probabile che siano pensieri
intrusivi a contenuto blasfemo ad attivare la sua ansia.

2. La credenza che un atto mentale possa influire direttamente sulla realtà è nota nella lettera­
tura sul DOC come fusione pensiero-evento (Wells, 2008; Shafran, Thordarson, Rachman, 1996;
Rachman, 1993).

259
La clinica

I pensieri intrusivi sono esperienze del tutto normali. Lo sappiamo


perché praticamente tutte le persone, anche se non hanno il DOC, han­
no questo tipo di pensieri. Di seguito sono descritti alcuni esempi di in­
trusioni avute da persone senza DOC.
Quasi tutti i pazienti ossessivi che soffrono per i cosiddetti pensieri
proibiti, cercano di prevenirli e di sopprimerli, ma questi tentativi di so­
luzione hanno l'effetto paradossale di aumentare la frequenza delle in­
trusioni e la loro persistenza (Wegner, 1989; Wegner, Schneider, Carter
et al., 1987) . Sono quindi opportuni interventi che aiutino il paziente a
ridurre la tendenza a sopprimerli.

Tabella 13.6 Lista dei pensieri intrusivi riportati da persone senza DOC (adattata da
Abramowitz, 2006).

- Il pensiero di buttarsi da un posto alto, come un edificio


- Il pensiero di ricevere la notizia che mio marito è stato ucciso
- Immagine di spingere un bambino giù per le scale
- Il pensiero di avere una malattia terribile come il cancro o l'AIDS
- Il pensiero di saltare davanti/gettarsi contro un'auto in corsa
- Impulso di gettarsi sui binari mentre un treno sta arrivando in stazione
- Idea di colpire una persona anziana a cui voglio bene
- Pensiero di dimenticare o lasciare il gatto in frigo
- Impulso di investire un pedone che cammina troppo lento
- Pensiero di far del male a qualcuno che non se lo merita
- Il pensiero di desiderare la morte di una persona
- Pensiero che il proprio bambino morirà nella culla
- Immagine di prendere una bottiglia di vino e minacciare un familiare
- Immaginarsi come sarebbe se mio fratello morisse
- Il pensiero di decapitare il proprio bambino con un coltello da macellaio
- Il pensiero di contrarre malattie da diverse persone o in diversi luoghi
- Il pensiero di andare a sbattere deliberatamente con la macchina contro un albero
o un lampione
- Il pensiero di far cadere il proprio bambino
- Pensiero di mettere il proprio bambino nel forno a microonde
- Pensiero che le mie mani sono contaminate dopo aver usato il bagno
- Pensieri in contrasto con le mie convinzioni morali o religiose
- Idea di poter aver contaminato o avvelenato il cibo di mio figlio
- Immagine di urlare duramente al figlio
- Impulso di chiamare la mia ragazza e !asciarla anche se siamo molto innamorati
- Pensieri di fare qualcosa di imbarazzante come dimenticare di indossare la camicia
- Pensiero di urlare parolacce ad alta voce durante una cerimonia religiosa
- Pensiero che ho lasciato la porta aperta
- Pensiero che ho lasciato un elettrodomestico acceso e causare un incendio
- Pensiero di oggetti non ben disposti
- Pensiero che la mia casa crolli mentre io non ci sono
- Immagine dei miei nonni che hanno un rapporto sessuale
- Pensieri sessuali su altre persone che non sono mio marito
- Pensiero di compiere atti sessuali "innaturali"

260
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

Esperimento di soppressione del pensiero

Di seguito, la sintesi dell'esperimento comportamentale che possia­


mo somministrare in seduta per mostrare il fenomeno "orso bianco" .
Fase l . Richiesta: "Per un minuto, pensi all'immagine di una giraffa e
ogni volta che l'immagine sparirà, alzi un dito" . Il terapeuta registra le
volte in cui il paziente alza il dito.
Fase 2. Inversione della richiesta: " Adesso provi per un minuto a non
pensare alla giraffa e alzi il dito ogni volta che quest'immagine appari­
rà" . Anche in questa seconda fase il terapeuta registra le volte in cui il
paziente alza il dito.
Il risultato atteso è un'evidente differenza della frequenza con la qua­
le il paziente alzerà il dito nel corso delle due fasi dell'esperimento. Nella
seconda fase (inversione della richiesta, cioè soppressione) , infatti, l'im­
magine della giraffa comparirà nella mente un numero di volte maggio­
re, rispetto a quanto osservato nella precedente.
In conclusione, attraverso l'esperimento si può evidenziare la para­
dossalità del tentativo di sopprimere i pensieri e come, quindi, la fre­
quenza e la persistenza dei pensieri proibiti possa dipendere non da
una disposizione malvagia o perversa ma dai tentativi di soppressione.

Registrazione dei pensieri intrusivi

Un altro modo per promuovere la consapevolezza dell'effetto para­


dossale provocato dal tentativo di soppressione del pensiero è la regi­
strazione dei pensieri intrusivi (Salkovskis, 1999) . La procedura si arti­
cola in due fasi.
Fase preliminare: chiediamo al paziente di impegnarsi nel monitoraggio
e nella registrazione quotidiana della frequenza spontanea dei pensieri.
Fase sperimentale: la durata è di circa 7 - l O giorni. Il paziente dovrà svol­
gere le seguenti attività: l ) soppressione attiva del pensiero; nei giorni
concordati in seduta, gli chiederemo di impegnarsi volontariamente e
in maniera energica nei tentativi di soppressione del pensiero; 2) mo­
nitoraggio della frequenza di comparsa. Negli altri giorni, inviteremo il
paziente a registrare esclusivamente la frequenza dei pensieri, astenen­
dosi dai tentativi attivi di soppressione.
In entrambe le condizioni il paziente dovrà registrare su un diario la
frequenza di comparsa del pensiero durante ciascuna giornata.

261
La clinica

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Giorni Giorni e condizioni
-- Registrazione (R) -e- Soppressione (S)

Figura 13.4 Esito della registrazione dei pensieri intrusivi di Davide: sono riportati la
frequenza dei pensieri intrusivi sia in condizioni di monitoraggio sia in condizione di
attivi tentativi di soppressione.

In seguito, terapeuta e paziente sistemano i dati ottenuti su un grafico,


sul quale è possibile apprezzare quanto agli sforzi di sopprimere il pen­
siero corrisponda un aumento della frequenza dei contenuti intrusivi.
Nel caso di Davide, il paziente era frequentemente impegnato a sop­
primere pensieri aggressivi nei confronti dei genitori. Il tentativo di
sopprimerli produceva esattamente l'effetto opposto. L'esito era un au­
mento dei pensieri aggressivi e un contestuale aumento del dubbio di
poter essere un parricida. La registrazione dei pensieri intrusivi ha dato
i risultati riportati nella figura 13 4 . .

Quando gli fu chiesto di esprimere il suo parere sui risultati dell'espe­


rimento, concluse che il tentare di scacciare dalla mente i pensieri intru­
sivi, non solo era inutile, ma era anche controproducente e fu d' accor­
do a cercare di ridurre i tentativi di soppressione. Ciò diminuì, almeno
parzialmente, la ricorsività, la penetranza e la frequenza dei suoi dubbi.

Tecnica delle due alternative (Teori a A e Teoria B )

A seguito di questi interventi si profila una spiegazione alternativa


della frequenza e della persistenza dei pensieri proibiti: non indizio di
perversione e malvagità ma conseguenza della paura di essere perver­
si o malvagi e dei tentativi di sopprimere i pensieri. Salkovskis (1997,
1999) suggerisce di affrontare la questione in modo esplicito, aiutando

262
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

Tabella 13.7 Le due spiegazioni alternative del mio problema.

Teoria A
"Sono un molestatore di bambini"
- Mi vengono in mente queste immagini e questi pensieri e quindi potrei agire
- Se mi vengono in mente queste cose vuol dire che sono una persona malvagia,
quindi anche un molestatore di bambini
- Siccome ci ho pensato tante volte, allora è vero
- Uno che non è un pedo@o non pensa a queste cose
- Se non riesco a liberarmene è perché sono davvero un pedofilo
Teoria B
"Sono molto preoccupato di poter essere o diventare un molestatore di bambini"
- I bambini sono la cosa più preziosa che esista sulla Terra e quindi per me sarebbe
proprio la cosa peggiore del mondo
- Ci si spaventa per le cose che stanno più a cuore
- Non sono padrone della mia mente, tant'è che tutti hanno pensieri intrusivi
e anche io ne ho altri che non mi spaventano
- Pensare a una cosa non fa aumentare le probabilità che accada
- Penso che ciò che fanno i pedo@i sia orribile

il paziente a confrontare due teorie alternative dei pensieri proibiti: una


è quella che spaventa il paziente, vale a dire che i pensieri proibiti di­
mostrano la sua natura immorale, la seconda è che la loro frequenza e
persistenza sono conseguenza del terrore di avere una natura immorale.
La procedura prevede la definizione chiara delle due teorie e dei relativi
argomenti a favore e poi un confronto fra di essi. Per aiutare il paziente
a svolgere la discussione, può essere utile invitarlo a sedersi su una sedia
quando sostiene una teoria e su un'altra sedia quando argomenta a favo­
re dell'altra teoria. Può anche essere utile una terza sedia sulla quale il
paziente si siede per valutare il confronto. Nella tabella 13 .7 è riportato
l'esempio di un paziente di 3 8 anni, in cui era centrale il timore di esse­
re un pedofìlo; la prova principale era che immagini, pensieri e desideri
di tipo pedofìlo gli intrudevano frequentemente.

Contrastare l'idea che pensare ad azioni aggressive o perverse


possa facilitarle, cioè contrastare la fusione pensi ero-azione

I pazienti affetti da ossessioni aggressive o perverse spesso temono


che la persistenza nella mente di queste ossessioni possa portarli ad azio­
ni effettivamente aggressive o perverse. Per contrastare questo timore è
possibile ricorrere a esperimenti comportamentali. Di seguito, l'esem­
plificazione clinica di un esperimento condotto con una paziente di 32

263
La clinica

anni, Marina, che presenta il timore di poter mettere in atto i propri


pensieri se non riesce a controllarli. Inizialmente, il terapeuta cerca di
modificare la credenza della paziente illustrando che pensare qualcosa
non aumenta la probabilità che questo avvenga e a tal fine le suggerisce
alcune situazioni simili, ma in domini diversi da quelli temuti. Per esem­
pio: "Prova a immaginare di essere seduta nella sala d'aspetto e di pen­
sare intensamente di gettare tutte le riviste nella pattumiera" , oppure
"Immagina di essere in metropolitana e di pensare di fare la linguaccia
al passeggero che è seduto di fronte a te" . Successivamente, il terapeuta
chiede a Marina se aver pensato a questa eventualità possa aver aumen­
tato la possibilità che lei la mettesse in atto.
Terminata la fase preparatoria, inizia il vero e proprio esperimento
comportamentale, durante il quale chiederemo al paziente di conside­
rarsi e agire come uno scienziato che cerca di raccogliere prove a soste­
gno o contrarie all'ipotesi iniziale.
Il primo passo, consiste nel monitoraggio del pensiero di Marina
"Se penso qualcosa di sessuale verso un'altra donna o un uomo, oppu­
re a qualcosa di immorale, non riuscirò a trattenermi dal farlo" , e le si
chiede una valutazione della credibilità della sua convinzione (0- 100) .
Contestualmente, pianifichiamo un esperimento per valutare se pensare
qualcosa equivalga a causare il comportamento pensato come, per esem­
pio, "entrare nella sala d'aspetto, pensando di essere lì a ballare nuda".
A conclusione dell'esperimento, il terapeuta e la paziente rivedono
la previsione iniziale, secondo la quale se Marina non avesse controlla­
to i propri pensieri, allora avrebbe agito l'evento pensato. Ancora una
volta, il terapeuta le chiede una nuova valutazione della credibilità della
convinzione (0- 100) "Se penso qualcosa di sessuale verso un'altra donna
o uomo, oppure a qualcosa di immorale, non riuscirò a trattenermi dal
farlo". La stima finale sarà nettamente inferiore, consentendo a Mari­
na di rendersi conto, almeno transitoriamente, che le previsioni temute
non si verificano mai e che pensare a qualcosa non è condizione suffi­
ciente a farla accadere.

Interventi per contrastare l 'idea magico-superstiziosa che pensare


a un evento possa aumentare la probabilità ch e l'evento accada,
cioè contrastare la fusione pensiero-realtà

Come è stato scritto nei primi capitoli, l'elevato timore di colpa può
portare i pazienti ossessivi a dar credito a nessi di causa magico-supersti­
ziosi e, in particolare, a ritenere che pensare a un evento negativo possa

264
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

causarlo. Carla temeva che pensare a una malattia grave, come per esem­
pio la leucemia, potesse causare quella malattia al figlio. Carla riteneva
che questa possibilità non potesse essere esclusa e che quindi sarebbe
stato da irresponsabili sottovalutarla; di conseguenza, si impegnava in
tentativi di soppressione, formule di annullamento del pensiero e ripe­
tizioni del gesto che stava compiendo, per esempio stirare i pantaloni
del figlio, quando il pensiero pericoloso era apparso nella sua mente,
finché non riusciva a compierlo senza pensarlo. Nei pazienti che sono
anche schizotipici, vi può essere una reale credenza circa il potere dei
pensieri di incidere direttamente sulla realtà (Lee, Cougle, Telch, 2005 ) .
In questi casi, Wells (2008) suggerisce alcune domande per mettere
in discussione la cosiddetta fusione pensiero-realtà.
- Quali prove ha che i pensieri possano causare gli eventi?
- Quali prove possiede che i suoi pensieri indichino che è accaduto
qualcosa di sgradevole?
- Quanti controlli ha effettuato per verificare se i suoi pensieri sono
reali o meno?
- In che modo un pensiero si può trasferire a un oggetto?
- Perché soltanto alcuni pensieri hanno un potere particolare?
- Mi saprebbe dire se ci sono controprove del fatto che i suoi pensieri
abbiano un potere speciale?
- È mai successo che non riuscisse a neutralizzare un pensiero? E qual
è stata la conseguenza?
Possono essere di aiuto alcuni esperimenti comportamentali. Per
esempio, si può chiedere al paziente di comprare il biglietto di una lot­
teria e trascorrere trenta minuti al giorno pensando di vincere (Freeston,
Rhéaume, Ladouceur, 1 996) . In alternativa, visto che spesso è sovra­
stimato il potere che il pensiero possa causare specificatamente eventi
negativi, si può chiedere al paziente di pensare ripetutamente (circa 50
volte al giorno) che la televisione, o qualsiasi altro oggetto casalingo, si
romperà entro i sette giorni successivi (Dèttore, 2003 ) .

INTERVENTI DI RISTRUTTURAZIONE
SULLA SECONDA VALUTAZIONE

Come abbiamo visto nei capitoli I e XII, i pazienti ossessivi spesso valu­
tano negativamente le preoccupazioni ossessive e i TSl . I pazienti si spa­
ventano dei sintomi ossessivi (''Sto andando fuori di testa! "); si autosvalu­
tano a causa loro ( '' Sono un povero pazzo ! " ) ; e si rimproverano dei costi

265
La clinica

che ne derivano sia per se stessi sia per gli altri ( ''Sto rendendo la vita im­
possibile ai miei familiari e non riesco più a rendermi utile"). Dunque cer­
cano di contenere i sintomi ossessivi con quelli che abbiamo chiamato TS2.
Alcuni di questi sono utili ma altri sono controproducenti, in par­
ticolare i tentativi di gestire la prima valutazione cercando di soppri­
merla; per esempio, Ginevra cercava di scacciare dalla mente le idee di
contaminazione e di diminuire il ricorso paradossale ai TSl per cercare
di ridurre i costi del disturbo; per contenere il numero dei lavaggi au­
mentava gli evitamenti e le richieste di rassicurazione e a volte si lavava
le mani per evitare di diffondere la contaminazione in casa e poi sentirsi
costretta a lavare gli oggetti che avrebbe toccato.

Dall a condivisione del profìlo alla comprensione del conflitto

Come mostrato nel capitolo XII, la ricostruzione e la condivisione


dello schema del proprio disturbo dovrebbero aver favorito nel pazien­
te il riconoscimento delle ragioni del disturbo con due possibili benefi­
ci. In primo luogo, rendersi conto che le compulsioni hanno un senso,
ancorché esagerato, aiuta il paziente a-Spaventarsi di meno dei suoi sin­
tomi e, in secondo luogo, vedere che le motivazioni alla base della sin­
tomatologia sono, in definitiva, moralmente apprezzabili, può lenire le
auto-colpevolizzazioni.
Questo stesso obiettivo può essere raggiunto aiutando il paziente a
mettere a fuoco e a confrontare le autocritiche, cioè la seconda valuta­
zione, con le ragioni che lo portano a mettere in atto le compulsioni, cioè
la prima valutazione. A questo fine può essere utile ricorrere alle due
sedie: una dove si siede il paziente quando esplicita tutte le ragioni che
sostengono la preoccupazione ossessiva e il ricorso ai TSl e l'altra dove
si siede il paziente quando esplicita le critiche che rivolge a se stesso per
le preoccupazioni ossessive e per le compulsioni.

Interventi paradossali

L'obiettivo terapeutico di ridurre il peso negativo della seconda va­


lutazione può essere anche raggiunto con delle prescrizioni paradossali
dei TS l . Per esempio, si può prescrivere al paziente di mettere in atto le
compulsioni per un numero di volte doppio rispetto a quello che nor­
malmente avviene o di quello che sente utile. In questo modo si posso­
no ridimensionare le paure, le autocritiche e gli autorimproveri del pa­
ziente e si possono bloccare i TS2 controproducenti, cioè quei tentativi

266
Tecniche di ristrutturazione cognitiva

con cui il paziente cerca di contrastare e di contenere il DOC, ma che in


realtà sono peggiorativi.
Uno dei vantaggi della condivisione del profilo interno è, anche, mo­
strare al paziente come alcune modalità spontanee di contenimento del
disturbo siano francamente controproducenti, e come diventino fattori
di mantenimento del disturbo stesso. In particolare ciò vale per i tenta­
tivi di sopprimere i pensieri riguardanti la prima valutazione, che pos­
sono essere gestiti come abbiamo visto più sopra, cioè in modi simili a
quelli con cui si gestiscono i tentativi di sopprimere i pensieri proibiti.

Metafore

Per aiutare il paziente a inquadrare il suo disturbo in modo diverso


da quanto spontaneamente avviene con la seconda valutazione, possono
essere utili delle metafore. Per ragioni di spazio ne descriveremo soltan­
to una: la metafora del bullo (Weg, 2010; Salkovskis, 1 999).

Marco è un bambino timido, piccolo e bravo a scuola, ma non ha


molti amici. Marco ha un problema. Il suo problema è Franco, un bul­
lo che lo sottomette e gli chiede di fare i compiti al posto suo, pretende
la sua merenda e gli dà ordini di qualsiasi tipo. Gli ruba i soldi e lo fa
sentire solo e debole. La solitudine e la mancanza di reazione di Marco
fanno sì che Franco si senta sempre più forte e potente. Quando alcuni
compagni più grandi capiscono la situazione cercano di aiutare Marco.
Sandra, per esempio, inizia a dire al ragazzo di chiedere aiuto alla madre
e alla maestra e Davide incita Marco a combattere con Franco e a non
avere paura. Marco non se la sente di combattere contro il bullo, perché
più grande e più forte di lui, ma da quando alcuni amici hanno comin­
ciato ad aiutarlo, Marco ha acquistato sicurezza. Adesso si sente meno
solo, più coraggioso e, piano piano, riesce a gestire la situazione, fino a
risolverla e a sfidare il bullo per sconfìggerlo e allontanarlo. Un giorno
Franco gli intima di fare un compito in classe al posto suo, ma Marco lo
ignora, mostrando di non aver paura delle conseguenze. Cancella il suo
contatto e-mail e si ribella alle sue richieste. Il giorno dopo Franco prova
a mettergli paura, ma Marco ormai è pronto a rispondere, non si spaventa
e reagisce con intelligenza e umorismo, senza credere a tutto quello che
Franco minaccia di fare. (Adattato da Weg, 2010)

La metafora invita il paziente a trattare la minaccia ossessiva come se


fosse la minaccia di un bullo che cerca di dare ordini e che diventa più
cattivo-quando non vengono rispettati. Questa storia è utile a spiegare al
paziente che è vittima di un disturbo e non ne è colpevole, che merita di
chiedere e avere aiuto e comprensione, che il DOC non è una ragione di

267
La clinica

vergogna e che la soluzione sta nell'imparare a non cedere alle minacce


del bullo piuttosto che cercare di sopprimere le preoccupazioni osses­
sive o cedere un po' per non esserne troppo tormentati.

CONCLUSIONI

Gli interventi descritti in questo capitolo favoriscono la riduzione


della drammaticità della prima e della seconda valutazione. Questo im­
plica a sua volta una riduzione dei tentavi di soluzione di primo e di se­
condo ordine, contribuendo a ridimensionare i processi ricorsivi di man­
tenimento e aggravamento del disturbo. Non sempre, purtroppo, questi
interventi sono sufficienti per contrastare la ricerca di certezza tipica dei
pazienti ossessivi ("Posso essere sicuro di aver fatto tutto il possibile per
prevenire il contagio? O di aver chiuso il rubinetto del gas? O di aver
eliminato il sospetto di essere un parricida potenziale? " ) .
Per superare questa difficoltà ci sono tre strade: l'accettazione che la
certezza non sia possibile (vedi capitolo xv); la riduzione della vulnera­
bilità al senso di colpa (vedi capitoli XVIII e XIX) ; allenare il paziente a
ricorrere alle tecniche di ristrutturazione nei momenti critici. Quest'ul­
tima strada è in salita perché le tecniche di ristrutturazione richiedono
un discreto impegno cognitivo, proprio in quei momenti critici in cui
le risorse del paziente sono comprensibilmente assorbite dalla minac­
cia ossessiva.

268
XIV

DISGUSTO E CONTAMINAZIONE
INTERVENTI COGNITIVI ANTIDISGUSTO

Claudia Perdighe, Francesco Mancini

INTRODUZIONE

In questo capitolo saranno presentati una serie di interventi tesi a ri­


durre la reattività a un'emozione specifica, il disgusto, particolarmen­
te presente per intensità e frequenza almeno in una parte dei pazienti
ossessivi.
La rilevanza del ruolo del disgusto è già stata ampiamente descritta da
Francesco Mancini nel capitolo II. In questo capitolo verrà solo ripresa
brevemente l'analisi di questa emozione e la sua funzione nella genesi
e nel mantenimento del disturbo ossessivo, prima di entrare nel merito
degli interventi di cambiamento. La centralità del ruolo del disgusto,
come visto, non solo non confligge con la tesi sostenuta in questo libro
circa il ruolo critico di uno specifico senso di colpa e del connesso ti­
more di essere giudicati moralmente indegni nella genesi del DOC, ma
anzi supporta la stessa tesi. Colpa deontologica e disgusto sono, infatti,
emozioni che evocano scenari mentali simili, in particolare la minaccia
di diminuzione del proprio valore morale.
Il ruolo del disgusto nel disturbo ossessivo-compulsivo suggerisce
l'opportunità con alcuni pazienti di un intervento specifico su questa
emozione. La riduzione della percezione di disgusto davanti agli stimo­
li attivanti, infatti, si traduce da un lato in una diminuzione delle con­
dotte tese a contenerlo, in particolare evitamento e lavaggi, dall'altro in
un grado maggiore di accettazione sia del rischio oggettivo (maggiore
disponibilità al contatto con gli stimoli) sia della sensazione soggetti­
va di contaminazione (maggiore disponibilità a sperimentare il disagio
senza far niente per ridurlo) . Saranno, dunque, descritti interventi di
ristrutturazione cognitiva che hanno per target la credibilità, probabi-

269
La clinica

lità e gravità della minaccia di contaminazione percepita dal paziente


ossessivo e, più in generale, le forme di pensiero magico che generano
e mantengono queste credenze. Agli interventi di ristrutturazione co­
gnitiva può essere utile associare interventi di accettazione fattiva della
possibilità di contaminarsi, in particolare attraverso procedure di espo­
sizione; per l'esposizione a stimoli disgustosi, contaminanti, si rimanda,
però, al capitolo dedicato alle procedure di esposizione e prevenzione
della risposta (capitolo XVI) .

L'EMOZIONE D I DISGUSTO E I L SUO RUOLO


NEL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO

Diversi studi evidenziano il ruolo giocato dal disgusto nel disturbo


ossessivo (D'Olimpio, Mancini, 2014; D'Olimpio, Cosentino, Basile et
al. , 2013 ; Reuven, Liberman, Dar, 2013 ; Olatunji, Tart, Ciesielski et al. ,

201 1 ) .
Partiamo, però, dall'osservazione di un caso.

Giovanna, una signora di 58 anni, sposata con due figli ormai grandi, a cau­
sa del DOC era andata precocemente in pensione dal suo lavoro di insegnante.
Il suo disturbo le impediva qualunque attività non solo lavorativa ma anche
sociale, praticamente non usciva più di casa. Il suo DOC era centrato sulla pos­
sibilità di essere contaminata da sostanze provenienti da cadaveri. Non teme­
va in alcun modo di poter contrarre una malattia, ma l'idea di essere entrata in
contatto con corpi umani in decomposizione suscitava in lei un'insopportabile
sensazione di schifo. Gli eventi critici erano i più disparati, poiché ai suoi occhi
un numero sterminato di oggetti poteva essere contaminato, oltre ovviamente
ai cimiteri, le chiese dove si svolgono i funerali, i bar accanto alle chiese dove va
la gente dopo essere stata a un funerale, i parenti e gli amici di persone morte.
Il fulcro della sua difesa era il proprio corpo e, a seguire, gli oggetti e gli spazi
della casa che sentiva suoi in un senso più intimo. I tentativi di soluzione era­
no, oltre agli evitamenti, i lavaggi, che eseguiva con lisoformio. Il tutto era ini­
ziato più di vent'anni prima a seguito della morte per un incidente domestico
della figlia di una sua collega. Da principio aveva avvertito un aumento della
responsabilità verso i propri figli e nell'ambito di una più generale attenzione
protettiva verso di essi aveva cominciato a evitare di collegare, anche in modo
simbolico, i propri figli con qualunque cosa avesse a che fare con la morte. Cir­
ca cinque anni dopo l'esordio, ebbe un grave peggioramento quando morì il
figlio di una parente, a causa di un incidente d'auto, e lei non ebbe la forza di
andare a trovare la parente. Se ne sentì molto in colpa; per usare una sua espres­
sione si sentì un "verme" . Da allora la " sensibilità per la morte" non fu più me­
diata dai timori magici di danno per i propri figli ma divenne chiaramente una

270
Disgusto e contaminazione

profonda intolleranza per la sensazione di essere stata sporcata e contaminata.


(Barcaccia, Perdighe, Mancini, 2002)

Per comprendere meglio il ruolo del disgusto nel DOC è opportuno


dedicare alcune righe a quella che, nell'opinione dei più, è la funzione
di questa emozione di base (Phillips, Senior, Fahy et al., 1 998; Angyal,
194 1 ) . Il disgusto è un'emozione fortemente corporea ed è stata defini­
ta come "una repulsione alla prospettiva di un'incorporazione orale di
una sostanza dannosa o offensiva" (Rozin, Fallon, 1987; Ekman, Friesen,
1975 ; Tomkins, 1963 ) .
L a situazione stimolo per il disgusto è il contatto con sostanze di ori­
gine animale, vale a dire i prodotti corporei (per esempio, il sangue, la
saliva; un'eccezione sono le lacrime, prodotte solo dagli esseri umani tra
gli animali) e alcuni animali in toto (per esempio, insetti). Benché si tratti
di un'emozione universale, la risposta di disgusto è mediata da variabili
culturali e dalla qualità della relazione affettiva con l'oggetto contami­
nante. Per esempio, la risposta di disgusto nel contatto con saliva e feci
scompare o si attenua fortemente se queste sostanze appartengono a un
figlio o anche, genericamente, a un neonato.
Da un punto di vista ontogenetico e filogenetico, l'emozione di di­
sgusto ha la funzione di sorvegliare i confini del sé corporeo: protegge
dall'entrare in contatto o introdurre nel corpo sostanze potenzialmente
dannose, per esempio sostanze nuove e con un aspetto poco invitante;
oppure sostanze che sappiamo essere potenzialmente dannose, come
per esempio feci di un animale o cibo sporco.
Contrariamente a quanto può sembrare, il disgusto non ci difende in
senso stretto da un pericolo per la salute. Si prova disgusto per sostanze
che sappiamo essere con certezza innocue, per esempio una macchia del
proprio stesso sangue su un fazzoletto. Se ci tagliamo un dito ed esce
del sangue istintivamente lo portiamo alla bocca, ma se tamponiamo la
ferita con un fazzoletto poi, però, ci suscita disgusto, portare alla boc­
ca il fazzoletto macchiato del nostro stesso sangue. Toccare o ancor più
mettere in bocca uno scarafaggio ci suscita disgusto anche se prima lo
abbiamo sterilizzato e anche se sappiamo che in Thailandia è un alimen­
to molto apprezzato. Allo stesso tempo il contatto con alcune sostanze
pericolose non ci suscita alcun disgusto, per esempio il contatto con il
benzene ci spaventa, m a non ci fa schifo.
Osservare le reazioni al disgusto suggerisce che questa emozione pro­
tegge non solo il sé corporeo, ma anche il sé psicologico, la dignità e,
dunque, il diritto ad appartenere a un gruppo. Si pensi alla risposta che

271
La clinica

normalmente le persone hanno di fronte a qualcuno sporco e che ema­


na cattivo odore (il prototipo è l'immagine del barbone, che non a caso
è spesso uno degli stimoli attivanti per i pazienti con DOC). La risposta
più tipica e immediata è l'allontanamento e l'isolamento della persona,
che è ben rappresentata dall'aprirsi di uno spazio intorno a un barbone
che entra in un luogo chiuso e affollato.
In alcune culture la sovrapposizione tra dignità e protezione del corpo
da sostanze disgustose è codificata; per esempio, nel sistema di caste india­
no agli intoccabili, la casta più in basso nella gerarchia sociale, sono affi­
dati i lavori considerati più "sporchi", come la macellazione degli animali.
Per capire la funzione del disgusto è utile chiedersi che cosa accade
se si è esposti senza difese alla contaminazione da parte di sostanze di­
sgustose. Che ci succede se ci ritroviamo lerci, maleodoranti, sporcati
dagli escrementi? La risposta, almeno nell'opinione dei maggiori esper­
ti, è che ci sentiamo sviliti, sminuiti, impresentabili, indegni di essere
accettati dal nostro gruppo, anzi meritevoli di disprezzo da parte degli
altri. Ci aspettiamo un disprezzo aggressivo e crudele che ci allontani
attivamente, non freddo e distaccato come accadrebbe se ci scoprissimo
poco capaci, per esempio poco intelligenti.
Possiamo trovare le prove di questa affermazione nei resoconti dei
sopravvissuti ai campi di concentramento (Levi, 1 989; Des Pres, 1976)
che in maniera chiara, ancorché drammatica, mostrano che cosa accade
se la difesa del sé corporeo crolla e si rimane esposti alla contaminazio­
ne. Nei campi di concentramento la mancanza di servizi igienici, spesso
anche dell'acqua, uniti all'elevata promiscuità, rendevano difficile la­
varsi e mantenersi puliti. Farlo richiedeva un impegno particolare. Al­
cuni prigionieri abbandonavano tale impegno e si lasciavano andare a
quello che Des Pres definisce "l'assalto degli escrementi" . Il risultato era
che questi prigionieri tendevano a essere percepiti come bestie sia dalle
guardie, che di conseguenza ricorrevano con maggiore frequenza e du­
rezza ai maltrattamenti, sia dai compagni che li escludevano con facilità
e li scacciavano anche se avevano bisogno di aiuto. Sembrava che loro
stessi percepissero diminuita la propria dignità umana; e, infatti, accet­
tavano senza ribellarsi le violenze e il disprezzo. Al contrario, quelli che
mantenevano almeno una parvenza di decoro e pulizia erano maggior­
mente rispettati dalle guardie e riconosciuti come degni di appartenere
al gruppo degli altri prigionieri.
Il problema che si pone riguarda come il timore di contaminazio­
ne si traduca in attività ossessiva e che ruolo specifico abbia il disgusto
nell'attività ossessiva.
Disgusto e contaminazione

n pensiero magico nella percezione di contaminazione

Una specificità dell'emozione di disgusto è il fatto di essere forte­


mente influenzata dal pensiero magico: entrare in contatto con sostan­
ze sporche equivale a " sporcarsi" ; entrare in contatto con sostanze
disgustose equivale a "contaminarsi". Il concetto di contaminazione,
come messo in luce già nel 1 890 da Frazer nel libro Il ramo d'oro, sot­
tende quella che l'autore definisce "magia simpatica" e che spiega co­
me mai degli oggetti possono richiamare e assolvere simbolicamente
la funzione di altri oggetti: gli oggetti sono tra loro collegati o se pos­
siedono delle qualità che richiamano l'un l'altra (similitudine) , oppure
se sono stati in qualche momento fisicamente vicini (contaminazione).
Una volta che gli oggetti sono entrati in relazione, lo scambio di quali­
tà tra di essi è definitivo e la contaminazione permane nel tempo (per
cui per esempio, una banale T-shirt indossata vent'anni fa da Michael
J ackson durante un concerto può essere acquistata a cifre enormi).
Le informazioni circa la contaminazione da parte di sostanze di­
sgustose sono di fatto, dunque, normalmente elaborate dagli esseri
umani in un modo del tutto analogo a quello con cui il timoroso di
colpa elabora le informazioni, il ragionamento iperprudenziale. In
particolare le forme di pensiero magico, la percezione del disgusto, e
del suo contrario - la decontaminazione, la pulizia, la purezza -, so­
no le sei descritte di seguito (Tolin, Worhunsky, Maltby, 2004; Rozin,
Fallon, 1 987) .
• Si assume per default che a seguito d i un contatto fisico la contami­
nazione sia avvenuta. Il contatto è percepito come contaminazione,
che avviene per propagazione di tracce della sostanza o per somiglian­
za (fisica o simbolica). Per cambiare assunzione servono prove che la
contaminazione non sia avvenuta. Similmente al ragionamento iper­
prudenziale del timoroso di colpa, l'onere della prova spetta all'ipote­
si più favorevole e gli standard di accettazione dell'ipotesi favorevole
sono decisamente più elevati di quelli che devono essere soddisfatti al
fine di mantenere l'ipotesi della contaminazione. Per esempio Giovan­
na, se era costretta ad andare nella chiesa del paese, dava per scontato
che toccando la porta della chiesa si sarebbe contaminata. Focalizzava
dunque l'ipotesi della contaminazione, raccoglieva diverse argomen­
tazioni a favore di tale possibilità, per esempio il fatto che dieci giorni
prima si fosse svolto un funerale e il ricordo di una bara incrinata dalla
quale sarebbe potuto fuoriuscire del liquido maleodorante; e, a fronte
delle argomentazioni del marito che cercava di rassicurarla e delle sue

273
La clinica

stesse controargomentazioni, concludeva che nessuno poteva darle al­


cuna certezza che la contaminazione non fosse avvenuta.
• Non si considerano le probabilità oggettive. Giovanna non consi­

derava quanto erano basse le probabilità della co-occorenza di tutte le


evenienze necessarie affinché ci fosse davvero una contaminazione, anzi
le sopravvalutava grandemente; per esempio , non considerava la bassa
probabilità di fuoriuscite di sostanze dalle bare con involucro zincato.
• Si considera poco il possibile decadimento nel tempo della contami­
nazione (ideale di permanenza) . Giovanna smise pressoché di uscire di
casa dopo che le spoglie del santo patrono del paese furono portate, in
grande processione, da una cappella di campagna vicina al duomo del
paese. Il suo timore era che, durante il trasporto, materiale disgustoso
potesse essere fuoriuscito dalla teca in cui erano conservate le spoglie.
Il punto che sfuggiva a Giovanna era che, essendo il santo morto circa
quattrocento anni prima, il cadavere era completamente decomposto.
Non si considerano le dosi. Per Giovanna anche una molecola di ca­
lllll

daverina equivaleva a "contaminazione con un cadavere" , cioè ad avere


addosso "pezzi di cadavere e vermi" , nelle sue parole.
• Si considera possibile la causalità retrograda. Per causalità retrograda
si intende un tipo di pensiero per cui un'azione su una sostanza si riflette
a posteriori sulla sua "sorgente" (cioè sull'oggetto o persona a cui appar­
tiene la sostanza). Per questo effetto accade che si possa provare disgusto
anche per oggetti che ancora non sono stati contaminati, ma che si sa che
lo saranno ; per tale ragionamento la maggior parte delle persone prova
disgusto all'idea di bere da un contenitore per urine o di mangiare in un
vaso da notte, anche quando tali oggetti non sono ancora stati mai usati
e sono, anzi, sterilizzati. Per Giovanna toccare una bara appena comple­
tata dal falegname, e dunque ancora da usare, era contaminante, benché
sapesse bene che non era mai stata in contatto con un cadavere.
• Si considera che, se una persona diventa moralmente corrotta, ne
seguirà una corruzione fisica, da cui consegue che la corruzione fisica
e morale sono la stessa cosa. Nel caso di Giovanna balza agli occhi co­
me il senso di sporco fisico si confondesse con la sensazione di indegni­
tà morale. Per non essere andata a trovare la sua parente in lutto si era
sentita molto in colpa, " un verme" , cioè disgustosa.
Il fatto che nel pensiero magico non siano considerate la probabili­
tà, le dosi e la decadenza suggerisce l'idea che la contaminazione viene

274
Disgusto e contaminazione

vista come un cambiamento della natura del contaminato, che ne risul­


ta svilito. Ciò implica che la purificazione sarà un processo più lungo e
complesso del semplice allontanamento del contaminante.

n disgusto nel di sturbo ossessivo-compulsivo


e il suo rapporto con la colpa

Nel capitolo II è stato analizzato in dettaglio il ruolo del disgusto nel


disturbo ossessivo. Qui riprendiamo alcuni concetti, che è utile aver
presente nell'implementare gli interventi antidisgusto.
Partiamo da una riflessione: da diverse ricerche risulta che la realtà
che noi tocchiamo ogni giorno è più contaminata da sostanze disgu­
stose di quanto le persone normalmente pensino; per esempio, le pro­
babilità che sulla maniglia di un bar vi siano tracce di escrementi altrui
è piuttosto elevata, per la semplice ragione che spesso le persone van­
no al bagno e poi non si lavano le mani. Si consideri anche come sono
normalmente elaborate le informazioni sulla contaminazione (ragiona­
mento iperprudenziale) . Se lo si considera assieme al dato precedente,
ci dovremmo aspettare che tutti gli esseri umani abbiano la sensazione
sistematica e intensa di essere contaminati da sostanze disgustose; di
fatto questo accade solo in alcuni pazienti ossessivi: perché? Una rispo­
sta possibile viene da un'osservazione. Supponiamo di dare ad alcune
persone non ossessive l'informazione, vera e plausibile, che le noccio­
line offerte nei bar accanto all'aperitivo possono essere contaminate
dall'urina di quanti vanno in bagno senza poi lavarsi le mani. La reazio­
ne, generalmente, è di disgusto e di evitamento delle noccioline. Dopo
qualche tempo, però, queste reazioni scompaiono e molti ricominciano
a consumare le noccioline. Se si chiede il perché di questo cambiamen­
to, di solito si ha una risposta del genere: "Anche se sono contaminate,
pazienza, non sarà la fine del mondo. Non posso mica preoccuparmi
pure di questo. Poi non è certo che siano tutte contaminate, magari
queste non lo sono" . Insomma, ci si difende normalmente dalla sen­
sazione, altrimenti pervasiva, di contaminazione, sdrammatizzandola
e accettandola. Questo è quanto riesce molto difficile ai pazienti con
DOC. Se non si accetta il rischio di contaminazione, allora la percezio­
ne di contaminazione diventa sistematica, pervasiva ed esagerata, e i
lavaggi purificatori prolungati e ripetitivi, come nel caso di Giovanna.
Per comprendere il ruolo del disgusto nel DOC è necessario conside­
rare l'effetto Macbeth, descritto nel capitolo II (D'Olimpio, Mancini,
2014; Zhong, Liljenquist, 2006). L'effetto Macbeth riguarda la relazio-

275
La clinica

ne fra senso di colpa e disgusto e consiste in due fenomeni connessi fra


loro. Innanzitutto, chi si sente in colpa è maggiormente sensibile allo
sporco e orientato verso il pulito; il secondo fenomeno riguarda l' os·
servazione che il lavaggio delle mani riduce il senso di colpa. Questo
effetto non è stato ritrovato in tutte le ricerche, tuttavia appare netto
se si considera il senso di colpa deontologico, mentre non si manife·
sta in caso di senso di colpa altruistico. Inoltre, il disgusto e il senso
di colpa deontologico, ma non il senso di colpa altruistico, sembrano
condividere parte del substrato neurale, in particolare all'attivazione
di entrambe le emozioni corrisponde l'attivazione dell'insula. Reuven,
Liberman e Dar (2013 ) hanno riscontrato nei pazienti ossessivi un ef­
fetto Macbeth maggiore che in persone che non soffrivano di DOC.
D'Olimpio e Mancini (2014) e Radomsky e Elliot (2009) hanno trova­
to che in soggetti senza sintomi ossessivi, l'induzione di senso di col­
pa deontologico implicava che la pulizia di un oggetto avvenisse con
modalità simil-ossessive, ma ciò non accadeva se era indotto senso di
colpa altruistico. Infine, è ben nota l'esistenza di un disgusto morale:
in soggetti con propensione a ossessioni e compulsioni subcliniche, il
disgusto morale ha le stesse manifestazioni fisiologiche del disgusto
fisico (Rozin, Fallon, 1 987) . Nelle persone senza una particolare pro­
pensione a ossessioni e compulsioni, invece, il disgusto morale ha ca­
ratteristiche fisiologiche diverse dal disgusto fisico (Ottaviani, Mancini,
Petrocchi et al. , 2013 ) . Tutto ciò induce a pensare che chi è propenso
al senso di colpa deontologico, come plausibilmente sono i pazienti
ossessivi, sia anche più sensibile al disgusto fisico. La sensazione del­
la colpa deontologica sembra quindi sovrapponibile alla sensazione di
contaminazione fisica. A ciò si aggiunge che alcune ricerche (ampia­
mente descritte nel capitolo n) mostrano come, sia il senso di colpa sia
la contaminazione disgustosa, implicano una diminuzione del rango
nella gerarchia dell'essere, che è la dimensione verticale in cui gli esseri
umani intuitivamente collocano tutti, compresi se stessi, e che vede in
alto la santità e in basso il male morale. La sensazione di sporco fisico,
dunque, appare sovrapponibile alla sensazione di colpa, in particolare
deontologica, e sembra avere conseguenze simili rispetto al rango mo­
rale che ci si riconosce.
La particolare salienza negativa che la contaminazione fisica ha per
i pazienti ossessivi, si riflette in un maggior investimento protettivo e,
dunque, anche in una maggior propensione a considerare le possibilità
di contaminazione e in una maggiore difficoltà ad accettare e sopporta­
re anche solo il sospetto di essere contaminati.

276
Disgusto e contaminazione

In sintesi, il disgusto è un'emozione critica per il DOC in due sensi:


il primo riguarda il contenuto di pensiero (relazione tra sporco fisico e
morale) , il secondo la forma del pensiero, ovvero il ricorso al pensiero
magico che è in parte sovrapponibile al ragionamento iperprudenzia­
le del DOC.
Dunque, dal punto di vista del paziente ossessivo, proteggersi dal­
la contaminazione, significa non solo proteggersi dall'essere disgustoso
agli occhi di altri o di se stessi, ma anche proteggersi dalla possibilità di
essere e apparire moralmente indegno.

PERCHÉ INTERVENIRE IN MODO DIRETTO


SULLA SENSIBILITÀ AL DISGUSTO?

In alcuni soggetti con DOC la normale risposta a sostanze disgusto­


se è attivata da una classe particolarmente ampia di oggetti, ovvero an­
che da stimoli che dalla maggior parte delle persone non sono valuta­
ti come contaminanti (per esempio, pochi percepiscono un abito nero
o il vento come portatori di cadaverina). In questi soggetti, parte del­
la sintomatologia è regolata dal tentativo di proteggersi o contenere la
contaminazione; questo si vede bene in Giovanna e, in generale, nei
numerosi pazienti ossessivi che impegnano molte ore della giornata in
lavaggi finalizzati a eliminare la sensazione di contaminazione derivan­
te dal contatto con oggetti "sporchi" e con tutto quello che è entrato
in contatto con gli stessi; con questa logica, potenzialmente quasi ogni
oggetto è contaminato.
In questi casi, può essere utile intervenire direttamente sull'alta reat­
tività agli stimoli disgustosi, con lo scopo di ridurre la generalizzazione
(meno oggetti disgustosi) e l'intensità della risposta a ciò che è perce­
pito come contaminante. In altri termini, con gli interventi descritti di
seguito si vuole ridurre il potere disgustante degli stimoli attivanti, così
che sia più facile per il paziente non mettere in atto le condotte sinto­
matiche tese a proteggersi dalla minaccia di contaminazione. Nel caso
di un paziente preoccupato di contaminarsi con il denaro, l'intervento
sul disgusto è mirato ad aiutarlo a percepire come meno contaminati i
soldi e, soprattutto, come meno contaminati tutti gli oggetti potenzial­
mente entrati in contatto con i soldi e il suo stesso corpo, al fine di ren­
dere soggettivamente più tollerabile la rinuncia ai lavaggi e alle varie
manovre di evitamento o " decontaminazione". Nel caso di Giovanna,
lo scopo degli interventi sul disgusto era aiutarla a considerare come

277
La clinica

meno realistica, meno probabile e, anche, meno grave la possibilità di


entrare in contatto con sostanze provenienti da cadaveri anche se aves­
se rinunciato a mettere in atto evitamenti e lavaggi; questo, oltre al van­
taggio di ridurre immediatamente il disagio e i sintomi, era finalizzato
anche a rendere più sostenibile per la paziente sottoporsi a procedure
di esposizione e prevenzione della risposta.
In quest'ottica, dunque, è utile un intervento di riduzione della per­
cezione di disgusto, in quanto l'effetto atteso è da un lato una riduzione
delle condotte tese a contenere l'esperienza di disgusto, dall'altra una
maggiore disponibilità ad aumentare l'accettazione sia del rischio og­
gettivo sia della sensazione soggettiva di contaminazione.

GLI INTERVENTI ANTIDISGUSTO

Gli interventi antidisgusto si focalizzano sugli aspetti del pensiero


magico che alimentano la percezione di contaminazione, così da sosti­
tuire la rappresentazione " contaminazione contrapposta a purezza" con
la rappresentazione "sporco contrapposto a pulito" (Barcaccia, Perdi­
ghe, Mancini, 2002 ) .

N ormalizzazione

Come in quasi ogni intervento di terapia cognitivo-comportamentale,


il primo passo è la normalizzazione del sintomo. Nel caso del disgusto,
questo significa in particolare spiegare al paziente il funzionamento del
disgusto e della contaminazione e rassicurarlo del fatto che:
è normale cercare di preservarsi dal contatto con sostanze disgustose;
su questo può essere utile spiegare la funzione sociale ed evolutiva del
disgusto, soprattutto in termini di preservazione dell'appartenenza
al gruppo ( "Chiunque pensi di avere addosso sostanze schifose, co­
me feci o materiale proveniente dalla decomposizione di un essere
vivente, si sente sporco e ha voglia di lavarsi" ) ;
è normale provare disgusto se si visualizza, nel contatto con un ogget­
to, l'immagine amplificata di una sostanza disgustosa; per esempio,
si prende una tazza e s'immagina sulla stessa "pezzi di pelle sporca
di un barbone" o piccole quantità di urina. Nel caso di Giovanna, è
stato utile suggerirle che " Se guardando i vestiti stesi ad asciugare al
sole e colpiti da una folata di vento proveniente da sud (dove è situa­
to il cimitero del paese) , visualizza su di essi particelle di cadavere, è

278
Disgusto e contaminazione

naturale che lei abbia una reazione di disgusto e senta il desiderio di


rilavarli");
è normale che i tentativi di preservarsi dalla contaminazione vengano
interrotti con soddisfazione solo parziale e si continui dopo ad ave­
re la sensazione di essere sporchi, dal momento che lo scopo è "non
sentirsi contaminati" , non semplicemente evitare il contatto diretto
o lavarsi. Può essere utile far notare che quando si è regolati da un
antiscopo (non sentirsi contaminati, evitare di essere colpevoli, non
essere sporchi), la regola di stop della condotta è difficile da indivi­
duare (quale è il limite e confine tra sporco e pulito? ) . Per esempio
per Giovanna era molto faticoso capire a che punto dei lavaggi po­
teva fermarsi e si criticava per la mancanza di un criterio chiaro per
decidere "quando sono adeguatamente pulita" , cosa che la lasciava
sempre con il dubbio di non aver fatto abbastanza.

Sostituire le immagin i mentali associate alla contaminazione

La sensazione di disgusto, come detto, è alimentata dal fatto di rap­


presentarsi in modo particolarmente vivido e catastrofizzato la sostan­
za temuta, per esempio visualizzando sugli oggetti "piccole quantità
di feci" o "pezzi di vermi" . Un modo per ridurre il potere disgustante
del contatto con gli stimoli attivanti, è aiutare il paziente a trasforma­
re queste rappresentazioni in immagini meno terrifiche, cosicché, se
si realizza la contaminazione, sia percepita come meno grave e sia me­
no sostenuta dalle sensazioni somatiche attivate dalle immagini men­
tali particolarmente disgustose (se immagino piccole quantità di feci
su un bicchiere, è difficile non sentire un forte disagio nell'avvicinarlo
alla bocca) . Si può favorire la sostituzione delle immagini disgustose
con altre meno estreme, attraverso interventi articolati sul tipo di do­
mande e riflessioni di seguito riportate, proposte sotto forma di dia­
logo socratico.
111 Mettere a fuoco con il paziente qual è esattamente la sostanza temu­

ta ( '' Nel prendere in mano una banconota, cosa teme che rimanga sulla
sua mano? Nel contatto con una panchina della metro, cosa esattamente
teme che le rimanga addosso? Provi a visualizzare di cosa è fatto esat­
tamente lo sporco da cui cerca di proteggersi" ) . Questo può, da un lato
far riflettere il paziente sul fatto che lui stesso non sa esattamente cosa
teme, di cosa è fatto lo sporco, e dall'altro, costringerlo a ridefinire in
modo meno generico e aspecifico lo sporco.

279
La clinica

• Chiarire cosa realisticamente può rimanere sul proprio corpo dopo

un "contatto contaminante" e, quindi, ridefinendo l'immagine mentale


in modo meno catastrofico (''Cosa, secondo lei, può davvero rimanere
nella sua mano se tocca una banconota? Che tipo di sostanza e materia?
Quanta e come la immagina nelle sue mani ?" ) .
• Ridefinire i n termini biochimici la sostanza disgustosa; un conto, in­

fatti, è pensare che dopo un contatto con una banconota, rimangano sul
proprio corpo "pezzi di feci" , altra cosa è chiarirsi di quali sostanze si sta
parlando in termini di molecole e atomi. Per Giovanna, per esempio, fu
molto utile farsi un'idea più precisa della trasformazione della materia
organica, e visualizzare le polveri provenienti dal cimitero come azoto,
carbonio, ossigeno, ecc. piuttosto che come parti di cadavere.
• Riflettere sul fatto che sul pianeta Terra c'è una quantità finita di ato­
mi e molecole; che il paziente stesso è fatto di atomi e molecole ricombi­
nati numerose volte nella storia dell'universo; che molto probabilmente
in passato gli atomi di cui è composto sono stati parte di quella materia
organica che è percepita ora come disgustosa (''Secondo lei di cosa sia­
mo fatti? Che fine fanno gli atomi che ci compongono quando moria­
mo? Da cosa sono composte le feci o l'urina? Di cosa era fatto Giulio
Cesare? E ora quegli atomi e molecole dove saranno? " ) . Considerare
"la storia" di atomi e molecole all'inizio può essere ansiogeno per il pa­
ziente in quanto fa percepire tutto come inevitabilmente contaminato;
poi può però essere rassicurante rispetto alla normalità della contami­
nazione, almeno storica, di quasi tutta la materia e alla propria ridotta
responsabilità ( ''Allora non ci posso fare niente" ) .

Chiarire la differenza tra sensazione ed effettivo


contatto con la sostanza

Quando ci si sente contaminati, è forte il ragionamento emoziona­


le ovvero la confusione tra un'emozione o sensazione e la realtà di una
causa esterna per quella sensazione. La sensazione si traduce automati­
camente nella credenza di contaminazione e, dunque, in urgenza di ri­
pristinare lo stato di non contaminazione. La sensazione, nello specifico
il disgusto, viene utilizzata come informativa sulla reale contaminazione
e si applica un ragionamento, simile all'affect as in/ormation, del tipo "Se
mi sento sporco, allora deve essere vero che sono entrato in contatto con
qualcosa che mi ha sporcato" ; vale a dire il disagio emotivo è assunto
come prova di un contatto reale con la sostanza disgustosa.

280
Disgusto e contaminazione

Interventi utili a contrastare l'idea che "la sensazione di essere spor­


co" , equivalga a "essere sporco" e, dunque, finalizzati a indebolire la
credenza che il disgusto sia informativo sulla realtà della contaminazio­
ne, sono i seguenti.
• L'esperimento "mano nel miele" : si chiede al paziente di visualizzare

la propria mano immersa in un vaso pieno di miele e poi si fanno doman­


de tese a rendere più vivida e reale la visualizzazione ( '' Che cosa sente
sulla mano? Come è muovere le dita? Come è il contatto con il miele? È
caldo o freddo? Piacevole o spiacevole? Mi descriva tutte le sensazioni
che sente" ) . Visualizzata per qualche minuto l'esperienza, si chiede al
paziente di riaprire gli occhi e di notare come e cosa sente sulla mano; il
paziente viene così aiutato a notare che ancora percepisce sulla mano la
sensazione fastidiosa di appiccicaticcio, tipica del contatto con il miele,
benché il contatto sia stato solo immaginato. Si fa in ultimo riflettere il
paziente sul fatto che la sensazione di essere sporco non è in alcun mo­
do prova di un'avvenuta contaminazione, dal momento che può essere
prodotta anche dal solo immaginare un contatto con una sostanza. Allo
stesso scopo, come controprova della funzione simbolica di un'immagi­
ne, si possono mostrare al computer foto o video degli stimoli attivanti
disgusto e far notare la sensazione di contaminazione che ne segue an­
che senza alcun reale contatto. Per esempio, Giovanna fu messa davanti
a immagini digitali di cadaveri e le fu fatta notare la sensazione di con­
taminazione attivata dalle stesse e il conseguente desiderio di lavarsi,
benché lei stessa fosse completamente consapevole dell'assenza di reale
contaminazione; questo le fu di aiuto per discriminare tra sensazione e
realtà della contaminazione e, dunque, credere meno di essere conta­
minata solo sulla base di sensazioni.
• L'esperimento "sedia sporca" : molto simile all'esercizio "mano nel mie­
le", si chiede al paziente prima di descrivere la sensazione che ha nel seder­
si su una sedia nello studio indicata dal terapeuta ( ''Come si sente? Cosa
sente sul suo corpo? Si sente sporco?"); poi gli si dà l'informazione che in
quella sedia ci sono tracce della sostanza che teme e gli si chiede di nuo­
vo come si sente ("La informo che in quella sedia ieri c'è stato seduto un
paziente che fa l'anatomopatologo e, dunque, quotidianamente ha a che
fare con cadaveri; adesso come si sente? Come e dove sente la contamina­
zione? Cosa è cambiato rispetto a due minuti fa? " ) . Si fa notare come la
mancanza di un'informazione (non sapeva che lì c'era stato seduto un ana­
tomopatologo), si associa alla mancanza di sensazione di contaminazio­
ne e che la sola informazione, vera o falsa che sia, produce la sensazione.

281
La clinica

• Al fine di generalizzare la riduzione di fiducia nella sensazione sog­

gettiva di sporco, può essere utile individuare episodi recenti in cui non
si è provata la sensazione, ma potenzialmente si è stati "a rischio" e vi­
ceversa. Per esempio, Giovanna non entrava in un certo bar perché una
volta ci aveva visto una vedova, ma entrava tranquillamente nello studio
dove non sapeva se poco prima era stato qualcuno che frequentava ci­
miteri. Allo stesso scopo può essere utile far notare come la sensazione
non sia uno stimolo discriminante per la contaminazione; per esempio,
infatti, il contatto con alcuni virus può contagiare, senza "provocare la
sensazione di contaminazione" .

Valutare le dosi della sostanza

Un aspetto del pensiero magico che sottende il concetto di contami­


nazione è la non considerazione degli aspetti quantitativi del contatto;
in quest'ottica la contaminazione può avvenire anche attraverso tracce
omeopatiche, ovvero con quantità molto basse. Non valutare la quan­
tità con la quale si può realisticamente essere entrati in contatto, ovvia­
mente, amplifica la percezione di contaminazione anche per contatti
minimi. In questo senso è utile far riflettere, sempre attraverso doman­
de, sui seguenti aspetti.
La possibile o probabile quantità di sostanza disgustante realistica­
mente presente sull'oggetto o persona che fa da stimolo attivante
( ''Quanta materia proveniente da cadavere ci può essere sui piumini
che volano davanti a un cimitero? Provi a quantificare: quanti escre­
menti umani possono realmente essere presenti su un bicchiere che
lei vede pulito?").
L a differenza nel potere disgustante d i uno stimolo se si tengono pre­
senti le dosi ( "Com'è pensare che si tratta di tracce minime, di quanti­
tà non visibili di cadaverina? È come pensare che semplicemente una
materia proveniente da cadavere è presente? Oppure la sensazione
di disgusto si modifica? E se sì, in che direzione? " ) .
L a possibilità d i considerare qual è lo stimolo discriminante per de­
cidere se qualcosa è " sporco" (non contaminato, ma sporco), la pre­
senza di una quantità visibile di sporco, similmente a quanto accade
per tutte le sostanze che non rientrano tra quelle temute e disgustanti.
n punto è provare ad assimilare la sostanza disgustante alle sostanze
genericamente considerate sporche e trattarla in modo simile ( " Se al
suo collega cade del caffè sulla maglietta, lei come decide se la magliet-

282
Dzsgusto e contaminazione

ta è sporca o pulita? Si basa sulla sensazione, sulla presenza di tracce


non visibili di caffè o su macchie, anche piccole, di caffè? Se prende
un bicchiere in mano al ristorante, come decide se è sporco?").

Valutare la probabilità del contatto con la sostanza

Un altro aspetto caratteristico del pensiero magico, e in generale del


pensiero che si attiva in situazioni in cui si teme una minaccia, è soprav­
valutare la probabilità che l'evento temuto si realizzi e non considerare,
invece, la catena di eventi necessari perché l'evento si realizzi. Giovan­
na, fortemente preoccupata dalla possibilità di entrare in contatto con
sostanze provenienti dalla decomposizione di un cadavere, per esempio,
considerava contaminata qualunque persona adulta con indosso un ca­
po di abbigliamento nero. Il ragionamento sotteso, nel caso di Giovan­
na, era: se una persona è vestita di nero potrebbe essere in lutto, ovve­
ro aver perso da poco una persona cara; se questo fosse vero, potrebbe
frequentare il cimitero; se questo fosse vero, potrebbe aver portato dei
fiori o pulito la tomba; se questo fosse vero, potrebbe esserle rimasta
addosso qualche piccola quantità di polvere, che a sua volta potrebbe
contenere piccole quantità di sostanze provenienti dalla decomposi­
zione di un cadavere; quindi, esiste una probabilità non irrilevante che
quella persona sia contaminata.
Per questa ragione può essere utile intervenire sulla sensibilità al di­
sgusto modificando la credenza che il contatto con la sostanza disgu­
stosa sia così probabile come il paziente crede; lo si può fare attraverso
interventi di ristrutturazione che vertono sui seguenti punti.
Aiutare a mettere a fuoco la catena di eventi necessari perché la
sostanza disgustosa arrivi dalla fonte al contatto con il paziente
( ''Quanto è probabile che il nero indichi lutto? E che ci sia stata una
visita recente in cimitero? " e così via). Si possono usare a tal fine an­
che procedure formalizzate come la tecnica della torta descritta nel
capitolo XIII.
Far attribuire la probabilità percepita a ogni passaggio considerato
e poi la probabilità cumulativa risultante, cioè quella percepita am­
mettendo che si realizzi tutta la catena di eventi necessaria per il ri­
sultato finale ( "Affinché entrando nel bar lei si contamini con sostan­
ze provenienti da cadaveri, quali condizioni si devono creare? Provi
a elencarle tutte. Quanta probabilità attribuisce a ciascuno di que­
sti eventi? Qual è la probabilità cumulativa secondo lei? Vale a dire,

283
La clinica

quanto è, secondo lei, probabile che si realizzino insieme tutte queste


condizioni? " ) . Si possono utilizzare le procedure formalizzate di ti­
valutazione delle probabilità che l'evento temuto si realizzi descritte
sempre nel capitolo XIII.
L'effetto atteso di questi interventi è un aumento della discrimina­
zione tra stimolo probabilmente contaminato e stimolo probabilmente
pulito, una diminuzione della probabilità attribuita alla contaminazione
e, quindi, una riduzione delle occasioni di contaminazione percepite.

Valutare la non permanenza e il decadimento spontaneo

Se si pensa al contatto con lo sporco temuto come a un evento che


rende in modo permanente contaminati, salvo lavare o igienizzare in
qualche modo, il contatto è naturalmente più minaccioso. In effetti, un
altro aspetto del pensiero magico che entra in gioco nel disgusto, come
visto, è il concetto di permanenza della contaminazione, cioè la scarsa
considerazione di un decadimento naturale o di una decontaminazione
spontanea, analogamente a quanto accade per esempio per i virus o bat­
teri, anche molto pericolosi, che in date condizioni perdono il loro pote­
re infettante spontaneamente (per esempio, virus come l'HIV, per quanto
temibili, in pochi secondi all'aria perdono la capacità infettiva) . Un altro
modo per ridurre la percezione di disgusto è, dunque, aiutare il pazien­
te a modificare la rappresentazione di permanenza della contaminazio­
ne, riducendone così anche la gravità, attraverso i seguenti interventi.
Favorire l'osservazione dei processi di decontaminazione che il pa­
ziente già considera (per esempio, passare una salvietta igienizzan­
te) e aiutarlo a generalizzare questi processi. lnnanzitutto lo si fa ri­
flettere su quali siano i processi di decontaminazione dal suo punto
di vista ( ''Cosa potrebbe ridurre la sua percezione del tavolo al bar
come contaminato da una persona che ha subito da poco un lut­
to? " ) . Dopo si chiede al paziente di valutare quanto è probabile che
gli eventi decontaminanti si realizzino normalmente e senza un suo
intervento ( ''Quanto è probabile che il tavolo al bar sia stato pulito
da un cameriere, dopo che qualcuno lo ha contaminato con i vestiti
'sporchi'? Considerando che le persone si lavano, le sembra proba­
bile che la persona che ha subito un lutto, si sia lavata dopo la visita
al cimitero? Quante altre persone avranno usato il tavolino e, dun­
que, involontariamente rimosso polveri e altre sostanze che lei teme
dal tavolo? " ) .

284
Disgusto e contaminazione

Fornire spiegazioni, o far riflettere, sui processi di decadimento e


trasformazione naturale delle sostanze; per esempio, si può dare da
leggere al paziente un testo in cui viene spiegata la trasformazione,
dopo un lasso di tempo, delle sostanze organiche in materie di tutt'al­
tra natura. Giovanna è stata aiutata a riflettere sul fatto che, dopo un
dato tempo, tutte le sostanze provenienti da un cadavere si trasfor­
mano e diventano polveri distinguibili solo nella loro " storia" da al­
tre polveri.
Far valutare i fenomeni naturali che accelerano la " decontaminazio­
ne" , per esempio agenti atmosferici come il vento o la pioggia, il pas­
sare del tempo, ecc.

Discriminare corruzione fisica e morale

Nel pensiero magico, come visto, la contaminazione equivale a tra­


sformazione dell'intera persona: essere sporchi fisicamente equivale a
essere sporchi moralmente, lavare il corpo equivale a lavare la coscien­
za. Si ricordi il già più volte citato effetto Lady Macbeth, per il quale
avere o evocare una colpa aumenta la voglia di lavarsi e, in direzione
opposta, lavarsi diminuisce il senso di colpa e le correlate azioni di ri­
parazione della colpa.
I pazienti con DOC a volte esplicitano in modo chiaro questo feno­
meno con frasi come "Visto che non posso lavare via il mio senso di
indegnità morale, mi occupo almeno di tenere pulita la superficie del
mio corpo "; "Mi sento una persona sporca dentro e lavarmi mi fa sen­
tire meglio" .
Ne consegue che una strategia d'intervento utile a ridurre la gravità
della contaminazione è quella di aumentare la discriminazione tra con­
taminazione fisica e morale, attraverso interventi come i seguenti.
• Contrastare l'idea di una sovrapposizione tra contaminazione fisica e

corruzione morale, facendo osservare esempi di persone valutate respon­


sabili, positive eticamente, e che, però, entrano in contatto con la sostan­
za temuta o, comunque, non la evitano ( ''Quante brave mamme cono­
sce che portano i bambini al parco, anche se non lontano c'è un'agenzia
funebre? Quante brave persone conosce che frequentano il cimitero? " ) .
• Una possibilità molto simile di intervento è portare esempi di perso­
ne di grande spessore morale, che però non sono particolarmente atten­
te a mantenere il corpo decontaminato (per esempio, missionari come
Madre Teresa di Calcutta che inevitabilmente in India stava a contatto

285
La clinica

con lo sporco) o che per ragioni non connesse alla loro volontà hanno
vissuto in condizioni di sporco estremo, rimanendo intatte dal punto di
vista etico (per esempio, persone sopravvissute ai campi di concentra­
mento o a condizioni di guerra estreme) .
Aiutare il paziente a stabilizzare il suo senso di valore morale, svin­
111111

colandolo dalla contaminazione o sporcizia fisica. Questo intervento


coincide, in senso lato, con la strategia terapeutica generale proposta
in questo manuale; nello specifico, però, si può aiutare il paziente a di­
scriminare tra "sporcizia morale" e "sporcizia fisica" spiegando l'effetto
Lady Macbeth e facendogli notare che lavarsi è di fatto una soluzione
magica e illusoria (Ponzio Pilato, dopo essersi lavato le mani, non è di­
ventato davvero meno responsabile della morte di Gesù; né, al contra­
rio, non lavarsi le mani ne avrebbe aumentato la colpa) . Ancora, si può
aiutare il paziente a individuare provvedimenti più funzionali alla ripara­
zione o all'espiazione di una colpa, laddove ci sia, rispetto al lavarsi (per
esempio: " Se davvero lei fosse la persona immorale che sente di essere,
cosa potrebbe essere utile per aumentare il suo valore morale? Questi
comportamenti che ha appena elencato, secondo lei sono più o meno
utili nel renderla una persona moralmente migliore del lavarsi le mani?
Non sarebbe più utile allora impegnarsi in questi ?") .
Aiutare il paziente a essere consapevole e vivere più in linea con i
111111

propri valori morali, con i principi che, almeno idealmente, dovrebbe­


ro guidare la sua vita, piuttosto che spendere tante energie a prevenire
o riparare il senso di contaminazione. Un modo per farlo è fare un as­
sessment di quelle che sono le convinzioni e i valori del paziente, le con­
dotte che già mette in atto in tale direzione e gli aspetti in cui si sente
mancante o, comunque, sente di non impegnarsi abbastanza. In ultimo,
si sostiene il paziente per aumentare le condotte che lo farebbero sentire
moralmente più in linea con i suoi principi. In questo modo si favorisce
una valutazione della propria moralità basata sui comportamenti piut­
tosto che sulla sensazione di sporco del corpo, peraltro inaffidabile in
quanto fortemente influenzata dalle emozioni connesse alla percezione
di una minaccia al proprio valore morale.

Analisi degli effetti e dell'efficaci a dei tentativi di soluzione

Al fine di ridurre i lavaggi o gli evitamenti messi in atto per elimina­


re il senso di contaminazione, accanto agli interventi diretti alla ridu­
zione della percezione di disgusto, può essere utile anche illuminare gli

286
DiSgusto e contaminazione

effetti dei tentativi di soluzione messi in atto per prevenire o eliminare


la contaminazione.
In primo luogo, si può mostrare al paziente come i tentativi di solu­
zione siano inutili, dal momento che il contatto con la sostanza temuta,
in piccole quantità almeno, è inevitabile.
- Far considerare la probabilità di contatto in tutte le occasioni che il
paziente non considera particolarmente a rischio o in cui comunque
non percepisce disgusto.
- Far riflettere il paziente sull'impossibilità di evitare del tutto la so­
stanza temuta (per esempio, attraverso il contatto con l'aria e le pol­
veri in essa contenute) .
In secondo luogo, si può far notare al paziente, riprendendo lo sche­
ma di funzionamento del disturbo condiviso nella fase iniziale della tera­
pia, come i tentativi di soluzione (principalmente lavaggi ed evitamenti) ,
siano controproducenti, in quanto:
- favoriscono una focalizzazione dell'attenzione sulla sostanza disgu­
stosa, aumentando la percezione di disgusto (e quindi lavaggi o evi­
tamenti) ; per esempio, i comportamenti preventivi come la "mano
da chirurgo" hanno effetti di amplificazione delle sensazioni;
- rendono le immagini mentali dello " sporco" più vivide, il che implica
una maggiore probabilità attribuita alla possibilità di contaminazione
e una maggiore percezione di disgusto;
- hanno un effetto di prevenzione della disconferma, ovvero impedi­
scono che si possa sperimentare che anche senza far niente (lavarsi o
evitare) la sensazione di contaminazione viene sì sperimentata, ma poi
segue un processo naturale di riduzione fino all'estinzione della stessa.

CONCLUSIONI

In questo capitolo abbiamo descritto degli interventi tipicamente co­


gnitivi di modulazione della sensibilità al disgusto. Rispetto alla minac­
cia specifica di sentirsi disgustosi, presente in molti pazienti con DOC e
collegata a una più ampia minaccia a scopi di tipo morale, l'obiettivo
finale della terapia è sempre quello di aumentare il grado di accettazio­
ne della minaccia, cosicché il paziente investa meno sullo scopo di pro­
reggersi dalla possibilità di " essere disgustoso" . Gli interventi cognitivi
fin qui descritti sono strumentali all'accettazione: se da un lato, infatti,
riducono la reattività agli stimoli disgustosi (se penso allo "sporco" in

287
La clinica

termini biochimici o come a un fatto transitorio, il senso di disgusto e


il bisogno di lavarsi si riducono), dall'altra indirettamente aumentano
la disposizione del soggetto ad accettare come inevitabile e ineludibile
il rischio di contaminazione e di essere in qualche occasione " disgusto­
si" . Questo tra l'altro aumenta la compliance a interventi di accettazio­
ne fattiva, ovvero esposizione e prevenzione della risposta agli stimoli
che attivano il disgusto, laddove opportuni. Non saranno qui descritte
le procedure di esposizione e si rimanda al capitolo dedicato a queste,
dal momento che si tratta semplicemente di applicare l'esposizione e
prevenzione della risposta a stimoli disgustosi (capitolo XVI) .

288
xv

L'ACCETTAZIONE DEL RISCHIO


TECNICHE COGNITIVE

Claudia Perdighe, Andrea Gragnanz; Antonella Rainone

INTRODUZIONE

Come messo in luce nella spiegazione del rationale dell'intervento


(capitolo XI) e sulla base della concettualizzazione del DOC descritta in
questo libro, aiutare il paziente ad accettare l'esperienza di colpa e con­
frontarlo con la possibilità di smettere di prevenire il rischio di essere
moralmente imperfetto, significa togliere la ragione d'essere a buona
parte della sintomatologia ossessiva (tutto quello che rientra nei tentativi
di soluzione di primo livello, TSl , e processi ricorsivi connessi).
In questo capitolo saranno descritti interventi cognitivi che, come
quelli di ristrutturazione cognitiva (capitolo XIII), mirano a favorire l'ab­
bandono dei tentativi di soluzione di primo livello, cioè di tutte le con­
dotte over e covert messe in atto dal paziente al fine di garantirsi sogget­
tivamente che la minaccia temuta non si realizzi e di sentirsi moralmente
a posto. Diversamente dalla ristrutturazione, però, gli interventi di ac­
cettazione non hanno l'obiettivo di rassicurare il paziente sul fatto che
la colpa non esiste, o è meno probabile, meno grave, meno sotto la sua
responsabilità, quanto piuttosto quello di aiutarlo a prendere atto dell'i­
nevitabilità della colpa, far sì che se ne faccia una ragione e smetta di
prevenire lo scenario di colpa temuto (per un confronto sintetico tra i
due tipi di strategie terapeutiche vedi la tabella 15 . 1 ) .
All'accettazione come processo, strategia e tecnica di cambiamento
è stato dato grande rilievo nell'ultimo decennio: c'è stato un proliferare
e diffondersi di approcci terapeutici che, in modo più o meno esplicito,
sono basati sull'accettazione. Del resto, l'accettazione come modo per
affrontare le frustrazioni e le sofferenze della vita non è un tema, in sen­
so stretto, nuovo. Già molto prima che Hayes e Kabat-Zinn introduces-

289
La clinica

Tabella 1 5 . 1 Obiettivi e strategie dell'accettazione e della ristrutturazione (target: la


credenza che esiste la minaccia di essere colpevole) .

Stato mentale favorito dalla ristrutturazione


------- -------

- la minaccia non esiste o è poco probabile;


- la responsabilità è di meno o non c'è;
- la minaccia è meno grave.
Stato mentale favorito dall'accettazione
- la colpa esiste e non è eludibile;
- tentare di prevenirla è controproducente o inutile;
- essere moralmente perfetti non è tra i doveri o diritti degli esseri umani:
avere delle colpe è nell'ordine naturale delle cose;
- essere colpevole è grave ma non catastrofico;
- esistono altri scopi morali su cui investire.

sera, rispettivamente, l'Acceptance Commitment Therapy (ACT; Hayes,


Strosahl, Wilson, 2012) e la mindfulness (Kabat-Zinn, 1990), in alcune
grandi religioni (come il cristianesimo, l'islam o il buddhismo) , in im­
portanti correnti di pensiero filosofico (come lo stoicismo o la tradizione
filosofica orientale) e anche nella terapia cognitiva, in particolare nella
Terapia Razionale Emotiva (RET, Ellis, 1962 ) , l'accettazione è indicata
come strategia di coping. L'idea comune implicita è che la vita confron­
ta continuamente gli esseri umani con frustrazioni ed eventi negativi e
che, in molte circostanze, la migliore strategia di adattamento possibile
è accettare questo dato di fatto piuttosto che contrastarlo: è la "sotto­
missione alla volontà di Dio" per i musulmani, la "fede in una volontà
superiore" per i cristiani, l'aderire al destino per gli stoici, l'aumentare
la soglia di tolleranza per Ellis. Anche nella psicologia del senso comu­
ne si ritrova spesso l'idea di accettazione come modalità per affrontare
la sofferenza; per esempio, la troviamo nelle consolazioni che si offrono
alle persone che si confrontano con eventi gravi, come malattie o lutti:
"La vita è così ! Non ci possiamo fare niente" , "Bisogna guardare avan­
ti" , "L'unica strada è accettare ciò che il destino ci offre" .

L'ACCETTAZIONE COME STRATEGIA PER INTERROMPERE


I TENTATIVI DI SOLUZIONE DI PRIMO LIVELLO

Temere una minaccia e, dunque, cercare di prevenirla anche pagan­


do dei costi enormi, sottende la convinzione che la minaccia sia a qual­
che livello inaccettabile, non solo probabile, grave e nelle proprie re­
sponsabilità.

290
L'accettazione del rischio

In generale, favorire l'accettazione significa far passare dallo stato


mentale di investimento su uno scopo a quello della rinuncia allo sco­
po, modificando i fattori che regolano l'investimento: si tratta di inde­
bolire i processi e le credenze che sostengono l'investimento e ostaco­
lano l'accettazione. Perché ci sia investimento verso uno scopo, devono
essere presenti nella mente del soggetto: l ) la credenza che lo scopo sia
raggiungibile e che sia conveniente investirei; 2 ) credenze normative
circa i propri diritti o doveri in relazione allo scopo; 3 ) connotazioni ca­
tastrofizzanti o di definizione in negativo (antiscopo) dello scenario di
minaccia (Mancini, Perdighe, 2012) .
I l paziente ossessivo, anche laddove il disturbo comprometta in mo­
do serio il suo benessere e ci siano valutazioni altamente critiche circa le
proprie condotte tese a prevenire la minaccia, non può rinunciare a im­
pegnarsi nel proteggersi da una colpa o dalla contaminazione, in quan­
to considera questa possibilità come "inaccettabile": essere colpevole è
qualcosa che si può prevenire, che si deve ed è nei propri diritti preve­
nire, e che espone a uno scenario catastrofico.
Concretamente, dunque, accettare per un ossessivo significa convi­
vere con la consapevolezza di una propria imperfezione morale e rinun­
ciare alle condotte tese a prevenire tali imperfezioni, entrando nell'or di­
ne di idee che esse sono "accettabili" (non catastrofiche, non da evitare
doverosamente o per diritto, ecc. ) e investendo sulle possibilità reali di
garantirsi lo status morale desiderato, senza compromettere altri scopi
e il proprio benessere. Per Giovanni, per esempio, il punto non è ac­
cettare di essere colpevole dell'esplosione del suo palazzo, ma imparare
a tollerare maggiormente la possibilità che ciò accada, vale a dire con­
vivere con la spada di Damocle della colpa e investire su scopi morali
raggiungibili.
In realtà si tratta di applicare al dominio problematico quanto nor­
malmente e quotidianamente gli esseri umani fanno in tanti ambiti: non
andare a fare le analisi a ogni segnale somatico nuovo e non del tutto
comprensibile, significa accettare di convivere con la minaccia di po­
tersi ammalare e doversi rimproverare per non aver fatto più controlli;
che non equivale però a rinunciare allo scopo di proteggere la propria
salute. Ancora, guidare un'auto o prendere l'aereo, significa accettare
un certo grado di rischio di incidente, senza rinunciare a fare quanto
realmente in proprio potere per limitare il rischio, per esempio fare la
revisione all'auto. Certo anche non prendere l'auto è un comportamen­
to in proprio potere e riduce il rischio, ma può implicare costi enormi
sul piano esistenziale.

291
La clinica

Prima di entrare nel merito degli interventi terapeutici, ci sono due


aspetti critici sui quali vale la pena soffermarsi.
Il primo riguarda il fatto che, come già messo in luce nel capitolo XI,
nel caso del paziente ossessivo rinunciare a mettere in atto i tentativi
di soluzione di primo livello, di fatto implica una doppia accettazione:
della minaccia di essere responsabile di un danno futuro (per esem­
pio, Maria accetta di poter contrarre l'AIDS in quanto non ha evitato
il contatto con un collega con abitudini sessuali promiscue) ;
del danno, subito attuale, di rinuncia a " essere moralmente perfet­
to" rispetto ai propri standard: l' ossessivo si sente subito moralmente
non a posto, anche se il danno colpevole non si è attualizzato e pro­
babilmente non lo sarà mai. Maria, nello smettere di impegnarsi nella
prevenzione della minaccia di contagio è subito colpevole e accetta
di definirsi una persona che non fa di tutto per prevenire una colpa;
anche se il contagio non si realizzerà mai, lei sarà pur sempre e subi­
to una persona che ha accettato di correre un certo livello di rischio
di contrarre il virus dell'HIV.
Nel favorire l'accettazione, dunque, chiediamo al paziente di accetta­
re due colpe. Nella descrizione degli interventi non sempre le due colpe
saranno distinte, ma è importante avere chiaro che si tratta non solo di
favorire l'accettazione di un evento futuro e poco probabile, ma anche
l'accettazione di un'immediata perdita rispetto alla definizione di sé, ri­
spetto a uno standard di perfezione morale che ha guidato il paziente fi­
no a quel momento ( ''Accetto di essere subito moralmente imperfetto").
Un secondo aspetto critico, di cui tener conto nel favorire l'accetta­
zione della minaccia di colpa, è che la rinuncia a uno scopo può impli­
care un senso di diminutio sul piano del proprio valore (nel caso speci­
fico del DOC, del proprio valore morale) .
Come visto nel capitolo sul rationale, la rinuncia avviene con diminu­
tio quando l'abbandono dello scopo implica una ridefinizione verso il
basso del proprio valore morale in una gerarchia ideale in cui ci si collo­
ca (Brandt, Reyna, 201 1 ; Conte, Castelfranchi, 2006) . Questa esperienza
è così descritta da una paziente: " Impegnarmi nel prevenire ogni colpa
mi faceva sentire una che ci tiene a essere sempre nel giusto, una perso­
na migliore. Ora mi sento, invece, più simile a tanti altri che disprezzo
in quanto troppo accondiscendenti con se stessi" .
Nel facilitare l'accettazione della colpa nel paziente ossessivo, dun­
que, è importante stare attenti a favorire la rinuncia allo scopo di preve­
nire la colpa, ma senza che questo implichi una diminutio morale, vale a

292
I:accettazione del rischio

dire senza che sia accompagnata da un degradarsi della definizione del


proprio valore morale all'interno di una gerarchia ideale. Per esempio,
nel caso di Maria equivale a dirsi: " Accetto che esiste la possibilità di
un contagio e di non fare di tutto per prevenirlo. Del resto nessuno è
tenuto a fare quanto io mi chiedevo" .
La rinuncia a mettere in atto tentativi di soluzione è senza diminutio
quando il paziente la valuta come qualcosa che può anche essere moral­
mente imperfetto o disdicevole, ma che è pur sempre compatibile con il
mantenimento del proprio valore morale. Perché questo avvenga, come
vedremo sotto, è utile orientare il paziente su altri scopi morali, magari
di tipo altruistico ( ''Sei meno perfetta rispetto allo scopo di proteggere
tuo figlio, ma ti stai impegnando come non mai sull'essere una mamma
amorevole" ) e abbassare o modificare gli standard morali (per esempio,
connotando in negativo la norma: " Voler essere perfetti dal punto di vi­
sta morale, inevitabilmente implica il peccato di superbia" ) . Riguardo a
questo aspetto è importante avere delle accortezze anche relazionali che
riducano, sia nei domini sintomatici sia in quelli non sintomatici, la defi­
nizione del proprio valore in termini globali e dicotomici (per esempio,
contrapponendo giudizi sulle prestazioni o sui comportamenti a giudizi
sulla persona - avere in un certo momento un comportamento giudicato
come amorale non vuol dire essere una persona amorale - o mettendo in
evidenza il fatto che in momenti diversi la stessa persona possa mettere in
atto comportamenti molto diversi, anche contrapposti, sul piano morale) .

PROCEDURE E TECNICHE DI FACILITAZIONE


DELLA RINUNCIA ALLO SCOPO

Prima di entrare nel merito delle procedure che favoriscono l'accetta­


zione della minaccia di colpa e la rinuncia allo scopo, ci sembra utile una
considerazione: le diverse procedure e le tecniche che descriveremo han­
no un target specifico, vale a dire ciascuna mira a modificare una specifica
credenza che mantiene l'investimento verso uno scopo. Abbiamo scelto
di descriverle seguendo tale criterio, pur sapendo che nella pratica molti
interventi agiscono su più credenze, non sono operazioni chirurgiche, e
possono avere quindi degli effetti più a largo spettro nel favorire l' accet­
tazione rispetto a quelli strettamente attesi dalla procedura. Per esempio,
far sperimentare a un paziente, attraverso il dialogo socratico, che non ha
il potere che si attribuisce di prevenire la minaccia di una disgrazia a un
proprio caro, è molto probabile che agisca anche sulla credenza di ave-

293
La clinica

re il dovere, non solo il potere, di prevenire la minaccia; indebolendo la


credenza di potere, molto probabilmente si indebolirà anche la credenza
di dovere, dal momento che " Non devo ciò che non posso" . Ancora, fare
un intervento di decentramento del tipo: "Pensare di essere colpevole è
solo un pensiero, frutto della tua spiccata sensibilità morale, non la descri­
zione di una realtà di fatto; è descrittivo più della tua storia e sensibilità
personale che del fatto che tu abbia o possa avere, in effetti, una colpa",
è un intervento che da un lato aiuta ad accettare maggiormente di avere
pensieri e sentimenti di colpa (quindi accettare di più di non prevenire
la minaccia), dall'altro però può anche essere un intervento di rassicu­
razione rispetto alla minaccia; può, infatti, essere interpretato in questo
modo: "Sentirmi in colpa non equivale ad avere una colpa", vale a dire,
la minaccia non esiste. In altri termini, è un intervento che può avere ef­
fetti simili alla ristrutturazione della convinzione che la minaccia esista.
Nei paragrafi che seguono, non ci proponiamo di illustrare o ana­
lizzare tutti gli interventi possibili per facilitare l'accettazione, quanto
piuttosto di analizzare i fattori su cui è possibile agire per favorire il di­
sinvestimento da scopi compromessi o minacciati.

Modificare la convinzione di avere ilpotere


di eludere la minaccia

Uno dei fattori che favoriscono l'investimento su uno scopo, e quin­


di la difficoltà ad accettare, è la previsione di successo, la convinzione o
illusione di avere il potere di evitare un danno o di ridurre il rischio che
una minaccia si realizzi. Per gli esseri umani è sufficiente non poter esclu­
dere con assoluta certezza di avere un potere, per attribuirsi una respon­
sabilità: "Se non sono del tutto certo di non avere il potere di prevenire
un danno, posso attribuirmi il potere di impegnarmi nel prevenirlo" .
U n ossessivo che fa i rituali magici per prevenire una malattia di un
proprio caro, non crede davvero che mettere in un certo ordine le mati­
te sul tavolo abbia un rapporto causale con l'ammalarsi di un'altra per­
sona; altrimenti lo tratteremmo come un delirio. Quello che il pazien­
te crede, semmai, è di non avere la certezza· totale che, per ragioni a lui
stesso sconosciute, un mancato ordine nelle matite abbia una qualche
relazione con l'ammalarsi del caro; e, nell'incertezza, sceglie la prudenza
( ''Visto che mi costa così poco mettere in ordine le matite confrontato
con il dolore della malattia di un caro, mi conviene farlo; nell'incertez­
za, mi comporto come se avessi il potere" ) . È un ragionamento sovrap­
ponibile a quello di Pascal, descritto nei primi capitoli.

294
L'accettazione del rischio

Quindi, uno degli elementi su cui agire per interrompere i tentativi


di soluzione rispetto a una minaccia o a una perdita è la credenza che si
abbia il potere di prevenire o contenere la minaccia di poter essere colpe­
vole. Tale credenza è il target specifico degli interventi descritti sotto.
In pratica, si tratta di aiutare il paziente a distinguere ciò che è in suo
potere da ciò che non lo è. Maria può essere aiutata a distinguere cosa
è in suo potere effettivamente per ridurre il rischio di contrarre il virus
dell'HIV (per esempio, non soccorrere senza protezioni una persona che
perde abbondante sangue) , da cosa non lo è (per esempio, azzerare in to­
to il rischio che avvenga in modo accidentale o per una sua sbadataggine) .
Vediamo ora alcuni degli interventi attraverso cui possiamo modifica­
re l'idea di potere, vale a dire possiamo mettere in dubbio la convinzione
che i tentativi di soluzione di primo livello siano utili rispetto allo scopo
o che, al contrario, siano inutili e controproducenti rispetto al potere di
eludere la minaccia di colpa.

Uso dello schema condiviso per guidare l'auto-osservazione


finalizzata ad aumentare la consapevolezza
degli effetti controproducenti dei TSl
Una prima via per favorire la consapevolezza dell'inutilità dei propri
tentativi di soluzione, in altre parole dei comportamenti tesi a preveni­
re la colpa, è far rileggere i comportamenti sintomatici alla luce dello
schema condiviso del disturbo (in particolare della prima parte dello
schema che produce i tentativi di soluzione di primo livello, i TSl). Si
chiede al paziente di rivedere insieme un certo numero di episodi che
hanno portato a comportamenti sintomatici (per esempio, gli episodi
più salienti dell'ultima settimana) e poi, per ciascun episodio, si metto­
no a fuoco i seguenti elementi.

- Qual era lo scopo del paziente nella situazione attivante? Cosa voleva
evitare? Quale danno colpevole? (Per esempio, il rischio di un crol­
lo del palazzo per una propria disattenzione, l'AIDS per un contatto
fortuito con un collega con abitudini promiscue, ecc.).
- Cosa ha ottenuto rispetto allo scopo? Alla fine, è stato più sicuro di
aver fatto di tutto per non far crollare il palazzo? Per quanto è dura­
ta la maggiore sicurezza?

Rileggere gli episodi attraverso lo schema condiviso aiuta il paziente


a notarecome alcuni comportamenti, oltre a non essere utili pragmati­
camente ai fini dello scopo, sono controproducenti: non solo il pazien-

295
La clinica

te non ha il potere che immagina, ma i comportamenti che mette in at­


to per prevenire la minaccia di colpa gli fanno spesso vedere come più
probabile o più grave la minaccia.

Il dialogo socratico

Un altro modo per indebolire la convinzione di avere un potere ef.


fettivo nella prevenzione o contenimento della minaccia di colpa è far
osservare, attraverso il dialogo socratico, il fallimento di tutte le strategie
di soluzione utilizzate, con argomentazioni tese a mostrare quanto poco
il paziente abbia ottenuto fino a quel momento in relazione al suo scopo
di prevenire la minaccia e la fallacia delle proprie spiegazioni relative al
fallimento dei propri sforzi.
Per esempio, con un paziente che da anni rumina e mette in atto ri­
tuali volti a dissipare il dubbio di essere omosessuale (e quindi colpe­
vole di ingannare moglie e figli), si può riflettere sul suo reale potere di
escludere la colpa, con argomenti del tipo:
" Da quanto tempo prova a rassicurarsi del fatto che la minaccia non
esista? Per esempio, da quanto tempo tenta di escludere la possibili­
tà di essere omosessuale? Da quanti giorni, mesi, anni ? ";
" Quali sono tutte le strategie che ha usato per rassicurarsi? " (elen­
carle);
" Quanto tempo complessivo ci ha dedicato? 1 0 ore, 1 00 ore, 8000
ore, 3 60 giorni? ";
" Se non è riuscito fino a ora a rassicurarsi, cosa le fa pensare che con­
tinuare a mettere in atto gli stessi comportamenti possa farle raggiun­
gere oggi o domani lo scopo di azzerare la minaccia? Per esempio,
di essere sicuro di non essere omosessuale? Cosa crede sia mancato?
Mettendoci più impegno, pensa di arrivare allo scopo ? " .
U n modo più radicale è mettere in dubbio i n generale che esista la
possibilità di escludere la minaccia in toto, sempre attraverso un dialogo
socratico che verta su: " Cosa le fa pensare che esista al mondo un modo
per escludere dal novero delle possibilità remote il fatto che lei (o più
in generale chiunque) un giorno si scopra colpevole di questa macchia,
che lei teme tanto? " .

L'argomentazione reductio ad absurdum


Una terza via, più radicale, per mettere in dubbio la convinzione di
avere il potere di eludere la minaccia, è usare un'argomentazione del ti-

296
I;accettazione del rischio

po reductio ad absurdum, una dimostrazione per assurdo, attraverso la


quale si assume temporaneamente l'assunto del paziente ( ''Ho il pote­
re di prevenire la minaccia" ) , per poi fargli sperimentare che si giunge
a una conclusione assurda. Per esempio, si fa notare al paziente tutto
quello che non fa ma dovrebbe fare, se l'assunto di avere un potere fos­
se vero e che quindi s'impegna molto meno di quanto potrebbe nella
prevenzione della minaccia. Infine, si mostra che l'assunto originale è
in qualche modo errato ( " Se è vero che ha un potere, fa troppo poco;
oppure non è vero che ha il potere che si attribuisce" ) .
Se consideriamo, per esempio, il potere di azzerare l a minaccia di con­
trarre il virus dell'HIV che si attribuisce Maria e assumiamo questa con­
vinzione come vera, possiamo farla riflettere attraverso i seguenti stimoli.
111" Se diamo per vero che sia utile evitare il contatto con chiunque ab­
bia una qualche caratteristica sospetta e con qualunque oggetto che po­
tenzialmente è stato in contatto con persone " sospette" e lavarsi qualo­
ra questi contatti siano già avvenuti, come mai si accontenta di quanto
fa? In fondo, per esempio, anche le sue colleghe sposate potrebbero
essere infette. Il fatto che lei sappia che non tradiscono il marito, non
esclude che sia il marito a tradire loro e che quindi siano state incon­
sapevolmente contagiate. È poi sicura che la sua amica che non ha mai
avuto un partner sessuale non abbia mai fatto interventi chirurgici pri­
ma che il controllo sul virus dell'HIV diventasse obbligatorio? E se i la­
vaggi riducono il contagio, perché non farli più a lungo o un numero
di volte maggiore ? "
111 Si continua con questo tipo di domande, facendo notare a Maria co­

me in realtà, se è vero che i suoi comportamenti sintomatici hanno forse


un qualche potere di eludere la minaccia, lei in realtà fa molto meno di
quanto sarebbe possibile fare, fino al momento in cui Maria presumi­
bilmente solleverà l'obiezione: " Ma così non potrei vivere ! " ; "Nessuno
potrebbe fare tutto questo" .
111A questo punto si fa notare a Maria che s e è vero che non può chie­
dersi l'impossibile allora non può essere vero che ha il potere effettivo
di azzerare la minaccia di un contagio suo o di un familiare con l'HIV.
111 La seconda obiezione, tipica del paziente, sarà: "Ma almeno riduco

la parte di rischio che posso contenere con i miei di comportamenti" .


Questo di nuovo s i può confutare con domande tese a far emergere co­
me il limite tra " quanto" è opportuno fare e ciò che è "troppo" è arbi­
trariamente definito da lei: "Perché tre lavaggi vanno bene e otto sono

297
La clinica

troppi davanti alla possibilità di ridurre il rischio di una malattia grave


come l'AIDS? " .
In sintesi, attraverso un atteggiamento implosivo, s i aiuta il paziente
a prendere atto del fatto che non può chiedersi "l'impossibile" (ad im­
possibilia nemo tenetur) , e che, invece, attribuirsi il potere di prevenire
la minaccia, se preso sul serio e portato alle logiche conseguenze, con­
duce inevitabilmente al chiedersi di/are cose che nessuno potrebbe /are.
Tutti gli interventi visti in questo paragrafo, tesi a bloccare i TSl, agen­
do sulla credenza dell' ossessivo di avere il potere di eludere la minaccia
(di essere colpevole di un danno o di contaminazione), naturalmente si
applicano anche alla perdita immediata dell'idea di essere moralmen­
te perfetto.
Questi interventi preparano e facilitano l'applicazione dell'esposi­
zione con prevenzione della risposta (E/RP, capitolo XVI) . Tutte le volte,
infatti, che il paziente accetta di esporsi senza mettere in atto le compul­
sioni, lo fa a condizione di aver accettato la perdita immediata dell'idea
di essere moralmente perfetto. L'esposizione di Maria al rischio di con­
tagiarsi, per esempio non lavando tutti i suoi vestiti pur avendo sfiorato
un collega, comporta il tollerare di non fare tutto quello che secondo
lei dovrebbe fare per essere moralmente perfetta e, quindi, inevitabil­
mente, compromette il suo scopo di essere una persona moralmente a
posto. Chiaramente l' accettazione di questa perdita diviene sostenibile,
non comporta diminutio e si distingue dalla rassegnazione, poiché è ac­
compagnata dall'investimento in altri scopi. Nel caso di Maria per esem­
pio: "Accetto di essere moralmente colpevole e questo mi permette di
perseguire lo scopo di dedicare più tempo a mio figlio ovvero di essere
una madre attenta " . Di questo parleremo dettagliatamente a proposi­
to dell'investimento su scopi alternativi (vedi il paragrafo " Investire su
scopi ottenibili" a p. 3 13 ) .

Modificare la convinzione che sia conveniente impegnarsi


attivamente nei tentativi di eludere o, almeno, ridurre la minaccia

Una parte della terapia è orientata a favorire nel paziente la compren­


sione di quanto i suoi tentativi di soluzione (compulsioni, evitamen­
ti, ruminazioni e richieste di rassicurazioni) possano essere deleteri, e
quanto, così facendo, si esponga al rischio di rovinarsi l'intera esisten­
za. Frequentemente, pur avendo chiara in mente l'impossibilità di poter
prevenire il rischio di essere colpevole (o di compromettere lo scopo di
essere moralmente perfetto), il paziente obietta: " Lo so ma almeno ri-

298
L'accettazione del rischio

duco la parte di rischio che posso contenere con le compulsioni" , senza


riuscire a considerare adeguatamente i costi della persistenza di queste
condotte. Per rispondere a tale obiezione, abbiamo a disposizione una
serie di interventi finalizzati a evidenziare quanto insistere non solo non
avvicina allo scopo, ma può compromettere altri scopi importanti. Sap­
piamo che il paziente ossessivo necessariamente in qualche momento
del disturbo ritiene che l'attività ossessiva sia assurda o, perlomeno, esa­
gerata (APA, 2 0 1 3 ) , ma anche quando si rende conto dei costi della sua
prudenza, non riesce a rinunciarvi. Purtroppo, infatti, quando si con­
fronta con gli eventi attivanti, non ha una rappresentazione esplicita e
chiara dei costi dell'attività ossessiva, ma tiene conto soltanto dei costi
di non tentare di sottrarsi alla minaccia, oppure non integra le due serie
di costi. Sarà utile aiutare il paziente, quando i suoi timori ossessivi sono
attivati e dunque ha chiaro quanto sarebbe per lui oneroso rinunciare
ai TSl, a rappresentare con chiarezza anche il prezzo che paga per pre­
venire o contenere la minaccia di poter essere colpevole e proteggersi
dalla colpa di non aver fatto tutto il possibile per prevenirla ( cioè di es­
sere moralmente imperfetto) .
A tal fine, utilizzeremo interventi tesi a evidenziare che è comunque
molto costoso e controproducente per la sua vita continuare nella dire­
zione dei tentativi di ridurre e contenere il rischio; in sostanza, aiutere­
mo il paziente a individuare più chiaramente qual è il tributo, in termini
di costi e rinunce, pagato al DOC rispetto ad altri scopi esistenziali, con
l'obiettivo che impari a tenerne conto quando si confronta con i pen­
sieri ossessivi ( ''Ammesso che funzionino le tue strategie per fronteg­
giare i pensieri ossessivi, vale il costo che paghi, ti conviene rovinarti il
resto della vita? " ) .
Nella descrizione che seguirà, saranno presentati prima gli interventi
finalizzati a far emergere e focalizzare i costi rispetto agli altri scopi esi­
stenziali e, in seguito, manovre cliniche dirette alla messa in discussione
della convenienza dell'investimento ossessivo.

Messa afuoco dei costi dei TSl rispetto ad altri scopi esistenziali
Partendo dalla ricostruzione dello schema di funzionamento del di­
sturbo e dall'aver evidenziato, come descritto nel capitolo XIII, il conflit­
to tra la prima e la seconda valutazione, possiamo procedere chiedendo
al paziente di stilare una lista di vantaggi e svantaggi relativa all'insisten­
za nei tentativi di soluzione. La finalità è far emergere, mettere a fuoco
e sottolineare il peso degli svantaggi in termini di rinunce premature a

299
La clinica

Tabella 15.2 Ginevra: vantaggi e svantaggi dell'attività ossessiva.

Vantaggi
- Evito o riduco il dubbio di essermi contagiata e di poter contagiare mio figlio.
- Diminuisco l'insopportabile paura del contagio e del disagio.
- Riduco la possibilità di causare un danno a mio figlio e di sentirmi tremendamente
in colpa.
Svantaggi
- Ho perso completamente la mia autonomia, difatti non riesco a fare nulla da sola:
lavorare e potermi sostenere; stare con gli altri; prendermi cura del mio aspetto
(andare dal parrucchiere, dall'estetista, in palestra, ecc).
- Mi sto distruggendo i capelli, le mani, il corpo, sto diventando orribile e nessuno
mi vorrà più.
- Non riesco a essere una buona madre che segue, rispetta, accudisce e protegge
e che si gode le soddisfazioni che danno i figli.
- La mia famiglia si sfascerà, mio marito che amo mi lascerà, mi leveranno mio figlio
perché non sono in grado di accudirlo. Tutti staremo male e io sarò anche la
colpevole di tutto questo.
- Sarò sempre più sfiduciata e insoddisfatta di me stessa, la mia vita non avrà
più senso.

scopi e desideri importanti. Nella tabella 1 5.2 troviamo la sintesi del la­
voro fatto da Ginevra, la paziente descritta nel capitolo XIII, che temeva
di contagiare sé e il proprio figlio con il virus dell'HIV, in seguito al pen­
siero o all'immagine di aver toccato del sangue.
Guardando la tabella dei vantaggi e svantaggi dell'attività ossessi­
va emerge quanto tale attività comporti la compromissione continua
e progressiva di altri scopi esistenziali importanti per la paziente, co­
me per esempio l'autonomia personale, l'integrità fisica, l'amabilità,
la fiducia in se stessa e l'essere una madre accorta e amorevole. Sarà
nostro compito aiutare la paziente a trasformare questi costi, che fre­
quentemente assumono anche una valenza depressiva, oltre che in un
fattore motivazionale verso la terapia, anche in un ridimensionamen­
to dell'investimento nell'attività preventiva. Per far questo il paziente
deve avere una chiara rappresentazione dei costi dell'attività ossessiva
non solo dopo aver messo in atto i TSl (come fa sempre quando si cri­
tica: seconda valutazione), ma piuttosto prima di agirli. Per esempio,
nel caso di Ginevra:

Oramai è chiaro, sono di fronte a un conflitto: da una parte ho buone


ragioni per cercare di proteggermi dalla minaccia di poter essere colpe­
vole e dalla compromissione dello scopo di essere moralmente perfetta,
ma dall'altra ne ho altrettante o addirittura maggiori di tener conto anche

00
L'accettazione del rischio

di tutti gli altri aspetti importanti della vita per me, come per esempio
l'essere una madre amorevole, sentirmi autonoma, preservare la fiducia
in me stessa e potermi sentire amata.

Promuovere la messa in discussione


delle credenze relative alla convenienza
Una delle credenze che favoriscono l'investimento su uno scopo, co­
me visto, è la credenza che sia conveniente. Favorire l'accettazione nel
caso del DOC, significa modificare la credenza che sia opportuno e con­
veniente insistere sullo scopo di eludere la minaccia di essere colpevole,
a fronte dei costi emotivi ed esistenziali che questo comporta.
A questo scopo sono utili procedure di role-playing e, in particola­
re, la cosiddetta tecnica delle " due sedie" (Mancini, Gragnani, 2005 ;
Mancini, Gragnani, 2004; Perls, Hefferline, Goodman, 1 95 1 ) . La pro­
cedura è la seguente.
- Dopo aver analizzato svantaggi e vantaggi dell'attività ossessiva si pro­
pone al paziente di sedersi alternativamente su una delle due sedie.
- Quando sarà seduto sulla prima dovrà riprendere ed elencare tutti i
costi connessi alla minaccia e dunque i benefici della prudenza.
- Quando è seduto sulla seconda sedia, invece, tutti i costi della pru­
denza e i benefici di un'eventuale riduzione della ricerca di sicurezza.
- A questo punto si cerca di rendere esplicita la dialettica interna
chiedendo di far discutere costruttivamente le due posizioni al fine
di evidenziare i costi delle due opzioni, "prevenire" o " accettare"
una minaccia di essere responsabile di un danno futuro (o la com­
promissione dello scopo di essere moralmente perfetto) . In questo
modo, da un lato il paziente può rappresentarsi meglio e simulta­
neamente i vantaggi dell'accettazione e il costo dell'investimento
e, dall'altra, si allena a compiere un 'integrazione fra le due serie di
costi e benefici.
Questa procedura può essere applicata con numerose varianti, per
esempio potremmo utilizzarla in maniera più incisiva, mettendo a con­
fronto la colpa di non prendere i provvedimenti di neutralizzazione
e la colpa di non curarsi e continuare a causare i danni rappresentati
nella seconda valutazione. Nel caso di Ginevra si tratta di aiutarla a
un confronto diretto ed esplicito tra la colpa di poter contaminare il
figlio a causa di una sua scarsa attenzione e prevenzione, e la colpa di
non accudirlo adeguatamente, di rovinare e sprecare la propria vita e
di compromettere il rapporto d'amore con il marito. Lo scopo ultimo
La clinica

di questa variante è promuovere la consapevolezza dell'impossibilità


di sottrarsi alla colpa e della necessità di rivalutare le credenze di con­
venienza fin qui portate avanti, e favorire una visione integrata dei co­
sti delle due colpe.
Un'altra variante della tecnica delle sedie prevede l'inserimento di
una terza sedia. Per esempio, potremmo chiedere al paziente di con­
frontare due proprie istanze: su una sedia se stesso che spende tutta la
propria vita nei TSl e su un'altra sedia se stesso che vive una vita piena
nella quale accetta, tra i tanti, anche la rinuncia, magari parziale, ai TSl
e dunque il rischio di essere moralmente imperfetto. Dopo averli fat­
ti dialogare, si introduce una terza sedia, che avrà una doppia funzio­
ne: l) far notare al paziente che entrambe le due parti a confronto, sia
quella pro che quella contro la messa in atto dei TSl, hanno la funzione
di sorvegliare e proteggere i suoi bisogni; 2) aiutarlo a cercare un com­
promesso tra le due istanze contrapposte.
Con questi interventi si vuole favorire nel paziente la consapevolezza
dell'impossibilità di perseguire lo scopo non sentirsi assolutamente col­
pevole, e al contempo poter avere una vita normale, potersi realizzare
in altri ambiti fondamentali della propria esistenza ed evitare la colpa
di essere causa della propria rovina.
È importante aver chiaro che l'obiettivo è l'addestramento del pa­
ziente a tener presenti i costi dell'attività preventiva assieme ai suoi van­
taggi, mentre normalmente il paziente considera tali costi solo quando
è lontano dalla minaccia, usandoli quindi solo per criticarsi, e vicever­
sa considera i costi della minaccia o della compromissione solo quando
ne è a ridosso.
La procedura così implementata in seduta sarà ancora più efficace se
il paziente la ripeterà fuori dal nostro studio , tutte le volte in cui si con­
fronta realmente con la minaccia da lui temuta, cosicché possa fare una
scelta (mettere in atto i TSl o meno), consapevole di tutti gli scopi per
lui importanti e quindi tenendo conto di tutti i costi e benefici rispetto
a essi. Suggeriamo di avere l' accortezza di sottolineare al paziente l'im­
portanza di scegliere sulla base di quello che gli sembra più opportuno
in quello specifico momento e, dunque, non cercare di forzarsi a rinun­
ciare ai TSl. Difatti, un atteggiamento clinico che decida a priori quale
sia la scelta migliore per il paziente (per esempio, non bisogna mettere
in atto l'attività ossessiva perché troppo costosa) e inviti il paziente a
cercare di imporsela, rischia di essere controproducente.

302
I:accettazione del rischio

Favorire la credenza che avere delle colpe


è nell'ordine naturale delle cose

Il processo di accettazione può essere ostacolato dal fatto che anche


quando il paziente ossessivo oramai è consapevole che lo scopo di essere
sempre moralmente perfetto (o di non essere colpevole) non è ottenibile,
e che non conviene continuare a perseguirlo, può però ritenere inaccet­
tabile la colpa di lasciar perdere completamente i TSl, come se ciò fosse
un segnale di irresponsabilità e menefreghismo: " Ho capito che non è
possibile e che non mi conviene insistere nei rituali. Ma se smettessi di
preoccuparmi costantemente di proteggere i miei figli e magari andassi
a divertirmi e poi dovesse succedere qualcosa, mi sentirei una persona
orribile, una menefreghista, una madre degenere ! " .
I n questo paragrafo descriveremo alcuni interventi finalizzati a far
sperimentare al paziente che l'astenersi dai TSl, e quindi rinunciare par­
zialmente a perseguire lo scopo di non essere colpevole, gli consentirà
comunque di mantenere un adeguato valore morale. Un modo utile può
essere il confronto tra le pretese assolutistiche che il paziente ha verso
se stesso e quelle che ha verso altre persone con le quali condivide una
serie di affinità morali, cioè il suo gruppo di riferimento.
Un'efficace tecnica d'intervento in tale direzione, tesa a modificare
le credenze sui propri diritti e doveri, è il doppio standard (van Oppen ,
Arntz, 1 994 ) , in particolare nella sua versione modificata.
Il rationale sul quale si fonda la tecnica del doppio standard modifi­
cato (Mancini, Gragnani, 2004; Gragnani, Toro, De Luca et al. , 2003 )
è che la valutazione morale che il paziente ha di se stesso risente dell'o­
rientamento iperprudenziale, mentre la valutazione che dà delle azioni/
omissioni di altre persone non risente di tale orientamento, risultando
quindi più benevola. Spostare la prospettiva dal giudizio su di sé al giu­
dizio che altri possono dare della propria condotta, da un lato contrasta
l'effetto del ragionamento emozionale ( '' Se mi sento in colpa allora ho
commesso un'azione colpevole" ) ; e, dall'altro, consente di rivedere l'i­
dea che omettere i TSl sia moralmente inaccettabile. In sintesi, il doppio
standard modificato ha come finalità, non solo far emergere e discute­
re la difformità di giudizio del paziente quando si tratta di giudicare le
proprie azioni rispetto a quando giudica le stesse azioni fatte degli altri
(doppio standard classico), ma anche e soprattutto far emergere e discu­
tere la difformità di giudizio del paziente e degli altri sulla sua condot­
ta. Questo aiuta il paziente ossessivo a considerare la propria condotta
da un punto di vista più benevolo e che risulta al contempo, tramite il

303
La clinica

confronto con gli altri, moralmente accettabile e soprattutto condiviso,


e favorisce il processo di accettazione alla rinuncia dei tentativi di solu­
zione, preservando il valore morale percepito del paziente.
La procedura si declina in sei fasi (sintetizzate nella tabella 15.3). In­
nanzitutto si identifica lo scenario per il quale il paziente si sente mag­
giormente in colpa, per esempio Maria si condanna già soltanto a pen­
sare di sospendere i suoi lavaggi, i suoi evitamenti e le sue prevenzioni
e rischiare di contagiarsi in seguito a un contatto con un collega con
abitudini sessuali promiscue: " Non fare niente (stare attenta, lavare sé
e tutte le proprie cose, evitare, ecc. ) significherebbe essere una persona
che non fa di tutto per proteggere sé e i propri cari, una che se ne frega!
Al solo pensiero mi faccio schifo da sola. Una persona integerrima non
si comporta così ! ". Si chiede quindi a Maria di immaginare di tocca­
re qualcosa di contaminato, di non mettere in atto i TSl e di procedere
nelle sue attività come se nulla fosse, per esempio cucinare senza pri­
ma lavarsi le mani, toccare il figlio e il marito senza precauzioni, girare

Tabella 15.3 Schema riassuntivo del doppio standard modificato.

Prima fase
- Descrivi l'evento per il quale ti senti maggiormente in colpa adesso.
Come ti giudichi? (Quanto valuti grave la tua colpa in una scala da O a 100?)
Seconda fase
- Considera una persona che conosci abbastanza bene (giudicata degna di stima
e di affetto) .
- Immagina che questa persona abbia commesso la colpa che tu hai commesso
o che cerchi di prevenire.
- Come la giudicheresti? (Quanto valuti grave la sua colpa?)
Terza fase
- Considera alcune delle persone che conoscono sia te sia l'altra persona (giudicate
degne di stima e di affetto).
- Come la giudicherebbero? (Quanto ciascuna di loro valuta grave la sua colpa?)
Si annotano le ipotetiche valutazioni di un soggetto alla volta tra quelli elencati.
Quarta fase
- Considera le stesse persone che conoscono sia te sia l'altra persona.
- Come ti giudicherebbero? (Quanto ciascuna di loro valuta grave la tua colpa?)
Si annotano le ipotetiche valutazioni di un soggetto alla volta tra quelli elencati.
Quinta fase
- Come ti giudichi? (Quanto valuti grave la tua colpa?)
Sesta fase
- Rielaborazione finale.

304
I:accettazione del rischio

per casa toccando tutto. A questo punto si chiede al paziente quanto si


giudicherebbe colpevole se facesse così, cioè, se non prendesse precau­
zioni nonostante la consapevolezza del rischio. A tal fine si utilizza una
scala visuo-analogica in cui deve posizionare se stesso all'interno di un
continuum delimitato dalle polarità " del tutto colpevole" e "per nulla
colpevole" . Nel nostro esempio, Maria si collocò vicino alla prima po­
larità. Nella seconda fase, si invita il paziente a identificare una perso­
na da lui stimata (cioè giudicata degna di stima e di affetto) e ben co­
nosciuta. Maria scelse un'amica e collega di nome Patrizia, persona dai
valori morali elevati, molto affettuosa e protettiva con i figli. Si chiede
poi di immaginare che questa persona si trovi in una situazione sogget­
tivamente identica a quella del paziente. Nell'esempio, si chiese a Ma­
ria di immaginare che Patrizia avesse toccato il collega con abitudini
promiscue, che anche a Patrizia fosse venuto in mente il sospetto di un
possibile contagio, che avesse avuto la tentazione di andarsi a lavare ma
che si fosse detta " Non importa, meglio lasciar perdere" e che quindi
non avesse preso precauzioni ma avesse continuato le sue attività come
se nulla fosse stato. Maria, come spesso accade ai pazienti, sollevò due
obiezioni: " Ma lei non lo sa che si può contrarre il virus dell'HIV anche
in questo modo" e " Sì, ma lei non pensa che possono succedere tutte
queste drammatiche conseguenze, non ha il dovere di occuparsene" .
Maria fu invitata a pensare che Patrizia avesse pensato al pericolo e che
se lo fosse rappresentato esattamente come lei. "D'altra parte, Maria,
tu hai parlato di questo tuo timore con Patrizia, quindi è possibile che,
quando tocca il collega, le vengano in mente le stesse cose che vengono
in mente a te " . A questo punto s'invita il paziente a valutare la gravità
della colpa dell'altra persona utilizzando la stessa scala e successivamen­
te a motivare l'eventuale discrepanza di giudizio. Maria collocò Patrizia
vicino alla polarità destra, cioè verso quella "non colpevole" . Giustificò
questo giudizio sostenendo sia la scarsissima probabilità del rischio, sia
che Patrizia non fosse tenuta a fare delle azioni assurde, che di fatto non
fa nessuno, e che una madre amorevole si occupa di far star bene i figli,
di fornirgli serenità e vicinanza, e che quindi la decisione più saggia e
matura fosse quella di non mettere in atto le condotte ossessive. A questo
punto si chiede al paziente se le giustificazioni che a suo avviso valgono
per l'altro possono valere anche per se stesso. Nella nostra esperienza,
circa il 30% dei pazienti ossessivi giudica l'altra persona colpevole quan­
to loro stessi. In tutti i casi, nel passo successivo si fanno individuare al
paziente tre persone stimate che conoscono sia lui sia l'altro e poi gli si
chiede di immaginare il giudizio che i tre darebbero dell'altra persona,

305
La clinica

se sapessero che l'altro, consapevole di una minaccia, non avesse preso


alcun provvedimento. Secondo Maria tutte e tre le persone avrebbero
giudicato Giulia in maniera benevola. La quarta fase è molto simile al­
la terza, solo che questa volta il paziente immagina che il giudizio del­
le tre persone stimate è sulla propria condotta. Ritornando a Maria, i
giudizi attribuiti a ciascuno dei tre amici fu, anche in questo caso, tutto
verso la polarità "per nulla colpevole" . La fase successiva è finalizzata
a far rivalutare, alla luce delle evidenze emerse durante la procedura, il
giudizio verso se stesso. Maria a questo punto espresse una valutazione
decisamente meno colpevolista di quella iniziale. Infine, nella sesta fase
si procede alla rielaborazione: il terapeuta aiuta il paziente a evidenzia­
re sia i differenti criteri di giudizio che il paziente applica a sé e all'altro
rispetto a una specifica condotta, mostrando la maggiore severità che
utilizza per giudicare le proprie colpe; sia i differenti criteri di giudizio
utilizzati dal paziente e da altri (significativi e stimati) rispetto alla me­
desima condotta, sottolineando la molteplicità dei criteri di giudizio. Si
conclude evidenziando la legittimità di non mettere in atto i tentativi
di soluzione, così come fanno le persone stimate dal paziente, mante­
nendo comunque un valore morale adeguato e operando una revisione
profonda delle norme che regolano la condotta ossessiva. I risultati ot­
tenuti con questa tecnica sono di solito soddisfacenti ma poco stabili.
Per poterli stabilizzare si chiede al paziente di ripetere frequentemente
la procedura in contesti naturali, quindi anche come homework.

Decatastrofizzazione dell'esperienza di colpa

Sappiamo che la rappresentazione catastrofica dell'evento temuto


(la minaccia di colpa nel caso del DOC), rende più difficile la rinuncia
(Mancini, Perdighe, 20 1 2). Se lo scenario di compromissione è cata­
strofico, la rappresentazione della minaccia o perdita di un bene non
ha solo carattere di evento doloroso, ma d'inammissibilità ( ''Non pos­
so neanche considerare la possibilità di essere bocciato ! " , " Non riesco
neanche a immaginare cosa accadrebbe se mi rendessi conto di essere
davvero omosessuale" ) . Non c'è la rappresentazione di un dopo e della
possibilità di fronteggiare l'evento. Uno scenario catastrofizzato implica,
dunque, inevitabilmente, un forte investimento sulla prevenzione dello
stesso: se una persona pensa un evento come non sopportabile impe­
gnerà molte energie nella sua prevenzione ( ''Devo fare di tutto perché
non accada qualcosa che poi non potrei sopportare, che implichereb­
be un mutamento irreversibile e di segno solo negativo nella mia vita").

306
L:accettazione del rischio

Un modo per favorire la rinuncia alla prevenzione della colpa nel


DOC, dunque, è aiutare il paziente a riconnotare lo scenario di colpa
come doloroso, anche molto doloroso, ma non catastrofico, vale a dire
ammissibile tra gli eventi che gli esseri umani affrontano nella vita e che,
dunque, prevede un dopo.

Dialogo socratico ed esperimenti comportamentali


Un modo per favorire la decatastrofizzazione è guidare il paziente, con
il dialogo socratico ed esperimenti comportamentali, nella scoperta che è
nelle sue possibilità sperimentare e superare lo scenario temuto (laddove
possibile in vivo, altrimenti con l'immaginazione) e che ha delle capacità
di coping (con domande del tipo: "Immagini che sia accaduto, che lei si
sia reso colpevole di quello che teme: come immagina che si possa affron­
tare? Come lo affronterebbero altre persone che conosce bene e stima? " ) .
Anche laddove il paziente dica che non potrebbe vivere dopo quell' even­
to, gli si può far notare che persino la morte può essere pensata come una
soluzione, un fronteggiamento dell'evento temuto (Perdighe, Mancini,
2012a). Per esempio, a Giovanni si può chiedere di far qualcosa che gli
attivi il senso di colpa e, poi, di non far niente per contenerlo o sfuggir­
gli, osservandone il decorso naturale. Dopo lo si può far riflettere sul fat­
to che è stato possibile sperimentarlo e che dopo un certo tempo è stato
meno difficile tollerarlo e che, comunque, ha la capacità di affrontarlo.

Procedure di distancing
Un altro modo per favorire la decastrofizzazione dello scenario te­
muto è aiutare il paziente, attraverso procedure di distancing, a distin­
guere la realtà di una colpa ( '' Ho fatto qualcosa che causerà un danno a
mio figlio" ) , dall'esperienza soggettiva di colpa ( " Mi sento in colpa" ) . Se
un'esperienza è avversiva, una risposta naturale è l' evitamento e l'allon­
tanamento non solo dalla situazione che la crea ( "Evito di fare qualcosa
che giudico colpevole" ) , ma anche dall'esperienza emotiva in sé ( ''Evito
o cerco di azzerare l'esperienza soggettiva di colpa, la sensazione e l'i­
dea di essere colpevole" ) (Hayes, Strosahl, Wilson, 2012). Inoltre, come
visto nel capitolo II, sperimentare un'emozione può facilmente essere
assunta come la prova dell'esistenza di una causa di questa emozione
(al/ect as in/ormation: "Se mi sento in colpa, significa che ho fatto qual­
cosa di sbagliato" ) . La stessa cosa avviene con i pensieri che possono
essere assunti come prova di un dato di realtà ( " Se ho pensato che sono
omosessuale, significa che lo sono" ) .

307
La clinica

In questo senso, l' ossessivo investe sull'evitare l'esperienza di colpa


indipendentemente dalla realtà di una colpa concreta, per cui può pren­
dere provvedimenti che sono finalizzati solo a regolare o a non senti­
re le sensazioni di minaccia di colpa. Imparare a trattare la colpa come
" un'esperienza soggettiva transitoria" la rende più facile da tollerare e
accettare. Anche la ricostruzione dello schema del disturbo aiuta il de­
centramento, perché permette di lavorare, oltre che sul riconoscimento
del contenuto dello stato mentale che sostiene i sintomi, anche sulla sua
"natura mentale" . Il paziente viene aiutato a riconoscere la valutazione,
i pensieri, le sensazioni e le emozioni come stati interni distinti dai fatti.
Per esempio la sensazione della Not }ust Right Experience o la valuta­
zione di colpevolezza catastrofica possono essere riconosciute rispet­
tivamente come sensazione transitoria che le cose non siano a posto e
come una delle ipotesi possibili sugli eventi, e in quanto tali non hanno
natura di fatti. Il decentramento, insieme alla conoscenza di come fun­
zionano gli stati interni, facilita l'accettazione degli stessi. Per esempio,
sapere che la NJRE o i pensieri intrusivi sono stati transitori normali che
tutti gli esseri umani hanno, riduce la continua costruzione degli stessi
come prove della propria amoralità e colpevolezza e facilita l' accoglien­
za accettante e non giudicante di tali stati mentali.
Per favorire una maggiore tolleranza di pensieri ed emozioni vissuti
come negativi sono utili anche le procedure di defusione e accettazione
esperienziale della Acceptance and Commitment Therapy (Barcaccia,
2012; Harris, 2008, 2009; Hayes, Strosahl, Wilson, 2012). L'ACT è basata
sull'idea che molte condotte poco adattive e disfunzionali siano prodotte
da controproducenti tentativi di evitare o sopprimere stati interni (pensie­
ri, emozioni o sensazioni corporee). La sofferenza e i sintomi sono, infatti,
concettualizzati come tentativi disfunzionali di ridurre o modificare i pro­
pri stati mentali ed emotivi: il problema non è ciò che proviamo e pensia­
mo, ma i tentativi di contrasto o soluzione e la distrazione dai propri sco­
pi e valori. Il problema dell'ossessivo non è la colpa, ma tutto quello che
fa per non sperimentare la colpa e tutti i pensieri e le sensazioni associate.
La finalità generale dell'uso di procedure di defusione e accettazione
nel trattamento del DOC è di favorire la rinuncia ai TSl e nello specifico
percepire come meno catastrofici i pensieri e le emozioni di colpa (e in
generale tutto ciò che è associato allo scenario temuto) e, dunque, come
più tollerabili, in modo da riuscire a non fare più niente per allontanarli,
modificarli, contenerli. Il paziente impara, da una parte, a guardare con
più distanza critica allo scenario temuto: sentirsi in colpa non equivale
necessariamente ad avere una colpa; dall'altra, impara fattivamente cosa

3 08
L'accettazione del rischio

significhi accettare l'esperienza di colpa senza mettere in atto tentativi


di soluzione, quindi impara cosa fare e come fronteggiare praticamente
le esperienze emotive, somatiche e cognitive temute.
Prima di entrare nel merito delle procedure, ci permettiamo un' os­
servazione. Anche se non è nei loro scopi, in realtà defusione e accet­
tazione esperienziale favoriscono anche una forma di rassicurazione ri­
spetto alla minaccia: come si diceva sopra, se un pensiero e un'emozione
sono connotati come un fenomeno transitorio che poco ha a che fare
con la realtà della minaccia, di fatto in qualche modo si sta rassicuran­
do il paziente e gli si suggerisce che forse la minaccia non esiste ("Pen­
sare di essere omosessuale è solo un pensiero, che non equivale a essere
omosessuale" ; " Non valgo è solo il mio solito pensiero, non lo specchio
della realtà delle cose " ) .

La delusione
La defusione mira ad alterare le relazioni funzionali patogene tra pen­
sieri e altri stati interni, rinunciando a cambiarne la frequenza o forma e
mira a indebolire l'impatto del significato letterale di un pensiero o ricor­
do. Lo scopo delle procedure di defusione, dunque, non è la riduzione
della frequenza o forma di un pensiero, ma la riduzione della sua credibi­
lità (penso lo stesso "faccio schifo " , ma aderisco meno al suo significato
letterale). È un modo per togliere credibilità e potere ai pensieri, senza
discuterne la veridicità in modo diretto (alternativa quindi al debating).
Defusione si contrappone a fusione, il polo patogeno dello stesso
processo. Per fusione si intende la totale aderenza ai propri pensieri: i
pensieri (descrizioni verbali di un evento) acquistano la proprietà di sti­
molo; pensare " Nell'altra stanza mi sembra che ci siano i ladri" equiva­
le a credere e organizzarsi su questo; pensare " Sto morendo" equivale
a credere che si sta davvero morendo. Il problema è che molti pensieri
sono espressioni di esperienze del passato, di particolari sensibilità per­
sonali, di inferenze, ecc., per cui avere un pensiero non equivale al fatto
che il pensiero sia aderente alla realtà attuale delle cose.
Per favorire la defusione si usano tecniche che facilitano la discon­
nessione tra un pensiero, un ricordo, un'immagine mentale e le rispo­
ste del soggetto a questi. Nello specifico del paziente ossessivo, il target
delle procedure di defusione sarà il dialogo interno associato allo sce­
nario di colpa. Per esempio: " Se non mi lavo le mani dopo aver buttato
qualcosa nella spazzatura, inizio a preoccuparmi e a sentire ansia. Temo
infatti di potermi ammalare e che questo avvenga perché sono stata così

309
La clinica

superficiale da preferire il non lavarmi al proteggere la mia vita. Avrei


una colpa; se io vedessi una persona comportarsi come me direi: certo
per un po' di pigrizia, ti sei giocata la vita" .
Lo scopo dell'intervento sarà ottenere che il paziente prenda meno
sul serio il dialogo interno relativo all'evento temuto ('' Mi ammalerò" ,
" Sarò colpevole" , ecc . ) ; e non agisca sull'onda del dialogo e dell'emo­
zione, ma impari a osservare quanto accade dentro di sé con un atteg­
giamento del tipo: "Sono solo pensieri; è una mia esperienza e la posso
accettare senza fare niente per modificarla ! " .
L a defusione può essere introdotta con esperimenti o metafore va­
rie, tese a mostrare l'inefficacia e la dannosità dei propri tentativi di
contrastare e modificare i propri pensieri, come quelli del genere "orso
bianco" che fanno sperimentare gli effetti paradossali della soppressio­
ne dei pensieri.
Gli stessi scopi possono essere raggiunti con un dialogo finalizzato
a mettere in dubbio la strategia di cambiamento che il paziente crede
valida e che non ha funzionato (tanto da renderlo " resistente al cam­
biamento" ), che verta su tre domande: " Cosa vuole? Cosa ha provato a
fare? Quali sono stati gli effetti/risultati? " .
Una metafora utile per mostrare l'effetto negativo dei propri tentati­
vi di soluzione e per spiegare al paziente ciò che intendiamo per accet­
tazione dei pensieri è quella di Allen H. Weg in " Fly in the room" (La
mosca nella stanza) .

Mentre sta leggendo u n libro Ariel viene disturbata d a una mosca che
gironzola per la stanza facendo un ronzio fastidioso. La ragazza è talmen­
te impegnata a seguire i movimenti della mosca che interrompe la lettura,
chiude il libro e si innervosisce. Inizia a seguire la mosca per ucciderla
e così facendo crea una grande confusione dentro la stanza e sulla scri­
vania rompendo alcuni oggetti ed entrando in uno stato di frustrazione.
Se la ragazza avesse lasciato gironzolare la mosca tranquillamente
accettando l'intrusione del rumore senza prendere provvedimenti com­
portamentali, sarebbe riuscita a continuare a leggere, concentrandosi e
senza entrare in uno stato emotivo negativo. (Weg, 2010)

Si offre, poi, il come della defusione, proponendo al paziente esercizi


di osservazione e oggettivizzazione dei pensieri. Un esempio è "Metti i
pensieri sulle foglie".

Ora t i chiederò d i immaginare d i essere in campagna, davanti a un


ruscello. L'acqua scorre lenta; vi sono poggiate sopra delle grandi foglie,
che seguono il corso del ruscello.

3 10
I:accettazione del rischio

L'esercizio consiste nel poggiare i tuoi pensieri, ogni pensiero che ti


attraversa la mente, su queste grandi foglie e poi semplicemente lasciar­
li lì, guardarli.
Se sei pronto ora ti chiederò di chiudere gli occhi, notare i tuoi pen­
sieri e mettere ogni pensiero che ti passa per la testa in una di queste fo­
glie e di !asciarlo andare via. Non devi dirmi niente, ma solo guardare
scorrere il fiume [3/4 minuti] . (Harris, 2009)

Un altro esempio di procedura di defusione è "Diamo un nome al


film" (Harris, 2009) . Nel caso di Maria potremmo, per esempio, chie­
derle: "Se si trattasse di un film o un libro, che nome darebbe al filone
di pensieri legati alla paura di contrarre il virus dell'HIV? " . Lei potreb­
be proporre, con l'aiuto del terapeuta, titoli del tipo: " La madre igno­
bile" o " L'untrice" . Le si dà poi un'istruzione di questo tipo: " Quando
le capita di essere presa dai pensieri associati al contagio, provi a rico­
noscere il film che la sua mente sta iniziando a proiettare, a ricordare il
titolo e limitarsi a notare, osservare, questa proiezione nella sua men­
te; è un film, magari spiacevole, ma può guardarlo senza far niente per
bloccarlo o modificarlo" .
Rispetto agli stessi pensieri s i possono anche dare istruzioni del tipo:
"Guarda ai tuoi pensieri come a pop-up che si aprono mentre navighi
su internet o come a dei sottotitoli fastidiosi che passano mentre si guar­
da una trasmissione TV". Ancora, si può suggerire al paziente di cantare
i propri pensieri di colpa, scegliendo il genere musicale che preferisce
(questo ultimo genere di esercizi sfrutta l'effetto buffo, che sdramma­
tizza i pensieri).
Per evitare sensazioni di fallimento, è importante, nel fare questi in­
terventi, ricordare che lo scopo della defusione non è rendere piacevoli
pensieri spiacevoli né far sentire meglio (anche se può capitare), quanto
piuttosto imparare ad accettare i pensieri e non lottarci.

Accettazione esperienziale
L'accettazione esperienziale è l'attiva e consapevole accoglienza delle
proprie esperienze, rinunciando a cambiarne la frequenza o la forma.
Nella pratica clinica equivale ad addestrare il paziente a stare dentro la
sofferenza, piuttosto che a contrastarla, costruendo un atteggiamento
del tipo: " Voglio accettare, e non contrastare, le esperienze che vivo" .
Lo scopo è imparare a ridurre l'investimento sulla loro prevenzione e
accettare la normalità del disagio (vs lo scopo " assenza di disagio" ) . L'e­
sito atteso è la sospensione di qualsiasi attività di contrasto. n target degli

311
La clinica

interventi sono le emozioni, le sensazioni, i ricordi in forma non verbale


e altri stati interni in cui la verbalizzazione non è centrale.
Nel caso del DOC, l'istruzione di base per favorire l'accettazione espe­
rienziale è: " Non dico che sentirsi colpevole sia piacevole; non c'è un
modo per renderlo piacevole; le chiederò di provare, però, a essere aper­
to a sentire quest'emozione e darle spazio dentro di lei " .
Come prima cosa è utile far riflettere sulla convenienza dell'abban­
donare le condotte di contrasto e contenimento delle emozioni (di an­
sia, colpa, disgusto nel DOC ) . Questo può essere suggerito attraverso
l'uso di metafore, per esempio quella delle sabbie mobili, qui di segui­
to descritta.
- lnnanzitutto si chiede al paziente di riflettere su quella che è la rispo­
sta spontanea per una persona che cade nelle sabbie mobili (tentare
di uscire, tenendo il più possibile il corpo fuori, agitandosi) e sugli
effetti negativi (andare sempre più giù velocemente) .
Gli si chiede quale potrebbe essere una risposta alternativa e, infine,
si suggerisce che il modo migliore per non sprofondare è abbando­
narsi alle sabbie come si farebbe nell'acqua per nuotare, smettendo
di lottare per stare fuori.
Gli si suggerisce un parallelismo tra la risposta alle sabbie mobili e la
propria risposta alle emozioni e alle sensazioni associate alla minac­
cia temuta: come nel caso delle sabbie mobili, ci sono dei casi in cui
conviene " abbracciare le emozioni, buttarcisi dentro, piuttosto che
tentare in tutti i modi di starne fuori" .
Per favorire nella pratica una maggiore accettazione si possono usare
istruzioni del tipo: "Prova a stare dentro la tua vita trattando gli eventi,
te stesso, la vita come fatti, piuttosto che come problemi da risolvere".
Oppure si può aiutare il paziente a oggettivizzare e guardare passiva­
mente le emozioni (Harris, 2008) , come qui di seguito si descrive.
"Ripensiamo all'episodio in cui si è sentita in colpa" (immedesima­
zione) .
- "Provi ora a sentire la colpa . . . Dove la sente? Come è fatta? Di che
materiale è? Che contorni ha? " .
"Provi ora a guardarla e a trattarla come una cosa sua, che può te­
nersi. Non è obbligatorio tentare di allontanarla o ridurla o cancel­
larla. In fondo è solo un'emozione . . . Può essere dolorosa a volte, ma
rimane una sua emozione che non la danneggia. Lottarci la danneg­
gia. Ora stiamo qualche attimo in silenzio mentre lei continua ad ac­
cogliere la colpa dentro di sé" .

3 12
L'accettazione del rischio

Un altro modo per facilitare l'accettazione della colpa e delle altre


emozioni che il paziente vuole evitare, è favorire un atteggiamento di
accudimento e compassione verso i propri vissuti (Harris, 2008 ) . Per
esempio, lo si può guidare nel seguente modo.
- "Poggi la sua mano dove sente l'emozione più intensamente. Imma­
gini sia la mano di un genitore o di un partner o di un terapeuta" .
"Mandi il calore in questa parte del suo corpo, non s i sbarazzi della
sensazione ma le faccia spazio. La accolga" .
"Permetta all'emozione di essere lì . Permetta all'emozione di espan­
dersi" .
"Coccoli l'emozione. Provi a guardare con tenerezza alla sua emo­
zione, la guardi come se fosse un cucciolo della razza di animale che
preferisce " .
È importante ricordare che l'accettazione esperienziale non può es­
sere una strategia strumentale all'inibizione: " accettare di essere col­
pevole" non può essere uno strumento per allontanare il vissuto " sono
colpevole" ; altrimenti si rischia di dare un'istruzione paradossale del
tipo: "Accetti l'esperienza di sentirsi in colpa, così poi sentirà meno
frequentemente e con meno intensità la colpa" (anche se di fatto, è un
effetto atteso) .

Investire su scopi ottenibili

Uno dei modi per facilitare la rinuncia a uno scopo è favorire l'inve­
stimento su scopi alternativi desiderabili e raggiungibili, sia attraverso
una ridefinizione degli scopi attivi sia attraverso l'individuazione di altri
scopi nello stesso dominio, quello morale, su cui orientare l'investimen­
to (Perdighe, Mancini, 2012a).
Come si è detto nei primi capitoli, nel DOC gli scopi coinvolti sono
spesso definiti in negativo (antiscopo) e l'orientamento alla prevenzio­
ne di uno scenario, piuttosto che al raggiungimento di uno stato, rende
più vulnerabili al sovrainvestimento dello scopo invece che alla rinun­
cia (Mancini, Perdighe, 20 1 2 ) : non solo la compromissione non deve
realizzarsi, ma lo scopo diventa la prevenzione della compromissione
piuttosto che il raggiungimento di uno scopo (per esempio, "Devo po­
ter escludere con certezza di non trascurare nessun comportamento che
potrebbe causare l'esplosione del palazzo" ; " Non devo assolutamente
essere colpevole" ) . Essere regolati da un antiscopo, piuttosto che da uno
scopo, aumenta potenzialmente all 'infinito le occasioni di compromis-

3 13
La clinica

sione o minaccia: lo scopo di "non essere colpevole " , è molto più sog­
getto a frustrazione dello scopo " essere una brava persona " , e quindi
si presta di più a creare occasioni in cui il paziente è costretto a impe­
gnarsi perché non si realizzi lo scenario temuto. Inoltre, un antiscopo
facilita l'iperinvestimento invece della rinuncia, perché è molto più dif­
ficile individuare una regola di stop. Se una persona ha lo scopo di non
essere colpevole, è molto difficile decidere se lo scopo è stato raggiunto
in quanto non è definito il punto di arrivo, ma solo la condizione da cui
allontanarsi. Tra l'altro se lo scopo è espresso in negativo è anche più
difficile rappresentarsi dei prototipi che potrebbero definire la regola
di stop; al contrario, è più facile farsi venire in mente degli esempi di
cosa significhi "essere una brava persona" (per esempio, essere come il
Dalai Lama o Martin Luther King).
Ancora, uno scopo definito in negativo facilita l'adozione di un ra­
gionamento dicotomico e rende quindi più difficile percepire la possi­
bilità di compromissioni solo parziali: o sono nello stato desiderato o
sono in quello temuto; mancano i gradi intermedi di compromissione.
Infine, se uno scopo è definito in negativo l'investimento assume ca­
ratteristiche diverse da quelle che avrebbe se lo scopo fosse definito in
positivo e più facilmente il mancato ottenimento di uno scopo viene
definito in termini di perdita ( '' Ho perso il mio status morale" ) , piutto­
sto che di mancato guadagno ( '' Non ho ottenuto di essere moralmente
a posto" ) . La definizione in termini di perdita riduce la disponibilità a
rinunciare e aumenta la probabilità di condotte tese a prevenire la com­
promissione (Tversky, Kahneman 1 98 1 ) .
L a difficoltà alla rinuncia non è legata solamente alla presenza di un
antiscopo perseguito, ma anche all'assenza di scopi alternativi sogget­
tivamente di valore su cui investire: per una vedova è molto più facile
rinunciare alle condotte connesse allo scopo di essere una moglie amo­
revole, se può riorientare l'investimento sull'essere una mamma amore­
vole. In sintesi, è più facile essere disposti a investire meno sul protegger­
si dall'essere una persona amorale ai propri stessi occhi, se si individua
uno scopo alternativo o sovraordinato su cui investire, per esempio au­
mentare i comportamenti di cura e amore verso un figlio come scopo
alternativo al fare di tutto per proteggerlo da malattie.
Inoltre, l'individuazione di uno scopo morale alternativo su cui in­
vestire, piuttosto che la rinuncia in toto, riduce il rischio che la rinuncia
awenga con diminutio, poiché avere chiaro che si sta investendo comun­
que su scopi positivi riduce la percezione di perdita dal punto di vista
dello status e del valore morale.

3 14
L'accettazione del rùchio

Tenendo conto di queste considerazioni, la rinuncia alle condotte


tese a prevenire la minaccia può essere favorita attraverso interventi di
riorientamento del paziente su scopi e valori morali definiti in positivo
e rispetto ai quali ha un potere.

1111111 Un primo intervento in questa direzione è aiutare il paziente attra­

verso il dialogo socratico a individuare scopi definiti in positivo (ridefi­


nendo lo stesso scopo o individuando scopi alternativi nello stesso do­
minio morale) e sostenere l'investimento su questi, piuttosto che sulla
prevenzione di uno scenario negativo. Concretamente si tratta di far le­
va sui seguenti tre aspetti.
Definire lo scopo in positivo
Cosa dovrebbe fare il paziente per potersi definire a posto sul piano
morale nelle diverse situazioni critiche? E, più in generale, protegger­
si dalla minaccia di colpa, in che tipo di scopi e condotte si potrebbe
tradurre? Si tratta di aiutare il paziente a mettere a fuoco scopi e com­
portamenti da mettere in atto, contrapposti a scenari e comportamenti
da evitare, per potersi comunque qualificare come stimabile sul piano
morale ai suoi stessi occhi. Nel caso di Maria, per esempio, questo tipo
di domande possono aiutarla a mettere a fuoco l'importanza che ha per
lei essere una mamma protettiva, accudente e amorevole (contrapposto
all'iperfocalizzazione sulla minaccia di essere colpevole di un danno al
proprio figlio) .
Individuare obiettivi e condotte funzionali a questo scopo
Invece che concentrarsi sullo scopo di prevenire una colpa, essere una
persona moralmente stimabile in che tipo di comportamenti specifici si
può tradurre? Nel caso di Maria, essere una mamma protettiva e accu­
dente, che cosa implica dal punto di vista pratico? Quali comportamenti
dovrebbe aumentare o aggiungere?
Aumentare l'impegno nella direzione degli scopi individuati
Per esempio, attraverso l'assunzione esplicita di tale impegno, la pro­
grammazione di specifici comportamenti, il monitoraggio della messa
in atto di tali condotte e delle eventuali difficoltà.
Per facilitare l'individuazione degli scopi alternativi si può inoltre ri­
prendere la seconda valutazione dello schema del disturbo, cioè la cri­
tica ai propri tentativi di soluzione rispetto allo scopo di "non essere
colpevole" (TS I ) . Tale critica, infatti, riflette gli scopi che il paziente ha
e che sacrifica nel tentativo di proteggersi dalla minaccia di colpa. Per
esempio Giovanni si critica aspramente per i continui controlli per fare

3 15
La clinica

i quali fa tardi al lavoro, evidenziando quindi il desiderio di essere un


buon lavoratore e di mantenersi il lavoro stesso.

Un secondo modo per favorire la ridefinizione degli scopi e valori


1111111

morali è utilizzare procedure ACT che mirano ad aumentare la consape­


volezza di propri valori e l'impegno nella stessa direzione (Basile, 2012;
Harris, 2009; Hayes, Strosahl, Wilson, 2 0 1 2 ) . Descriviamo di seguito
alcune di queste procedure terapeutiche.
Consapevolezza dei valori
Aiutare il paziente a individuare il valore sovraordinato ai propri scopi
morali e ai propri sintomi, con domande del tipo: " Se lo scopo di az­
zerare la minaccia di colpa fosse già realizzato, cosa cambierebbe nella
sua vita? Se lei fosse da questo momento esattamente la persona moral­
mente perfetta che aspira a essere, cosa cambierebbe nel suo compor­
tamento? In cosa cambierebbe la sua vita? Proviamo a individuare tutti
i comportamenti che cambierebbero e poi chiediamoci quale è il valore
sottostante" . Per esempio, se una paziente ci dice: " Se avessi la certezza
di non essere oggi o domani colpevole di contagiarmi e contagiare a mia
volta i miei cari, sarei una mamma protettiva" , possiamo farle notare che
quindi il suo valore, la cosa cui davvero tiene, sembra riguardare l'essere
una mamma protettiva. A questo punto si esplora in cosa concretamente
si traduce il valore individuato ( " Se lei fosse già la mamma protettiva che
vuole essere, in cosa sarebbero diversi i suoi comportamenti? " ) , al fine
di capire meglio come il paziente intende il valore (nell'esempio, come
si comporta e quali sono le qualità di una mamma protettiva) .
Comportamento impegnato
Una volta individuati i valori personali e i comportamenti connessi, si
sostiene l'impegno nella stessa direzione, attraverso metafore e dialoghi
tesi ad aumentare la consapevolezza che l'impegno e i comportamenti
orientati ai propri valori sono, al contrario di emozioni e pensieri, sot­
to il proprio controllo volontario e che si può decidere di impegnarsi
responsabilmente in tale direzione. Per esempio: " Con la minaccia di
una pistola le posso intimare di non sentirsi in colpa o di non avere certi
pensieri? Con quali risultati? Con la stessa pistola le posso intimare di
mettere in atto un comportamento, per quanto faticoso sia? Con qua­
le probabilità di successo? " . Nel caso di una paziente che abbia indivi­
duato come comportamenti in linea con il valore di essere una mamma
protettiva cose come "Invitare una volta a settimana amici di mio figlio a
casa per aiutarlo a socializzare" , le si farà notare che è un comportamen-

3 16
];accettazione del rischio

to che può decidere di mettere in atto indipendentemente dal disagio


o dal fatto che fare questo implica non fare i rituali e tenersi la colpa; e
che, dunque, è possibile programmare e impegnarsi in questo compor­
tamento di avvicinamento allo scopo di essere la mamma protettiva che
vuole essere (contrapposto ai comportamenti di evitamento della colpa
di essere una persona e una mamma colpevole) .

• Un terzo intervento, più radicale, volto a individuare e adottare sco­


pi morali alternativi, è favorire una connotazione negativa dello scopo
di proteggersi dalla colpa o di essere moralmente perfetti, vale a dire
connotare in senso negativo la morale deontologica e valorizzare quella
altruistica. Per esempio, si può analizzare un episodio critico e le con­
dotte messe in atto per proteggersi dalla colpa e si può far notare come
tali condotte siano orientate a " sentirsi meno in colpa" o "moralmente
a posto" , piuttosto che verso l'interesse e il bene di sé o dell'altro. Pro­
viamo a vederlo con un esempio. Lisa porta in terapia questo episodio.
n figlio di amici di famiglia di 15 anni ha una malattia in fase terminale.
Lisa chiama a casa del ragazzo per parlare con la mamma, ma le rispon­
de il ragazzo e le dice che la mamma è in ospedale. Parlano una decina
di minuti, poi chiudono la telefonata. Lei commenta con un'altra amica
presente: "Certo è terribile; ormai è questione di settimane, se non di
giorni" . Subito dopo le viene il dubbio di aver lasciato la telefonata aper­
ta e che il ragazzo possa aver sentito i suoi commenti. Poche ore dopo
la chiama la mamma del ragazzo e le dice: " Oggi mentre ero in ospeda­
le, mio figlio è andato a rivedersi analisi e cartelle cliniche e mi ha chia­
mato in ospedale accusandomi di nascondergli qualcosa" . A quel pun­
to Lisa teme ancora di più che sia stata la sua frase a spingere il ragazzo
a cercare informazioni e arriva in terapia con un intensissimo senso di
colpa e con il forte desiderio di chiamare l'amica per sapere a che ora il
ragazzo l'ha chiamata in ospedale (al fine di escludere una sua colpa) .
Un modo per far emergere e sostenere gli scopi altruistici, connotando
in senso negativo lo sforzo di escludere la colpa deontologica, è fare tre
categorie di domande.
- Cosa vuole fare e qual è lo scopo sotteso? ( "Chiamare per rassicurar­
mi di non essere io colpevole di avergli fatto scoprire che morirà" ) .
- Se riuscisse a escludere l a sua responsabilità, quanto ciò sarebbe un
bene per il ragazzo? O quanto, invece, riguarderebbe solo il proprio
bene, cioè l'evitamento di un suo disagio?
- Cosa sarebbe davvero utile per il ragazzo e cosa potrebbe fare con­
cretamente in questa direzione?

3 17
La clinica

A fronte di questo tipo di riflessioni, per esempio, Lisa decide che,


se lei fosse nei panni della sua amica, l'unica cosa che vorrebbe è la vi­
cinanza in questo momento difficile; e aggiunge: " Se io vedessi la mia
amica fare cose per rassicurarsi di non essere colpevole, mi darebbe mol­
to fastidio e la giudicherei egoista. Che importa davanti a una tragedia
così grande, se hai fatto una cosa stupida come lasciare una telefonata
aperta e preoccupartene tanto ? " .

CONCLUSIONI

In questo capitolo abbiamo voluto mettere in luce l'importanza


dell'accettazione come strategia di cambiamento e dare una panorami­
ca dei fattori sui quali è possibile agire per favorirla.
Nel porre enfasi sul ruolo dell'accettazione non vogliamo in alcun
modo suggerire l'abbandono di interventi di provata efficacia, che van­
no nella direzione della rassicurazione.
Il punto, semmai, in linea con la concettualizzazione del DOC alla base
di questo libro, è che avere chiaro quando favorire l'accettazione offre
vantaggi terapeutici maggiori rispetto alla rassicurazione, tenendo pre­
sente che gran parte dei problemi clinici sono configurabili in termini
di minaccia, più che di danni subiti; e che accettare gradi maggiori di
rischio di compromissione equivale a ridurre il rischio di sovrainvesti­
mento di uno scopo e, dunque, la vulnerabilità ad automatismi e circo­
li viziosi che alimentano l'investimento verso uno scopo anche quando
sarebbe possibile e opportuna la rinuncia.

3 18
XVI

L'E/RP COME PRATICA DELL'ACCETTAZIONE


Olga Ines Luppino

LA TECNICA DELL'ESPOSIZIONE
CON PREVENZIONE DELLA RISPOSTA

La tecnica: cenni storici

li primo utilizzo della procedura si fa risalire alla fine degli anni Ses­
santa. I comportamentisti, i cui metodi si limitavano all'epoca all'analisi
esclusiva del comportamento osservabile, vedevano nei sintomi di natu­
ra prevalentemente cognitiva, quali le ossessioni, ostacoli insormontabili
e difficili da gestire con le tecniche allora a disposizione (Roper, 2005 ) .
All'interno d i tale cornice, l o psicologo britannico Vietar Meyer,
del Middlesex Hospital di Londra, descrive nel 1 966 due casi clinici
di pazienti donne da lui personalmente trattate mediante l'utilizzo di
un nuovo e promettente intervento. La lobotomia, già toccata a una
delle due pazienti, appariva oramai l'unica soluzione anche per l'altra
che, costantemente afflitta da intensi timori relativi allo sporco e al­
le malattie, continuava a trascorrere le sue giornate impegnandosi in
lavaggi compulsivi. Meyer pianifica per lei un percorso di trattamen­
to in regime di ricovero e, proponendosi di modificare le sue aspetta­
tive circa le conseguenze del contatto con agenti contaminanti, inizia
a esporla a una grande quantità di oggetti e luoghi elicitanti il timore
di contaminazione, impedendole contemporaneamente di procedere
ad alcun tipo di lavaggio. Drasticamente limitata nell'uso di saponi e
di altri detergenti per le prime quattro settimane, la paziente, pur ci­
clicamente soggetta a fasi di ansia intensa e a qualche battuta d'arre­
sto, comincia a mostrare un significativo decremento dei comporta­
menti di lavaggio che, progressivamente, raggiungono livelli gestibili.

319
La clinica

Anche con la seconda paziente, vittima di ossessioni blasfeme e sessua­


li, causa di faticose neutralizzazioni, Meyer procede all'esposizione a
stimoli, immagini mentali e luoghi elicitanti le ossessioni, assicurandosi
che a queste non facessero seguito i rituali. Nel corso di un complesso
trattamento di circa 9 settimane in regime di ricovero, la donna speri­
menta progressivi miglioramenti, esiti che si dimostrano, come quelli
della prima paziente, notevolmente stabili nel tempo (Meyer, 1 966) .
È a partire dall'interesse suscitato dai casi appena descritti che negli anni
Settanta si mette a punto una forma di trattamento mediante esposizione
meno restrittiva e più semplificata, attuabile anche ambulatorialmente,
per una durata media di circa 15 sedute.

La tecnica: definizione

L'esposizione con prevenzione della risposta ( anche definita espo­


sizione con prevenzione del rituale - Ex/RP o EIRP) costituisce l'inter­
vento CBT (Cognitive Behavioral Therapy) di maggiore efficacia empi­
rica (Abramowitz, Taylor, McKay, 2009). La procedura, da qui in poi
EIRP (Exposure and Response Prevention ) , consta dell'applicazione
combinata di due diverse componenti: l'esposizione e la prevenzione
della risposta. La prima richiede che il paziente entri in contatto con
gli stimoli ansiogeni, esterni o interni, per un lasso di tempo maggiore
a quello da lui normalmente tollerato; il contatto può avvenire in vivo o
in immaginazione, con o senza gradualità rispetto all'ansia generata da
ciascuno stimolo. La tecnica della Prevenzione della Risposta consiste
invece fondamentalmente nel blocco dell'emissione dei comportamen­
ti normalmente messi in atto dal paziente durante e dopo il contatto
con gli stimoli ansiogeni; il comportamento viene, anche in questo ca­
so, bloccato per un tempo maggiore rispetto a quello che il paziente è
solitamente capace di tollerare quando procrastina autonomamente la
sua risposta comportamentale. Nel caso specifico del DOC, una sessione
di E/RP prevede pertanto che il paziente si confronti ripetutamente con
stimoli elicitanti i suoi timori ossessivi, senza impegnarsi in alcun modo
in comportamenti di ricerca di sicurezza o in rituali compulsivi, neutra­
lizzazioni, ricerca di rassicurazioni. L'esposizione allo stimolo perdura
fino alla riduzione spontanea del disagio del paziente; parallelamente,
il ricorso a tecniche cognitive facilita la correzione delle credenze ca­
tastrofiche soggiacenti alla sintomatologia. Il trattamento mediante El
RP e le singole procedure utilizzate in ogni sessione di esposizione sono
manualizzate (Foa, Yadin, Lichner, 2 0 1 2 ) .

320
L'EIRP come pratica dell'accettazione

La tecnica: efficacia

Dalle sue prime applicazioni in ambito comportamentista, risalen­


ti alla fine degli anni Sessanta, l'intervento mediante EIRP si è dimo­
strato sino a oggi efficace ed è considerato, allo stato attuale, elettivo
per il trattamento del DOC (McKay, Sookman, Neziroglu et al. , 2015).
Il primo lavoro quantitativo a dimostrare l'efficacia della procedura
di esposizione (d = 1,30) risale alla fine degli anni Ottanta (Christen­
sen, Hadzi-Pavlovic, Andrews et al. , 1 987 ) , poi seguito da un lavo­
ro di meta-analisi condotto da Abramowitz ( 1 997 ) che ha comparato
l' E/RP al training di rilassamento ( condizione di controllo " attiva" ) ,
mostrando come tra i due interventi l'E/RP ottenesse un effetto più
ampio (d = 1, 1 8) .
Trial controllati randomizzati (RCTs) mostrano l a maggiore effica­
cia dell'E/RP rispetto al placebo, alla clomipramina (Foa, Liebowitz,
Kozak et al. , 2005 ) e al training di gestione dell'ansia (Lindsay, Cri­
no, Andrews, 1997 ) nel trattamento del DOC. Foa, Liebowitz, Kozak
e collaboratori (2005 ) hanno messo in luce come tra coloro che han­
no completato l'intero trattamento mediante E/RP, 1'86% è costituito
da responders, contro il 48% di soggetti trattati con clomipramina e il
10% trattati con placebo. I miglioramenti appaiono stabili nel tempo,
come sostenuto da misure di esito che mostrano al post-trattamento
(d = t 80) e al follow-up a 3 mesi (d = 2, 12) una significativa riduzione
sintomatica ottenuta attraverso due sessioni settimanali di esposizioni
(Abramowitz, Foa, Franklin, 2 003 ) . Ci sono diversi lavori a sostegno
della stabilità degli esiti ottenuti mediante EIRP (dai 3 mesi ai 6 anni
dalla conclusione del trattamento) , per la maggior parte dei pazienti
che completano il trattamento (DiMauro, Domingues, Fernandez et al.,
20 1 3 ; Olatunji, Rosenfield, Tart et al. , 2 0 1 3 ; Ougrin, 201 1 ) . Una meta­
analisi di studi di esito che, nel valutare l'efficacia dei diversi programmi
CBT per il trattamento dei disturbi d'ansia, mostra la maggiore efficacia
dell'E/RP nel trattamento del DOC (Hofmann, Smits, 2008), mette in lu­
ce come gli effetti diventino maggiormente significativi affiancando alle
sessioni di esposizione un intervento farmacologico mediante inibitori
del reuptake della serotonina ( Simpson, Foa, Liebowitz et al. , 2008) .
Nonostante il trattamento mediante EIRP sia a oggi considerato evi­
dence based per il disturbo ossessivo-compulsivo (Levy, Radomsky,
2014; Foa, Liebowitz, Kozak et al. , 2005), una corposa percentuale di
pazienti lo rifiuta (dal 20 al 40% dei pazienti, a seconda degli studi, è
costituito da drop-out o da soggetti che rifiutano l'intervento o non mo-

321
La clinica

strano adeguata compliance terapeutica - Levy, Radomsky, 2014 ) , men­


tre alcuni non riescono a conseguire una riduzione di almeno il 3 0 % dei
sintomi, indicativa dell'efficacia dell'intervento (Dèttore, Melli, 2005).
La limitatezza della procedura in termini di efficacia appare più evi­
dente nei casi di DOC in cui il disgusto risulta essere l'emozione preva­
lente; il 50% dei pazienti, per ragioni ancora non del tutto chiare, non
risponde come da attese al trattamento mediante EIRP, lo interrompe
in corsa o lo rifiuta (Foa, Liebowitz, Kozak et al. , 2005 ) , mentre oltre
il 75 % mostra sintomi residuali anche a trattamento concluso (Fisher,
Wells, 2005 ) . Diversi lavori di ricerca, condotti su campioni di pazien­
ti con DOC, hanno mostrato una maggiore resistenza delle risposte di
disgusto rispetto a quelle di ansia. Più in particolare, in soggetti con
timore di contaminazione l'esposizione ripetuta a stimoli rilevanti ha
mostrato significativi effetti di riduzione sulle valutazioni soggettive di
paura ma non su quelle di disgusto (Olatunji, Wolitzky-Taylor, Willems
et al. , 2009); inoltre, nei casi in cui l'esposizione si mostra efficace nel
ridurre entrambe le tipologie di risposta, sia di timore sia di disgusto,
queste ultime risultano più soggette a ricomparsa (Rachman, Shafran,
Radomsky et al. , 201 1 ) , specie in soggetti con DOC da contaminazione
(Ludvik, Boschen, Neumann, 2015), sottotipo a più alta sensibilità al
disgusto (Woody, Tolin, 2002 ) . Nonostante i diversi lavori di ricerca in
merito, rimane allo stato attuale poca chiarezza rispetto ai meccanismi
sottostanti gli effetti appena descritti.
Ma quali sono i meccanismi che rendono ragione dell'efficacia della
procedura espositiva?

IL MECCANISMO D'AZIONE DELL'EIRP

Sebbene l'E/RP sia una tecnica d'intervento di cui risultano chiara­


mente definiti i singoli passaggi necessari e sufficienti a produrre gli ef­
fetti terapeutici, sono diverse, nonché contrastanti per alcuni versi, le
principali spiegazioni presenti in letteratura circa il meccanismo alla
base dell'efficacia della procedura (Mancini, Gragnani, 2005) . Essendo
l'EIRP nata in ambito comportamentista, si è per lungo tempo dato per
scontato che essa agisse a livello delle associazioni neurali sottese alle
relazioni funzionali tra stimoli, risposte e rinforzi - concezione rivelata­
si nel tempo poco sostenibile.
A punti di vista di matrice comportamentista, pertanto, si sono pro­
gressivamente affiancate spiegazioni p rettamente cognitiviste e tesi nate

322
L'E!RP come pratica dell'accettazione

dall'integrazione di interpretazioni di natura differente, nonché modelli


esplicativi di stampo connessionista (Tryon, 2005) .
Di seguito una breve rassegna di quanto presente in merito in lette­
ratura.

Le spiegazioni in ambito comportamentista

J;abituazione

In ambito comportamentista, la riduzione dell'ansia successiva all'uti­


lizzo dell'E/RP è spiegata come effetto di un meccanismo di abituazione,
da intendersi come "un decremento della risposta dovuto alla stimola­
zione ripetuta" (Harris, 1 943 ) . Nonostante le passate evidenze in sog­
getti con fobia specifica circa il decremento dell'ansia soggettivamente
percepita e dell' arousal fisiologico successivi a sessioni di esposizione
in vivo (Emmelkamp, Felten, 1 985 ; Van Egeren, 1 97 1 ) , i supporti em­
pirici a sostegno di tale tesi, volta a spiegare gli effetti terapeutici della
procedura di EIRP, non risultano sufficienti.
Diversamente dall'E/RP infatti, l' abituazione si caratterizza quale fe­
nomeno di breve durata il cui effetto non si stabilizza nel tempo, perma­
nendo per periodi piuttosto brevi (non più di 3 settimane come da trial
di abituazione massiva) . La ripresentazione di un nuovo stimolo inol­
tre, specie se particolarmente intenso, comporta disabituazione, pro­
ducendo sensibilizzazione e incrementando la forza della risposta, con
conseguente ripristino dei comportamenti difensivi e inversione degli
effetti (Kandel, 1 99 1 ) .
Se la E/RP funzionasse per abituazione dunque, alla luce della sistema­
tica riproposizione al paziente di stimoli ansiogeni sempre più intensi e
in alcuni casi, come nelflooding, non graduati, si dovrebbero riscontrare
frequenti sensibilizzazioni ed effetti dalla durata molto limitata, fenome­
ni che di fatto non si osservano (Mancini, Gragnani, 2005) .

L'estinzione
Un'ulteriore linea teorica spiega il decremento della risposta in ter­
mini di assenza di rinforzo, ricorrendo al fenomeno dell'estinzione,
che implica la mancanza dell'attivazione o della disattivazione di sti­
moli che hanno il potere, contingente, di rinforzare positivamente o
negativamente l'emissione o l'omissione di una risposta. Impedire suf
ficientemente a lungo al paziente di compiere i suoi rituali, che preven­
gono o comunque riducono l'ansia, comporterebbe un'estinzione na-

323
La clinica

turale della stessa, tale per cui i rituali non avrebbero più ragione di
essere emess1.
Per quanto convincente possa apparire la logica, affinché l'efficacia
dell'esposizione con o senza blocco della risposta di evitamento sia spie­
gabile in termini di estinzione, sono necessarie una serie di condizioni:
l) che sia chiaramente definito il comportamento bersaglio; 2 ) che sia
chiaramente definito il rinforzo; 3 ) che non intervenga alcun' attivazione
o disattivazione del rinforzo contingentemente all'emissione o all 'omis­
sione del comportamento bersaglio, condizioni che la letteratura spe­
rimentale non supporta, se non parzialmente (Tryon, 2005 ) . Ulteriore
obiezione nasce inoltre dal fatto che il fenomeno dell'estinzione si riferi­
sca sì a una relazione funzionale tra la riduzione della risposta e l'assenza
del rinforzo, ma manchi una spiegazione del meccanismo per il quale
la sistematica assenza di rinforzo implichi un decremento della risposta
e del perché tale relazione si mantenga; l'assenza di chiarezza relativa­
mente al meccanismo sotteso a tale fenomeno priva di forza esplicativa
la tesi in questione (Mancini, Gragnani, 2005 ) .

Il controcondizionamento

Diversi lavori hanno concettualizzato infine gli effetti terapeutici del­


la desensibilizzazione sistematica in termini di controcondizionamento,
inteso come sostituzione di una vecchia risposta (per esempio, ansia)
con una nuova (per esempio, rilassamento) . In contraddizione a una lo­
gica di controcondizionamento tuttavia l'efficacia di forme massicce di
esposizione e prevenzione della risposta, quali ilflooding (Miller, 2002)
e la terapia implosiva (Levis, 2002) , non prevedono la sostituzione del­
lo stato emotivo di ansia, ma al contrario vedono il terapeuta evocare la
comparsa del disagio e favorirne a quel punto il mantenimento piuttosto
che la sostituzione (Mancini, Gragnani, 2005 ) . Ragioni analoghe fanno
apparire poco convincente un'interpretazione del meccanismo d'azione
dell'E/RP come controcondizionamento.

Le spiegazioni in termini cognitivi

Essendo condizione indispensabile per l'applicabilità dell'E/RP che


il paziente sia vigile e dunque attivamente coinvolto nella costruzio­
ne della propria esperienza, diversi autori hanno cercato di spiegare
il meccanismo di funzionamento dell'E/RP in termini di modificazioni
cognitive, ricorrendo ai processi di variazione delle aspettative (Taylor,

3 24
�EIRP come pratica dell'accettazione

Rachman, 1 994; Wilkins, 1 97 1 ) di incremento dell'autoefficacia (Ban­


dura, 1977, 1998) e di ristrutturazione cognitiva (Salkovskis, 1 985 , 1999;
Wells, 1997 ) .

Variazioni di aspettative
Rispetto alla possibilità che l'E/RP funzioni in termini di variazioni
delle aspettative di successo da parte del paziente, sono state formula­
te due spiegazioni, la prima delle quali, proposta da Wilkins ( 1 97 1) , ri­
tiene che, nei soggetti con disturbi d'ansia, l'efficacia della procedura
possa dipendere dalle aspettative di successo favorite nel paziente dal
terapeuta e ulteriormente rinforzate dal generarsi di un feedback con­
firmatorio, dato dall'avanzare lungo la gerarchia degli stimoli espositivi.
Pur risultando abbastanza plausibile, tale spiegazione appare da sola
riduttiva e scarna di elementi utili alla comprensione del meccanismo
d'azione della procedura.
La seconda ipotesi esplicativa, denominata "Teoria della congruen­
za-incongruenza " (Taylor, Rachman, 1 994 ) , ha preso le mosse dall'evi­
denza che i soggetti con disturbi d'ansia tendono a immaginarsi molto
più spaventati di quanto in realtà non siano una volta esposti allo stimo­
lo temuto. Secondo gli autori le attese del paziente, spiegabili in termini
di sovrastima dei segnali di pericolo e di sottostima di quelli di sicurez­
za, verrebbero " corrette" dalle evidenze ottenute mediante la proce­
dura di esposizione, il cui funzionamento dunque risulterebbe da un
meccanismo di adeguamento delle aspettative. Sebbene un successivo
lavoro di Wright, Holborn e Rezutek (2002) abbia per certi versi con­
fermato una spiegazione di questo tipo, la portata teorica della stessa
si è andata riducendo nel tempo a causa della difficoltà nel rendere ra­
gione del perché talvolta, pur in presenza dello stimolo emotigeno, le
aspettative non giungano a ridursi sotto un determinato livello critico
(Tryon, 2005 ) .

I;autoe/ficacia

A partire dalla definizione di Bandura ( 1 977), secondo cui l'autoef­


ficacia si caratterizza per una percezione positiva delle proprie capaci­
tà di padroneggiamento di situazioni problematiche, Meichembaum
( 1974) ha avanzato negli anni Settanta una spiegazione del funzionamen­
to dell'E/RP secondo la quale il paziente, per via dell'esposizione, specie
se graduata, prende consapevolezza della propria capacità di rimanere
calmo di fronte a stimoli percepiti come pericolosi, aumentando in tal

325
La clinica

modo il proprio senso di autoefficacia e riducendo il timore che gli stessi


stimoli erano precedentemente in grado di evocargli. Tale spiegazione,
sostenibile in prima battuta, non rende ragione di come la consapevolez­
za circa la capacità di rimanere calmi di fronte a un evento temuto possa
ridurre il timore stesso e, conseguentemente, la percezione del perico­
lo; non viene offerta inoltre una chiara possibilità di comprensione del
modo in cui il paziente possa procedere lungo la gerarchia espositiva
validando la propria autoefficacia pur non percependosi sin da subito,
come è logico attendersi, meno spaventato. La critica principale dun­
que è ancora rivolta all'assenza di spiegazioni circa i meccanismi causali
dell'incremento del senso di efficacia e della progressiva riduzione del
timore nonché della percezione del pericolo (Mancini, Gragnani, 2005).

La ristrutturazione cognitiva

Salkovskis ( 1999, 1985) e Wells ( 1 997 ) sostengono che l'E/RP fun­


zioni fondamentalmente per via di un'esperienza di falsificazione delle
credenze catastrofiche che il paziente fa attraverso l'esposizione alla si·
tuazione avversiva e il blocco dei comportamenti di sicurezza. I controe­
sempi raccolti, per un meccanismo a feedback positivo, favorirebbero
la riduzione dei comportamenti protettivi e, di conseguenza, la raccolta
di nuovi controesempi, in un procedere circolare sempre più virtuoso.
Diverse le possibili obiezioni, la prima delle quali è sollevata dall'e·
videnza dei buoni esiti ottenibili anche nei casi in cui, procedendo con
l'E/RP, non appaia evidente la falsificazione delle credenze di pericolo
e la raccolta di controesempi. Nel caso di timore di contagio da virus
dell'HIV per esempio, pur esponendosi a stimoli quali una siringa sporca
di sangue e pur procedendo lungo la gerarchia degli stimoli, il pazien·
te non ha modo di constatare, nei tempi dell'esposizione stessa, che il
contagio sia o meno avvenuto, ma ciò non preclude l'efficacia della pro­
cedura. In alcuni casi poi il paziente, pur ottenendo controesempi circa
le proprie credenze di pericolo, non li considera sufficienti per mettere
in discussione le credenze stesse, ritrovandosi all'esposizione successiva
nella stessa identica situazione di partenza (Mancini, Gragnani, 2005).
Per quanto appena detto dunque appare difficile sostenere che
l'E/RP possa funzionare esclusivamente per via di esperienze correttive
ottenute dalla falsificazione di credenze di pericolo.
Analizzate dunque diverse ipotesi esplicative presenti in letteratura,
nessuna delle quali a nostro avviso in grado di rendere completamen­
te ragione del funzionamento dell'E/RP, pur non avendo la pretesa in

326
L'E!RP come pratica dell'accettazione

questa sede di escludere che qualcuno dei processi fin qui descritti pos­
sa intervenire durante la procedura, ci proponiamo di seguito di getta­
re maggiore luce sulla questione, ritornando all'interrogativo centrale:
Qual è il meccanismo d'azione dell'E/RP? .

I L RUOLO CENTRALE DELL'ACCETTAZIONE

Per trovare risposta alla domanda appena posta siamo partiti dalle
numerose osservazioni, piuttosto comuni nella pratica clinica, che in­
dicano come l'esecuzione meccanica della procedura di esposizione e
prevenzione della risposta possa da sola non avere alcun effetto tera­
peutico: diversi pazienti riferiscono di aver più volte tentato di esporsi
agli stimoli temuti rinunciando, anche per mezza giornata, all'emissione
dei rituali rimandati a un tempo successivo, ma di non aver tratto da tali
esperienze alcun beneficio. Quanto appena messo in luce, evidenzia co­
me esporsi e prevenire la risposta costituisca una condizione necessaria
ma non sufficiente ad assicurare gli effetti terapeutici dell'E/RP, nono­
stante il potenziale consueto svolgimento della procedura.
Cosa può meglio chiarire allora la differenza tra E/RP efficaci ed E/RP
inefficaci?
È frequente che durante la pratica dell'E/RP i pazienti mantengano
una sorta di riserva mentale, che li porta a esporsi rinunciando però
solo temporaneamente ai propri rituali e ripromettendosi, in genere,
di svolgerli in un secondo tempo. In casi come questo, pur di fronte
all'impegno del paziente nello svolgimento corretto della procedura
di esposizione e a un andamento consueto delle sue reazioni emotive,
l'efficacia dell'E/RP risulta gravemente ridotta o addirittura quasi com­
pletamente vanificata.
A partire da ciò, ci pare di poter affermare che un peso rilevante ri­
spetto all'efficacia terapeutica della tecnica di esposizione sia da attri­
buirsi allo stato mentale con cui il paziente affronta la situazione cui
lo si espone e che siano proprio il significato e il valore che egli attri­
buisce all'esporsi e alla rinuncia ai comportamenti protettivi a fare la
differenza. Nel caso di E/RP efficaci, diversamente da quelle inefficaci,
lo stato mentale del paziente si caratterizza per l'accettazione di un al­
to livello di minaccia (Mancini, Barcaccia, 2004 ); il paziente, che fino
a quel momento si è impegnato invano nel tentativo di proteggersi per
mezzo dei suoi rituali, procrastinati ma non messi in alcun modo in
discussione, accetta, a un certo punto, di rinunciare a difendersi, ed è

327
La clinica

questo passaggio a rendere ragione, a nostro avviso , della discrepanza,


in termini di stato mentale, tra E/RP efficaci dal punto di vista terapeu­
tico ed EIRP inefficaci.
Sebbene la psicoterapia cognitiva tutta si proponga di promuovere
il cambiamento della percezione di minaccia, tentando generalmente di
modificare le assunzioni di pericolo, le resistenze cognitive del paziente
ostacolano spesso questo tipo di lavoro. Da qui l'esigenza di procede­
re verso l'obiettivo di riduzione della minaccia percorrendo una strada
alternativa, che preveda l'accettazione della stessa, passaggio a nostro
avviso cruciale dell'intero percorso terapeutico.
L'osservazione di ciò che accade nei pazienti ci ha suggerito nel tem­
po come il cambiamento delle loro idee di pericolo avvenga successi­
vamente all'accettazione, non solo di una riduzione dell'impegno pre­
ventivo ma anche di un livello di rischio maggiore di quello che erano
precedentemente disposti a correre. Il lavoro di accettazione del rischio
ha dunque un inestimabile valore propedeutico all'intervento di esposi­
zione, perché addestra il paziente, in un tempo precedente e distante da
quello della reale esposizione alla minaccia, ad accettare di esporsi alla
stessa, senza prendere alcun tipo di provvedimento protettivo. Sugge­
riamo dunque di procedere con il protocollo E/RP solo successivamente
a una fase di minuziosa costruzione dell'accettazione in seduta, attra­
verso un lavoro di riflessione condivisa sui fattori ai quali il singolo pa­
ziente appare più sensibile, di modo che l'esposizione diventi realizza­
zione pratica e sistematica dell'accettazione preparata precedentemente
(Mancini, Gragnani, 2005 ) .

L'IMPORTANZA DEL LAVORO MOTIVAZIONALE

Il principale compito del terapeuta rispetto alla programmazione e


alla costruzione del percorso di EIRP è prevalentemente di natura mo­
tivazionale: il paziente va motivato a compiere un importante sacrificio
a breve termine in vista di un vantaggio a più lungo termine. Sebbene
talvolta perché si ottenga la compliance è sufficiente fornire al paziente
una spiegazione chiara di come le compulsioni, gli evitamenti e le richie­
ste di rassicurazione alimentino le ossessioni, mantenendo in tal modo
il disturbo (schema del disturbo, capitolo XII), nella maggior parte dei
casi in aggiunta a questo tipo di intervento risulta necessario avvalersi
di strategie motivazionali che preparino adeguatamente il paziente alla
procedura espositiva (Dèttore, Melli, 2005 ) .

328
L'E!RP come pratica dell'accettazione

Diverse metafore, quali per esempio quella del ricattatore o del bul­
lo (vista nel capitolo XIII ), possono supportare il terapeuta nel fornire
al paziente una rappresentazione del DOC come di qualcuno che sub­
dolamente fornisce soluzioni alle quali è semplice appoggiarsi, ma che,
a lungo termine, diventano insostenibili. Il paziente va incoraggiato a
comprendere quanto sia importante per lui ignorare le continue richie­
ste del disturbo e quanto questo, almeno in una fase iniziale del percorso
di esposizione, implichi un inevitabile incremento della frequenza delle
ossessioni e dell'ansia a essa conseguenti; è questo il costo che il paziente
dovrà arrivare a scegliere di pagare a breve termine per garantirsi, a più
lungo termine, la possibilità di disinnescare il circolo vizioso responsa­
bile del mantenimento del disturbo (Dèttore, Melli, 2005 ) .
Perché sia più motivato a d affrontare l'ansia è importante che il pa­
ziente sia adeguatamente informato sulla natura di questa emozione,
sperimentata da tutti gli esseri umani e adattiva nella sua funzione di
segnale di un potenziale pericolo, nonché sul suo fisiologico decorso
che la vede tendere a una spontanea e progressiva attenuazione, se chi
la sperimenta non vi interviene in alcun modo (Andrews, Creamer, Cri­
no et al. , 2003 ) . Il paziente apprende dunque come, pur in assenza di
alcun rituale, l'ansia raggiunga un suo plateau fisiologico per poi ridursi
spontaneamente, in un tempo massimo di 90 minuti circa. Al fine di mo­
tivare all'impegno verso l'E/RP può risultare importante una riflessione
condivisa con il terapeuta su quanto sia impQssibile eliminare dalla vita
ogni forma di rischio, specie quello a più bassa probabilità, e su come
un obiettivo di questo tipo sia destinato a fallire a priori; tale riflessio­
ne al fine di rendere consapevole il paziente su quanto sia di gran lunga
più conveniente "accettare" la presenza di minimi pericoli insiti nell'e­
sistenza piuttosto che adoperarsi in una strenua lotta agli stessi, desti­
nata a divenire con il tempo infruttuosa ed estremamente faticosa (vedi
anche i capitoli XIII e xv) .

LA PROCEDURA

Ottenere il consenso del paziente

Il trattamento di esposizione prevede naturalmente il consenso del


paziente. Alcuni pazienti posseggono già delle idee circa la procedura,
perché ne hanno letto o perché ne hanno sentito parlare; discutere le
aspettative del paziente e le sue teorie na1ve circa il trattamento con E/RP
appare ragionevole, data la possibilità non infrequente che, per via di

329
La clinica

tentativi forzosi o forzati di blocco dei rituali, il paziente si sia fatto idee
sbagliate circa ciò che il terapeuta gli sta proponendo.
Prima di procedere all'applicazione della procedura è essenziale svol­
gere un buon assessment funzionale che permetta di rintracciare, insie­
me con il paziente, tutti gli elementi utili ai fini dell'esposizione: stimoli
attivanti il timore, minaccia temuta, comportamenti protettivi general­
mente messi in atto, frequenza, durata e modalità di svolgimento degli
stessi. È a nostro avviso opportuno chiarire al paziente che non lo si for­
zerà a eseguire alcun esercizio che non sia prima stato concordato; a tal
fine si può procedere alla stesura di un contratto scritto per l' esposizio­
ne, che possa essere di supporto nei momenti più difficili e con il quale
il paziente si impegna a seguire i passi proposti dal trattamento (Roper,
2005 ) . Si illustrano al paziente vantaggi e svantaggi della procedura, non
minimizzando in alcun modo le difficoltà che presenta, ma facendo le­
va nel contempo, dati sperimentali alla mano, sull'efficacia della stessa
(Mancini, Barcaccia, 2004 ) .
È di fondamentale importanza che il terapeuta chiarisca con preci­
sione l'importante differenza sul piano cognitivo tra i tentativi spontanei
del paziente di opporsi alle compulsioni e l'esposizione. È generalmente
probabile che in tali tentativi il paziente si adoperi per evitare un' espo­
sizione diretta e prolungata allo stimolo ansiogeno, o ricorra al cerimo­
niale il prima possibile successivamente al contatto, o ancora rinunci al
rituale, rimanendo tuttavia nella situazione stimolo con la speranza che
l'ansia non peggiori, continuando pertanto a raccogliere ulteriori segna­
li di pericolo. Per tale ragione l'ansia non scema, ma addirittura a volte
aumenta sino a divenire insostenibile, tanto da indurre il paziente a ce­
dere ancora una volta all'impegno nel rituale (Lakatos, Reinecker, 1999).
Un'esposizione terapeutica invece, prevede l'esatta pianificazione di
quanto si andrà a fare, la condivisione del rationale, il non ricorso a evi­
tamenti o comportamenti di sicurezza, una durata dell'esposizione pari
al tempo necessario perché l'ansia si riduca spontaneamente e successive
ripetizioni sino alla graduale estinzione del disagio (Abramowitz, 2006).

n rationale e la sua condivisione con il paziente

Il rationale sottostante il nostro ricorso al protocollo EIRP deriva dal­


la previsione che, all'accettazione da parte del paziente di un maggio­
re livello di rischio seguano, come effetti, un minore investimento nelle
condotte preventive, un minore ricorso a processi cognitivi prudenziali
e dunque una minore resistenza al cambiamento delle assunzioni di mi-

330
I.:E!RP come pratica dell'accettazione

naccia. Con l'E/RP non tentiamo di disconfermare le ipotesi di pericolo


del paziente, tentativo che risulterebbe infruttuoso e controproducente
data la sua attitudine iperprudenziale nel testare le ipotesi di minaccia,
né ci proponiamo di fargli accettare un danno certo e definitivo, bensì
vogliamo favorire "l'abbassamento della guardia" , promuovendo l' ac­
cettazione di un maggiore livello di rischio e la possibilità di "tenere" la
sensazione di allarme fino a che non decanta spontaneamente, in assen­
za di comportamenti protettivi o di neutralizzazione.
La comunicazione al paziente dei presupposti teorici del trattamento
rappresenta una parte essenziale della procedura: considerata la diffi­
coltà del percorso è bene che il paziente si rappresenti in maniera chiara
quanto gli sarà chiesto di fare, perché ciò lo aiuti a superare i momenti
di maggiore difficoltà e ad aderire con fiducia e collaborazione alle ri­
chieste del terapeuta.
Consigliamo di condividere con il paziente il rationale, da richiamare
durante lo svolgimento di ogni singola sessione di esposizione, a partire
da una serie di punti chiave:
- i comportamenti di neutralizzazione sono il risultato di una storia
d'apprendimento, ragion per cui possono essere disimparati e sosti­
tuiti con altri maggiormente funzionali;
affrontare, prima con il terapeuta e successivamente da solo, le situa­
zioni temute scatenerà emozioni generalmente evitate quali la paura,
il disgusto, l'ansia; quando queste si presenteranno, il terapeuta for­
nirà il supporto necessario perché il paziente possa gestirle;1
- affrontare via via i diversi stimoli temuti fornirà la possibilità di impa­
rare che è possibile gestire le situazioni temute e questo modificherà
gradualmente la valutazione rispetto al pericolo e attenuerà il disagio;
- pur in assenza dei rituali di neutralizzazione, l'ansia tende fisiologi­
camente a decrescere sino a estinguersi, seppur più lentamente; af­
frontando ripetutamente le situazioni temute, senza eseguire i rituali,
l'ansia si ridurrà pertanto progressivamente e, con essa, andrà decre­
scendo anche l'impulso a neutralizzare.
Al fine di sostenere quanto illustrato e di incrementare la motivazione
e l'impegno, può rivelarsi utile mostrare al paziente, mediante dei gra­
fici illustrativi (vedi figura 16. 1 ) , il diverso decorso dell'ansia a seguito
del completamento del singolo rituale, piuttosto che tramite sessioni di
esposizione ripetute nel tempo (Roper, 2005) .

l. Nel condividere questo aspetto il terapeuta può ricorrere a esempi piuttosto semplificati di
esercizi di esposizione, perché il paziente possa meglio comprendere quanto gli viene presentato.

33 1
La clinica

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Esposizione 2 Rituale 4 Rituale completato

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Esposizione 1 ora 2 ore 3 ore

Figura 16.1 Rappresentazione grafica del decorso dell'ansia a seguito del rituale piutto­
sto che di ripetute sessioni di esposizione (adattata da Abramowitz, Foa, Franklin, 2003 ) .

Le diverse possibilità pratiche

Diverse sono le varianti possibili per la realizzazione dell' esposizio­


ne: in modo intensivo o graduato, guidata dal terapeuta o autogestita
dal paziente, in vivo o in immaginazione.
Generalmente, l'esposizione agli stimoli reali (in vivo) è la variante da
preferire; in casi di forme ossessive particolari però, in cui per esempio
il paziente fa i conti con immagini mentali, tale forma risulta non prati­
cabile, ragion per cui si ricorre a esposizioni in immaginazione.
Per quanto riguarda l'aspetto di gradualità vs intensità dell'esposi­
zione, ciascuna modalità presenta vantaggi e svantaggi e va scelta sulla

332
L'E!RP come pratica dell'accettazione

base di considerazioni relative al singolo caso; il confronto intensivo con


gli stimoli temuti è sicuramente più veloce, ma parallelamente più fati­
coso per il paziente. L'esposizione graduata, pur risultando lunga nel­
la durata, è più sostenibile e meno esposta al rischio di interruzione da
parte del paziente, ragione che la rende la forma prevalentemente scel­
ta. Al fine di incrementare nel paziente il senso di controllo percepito
sulla procedura, si tende a !asciargli il prima possibile libertà nella pia­
nificazione dei singoli esercizi espositivi e nella conduzione degli stessi;
nonostante ciò risulta imprescindibile, almeno per una fase iniziale, il
controllo attivo del terapeuta che, senza forzare, supervisiona e guida i
primi esercizi a garanzia della corretta esecuzione tecnico-procedurale
e a sostegno della motivazione del paziente (Lakatos, Reinecker, 1 999).

L'esposizione graduata: pianificazione

L'esposizione graduata consiste nella presentazione progressiva al


paziente di un certo numero di stimoli elicitanti i suoi timori, progres­
sivamente graduati dal meno al più ansiogeno. È generalmente gestita
dal terapeuta in seduta e successivamente prescritta al paziente come
homework.
La procedura standardizzata prevede una serie di specifici passaggi:
Costruzione della gerarchia. li paziente crea, insieme con il terapeuta, una
lista di stimoli/situazioni elicitanti il proprio timore, per ciascuno dei
quali viene poi invitato a esprimere una valutazione, secondo una scala
soggettiva espressa in SUD (Unità Soggettive di Disagio), la cui intensità
varia da O a 1 00, dove O corrisponde a nessuna emozione in relazione
allo stimolo e 100 al livello di ansia più elevato che il paziente abbia mai
provato. I singoli item della lista si ordinano dunque dal meno temuto
al più ansiogeno, per arrivare a ottenere una gerarchia grosso modo si­
mile a quella presentata nella tabella 1 6. 1 , formulata da un paziente con
ossessioni religiose e timore di blasfemia.
È importante verificare che non vi siano sovrapposizioni tra item, e
che tra un item e l'altro della gerarchia gli intervalli di SUD siano suffi­
cientemente ridotti (tra i 5 e i 15 SUD) e approssimativamente omogenei,
perché non ci siano, al variare degli item, differenze di intensità espositi­
ve troppo ampie. In linea generale, una prima stesura sarebbe bene non
comprendesse più di 8/1 0 stimoli e/o situazioni;2 sarà via via lo svolger-

2. Generalmente il numero consigliato di item si attesta tra 7 e 15, dal momento che un numero
troppo basso non consente una sufficiente gradualità, mentre un numero troppo alto può portare
a una scarsa differenziazione tra gli item stessi.

333
La clinica

Tabella 16.1 Esempio di gerarchia graduata degli stimoli ansiogeni.

ltem SUD

Toccare una statua della Vergine Maria 100


Affiancare a un'immagine sacra una pagana 95
Entrare dentro una chiesa 90
Guardare un'immagine della Vergine Maria 85
Passare davanti a una chiesa 70
Tenere in mano una coroncina del Santo Rosario 60
Entrare dentro un cimitero
------- ------
50
Guardare l'immagine di una santa di giovane età 35
Guardare l'immagine di una suora di bell'aspetto ------- ----
25
Guardare l'immagine di una suora 10

si delle esposizioni a suggerire l'individuazione di nuove o più appro­


priate situazioni stimolo o la rivalutazione di quelle inizialmente scelte.
Introduzione dell'esercizio. La sessione di esposizione inizia generalmen­
te con l'introduzione da parte del terapeuta della situazione con cui ci
si confronterà e con una raccolta di informazioni circa lo stato d'animo
del paziente in vista dell'esperienza imminente, al fine di farlo sentire
sostenuto e incoraggiato nell'impegno.
Nel caso in cui, nonostante quanto concordato, il paziente esprima
ancora dubbi e/o paure, è bene garantire uno spazio di discussione, evi­
tando però di colludere con eccessive richieste che potrebbero costituire
un evitamento del confronto con l'esperienza programmata.
Il confronto con lo stimolo temuto. Il paziente viene dunque accom­
pagnato ad affrontare lo stimolo più basso della gerarchia. Il terapeu­
ta, specie nelle prime sessioni, utilizza il modelling, mostrando esatta­
mente il comportamento da eseguire3 e sollecitando il paziente a fare
lo stesso. Una volta iniziato il confronto con lo stimolo temuto si invi­
ta il paziente a rimanere nella situazione scelta per il tempo necessa­
rio alla diminuzione del disagio soggettivamente sperimentato, al fine
di favorire l'accettazione della minaccia e del disagio che ne deriva,
mantenendo il contatto con lo stimolo temuto. Il terapeuta controlla

3 . Il terapeuta può per esempio riporre in borsa un oggetto scivolato per terra o toccare un og­
getto e poi passarsi la mano sui vestiti, tra i capelli, sul viso; la tipologia di comportamento da mo·
dellare dipenderà naturalmente dalla specifica gerarchia costruita con il paziente. È fondamentale
che il terapeuta chieda al paziente di osservarlo con molta attenzione mentre svolge il compito, al
fine di evitare la possibilità che, a causa dell'eccessivo disagio spesso sperimentato anche al solo
guardare compiere certe azioni, il paziente possa distogliere lo sguardo.

334
.

L'E!RP come pratica dell'accettazione

che il paziente sperimenti effettivamente il disagio, incoraggiandolo a


concentrarsi su di esso senza ricorrere ad alcuna tecnica di evitamen­
to o di distrazione che faciliti l'estinzione dell' ansia (prevenzione del­
la risposta) . Consapevole del fatto che l'efficacia aumenta tanto più il
paziente mantiene ben rappresentata la minaccia temuta, il terapeuta
facilita la focalizzazione sul pericolo, monitora l'andamento dell'ansia
(0- 100) prima, durante e subito dopo il contatto, a intervalli di 1 0- 15
minuti circa, chiedendo al paziente un resoconto circa il suo dialogo
interno e le sensazioni propriocettive che sperimenta, rammentando­
gli che la sperimentazione del disagio è funzionale al buon esito della
procedura. Qualora venisse coinvolto dal paziente in conversazioni su
temi neutri, occorre che riporti l'attenzione sulla situazione in corso,
evitando di farlo distrarre dal malessere.
È consigliabile attendere fino a che il paziente non riferisca di sentirsi
"sufficientemente" a suo agio nella situazione temuta, con un livello mo­
derato e stabile di tensione; solo nel momento in cui il disagio percepito
risulti notevolmente ridotto (riduzione SUD pari al 50%) si può consi­
derare terminata l'esposizione. La sessione successiva ripartirà dall'ulti­
mo item affrontato, per passare al seguente solo dopo un'attenta verifica
della riduzione effettiva del disagio, in assenza della quale si ritornerà
sul passaggio già svolto.
Il debriefing conclusivo. A conclusione di ogni sessione, il terapeuta ri­
prende le aspettative iniziali del paziente circa le conseguenze temute
e la stima del rischio, al fine di ridefinirle con lui sulla base delle prove
oggettive raccolte con l'esperienza, perché possa compiere una rifles­
sione consapevole facilitante una ristrutturazione cognitiva e una riva­
lutazione maggiormente realistica del pericolo (Abramowitz, 2006).4
L'esposizione ha luogo in uno stato di grande agitazione per il pa­
ziente, la cui capacità di elaborazione delle informazioni acquisite può
per tale ragione risultare limitata; una riflessione condivisa con il te­
rapeuta durante l'intervallo tra un esercizio e l' altro o a conclusione
dell'intera sessione può compensare tale incapacità, al fine di sfruttare
maggiormente l'esperienza in termini di ristrutturazione cognitiva e di
successiva generalizzazione degli esiti. La buona pratica di rappresen­
tare graficamente i vari SUD rilevati durante l'esposizione può risultare
utile a seguire l' andamento del disagio durante la singola seduta, per-

4. Domande quali "Quali conclusioni può trarre dall'esperienza appena conclusa? " ; "Come
valuta adesso la pericolosità di questi stimoli ? " ; "Pensa che durante esposizioni nuove allo stes­
so stimolo le sue sensazioni possano essere diverse? " possono facilitare un'adeguata riflessione da
parte del paziente sull'esperienza di esposizione e sul proprio comportamento durante la stessa.

3 35
La clinica

ché lo si confronti, al procedere del programma, con quello delle se­


dute successive, al fine di mostrare al paziente le discrepanze rispetto
alle sue attese_
È importante che il paziente noti inoltre come progressivamente, pur
passando a stimoli con SUD sempre più elevato, il disagio percepito sia
sempre più basso e impieghi sempre meno tempo a estinguersi; ciò gli
consentirà di ristrutturare le proprie credenze e lo motiverà, nel con­
tempo, ad affrontare gli step successivi.

Homework e generalizzazione. Dopo le primissime esposizioni è sempre


opportuno pianificare un contatto telefonico con il paziente, in modo
da verificare come si senta e normalizzare una reazione di fatica fisica
del tutto congrua al peso delle sedute espositive.
Al paziente, quale conditio sine qua non perché l'E/RP risulti effi­
cace, viene richiesto di impegnarsi a casa, almeno una volta al giorno,
nello stesso identico compito eseguito nello studio insieme con il tera­
peuta, rispetto al quale vanno concordati i dettagli circa le modalità di
esecuzione (auto- o eterocontrollata, per esempio, da un familiare) e di
monitoraggio (per esempio, per mezzo di una scheda precompilata per
la rilevazione dei SUD e la loro rappresentazione grafica) . È fondamen­
tale in questa fase prendere con il paziente accordi estremamente con­
creti, in modo da non lasciare ampio margine all'iniziativa personale.
È necessario stabilire un piano ben preciso relativamente alla preven­
zione della risposta e ai tempi della stessa, perché al paziente sia chia­
ro quando nuovamente poter procedere ai cerimoniali; è consigliabile
poi suggerirgli di procedere, subito dopo l'esecuzione del rituale, a una
pur minima forma di ricontaminazione, in modo da non interrompere
il processo di accettazione.
L'incontro successivo prevederà uno spazio di verifica del lavoro fat­
to a casa, passaggio dalle importanti ricadute motivazionali. n clima do­
vrà mantenersi collaborativo e il paziente dovrà avvertire un'atmosfera
non giudicante, perché possa sentirsi tranquillo nel riferire di compiti
stabiliti che non è riuscito a svolgere del tutto o in parte (Roper, 2005).
In assenza dell'impegno, da parte del paziente, nel lavoro costante di
ripetizione dell'esposizione tra una seduta e l'altra, impegno che sugge­
riamo di valutare già in fase di contratto, è consigliabile optare per altre
strade terapeutiche.
Rispetto alla durata e alla frequenza delle sessioni, generalmente ri­
sultano necessarie sessioni della durata di un'ora e mezza/ due ore, con
la possibilità per il terapeuta di prolungare il tempo dell'incontro nel

336
L'E!RP come pratica dell'accettazione

caso serva. La frequenza varia al variare del setting: in un contesto am­


bulatoriale una frequenza di due volte a settimana risulta ottimale, !ad­
dove un setting ospedaliero permette esposizioni quotidiane di più bre­
ve durata (Roper, 2005 ) .

Possibili ostacoli e strategie comportamentali:


modificare la risposta

Nei casi in cui gli stimoli attivanti siano talmente pochi da non per­
mettere la creazione di una lista sufficientemente articolata di esposizio­
ni, o per ovviare all'inconveniente, non raro, che il paziente nonostante
gli interventi motivazionali, rifiuti di esporsi perché magari troppo spa­
ventato, può essere utile modificare la risposta compulsiva, piuttosto che
lo stimolo attivante. A tal fine si può ricorrere alla tecnica della dilazione
della risposta, che chiede al paziente di esporsi rimandando l' emissio­
ne dei cerimoniali per intervalli di tempo gradualmente crescenti, fino
a raggiungere tempi che, garantendo l'estinzione fisiologica dell'ansia,
non richiedano più l'impegno nel rituale.
Più spesso si sceglie di utilizzare tecniche di modificazione della ri­
sposta che richiedono al paziente di impegnarsi gradualmente a ridur­
re la durata totale della stessa, avvalendosi per esempio di un marca­
tore del tempo (timer) o ancora modificando gradualmente l'ordine
con cui esegue il cerimoniale, anche semplicemente invertendone la
sequenza. Si può modificare il numero di ripetizioni dei singoli com­
portamenti compulsivi riducendolo progressivamente o, ancora, può
risultare utile modificare il mezzo con cui il paziente effettua il cerimo­
niale (per esempio, salvietta anziché sapone) o il momento della gior­
nata in cui lo svolge, sempre nel caso in cui anche questo presenti una
valenza ritualistica.
Se nonostante gli accorgimenti sopra elencati il paziente presentas­
se ancora difficoltà ad aderire alle prescrizioni, può essere opportuno
rinunciare alla gradualità nell'esposizione e valutare insieme con lui gli
stimoli il cui evitamento compromette suoi forti interessi e quindi com­
porta costi personali maggiori "pagati al disturbo " , per partire esponen­
dolo a quelli, tentando in tal modo di incontrare una più facile aderenza
al trattamento a partire da una maggiore motivazione. Da non sottova­
lutare, come ulteriore elemento su cui far leva, la possibilità di program­
mare un sistema di contingenze, che rinforzi il paziente ogni volta in cui
riesce ad astenersi dall'effettuare un rituale, o al contrario di costi da
pagare in caso di emissione del cerimoniale.

337
La clinica

L'ESPOSIZIONE IMMAGINATIVA

In un numero non irrilevante di casi può accadere che l'esposizione


non possa essere condotta in vivo, perché complicato dal punto di vista
pratico o perché le ossessioni che affliggono il paziente sono difficilmen­
te elicitate da stimoli esterni/ come per esempio nel caso di immagini
catastrofiche (Lakatos, Reinecker, 1999) _ Alcuni pazienti possono pre­
sentare inoltre livelli di ansia talmente elevati in relazione ai loro timori
da non sentirsi disposti ad accettare la prospettiva dell'esposizione in
vivo, ragion per cui condurre prima un intervento in immaginazione
può servire a tranquillizzare il paziente, incrementando il suo livello di
motivazione sulla base della prova concreta che l'ansia si riduce da sola.
Perché il terapeuta possa condurre adeguatamente un'esposizione in
immaginazione è necessario che abbia raccolto, dai resoconti del pazien­
te, tutte le informazioni circa gli esatti contenuti delle sue credenze, di
modo da poterio guidare nel rappresentarsi lo scenario, con indicazioni
il più possibile dettagliate, che evochino vividamente la scena su cui la­
vorare senza alterare la rappresentazione dell'esperienza che il paziente
generalmente vive (ibidem).
Al paziente s i può spiegare come lavorare i n immaginazione assomi­
gli a quello che solitamente si fa guardando scorrere le scene di un film
nella propria mente; oltre a guardare la scena, gli viene chiesto lo sforzo
di entrarvi dentro, sentendola e vivendola in prima persona.6 n terapeu­
ta lo facilita in questo compito, aiutandolo a visualizzare l'immagine, a
renderla progressivamente più vivida, a sentirla più reale. Nel costruire
le scene rivolge particolare cura agli elementi di stimolo e di risposta,
attivando tutti i canali sensoriali;7 la scena è descritta al presente, come
se stesse svolgendosi in quel preciso momento, di modo che il paziente
non la viva solo dalla prospettiva dell'osservatore ma assuma al suo in­
terno un ruolo il più possibile attivo (Abramowitz, 2006). Per seguire l'e-

5. Pensiamo per esempio ai casi di pazienti ossessionati da immagini di incidenti stradali du­
rante i quali un familiare o una persona a loro cara perde la vita; nella maggior parte dei casi i pa­
zienti neutralizzano tali ossessioni sostituendo in immaginazione la scena catastrofica con una scena
positiva avente gli stessi protagonisti, altre volte invece ripetono tra sé e sé frasi a tenore positivo
che possano rassicurarli rispetto al non aver desiderato quanto pensato o al non aver provocato
la catastrofe immaginata.
6. Ancor più, in un lavoro in immaginazione, risulta difficile per il paziente tenere e tollerare
il disagio, ragion per cui è opportuno aiutarlo a rimanervi focalizzato sottolineando e rinforzando
nel contempo l'aspetto del suo progressivo superamento. La ricerca non suggerisce l'utilizzo di
tecniche di rilassamento, controindicate perché assimilabili ai tentativi di reprimere il malessere e
dunque pari alle strategie di neutralizzazione (Lakatos, Reinecker, 1999).
7 . Nelle ossessioni di contaminazione per esempio sono molto rilevanti i contenuti legati al
senso del tatto e quelli relativi alle sensazioni propriocettive, da includere nella descrizione della
scena perché sia il più possibile realistica e completa.

338
L'EIRP come pratica dell'accettazione

sperienza emotiva del paziente è necessario porgli numerose domande,


avendo cura di suggerirgli, prima dell'inizio del lavoro in immaginazio­
ne, di rispondere con poche parole al fine di distrarsi il meno possibile. n
terapeuta descrive verbalmente la situazione soffermandosi sui passaggi
che creano maggiore disagio e che sono centrali rispetto ai timori osses­
sivi del soggetto; via via durante l'elaborazione dell'esperienza, chiede
feedback al paziente rispetto al grado di disagio sperimentato, facendo
attenzione a che la valutazione riferita sia relativa a quanto il paziente
prova in quel preciso momento e non a ciò che ritiene potrebbe prova­
re se si trovasse realmente in quella specifica situazione.
Particolarmente complicata si rivela, in questo caso, la possibilità di
bloccare le strategie di neutralizzazione covert del paziente, spesso au­
tomaticamente legate alle immagini catastrofiche. A tal fine, può risul­
tare utile chiedergli di segnalare l'eventuale ricorso a tali meccanismi,
perché li si possa gestire al meglio. L'esercizio non termina prima che il
disagio del paziente non risulti assestatosi su un livello moderato e sta­
bile. Perché il paziente possa replicare l'esperienza, addestrandosi a ca­
sa, l'esercizio immaginativo può essere audioregistrato per essere quo­
tidianamente riascoltato e affrontato come in seduta, fino a quando la
scena non susciti livelli blandi di disagio.
Pur affermando la maggiore efficacia delle procedure in vivo, Steke­
tee ( 1993 ) ritiene che la combinazione con metodi immaginativi migliori
di gran lunga l'intervento, esponendo i pazienti anche agli stimoli interni
che provocano i loro timori e non solo a quelli esterni.
Un lavoro di Abramowitz ( 1 996) , che ha valutato la differente effica­
cia delle diverse modalità di esposizione tenendo conto delle numerose
dimensioni che le caratterizzano, ha confrontato l'EIRP condotta in vivo
con quella immaginativa; dagli esiti, l'esposizione in vivo risulta di gran
lunga più efficace se accompagnata da tecniche di imagery (d = 2, 76) .

Una variante dell'EIRP: la tecnica del tape-loop

Allo scopo di intervenire sui meccanismi utilizzati perlopiù dai pa­


zienti con ossessioni pure, che indulgono nella ruminazione sulla pe­
ricolosità di alcuni eventi, o che si prodigano in estenuanti controlli
mentali al fine di mettere alla prova i propri impulsi, Salkovskis ( 1 999)
ha messo a punto la tecnica del tape-loop (nastro trasportatore) , qua­
le esercizio di addestramento alla pratica di accettazione dei pensieri.
Assimilabile a un training di abituazione ai pensieri ossessivi, la tecnica
consiste nell'elicitare i pensieri intrusivi, aiutando il paziente a tratte-

339
La clinica

nersi da neutralizzazioni o da evitamenti covert. Si articola in due fasi:


una preparatoria, che si svolge in studio, e una applicativa da svolgere
come homework tra una seduta e l'altra.
Dopo un lavoro condiviso di assessment sui contenuti dei pensieri
intrusivi, le valutazioni circa gli stessi e i tentativi di soluzione utilizzati,
il paziente audioregistra il pensiero intrusivo, facendo attenzione che
non compaiano parti della relativa neutralizzazione; perché si ottenga
una buona esposizione, la durata della sequenza di pensieri registrati
deve essere di almeno 3 O secondi. Il paziente viene dunque esposto alla
registrazione per alcune volte per poi passare, come da procedura espo­
sitiva, alle rispettive valutazioni, su una scala da O a 1 00, del livello di
ansia suscitato dall'ascolto del pensiero intrusivo e del livello di impul­
so a mettere in atto i tentativi di soluzione. Il paziente viene invitato a
stare sul disagio senza procedere con le neutralizzazioni; come per ogni
procedura di E/RP l'esercizio si sospende solo raggiunto un decremento
del disagio di almeno il 50-60 % .
Tra una seduta e l'altra al paziente si assegna il compito di ascoltare
la registrazione almeno 2 volte al giorno per almeno 10/15 giorni, con la
consegna della prevenzione della risposta. L'esercizio, dapprima svolto
in momenti stabiliti con il terapeuta, verrà successivamente utilizzato
nei momenti critici per il paziente, per esempio nelle situazioni naturali
in cui il pensiero intrusivo può comparire spontaneamente.

L'E/RP CONDOTTA AL DOMICILIO DEL PAZIENTE

L'E/RP necessita a volte di essere condotta p resso l'abitazione del


paziente, ambiente in cui, specie nei casi di timore da contaminazio­
ne, possono prendere maggiormente forma le ossessioni ed emergere
le compulsioni.
Vedere il paziente muoversi nel suo ambiente domestico è molto
istruttivo per il terapeuta e lo aiuta a concettualizzare il problema in mi­
sura di gran lunga maggiore rispetto a quanto non facciano i resoconti
che il paziente stesso fornisce rispetto ai suoi cerimoniali.
Un'opera di " contaminazione dell'ambiente" è ciò che più frequen­
temente si fa nel visitare l'abitazione del paziente, al fine di diffondere lo
sporco e ridurre la tentazione di ripulire tutto una volta che il terapeu­
ta sia andato via.8 Va tenuto conto naturalmente di quanto la sola pre-

8. Nei timori di contaminazione si osserva generalmente un fenomeno molto interessante:


spesso durante ricoveri ospedalieri o durante viaggi in paesi in cui le condizioni igienico-sanitarie

340
L'EIRP come pratica dell'accettazione

senza del terapeuta riduca, per buona parte o a volte del tutto, il timore
(Rachman, 2002) , ragion per cui un passaggio importante può compor­
tare la richiesta al paziente di svolgere alcuni esercizi mentre il terapeuta
si trova in un'altra stanza o fuori dall'appartamento.
Oltre che per le compulsioni di lavaggio, anche per i rituali di con­
trollo svolti in ambiente domestico è opportuna la visita al domicilio del
paziente. Impegnato da tempo in strutturati cerimoniali che lo vedono
maneggiare apparecchiature elettriche, fornelli, serrature e interruttori
in modo ritualistico, il paziente perde spesso di vista il modo in cui nel­
la normalità vadano fatte le cose. È alla luce di ciò che il lavoro di mo­
delling da parte del terapeuta rappresenta un importante momento del
processo di riapprendimento.
Nel caso di necessarie esposizioni domiciliari, la difficoltà di mante­
nere per il terapeuta una frequenza come quella descritta per l'E/RP in
vivo può essere aggirata mediante la programmazione di un percorso
combinato di esposizioni, con la stesura di due gerarchie diverse: una
da effettuare nello studio e una da seguire come homework, di modo
da assicurarsi un buon margine di controllo sul percorso, garantendosi
comunque la possibilità di tenere il paziente allenato in situazioni diffe­
renti (passaggio facilitante la generalizzazione degli esiti) .
Il lavoro domiciliare prevede generalmente la possibilità di richiede­
re il supporto dei familiari del paziente, spesso coinvolti nelle ossessio­
ni e/o nei cerimoniali. Quale primo passo è importante far conoscere
loro la tecnica dell'esposizione e impartire istruzioni precise e chiare
sui comportamenti che potrebbero rivelarsi utili. Naturalmente è es­
senziale evitare che il paziente abbia la sensazione che si tratti con i fa­
miliari alle sue spalle, tantomeno a sua insaputa, ragion per cui è bene
programmare incontri comuni, durante i quali si concorderanno tempi
e modi del procedere. Un'intesa chiara e un accordo condiviso rende­
ranno più semplice il superamento dei momenti di crisi che potrebbe­
ro presentarsi nel caso in cui, come sovente accade, il paziente tenderà
a pretendere l'aiuto nonostante quanto concordato. In linea generale,
coinvolgere troppo i familiari di un paziente all'interno del trattamen­
to, investendoli del ruolo di " coterapeuti" , non sempre paga, in primis
perché potrebbe rafforzare l'idea del paziente di essere "malato" e in
secondo luogo perché la disparità di potere potrebbe peggiorare le di-

sono diverse dalle nostre, i pazienti rinunciano ai cerimoniali spiegando la scelta con affermazioni
del tipo " Sarebbe stato impossibile fare qualcosa con tutto quello sporco ! " . Durante gli esercizi
di esposizione a domicilio dunque è bene che il terapeuta si impegni a diffondere il più possibile
la contaminazione, assicurandosene l'irreversibilità.

341
La clinica

namiche interpersonali. Rimane compito del terapeuta valutare dunque


se e quale familiare coinvolgere, tenendo adeguatamente conto del livel­
lo di funzionamento del sistema, del livello di emotività espressa e delle
dinamiche che ne potrebbero conseguire.

POSSIBILI DIFFICOLTÀ E PRECAUZIONI UTILI

La pratica clinica getta luce sulle numerose difficoltà che si posso­


no incontrare durante lo svolgimento della procedura di esposizione.
È possibile che il paziente durante le sessioni di esposizione sperimenti
reazioni emotive molto intense o manifesti ostilità nei confronti del te­
rapeuta. Per ridurre tale possibilità è buona prassi, prima di ogni altra
cosa, che non lo si "colga alla sprovvista" confrontandolo con stimoli
non concordati. Oltre a irrigidirlo rispetto alla procedura, un atteggia­
mento di questo tipo da parte del terapeuta potrebbe, da un lato, giocare
a sfavore della relazione terapeutica e, dall'altro, causare una rischiosa
sensibilizzazione allo stimolo. Anticipare in maniera chiara le singole si­
tuazioni affrontate durante l'intero percorso di E/RP e normalizzare, nel
caso si manifestassero, le reazioni di rabbia del paziente, aiuta pertanto
ad aggirare eventuali ostacoli come quelli appena descritti.
Il paziente può, in alcuni casi, non sperimentare ansia, pur esposto
a stimoli che dovrebbero elicitargliela; è ipotizzabile, in casi del genere,
che il terapeuta abbia commesso un errore nell' assessment funzionale,
non individuando in modo preciso lo stimolo a cui esporre il paziente o
non identificando e controllando adeguatamente evitamenti e rituali co­
vert, oppure che stia commettendo involontariamente un qualche errore
nell'esecuzione della procedura, rassicurando per esempio il paziente
sulla minaccia. Si suggerisce, in entrambi i casi, di riprendere l'E/RP so­
lo dopo aver identificato chiaramente il problema, se necessario anche
mediante un nuovo approfondimento della fase di valutazione.
Può accadere che il paziente sperimenti troppa ansia rispetto a quel­
la prevista e che la stessa non decresca durante la sessione di E/RP; in tal
caso è opportuno domandarsi se l'esercizio scelto non sia più difficile di
quanto stimato o se non siano contemporaneamente attive altre emozio­
ni oltre all'ansia (per esempio, vergogna, rabbia, disgusto) di ostacolo
al decremento della stessa. Suggeriamo in entrambi i casi l'interruzio­
ne della sessione di esposizione al fine di dare priorità a un intervento
sulle cause in atto. Fisiologicamente il percorso di intervento di un pa­
ziente con DOC tende a caratterizzarsi per fluttuazioni importanti e fasi

342
L'E!RP come pratica dell'accettazione

di stalla, seguite a volte da veri e propri regressi. Può accadere spesso


che dopo una buona fase di collaborazione alle sessioni di esposizione
il paziente si senta scoraggiato, sebbene riesca con più facilità ad aste­
nersi dai rituali e ad affrontare situazioni precedentemente evitate. Può
risultare utile, in alcuni momenti, consolidare per un certo tempo gli
esiti raggiunti non affrontando compiti ulteriori e dedicando maggiore
attenzione all'analisi delle specifiche situazioni problematiche rimaste.
Altra complicazione piuttosto frequente è rappresentata dal ripresen­
tarsi di ansia intensa rispetto a stimoli già affrontati con successo, con
comprensibile delusione da parte del paziente, che generalmente tende
a interpretare la cosa come indice di fallimento del lavoro terapeutico.
È fondamentale che il terapeuta accolga la delusione, riportando però il
paziente verso modalità di pensiero più realistiche, affinché veda nei pre­
cedenti successi chiara prova del fatto che si possa nuovamente ottenere
un risultato, in un tempo naturalmente minore, dato il lavoro già svolto.
L'E/RP risulta difficilmente praticabile quando i rituali non sono con­
tingenti con una situazione stimolo, nei casi in cui per esempio il pa­
ziente riesce a procrastinarli per lungo tempo. È inoltre possibile che le
istruzioni dell'E/RP vengano eseguite in modo rigido, ritualistico e "os­
sessivo" e che il paziente le trasformi in neutralizzazioni alternative; in
tal caso la questione va discussa in seduta, in modo da interrompere tale
modalità (Lakatos, Reinecker, 1 999). Va riconosciuta, al di là dei nume­
rosi stratagemmi volti ad aggirare la scarsa motivazione, la complessità
insita nella procedura dell'E/RP, estremamente faticosa per il paziente e
pertanto soggetta a possibili insuccessi (Dèttore, Melli, 2005 ) .

LA CONDUZIONE DELL'ESPOSIZIONE: COMPITI


ED ERRORI DEL TERAPEUTA

Infine propongo una riflessione, non di minore importanza, riguar­


do ai compiti del terapeuta durante una sessione di EIRP. L'esperienza
clinica ci insegna quanto frequentemente errori nella conduzione, spe­
cie da parte di terapeuti alle prime armi, possano inficiare l'andamento
dell'esposizione, vanificandola o interferendo con gli esiti della stessa.
Tra i principali compiti del terapeuta possiamo sottolineare i seguenti:
Rinforzare e incoraggiare. La fiducia che il paziente ripone nel terapeuta
e il suo sostegno nella gestione del disagio svolgono un ruolo di primo
piano sia rispetto alla scelta da parte del paziente di affrontare il percor­
so espositivo sia rispetto allo svolgimento e al successo della procedura.

343
La clinica

Le lodi, verbali e non, a ogni piccolo passo fatto dal paziente sono perciò
di estrema importanza per il loro ruolo di rinforzo positivo.

Facilitare la messa a fuoco delle componenti emotive. È fondamentale che


gli interventi del terapeuta durante l'esposizione abbiano il fine princi­
pale di favorire la concentrazione del paziente sui pensieri e sulle sen­
sazioni che sperimenta, perché, nel tentativo di risolvere il disagio, non
distolga l'attenzione da essi; il terapeuta pertanto può spesso rimanere
in silenzio per diversi minuti.

Fare da modello. Il terapeuta funge da modello e, laddove serve, cor­


regge il modo in cui spontaneamente il paziente esegue un determinato
esercizio, identificando le sottili strategie di evitamento messe in atto e
incoraggiandolo a non farvi più ricorso.9

Favorire l'ottima/e utilizzo dell'esperienza. Il terapeuta supervisiona e


commenta l'intero processo, fa da guida nella gestione emotiva, aiuta il
paziente a utilizzare i dati offerti dall'esperienza per ristrutturare le pro­
prie valutazioni sul rischio (Lakatos, Reinecker, 1999) ; non si propone
di garantire condizioni di assoluta sicurezza e per tale ragione non ten­
ta di convincere a ogni costo il paziente circa la possibilità che lo stimo­
lo con cui si confronta non sia pericoloso, ma gli presenta un livello di
rischio " accettabile" in rapporto ai costi che comporterebbe evitarlo.

Gillihan, Williams, Malcoun e collaboratori (2012) hanno identifi­


cato una serie di "errori" relativamente comuni da parte del terapeuta
ai quali è attribuibile una riduzione dell'efficacia dell'E/RP. Li esaminia­
mo di seguito:

Non incoraggiare il paziente a spingersifino alla situazione stimolo mag­


giormente preoccupante per lui. È importante che alle reticenze del pa­
ziente a confrontarsi con alcuni stimoli non corrisponda una risposta
collusiva del terapeuta che invece, proprio nei momenti cruciali di even­
tuale esposizione a un disagio di alta intensità, ha il compito di inco­
raggiarlo a continuare, bilanciando un atteggiamento di non punitiva
accettazione, con uno enfatizzante l'importanza dell'esporsi a tutti gli

9. Talvolta il paziente mostra comportamenti talmente circoscritti e rapidi da passare inos­


servati: tocca alcuni oggetti esclusivamente con la punta delle dita o con parti del corpo diverse
dalle mani, controlla dettagliatamente la sedia prima di appoggiarvisi, pone domande frequenti
per sentirsi rassicurato, ecc. li paziente potrebbe non riferire al terapeuta tali piccole strategie di
elusione, perché ne è scarsamente consapevole a causa degli automatismi o perché le ritiene irri­
levanti; esse invece forniscono al terapeuta importanti informazioni sulla base delle quali calibra­
re meglio le indicazioni terapeutiche, ragion per cui si consiglia di farvi attenzione e di discuterne
apertamente con il paziente.

344
L'E!RP come pratica dell'accettazione

stimoli programmati. Abramowitz (2006) in merito suggerisce di fer­


marsi a comprendere insieme al paziente cosa lo ostacoli, ricordando­
gli il rationale della procedura e i costi di una vita secondo le regole del
10
DOC. Spesso il forte desiderio di evitare un particolare tipo di esposi­
zione riflette proprio l'importanza che quell'esperienza ricopre per il di­
sturbo del paziente, configurandosi come una vera e propria chance per
attaccare al cuore il problema (Gillihan, Williams, Malcoun et al. , 2012).
Utilizzare l'esposizione in immaginazione laddove sarebbe opportuna
quella in vivo. È possibile che il terapeuta, mosso dalla maggiore diffi­
coltà che la programmazione di un'esposizione in vivo comporta (pro­
curarsi il materiale, recarsi in luoghi esterni allo studio, ecc.) , prediliga
erroneamente l'esposizione immaginativa che, per quanto di sperimen­
tata efficacia, non è da preferirsi a quella in vivo in tutti i casi in cui è
possibile far confrontare il paziente con stimoli concreti temuti e quo­
tidianamente evitati.
Favorire la distraibilità del paziente durante l'esposizione. In una review
che si è proposta di definire gli aspetti che maggiormente interferisco­
no con l'efficacia della procedura di E/RP, Parrish, Radomsky e Dugas
(2008) hanno indicato la possibilità che la distrazione interferisca con
il senso di efficacia del paziente, confermandogli la sensazione di inca­
pacità a confrontarsi con i propri timori se non in modo " diluito" e non
permettendogli di sperimentarsi realmente capace di tollerare livelli in­
tensi di disagio.
È possibile inoltre che la distrazione, diventando facile elemento a
cui erroneamente attribuire la non realizzazione del pericolo, ostacoli la
disconferma delle aspettative di minaccia o assuma una valenza rituali­
stica, peggiorando drasticamente gli esiti del trattamento. È essenziale
che il terapeuta sia attento a quello che il paziente pensa o fa, in modo
da poterlo riportare sul compito e, nello specifico, sulle conseguenze
temute e sul disagio conseguente all'esposizione allo stimolo. In linea
con il nostro rationale, è fondamentale che il paziente venga sostenuto
nell'accettazione della minaccia e nell'accoglimento del disagio, adde­
strandosi in tal modo a confrontarsi con esso.
Rassicurare il paziente. Le richieste ripetute di rassicurazione da parte
del paziente rappresentano dei suoi tentativi di riduzione del disagio.
Equivalendosi nella loro funzione ai rituali, impediscono il confronto

10. Come un motivatore che spinge l'atleta a lavorare il più intensamente possibile per massi­
mizzare la performance, il terapeuta può incoraggiare il paziente con espressioni quali "Io credo
che lei possa farcela! " o ancora "È forte abbastanza per affrontare i suoi timori ! " .

345
La clinica

del paziente con il malessere, impedendone la progressiva accettazione;


è bene pertanto che vengano interrotte.

Trattare la sintomatologia perz/erica trascurando il timore nucleare. I pa­


zienti con DOC iniziano spesso il trattamento presentando una miriade
di sintomi diversi, ragion per cui risulta fondamentale identificare l'a­
spetto nucleare del problema, spesso soggiacente l'evidenza sintomatica.
La costruzione di una dettagliata gerarchia, che confronti il paziente con
stimoli temuti ma che trascuri di intervenire sull'ossessione nucleare,
non sempre direttamente accessibile, rischia di non stabilizzare gli esiti
a lungo termine, preparando il terreno perché i rituali presenti possano
essere nel tempo rimpiazzati da altri.
Trascurare le compulsioni covert. I rituali mentali, come tutte le forme
di rituali covert, rinforzano le ossessioni e mantengono il disturbo; per
questo è fondamentale che il terapeuta li tenga in conto ed educhi il pa­
ziente a riconoscerli e a gestirli.
Trascurare il lavoro con altri significativi per il paziente. Diversi pazienti
con DOC coinvolgono direttamente le persone a loro vicine nei propri
rituali, quindi è opportuno che il terapeuta insegni ai familiari come ri­
spondere alle richieste del paziente, aiutandoli a distinguere tra risposte
empatiche, di supporto e di incoraggiamento, e risposte di rassicurazio­
ne o critiche, fonte di mantenimento della sintomatologia e pertanto da
scoraggiare (Foa, Yadin, Lichner, 2012; questo argomento sarà appro­
fondito nel capitolo XXI) .

346
XVII

LA MINDFULNESS PER IL TRATTAMENTO


DEL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
Barbara Barcaccia

INTRODUZIONE

In questi ultimi anni si è assistito a una considerevole diffusione della


mindfulness in diversi ambiti, dalla promozione del benessere alla ridu­
zione dello stress, e al suo utilizzo nella terapia di vari disturbi mentali.
Sebbene parte delle sue origini risalgano alla tradizione buddhista, 1 le
sue applicazioni odierne in medicina e in psicoterapia sono secolari, e
non implicano l'adesione a un sistema di credenze di tipo religioso (de
Zoysa, 2013 ) .
Il termine "mindfulness" è la traduzione inglese della parola i n lingua
pali " sati " (nella lingua pali è stato compilato il canone buddhista della
scuola Theravada). In italiano, una possibile traduzione di mindfulness
è "consapevolezza "2 e l'applicazione della mindfulness al trattamento
di disturbi psicologici implica proprio il divenire consapevoli di ciò che
sta accadendo dentro di noi, ma anche intorno a noi, e il ridirezionare
l'attenzione per non essere travolti dalla prepotenza dei contenuti men­
tali. La mindfulness fa riferimento alla capacità di prestare attenzione al
momento presente in modo consapevole e senza giudicare l'esperienza
che si sta vivendo (Kabat-Zinn, 1 990), come pensieri, emozioni, impul­
si, sensazioni. Già a partire da questa definizione è facile intuire come la
pratica di mindfulness risulti particolarmente indicata nel trattamento
del disturbo ossessivo-compulsivo. Infatti, un aspetto particolarmente

l. Un'analisi delle radici filosofico-religiose della mindfulness esula dagli scopi di questo ca­
pitolo. Per un'introduzione sul tema, si può consultare, per esempio, il libro di B. Alan Wallace,
Mind in the Ba/ance: Meditation in Science, Buddhism, and Christianity (2009, Columbia Univer­
sity Press, New York) .
2 . Per consuetudine d i utilizzo lasceremo i n questo capitolo il termine mind/ulness i n lingua
inglese.

347
La clinica

problematico per il trattamento del disturbo è la sovrastima dell'impor­


tanza che le persone con DOC attribuiscono ai propri contenuti men­
tali. Da un certo punto di vista si potrebbe affermare che il problema
principale in questo disturbo è la difficoltà nel lasciar andare i contenu­
ti mentali, una volta che essi sono comparsi alla mente. Può trattarsi di
pensieri, ma anche di immagini mentali che, una volta insorti, riescono
ad "agganciare" il paziente e a portarlo alla messa in atto di rituali, na­
scosti o manifesti.
Lo sviluppo nel paziente di attitudini mindful tramite la pratica di
mindfulness può costituire un valido strumento per aiutare le persone
con DOC a gestire le proprie esperienze interne, vale a dire pensieri, sen­
sazioni, immagini mentali, e a imparare a rispondere in modo funziona­
le alla comparsa di questi elementi, anziché reagire automaticamente.
In questo capitolo viene dapprima, b revemente, presentata la
mindfulness, in secondo luogo si illustra come la mente ossessiva pre­
senti un'attitudine mindless, successivamente si presenta l'adattamento
delle pratiche di mindfulness al trattamento del DOC, e, infine, si ripor­
tano gli studi disponibili sull'applicazione della mindfulness alla terapia
del disturbo ossessivo-compulsivo.

CHE COS' È LA MINDFULNESS

L'attitudine mindful è, per l'appunto, un'attitudine che gli individui


possono presentare in misura maggiore o minore, indipendentemente
dalla pratica di mindfulness. Proprio come la mente può essere concen­
trata, disturbata, sognante, rallentata, ecc., può anche essere mindful
(Bruce, Shapiro, Costantino et al., 2010). La pratica della mindfulness,
addestrando le persone a coltivare la consapevolezza per periodi cre­
scenti di tempo e con costanza, può consentire di raggiungere un'atti­
tudine più mindful.
Anche se in letteratura non vi è accordo su una descrizione univoca
del costrutto (Hanley, Abell, Osborn et al. , 2016), in ambito scientifico
una delle definizioni di mindfulness più utilizzate è quella diJon Kabat­
Zinn: "La consapevolezza che emerge quando nel momento presente
si presta attenzione, intenzionalmente e senza giudicare, all'esperienza
nel corso del suo svolgimento"3 (Kabat-Zinn, 2003 , p. 1 45 ) . Shapiro,
Carlson, Astin e collaboratori (2006) hanno individuato tre elementi

3 . "'The awareness that emerges through paying attention on purpose, in the present moment, and
nonjudgmentally to the unfolding of experience moment by moment" (Kabat-Zinn, 2003 , p. 145).

348
La mindfulness per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

principali in questa definizione: attenzione, atteggiamento consapevo­


le e intenzione.
L'attenzione è la capacità di mantenere il focus attentivo nel momento
presente. Questa abilità richiede lo stare nell'esperienza in sé, sospen­
dendo l'interpretazione. Nella meditazione mindful, il praticante im­
para, un po' alla volta, ad accorgersi quando la mente si è allontanata,
e a riportarla al suo oggetto di attenzione (per esempio, il respiro nella
pratica del respiro, o il corpo nel body-scan).
Il secondo elemento, l'atteggiamento consapevole, è più di un sem­
plice set cognitivo. Infatti, se si trattasse solo di una capacità cognitiva,
si potrebbe affermare che è mindful anche un individuo che stia per
commettere un crimine premeditato. La mindfulness, invece, è più di
semplice "pura consapevolezza" in quanto a essere fondamentale è an­
che il "come" viene esercitata questa consapevolezza. L'attenzione, in­
fatti, può essere connotata da un atteggiamento critico, freddo, sprez­
zante, ecc. Oppure, può presentare una dimensione di apertura, calore
e interesse, così come è proposto nella meditazione di consapevolezza.
Quest'ultimo aspetto risulta molto rilevante nei pazienti con DOC, poi­
ché, sovente, tendono ad avere standard molto severi di giudizio su di
sé, a criticarsi e a sentirsi in colpa. Shapiro, Carlson, Astin e collabora­
tori (2006) sottolineano l'importanza del non-giudizio e raccomandano
che l'addestramento all'abilità di mindfulness preveda l'esplicitazione
da parte del "praticante" dell'intenzione di portare le qualità di genti­
lezza, apertura e mancanza di giudizio nella pratica, per evitare che si
trasformi in una tecnica "fredda" che può condurre al giudizio e alla
condanna delle proprie esperienze interne, anziché alla loro accettazio­
ne. Si tratta di portare, quindi, nella pratica anche alcune qualità che
sono state definite "del cuore" ,4 come l'accettazione, la compassione, il
perdono e la gentilezza. Nella prospettiva della mindfulness non è pos­
sibile disgiungere dalla pratica queste qualità. Rosenzweig (2013) ha de­
finito queste dimensioni le " sorelle " della mindfulness, per indicare sia
la disposizione del praticante sia gli effetti della pratica. Saki Santorelli
sottolinea come in molte tradizioni contemplative la mente e il cuore sia­
no considerati un'unità, e quanto sia importante che la consapevolezza
sia composta da una mente serena e un cuore aperto (Santorelli, 1 999) .
Nella pratica del respiro, per esempio, la consegna è di tornare in
contatto con le sensazioni legate al fluire dell'aria ogni volta che com-

4. Come afferma Hazrat Inayat Khan: "In the first piace it should be known that the mind is
the surface of the heart, and the heart is the depth of the mind. Therefore mind and heart are one
and the same thing" (Khan, 2005 ) .

349
La clinica

pare un pensiero, un'immagine, una sensazione. Neva Papachristou ha


scritto in proposito: "Tornando al respiro, lasciamo fluire il pensiero,
non lo afferiamo né cadiamo nella non accettazione nei suoi confron­
ti. Semplicemente, non gli diamo il cuore. Il pensiero c'è, ma non gli
diamo la forza di mettere le radici nella nostra mente-cuore. Se comin­
ciamo ad accettare la sua presenza, la nostra energia non è più rivolta a
dire "No" , ma, piuttosto, a creare uno spazio intorno a quel pensiero"
(Pensa, Papachristou, 2012, pp. 7 9-80).
Relativamente al terzo elemento, l'intenzione, mai come nella
mindfulness è vera l'espressione che "è l'intenzione che conta" : nel­
la pratica ci si predispone a qualcosa, a sperimentare e accogliere tutto
ciò che si presenterà momento dopo momento. Questo significa che la
mindfulness non è un costrutto dicotomico, ma una disposizione che
può variare da un momento all'altro: la consapevolezza verrà meno in
certi momenti, ma in tali momenti l'intenzione può ricondurre chi sta
praticando in contatto con il momento presente.

Le componenti della mindfulness

Baer (2010) propone cinque dimensioni fondamentali che compon­


gono la mindfulness: osservare (rilevare e prestare attenzione a fenomeni
interni/esterni) , descrivere (usare parole o definizioni per descrivere il
fenomeno osservato), agire con consapevolezza (impegnarsi totalmente e
senza automatismi nell'attività che si stava svolgendo), non giudicare l'e­
sperienza interiore (avere un atteggiamento non giudicante nei confronti
di pensieri ed emozioni), non reagire all'esperienza interiore (accettare
pensieri ed emozioni lasciando che vengano e vadano, senza rimanervi
intrappolati o farsi distrarre). In questo paragrafo illustreremo, in par­
ticolare, la rilevanza del non-giudizio e della non-reattività.
Nella mindfulness è molto rilevante la componente del "non-giudi­
zio", e non è sufficiente addestrare una generica abilità a diventare os­
servatori dei propri pensieri/stati interni. In una recente ricerca (Ariano,
Barucca, Brindisino et al. , 2015 ) , è stata evidenziata una correlazione
positiva tra una sottoscala del Five-Facets Mindfulness Questionnaire
(FFMQ) , osservare, e la ruminazione (Ruminative Response Scale, RRS) ,
e tra osservare e la sottoscala emozioni negative del PANAS (Positive and
Negative Affect Scale) . Tale dato indica come non basti osservare un fe­
nomeno (stato emotivo, pensiero, ecc.) per prenderne le distanze (anzi,
il solo osservare potrebbe essere correlato a un'elevazione delle emo­
zioni negative, vedi Petrocchi e Ottaviani, 2015), ma sia necessario non

350
La mind/ulness per il trattamento del dz5turbo ossessivo-compulsivo

giudicarlo. Inoltre, è emerso che la componente della FFMQ non-giudizio


è quella più negativamente correlata con la depressione, indicando che
più si giudica, più aumenta la depressione (Ariano, Barucca, Brindisino
et al. , 2015; Brindisino, Ariano, Barucca et al., 20 15 ) . Sembra, quindi,
che la specifica dimensione del non-giudizio abbia un ruolo particolar­
mente significativo per il benessere psicologico degli individui.
La mindfulness è l'opposto dell'agire meccanicamente/inconsapevol­
mente, con il "pilota automatico" , pertanto per i pazienti con DOC co­
stituisce un'abilità rilevante, considerato che è proprio la reattività alle
ossessioni a determinare l'innesco di circoli viziosi autoinvalidanti. An­
zi, si potrebbe affermare che il disturbo è proprio costituito dai tentati­
vi di soluzione alla comparsa dei contenuti mentali (pensieri/immagini)
ossessivi, e non già dalla mera presenza nella mente di questi ultimi. I
pensieri e le immagini mentali intrusivi infatti, per quanto sgradevoli e
aversivi, non sono il DOC. E se si impara a non farsi agganciare da quei
contenuti mentali, ma a proseguire nel proprio percorso di vita malgra­
do la presenza delle ossessioni, si sarà riconquistata ampia libertà d' azio­
ne e possibilità di raggiungimento dei propri scopi di vita. È importan­
te, quindi, rilevare che la capacità di prendere le distanze dai contenuti
mentali non implica necessariamente, in tutte le circostanze, non tenere
conto di essi: acquisire un'attitudine mindful significa, invece, essere in
grado di, per esempio, osservare un pensiero o un'immagine mentale
come un prodotto della propria mente (che può effettivamente avere
una qualche attinenza con la realtà, così come può non averne) e, a quel
punto, decidere come agire. Con la pratica della mindfulness si amplia,
un po' alla volta, lo spazio di scelta della persona, cosicché aumentano
le possibilità di azione di fronte all'evento mentale: si può tenere conto
del pensiero (o dell'immagine mentale) o si può !asciarlo andare. Si trat­
ta di una strategia che contrasta l'impulsività della reazione, prima an­
cora di prendere in considerazione la fondatezza o meno del contenuto.
Come si ottiene questa sorta di " disinnesco" dai propri contenuti
mentali? Nei training di mindfulness i partecipanti sono invitati a con­
centrare l'attenzione su un particolare stimolo rilevabile nel momento
presente (per esempio, il respiro). Se nel corso dell'esercizio si presen­
tano pensieri/emozioni/immagini mentali/sensazioni/impulsi o si veri­
ficano altre esperienze, i partecipanti sono invitati a notarne la compar­
sa, non giudicarli, per poi tornare sullo stimolo oggetto di attenzione.
Viene, inoltre, coltivato un atteggiamento di accettazione, accoglienza,
apertura, disponibilità, gentilezza, nei confronti di qualsiasi esperien­
za, senza giudicarla, valutaria o cercare di cambiarla (Morgan, Morgan,

35 1
La clinica

Germer, 2013 ) . I pensieri sono colti come contenuti mentali transitori


piuttosto che come aspetti di sé "veri" o come informazioni sullo stato
del mondo che determinano il comportamento successivo.
Inoltre, va considerato che l'osservazione prolungata non giudicante
e non reattiva delle esperienze interiori costituisce essa stessa una for­
ma di esposizione, attività che spesso i pazienti rifiutano di svolgere in
terapia quando viene loro proposta come E/RP, perché ne sono troppo
spaventati. Al contrario, sembra che in un contesto come quello della
terapia cognitiva basata sulla mindfulness MBCT (Mindfulness-Based
Cognitive Therapy), i pazienti riescano a impegnarsi, grazie all'adde­
stramento alla mindfulness, nell'esposizione, percependola come me­
no "traumatica" di quanto accada in altri contesti terapeutici ( Strauss,
Rosten, Hayward et al. , 2015 ) .

L A MENTE OSSESSIVA: RILEVANZA


DELLA MINDFULNESS PER SOPPRESSIONI, RUMINAZIONI
E ALTRI TENTATIVI DI SOLUZIONE

Come visto nel corso di tutto il volume, le ossessioni sono percepite


dai pazienti come intrusive e in controllabili, in contrasto con il proprio
sistema di credenze e valori, in grado di causare ansia e disagio intensi,
al punto da spingere le persone a cercare in tutti i modi di respingerle
(Abramowitz, 2006). Infatti i pensieri intrusivi, comuni anche nella po­
polazione generale, nel paziente ossessivo-compulsivo rappresentano
una tale fonte di angoscia da rendere urgente per l'individuo la messa in
atto di strategie che, dal suo punto di vista, lo possano aiutare a liberar­
si dall'angoscia, oltre che dal rischio che l'evento temuto si verifichi. Le
reazioni alla comparsa delle intrusioni sono state definite come dei "ten­
tativi di soluzione " , che consistono in diversi tipi di strategie, nascoste
( covert) , per esempio tentativi di soppressione dei pensieri, e manifeste
(overt), per esempio rituali di controllo o di lavaggio . Purtroppo , tutti i
tentativi di soluzione adottati istintivamente dai pazienti si rivelano au­
toinvalidanti nel medio e lungo termine e rappresentano dei fattori di
mantenimento del disturbo.
Soppressione dei pensieri. Una tipica modalità nascosta di gestire le os­
sessioni è costituita dai tentativi di sopprimere il contenuto mentale
quando questo emerge. Come visto nel capitolo II, è ormai assodato co­
me il cercare di reprimere i pensieri sia un'azione non solo inutile (non
è possibile imporre alla mente di non pensare un contenuto mentale),

352
La mindfulness per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

ma controproducente: più cerchiamo di sopprimerli, più aumentano le


probabilità che questi riaffiorino alla mente. Numerose ricerche dimo­
strano l'inefficacia di strategie basate sul controllo quali la soppressio­
ne del pensiero, che mira ad alterare direttamente la frequenza di com­
parsa dei pensieri/immagini disfunzionali. Tali tentativi di soluzione, in
realtà, hanno come effetto l'intensificazione della frequenza di compar­
sa di quegli stessi contenuti mentali che si stava cercando di scacciare
(Najmi, Reese, Wilhelm et al. 2010; Abramowitz, Tolin, Street, 200 1 ;
Becker, Rinck, Roth et al. 1998; Wegner, 1994 ) . Anche altre strategie di
gestione mentale si rivelano altrettanto controproducenti: distrazione,
sostituzione del pensiero con un altro contenuto mentale, razionalizza­
zione (Freeston, Ladouceur, 1997 ) .
Rituali mentali. Molti pazienti ossessivi mettono in atto dei rituali men­
tali allo scopo di impedire il verificarsi degli esiti temuti. Si tratta, dun­
que, di compulsioni covert (nascoste) e, proprio per questo motivo, i
pazienti possono fare fatica a distinguerle dalle intrusioni. Trattandosi
di atti puramente mentali risultano, infatti, meno visibili e concreti dei
rituali manifesti. Ai fini del trattamento, però, e in particolare in un'ot­
tica mind/ul, è molto importante che il paziente apprenda la distinzione
tra le intrusioni ossessive,5 totalmente involontarie, e i rituali mentali,
azioni mentali volontarie messe in atto allo scopo di ridurre il disagio.
I rituali mentali possono essere costituiti dalla ripetizione di frasi o pa­
role o numeri particolari, ma possono anche consistere in una sorta di
"ripasso" di ciò che è appena accaduto: un individuo che ha l'ossessio­
ne "Potrei aver contratto il virus dell'HIV mentre camminavo per strada,
mi è sembrato di vedere qualcosa scintillare al sole, poteva essere l'ago
di una siringa buttata lì da un tossicodipendente, potrei averla toccata
inavvertitamente " , può ricostruire mentalmente la scena più volte per
cercare nella memoria tutti i segnali della presenza di un ago e dell'e­
ventuale contatto con esso.
Rituali manz/esti. Oltre a questi tentativi di soluzione nascosti, vi sono
anche i tentativi di soluzione manifesti, come i rituali di lavaggio e di
controllo, e anch'essi finiscono con l'esacerbare le ossessioni.
È importante che la riflessione su questi effetti paradossali sia condi­
visa con il paziente, vista la resistenza che le persone con DOC hanno ad
abbandonare i propri tentativi di soluzione, soggettivamente percepiti

5. Inoltre, le ossessioni sono contenuti mentali invariabilmente ansiogeni, mentre nel mettere in
atto i rituali mentali la persona esperisce, spesso, una sensazione di immediato sollievo dall'ansia,
ed è proprio in ragione di ciò che la sintomatologia si mantiene e si generalizza anche ad altre aree.

353
La clinica

come efficaci, perché ansiolitici nel breve termine. Anche in un'ottica


di applicazione della pratica della mindfulness al trattamento di questo
disturbo, è fondamentale che al paziente sia chiara l'inutilità, e anzi la
dannosità dei suoi tentativi di soluzione. In caso contrario, non potrà
accettare di sottoporsi a una terapia che prevede il lasciar andare l' os­
sessione senza prendere provvedimenti (non-reattività).
Richieste di rassicurazioni ad altri significativi. Molte persone con DOC,
oltre a mettere in atto una serie di tentativi di soluzione "intrapsichici",
coinvolgono nelle proprie difficoltà anche i propri cari, principalmente
richiedendo rassicurazioni in merito agli eventi temuti (Saliani, Barcac­
cia, Mancini, 20 1 1 ; capitolo XXI) . Anche questi tentativi di soluzione,
che sono normalmente seguiti dalle rassicurazioni delle persone intorno,
purtroppo hanno un effetto ansiolitico solo a breve termine, mentre nel
medio e lungo termine conducono a un'esacerbazione della sintomato­
logia: infatti, i dubbi, una volta ricevuta la rassicurazione, sono placati
per un tempo limitato e molto presto insorge un nuovo dubbio nella
mente del paziente, rispetto alla risposta ricevuta. Se per esempio una
persona ha chiesto al proprio partner: " Non è che avrò investito qual­
cuno con la mia auto senza accorgermene? " , e ha ricevuto la risposta:
" Ma cosa dici? Certo che no, non è possibile che accada una cosa del
genere" , facilmente, dopo un iniziale momento di sollievo, potrà met­
tere in discussione quella rassicurazione, appellandosi, per esempio, al
fatto che il partner non era con lei mentre guidava, e dunque si trove­
rà in una condizione in cui il proprio dubbio, anziché essere dissipato,
sarà alimentato.

Concludendo, le reazioni alle ossessioni, vale a dire i tentativi di solu­


zione messi in atto dal paziente per cercare di gestire il disagio provoca­
to dall' intrusione stessa sono, di fatto, dei meccanismi di mantenimento
della psicopatologia: nel disturbo ossessivo-compulsivo il problema è
costituito dal fatto che pensieri/immagini intrusivi, che di per sé non di­
cono nulla sullo stato del mondo, né sono necessariamente dei contenuti
veritieri, diventano oggetto di una grandissima sofferenza. La persona
con DOC interpreta la comparsa stessa del pensiero nella mente come
qualcosa di significativo e allarmante, e ciò che si osserva normalmente
è una reattività molto veloce a questi contenuti mentali, che porta a cir­
coli viziosi in cui, come abbiamo già osservato, il tentativo di soluzione
(per esempio, un rituale di lavaggio, o di controllo) diventa il problema.
Notiamo qui, ma questo discorso sarà ripreso più diffusamente nei
paragrafi successivi, che vi è uno spazio d'intervento significativo per

354
La mindfulness per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

la mindfulness, poiché può aiutare il paziente a prendere consapevo­


lezza che quel pensiero/immagine mentale è un prodotto della propria
mente (non necessariamente falso, o con nessuna attinenza alla realtà),
sostenendolo, poi, nella fatica di accettare il disagio che accompagna la
presenza di quel contenuto nella mente e, infine, supportandolo nel non
reagire con la messa in atto di compulsioni.

La metavalutazione dei propri contenuti mentali

In seguito alla comparsa di immagini, pensieri, impulsi intrusivi, i


pazienti tendono a trarre delle inferenze su cosa significhi quell'intru­
sione; per esempio, un paziente può pensare: " Se mi è venuta in mente
l'immagine di mio figlio morto, vuol dire che lo desidero, quindi sono
una persona malvagia. O forse vuole dire che potrei fargli davvero del
male? " . Come visto nei capitoli precedenti, per questo motivo un primo
intervento consiste nel sottolineare al paziente la normalità della com­
parsa di immagini, pensieri, impulsi intrusivi, in quanto sperimentati
dalla maggior parte delle persone. L'aspetto patologico, infatti, consi­
ste non nella presenza di intrusioni in sé, ma nel modo in cui esse so­
no interpretate e valutate dall'individuo (per esempio, un paziente può
considerarle una prova della propria perversione) . Tale interpretazione
genera livelli molto elevati d'ansia e conduce alla messa in atto di rituali
che hanno lo scopo di alleviare il forte disagio associato alle ossessioni.
Una parte del lavoro cognitivo con pazienti DOC verte proprio sulle
metavalutazioni dei pensieri intrusivi e la mindfulness può offrire una
strategia di cambiamento efficace rispetto a questi processi cognitivi, poi­
ché interviene sulla tendenza a reagire alle intrusioni (immagini o pensie­
ri) ingaggiando lotte mentali, metavalutazioni, e poi tentativi di soluzione
fallimentari. Quindi, la mindfulness può aiutare a non cadere nei proces­
si di prima, ma anche seconda valutazione, identificati in questo volume
nella sezione sul profilo interno del disturbo (capitoli I e XII) . Può agire
sulla sovrastima dell'importanza deipensieri: molti pazienti con DOC attri­
buiscono un'importanza eccessiva ai propri pensieri intrusivi e credono,
erroneamente, che le altre persone non ne abbiano. " Se mi è venuta in
mente l'immagine di mio figlio morto, vuoi dire che lo desidero" . Que­
sta particolare valutazione sul significato della comparsa dei propri con­
tenuti mentali può essere affrontata in modo molto efficace da approcci
basati sulla mindfulness, come spiegheremo nel paragrafo successivo.
Inoltre, la pratica può agire efficacemente anche sulla convinzione
relativa alla necessità di controllare i pensieri: spesso le persone con DOC

355
La clinica

pensano: "Se non riesco a controllare i pensieri vuol dire che non sono
normale", Infatti, l'acquisizione di un controllo totale sulle intrusioni è
una delle richieste che spesso il paziente formula all'inizio della terapia.
Anche in questo caso potrà essere utile un approccio decentrato e dis­
identificato, così com'è promosso dalla mindfulness.
La pratica può, quindi, intervenire nel passaggio da pensiero intrusivo
(o immagine mentale) a ruminazione ossessiva. Quest'ultima è un'attivi­
tà compulsiva messa in atto in reazione a un'intrusione (de Silva, 2003 )
e può anche essere considerata un meccanismo per diminuire la discre­
panza tra lo stato reale del mondo e quello desiderato, il quale è tuttavia
destinato ad autoperpetuarsi e a non trovare mai una soluzione o via d'u­
scita. In questo senso, la mindfulness può essere la via d'uscita da circoli
viziosi autoperpetuantisi, poiché addestra le persone alla non-reattività
alle intrusioni ossessive, consentendo di passare dalla modalità del/are,
per diminuire la discrepanza tra mondo reale e mondo ideale, alla mo­
dalità dell'essere, in cui ci si rapporta con le esperienze interne in modo
diretto, non spinti da uno scopo particolare, ma accettando ciò che si
presenta momento dopo momento (Segai, Williams, Teasdale, 2014).
La ruminazione ossessiva, a differenza di quella depressiva, è tipica­
mente dialogica (vedi capitoli II e IV). Un esempio potrà illustrare me­
glio questo concetto.
Alessandra è un'insegnante in pensione, ossessionata dal timore di
poter investire i pedoni quando guida l'auto. Dopo aver attraversato
un incrocio, le appare un'immagine mentale di un pedone ferito a ter­
ra, oppure intrude alla mente il pensiero "Potrei aver investito quella
mamma con il passeggino" . Questi contenuti mentali sono fortemente
ansiogeni e la spingono, quasi immediatamente, a ingaggiare una sor­
ta di lotta con la propria mente. Anzi, potremmo affermare che nella
mente di Alessandra inizia una sorta di "processo" , in cui accusa (A) e
difesa (D) portano le prove:

D. No, non è possibile, avrei sentito almeno il rumore dell'impatto.


A. Ma come faccio a esserne così sicura? Magari mi sono distratta, in
fondo avevo la radio accesa.
D. Sì, ma se fosse successo qualcosa di grave sicuramente le persone
lì intorno mi avrebbero inseguito per fermarmi.
A. E se non mi avessero inseguito perché impegnate a soccorrere la
mamma e il bambino? In fondo è possibile, in caso di incidente chiun­
que presterebbe prima soccorso ai feriti ! Mio Dio, sarebbe terribile !
D . Ma avrei sentito almeno le grida dei passanti, e poi la sirena
dell'ambulanza.

356
La mindfulness per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

A. Sì, ma come faccio a esserne certa? In fondo mi sono allontanata


velocemente, e l'ambulanza ci mette un po' per arrivare. Meglio tornare
indietro a controllare.

In preda all'ansia, Alessandra torna nei pressi dell'incrocio "incri­


minato" , controlla che non vi siano segni di incidenti avvenuti da poco,
verifica l'assenza di macchie di sangue visibili, e per qualche minuto la
sua ansia si placa. Ma sulla via del ritorno a casa, nuovi dubbi la assalgo­
no, dubbi dolorosi, che sente devono essere risolti a tutti i costi. "E chi
mi garantisce che quando sono tornata indietro a controllare non aves­
sero già portato via i feriti? " Questo nuovo dubbio la intrappola in un
circolo vizioso simile a quello su esposto, la cui conclusione è un ulte­
riore controllo, quello dei notiziari delle radio locali e del TG regionale,
per accertarsi che non venga data la notizia di un grave incidente in cui
l'automobilista colpevole si è dileguato. Le ricerche di rassicurazione
sono purtroppo seguite a loro volta da nuovi dubbi, in un processo vir­
tualmente infinito che si interrompe solo quando la paziente è esausta.
Questi episodi sono estremamente dolorosi, e occupano una vasta parte
della vita di Alessandra che, osservando i propri comportamenti, consa­
pevole dell'esagerazione delle sue preoccupazioni, si critica aspramente,
accusandosi di stare rovinando non solo la propria vita, ma anche quel­
la dei suoi cari, spesso coinvolti in questi circoli viziosi dalle richieste di
rassicurazione che Alessandra rivolge loro.
Anche queste metavalutazioni (la cosiddetta " seconda valutazione" ,
nel nostro modello del disturbo) della propria sintomatologia sono as­
sociate a un'intensa sofferenza emotiva, e spesso danno luogo a un note­
vole abbassamento del tono dell'umore, che si può andare a strutturare
anche come depressione secondaria. Anche per questa parte di auto­
critica la mindfulness può risultare particolarmente efficace, promuo­
vendo la compassione di sé (Petrocchi, Barcaccia, Couyoumdjian, 2013 ;
Mancini, Saliani, 2013 ) .
È necessario ricordare, però, che per riuscire a motivare i l paziente
ossessivo a porsi nell'atteggiamento di osservatore dei propri processi
mentali, disposto a non reagire con il pilota automatico, e, quindi, a
non mettere in atto le compulsioni, sarà necessario fornirgli ulteriori
elementi di comprensione sul funzionamento del DOC. In caso contra­
rio, sarà difficile ottenere la collaborazione del paziente agli esercizi
proposti. In altri termini, un protocollo specifico per il disturbo os­
sessivo-compulsivo basato sulla mindfulness dovrà tenere conto del­
le particolari caratteristiche della mente ossessiva, e dovrà integrare

357
La clinica

alcuni aspetti della terapia cognitivo-comportamentale con interventi


basati sulla mindfulness. In particolare, deve essere mostrato con chia­
rezza al paziente come funziona il disturbo, il suo profilo interno, con
ricostruzione e condivisione di suoi episodi ossessivi e sottolineatura
degli effetti dei provvedimenti che normalmente prende per liberarsi
delle intrusioni (meccanismi di mantenimento della psicopatologia) .
Solo in questo modo egli potrà essere motivato ad abbandonare i ten­
tativi di soluzione disfunzionali, come le ruminazioni ossessive, le ri­
chieste di rassicurazione, i rituali di controllo, quelli di lavaggio, ecc.
Si potrà, poi, passare ad approfondire la nocività della ricerca di ras­
sicurazioni a tutti i costi, e l'opportunità di entrare in una prospettiva
di accettazione.

L'INTRODUZIONE DELLA MINDFULNESS NEL TRATTAMENTO


DEL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO

In ambito clinico vi sono stati, nel corso degli anni, diversi tentati­
vi di adattamento all'utilizzo con pazienti psichiatrici del protocollo
Mindfulness-based Stress Reduction (MBSR) . Tra i protocolli più effi­
caci adattati a una specifica popolazione clinica vi è senz' altro la MBCT
(Mindfulness-based Cognitive Therapy), la terapia cognitiva basata sulla
mindfulness. Si tratta di una terapia manualizzata della durata di 8 set­
timane condotta in gruppo (Segai, Williams, Teasdale, 2014; Teasdale,
Segai, Williams et al., 2000) . Inizialmente, il programma venne messo
a punto per la prevenzione delle ricadute della depressione, in partico­
lare per pazienti in remissione da un episodio depressivo, allo scopo di
prevenire le eventuali successive ricadute tramite l'addestramento alla
capacità di relazionarsi in modo nuovo ai propri stati interni: emozioni,
sensazioni e pensieri. Ricerche più recenti ne hanno confermato l' effica­
cia anche per il trattamento della depressione in fase acuta (Kenny, Wil­
liams, 2007 ) . Pertanto si è pensato di adattare il trattamento anche ad
altri disturbi psichiatrici, molti dei quali sono caratterizzati da decorso
cronico, sono resistenti al trattamento, tendono a dare luogo a gravi ri­
cadute, e causano malfunzionamento personale e sociale molto elevato.
Inoltre va considerato che la MBCT, nella sua versione originaria di tera­
pia di gruppo, consente un maggiore accesso alle cure rispetto ai tratta­
menti individuali (Chiesa, Serretti, 201 1 ) e può costituire una preziosa
risorsa laddove, anche per motivi economici, non sia possibile accedere
al trattamento individuale.

358
La mindfulness per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

L'efficacia della MBCT è stata indagata anche per altre condizioni di


disagio psicologico, per esempio per il disturbo di panico (Kim, Lee,
Choi et al. , 2009) e per l'insonnia (Yook, Lee, Ryu et al. , 2008). Vi sono
alcuni dati preliminari incoraggianti per il trattamento di alcuni disturbi
mentali, ma anche per il trattamento del dolore cronico e degli acufeni;
ciononostante l'entusiasmo per l'individuazione di un nuovo strumento
potenzialmente utile alla clinica non può sostituirsi a dati ottenuti con
studi rigorosi di efficacia, e per quanto concerne molti disturbi mentali,
e il DOC in particolare, i dati sono ancora limitati.
Per la cura del DOC il trattamento di prima linea è la terapia cogniti­
vo-comportamentale con esposizione/prevenzione della risposta (E/RP).
Sono efficaci anche i trattamenti farmacologici con gli inibitori seletti­
vi della ricaptazione della serotonina (SSRI), pur presentando dei limiti
dovuti al mancato mantenimento dei risultati raggiunti in seguito alla
sospensione della terapia farmacologica e al follow-up . Sono risultati
efficaci anche i trattamenti di tipo cognitivo; di particolare interesse a
questo proposito sono gli interventi sul senso di colpa per irresponsa­
bilità (capitoli XIII e xv di questo volume) .
La terapia cognitivo-comportamentale con EIRP è non solo il tratta­
mento elettivo per il DOC, ma anche quello che meglio mantiene i risul­
tati conseguiti nel tempo, anche dopo l'interruzione del trattamento (NI­
CE, 2005 ) . Tuttavia, come si è indicato nel primo paragrafo, questo tipo
di terapia non è in grado di ridurre significativamente la sintomatologia
per tutti i pazienti (vi è un sottogruppo di individui particolarmente re­
sistenti al trattamento) , ma soprattutto non viene sempre accettata di
buon grado, in quanto ansiogena per definizione: esporsi a uno stimo­
lo temuto e non reagire come si farebbe normalmente, ha sicuramente
un effetto terapeutico nel medio e lungo termine, ma nell'immediato
provoca una certa dose di ansia. Per tale motivo, è molto importante
identificare strategie che motivino il paziente ad aderire al protocollo
terapeutico di esposizione (Mancini, Barcaccia, Capo et al. , 2006; Bar­
caccia, Perdighe, 2005) , ma allo stesso tempo è fondamentale che la ri­
cerca proceda anche per ideare e poi verificare l'efficacia di nuove for­
me di trattamento.
Recentemente si è meglio delineato il contributo della mindfulness al
trattamento del DOC, in quanto in grado di favorire lo sviluppo di uno
stato mentale " antiossessivo" : infatti, come è stato illustrato nei pre­
cedenti capitoli, il paziente con DOC esperisce i propri stati mentali ed
emotivi in modo tale da sentirsi quasi obbligato a reagire immediata­
mente in un certo modo. La mindfulness, al contrario, addestra le per-

359
La clinica

sone a non farsi catturare dai contenuti dei pensieri, dagli impulsi, dal­
le sensazioni e a rispondere, anziché reagire automaticamente. Come si
può "rispondere" in modo funzionale alla comparsa di un'intrusione?
Riconoscendola come un prodotto della propria mente, e semplicemen­
te !asciandola andare, resistendo all'impulso di fare ciò che l'intrusione
suggerirebbe.
Come è stato precedentemente osservato, la mente ossessiva sem­
bra essere in un perenne stato di mindlessness, infatti, il filo conduttore
che accomuna tutte le manifestazioni ossessive è l'identificazione con i
contenuti delle ossessioni e l'impulso a reagire automaticamente a essi.
Pertanto gli approcci basati sulla mindfulness possono offrire poten­
zialità notevoli di cambiamento (Didonna, 2009), aiutando la persona a
rendersi conto prontamente di quando l'intrusione compare, a ricono­
scerla come tale, qualunque contenuto essa porti, e a !asciarla andare.
La mindfulness è come una "navetta", in grado di riportarci dal mondo
della mente al mondo dell'esperienza diretta (Harris, 2009).
La pratica, inoltre, può risultare utile nel contrastare gli evitamenti:
ogni persona con DOC, sapendo quanta fatica le costerà mettere in atto
i rituali o quanto sarà difficile neutralizzare i contenuti mentali intru­
sivi, si sforza attivamente di evitare stimoli che possano più facilmente
elicitare intrusioni ossessive, nonché esperienze emotive di ansia e col­
pa percepite come intollerabili (evitamento esperienziale: evitamento
di pensieri, emozioni, sensazioni o altri eventi interni). Tuttavia, pur­
troppo, questi tentativi di evitare eventi interni indesiderati aumenta­
no, paradossalmente, la frequenza di comparsa di quegli stessi eventi
e di conseguenza proprio il tentativo di controllare queste esperienze
interne indesiderate è il problema per eccellenza nel DOC, e certamente
non la soluzione, come tende a essere interpretato dai pazienti. La tera­
pia, allora, potrà beneficiare in modo molto significativo dalla mindful­
ness, consentendo ai pazienti di sperimentare la futilità delle proprie
strategie di controllo e di incrementare la flessibilità e il decentramento
rispetto a quelle esperienze che cercano, invano, di controllare (Bach,
Moran, 2 008) .
Infatti, le strategie utilizzate dalle persone con DOC per liberarsi delle
esperienze cognitive ed emotive sgradevoli, non solo non funzionano,
ma spesso conducono a problemi clinici ed esistenziali ancora maggio­
ri, prima di tutto il cosiddetto "problema secondario" ( capitolo XII).
Ciò significa che si può aggiungere un altro problema clinico a quelli
ossessivi che già la persona presenta. Per esempio, una persona che non
vuole provare la sgradevole sensazione di mancanza di simmetria nella

360
La mind/ulness per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

sistemazione del proprio armadio può smettere di lavorare o arrivare


sempre più in ritardo sul luogo di lavoro per sistemare continuamente
l'ordine degli oggetti che sono collocati al suo interno, e poi deprimersi
e criticarsi perché non è in grado di avere una vita lavorativa normale.
Una persona che non tollera le immagini o i pensieri relativi alla possi­
bilità di essersi contaminata, può provare a liberarsene lavandosi conti­
nuamente, e poi colpevolizzarsi perché ritiene di star rovinando la vita
ai propri cari, oltre che a se stessa. Deprimersi, criticarsi, colpevolizzar­
si sono esempi di "problema secondario" che frequentemente turbano
i pazienti ossessivi.
La mindfulness può consentire ai pazienti di abbandonare la lotta
infruttuosa contro le proprie esperienze interne, nel vano tentativo di
neutralizzarle. Inoltre, dal momento che agisce a un livello gerarchica­
mente sovraordinato rispetto ai contenuti emotivi e cognitivi sgradevoli o
spaventanti, può avere un effetto ancora più radicale di altre procedure
maggiormente centrate sulla gestione del singolo contenuto (pensiero,
emozione, sensazione) (Didonna, 2009). In questo modo, infatti, il pa­
ziente può apprendere una strategia metacognitiva, che gli consente di
diventare osservatore non-giudicante dei propri processi mentali, indi­
pendentemente dai loro contenuti.
Una versione adattata per il DOC del protocollo MBSR può aumentare
anche la compliance agli interventi di esposizione con prevenzione della
risposta (E/RP), descritti nel capitolo XVI di questo volume, perché con­
tribuisce a renderli più tollerabili nella percezione del paziente, soprat­
tutto perché quest'ultimo apprende cosa fare (e cosa non fare) quando
compare il disagio (Strauss, Rosten, Hayward et al. , 2015). È importan­
te, naturalmente, tenere presente che nel DOC, così come nei disturbi
d'ansia, i pazienti possono erroneamente utilizzare la mindfulness co­
me tecnica di rilassamento, o come modalità di evitamento/neutralizza­
zione del contenuto mentale aversivo. Ciò è legato, però, a un'erronea
interpretazione del significato della mindfulness, che, seppure sempre
possibile quando viene proposta, va chiarita con il paziente.
Il protocollo originale di MBSR consiste in 8 incontri di gruppo a ca­
denza settimanale di circa due ore e trenta ciascuno, oltre a una giorna­
ta di pratica intensiva tra il sesto e il settimo incontro. Nel corso delle
settimane, vengono sperimentate pratiche formali di mindfulness qua­
li il body-scan, la meditazione seduta sul respiro, la meditazione cam­
minata, esercizi di mindful yoga, ecc. Tra un incontro e l'altro i par­
tecipanti debbono svolgere una serie di homework, tra i quali anche
la ripetizione quotidiana delle pratiche proposte durante gli incontri,

361
La clinica

grazie all'utilizzo di tracce audio fornite dall'istruttore. Nel body-scan,


per esempio, la persona porta l'attenzione consapevole a ogni parte del
corpo, dai piedi alla testa, provando a rimanere in contatto con le sen­
sazioni esperite e allenando la capacità di direzionare l'attenzione in
modo intenzionale, spostandola un po' alla volta da una zona del cor­
po a quella adiacente. Nella meditazione seduta sul respiro, la persona
porta l'attenzione alle sensazioni legate al respiro, che rappresenta una
sorta di àncora alla quale riconnettersi ogni volta che ci si accorge di
essersi allontanati da essa, a causa di pensieri, immagini mentali, sensa­
zioni corporee, impulsi. Queste e altre pratiche formali di mindfulness
costituiscono il focus della prima parte del protocollo, in cui è preva­
lente l'addestramento a incrementare la consapevolezza dell'esperienza
presente senza giudicarla. Vi è poi una parte del programma dedicata
allo stress, al riconoscimento delle situazioni stressanti per ciascun par­
tecipante, e allo sviluppo di strategie efficaci di gestione delle situazioni
difficili (sedute 4 , 5 e 6).
Negli adattamenti del protocollo MBSR al trattamento del DOC pub­
blicati finora, si sostituisce la parte dedicata allo stress con informazioni
specifiche sul disturbo ossessivo-compulsivo: sintomatologia, funziona­
mento, meccanismi di mantenimento. Inoltre, possono essere introdot­
ti esercizi specifici di deletteralizzazione o defusione (Barcaccia, 2012)
dell'ACT (Acceptance and Commitment Therapy) per incrementare la
capacità di gestione dei pensieri ossessivi (Patel, Carmody, Simpson,
2007 ) . Il protocollo di gruppo può essere trasformato in una terapia in­
dividuale, con sedute di durata inferiore (un'ora e mezza circa) .
Per ciò che concerne l'ordine in cui presentare al paziente le prati­
che formali della mindfulness, Patel, Carmody e Simpson (2007 ) sugge­
riscono, sulla base di quanto indicato da Kabat-Zinn, Chapman e Sal­
mon ( 1 997 ) , di cominciare da quelle pratiche di meditazione focalizzate
su oggetti di attenzione lontani dal modo dominante di manifestazione
dell'ansia in quel paziente. Per esempio, se in un paziente il modo do­
minante di manifestazione dell'ansia è somatico, mentre quello cogniti­
vo non è particolarmente elevato, un modo ragionevole di proporre gli
interventi di mindfulness è quello di predisporli nel corso della terapia
in un ordine che va da quelli più " cognitivi" a quelli più "somatici": me­
ditazione seduta, mindful yoga, meditazione camminata e body-scan. Il
fatto di seguire un ordine di questo tipo significa di fatto graduare l'e­
sposizione all'eventuale comparsa di stimoli temuti per livelli di difficol­
tà crescenti. Gli autori sottolineano, inoltre, che addestrare le persone
all'osservazione mindful, anziché a reagire, può aiutarle a sperimenta-

362
La mind/ulness per il trattamento del dùturbo ossessivo-compulsivo

re l'impermanenza delle emozioni e dei pensieri: tutti gli eventi privati


(pensieri, emozioni, sensazioni, impulsi) passano, basta avere la pazien­
za di attendere senza cercare di evitare, sopprimere o mettere in atto
compulsioni (Hayes, Feldman, 2004 ) .

Studi sperimentali sull'efficacia della pratica d i mindfulness


per il disturbo ossessivo-compulsivo

A oggi non sono stati ancora pubblicati studi controllati randomizzati


che abbiano applicato la MBCT a pazienti con DOC. Kiilz, Landmann, Clu­
dius e collaboratori (20 14) sottolineano come ciò sia sorprendente, consi­
derate le caratteristiche del disturbo, che lo rendono particolarmente indi­
cato a essere trattato usando un approccio di questo tipo. In una rassegna
della letteratura sulla mindfulness per il DOC, anche Hale, Strauss e Taylor
(2013 ) notano come, malgrado il numero elevatissimo di pubblicazioni
disponibili sull'efficacia della mindfulness, vi siano molte poche ricerche
sulla sua applicazione al trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo.
È però interessante notare che, tra i clinici, sia abbastanza diffuso l'u­
tilizzo di queste pratiche: in un'indagine recente su 1 8 1 psicoterapeuti,6
Jacobson, Newman e Goldfried (20 16) hanno evidenziato come più del­
la metà dichiari di utilizzare strategie terapeutiche basate sull'accetta­
zione e sulla mindfulness nel trattamento del DOC.
V0llestad, Nielsen e Nielsen (20 12) hanno condotto una rassegna si­
stematica della letteratura e una meta-analisi sull'uso di interventi basati
sulla mindfulness e sull'accettazione per pazienti con disturbi d' ansia:7
sono stati selezionati 19 studi, e confrontando i dati pre- e post-tratta­
mento sono emerse riduzioni statisticamente significative nella sintoma­
tologia ansiosa, così come nei sintomi depressivi presenti in comorbilità.
In un articolo recente, Strauss, Rosten, Hayward e collaboratori
(2015) hanno sottolineato le ragioni che rendono opportuna l'introdu­
zione della mindfulness nel trattamento del DOC: poco più della metà
dei pazienti ai quali viene proposta l 'E/RP ne trae, poi, effettivamente
beneficio; molti pazienti, invece, trovano che l'esposizione sia troppo
difficile. Inoltre, di coloro che si sottopongono al trattamento, circa il
25 % abbandonano la terapia prima che sia completata (drop-aut). In­
fine, tra i pazienti che portano a termine il trattamento, una parte non

6. L'età media degli psicoterapeuti era di circa 45 anni; la maggior parte di loro (più del 65 % )
aveva più di dieci anni d i esperienza clinica; ogni terapeuta aveva curato i n media, nel corso della
propria attività, tra i 30 e i 40 pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo.
7. Nel 2012, essendo in vigore il DSM-IV-TR, il disturbo ossessivo-compulsivo era ancora clas­
sificato tra i disturbi d'ansia.

363
La clinica

riesce a impegnarsi regolarmente con homework di EIRP, con la conse­


guenza che l'esito del trattamento sarà meno buono (Simpson, Maher,
Wang et al. , 201 1 ) . Ecco perché diversi autori sono concordi nel ritene­
re necessaria la messa a punto di altre strategie efficaci di trattamento,
ma anche di modalità di conduzione dell'esposizione con prevenzione
della risposta, che aumentino la compliance dei pazienti. In generale,
considerata l'efficacia dimostrata dell' E/RP nel trattamento del DOC, è
sempre raccomandato l'utilizzo in terapia di una qualche forma di espo­
sizione (Germer, Siegel, Fulton, 20 1 3 ) , ma, vista la difficoltà per il pa­
ziente a impegnarsi in tali compiti, la mindfulness può funzionare come
fattore facilitante 1' esposizione. Proprio su questa linea, Strauss, Rosten,
Hayward e collaboratori (20 1 5) rilevano come gli interventi basati sul­
la mindfulness (IBM) siano particolarmente utili per aumentare la col­
laborazione e l'adesione al trattamento di E/RP. In particolare, infatti,
l'esposizione elicita la comparsa di pensieri intrusivi che i pazienti ten­
derebbero a eliminare, mettendo in atto compulsioni di vario tipo, e gli
IBM possono addestrare le persone ad accettare la comparsa nella mente
di quei contenuti mentali, senza mettere in atto tentativi di sopprimerli
o neutralizzarli. Gli IBM, pertanto, possono essere d'aiuto nel rimanere
all'interno del compito di esposizione.
Lo stesso tipo di aiuto può essere fornito dagli IBM in relazione alla
comparsa di emozioni sgradevoli e dei loro correlati fisiologici, in par­
ticolare dell'ansia associata a ogni forma di esposizione. In altre paro­
le, la mindfulness fornisce un modello del come rimanere all'interno
dell'esperienza sgradevole, quando compaiono emozioni, pensieri, im­
magini mentali e sensazioni aversivi. Infine, gli IBM aiutano a far pren­
dere in considerazione, con maggiore accuratezza, le diverse possibilità
di reazione a un evento: il paziente può, così, imparare a riconoscere
il proprio impulso a reagire con degli automatismi alla comparsa delle
intrusioni, realizzando che ha la possibilità di scegliere: non si è "obbli­
gati" a obbedire all'impulso, si può scegliere di seguirlo, oppure si può
decidere di tenerlo lì, senza farsi guidare da esso nell'azione (Strauss,
Rosten, Hayward et al. , 2015 ) .
Anche s e a oggi il numero degli studi sull'applicazione della mindful­
ness al trattamento del DOC è limitato, e se ancora non è stato pubblicato
alcuno studio clinico randomizzato controllato, sono disponibili alcune
ricerche in cui si è valutata l'efficacia di interventi basati sulla mindful­
ness per ridurre i sintomi ossessivi: Hanstede, Gidron e Nylicek (2008)
hanno condotto uno studio in cui un gruppo di pazienti ha seguito un
protocollo di mindfulness, partecipando a 8 sedute settimanali della du-

364
La mindfulness per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

rata di un'ora ciascuna. Al post-trattamento è emersa una diminuzione


significativa ai punteggi dell'oCI-R. Wahl, Huelle, Zurowski e collabo­
ratori (20 1 3 ) hanno confrontato l'uso della mindfulness e le strategie
di distrazione. Al post-trattamento il gruppo mindfulness evidenziava
maggiori riduzioni dei livelli d'ansia e minore impulso a neutralizzare
rispetto al gruppo distrazione.
Sono stati pubblicati anche casi singoli8 che suggeriscono l'utilità
della mindfulness per il trattamento del disturbo (vedi, per esempio,
Wilkinson-Tough, Bocci, Thorne et al. , 2010).
Hertenstein, Rose, Voderholzer e collaboratori (2012) hanno invece
condotto uno studio pilota su un piccolo gruppo di 12 pazienti con di­
sturbo ossessivo-compulsivo, dal quale sono stati tratti dati soprattutto
di tipo qualitativo, oltre alla valutazione della sintomatologia ossessiva
pre- e post-trattamento. Lo scopo del lavoro era infatti principalmente
quello di valutare come venisse recepito il protocollo MBCT dai parteci­
panti. Inoltre, tramite un'intervista semistrutturata individuale, propo­
sta entro due settimane dalla fine del trattamento, gli autori hanno po­
tuto raccogliere dati sulle difficoltà incontrate nel corso del protocollo,
sull'esperienza vissuta, su eventuali cambiamenti osservati nel corso del­
le settimane di terapia, ecc. I risultati mostrano che i partecipanti hanno
ben accolto il protocollo, e dal punto di vista sintomatico si è registrato
un miglioramento clinicamente significativo.
Kiilz, Landmann, Cludius e collaboratori (20 14) hanno pubblicato
il progetto per uno studio controllato randomizzato sull'uso della MBCT
per il DOC, che è in corso di attuazione a Friburgo e a Amburgo (Germa­
nia) . La ricerca prevede il confronto tra 8 sessioni di MBCT e 8 sessioni
della stessa durata di un corso di psicoeducazione sul DOC (senza com­
ponenti di mindfulness né di esposizione) . Gli autori presentano det­
tagliatamente gli strumenti di misura che useranno e perché, così come
dettagliano le analisi statistiche che saranno condotte, e naturalmente
propongono delle ipotesi sui risultati attesi. In particolare, verrà utiliz­
zato un protocollo MBCT adattato all'uso con pazienti ossessivi, disponi­
bile però per ora solo in lingua tedesca (Kiilz, Rose, 2014). I risultati di
questa prima ricerca controllata randomizzata sull'utilizzo della MBCT
per il DOC saranno particolarmente significativi per valutare l'efficacia
della mindfulness nel trattamento del DOC.

8. Vi è anche uno studio su caso singolo a linee di base multipla su un piccolo campione di 6
pazienti, in cui gli autori riportano miglioramenti della sintomatologia, misurati con la Y-BOCS e
con la SCL-90, e incremento dei punteggi nelle sottoscale osservare, descrivere, agire con consape­
volezza e non-giudizio della FFMQ (Liu, Han, Xu, 201 1), ma il lavoro è stato pubblicato in cine­
se (a eccezione dell' abstract, che è anche in lingua inglese) pertanto è difficile trarre conclusioni.

365
La clinica

Effetti avversi e controindicazioni all'utilizzo della mindfulness

La mindfulness è stata definita come una pratica sicura, senza partico­


lari effetti collaterali (Dobkin, lrving, Amar, 2012). Ciò non toglie che si
possano verificare eventi avversi, durante e dopo la pratica, quali ansia,
disorientamento, sintomi dissociativi, ecc. A oggi, non sono disponibili
studi che abbiano indagato tali effetti collaterali in modo specifico e li
abbiano posti in relazione con la diagnosi pre-esistente, né ricerche che
abbiano esplorato i meccanismi che possono condurre a effetti avver­
si (Hanley, Abell, Osborn et al. , 2016). Inoltre è spesso difficile trarre
conclusioni chiare, perché alcuni studi riguardano l'intero protocollo
MBSR, altri la sola pratica della mindfulness, taluni indagano i protocol­
li di gruppo, altri l'applicazione della pratica alla terapia individuale.
Considerando le diverse popolazioni cliniche, alcuni autori suggeri­
scono una certa cautela nell'utilizzo della mindfulness per il trattamento
della psicosi, del disturbo da stress post-traumatico, e una particolare
prudenza nel far partecipare a incontri intensivi/ritiri, individui che han­
no iniziato da poco tempo ad accostarsi a queste pratiche. In particolare
ciò che può accadere riguarda il possibile incremento di pensieri/emo­
zioni sgradevoli, concomitante però a un molto minore impatto degli
stessi sulla qualità di vita delle persone (Dobkin, lrving, Amar, 2012).
Tuttavia va considerato che i dati provenienti fino a oggi da ricer­
che su varie popolazioni cliniche non sono particolarmente dirimenti,
si citano infatti effetti avversi, ma si riportano risultati "incoraggianti e
promettenti" per la medesima tipologia di pazienti (per esempio, psi­
cotici) . Pertanto è necessaria la cautela e il giudizio clinico nell'utilizzo
della mindfulness in psicoterapia, così come nella decisione di quando
introd urla nel corso del trattamento, di come motivare il paziente ad af­
frontare le inevitabili difficoltà che si incontreranno.
Per ciò che concerne eventuali effetti avversi si può distinguere tra
quelli momentanei e quelli che perdurano: un effetto momentaneo po­
trebbe essere un temporaneo incremento del disagio relativo, per esem­
pio, alle sensazioni fisiche che può, però, far parte dell'apprendimento
della transitorietà di tutte le esperienze risultando, in ultima analisi, utile
a fini terapeutici. In fondo la mindfulness incrementa la consapevolezza
di tutte le esperienze, negative e positive, e può accadere che il paziente
sperimenti delle sensazioni di disagio che, però, possono essere gestite in
modo efficace dal terapeuta proprio per condurre la persona al passag­
gio successivo: l'esperienza della transitorietà di tutto ciò che si presen­
ta alla coscienza. In questo senso, anche in presenza momentanea di un

3 66
La mind/ulness per il trattamento del dz5turbo ossessivo-compulsivo

disagio, non si può parlare, in senso stretto, di "effetti avversi" della pra­
tica. Certamente è possibile che invece si verifichino reali effetti avversi
per errori dello psicoterapeuta dovuti a una sua formazione inadeguata
e a un'incapacità nel gestire difficoltà che possono insorgere nella pratica
clinica. Sulle "credenziali" dello psicoterapeuta, la sua " autenticità " , la
necessità che abbia avuto un'adeguata e approfondita formazione sulla
mindfulness, l'opportunità della sua pratica personale, sono stati pub­
blicati diversi lavori, ai quali si rimanda per un approfondimento (vedi,
per esempio, Germer, Siegel, Fulton, 20 1 3 ; McCown, Reibel, Micozzi,
20 1 1 ) . Come ha affermato}on Kabat-Zinn "l'insegnamento deve scatu­
rire dalla pratica personale"9 (Kabat-Zinn, 20 1 1 , p. XVIII).
Come accennato, non vi sono dati specifici su eventi avversi occorsi in
pazienti con DOC durante o dopo le pratiche, né controindicazioni parti­
colari: il clinico deve saper valutare, caso per caso, l'opportunità di usare
la mindfulness, e deve, inoltre, essere in grado di preparare il paziente
a eventuali disagi nel corso degli esercizi proposti, e al senso che hanno
all'interno della terapia. Certamente non è pensabile di proporre un in­
tervento simile a una persona con ossessioni e compulsioni prima di aver
effettuato un'adeguata formulazione del caso, averla condivisa con lei, in
particolare evidenziando gli effetti dei tentativi di soluzione e i meccani­
smi di mantenimento. Inoltre, tipicamente un individuo con DOC potrà
avere molti dubbi sulla corretta esecuzione della pratica, e potrà quindi
applicare il suo tipico atteggiamento anche rispetto a questo compito. Il
terapeuta esperto saprà gestire questa difficoltà, magari anticipando alla
persona che alcuni tipici ostacoli probabilmente si presenteranno, nor­
malizzando tale eventualità, aiutando così il paziente con DOC a incre­
mentare la propria consapevolezza sul disturbo, e anche la compliance.
Rispetto all'accettabilità delle pratiche e alla compliance a tale tipo
di impegno, in un vecchio studio di Kabat-Zinn e Chapman-Waldrop
( 1 988) furono studiati 7 84 partecipanti al programma MBSR che pre­
sentavano varie patologie organiche e psicologiche. Il 7 6% dei soggetti
completò il programma di otto settimane, mentre il 24 % interruppe il
percorso. A differenziare significativamente coloro che avevano com­
pletato il programma e coloro che non lo avevano portato a termine, e
a rendere ragione di una maggiore compliance, era proprio la dimen­
sione Ossessività-Compulsività (0-C): all' aumentare dei punteggi nel­
la dimensione ossessivo-compulsiva della SCL-90-R, aumentava anche la
probabilità che avessero completato il programma.

9. "The teaching has to come out of one's practice" (Kabat-Zinn, 201 1 , p. XVIII).

367
La clinica

In generale, un dato abbastanza condiviso dalle varie ricerche che


hanno indagato il tasso e le ragioni dell'abbandono del corso MBSR è
l'osservazione che chi lascia il programma di Mindfulness-based Stress
Reduction, lo fa in fasi molto iniziali, di solito entro il terzo incontro
(Dobkin, lrving, Amar, 2012). In sintesi, la letteratura mostra che il tas­
so di abbandoni, sia nel programma MBSR sia nella MBCT, dipende dalla
motivazione dei partecipanti, e che non è possibile, a oggi, prevedere
chi abbandonerà il trattamento basandosi, per esempio, su età, genere,
patologia presentata.
In ogni caso, come è stato giustamente sottolineato, la mindfulness
non va considerata come una panacea in grado di guarire ogni sofferen­
za (Hanley, Abell, Osborn et al. , 2016; Pollak, Pedulla, Siegel, 2014), ed
è importante essere vigili per monitorare i benefici, ma anche i possibili
effetti avversi della pratica.

CONCLUSIONI

n disturbo ossessivo-compulsivo è una malattia mentale estremamen­


te invalidante, con una prevalenza in tutto il mondo e in tutte le culture
pressoché uguale (2-3 % ) , che impone elevati costi personali, familia­
ci e sociali. Malgrado siano oggi disponibili interventi di provata effi­
cacia sperimentale per il trattamento del DOC, è necessario ampliare le
nostre conoscenze sulle terapie efficaci per questo disturbo. Se è vero,
infatti, che negli ultimi cinquant'anni la mole di dati e di conoscenze su
questo disturbo è aumentata in modo esponenziale (basti pensare che
era considerata una malattia bizzarra e oscura, totalmente refrattaria al
trattamento fino alla metà del secolo scorso), le terapie disponibili sono
ancora esigue, riducendosi alla terapia cognitivo-comportamentale e a
quella farmacologica, e non sono pienamente soddisfacenti (Barcaccia,
Dèttore, Mancini, 2012).
Il prezzo che pagano i pazienti, ma anche i loro familiari, è davvero
enorme, non solo in termini di sofferenza morale ed emotiva. L'OMS,
all'interno di un elenco di malattie che considera congiuntamente quel­
le organiche e psichiatriche, ha posto il DOC al decimo posto in termini
di disabilità e invalidazione della qualità di vita (WHO, 1992 ) . Infatti, si
tratta di una patologia che può causare, tra gli altri effetti dolorosi, pro­
blemi relazionali, disaccordo coniugale, separazione, ecc. Inoltre, il di­
sturbo ossessivo-compulsivo, spesso, interferisce con le capacità della
persona di studiare e/o lavorare, o rendendo queste attività pressoché

368
La mind/ulness per il trattamento del diSturbo ossessivo-compulsivo

impossibili, o ponendo una grande quantità di ostacoli al loro naturale


svolgimento.
È molto recente l'interesse per l' applicazione dei protocolli basati
sulla mindfulness al trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e,
finora, non sono stati pubblicati studi clinici randomizzati controllati,
pertanto non si hanno ancora a disposizione dati definitivi sulla sua ef­
ficacia e sui potenziali effetti avversi con questa popolazione. Si può,
però, affermare che alcuni dati preliminari indicano le terapie basate su
mindfulness e accettazione come promettenti per il trattamento del DOC.
Inoltre, considerata la percentuale di pazienti che non riesce a trarre
sufficienti benefici dalla terapia di prima linea per il DOC (Tec con EIRP) ,
si pone la forte necessità di mettere a punto altri trattamenti efficaci. Tali
trattamenti non solo aiuterebbero coloro che non hanno avuto partico­
lari vantaggi dalla psicoterapia standard, ma offrirebbero una possibili­
tà di cura a coloro che rifiutano di sottoporsi al protocollo EIRP, perché
spaventati dalla sua difficoltà (Kiilz, Landmann, Cludius et al., 2014).
L'aggiunta della componente della mindfulness alla psicoterapia cogni­
tiva potrebbe effettivamente aprire nuovi percorsi di cura.

3 69
XVIII

L'INTERVENTO PER LA RIDUZIONE


DELLA VULNERABILITÀ ATTUALE AL DOC
Teresa Cosentino, Angelo Maria Salianz; Claudia Perdighe,
Giuseppe Romano, Francesco Mancini

Nel capitolo che descrive il rationale dell'intervento, sono stati messi


in luce due obiettivi da perseguire nel trattamento del DOC: nel dominio
sintomatico, la riduzione dei processi ricorsivi che alimentano e man­
tengono il disturbo; la riduzione della sensibilità del paziente verso le
colpe in generale, fuori dal dominio sintomatico.
In questo capitolo ci soffermeremo proprio su quest'ultimo obietti­
vo, cominciando dalle ragioni che ci portano a ritenere necessario tale
intervento.
Il paziente ossessivo, oltre al timore di colpa specifico che caratteriz­
za il dominio sintomatico (contaminarsi, provocare l'esplosione del pa­
lazzo, investire qualcuno alla guida della propria automobile, ecc.) che
orienta e motiva la condotta ossessiva, presenta una generale sensibilità
verso il tema della colpa che si concretizza nella sua propensione a spe­
rimentare sensi di colpa, temerli e cercare di prevenirli. Le parole di un
paziente sintetizzano bene questo aspetto: "E come se avessi installato
sulla testa un radar che mi segnala continuamente i modi e le occasioni
in cui potrei rendermi colpevole e disprezzabile moralmente" .
Dunque, il timore di colpa specifico va a inserirsi i n una più ge­
nerale sensibilità verso tale esperienza. I pazienti ossessivi, infatti, si
caratterizzano per un'elevata colpa di tratto (D'Olimpio, Cosentino,
Basile et al. , 2013 ), per una spiccata e pervasiva tendenza ad autocriti­
carsi e colpevolizzarsi (Shapiro, Stewart, 2 0 1 1 ) e per il sistematico mo­
nitoraggio della propria condotta morale (Doron, Moulding, Kyrios
et al. , 2008 ) .
Tale sensibilità è connessa all'aspettativa del paziente che anche a pic­
cole mancanze seguiranno rimproveri meritati, duri e sprezzanti (Ehn­
tholt, Salkovskis, Rimes, 1 999) e alla sua tendenza a rappresentarsi la

371
La clinica

possibilità di essere colpevole come una catastrofe, come un'esperienza


inaccettabile e insopportabile, da prevenire a tutti i costi.
Quanto tale evenienza sia considerata drammatica si evince chiara­
mente dalle parole di questo paziente: " Non riesco neanche a immagi­
nare che la mia vita continui dopo essermi macchiato di una colpa così
grave (far soffrire la moglie non amandola più), non mi sentirei più un
ess�re umano degno di stima . . . Devo assolutamente impedire che ciò
accada, e vigilando, impegnandomi e anche sacrificandomi, debbo fare
in modo che ciò non capiti mai ! " .
I n altre parole, giudicando inaccettabile e intollerabile l'esperien­
za della colpa, il paziente ossessivo tenta a tutti i costi di prevenire tale
evenienza e si impegna perciò in un continuo monitoraggio della pro­
pria condotta morale. Questo monitoraggio, abbinato agli elevati stan­
dard morali che lo caratterizzano, fa sì che con maggiore probabilità il
paziente possa notare i suoi errori, per i quali poi tende a criticarsi e a
sperimentare intensi sensi di colpa.
Tale sensibilità di base verso l'esperienza della colpa diventa il terreno
fertile per l'innesco del DOC, rappresentando così un importante fattore
di vulnerabilità per lo sviluppo di questo disturbo.
Alla luce di tali considerazioni, favorire e promuovere la riduzione
di questa generale sensibilità verso la colpa è a nostro avviso opportu­
no per almeno due finalità: disattivare il disturbo e ridurre il rischio di
ricadute future.
Se si aiuta il paziente a sdrammatizzare in generale la possibilità di
essere colpevole e a vedere tale esperienza come tollerabile seppure
dolorosa, allora diminuirà il suo impegno a prevenire tale evenienza e,
dunque, anche la sintomatologia ossessiva che mira a proteggerlo da tale
minaccia in un dominio-specifico. In alcuni casi, quindi, se l'intervento
sui processi ricorsivi si dimostra difficilmente praticabile (per esempio,
per i numerosi e pervasivi sintomi) , impossibile (per esempio, per le dif­
ficoltà del paziente ad affrontare i sintomi) o quando tale strategia sia
già stata applicata ma senza risultati, si potrà promuovere la riduzione
della sensibilità alle colpe, con l'aspettativa che da ciò derivi un genera­
le abbassamento della guardia sul piano morale e, con effetto a cascata,
una remissione della sintomatologia ossessivo-compulsiva.
Studi su casi singoli da noi condotti (Cosentino, Mancini, 2012; Per­
dighe, Mancini, 2012b) hanno documentato una remissione dei sintomi,
nonostante non fossimo intervenuti direttamente sui processi ricorsivi
nell'area sintomatologica, ma ci fossimo limitati a favorire la riduzione
della generale sensibilità dei pazienti verso le colpe.

372
L'intervento per la riduzione della vulnerabilità attuale al DOC

Ridurre il rischio di ricadute future è un'altra finalità per cui ritenia­


mo necessario l'intervento sulla sensibilità alla colpa. Infatti, seppure
attraverso l'intervento sui processi ricorsivi si sia ottenuta la remissione
dei sintomi, la persistente sensibilità di base del paziente verso le colpe,
l'immutato investimento sul piano morale e il continuo monitoraggio
della sua condotta per rilevare possibili errori rendono concreto il ri­
schio di riattivazione del DOC nel futuro.

COME FAVORIRE LA
RIDUZIONE DELLA SENSIBILITÀ ALLE COLPE

Attraverso l'intervento descritto in questo capitolo si vogliono crea­


re le condizioni affinché il paziente arrivi a giudicare l'essere colpevole
come una condizione tollerabile, nell'ordine naturale delle cose, impos­
sibile da evitare con certezza assoluta e sia disposto, perciò, ad accettare
quel rischio di esserlo che tutte le persone normalmente sopportano.
Nel capitolo XV si è parlato estesamente delle procedure e delle tec­
niche da adottare per favorire l'accettazione della minaccia di colpa spe­
cifica che caratterizza il dominio sintomatico.
In questa parte dell'intervento il focus è, invece, sul favorire l' ac­
cettazione dell'esperienza della colpa a tutto campo, fuori dal dominio
sintomatico, la percezione di sé come di essere umano degno di stima
seppure fallibile.
Le strategie, le procedure e le tecniche da adottare per favorire tale
cambiamento sono quelle descritte nel capitolo XV, seppure con conte­
nuti e accortezze differenti.
Anche il raggiungimento di tale obiettivo, come nel caso dell'accet­
tazione delle colpe specifiche del dominio sintomatico, infatti, passa at­
traverso la ristrutturazione delle credenze alla base di tale sensibilità,
tra cui il ritenere che l'esperienza della colpa abbia un valore e conse­
guenze molto negative e che sia nelle possibilità del paziente e suo do­
vere impegnarsi per prevenirla. Le tecniche e le procedure da adopera­
re dovranno, dunque, aiutare il paziente a vedere come insufficienti e
controproducenti, oltre che molto costosi, i suoi tentativi di prevenire
le colpe; a perdonarsi e riconoscersi il diritto di sbagliare; a constatare
la tollerabilità di tale esperienza.
L'intervento così strutturato, centrato sull'accettazione della colpa e
sulla riduzione della sensibilità generale del paziente verso tale esperien­
za, è già stato da noi sperimentato con quattro pazienti ossessivi (Co­
sentino, D'Olimpio, Perdighe et al. , 2012) che presentavano tipologie

373
La clinica

di disturbo piuttosto differenti: una ragazza affetta da DOC scaraman­


tico, caratterizzato dal timore che l'immagine mentale di una persona
che aveva avuto sfortune e fallimenti nella vita potesse causare sciagure
a sé o ai suoi familiari, cui seguivano compulsioni di neutralizzazione
comprendenti lavaggi e ripetizione di gesti e azioni senza l'immagine
pericolosa in mente; un ragazzo ossessionato dalla paura di poter esse­
re omosessuale, con compulsioni di controllo della propria sessualità;
una ragazza ossessionata dal timore della contaminazione morale, cui
seguivano lavaggi, preghiere compulsive ed evitamenti; il quarto pazien­
te, infine, era ossessionato da dubbi dai contenuti più vari e irrilevan­
ti, ma che sentiva compulsivamente di dover risolvere per evitare che
compromettessero il suo funzionamento e, dunque, la sua realizzazione
esistenziale. In tutti e quattro i casi, la sintomatologia ossessiva ricadeva
pesantemente sulla vita quotidiana dei pazienti.
L'intervento proposto, centrato proprio sulla riduzione della sensibilità
alla colpa fuori dal dominio sintomatico, si è dimostrato efficace nel pro­
durre una significativa riduzione dei sintomi e un generale miglioramento
della qualità della vita in tutti e quattro i casi e i risultati si sono mantenuti
stabili nel tempo (follow-up a l anno; Saliani, Cosentino, D'Olimpio et
al., 2013 ) . L'efficacia dell'intervento è stata misurata impiegando un di­
segno a baseline multipla fra soggetti, con il trattamento introdotto dopo
10 o 20 giorni dall'inizio del monitoraggio della sintomatologia di base.
Di seguito, nel suggerire strategie e procedure per ridurre la sensi­
bilità del paziente verso le colpe, faremo riferimento al protocollo d'in­
tervento adottato nello studio appena citato.

LE FASI DELL'INTERVENTO

L'intervento si compone di due parti, la prima più motivazionale e


la seconda finalizzata all'accettazione, cognitiva ed esperienziale, della
colpa in domini non sintomatici.

Prima parte

La prima parte, per la quale dovrebbero essere sufficienti all'incirca


quattro sedute, ha l'obiettivo di aiutare il paziente a riconoscere la cen­
tralità del timore di colpa nella sua vita quotidiana, al di fuori del domi­
nio sintomatico, e in che maniera e misura questo lo renda vulnerabile al
DOC. Di fondamentale importanza, in questa prima fase, è allenare il pa-

374
I:intervento per la riduzione della vulnerabilità attuale al DOC

ziente a riconoscere e individuare l'attivazione del timore di colpa che si


concretizza in un preciso e tipico dialogo interiore di autorimprovero e
in tentativi di prevenire, giustificare o rimediare alle proprie colpe. Se il
paziente, infatti, avrà chiaro quanto sia sensibile alle colpe in generale e
quanto e come questa sua sensibilità pesi e determini la sua sintomatolo­
gia ossessiva, sarà più motivato a impegnarsi nel trattamento successivo.
In questa fase del trattamento, dunque, si dovrà avere cura di rico­
struire la frequenza, le situazioni e i momenti in cui la sensibilità del pa­
ziente verso l'esperienza della colpa si manifesta nella sua vita quotidia­
na, fuori dal dominio sintomatico. Per raggiungere tale obiettivo, oltre
all'analisi degli episodi di attivazione del timore di colpa riferiti sponta­
neamente dal paziente, è consigliabile approfondire ponendogli le se­
guehti domande esplorative.
- "Pensando alla sua vita, lontano dal suo disturbo e dalla sintomato­
logia ossessiva, con che frequenza nel corso della giornata le capita
di sentirsi in colpa per cose che ha fatto? "
- "Quanto spesso durante i l giorno le capita di evitare di fare qualco­
sa o, al contrario, di sentirsi obbligato a fare qualcosa per evitare di
sperimentare sensi di colpa? "
Si dovrà avere cura di rintracciare anche il dialogo interiore che si
attiva nel momento in cui il paziente ritiene di essersi reso colpevole di
qualcosa o teme che ciò possa accadere, le sensazioni fisiche che accom­
pagnano tale stato emotivo e la spinta all'azione che ne deriva, e adde­
strarlo al riconoscimento di tutte queste componenti. Si potrà guidare
il paziente con domande del tipo:
- " Nel momento in cui ha pensato di essersi reso colpevole di qualcosa
o che ciò sarebbe potuto accadere, cosa si è detto? "
- "Quali frasi le capita di rivolgere a s e stesso in quelle circostanze?
Con quale tono di voce immagina di parlare a se stesso? "
- "In quei momenti, sente di dover fare qualcosa di particolare per ri­
durre le sensazioni che prova e interrompere quel dialogo interno? "
- "Quanto spesso le capita di rimproverarsi, giustificarsi o scusarsi per
qualcosa che ha fatto per cui teme di meritare un rimprovero? "
Per allenare poi il paziente a riconoscere il timore di colpa e render­
lo sempre più consapevole della sua centralità, lo si invita a tenere un
diario (vedi tabella 1 8 . 1 ) degli episodi in cui si attiva, esterni al dominio
sintomatico, chiedendogli di monitorare e riportare il dialogo interno,
le sensazioni corporee e le spinte all'azione che li caratterizzano.

375
La clinica

Tabella 18.1 Esempio di diario del timore/senso di colpa.

Situazione in cui Cosa si è detto? Quali sensazioni Cosa ha fatto


si è attivato Con quale tono corporee sentiva? o sentiva di dover
il timore/senso di voce? Quanto erano fare per sentirsi
di colpa intense? (0-100) meglio?
Al semaforo, Con tono Forte pressione Mi sono scusato
quando mi sono sprezzante: " Sono sul petto e lungamente
accorto di non un approfittatore, se tachicardia (70) e quando ho potuto
avere monetine fossero tutti come me sono ritornato
da dare al il mondo andrebbe per dargli
lavavetri in rovina! ". delle monetine

Una volta ricostruita e condivisa la centralità e pervasività del timore


di colpa nella vita quotidiana del paziente, fuori dal dominio sintomati­
co, e il modo in cui tale sensibilità determina e favorisce il DOC, si passa
a illustrare e condividere il rationale dell'intervento successivo.
Partendo dalla concettualizzazione secondo cui è l'iperinvestimento
nello scopo di non rendersi responsabile di azioni o omissioni colpevo­
li a renderlo vulnerabile al disturbo ossessivo, si condividerà con il pa­
ziente che l'obiettivo strategico è far in modo che percepisca tale eve­
nienza come ineludibile perché facente parte dell'ordine naturale delle
cose, che accetti la possibilità che a lui, come a ogni altro essere umano,
potrebbe capitare di comportarsi in maniera moralmente criticabile.

Seconda parte

Questa seconda parte ha come obiettivo la promozione dell'accetta­


zione della possibilità di rendersi responsabile di azioni o omissioni mo­
ralmente criticabili, sempre al di fuori del dominio sintomatico.
Come anticipato nell'introduzione di questo capitolo e trattato am­
piamente nel capitolo XV, per promuovere l'accettazione e favorire il
disinvestimento da un certo scopo si dovrà agire sulle credenze che so­
stengono tale investimento, impiegando le tecniche e le procedure de­
scritte di seguito.

"È possibile evitare il rischio di comportarsi in maniera colpevole"


Per favorire la ristrutturazione della credenza che porta il paziente a
ritenere che sia nelle sue possibilità eludere del tutto il rischio di com­
portarsi in modo colpevole, si potrà cominciare con il dialogo socratico.
A tale scopo potrà essere utile tracciare su un foglio un'ipotetica linea
della vita, da O fino a 80 anni (durata media della vita) per poi chiedere

376
L'intervento per la riduzione della vulnerabilità attuale al DOC

al paziente di immaginare un bambino appena nato e seguire progressi­


vamente lo svolgersi della sua vita lungo quella linea. Ci si sofferma, via
via, sulle varie fasce di età, ponendo al paziente domande che aiutino a
far emergere l'inevitabilità delle colpe:
"Ora quel bambino ha l anno; può immaginare di quali colpe po­
trebbe essersi reso responsabile nel frattempo ? "
- "Quel bambino è cresciuto, ora h a 5 anni; quali altre colpe potrebbe
aver accumulato? "
- "Ora quel bambino è diventato un giovane ragazzo e di quali altre
colpe potrebbe essere ritenuto responsabile? "
"La sua vita scorre e ora è un adulto; quali altre colpe potrebbe aver
accumulato? "
E così via, fino ad arrivare al termine della linea dov'è rappresentata
l'età senile, ripetendo le stesse domande. Si conclude con il chiedere al
paziente se ritiene possibile che questa persona compia l'intero arco del­
la sua esistenza senza mai essere incappato in una colpa, senza mai esser­
si reso responsabile di qualche comportamento moralmente criticabile.
Si potrà terminare questo intervento chiedendo al paziente di pensare
a differenti culture e religioni per tentare d'individuarne qualcuna che
non preveda il concetto di colpa, peccato, perdono e pena. L'esistenza
di tali concetti in culture e religioni anche molto differenti dimostra im­
plicitamente l'inevitabilità delle colpe e dei peccati.
Un altro strumento utile per favorire la ristrutturazione di tale cre­
denza è la Lista delle possibili colpe suggerita da Dèttore (2003 ) , che
utilizziamo con qualche piccola modifica (tabella 1 8.2) . In questo caso, si
traccia con il paziente una tabella di cinque colonne, come quella ripor-

Tabella 18.2 Esempio di lista delle possibili colpe.

Azioni Possibili Prevenzione Conseguenze Conseguenze della


quotidiane colpe certa della prevenzione prevenzione sul
per il paziente genere umano se
tutti adottassero
tale soluzione
Parlare Dire qualcosa Tacere in Isolamento, Gravi danni
di offensivo presenza perdita economici e sociali,
Ferire l'altro d'altri dell'autonomia fino all'estinzione
stessa della specie
Camminare Provocare gravi Restare Isolamento, Gravi danni
danni a persone, immobili perdita economici e sociali,
cose e animali dell'autonomia fino all'estinzione
stessa della specie

377
La clinica

tata poco sopra e gli si chiede di trascrivere nella prima colonna azioni
che normalmente compie durante la sua giornata, azioni non intaccate
dai suoi timori ossessivi. Successivamente, per ognuna di esse, si cerca­
no possibili colpe di cui ci si potrebbe rendere responsabili compiendo
quell'azione (colonna 2 ) e i provvedimenti che si dovrebbero prendere
per essere certi di non correre tali rischi (colonna 3 ) . A questo punto,
si riflette sulle conseguenze che tali provvedimenti preventivi avrebbe­
ro nella vita delpaziente (colonna 4) e sull'intero genere umano, se tut­
ti gli esseri viventi adottassero tale p rovvedimento, su scala mondiale
( colonna 5 ).
Al termine di questa procedura, con la tabella sottomano, si domanda
al paziente se abbia mai riflettuto sulla quantità di rischi di colpa, anche
abbastanza probabili, che ogni giorno tollera compiendo le azioni che
normalmente caratterizzano la sua quotidianità e sul perché ogni giorno
accetti di correrli di fatto, senza prendere i provvedimenti necessari a
prevenirli. Ciò consentirà di riflettere sull'impossibilità di prevenire ed
evitare qualsiasi colpa e i disastrosi effetti che deriverebbero dai prov­
vedimenti preventivi. Inoltre, renderà più agevole l'intervento succes­
sivo sull'accettazione esperienziale della colpa, dato che il paziente do­
vrà solo riportare in altri ambiti quello che normalmente accade già in
molte aree della sua esistenza.
Una nostra paziente giunse a questa conclusione: " Ogni giorno corro
il rischio di rendermi responsabile di qualche colpa camminando, par­
lando, mangiando e prevenirle tutte sarebbe impossibile se non a fronte
di costi elevatissimi, in ultimo la sopravvivenza stessa" .

"Mi conviene impegnarmiper evitare di comportarmi


in maniera moralmente criticabile"
Le riflessioni derivanti dall'impiego della Lista delle possibili colpe
aprono la strada agli interventi inerenti la convenienza dell'investire
sulla prevenzione dell'esperienza della colpa e della possibilità di com­
portarsi in maniera moralmente criticabile. Fino a che il paziente riterrà
conveniente investire in tale direzione, la sua vulnerabilità al DOC reste­
rà invariata. Questo punto può essere affrontato in almeno due modi.
n primo è la lista dei costi e dei benefici della prevenzione, a confron­
to con i costi e i benefici derivanti dall'assunzione di una prospettiva di
accettazione del rischio.
Si procede suddividendo un foglio in due colonne, una per elenca­
re i costi e l'altra per i benefici connessi alla prevenzione. In questa fase

378
I:intervento per la riduzione della vulnerabilità attuale al DOC

sarà importante aiutare il paziente, in una sorta di brainstorming, a rin­


tracciare voci sia dell'una sia dell'altra colonna, per fare in modo che la
tabella sia quanto più completa e descrittiva possibile di ciò che gli ac­
cade. Terminata questa fase, si procede con l'attribuzione di un valore
a ciascuna voce individuata, in termini di quanto quel singolo fattore
pesi o sia importante nella vita del paziente su una scala da O a 100 (da
per nulla importante a fondamentale). Si prosegue poi, su un altro fo­
glio, allo stesso modo con la lista dei costi e dei benefici che potrebbe­
ro derivare da una prospettiva di accettazione del rischio di colpa. Una
volta ultimata l'attribuzione dei singoli valori si procede con il calcolo
dei quattro valori totali derivanti dalla loro somma, uno per ogni colon­
na: valore dei costi della prevenzione e dei suoi benefici; valore dei costi
dell'accettazione e dei suoi benefici.
Da un confronto tra tali valori emergerà con chiarezza il costo enor­
me della prevenzione, rispetto ai benefici che ne derivano, e la maggior
convenienza dell'accettazione.
Un intervento più esperienziale che va nella stessa direzione, è la tec­
nica delle due sedie (Perls, Hefferline, Goodman, 1 95 1 ), che consente
di confrontare i costi e i benefici delle due prospettive, quella accettan­
te e quella preventiva. Non entreremo qui nel merito della procedura,
già descritta dettagliatamente nel capitolo xv. Vale la pena, invece, sof­
fermarci, a titolo esemplificativo, sui costi che la prima paziente sentiva
di pagare per effetto dei suoi tentativi di prevenire il senso di colpa, tra
cui accettare di fare cose che non voleva fare (per anni ha avuto le pare­
ti della sua camera colme di bambole di ceramica che lei odiava e che le
facevano paura e ha seguito corsi di danza classica e pianoforte per non
contraddire la madre che, invece, amava tutto ciò); rinunciare a fare le
cose che avrebbe voluto fare, come per esempio fare amicizia con per­
sone che a sua madre non piacevano, fare un viaggio con il suo partner
e avere rapporti intimi con lui.
La paziente ha sintetizzato i costi con la considerazione che "Com­
portandomi in questo modo sento che sto vivendo una vita che non è
mia, non guidata da quello che sento e voglio io; sto perdendo gli anni
migliori della mia vita, nessuno me li restituirà" . Per contro, la paziente
ha sintetizzato i costi che immaginava connessi al comportarsi "colpe­
volmente" con il dover subire i rimproveri, molto sprezzanti, e il bron­
cio di sua madre, evenienza molto dolorosa per lei: "Immagino la sua
faccia, la sua bocca assume un'espressione particolare, sembra disgu­
stata da me ! ".

379
La clinica

"È moralmente inaccettabile non /are di tutto per azzerare


anche il minimo rischio di colpa"
Come descritto nel capitolo xv, questa credenza, spesso implicita,
può essere modulata in diversi modi, tra cui la tecnica del doppio stan­
dard modificato (Mancini, 2005 ; van Oppen, Arntz, 1 994) .
Per esempio, con il quarto paziente ci si è soffermati con questa tec­
nica sulla sua possibile colpa di trascurare per qualche giorno il suo im­
pegno da volontario in un canile, confrontato con l'immaginare che ciò
fosse capitato a suo fratello, verso il quale nutriva grande stima e affet­
to. Al termine della procedura, il paziente si è reso conto di quanto ten­
desse a incolpare se stesso: "Ho abbandonato i cani che dico di amare,
ora non potranno uscire per tre giorni solo perché io non ho voglia di
occuparmi di loro" , e quanto, invece, fosse benevolo e disposto al per­
dono nei confronti del fratello: "È possibile, può succedere che non si
abbia voglia di fare il proprio lavoro di volontariato; è un impegno ex­
tra, non è un obbligo ! E poi, se ha sbagliato, che si può fare? Tutti sba­
gliano prima o poi". Anche immaginando la valutazione dei tre giudici
"esterni" , si rese conto di quanto li immaginasse più benevoli e disposti
a perdonare allo stesso modo il fratello e lui stesso. Il paziente così ha
potuto rendersi conto di applicare a sé, ma non ad altri, standard mo­
rali troppo elevati e la riflessione è proseguita cercando di individuare
cosa giustificasse una tale difformità di aspettative e sull'opportunità e
funzionalità del mantenere tale prospettiva.
Una volta illuminati tali elementi, gli è stato suggerito di provare a
interrompere quel dialogo interiore critico, di autorimprovero, che si
presentava più volte durante la giornata, e provare ad adottare un atteg­
giamento più benevolo e indulgente verso se stesso, come ha immagi­
nato che lui farebbe nei confronti del fratello e come ha ipotizzato che
i tre giudici esterni farebbero nei confronti di entrambi.

"Se mi comportassi in modo colpevole,


ci sarebbero delle conseguenze terribili, sarebbe una catastrofe"

Ultimo elemento sul quale intervenire al fine di promuovere il di­


sinvestimento dallo scopo di evitare le colpe è la tendenza del paziente
a catastrofizzare tale scenario. Finché il paziente continuerà a ritenere
catastrofica l'esperienza della colpa si impegnerà nella sua prevenzione.
Come illustrato nel capitolo xv sull'accettazione, per favorire la
sdrammatizzazione di tale eventualità è utile e opportuno consentire
al paziente di fare esperienze contrarie che gli consentano di verificare,

3 80
I:intervento per la riduzione della vulnerabilità attuale al DOC

" di toccare con mano" , che il senso di colpa, per quanto spiacevole, è
sopportabile e, per quanto intenso, è destinato a scemare. A tale scopo,
potranno essere impiegati sessioni di esposizione con prevenzione della
risposta appositamente progettate con il paziente, in grado cioè di at­
tivare il suo timore di colpa, ricorrendo a scenari in immaginazione, in
vivo o misti. Durante le sessioni di esposizione il focus sarà sul disagio
sperimentato dal paziente, sulle sensazioni fisiche associate e sul dialogo
interno, facendo al contempo attenzione a prevenire qualsiasi tentativo
di alleviare o neutralizzare il senso di colpa.
Per esempio, per i quattro pazienti dello studio citato sono state im­
piegate esposizioni in vivo a situazioni di questo tipo (ispirate a quelle
descritte da De Silvestri, 1999) :
- chiedere indicazioni stradali a un passante impegnato in una conver­
sazione telefonica;
urtare con noncuranza una persona in metropolitana e non scusarsi;
in un negozio di scarpe provarne diverse paia e andar via senza ac­
quistarne nessuno;
in un bar affollato ordinare un panino e per tre volte consecutive
chiedere al barista di sostituirlo perché si è cambiato idea;
- saltare la fila al supermercato;
sull'autobus non cedere il posto a sedere a una persona anziana o in­
cinta;
- per strada rispondere in maniera sbrigativa a una richiesta di infor­
mazioni;
- dal parrucchiere cambiare idea sulla piega fatta e chiedere di rifarla.
Gli esercizi riportati hanno solo valore esemplificativo; per essere
efficaci, infatti, come descritto nel capitolo XVI sull'E/RP, devono esse­
re in grado di attivare il disagio e, dunque, andranno di volta in volta
progettati con il singolo paziente. Allo stesso modo, si dovrà avere cura
di prevenire le specifiche strategie di neutralizzazione che il paziente
tende a mettere in atto per lenire il senso di colpa.
Una volta attivato il timore di colpa, con esposizioni in vivo o im­
maginative, il terapeuta dovrà fare in modo che esso rimanga attivo,
prevenendo il ricorso a comportamenti di neutralizzazione e favoren­
do il contatto con ciò che il paziente sperimenta in quel momento, a
livello emotivo, cognitivo (per esempio, dialogo interiore di autoac­
cusa e rimprovero) e somatico. L'obiettivo è la decatastrofizzazione
dell'esperienza della colpa e ciò potrà avvenire solo a condizione che
il paziente la sperimenti, ci rimanga in contatto, non faccia nulla per

381
La clinica

contenerla, in maniera tale che abbia modo di modificare le sue aspet­


tative catastrofiche.
Sarà importante, dunque, ricordare al paziente di astenersi dal pre­
venire, contenere o lenire il senso di colpa, di esporsi a esso e concen­
trare la sua attenzione sui pensieri di autoaccusa che si attiveranno, sulle
emozioni e sensazioni che sperimenterà. Per esempio, durante l' espo­
sizione nel negozio di scarpe il nostro paziente riportò questi pensieri:
" Il commesso del negozio di scarpe si è affaticato inutilmente a causa
delle mie richieste che lo hanno costretto a fare su e giù dal magazzi­
no; magari avrà ricevuto pure un rimprovero da parte del responsabile
del negozio per aver perso tempo con me e immagino che maltratterà
i prossimi clienti a causa del nervosismo che ha accumulato con me! " ,
accompagnati d a u n intenso senso di colpa che avvertiva, a livello so­
matico, come un peso sul petto.
Sarà dunque compito del terapeuta guidare il paziente per tutta la
durata dell'esposizione, finché il timore di colpa non si sarà estinto o
dimezzato, con frasi del tipo:
" Osservi i suoi pensieri, le emozioni e sensazioni e non faccia nulla
per modificarli o annullarli" ;
"Mi racconti quali pensieri o immagini l e passano per la mente";
"Mi descriva le sensazioni che prova: in quale parte del corpo le sen­
te, come sono fatte? " ;
"Rimanga concentrato su queste sensazioni, le segua, me le racconti;
noti quanto sono intense, quanto durano" .
Queste esperienze permetteranno al paziente di rivedere le sue cre­
denze sulla catastroficità dell'esperienza della colpa, consentendogli di
sperimentare che per quanto spiacevole e dolorosa è un'esperienza tol­
lerabile, attraversabile e destinata a finire.
Una paziente dello studio citato, al termine dell'intervento, disse:
" Ora penso alle colpe come a delle strisce pedonali tracciate sulla stra­
da: sono inevitabili, devo e posso passarci sopra se voglio proseguire con
la mia vita, se non voglio rimanere bloccata" .

CONCLUSIONI

In tutto il volume la sintomatologia ossessiva è stata concettualizzata


come la manifestazione del tentativo del paziente di prevenire/neutra­
lizzare una specifica minaccia di colpa che va a inserirsi in un quadro

3 82
L:intervento per la riduzione della vulnerabilità attuale al DOC

più generale di sensibilità verso il rischio di essere colpevole. La dimo­


strazione di tale sensibilità più generale è data dalla frequenza con cui si
attivano timori di colpa nella quotidianità del paziente, anche al di fuori
del dominio sintomatico, nella sua disposizione a sperimentare sensi di
colpa e ad autorimproverarsi e criticarsi aspramente.
Da tale concettualizzazione deriva che è possibile ottenere la risolu­
zione del disturbo anche riducendo questa sensibilità generale. Come
specificato nel capitolo di introduzione alla terapia, tale intervento sarà
dunque di particolare utilità quando quello sui processi ricorsivi si ri­
vela impraticabile.
Nella maggior parte dei casi, comunque, l'intervento per la riduzio­
ne della vulnerabilità al DOC sarà associato a quello sui processi ricorsivi
per consentire di mantenere stabili nel tempo i risultati ottenuti e ridur­
re il rischio di ricadute future. Se l'iperinvestimento sul piano morale e
la tendenza a catastrofizzare l'esperienza della colpa permangono, no­
nostante la remissione dei sintomi ottenuta con l'interruzione dei pro­
cessi ricorsivi, è molto probabile che in futuro possa esserci una nuova
attivazione del disturbo. Al contrario, ridurre la sensibilità generale del
paziente verso le colpe significa favorire il disinvestimento da tale ambi­
to, un abbassamento della guardia rispetto ai possibili errori e, dunque,
ridurre la vulnerabilità all'attivazione futura del disturbo.
In questo capitolo abbiamo visto come favorire tale processo, stra­
tegie e tecniche da adottare, già dimostratesi efficaci in alcuni studi da
noi condotti (Cosentino, D'Olimpio, Perdighe et al. , 2012; Cosentino,
Mancini, 2012; Perdighe, Mancini, 2 0 12b).
Tra le difficoltà che si potrebbero incontrare va certamente anno­
verata la possibilità che alcuni pazienti potrebbero non esser disposti
ad affrontare la parte più esperienziale dell'esposizione alle colpe. Una
strada percorribile in questi casi è quella di ridurre la vulnerabilità in­
tervenendo direttamente sui ricordi di episodi che hanno sensibilizzato
il paziente in tale direzione, come si vedrà nel capitolo successivo.

3 83
XIX

IL LAVORO SULLA VULNERABILITÀ STORICA


Katia Tenore, Andrea Gragnani

INTRODUZIONE

Come argomentato nei capitoli precedenti, il timore di colpa e la sen­


sibilità ai temi di responsabilità svolgono un ruolo centrale come deter­
minanti psicologici prossimi e fattori di mantenimento della sintomato­
logia ossessiva. L'osservazione clinica e la letteratura scientifica sul tema
hanno evidenziato che uno stile educativo improntato sulla minaccia alla
relazione o su un'eccessiva moralità sono associati allo sviluppo del DOC
(vedi capitolo x). Ricatti emotivi colpevolizzanti o la minaccia di ritiro
dell'affetto, in caso di non adesione alle regole morali o prestazionali
proposte, contribuiscono all'inaccettabilità della colpa. Trascurare il la­
voro sulla vulnerabilità del paziente può esporlo a un maggiore rischio
di ricaduta sintomatologica (DeRubeis, Webb, Tang et al. , 2010) e, nel
caso del DOC, è dunque necessario affrontare la sensibilità al timore di
colpa e al disgusto.
L'intervento sulla vulnerabilità storica è, quindi, incentrato sulla ri­
costruzione della storia di vita del paziente con particolare attenzione
all'individuazione del clima familiare/educativo e di eventi (o traumi)
che possono averlo sensibilizzato al timore di colpa o al disgusto. Il la­
voro, inoltre, è volto non solo a normalizzare il carico emotivo legato a
ricordi di colpevolizzazione, ma anche alla modifica dell'attribuzione
della propria colpevolezza in eventi passati e a una maggiore tolleranza
alla possibilità di esserlo in futuro.
L'osservazione clinica ha evidenziato come sia possibile rintracciare,
nei ricordi dei pazienti ossessivi, delle scene con caratteristiche ricorren­
ti. La ricostruzione della loro storia di vita suggerisce che, per esempio,
gli episodi di rimprovero sono caratterizzati da:

385
La clinica

un atteggiamento critico da parte del genitore, connotato da un'e­


spressione facciale che manifesta rabbia sprezzante (Mancini, Perdi­
ghe, Serrani et al. , 2006) ;
una comunicazione dai contenuti aggressivi e svalutanti e caratteriz­
zata nella forma da un tono della voce critico o da urla;
- una reazione imprevedibile o incoerente con il comportamento tipi­
co del genitore;
- una risposta genitoriale caratterizzata dall' assenza di spiegazioni e
dal "muso" verso il bambino;
l'attivazione nel bambino di colpa deontologica e/o sensazione di
aver causato disgusto;
l'assenza di riconciliazione.
Il lavoro per rendere gli episodi sensibilizzanti meno salienti da un
punto di vista emotivo e per riformulare le credenze su di sé e sugli al­
tri, si avvale di tecniche quali l'Imagery Rescripting largamente impie­
gata nella Schema Therapy (Arntz, Jacob, 2013 ; Tenore, Serrani, 2013;
Young, Klosko, Weishaar, 2003 ; Arntz, Weertman, 1 999) ; il protocollo
Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Petrilli, 2014;
Shapiro, 200 1 ) ; e alcune tecniche proposte dalla Compassion Focused­
Therapy (Gilbert, 2010).
Nello specifico, considerando che diverse tecniche si sono dimostra­
te utili nel desensibilizzare il paziente rispetto a ricordi o temi parti­
colarmente dolorosi, riteniamo che sia opportuno che il terapeuta se­
lezioni la tecnica che maggiormente supporti il rationale terapeutico.
A tal proposito, risulta particolarmente utile per modificare le creden­
ze su di sé o sugli altri la tecnica di lmagery Rescripting, che permette
di osservare, da un punto di vista più maturo, le esperienze di critica
genitoriale e aiuta il paziente a focalizzarsi sui bisogni frustrati al mo­
mento dell'evento avverso. Se si rintracciano nella storia di vita episodi
traumatici multipli (DPTSc) (Van der Kolk, 2005 ; Herman, 1 992) che,
di solito, comportano una particolare difficoltà di accesso a immagi­
ni, contenuti ed emozioni, è preferibile l'impiego del protocollo EMDR.
Si tratta, in questi casi, di pazienti esposti a una precoce iper-respon­
sabilizzazione, perché la gravità e l'urgenza delle situazioni traumati­
che familiari richiedeva decisioni troppo gravose per una personalità
in via di sviluppo (Salkovskis, Shafran, Rachman et al. , 1 999). Se nella
storia del paziente ci sono episodi in cui egli ritenga di aver causato un
danno effettivo, sono preferibili le tecniche basate sulla Compassion
Focused-Therapy (Gilbert, 2010), volte a promuovere il perdono di sé
(Salkovskis, Shafran, Rachman et al. , 1 999) .

3 86
Il lavoro sulla vulnerabilità storica

IMAGERY RESCRIPTING

L'lmagery Rescripting (lmR) è un intervento che ha come focus i ri­


cordi traumatici ed è attualmente utilizzato nella terapia sia dei disturbi
di personalità sia dei disturbi d'ansia e dell'umore (Arntz, 2012; Wild,
Hackmann, Clark, 2007) . L'ImR si basa su alcuni assunti. In accordo
con il primo, la psicopatologia dipende ed è mantenuta da schemi di­
sfunzionali su se stessi o sugli altri. Il secondo afferma che tali schemi
disfunzionali si siano formati a seguito di esperienze precoci trauma­
tiche, caratterizzate dalla frustrazione di un bisogno primario. Il ter­
zo assunto dice che è possibile rivivere gli episodi traumatici e modi­
ficare il vissuto legato a essi. Il quarto assunto prevede che modificare
tali vissuti implichi un cambiamento funzionale degli schemi (Tenore,
Serrani, 20 1 3 ) .
Una recente ricerca (Veale, Page, Woodward et al. , 2015) h a fornito
prove sull'efficacia di un intervento di lmR per la riduzione della sinto­
matologia ossessiva. Gli autori hanno selezionato dodici soggetti DOC
che avevano ricordi dolorosi connessi con la sintomatologia ossessiva,
caratterizzati dal timore di contaminazione o dal timore di poter cau­
sare un danno. Dopo aver registrato il livello sintomatologico, i ricer­
catori hanno condotto una singola seduta di lmR. Se, nell'immediato,
è stata rintracciata solamente una minima riduzione sintomatologica, a
distanza di tre mesi i soggetti presentavano una notevole riduzione nel­
la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS), da una media di
24, l a una di 10,7. A distanza di tre mesi, 7 dei 12 partecipanti, avevano
raggiunto un significativo cambiamento nella propria sintomatologia e
tra questi, 2 sono risultati addirittura asintomatici.
È da notare come la maggior parte dei partecipanti coinvolti nello
studio in questione riportassero ricordi dolorosi caratterizzati da colpa
e disgusto di sé.
La sessione di lmR è, di solito, intrapresa in una condizione di si­
curezza e benessere, per esempio immaginando di essere in un luogo
sicuro (Tenore, Serrani, 2013 ); ha come focus un evento doloroso re­
cente; sfrutta un'emozione ponte, che connette a episodi del passato
caratterizzati dallo stesso contenuto emotivo, che sono, poi, modificati
a livello immaginativo. Per mettere in connessione l'evento attuale con
quello passato si suggerisce al paziente di connettersi alle credenze o al­
le sensazioni fisiche caratterizzanti l'evento attuale, attraverso la tecnica
del Floatback (Browning, 1 999) , o semplicemente si invita il paziente a
restare in contatto con l'emozione esperita. L'emozione o la sensazione

387
La c!ùzica

somatica che emerge viene definita "ponte" perché apre un varco attra­
verso cui giungere a eventi passati caratterizzati dallo stesso contenu­
to emotivo (o somatico) . Questo effetto sfrutta quei fenomeni chiamati
mood congruence (Blaney, 1 986), in cui il materiale emotivo è ricordato
con maggiore affidabilità in stati emotivi simili a quelli dei ricordi (un
esempio è la produzione di ricordi dal contenuto triste, quando si è de­
pressi) e mood dependence, il processo di facilitazione della memoria
quando l'emozione al momento del recupero è simile a quella della co­
difica (Ellis, Ashbrook, 1 99 1 ) .
La tecnica di ImR consiste in sette fasi:
l . Induzione di uno stato di rilassamento e sicurezza. n terapeuta chiede
al paziente di chiudere gli occhi e di descrivere il suo luogo sicuro, cioè
un ambiente, reale o di fantasia, in cui si sente completamente a suo agio.
Alcuni pazienti, soprattutto quelli con un passato traumatico, possono
sperimentare difficoltà e frustrazione nell'accedere a un'immagine di
completa sicurezza. In questo caso può essere utile che terapeuta e pa­
ziente concordino insieme il luogo sicuro, che può essere, per esempio,
la stessa stanza di terapia.
2. Ilfocus dall'immagine del luogo sicuro è spostato su quella di un evento
attuale doloroso. n paziente è invitato a descrivere, al tempo presente, la
situazione che ha generato sofferenza, soffermandosi e descrivendone,
nel maggior dettaglio possibile, le caratteristiche ambientali, contestuali
e relazionali. La descrizione dettagliata dell'evento comporta l'accesso
alle cognizioni e intensifica nel paziente le emozioni e le sensazioni cor­
poree sperimentate.
3 . Facendo soffermare il paziente sullo stato emotivo attuale o sulle co­
gnizioni connesse alla scena, il terapeuta lo invita a ricercare nei propri
ricordi dell'infanzia un episodio dalla stessa valenza emotiva o dallo stes­
so contenuto cognitivo.
4 . Una volta emerso il ricordo, il terapeuta chiede al paziente di descri­
verne dei dettagli, come se l'evento si stesse verificando proprio in quel
momento, facendo porre il paziente nella prospettiva di se stesso bambi­
no. Per rendere l'immagine più vivida e quindi intensificare le emozioni
esperite, è utile attivare quanti più canali sensoriali possibile, stimolando
il paziente con domande su odori, rumori, colori, materiali presenti nel­
la scena. A discrezione del terapeuta, nel caso in cui per il paziente sia
troppo doloroso, non è necessario che siano riportati i dettagli della sce­
na traumatica. Non trattandosi di una tecnica espositiva, infatti, l'unica

3 88
Il lavoro sulla vulnerabilità storica

condizione per il suo funzionamento è l'attivazione dello stato emotivo.


Dopo che il paziente ha descritto l'evento emerso come se si trattasse
di una fotografia, vengono esplorate le emozioni e le sensazioni che av­
verte a livello somatico. Della scena emersa si analizzano il contesto, i
protagonisti e le interazioni.

5 . Una volta ottenuta una descrizione completa della scena, il terapeu­


ta propone al paziente di cambiare punto di osservazione e di descrivere
nuovamente la scena, ma guardandola attraverso gli occhi dell'adulto che
è oggi. La descrizione dell'evento deve centrarsi su diversi elementi del­
la scena, sulle emozioni nel rivedersi bambino e sull'esplorazione dei
pensieri e dei vissuti nel riattraversate l'episodio. È fondamentale che
a questo punto il paziente riconosca ed esprima quale sia il bisogno di
base frustrato nella scena originaria, che ha dato origine alla sofferenza
e alla formazione di credenze su se stesso o sugli altri. Messo a fuoco il
bisogno fondamentale frustrato, il paziente è invitato a inserire nell'im­
magine un elemento di cambiamento che possa, a livello immaginativo,
fornire la soddisfazione del bisogno in questione. L'elemento di cam­
biamento, cioè il rescripting, può consistere, per esempio, nel cambia­
mento di un elemento contestuale, un atteggiamento diverso da parte
dei protagonisti della scena, nell'introduzione di una figura di aiuto che
si prenda cura del bisogno del bambino. La figura di aiuto può essere, a
livello immaginativo, una figura affettiva del paziente (attuale o passata) ,
una figura protettiva (per esempio, un nonno, il medico di famiglia) , il
paziente da adulto o il terapeuta stesso.

6. Indipendentemente dalla soluzione scelta dal paziente, o suggerita


dal terapeuta nel caso il paziente non sia in grado di immaginarne una,
il paziente è invitato a entrare in contatto con le emozioni di sicurezza
e di attaccamento nella prospettiva del bambino, bisogni fondamentali
secondo Young (Young, Klosko, Weishaar, 2003 ) . La soddisfazione, a
livello immaginativo, del bisogno primario, come, per esempio, nel ca­
so del rescripting di una scena di criticismo, comporta la riduzione di
emozioni quali colpa, vergogna e tristezza e l'emergenza della sensazio­
ne di essere rassicurato.

7 . Una volta giunti a una completa soddisfazione del bisogno emerso e


frustrato in passato sarà possibile abbandonare l'immagine, spostando
l'attenzione su una scena rilassante (per esempio, il luogo sicuro) oppure
ritornando alla scena stressante attuale affinché il paziente possa speri­
mentare nuove modalità di risposta ai propri bisogni emotivi.

3 89
La clinica

Tabella 19.1 Adattato da Arntz e }acob (2013).

l. Rilassamento ed eventuale Immaginazione del luogo sicuro


2. Focus attraverso l'immaginazione sulla situazione attuale stressante
e sulle emozioni che la caratterizzano
3 . Emozione ponte. Entrando in contatto con l'emozione esperita nella situazione
attuale, questa è collegata con una del passato, possibilmente dell'infanzia
4. Esplorazione della scena emersa
5. Introduzione di un elemento di cambiamento o di una figura che si prenda
cura dei bisogni del bambino
6. Esperienza di soddisfazione dei bisogni primari
7. Opzionale trasferimento alla situazione attuale problematica

Schematicamente è possibile riassumere il processo di ImR come


nella tabella 1 9 . 1 .
I ricordi selezionabili per il lavoro di ImR non devono essere neces­
sariamente unici, possono riflettere anche stili educativi o relazionali e
situazioni, che il paziente ha vissuto più volte. Inoltre non è necessario
che gli eventi siano perfettamente chiari nel ricordo. È possibile, per di
più, utilizzare come focus la stessa scena finché questa non perda di va­
lenza emotiva.

Esempi di rescripting

ESEMPIO l
Elisa, paziente con ossessioni aggressive.
Evento critico attuale: Elisa è in ufficio, le viene in mente il sogno che ha fat­
to stanotte. È un brutto sogno, era in macchina e aveva investito un passante.
All'improvviso un dubbio l'attanaglia. E se non fosse un sogno, ma un ricordo?
Emozione ponte: Elisa sperimenta senso di colpa, ha la sensazione che un'onda
di calore la stia pervadendo e prova un forte peso sul petto. Il terapeuta chiede
alla paziente di focalizzarsi sull'emozione provata e di cercare tra i ricordi uno
in cui da bambina si trova a sperimentare le stessa emozione.
Evento emerso con l'emozione ponte: Elisa ha 7 anni e frequenta la scuola ele·
mentare, in cui lavora anche la madre. È ricreazione, tutti i bambini corrono
per le scale e nell'euforia Elisa cade, non si ferisce ma sente male al ginocchio.
Non è difficile trovare la mamma in quella piccola scuola di provincia e Elisa
la cerca dicendosi che così avrebbe potuto farsi consolare per il dolore al gi·
nocchio e per lo spavento della caduta. Elisa va incontro alla madre, la ricono·
sce da lontano con i suoi vestiti austeri, lo sguardo severo e un po' sofferente.
Quando la incontra, le racconta, piangendo, l'accaduto. La madre (affetta da
una grave forma di DOC) le controlla il grembiulino bianco ma un po' impol·

3 90
Il lavoro sulla vulnerabilità storica

verato, glielo toglie e le dice: " Non stai mai attenta, come al solito sei superfi­
ciale e sbadata. Ma potevi stare più attenta invece di combinare sempre guai !
E ora non appena torneremo a casa sarò costretta a lavare tutti i tuoi vestiti,
come se non fossi già così impegnata, come se già non mi sacrificassi abbastan­
za. Come te lo devo dire che devi stare più attenta? " . Elisa smette di piangere,
abbassa lo sguardo e si dice che non è giusto che la mamma si preoccupi per
quello che combina lei, che non è una brava bambina perché l'ha fatta arrab­
biare e si sente in colpa.
Emozione esperita: colpa.
Bisogno: Elisa vorrebbe che la madre le dicesse che non importa e che la reputa
ugualmente una brava bambina e che la consolasse per lo spavento della caduta.
Rescripting: " Elisa adulta" entra nell'immagine e dice alla madre: " Non vedi
come hai fatto sentire quella povera bambina, ti rendi conto che hai un proble­
ma e pure grave? Ti devi far curare, non puoi continuare a sottomettere tutta
la famiglia al tuo disturbo! " . La madre comprende lo stato emotivo di " Elisa
piccola" la prende in braccio e la consola.
Riattribuzione: " Mamma aveva e ha tuttora un problema. Povera Mamma, mi
dispiace tanto, ma non ero una bambina sbadata, ero una bambina come tutte
le altre. Non devo stare sempre così attenta, posso abbassare le difese e goder­
mi un poco la vita anch'io " .

ESEMPI0 2
Emilia, paziente con timore di contrarre il virus dell'HIV.
Evento critico attuale: Emilia è nel giardino dell'università e parla con una sua
amica che è da poco tornata dal Brasile. A un tratto le viene in mente che il Bra­
sile è un paese in cui le norme igieniche non sono affidabilissime. "E se Cinzia
avesse fatto sesso con un ragazzo brasiliano? Io l'ho baciata sulla guancia, co­
me faccio a essere sicura che non abbia contratto anch'io il virus dell'HIV? " In
preda all'ansia chiama la madre per cercare delle rassicurazioni. La madre, di
tutta risposta, le dice che è un'irresponsabile, che all'università ci si va per stu­
diare e non per parlare con le amiche dei viaggi !
Emozione ponte: timore di colpa, che la paziente avverte a livello somatico al­
la bocca dello stomaco. Il terapeuta chiede a Emilia di entrare in contatto con
l'emozione provata e di sfogliare i ricordi del passato per trovarne uno, in cui
da bambina si è sentita proprio così.
Evento emerso con l'emozione ponte: è domenica pomeriggio, Emilia ha 14 an­
ni, con le scarpe e i jeans sporchi di erba, è appena tornata dal parco, dove,
nel tentativo di arrampicarsi su un albero, si è ferita a una mano. Nella grande
casa, seduto alla scrivania, nel suo studio ordinato, c'è il padre, di cui Emilia
ha timore perché la sgrida spesso. Il padre è assorto nelle sue letture e nei suoi
conti, ma quando si accorge della ferita si arrabbia molto e le dice: " Non sei
responsabile e non metti attenzione quando fai le cose ! Hai rischiato di farti
male davvero! Ti potevi rompere una gamba ! E poi come avresti fatto con la
scuola? Ti sanguina la ferita ! Ti rendi conto di chi frequenta i parchi pubblici?

391
La clznìca

I drogati ! Non è che ti sei ferita con qualche siringa che spuntava dall'albero?
Hai controllato bene ? " .
A quel punto Emilia prima cerca di spiegare al padre che non c'era nessuna
siringa né altri pericoli evidenti, poi si confonde, non ricorda se ha controllato
e non riesce a dare una risposta al padre, che continua ad arrabbiarsi e a criti­
carla per il comportamento scriteriato.
Emozione esperita: colpa.
Bisogno: Emilia riporta che in quel momento desiderava che il padre la conso­
lasse, ma soprattutto aveva bisogno che il padre tenesse in considerazione la
sua capacità di giudizio.
Rescripting: Emilia adulta non è più confusa, ora è arrabbiata e in maniera sec­
ca e diretta si rivolge al padre: "Smetti di mettere in discussione le mie parole !
Non trattarmi come una bambina, sarò in grado di riconoscere se da un albe­
ro spuntano delle siringhe? E poi che assurdità è questa? Aghi che fuoriesco­
no dalla corteccia dell'albero? Sei tu quello strano a immaginare cose bizzarre
come queste! " .
Riattribuzione: Non sono una persona irresponsabile e distratta, anzi ! Quello che
penso è vero, sono una persona credibile, basta con il mettere in dubbio tutto !

L'EYE MOVEMENT DESENSITIZATION


AND REPROCESSING (EMDR)

L'Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) è un "in­


tervento efficace sugli eventi traumatici o altamente stressanti, e come
tale, interviene su questi target avvalendosi di un modello teorico, il
modello dell' Adaptive Information Processing, che riconosce alla ba­
se della patologia i ricordi legati a esperienze di vita traumatiche e i si­
stemi di elaborazione dell'informazione della mente" (Petrilli, 2014, p.
15). L'EMDR è un trattamento basato sui movimenti oculari bilaterali
che nasce per la terapia del disturbo da stress post-traumatico (Shapi­
ro, 201 1 ) . Il terapeuta stimola il movimento oculare bilaterale attraverso
l'oscillazione della mano, oppure attraverso altre forme di stimolazione
alternata destra/sinistra, quali tamburellamenti sul dorso delle mani o
suoni alternati. Sebbene l'EMDR abbia mostrato qualche iniziale prova
di efficacia per la terapia del DOC in studi su casi singoli (Marr, 2012;
Bohm, Voderholzer, 2 01 0 ) , in questa sede suggeriamo di impiegare il
protocollo per gli episodi traumatici di colpevolizzazione o critica o di
sensibilizzazione al disgusto, che possono aver strutturato la sensibili­
tà alla colpa e al disgusto. Il protocollo è indicato per quei pazienti che
presentano lacune di memoria e ricordi dissociati, come esito di ripetuti
traumi connessi alla relazione con la figura d' attaccamento. In tali casi

3 92
Il lavoro sulla vulnerabilità storica

una forzatura verso una descrizione dettagliata degli eventi prototipici


legati alla colpa sarebbe inutile, se non dannosa. Il protocollo EMDR per­
mette invece di rielaborare l'esperienza a partire solo da alcuni elementi
salienti del ricordo traumatico.
Il protocollo consta di otto fasi così articolate (per un approfondi­
mento si rimanda a Petrilli, 2014 e a Shapiro, 20 1 1 ) e adattate all'inter­
vento nel DOC.
l . Anamnesi del paziente e individuazione dei target da elaborare, in
riferimento agli eventi passati che hanno contribuito alla formazione
della sensibilità alla colpa e/o al disgusto.
2 . Preparazione del paziente all'elaborazione del target, attraverso la
psicoeducazione.
3 . Accesso al target attraverso la stimolazione di elementi primari del
ricordo come l'immagine negativa e le credenze negative su di sé, le
credenze positive su di sé auspicate, le emozioni e le sensazioni fisi­
che attuali e una valutazione del disagio esperito (SUD) .
4 . Desensibilizzazione del ricordo dell'evento target e dei ricordi a esso
collegati.
5 . Installazione delle credenze positive.
6. Scansione corporea ed elaborazione delle sensazioni fisiche residue.
7 . Chiusura e proposta al paziente di strategie di autocontrollo per la
gestione del tempo tra le sedute.
8. Rivalutazione degli effetti del trattamento in particolare con riferi­
mento alla disposizione del paziente a esporsi al rischio di potersi
considerare colpevole.
Al termine del lavoro di desensibilizzazione e di riprocessamento dei
ricordi traumatici è possibile intervenire sulle situazioni attuali e future
in cui il paziente potrebbe sperimentare emozioni simili a quelle dell'e­
vento target, al fine di favorire la generalizzazione dei risultati.

Esempi di intervento con EMDR

ESEMPIO l
Anna è una ragazza di 27 anni, che vive con suo marito e con la loro bambina di
5 anni. Le sue ossessioni sono di poter contrarre il virus dell'HIV e di sporcarsi
con la sua stessa urina. Le compulsioni consistono in lunghi rituali di lavaggio.
A volte si sente obbligata a gettare i vestiti indossati, se ha il dubbio che questi
siano stati sporcati dall'urina. Durante la ricostruzione della storia di vita, Anna
sembra raccontare la storia di una famiglia normale e amorevole, a eccezione di
un periodo della sua vita di cui ha scarsa memoria ma che spesso riaffìora alla sua

393
La clinica

coscienza come un momento buio di grande solitudine e dolore, a cui si associa


la sensazione di qualcosa di sporco sul suo corpo. La memoria corporea è molto
intensa e oltretutto facilmente riconducibile alla sensazione attuale di disgusto.
L'intervento con l'EMDR inizia su questa memoria corporea. Durante la stimo­
lazione bilaterale ricorda l'immagine di suo zio che la molestava sessualmente
associata a intense emozioni di disgusto e colpa, come se tutto fosse avvenuto
a causa sua. L'elaborazione continua e Anna immagina che questo possa acca­
dere anche a sua figlia: " Una bambina di 5 anni quale colpa potrebbe avere? " ;
ora s i rivede piccola e innocente e accede finalmente alla pena e al dolore. Gra­
zie all'emersione del ricordo traumatico è stato possibile lavorare con Anna sul
suo senso di indegnità e sulla credenza negativa di essere "una persona sporca" .

ESEMPI0 2
Claudio è un uomo di 65 anni, il suo disturbo ossessivo-compulsivo lo affligge
da circa quarant'anni. Le sue ossessioni consistono nel timore di causare dan­
no ad altri, timore che raggiunge il suo apice mentre è alla guida della sua auto
ma che si presenta anche quando passeggia per strada o apre e chiude le por­
tiere della macchina. I suoi rituali consistono nel dover ripercorrere mental­
mente la scena "incriminata" valutandone tutti gli elementi utili per rassicurarsi
di non aver fatto del male ad alcuno. La ricostruzione della storia di vita e in
particolare il Floatback sulle sensazioni fisiche legate al timore di colpa hanno
lasciato emergere memorie antiche risalenti ai suoi 13 anni quando il padre, al­
colista, faceva rientro a casa ubriaco. Non era violento fisicamente, ma urlava
e inveiva contro la madre di Claudio. 13 anni non erano tanti, ma sufficienti ad
assumersi la responsabilità di contenere il padre prendendolo per le braccia e
intimandogli di fermarsi.
Gli elementi salienti del ricordo si cristallizzano in una sola immagine: il
padre inerme e indifeso e le parole "Vorresti uccidere tuo padre? " . Nel rievo­
care questi ricordi trapela la commozione e la forte pena per il padre che ve­
de inerme, addolorato e deluso dal suo comportamento. " Era come sparare
sulla croce rossa ! " , afferma. Gli occhi si riempiono di lacrime e la colpa ha fi­
nalmente accesso alla sua coscienza. La terapia con l'EMDR ha previsto diverse
sessioni di rielaborazione del ricordo e in particolare del vissuto di colpa a es­
so collegato. La direzione del cambiamento si definirà nel desiderio di sentirsi
"una brava persona" .

LE TECNICHE DELLA COMPASSION-FOCUSED THERAPY

Le tecniche della Compassion-Focused Therapy (Gilbert, 2010) pos­


sono essere impiegate nel lavoro sulla vulnerabilità storica, in riferi­
mento a quegli episodi in cui il paziente si considera colpevole di aver
causato un danno o in presenza di generale autocritica o autocolpevo­
lizzazione, al fine di promuovere un atteggiamento più accettante verso
i propri bisogni, le proprie debolezze e le proprie mancanze.

3 94
Il lavoro sulla vulnerabilità storica

Una tecnica efficace consiste nella stesura della lettera compassio­


nevole.
L'esercizio non è solo un allenamento a raccogliere e prendere in
considerazione nuovi dati rispetto a eventi che hanno comportato una
sofferenza, per esempio per l' autoattribuzione di responsabilità, ma aiu­
ta il paziente a rivolgersi a se stesso con una maggiore propensione al
perdono di sé.
La lettera sarà scevra da consigli e " dovrei" e "ma perché " : il cuore
del messaggio è rappresentato dalla validazione totale delle emozioni
che sono provate nel momento di difficoltà e dal ricordare come i di­
lemmi, le perdite, le frustrazioni siano una componente normale della
vita. Molto spesso i pazienti tendono ad autobiasimarsi per la loro sof­
ferenza nei momenti avversi dell'esistenza, perché legati all'idea che sia
anormale, sbagliato e ingiustificato sperimentare tale sofferenza.
L'esercizio sembra quindi particolarmente importante per favorire
l'accettazione delle proprie emozioni negative e degli eventi che le hanno
attivate. È necessario che il paziente comprenda che la lettera non ha la
funzione di trovare una soluzione al problema, ma di pensare a modalità
più funzionali di convivere con il problema. Per questa ragione la lettera
deve esprimere un'accettazione incondizionata della situazione e di sé.
L'esercizio può essere svolto in diversi modi, attraverso:
l'immaginazione da parte del paziente della voce della sua compo­
nente compassionevole che gli parla e il riportare ciò che questa gli
comunica;
- mettersi nei panni del suo sé compassionevole e scrivere a se stesso
una lettera da quella prospettiva;
- immaginare che un amico gli stia scrivendo una lettera o che lui stes­
so stia scrivendo una lettera a un amico che versa in una situazione
simile.
La tecnica prevede che sia data rilevanza non solo ai contenuti, ma
anche alla forma compassionevole che è utilizzata per comunicare.
La lettera (Gilbert, Petrocchi, 2012) avrà queste caratteristiche:
- esprimerà attenzione e interesse genuini nei confronti del paziente;
- esprimerà sensibilità riguardo al suo malessere e ai suoi bisogni;
- esprimerà vicinanza empatica e commozione verso il suo malessere;
- sarà permeata da un autentico senso di calore, comprensione e atten-
zione per il paziente;
- lo aiuterà a fronteggiare, diventare più consapevole e a tollerare le
proprie emozioni;

3 95
La clinica

lo aiuterà a essere maggiormente comprensivo e a riflettere sulle pro­


prie emozioni e difficoltà;
lo aiuterà a riflettere su quali siano le condotte che dovrà mettere in
atto per progredire.

Un esempio di lettera compassionevole

Cara, carissima Lidia, Lilly, è la parte compassionevole di te che scri­


ve. So che sei molto preoccupata in questo momento e ti senti colpevole
per tante cose, anche per il solo fatto di esistere.
Non riesci ancora ad accettare quello che ti è successo da bambina,
in quell'incidente in cui tu e la cuginetta stavate giocando nella cucina di
nonna. Era un gioco da bambine, tu più grande giocavi a farle da mam­
mina e la tenevi in braccio. Ma quel pomeriggio, Alessia, si mosse troppo
velocemente e ti scivolò dalle braccia, battendo la bocca sul pavimento. n
ricordo del sangue che le usciva dal labbro rotto ti accompagna da allora
insieme alla colpa, che non riesci ad accettare. Quella volta la reazione di
mamma fu feroce, ma ci sono state anche altre volte in cui non riuscivi a
spiegarti il suo comportamento, ma nonostante fossi molto rammarica­
ta, la giustificavi altrimenti non avresti avuto più punti di riferimento e ti
saresti sentita sprofondare nel vuoto. Troppi sono i tuoi ricordi negativi
e se volessimo elencarli, non basterebbero mille pagine!
Ora però che vuoi fare? Per troppi anni ti sei torturata da sola. Pensi
che la tua mamma e il tuo babbo avrebbero voluto o vorrebbero questo
per te? E se pure lo volessero? ? ? Ricorda che la vita è un dono prezioso
e nessuno, neanche te stessa, ha diritto di rovinarla. I ricordi negativi, la
rabbia, purtroppo ti annebbiano la memoria, ma tu stessa devi ammette­
re che i tuoi genitori ti hanno voluto veramente bene e per molti motivi,
ma forse non hanno saputo dimostrartelo. Sinceramente hanno voluto
sempre il meglio per te. Sicuramente la tua sensibilità che doveva essere
un pregio a suo tempo non lo è stato, ora però puoi imparare a perdo­
narri perché è il modo migliore per vivere in pace. In pratica ti puoi con­
cedere di non essere inappuntabile e di esprimere le tue fragilità. Lidia
anche a te è concesso di sbagliare !

CONCLUSIONI

Obiettivo del lavoro sulla vulnerabilità è la riduzione delle rigide cre­


denze che il paziente ossessivo ha su di sé, sulle regole di condotta e sugli
standard legati alla performance. In fasi precoci dello sviluppo, alcuni
eventi cruciali, traumatici o microtraumatici, o, più in generale, un'at­
mosfera familiare cupa possono essere interpretati dal bambino come
l'effetto di una sua caratteristica negativa intrinseca. Gli schemi su di sé,

3 96
Il lavoro sulla vulnerabilità storica

sugli altri e sul mondo, così generati, detteranno le regole del compor­
tamento attuale volto principalmente a evitare un giudizio di colpevo­
lezza proprio o altrui. Attraverso il lavoro sulla vulnerabilità, si cerca di
promuovere nel paziente un'interpretazione più funzionale degli eventi
e l'accettazione dell'idea che gli eventi avversi o il clima familiare siano
stati determinanti nella propria esistenza, ma dettati da una complessa
serie di eventi o dal caso, e non da una presunta propria manchevolezza.
Nel lavoro sulla vulnerabilità, quindi, si favorisce l'accettazione di
eventi passati dolorosi e si cerca di ridurre le autocolpevolizzazioni e la
drammaticità con cui sono vissute.
È opportuno, favorire la flessibilità e la possibilità di percepirsi come
una persona che può sbagliare, perché ciò non compromette il proprio
valore personale.
Il lavoro sulla vulnerabilità storica è, dunque, utile soprattutto per
ridurre le sensibilità del paziente e quindi il rischio di ricadute, in situa­
zioni di particolare stress e di eventi di vita avversi, come vedremo nel
prossimo capitolo.

397
xx

LA PREVENZIONE DELLE RICADUTE


E LA CONCLUSIONE DELLA TERAPIA
Andrea Gragnani, Katia Tenore

LA PREVENZIONE DELLE RICADUTE

A conclusione di un soddisfacente lavoro terapeutico, è necessario


informare il paziente sulla possibilità che la sintomatologia possa ripre­
sentarsi, e fornire degli strumenti concreti affinché si senta in grado di
affrontare l'eventualità che il sintomo possa riaffacciarsi.
Interventi specifici per la prevenzione delle ricadute, che prevedo­
no training di ristrutturazione cognitiva, esposizione autodiretta, goal
setting, metodi per migliorare il supporto sociale, e altre tecniche di
gestione dell'ansia, si sono dimostrati utili in circa il 75 % dei pazienti
(Hiss, Foa, Kozak, 1 994) . L'efficacia di un programma di mantenimen­
to dei risultati ottenuti è stata dimostrata anche da McKay ( 1 997 ) con
un follow-up a 2 anni.
L'esito della ricaduta dipende, dunque, dalla gestione della stessa e
l'addestramento del paziente impedisce che un semplice incidente di
percorso si trasformi in una condizione che metta in pericolo il lavoro
svolto.
Tendenzialmente sono due le modalità con cui la ricaduta può pre­
sentarsi. Nella prima si assiste a un drammatico e improvviso aumen­
to sintomatologico a seguito di episodi significativi, come per esempio
un'esperienza di forte criticismo; nella seconda, si assiste, invece, a una
morbida e progressiva estensione dei comportamenti compulsivi.
Le ricadute del paziente sono solitamente indicatori del fatto che
parte del lavoro clinico e, in particolare, la modifica delle credenze di
pericolo o della vulnerabilità, non è stata condotta adeguatamente. Le
condizioni esistenziali tipiche, a seguito delle quali potrebbe affacciarsi
una ricaduta, sono almeno tre.

399
La clinica

Condizione di aumento dello stress. La persona potrebbe trovarsi esposta


a una condizione di aumento della pressione esterna, lavorativa o fami­
liare. In questo caso possono aprirsi due scenari. Il primo è legato alla
percezione di essere sovrastato dalle pressioni esterne e sentirsi troppo
stanco per gestire, tra le varie difficoltà, anche le idee ossessive. Il se­
condo è legato alla riattivazione delle attività compulsive, che si presen­
tano, in questo caso, non per la prevenzione di una specifica minaccia
ossessiva, bensì per una generica strategia di regolazione emotiva di tipo
autoconsolatorio. Per esempio, in caso di una minaccia abbandonica,
un lavaggio potrebbe essere messo in atto non per gestire una minaccia
percepita di contaminazione, ma per autotranquillizzarsi. Purtroppo
però, la ripetizione stessa del lavaggio rende il paziente più suscettibile
al timore dello sporco.
Evento scompensante. A seguito di un'esperienza di forte criticismo, qua­
le un rimprovero sprezzante, il paziente inizia a percepirsi come man­
chevole e a riattivare le strategie di neutralizzazione del timore di colpa.
Attivazione di sentimenti di rabbia. Le stesse esperienze di critica sprez­
zante potrebbero, viceversa, attivare nel paziente un senso di ingiusti­
zia e, quindi, di rabbia che, se non accompagnata da un'adeguata legit­
timazione della propria reazione, lo esporrebbe al senso di colpa e alla
riattivazione della sintomatologia ossessivo-compulsiva.
I criteri che possono guidare il terapeuta nel prevedere la ricaduta
sono:
la presenza di sintomi residui;
un robusto problema secondario rispetto all'esperienza di malattia;
prevedibili future circostanze di vita caratterizzate da un aumento
della responsabilità percepita;
relazioni e contesto colpevolizzanti.
Inoltre, lo stesso atteggiamento del paziente nei confronti della tera­
pia e della sua efficacia può, in alcuni casi, rappresentare una condizione
che espone al rischio di ricadute, come nei seguenti casi:
bassa self effìcacy nella gestione del DOC: "Dottore, lei ha fatto il mi­
racolo" ;
disfattismo disperato e/o rabbioso: " Se avessi una ricaduta allora
neanche questa terapia sarebbe servita, e anche questa mi avrebbe
deluso, con quello che mi è costata ! " ;
la drammatizzazione della ricaduta: "Sarebbe terribile se succedesse! ".

400
La prevenzione delle ricadute e la conclusione della terapia

Nel primo caso, il paziente non sente di aver avuto un ruolo nel pro­
cesso di cambiamento, ma ritiene che esso sia o un miracolo o una con­
dizione momentanea, il cui unico fautore è il terapeuta. La percezione
di non aver avuto un ruolo attivo nella terapia, ma che il cambiamento
sia attribuibile a competenze/atteggiamento/presa in carico del terapeu­
ta, costituisce un fattore di rischio per la ricaduta, perché sostiene l'idea
che, con la fine della terapia, venga meno il promotore del cambiamen­
to. Tale condizione lascia il paziente in uno stato di insicurezza rispetto
alle proprie capacità di affrontare da solo il mondo ed eventuali riacu­
tizzazioni sintomatologiche. Allo stesso modo, nel secondo caso, un at­
teggiamento disfattista e di deresponsabilizzazione rispetto all'impegno
dovuto, potrebbe demotivare il paziente nell'affrontare eventuali recru­
descenze sintomatologiche. Infine, un atteggiamento di drammatizza­
zione di una ricaduta, lascia pensare che il paziente non abbia ancora
inserito all'interno della propria storia di vita l'esperienza del DOC. Una
disposizione eccessivamente preoccupata, potrebbe dare vita a fenome­
ni di attenzione selettiva, favorendo l'autodeterminarsi di una profezia.
Il riconoscimento di uno o più dei suddetti criteri è indice della ne­
cessità di lavorare ancora sulle cognizioni che sottostanno all'atteggia­
mento verso il disturbo, prima di volgere al termine della terapia.

L'INTERVENTO SULLA PREVENZIONE DELLE RICADUTE

Al momento della conclusione del trattamento " attivo" (E/RP, inter­


venti sul timore di colpa e sul disgusto, intervento sulla vulnerabilità at­
tuale e storica), il paziente può trovarsi in una condizione di remissione
completa o di remissione parziale. In entrambi i casi è opportuno indi­
viduare con il paziente dei criteri per:
- valutare l' appropriatezza di alcuni comportamenti ordinari, quali la­
vaggi, controlli o preghiere, check mentali;
- riconoscere una soglia di allarme della ricomparsa sintomatologica;
- riconoscere se la sintomatologia sta assumendo forme diverse e non
attese.
Rispetto al primo punto, se con il lavoro di esposizione il terapeuta
ha " regolamentato" alcune azioni, con la fine del trattamento il paziente
potrebbe mettere in dubbio la propria capacità di riconoscere se il lavag­
gio o la preghiera che sente di compiere sono dei residui del disturbo o
una sua più spontanea e genuina esigenza. In questo caso, è opportuno

401
La clinica

ribadire che sono compulsive tutte quelle azioni che sono mosse da un
timore di colpa o di contaminazione o da una Not}ust Right Experience.
È utile, inoltre, che il paziente sia preparato a prevedere le fasi di vita
in cui fattori di stress possano esporlo a un rischio maggiore di ricadu­
te. Questi eventi sono legati ai temi sensibili del paziente e a un aumen­
to della responsabilità percepita, come nel caso di un cambio di ruolo,
del diventare genitore, di una promozione lavorativa o come nel caso di
doversi prendere cura di qualcun altro. È per questa ragione che il lavo­
ro sulla vulnerabilità storica, sui temi sensibili per il paziente, lo rende
meno suscettibile a eventuali ricadute.
Freeston e Ladouceur ( 1 999) suggeriscono che al paziente siano for­
nite istruzioni scritte sulle strategie da utilizzare in caso di recrudescenza
sintomatologica; nello specifico tali istruzioni dovranno comprendere:
il riferimento al modello cognitivo-comportamentale del DOC per
comprendere il riemergere del pensiero ossessivo;
l'identificazione delle valutazioni sull'ossessione;
l'astenersi dalla neutralizzazione, evitamento, ricerca di rassicurazioni;
la ripresa degli esercizi di esposizione;
l'utilizzo di strategie cognitive per fronteggiare l'importanza attribui­
ta al pensiero;
l'uso del problem solving per fronteggiare le situazioni stressanti;
il considerare la recrudescenza non come un fallimento del tratta­
mento ma come un'opportunità per praticare nuovamente e impa­
rare nuove strategie di fronteggiamento.
In caso di fallimento delle suddette strategie, i prowedimenti che il
paziente potrà prendere saranno di intensità crescente, quali ricontat­
tare il terapeuta per un supporto o riprendere la terapia. È opportuno
che al paziente siano suggeriti anche dei criteri temporali predefiniti,
cui fare riferimento in caso di fallimento delle strategie suddette, come,
per esempio, contattare il terapeuta entro un mese dall'inizio della re­
crudescenza sintomatologica.
Nel lavoro sulla prevenzione delle ricadute assume grande importan­
za il lavoro sul benessere psicologico. Il costrutto di benessere psicolo­
gico può essere definito secondo sei dimensioni (Ryff, 1 989), che fanno
riferimento a: mastery ambientale, crescita personale, scopi di vita, au­
tonomia, accettazione di sé e relazioni positive con gli altri. A partire dal
costrutto di benessere psicologico di Ryff, Fava (Fava, 1 999) ha struttu­
rato un intervento cognitivo-comportamentale centrato sul benessere.
L'intervento consiste in 8 incontri, tesi a consolidare le sei dimensioni

402
La prevenzione delle ricadute e la conclusione della terapia

individuate, ed è intrapreso a partire dall'individuazione dei momenti


di benessere e dei pensieri automatici negativi che ne determinano la fi­
ne. L'intervento sul benessere si è dimostrato utile nella riduzione della
vulnerabilità alla ricaduta nei disturbi affettivi (Ruini, Rafanelli, Conti
et al. , 2002 ; Fava, 1 996) .

CONCLUSIONE DELLA TERAPIA

La fase conclusiva della terapia prevede, di solito, un excursus sul


lavoro condotto, sulle fasi che hanno caratterizzato il lavoro terapeuti­
co e l'evidenziazione degli aspetti dell'intervento che hanno avuto un
maggiore effetto terapeutico. Questi elementi possono essere riassunti
in forma scritta, in modo da fungere come promemoria per il paziente
e costituire delle risorse cui attingere quando la terapia sarà terminata.
L'elemento che rappresenta il criterio per determinare il termine del­
la terapia è il grado di raggiungimento degli obiettivi terapeutici. È im­
portante, infatti, sottolineare che una chiara, realistica e misurabile de­
finizione degli obiettivi terapeutici è una condizione indispensabile per
consentire la chiusura della terapia e proteggere il paziente, anche da
eventuali ricadute dovute a un livello di aspettativa irrealistica e quindi
non esaudibile.
La restitutio ad integrum è difficile da ottenere nel DOC. La sintoma­
tologia ossessiva, infatti, si arricchisce nel tempo, in maniera graduale,
e spesso non è possibile definire un preciso scompenso e di conseguen­
za una condizione antecedente a esso. Inoltre, una condizione di totale
scomparsa sintomatologica non è un criterio realizzabile, visto che os­
sessioni e compulsioni sono esperienze molto frequenti anche tra pa­
zienti non ossessivi.
Per concludere la terapia è necessario, dunque, fare riferimento a:
una significativa riduzione sintomatologica (almeno il 5 0 % ) ;
la capacità del paziente d i gestire l a ricaduta;
la riduzione della vulnerabilità, traducibile, per esempio, con una mi­
nore autocritica;
un cambiamento clinicamente significativo, in termini di aumento
della qualità di vita e di benessere psicologico.
Il processo di conclusione della terapia è una costruzione che deve
tener conto della condizione di vita del paziente e di alcuni suoi aspet­
ti personologici. Per esempio, alcuni pazienti si sentono sollevati dalla

403
La clinica

prospettiva del termine di un impegnativo percorso di cambiamento,


altri, al contrario, awertono di non riuscire a tollerare uno strappo re­
lazionale netto.
Nella realtà clinica, la possibilità di condurre accuratamente tutte le
fasi della terapia si scontra con delle ragioni di natura meramente prati­
ca, come per esempio difficoltà economiche o il subentrare di altre ur­
genze, che determinano un'anticipata chiusura della terapia. Il paziente
potrebbe, inoltre, sentirsi soddisfatto della condizione sintomatologica
raggiunta, soprattutto se questa corrisponde al punto di approdo defi­
nito con il terapeuta nella fase di definizione degli obiettivi terapeutici.
In caso di prematura chiusura della terapia, il lavoro di generalizzazione
dei risultati è il più frequente a essere trascurato e in particolare quello
sulla gestione della vulnerabilità attuale e storica, con un aumento del
rischio di ricaduta.
In base ai tempi e alle modalità di chiusura del percorso terapeutico
è possibile programmare degli appuntamenti regolari ma più dilazionati
nel tempo (per esempio, prima ogni due settimane e poi ogni mese per
qualche mese) e, in ogni caso, dei follow-up per monito rare l' andamen­
to della sintomatologia per un periodo variabile di tempo.
Le difficoltà che possono ostacolare la chiusura della terapia sono
legate prevalentemente:
alla credenza del paziente ossessivo che continuare la terapia corri­
sponda al proprio dovere e che decidere per la chiusura significhi
comportarsi in maniera irresponsabile; per esempio: "Finché resto
in terapia faccio il mio dovere e sotto la supervisione del terapeuta
non rischio di fare cose stupide" ;
al timore del paziente di stare nuovamente molto male in termini
emotivi: " Finché resto in terapia non potrà capitarmi di stare così
male di nuovo" ;
la collusione del terapeuta con il perfezionismo del paziente sulla sua
completa guarigione: "Anche il terapeuta è d'accordo che posso an­
cora migliorare e arrivare a una condizione perfetta" ;
la condizione di deprivazione in cui può trovarsi il paziente: "Finché
resto in terapia almeno avrò qualcuno con cui parlare" ;
la presenza di tratti di dipendenza come in qualsiasi altro disturbo:
"Senza il mio terapeuta non ce la faccio " .
I n tutti questi casi è necessario lavorare sulle cognizioni e sulle pre­
visioni catastrofiche del paziente, sia in termini di sensibilità alla colpa
sia sulla decatastrofizzazione e tolleranza dell'esperienza di malattia.

404
La prevenzione delle ricadute e la conclusione della terapia

Qualora il paziente presentasse una condizione di deprivazione esi­


stenziale e di relazioni o vita lavorativa danneggiate è indispensabile
fornire degli strumenti per riabilitare le aree che risultano deficitarie.
Soprattutto per i pazienti di lunga data, è importante, prima di conclu­
dere la terapia, programmare delle attività che possano colmare il vuoto
esistenziale lasciato dall'assenza del sintomo e della sua cura, aiutandoli
a cercare supporto sociale e a dedicarsi a quegli interessi che hanno do­
vuto tralasciare a causa del disturbo.
Ultima, ma non meno importante, è la presenza di tratti di dipenden­
za, che può richiedere un trattamento specifico.

405
XXI

IL RUOLO DEI FAMILIARI


NEL MANTENIMENTO DEL DOC
PSICOEDUCAZIONE E PSICOTERAPIA

Angelo Maria Saliani, Teresa Cosentino, Barbara Barcaccia,


Francesco Mancini

PREMESSA

Quando è nata l'idea di scrivere questo manuale sul disturbo ossessi­


va-compulsivo (DOC) ci siamo più volte chiesti se fosse davvero necessa­
rio pensare a un capitolo interamente dedicato alla descrizione e al trat­
tamento delle dinamiche interpersonali coinvolte nel mantenimento del
disturbo. n timore era quello di rendere eccessivamente gravosa la lettura
di un'opera già molto ricca di contenuti sulla teoria e sulla clinica del di­
sturbo. Quando però ci siamo confrontati rispetto alle storie delle tante
persone con DOC curate presso il nostro centro di psicoterapia, ogni dub­
bio è svanito: i familiari e, più in generale, coloro che vivono accanto a una
persona affetta da ooc sono sempre coinvolti, in misura maggiore o mino­
re, direttamente o indirettamente - spesso loro malgrado - nella sintoma­
tologia del paziente. Allargare il campo di osservazione dalla mente e dai
comportamenti dell'individuo a ciò che accade intorno mentre mette in
atto i sintomi del disturbo ci è sembrata perciò un'operazione utile. Que­
sto capitolo nasce con un duplice intento: da un lato, portare all' atten­
zione del clinico i fattori interpersonali che contribuiscono a mantenere
e spesso ad aggravare la sintomatologia, in modo che anche questi siano
inclusi nel piano del trattamento; dall'altro, fornire un aiuto concreto a
pazienti e familiari impegnati nella battaglia quotidiana con il disturbo.

INTRAPPOLATI NEL SINTOMO

Chi vive con una persona affetta da DOC è spesso messo a dura pro­
va dai sintomi del proprio congiunto e si chiede, senza trovare risposta,

407
La clinica

come sarebbe giusto agire per liberarlo (e liberarsi) dalle trappole del di­
sturbo. Talvolta il paziente chiede aiuto nell'esecuzione dei rituali, altre
volte il familiare "soccorre " e si sostituisce spontaneamente al paziente
con la speranza o nella convinzione (purtroppo infondata) di aiutarlo a
stare meglio. Accade anche che il familiare non faccia nulla, ma si trovi
costretto a subire i rituali del paziente.
Le brevi storie che seguono aiuteranno a comprendere meglio que­
ste situazioni tipiche di interazione paziente-familiare. Le distingueremo
in situazioni del I tipo (quelle in cui il familiare partecipa ai sintomi del
paziente, spontaneamente o su sua richiesta) e del II tipo (quelle in cui
il familiare non partecipa ai sintomi ma è costretto a subirli) .

Situazioni del I tipo: ilfamiliare prende parte ai sintomi del paziente


Maria è la madre di Paolo, un ragazzo ossessionato dalla paura delle conta­
minazioni. Paolo evita il contatto con un numero elevatissimo di oggetti e per­
sone, e trascorre gran parte del tempo rintanato nella propria stanza. La mam­
ma, di sua iniziativa, per persuaderlo a uscire dal suo rifugio, lava e disinfetta
accuratamente e ripetutamente ogni oggetto che lui toccherà: maniglie delle
porte e degli armadi, rubinetti del bagno, posate, piatti, bicchieri, sedie, ripiani,
libri, dischi, tastiera del computer, citofono e qualsiasi cosa possa aumentare
il raggio di azione consentito a Paolo dal DOC. La mamma non invita più amici
e parenti in casa e si sostituisce al figlio persino nell'esecuzione di operazioni
che altrimenti eviterebbe: apre le porte al suo posto, risponde al telefono per
lui, scrive per lui i messaggi di posta elettronica, sceglie per lui i vestiti. Nono­
stante questo aiuto massiccio, non solo le paure di Paolo non si sono attenuate,
ma sembrano addirittura peggiorate e il clima familiare è diventato nel tempo
sempre più teso.

Situazioni del II tipo: ilfamiliare non prende parte


ai sintomi del paziente ma è costretto a subir/i
Sonia ha un disturbo caratterizzato da ossessioni e compulsioni di control­
lo, è terrorizzata dall'idea che, dimenticando il rubinetto del gas aperto, possa
rendersi responsabile di una tragedia. Controlla più e più volte i fornelli e la
manopola del gas, ma questo sembra non bastarle mai. La sua attività compul­
siva si compie in autonomia e principalmente prima di uscire di casa e durante
la notte. Il marito, nonostante non sia chiamato attivamente a dare rassicura­
zioni o a partecipare ai controlli compulsivi, è però costretto a subire gli effetti
dei rituali della moglie (per esempio, con lunghe attese e gravi ritardi quando
devono recarsi insieme da qualche parte). Anche il suo sonno è compromesso
dai continui controlli notturni di Sonia. Per lungo tempo il marito ha sperato
che non ostacolando le compulsioni della moglie avrebbe contenuto il suo di­
sagio, ma si è dovuto ricredere: il problema di Sonia è peggiorato. È stanco e
scoraggiato, si sente vittima impotente di un comportamento che non sa come
contrastare e il rapporto di coppia è in grave crisi.

408
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

Francesca e Carlo sono i genitori di Mirella, una giovane donna con ritua­
li di lavaggio e di ordine e simmetria. Mirella trascorre molte ore in bagno,
spesso anche di notte, per eseguire lunghi ed estenuanti lavaggi. Ciò causa ai
genitori una serie di disagi, prima di tutto quello di non poter usare il bagno.
Passano spesso la notte in bianco disturbati dai rituali di Mirella, che impie­
ga molte ore per disinfettare ogni angolo della casa e riordinare oggetti e mo­
bili secondo schemi ossessivi irrinunciabili. I genitori sono esasperati da anni
trascorsi in questo modo e non sanno come fare a bloccare i comportamenti
compulsivi della figlia. Hanno provato a persuaderla con mille ragionamenti,
talvolta pregandola di uscire dal bagno e di non spostare i mobili di notte, altre
volte minacciando di buttare giù la porta o persino di chiuderla a chiave nel­
la sua stanza, ma sempre senza successo. Sono disperati, si sentono impotenti,
e sono ormai convinti che sia impossibile uscire da quello che definiscono un
incubo senza fine.

In questa prima parte del capitolo descriveremo il modo in cui i fami­


liari solitamente reagiscono ai sintomi del proprio caro affetto da DOC.
Presenteremo dapprima le due modalità note in letteratura con i termini
di accomodamento e antagonismo, per poi descrivere sei trappole inter­
personali più specifiche emerse dalla nostra osservazione clinica. Nella
seconda parte del capitolo suggeriremo alcune possibili soluzioni delle
situazioni problematiche del I e del n tipo appena descritte.

Dall'accondiscendenza all'antagonismo:
il continuum degli atteggiamenti interpersonali disfunzionali

Come il paziente, anche il familiare che assiste alle manifestazioni del


disturbo spesso mette in atto, spontaneamente o su richiesta del pazien­
te, comportamenti finalizzati al contenimento dei sintomi, alla riduzione
del malessere: si impegna in rituali, controlli, evitamenti per prevenire o
contenere l'attivazione ansiosa; tenta di opporsi alle manifestazioni sin­
tomatiche per contrastare il disturbo stesso; altre volte, semplicemente
subisce i sintomi del paziente.
Van Noppen, Rasmussen, Eisen e collaboratori ( 1 99 1 ) hanno rias­
sunto le tipologie di reazione dei familiari alla sintomatologia ossessi­
va-compulsiva dei propri cari all'interno di un continuum che va da un
estremo che gli autori chiamano accomodamento (accommodation, at­
teggiamento accondiscendente) , all'altro estremo caratterizzato da an­
tagonismo. Se le famiglie accomodanti sono quelle che tendono a par­
tecipare alla sintomatologia del paziente e a tollerarla, ad accogliere e
soddisfare le sue richieste ossessive, le famiglie antagoniste si mostrano
invece estremamente critiche, severe e ostili nei confronti del paziente

409
La clinica

e della sua sintomatologia (interrompono o impediscono con la forza


le compulsioni, espongono in maniera traumatica agli stimoli ansioge­
ni, criticano, deridono, umiliano il paziente per il suo disturbo) . Una ti­
pologia mista di risposte si può riscontrare poi in famiglie con membri
accomodanti e membri antagonisti o, ancora, negli stessi membri che si
trovano a oscillare tra le due modalità in situazioni diverse.
Nei paragrafi seguenti descriveremo nello specifico le diverse tipolo­
gie di coinvolgimento, i diversi modi di rispondere dei familiari alla sin­
tomatologia ossessivo-compulsiva del paziente e gli effetti di tali reazioni
in termini di mantenimento ed esacerbazione del disturbo.

I:accomodamento
I familiari spesso partecipano alla sintomatologia compulsiva del pro­
prio caro affetto da DOC su sua esplicita richiesta; proprio come acca­
de al paziente, pur giudicandole magari assurde e bizzarre, partecipa­
no alle compulsioni allo scopo di alleviare l'ansia e lo stress del proprio
congiunto (Waters, Barret, 2000) , di prevenirne la rabbia qualora non
rispondessero alle sue richieste e, quindi, di evitare una situazione con­
flittuale (Storch, Lewin, Geffken et al. , 2 0 1 0) , di ridurre l'impegno ri­
chiesto dai rituali (Storch, Geffken, Merlo et al., 2007) , di lenire la pro­
pria ansia o il proprio stress (Caporino, Morgan, Beckstead et al. , 2012;
Futh, Simonds, Micali, 2012). " Ogni mattina mio figlio mi chiede di as­
sistere ai suoi rituali di lavaggio delle mani, del viso e dei denti . . . Non
ho alternative, rifiutarmi comporterebbe fargli perdere lo scuolabus e
accompagnarlo poi a scuola in macchina; significherebbe veder aumen­
tare la sua ansia e la sua rabbia . . . Le volte che ho provato a rifiutare è di­
ventato molto aggressivo e pesantemente offensivo nei miei confronti . . .
con urla che anche i vicini hanno sentito . . . che vergogna ! " .
Altre volte sono i familiari stessi che spontaneamente partecipano
alle compulsioni o favoriscono gli evitamenti nella convinzione che agi­
re in tal modo significhi prendersi cura del proprio caro, alleviargli la
sofferenza e lo stress. " Non parlo mai a mio marito dei nostri nipotini
e ho tolto di mezzo tutte le loro foto; li incontro e trascorro del tem­
po con loro fuori casa; quando lui è in casa, guardo solo programmi
televisivi e film 'sicuri', in cui non compaiono bambini. Trovo assurdi
i suoi timori di poter molestare i nostri cari nipotini, li adora, non fa­
rebbe mai loro del male, ne sono sicura ! Ma non voglio vederlo soffri­
re ! Gli voglio molto bene, mi fa stare male vederlo in preda all'ansia e
alla disperazione ! "

410
Il ruolo dei familiari nel mantenimento del DOC

L'accomodamento dei familiari alla sintomatologia del paziente com­


prende l'intervento nelle compulsioni, l'agevolare e favorire l' evitamen­
to degli stimoli e delle situazioni ansiogene, l' assumersi la responsabi­
lità delle sue scelte e decisioni, il rassicurarlo circa i suoi timori e le sue
paure, il procurargli materiale per le sue compulsioni, la modifica delle
abitudini e routine quotidiane (Cosentino, Farad, Coda et al., 2015; Van
Noppen, Rasmussen, Eisen et al. , 1 99 1 ) .
Nella tabella 2 1 . 1 sono indicati alcuni esempi (non esaustivi) di sin­
tomatologia ossessivo-compulsiva e i corrispondenti possibili compor­
tamenti di accomodamento da parte dei familiari.
Gli studi sull'accomodamento riportati in letteratura dimostrano che
una grande percentuale di familiari e conviventi, tra 1'80% e il 90 % ,
partecipa direttamente alla sintomatologia del paziente (Albert, Boget­
to, Maina et al. , 2010; Steketee, Van Noppen, 2003 ) . La modalità più
diffusa di accomodamento è la partecipazione diretta alle compulsioni
(tra il 3 0 % e il 60 % ), seguita dal modificare le proprie abitudini di vi­
ta per assecondare le richieste del paziente (più del 3 5 % ) , sostituirsi al
paziente e favorire i suoi evitamenti (più del 3 3 % ) e fornire rassicura­
zioni (più del 3 0 % ) .
Quali sono gli effetti di tale coinvolgimento?
È importante premettere che nella maggior parte dei casi il motivo
per cui i familiari tendono a essere accondiscendenti con le richieste
del proprio caro è una finalità di aiuto e supporto: essi agiscono a fin di
bene, nel desiderio di alleviare la sofferenza del paziente. Purtroppo,
nonostante le intenzioni dei familiari siano buone, l'accomodamento
risulta essere un fattore prognostico negativo e numerose ricerche evi­
denziano la sua associazione con una maggiore gravità della sintomato­
logia ossessiva, una peggiore risposta terapeutica, sia ai trattamenti far­
macologici sia a quelli cognitivo-comportamentali come l'E/RP (Garda,
Sapyta, Moore et al. , 2010; Storch, Geffken, Merlo et al. , 2007 ; Ferrao,
Shavitt, Bedin et al. , 2006; Steketee, Van Noppen, 2003 ), e più frequenti
e gravi ricadute nel lungo termine. Come si spiega questa associazione?
Così come i tentativi di soluzione che il paziente mette in atto con­
tribuiscono a mantenere il disturbo, anche l'accomodamento dei fami­
liari, pur riducendo nel breve termine il disagio del paziente, nel lungo
termine contribuisce al mantenimento e all' aggravamento del DOC per
almeno tre ordini di motivi.
• Innanzitutto, se da un lato il familiare aiutando il paziente a evitare,

a eseguire i suoi rituali e controlli, rassicurandolo circa le sue paure, ot-

411
La clinica

Tabella 21.1

Sintomatologia Esempi di accomodamento


ossessivo-compulsiva da parte dei familiari
Contaminazione Lavare oggetti, ma anche lavare se stessi, secondo le indica­
e compulsioni zioni del paziente (numero di volte, modalità di lavaggio,
di lavaggio prodotti da utilizzare per la pulizia).
Ripetere i lavaggi con la lavatrice con lo stesso carico più e
più volte.
Favorire gli evitamenti degli stimoli/oggetti ritenuti dal pa­
ziente sporchi, contaminati/contaminanti (per esempio, apri­
re le porte al suo posto, per evitargli di toccare le maniglie).
Fornire rassicurazioni circa la non avvenuta contaminazio­
ne, sia di se stessi, sia del paziente, sia di oggetti con i quali
quest'ultimo debba entrare in contatto.
Acquistare sapone, disinfettanti, detersivi in quantità ecces­
siva e secondo le richieste del paziente.
Danno e compulsioni Essere presenti mentre il paziente svolge i rituali di controllo
di controllo (di porte, fornelli, interruttori, ecc.) per rassicurarlo sulla lo­
ro corretta esecuzione.
Eseguire i controlli al posto del paziente.
Prendere decisioni al posto del paziente, relativamente a
scelte quotidiane e apparentemente ininfluenti, come quale
abito indossare, fino alla scelta, per esempio, della facoltà
universitaria o del lavoro.
Ossessioni aggressive, Fornire rassicurazioni circa i suoi dubbi; per esempio, rassi­
sessuali e religiose curarlo di non avere realmente bestemmiato senza essersene
accorto, o di non avere realmente fatto del male ad altri, o
tradito il partner senza conservarne il ricordo.
Aiutare il paziente a evitare gli stimoli!oggetti attivanti le os­
sessioni di poter fare qualcosa di sconsiderato (per esempio,
tenere i coltelli o gli oggetti appuntiti in un luogo "sicuro" ,
custoditi sotto l a responsabilità del familiare, l'unico ad ave­
re la chiave del "deposito").
Ordine e simmetria Non toccare nulla dell'ordine e della disposizione degli og­
getti (per esempio, oggetti sulla scrivania, mobili, sedie, diva­
ni, ecc.) stabilita dal paziente, anche se riguarda oggetti con­
divisi da altri familiari.

tiene una riduzione nell'immediato dell'ansia e dello stress del paziente,


dall'altro così facendo gli impedisce di acquisire informazioni utili a di­
sconfermare le sue credenze circa la probabilità di accadimento dell'e­
vento temuto, la gravità delle conseguenze, le possibilità di fronteggia­
mento e la tollerabilità dell'ansia e del disagio, relative alla valutazione
primaria di minacciosità dell'evento. Inoltre, la riduzione temporanea

41 2
Il ruolo dei familiari nel mantenimento del DOC

e immediata dell'ansia rinforza le credenze del paziente circa l'utilità e


l'efficacia di tali provvedimenti, motivandolo a farvi ricorso nuovamen­
te in futuro e a reiterare le stesse richieste al familiare. In altre parole, se
il familiare interviene per prevenire o contenere l'ansia, il paziente non
avrà modo di scoprire che è in grado di tollerarla, che il disagio è de­
stinato a diminuire naturalmente anche senza prendere provvedimenti
e senza mettere in atto comportamenti particolari, che le minacce per­
cepite e le conseguenze temute perlopiù non si verificano e che sono in
ogni caso fronteggiabili.
• Un altro meccanismo attraverso il quale l'accomodamento contribui­
sce a mantenere il disturbo è la riduzione dei costi dell'attività ossessi­
va-compulsiva: il coinvolgimento del familiare che agevola i rituali, vi
prende parte attivamente, si sostituisce al paziente nelle attività quoti­
diane, favorisce e rende ancora più fattibili gli evitamenti, fa sì che le
conseguenze negative della sintomatologia ossessiva siano meno eviden­
ti e più tollerabili agli occhi del paziente, che la valutazione secondaria
della sintomatologia (vedi schema del disturbo, capitolo XII) sia meno
pesante e pressante. È noto però come nella maggior parte dei casi sia­
no proprio i costi dell'attività ossessiva, in termini di tempo speso nelle
compulsioni, stress emotivo e compromissioni nella vita quotidiana, a
spingere il paziente a chiedere aiuto e a impegnarsi per il cambiamento.
In altre parole, quanto maggiori il paziente percepirà i costi connessi
all'attività ossessiva, tanto più sarà motivato ad affrontare il suo distur­
bo. Dunque, se il paziente vede ridotti o non percepisce affatto i costi,
l'impatto negativo della sintomatologia ossessiva sulla sua vita, poiché
mitigati dal coinvolgimento e dall'intervento del familiare, sarà scarsa­
mente motivato a modificare lo status quo, ad affrontare livelli di rischio
maggiori e a impegnarsi in terapie e protocolli d'intervento, tra i quali
l'E/RP (capitolo XVI) .
11 Infine, se è vero che l'accomodamento dei familiari sembra inizial­

mente ridurre il fardello del disturbo per il paziente, è anche vero che
a farne le spese sono poi i familiari stessi, che devono fare i conti con i
costi del loro coinvolgimento nella sintomatologia. Basti pensare a quei
genitori, ma anche ad altri familiari e/o conviventi, che lasciano il lavoro
per assistere i propri cari, modificano le proprie abitudini (ora dei pasti,
menù, sonno, ecc.) e rinunciano ad attività sociali e ricreative, pagan­
do costi pratici, economici ed emotivi. Diversi studi hanno evidenziato
tra i familiari più coinvolti nei meccanismi di accomodamento, livelli di
stress e depressione più elevati (Amir, Freshman, Foa, 2000 ) , maggiori

413
La clinica

atteggiamenti di rifiuto verso il paziente (Torres, Hoff, Padovanie et al.,


2012) e una peggiore qualità della vita (Albert, Brunatto, Aguglia et al.,
2009). Ciò contribuisce a creare un clima relazionale teso e conflittuale
all'interno della famiglia, che andrà a esacerbare l'ansia stessa del pa­
ziente, rendendo più probabile e frequente l'attivazione di ossessioni e
della sintomatologia ossessiva. Inoltre, a livello di valutazione seconda­
ria, spesso questi effetti attivano nel paziente vissuti di colpa: " Sto rovi­
nando, non solo la mia vita, ma anche quella di mia sorella . . . Non dor­
me più, non ha più una vita propria, ha rinunciato alla sua vita per me ! "
e di autorimprovero: " Sono un egoista, un essere disprezzabile ! " , che
solitamente producono un inasprimento della sintomatologia ossessiva.

I:antagonismo

Effetti altrettanto negativi sono associati alle modalità di risposta dei


familiari alla sintomatologia collocabili sulla polarità dell'antagonismo,
associate a una più alta percentuale di drop-out e ricadute ed esiti peg­
giori del trattamento (Chambless, Steketee, 1 999; Emmelkamp, Kloek,
Blaauw, 1 992 ) .

Mio figlio mi chiede di aiutarlo con le sue fisime mattutine: lavaggi e


rituali di vestizione. Non posso las ciarlo fare, si sta rovinando l' esisten­
za, che vita avrà se andrà avanti così? Mi rifiuto, gli dico che si sta "flip­
pando" il cervello con queste cavolate, che è uno scemo ad andare die­
tro a queste cose, che è ora di farla finita e che lo farò ricoverare se non
la smette con queste follie !

Quando vedo mia figlia ripetere 10, 2 0 volte lo stesso gesto ho l'im­
pressione di un disco rotto, di un qualche meccanismo inceppato nel
cervello . . . Così la scuoto, la prendo a schiaffi . . . per farla riprendere, ri­
tornare in sé.

Malgrado anche queste modalità di interazione siano spesso la ma­


nifestazione del desiderio del familiare di stimolare il paziente, moti­
vado a dismettere i comportamenti sintomatici, ostacolare il disturbo,
purtroppo l'effetto che producono è ancora una volta controprodu­
cente, di mantenimento ed esacerbazione dei sintomi, anche qui per
diverse ragioni.
• Se, come è stato illustrato nei capitoli precedenti, la condotta ossessi­

va è regolata dal tentativo del paziente di prevenire il senso di colpa e il


disprezzo, le risposte critiche e ostili dei familiari non fanno che rende­
re concreta la minaccia temuta. Il paziente si sentirà colpevolizzato, di-

41 4
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

sprezzato e ciò potrà indurlo a investire ancora più di prima nell'attività


preventiva, per ridurre la possibilità di essere nuovamente disprezzabile
in futuro: ne seguiranno compulsioni ed evitamenti ancora più massicci.
• Di fronte a un atteggiamento ostile e aggressivo del familiare, il pa­

ziente potrebbe sperimentare rabbia e, a sua volta, rispondere con ag­


gressività e ostilità per poi sentirsi in colpa e moralmente disprezzabile
per la sua condotta: "Quando mia madre si rifiuta di aiutarmi e mi guar­
da con quella pena negli occhi non resisto . . . la insulto, la mando a quel
paese, le dico delle cose terribili . . . Che razza di figlio sono, lei fa tanto
per me, non se lo merita ! " . Dunque, anche in questo caso, la minaccia
temuta, "essere colpevole e disprezzabile" , si concretizza con gli stessi
effetti di mantenimento ed esacerbazione della sintomatologia descrit­
ti in precedenza.
• Inoltre, in conseguenza dell'ostilità e del criticismo del familiare, è
possibile che il paziente sperimenti senso di inefficacia e di vergogna,
che potrebbero condurlo a nascondere il suo disturbo e a vedersi come
incapace di fronteggiarlo, con il risultato di una ancor minore propen­
sione a chiedere aiuto e un incremento della probabilità di interrompe­
re eventuali trattamenti già in corso.

LE TRAPPOLE INTERPERSONALI

Ricapitolando, la letteratura scientifica ha evidenziato che i familiari


adottano nei confronti dei propri cari affetti da DOC due atteggiamenti
principali che vanno da un'estrema accondiscendenza, chiamata acco­
modamento, all'estremo opposto, caratterizzato da antagonismo. L' espe­
rienza clinica, maturata presso il nostro centro di psicoterapia cogniti­
vo-comportamentale, ci suggerisce che queste due modalità principali
possono declinarsi in sei tipi di reazioni più specifiche dei familiari, dalle
quali deriveranno altrettante trappole interpersonali.
L'interlocutore di una persona con DOC, sia che partecipi attivamen­
te ai sintomi del paziente (situazioni del I tipo), sia che subisca suo mal­
grado l'esecuzione dei rituali (situazioni del II tipo), solitamente mette
in atto sei tipi di strategie di contrasto del DOC (Balestrini, Barcaccia,
Saliani, 201 1 ; Saliani, Barcaccia, Mancini, 201 1 ) . Abbiamo definito que­
ste modalità: pacca sulla spalla, bugia a fin di bene, disputa razionale, sug­
gerimento di soluzioni, compiacenza, biasimo. Nessuna di esse è efficace
nell'aiutare il paziente a liberarsi del disturbo e anzi tutte innescano dei

4 15
La clinica

veri e propri circoli viziosi, con l'effetto di esacerbare la sintomatologia


nel medio e lungo termine. Vediamo nel dettaglio in cosa consistono.

La pacca sulla spalla


Solitamente quando il paziente esprime una preoccupazione osses­
siva o esegue un rituale, l'interlocutore è portato a fare un rapido e su­
perficiale tentativo di rassicurazione, senza entrare nel merito dei suoi
timori e senza argomentare le ragioni per cui dovrebbe tranquillizzar­
si. Si limita, dunque, a dare ciò che, con un'espressione idiomatica, po­
tremmo chiamare una pacca sulla spalla. Tale atteggiamento è segnalato
da espressioni verbali quali "Va tutto bene" , " Sta' tranquillo" , " Non
c'è niente da temere" , "È tutto pulito" , "È tutto in ordine" , " Non ac­
cadrà nulla di brutto" , " Non pensiamoci più " , " Non c'è pericolo" , ecc.
In realtà nessuna di queste espressioni è sufficiente a rassicurare l'indi­
viduo ossessivo. Piuttosto, nella maggior parte dei casi, risposte di que­
sto tipo lasciano intatto il timore del paziente e rafforzano il suo biso­
gno di rassicurazione.
La "pacca sulla spalla" oltre che essere quasi sempre valutata dal pa­
ziente come un aiuto inadeguato, ha un'altra seria controindicazione:
può provocare reazioni di ira. Chi la riceve può infatti non sentirsi pre­
so sul serio e reagire reiterando energicamente le ragioni della propria
ansia. A ciò seguiranno nuovi tentativi di rassicurazione da parte del fa­
miliare e ancora nuove obiezioni irritate del paziente, ed entrambi sci­
voleranno rapidamente in una spirale viziosa senza uscita.

La bugia a fin di bene


Un'altra tipica risposta dell'interlocutore alla persona ossessiva è la
piccola bugia (o l'omissione di informazioni ansiogene) detta allo sco­
po di rassicurarla, o di non procurarle ansia. Espressioni tipiche che se­
gnalano questa strategia sono affermazioni non veritiere blandamente
rassicuranti quali, per esempio: " Non preoccuparti, nessuno ha usato
il bagno in tua assenza . . . " , " Non preoccuparti, ho controllato io il gas
prima di venire a letto ed era tutto ok . . . " , " Sì, ho comprato il giornale
ma non ho toccato i soldi . . . " . Anche questi tentativi, al pari della pac­
ca sulla spalla, non solo sono poco efficaci, ma non di rado determina­
no una reiterazione delle richieste di rassicurazione e un inasprimento
dell'interazione. li paziente ossessivo, infatti, esercita un controllo mol­
to accurato sulle informazioni relative alle proprie paure, ed è spesso in
grado di scoprire l'inganno. In conseguenza di ciò, oltre a provare rab-

41 6
Il ruolo dei/amilzari nel mantenimento del DOC

bia per il tentativo di raggiro, alza ulteriormente i livelli di guardia e di


controllo sul comportamento dell'altro, inasprendo non poco il clima
relazionale e perpetuando dei cicli dialogici sterili e controproducenti.

La disputa razionale
Gli interlocutori degli individui con DOC non si limitano a dare ras­
sicurazioni superficiali o a dire piccole bugie a fin di bene. Spesso s'im­
pegnano con tutte le proprie forze a trovare argomentazioni logiche
e razionali che smontino l'idea di pericolo da cui i pazienti si sentono
minacciati, allo scopo di placare la loro ansia e bloccare i loro rituali.
L'avvio di un ciclo di disputa razionale è spesso segnalato da espressioni
verbali quali: " Ok, proviamo a ragionare ! " , " Usiamo la testa" , "La tua
paura non è razionale, ora te lo dimostro . . . " , ma, purtroppo, raramen­
te gli argomenti così introdotti si dimostrano efficaci, per cui si assiste
molto spesso a lunghe ed estenuanti discussioni che non solo non scal­
fiscono minimamente i timori del paziente, ma finiscono per inasprirli
e mantenerli.
I pazienti ossessivi non ragionano affatto in modo illogico o "folle"
(non hanno bisogno che qualcuno insegni loro a ragionare), ma piutto­
sto adottano criteri molto rigidi e severi per valutare razionalmente la
solidità dell'ipotesi rassicurante (accettano cioè con molta difficoltà in­
formazioni rassicuranti, per non correre il rischio di colpevoli sottova­
lutazioni del rischio). I tentativi di rassicurazione, anche quelli più ar­
ticolati, si scontrano dunque con questi criteri estremamente rigorosi.
Per questo falliscono o ottengono risultati scarsi e limitati nel tempo.

Il suggerimento di soluzioni
Oltre che elargire pacche sulla spalla, dire piccole bugie a fin di be­
ne, ingaggiare lunghe discussioni razionali, il familiare spesso si cala nel
ruolo dell'ispiratore di soluzioni pratiche volte a rimuovere le condi­
zioni che provocano ansia. I pazienti si mostrano peraltro solitamente
molto attenti ai consigli pratici e se, dopo averli analizzati con cura, li
giudicano idonei, provano anche ad applicarli. Talvolta, quando ciò ac­
cade, paziente e familiare possono inizialmente avere l'impressione di
aver trovato un buon rimedio e può effettivamente seguire una momen­
tanea riduzione dei livelli di ansia. Tuttavia, in un buon numero di casi,
le soluzioni suggerite dal familiare, anche se apparentemente efficaci,
finiscono per mantenere e inasprire il disturbo del paziente.
Proveremo a spiegarci meglio con un esempio.

417
La clinica

Il marito di Sonia, per contrastare l'attività compulsiva della moglie


(i ripetuti controlli del gas) , le aveva suggerito di appuntare su un fo­
glietto l'esito del controllo. In questo modo, in qualunque momento le
fosse venuto il dubbio ossessivo di non avere controllato accuratamen­
te il gas, avrebbe guardato il suo appunto e si sarebbe tranquillizzata.
Sonia accolse con gioia il consiglio pratico del marito e per un paio di
giorni ogni problema sembrò risolto. Non aveva più bisogno di rientrare
ripetutamente a casa dall'ufficio per controllare, né di alzarsi di notte.
Molto presto, però, iniziò a controllare ossessivamente, giorno e notte,
il foglietto dei suoi appunti. Non solo, ma iniziò a dubitare dell'appun­
to stesso: quando l'aveva trascritto era stata davvero attenta o era sta­
ta distratta? E non poteva aver confuso l'appunto del giorno in corso
con quello del giorno precedente? Prese allora a scrivere nuovi appun­
ti che "certificassero" l'autenticità dell'appunto originale: un appun­
to dell'appunto. E poi un terzo, un quarto appunto che garantisse per
i precedenti, e così via, in un vortice virtualmente infin ito, che veniva
fermato solo da un nuovo controllo visivo e tattile della manopola del
gas. In breve tempo per Sonia i foglietti degli appunti si erano di fatto
trasformati in un nuovo sintomo che aggravò il suo già ampio carico di
ossessioni e compulsioni.

La compiacenza

Molto spesso chi è vicino a una persona con DOC, accetta le regole
imposte dal disturbo e fa, spontaneamente o su richiesta, esattamente
quello che il paziente si aspetta, convinto che sia l'unico modo per bloc­
care i suoi sintomi ossessivo-compulsivi. Come nei casi di Sonia e Pao­
lo (vedi il secondo paragrafo), è comune osservare i familiari di pazienti
con DOC toccare al posto loro oggetti considerati sporchi (per esempio,
maniglie, denaro) e lavare per loro oggetti e vestiti, o eseguire con loro
(o al loro posto) controlli compulsivi, conteggi, o altri generi di rituali.
Queste manovre accomodanti hanno lo scopo di evitare al proprio caro
con DOC l'esposizione alla situazione ansiogena e di alleggerire il carico
delle compulsioni che altrimenti eseguirebbe da solo. Consentono perciò
al paziente di provare un sollievo momentaneo e al familiare di evitare
conflitti e discussioni, ma lungi dall'essere una soluzione definitiva, de­
terminano un aggiramento difensivo dell'ostacolo che mantiene intatte
tutte le paure ossessive (per le ragioni già illustrate nel paragrafo sull' ac­
comodamento) . In questi casi, il familiare del paziente si comporta in
modo analogo a quello di un tossicodipendente che, pur di non vedere

4 18
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

soffrire il proprio caro per le crisi di astinenza, evitare conflitti in casa e


comportamenti delinquenziali, preferisce dargli il denaro per l'acquisto
della sostanza o procurargliela lui stesso. Questo aiuto smorzerà solo tem­
poraneamente qualsiasi tensione, contribuendo purtroppo a mantenere
viva la dipendenza. Allo stesso modo, comportarsi in modo compiacente
e accomodante con il DOC - talora persino anticipando spontaneamente
le richieste del paziente - non solo è una strategia sterile, ma si trasforma
ben presto in un potente fattore di mantenimento del DOC stesso.

Il biasimo
Nelle interazioni tra pazienti con DOC e loro familiari si assiste spesso
alla comparsa di espressioni di biasimo. In questo paragrafo ci soffer­
meremo soprattutto sugli effetti delle critiche che il familiare rivolge al
paziente nei momenti di rabbia e con lo scopo di bloccare i suoi sintomi.
Va però detto che anche il paziente, non di rado, rimprovera il proprio
caro. Lo accusa, per esempio, di non capire la sua sofferenza, o, peggio,
di esserne la causa. L'effetto dei rimproveri del paziente non è margina­
le. Il familiare, infatti, subendo il rimprovero, oscillerà tra sentimenti di
colpa e di rabbia che lo porteranno a reazioni controproducenti. Quan­
do percepirà il rimprovero come meritato, si sentirà in colpa e metterà in
atto comportamenti di aiuto accomodante che, come abbiamo già visto,
rappresentano un grave fattore di mantenimento del disturbo; quando
invece percepirà come ingiusto il rimprovero ricevuto dal paziente, pro­
verà rabbia e reagirà a propria volta in modo aggressivo.
Esistono molti modi per esprimere critica, disapprovazione, delu­
sione, condanna, disprezzo, e spesso nei dialoghi paziente-familiare è
possibile rintracciarli anche in esclamazioni esplicite e dirette, quali, per
esempio, " Non ti sopporto più ! " , " Smettila di controllare e ricontrol­
lare, mi sembri un pazzo ! " , "Accidenti a te e alle tue fisse da matta . . .
Mi hai rovinato la vita ! " , " Se non esci subito dal bagno, sfondo la porta
e ti ci tiro fuori di peso ! " , " Sei una piaga, faccio come dici, pur di non
starti più a sentire ! " .
Nel corso di una psicoterapia si può peraltro osservare che le cri­
tiche che i pazienti raccontano di ricevere dagli altri non differiscono
nei contenuti dagli autorimproveri che rivolgono a se stessi quando ri­
flettono sul proprio disturbo: si dicono di essere sbagliati, pazzi, egoi­
sti, colpevoli della propria condizione. Le dure critiche e i rimproveri
a cui le persone ossessive sono esposte, così come le autocritiche, svol­
gono un ruolo molto specifico nel mantenimento del disturbo perché

419
La clinica

attivano temi personali direttamente implicati nello sviluppo del DOC.


Gli studi degli ultimi anni hanno dimostrato che i sintomi ossessivo­
compulsivi sono in modo specifico associati a un senso ipertrofico di re­
sponsabilità (Albert, Barcaccia, Aguglia et al. , 2015; Mancini, Gangemi,
2006; Salkovskis, Shafran, Rachman et al. , 1 999; Ladouceur, Rhéaume,
Aublet, 1 997 ; Lopatcka, Rachman, 1 995 ) e più in particolare sembrano
essere causati dal timore di colpa morale (Barcaccia, Tenore, Mancini,
2015; Mancini, Gangemi, 20 1 1 ) . Ora, se consideriamo l'effetto dei rim­
proveri e delle critiche a cui quotidianamente i pazienti ossessivi sono
esposti, è facile intuire come questi andranno a rafforzare in modo spe­
cifico proprio il loro timore più profondo e più strettamente implicato
nella genesi dei sintomi, ovvero quello di essere persone irresponsabili
e moralmente deprecabili.
In sintesi, interagire con il paziente ossessivo usando dure espressio­
ni di biasimo non solo non contrasterà efficacemente e definitivamente
i suoi sintomi, ma inciderà negativamente e in modo specifico sull'idea
che il paziente ha di sé, portandolo a investire ancora più ossessivamen­
te sul tentativo di prevenire nuove colpe morali.

Strade senza uscite

Riassumendo, quando il familiare è in qualche modo esposto ai sin­


tomi della persona con DOC, usa alcune mosse tipiche che abbiamo
chiamato pacca sulla spalla, bugia a fin di bene, disputa razionale, sugge­
rimento di soluzioni, compiacenza e biasimo. Chi vive accanto al pazien­
te prova, in definitiva, ad arginare la sintomatologia del proprio caro
seguendo tre strade principali: quella della persuasione, quella del soc­
corso accomodante e quella della colpevolizzazione. E in alcuni casi, per
fortuna rari, la strada della forza.
Le ragioni per cui queste strade non porteranno a nulla di buono so­
no le seguenti.
• Persuadere il paziente ossessivo, convincerlo che non ci sono peri­
coli è virtualmente impossibile perché il DOC non chiede rassicurazioni
parziali, ma assolute, certe, definitive, che umanamente nessuno sarà
mai in grado di fornirgli. Qualsiasi sforzo teso perciò alla persuasione
fallirà, come nei casi della pacca sulla spalla, della bugia a fin di bene e
della disputa razionale.
• Soccorrere in modo accomodante il paziente allo scopo di aggirare

i timori ossessivi con piccoli suggerimenti pratici, o sostituendosi a lui,

420
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

o facendo esattamente quello che egli chiede o si aspetta, calmerà solo


temporaneamente le sue ansie mantenendo nel tempo il suo disturbo,
come visto quando abbiamo descritto gli effetti della compiacenza e del
suggerimento di soluzioni.
• Colpevolizzare il paziente per la messa in atto dei suoi sintomi non
solo non li bloccherà (se non per breve tempo) , ma alimenterà il suo ti­
more di colpa, che, come abbiamo illustrato nel earagrafo sugli effetti
del biasimo, è il vero responsabile dello sviluppo ) della sintomatologia
ossessiva. Dunque il disturbo non solo non sarà vinto con i rimproveri
e le critiche, ma ne uscirà rafforzato.
• Infine, l'uso della forza o le minacce messi in atto in alcuni casi dai
familiari per bloccare i rituali, oltre che essere rimedi eticamente inac­
cettabili, non portano che all'inasprimento del clima in casa e all'inevi­
tabile peggioramento del disturbo.

USCIRE DALLE TRAPPOLE

Nei paragrafi precedenti sono stati illustrati i comportamenti messi


in atto dai familiari per contrastare i sintomi dei loro cari e il perché nes­
suna delle strategie descritte funzioni. n coinvolgimento dei familiari ha
un peso importante nel mantenimento del disturbo e sull'efficacia del
trattamento, per questo è necessario che il clinico valuti come i familiari
reagiscono alla sintomatologia ossessiva. Questo tipo di valutazione e in­
terventi mirati a contrastare il coinvolgimento disfunzionale dei familiari
possono rivelarsi particolarmente utili nel trattamento di pazienti resi­
stenti sia alla terapia cognitivo-comportamentale standard che a quella
farmacologica. Proprio per questa tipologia di pazienti Van Noppen e
Steketee (2004) hanno sperimentato un protocollo di trattamento com­
portamentale multifamiliare, condotto in gruppi di 6-8 famiglie (inclusi
coniugi, partner, genitori, e altri in contatto quotidiano con il paziente)
che prevede psicoeducazione, scambio di informazioni tra le famiglie,
informazioni sui sintomi ossessivi e sulle strategie di coping, sul ratio­
nale del trattamento e sull'esposizione con prevenzione della risposta
(E/RP) e uno specifico addestramento all'utilizzo della comunicazione
assertiva. n protocollo si è dimostrato efficace sia al post trattamento sia
al follow-up a l anno e, confrontato con un gruppo di psicoterapia senza
coinvolgimento dei familiari, ha prodotto una maggiore riduzione della
gravità dei sintomi oc e un miglioramento nel funzionamento familiare.

42 1
La clinica

Si sono dimostrati efficaci anche gli interventi psicoeducativi rivol­


ti a singole famiglie o a gruppi di famiglie, in particolare nel ridurre i
comportamenti ostili e di accomodamento dei familiari e nel migliorare
le relazioni interpersonali (Albert, Brunatto, Aguglia et al. , 2009; Mai­
na, Saracco, Albert, 2006; Grunes, Neziroglu, McKay, 2 00 1 ) . Tali studi
hanno anche evidenziato che la partecipazione dei familiari ai gruppi
psicoeducazionali è correlata a un miglioramento nel trattamento indi­
viduale dei pazienti significativamente superiore rispetto a quello con­
seguito dai pazienti di un gruppo di controllo, i cui familiari non rice­
vevano alcun intervento. Questi dati incoraggiano i ricercatori e i clinici
a sperimentare e ad applicare modelli di intervento che prevedano il
coinvolgimento dei familiari.
In questo capitolo forniremo alcune semplici indicazioni ed esem­
pi pratici, con l'auspicio che possano essere applicati dal familiare e dal
proprio caro affetto dal disturbo, preferibilmente con l'aiuto di un tera­
peuta esperto nel trattamento del DOC. Se volessimo personificare questo
disturbo potremmo rappresentarlo come un soggetto tenace, avido di
rassicurazioni, spiegazioni, certezze, straordinariamente abile nel solle­
vare dubbi, dilemmi, riserve, rigettare al mittente le obiezioni. Purtroppo
tende anche a trasferirsi in pianta stabile nella vita del paziente, quindi a
cronicizzarsi, per questo è difficile da curare e vincere in modo definiti­
vo. È importante allora ricordare che curare il DOC è possibile, ma richie­
de molto impegno e perseveranza. Anche se è sempre necessario l'aiuto
tecnico di uno psicoterapeuta esperto nella cura del DOC, i familiari po­
tranno trovare in questo capitolo alcune indicazioni per non contribui­
re, loro malgrado, all'inasprimento del disturbo e per migliorare sensi­
bilmente la qualità della vita del loro caro e dell'intero nucleo familiare.
Con questo auspicio, procediamo ora con la descrizione delle situa­
zioni problematiche e delle strategie per fronteggiarle. Come già illustra­
to, il familiare è spesso pesantemente coinvolto nei sintomi del proprio
caro e può esserlo in due modi fondamentali, uno diretto e uno indiretto.
Nel primo caso, quello diretto (che abbiamo chiamato del I tipo) , il fami­
liare partecipa ai rituali compulsivi e agli evitamenti spontaneamente o
mosso da una richiesta di aiuto o di rassicurazione del paziente. Espres­
sioni quali: "Per favore, lava anche tu le mani con il disinfettante ! " o
"Apri la porta di casa al posto mio" o " Non fare entrare la persona del­
le pulizie nella mia stanza" o "Potresti controllare ancora una volta se
ho davvero chiuso bene la manopola del gas ? " o "Per favore non usare
mai quelle parole che sai che mi angosciano, altrimenti dopo sono co­
stretto a fare i rituali ! " o "Puoi ripetermi ancora una volta che è sicuro

422
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

al l 00% che non ho investito nessuno? " , segnalano una richiesta osses­
siva del paziente e un probabile innesco di una trappola interpersonale.
Nelle situazioni del II tipo, quello indiretto, il familiare, pur non par­
tecipando attivamente ai sintomi del paziente, è chiamato ad assistere
- e talvolta a subire - i suoi rituali compulsivi. Per esempio, potrebbe
facilmente accadere che il bagno sia perennemente occupato dal pa­
ziente, immerso nella ripetizione estenuante di lavaggi, o che di notte
diventi impossibile riposare perché non riesce a smettere di riordinare
compulsivamente libri o altri oggetti, o diventi difficile muoversi libe­
ramente in casa e persino trovare una sedia libera perché ha accumula­
to dappertutto oggetti che sente di non poter gettare via né spostare, o
che le bollette siano incredibilmente elevate a causa dell'uso eccessivo
di acqua calda, o che diventi impossibile una banale attività quotidia­
na, come riassettare in tempi rapidi la cucina, perché il paziente si sente
costretto a consumare il pasto con lentezza ossessiva e a restare seduto
a tavola per ore al fine di terminare i rituali imposti dal DOC. Anche in
questo caso, è facile che il familiare precipiti insieme al paziente in una
delle sei trappole già descritte nelle pagine precedenti.
Alla luce di queste considerazioni, si possono ricavare le seguenti in­
dicazioni:
non assecondare le richieste ossessive di rassicurazione;
non aiutare il paziente nell'esecuzione dei rituali;
non consentire al paziente di evitare le situazioni temute sostituen­
dosi a lui;
non accettare che regole e abitudini casalinghe vengano stravolte dai
rituali imposti dal DOC;
imparare gradualmente a opporsi con gentilezza - ma in modo fermo
e sicuro - alle richieste e alle imposizioni del DOC;
non rimproverare il paziente e non forzarlo a bloccare bruscamente
i rituali.
Per non contribuire all'aggravamento della sintomatologia del pro­
prio caro è necessario sottrarsi all'accomodamento, ma in un modo tale
da non cadere nell'errore opposto, quello del rimprovero colpevoliz­
zante e dell'asprezza.

Gli stati d'animo del familiare

Abbiamo più volte visto che il fatp.iliare oscilla tra un atteggiamen­


to compiacente e uno molto critico e\ che queste due modalità risulta-

423
La clinica

no controproducenti. Ma perché il familiare oscilla tra compiacenza e


contrarietà?
La risposta a questa domanda è solo in parte data dalle caratteristiche
personali del familiare. Temperamenti e stili personali diversi portano
evidentemente a reazioni diverse, tuttavia è assai probabile che l'oscilla­
zione tra compiacenza e ostilità si presenti, in qualche misura nel corso
del tempo, negli atteggiamenti di quasi tutti i familiari, indipendente­
mente dalle loro caratteristiche personali. Perché? La risposta è abba­
stanza semplice: i comportamenti patologici del paziente suscitano nel
familiare dispiacere, pena, ma anche paura, senso di colpa, esasperazio­
ne e rabbia, e questi sentimenti, umani e inevitabili, portano ad avere
reazioni ora compiacenti ora critiche.
L'affetto e la pena per il proprio caro spingono a un atteggiamento di
soccorso: il familiare vorrebbe porre fine alla sua sofferenza e crede che
non ostacolandolo nell'esecuzione dei rituali o, peggio, aiutandolo o so­
stituendosi a lui, l'ansia del proprio caro con DOC si placherà e troverà
finalmente pace.
La paura , altre volte, fa sì che il familiare assecondi il DOC. Teme che non
tollerando un certo rituale molesto, non aiutando il proprio caro nella
sua esecuzione, non rispondendo alle richieste reiterate di rassicurazio­
ne, i sintomi peggioreranno rovinando la giornata di tutti. In realtà, non
eseguire un rituale farà aumentare solo momentaneamente l'ansia del
paziente, ma poi passerà e il suo disturbo non peggiorerà per questo.
Non assecondare la richiesta ossessiva della persona con DOC significa
in realtà non assecondare il disturbo, non alimentarlo.
La rabbia e l'esasperazione, causate dai disagi imposti dal DOC, conduco­
no, viceversa, a reazioni critiche e aggressive e, talvolta, all'illusione che
il disturbo possa essere vinto alzando la voce, minacciando ritorsioni,
imponendo con la forza comportamenti diversi. Purtroppo si tratta di
un'infelice idea, perché il DOC non si lascia piegare dai rimproveri o da­
gli atti di forza, ma, al contrario, trae da essi maggiore vigore.
Il senso di colpa fa sì che spesso il familiare sia portato a credere, er­
roneamente, che il disagio del proprio caro dipenda da lui/lei, da una
presunta carenza di affetto, da presunti suoi sbagli, da traumi non ben
precisati di cui si sarebbe in qualche modo reso responsabile. Il senso
di colpa lo renderà più incline ad atteggiamenti accondiscendenti verso
il DOC, contribuendo al mantenimento del problema, come già ampia­
mente descritto nei paragrafi precedenti.

424
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

Suggeriamo di gestire questi stati emotivi tenendo presente che:


Pena. L'affetto che il familiare prova per il proprio caro e la pena per la
sua sofferenza sono sentimenti nobili: vanno però usati per motivarlo a
curarsi e rinunciare gradualmente ai rituali che il DOC gli impone; for­
nirgli rassicurazioni continue, sostituirsi a lui/lei, accettare che esegua
liberamente i rituali peggiorerà solo le cose ! Darà l'illusione tempora­
nea di aver ridotto l'ansia, ma in realtà servirà solo a rinforzare il DOC !
Paura. Non bisogna cedere alla paura ! Se il familiare imparerà a rifiutar­
si gentilmente (ma in modo fermo) di assecondare le richieste del DOC,
contribuirà alla guarigione del proprio caro. Al suo rifiuto potrà seguire
un momentaneo aumento di ansia e della rabbia del paziente, tuttavia,
l'ansia e la rabbia passeranno e, insieme, paziente e familiare avranno
vinto una piccola ma significativa battaglia contro il DOC.
Rabbia. La rabbia e l'esasperazione sono sentimenti umani e inevitabili
quando si convive con una persona affetta da DOC. Tuttavia, le dure cri­
tiche vanno evitate. Il paziente non va rimproverato per i rituali né for­
zato a bloccarli. Le critiche e le forzature alimentano il DOC ! La rabbia
va gestita ricordando che il paziente è il primo a soffrire e a colpevoliz­
zarsi per la condizione in cui vive e in cui costringe i propri cari; quan­
do è in preda all'angoscia ossessiva egli crede di non avere altra scelta
se non quella imposta dal DOC. L'esasperazione si vince imparando gra­
dualmente a non partecipare ai rituali e a uscire dalle trappole del di­
sturbo prima che si inneschino.
Colpa. Non bisogna sentirsi in colpa per il DOC del proprio caro: non
serve a nulla ! Non è colpa del familiare se si è ammalato, se prova ansia,
se il DOC lo tortura giorno e notte. Le ragioni dello sviluppo del distur­
bo sono molteplici e complesse e anche quando i genitori hanno, uma­
namente, commesso degli errori, attribuire loro l'intera responsabilità
delle condizioni del figlio è operazione riduttiva e controproducente.
Soprattutto, non è una colpa dire di no ai rituali e alle regole del DOC,
al contrario: ribellarsi al DOC è l'unico modo per aiutare il proprio caro
a guarire. L'importante è imparare a farlo alleandosi, paziente e familia­
ri, contro il disturbo, consapevolmente e con gentilezza.

Fronteggiare le situazioni del I tipo

Entriamo ora nel vivo della gestione delle interazioni problemati­


che, illustrando un dialogo tipico familiare-paziente, evidenziando pri-

425
La clinica

ma tutti gli errori che, suo malgrado, vengono commessi dal familiare e
proponendo successivamente una modalità di gestione alternativa e più
funzionale. In sintesi, illustreremo ciò che non andrebbe fatto e quello
che invece sarebbe opportuno dire, rispondere o fare (il problema se­
guito dalla soluzione).
In questo paragrafo ci occuperemo delle situazioni che abbiamo chia­
mato del I tipo, cioè quelle in cui il paziente coinvolge attivamente il fa­
miliare con richieste di rassicurazione, aiuto nell'esecuzione dei rituali,
sostituzione in attività quotidiane. Nel paragrafo successivo affrontere­
mo le situazione del II tipo, le più difficili, quelle in cui il paziente, sen­
za chiedere aiuti, impone al familiare gli effetti molesti dei propri rituali
(per esempio, uso prolungato del bagno, rumori notturni, ritardi).
Leggiamo con attenzione questo dialogo tra madre e figlio ossessivo
(situazione del I tipo) :

F: "Mamma, hai lavato le mani con il disinfettante? " .


M : "Sono pulite ! " [pacca sulla spalla] .
F: "Sì, ma è molto importante che le lavi con il disinfettante ! " .
M: " È tutto ok. Non ho toccato nessuna delle 'cose sporche', puoi stare
tranquillo ! " [bugia a fin di bene] .
F: " Non è vero, bugiarda ! Hai comprato il giornale, perciò hai toccato
i soldi . . . Lo vedi che non posso fidarmi? " .
M : " Guarda che le ho lavate bene . . . Dai, mettiamoci a tavola ! " [pacca
sulla spalla] .
F: " No, il sapone è inefficace, non disinfetta, non elimina i germi ! " .
M : " Non lo fa nessuno . . . Tu sei folle ! " [biasimo] .
F: " Ma dovrebbero farlo tutti ! " .
M: "Proviamo a ragionare . . . Fanno tutti così, usano il sapone e a loro
non succede nulla . . . Questo dimostra che non c'è pericolo" [avvio
della disputa razionale] .
F: " Come puoi dirlo con certezza? " .
M : "Perché faccio così da sempre e non è mai successo niente, perché la
casa è pulita, perché in casa noi tutti rispettiamo le norme igieniche.
Poi, ragiona, il cibo che usiamo è cotto e la cottura uccide i germi,
e infine perché le difese immunitarie sono in grado di aggredire gli
eventuali germi residui" [disputa razionale] .
F: " Uhm . . . già, ma il disinfettante riduce ulteriormente i rischi ! ".
M: "Ok, facciamo così, d'ora in poi tu mangerai nella tua stanza con piat­
ti e posate che userai solo tu e avrai un tuo mobiletto in cucina con la
tua roba che nessuno toccherà, così potrai stare certo che nessuno ti
contagi con germi e cose simili e staremo tutti più tranquilli ! " [sug­
gerimento di soluzioni] .
F: " Sì, è un'ottima idea . . . Però, ora, per favore, disinfetta le mani prima
di mettere il cibo nel mio piatto" .

426
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

M: "Ahh, basta, non ti sopporto più, ci rendi la vita un inferno, tu sei un


pazzo, finiremo tutti al manicomio per le tue manie. Faccio come dici
pur di non sentirti ! " [compiacenza e biasimo] .

Questa madre, nonostante le sue buone intenzioni, cade in tutte le


trappole che abbiamo descritto nei primi paragrafi. Prova a persuadere
il ragazzo, dapprima con una blanda rassicurazione, una sorta di bona­
ria pacca sulla spalla ( '' Sono pulite, non ti preoccupare" ) , poi inventan­
do una piccola bugia a fin di bene ( '' Non ho toccato niente di sporco ") ,
poi provando a intavolare una discussione razionale sulla sensatezza
della richiesta del paziente ( "Proviamo a ragionare . . . " ) , poi suggerendo
una soluzione caratterizzata da nuovi evitamenti, quindi disfunzionale
( "Facciamo così: d'ora in poi pranzerai nella tua stanza con piatti e po­
sate solo tuoi. . . " ) , e infine lo compiace ( ''Faccio quello che mi dici . . . " )
e lo biasima contemporaneamente ( '' Non ti sopporto più ! " ) . Queste ri­
sposte finiranno per mantenere il disturbo e inasprire sempre di più il
clima in casa. La risposta più corretta sarebbe stata un garbato ma deci­
so rifiuto. Già, ma come fare? Quali atteggiamenti adottare?
Le mosse che suggeriamo a un familiare per gestire in modo più fun­
zionale una situazione del primo tipo sono le seguenti.
- Validare lo stato emotivo del paziente. In altri termini, comunicargli
che lo si comprende, riconoscere e accogliere la sua angoscia e la sua
sofferenza, di cui è vittima, non colpevole.
Rifiutarsi garbatamente ma in modo /ermo di compiacere la richiesta
ossesszva.
- Motivare il rifiuto senza entrare nella logica ossessi va.
- Sostenere e incoraggiare il paziente a tollerare l'ansia provocata dalla
rinuncia alla compulsione fino alla sua scomparsa.
Dopo avere compiuto in modo convinto i passi precedenti, chiudere
gentilmente lo scambio. Prolungarlo eccessivamente rischierebbe di
avviare un lungo botta-e-risposta, sterile e deleterio.
Vediamo come seguire concretamente questi passi, trasformando il
dialogo potenzialmente problematico in uno scambio più funzionale:

F: "Per favore, lava le mani con il disinfettante" .


M : "Mi dispiace, so che in questo momento hai l'impressione che questo
ti farebbe stare meglio, ma non laverò le mani con il disinfettante"
[rifiuto gentile e fermo] .
F: "Per favore, è molto importante . . . Prima di mettersi a tavola è fon­
damentale avere le mani perfettamente pulite" .

427
La clinica

M: " Sono d'accordo con te sull'utilità di lavare le mani prima di mangia­


re, e infatti l'ho fatto, ma una volta, e con un normale sapone. Non le
laverò ancora e non userò il disinfettante. Se lo facessi asseconderei
le richieste del DOC, alimentando il disturbo" [rifiuto motivato] .
F: " Ma il normale sapone non uccide tutti i germi e non elimina il rischio
di contagi ! " .
M: "Forse no, ma credo che lo riduca sensibilmente . . . In ogni caso, pre­
ferisco correre questo piccolo rischio piuttosto che assecondare il
DOC " [rifiuto motivato] .
F: " Ma se non usi il disinfettante mi verrà un'ansia fortissima e non riu­
scirò a mangiare " .
M : "Lo capisco, deve essere terribile combattere con quest'ansia, d i cui
non hai nessuna colpa. Chiunque, in preda a quest'angoscia, farebbe
di tutto pur di liberarsene" [validazione della sofferenza del paziente] .
F: "Allora se mi capisci e vuoi davvero aiutarmi, lava le mani con il di­
sinfettante. È l'unico modo per farmela passare " .
M : "Non lo farò, perché così faremmo solo i l gioco del DOC. L'ansia per
fortuna passerà dopo un po', anche senza fare rituali ed evitamenti"
[rifiuto motivato] .
F: "Vorrà dire che se non le lavi non mangerò" .
M: " Non potrò costringerti a mangiare, ma spero che cambi idea" [rifiu­
to gentile e fermo] .
F: "Allora vuoi dire che non te ne frega niente" .
M : " Non è vero, me n e importa eccome, vedo l a tua sofferenza e vorrei
tanto mandarla via, ma la soluzione non è lavare le mani per l'enne­
sima volta come pretende il DOC. So che se non laverò le mani la tua
ansia inizialmente potrà persino aumentare, ma so anche che pian
piano passerà, e tu avrai vinto questa battaglia. Ce la puoi fare ! E se
me lo permetterai io ti sarò accanto in questa battaglia [validazione,
rifiuto motivato, sostegno e incoraggiamento] .
F: "Ti prego . . . solo per questa volta . . . ."

M: "Ti ho spiegato, Paolo. Non lo ripeterò ancora, non perché non mi


importi di te, ma perché purtroppo non servirebbe a nulla e finirem­
mo per discutere. Ora mi metterò a tavola. Spero davvero che anche
tu decida di venire a pranzo, ma non insisterò ancora e non laverò di
nuovo le mani" [chiusura gentile e ferma] .

Fronteggiare le situazioni del II tipo

Le situazioni del II tipo sono spesso le più difficili da gestire. Come


abbiamo visto nel paragrafo precedente, quando il familiare partecipa
al sintomo del proprio caro (situazioni del I tipo) l'uscita dalla trappola
è teoricamente semplice: è sufficiente rifiutarsi in modo gentile, sicuro,
empatico e motivato di continuare a prendere parte a quei sintomi. Il

428
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

paziente insisterà, talvolta protesterà (come visto nell'esempio), ma se


il familiare manterrà il punto, la trappola sarà disattivata. A quel pun­
to, il paziente sceglierà autonomamente se proseguire o no nella messa
in atto dei rituali o degli evitamenti, ma almeno il familiare sarà virtual­
mente fuori dalla trappola e non contribuirà a rinforzare il disturbo.
Nelle situazioni del u tipo, invece, il familiare è suo malgrado nella
trappola. Non partecipa ai sintomi, ma è costretto a subirli. Per com­
prendere meglio questa dinamica ricorderemo l'esempio di Sonia e di
suo marito già descritto all'inizio del capitolo.
Sonia ha un disturbo caratterizzato da ossessioni e compulsioni di
controllo; è terrorizzata dall'idea che, dimenticando il rubinetto del
gas aperto, possa rendersi responsabile di una tragedia. Controlla più
e più volte i fornelli e la manopola del gas, ma questo sembra non ba­
starle mai. La sua attività compulsiva si compie in autonomia e prin­
cipalmente prima di chiudere casa e durante la notte, richiede molte
ore, causando ritardi e notti in bianco, che finiscono per essere subiti
anche dal marito. Quando, per esempio, la aspetta in macchina prima
di uscire, è costretto a lunghe attese che gli creano notevoli disagi al
lavoro e vede il suo sonno disturbato dai continui controlli notturni
della moglie che avvengono prima di mettersi a letto, e talvolta anche
nel cuore della notte. Il marito, dopo anni di una vita scandita dai ri­
tuali della moglie, è stanco e scoraggiato, si sente vittima impotente di
un comportamento che non sa come contrastare, e il rapporto di cop­
pia è in grave crisi.
In situazioni come questa, il familiare solitamente ha due possibili­
tà: accettare passivamente i comportamenti molesti del proprio caro o
provare a contrastarli. Accettarli passivamente evidentemente non è una
vera soluzione, ma solo un modo per prevenire o contenere tensioni e
conflitti interpersonali. È in definitiva una forma di compiacenza passi­
va: il disturbo continuerà a fare il suo corso e a lungo andare l'armonia
familiare verrà persa.
Contrastarli è in teoria utile, ma come? Spesso i familiari lo fanno
nei modi che abbiamo già illustrato, con strategie persuasive (pacche
sulle spalle, discussioni, piccole bugie) , proponendo il proprio " aiuto"
(compiacenza, suggerimento di " soluzioni" ) , o biasimando il paziente.
Abbiamo anche visto che queste strategie purtroppo non funzionano e
spesso peggiorano il quadro complessivo.
Nel dialogo che segue, il marito di Sonia, dopo svariate notti passate
in bianco accettando passivamente le compulsioni della moglie, decide
di intervenire per contrastare il disturbo della moglie:

429
La clinica

M: "Amore, sono le 2 .00. Domani dovremo svegliarci presto. Perché ti


alzi in continuazione? " .
S : " Dormi, non è nulla. Fra u n minuto m i metto a letto" .
M: "Sono tre ore che fai s u e giù! Vai i n cucina, torni a letto, t i giri d a una
parte e dall'altra per qualche minuto, poi ti alzi ancora e torni in cu­
cina. È un tormento ! Ieri lo hai fatto fino alle 5 .00 del mattino. Spie­
garni, come faccio a dormire ! " [biasimo] .
S: "Sapessi il mio di tormento: non sono sicura che il rubinetto del gas
sia chiuso bene. Ma tu, dormi. Faccio un ultimo controllo e non ci
penso più " .
M: " Ma come un ultimo controllo ! Certo che è chiuso bene . . . Dormi pu­
re tranquilla" [pacca sulla spalla] .
S: " Ma come faccio a dormire tranquilla con questo pensiero ! Abbiamo
due bambini! " .
M : " Ma non ti sei alzata un quarto d'ora fa per controllarlo? " .
S : " Sì . . . infatti" .
M : " E allora, qual è il problema? " .
S : " Il punto è che non sono sicura d i avere controllato bene. L'ho fat­
to frettolosamente e dovevo avere la testa da un'altra parte, infatti
non riesco proprio a ricordare il momento in cui ho stretto la ma­
nopola ! " .
M: " Aahh, Sonia, usiamo la testa: hai fatto svariati controlli e quindi è
senza dubbio tutto ok. Ma ammettiamo che per errore il rubinetto
principale sia rimasto aperto . . . Tanta gente dorme con il rubinetto
aperto . . . L'importante è che non ci siano perdite e che i fornelli non
siano guasti" [avvio disputa razionale] .
S: " Già . . . ma, adesso che mi ci fai pensare, come faccio a essere sicura
che non ci siano perdite? " .
M: "È sicuro. I fornelli sono nuovi ! " .
S : " Sì, ma . . . se hanno un difetto di fabbrica ? " .
M: " Aspetta, fammi pensare . . . O r a che c i penso, questa sera prima di
venire a letto ho fatto anch'io un controllo e posso garantirti che era
tutto ok" [bugia a fin di bene] .
S: "Sei sicuro? Posso fidarmi? Tu non controlli mai il gas . . . Non me lo
starai dicendo solo per tranquillizzarmi? " .
M : " È che vorrei dormire tranquillo . . . Solo questo" .
s : " Hai ragione, lo capisco, m a è più forte di me" .
M : " Ascolta, ho un'idea. D'ora in poi quando farai un controllo ti ap­
punterai su un foglietto l'esito del controllo e lo terrai con te. In que­
sto modo, se dopo ti verrà il dubbio di non averlo fatto bene, basterà
leggere l'appunto per rassicurarsi. Che ne pensi? " [suggerimento di
soluzioni] .
S: "Sì, è un'ottima idea! Proverò" .
M : "Bene ! " .
S : " Il problema però è che questa sera l'ansia proprio non passa . . . Farò
un ultimo controllo " .

430
Il ruolo deifamiliari nel mantenimento del DOC

M: " Ascolta, scenderò io con te e controlleremo insieme, così non ci sa­


ranno più dubbi. Ma questa storia deve finire, le notti stanno diven­
tando un incubo, non se ne può più ! E poi sono molto preoccupato
per nostro figlio . . . L'altro giorno, quando l'ho portato al parco, mi ha
chiesto quattro o cinque volte se ero sicuro di aver chiuso la porta di
casa. Il tuo comportamento lo farà ammalare delle tue stesse manie.
Per carità di Dio, te ne rendi conto? Ti rendi conto di quello che stai
facendo a questa famiglia, con le tue manie? Devi piantarla ! Ti com­
porti da egoista, esistono solo le tue stupide fissazioni, e di noi non te
ne frega nulla ! " [compiacenza e biasimo] .

Come possiamo notare nel dialogo riportato sopra, il marito di Sonia,


nel tentativo di contrastarne l'attività ossessiva, cade, inconsapevolmen­
te, nelle trappole che abbiamo più volte descritto. Prova a persuadere la
moglie con quella che abbiamo chiamato pacca sulla spalla ( '' Certo che
è chiuso . . . Dormi pure tranquilla" ) , con una piccola bugia ( " Ho fatto
anch'io un controllo e posso garantirti che era tutto OK" ) , e avviando
una disputa razionale ( ''Usiamo la testa . . . Se anche fosse aperto, non ci
sarebbero pericoli. L'importante è che non ci siano perdite e i fornelli
non siano rotti . . . " ) . Falliti questi tentativi, gioca la carta dell'aiuto ac­
comodante con il suggerimento di soluzioni ( "Facciamo così: d'ora in
avanti appunterai su un foglietto l'esito del controllo così non dovrai
più scendere a controllare" ) e con la compiacenza accompagnandola a
controllare ( " Scenderò con te e controlleremo insieme . . . " ) . li tutto con­
dito in più occasioni da espressioni di biasimo ("È un tormento . . . Non
se ne può più . . . Farai ammalare nostro figlio delle tue stesse manie . . .
Ti comporti da egoista . . . " ) .
Le strategie che suggeriamo per gestire le situazioni del II tipo non
differiscono nei principi di base da quelle indicate per le situazioni
del I tipo, ma richiedono degli accorgimenti in più. Prima le elenche­
remo sinteticamente e poi forniremo un esempio concreto di come
applicarle.
Non subire passivamente l'esecuzione dei sintomi ossessivi del fami­
liare.
Motivare gentilmente le ragioni della propria opposizione.
Validare in modo empatico lo stato emotivo del paziente. In altri ter­
mini, riconoscere, accogliere, condividere l'angoscia e la sofferenza
di cui è vittima, non colpevole.
Condividere un contratto: negoziare in modo collaborativo una solu­
zione compatibile con i bisogni dei familiari e che aiuti il paziente a
liberarsi gradualmente dei sintomi. Il contratto dovrà essere stipulato

43 1
La clinica

a freddo, in un momento di calma, non nel corso di una crisi ossessi­


va, e deve essere condiviso in tutte le sue parti. Dovrà essere sinteti­
co, chiaro e realisticamente applicabile.
Applicare quanto previsto dal contratto a caldo (quando cioè il pazien­
te è in preda all'ansia e mette in atto i sintomi) . Farlo con gentilezza,
ma in modo fermo e coerente con gli accordi presi in precedenza.
Sostenere e incoraggiare il paziente a tollerare le difficoltà derivate
dall'applicazione del contratto.
Vediamo un esempio di dialogo in cui il familiare prova ad applicare
queste strategie più funzionali, evitando di cadere nelle trappole prima
descritte.

M: "Sonia, vorrei parlarti di una cosa importante" .


s: " Dimmi " .
M: "Vedi, sono mesi che passiamo insieme delle notti e delle mattine dif­
ficili. Siamo entrambi esausti e rassegnati. Ogni notte passata in bian­
co ci diciamo che è l'ultima e che la successiva andrà meglio. Così, di
mattina, mentre ti aspetto in macchina e so che sei in preda all'ansia
dell'ultimo controllo e che faremo l'ennesimo ritardo al lavoro, mi
dico che non sarà sempre così".
S: "Già " .
M: "Per tanto tempo ho pensato che non interferendo con i tuoi control­
li le cose sarebbero migliorate, o che perlomeno non sarebbero peg­
giorate, che non trovando ostacoli ti saresti tranquillizzata prima. Mi
sbagliavo. Il tuo problema non è migliorato, è anzi peggiorato".
S: "Sì, è vero, ed è tutta colpa mia ! " .
M : " No, non è vero ! Non hai nessuna colpa, tu sei la prima vittima del
DOC. Ma è evidente che la soluzione per sconfiggerlo non è quella
adottata finora. Lasciarti fare i rituali o aiutarti a farli non funziona,
rafforza ogni giorno di più il DOC. Io non resterò più immobile di fron­
te ai tuoi rituali, né cadrò nella trappola di farli insieme a te. Credo
che, come ci ha suggerito il terapeuta, dobbiamo concordare insieme
una nuova strategia per opporci ai rituali" [validazione, rifiuto moti­
vato, avvio contratto] .
S: "Già, ma come? " .
M : "Non lo so ancora, ma insieme troveremo un nuovo modo di gestire
l'ansia di quei momenti terribili. Potremmo, per esempio, iniziare a
porre dei limiti di tempo per metterei a letto, o di attesa in macchina.
Ora non ci sono limiti, il DOC si è preso tutto lo spazio. L'allarme non
lo inseriamo praticamente più, le luci del corridoio vengono lascia­
te accese anche di notte per consentirti di alzarti e fare i controlli, la
mattina poi, invece di muoverei di casa alle 7 .30 finiamo per parti­
re un'ora dopo, e a volte anche più tardi. Potremmo iniziare da qui"
[contratto] .

432
Il ruolo dei familiari nel mantenimento del DOC

S: "Sì, ma è più forte di me! " .


M: "Certo, questo è quello che senti in quei momenti, e s o che ti sembra
impossibile resistere. Ma se dici di no al rituale abbiamo visto che poi
l'ansia va via. Io ti sarò accanto e sarò lì a incoraggiarti" [validazione,
sostegno e incoraggiamento] .
S: "Spero di farcela . . . ma tu cosa proponi esattamente? " .
M : "Un'idea per iniziare potrebbe essere che a partire d a questa sera tut­
ti i giorni io inserirò l'allarme e spegnerò tutte le luci alle 2 in punto,
non più tardi, e che da quel momento non ti alzerai dal letto per an­
dare a controllare. Faremo così per tutta la settimana, poi dalla pros­
sima abbasseremo il limite di mezz'ora, e così via, fino ad arrivare alla
mezzanotte, senza cedere alle pressioni del DOC. Se avrai l'ansia, una
volta a letto, io ti sarò accanto e aspetteremo che passi senza cedere
al DOC, ma non disinserirò l'allarme e, se me lo consentirai, le prime
notti terrò io la chiavetta di inserimento, perché tu non ceda alla ten­
tazione di disinserirlo. Vedrai, ce la faremo ! " [contratto, sostegno,
incoraggiamento] .
S: " Sì, ma le 2 non è realistico. Non finisco mai prima delle 4. Inizial-
mente fisserei un orario più alla mia portata. Non so . . . le 3 " .
M: "D'accordo. Inizieremo con il limite delle 3 " .
S : "E con i ritardi della mattina, come facciamo? " .
M : "Considerato che realisticamente non partiamo prima delle 8.30-9.00,
potremmo fissare il limite per la prima settimana alle 8.15, poi la se­
conda alle 8.00, fino ad arrivare alle 7.30" [contratto] .
S: " Sì, in teoria, potrei farcela. Ma se poi non ce la faccio ? " .
M : " Non andrà sempre tutto liscio, m a s e rispettiamo l'accordo pian pia­
no ce la faremo " [sostegno, incoraggiamento] .
S: "Già, ma quando non ce la faccio, come ci regoliamo? " .
M : "Sarà necessario che in quei casi i o vada via ugualmente come da ac­
cordi, all'orario previsto" .
S : " Scusa, e io? Salterei i l lavoro, o farei tardissimo, dovendo prendere
. .
1 mezz1 ., , .
M: " Sì Sonia, ci sarà questo rischio, ma se non rispettiamo gli accordi del
contratto il DOC vincerà e ci porterà a fare ritardo tutte le mattine.
Forse è meglio correre il rischio di arrivare in ritardo al lavoro qual­
che volta, piuttosto che avere la certezza di fare continui ritardi, co­
munque gravi, tutti i giorni. Cosa ne pensi? " [contratto] .
S: "Che hai ragione, ma che non sarà facile . . . " .
M : "Certo che non lo sarà, m a ce la faremo" [validazione, sostegno, in-
coraggiamento] .
S: "Ok . . . possiamo provare" .
M : "Accordo fatto? " .
S : "Accordo fatto " .
M: "Bene ! " .
S : "Ci saranno momenti difficili . . . so che quando inserirai l'allarme o
andrai via inmacchina, io ti odierò e finiremo per litigare" .

433
La clinica

M: " Sì, potrà accadere, è umano, ma insieme supereremo le difficoltà.


Non dovrà trasformarsi in una disputa tra noi, ma restare una batta­
glia che combattiamo insieme contro il DOC, per noi e per la nostra
famiglia. Ce la faremo ! " [validazione, sostegno, incoraggiamento] .

Gestire situazioni del II tipo è più difficile perché non è sufficiente


sottrarsi a una richiesta di rassicurazione o di aiuto nell'esecuzione di
un rituale. Come illustrato nel dialogo trascritto sopra, è necessario fare
qualcosa in più: negoziare degli accordi che comporteranno manovre
del familiare spesso chiaramente contrarie alle richieste immediate del
paziente (per esempio, andare via in auto senza aspettarlo, inserire l'al­
larme rendendo più complicata l'esecuzione di un controllo notturno,
spegnere le luci lasciate compulsivamente accese, usare oggetti che il
paziente ha ordinato precedentemente secondo uno schema ossessi­
va, invitare a casa persone sgradite al paziente perché " contaminate" ,
ecc.). Sappiamo che manovre di questo tipo possono creare attriti tra
familiare e paziente, pertanto l'unico modo per poterle attuare sen­
za cadere nella trappola del biasimo e dell'antagonismo è concordar­
le prima, in un momento di calma e in modo collaborativo. Un buon
contratto dovrà essere realistico e flessibile, dunque visto dal paziente
come sensato e alla propria portata. Dovrà inoltre essere chiaro e con­
cretamente applicabile (concordare, per esempio, di spegnere lo scal­
dabagno per bloccare i rituali di lavaggio non sarà una mossa pratica­
bile se questo impedirà al paziente e agli altri di lavarsi normalmente) .
Specie agli inizi sarà ragionevole condividere contratti non esagera­
tamente ambiziosi: molto meglio un contratto con obiettivi modesti, ma
chiari e raggiungibili, che esaltanti, ma irrealistici. Ogni piccolo successo
sarà la base per rafforzare la fiducia nel cambiamento e costruire un suc­
cesso più grande. Un buon contratto, negoziato e concordato insieme,
non eliminerà del tutto le tensioni, ma le ridurrà e renderà più accetta­
bili per il paziente le manovre terapeutiche del familiare.

CONCLUSIONI

In questo capitolo abbiamo illustrato per quali ragioni le reazioni


comportamentali e verbali dei familiari alla sintomatologia dei loro cari
affetti da DOC costituiscano, del tutto inconsapevolmente per le persone
coinvolte, potenti fattori di mantenimento ed esacerbazione della sinto­
matologia. È noto che quando una persona con DOC è in preda all'ansia
ossessiva, chieda rassicurazione agli altri significativi, o li coinvolga in

434
Il ruolo dei familiari nel mantenimento del DOC

qualche altro modo nella messa in atto delle compulsioni. Spesso i fa­
miliari, ritenendo di agire correttamente e per il bene del proprio caro,
subiscono passivamente la sua attività compulsiva, o cercano di placare
il suo disagio rassicurandolo superficialmente, o in altre circostanze si
impegnano in dettagliate spiegazioni logiche, in altre ancora asseconda­
no le sue richieste, sostituendosi a lui in attività temute, consentendo­
gli massicci evitamenti o suggerendogli nuove soluzioni compulsive. In
altre occasioni ancora, esasperati dalle continue richieste e dalla fatica
estenuante legata alla condivisione dell'esistenza con una persona con
DOC, la maltrattano, la colpevolizzano o la forzano a interrompere i ri­
tuali. In realtà, nessuna delle strategie che spontaneamente la maggior
parte dei familiari tende a mettere in atto è efficace, anzi, si rivelano tut­
te non solo inutili, ma controproducenti, e danno luogo ad alcuni tipi­
ci cicli interpersonali patogeni che conducono al peggioramento della
sintomatologia e in molti casi a un'ulteriore esasperazione del clima af­
fettivo familiare. Per tali motivi, se si vuole affrontare efficacemente il
trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo, è fondamentale aiutare
paziente e familiari a identificare questi meccanismi e addestrare tutte
le persone coinvolte in strategie efficaci di disinnesco di essi. Sia l'indi­
viduo affetto da DOC, sia i suoi cari dovranno imparare ad affrontare e
superare i momenti di crisi in cui l'ansia è molto intensa, anche grazie
a strategie specifiche di accettazione, che consentono di passare attra­
verso l'esperienza del disagio senza esserne sopraffatti, e quindi senza
mettere in atto le compulsioni.

435
XXII

TRAPPOLE DURANTE IL TRATTAMENTO


CREDENZE E SCOPI CHE LE DETERMINANO E SOLUZIONI

Angelo Maria Salianz; Francesco Mancini

INTRODUZIONE

Fino alla seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso molti
professionisti della salute mentale ritenevano che il DOC fosse una con­
dizione essenzialmente cronica e difficilmente trattabile. Fino a quan­
do Vietar Meyer (Meyer, Levy, Schnurer 1 974; Meyer, 1 966) , clinico
inglese, ex pilota militare ed ex prigioniero di guerra durante la Secon­
da guerra mondiale, dimostrò empiricamente che, esponendo in modo
prolungato un soggetto agli stimoli temuti e chiedendogli contempora­
neamente di non mettere in atto i rituali solitamente utilizzati per con­
trastare il disagio provocato dallo stimolo ansiogeno, si assisteva a un
netto miglioramento del suo quadro clinico. Nei decenni che sono se­
guiti le procedure di esposizione con prevenzione della risposta (EIRP)
sono diventate trattamento elettivo e di provata efficacia del disturbo
(vedi capitolo XVI) . L'E/RP dunque funziona e il DOC, grazie a questa im­
portante innovazione, diventa una condizione trattabile efficacemente.
Tuttavia, le difficoltà tecniche e relazionali che i terapeuti incontrano
nel trattamento del disturbo restano notevoli. Perché?
Una prima ragione risiede nell'impegno e nel carico emotivo richiesti
dalla tecnica: le procedure E!RP prevedono la disponibilità a tollerare
quote significative di ansia e un lavoro sistematico e prolungato deter­
minando casi non rari di scarsa adesione al trattamento. Ma non basta.
Nel corso del processo terapeutico il paziente ossessivo può apparire
dubbioso, preoccupato, logorroico - o il suo esatto opposto: laconico e
stentato nell'eloquio - poco incline ad affidarsi all'aiuto professionale.
Può ridefinire continuamente le formulazioni proposte dal terapeuta o
girare a lungo intorno al cuore del problema rendendo ardua la condu-

437
La clinica

zione della fase di assessment e concettualizzazione del caso; può mo­


strare esitazioni, riserve, dubbi, ripensamenti anche durante la fase di
implementazione dell'intervento; infine, in fase di chiusura del tratta­
mento, può accadere che sottostimi i risultati ottenuti o esprima il dub­
bio penoso di non avere ancora sviscerato le cause più "profonde " del
disturbo, con il rischio, in questi ultimi due casi, di rendere la terapia
virtualmente interminabile.
Perché il paziente con DOC, nonostante l'evidente desiderio di gua­
rire, trova difficile affidarsi all'aiuto terapeutico? Perché la costruzione
di un'autentica alleanza terapeutica (Bordin, 1 979) è talvolta, con il pa­
ziente ossessivo, operazione difficile? Quali sono le specifiche valuta­
zioni che ostacolano l'intervento terapeutico?
Proveremo a rispondere a queste domande avendo come oggetto pri­
vilegiato della nostra analisi le rappresentazioni del paziente: le sue cre­
denze e i suoi scopi relativi alla terapia, al terapeuta e a se stesso.
Fonderemo la nostra risposta su una delle tesi più accreditate nel
mondo del cognitivismo clinico e della psicopatologia sperimentale (già
ampiamente descritta nella prima parte di questo volume): quella secon­
do cui la sintomatologia ossessiva è determinata da un senso ipertrofico
di responsabilità (Arntz, Voncken, Goosen, 2007 ; Mancini, D'Olimpio,
Cieri, 2004; Salkovskis, Forrester, 2002; Shafran, 1 997; Ladouceur, Léger,
Rhéaume et al. , 1996; Lopatcka, Rachman, 1995; Salkovskis , 1985 , 1 989)
e, più in particolare, da un timore di colpa per irresponsabilità (Fava, Bel­
lantuono, Bizzi et al. , 2014; Mancini, Barcaccia, 2014; Basile, Mancini,
Macaluso et al. , 2013 ; D'Olimpio, Cosentino, Basile et al. , 2013 ; Man­
cini, Saliani, 20 1 3 ; Basile, Mancini, 201 1 ; Shapiro, Stewart, 201 1 ; Man­
cini, Gangémi, Perdighe et al., 2008; Gangemi, Mancini, van den Hout,
2007; Mancini, Gangemi, 2004, 2006; Mancini, 2005 ; Shafran, Watkins,
Charman, 1 996; Rachman, 1 993 ) . Sosterremo, in accordo con tale tesi e
sulla base dell'osservazione clinica, che è possibile interpretare gran parte
delle resistenze al trattamento e delle impasse relazionali come effetti di
valutazioni riconducibili alle stesse strutture psicologiche implicate nella
genesi della sintomatologia ossessiva (Saliani, Mancini, 2012) e fornire­
mo, con l'aiuto di esemplificazioni cliniche, una descrizione dettagliata
di tali valutazioni operanti nelle diverse fasi del trattamento.
Inizieremo con le trappole tipiche della fase di assessment, per poi
dedicarci a quelle più frequenti nelle fasi di implementazione e chiusura
della terapia. Proveremo a esemplificare ciascuna di esse con la descri­
zione di brevi casi clinici, segnalando credenze e scopi problematici, gli
effetti negativi che ne derivano e, infine, le possibili soluzioni.

438
Trappole durante il trattamento

TRAPPOLE NELLA FASE DI ASSESSMENT

Le trappole che più comunemente incontriamo nella fase di assess­


ment delle nostre terapie con pazienti ossessivi sono sette. Abbiamo dato
a ciascuna di esse un nome per facilitarne il riconoscimento e l'auspica­
bile superamento. Le abbiamo chiamate:
la spiegazione perfetta;
il giudizio morale del terapeuta;
la conferma " tecnica" di indegnità;
la figura ridicola;
la diagnosi di follia;
" se ne parlo si avvera " ;
il terapeuta è in pericolo !

La spiegazione perfetta

Caso 1 : Michele
Michele, un uomo di mezza età gravemente ossessivo, parla in prima sedu­
ta della paura di commettere errori e dimenticanze imperdonabili sul posto di
lavoro, di esporsi ai rimproveri dei superiori e ai malumori dei colleghi. Per
questo rilegge lentamente e ripetutamente uno stesso documento, controlla
compulsivamente di avere chiuso a chiave tutti gli archivi dell'ufficio prima di
andare via o rimugina a lungo sull'ipotesi di avere offeso la collega con una frase
infelice. Ha anche timori ossessivi di contaminazione e dedica molto tempo a
lavaggi ed evitamenti di luoghi, persone e oggetti considerati sporchi. Michele
descrive in modo verboso, dettagliato, affannoso i suoi problemi. Torna più vol­
te su un concetto, prova a chiarirlo meglio, apre parentesi, specifica, si correg­
ge, cerca ossessivamente gli esempi giusti. Quando il terapeuta prova a porgli
una domanda o a proporgli ipotesi di formulazione del problema, esita, chiede
chiarimenti sul senso della domanda, ridefinisce le ipotesi proposte, esprime ri­
serve. Dopo quattro sedute di assessment non si è ancora giunti a una formula­
zione condivisa del problema e la possibilità di avviare l'intervento terapeutico
vero e proprio appare lontana. ll terapeuta inizia ad avvertire un senso di fru­
strazione e irritazione per le continue ridefinizioni del paziente e quest'ultimo
appare sempre più ansioso di fornirle nel modo più chiaro possibile.

In questo esempio clinico lo scopo del paziente consiste nel fare, os­
sessivamente, del proprio meglio per consentire al terapeuta di com­
prendere e operare bene. L'effetto ottenuto è evidentemente opposto.
Il terapeuta è messo in difficoltà dalla logorrea puntigliosa e inarresta­
bile del paziente e si è ben lontani dal porre le basi di una salda allean­
za terapeutica. Questo però non consente al paziente di modificare il

439
La clinica

proprio eloquio e tollerare approssimazioni perché è concentrato sul


tentativo di non fare errori o omissioni imperdonabili. In altri termini,
la performance deve essere impeccabile, non dovrà un domani rimpro­
verarsi di essere stato superficiale. Costi quel che costi. Il dialogo inter­
no dei pazienti, in questi casi, è suppergiù il seguente: " Se non spiego
scrupolosamente il mio problema, se non do risposte accurate, se sal­
to qualche dettaglio fondamentale il terapeuta capirà male. Non potrei
perdonarmelo ! " .
Non è raro riscontrare nelle prime sedute con pazienti ossessivi una
preoccupazione simile e la logorrea non è l'unica conseguenza che da
essa può derivare. Pazienti con temperamenti diversi - o lo stesso pa­
ziente in momenti diversi - possono alternare un eloquio simile a quello
di Michele, ovvero verboso, puntiglioso, polemico, a uno stentato, in­
certo, balbettante, timoroso, per certi versi opposto a quello sopra de­
scritto, ma sempre dovuto alla stessa preoccupazione di fondo: dire la
cosa sbagliata, dirla male, omettere il dettaglio che conta, e sempre con
analoghi effetti negativi sul processo terapeutico.

n giudizio morale del terapeuta

Caso 2: Giovanna
Giovanna è una donna quarantenne, madre di due bambini. In fase di assess­
ment, l'esplorazione del problema è bloccata. La paziente appare angosciata,
parla in modo laconico, accenna alla intollerabilità di taluni pensieri, ma non
racconta altro del proprio dialogo interno. Il terapeuta è in difficoltà, non rie­
sce a farsi un'idea precisa del problema della paziente, ogni sua domanda ottie­
ne risposte vaghe, incomplete, telegrafiche, o silenzio. Solo dopo molte sedute
scopre che Giovanna è ossessionata da pensieri a contenuto aggressivo riferiti
ai propri figli e che parlarne le procura una forte angoscia dovuta, tra le altre
ragioni, al timore di essere considerata dal terapeuta una persona spregevole.

L'esempio clinico di Giovanna descrive bene il timore che talvolta i


pazienti con ossessioni a contenuto aggressivo o scabroso hanno del giu­
dizio morale del terapeuta che, dunque, in questi casi finisce per essere
rappresentato come un censore severo. Qui a preoccupare il paziente
non è la qualità tecnica della prestazione propria e del terapeuta, quan­
to piuttosto un'altra minaccia: quella alla propria immagine di soggetto
morale e al proprio scopo doveroso di difenderla. Il dialogo interno ti­
pico in questi casi è grossomodo il seguente: " Se parlo al terapeuta del
pensiero ricorrente di accoltellare i miei bambini, gli apparirò come un
essere mostruoso. Sarebbe inaccettabile ! " .

440
Trappole durante il trattamento

È probabile che, almeno in una prima fase, la preoccupazione del


paziente si manifesti con riserbo e tendenza alla chiusura più che con
un eccesso di verbosità e ricerca spasmodica del termine esatto, come
accadeva nell'esempio prima riportato di Michele. L'effetto che tale at­
teggiamento può avere sul percorso terapeutico è lo stallo nell'esplora­
zione del problema.

La conferma "tecnica" di indegnità

li caso di Giovanna, appena illustrato, si presta bene a mettere in luce


un altro tipo di preoccupazione, oltre a quella già esaminata per il giu­
dizio morale, ossia: il timore che l'interpretazione tecnica del contenuto
delle ossessioni sveli e confermi la propria indegnità morale. A ben guar­
dare, qui la paziente non è solo intimorita da un giudizio morale, quanto
piuttosto da una valutazione tecnica: il terapeuta, infatti, pur astenendosi
da giudizi personali, potrebbe fornire la conferma "scientifica" della sua
intima malvagità ( ''Se il terapeuta confermasse che il pensiero raccapric­
ciante che mi assilla non è altro che l'espressione conscia dei miei deside­
ri più veri e inconfessabili? Oddio , sarebbe terribile ! " ) . Le conseguenze
manifeste di questo timore non differiscono molto da quelle dovute alla
paura del giudizio morale e consistono nel riserbo iniziale accompagna­
to talvolta dalla richiesta ossessiva e reiterata della certificazione tecnica
che i pensieri ossessivi non coincidono con i reali desideri di una persona.

La figura ridicola

Caso ]: Corrado
Corrado è un uomo di 55 anni, dirigente di un'importante società. Riferisce
di soffrire di strane ansie che lo tormentano da sempre. Si sofferma sui proble­
mi di rapporto con i figli e sulla sua vecchia paura di volare. Tuttavia, parlan­
do di questi problemi non appare realmente angosciato. Traspaiono piuttosto
orgoglio e piacere quando parla dei figli e un certo distacco divertito quando
racconta delle peripezie che precedono e accompagnano ogni suo volo. La fase
di assessment, dopo quattro sedute, appare bloccata e l'unica cosa ormai chia­
ra è che non sono questi ultimi due i problemi che tormentano Corrado e che
lo hanno motivato a chiedere aiuto a un terapeuta. Solo dopo altre due sedu­
te, intervallate da altrettante disdette e da diversi interventi del terapeuta tesi a
rassicurare il paziente e a superare l'impasse, emerge in modo chiaro un quadro
caratterizzato da ossessioni a contenuto sessuale che sin dall'adolescenza tor­
turano Corrado. I pensieri osceni riguardano soprattutto la nonna, scompar­
sa da tempo, alcune zie e l'anziana madre. Il paziente riferisce di provare una
profonda vergogna, oltre che colpa, per questi assurdi impulsi che affollano

44 1
La clinica

la sua mente (e che peraltro non sembrano provocargli alcun eccitamento ses­
suale) . Ammette che, in occasione delle loro prime sedute, era convinto che il
terapeuta stesso non avrebbe potuto fare a meno di ridere delle sue ossessioni
e che, essendo un uomo con una reputazione da difendere, non se l'era sentita
di esporsi a una tale figura.

Il caso di Corrado consente di soffermarci su un altro aspetto che


può preoccupare il paziente durante la fase di assessment e rendere va­
ni i tentativi di esplorazione del problema: quello della difesa della buo­
na immagine (Castelfranchi, 2005 ) . Qui il paziente non teme il giudizio
morale (e/o tecnico) del terapeuta, come nel caso precedente di Gio­
vanna, ma la sua derisione. Lo immagina sorprendersi del racconto e
ridere della bizzarria delle sue ossessioni a contenuto incestuoso e pro­
va, per questo, una profonda vergogna. Corrado, il manager di succes­
so, i'uomo sicuro di sé, padre di famiglia, che pensa alla madre e alle zie
novantenni nude e impegnate, proprio con lui, in improbabili incontri
sessuali. Semplicemente ridicolo !
A ben guardare, il riserbo di Corrado serve a proteggerlo da alme­
no due minacce: la prima, come detto, consiste nel rischio della figura
ridicola; la seconda nel venire meno al dovere di difendere la propria
reputazione. In altri termini, per il paziente parlare apertamente delle
proprie ossessioni implica esporsi colpevolmente a una brutta figura e,
dunque, provare simultaneamente vergogna e colpa.
Le conseguenze manifeste del timore della brutta figura in fase di as­
sessment possono consistere nel riserbo silenzioso o nel difficile tenta­
tivo di descrivere il problema senza svelare il contenuto delle ossessio­
ni, con possibile stalla nell'esplorazione del problema e impossibilità di
giungere a una sua formulazione.

La diagnosi di follia

Caso 4: Giuseppe
Giuseppe è un ragazzo di 19 anni, al primo anno di università. Racconta
di avere paura di perdere le persone a lui care: in particolare, la sua ragazza
e i suoi due fratellini. Vorrebbe che la terapia lo aiutasse a liberarsi di questa
paura. La considera irrazionale e in ogni caso troppo opprimente. Quando il
terapeuta gli chiede se e cosa abbia fatto finora per provare a contenere que­
sta angoscia così profonda, Giuseppe risponde semplicemente di avere pro­
vato a non pensarci, ma senza successo. Nel rispondere appare preoccupato
e vago e torna rapidamente a ribadire il suo unico obiettivo: non avere paure
irrazionali! Il terapeuta ha la sgradevole sensazione di girare intorno al pro­
blema senza poterlo mettere a fuoco. Solo dopo molte sedute emergerà con

442
Trappole durante il trattamento

chiarezza la vera ragione che ha spinto il paziente a chiedere il suo aiuto. Giu­
seppe ha costruito, sin dall'infanzia, un complesso sistema di simboli numeri­
ci che attraverso operazioni aritmetiche salvifiche può scongiurare o, in caso
di operazione male eseguita, favorire l'evento infausto (la morte di un caro,
una grave sciagura aerea, l'esplosione di un'epidemia, ecc.). Nel corso degli
anni il numero e la complessità delle operazioni sono via via aumentati e la lo­
ro esecuzione richiede ormai molte ore della giornata. Non ne ha parlato mai
con nessuno. Teme di essere considerato matto. Anche il terapeuta avrebbe
potuto fare diagnosi di schizofrenia, informarne i genitori e sconvolgere la lo­
ro vita. Non se lo sarebbe mai perdonato. Da tali timori, spiega, sono derivati
le grandi difficoltà incontrate nella prima fase della terapia e il proposito, poi
abbandonato, di interromperla.

li caso di Giuseppe ci consente di evidenziare un altro timore che può


portare i pazienti alla chiusura: quello della diagnosi di follia. In effet­
ti, i contenuti delle ossessioni e il tipo di compulsioni appaiono talvolta
tanto bizzarri e insoliti da ricordare quadri psicotici e solo una valuta­
zione clinica accurata può consentire una corretta diagnosi. Ancora una
volta, come nel caso di Giovanna, il paziente si rappresenta al cospet­
to di un tecnico dalla cui valutazione possono derivare effetti terribili.
Il timore ultimo, tuttavia, non deriva solo dal fatto di poter scoprire di
essere psicotici - spesso, peraltro, i pazienti con DOC sono ben certi di
non essere psicotici - ma dal fatto che tale diagnosi possa causare sce­
nari catastrofici (per esempio: impostazione di una terapia sbagliata, il
dolore dei propri cari, lo stigma, ecc.) di cui il paziente si sentirebbe, in
buona misura, responsabile.

"Se ne parlo si avvera"

Caso 5: Eugenio
Eugenio è un giovane padre ossessionato da immagini di incidenti terribili
che prova in tutti i modi ad allontanare dalla propria mente perché convinto
che, indugiandovi, renda in qualche modo più probabile che si avverino. Parla­
re al terapeuta di questa paura implica pensare agli incidenti e dunque, dal suo
punto di vista, renderli più probabili. Per questo, riuscirà a svelare in seduta il
contenuto delle proprie ossessioni solo dopo molto tempo e con grande disagio.

Caso 6: Agnese
Agnese è una donna convinta che indugiare sul pensiero di sé che sputa su
immagini sacre sia moralmente inaccettabile, nella stessa misura in cui lo sa­
rebbe se lo facesse davvero. Per questo evita strenuamente qualsiasi situazione
che renda più probabile la comparsa dell'impulso. n setting terapeutico rappre­
senta purtroppo proprio una delle situazioni che rendono necessario pensare

443
La clinica

agli impulsi riprovevoli e diventa presto luogo e occasione di silenzi protettivi,


tentativi di portare il dialogo su altri argomenti, descrizioni allusive e confuse,
fino all'abbandono prematuro della terapia.

I casi di Agnese e Eugenio chiariscono come talvolta descrivere chia­


ramente al terapeuta il problema ossessivo comporti inevitabilmente
un'esposizione proprio allo scenario che il paziente teme di più (per
esempio, per Eugenio, provocare magicamente incidenti per il solo fat­
to di averne parlato e, per Agnese, sentirsi indegna per avere anche solo
pensato e descritto un pensiero blasfemo).
In questi casi parlare del problema implicherebbe la rinuncia all'evi­
tamento ossessivo, per cui lo stile comunicativo del paziente in seduta
diviene reticente, allusivo, indiretto e, nei casi peggiori, può verificarsi
un abbandono della terapia. All 'innesco di questa trappola contribui­
sce il fenomeno chiamato fusione pensiero-azione che, come visto nel­
la parte teorica di questo volume, è determinato da: l ) la credenza che
pensare a un evento inaccettabile renda più probabile che tale evento
accada; 2) la credenza che avere un pensiero inaccettabile sia moralmen­
te equivalente al fatto di averlo messo in pratica (Shafran, Thordarson,
Rachman, 1996) .
Casi come quelli di Eugenio e Agnese sono tutt'altro che rari e le im­
passe terapeutiche cui vanno incontro non derivano dal timore di un
giudizio del terapeuta. Qui non si teme necessariamente la sua valutazio­
ne tecnica o morale, né la sua derisione, né di poterlo in qualche modo
offendere, quanto il fatto che parlare chiaramente delle proprie osses­
sioni implichi necessariamente una rinuncia all ' evitamento.
Il terapeuta dovrebbe perciò sempre chiedersi, in fase di assessment,
se le resistenze del paziente, i suoi silenzi o il suo eloquio stentato o con­
fuso, non derivino semplicemente dalla difficoltà di abbandonare l'evi­
tamento ossessivo.

n terapeuta è in pericolo!

Caso 7: Lucio
Lucio è un geometra di 27 anni ossessionato dall'amianto. Sa dell'enorme
diffusione di questo materiale e di quanto sia pericoloso per la salute. Occupa
gran parte del proprio tempo libero nella ricerca ossessiva dei luoghi a più alta
concentrazione di amianto, in controlli degli edifici in cui lavora, dei materia­
li impiegati dalla ditta di cui è dipendente, in evitamenti e comportamenti di
sicurezza (per esempio, circolare con i finestrini dell'auto ben chiusi, anche in
piena estate, aprire di rado le finestre di casa, ecc.). In seconda seduta il paziente
appare preoccupato e si dice "bloccato" . Alle domande del terapeuta su cosa

444
Trappole durante il trattamento

abbia determinato il blocco risponde che, dopo la prima seduta, si è reso con­
to di avere un problema in più, che, se non risolto, gli impedirà di proseguire
la terapia. L'assessment non procede, il paziente appare sempre più angoscia­
to e il terapeuta annaspa nel tentativo di capire cosa stia accadendo. Solo dopo
qualche seduta, quando il terapeuta accenna alla sua esperienza di inquilino
di un palazzo che è stato di recente ispezionato e bonificato dall'amianto, Lu­
cio sembra parzialmente rassicurarsi e svela le ragioni del suo "blocco " . Dopo
la prima seduta aveva sviluppato un dilemma ossessivo centrato sulla perso­
na del terapeuta: chi poteva garantirgli che continuando a dare informazioni
dettagliate e fondate sulla diffusione dell'amianto, non avrebbe messo nella te­
sta del terapeuta lo stesso tarlo diabolico che stava rovinando già la sua vita?
E, d'altronde, non informandolo di importanti dettagli relativi alla diffusione
dell'amianto, non lo avrebbe inevitabilmente lasciato esposto al rischio di con­
taminarsene e morirne?

Nel corso di una psicoterapia il terapeuta può, per varie ragioni, di­
venire oggetto delle ossessioni del paziente. Nel caso di Lucio l'osses­
sione ha assunto la forma di un dilemma nato dal timore di mettere in
pericolo il terapeuta. Il dilemma è di quelli senza via di uscita, perché se
soffermarsi sui dettagli inquietanti relativi alla pericolosità dell'amianto
significa contagiare il terapeuta delle sue stesse preoccupazioni ossessive
e rovinargli la vita, d'altro canto non parlargliene significa las ciarlo col­
pevolmente esposto alla contaminazione da amianto. Il terapeuta viene
qui rappresentato come potenziale vittima di un paziente colpevole di
avergli in qualche modo rovinato la vita. Anche nel caso di questa trap­
pola le conseguenze manifeste sono il riserbo preoccupato e l'inevitabile
stalla nella formulazione del problema.

TRAPPOLE NELLA FASE DI IMPLEMENTAZIONE


DEL TRATTAMENTO

Come nella fase di assessment, anche durante quella di implemen­


tazione della terapia possono facilmente incontrarsi ostacoli dovuti a
specifiche valutazioni del paziente, tutte riconducibili, in ultima istanza,
allo scopo sovraordinato di prevenire colpe morali. Sulla base dell'os­
servazione clinica abbiamo distinto quattro delle trappole più frequenti
e le abbiamo chiamate:
l'errore del terapeuta;
i valori del terapeuta;
l'errore del paziente;
le prescrizioni severe.

445
La clinica

Esemplificheremo ciascuna di esse, come già fatto per quelle tipiche


della fase di assessment, con la breve descrizione di uno o più casi cli­
nici per trappola.

L'errore del terapeuta

Caso 2: Giovanna
Giovanna, la giovane donna tormentata dalla paura ossessiva di perdere il
controllo e colpire a morte i figlioletti, superate almeno in parte le trappole del­
la fase di assessment, concordò con il terapeuta un intervento espositivo. li trat­
tamento consisteva, a grandi linee, nell'esposizione prolungata agli oggetti mi­
nacciosi in presenza dei figli e nella simultanea rinuncia a tutti i comportamenti
protettivi (tra i più frequenti, quello di non restare mai sola nella stanza con i
bambini, evitare di guardare i coltelli, ripetersi tre volte "sono nel pieno control­
lo di me"). L'implementazione della terapia espositiva incontrò tuttavia notevoli
difficoltà e, di fatto, fu avviata solo dopo molti mesi, quando il terapeuta compre­
se i reali timori della paziente relativi all 'E/RP. Giovanna temeva che il terapeu­
ta potesse sottovalutare il rischio che la donna mettesse dawero in pratica gesti
aggressivi contro i figli. In altri termini, agli occhi di Giovanna, una terapia espo­
sitiva incauta e mal concertata dal terapeuta, avrebbe rischiato di fare aumen­
tare le probabilità di commettere atti deprecabili e per questo non la eseguiva.

Caso 8: Rodrigo
Rodrigo, un ricercatore poco più che quarantenne e scapolo, era ossessio­
nato dal contagio. Tra le paure più resistenti c'era quella di contrarre l'AIDS dal
barbiere o dal dentista. Conteneva compulsivamente tale paura sottoponen­
do barbieri e dentisti a interrogatori serrati volti ad accertare la loro cura delle
misure igieniche ed evitando le operazioni che avrebbero comportato pericoli
maggiori (per esempio, non si lasciava mai radere) . Nel corso del trattamento
Rodrigo collaborò attivamente durante la fase di esplorazione e formulazione
dei suoi problemi e affrontò bene i primi step della terapia espositiva, ma, da
un certo punto in avanti, iniziò a mostrare nei riguardi del terapeuta un atteg­
giamento circospetto e polemico a cui spesso seguì la mancata esecuzione del­
le prescrizioni terapeutiche. Solo dopo molte sedute Rodrigo svelò al terapeu­
ta cosa aveva determinato tanta resistenza. Una sera, riflettendo sulla propria
esperienza terapeutica, si era detto che nessuno poteva garantirgli che il tera­
peuta fosse correttamente informato sulle reali possibilità di contagio, e che,
in modo superficiale, avrebbe potuto spingerlo a fare cose pericolose. Non si
sarebbe potuto perdonare di essersi affidato a una persona incauta. Per verifi­
care la preparazione del terapeuta in materia di AIDS congegnò un test: avrebbe
parlato in seduta dell'innocuità dei baci. Se il terapeuta lo avesse corretto fa­
cendogli notare che invece il bacio comporta dei rischi, seppur piccoli, avreb­
be superato il test; se invece non avesse detto nulla, o peggio, avesse annuito,
avrebbe dimostrato la propria inaffidabilità. Il terapeuta non superò il test per­
ché rimase in silenzio. Da quel momento qualsiasi sua indicazione terapeutica

446
Trappole durante il trattamento

fu sottoposta a valutazioni molto severe e nella maggior parte dei casi venne
disattesa, perché ritenuta insicura.

I casi di Giovanna e Rodrigo mostrano come le indicazioni terapeu­


tiche (in particolare relative all'E/RP) possano facilmente diventare og­
getto di valutazioni ossessive. Una delle preoccupazioni può riguardare
l 'imperizia tecnica (e/o lo scarso rigore) del terapeuta, da cui derive­
rebbero errori e rischi imperdonabili: da quelli direttamente connessi
ai sintomi ossessivi (per esempio, se mi espongo mi contagio davvero ! )
a quelli relativi al peggioramento del quadro clinico (per esempio, se
mi espongo come suggerisce il terapeuta, la mia ansia e i miei sintomi
peggioreranno). Qui il terapeuta è visto come un tecnico che per inca­
pacità o negligenza, può prescrivere mosse sbagliate, controproducenti
o inefficaci. Talvolta del dialogo interno viene riferito lo scenario anti­
cipato di un futuro, ipotetico rimorso per avere incautamente seguito
delle indicazioni inattendibili.
Le conseguenze manifeste dovute a tali valutazioni possono consi­
stere in ritiro, confronti dialettici, espressione di riserve e dubbi con ri­
schi di frattura dell'alleanza terapeutica e interruzione del trattamento.

I valori del terapeuta

Caso 6: Agnese
A Agnese, la donna angosciata da pensieri intrusivi a contenuto blasfemo,
il terapeuta aveva suggerito - soffermandosi ampiamente sul rationale dell'in­
tervento - di provare a tollerare il fatto che nella sua mente comparissero im­
magini e impulsi di quel tipo e di rinunciare a evitamenti e compulsioni covert
di contrasto. La paziente non accolse il suggerimento e da quel momento ini­
ziò a valutare con molta circospezione ogni intervento terapeutico. Quando
Agnese parlò con un sacerdote del suo problema e delle riserve che nutriva nei
confronti della terapia, quest'ultimo le riferì di conoscere quel genere di disagi
psicologici e la invitò a fidarsi delle indicazioni del clinico. Solo a quel punto
la paziente, rassicurata, spiegò le ragioni delle sue resistenze: prima dell'invito
a tollerare i pensieri blasfemi, aveva sperato che la terapia potesse consistere
nell'applicazione di tecniche in grado di eliminare i pensieri sgradevoli dalla
propria mente. Quando aveva realizzato che invece parte della cura si sarebbe
basata proprio sull'accettazione della presenza dei pensieri molesti, aveva te­
muto che tale prescrizione derivasse da una visione "scientista e amorale" della
vita e che la terapia avrebbe comportato uno stravolgimento dei propri valori.

Nel caso di Agnese il terapeuta è rappresentato come un tecnico di


cui non si teme l'imperizia (come invece accadeva nei casi di Rodrigo e
Giovanna) ma, piuttosto, i valori personali e il fatto che la terapia pos-

447
La clinica

sa comportare un conflitto tra questi e quelli della paziente. Tale timo­


re non è raro e il caso portato per esempio non deve trarre in inganno,
suggerendo che riguardi esclusivamente pazienti credenti. La paura che
la terapia comporti l'adesione a valori diversi dai propri può essere pre­
sente anche in pazienti ossessivi privi di qualsiasi forma di adesione a
una confessione religiosa. Un paziente con ossessioni di contaminazio­
ne potrebbe, per esempio, temere che il terapeuta, suggerendogli di ac­
cettare il senso di sporcizia che gli provoca il contatto con determinate
sostanze, gli trasmetta standard discutibili sull'igiene e sul decoro; un
altro con controlli compulsivi potrebbe pensare che la prescrizione di
esporsi al rischio di non avere chiuso il gas implichi una visione trop­
po " comoda" , oltre che pericolosa, della vita; un altro con ossessioni di
ordine e simmetria potrebbe vedere nelle esposizioni al disordine il ri­
schio di adeguarsi a un'idea della vita caotica e " dissoluta" ; e così via. Le
conseguenze manifeste di tale timore sono un possibile atteggiamento
guardingo nei confronti del terapeuta e resistenze passive o attive alle
sue prescrizioni, che nei casi peggiori possono sfociare in una definitiva
frattura dell'alleanza terapeutica e nell'abbandono della terapia.

L'errore del paziente

Caso 9: Peppe
Peppe è uno studente che chiede aiuto per sintomi ossessivo-compulsivi di
simmetria e ordine. Se penne, matite e libri, scarpe e altri oggetti non sono al­
lineati secondo un preciso criterio avverte una sgradevole sensazione di sciat­
teria e prova molta angoscia, sia perché teme magicamente che questo causerà
brutti voti agli esami, sia perché vede in essa l'inizio di una deriva che lo porterà
in breve tempo a un'esistenza caotica e squallida. La terapia espositiva procede
con estrema difficoltà perché Peppe è ossessionato dal timore di applicare male
le indicazioni terapeutiche. Si rimprovera di non essere stato abbastanza atten­
to in seduta, di non ripetere in modo corretto quanto già fatto con il terapeuta
e, tutte le volte che prova autonomamente ad applicare quanto concordato, è
assediato da dubbi di ogni genere: dovrà aspettare che l'ansia passi oggettiva­
mente o sarà sufficiente che gli sembri che sia passata? E come si potrebbe va­
lutare oggettivamente l'ansia? E se l'ansia passa troppo velocemente non sarà
perché si è distratto e ha fatto male l'esercizio? E se fa degli errori di cui non
si accorge e dopo deve ricominciare tutto? E se fra un anno scopre che l'intera
terapia è da ripetere? Questa dubbiosità gli impone di chiedere continue veri­
fiche al terapeuta, in seduta e per telefono, ma ogni tentativo di rassicurazione
seda solo temporaneamente la sua ansietà.

Il caso di Peppe mostra come, talvolta, anche quando il paziente si


fida del terapeuta e delle sue indicazioni, può essere ossessionato dal

448
Trappole durante il trattamento

pensiero dell'esecuzione corretta degli esercizi terapeutici. Qui il tera­


peuta è rappresentato come un tecnico capace, detentore attendibile di
conoscenza e dispensatore di giusti consigli e il paziente come potenziale
cattivo fruitore dell'aiuto che gli viene offerto. Lo scopo principale con­
siste, perciò, nel prevenire la colpa di un uso scorretto dell'aiuto tecnico.
Da ciò derivano dubbi, esecuzione incerta delle prescrizioni, richieste
continue al terapeuta di rassicurazione rispetto all'esecuzione, anche
con un uso compulsivo del telefono e un inevitabile stalla della terapia.

Le prescrizioni severe

Caso 1 0: Brando
Brando è impiegato presso un ente pubblico. Presenta un quadro caratte­
rizzato da ossessioni e compulsioni di vario tipo che gli rendono la vita estre­
mamente faticosa e povera di gratificazioni. Tra i suoi crucci c'è quello di non
essere riuscito a terminare gli studi universitari e di non avere una compagna.
Le ultime ossessioni riguardano un intervento ortodontico fatto a scopo este­
tico e consistono: la prima, nel tormento di essersi procurato un danno evita­
bile e ormai irreversibile ai denti, avendoli fatti limare per farvi apporre delle
faccette protesiche; la seconda, nel terrore di poter danneggiare per distrazio­
ne o incuria le preziose faccette. I tentativi di soluzione della prima ossessione
consistono in ricerche, ruminazioni e quesiti compulsivi posti ai conoscenti
volti a stabilire in via definitiva che al momento dell'intervento ortodontico
non fosse disponibile davvero altra scelta che quella. La seconda ossessione è
invece seguita dalla rinuncia a molti cibi dalla consistenza "pericolosa" (no­
nostante le rassicurazioni dell'odontoiatra) , da un controllo scrupoloso della
masticazione, da ispezioni continue allo specchio e dal monitoraggio compul­
sivo dei movimenti della testa rispetto allo spazio circostante e alle altre parti
del corpo. Tutto allo scopo di prevenire urti, e dunque danni, alle faccette. Il
terapeuta, dopo avere spiegato il senso terapeutico dell'intervento, gli suggeri­
sce di sospendere le ricerche volte alla soluzione dei dubbi ossessivi, i controlli
della masticazione e della testa e di tornare a mangiare i cibi evitati. Brando
non applica quanto concordato e quando lo riferisce in seduta, dilungandosi in
giustificazioni e sollevando dubbi su dubbi, gli sembra di cogliere nell'espres­
sione del terapeuta un moto di irritazione e impazienza. Da quel momento la
qualità della relazione terapeutica peggiora. Il paziente appare spesso timo­
roso e alterna atteggiamenti compiacenti a resistenze passive, senza mai dav­
vero iniziare il trattamento espositivo. Il terapeuta non riesce a ricomporre la
crisi e dopo qualche seduta Brando interrompe la terapia. Poche settimane
più tardi scrive una e-mail al terapeuta in cui spiega le ragioni dell'interruzio­
ne. Per lui le indicazioni terapeutiche comportavano una duplice angoscia:
la prima derivava dalla rinuncia ai sintomi, la seconda dalla pressione severa
che gli sembrava provenire dalla persona del terapeuta. Tutte le volte che gli
veniva assegnato un esercizio terapeutico temeva di non riuscire a eseguirlo
e immaginava che il terapeuta lo avrebbe rimproverato per lo scarso impe-

449
La clinica

gno, continuando a sopportarlo per etica professionale, ma senza rinunciare


al proprio giudizio inflessibile. La terapia era quindi diventata una fonte di
stress che si aggiungeva a quello dovuto al disturbo, e non gli sembrava utile
continuarla. Gli rimaneva però il dubbio di non avere fatto la scelta corretta,
di essersi cioè sottratto comodamente a un compito doveroso, per cui si pren­
deva del tempo per riflettere e decidere se restare sulla posizione già presa o
ricominciare la terapia.

Il paziente ossessivo spesso intrattiene con le prescrizioni percepite


come doverose un rapporto ambivalente (Saliani, Mancini, 2012; Bale­
strini, Barcaccia, Saliani, 201 1 ) . Il caso di Brando si presta a esemplifi­
care questa particolare caratteristica psicologica dei soggetti ossessivi:
egli interpreta le indicazioni terapeutiche non come un semplice aiuto
tecnico, ma come prescrizione di un compito che deve essere fatto e,
a partire da questa rappresentazione, oscilla fra il timore di colpa e la
rabbia. I timori di colpa e del rimprovero compaiono tutte le volte che
Brando ha la sensazione di non potere - o non volere - eseguire corret­
tamente i compiti che gli vengono assegnati dal terapeuta "severo" , ma
simultaneamente emerge il sentimento di rabbia dovuto all'ipotesi di
un'ingiusta colpevolizzazione. Non è raro osservare il paziente ossessi­
va giungere a uno stato mentale di rabbia preceduto dalla percezione
di una, reale o presunta, colpevolizzazione. È infatti ipotizzabile che
proprio lo sforzo di cercare argomenti a propria discolpa porti alla sua
attenzione molti dati e argomenti che fanno transitare il paziente nello
stato mentale di chi valuta ingiusto quel rimprovero. La rabbia che ne
deriva e le ragioni che l'hanno causata vengono tuttavia, a loro volta,
valutate e viene considerata l'ipotesi che siano infondate o troppo "co­
mode", determinando un ritorno allo stato mentale di colpa e ponendo
le basi per una rinnovata oscillazione tra il timore di colpa e la rabbia.
Gli atteggiamenti manifesti del paziente, in questi casi, possono dun­
que consistere in un'infruttuosa alternanza tra acquiescenza timorosa
alle prescrizioni del terapeuta e tentativi di svincolo dalle stesse.

TRAPPOLE NELLA FASE DI CHIUSURA DELLA TERAPIA

Terminiamo con la descrizione di due tra le trappole che più di fre­


quente si possono incontrare in fase di chiusura del trattamento. Le ab­
biamo chiamate:
la restitutio ad integrum;
la causa profonda.

450
Trappole durante il trattamento

La prima sembra derivare da valutazioni ossessive relative allo sco­


po di una guarigione completa, assoluta. La seconda dal timore osses­
sivo di concludere il trattamento senza avere sviscerato la causa vera,
ultima del disturbo. Come per la descrizione delle trappole della fase
di assessment e di implementazione degli interventi, esemplificheremo
anche queste della fase finale della terapia con l'aiuto di brevi illustra­
zioni di casi clinici.

La restitutio ad integrum

Caso 1 1 : Giacinto
Giacinto insegna in un liceo. Dopo circa due anni di psicoterapia ha otte­
nuto una sostanziale remissione dei suoi sintomi e un chiaro e riconosciuto mi­
glioramento della qualità della sua vita. Si dice felice e a terapia ancora in cor­
so ha anche iniziato una relazione sentimentale. Il terapeuta, prima di iniziare
a considerare l'ipotesi di una conclusione del trattamento, gli somministra al­
cuni test per un confronto con gli esiti delle somministrazioni precedenti. I ri­
sultati dei test sono molto buoni, ma sorprendentemente sembrano provocare
una forte angoscia in Giacinto. In particolare, al test che misura la gravità dei
sintomi ossessivo-compulsivi non ha totalizzato zero e questo gli fa sorgere il
dubbio di non essere del tutto guarito. Sebbene il terapeuta provi a spiegargli
che si tratta di punteggi davvero molto buoni, Giacinto si convince che si deb­
ba lavorare per azzerare quel punteggio. Si dice inoltre rammaricato del fatto
che il terapeuta consideri vicina la conclusione della terapia: vorrà forse dire
che una guarigione completa non sia possibile? E perché, se guarire perfetta­
mente dal DOC non è possibile, non gliel'ha detto subito?

I pazienti ossessivi, come mostrato dal caso di Giacinto, valutano in


modo molto scrupoloso i cambiamenti occorsi durante la terapia e non
di rado tendono, prudenzialmente, a sottostimarli e a perseguire osses­
sivamente un'idea perfezionistica di guarigione. Il terapeuta che incau­
tamente si mostri entusiasta dei miglioramenti del paziente può essere,
per queste ragioni, facilmente rappresentato come un professionista che
si accontenta di risultati parziali e da tale rappresentazione possono de­
rivare sentimenti di insoddisfazione e un non facile avvio della fase di
chiusura del trattamento. La stima dei risultati ottenuti può, in altri ter­
mini, diventare oggetto di nuove ossessioni e la prosecuzione ad libitum
della terapia rappresentare il tentativo compulsivo di accertarsi che la
guarigione sia davvero definitiva e non si stiano incautamente affrettan­
do i tempi della chiusura.
Il terapeuta, in questi casi, ha il difficile compito di riconoscere e
prevenire il rischio di innesco di scambi interpersonali caratterizzati da

45 1
La clinica

confronti dialettici aspri (Saliani, Barcaccia, Mancini, 201 1 ) e di aiu­


tare il paziente a considerare la propria preoccupazione come l'effet­
to di meccanismi psicologici assai simili a quelli che determinano gli
altri suoi sintomi ossessivo-compulsivi. Tale compito di gestione della
delicata fase di chiusura viene naturalmente facilitato se sin dall'inizio
della terapia sono state esplorate le aspettative del paziente rispetto ai
cambiamenti e concordati in termini realistici e verificabili gli obietti­
vi terapeutici.

La causa profonda

Caso 12: Candida


Candida è una donna di circa 40 anni, ha un figlio adolescente e lavora nel
settore risorse umane di una società. Al momento della presa in carico, pre­
sentava un grave quadro di sintomi ossessivo-compulsivi sia di controllo sia di
lavaggio, che dopo due anni e mezzo di terapia è completamente rientrato. Il
trattamento ha previsto un'attenta analisi delle esperienze di vita che sembrano
averla sensibilizzata a temi di responsabilità e di colpa oltre che un intervento
specifico sui sintomi. Candida non solo non ha più sintomi, ma ritiene di ave­
re ora una consapevolezza maggiore di sé e della propria storia e vede vicina
la conclusione del percorso psicoterapico. Il terapeuta è d'accordo e propo­
ne una riduzione graduale del numero di sedute e un lavoro sulla prevenzione
delle ricadute. Poche sedute dopo Candida giunge però in seduta visibilmente
preoccupata. È iscritta ad alcuni forum frequentati da altre persone con DOC.
Alcune di loro mettono in guardia dall'illusione di poter guarire senza avere
prima compreso le cause profonde del disturbo.
Candida a quel punto si chiede se non esista una causa, biologica o psicolo­
gica, più profonda di quelle analizzate finora in terapia e se non sia troppo co­
modo e illusorio ritenere di essere guarita prima di averla scoperta.

Il momento in cui si stabilisce di avviare la fase di chiusura della te­


rapia rappresenta solitamente l'occasione per fare un bilancio del lavo­
ro svolto fin lì. Come già visto nel caso di Giacinto tale bilancio, per i
pazienti con DOC, è iperscrupoloso e non di rado determina l'insorgen­
za di dubbi ossessivi sulla terapia e sui tempi della sua conclusione. Il
terapeuta stesso può essere rappresentato come potenzialmente super­
ficiale o troppo ottimista e dunque disinteressato o tecnicamente non
attrezzato ad analisi approfondite.
Nel caso di Candida non viene messa in discussione la remissione
dei sintomi e il benessere psicologico raggiunto, ma il fatto che tale be­
nessere sia stato ottenuto eliminando davvero, alla radice, le cause del
disturbo. A ben guardare, si tratta di un dubbio ancora più maligno di
quello con cui si confronta chi lotta per accertarsi di avere ottenuto una

452
Trappole durante il trattamento

remissione completa dei sintomi (restitutio ad integrum) . Qui, infatti,


la paziente si interroga su ipotetiche cause del disturbo ancora ignote
e rischia di avviare un'esplorazione virtualmente infinita. Qualora, in­
fatti, scoprisse nuovi elementi esplicativi del disturbo, nessuno potreb­
be garantirle con certezza che siano gli ultimi e i definitivi, ovvero, che
non ve ne siano altri ancora più profondi e importanti, e i confini dell'a­
nalisi e della ricerca verrebbero necessariamente estesi, teoricamente
all'infinito.

USCIRE DALLE TRAPPOLE

L' uscita dalle trappole prevede alcuni passi simili in tutte le fasi del
processo terapeutico. I passi tipici sono i seguenti:
a) riconoscere la trappola;
b) segnalarla al paziente;
c) darle un nome;
d) condividerne il funzionamento;
e) validare i vissuti del paziente;
f) far emergere con atteggiamento socratico le analogie esistenti tra la
trappola interna alla terapia e gli altri sintomi ossessivi;
g) far emergere i costi della modalità ossessiva che determina la trappola;
h) legittimare l'abbandono della modalità ossessiva che determina la
trappola.
Non esiste evidentemente una ricetta sempre vincente, ma in linea
generale è utile aiutare il paziente a guardare dall'alto il meccanismo in
cui è intrappolato, dargli un nome e illuminare le analogie esistenti tra
la trappola che blocca il processo terapeutico e gli altri sintomi ossessi­
vi. Questo consente al paziente di ampliare la prospettiva con cui guar­
da al proprio disturbo, di comprenderne appieno la natura e realizzare
come le sensibilità psicologiche che ne sono alla base operino anche in
domini non strettamente sintomatici (quale per esempio l'interazione
terapeutica in atto) .
Nel dialogo che segue forniamo a titolo di esempio un'ipotesi di in­
tervento terapeutico volto a disinnescare la trappola della spiegazione
perfetta. (Per necessità di sintesi, ci limiteremo a illustrare un solo in­
tervento, ma i passi sopra elencati ed esemplificati nel dialogo che se­
gue potranno essere agevolmente applicati a qualsiasi altra trappola tra
quelle descritte nel capitolo.)

4'53
La clinica

Terapeuta: " Sembra che quando risponde alle mie domande sia molto
preoccupato di non dare la risposta migliore o di darla male o di omet­
tere dettagli fondamentali. È così ? "
Paziente: " Sì, è proprio così. Come h a fatto a d accorgersene?"
Terapeuta: "Beh, vede, si sofferma a lungo sui dettagli delle descrizioni,
si corregge, ridefinisce, torna più volte sullo stesso concetto, ricerca
termini sempre più accurati. Se io provo a fare un riassunto di quan­
to ho capito, aggiunge altri elementi, li ridefinisce, non sembra mai
convinto del quadro che proviamo a ricostruire."
Paziente: " Sì, ha ragione, ma per me è veramente importante spiegare
bene quello che mi capita. Non crede anche lei sia fondamentale che
io la metta nelle condizioni di comprendere il mio problema?"
Terapeuta: "Sì, certo, è importante che io capisca bene, ma, vede, le sue
spiegazioni sono già molto accurate. Sembra che però questo non ba­
sti. Sembra sentirsi costretto a una spiegazione perfetta, inappuntabi­
le. E poiché la perfezione non esiste e ogni spiegazione è migliorabi­
le, rischiamo di andare avanti insieme all'infinito e non mettere mai il
punto su una formulazione condivisa. Siamo in trappola. "
Paziente: "Già . . . non s o . . . " [silenzio] .
Terapeuta: "Mi dica una cosa. Come si sentirebbe se per una volta si con­
cedesse una risposta approssimativa, incompleta? "
Paziente: "Male. Angosciato. Mi sentirei di non aver fatto le cose per bene. "
Terapeuta: "Capisco. Le faccio ora una domanda che apparentemente
non c'entra niente con tutto questo. Riguarda i suoi sintomi e in par­
ticolare i controlli ripetuti di cui mi ha parlato. Ecco, se dovesse so­
spendere i controlli compulsivi che fa in ufficio? Se per una volta si
concedesse di non fare alcun controllo della serratura dell'archivio,
come si sentirebbe?"
Paziente: " Uguale. Angosciato. Con la terribile sensazione di aver fatto
un guaio. "
Terapeuta: "Interessante. L'idea d i sospendere un controllo compulsivo
e l'idea di accontentarsi di una spiegazione approssimativa, qui, in
seduta, mentre parla con me, sembrano farla sentire nello stesso mo­
do . . . Questo cosa le fa pensare? "
Paziente: "Che i l mio modo di parlare e d i spiegarmi somiglia u n po' al
modo in cui faccio i controlli in ufficio e al modo in cui mi lavo . . . in­
somma, ai miei sintomi. "
Terapeuta: " Sembra proprio di sì! Ed è un'occasione preziosa, perché ab­
biamo la possibilità di iniziare a curare il suo disturbo qui e ora, tutte
le volte che ci accorgiamo che lei si sente costretto a darmi risposte
e spiegazioni perfette. Chiameremo questa trappola la trappola del­
la "spiegazione perfetta". E, se è d'accordo, tutte le volte che mi ac­
corgerò che stiamo finendo nella trappola della spiegazione perfetta
glielo segnalerò sollevando una mano e proveremo ad accontentarci
di una spiegazione imperfetta. Cosa ne pensa?"
Paziente: " Non so se ci riuscirò . . . ma possiamo provarci. "

454
Trappole durante il trattamento

Nel caso delle trappole che si manifestano con chiusura e riserbo, si


pone una difficoltà in più, dovuta proprio alla prudente ritrosia del pa­
ziente e al fatto che il terapeuta non sa esattamente quale sia il sintomo
né la ragione precisa di un'interazione tanto stentata. Il terapeuta dovrà
quindi procedere segnalando tale difficoltà e proporre al paziente alcune
ipotesi sulle ragioni del riserbo, provando contemporaneamente a vali­
dare i suoi stati interni, rassicurar!o e motivarlo all'apertura.
Per brevità, proveremo a suggerire un intervento di uscita dalle trap­
pole caratterizzate da chiusura e riserbo, attraverso l'esempio di un uni­
co dialogo terapeuta-paziente.

Terapeuta: " Sono in difficoltà. Ho la sensazione di essere insieme a lei in


una trappola. Provo a farmi un'idea chiara del problema che l'ha mo­
tivata a chiedere aiuto, ma non ci riesco. Ho compreso che è spaven­
tato dall'idea di parlarmi in modo aperto e diretto dei suoi pensieri
e di ciò che le procura angoscia, ma naturalmente non posso sapere
cosa la angoscia. In questo modo, è più difficile aiutarla. "
Paziente: " Sì, capisco. "
Terapeuta: " Le va di dirmi qualcosa di più sui pensieri e le ansie che
l'hanno portata qui ? "
Paziente: "Preferirei d i no. "
Terapeuta: "Vede, i pensieri degli esseri umani, quindi di noi tutti, possono
essere molto bizzarri e irrazionali, talvolta persino raccapriccianti, osce­
ni, violenti. E a volte ci spaventano, ci fanno vergognare, sentire in col­
pa. Avere pensieri di questo tipo non vuoi dire però essere folli, ridicoli
o indegni , né vuoi dire che ciò che si pensa sia vero o debba avverarsi.
La differenza vera non è tra chi ha pensieri strani e chi non ne ha, ma
tra chi se li lascia scivolare facilmente addosso e chi no. Tra chi dà loro
poca importanza e chi molta. Di solito, chi dà loro molta importanza
è una persona particolarmente scrupolosa e, ironia della sorte, più si
è scrupolosi e più certi pensieri si impongono alla mente, finendo per
diventare sempre più molesti e invadenti. E un meccanismo universale:
più importanza do a un pensiero sgradevole, più voglio scacciare quel
pensiero dalla mia mente più devo pensarci, finendo per rafforzarlo.
Ecco perché il modo migliore di togliere potere a certi pensieri è ac­
cettare che possano capitare e parlarne in seduta. Qui siamo attrezza­
ti per dare una mano a persone come lei, particolarmente scrupolose.
Sappiamo quanto possano essere sgradevoli e minacciosi certi pensie­
ri, ma non ci fanno paura e sappiamo come trattarli. Cosa ne pensa?"
Paziente: "Penso che . . . voglio dire, a me succede qualcosa di molto simi­
le a quello che ha appena detto . . . sono tormentato da paure e pensieri
tremendi . . . faccio molti sforzi perché vadano via. Ma più mi sforzo
più loro aumentano. Vorrei tanto uscirne . . . Non sono sicuro di es­
sere pronto, ma proverò a rispondere alle sue domande e a metterla
nelle condizioni di aiutarmi. "

455
La clinica

Nei casi, fortunatamente rari, in cui, nonostante gli sforzi del tera­
peuta, il paziente dovesse mantenere ferma l'intenzione di non parlare
del contenuto delle proprie ossessioni, c'è ancora un'alternativa prati­
cabile per prevenire l'abbandono precoce della terapia. Se, nonostante
l'estrema riservatezza, il terapeuta è ragionevolmente certo che il pa­
ziente soffre di DOC gli proporrà di proseguire la fase di assessment e di
formulazione provvisoria del problema con l'aiuto dello schema a 5 fasi
(descritto nei capitoli I e XII), rinunciando temporaneamente a entrare
nel merito dei contenuti ossessivi. Pur omettendo i contenuti dell' os­
sessione, grazie allo schema, sarà ugualmente possibile avviare con il
paziente la condivisione del funzionamento generale e provvisorio del
disturbo, esplorando gli effetti deleteri degli evitamenti, delle compul­
sioni, degli autorimproveri (valutazioni di II livello) e i relativi cicli di
mantenimento. Se terapeuta e paziente saranno riusciti in questo com­
pito si assisterà a un aumento della motivazione al trattamento e a un
consolidamento dell'alleanza terapeutica, con conseguente probabile
uscita dalle trappole prima descritte.

CONCLUSIONI

In questo capitolo abbiamo descritto, sulla base dell'osservazione


clinica, le trappole più frequenti cui vanno incontro pazienti con DOC
e terapeuti nel corso di un trattamento cognitivo-comportamentale. In
particolare, ci siamo chiesti quali siano le rappresentazioni del paziente
relative all'aiuto tecnico offerto dal terapeuta che più di frequente osta­
colano o rendono vano l'intervento terapeutico nelle diverse fasi della
terapia. Abbiamo sostenuto che credenze e scopi connessi al timore di
risultare moralmente indegni non determinano solo i sintomi ossessivo­
compulsivi propriamente detti, ma continuano inevitabilmente a opera­
re anche nel momento in cui il soggetto riflette sulla propria esperienza
terapeutica e sulla relazione con il terapeuta.
Nella fase di assessment gran parte degli atteggiamenti che ostacola­
no o bloccano l'esplorazione e la formulazione condivisa del problema
nascono dall'onere percepito di: l ) fornire in seduta una spiegazione
perfetta dei propri sintomi (onde evitare errori o omissioni imperdona­
bili); 2 ) proteggersi dal giudizio morale del terapeuta o dal suo giudizio
tecnico (che confermi i propri timori di indegnità morale o porti alla
diagnosi di follia); 3 ) proteggere se stesso dal rischio di compromettere
la propria immagine sociale; 4) prevenire il rischio di offendere o dan-

456
Trappole durante il trattamento

neggiare il terapeuta; 5 ) prevenire il rischio di pronunciare o anche solo


pensare taluni contenuti tabù. Nella fase di implementazione dell'inter­
vento terapeutico compaiono facilmente il timore di esporsi colpevol­
mente a indicazioni incaute o errate provenienti dal terapeuta, oppure
il timore ossessivo di applicarle male, o il timore di aderire a indicazioni
tecnicamente corrette ma moralmente dubbie, o il desiderio di opporsi
a prescrizioni terapeutiche percepite come ingiustamente severe. In fase
di chiusura del trattamento, possono infine intervenire il timore di non
avere ancora ottenuto una guarigione completa e definitiva o di avere
pericolosamente e colpevolmente sottovalutato l'analisi di una causa più
profonda del disturbo, e la conseguente esigenza di prolungare in modo
indefinito la durata del trattamento.
In tutti i casi, le valutazioni problematiche del paziente sembrano ri­
guardare il piano tecnico e quello morale, inevitabilmente intrecciati.
In tutti i casi, tali valutazioni sembrano funzionali alla tutela dello scopo
sovra-ordinato di evitare o rimediare a proprie colpe morali.
L'analisi delle trappole più frequenti e delle ragioni psicologiche che
le determinano è stata proposta con l'auspicio di fornire al clinico e al
paziente uno strumento utile al loro precoce riconoscimento e supera­
mento. Individuare la trappola, segnalarla, darle un nome, condividerne
il funzionamento validando i vissuti del paziente, far emergere con at­
teggiamento socratico le analogie esistenti tra la trappola e gli altri sin­
tomi ossessivi, considerare i costi procurati dalle modalità ossessive che
determinano la trappola contemplando il diritto di abbandonarle, potrà
in molti casi risolvere lo stalla occorso durante la terapia.

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