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Indice

Copertina
Frontespizio
Colophon
Prefazione
Introduzione
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Epilogo
© 2016 Imprimatur srl
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Prefazione

I lavoratori delle nazioni europee e le loro famiglie non


hanno più una casa comune in quella che sotto varie
denominazioni continua a considerarsi come la sinistra
politica del continente. La sinistra europea è
scomparsa, ha scelto di lasciare alla mercé del mercato e
della concorrenza mondializzati i lavoratori di tutti i
settori e di tutti i tipi: formalmente dipendenti e non,
qualificati e non qualificati, a tempo e a cottimo,
occupati e disoccupati, giovani e anziani. I partiti
politici di questa cosiddetta sinistra danno ormai per
scontato che una parte sempre più grande del mondo
del lavoro non si recherà alle urne, o appoggerà
qualche confuso movimento locale o trasversale,
oppure, ancora, voterà per l’estrema destra. Proprio
l’emergere ed il rafforzarsi progressivo in Europa di
un’estrema destra sociale, sovranista e statalista, ne
disturba senza dubbio qua e là i sonni. Ci si tranquillizza
tuttavia al pensiero che, all’occorrenza, una grande
coalizione “democratica” sarebbe sicuramente in grado
di sventare il pericolo “fascista”.
L’ordine liberale e liberista non è oggi completamente
incontrastato. Non potrebbe esserlo, in Europa, con i 40
milioni di disoccupati che vi ha provocato insieme al
generale peggioramento delle condizioni di vita per la
maggioranza della popolazione. Ma per la prima volta
nella storia del capitalismo europeo in quell’ordine ha
finito di fatto per riconoscersi tutta la sinistra politica
del continente, a seguito di un percorso trentennale di
crescente adesione alle idee che lo sostengono e di
crescente indifferenza per i suoi effetti su tutti coloro
(gli “sdentati” come sembra si diletti a chiamarli il
socialista Hollande) che devono lavorare per vivere.
Nel volume intendiamo ricostruire questo percorso e
fare il più possibile luce sul ruolo che le vicende della
sinistra hanno giocato nel determinare il degrado
economico, sociale e culturale in cui versa l’Europa.
Naturalmente, “domani è un altro giorno” e come
direbbe Toynbee la Storia si metterà di nuovo in
movimento. Ma circa il modo in cui lo farà, la scomparsa
della sinistra non concede oggi molto spazio
all’ottimismo.

Aldo Barba Massimo Pivetti


Giugno 2016
Introduzione

Durante il primo trentennio post-bellico nel capitalismo


economicamente e socialmente più avanzato venne
edificato un complesso impianto di politica economica
finalizzato al pieno impiego come suo obiettivo
prioritario. Le relazioni tra lo Stato e il mercato
all’interno di ciascuna nazione e le relazioni di ciascuna
nazione con il resto del mondo furono strutturate in
modo tale da consentire una crescita il più possibile
sostenuta del prodotto in condizioni di equilibrio nei
conti con l’estero.
Il passaggio da quell’epoca di crescita sostenuta e di
pieno impiego ad una fase di prolungata stagnazione ed
elevata disoccupazione è generalmente percepito come
un fenomeno ineluttabile ed è rimasto in larga misura
inspiegato. Esso rischia di rimanere tale perché
fortissima in Europa è la resistenza a ricondurlo
all’orientamento liberista impresso alla politica
economica negli ultimi decenni. Stabilire una
connessione tra la fine della crescita e la grande svolta
di politica economica dei primi anni Ottanta equivale,
infatti, a riconoscere la natura essenzialmente politica
dei suoi determinanti. Di fatto, proprio questo
riconoscimento è la necessaria premessa per riuscire a
comprendere le cause del deterioramento economico e
sociale avvenuto nelle maggiori nazioni europee.
Il volume analizza il passaggio dai cosiddetti Trenta
gloriosi ai Trenta pietosi collegando esplicitamente la
vicenda economica europea dell’ultimo trentennio –
cambiamento delle condizioni distributive,
rallentamento del processo di accumulazione, aumento
della disoccupazione e dell’esclusione sociale – alla
condotta della sinistra. L’elemento politico che ha
caratterizzato quel passaggio è stato senza dubbio la
sua scomparsa. Ma le cause, i modi in cui essa è
avvenuta e i suoi effetti non sono ovvi e vanno
analizzati.
L’inizio della fine della sinistra continentale è
individuato nella svolta compiuta nel 1982-1983 dal
governo della sinistra unita in Francia, rinnegando la
piattaforma politica che essa era andata articolando nel
corso del decennio precedente e che aveva condotto
alla sua vittoria elettorale del 1981. L’importanza di
quella vicenda dipende non solo dal fatto che la vittoria
della sinistra era derivata dalla sua capacità di
aggregare un ampio consenso intorno a un preciso
programma di rinnovamento sociale, ma anche dal fatto
che è con riferimento a quel Paese e a quell’esperienza
che è possibile mettere meglio a fuoco gli elementi di
debolezza della proposta politica di tutta la sinistra
europea e le condizioni culturali che ne prepararono la
svolta.
La maggiore carenza del programma della sinistra
riguardò la questione della gestione dei vincoli esterni
alla sua realizzazione, vale a dire una sottovalutazione
delle ripercussioni sull’equilibrio nei conti con l’estero
di un programma di investimenti pubblici e
redistribuzione del reddito. Le difficoltà in tal modo
createsi aprirono una breccia al diffondersi
dell’ideologia “modernista” e antistatalista, già
presente anche nella cultura di sinistra.
Dal rifiuto di una gestione non ortodossa del vincolo
esterno, si passò all’accettazione incondizionata della
mondializzazione e alla conseguente rinuncia al
perseguimento di politiche di pieno impiego da
conseguirsi attraverso la crescita della domanda
interna. Obiettivi prioritari della politica economica
divennero la stabilità dei prezzi e la crescita delle
esportazioni. Sindacati deboli, maggiore flessibilità dei
mercati, crescita dei salari inferiore alla crescita della
produttività del lavoro, contrazione dello Stato sociale,
politiche di bilancio restrittive, privatizzazioni delle
imprese pubbliche industriali e finanziarie, divennero
dappertutto le tappe caratterizzanti il nuovo corso
seguito dalla sinistra della “modernità” e delle
“riforme”. Quella che venne abbandonata fu insomma
una concezione della crescita economica come
essenzialmente basata sulla crescita del potere
contrattuale dei salariati e su politiche redistributive. A
quel circolo virtuoso si sostituì un circolo vizioso tra
politiche recessive, indebolimento dei salariati e perdita
di consenso popolare.
La “corsa alla modernità” compiuta dalla sinistra
europea è in pratica consistita nella perdita della
consapevolezza che il contenimento della
disoccupazione, una distribuzione del reddito
socialmente tollerabile e livelli adeguati di protezione
sociale implicassero un controllo completo della politica
monetaria e di bilancio da parte dei governi nazionali, e
pertanto un controllo dei flussi internazionali di capitali,
merci e forza lavoro tanto più articolato quanto più
ciascun Paese avesse scelto di puntare sull’espansione
continua del proprio mercato interno per assicurarsi
una crescita stabile.
Una simile incapacità della sinistra europea di tenere la
rotta è spiegabile solo alla luce del fatto che, più che
promuovere e sostenere il consenso espansionista dei
Trenta gloriosi, essa fu da quello stesso consenso in
larga misura sostenuta. Il suo contributo, in altri termini,
non fu espressione di convincimenti profondamente
radicati e definitivamente acquisiti. Questo fu vero in
Francia, come dimostrato dalla svolta a “U” del 1982-
1983; lo fu ancora di più in Italia, dove l’elemento di
passività e l’effetto di trascinamento esercitato dal
generale contesto progressivo furono sempre
preponderanti.
Naturalmente è soprattutto l’esperienza del Pci che
può aiutare a comprendere il percorso compiuto dalla
sinistra nel nostro Paese dal dopoguerra fino alla sua
definitiva uscita di scena con l’implosione del
“socialismo reale”: un percorso costantemente
caratterizzato da una scelta di non-uso della propria
forza. Diversamente dal caso francese, la questione di
una svolta da programmi di effettivo rinnovamento
sociale all’adesione all’ideologia del mercato non si è
mai realmente posta per il maggior partito della sinistra
italiana, la cui azione politica sostanzialmente non andò
mai oltre l’atto di presenza di un accigliato guardiano.
Anche se «le idee della classe dominante sono in ogni
epoca le idee dominanti» (Marx), è pur vero che quanto
più questo dominio resta incontrastato tanto più
incontrastata è la loro forza di assoggettamento. Con
l’allontanamento dalle questioni economiche e di classe
anche da parte della sinistra cosiddetta antagonista, e
lo spostamento della sua attenzione dalla sfera dei
diritti sociali a quella dei diritti civili, si può dire che nel
corso dell’ultimo trentennio le idee dominanti non
abbiano più incontrato il benché minimo ostacolo. Per
la sinistra “antagonista” la difesa dei salariati attraverso
il potenziamento dello Stato e la difesa della sovranità
nazionale in campo economico hanno cessato di essere
bussole di azione politica, sostituite dalla
rivendicazione del diritto alla diversità e dalla “lotta di
liberazione” di ogni tipo di istanze individuali. Mai
“lotta” fu più funzionale di questa alla tutela degli
interessi dei ceti dominanti, che infatti l’hanno in larga
misura fomentata in quanto perfetto diversivo rispetto
all’arretramento dei ceti popolari sul terreno delle
conquiste sociali, nonché fattore di divisione al loro
interno.
Oggi è evidente la presenza in Europa delle condizioni
oggettive per la rinascita di una vera sinistra: dalla
crescente ostilità popolare nei confronti della
mondializzazione e della finanza, all’urgenza sociale di
politiche finalizzate al pieno impiego e alla
redistribuzione del reddito; dal calo continuo della
partecipazione elettorale all’aspirazione sempre più
diffusa al recupero delle sovranità nazionali. Il vero
ostacolo alla rinascita di una sinistra capace di mettere
al centro della sua azione le questioni di classe e il
potenziamento dello Stato-nazione è rappresentato
proprio dalla situazione di generale subalternità nei
confronti della cultura economica dominante, una
subalternità che dura ormai da oltre trent’anni.
Capitolo I

Dai Trenta gloriosi ai Trenta pietosi

1. Le vicende che hanno portato alla scomparsa della


sinistra in Europa sono destinate a restare in larga
misura oscure senza un’analisi della grande svolta di
politica economica avvenuta tra la fine degli anni
Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Si tratta di mettere
a fuoco i contorni del progetto economico e politico in
cui ci troviamo tuttora immersi, riuscire a coglierne i
determinanti, i principali contenuti, gli esiti. In altre
parole, è necessario porre in discussione un ordine
economico e sociale impostosi come il solo razionale e
possibile. Scriveva lo scienziato politico Steven Weber
nel 1997 su Foreign Affairs:

L’economia delle nazioni occidentali è stata sin dalla


rivoluzione industriale un mondo vibrante
caratterizzato da rapida crescita e sviluppo, almeno
per i Paesi del “nucleo” industrializzato. Ma essa è
stata pure un mondo di continue e spesso enormi
fluttuazioni dell’attività economica. I cicli industriali –
espansioni e contrazioni diffuse a quasi tutti i settori
di un’economia – hanno finito per essere accettati
come un fatto della vita. Tuttavia, le economie
moderne operano differentemente dalle economie
industriali del diciannovesimo secolo e della prima
parte del ventesimo secolo. Cambiamenti nella
tecnologia, nell’ideologia, nelle occupazioni e nella
finanza, di concerto con la globalizzazione della
produzione e del consumo, hanno ridotto la volatilità
dell’attività economica nel mondo industrializzato. Per
ragioni sia teoriche che pratiche, nei Paesi
industrialmente più avanzati le onde del ciclo
industriale potrebbero diventare più simili ad
increspature sulla superficie dell’acqua, che vanno
via via a scomparire. La fine del ciclo è destinata a
cambiare l’economia mondiale, minando alla base le
assunzioni e gli argomenti che gli economisti hanno
utilizzato per comprenderla.

Considerazioni trionfalistiche come queste ben


esprimono il clima intellettuale entro il quale si è andato
strutturando il nuovo assetto di politica economica che
i Paesi industrialmente avanzati si sono dati dalla fine
degli anni Settanta. Niente meno che una “nuova era”
sarebbe stata aperta dal cambiamento tecnologico e
dalla rimozione degli ostacoli ideologici che avevano
impedito lo sviluppo globale della finanza, della
produzione e del consumo. Le crisi economiche, un
tempo percepite come connaturate al capitalismo, non
erano in realtà che la manifestazione di una sua
immaturità. Più precisamente, andavano comprese
collocandole entro la fase di sviluppo caotico e
instabile apertasi con l’insorgere delle istanze
protezionistiche e nazionalistiche tra la prima e la
seconda guerra mondiale e avviatasi a conclusione con
il neo-conservatorismo di Reagan e della Thatcher:
nelle parole del premio Nobel per l’economia Robert
Lucas, «la Macroeconomia […] ha raggiunto i suoi
scopi: il suo problema centrale, la prevenzione della
depressione, è stato risolto ed è nei fatti risolto per
molti decenni».
Ancelle della crescita stabile, globalizzazione e
deregolamentazione furono viste come fattori di
definitivo superamento di un aberrante, sebbene
prolungato, allontanamento dal ritmo regolare dello
sviluppo capitalistico di più lungo periodo. A poco
servivano a raffreddare gli animi le considerazioni di
chi, come Alan Greenspan, pur convinto che i mercati
fossero divenuti più efficienti, invitava alla cautela
ricordando come «la storia è piena di queste visioni di
“nuove ere” che, sfortunatamente, alla fine si sono
rivelate essere un miraggio». Abbandonare ogni
cautela era una tentazione irresistibile: il nuovo assetto
di politica economica doveva identificarsi con la fine
delle crisi; il vecchio assetto con il disastro economico.
A dire il vero, gli economisti, trattenendo la loro
naturale inclinazione all’apologia, una certa cautela
finirono per mostrarla attribuendo alla “nuova era”
l’ambigua etichetta di “grande moderazione”. Che il
nuovo fosse da considerarsi “grande” era fuori
discussione. Ma era grande esattamente in che cosa?
Nella moderazione, vale a dire nella sobrietà, attributo in
fin dei conti poco lusinghiero per il capitalismo, la cui
legittimazione sociale è sempre dipesa dalla sua
capacità di generare crescita elevata per quanto
instabile. Il problema era che il mondo vibrante di rapida
crescita non era affatto quello della “nuova era”, ma
quello del periodo in cui i grandi cambiamenti “nella
tecnologia e nell’ideologia di concerto con la
globalizzazione” non erano ancora avvenuti. All’inizio
degli anni Duemila veniva con gran compiacimento
rilevato come nell’ultimo quarto di secolo la variabilità
del tasso di crescita fosse diminuita di circa la metà e
quella dell’inflazione di circa due terzi. Ma tutta
quest’enfasi sulla fine della variabilità mascherava un
fatto che male si accordava con l’idea che il capitalismo
fosse diventato una macchina che avrebbe proceduto
inesorabilmente, senza intoppi, se solo si fosse avuto il
buon senso di non interferire troppo con il suo
funzionamento. Scegliendo il 1979 come punto di
svolta, nel corso dei trent’anni precedenti, i cosiddetti
Trenta gloriosi, il prodotto si era infatti più che triplicato
negli Stati Uniti, quasi quadruplicato in Francia, più che
quadruplicato in Germania e Italia, decuplicato in
Giappone (vedi Tabella 1). Nel corso dei trent’anni
successivi, gli Stati Uniti avevano poco più che
raddoppiata la produzione, mentre Francia, Germania,
Italia e Giappone non erano riusciti a raggiungere
nemmeno questo più modesto risultato.

Tabella 1. Aumento del Pil nei due trentenni

Eccezion fatta per la Gran Bretagna (per la quale,


tuttavia, la differenza tra i due trentenni può essere ben
colta facendo riferimento all’aumento del tenore di vita
dei ceti popolari e ai tassi di disoccupazione), in tutti i
principali Paesi del capitalismo avanzato il tasso di
crescita si era ridotto significativamente, raggiungendo
in Francia, Germania e Italia livelli inferiori ad un terzo di
quelli dei Trenta gloriosi. Tra il 1951 e il 1978 la crescita
annua in questi tre Paesi fu, in media, superiore al 5 per
cento; tra il 1979 e il 2008 fu del 2 per cento; tra il 2008 e
il 2015 la Germania crebbe dell’1 per cento, la Francia
dello 0,4 per cento, l’Italia del -1 per cento. In ognuno di
questi Paesi, nel corso degli anni Settanta, una crescita
annua inferiore al 4 per cento era normalmente
considerata un risultato deludente.
Quando valutati non in relazione alla variabilità della
crescita ma al suo livello medio, gli anni della “grande
moderazione” apparivano piuttosto come i Trenta
pietosi, vale a dire un periodo in cui, se era vero che la
stabilità macroeconomica si era accresciuta, era altresì
vero che questa maggiore stabilità derivava dalla
rinuncia alla crescita.

2. In pochi però erano disposti a definire pietosa la


performance economica della “nuova era”, tanto in
Europa che negli Stati Uniti, sebbene per motivi diversi.
In Europa, dove il dato della caduta del tasso di crescita
non lasciava adito a molti dubbi, gli animi si scaldavano
con l’andamento relativamente più favorevole degli
Stati Uniti e con la convinzione che il minor dinamismo
delle economie europee fosse da attribuirsi a
un’incompleta assimilazione dei tratti distintivi delle
nuove modalità di funzionamento del capitalismo,
riconducibile ad ancora non rimosse incrostazioni –
ideologiche e pratiche – degli anni della turbolenza
economica. Con una disinvoltura ancor più grande
dell’ansia di adesione al gusto dei tempi, un assetto di
politica economica che, quando vigente, aveva
generato alta crescita, veniva tirato in ballo per spiegare
la bassa crescita quando lo si stava smantellando. Negli
Stati Uniti, invece, la questione si poneva in termini di
fiduciosa attesa: il calo della crescita rispetto al
trentennio precedente era inferiore a quello europeo e
gli sviluppi politici, tecnologici e finanziari stavano
indubbiamente agendo nel senso di aumentare la
centralità del suo sistema economico; alla stabilità
avrebbe dovuto necessariamente far seguito la crescita
e, nell’attesa, gli economisti si lambiccavano il cervello
chiedendosi perché i segni della “nuova era” fossero
visibili in ogni dove tranne che nelle statistiche
economiche, che registravano un’alternarsi di
contrazioni e brevi riprese senza che le perdite
occupazionali che si determinavano nel corso delle
prime fossero recuperate dai guadagni occupazionali
nel corso delle seconde. Queste riprese economiche
incapaci di consolidarsi, soprattutto di accrescere gli
occupati, rimanevano in larga misura un mistero, non
venendo poste in relazione con una bassa crescita della
domanda e quindi del prodotto che, dato l’aumento
della produttività, non era in grado di incrementare il
numero degli occupati.
Tanto negli Stati Uniti che in Europa, la crisi avviatasi
nel 2008 si sarebbe incaricata di fugare i pochi dubbi e
le tante illusioni. Crescita stabile, fine delle depressioni,
inutilità delle politiche macroeconomiche: un castello
ideologico scosso dalle fondamenta e tuttavia
destinato a restare in piedi, sotto lo sguardo attonito
dei suoi costruttori. Ma al di là della sorprendente
capacità di tenuta di questa rappresentazione della
realtà, il rallentamento della crescita (sino addirittura
alla sua scomparsa in alcuni Paesi del “nucleo
industrializzato”, dove essa sopravviverà soltanto nelle
previsioni ufficiali) non poteva più essere occultato nel
benevolo involucro della “grande moderazione”. Tanto
in Europa, che aveva continuato ad approfondire la
frattura con il vecchio assetto di politica economica e
registrava tassi di crescita in continua caduta, quanto
negli Stati Uniti, dove il nuovo assetto di politica
economica portava a maturazione non la ripresa della
crescita ma una crisi in grado di rivaleggiare con il
disastro della Grande Depressione, diveniva sempre più
evidente che nell’era della “crescita stabile”, sia della
crescita che della stabilità non vi era traccia. I Trenta
pietosi, o forse sarebbe meglio dire i “Quaranta pietosi”
dal momento che quasi un altro decennio sarebbe
trascorso in Europa senza che si modificassero più di
tanto i livelli di produzione raggiunti nel 2008,
mostravano il loro vero volto. E mentre il cieco
ottimismo della “grande moderazione” svaniva come
neve al sole della crisi economica, il suo posto veniva
rapidamente occupato dall’idea che le economie dei
Paesi industrialmente più avanzati stessero vivendo
una fase di “stagnazione secolare”: il dato della bassa
crescita era ormai divenuto non più ignorabile.
Nel 2014, un intervento del periodico The Economist –
il più vecchio e intransigente difensore del libero
scambio – significativamente titolato “La visione di
lungo periodo”, ragionando sui tassi di crescita
registrati dal 1960 nei Paesi industrialmente più
avanzati, affermava perentoriamente che «il problema
per il mondo sviluppato non è nato in una notte […]. Il
trend è chiaro. Il tasso di crescita nominale ha rallentato
al di sotto del 4 per cento annuo; quello reale al di sotto
del 2 per cento (in Italia è negativo)». La crescita
andava scomparendo e il problema non era sorto con la
crisi, preesistendo come fenomeno di lungo periodo.
Ma per quale motivo invece che all’alba della crescita
stabile si assisteva al crepuscolo della crescita?

Ci sono molte possibili spiegazioni per questo


cambiamento, ma la più plausibile è collegata alla
demografia. La crescita fu rapida dopo la seconda
guerra mondiale perché l’Europa fu ricostruita e
alcuni benefici dei cambiamenti tecnologici del
periodo pre-bellico si diffusero nell’economia;
successivamente, dalla seconda metà degli anni
Sessanta in avanti, i nati nel baby boom confluirono
nelle forze di lavoro. Ma poi il tasso di natalità cadde
ed i baby boomer iniziarono a pensionarsi […].
Crescita economica significa avere più lavoratori e
farli lavorare più efficientemente (produttività).
Anche non condividendo totalmente il pessimismo
[corrente] circa il cambiamento tecnologico, è
evidente che la produttività dovrebbe lavorare molto
alacremente per compensare la demografia.

Caratteristico della “nuova era” non era dunque


un’accelerazione del cambiamento tecnologico, ma un
suo rallentamento, o quanto meno un suo rallentamento
rispetto agli incrementi di produttività resi necessari
dallo scarso aumento delle forze di lavoro, menomate
dal calo della natalità e gravate dal peso del
pensionamento dei nati nel boom demografico.
Questa capriola dalla fine delle depressioni alla
depressione permanente, dall’euforia tecnologica al
catastrofismo tecnologico, non deve tuttavia
distogliere l’attenzione dal terreno comune su cui
avvenne. I due opposti atteggiamenti non erano infatti
che modi alternativi di concepire il tasso di crescita di
più lungo periodo come del tutto indipendente dai
diversi assetti di politica economica che i Paesi
capitalisti più avanzati si erano dati nei due trentenni in
cui è indispensabile ripartire il periodo post-bellico per
poterlo comprendere. La “grande moderazione” era la
variante ottimistico-fantasiosa di questa indipendenza;
la “stagnazione secolare” quella pessimistico-realista.
Ma, in entrambi i casi, il messaggio di fondo restava
immutato: il trentennio dell’alta crescita era
un’esperienza irripetibile, risultante dalla fortunata
sovrapposizione di un’anomalia tecnologica e
un’anomalia demografica, rispetto alla quale le
consapevolezze keynesiane dei decenni post-bellici
non avevano giocato alcun ruolo. Allo stesso modo, il
trentennio della bassa crescita era ricondotto a sviluppi
demografici e tecnologici avversi, del tutto indipendenti
dalle politiche liberiste attuate dopo la grande svolta.
3. Questa prospettiva si prestava a operare
efficacemente come fattore di ambigua convergenza tra
visioni molto diverse circa i determinanti e gli esiti dello
sviluppo economico nei Paesi capitalisti più avanzati:
dagli orientamenti ultra-liberisti a concezioni marxiste
meccanicistiche, passando attraverso le numerose
quanto indefinite gradazioni delle posizioni neo-
keynesiane e dei loro corredi di interventi anti-
congiunturali, vi era una diffusa tendenza a considerare
l’andamento di lungo periodo della produzione come un
dato indipendente dalla politica economica. Tuttavia, si
trattava pur sempre di una convergenza incapace di
offrire una spiegazione convincente del rallentamento
della crescita. L’idea che il progresso tecnologico
stesse ritornando, dopo un trentennio di anomala
vitalità, al suo più contenuto ritmo di avanzamento
secolare era in palese contrasto con la realtà dei fatti:
non vi era alcun elemento che consentisse di ricondurre
il rallentamento della crescita nei Trenta pietosi alla fine
di una fase di sviluppo tecnologico eccezionale –
l’unico periodo in cui invenzioni e progresso tecnico
avevano effettivamente mostrato un’anomala vitalità
era stato il sessantennio precedente la seconda guerra
mondiale. D’altro canto, anche considerando gli
sviluppi demografici come un dato, cosa del tutto
ingiustificata nell’ambito di una prospettiva di lungo
periodo, l’elevato numero di disoccupati, come pure
l’elevato numero di soggetti che scoraggiati dalla
disoccupazione lasciavano le forze di lavoro,
evidenziava come non vi fosse alcun limite, dal lato
dell’offerta, che impedisse al numero degli occupati di
accrescersi. Insomma, così come gli economisti non
erano riusciti a spiegare in maniera nitida il trentennio
dell’alta crescita ed i motivi per cui era giunto a
conclusione, essi erano incapaci di spiegare il
trentennio della bassa crescita e i motivi per cui non
accennava a concludersi.
Era inevitabile quindi che, sebbene in forme attenuate
e limitatamente agli Stati Uniti, il ruolo giocato dalla
politica economica dovesse riacquistare una qualche
centralità. Della “stagnazione secolare”, infatti, vi era
non soltanto una lettura offertista tutta centrata sulla
demografia e la tecnologia, ma anche una lettura dal
sapore più vagamente keynesiano legata al tema della
domanda. L’influente economista di Harvard e ministro
del Tesoro statunitense Lawrence Summers
sottolineava nel 2014 come

la crisi economica ha determinato una crisi nel


campo della macroeconomia. L’idea che le
depressioni avessero soltanto un interesse storico è
stata screditata dalla Crisi globale e dalla Grande
recessione […]. L’esperienza del Giappone degli anni
Novanta e quella odierna di Europa e Stati Uniti
suggeriscono che – al fine di comprendere e
combattere le fluttuazioni economiche – le teorie che
considerano il livello medio del prodotto e
dell’occupazione di lungo periodo come un dato
sono poco più che inutili. Sfortunatamente, quasi
tutti i lavori sia nel campo dell’economia neo-classica
che in quello dell’economia neo-keynesiana si sono
concentrati sulla varianza del prodotto e
dell’occupazione. Questo modo di ragionare presume
che, con o senza interventi di politica economica, il
funzionamento dei mercati è in grado di ristabilire il
pieno impiego ed eliminare il divario tra prodotto
corrente e prodotto potenziale. Gli unici problemi che
sorgono riguarderebbero la volatilità del prodotto e
dell’occupazione intorno ai loro livelli normali. Ma ciò
che è accaduto negli ultimi anni suggerisce che la
varianza di prodotto e occupazione hanno
un’importanza secondaria rispetto ai livelli medi di
queste grandezze.

Ma se si riconosce che non vi è alcun motivo per cui il


livello della produzione corrente debba convergere al
livello dato della produzione potenziale, l’implicazione
da trarre avrebbe dovuto essere che nel più lungo
periodo sarebbe accaduto l’inverso, essendo
impensabile che il prodotto potenziale possa continuare
ad accrescersi indipendentemente dal tasso di crescita
della produzione corrente. Detto in altro modo, nei limiti
in cui la politica economica determina l’andamento della
produzione corrente, essa determina anche l’andamento
della produzione potenziale e non semplicemente il
grado di utilizzo delle forze produttive. Si noti che, alla
luce di queste considerazioni, lo stesso calo della
natalità non poteva essere considerato come un evento
indipendente dal rallentamento della crescita, ma
doveva essere concepito, all’inverso, come determinato
proprio dall’incapacità della politica economica di
garantire il pieno impiego e di innalzare il tenore di vita
dei più ampi strati sociali.
Queste conclusioni, tuttavia, non venivano tratte,
limitandosi la riflessione all’inane consapevolezza che
la politica monetaria, a lungo identificata con la politica
economica tout court, non era in grado di rilanciare la
crescita. E se si giungeva così a constatare che la
manovra del tasso di interesse e le iniezioni di liquidità
erano insufficienti allo scopo, nessuno era però
seriamente intenzionato a mettere in discussione
l’assetto di politica economica che i Paesi
industrialmente più avanzati si erano dati nell’ultimo
trentennio, percepito come il solo compatibile con il
buon funzionamento del capitalismo. Ogni rottura di
questo assetto rimaneva semplicemente impensabile,
coincidendo con un allontanamento dall’idea stessa di
progresso e di modernità, causa quindi di sicuro
arretramento economico e sociale.

4. Eppure di moderno nel nuovo assetto di politica


economica vi era ben poco, trattandosi semplicemente
dello smantellamento dell’impianto faticosamente
edificato nel periodo post-bellico al fine di consentire il
perseguimento del pieno impiego come obiettivo
prioritario dei Paesi economicamente e socialmente più
avanzati. Si era proceduto alla liberalizzazione
pressoché totale dei movimenti internazionali dei
capitali, delle merci e delle persone; il mercato del
lavoro era stato deregolamentato; le imprese pubbliche
(industriali, dei servizi e bancarie) erano state
privatizzate; la banca centrale si era fatta indipendente
dal governo e aveva assunto come obiettivo esclusivo
la lotta all’inflazione; lo Stato sociale era stato
ridimensionato; il risparmio era stato detassato e i
sistemi di prelievo avevano perso il loro orientamento
progressivo; il bilancio dello Stato era tornato a essere
considerato una bestia da domare che doveva produrre
surplus e non disavanzi; la politica industriale era
degenerata in una generica assistenza finanziaria alle
imprese (vedi Tabella 2).
Ci soffermeremo nel secondo capitolo sui tratti salienti
delle politiche economiche dei Trenta pietosi e sui loro
effetti economici e sociali. Ma è importante
preliminarmente richiamare l’attenzione sul fatto che i
pilastri di ogni impianto di politica economica – quelli
che regolano le relazioni di una nazione con il resto del
mondo attraverso

Tabella 2. L’impianto di politica economica nei due


trentenni
la definizione del grado di mobilità internazionale del
capitale, delle merci e del lavoro e il regime del cambio;
quelli che regolano le relazioni tra lo Stato e il mercato
attraverso la politica monetaria e di bilancio e l’azione
dell’impresa pubblica, nonché quelli che regolano le
relazioni tra capitalisti e salariati attraverso le istituzioni
del mercato del lavoro – sono da considerarsi come
intimamente connessi. Un determinato orientamento
assunto in ognuno di questi ambiti ha precise
implicazioni circa l’orientamento che è possibile
assumere negli altri. La liberalizzazione dei movimenti di
capitale, per fare il principale esempio concreto, non
può coesistere con un sistema fiscale improntato a
criteri di accentuata progressività; allo stesso modo,
una seria politica di controlli valutari è difficilmente
concepibile senza una forte presenza dello Stato nel
settore dell’intermediazione finanziaria. D’altro canto,
politiche orientate all’espansione della domanda interna
attraverso la manovra fiscale sono destinate, in regime
di libero scambio, a ripercuotersi negativamente sulle
condizioni che garantiscono l’equilibrio nei conti con
l’estero; queste ultime richiederanno invece politiche di
contrazione della domanda interna e dei livelli salariali.
Che in ognuno di questi ambiti si sia verificata dalla fine
degli anni Settanta una svolta radicale rispetto al
precedente assetto di politica economica è pertanto un
fatto unitario: ogni svolta ha favorito e in alcuni casi
reso necessarie le altre, consolidando in tal modo la
forza di radicamento del nuovo impianto
complessivamente inteso.

Nota bibliografica
Per i due esempi di entusiastica quanto incondizionata
adesione al progetto liberista degli ultimi decenni, si
veda S. Weber, The end of the business cycle?, Foreign
Affairs, Vol. 76, n. 4, 1997 e R. E. Lucas, Macroeconomic
Priorities, American Economic Review, marzo 2003. Le
più caute considerazioni del governatore della banca
centrale statunitense A. Greenspan sono tratte da
Testimony of Chairman Alan Greenspan – The Federal
Reserve’s semiannual monetary policy report before
the Committee on Banking, Housing, and Urban
Affairs, U.S. Senate, 26 febbraio 1997. Il titolo
dell’articolo dell’Economist citato è “Secular stagnation
– The long view”, del 3 novembre 2014. Sulla
stagnazione secolare, più in generale, si veda C.
Teulings e R. Baldwin (a cura di), Secular Stagnation:
Facts, Causes and Cures, CPER Press, Londra 2014, in
particolare il saggio introduttivo di Laurence Summers
alle pp. 27-38. Di L. Summers, si veda pure “The age of
secular sagnation – What it is and what to do about it”,
Foreign Affairs, Vol. 95, n. 2, 2016. I dati relativi al tasso
di crescita del prodotto sono tratti dal Total Economy
Database, The Conference Board, www.conference-
board.org/data/economydatabase.
Capitolo II

La grande svolta di politica economica

1. Tra l’inizio degli anni Ottanta e la prima metà degli


anni Novanta i Paesi capitalisti più avanzati attuarono
una pressoché totale liberalizzazione dei flussi di
capitali in entrata e in uscita. Dopo gli Stati Uniti, che
avevano completato questo processo nel corso degli
anni Settanta, le restrizioni ai movimenti valutari
collegati alle transazioni in conto capitale vennero
abolite nel Regno Unito nel 1979 in appena sei mesi, in
Giappone nel 1980, in Francia e in Italia tra il 1987 e il
1990. Misure analoghe furono attuate in Australia,
Austria, Belgio, Danimarca, Olanda. (La Germania,
Paese con un saldo commerciale strutturalmente in
attivo e quindi più bisognoso di deflussi che di afflussi
di capitale, si era già orientata in questa direzione nei
decenni precedenti avendo eliminato le restrizioni ai
movimenti in uscita già a partire dal 1958.)
L’affermazione di questo orientamento fu tale da porlo
al riparo da ogni ripensamento sin dalla crisi finanziaria
asiatica del 1997. Lo stesso sarebbe accaduto con la
crisi del 2008: il Fondo monetario internazionale (Fmi)
osservava nel 2012 che

[i]l ritmo della liberalizzazione ha moderatamente


rallentato a causa della crisi globale, ma il trend
generale a livello mondiale rimane di crescente
apertura dei flussi internazionali di capitale. Dove le
autorità sono intervenute per influenzarli, esse in
genere lo hanno fatto non ri-regolando
permanentemente componenti significative del conto
capitale, quanto piuttosto disciplinando
temporaneamente specifici tipi di flussi.

La liberalizzazione dei movimenti internazionali dei


capitali è proseguita quindi senza interruzioni, sebbene
avanzando in forme più riflessive rispetto alla fase di
spregiudicata apertura conclusasi nei primi anni
Novanta. Essa continua a essere vista come un fattore
in grado di favorire una crescita stabile nel più lungo
periodo, sebbene si riconosca che in specifiche
contingenze il ricorso ai controlli, purché non
generalizzati, di natura temporanea e possibilmente non
discriminatori, può essere appropriato. Questo nuovo
aspetto del processo di liberalizzazione dei movimenti
internazionali dei capitali non va interpretato come
espressione di un suo indebolimento, quanto al
contrario di un suo rafforzamento: è possibile
consentire temporanee eccezioni alla regola senza
rischiare di compromettere l’intero impianto, proprio
perché esse agiscono come fattore di sua
conservazione arginandone gli effetti più palesemente
deleteri.
Nel 2002, l’Ocse rilevava senza troppe riserve come «i
controlli ai movimenti di capitale non fossero più
un’opzione politica», sostenendo che

l’esperienza di progressiva liberalizzazione


finanziaria nei confronti dell’esterno era stata nel
complesso positiva. In termini di effetti di efficienza
economica generale, gli impedimenti frontalieri
all’efficiente allocazione del capitale erano stati
rimossi e il ventaglio delle decisioni di risparmio inter-
temporale era stato ampliato attraverso l’accesso ad
un più grande bacino di capitali. L’apertura agli
afflussi di capitale dall’estero aveva contribuito a
rafforzare la concorrenza, e, quindi, a migliorare il
funzionamento delle istituzioni finanziarie nazionali.

Dieci anni dopo, la crisi economica e finanziaria non


aveva scalfito queste convinzioni. L’unica lezione da
trarne era che

per minimizzare i rischi macroeconomici generati da


cospicui movimenti internazionali dei capitali, è
necessario associare alle riforme strutturali un
appropriato orientamento delle politiche
macroeconomiche, con particolare riferimento alla
politica fiscale e del cambio, da integrare poi con
riforme finanziarie volte a rafforzare il quadro della
disciplina prudenziale.

Nessun ritorno quindi ai controlli: era l’orientamento


della politica economica interna che doveva accordarsi
con il contesto liberalizzato, accompagnato da un
rafforzamento della vigilanza sugli intermediari finanziari
e da eventuali temporanei interventi volti a contenere
flussi eccessivi di capitali in entrata.
Va al riguardo osservato che la cornice giuridica
all’interno della quale la liberalizzazione dei movimenti
di capitale si è andata imponendo è una cornice aperta,
nel senso che, con la significativa eccezione dei Paesi
dell’Unione europea, non esiste a tutt’oggi alcun
divieto del controllo dei capitali analogo a quello
vigente per le transazioni in conto corrente. È fuor di
dubbio che gli Stati Uniti abbiano dato impulso al
processo di liberalizzazione finanziaria. Ma sarebbe un
errore pensare che essi abbiano operato definendo un
quadro normativo generale. Gli Stati Uniti si sono
sempre mossi piuttosto su base fattuale e unilaterale,
come ben mostra il fallito tentativo, a metà degli anni
Novanta, di modificare l’artico VI del Fmi secondo il
quale «i Paesi membri possono esercitare i controlli
necessari a regolare i movimenti internazionali di
capitali, ma nessun membro può imporre questi controlli
in un modo che restringa i pagamenti per le transazioni
correnti». Quel tentativo di estendere alle transazioni in
conto capitale il regime liberalizzato delle transazioni in
conto corrente fu infatti un tentativo europeo (cfr. al
riguardo più avanti, p.105), espressione di quell’idea di
mondialisation maitrisée che difficilmente poteva
trovare accoglienza negli Stati Uniti, evidentemente
poco interessati ad ottenere per legge ciò che potevano
avere anche senza nessun obbligo formale (potendo
così rinunziarvi sbrigativamente ogniqualvolta
l’avessero ritenuto conveniente). Il velleitarismo della
mondialisation maitrisée troverà una grottesca
applicazione non a Washington, ma in Europa, facendo
del divieto del controllo dei movimenti internazionali dei
capitali un pilastro fondante dell’Unione, da
considerarsi come condizione necessaria allo sviluppo
del mercato unico. E questo non soltanto all’interno
della stessa Unione, ma a valere nei confronti di tutti gli
Stati esteri.
Paesi come la Francia e l’Italia, che fino ai primi anni
Ottanta si erano mostrati come i più riluttanti a compiere
passi che comportassero una così grave lesione delle
proprie prerogative statuali, si trovarono dopo pochi
anni legati ad un trattato che faceva della
liberalizzazione dei movimenti in conto capitale il
pilastro fondante del loro impianto di politica
economica.

2. Guido Carli notò nel 1993 che sarebbero bastate


«l’interconnessione dei mercati finanziari, la sola libertà
di investire il risparmio [in titoli emessi da altre nazioni e
denominati in altre valute] per cancellare dal nostro
ordinamento la visione dirigistica, la nozione di
economia mista. Il trattato di Maastricht è incompatibile
con l’idea stessa della “programmazione economica”. A
essa si vengono a sostituire la politica dei redditi, la
stabilità della moneta e il principio del pareggio di
bilancio».
La liberalizzazione valutaria fu dunque in Europa la
madre di tutte le riforme liberiste, in quanto minò alla
base la capacità dello Stato di esprimere un indirizzo di
politica economica autonomo, sia al suo esterno (ossia
nei confronti degli altri Stati), che al suo interno (ossia
nei confronti degli interessi dominanti). Il voto
permanente dei mercati finanziari avrebbe esercitato un
condizionamento pervasivo sul potere dello Stato
nazionale, tale da comprometterne l’esercizio anche in
ambiti che restarono formalmente di sua competenza. Le
politiche deflattive furono rese in larga misura
necessarie dalla liberalizzazione valutaria, che agì in tal
modo come volano del più ampio assetto liberista
assunto dai Paesi dell’Europa continentale nel corso
dell’ultimo trentennio. È in questo senso corretto
affermare che la liberalizzazione valutaria suonò la
campana a morto per la politiche economiche dei Trenta
gloriosi, così come è possibile affermare che i momenti
di rinuncia formale al loro esercizio (si pensi alla
questione del pareggio di bilancio in costituzione)
abbiano rappresentato un passaggio di mero
consolidamento di questo processo.
Quanto i controlli valutari e il potere dello Stato siano
intimamente connessi è testimoniato dal fatto che tra
tutte le libertà imposte dal Trattato di Roma, quella dei
movimenti dei capitali fu l’ultima ad affermarsi. Se è
vero infatti che la libera circolazione dei capitali
figurava tra i principi fondanti della cooperazione
comunitaria alla stregua della libera circolazione delle
persone, delle merci e dei servizi, è vero pure che le
disposizioni relative alla liberalizzazione valutaria
abbondavano di cautele – assenti per le altre libertà –
che di fatto finirono per rimandarla alla realizzazione di
forme di integrazione economica e politica molto più
avanzate di quelle poi attuate dal Trattato di Maastricht
e dalla moneta unica. Diversamente che per l’unione
doganale, nel Trattato di Roma non era fissato alcun
calendario per lo smantellamento dei controlli sui
movimenti di capitale. La loro soppressione graduale
era prevista solo «nella misura necessaria al buon
funzionamento del mercato comune». Clausole così
generiche finirono per dare ai singoli Stati un potere
discrezionale pressoché illimitato. Se le perturbazioni
sul mercato dei capitali avessero obbligato uno Stato
ad adottare misure urgenti o segrete, non vi era altro
obbligo che di informarne ex post la Commissione
europea. In caso di crisi dei conti con l’estero, lo Stato
interessato poteva mettere radicalmente in discussione
la libertà dei cambi, adottando tutte le misure restrittive
in grado di riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Di
fatto, le direttive del 1960 e del 1962 che diedero
attuazione al Trattato di Roma liberalizzarono
incondizionatamente solo alcune forme di investimenti
diretti, gli investimenti immobiliari e i crediti commerciali
a breve e medio termine, non allontanandosi quindi
dalla filosofia di Bretton Woods. Gli Stati nazionali, pur
avendo come obiettivo primario la cooperazione e lo
sviluppo del commercio mondiale, non erano
intenzionati e tantomeno forzati a compiere passi che ne
compromettessero la capacità di attuare politiche
economiche orientate all’innalzamento dei livelli
occupazionali. L’assetto di Bretton Woods aveva come
obiettivo primario il rafforzamento, non l’indebolimento,
di questa capacità, e aveva individuato proprio nella
restrizione dei movimenti di capitali lo strumento
necessario a garantire la complessa coesistenza tra
apertura degli scambi commerciali e centralità
dell’obiettivo del pieno impiego.
Proprio a causa di tutte queste ritrosie nel procedere
sul fronte della libera circolazione dei capitali, il
ventennio successivo al Trattato di Roma è oggi
considerato come il periodo buio della cooperazione
europea, gli anni in cui il progetto avrebbe perso
impulso prima dell’impetuosa ripartenza della seconda
metà degli anni Ottanta. Si trattò al contrario dell’unico
periodo in cui il dibattito sul futuro dell’Unione europea
acquistò spessore. Chiusasi la fase postbellica del
passaggio dall’economia della guerra all’economia della
pace e della cooperazione nei settori economici chiave,
con il Trattato di Roma il problema del conflitto tra
forme più avanzate di internazionalizzazione e
conservazione delle prerogative dello Stato nazionale si
pose in modo esplicito. In modo altrettanto esplicito la
questione fu risolta in negativo. L’incompatibilità tra un
regime valutario completamente liberalizzato e la
possibilità di utilizzare le leve della politica monetaria e
fiscale al fine di conseguire alti livelli occupazionali era
un fatto fuori discussione. Non stupisce, alla luce di
questa consapevolezza, come in tutti i più significativi
documenti comunitari di quel ventennio, dal piano
Werner sino al rapporto MacDougall, lo
smantellamento dei controlli sui movimenti di capitali
fosse visto come un momento logicamente e
temporalmente subordinato alla più fondamentale
questione della creazione di forme di coordinamento
fiscale e politico, fase quindi di compimento e non di
avvio di un ipotetico percorso federale. La
liberalizzazione valutaria non era ancora considerata un
dogma, ma una scelta chiave di politica economica, che
poteva essere vantaggiosa per alcuni e dannosa per
altri. Nel corso degli anni Settanta i Paesi la cui taglia
era tale da alimentare l’ambizione a una conduzione il
più possibile autonoma delle proprie sorti economiche,
politiche e sociali, si astennero dal compiere il passo.
Come vedremo nel prossimo capitolo concentrando
l’attenzione sul caso francese, è proprio l’improvviso
risolversi di questa impasse in senso liberista lo snodo
chiave da cui muovere per analizzare il processo di
disfacimento della sinistra europea.

3. I rapporti commerciali tra i principali Paesi


industrializzati durante i Trenta gloriosi furono
improntati al principio della riduzione delle barriere
doganali e delle pratiche discriminatorie introdotte
all’inizio degli anni Trenta, da realizzarsi attraverso
un’intesa multilaterale (il Gatt) basata su un piano di
riduzioni tariffarie e sull’applicazione della clausola
della nazione più favorita. L’effettiva capacità del Gatt
di agire come fattore di rilancio del commercio
internazionale dopo la fine del secondo conflitto
mondiale, tuttavia, dipese non tanto dal principio di
fondo, quanto dalle eccezioni a esso. Alle nazioni in via
di sviluppo era riconosciuta la possibilità di agire in
deroga praticamente senza alcun limite, di modi e di
tempi, per proteggere il loro immaturo apparato
industriale. Le stesse nazioni industrialmente più
avanzate, d’altronde, erano ben felici di diluire i
contenuti dell’accordo consentendo ai Paesi meno
sviluppati di adottare regimi speciali, concedendosi in
tal modo la facoltà di ricorrere a pratiche analoghe,
senza assumere al contempo un atteggiamento
esplicitamente avverso al libero commercio. Il settore
agricolo e quello tessile (in modo particolare il primo)
erano settori da non esporre alla concorrenza
internazionale. Allo stesso modo, andavano tutelati i
settori di base e di rilevanza strategica, nozioni alle
quali si attribuiva il più ampio significato. I principi del
Gatt erano da considerarsi come non imperativi nel caso
in cui si fosse trattato di ristabilire le condizioni di
equilibrio nella bilancia dei pagamenti. A questa
eccezione, sebbene di durata temporanea, veniva
attribuita un’importanza così grande da riaprire il campo
alle quote, vale a dire a quelle restrizioni quantitative in
volume che avevano proliferato nel decennio
antecedente la seconda guerra mondiale e che le
nazioni più avanzate avevano individuato come
principale ostacolo alla ripresa del commercio mondiale
nella fase post-bellica.
Più ambiguo, invece, era il significato
dell’allontanamento dal principio di non discriminazione
imposto dalla clausola della nazione più favorita. Esso
avvenne attraverso una tendenza regionalistica, che
trovava attuazione nella stipula di accordi esterni al
Gatt riguardanti un numero limitato di nazioni strette da
peculiari vincoli economici e politici, al fine di stabilire
tra loro trattamenti privilegiati non estendibili agli altri
Paesi. Il primo significativo sviluppo in tal senso
riguardò i Paesi dell’Europa occidentale coinvolti
nell’European Recovery Program, i quali concordarono
forti riduzioni dei regimi tariffari al loro interno da non
estendersi agli altri Paesi (sviluppo rafforzatosi poi con
l’istituzione della Comunità Europea del Carbone e
dell’Acciaio). Assecondata dagli Usa, Paese
ostinatamente avverso alla definizione di qualsivoglia
quadro di regole sovranazionali, questa tendenza
regionalistica, se da un lato si collocava nel solco del
protezionismo temperato all’interno del quale il Gatt si
andava evolvendo, dall’altro rappresentava una prima
riaffermazione dei principi del libero scambio decaduti
tra le due guerre mondiali.
Non è difficile capire perché il ruolo svolo dal Gatt nei
primi decenni post-bellici appaia oggi così sfuggente.
Non si può infatti guardare ad esso come alla prima fase
di un processo che sarebbe giunto a maturazione
all’inizio degli anni Novanta con l’assetto
liberoscambista dell’Organizzazione mondiale del
commercio (Omc). I risultati conseguiti sul fronte
dell’abbattimento delle barriere tariffarie, dopo la prima
ondata di riduzioni degli anni immediatamente
successivi alla fine della guerra, furono modesti (nulli
negli anni Cinquanta e Sessanta). Inoltre, all’allargarsi
del numero delle nazioni che sottoscrivevano l’intesa
multilaterale, si moltiplicava il numero dei regimi in
deroga e delle pratiche discriminatorie. Più che un
insieme di regole condivise, il Gatt era un forum
internazionale di risoluzione delle controversie.
Il problema per così dire interpretativo deriva dal fatto
che nei decenni Cinquanta e Sessanta il commercio
mondiale crebbe a tassi rimasti ineguagliati anche negli
anni della globalizzazione e del libero scambio
incondizionati. Si ponga a confronto, ad esempio, il
decennio Novanta con il decennio Sessanta. Negli anni
Novanta, con la cosiddetta esplosione del commercio
mondiale, il volume degli scambi internazionali aumentò
2,5 volte più velocemente del Pil mondiale, a fronte di
un aumento 1,5 volte più veloce nei quattro decenni
precedenti. Tuttavia, mentre negli anni Novanta il
commercio mondiale crebbe, in media annua, del 6,6 per
cento contro il 2,6 per cento del Pil mondiale, negli anni
Sessanta esso crebbe dell’8 per cento contro il 5,5 per
cento del Pil mondiale. Concentrando l’attenzione sui
Paesi industrialmente più avanzati, le esportazioni
crebbero dell’8,3 per cento negli anni Sessanta, contro
il 6,6 per cento negli anni Novanta; le importazioni
dell’8,7 per cento contro il 6,8 per cento. Se misurato
non in rapporto al Pil, il commercio mondiale aumentò
pertanto di più negli anni del protezionismo temperato
che in quelli del successivo libero scambio
incondizionato.
Douglas Irwin, uno dei massimi esperti di commercio
internazionale, nell’interrogarsi circa il ruolo del Gatt
come determinante del boom di esportazioni del periodo
post-bellico, conclude che «la formazione del Gatt non
sembra aver stimolato nel decennio successivo al 1947
una liberalizzazione del commercio mondiale
particolarmente rapida. È quindi difficile attribuire al
Gatt un ruolo nella sorprendente ripresa economica del
periodo post-bellico che vada oltre quello di semplice
comprimario». In effetti, la prima significativa ondata di
riduzioni tariffarie si avrà soltanto nel novembre del
1979 a conclusione del Tokyo Round, un’intesa che
determinerà un abbattimento delle barriere tariffarie nei
nove principali Paesi industrializzati dal 7 per cento al
4,7 per cento, seguita poi dalle ulteriori riduzioni
definite nel 1994 a conclusione dell’Uruguay Round. Da
una prospettiva liberoscambista ci troviamo di fronte
all’imbarazzante successo di un orientamento di politica
economica il cui fine ultimo non era favorire il libero
scambio incondizionato, ma far convivere le istanze
protezionistiche degli Stati impedendo che esse
finissero per irrigidirsi nella logica delle ritorsioni
commerciali.
Per comprendere come un impianto sostanzialmente
protezionista raggiunse il risultato di promuovere il
commercio mondiale bisogna non perdere di vista il
fatto che il Gatt post-bellico, non diversamente dal Fmi
e dalla Banca mondiale (Bm), fu il figlio imperfetto dei
rapporti di potere determinatisi nel periodo di tempo
compreso tra la Grande Depressione e la fine della
seconda guerra mondiale. Il Fmi e la Bm non
realizzarono appieno quella struttura finanziaria
internazionale asservita alla crescita piuttosto che ai
creditori; allo stesso modo, il più modesto strumento
del Gatt surrogò l’International Trade Organization
(Ito), ovvero l’organismo che con il Fondo e la Banca
avrebbe dovuto costituire la terza gamba di un tavolo di
cooperazione internazionale mirante a consentire agli
Stati di perseguire l’obiettivo del pieno impiego senza
inciampare nel vincolo esterno. Resta tuttavia vero che
le istanze dell’Ito improntarono, in forma attenuata, i
contenuti del Gatt. La Carta dell’Havana, l’intesa che
nel 1948 introduceva l’Ito, poi decaduta perché non
ratificata dal Congresso americano, illustra queste
istanze limpidamente. Dopo aver individuato
nell’articolo 1 come principale finalità dell’Ito
l’assicurare attraverso uno sviluppo bilanciato
dell’economia mondiale le condizioni di stabilità e
benessere indispensabili ad una convivenza pacifica
delle nazioni, nell’articolo 2 si affermava che

i Paesi membri riconoscono che evitare la


disoccupazione e la sottoccupazione, attraverso la
costituzione e il mantenimento in ogni Paese di utili
opportunità di impiego per chi è capace e disposto a
lavorare e di un volume di produzione e di domanda
effettiva per beni e servizi ampio e stabilmente
crescente, non è solo una preoccupazione interna ad
ogni nazione, ma anche una condizione necessaria
per l’ottenimento del fine generale e degli obiettivi
fissati nell’articolo 1, inclusa l’espansione del
commercio internazionale, e quindi del benessere di
tutte le altre nazioni.

La priorità dell’obiettivo del pieno impiego, da


conseguirsi attraverso la crescita della domanda
interna, era ribadita nell’articolo 3: «ogni membro
intraprenderà azioni finalizzate al mantenimento sia di
un’occupazione piena e produttiva sia di una domanda
ampia e stabilmente crescente all’interno del suo
territorio, attraverso misure appropriate alle sue
istituzioni politiche, economiche e sociali». L’articolo 4
coinvolgeva i Paesi creditori nel processo di correzione
degli squilibri, in quanto:

nel caso in cui uno squilibrio persistente nella


bilancia dei pagamenti di uno dei membri è il
principale determinante di una situazione in cui gli
altri membri sono coinvolti in difficoltà della bilancia
dei pagamenti, tali da vedersi impediti nel
perseguimento dei fini individuati dall’articolo 3
senza ricorrere a restrizioni del commercio estero, il
membro che ha generato lo squilibrio darà il suo
pieno contributo, mentre azioni appropriate saranno
intraprese dagli altri membri, al fine di correggere lo
squilibrio. Azioni in accordo con questo articolo
saranno intraprese considerando la desiderabilità di
impiegare metodi che mirano all’espansione piuttosto
che alla contrazione del commercio internazionale.

L’articolo 5 ribadiva poi il concetto richiamando i


pericoli deflazionistici di un aggiustamento rigorista.
L’articolo 6 concludeva sottolineando la necessità di
escludere dall’area del libero commercio i Paesi non in
grado di garantire giusti salari e condizioni di lavoro
adeguate:

I membri riconoscono che le misure relative


all’occupazione devono prendere pienamente in
considerazione i diritti dei lavoratori attraverso
dichiarazioni intergovernative, convenzioni e accordi.
Essi riconoscono che ogni Paese ha un interesse
comune nell’ottenimento e nel mantenimento di giusti
standard occupazionali relativamente alla produttività
del lavoro, e quindi nel miglioramento dei salari e
delle condizioni di lavoro nella misura consentita
dalla produttività. I membri riconoscono che
condizioni di lavoro inique, particolarmente nella
produzione destinata all’esportazione, creano
difficoltà nel commercio internazionale, e,
conseguentemente, ogni membro intraprenderà ogni
misura ritenuta appropriata e possibile al fine di
eliminare tali condizioni all’interno del proprio
territorio.

4. I motivi del successo del Gatt post-bellico


dovrebbero quindi essere chiari: il protezionismo
temperato era finalizzato anche allo sviluppo del
commercio mondiale, non implicando l’isolazionismo
autarchico. Non si propugnava una crescita trainata
dalle esportazioni, ma, al contrario, flussi di esportazioni
trainati dalla crescita. Quest’ultima avrebbe dovuto
essere sostenuta dalla domanda interna; il
miglioramento dei salari ed un orientamento espansivo
della politica economica ne costituivano il
presupposto; condizioni di lavoro inique e austerità
sarebbero state per contro un fattore di contrazione
della domanda interna, e, pertanto, un nemico del
commercio internazionale. Lo Stato nazionale ed il suo
impegno a perseguire politiche economiche autonome
orientate al «mantenimento in ogni Paese di utili
opportunità di impiego» avrebbe costituito il motore del
processo. Stiamo toccando uno snodo chiave della
connessione tra i diversi ambiti della politica economica
sul quale avremo modo di tornare più avanti.
Limitiamoci per il momento a sottolineare la distanza tra
quest’impostazione e quella, libero-scambista, che
emerse dalla «dichiarazione circa il contributo dell’Omc
all’ottenimento di maggior coerenza nell’azione di
politica economica globale», contenuta nel suo statuto
costitutivo del 1995:

L’accordo raggiunto nell’Uruguay Round mostra


come tutti i governi riconoscano il contributo che
politiche commerciali liberiste possono offrire ad una
crescita e uno sviluppo sani delle loro economie e
dell’economia mondiale nel suo complesso […]. La
liberalizzazione del commercio mondiale costituisce
una componente di crescente importanza nel
successo dei programmi di aggiustamento che molti
Paesi stanno intraprendendo, spesso sopportando
significativi costi sociali nella transizione […]. Il
rafforzamento del sistema di commercio multilaterale
che emerge dall’Uruguay Round ha la capacità di
offrire un miglior forum per la liberalizzazione, di
contribuire ad una più effettiva sorveglianza e di
assicurare la stretta osservanza di regole e discipline
multilateralmente condivise. Questi miglioramenti
implicano che la politica del commercio internazionale
potrà in futuro giocare un ruolo più sostanziale
nell’assicurare la coerenza dell’azione di politica
economica globale.

L’enfasi qui non è sul pieno impiego e sul conseguente


sviluppo del commercio internazionale, quanto
piuttosto sulle politiche di liberalizzazione del
commercio i cui effetti interni avrebbero reso necessari
programmi di aggiustamento, costosi socialmente ma
benefici per la competitività. Al centro di questo
processo vi sarebbero stati i governi nazionali, ma solo
come attuatori di «un’azione coerente di politica
economica globale». Il libero commercio era lo
strumento che avrebbe imposto – in prospettiva futura
in misura crescente – ai singoli governi l’agenda di
politica economica. Accesso ai mercati in cambio di
«stretta osservanza di regole e discipline
multilateralmente condivise», un eufemismo per
indicare le politiche di austerità orientate alla deflazione
e al mutamento delle condizioni distributive a
svantaggio dei salariati. Questo, in essenza, il patto
proposto dall’Uruguay Round ai Paesi sottoscrittori.
Ben diversamente da quello proposto dalla Carta
dell’Havana, che mirava a garantire l’accesso ai mercati
in cambio di politiche orientate alla crescita della
domanda interna – vale a dire condizioni distributive
più eque in cambio di analoghe condizioni distributive
negli altri Paesi sottoscrittori – e per il quale il
conseguente sviluppo della produzione interna in ogni
Paese economicamente e socialmente più avanzato
avrebbe favorito lo sviluppo del suo commercio estero.
È opportuno sottolineare che a beneficiare
dell’orientamento post-bellico non furono soltanto le
nazioni industrialmente più avanzate, visto che anche in
molti Paesi in via di sviluppo ebbe luogo un progresso
economico e sociale senza precedenti.
«L’industrializzazione basata sulla sostituzione delle
importazioni», ha rilevato Dani Rodrik, un noto
economista statunitense moderatamente critico della
globalizzazione, «è basata sull’idea che l’investimento
interno e le capacità tecnologiche possano essere
stimolati offrendo ai produttori nazionali una protezione
temporanea dalle importazioni. Sebbene
quest’impostazione sia caduta in disgrazia dall’inizio
degli anni Ottanta, essa ha funzionato egregiamente per
un lungo periodo di tempo in un numero consistente di
nazioni in via di sviluppo». Per Rodrik non si tratta
soltanto del fatto che fino al 1973 non meno di 42
nazioni in via di sviluppo crebbero stabilmente a tassi
superiori al 2,5 per cento annuo, ma anche del fatto che
«contrariamente a quanto comunemente si crede, la
crescita basata sulla sostituzione delle importazioni non
ha prodotto ritardi tecnologici e inefficienze a livello
macroeconomico». I successi del protezionismo
temperato non furono quindi limitati ai Paesi
industrialmente più avanzati e non implicarono la
mancata crescita dei Paesi in via di sviluppo.
5. Nel corso dei Trenta gloriosi, al protezionismo
temperato e ai controlli dei movimenti dei capitali si
affiancò un meccanismo di provvista di liquidità
internazionale anch’esso funzionale al pieno impiego.
Soffermiamoci brevemente sul suo ruolo.
Eccezion fatta per il Paese che si pone al centro del
sistema, con la sua moneta che funge da valuta di
riserva e strumento di pagamento internazionale,
nessun meccanismo di provvista di liquidità
internazionale, per quanto permissivo, può sostenere
squilibri permanenti dei saldi commerciali. Un buon
sistema monetario internazionale può quindi
considerarsi quello che favorisce il riequilibrio dei conti
di parte corrente impedendo che l’aggiustamento
avvenga attraverso il contenimento della domanda
aggregata. Un tale aggiustamento, se generalizzato, ha
infatti l’effetto di innescare un circolo vizioso tra
politiche restrittive ed equilibrio esterno dagli esiti
opposti a quelli indicati nella sezione precedente: non
crescita delle esportazioni trainate dalla crescita del
prodotto, ma riduzione delle esportazioni causata dalla
riduzione della crescita, a sua volta indotta dalla
necessità di contenere le importazioni.
Si è portati a pensare che questa trappola possa essere
evitata grazie ad un meccanismo sovra-nazionale in
grado di spostare parte del peso della correzione sulle
spalle del creditore. Ora un meccanismo di tal fatta è
astrattamente concepibile, solo che il suo concreto
operare implica l’esistenza di un governo mondiale. Si
tratta quindi di una chimera, fuorviante nella misura in
cui distoglie l’attenzione dall’unica strada
effettivamente percorribile, ossia quella per cui ogni
singolo Stato deve dotarsi degli strumenti necessari a
consentire la sua crescita interna in condizioni di
equilibrio esterno; alla lunga, il problema non può
essere risolto né dal favore dei creditore, né da una
provvista illimitata di liquidità internazionale. Circa gli
strumenti da utilizzare per conciliare la crescita interna
con l’equilibrio esterno, nel corso dei Trenta gloriosi si
escludeva che quest’ultimo potesse essere assicurato
grazie ad afflussi di capitale generati da alti tassi di
interesse interni; si escludeva al contempo il ricorso alla
sistematica variazione del tasso di cambio, essendo le
svalutazioni competitive unilaterali percepite come una
delle minacce principali alla tenuta del consenso
espansionistico. Restava il ricorso ad una qualche
forma di protezionismo temperato e naturalmente al
controllo dei movimenti di capitale.
Come abbiamo già ricordato (cfr. sopra, tab.2 p.26), a
partire dagli anni Ottanta la provvista di liquidità in
valuta non è stata più alimentata dai soli canali pubblici
ma in misura crescente da canali privati attraverso una
complessa rete di imprese finanziarie e non finanziarie. Il
contesto è cambiato radicalmente rispetto a quello
post-bellico, caratterizzato proprio dallo sforzo di
imbrigliare forze finanziarie destabilizzanti e
potenzialmente distruttive, limitando i flussi finanziari
internazionali privati alle esigenze determinate dalle sole
operazioni commerciali. Anche a causa dell’enorme
crescita delle transazioni finanziarie internazionali, la
volatilità dei tassi di cambio è passata dal 2 per cento
del trentennio post-bellico a circa il 15 per cento degli
ultimi decenni, nonostante il fatto che – proprio per
proteggersi dalla libera circolazione dei capitali e dalla
conseguente instabilità del cambio – numerosi Stati
abbiano ancorato la propria moneta a quella di Paesi a
maggiore solidità valutaria con accordi più o meno
vincolanti. Contestualmente, sono state smantellate
tutte le barriere fiscali e tariffarie alle importazioni. Le
politiche restrittive sono così rimaste l’unico strumento
di riequilibrio dei conti con l’estero, lasciando alle
politiche espansionistiche uno spazio incidentale,
erratico, ed in ogni caso determinato da circostanze
fuori dal controllo dei responsabili della politica
economica nazionale. Da un assetto in cui dal consenso
espansionistico derivava un regime protezionistico si è
passati ad un assetto in cui dal consenso liberista
derivano politiche restrittive.
È importante ribadire come non solo la politica
valutaria, ma anche la politica commerciale, e in ultima
analisi tutto l’orientamento interno della politica
economica, costituissero nel primo trentennio post-
bellico aspetti centrali del processo di crescita in
condizione di tendenziale equilibrio esterno.
Fondamentale era considerata una conduzione il più
possibile autonoma della politica economica nazionale,
ossia «che vi fosse la minor interferenza possibile con
le politiche economiche nazionali» (Keynes).
Gli accordi di Bretton Woods furono un successo della
cooperazione internazionale tra Stati forti, non di
un’istituzione sovranazionale che indirizzasse l’operato
di Stati deboli. L’atteggiamento del Fmi degli ultimi
decenni è semplicemente il prodotto del consenso e
dell’impianto di politica economica stabilitisi nei Trenta
pietosi. Da essi derivano l’estensione praticamente
senza limiti del principio della condizionalità, ossia la
stretta subordinazione della concessione di liquidità
internazionale all’adozione di politiche fiscali restrittive,
di detassazione del risparmio, di privatizzazione, di
deregolamentazione del mercato del lavoro, come pure
l’impiego dei prestiti non più finalizzato a creare
«l’opportunità di correggere gli squilibri della bilancia
dei pagamenti senza ricorrere a misure distruttive della
prosperità nazionale ed internazionale», quanto
piuttosto a consentire ai flussi finanziari internazionali
di mettersi al riparo dai disastri da essi stessi provocati.
Ciò che dunque stiamo ponendo in luce è che fu
l’impegno dei Paesi capitalisti più avanzati ad
accrescere produzione e occupazione al loro interno
l’elemento che caratterizzò il trentennio successivo al
secondo conflitto mondiale. La realizzazione di questo
obiettivo comune era affidata ad ogni singolo Stato, dal
momento che il pieno impiego delle forze di lavoro
poteva essere perseguito soltanto grazie ad un
massiccio intervento di ogni governo a sostegno della
domanda interna. Questo intervento presupponeva che
vi fossero le condizioni necessarie a una conduzione il
più possibile autonoma della politica economica, ossia
implicava un sistema efficace di controlli delle
transazioni finanziarie e commerciali con il resto del
mondo. Le politiche di gestione della domanda,
innalzando i livelli occupazionali, rafforzavano i
salariati, contribuendo anche per questa via al
sostegno della domanda interna. Ed è proprio in
relazione a quest’aspetto che entrò in gioco la
questione del grado di mobilità internazionale delle
forze di lavoro.

6. I capitalisti, è ben noto, hanno sempre aspirato a


movimenti migratori deregolamentati. I Trenta gloriosi
non costituirono da questo punto di vista
un’eccezione. Al contrario, via via che l’obiettivo del
pieno impiego veniva raggiunto, le pressioni volte a
ricostituire attraverso i flussi migratori un bacino di
lavoratori eccedentari e vulnerabili, al fine di esercitare
un’azione disciplinatrice sui salariati, si accrescevano.
Tuttavia, il livello di coesione sociale da un lato e
l’azione regolamentatrice dello Stato dall’altro – due
elementi che come avremo modo di argomentare sono
in rapporto di reciproca dipendenza – posero allora un
argine a questa aspirazione, sebbene in forme non prive
di incertezze ed incoerenze.
Se guardiamo alla politica migratoria delle principali
nazioni europee dal dopoguerra ad oggi, è possibile
individuare, pur in presenza di significative differenze
tra i singoli Paesi, tre diverse fasi articolatesi lungo
linee non così nette come quelle seguite dalle vicende
della mobilità internazionale dei capitali e delle merci.
Una prima fase, che va dal 1945 al 1975, si caratterizzò
per la presenza di flussi migratori sostenuti in un
contesto di elevata crescita economica ed intensa
azione regolamentatrice dello Stato. Dopo una seconda
fase di arresto nel decennio tra il 1975 e il 1985,
determinata proprio dal rallentamento del processo di
crescita e dalle tensioni sociali accumulatesi a causa
delle politiche migratorie relativamente permissive dei
decenni precedenti, prese avvio una terza fase che si
distinse, specialmente a partire dagli anni Novanta, per
la massiccia ripresa dei flussi migratori sia verso i Paesi
europei che come la Germania e la Francia avevano già
ricevuto flussi cospicui in entrata, sia verso quelli più
periferici come la Spagna e l’Italia, che nei decenni
post-bellici avevano invece esportato forze di lavoro.
Flussi migratori elevati e crescenti iniziarono a
coesistere con ancor più elevate e crescenti eccedenze
di manodopera indigena. Gli Stati nazionali rinunziarono
ad un’effettiva politica di controllo. Essi tesero
piuttosto ad assecondare un vasto piano di
immigrazione semi-clandestina basato su un
atteggiamento permissivo all’entrata, più restrittivo in
materia di regolarizzazione, e di totale indifferenza circa i
costi sociali del fenomeno, di fatto scaricati sugli strati
più bassi della società e sulle aree geografiche investite
dall’emergenza della prima accoglienza.
La peculiarità del fenomeno migratorio dell’ultimo
ventennio, rispetto a quello degli anni Cinquanta e
Sessanta, è da ricondurre proprio al diverso contesto
occupazionale all’interno del quale questi flussi
migratori, sia regolari che irregolari, si sono andati ad
inserire. Si consideri, per fissare le idee, che nel 2014 il
numero degli occupati indigeni dei Paesi europei
dell’Ocse (circa 180 milioni) non era tornato ai livelli
dell’inizio della crisi del 2008. Viceversa, gli occupati
nati all’estero hanno presentato una crescita sostenuta
che ha portato il loro numero a 25 milioni, con un
incremento di circa l’8 per cento tra il 2008 e 2014.
Evidentemente, si tratta di uno scenario ben diverso da
quello degli anni Sessanta nel corso dei quali, se è vero
che si registrarono in alcuni Paesi europei tassi di
crescita ancor più elevati degli occupati nati all’estero,
è vero altresì che essi si accompagnarono ad un tasso
di crescita altrettanto elevato degli occupati indigeni ed
a un calo del numero complessivo dei disoccupati.
Completamente diverso, d’altro canto, fu l’orientamento
dei pubblici poteri nei due periodi. Se ancora alla metà
degli anni Settanta le condizioni sociali e politiche
erano tali da consentire ad un indirizzo restrittivo
dell’immigrazione di imporsi in tempi relativamente
brevi, l’atteggiamento prevalente nell’ultimo ventennio
era mutato al punto da spingere il responsabile dei
diritti umani dei migranti presso le Nazioni Unite,
François Crépeau, ad affermare che «i diritti umani sono
per tutti e che i migranti devono essere trattati come
titolari di uguali diritti, a prescindere dal loro status
migratorio in relazione al territorio sovrano in cui si
trovano». In altre parole, ogni migrante, anche per
motivi economici, sarebbe un rifugiato che in nome dei
diritti umani gli Stati non possono respingere.
Argomenteremo più avanti (cap. IV) come
quest’identificazione dei diritti umani con la
rivendicazione della soppressione dei confini di uno
Stato, ovvero del più elementare presupposto del
potere statuale, abbia rappresentato un aspetto centrale
del processo che ha condotto alla scomparsa della
sinistra in Europa.

7. Nel corso dei Trenta gloriosi, nelle società


industrializzate socialmente più evolute, le conquiste
del lavoro salariato avanzarono senza arrecare
pregiudizio alla stabilità sociale e allo sviluppo
economico. Coesione sociale e crescita ne risultarono al
contrario rafforzate avendo entrambe come
presupposto principale proprio l’accresciuta forza dei
salariati. Lavoratori più forti → salari più elevati →
crescita della domanda interna → crescita della
produzione → crescita dell’occupazione → lavoratori
più forti. Fu questo in essenza il meccanismo virtuoso
che legò progresso economico e progresso sociale. Un
meccanismo potente e fragile allo stesso tempo:
potente, perché ogni sua componente tende a rafforzare
le altre in circolo; fragile, perché la sua attivazione non
è automatica, come non automatico è l’operare di ogni
singola connessione. Il processo è inconcepibile senza
uno Stato forte che lo instauri, lo indirizzi, vi
sovraintenda. Se vi è un eccezionalismo storico dei
Trenta gloriosi, esso è da rintracciare proprio nel fatto
che al termine della seconda guerra mondiale si creò un
consenso diffuso circa la necessità di investire i
governi nazionali del compito di promuovere strategie
intese ad attivare e sostenere il circuito virtuoso. I
lavoratori rimasero naturalmente ben lontani dal
sottrarre alla borghesia il controllo della «macchina
splendidamente attrezzata dello Stato» (Lenin); tuttavia,
è innegabile che per i salariati e i loro rappresentanti
nacque la concreta possibilità di far sentire il proprio
peso nella vita della nazione, esercitando un’influenza
più o meno diretta su questioni economiche di
importanza cruciale.
Gli sviluppi delle istituzioni e delle norme regolanti il
mercato del lavoro furono una delle manifestazioni più
evidenti di questa accresciuta influenza. Che li si
designi, per utilizzare il linguaggio della teoria delle
relazioni industriali, come modello della partecipazione,
della concertazione o del pluralismo organizzato, chiaro
fu il loro orientamento nei tre decenni successivi al
secondo conflitto mondiale: consolidare il fronte del
lavoro salariato fissandone sul piano della legge i
progressivi avanzamenti, nell’ambito di una presa di
distanza tanto dall’assetto che aveva caratterizzato le
esperienze del fascismo e del nazional socialismo,
quanto dal confronto tra capitale e lavoro quale era
stato regolato solo marginalmente dallo Stato fino ai
primi decenni del novecento. Contrariamente a quanto
osservato da Adam Smith, secondo cui «ogni volta che
la legge ha cercato di regolare i salari degli operai è
stato sempre piuttosto per abbassarli che per
aumentarli», nei Trenta gloriosi lo Stato sostenne i
salariati attraverso numerosi canali.
Vi fu in primo luogo il complesso delle leggi che
disciplinavano le tipologie contrattuali, la protezione
dell’impiego (ovvero le modalità di assunzione e
licenziamento), la salute e la sicurezza sui luoghi di
lavoro. Vi furono poi le norme che regolavano la
contrattazione collettiva, le organizzazioni sindacali e il
diritto di sciopero. Un ruolo non trascurabile fu svolto
dai sussidi di disoccupazione, come pure dal complesso
delle politiche attive volte a favorire la formazione e il
collocamento dei lavoratori. Di importanza
fondamentale fu inoltre tutta la disciplina che regolava
la corresponsione delle prestazioni pensionistiche, vale
a dire del salario differito, e, più in generale, di tutti i
servizi, primi fra tutti sanità ed istruzione, che lo Stato
metteva a disposizione dei lavoratori e delle loro
famiglie come salario indiretto. Proprio in quanto
erogatore di salario indiretto e differito, lo Stato poteva
intervenire sul piano strettamente negoziale, mediando
tra imprese e sindacati al fine di alleggerire la tensione
sulla contrattazione del salario diretto. Infine, esso
stesso era datore di lavoro, assorbendo forze di lavoro
e definendo attraverso i contratti di pubblico impiego
standard retributivi e normativi che non potevano non
condizionare anche il tenore della contrattazione
collettiva privata. Tralasciando il ruolo della spesa e dei
trasferimenti pubblici di cui ci occuperemo nella sezione
seguente, è importante sottolineare come questo
sistema di consolidamento della forza crescente del
lavoro salariato si reggesse su due pilastri: da un lato vi
era lo sviluppo delle istanze rivendicative attraverso
l’azione sindacale, dall’altro la subordinazione della
contrattazione alla legge, nonché della contrattazione
individuale alla contrattazione collettiva e della
contrattazione di livello inferiore alla contrattazione di
livello superiore.
Nell’ambito della contrattazione collettiva di livello
superiore rivestì poi particolare importanza il regime di
indicizzazione dei salari ai prezzi. Nella misura in cui i
lavoratori riuscivano ad ottenere forme automatiche di
tutela del salario reale, il confronto negoziale poteva
concentrarsi sull’aggancio dei salari reali all’andamento
della produttività del lavoro, senza disperdere energie
sulla più arretrata questione della difesa del potere
d’acquisto del salario nominale.
Questi pilastri assunsero importanza diversa nei
diversi contesti nazionali. In quelli con sindacati
storicamente deboli, lo Stato intervenne
prevalentemente attraverso la normativa sul lavoro.
Viceversa, in sistemi di relazioni industriali
tradizionalmente meno regolamentati, acquisì
preminenza l’intervento dello Stato a supporto
dell’azione sindacale. Come diverse furono le forme in
cui la forza dei lavoratori salariati si andò strutturando
nei diversi contesti nazionali, diversi furono i modi in
cui esse furono disarticolate a partire dalla grande
svolta di politica economica.
Il caso di scarsa pervasività dell’intervento normativo
diretto dello Stato è ben esemplificato dalle vicende
dell’Inghilterra. Il sistema inglese di relazioni industriali
consolidatosi nei Trenta gloriosi, sebbene ispirato a
principi contrattualistici, prevedeva le cosiddette
clausole di sicurezza sindacale, che subordinavano
l’assunzione del lavoratore o la sua permanenza in
servizio all’appartenenza ad un’associazione sindacale.
Numerosi erano poi gli esempi di interventi statali a
sostegno dei salariati non strettamente legati alla
normativa negoziale, come ad esempio quelli in materia
di sciopero e sicurezza sui luoghi di lavoro.
L’Employment Act del 1982 limitò le dispute sindacali
ammesse dalla legge alle controversie con il proprio
datore di lavoro, dichiarando così illegale ogni forma di
sciopero solidale (incluso quello nei confronti di
lavoratori impiegati dalla stessa impresa
multinazionale). Nel 1984 il Trade Union Act subordinò
lo sciopero al referendum preventivo. Con
l’Employment Act del 1988 e del 1990 la Thatcher
eliminò le clausole di sicurezza sindacale, dichiarando
illecito il divieto di assunzione o il licenziamento del
lavoratore che si rifiutava di appartenere ad
un’associazione sindacale. Tutte queste “innovazioni”
furono poi conservate e perfezionate dai governi
laburisti della “terza via” attraverso l’introduzione della
legge sul salario minimo. Concepita come una sorta di
garanzia universalistica a tutela del lavoratore, in un
contesto negoziale dove la contrattazione individuale e
aziendale andava sempre più sostituendosi ai contratti
di categoria, la legge sul salario minimo legale era in
realtà destinata ad operare come una livella al ribasso
del sistema rivendicativo inglese, non prevedendo
alcun adeguamento automatico alle variazioni del costo
della vita, non estendendosi ai professionisti o alle
imprese individuali (vale a dire a quelle forme giuridiche
che in misura crescente andavano caratterizzando le
posizioni lavorative più deboli), e stabilendo per i
lavoratori con meno di 22 anni salari minimi inferiori
rispetto a quelli degli adulti. In un sistema storicamente
caratterizzato da una striminzita legislazione lavoristica,
i meccanismi di tutela dei salariati inglesi erano tutti
incentrati sull’azione di sindacati forti. La restaurazione
liberista mirò pertanto in primo luogo alla
frammentazione del sindacato; lo Stato non fu
coinvolto direttamente, come nel caso di sistemi di
relazioni industriali più regolamentati, ma lo fu di
riflesso in tutti gli ambiti in cui precedentemente
interveniva a sostegno delle associazioni dei lavoratori.
Il caso francese, caratterizzato dalla presenza di
un’articolata legislazione lavoristica, alto tasso di
centralismo e sindacati relativamente deboli, offre uno
scenario istituzionale per molti versi speculare a quello
inglese. Il caposaldo del sistema francese era la
regolamentazione legislativa del contratto collettivo
(una normativa risalente al 1919), che aveva effetti sui
contratti individuali dal momento che le clausole
peggiorative in essi stabilite erano sostituite di diritto
da quelle dei contratti collettivi. L’efficacia erga omnes
dei contratti collettivi stipulati dai sindacati
rappresentativi era garantita per decreto ministeriale.
Tutta la normativa confluì nel Code du Travail del 1973,
espressione giuridica del momento di forza apicale del
lavoro salariato in Francia. La prima azione di
disarticolazione di questo assetto furono le leggi
Auroux del 1982, seguite dall’intervento delle leggi
Fillon del 2004, dalla legge sul lavoro del 2008 ed infine
dalla legge El Khomri del 2016. Le riforme Auroux,
accrescendo il peso dei contratti di lavoro conclusi a
livello di impresa, erano formalmente indirizzate a
rafforzare la democrazia sui luoghi di lavoro,
aumentando il potere contrattuale e di controllo dei
sindacati all’interno della singola impresa. Nei fatti,
ebbero per prime l’effetto di allentare i “vincoli” sul
contratto aziendale stabiliti a livello nazionale, iniziando
a spostare il baricentro della contrattazione dalle sedi in
cui il potere dei sindacati in Francia si era storicamente
strutturato. I nuovi “diritti di espressione” che i
lavoratori si vedevano accordati all’interno delle
imprese, la presenza dei rappresentanti sindacali nei
consigli di amministrazione, il più ampio accesso dei
sindacati alle informazioni relative alla gestione delle
imprese, le commissioni a tutela della salute dei
lavoratori e della sicurezza nei luoghi del lavoro,
suscitarono all’inizio un’opposizione da parte delle
direzioni e della proprietà. Quest’opposizione andò
però rapidamente mutando in esplicito favore, col
divenire evidente che la dimensione “partecipativa”
della riforma escludeva di fatto i sindacati da ogni
scelta di rilevanza strategica, trasformando un abortito
tentativo di cogestione nell’epurazione di ogni
elemento conflittualistico dalla dinamica contrattuale.
Non più relegati in secondo piano, gli accordi a livello
d’impresa finirono quindi per porre in luce la storica
debolezza dei sindacati francesi. Il processo si
consolidò un ventennio più tardi, quando le leggi Fillon
consentirono la stipula di contratti aziendali che
derogavano in peius ai contratti collettivi. Veniva in tal
modo superato un sistema di relazioni industriali che
aveva proprio nella normativa lavoristica e nel contratto
collettivo nazionale i bastioni intorno ai quali si era
organizzata per oltre mezzo secolo la difesa dei salariati
francesi.
In ogni Paese industrialmente più avanzato, in modi e
tempi determinati dalle proprie specificità storiche ed
istituzionali – sviluppi analoghi a quelli dell’Inghilterra
e della Francia si ebbero infatti sia in Germania che in
Italia, dove la disarticolazione del mercato del lavoro
assunse come tratto peculiare la proliferazione delle
tipologie contrattuali atipiche – nel corso dei Trenta
pietosi un’insistita azione di erosione del sistema di
tutela dei salariati fu portata a compimento, nella diffusa
convinzione che le radici dell’elevata disoccupazione
nel continente fossero da rintracciare proprio
nell’assetto istituzionale che il mercato del lavoro aveva
assunto nel corso dei tre decenni precedenti. Questo
consenso trovò espressione in uno studio molto
influente dell’Ocse del 1994, le cui conclusioni non si
limitavano al trito ribadire la generica necessità di
adottare politiche macroeconomiche non
inflazionistiche compatibili con la stabilità dei conti
pubblici, di favorire la creazione e la diffusione del
know-how tecnologico, sviluppare un clima sociale
favorevole all’impresa e le competenze dei lavoratori,
ma entravano esplicitamente nel vivo della questione
rivendicativa e distributiva. In particolare, in quello
studio si raccomandava di aumentare la flessibilità dei
tempi di lavoro in quanto

incrementare la flessibilità di più breve periodo e nel


corso dell’intera vita lavorativa nella contrattazione
volontaria tra datori di lavoro e lavoratori conduce ad
una più elevata occupazione. Un importante elemento
di questo processo è la crescita del lavoro part-time. I
governi hanno un ruolo da giocare rimuovendo gli
ostacoli al part-time e riformando i sistemi di
tassazione e pensionistici che ne discriminano la
diffusione.

Si indicava inoltre come necessario accrescere la


flessibilità salariale in quanto

i salari hanno un importante ruolo allocativo da


giocare nel mercato del lavoro offrendo chiari segnali
a lavoratori e imprese. Allo stesso tempo i costi del
lavoro non salariali – contributi sociali a carico dei
datori di lavoro, retribuzioni per ore non lavorate –
che creano un cuneo tra quanto i datori di lavoro
devono pagare per assumere il lavoratore ed il valore
del suo prodotto sono diventati in molti Paesi nel
corso degli ultimi due decenni una quota rilevante del
costo totale del lavoro. Dove la riduzione del salario
non compensa la crescita di questi costi del lavoro
non salariali, la disoccupazione cresce. Pertanto, vi è
l’esigenza, tanto nel settore pubblico che nel settore
privato, di attuare politiche che accrescano la
flessibilità salariale, e, nei Paesi in cui vi è scarsa
possibilità di accrescerla, di ridurre i costi del lavoro
non salariali.

Le azioni su questo fronte avrebbero reso necessario


«ridefinire la contrattazione collettiva in modo da lasciar
libere le imprese di rispondere flessibilmente alle
tendenze del mercato» e «introdurre clausole di
apertura che avrebbero consentito la rinegoziazione di
accordi collettivi di più alto livello a livelli inferiori».
Anche la disciplina della protezione all’impiego avrebbe
dovuto essere rivista: dal momento che se «le imprese
percepiscono la disciplina della protezione all’impiego
come un obbligo a mantenere lavoratori non più
necessari, esse diventano più caute nell’assumere e
valutano i potenziali lavoratori con più attenzione, con
particolare detrimento per quelli meno qualificati».
Insomma, ciò che si propugnava era un quadro
articolato di liberalizzazioni e sgravi per le imprese:
libertà nello stabilire i contenuti retributivi e non
retributivi del contratto, libertà di licenziare, prevalenza
dell’intesa di livello inferiore su quella di livello
superiore, superamento della contrattazione tra parti
collettive, eliminazione della contribuzione sociale a
carico dell’impresa, incremento dell’imposizione
indiretta, recupero di una dimensione “cottimista” del
salario e sua differenziazione su base anagrafica e
territoriale. Dispersi nel labirintico percorso
dall’apprendistato al contratto a termine, dal contratto a
termine al contratto a tempo indeterminato ma
depotenziato dalle più sostanziali forme di tutela, i
salariati sarebbero stati inoltre privati di un efficace
meccanismo di aggancio delle retribuzioni alle variazioni
del costo della vita. Il circuito virtuoso tra progresso
economico e civile prese a operare in senso vizioso e
così come nei Trenta gloriosi gli sviluppi nel mercato
del lavoro avevano segnato le tappe dell’avanzamento
del lavoro salariato, nel corso dei decenni successivi ne
marcarono l’arretramento.

8. Nel 1965, nell’illustrare al Congresso americano gli


esiti di una fase espansiva che dal gennaio del 1961
aveva creato 4 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro e
assicurato una crescita della produzione del 5 per cento
annuo in termini reali, il presidente Lyndon Johnson
pose l’accento sulla centralità della politica economica:
«A partire dal 1960 un nuovo fattore è emerso per
rinvigorire gli sforzi privati. Il margine di differenza
fondamentale è venuto dalle politiche governative,
che hanno sostenuto una costante, ma non
inflazionistica, crescita dei mercati» (corsivo
nell’originale). L’autorevole triumvirato keynesiano
formato da Gardner Ackley, Otto Eckstein e Arthur
Okun ribadì il punto nel rapporto del Council of
Economic Advisers:

Le politiche del governo hanno offerto un


contributo fondamentale e continuativo ai grandi
avanzamenti dell’economia americana nel corso degli
ultimi quattro anni. Queste politiche […] hanno dato
coerentemente espressione ad un insieme di idee di
base condivise dai responsabili della politica
economica federale: (1) la ferma convinzione che gli
Stati Uniti devono utilizzare appieno l’enorme
capacità produttiva della sua economia; viceversa,
l’aborrire – sia per motivi umani che economici – lo
spreco di risorse e opportunità che una prolungata
sotto-utilizzazione di questa capacità comporta; (2) il
riconoscimento del fatto che spesa pubblica, tasse e
trasferimenti sono un determinante fondamentale,
insieme alla politica monetaria, della forza della
domanda totale di risorse produttive; (3) la piena
comprensione del ruolo chiave dell’investimento
privato nella domanda totale e nella crescita di lungo
periodo del reddito, e del bisogno di adeguati
incentivi al profitto che stimolino questo
investimento; (4) il riconoscimento che l’espansione
del consumo è necessaria se investimenti crescenti e
sviluppo economico devono essere mantenuti; (5) la
convinzione che sforzi vigorosi sono necessari per
ristabilire l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti; (6)
la determinazione ad ottenere prezzi ragionevolmente
stabili al fine di preservare l’equità all’interno e
accrescere la nostra posizione competitiva sia
all’interno che all’esterno; (7) la convinzione che, per
poter essere efficaci, queste politiche non possono
rispondere passivamente agli eventi, ma devono
cercare di prevedere ed indirizzare gli sviluppi futuri,
rimanendo flessibili e pronte a mutare in intensità o
direzione, pur mantenendo fissi gli obiettivi
prestabiliti; (8) la fiducia che il popolo condivide
queste idee ed è pronto a sostenere innovazioni
inedite ma ponderate della politica pubblica.

Difficile descrivere in termini più incisivi il cuore


keynesiano dell’indirizzo di politica economica dei
Trenta gloriosi. Ad ispirare l’intervento del governo era
la ripugnanza per lo spreco di risorse umane ed
economiche determinato dal sotto-utilizzo della capacità
produttiva. Impedire questo spreco era imprescindibile.
Sostenere la crescita della domanda aggregata e la
crescita economica erano una cosa sola. La politica
fiscale era considerata indispensabile per garantire il
livello di domanda totale necessario al pieno utilizzo
delle forze produttive. Spesa pubblica, tasse e
trasferimenti, si ponevano così al centro dell’azione di
politica economica («gli strumenti governativi più
potenti per espandere o restringere la domanda
aggregata»). Alla politica monetaria era affidato il
compito di assecondare questo sistematico ricorso alla
politica fiscale, assicurando una pronta disponibilità di
mezzi creditizi. Per mantenere il denaro a buon mercato
era necessario l’intervento accomodante di un
banchiere centrale non vincolato da nessuna regola
predeterminata, se non dall’obbligo di non intralciare
ma al contrario assistere l’azione del governo. Bassi
tassi di interesse avrebbero garantito la sostenibilità di
più lungo periodo dell’indebitamento pubblico e
privato. Centralità delle variabili monetarie e della
determinazione convenzionale dei tassi di interesse,
quindi, ma senza illusioni circa l’onnipotente capacità di
regolazione dell’economia da parte del banchiere
centrale: la gestione della domanda aggregata non
poteva che avvenire attraverso la via maestra della
politica fiscale.
Nel corso dei Trenta gloriosi questa via fu percorsa in
modi diversi negli Stati Uniti e in Europa. Negli Usa, la
politica fiscale sostenne la domanda attraverso il
prevalente ricorso alle spese militari e ai tagli delle
imposte; in Europa, si accompagnò ad uno sviluppo
massiccio dello Stato sociale, come pure dell’impresa
pubblica in tutti i settori in cui l’iniziativa privata non
aveva avuto la forza di avviare un processo di
industrializzazione su grande scala, in modo particolare
nei settori tecnologicamente più avanzati e a più elevata
dotazione di capitale per addetto.
Corrispondentemente, le politiche di austerità
dell’ultimo trentennio acquisirono un diverso
contenuto nei due diversi contesti. Mentre nel caso
americano esse si connotarono per il progressivo
restringimento del keynesismo ad interventi di breve
periodo, dal carattere anticongiunturale, da realizzarsi
attraverso tasse e trasferimenti, senza implicare
incrementi della spesa pubblica non strettamente
riconducibili alle esigenze del Warfare State, nel caso
europeo austerità, privatizzazioni e taglio di servizi
pubblici di grande utilità sociale (istruzione, sanità,
pensioni, trasporti e alloggi popolari), si fusero in un
unico piano mirante al disimpegno dello Stato
dall’economia di mercato. L’attuazione delle politiche di
austerità fu in questo secondo caso più impervia, ma
proprio per questo più ottusamente insistita,
richiedendo come presupposto l’emancipazione della
banca centrale dal controllo del governo ed avendo
come fine ultimo il contenimento del Welfare State e la
liquidazione dell’impresa pubblica. Proprio le
privatizzazioni avrebbero acquisito particolare
significato in questo disegno, trattandosi, come rilevato
dalla Thatcher, di

uno dei mezzi centrali con cui invertire gli effetti


corrosivi e corruttori del socialismo […]. Così come la
nazionalizzazione è stata al centro del programma
collettivista con cui i governi laburisti hanno cercato
di rimodellare la società britannica, la privatizzazione è
al centro di ogni programma di bonifica del territorio
di libertà.

9. La “bonifica” fu radicale. In Inghilterra, nella prima


ondata di privatizzazioni dalla vendita della British
Telecom del 1984 alla caduta della Thatcher nel 1990,
furono privatizzate 40 imprese che impiegavano oltre
600 mila lavoratori. In Francia a segnare la svolta fu la
vendita della Saint Gobain: nazionalizzata nel 1982 dal
governo della sinistra unita, il gigante della produzione
del vetro e dei materiali edili che impiegava 150 mila
lavoratori fu riprivatizzato da Chirac nel 1986. Seguirono
la società finanziaria Paribas (anch’essa nazionalizzata
solo 4 anni prima), la Compagnie Générale d’Electricité,
conglomerato da 240 mila occupati, la Société Générale,
una banca già pubblica prima delle nazionalizzazioni del
governo di sinistra. Dell’ambizioso piano quinquennale
di privatizzazioni relativo a 65 imprese pubbliche e a 900
mila lavoratori, Chirac sarebbe riuscito negli appena
due anni di premierato della prima “coabitazione” ad
attuarne la metà, privatizzando 29 imprese che
impiegavano un totale di 500 mila lavoratori. Tra il 1986
e il 1988, il governo Kohl completò la privatizzazione
dell’azienda simbolo dell’industria di Stato in Germania,
la Volkswagen, e dell’azienda chimica ed energetica
VEBA, due gruppi che impiegavano ognuno circa 130
mila lavoratori e che già erano stati interessati dal fallito
tentativo di privatizzazione fatto da Adenauer negli
anni Sessanta. La stessa sorte toccherà alla Lufthansa.
In Italia, nonostante la forte avversione alle
privatizzazioni delle forze politiche della “Prima
Repubblica”, nel 1985 furono vendute delle quote di
minoranza di aziende operanti nei settori dei trasporti,
del credito e delle telecomunicazioni (Alitalia, Sirti, Stet
e Banca Commerciale) e fu privatizzata l’Alfa Romeo nel
1987.
Come vedremo nel cap. V, il processo di privatizzazione
si consolidò e rafforzò nel corso dei due decenni
successivi con l’appoggio in ogni Paese europeo di
tutte le forze politiche con ambizioni di governo. Alla
fine degli anni Settanta il valore aggiunto prodotto dalle
imprese pubbliche in Francia era pari all’11 per cento (15
per cento dopo il programma di nazionalizzazioni
avviato dai socialisti nel 1981), in Inghilterra alla metà
degli anni Settanta era dell’11 per cento, nel 1983 in
Germania era del 9,6 per cento, all’inizio degli anni
Novanta rappresentava ancora circa il 18 per cento in
Italia. Nel 2010, di tutta questa presenza dello Stato
imprenditore era rimasto ben poco, con i settori
finanziario, manifatturiero, dei trasporti e della logistica,
delle telecomunicazioni e energetico, in larga misura
“bonificati” dalla presenza pubblica. Allo Stato
imprenditore si sostituirà spesso lo Stato azionista che,
come nel caso francese dell’Agence des Participations
d’État, tenterà goffamente di riacquistare attraverso i
fondi sovrani un peso nella gestione delle principali
aziende del Paese, muovendosi come un investitore
privato ed esercitando un potere di controllo attraverso
i diritti di voto e i consigli di amministrazione.
Contenimento dello Stato sociale e smantellamento
dell’imponente presenza dell’impresa pubblica si
accompagnarono poi ad una marcata riduzione
dell’azione di redistribuzione del reddito operata
attraverso il sistema delle tasse e dei trasferimenti. Le
stesse privatizzazioni furono in primo luogo
responsabili di questo cambiamento, visto che per
fruire di beni e servizi essenziali prodotti in regime di
mercato i salariati erano chiamati a pagare un prezzo in
grado di coprirne i costi di produzione e garantire al
settore privato un margine di profitto, e non la più
modesta contribuzione tariffaria. Ma gli effetti sulla
massa salariale reale – vale a dire sui beni e servizi di
cui i lavoratori entrano in possesso grazie al salario
diretto, indiretto e differito – non si limitarono a quelli
causati dalle sole privatizzazioni, derivando da un più
generale cambiamento avverso ai redditi da lavoro del
circuito redistributivo tasse-trasferimenti.

10. Per quanto riguarda le entrate tributarie, il


fenomeno di maggior rilevo fu indubbiamente la perdita
di progressività dell’imposizione diretta (personale e
sulle società), di fatto divenuta un’imposta di tipo
proporzionale. Rispetto poi ai Paesi europei in cui il
peso dell’imposizione indiretta sui beni salario crebbe,
si può affermare che il sistema di prelievo nel suo
complesso assunse un orientamento regressivo. Il
determinante fondamentale del degradarsi
dell’imposizione diretta fu la forte riduzione delle
aliquote impositive più elevate sugli utili societari, come
pure, più in generale, la riduzione delle aliquote
dell’imposizione diretta personale e l’esclusione dei
redditi da capitale dalla sua base imponibile.
L’orientamento progressivo si affievolì tanto negli Usa
che nei Paesi europei, con livelli medi di imposizione
personale sui redditi più elevati in forte calo rispetto al
1970 (calo particolarmente marcato nel Regno Unito).
Questa riduzione della progressività fu poi rafforzata
dalla sostituzione delle imposte sulle importazioni con
l’IVA (definita dall’Ocse «la strada del futuro»). Va
tenuto presente che le imposte sulle importazioni, oltre
ad agire da freno alla penetrazione della produzione
straniera, colpivano in larga misura beni di lusso ed
avevano pertanto un carattere sostanzialmente
progressivo. Nella stessa direzione andò la tendenza
all’indifferenziazione delle aliquote dell’imposizione
indiretta, che eliminò un ampio ventaglio impositivo
mirante ad incentrare il prelievo sulla produzione
interna di beni di lusso. Tanto per quanto riguarda
l’esclusione dei redditi da capitale dalla base imponibile
dell’imposta personale progressiva, che per quanto
riguarda l’indifferenziazione delle aliquote sui beni di
consumo, va sottolineata la connessione tra la
questione della progressività del prelievo e la
liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali
e delle merci: sia nella prima che nella seconda forma, la
liberalizzazione portò l’imposizione fiscale nel corso dei
Trenta pietosi a gravare in misura crescente sul salario.
Dal lato delle uscite, i mutamenti di maggior rilievo
riguardarono una riduzione del totale dei trasferimenti
monetari ed in natura (accelerata in alcuni Paesi europei
sotto la spinta della crisi dell’ultimo decennio), e una
tendenza alla sostituzione del complesso dei
trasferimenti per vecchiaia e disoccupazione con le
“politiche attive” del lavoro, vale a dire quelle politiche
volte a porre a carico della fiscalità generale la
necessaria integrazione di salari al di sotto della
sussistenza ed a escludere dalla copertura assistenziale
i lavoratori non disposti ad accettare qualsiasi impiego
a qualsiasi condizione. Per i lavoratori
complessivamente intesi questi sviluppi hanno
comportato un duplice onere: le modifiche sul fronte
delle entrate, infatti, hanno teso sempre di più a rendere
il circuito di finanziamento di questo nuovo “Stato
assistenziale” interno al salario, i redditi da capitale e
impresa rimanendone sostanzialmente esclusi; le
modifiche sul fronte della spesa hanno operato nella
stessa direzione, distogliendola dalla funzione di
sostenere il benessere generale del lavoro dipendente
ed orientandola verso quella di garantire la stabilità
sociale, alla stessa stregua delle spese destinate
all’ordine pubblico e alla sicurezza.
11. Totale liberalizzazione della circolazione
internazionale dei capitali, delle merci, della
manodopera; mercato del lavoro deregolamentato;
banca centrale indipendente dai governi; detassazione
dei redditi da capitale e fine della progressività del
sistema impositivo; pareggio di bilancio;
ridimensionamento della spesa pubblica;
privatizzazione dell’industria di Stato e dei servizi
sociali: il successo del liberismo non avrebbe potuto
essere più completo. Ma confrontiamo le proporzioni di
questo successo con gli esiti economici e sociali che lo
hanno accompagnato.
Del principale tra essi – l’andamento del tasso di
crescita del prodotto – abbiamo detto nel primo
capitolo, sottolineando che il suo essere stato
deludente è ormai riconosciuto unanimemente, come
del resto lo stesso dibattito sulla stagnazione secolare
implicitamente dimostra. Si consideri il dato relativo al
prodotto pro-capite: negli Stati Uniti, il suo tasso di
crescita si è ridotto dal 2,5 per cento medio annuo del
periodo tra il 1951 e il 1978, all’1,6 per cento del periodo
tra il 1979 e il 2015; nel Regno Unito dal 2,2 per cento
all’1,8 per cento; in Francia, dal 3,7 per cento all’1,2 per
cento; in Germania dal 4,8 per cento all’1,6 per cento; in
Italia dal 4,5 per cento all’1 per cento. Si tratta di un
fatto che non si può evidentemente spiegare
argomentando che la rivoluzione liberale è rimasta
incompiuta: in realtà essa è avanzata forse più di
quanto si aspettassero i suoi stessi ispiratori. E non si
può nemmeno sostenere che senza di essa la crescita
del prodotto pro-capite sarebbe stata ancora più bassa:
equivarrebbe ad affermare che il capitalismo, nei Paesi
in cui ha raggiunto il massimo grado di sviluppo, è
inesorabilmente diventato un sistema stagnante,
incapace di promuovere il progresso economico e
sociale. Una simile difesa dello status quo,
evidentemente, condurrebbe su terreni molto scivolosi.
Un altro esito è stato la ricomparsa della
disoccupazione di massa. Sarebbe forse più corretto
parlare di comparsa, visto che nei Trenta gloriosi si era
persa memoria di tassi di disoccupazione così elevati.
Nei 12 Paesi che avrebbero firmato il trattato di
Maastricht, tra la metà degli anni Settanta e la metà
degli anni Ottanta il tasso di disoccupazione, dopo un
ventennio in cui si era mantenuto intorno al 2 per cento,
raggiunse il 10 per cento. Quei livelli di disoccupazione
sono diventati cronici e si sono attestati intorno al 12
per cento. Ma i disoccupati definiti come tali dalle
statistiche sono solo un aspetto del problema. Nel 2014,
nei 28 Paesi dell’Unione europea, su una popolazione
tra i 15 e i 74 anni pari a 380 milioni, 25 milioni erano
disoccupati, 10 milioni erano occupati a tempo parziale
involontariamente, 12 milioni erano disponibili al lavoro
ma avevano smesso di cercarlo, o non erano disponibili
ad accettarne uno qualsiasi. Per ogni disoccupato
rilevato dalle statistiche vi era un altro disoccupato
nascosto perché impiegato soltanto a tempo parziale o
perché fuoriuscito dalla forza lavoro. Ogni giorno, una
forza lavoro grande come quella tedesca (44 milioni)
veniva lasciata nell’inoperosità. Non molto diversa era
la situazione negli Stati Uniti: i disoccupati erano 9
milioni, ma oltre 2 milioni avevano smesso di cercare
perché scoraggiati e 7 milioni erano occupati a tempo
parziale pur cercando un lavoro a tempo pieno. A questi
bisogna aggiungere poi oltre 2 milioni di fuoriusciti
dalla forza lavoro perché reclusi (erano meno di 500 mila
nel 1980) e 16 milioni perché malati e disabili (erano 4,4
milioni nel 1980). Questo esercito di lavoratori
disoccupati, sottoccupati, scoraggiati, incarcerati, è
ormai percepito alla stregua di un fenomeno naturale
inevitabile. Ad indicare l’ineluttabilità di quest’esito
sconfortante si usa l’espressione “disoccupazione
strutturale”, riferendosi ancora una volta a sviluppi di
più lungo periodo che in nessun caso si ritiene
possano essere ricondotti alla bassa crescita della
domanda e quindi all’impianto di politica economica dei
Trenta pietosi.
Nel corso degli anni Sessanta un tasso di
disoccupazione del 5 per cento era considerato dalla
popolazione, dai pubblici poteri, e, in fin dei conti, dagli
stessi capitalisti, socialmente ed economicamente
inaccettabile: un fallimentare spreco di risorse ritenuto
allora non compatibile con il mantenimento della
stabilità sociale. L’essere passati dal considerare come
intollerabile una disoccupazione del 5 per cento al
convivere con un tasso di disoccupazione intorno al 12
per cento offre la misura più cruda del baratro che
separa i Trenta gloriosi dai Trenta pietosi. Due
dimensioni, in particolare, di questo regresso politico,
economico e sociale meritano di essere sottolineate.
La prima riguarda la disoccupazione giovanile (15-24
anni), il cui tasso è il doppio del tasso di
disoccupazione delle forze di lavoro di tutte le età.
Originariamente attribuito all’ingresso nel mercato del
lavoro dei nati nel boom demografico, dalla fine degli
anni Ottanta, con l’avvicendarsi delle generazioni
numericamente più contenute dei nati a partire dagli
anni Settanta, l’incremento della disoccupazione
giovanile non si è arrestato ma si è invece accresciuto.
Ha acquisito proporzioni drammatiche con la crisi
economica e finanziaria del 2008, ma preesiste come
fenomeno di più lungo periodo in special modo nei
Paesi in cui sta dilagando (nel 2014, Francia: 24 per
cento, Belgio: 23,2 per cento, Svezia: 23 per cento, Italia:
42,7 per cento, Spagna: 53,2 per cento). Non si tratta di
un’anomalia statistica dovuta al fatto che i giovani,
diversamente dagli adulti, entrano ed escono con più
facilità dalle forze di lavoro per istruirsi e formarsi.
Considerando come misura della disoccupazione
giovanile la percentuale delle forze di lavoro non
occupate e non impegnate in attività educative o
formative (i cosiddetti Neet, Not in Education,
Employment or Training), i dati sono ancor più
allarmanti e tendono a porre in maggiore evidenza la
natura persistente del problema. Quattordici milioni di
giovani europei sono oggi confinati nell’allucinata
condizione di Neet. Tra questi, coloro che risultano
registrati come disoccupati sono il 48 per cento; la
distanza dal mercato del lavoro del restante 52 per
cento è tale che non figurano nemmeno tra i
disoccupati. Solo un terzo di essi si dichiara interessato
alla politica e la quasi totalità di questa generazione
fantasma mostra livelli bassissimi di fiducia nelle
istituzioni. D’altro canto, scarsa è la fiducia nelle
istituzioni anche tra i giovani occupati, visto che
vengono assunti con contratti temporanei più degli
adulti (37 per cento contro il 9 per cento
dell’occupazione totale) e che l’occupazione a tempo
parziale è molto più diffusa tra i giovani (in un caso su
tre non hanno un’occupazione a tempo pieno). Gli
effetti della marginalizzazione e della precarietà sulla
loro salute fisica e mentale sono ampiamente
documentati: senso di solitudine e impotenza,
depressione, uso di droga e alcolici; forte è inoltre il
legame tra esclusione sociale e condotte criminali.
La seconda dimensione del problema occupazionale
sulla quale ci sembra importante richiamare l’attenzione
è la crescita della disoccupazione di lungo periodo. Dei
25 milioni di disoccupati rilevati nella UE nel 2014, 12,4
milioni (il 50 per cento del totale disoccupato e il 5,1 per
cento delle forze di lavoro) lo erano da oltre un anno;
tra questi, il 60 per cento lo era da oltre due anni. Più la
durata della disoccupazione aumenta più si riduce la
probabilità di diventare occupati ed aumenta quella di
uscire dalle forze di lavoro. Le età dove ciò accade di
più sono quelle inferiori ai 24 anni e maggiori dei 50
anni. Ad esempio, nel 2012, nella fascia d’età compresa
tra i 50 e i 64 anni, solo un disoccupato da più di un
anno su dieci diventava occupato, mentre quattro su
dieci diventavano inattivi; per i disoccupati da più di
due anni la probabilità di occuparsi si riduceva
ulteriormente, fino ad annullarsi dopo i quattro anni.
Molti disoccupati di lunga durata tra i 50 e i 64 anni
hanno responsabilità familiari e sono indebitati. Per
questo gruppo sociale è stata rilevata una più elevata
incidenza di attacchi cardiaci che nella restante
popolazione di età corrispondente. È importante non
perdere di vista il fatto che questi sviluppi si sono
accompagnati ad una pressoché totale
deregolamentazione del mercato del lavoro: tutti gli
indici che misurano i livelli di protezione dell’impiego
sono in calo. Di fronte ad esiti così eloquenti, la stessa
Ocse si è vista costretta a ritornare sulla categorica
chiamata alle armi della sua Jobs Strategy del 1994 (cfr.
la sezione 7, pp.57-58), rilevando già nel 2006 che
«alcune delle sue raccomandazioni sono state poste in
discussione», in particolar modo per quanto riguarda i
«sistemi di contrattazione altamente centralizzati e/o
coordinati che riducono [e non accrescono] la
disoccupazione aggregata».
Nell’ultimo quarantennio il capitalismo avanzato ha
funzionato come un enorme laboratorio sociale in cui
milioni di lavoratori sono stati tragicamente chiamati a
provare sulla propria pelle che la flessibilità salariale è
avversa all’occupazione, e in cui è stata ribadita la
fondatezza di consapevolezze che sembravano
definitivamente acquisite nei decenni post-bellici.
Al calo del tasso di crescita del prodotto pro-capite e
alla comparsa della disoccupazione di massa si è poi
associata la caduta della crescita della produttività del
lavoro, in larga misura una conseguenza, come per la
crescita della disoccupazione, della bassa crescita della
domanda. In Francia, la crescita del prodotto per
occupato è diminuita dal 4,1 per cento del periodo 1951-
1978, all’1,2 per cento del periodo 1979-2015; in
Germania si è passati dal 4,5 per cento all’1,3 per cento;
in Italia dal 4,8 per cento allo 0,9 per cento; nel Regno
Unito dal 2,2 per cento all’1,5 per cento; negli Stati Uniti
dal 2 per cento all’1,5 per cento. Se nei Trenta gloriosi la
crescita della domanda era stata sufficientemente forte
da generare riduzione della disoccupazione nonostante
la crescita del prodotto per occupato, nei Trenta pietosi
la bassa crescita della domanda ha innalzato la
percentuale delle forze di lavoro non utilizzate pur a
fronte di una minore crescita del prodotto per occupato.
E anche negli Stati Uniti, dove un minimo sostegno alla
domanda è stato in ogni caso assicurato, quando dal
1995 è cresciuta maggiormente la produttività, si è
ridotta la crescita dell’occupazione. Se la la domanda
cresce poco, non è possibile avere allo stesso tempo
più lavoratori che lavorano più produttivamente.
L’ancor più bassa crescita della domanda dei Paesi
europei non ha prodotto né l’uno né l’altro effetto.
L’ultimo aspetto sul quale va richiamata l’attenzione è
il mutamento distributivo. Il benessere della classe
lavoratrice nel suo complesso dipende non soltanto
dall’andamento dell’occupazione e del prodotto per
occupato, ma anche da quanta parte del prodotto per
occupato si risolve in salario. Nei Paesi sviluppati, la
crescita della produttività del lavoro e dei salari reali è
stata elevata fino alla grande svolta di politica
economica, per poi rallentare. Allo stesso tempo, gli
andamenti della produttività del lavoro e del salario
hanno cominciato a divergere, il rallentamento del
salario essendo stato maggiore di quello della
produttività del lavoro. Sulla base dei dati relativi a
salari e produttività dei 36 Paesi più sviluppati,
l’International Labour Office (Ilo) stima che, dal 1999,
la produttività del lavoro è aumentata in media più del
doppio dei salari. Quindi, non soltanto il prodotto per
occupato è cresciuto meno rispetto ai decenni
precedenti, ma si è anche ridotta la quota di esso che è
andata ai salariati. A ciò occorre aggiungere che sono
aumentate le disparità anche all’interno della struttura
del salario, sicché, qualora si escluda il salario
dirigenziale, la quota della produttività del lavoro
attribuita ai salariati si è ridotta ancora di più, fino al
punto di giungere per le posizioni lavorative peggio
retribuite ad una contrazione dei livelli assoluti del
salario reale.
Stagnazione, disoccupazione e arretramento salariale
hanno fatto calare lo spettro della povertà su società
opulente, costringendo i governi a profondere sempre
più risorse per arginare il fenomeno ed assicurare
stabilità sociale. Per strati crescenti della popolazione,
l’unica possibilità di alleviare gravi deprivazioni
materiali, diffuse oggi anche tra lavoratori così poco
retribuiti da permanere in stato di povertà nonostante
siano occupati, è offerta non dalle opportunità di un
utile impiego ma da trasferimenti pubblici. La lotta alla
povertà, in altri termini, è tornata di nuovo ad essere
una battaglia da combattere sul terreno dell’assistenza
e non su quello della crescita, dell’occupazione e del
salario.

Nota bibliografica
Per una rassegna dettagliata dei tempi e dei modi in cui
è avvenuto lo smantellamento delle misure volte a
limitare e controllare i movimenti internazionali dei
capitali nelle principali economie avanzate, si veda
Capital Account Convertibility – Review of
Experience and Implications for IMF Policies, a cura
di P.J. Quirk e O. Evans, Occasional Paper 131, IMF,
Washington Dc, ottobre 1995, e Advanced Country
Experiences with Capital Account Liberalization, a
cura di A. Bakker e B. Chapple, Occasional Paper 214,
IMF, Washington Dc 2002. Gli esempi dell’incrollabile
favore delle istituzioni internazionali per una
indiscriminata liberalizzazione dei movimenti di capitale
sono tratti da: The liberalization and management of
capital flows: an institutional view, IMF, 14 novembre
2012; Forty Years’ Experience with the OECD Code of
Liberalisation of Capital Movements, OECD
Publications Service, Parigi 2002 (in particolare, alle
pp.155-165 si offre un’emblematica ricostruzione, tutta
in chiave avversa ai controlli dei capitali,
dell’esperienza francese dal dopoguerra ad oggi);
“Getting the most out of international capital flows”,
OECD Economic Outlook, Vol. 2011/1. Il rapporto
annuale del Fmi, Exchange Arrangements and
Exchange Restrictions (annate varie), contiene le
informazioni più dettagliate circa gli sviluppi delle
normative relative alla convertibilità valutaria (sia in
conto corrente che in conto capitale) nei Paesi più
avanzati e in quelli in via di sviluppo. La citazione di
Carli alle pp.32-33 è da Cinquant’anni di vita italiana,
G. Carli in collaborazione con P. Peluffo, Laterza, Roma
1996. Più in generale, per le vicende europee, si veda
Dominique Servais, Uno spazio finanziario europeo -
Liberalizzazione dei movimenti di capitali e
integrazione finanziaria - La realizzazione dell’unione
economica e monetaria, Ufficio delle pubblicazioni
ufficiali delle Comunità europee, Bruxelles 1995.
Per il confronto tra la crescita del prodotto e del
commercio mondiale negli anni Sessanta e Novanta si
veda Economic Growth in the 1990s: Learning from a
Decade of Reform, The World Bank, Washington Dc
2005, in particolare i capitoli 3 e 5. La citazione di D.
Irwin a p. 39 è da “The Gatt’s Contribution to Economic
Recovery in Post-War Western Europe”, in Europe’s
Post-War Recovery, edito da B. Eichengreen,
Cambridge University Press, Cambridge 1995. Gli
articoli della Carta dell’Havana riportati nel testo sono
in United Nations Conference on Trade and
Employment held at Havana, Cuba, from November
21, 1947, to March 24, 1948, Final Act and Related
Documents, Interim Commission for the International
Trade Organization, Lake Success, New York, aprile
1948. La “Declaration on the Contribution of
the World Trade Organization to Achieving Greater
Coherence in Global Economic Policymaking” è
contenuta negli allegati all’ “Agreement Establishing
the WTO”, in The WTO Agreements Series N.1. Il World
Trade Report dell’Omc (annate varie) costituisce il
principale documento economico ufficiale del consenso
libero-scambista. Per un controcanto, l’unico rapporto
in cui fanno ancora capolino spunti critici e
consapevolezze keynesiane è il Trade and
Development Report dell’UNCTAD (annate varie). La
citazione di D. Rodrik a p. 44 è tratta da “The global
governance of trade as if development really mattered”,
United Nation Development Programme, ottobre 2001.
Per una disamina esaustiva quanto convenzionale
delle modalità di funzionamento del sistema di Bretton
Woods e dei determinanti del suo collasso, si veda A
Retrospective on the Bretton Woods System: Lessons
for International Monetary Reform, a cura di D. Bordo
e B. Eichengreen, NBER, University of Chicago Press,
Chicago 1993. La citazione di Keynes a p. 47 è tratta dai
dettagli del ‘Piano Keynes’ di provvista di liquidità
internazionale, riportato in “Postwar International
Stabilization”, Federal Reserve Bulletin, Washington,
giugno 1943, pp.501-521. Un’informata discussione
degli sviluppi del principio di condizionalità dalla sua
introduzione nel 1950 ad oggi si trova in A. Buira, “An
Analysis of IMF Conditionality”, G-24 Discussion
Paper Series, United Nation, New York 2003.
Il principale e più aggiornato studio di carattere
generale sulla questione migratoria è The Age of
Migration, di S. Castles e M. Miller, Palgrave
Macmillan (4ª edizione), New York 2009. Di particolare
interesse è il confronto tra quest’esaustivo quanto
anodino lavoro e il molto più orientato Immigrant
Workers and Class Structure in Western Europe, di S.
Castles e G. Kosack, Oxford University Press, Oxford
1973, acuta disamina degli effetti dell’immigrazione sulla
coesione della classe lavoratrice in Germania, Francia,
Svizzera e Regno Unito tra il 1945 e il 1973. I dati relativi
alla crescita tra il 2008 e il 2014 degli occupati nati
all’estero a fronte della riduzione degli occupati
indigeni riportati a p. 50 sono tratti da International
migration outlook 2015, OECD, Parigi 2015, pp. 62-63.
Per quanto concerne il tentativo di estendere ad ogni
immigrato lo status di rifugiato, si veda il Report of the
Special Rapporteur on the human rights of migrants,
François Crépeau , Uman Right Council, UN General
Assembly, A/HRC/29/36, 2015.
La citazione di Lenin a p. 51 è tratta da Stato e
Rivoluzione; quella di Adam Smith di p. 52 da La
Ricchezza delle Nazioni. Per una rassegna delle ragioni
teoriche addotte dagli economisti per giustificare il
processo di abbandono della contrattazione collettiva
centralizzata avviatosi nel corso degli anni Ottanta, si
veda R. Freeman e R. Gibbons, “Getting Together and
Breaking Apart: The Decline of Centralized Collective
Bargaining”, in Differences and Changes in Wage
Structures, a cura di R. Freeman e L. Kats, NBER,
University of Chicago Press, Chicago 1995. Il rapporto
Contrattazione Collettiva e Partecipazione dei
Lavoratori in Europa: Processi e Pratiche, Documento
CNEL n. 19, Roma, giugno 2002, offre una chiara analisi
comparata dei cambiamenti della normativa del lavoro in
Francia, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi e
Spagna. La voce “Relazioni Industriali” di G. Cella e T.
Treu, nel Supplemento del 1989 dell’Enciclopedia del
Novecento, è un utile strumento per familiarizzarsi con il
frasario e il modo di porre le questioni (di matrice
anglosassone) proprio di questa disciplina. Labour
Market and Wage Developments in Europe e Industrial
Relations in Europe (annate varie), Commissione
europea, sono un utile fonte di informazione tanto
statistica quanto relativa all’orientamento degli
organismi di governo europei sulla questione. Il
rapporto dell’Ocse da cui sono tratte le citazioni
riportate nel capitolo è The OECD Jobs Study, Facts,
Analysis, Strategies, 1994, in particolare alla parte III.
Le citazioni del presidente Johnson e dei suoi
consiglieri economici sono tratte da Economic report of
the President Trasmitted to the Congress January 1965,
together with The Annual Report of the Council of
Economic Advisers, US Government Printing Office,
Washington 1965. Per una più generale analisi delle
politiche macroeconomiche dei Trenta gloriosi, si veda
The Rise and Fall of the Golden Age, A. Glyn et al.,
WIDER Working Papers 43, aprile 1988. I diversi
caratteri dell’orientamento restrittivo assunto dalla
politica fiscale nel corso dei Trenta pietosi, negli Usa e
in Europa, sono analizzati in A. Barba, “The ebb and
flow of fiscal activism”, Contributions to Political
Economy, Vol. 25, 2006. La citazione della Thatcher alle
pp. 62-63 è riportata da D. Parker nel suo monumentale
The Official History of Privatisation. Vol. II, Popular
Capitalism 1987-1997, Routledge, Londra e New York
2012. T. Piketty e E. Saez in “How progressive is the
U.S. Federal Tax System? A Historical and International
Perspective, Journal of Economic Perspectives”, 21,
2007, analizzano in chiave comparata, attraverso i dati
delle dichiarazioni dei redditi, l’affievolimento della
progressività dei sistemi di prelievo nei Paesi
anglossassoni e in Francia. Per un esempio del favore
di cui oggi gode l’imposizione indiretta, particolarmente
rappresentativo è “Consumption Taxes: the Way of the
Future?”, Policy Brief, OECD, ottobre 2007. I dati
principali circa gli sviluppi più recenti del sistema tasse-
trasferimenti come strumento di riduzione della
disuguaglianza dei redditi nei Paesi capitalisti più
avanzati sono contenuti in “Income inequality and
growth: The role of taxes and transfers”, OECD
Economics Department Policy Notes, n. 9, gennaio
2012.
Tra i numerossisimi interventi che trattano il tema della
disoccupazione giovanile, segnaliamo “Youth
unemployment in advanced economies in Europe:
searching for solutions”, A. Banerji et al., IMF Staff
Discussion Note, SDN/14/11, dicembre 2014. Per quanto
riguarda i NEETS, si veda “Young people not in
employment, education or training: Characteristics,
costs and policy responses in Europe”, Eurofund,
Publication Office of the European Union,
Lussemburgo 2012. “Social inclusion of young people”,
Eurofund, Publication Office of the European Union,
Lussemburgo 2015, discute gli studi che analizzano le
drammatiche conseguenze economiche e sociali del
fenomeno. In merito alla disoccupazione di lunga
durata, si veda Employment and Social Developments
in Europe, Commissione Europea, 2015, cap.II.1,
“Preventing and fighting long-term unemplyment”, in
particolare alle pp.130-1, dove si discute la forte
correlazione che è stata riscontrata tra disoccupazione
totale, di lunga e di lunghissima durata e malattie
cardiache. La parziale sconfessione delle precedenti
conclusioni dell’Ocse circa il benefico ruolo della
flessibilità salariale è contenuta in Boosting Jobs and
Incomes, OECD Employment Outlook, Capitolo 7,
“Reassessing the Role of Policies and Institutions for
Labour Market Performance: A Quantitative Analysis”,
2006 (A. Stiglbauer, “The (New) OECD Jobs Study:
Introduction and Assessment”, Monetary Policy &
The Economy, Q3/06, discute la vicenda di questo
ripensamento). Il Global Wage Report 2014-15
dell’International Labour Office, Ginevra 2015, analizza
la relazione tra l’ampliarsi del divario tra crescita della
produttività e crescita dei salari e i suoi effetti sulla
disuguaglianza della distribuzione dei redditi.
Un’inattesa denuncia dei deludenti esiti economici e
sociali dei Trenta pietosi è contenuta nell’Economic
Report of the President 2015, dove si rileva che
«considerando gli sviluppi della produttività del lavoro,
della distribuzione dei redditi e della partecipazione al
mercato del lavoro nel corso degli ultimi 65 anni, i
redditi della classe media sono passati dal raddoppiare
in una generazione al mostrare quasi nessuna crescita
[…]. Insieme, questi fattori avrebbero quasi
raddoppiato il reddito del nucleo familiare tipico, se
solo fosse proseguito il loro più favorevole andamento
dei precedenti periodi storici».
Capitolo III

L’inizio della fine

1. Ciò che dunque è avvenuto in Europa dall’inizio


degli anni Ottanta è il progressivo smantellamento
dell’impianto di politica economica faticosamente
edificato nel primo trentennio post-bellico al fine di
consentire il perseguimento del pieno impiego come
obiettivo prioritario delle nazioni industrialmente e
socialmente più avanzate. Abbiamo visto come gli
effetti dell’orientamento liberista da allora impresso alla
politica economica siano stati l’aumento della
disoccupazione, delle disuguaglianze e dell’esclusione
sociale. Parallelamente, nelle maggiori nazioni europee
si è assistito al fenomeno della scomparsa della sinistra
di classe. Argomenteremo nei capitoli che seguono che
la svolta epocale di politica economica sulla quale ci
siamo soffermati nel capitolo precedente sia
comprensibile solo riconducendola esplicitamente alla
condotta della sinistra. È nostra convinzione, in altri
termini, che non vi sia niente di paradossale nel fatto
che al peggiorato andamento del capitalismo avanzato e
all’esplosione delle disuguaglianze al suo interno abbia
corrisposto in Europa la scomparsa della sinistra,
semplicemente perché è stata proprio quella scomparsa
la causa fondamentale del generale deterioramento delle
condizioni economiche e sociali nel continente.
2. Per indagare il fenomeno è necessario partire dalla
vittoria della coalizione di sinistra alle elezioni
presidenziali francesi del maggio 1981 e alle elezioni
politiche del mese successivo. Si può infatti sostenere
che l’esperienza di quel governo della sinistra unita,
sotto la presidenza di François Mitterrand, rappresentò
il vero inizio della fine, anticipando nel suo
svolgimento, in maniera nitida e in un tempo molto
breve, tutti gli elementi essenziali che avrebbero poi
caratterizzato la deriva trentennale della sinistra delle
maggiori nazioni europee: la sua crescente adesione al
processo di deregolamentazione economica e
all’ideologia del mercato.
Con la doppia vittoria elettorale della primavera del
1981, la sinistra poté contare in Francia su un potere
politico mai prima goduto in tali proporzioni, dopo oltre
un quarantennio durante il quale era sempre rimasta ai
suoi margini. In aggiunta ai considerevoli poteri
attribuiti al presidente dalla costituzione della Quinta
Repubblica – creata da De Gaulle sulla scia della più
robusta tradizione centralista della Francia – le elezioni
di giugno avevano conferito al Partito Socialista (Ps) la
maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale. Per la
prima volta dal 1946, anche i comunisti (Pcf) facevano
parte della coalizione di governo e assunsero la
responsabilità di tre ministeri. Pur non trattandosi di
ministeri di primaria importanza, la presenza del Pcf nella
coalizione e nel governo contribuiva ad assicurare
l’appoggio della Cgt, il maggior sindacato dei lavoratori
francesi. Grazie a quella presenza, la Cgt si sentiva
maggiormente garantita circa la realizzazione effettiva
del Programme commun, elaborato e ratificato fin dal
1972 dal Pcf (allora ancora il più forte partito della
sinistra), dal Ps e dai Radicali di sinistra. Merita
soffermarsi sul contenuto di quel programma, vera base
non estemporanea della vittoria del 1981 per le grandi
aspettative che esso era riuscito a suscitare nella
maggioranza della popolazione.
3. Nel programma comune della sinistra un posto
prioritario, anche rispetto alla politica di bilancio
espansiva e a quella fiscale redistributiva, venne
occupato dalle nazionalizzazioni. Il trasferimento alla
collettività delle imprese industriali occupanti una
posizione strategica nei settori chiave dell’economia
nonché di tutto il settore bancario e finanziario fu
concepito come lo strumento principale della politica
economica del governo. Esso fu ritenuto indispensabile
al superamento di vuoti e ritardi tecnologici nella
struttura produttiva della nazione, in vista di una
crescita il più possibile stabile in condizioni di
persistente equilibrio nei conti con l’estero, inflazione
contenuta e assenza di attacchi speculativi contro la
moneta. Per gli estensori del programma, sottrarre una
parte cospicua dell’investimento complessivo alla
logica del profitto, attraverso una forte espansione del
settore pubblico, non doveva servire solo a sostenere
continuativamente domanda aggregata e occupazione;
si trattava in primo luogo di riuscire a realizzare, anche
attraverso il controllo diretto del credito e il suo
effettivo incanalamento verso l’industria, una maggiore
indipendenza tecnologico-strategica della nazione e di
“riconquistare” il mercato interno tramite la riduzione
del contenuto d’importazioni della domanda.
Per il settore industriale veniva quindi prevista la
nazionalizzazione della maggior parte dell’industria
elettronica e di quella chimica, insieme alla
nazionalizzazione completa di quella nucleare,
dell’industria farmaceutica, delle risorse del sottosuolo,
dell’armamento, dell’industria aereonautica e spaziale.
Nel programma vennero indicati con precisione i nomi
dei gruppi che avrebbero dovuto essere concretamente
interessati da queste nazionalizzazioni. Partecipazioni
finanziarie pubbliche di carattere maggioritario furono
poi previste per una serie di gruppi, anch’essi
precisamente indicati, operanti nella siderurgia e nel
petrolio, nei trasporti aerei e marittimi, nel trattamento e
distribuzione delle acque, nelle telecomunicazioni e
nelle concessioni autostradali. Per le banche e la
finanza, la nazionalizzazione avrebbe riguardato
l’insieme del settore, ossia la totalità delle banche di
affari, le banche di deposito, tutte le maggiori holding
finanziarie, il finanziamento delle vendite a credito e il
credito immobiliare, le grandi compagnie di
assicurazione. I principali istituti di credito speciale
sarebbero stati raggruppati in una Banque Nationale
d’Investissments che si sarebbe fatta carico di gran
parte del finanziamento dello sviluppo industriale e
degli obiettivi della nuova politica economica. Furono
escluse dal programma di nazionalizzazioni nel settore
bancario e finanziario solo le piccole banche
mutualistiche e cooperative e tutte le banche straniere.
Queste ultime sarebbero state soggette a un controllo
più stretto da parte della Banca di Francia, che avrebbe
dovuto vegliare a che le loro attività non
contrastassero con il perseguimento degli obiettivi del
programma.
Appoggiandosi al settore finanziario nazionalizzato e
alla Banca di Francia, il governo avrebbe rafforzato fin
dall’inizio il controllo dei cambi, in particolare i
movimenti di fondi delle società multinazionali tra la
Francia e l’estero. La speculazione contro la moneta
avrebbe costituito un reato definito dalla legge. I tassi
di interesse sarebbero stati tenuti bassi, in particolare
per gli investimenti considerati prioritari dal programma.
Nei confronti della Cee, il governo avrebbe preservato
la sua libertà d’azione per la realizzazione del suo
programma economico e sociale. Quindi non solo
avrebbe esercitato liberamente il diritto, del resto non
limitato dal Trattato di Roma, di estendere il settore
pubblico dell’economia nonché di definire e applicare
una propria politica nazionale del credito, ma si sarebbe
avvalso della facoltà di invocare le clausole di
salvaguardia previste dal Trattato, pur precisandosi che
il ricorso alle restrizioni quantitative delle importazioni e
a una protezione doganale rinforzata sarebbe stato
riservato a situazioni eccezionali.
Gli altri principali punti economici del programma
furono: crescita trainata dalla domanda interna
attraverso l’aumento sostanziale dei salari reali;
estensione della protezione sociale, particolarmente in
campo sanitario, insieme a programmi molto estesi di
edilizia popolare; aumento della progressività
dell’imposizione sul reddito e della tassazione delle
imprese; rafforzamento dei diritti dei lavoratori contro i
licenziamenti senza giusta causa e abolizione di ogni
discriminazione nei confronti delle lavoratrici; infine,
costituzione di una rete capillare di asili infantili, capace
di accogliere tutti i bambini di età compresa tra i due e i
sei anni.
Alle elezioni politiche del 1973 il Pcf superò ancora il
Ps, ma di poco e per l’ultima volta. Ciononostante nel
1980, alla vigilia della vittoria della sinistra unita, tutti i
punti principali del Programme commun vennero ripresi
dal Projet socialiste pour la France des années 80
messo a punto dal Centre d’études, recherches et
d’éducation socialiste (Ceres), diretto da esponenti
della sinistra del Ps con a capo Jean-Pierre
Chevènement. Anche le più brevi 110 Propositions di
Mitterrand, presentate al congresso del Ps del gennaio
1981 a sostegno della sua candidatura alla presidenza
della Repubblica, si discostarono ben poco nello spirito
e nel contenuto dal Programme commun del 1972, pur
ponendosi in esse l’accento sulle rivendicazioni più
popolari della sinistra: riduzioni dell’orario di lavoro e
dell’età del pensionamento, aumenti del salario minimo
e del numero dei giorni di riposo retribuiti. Insomma, si
può dire che lungo un intero decennio la sinistra
francese era riuscita ad accumulare e consolidare
consenso nel Paese diffondendovi e restando fedele a
un programma riformista di carattere marcatamente
antiliberista. Il risultato fu la sua duplice vittoria
elettorale del 1981.

4. Intanto però il contesto economico internazionale


era significativamente mutato rispetto agli inizi degli
anni Settanta, soprattutto a seguito dei forti aumenti del
prezzo del greggio (i due shock petroliferi) e delle altre
materie prime, l’aumento dei tassi di interesse e del
valore esterno del dollaro (che esercitavano effetti
stagflazionistici analoghi a quelli degli shock
petroliferi), la caduta della domanda mondiale
alimentata dall’orientamento restrittivo impresso alla
politica economica dagli altri maggiori Paesi capitalisti –
Usa, Regno Unito e Germania. È vero che all’incirca in
concomitanza della vittoria della sinistra in Francia gli
organi di previsione internazionali ritenevano
imminente una ripresa dell’economia mondiale,
contribuendo in una certa misura a tranquillizzare la
coalizione. Ma già allora quelle previsioni non avevano
fondamento diverso dalla fede degli organismi
internazionali nella capacità del rigore di ripristinare lo
stato di fiducia dei mercati e nella capacità di questi
ultimi di assicurare l’adeguamento automatico del
sistema alle sue potenzialità. (Così l’Ocse prevedeva,
già per il 1982 e per l’insieme dei Paesi membri, una
crescita del Pil del 2 per cento e un aumento del 6 per
cento delle importazioni, contro un calo effettivo del Pil
in quell’anno dello 0,5 per cento e la stagnazione in
volume del commercio mondiale.) È comunque difficile
pensare, alla luce degli eventi economici internazionali
successivi al 1972, che la coalizione che stava
puntando a ottenere e poi a conservare il consenso
della maggior parte della popolazione francese, sulla
base di un programma di forte espansione economica e
trasformazione sociale, non si fosse posta la questione
cruciale dei vincoli esterni alla sua realizzazione.
Vediamo allora quanta attenzione fu dedicata alla
questione nel Projet socialiste del 1980.
Venne ribadita nel documento la necessità di rafforzare
l’autonomia dell’apparato economico francese,
essenzialmente attraverso la riduzione del contenuto
d’importazione della produzione interna, e in esso si
precisò che le politiche industriali di riconquista del
mercato interno avrebbero dovuto riuscire a “frenare”
la crescita degli scambi con l’estero rispetto alla
crescita del prodotto nazionale. (A questo riguardo si
faceva riferimento al caso del Giappone, ugualmente
sprovvisto di materie prime, le cui importazioni
contavano appena per il 14 per cento del suo prodotto
nazionale contro più del 23 per cento per la Francia.)
Venne sottolineato, da una parte, che i socialisti erano
contrari a una protezione indiscriminata, che avrebbe
fatto venir meno lo stimolo che le imprese ricevono
dalla concorrenza internazionale; dall’altra, che per essi
la libertà degli scambi non costituiva un dogma, ma
solo un mezzo che si giustificava nei limiti in cui avesse
contribuito a sostenere la crescita del prodotto e
dell’occupazione. La sottoscrizione di un
liberoscambismo incondizionato veniva dunque
rifiutata perché la logica liberista non ammetteva freni
alla crescita delle importazioni se non attraverso il
rallentamento dell’attività e l’aumento della
disoccupazione, attraverso cioè “la soluzione
peggiore”, dannosa sia ai Paesi ad essa direttamente
soggetti che a quelli i cui sbocchi si sarebbero trovati in
conseguenza ridotti. Un Paese che avesse perseguito
una politica espansiva, si argomentò nel Projet, non
avrebbe arrecato alcun pregiudizio agli altri purché si
fosse adoprato a non far cadere il volume complessivo
delle sue importazioni a fronte dell’espansione della sua
domanda interna, la quale avrebbe dovuto poter essere
soddisfatta, nel limite del possibile e del ragionevole,
dalla produzione nazionale. In caso di necessità, sulla
base di regole precisamente definite e per il tempo
occorrente all’adattamento del tessuto industriale alla
concorrenza internazionale, si sarebbe fatto ricorso a
misure di contenimento delle importazioni capaci di
impedire un’evoluzione degli scambi con l’estero
incompatibile con la realizzazione del programma del
governo.
Non è molto, data la crucialità del problema del vincolo
esterno, in un testo di 371 pagine e pur tenendo conto
della legittima preoccupazione di non prestare il fianco,
a solo un anno dalle elezioni, all’accusa di voler portare
il Paese all’autarchia. È comunque evidente che gli
estensori del Projet erano ben consapevoli che
problemi di bilancia dei pagamenti avrebbero potuto
impedire la realizzazione dei suoi obiettivi; inoltre, che la
politica industriale da essi sostenuta avrebbe avuto
bisogno di tempo per riuscire a incidere sul tessuto
industriale della nazione e a frenare la crescita degli
scambi con l’estero in rapporto al prodotto – sicché
solo ricorrendo a restrizioni amministrative delle
importazioni si sarebbe potuto nel frattempo impedire
una loro crescita eccessiva a fronte dell’espansione
programmata della domanda interna. Ma l’attenzione
dedicata al problema del vincolo esterno non appare
proporzionata alla realtà del contesto internazionale, già
pesantemente battuto da venti deflazionistici. Così,
colpisce il lettore del documento che dalle sue pagine
non traspaia alcuna particolare considerazione
dell’allora recente esperienza del governo laburista
inglese, che in buona misura proprio sulla scia della
scelta di non ricorrere a una gestione eterodossa del
vincolo esterno aveva appena subito la vittoria della
Thatcher (1979). Merita soffermarsi sull’esperienza
inglese della seconda metà degli anni Settanta e sulla
scarsa attenzione che la sinistra francese appare avergli
dedicato alla vigilia della sua vittoria elettorale.

5. Il laburista Jim Callaghan divenne primo ministro in


Inghilterra nell’aprile del 1976, in piena crescita
dell’inflazione mondiale innescata dal raddoppio del
prezzo del greggio nel 1973-1974. Dal 1973 il tasso di
inflazione era divenuto nel Regno Unito più alto e la
disoccupazione vi cresceva più rapidamente che nella
media del resto del capitalismo avanzato. Tra la
riduzione dell’inflazione e la difesa dei livelli
occupazionali, Callaghan propendeva nettamente per il
primo dei due obiettivi, sostenendo nei suoi discorsi la
necessità per il governo laburista di emanciparsi
dall’ideologia di sinistra e dalle stesse concezioni
economiche keynesiane. Una parte del partito – Tony
Benn e Michael Foot erano i suoi esponenti principali
all’interno del governo – difendeva una linea di politica
economica alternativa a quella deflazionista di
Callaghan. Elemento portante di questa Alternative
Strategy era il ricorso a estese restrizioni quantitative
delle importazioni. Data la relativa arretratezza
dell’industria inglese, la riduzione della disoccupazione
attraverso l’espansione della domanda interna avrebbe
comportato dei disavanzi negli scambi commerciali con
l’estero insostenibili, mentre una svalutazione della
sterlina sufficientemente elevata da riuscire a impedirli
avrebbe dato un impulso troppo forte all’inflazione,
rendendo pressoché impossibile la difesa dei salari reali
e della stabilità sociale. Del resto, l’esperienza storica
mostrava senza ombra di dubbi che nessun Paese era
mai riuscito a far compiere alla sua industria alcun
rilevante avanzamento tecnologico-strategico lasciando
al contempo le sue frontiere economiche aperte alla
penetrazione dei concorrenti più avanzati. L’industria
nazionale andava dunque protetta, e per i fautori della
strategia alternativa il modo più efficace di farlo era
quello di ricorrere a un sistema flessibile di quote
d’importazione, esteso a una gamma molto ampia di
prodotti manifatturieri e da mantenersi per un lungo
periodo di tempo. La strategia prevedeva l’imposizione
di quote su poco più del 90 per cento delle importazioni
di beni finali di consumo, sul 72 per cento per cento
delle importazioni di beni capitali e sul 26 per cento di
quelle di beni intermedi, beni alimentari, bevande e
tabacco.
Osserviamo subito che in questa impostazione
l’espansione di produzioni sostitutive di importazioni
non era concepita come effetto nel tempo di una
politica industriale a tale scopo finalizzata, ma come
effetto diretto delle restrizioni quantitative: esse
avrebbero dovuto fornire alle imprese lo stimolo a
espandere e a migliorare la capacità industriale per
sostituire con le loro produzioni beni altrimenti
importati. Da qui la necessità che le restrizioni fossero
mantenute per un periodo sufficientemente lungo da
riuscire a indurre l’espansione di capacità industriale,
fornendo alle imprese la sicurezza di un mercato alla
loro produzione aggiuntiva.
Circa le reazioni internazionali a questa strategia
protezionista e i rischi di ritorsioni commerciali, i suoi
difensori ritenevano vi fossero solidi argomenti per
convincere i maggiori partner commerciali
dell’Inghilterra e gli organismi internazionali ad
accettarla. In primo luogo, la protezione non avrebbe
danneggiato le industrie esportatrici degli altri Paesi in
misura maggiore del ricorso ai metodi tradizionali di
ripristino dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti:
deflazione o svalutazione. In secondo luogo, il risultato
di lungo periodo del ricorso alle quote sarebbe stato
un’Inghilterra più prospera con elevati tassi di crescita,
una struttura industriale rigenerata e livelli di
occupazione persistentemente più alti – dunque, in
prospettiva, per i suoi partner, un mercato più ampio e
robusto di quello costituito da un’Inghilterra
liberoscambista ma persistentemente malata. In terzo
luogo, poteva essere agevolmente dimostrato che lo
stato di salute dell’economia inglese era a tal punto
compromesso che erano gli stessi accordi internazionali
– in particolare l’articolo XII del Gatt e l’articolo 108 del
trattato istitutivo della Cee – a giustificare il ricorso a
restrizioni generali delle importazioni per proteggere la
bilancia dei pagamenti del Paese e le sue riserve
valutarie. Infine, anche se questi argomenti non fossero
riusciti a persuadere i maggiori partner commerciali e gli
organismi internazionali, sarebbe stato meglio per tutti
che essi avessero fatto buon viso a cattivo gioco dato
che il Regno Unito sarebbe comunque andato avanti
sulla strada della strategia alternativa.
Ma l’Alternative Strategy non passò. Nel partito e nel
governo prevalse la linea deflazionistica di Callaghan –
tagli massicci delle spese pubbliche e rinuncia alla
piena occupazione – in parte anche grazie alla
pressione esercitata da una difficile trattativa con il Fmi
per l’ottenimento di un prestito cospicuo, ritenuto
necessario a tranquillizzare i mercati in attesa dell’inizio
dello sfruttamento del greggio del Mare del Nord. I tagli
della spesa si aggiunsero a una politica salariale
estremamente impopolare (l’aumento massimo del
salario nominale consentito nei rinnovi contrattuali era
del 5 per cento per tutte le categorie di lavoratori a
fronte di un’inflazione del 16,5 per cento) nel
determinare nel Paese un crescente malcontento, che
finì per sfociare nel “Winter of Discontent” del 1978-79
– un’ondata di scioperi nel settore dei servizi pubblici
(neppure la sepoltura dei morti ne fu risparmiata) che
tuttavia non indusse il governo ad effettuare alcuna
correzione di rotta. Per la sinistra inglese arrivò così il
momento di pagare il conto della sua scelta a favore
della deflazione: al “Winter of Discontent” seguì
immediatamente la sua pesante sconfitta elettorale del
1979 e l’inizio dell’era Thatcher.

6. È possibile che questa esperienza abbia avuto


qualche ripercussione all’interno della sinistra francese
e abbia lasciato tracce nei documenti preparatori del
Projet socialiste. Noi non ne abbiamo trovate e
possiamo solo speculare sulle ragioni più immediate
suscettibili di aver indotto gli estensori del Projet a non
attribuire eccessiva importanza al caso inglese, rispetto
alle difficoltà prospettiche di un governo della sinistra
in Francia.
Numerose circostanze importanti potevano far ritenere
alla coalizione di sinistra che si accingeva a vincere le
elezioni che una gestione non ortodossa del vincolo
esterno sarebbe stata più agevole in Francia, comunque
molto meno contrastata che in Inghilterra. Da diverso
tempo ormai, grazie specialmente a De Gaulle, la Francia
era molto più indipendente dagli Usa e dal suo sistema
di alleanze, valori e vincoli di quanto non fosse
l’Inghilterra. Parigi poi non solo non aveva la City ma il
governo controllava già buona parte del sistema
bancario e finanziario del Paese, settore che in caso di
vittoria della coalizione sarebbe stato pressoché
interamente nazionalizzato. Si poteva ragionevolmente
ritenere che la presenza della City, politicamente
potentissima e fonte per il Regno Unito di un
voluminoso e difficilmente rinunciabile flusso di redditi
da intermediazione finanziaria internazionale, rendeva
sostanzialmente impensabile un controllo rigido dei
movimenti di capitali nonché ogni contenimento degli
scambi commerciali con l’estero. Del resto, sin dagli
anni Venti lo stesso Keynes aveva sottolineato che,
proprio a causa della City e dei suoi rappresentanti in
Parlamento, il Paese non sarebbe mai riuscito ad
adottare le misure capaci di liberarlo dalle piaghe della
disoccupazione e della povertà. (In realtà, nei due
decenni successivi alla seconda guerra mondiale,
l’Inghilterra ci riuscì piuttosto bene, ma appunto grazie
al fatto che la guerra e i successi dell’economia di
guerra avevano temporaneamente tolto di mezzo le
maggiori resistenze all’intervento statale e che la
vittoria sovietica sul nazismo aveva accresciuto
all’interno la “minaccia della sovversione comunista”.)
Inoltre, l’Inghilterra della seconda metà degli anni
Settanta poteva contare sull’inizio dello sfruttamento
del petrolio del Mare del Nord, che già nel 1977 aveva
arrecato un sensibile miglioramento allo stato della sua
bilancia commerciale permettendole di riuscire a non
impiegare interamente i fondi messile a disposizione dal
Fmi. Naturalmente, proprio l’inizio dello sfruttamento
del petrolio del Mare del Nord, con il conseguente
miglioramento della bilancia dei pagamenti, rafforzava in
Inghilterra, all’interno del partito e del governo
laburista, la posizione degli oppositori del ricorso al
protezionismo. Infine, agli estensori del Projet
socialiste doveva certamente essere ben chiara la
differenza fondamentale tra la strategia della sinistra del
partito laburista inglese, primariamente basata su
restrizioni quantitative delle importazioni estese a una
gamma ampissima di beni, da mantenersi per un periodo
di tempo molto lungo, e la strategia di gestione del
vincolo esterno contemplata invece nel Projet,
primariamente basata su una forte espansione del
settore pubblico dell’economia, sia in campo industriale
che finanziario, rispetto alla quale il controllo delle
importazioni avrebbe dovuto svolgere un ruolo molto
più limitato e ausiliario, di carattere temporaneo.
Va tenuto presente che alla fine degli anni Settanta si
era ancora lontani dai successi dell’ideologia liberista
richiamati nei primi due capitoli – dai cambiamenti
epocali che essa sarebbe riuscita a indurre tanto nel
contesto economico-sociale del capitalismo avanzato
che nel senso comune. La forte accelerazione impressa
al processo di internazionalizzazione economica in
ciascuna delle sue tre dimensioni – capitali, merci e
forza lavoro – era appena ai suoi inizi e nessuno si
sarebbe ancora sognato di mettere seriamente in
discussione la sovranità dello Stato-nazione in campo
economico e la legittimità di un’espansione
dell’intervento pubblico. Non solo dunque il
precedente inglese, a causa della sua peculiarità,
potrebbe essere apparso agli estensori del Projet come
non molto significativo, ma è plausibile, più in generale,
che i problemi di bilancia dei pagamenti che la
realizzazione degli obiettivi del Projet avrebbero
sollevato non sembrassero loro richiedere
un’elaborazione speciale, in quanto, tutto sommato,
abbastanza agevolmente sormontabili. Ciò aiuterebbe a
capire anche la mancata ricerca, da parte della
coalizione, di accordi preventivi con la sinistra degli
altri maggiori Paesi europei, accordi finalizzati a
contenere il più possibile, all’interno di ciascuno di
essi, l’ostilità nei confronti di controlli delle
importazioni cui questo o quel governo avesse deciso
di ricorrere nel suo sforzo di mantenere elevate
produzione e occupazione in un contesto internazionale
recessivo.
Resta ad ogni modo l’eccezionalità di ciò che stava
accadendo in Francia: nel 1980 era impossibile non
rendersi conto che la direzione in cui la coalizione di
sinistra stava progettando di muoversi era esattamente
opposta a quella nella quale avevano già iniziato a
muoversi i governi del resto del capitalismo avanzato;
dunque, che misure relative ai rapporti con il resto
d’Europa e del mondo, eccezionali anche per quei
tempi, avrebbero dovuto essere adottate, pena la
rinuncia alla realizzazione degli obiettivi principali del
Projet socialiste. Come ora vedremo, il destino che
esso subì rivela in modo chiaro che sia la necessità di
tali misure che le resistenze alla loro adozione presenti
all’interno stesso della coalizione furono gravemente
sottovalutate dai suoi ideatori.
7. Una svolta ad U nell’orientamento di politica
economica del governo ebbe inizio a Parigi già
nell’estate del 1982 per poi essere completata nella
primavera del 1983, appena due anni dopo la vittoria
della coalizione del maggio-giugno 1981. La vicenda
potrebbe dunque apparire come troppo effimera per
meritare un’attenzione particolare. Ma nonostante il
velleitarismo che il rapido abbandono del Projet
socialiste pur suggerisce, le seguenti considerazioni
inducono ad attribuire a quell’esperienza il ruolo di
primum movens nel fenomeno della scomparsa della
sinistra in Europa. Innanzitutto la già sottolineata lunga
gestazione e messa a punto del progetto, a partire dal
Programme commun del 1972. Non si trattò insomma di
una volgare improvvisazione. Va poi tenuto conto delle
importanti riforme economiche e sociali effettivamente
realizzate dal governo di sinistra nel biennio precedente
il completamento della svolta, e, infine, del rapido
emergere ed affermarsi in Francia, nel triennio che segui
alla svolta, di tutti gli elementi essenziali della corsa alla
“modernizzazione” compiuta nei successivi trent’anni
dalla sinistra europea nel suo complesso.

8. Insieme alle nazionalizzazioni, ossia alla politica


industriale e finanziaria, mercato del lavoro e
distribuzione del reddito furono gli ambiti principali
interessati dal riformismo della coalizione di sinistra nel
biennio successivo alla sua vittoria. Ricordiamo le
misure che vennero effettivamente adottate e il loro
collegamento con gli obiettivi originari del programma.
L’allungamento del periodo di ferie pagate da 4 a 5
settimane all’anno fu accompagnato dalla riduzione a 39
ore della settimana lavorativa “legale”, a parità di
salario, come primo passo verso una riduzione a 35 ore,
e dalla fissazione di un tetto al numero di ore di lavoro
straordinario (130 all’anno per lavoratore).
L’abbassamento a 60 anni dell’età del pensionamento
fu accompagnata da misure dirette a incentivare i
lavoratori ad andare effettivamente in pensione anche a
partire dai 55 anni e i datori di lavoro ad assumere al
loro posto lavoratori più giovani. Insieme alle
assunzioni nel pubblico impiego (circa 200 mila posti vi
furono creati nel 1981-82), tutte queste misure miravano
in primo luogo a ridurre la disoccupazione. Una serie di
altre misure accrebbero il potere dei sindacati all’interno
delle imprese, limitando la libertà di licenziamento e il
ricorso a contratti atipici. Il salario minimo – lo SMIC, di
volta in volta stabilito dal governo previa consultazione
con i sindacati – venne accresciuto di circa il 39 per
cento in termini nominali nel biennio 1981-1982, cui
corrispose un suo aumento in termini reali di circa l’11,5
per cento tra l’aprile 1981 e il luglio 1982. Nel corso
dello stesso periodo, il salario reale orario crebbe del 5,3
per cento mentre i trasferimenti di reddito a favore delle
famiglie furono aumentati di circa il 13 per cento in
termini reali. Il reddito disponibile delle famiglie
aumentò di circa il 6,5 per cento tra il 1980 e il 1982
(contro una caduta, per lo stesso periodo, del 2 per
cento nella Germania Occidentale, del 2,1 per cento nel
Regno Unito e dell’1,5 per cento in Italia). La Tva (l’Iva
francese) venne ridotta dal 7 per cento al 5,5 per cento
per i beni di prima necessità e accresciuta dal 17,6 per
cento al 18,6 per cento per gli altri beni. Nel 1982,
insieme all’aggiunta di una nuova imposta annuale del
2,5 per cento sulla ricchezza, le aliquote marginali della
tassazione del reddito furono accresciute fino al 75 per
cento. Nella visione dei responsabili della politica
economica del primo governo social-comunista uscito
dalle vittorie elettorali del 1981, il governo Mauroy, la
maggiore equità distributiva connessa con l’aumento
dei salari e della spesa sociale, nonché con la maggiore
progressività del prelievo fiscale, aveva chiaramente
anche una valenza keynesiana: l’occupazione sarebbe
aumentata grazie all’espansione dei consumi
determinata dal cambiamento distributivo e grazie ai
maggiori investimenti che l’aumento della spesa per
consumi avrebbe indotto. La minore profittabilità degli
investimenti privati determinata dal cambiamento
distributivo sarebbe stata compensata dai maggiori
profitti effettivi connessi con tassi di utilizzazione più
elevati della capacità produttiva disponibile.
Le nazionalizzazioni realizzate dal governo Mauroy
costituirono il mantenimento dell’impegno prioritario
assunto dalla coalizione di sinistra di fronte al suo
elettorato. Nel corso del 1981 e del 1982 vennero
nazionalizzate 12 grandi imprese industriali, 36 banche e
2 grandi società finanziarie. Considerando che in
Francia le maggiori compagnie di assicurazione e un
grande numero di istituzioni finanziarie facevano già
parte del settore pubblico, con le nuove
nazionalizzazioni praticamente l’intero settore
finanziario venne a trovarsi in mano allo Stato: nel 1982
quasi il 90 per cento dei depositi era concentrato presso
banche di proprietà pubblica, contro il 60 per cento nel
1981. Le imprese pubbliche del solo settore industriale
arrivarono a contare nel 1982 per l’8 per cento del Pil,
contro il 5 per cento nel maggio 1981. I gruppi
industriali interessati dalle nuove nazionalizzazioni
occupavano 550 mila lavoratori, pari al 2,6 per cento
della forza lavoro. Le nuove imprese industriali
nazionalizzate avrebbero dovuto costituire il motore
della crescita attraverso decisioni di investimento
sottratte alla logica del profitto atteso, finalizzate
all’ammodernamento dell’apparato produttivo e
all’allentamento dei vincoli esterni tramite il
completamento della matrice industriale della nazione e
la riconquista del mercato interno. Un settore
finanziario ormai pressoché interamente in mano allo
Stato avrebbe erogato i fondi occorrenti a questa
strategia industriale; allo stesso tempo, avrebbe
enormemente agevolato il controllo dei capitali da e
verso l’estero.
Questa strategia, anche qualora all’interno della
coalizione di sinistra la determinazione a perseguirla
fosse stata da tutti fermamente condivisa, avrebbe
comunque richiesto tempo per produrre i suoi frutti in
termini di un allentamento persistente dei vincoli esterni
alla crescita. Pure in presenza di un’unanimità di intenti
e nelle migliori condizioni possibili, l’adattamento della
struttura industriale alla politica industriale avrebbe
richiesto tempi piuttosto lunghi. Ammodernamento e
completamento dell’apparato industriale, insieme alla
riconquista del mercato interno, non avrebbero potuto
avvenire dall’oggi al domani. Nel breve-medio periodo,
pertanto, l’allentamento dei vincoli di bilancia dei
pagamenti alla realizzazione del programma della sinistra
avrebbe richiesto il ricorso a restrizioni quantitative
delle importazioni e restrizioni delle esportazioni di
capitali, le une e le altre tanto più estese e severe
quanto maggiormente deflazionistico-recessivo si fosse
rivelato l’orientamento della politica economica
perseguita dai principali partner della Francia. Il fatto è,
però, che la coalizione di sinistra era ben lungi
dall’essere unanime al suo interno circa il ruolo delle
nazionalizzazioni, e, più in generale, circa la gestione del
vincolo esterno.
Il ruolo delle nazionalizzazioni, così come concepito nel
Programme commun e nel Projet socialiste, era
espressione di una lunga tradizione di dirigismo
statalista e centralista, ben rappresentata dagli
esponenti del Ceres, in particolare dal socialista di
sinistra Jean-Pierre Chevènement, ministro
dell’industria nel governo Mauroy. Ma il dirigismo
statalista, sostenuto tanto dai socialisti del Ceres che
dal Pcf e di cui era intriso il Projet socialiste, se aveva
ispirato l’azione iniziale del governo della coalizione,
che non poteva rinnegare immediatamente il programma
elettorale che ne aveva determinato la vittoria, non era
condiviso dagli esponenti più influenti della
maggioranza del partito di Mitterrand, in primis da
Michel Rocard e Jacques Delors. Il primo aveva
sostanzialmente dovuto subire le nuove
nazionalizzazioni, alle quali era contrario. Da vecchio
fautore “sessantottino” della decentralizzazione dello
Stato e dell’autogestione, egli era fortemente ostile
all’impiego delle imprese pubbliche come strumenti
primari della politica industriale dello Stato; esse
avrebbero dovuto piuttosto essere lasciate libere di
reagire agli stimoli del mercato mondiale e puntare, più
che a una riconquista del mercato interno, a rafforzarsi
come multinazionali. Delors e i suoi seguaci nel Ps
erano a loro volta fermamente ostili a ogni gestione non
ortodossa del vincolo esterno, che, insieme a uno
sganciamento dallo SME e dal progetto di integrazione
economica europea, essi ritenevano avrebbe
comportato la rinuncia ad ogni aspirazione egemonica
della Francia nel continente. Per Delors e compagni, di
fronte al calo delle esportazioni causato
dall’orientamento recessivo in atto della politica
economica dei maggiori partner commerciali, si sarebbe
dovuto ricorrere a una politica ancora più
deflazionistica: per un certo numero di anni, sosteneva
Delors, non sarebbe stata perseguibile altra strada che
quella di cercare di crescere meno degli altri, e in questo
modo ripristinare l’equilibrio dei conti con l’estero.
Una volta ottenuto l’appoggio di Mitterrand, ormai
ben consapevole che nella coalizione, al di fuori del Pcf
e del Ceres, una linea anche solo timidamente
protezionistica avrebbe suscitato grandi
preoccupazioni e goduto di un sostegno molto debole,
il punto di vista di Delors circa l’ineluttabilità del rigore
fu rapidamente fatto proprio dal governo. Le fughe di
capitali determinate dalla vittoria della sinistra (tra la
primavera del 1981 e la primavera del 1982 l’80 per cento
del deterioramento della bilancia dei pagamenti fu
dovuto ai deflussi netti di capitali) furono contrastate
con un forte aumento dei tassi di interesse e non ci fu
alcun serio tentativo di servirsi di un sistema finanziario
ormai pressoché interamente in mano pubblica per
realizzare un controllo efficace dei movimenti di capitali.
Di fatto, tutte le imprese del settore continuarono a
comportarsi nei confronti dei loro clienti come se
fossero state private. All’aumento delle importazioni
causato dall’iniziale espansione della domanda interna
e alla ben più rilevante contrazione delle esportazioni
causata dalla recessione internazionale si rispose con
l’austerità fiscale e salariale. I tre ministri comunisti e i
ministri della sanità e dell’industria (i socialisti di
sinistra Nicole Questiaux e Jean-Pierre Chevènement)
uscirono dal governo e Programme commun e Projet
socialiste finirono per sempre in soffitta.
Tra il compimento della svolta nel 1983 e il 1986 la
politica deflazionistica inaugurata dal governo Mauroy
e proseguita dal governo Fabius (1984) riuscì
effettivamente a ridurre sensibilmente sia il tasso di
inflazione che lo squilibrio nei conti con l’estero, ma al
prezzo di un ridimensionamento della protezione sociale
da parte dello Stato (principalmente in campo sanitario
e pensionistico), del ripristino di numerosi elementi di
flessibilità nell’impiego della forza lavoro da parte delle
imprese (assunzioni a tempo parziale, a tempo
determinato eccetera), del congelamento dei salari e
della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie (con
un calo del 6 per cento nei loro consumi di prodotti
industriali), di mezzo milione di disoccupati in più e di
un tasso di disoccupazione superiore al 10 per cento.
La coalizione che era andata al potere con l’obiettivo di
abbattere persistentemente la disoccupazione in
Francia si era trasformata in quella il cui governo di
fatto contribuì a determinare il più alto tasso di
disoccupazione dai tempi della Grande Depressione. I
tentativi di compensare la svolta in campo economico e
sociale con riforme il più possibile lontane dalla sfera
dei vincoli internazionali – riforme nel campo dei diritti
civili, tra le quali un tentativo fragorosamente fallito di
riforma del sistema scolastico nel senso di una sua più
completa laicità – naturalmente non riuscirono a evitare
la frana del consenso popolare al governo e la vittoria
della coalizione di destra (Union pour la Démocratie
Française e Rassemblement pour la République) alle
elezioni politiche del 1986.

9. Non vi fu alcuna ferma resistenza alla svolta, come


se all’interno della coalizione tutti si fossero al fondo
convinti che il rigore era effettivamente ineluttabile. Il
Ceres vi si accomodò e lo stesso Chevènement nel 1984
rientrò nel governo come ministro della Cultura. Il
partito comunista finì per uscire sia dal governo che
dalla coalizione, ma né il partito né la Cgt tentarono o
minacciarono una mobilitazione popolare contro la
svolta (alle elezioni del 1986 il Pcf fu punito anche più
pesantemente, in termini relativi, dello stesso Ps). Tanta
passività è sorprendente e merita di essere indagata
perché la svolta a favore del rigore, in realtà, non era
affatto ineluttabile.
È importante ribadire e non perdere di vista che nel
1982-1983 si era ancora molto lontani dalla
mondializzazione e dal clima culturale in campo
economico quali li viviamo oggi. Lontani erano ancora il
Trattato di Maastricht, l’istituzione della Bce e della
moneta unica e i successivi accordi e trattati. Una
diffusa consapevolezza che le decisioni di politica
monetaria costituiscono una componente cruciale della
politica economica generale dei governi faceva ancora
considerare come pressoché assurda la concezione di
una banca centrale politicamente indipendente,
concentrata su un unico obiettivo di bassa inflazione. Il
controllo dei capitali era dappertutto in vigore e
ciascuna nazione godeva appieno della sua sovranità
monetaria. Ciascuna nazione poteva inoltre decidere
liberamente livello e composizione delle sue spese
pubbliche, nonché le forme del loro finanziamento e
della tassazione. Alla sovranità in campo monetario e
fiscale si accompagnava per ciascuno Stato la piena
libertà di decidere la propria politica industriale e ogni
altro tipo di tutela degli interessi economici della
nazione. Di riflesso, lo stato dell’arte in economia era
ancora tale da non ostacolare la comprensione del fatto
che interventi di natura protezionistica più o meno
estesi e prolungati, finalizzati a permettere all’economia
di un Paese di espandersi in un contesto internazionale
recessivo, ben difficilmente avrebbero potuto colpire le
esportazioni dei principali partner commerciali in misura
maggiore del ricorso a politiche di contrazione della
domanda interna o a svalutazioni competitive. Non era
insomma ancora troppo difficile convincersi e
convincere che, una volta chiarito al resto del mondo
che l’obiettivo era di permettere una maggiore crescita
interna, punizioni e ritorsioni a fronte di restrizioni
amministrative delle importazioni avrebbero potuto
essere evitate. Inoltre, a fronte di una Francia
tradizionalmente piuttosto indipendente dal mondo
anglosassone stava una Germania ancora divisa, molto
più cauta di oggi. Naturalmente non mancava
all’interno, da parte del centro e della destra, una fiera
opposizione al Programme commun e al Projet
socialiste. Ma la sinistra era politicamente molto forte
dopo le vittorie del maggio-giugno 1981, più forte di
quanto non fosse mai stato in Inghilterra il partito
laburista. Una sinistra che poteva disporre, al posto
della «City e i suoi rappresentanti in Parlamento» di
keynesiana memoria, di un settore finanziario quasi
interamente in mano pubblica.
Si può in definitiva affermare che la svolta rigorista del
1982-1983 non fu imposta a Mitterrand e al governo
Mauroy né dall’esterno della coalizione di sinistra né
dall’esterno della Francia. Si trattò di una scelta in
senso liberista e filo-capitalista autonomamente
compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della
sinistra francese – una scelta gradualmente maturata
nel corso del precedente quindicennio, lasciata a
covare sotto la cenere in vista delle contese elettorali
del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai più
abbandonata.

10. Nonostante le posizioni di primissimo piano a


lungo occupate da François Mitterrand nella vicenda
politica del suo Paese, come segretario del Ps dall’inizio
degli anni Settanta e come Presidente della Repubblica
dal 1981 al 1995, non riteniamo particolarmente
meritevole di attenzione il suo contributo alla svolta
della sinistra francese. Tutta la sua vicenda suggerisce
una personalità senza ferme convinzioni, in compenso
dotata di spiccate capacità nel riuscire ad adattarsi
rapidamente alla corrente per conservare e consolidare
il proprio potere. Nel complesso, la condotta di
Mitterrand a partire dal 1982-1983 può considerarsi
come un effetto della svolta piuttosto che come una
delle sue cause, il suo contributo essendo stato
essenzialmente quello di non averla in alcun modo
contrastata. Un vero protagonista della scelta in senso
liberista e filo-capitalista fu Delors, forse il più capace
interprete e realizzatore delle idee e aspirazioni ormai
dominanti all’interno della cultura di sinistra in Francia
all’inizio degli anni Ottanta. Prima di soffermarci su
queste idee e aspirazioni, ricordiamo alcuni dei passi
più decisivi del “ritorno al realismo” da parte della
sinistra francese.
“Modernizzazione” e ruolo della Francia nel processo
di integrazione europea formano le due bussole del
percorso compiuto sotto la guida di Delors. Con la
prima, fumosa espressione, divenuta una vera e propria
parola d’ordine, si alludeva alla necessità e urgenza di
rimettere in primo piano imprenditorialità privata,
assunzione del rischio e ricerca del profitto come le vere
fonti della ricchezza e del progresso sociale, contro
ogni arcaica velleità di riformismo socialista. Si trattava
di dotarsi di un profilo di realismo e “competenza”, di
un’identità politica attraente che rompesse con
l’immagine “ideologica e conservatrice” del socialismo
tradizionale, puntando con determinazione al
conseguimento da parte della Francia di maggiori quote
di mercato e a una crescita trainata non dal consumo ma
dalle esportazioni. La “pressione esterna” esercitata dal
mercato internazionale avrebbe agito da motore della
modernizzazione. Oltre agli imprenditori, dei “tecnici”
scelti in base alla loro competenza e “neutralità”,
principalmente alti funzionari del Tesoro e della Banca
di Francia, divennero gli eroi del nuovo corso e ad essi
furono affidati poteri decisionali crescenti. Il distacco
forse più drastico da una lunghissima tradizione di
controllo politico e regolamentazione avvenne in campo
finanziario, tanto all’interno che in materia di controllo
dei movimenti internazionali dei capitali. All’interno, nel
1984 una riforma mise fine al sistema finanziario dirigista
che aveva caratterizzato fino ad allora il caso francese e
diede inizio alle privatizzazioni delle banche (l’ultima
banca pubblica fu collocata sul mercato nel 2001 da
Laurent Fabius, lo stesso che vent’anni prima aveva
fieramente militato per la nazionalizzazione di tutte le
banche). Per quanto riguarda il controllo dei movimenti
internazionali dei capitali, dalla fine della guerra la
Francia era sempre stata la nazione che più
strenuamente si era opposta a ogni loro
ammorbidimento. Dal 1983 la sua posizione mutò
radicalmente. Per Delors, la libertà di circolazione dei
capitali in Europa sarebbe stata il primo indispensabile
passo di un percorso che avrebbe portato all’unione
monetaria; più in generale, la libera circolazione
internazionale dei capitali, proprio perché perseguita
con determinazione da un Paese ad essa
tradizionalmente ostile come la Francia, avrebbe
contribuito a diffondere dappertutto la convinzione che
il contesto nazionale non era più quello rilevante per la
politica economica, che il tempo delle soluzioni
nazionali ai problemi economici era ormai tramontato.
Nessuno sforzo fu dunque risparmiato per promuovere
nell’ambito degli organismi internazionali più importanti
la causa della liberalizzazione finanziaria: un francese,
Henri Chavraski, fu mandato a sostenerla all’Ocse come
presidente dal 1982 del Comitato dei movimenti di
capitali e delle transazioni invisibili (Cmit) di
quell’organismo; un ex governatore della Banca di
Francia nominato da Mitterrand, Michel Camdessus,
finì nel 1987 a dirigere il Fmi, dove nel corso degli anni
Novanta avrebbe fatto di tutto (senza riuscirci grazie
all’opposizione statunitense) per far approvare un
cambiamento formale dell’accordo istitutivo del Fondo
che sancisse l’obbligatorietà della liberalizzazione dei
movimenti di capitali per i suoi membri (cfr. capitolo II,
p. 32). Ma ogni passo fu compiuto soprattutto
all’insegna della scelta europea. Dall’inizio del 1985 lo
stesso Delors divenne presidente della Commissione
europea e per dieci anni poté dedicarsi a tempo pieno
alla “modernizzazione” del continente. È indubbio che
tra il 1983 e il 1988 fu la Francia a condurre la partita
decisiva sull’Europa e ad essa si devono i suoi esiti, già
nitidamente prefigurati nel Rapporto Delors del 1988.
Soffermiamoci sulla svolta che quel rapporto segnò nel
progetto europeo.

11. Abbiamo visto come nel 1982-1983 il maggior


partito della sinistra francese, decidendo di rinunciare al
suo programma, avesse preso a considerare un
processo di svuotamento delle sovranità nazionali in
campo economico come un aspetto ineluttabile della
modernità. Ben presto si convinse anche
dell’opportunità di farsi esso stesso promotore di tale
processo e di gestirlo in prima persona. Ciò da un lato
avrebbe accresciuto il suo peso politico e culturale
all’interno, dall’altro avrebbe contribuito a conferire alla
Francia un ruolo egemonico in Europa. Ma che cosa
esattamente avrebbe dovuto sostituire la sovranità
dello Stato-nazione in campo economico?
Secondo le concezioni originarie del progetto europeo,
in prospettiva la sovranità nazionale in campo
economico avrebbe dovuto essere sostituita da nuove
forme di potere politico sovranazionale, capaci di
regolare i processi produttivi e distributivi in funzione
della crescita dell’insieme delle economie interessate
dal progetto e del contenimento delle diseguaglianze al
loro interno. L’unificazione politica del continente, in
altre parole, avrebbe alla fine compensato le singole
nazioni della perdita della loro sovranità monetaria,
fiscale, eccetera. Come abbiamo rilevato (cfr. cap. II, p.
35), fino alla fine degli anni Settanta, in numerosi
documenti ufficiali sull’unione economica e monetaria
europea (il rapporto Werner, il rapporto Jenkins, il
rapporto Marjolin e specialmente il rapporto
MacDougall) si era argomentato che la rimozione dei
controlli sui movimenti di capitali avrebbe dovuto aver
luogo solo nello stadio finale del processo,
allorquando, insieme alla costituzione di una bilancia
dei pagamenti comune, sia la politica monetaria che
quella fiscale fossero state in larga misura centralizzate,
di modo che tra i singoli Paesi membri dell’unione
potessero aver luogo trasferimenti di risorse reali,
finanziati da un bilancio federale o centrale,
corrispondenti agli avanzi e disavanzi interni all’unione
– esattamente allo stesso modo in cui trasferimenti di
questa natura hanno normalmente luogo tra le diverse
aree di una singola nazione. In quegli anni, insomma,
veniva generalmente riconosciuto che la completa
libertà di movimento dei capitali e una moneta unica in
Europa avrebbero richiesto trasferimenti fiscali di entità
considerevole per compensare le singole nazioni della
perdita di indipendenza nella conduzione delle politiche
necessarie a risolvere i loro problemi economici interni.
Il rapporto Delors, su cui si basò pochi anni dopo il
Trattato di Maastricht (1992), prese nettamente le
distanze da questa impostazione. La rimozione del
controllo dei capitali avrebbe dovuto avvenire all’inizio,
non alla fine del processo. La centralizzazione della
politica economica generale, comprendente dunque in
primo luogo la politica di bilancio, cessò di essere vista
come un prerequisito della liberalizzazione dei
movimenti di capitali e dell’unificazione monetaria.
Tutto l’accento fu posto, da un lato, sull’istituzione di
una moneta unica e di una banca centrale
sovranazionale cui venisse demandato decidere la
politica monetaria valida per tutti i Paesi membri, in
completa autonomia dai responsabili della politica
economica dei singoli Paesi e dagli organismi politici
dell’Unione; dall’altro, sull’imposizione di limiti
superiori ai disavanzi di bilancio e al debito pubblico
dei singoli Paesi membri, che non avrebbero più potuto
contare su alcuna forma di finanziamento monetario
delle loro spese pubbliche. Secondo lo spirito tanto del
rapporto Delors che del Trattato di Maastricht, questa
perdita di sovranità (monetaria e fiscale) da parte di
ogni singolo Paese membro avrebbe agito da
catalizzatore rispetto all’unificazione politica del
continente. E proprio l’unificazione politica dell’Europa,
di cui la Francia si sarebbe di fatto posta alla guida,
piuttosto che eventuali effetti positivi dell’unificazione
monetaria sull’occupazione e la crescita, avrebbe
costituito la vera ricompensa finale di qualsivoglia
sacrificio di sovranità e benessere che il perseguimento
del progetto avesse richiesto.
Non esistevano precedenti storici di unificazione
monetaria tra Stati che non fosse stata preceduta dalla
loro unificazione politica e l’idea che la prima potesse
fungere da catalizzatore della seconda era totalmente
illogica. Questo semplicemente perché un’unica politica
monetaria applicata a condizioni economiche e sociali
tra loro molto diverse avrebbe teso ad accentuare le
differenze tra gli Stati interessati e dunque a ridurre,
anziché accrescere, la coesione tra di essi. Così, il
risultato politico-istituzionale effettivo del progetto
europeo alla Delors era scontato. Lo svuotamento
progressivo delle sovranità nazionali in campo
economico non poteva che risolversi in una duplice
assenza: la rimozione appunto dello Stato-nazione,
associata all’assenza di un potere politico
sovranazionale. Il vuoto determinato da tale duplice
assenza fu riempito da due organismi tecnici
politicamente irresponsabili – la Bce e la Commissione
europea – cui vennero conferiti poteri decisionali
sempre più importanti per le condizioni di vita della
popolazione.
Il progetto europeo alla Delors ha dunque avuto un
esito sostanzialmente autoritario, raggiunto in modo
graduale e indiretto, attraverso, appunto, il progressivo
svuotamento delle sovranità nazionali. Grazie a
Maastricht, all’istituzione della moneta unica e ai
successivi accordi e trattati, la rinuncia da parte dei
governi europei al mantenimento di alti livelli di
occupazione e a politiche redistributive è apparsa come
imposta da vincoli tecnici oggettivi, come il risultato di
una perdita di sovranità nazionale derivante da
circostanze ineluttabili. La presenza diffusa di
un’illusione di ineluttabilità di questa situazione di
“deresponsabilizzazione” è certamente il fattore che ha
consentito ai governi di tenere in molto minor conto
che in passato le ripercussioni sociali e politiche di
percorsi marcatamente deflazionistici e di classe.

12. Alla luce di quanto rilevato, è difficile dubitare che


il prevalere in Francia nel 1982-1983 di quella che alcuni
autori hanno chiamato la “seconda sinistra” – quella
dei Delors, dei Rocard, dei Fabius, al momento
opportuno sostenuta dallo scaltro Mitterrand – sia
stato il fattore decisivo del cambiamento epocale in
senso liberista avvenuto nel continente nei successivi
trent’anni. Forse qualcuno potrebbe pensare che
questo sottovaluti eccessivamente il ruolo della sinistra
tedesca, o di quella italiana, nell’innesco del
cambiamento. Considereremo più avanti il caso
dell’Italia. Per quanto riguarda la RFT, ricordiamo per
ora semplicemente che all’epoca della svolta ad U della
sinistra al governo in Francia la Germania occidentale
era di nuovo immersa, dopo la breve parentesi di Willy
Brandt dell’inizio degli anni Settanta, nel suo
Ordoliberalismus anti-keynesiano ed era passato ormai
quasi un quarto di secolo dalla svolta pro-libero
mercato della socialdemocrazia tedesca (congresso di
Bad Godesberg del 1959), che era stata in larga misura il
riflesso dello speciale rapporto di sudditanza della RFT
nei confronti degli Usa e non aveva avuto ripercussioni
rilevanti sul resto della sinistra politica europea. La
Germania ordoliberale era già ammirata dai piccoli
borghesi di tutto il continente per il suo culto della
parsimonia, l’efficiente tutela del risparmio e la crescita
trainata dalle esportazioni; inoltre, come vedremo più
avanti, le idee ordoliberali avevano già iniziato ad
essere culturalmente influenti nel continente grazie alla
loro “scoperta” da parte di Michel Foucault e
dell’intelligentsia francese. Ma all’inizio degli anni
Ottanta la Germania non era ancora in grado di
contribuire in misura sostanziale, attraverso le sue
principali correnti politiche, a dare inizio ad alcun
cambiamento epocale. Il ruolo della sua sinistra nella
morte della sinistra continentale non diverrà importante
che alla fine degli anni Novanta, con Gerhard Schröder
e l’emarginazione di Oskar Lafontaine nella Germania
ormai da un decennio riunificata e l’intera Europa in
piena fioritura liberista.
Lo snodo cruciale fu insomma la Francia, perché è
all’interno della sua sinistra che venne concepito e
concretamente avviato un progetto complessivo di
progressivo indebolimento del potere contrattuale del
lavoro dipendente, insieme al progressivo
smantellamento di ciò che di meglio la civiltà borghese,
in buona misura sotto l’impulso delle idee socialiste, era
riuscita a costruire nel trentennio successivo alla
seconda guerra mondiale. È dunque specialmente con
riferimento alla sinistra di quel Paese che è importante
riuscire a mettere a fuoco le premesse della svolta, le
condizioni culturali che la prepararono.

13. Nel decennio compreso tra la fine degli anni


Sessanta e la fine degli anni Settanta si delineò in
Francia la presenza di due sinistre, tra loro molto
diverse, che, come abbiamo visto, coalizzandosi
riuscirono nel 1981 a conquistare il potere politico sulla
base di un programma molto avanzato. Quel programma
però rifletteva le posizioni di una sola delle due sinistre:
quella composta dal Pcf, dalla Cgt e dalla parte
statalista e sovranista del Ps (sostanzialmente il Ceres).
Si può dire che è come se dal maggio francese fossero
scaturiti due fiumi che, ben presto, presero a scorrere in
direzioni pressoché opposte. Il primo, quello che rischiò
realmente di travolgere il sistema (tanto da indurre De
Gaulle a correre a Baden-Baden per assicurarsi la lealtà
dell’armata francese del Reno, in cambio dell’amnistia
per i generali autori di un pronunciamento contro di lui),
fu il fiume della mobilitazione operaia promossa dalla
Cgt e dal Pcf, del più grande sciopero della storia del
capitalismo moderno, del rafforzamento del potere
contrattuale dei salariati e del notevole aumento dei
salari reali ottenuti con gli accordi di Grenelle. Questa fu
la corrente da cui si formarono in seguito sia il
Programme commun che il Projet socialiste, ossia le
basi delle vittorie elettorali della sinistra del maggio-
giugno 1981. Il secondo, ben rappresentato dalla
componente studentesca del maggio, fu il fiume
dell’insofferenza verso ogni forma di autorità e di
potere, dell’individualismo anarcoide,
dell’autogestionismo antistatalista. Schematizzando un
poco, si può affermare che questa fu la corrente che nel
corso degli anni Settanta prevalse all’interno
dell’intelligentsia francese di sinistra (torneremo su
questo punto più avanti). Ma per quanto riguarda la
sinistra politica, pur riuscendo ad aprire nel corso del
decennio delle crepe al suo interno, essa non riuscì a
deviare la corrente principale che da Grenelle portò alle
vittorie della coalizione, passando per il Programme
commun e il Projet socialiste. La “seconda sinistra”
restò per così dire in disparte, coltivando però con cura
i suoi rapporti con l’intelligentsia del Paese; alle prime
serie difficoltà incontrate dalla realizzazione del
programma della coalizione in un contesto
internazionale recessivo, essa uscì prontamente allo
scoperto e riuscì ad imporsi. Come si è visto sopra, per
questa sinistra il rafforzamento della sovranità dello
Stato-nazione in campo economico, da conseguirsi
attraverso un maggiore controllo delle transazioni con
l’estero e dunque anche attraverso una presa di
distanza dal processo di integrazione economica
internazionale, andava considerato come assolutamente
antitetico rispetto alle necessità della modernizzazione
dell’apparato produttivo e dell’intera società. Di fatto,
per Delors e compagni proprio l’accelerazione
dell’internazionalizzazione economica, a partire dal
contesto europeo, sarebbe stato il veicolo principale
della modernizzazione della Francia e della crescita del
suo peso nel continente.
Il diffondersi dell’ideologia modernista e antistatalista
all’interno della cultura di sinistra ebbe luogo, in
Francia come altrove in Europa, parallelamente al
diffondersi dell’antisovietismo. Ma in Francia prima che
altrove essa fu il prodotto della crisi e della critica del
sistema sovietico, essenzialmente attraverso il declino
progressivo della forza politica del Pcf e della sua
influenza sull’intelligentsia francese. Quel declino finì
per liberare i socialisti dalla pressione su di essi a lungo
esercitata dal comunismo. I successi della Russia
sovietica dalla seconda guerra mondiale agli anni
Sessanta – l’esistenza di un modo di produzione e di un
sistema sociale alternativo, caratterizzato dalla drastica
riduzione delle disuguaglianze e dalla piena
occupazione, che era riuscito a sconfiggere il nazismo e
stava attirando nella sua orbita un numero crescente di
Paesi – avevano rafforzato considerevolmente i
lavoratori francesi nel conflitto di classe, insieme al Pcf
e alla Cgt. In quelle condizioni il mantenimento della
stabilità sociale dipendeva effettivamente in larga
misura dalla capacità del sistema borghese di mostrarsi
in grado di curare i suoi maggiori limiti storici –
disoccupazione, forti disuguaglianze e povertà diffusa
– che contribuivano ad attirare masse crescenti di
lavoratori verso il comunismo, indipendentemente dal
verificarsi di eventi come quelli del 1956 in Ungheria o
del 1968 a Praga. Ma a partire dalla fine degli anni
Sessanta il quadro cambiò sensibilmente, da una parte
per il pieno dispiegarsi del conflitto distributivo interno,
aggravato all’inizio e alla fine degli anni Settanta dagli
aumenti del costo del greggio e delle altre materie prime
importate; dall’altro per il peggiorato funzionamento
dell’economia sovietica, che faceva maggiormente
risaltare gli aspetti più sgradevoli del sistema ed
accresceva l’impatto di eventi come la pubblicazione in
prima edizione a Parigi nel 1973 di Arcipelago Gulag di
Solzenicyn, l’intervento sovietico in Afganistan alla
fine del decennio e l’inizio di Solidarnosc in Polonia. In
soli tre anni, tra il 1978 e il 1981, il Pcf perse un terzo dei
suoi iscritti.
In pratica, le incertezze e i timori crescenti suscitati
nelle file del socialismo francese, tra la fine degli anni
Sessanta e la fine degli anni Settanta, dall’acutizzarsi
del conflitto distributivo si combinarono all’inizio degli
anni Ottanta con la fine della sua soggezione politico-
ideologica nei confronti del Pcf e con un timore
decrescente del comunismo. Questa combinazione
costituì il terreno di coltura dell’indebolimento degli
elementi più progressisti del Ps e del prevalere della
“seconda sinistra”. Ma la svolta epocale del 1982-1983
difficilmente avrebbe potuto prodursi se già da diversi
anni la maggior parte della cultura francese di sinistra
non avesse cessato di riconoscersi nell’analisi di classe
della società, da cui erano invece ancora pervasi sia il
Programme commun che il Projet socialiste.

14. Osserva acutamente Antonio Gramsci in uno dei


suoi Quaderni del carcere, a proposito del fenomeno
generale del trasformismo, che la borghesia non riesce a
educare i suoi giovani, i quali si lasciano attrarre
culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o
cercano di farsene i capi («inconscio desiderio – scrive
il comunista italiano – di realizzare essi l’egemonia della
loro propria classe sul popolo») ma nelle crisi storiche
ritornano all’ovile. Nel caso della Francia, questo
“ritorno all’ovile”, che in un quindicennio trasformò
ribellismo e spirito libertario del 1968 in adesione
all’ideologia liberista, poté nutrirsi di un imponente
retroterra culturale, contrassegnato dal progressivo
allontanamento della cultura di sinistra dall’analisi
marxiana dei fenomeni sociali.
Nelle analisi sociali che nel corso dei vent’anni
precedenti la svolta del 1982-1983 divennero la bussola
del pensiero francese di sinistra si cercherebbero
invano riferimenti al conflitto distributivo tra lavoro e
capitale come determinante fondamentale del
cambiamento sociale. La natura conflittuale del sistema
fu progressivamente persa di vista, così come finì per
essere perso di vista il ruolo dell’azione collettiva come
determinante del progresso sociale all’interno del
capitalismo. Negli scritti dei maggiori intellettuali di quel
ventennio di fatto sparirono, insieme alle classi e alla
questione generale dei rapporti di forza tra salariati e
percettori di redditi da capitale e impresa, le questioni
connesse con la capacità dello Stato di influire su tali
rapporti di forza e sull’esito del conflitto distributivo.
Storicamente, che i poteri pubblici fossero in grado di
risolvere lo scarto tra obiettivi politici ambiziosi e
vincoli del mondo reale era stata una convinzione
condivisa in Francia tanto dalla sinistra che dalla
destra. Negli scritti dell’intelligentsia francese questa
visione illuminista e razionalista del cambiamento
sociale, imperniata sull’azione dello Stato e sul ruolo
della regolamentazione e della legge, venne
progressivamente sostituita da una riscoperta del
mercato come efficiente meccanismo decentralizzato di
progresso economico e sociale, manifestazione
insopprimibile non solo della libertà e creatività
individuale ma dei “contropoteri della società civile”.
Ogni discussione in termini di classi, così come ogni
insistenza sulla connessione tra conflitto sociale e
dinamica del sistema, tese sempre di più ad essere vista
come arcaica e scarsamente meritevole di attenzione.
Claude Lévi-Strauss fu il primo autore importante che
contribuì ad allontanare la cultura di sinistra dal
marxismo. All’analisi dei “nessi intimi” (l’espressione è
di Marx) propri del modo di produzione capitalistico, lo
strutturalismo contrappose la messa a fuoco di nessi
intimi comuni ad ogni tipo di vita sociale, nessi così
profondi da far di fatto sparire completamente la storia
in quanto costituenti delle costanti di qualsivoglia
esperienza umana. Per Lévi-Strauss si trattava di
sceverare i fondamenti ultimi della vita in società; il fine
ultimo delle scienze umane avrebbe dovuto consistere
nel riassorbire le umanità particolari in una umanità
generale – nel “dissolvere” l’uomo per raggiungere
delle “invarianti” a partire dalla diversità empirica delle
società umane. È facile rendersi conto di come un simile
programma scientifico avesse ben scarse possibilità di
fornire qualche supporto analitico a un progetto di
rinnovamento in senso socialista della società francese
della fine del XX secolo.

15. Il vuoto determinato nella cultura francese di


sinistra dal suo allontanamento dal marxismo ad opera
dello strutturalismo e post-strutturalismo fu riempito da
analisi sociali di natura marcatamente impressionistica e
da un diffuso quanto confuso ribellismo ad opera di
autori come Michel Foucault, Jacques Derrida e
Jacques Lacan – specialmente del primo di questi tre
autori, probabilmente l’intellettuale più influente in
Francia tra la seconda metà degli anni Settanta e la
prima metà degli anni Ottanta.
Dopo essersi occupato di follia, malattia, delinquenza e
sessualità, l’attenzione di Foucault è assorbita dalla
questione della “governamentalità” o arte di governo.
Nelle sue lunghe giornate onnivore trascorse alla
Bibliothèque Nationale de France egli scopre
l’economia politica, più precisamente il “corso delle
cose” qual è postulato dalla teoria economica
marginalista o neoclassica. La critica dell’economia
politica non sembra interessarlo; di certo, essa è
completamente assente nelle frequentatissime lezioni
sulla “governamentalità” che egli tiene al Collège de
France nel 1978-1979. L’intellettuale francese non
sembra conoscere molto dell’analisi marxiana del
capitalismo e molto probabilmente ignora del tutto i
contributi critici di Keynes e di Sraffa. Per lui Keynes è
semplicemente interventismo statale. Dalla letteratura
marginalista Foucault apprende che esiste una
regolamentazione spontanea dei processi economici –
«una razionalità del mercato» – che la politica
economica deve conoscere e rispettare per non essere
dannosa oltre che inutile. Ogni intervento governativo
deve basarsi ed essere funzionale a questa regolazione
spontanea del corso delle cose. La compulsione degli
scritti dei classici del marginalismo convince Foucault
che i fenomeni della produzione, della distribuzione e
dello scambio sono analizzabili attraverso procedimenti
di conoscenza analoghi a quelli applicati alla
conoscenza scientifica dei fenomeni naturali. Un buon
governo deve avere dimestichezza con la teoria
economica frutto di questa conoscenza scientifica,
perché è in base ad essa che deve modulare le proprie
decisioni. Ciò che rende un governo cattivo è la sua
ignoranza dell’esistenza, dei meccanismi e degli effetti
delle “leggi di natura” messe a fuoco dalla teoria
economica. Per mezzo di quest’ultima «entra nell’azione
di governo la questione della verità».
La verità principale che Foucault trae dai contributi dei
fondatori del marginalismo è che le condizioni di
persistente concorrenza pura necessarie in tutti i
mercati perché questi possano esprimere tutta la loro
“razionalità”, assicurando i risultati ottimali postulati
dalla teoria, sono di difficile realizzazione. È qui che
entrano in scena i suoi veri eroi. Si tratta degli
ordoliberali, ossia degli anti-keynesiani di lingua
tedesca Walter Eucken, Ludwig von Mises, Friedrich
von Hayek, Wilhelm Röpke – specialmente quest’ultimo
– le cui tesi costituiscono il punto di riferimento
pressoché esclusivo del suo pensiero sull’arte di
governo. Va però detto che nel discorso di Foucault
non risulta mai del tutto chiaro quanto egli faccia
proprio il punto di vista degli ordoliberali. Si ha
l’impressione che l’intellettuale mantenga
intenzionalmente al riguardo una certa ambiguità, che
gli avrebbe più agevolmente consentito di correggere il
tiro nell’eventualità, per la verità piuttosto remota dato
il carattere di omelia vescovile delle lezioni che si
tengono al Collège de France, di qualche contestazione
da parte del pubblico. (Questa ambiguità è ben
espressa da una frase da lui stesso impiegata in un altro
contesto: «Ciò che io qui dico non è esattamente ciò
che io penso, ma è frequentemente ciò che mi chiedo se
non potrebbe essere pensato».) In ogni caso,
eccettuata una prudente presa di distanza da qualche
eccesso di fobia dello Stato alla Röpke, si cercherebbe
invano nel discorso di Foucault una critica delle tesi
liberiste in esso insistite.
Attraverso gli ordoliberali Foucault sembra
convincersi che l’essenziale sia appunto la
concorrenza, concepita come un sistema dotato di
rigorose proprietà formali ma fragile nella sua esistenza
storica e reale. È allora necessario che un buon governo
intervenga per assicurare che entri in funzione la
struttura formale della concorrenza. Gli interventi, che
potranno anche essere altrettanto numerosi che in
un’economia pianificata, non devono però riguardare i
meccanismi dell’economia di mercato, bensì le
condizioni del mercato. Essi devono costituire, nel loro
insieme, una politica attiva senza dirigismo. Una politica
indefinitivamente attiva è il presupposto della
concorrenza, vista come un obiettivo storico dell’arte di
governo piuttosto che come un dato di natura da
rispettare. La concorrenza pura potrà aversi solo se sarà
prodotta da una “governamentalità” attiva; «si dovrà
governare per il mercato, piuttosto che governare a
causa del mercato».
Per Foucault essere liberali significa dunque
essenzialmente essere “progressisti”, nel senso di un
continuo adattamento dell’ordine legale alle scoperte
scientifiche, ai progressi dell’organizzazione e della
teoria economica, ai mutamenti della struttura della
società e «alle esigenze della coscienza
contemporanea». Un regime socialista equivale invece
a una generale perdita di libertà, perché ogni tipo di
pianificazione comporta una serie di errori economici la
cui riparazione – «la riparazione dell’irrazionalità
intrinseca alla pianificazione» – può essere ottenuta
solo sopprimendo le libertà individuali. Foucault è
particolarmente attratto dall’idea ordoliberale secondo
cui l’economia di tipo assistenziale, l’economia
keynesiana, l’economia protetta e l’economia
pianificata formano un tutto solidamente coerente,
sicché se si persegue uno di questi corsi non sarà
possibile sfuggire agli altri tre. E dal momento che lo
Stato è portatore di un’”intrinseca difettosità”, mentre
nulla proverebbe che l’economia di mercato abbia simile
difettosità, è legittimo chiedere a quest’ultima di
fungere non tanto da principio di limitazione dello
Stato, bensì da principio di regolazione interna dello
Stato. Di nuovo, quindi, uno Stato sotto la sorveglianza
del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza
dello Stato.

16. Con queste premesse, è molto probabile che se


non fosse morto prematuramente (1984) Foucault
avrebbe finito per aderire alla fondazione Saint-Simon,
nata nel dicembre del 1982 e che fino al dicembre 1999,
quando cessò le sue attività, giocò un ruolo
considerevole nella diffusione in Francia delle tesi
liberali nella loro versione “di sinistra”. Scopo della
fondazione, nelle parole del suo segretario generale
Pierre Rosanvallon, era «creare e sviluppare una cultura
della modernità, una cultura riformista che superasse
l’era ideologica nella quale la sinistra si era rinchiusa».
Ne facevano parte esponenti di primo piano della
politica (tra i quali naturalmente Delors), della stampa,
dell’accademia, dell’industria e della finanza e aveva tra
i suoi soci fondatori intellettuali vicini a Foucault, come
appunto Rosanvallon. Con la sua produzione
intellettuale – la sua insistenza sul mercato
internazionale come il regolatore per eccellenza
dell’installazione in Francia di un nuovo modello di
sviluppo, sulla necessità per un governo veramente
progressista di ricorrere a degli esperti “competenti” e
“neutrali”, nonché sul carattere “tecnico” piuttosto che
politico dei suoi progetti di società – la Saint-Simon
esercitò continuativamente in Francia, per circa
vent’anni, un’influenza notevole sulle scelte
governative. Si può dire che il principale carattere
distintivo dello spirito della fondazione fu il rigetto della
lunga tradizione statalista e centralista francese – il
rigetto del colbertismo insieme a quello di aspetti
importanti del giacobinismo. È insomma lo spirito che
informa gli scritti degli storici François Furet e
Rosanvallon. Il primo interpreta la Rivoluzione francese
non come frutto di lotte di classe, tra la borghesia e
l’aristocrazia e poi tra la borghesia e il “quarto stato”,
ma come lotta unitaria per l’affermazione degli ideali
liberali; il secondo vede la contemporaneità come un
lungo cammino verso un futuro sempre più liberale e
democratico. Il loro think tank, oltre ad essere riuscito
per primo a imporre in Francia una concezione del
mercato come valore di sinistra, diede il primo
contributo fondamentale nel continente alla visione
delle lotte sociali come manifestazioni di immobilismo e
di coloro che continuavano a sostenerle come dei
conservatori.
In conclusione, nel corso di un quindicennio, tra la
fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni
Ottanta, la cultura francese di sinistra passò dallo
statalismo e dalla confutazione dell’egemonia americana
all’antisovietismo; dalla demonizzazione dell’Urss
all’antistatalismo e al rigetto del marxismo, entrambi
visti come antitesi della modernità; dal rigetto del
marxismo al rigetto della stessa tradizione illuminista e
razionalista francese, di cui l’analisi marxiana del
capitalismo e le idee socialiste avevano costituito lo
sbocco principale nel XIX e XX secolo. L’infelice
marxista Louis Althusser poté ben poco contro tutto
questo; piuttosto, egli contribuì al dilagare
dell’antistatalismo all’interno della cultura di sinistra
con il suo scetticismo circa le possibilità di progresso
sociale attraverso l’intervento statale, con la sua
concezione dello Stato come mero strumento della
riproduzione delle condizioni materiali del rapporto di
produzione e sfruttamento e la connessa visione del
“servizio pubblico” e dell’intervento statale in funzione
dell’interesse collettivo come «una gigantesca
mistificazione».
La svalutazione da parte della cultura di sinistra della
possibilità, più spesso come abbiamo visto addirittura
dell’opportunità, di riformare il sistema in senso
socialista attraverso lo Stato e le sue istituzioni spianò
la strada alla svolta liberista. Sulla scia di quella
francese, anche il resto della sinistra europea via via si
convinse che lo Stato sociale interventista della
“vecchia Europa” costituiva un modello
irrimediabilmente esaurito e la sua difesa null’altro che il
retaggio di un’ideologia arcaica. Dappertutto
eliminazione di vincoli e controlli e accelerazione della
globalizzazione dei mercati vennero considerati
funzionali alla modernizzazione delle realtà economiche
e sociali nazionali. E poiché nessuna vera difesa delle
sovranità nazionali in campo economico è concepibile
senza adeguati controlli pubblici delle transazioni con il
resto del mondo, la tutela stessa di quelle sovranità finì
per essere vista dappertutto, a sinistra, come l’ostacolo
principale alla modernizzazione. Nelle pagine che
seguono ripercorreremo le tappe principali della “corsa
alla modernità” compiuta dalla sinistra europea, che in
trent’anni, dietro lo schermo di uno sviluppo
tecnologico ininterrotto, ha fatto regredire di un secolo
i rapporti di produzione e di distribuzione.
Nota bibliografica
I testi completi del “Programma comune” e del
“Progetto socialista” si trovano in Programme commun
de governement du parti communiste e du parti
socialiste (27 giugno 1972), Introduzione di Georges
Marchais, Editions Sociales, Parigi 1972, e in Parti
Socialiste, Projet Socialiste pour la France des Années
80, Club Socialiste du Livre, Parigi 1980. Sulle
nazionalizzazioni realizzate in Francia dal governo di
sinistra, e, più in generale, sui suoi indirizzi di politica
economica, si veda H. Machin e V. Wright (a cura di),
Economic Policy and Policy Making under the
Mitterrand Presidency 1981-84, Francis Pinter, Londra
1985 (in particolare i contributi di C. Stoaffes e di P.
Fabra, pp. 144-169 e 173-183). Sulla prima fase di
quell’esperienza di governo, le sue realizzazioni e il
peso che su di essa esercitò il vincolo esterno, meritano
di essere visti: J. Sachs e C. Wyploz, “The economic
consequences of President Mitterrand”, Economic
Policy, aprile 1986; M. Lombard, “A re-examination of
the reasons for the failure of keynesian expansionary
policies in France, 1981-1983”, Cambridge Journal of
Economics, Vol. 19, 1995; S. Halimi, J. Michie e S. Milne,
“The Mitterrand experience”, in J. Michie e J.G. Smith (a
cura di), Unemployment in Europe, Academic Press,
Londra 1994; A. Fonteneau e P.A. Muet, La Gauche
face à la crise, Press de la Fondation National des
Sciences Politiques, Parigi 1985, e, degli stessi autori,
“Le poids de la contrainte extérieure sur la France”,
Lettre de l’OFCE, n. 3, 23 marzo 1983. Sulla discussione
in Inghilterra relativa alla gestione del vincolo esterno
da parte del governo laburista e la sua esperienza nella
seconda metà degli anni Settanta, discussione ed
esperienza scarsamente prese in considerazione dalla
sinistra francese alla vigilia della sua vittoria elettorale,
si veda la nota del Central Policy Review Staff, “The
case for and against import controls”, Document of Her
Britannic Majesty’s Government, CP (76), 30 novembre
1976; si vedano anche M. Pivetti, “Il controllo delle
importazioni nell’impostazione del Cambridge Economic
Policy Group”, Note Economiche, n. 4, 1978, e T.
Pettinger, “Jim Callaghan: a successful prime minister?”,
E-International Relations, dicembre 2010.
Il cambiamento di rotta subito dal progetto europeo
nel corso degli anni Ottanta su impulso della Francia
può essere colto con particolare nitidezza confrontando
il rapporto MacDougall del 1977 (Commission of the
European Communities, “Report of the study group on
the role of public finance in European integration”,
Bullettin of the European Communities, aprile 1977)
con il rapporto Delors sul quale ci siamo soffermati nel
testo (Committee for the Study of Economic and
Monetary Union, “Report on Economic and Monetary
Union in the European Community”, Office for Official
Publications of the European Communities,
Lussemburgo 1989). Il ruolo della Francia sotto la
presidenza Mitterrand nel processo di liberalizzazione
dei movimenti internazionali di capitali è ben illustrato
in R. Abdelal, “Le consensus de Paris: la France et les
règles de la finance mondiale”, Critique Internationale,
n. 28, luglio-settembre 2005 (tradotto dall’inglese da R.
Bouyssou). Per un breve ma denso ritratto di Francois
Mitterrand, si veda L. Begley, “How wily Mitterrand
transformed France”, The New York Review of Books, 5
giugno 2014 (si tratta di una recensione del volume di P.
Short, A Taste for Intrigue: The Multiple Lives of
Francois Mitterrand).
La deriva neoliberista della sinistra di governo in
Francia a partire dal 1982-1983 è stata illustrata e
discussa in numerosi scritti. Oltre ai già citati Halimi et
al. e Fonteneau e Muet, si possono utilmente vedere: S.
July, Les années Mitterrand. Histoire baroque de une
normalisation inachevée, Bernard Grasset, Paris 1986; i
contributi di G. Ross e di J. Jenson in J.F. Nollifield e G.
Ross (a cura di), Searching for the New France,
Routledge, Londra e New York 1991, e, degli stessi due
autori, “The tragedy of the French left”, New Left
Review, n. 171, settembre-ottobre 1988; A. Liepitz,
L’audace ou l’enlisement. Sur les pratiques
economiques de la gauche, Editions La Découvert,
Parigi 1984 ; V. Giret e B. Pellegrin, 20 Ans de Pouvoir,
1981-2001, Editions de Seuil, Parigi 2001. Per il
retroterra culturale di quella deriva, abbiamo fatto
particolare riferimento nel testo alle seguenti opere: C.
Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore,
Milano 1964 (spec. Cap. IX); M. Foucault, Sicurezza,
territorio, popolazione e Nascita della biopolitica,
Corso al Collége de France 1978-1979 (lezione del 5
aprile 1978 nel primo di questi due volumi e lezioni dal
10 gennaio 1979 al 4 aprile 1979 nel secondo), Feltrinelli,
Milano 2012; L. Althusser, Marx nei suoi limiti (1978),
Mimesis althusseriana, Milano 2004 (spec. sezioni 12-
16). Sulla fondazione Saint-Simon e il suo ruolo nella
deriva neoliberista della sinistra di governo in Francia,
si veda il già citato 20 Ans de Pouvoir, 1981-2001 di
Giret e Pellegrin, pp. 198-245, e L. Bonelli, “Ces
architectes en France du social-liberism”, Manière de
Voir, n. 72, dic. 2003-genn. 2004, pp. 82-85. Dei due soci
più autorevoli della fondazione, gli storici Francois
Furet e Pierre Rosanvallon, si vedano, rispettivamente,
Critica della rivoluzione francese (1983), Laterza, Bari
2004, e Le modèle politique francais. La société civile
contre le giacobinisme de 1789 à nos jours, Le Seuil,
Parigi 2004. Si veda anche P. Anderson, The New Old
World, Verso, Londra e New York 2011, Parte II, cap. 4.
Va infine segnalato il capitolo sull’esperimento
francese nel ricco volume di D. Sassoon, Cento anni di
socialismo: la sinistra nell’Europa occidentale nel XX
° secolo, Editori Riuniti, Roma 1997, cap. 19. Un limite
importante dell’analisi di Sassoon è che in essa
l’accelerazione della globalizzazione dall’inizio degli
anni Ottanta tende ad essere considerata come un dato,
piuttosto che come un fenomeno in larga misura dipeso
dalle scelte politiche nazionali.
Capitolo IV

La “corsa alla modernita”: la


mondializzazione

1. La “corsa alla modernità” compiuta dalla sinistra


europea non è stata nei fatti nient’altro che una corsa
all’indebolimento progressivo del potere contrattuale
del lavoro dipendente. La sinistra non ha
semplicemente subito il cambiamento delle condizioni di
potere e distributive avvenuto in tutta Europa nel corso
dell’ultimo trentennio: lo ha in larga misura
consapevolmente deciso e gestito.
La consapevolezza sottostante alla sua azione
“modernizzatrice”, dalla svolta della sinistra francese
del 1982-1983, è chiaramente desumibile dal raffronto
con le idee e le istanze economiche della sinistra
europea nei decenni precedenti. È indubbio che per più
di trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, in
maggiore o minore misura nei diversi Paesi, essa avesse
contribuito con i suoi programmi di riformismo
socialdemocratico a spingere anche le forze politiche
conservatrici ad adoprarsi per cercare di salvaguardare
nel tempo l’ordine borghese mediante la riduzione della
disoccupazione e delle disuguaglianze e una crescente
protezione sociale – dunque mediante il ricorso a linee
di intervento pubblico capaci di realizzare quegli
obiettivi. Si può dire, a questo riguardo, che nelle
condizioni geo-politiche del primo trentennio
successivo al secondo conflitto mondiale il keynesismo
fosse divenuto in Europa uno strumento formidabile di
azione politica nelle mani sia delle rappresentanze
politico-sindacali dei salariati che in quelle dei loro
avversari di classe: strumento, per le prime, di
rivendicazione consapevole di migliori condizioni
materiali e maggiore sicurezza per i lavoratori;
strumento, per i gruppi dominanti, per contenere
l’attrattiva esercitata dal sistema sociale alternativo e
assicurare la stabilità interna, togliendo spazio ai
movimenti di opposizione al capitalismo e al sistema
dell’economia di mercato.
Tra la sinistra e le altre forze politiche presenti nei
maggiori Paesi europei esistevano naturalmente delle
differenze importanti circa la misura in cui pieno
impiego ed equità distributiva andassero effettivamente
perseguiti. Ciònondimeno nessuno avrebbe allora
negato che il contenimento della disoccupazione, una
distribuzione del reddito socialmente tollerabile e livelli
adeguati di protezione sociale implicassero da parte dei
rispettivi governi nazionali sia un controllo completo
della politica monetaria e di bilancio, che un controllo
delle transazioni con il resto del mondo tanto più
articolato quanto più ciascun Paese avesse scelto di
puntare sull’espansione continua del proprio mercato
interno per assicurarsi una crescita stabile. Ritorniamo
sulla concezione del ruolo di questi controlli nei Trenta
gloriosi del capitalismo europeo, per poi mettere meglio
a fuoco come il loro abbandono abbia prodotto il
progressivo indebolimento del potere contrattuale del
lavoro dipendente e il cambiamento delle condizioni
distributive cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi
trent’anni.

2. Consideriamo innanzitutto la questione del controllo


della politica monetaria e della politica di bilancio da
parte dei governi nazionali. Fino alla fine degli anni
Settanta, una separazione della politica monetaria dalla
politica economica generale dei governi sarebbe
apparsa semplicemente inconcepibile. E altrettanto
inconcepibile sarebbe di conseguenza apparso un
regime di indipendenza politica della banca centrale. La
consapevolezza diffusa che la moneta e i fenomeni
monetari hanno effetti reali – ossia effetti sulla
distribuzione del reddito, i livelli occupazionali e il
benessere sociale – portava a guardare alla politica
monetaria come a una componente importante della
politica economica generale, di cui i governi in carica
dovessero assumersi per intero la responsabilità. Da
una parte la possibilità di creare moneta era da tutti
considerata come il principale dei poteri economici
pubblici; dall’altra si riteneva che il controllo dei tassi di
interesse interni rientrasse tra i compiti principali dei
governi, dal loro livello dipendendo l’onere del servizio
dei debiti, gli stessi costi dei beni prodotti all’interno e
la loro competitività sui mercati internazionali, la
dinamica del debito pubblico in rapporto al prodotto e
la distribuzione del reddito disponibile. Posto che la
spesa pubblica sarebbe stata perlopiù finanziata da un
prelievo fiscale improntato a criteri di marcata
progressività, bisognava riuscire a finanziare a tassi di
interesse i più bassi possibile gli aumenti della spesa
necessari a contenere disoccupazione e squilibri sociali
ogniqualvolta essi avessero comportato dei disavanzi
pubblici.
Non solo quindi era allora ritenuto pressoché
inconcepibile che le decisioni concernenti i tassi di
interesse potessero essere delegate a degli organismi
tecnici indipendenti dai governi e politicamente
irresponsabili, ma si riteneva che i governi dovessero
altresì disporre degli strumenti necessari al controllo
effettivo del loro livello. Da qui l’importanza attribuita al
controllo dei movimenti internazionali dei capitali, senza
il quale il livello dei tassi di interesse non avrebbe
potuto essere deciso dalle autorità nazionali di governo
perché esso sarebbe stato invece dettato dall’obiettivo
di impedire deflussi di capitali incompatibili con il
necessario equilibrio nel tempo della bilancia dei
pagamenti, nonché con la politica del tasso di cambio
prescelta. Questa perdita della sovranità monetaria
avrebbe poi condotto di fatto anche alla perdita di
buona parte della sovranità fiscale, ossia della libertà di
ciascuna nazione di decidere livello e composizione
delle sue spese pubbliche, nonché le forme della
tassazione. Avendo infatti rinunciato alla possibilità di
stabilire il livello dei tassi di interesse interni, i governi
avrebbero difficilmente potuto evitare una crescita del
debito pubblico in rapporto al prodotto senza ricorrere
alla formazione di avanzi primari, tanto maggiori quanto
più alti i tassi di interesse e lo stock accumulato di
debito. E siccome la libertà di movimento dei capitali
avrebbe costretto ad evitare qualsivoglia circostanza
suscettibile di provocarne la fuga, sistemi di tassazione
“benevolmente orientati” verso il capitale sarebbero
divenuti una scelta obbligata, sicché nelle politiche di
bilancio restrittive finalizzate alla formazione di avanzi
primari il ruolo di gran lunga maggiore avrebbe finito
per dover essere assegnato alle imposte sui redditi da
lavoro, all’imposizione indiretta e al contenimento della
spesa sociale. Tanto la minore progressività
dell’imposizione che le riduzioni delle spese sociali
avrebbero infine depresso i livelli di attività e
l’occupazione.
La consapevolezza relativa alla necessità del controllo
dei capitali, per scongiurare il ritorno a livelli di
disoccupazione pre-bellici, non era appannaggio
esclusivo della sinistra interna ad ogni nazione.
L’articolo VI degli accordi di Bretton Woods del 1944
non solo riconosceva il diritto di ogni governo di
ricorrere ai controlli, ma contemplava altresì, per i Paesi
che avessero fatto ricorso ai finanziamenti del Fondo,
l’obbligo di esercitarli per arrestare il deflusso di
capitali. Nel maggio di quello stesso anno Keynes
poteva così dichiarare davanti alla Camera dei Lord che
ciò che nel sistema pre-bellico, nel campo dei movimenti
internazionali dei capitali, sarebbe stato considerato
una “eresia” aveva finito per essere avvallato come
perfetta “ortodossia”. Di quell’ortodossia faceva parte
il convincimento che la crescita di ciascuna nazione
trainata dalla sua domanda interna, alimentando anche
l’espansione degli scambi internazionali, avrebbe
contribuito a sostenere la crescita di tutte le altre, come
di fatto in larga misura si verificò nei trent’anni
successivi.
Come abbiamo illustrato nel secondo capitolo, tra la
fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni
Ottanta le economie europee iniziarono ad essere
esposte a una forte accelerazione del processo di
mondializzazione, in ciascuna delle sue tre dimensioni
fondamentali: capitali, merci e forza lavoro. Il favore
accordato dalla sinistra a ciascuna di queste tre
dimensioni del processo di mondializzazione economica
ha determinato il crollo del potere contrattuale dei
salariati e il conseguente cambiamento distributivo.

3. Da Bretton Woods fino alla fine degli anni Settanta,


il mantenimento della sovranità nazionale nei campi
monetario e fiscale attraverso il controllo dei capitali
aveva effettivamente costituito la colonna portante
delle politiche di pieno impiego e redistributive
perseguite dai governi dei principali Paesi capitalistici.
La successiva liberalizzazione dei movimenti di capitali,
specialmente nel contesto europeo, può considerarsi
come l’epitome assoluta dell’abbandono di quelle
politiche per più di un motivo. Oltre che attraverso la
perdita del controllo dei tassi di interesse interni e della
sovranità fiscale, la liberalizzazione dei movimenti di
capitali ha inciso sulla distribuzione tra salari e profitti
perché ha eliminato l’ostacolo principale al
perseguimento da parte delle imprese dell’obiettivo di
localizzare per quanto possibile i processi produttivi
laddove il costo del lavoro è minimo, generando ingenti
flussi di investimenti in impianti e attrezzature verso i
Paesi in via di sviluppo. Questi flussi hanno
determinato distruzione e minore formazione di capacità
produttiva all’interno dei Paesi più sviluppati,
specialmente nel settore manifatturiero, e maggiore
formazione di capacità in quelli in via di sviluppo, per lo
più destinata a produrre merci da esportare verso gli
stessi Paesi di provenienza degli investimenti diretti.
Con la libera mobilità dei capitali si è così verificata, nel
corso degli ultimi tre decenni, una massiccia
sostituzione di produzione manifatturiera interna con
importazioni di manufatti dai Paesi dell’estremo oriente,
dall’India e dal Bangladesh, dall’America latina, dal
Maghreb e dall’Africa del Sud, dai Paesi dell’ex blocco
sovietico. All’effetto depressivo sui salari determinato
dall’impatto negativo di questo processo di
sostituzione sui livelli occupazionali, va aggiunto
quello determinato dalla minaccia delle delocalizzazioni,
la quale, resa credibile da quelle già avvenute grazie al
regime di libera circolazione dei capitali, ha finito per
indurre i lavoratori e i loro sindacati ad accettare salari
minori e maggiore flessibilità.
Va poi tenuto conto del ruolo svolto dall’accresciuta
apertura commerciale. Il processo di sostituzione di
produzione interna con importazioni avvenuto in questi
ultimi decenni con la benedizione della sinistra europea
non è riconducibile ai soli flussi di investimenti diretti
verso i Paesi in via di sviluppo. Esso è stato più in
generale il prodotto dell’accresciuta apertura alle
importazioni dai Paesi a basso costo del lavoro. La
conseguente maggiore concorrenza da essi esercitata
ha abbassato i prezzi di molti beni finali di consumo e
dei loro mezzi di produzione sul mercato internazionale,
contribuendo al contenimento dei tassi di inflazione nei
Paesi industrialmente avanzati. Ma nonostante la
minore inflazione, in questi Paesi l’effetto netto sui
salari è stato negativo. In pratica, la pressione al
ribasso sui salari monetari e il costo del lavoro
esercitata dall’apertura commerciale ha più che
compensato il contenimento dell’inflazione da essa
determinato. In sintesi, la deindustrializzazione prodotta
dall’aumento degli investimenti in impianti e
attrezzature nei Paesi in via di sviluppo a bassi salari e
dall’aumento delle importazioni da quegli stessi Paesi
ha ridotto il potere contrattuale dei salariati, attraverso
non soltanto il suo impatto sul livello e la composizione
del prodotto (con il ridimensionamento del settore
manifatturiero in rapporto a quello dei servizi,
caratterizzato da salari più bassi e condizioni di lavoro
più precarie), ma pure attraverso gli effetti sui salari
monetari esercitati dalla concorrenza dei prezzi
internazionali decrescenti di una gamma sempre più
ampia di beni e dalla minaccia delle riallocazioni
produttive.
Nella tradizione della sinistra europea, più in generale
all’interno della cultura economica e politica più
progressista, il ricorso a forme di protezionismo non era
mai stato escluso. Già alla fine dell’Ottocento in Francia
Jean Jaurès sosteneva davanti alla Camera dei deputati
che una nazione governata dai socialisti, «pur
mantenendo molteplici e crescenti relazioni con il resto
del mondo», avrebbe tuttavia fatto ricorso a prodotti
importati «solo nella misura in cui essi fossero stati
indispensabili al suo sviluppo». Dal canto suo John
Maynard Keynes, in un noto passo scritto nel 1933,
argomentava, a proposito delle relazioni economiche tra
nazioni, che «ciò che per sua stessa natura dovrebbe
essere internazionale sono le idee, la conoscenza, l’arte,
i viaggi, l’ospitalità. Ma che i beni siano prodotti
all’interno ogniqualvolta questo sia ragionevolmente e
convenientemente possibile; e, soprattutto, si faccia in
modo che la finanza sia eminentemente nazionale». E
ancora nel 1957, in Francia, la Cgt si pronunciava
all’unanimità contro l’istituzione del Mercato comune
europeo, denunciando per bocca del suo segretario
generale, Benoit Frachon, i danni che esso avrebbe
arrecato all’indipendenza economica della nazione.
La sostituzione di produzione interna con importazioni
sperimentata in Europa in questi ultimi tre decenni non
avrebbe mai potuto avvenire senza una preliminare
conversione della sinistra europea al libero scambio,
conversione che proprio a partire dalla Francia (cfr. il
capitolo precedente) si è andata diffondendo in tutto il
continente. La progressiva sottomissione degli Stati –
delle loro leggi, regolamenti e procedure amministrative
– alle regole di una concorrenza internazionale sempre
più impermeabile a ogni norma sociale sanitaria e
ambientale, sarebbe stata impossibile senza il prevalere
a sinistra di una “cultura della modernità”, una cultura
“riformista” insistente sul ruolo del mercato
internazionale come regolatore per eccellenza
dell’attività degli Stati. Tanto la già ricordata creazione
all’inizio del 1995 dell’Organizzazione mondiale del
commercio che tutti i successivi sforzi di fare del libero
scambio un progetto di civiltà imperniato su un potere
statale esercitato al servizio degli interessi delle imprese
– dal progetto per l’Accordo multilaterale sugli
investimenti, ai più recenti tentativi di stipulare un
Accordo sul commercio dei servizi, di istituire un
Grande mercato transatlantico tra l’Europa e gli Stati
Uniti e di istituzionalizzare il trasferimento di potere dai
tribunali amministrativi nazionali a dei tribunali
internazionali di arbitrato privato in materia di contrasti
tra le leggi nazionali e gli interessi delle multinazionali –
sono stati essenzialmente l’esito della mitizzazione
dell’iniziativa privata e della concorrenza anche da parte
della sinistra, dell’aver finito quest’ultima per attribuire
un’intrinseca “difettosità” o “irrazionalità” a ogni forma
di controllo del mercato da parte dello Stato.

4. Va infine tenuto conto della crescita della forza


lavoro immigrata. Questo aspetto della mondializzazione
e i suoi effetti sul potere contrattuale dei salariati
meritano un’attenzione particolare. In primo luogo, per
le peculiarità della “libera circolazione dei lavoratori”, la
cui capacità di imporsi ha rivelato in Europa una
dinamica diversa e molto più complessa della libera
circolazione delle merci e dei capitali. In secondo luogo,
perché l’ostilità del lavoro dipendente indigeno
all’immigrazione, la dimensione più immediatamente e
“fisicamente” percepita della mondializzazione, ha di
fatto determinato il suo distacco definitivo dalla
cosiddetta sinistra del continente.
Abbiamo accennato nel secondo capitolo a un certo
grado di improvvisazione e incoerenza che caratterizzò
il modo in cui gli Stati avevano affrontato la questione
dell’immigrazione nel periodo dell’alta crescita. Alla fine
della seconda guerra mondiale, tuttavia, i pubblici
poteri avevano ben chiaro che non era possibile
lasciare nelle mani degli industriali la gestione
dell’afflusso e del reclutamento della manodopera
straniera. Le due principali linee di azione che vennero
poste in campo furono la strategia integrazionista
francese e la strategia tedesca del lavoratore ospite.
Riconsideriamole brevemente.
In Francia, la creazione nel 1946 dell’Office national de
l’immigration (Oni) riuniva Stato, padronato e sindacati
al fine di affrontare il problema della scarsità delle forze
di lavoro determinatosi dopo il secondo conflitto
mondiale. I principi ispiratori dell’Oni erano quelli di
assicurare un’immigrazione controllata, il monopolio
dello Stato nel reclutamento e l’integrazione degli
immigrati nella società francese. Formalmente l’azione
doveva essere egalitaria; in concreto venne stabilita
una chiara scala di preferenze privilegiando le
popolazioni europee vicine: gli italiani in primo luogo,
poi i belgi e gli europei del nord. Per le altre popolazioni
europee (spagnoli, portoghesi eccetera) non vi era né
preferenza né tantomeno esplicita avversione.
Quest’ultima invece era totale nei confronti dei nord-
africani (degli algerini in particolar modo). Se fino al
1955 la politica discriminatoria e dirigista fu efficace (nel
1954 vi erano in Francia meno stranieri che nel 1946), a
partire da quell’anno iniziò a prevalere l’idea che
un’immigrazione libera fosse più consona alle esigenze
del sistema produttivo francese. La modalità di ingresso
irregolare dei sans-papiers venne incentivata e l’Oni
relegato al ruolo di passivo legalizzatore dei flussi
clandestini. Il passaggio da un’immigrazione controllata
e legale ad un’immigrazione incontrollata e clandestina
si intensificò sulla spinta di una convergenza tra gli
industriali e i pubblici poteri ormai convintisi, come
rilevato senza troppi giri di parole da Pompidou nel 1963
all’Assemblea Nazionale riunitasi per discutere un
accordo per importare lavoratori dal Marocco, che
«l’immigrazione è un modo per creare una certa
distensione sul mercato del lavoro e di resistere alla
pressione sociale».
Quest’orientamento mutò nuovamente con la circolare
Massenet del 1968, che vietò le regolarizzazioni a
posteriori, dando avvio ad una nuova fase
regolamentatrice che divenne sistematica con
l’attuazione, nel 1974, di una politica restrittiva
appoggiata sia dalla destra che dalla sinistra e mirante a
programmare gli afflussi, bloccare definitivamente gli
ingressi clandestini e regolarizzare gli immigrati presenti
nel Paese. Il numero degli ingressi fu tuttavia sostenuto
dalle politiche dei ricongiungimenti. Il fenomeno
continuò per un suo moto inerziale, assumendo nuovi
connotati: se da un lato l’arrivo di mogli e figli appariva
come un passo necessario verso l’agognata
integrazione del lavoratore straniero nella società
francese, dall’altro poneva le premesse per la
segregazione di intere comunità.
Per alcuni versi, le vicende tedesche furono analoghe
a quelle francesi. Se escludiamo la fase dal 1945 al 1961,
caratterizzata dai consistenti afflussi dei tedeschi
espulsi dalla zona est del Reich – Polonia, Ungheria,
Cecoslovacchia, Jugoslavia – ed in seguito dei tedeschi
della Rdt, anche in Germania nel periodo dal 1961 al
1973 si registrarono massicci ingressi di lavoratori
stranieri fortemente regolati dallo Stato, a cui seguì una
fase di arresto durata dal 1973 fino alla caduta del muro
di Berlino. In Germania, a metà degli anni Cinquanta, nel
corso del cosiddetto miracolo economico, divenne
evidente che il solo contributo degli ingressi di
manodopera altamente qualificata dei tedeschi etnici e
dell’est non era sufficiente a sostenere il processo di
indebolimento e marginalizzazione dei sindacati
avviatosi nel dopoguerra (tra il 1951 e il 1955 il tasso di
sindacalizzazione dei lavoratori tedeschi era sceso da
un picco del 36 per cento al 32 per cento). Ricorrere ai
lavoratori stranieri consentì pertanto di continuare ad
esercitare un’azione disciplinatrice sui salari,
permettendo ai lavoratori indigeni più qualificati di
spostarsi dagli impieghi a bassa specializzazione a
quelli più specializzati e meglio retribuiti. Per conciliare
queste esigenze con la loro indisponibilità ad attuare
politiche integrazioniste, i tedeschi fecero ricorso al
sistema del Gastarbeiter: al “lavoratore ospite”
sarebbero stati accordati permessi di soggiorno di
breve durata e revocabili, scaduti i quali essi dovevano
abbandonare la Germania. Un enorme schema di
rotazione degli immigrati venne montato nel tentativo di
soddisfare anche nel più lungo periodo le esigenze di
manodopera a basso costo dell’industria tedesca,
evitando al contempo ogni radicamento del lavoratore
straniero, da considerarsi appunto solo
temporaneamente “ospite” all’interno del Paese. (Il
primo accordo in tal senso fu raggiunto nel 1955 con il
governo italiano, ansioso di alleggerire le tensioni
generate nel sud del Paese dagli altissimi livelli di
disoccupazione e di assicurarsi al contempo una fonte
di rimesse in valuta.) Nel 1973 il numero dei lavoratori
stranieri presenti in Germania raggiunse il picco di 2,6
milioni, ossia il 12 per cento di tutti i salariati tedeschi. I
saldi tra gli elevati flussi annui di ingressi e espulsioni
erano infatti diventati stabilmente positivi tra il 1968 e il
1973, nell’ordine di circa 400 mila ingressi annui,
segnando una crisi del modello della rotazione. Le
imprese, trovando troppo oneroso continuare a istruire
nuovi lavoratori, ottennero un allentamento della
disciplina dei rinnovi dei permessi di soggiorno e si
iniziò a sviluppare la pratica dei ricongiungimenti.
Il quadro mutò radicalmente a partire appunto dal 1973.
Il manifestarsi di eccedenze di manodopera in tutti i
principali settori dell’economia causato dal
rallentamento della crescita e l’ingresso nel mercato del
lavoro dei nati nel boom demografico dell’immediato
dopoguerra portarono ad un radicale mutamento della
politica migratoria: interdizione del reclutamento
straniero, preferenza per l’occupazione dei disoccupati
tedeschi, blocco dei rinnovi dei permessi di soggiorno
per le mogli e i figli ricongiuntisi dopo il 1974, arresto
dei flussi interni nei Länder in cui la presenza degli
stranieri era superiore al 12 per cento. Il rallentamento
della crescita aveva dato uno spazio politico alla
consapevolezza che il sistema della rotazione non era
stato in grado di impedire il radicamento dei lavoratori
stranieri sul territorio tedesco.
In Germania come in Francia, l’aumento della
disoccupazione ebbe quindi come effetto immediato il
ritorno ad una concezione vincolistica molto forte dei
movimenti internazionali dei lavoratori (con caratteri più
accentuati in Germania, dove il più limitato ricorso alla
pratica dei ricongiungimenti familiari avrebbe
determinato un numero complessivo di presenze
straniere costante se non in leggero calo per oltre un
decennio). Ma la libera circolazione delle persone
riprese all’inizio degli anni Novanta. Secondo i dati
delle Nazioni Unite, la popolazione nata all’estero
presente sul territorio francese passò dai 5,9 milioni del
1990 a 7,8 milioni del 2015 (dal 10,4 per cento al 12,1 per
cento della popolazione totale); quella sul territorio
tedesco dai 5,9 milioni del 1990 ai 12 milioni del 2015
(dal 7,5 per cento al 15 per cento della popolazione
totale); quella nel Regno Unito dai 3,7 milioni del 1990 a
8,5 milioni del 2015 (dal 6,4 per cento al 13,2 per cento
della popolazione totale); quella sul territorio italiano
dagli 1,5 milioni del 1990 a 5,8 milioni del 2015 (dal 2,5
per cento al 9,7 per cento della popolazione totale).
Sufficientemente forti da aspirare alla conquista di uno
spazio per i propri valori culturali e religiosi, meno
disposti del lavoratore immigrato isolato ad aderire ai
principi condivisi che fungevano da collante delle
società ospitanti, di fatto posti ai margini di quelle
stesse società, questi gruppi sociali costituirono in
misura crescente la principale fonte di rinnovo della
popolazione, dato il loro più elevato tasso di natalità, e
si radicarono nelle periferie dei grandi agglomerati
urbani.

5. Tre ordini di circostanze hanno soprattutto


contribuito, in assenza di un inasprimento di limitazioni
e controlli, all’aumento del numero relativo di lavoratori
immigrati sperimentato nel corso degli ultimi decenni
dai maggiori Paesi europei. Il primo fu la crisi e il
successivo collasso del blocco sovietico, che a partire
dalla metà degli anni Ottanta determinarono in Europa
occidentale un’espansione senza precedenti dell’offerta
di lavoro qualificato a basso prezzo. Il secondo fu il
cosiddetto “consenso di Washington”: l’imposizione
sistematica di condizioni molto onerose ai Paesi
beneficiari degli interventi degli organismi finanziari
internazionali – austerità monetaria, drastiche riduzioni
delle spese pubbliche, privatizzazioni – che ha a lungo
favorito l’espulsione di forza lavoro dai Paesi
sottosviluppati o in via di sviluppo, contribuendo alla
creazione di condizioni di offerta di lavoro a basso
prezzo pressoché illimitata per i Paesi industrialmente
più avanzati. Al collasso del sistema sovietico e agli
effetti economici del “consenso di Washington” si
sono aggiunti negli anni più recenti gli effetti dei
conflitti e delle distruzioni in numerosi Paesi del Medio
Oriente e dell’Africa. Le popolazioni in fuga da quei
Paesi hanno alimentato un terzo ingente flusso
migratorio verso l’Europa. Esso può considerarsi come
un effetto indesiderato, probabilmente anche
ottusamente inatteso, delle devastazioni geopolitiche
causate nell’ultimo quindicennio dagli interventi militari
degli Stati Uniti e dei loro alleati europei e medio-
orientali, ed è stato, per così dire, la goccia che ha fatto
traboccare il vaso: l’ostilità nei confronti degli immigrati
è ormai condivisa in Europa dai due terzi della
popolazione, rendendo il problema sempre più
difficilmente gestibile da parte dell’Unione europea, con
pesanti ricadute negative sulla sua coesione interna.
Gli effetti depressivi dell’immigrazione sui salari
dovrebbero essere i più ovvi, in quanto essa si traduca,
per le economie più sviluppate, in un’offerta di lavoro a
basso prezzo praticamente illimitata. Anche quando si
tratti di manodopera non qualificata, o scarsamente
qualificata, l’impatto del fenomeno non resta
circoscritto ai livelli più bassi della scala delle
retribuzioni – ai salari della forza lavoro indigena più
direttamente esposta alla concorrenza degli immigrati –
ma tende ad estendersi ai gradini immediatamente
superiori della scala delle retribuzioni, abbassandone il
livello. (Gli effetti depressivi dell’immigrazione sui salari
sono assimilabili a quelli esercitati da riduzioni
progressive del salario minimo, laddove questo istituto
esista.) Ora, dei tre principali aspetti economici della
mondializzazione, quello del flusso crescente di
lavoratori immigrati è naturalmente il più direttamente
subito, quindi anche quello più apertamente osteggiato,
dai salariati dei maggiori Paesi europei; allo stesso
tempo, però, i suoi effetti negativi sui salari vengono
per lo più negati nella letteratura economica corrente ed
esso è anche l’aspetto della mondializzazione che gode
del maggior favore da parte della sinistra. La netta
ostilità del lavoro dipendente indigeno all’immigrazione,
proprio perché rifiutata dalla sinistra europea come
tema politico, ha notevolmente contribuito alla perdita
della sua base sociale.

6. In una lunga lettera al rettore della moschea di


Parigi, pubblicata dal L’Humanité il 6 gennaio 1981,
l’allora segretario del Pcf Georges Marchais scriveva:

padronato e governo francesi stanno ricorrendo


all’immigrazione massiccia come in altri tempi alla
tratta dei Neri per procurarsi una manodopera di
moderni schiavi, super sfruttati e sottopagati. Grazie
ad essa si realizzano profitti maggiori e si esercita una
pressione più intensa sui salari, le condizioni di
lavoro e di vita, i diritti dell’insieme dei lavoratori,
tanto immigrati che francesi. […] Bisogna fermare
l’immigrazione se non si vogliono condannare altri
lavoratori alla disoccupazione. […] Per essere più
precisi: dobbiamo bloccare l’immigrazione, tanto
quella clandestina che quella ufficiale, ma non
cacciare con la forza i lavoratori immigrati già presenti
in Francia. […] In quelli che sono ormai dei veri e
propri ghetti, già si trovano ammassate famiglie con
tradizioni, lingue e modi di vivere differenti. Ne
derivano tensioni e scontri tra immigrati di diversa
provenienza nonché rapporti sempre più difficili con i
francesi. Al crescere della concentrazione, la carenza
di alloggi si aggrava, l’edilizia popolare diviene
sempre più difficilmente accessibile alle famiglie dei
lavoratori francesi. I costi dell’assistenza ai lavoratori
immigrati e alle loro famiglie che vivono in condizioni
di indigenza diventano sempre più insostenibili per i
bilanci dei comuni maggiormente interessati in
quanto i più popolati da operai e impiegati. La scuola
non riesce più a far fronte alla situazione, ritardi
nell’apprendimento si accumulano, tanto per i figli
degli immigrati che per quelli dei lavoratori francesi.
[…] I livelli di guardia sono stati raggiunti. Non è più
possibile trovare delle soluzioni adeguate se non si
mette fine alla situazione intollerabile creata dalla
politica razzista del padronato e del governo
(corsivo aggiunto).

Nel corso della campagna presidenziale del 1981


Marchais e i comunisti insistettero sulla questione,
cogliendo ogni occasione per difendere le condizioni di
vita dei salariati francesi sempre più compromesse dalla
presenza dei «moderni schiavi, super sfruttati e
sottopagati». Ma i comunisti si ritrovarono
completamente isolati. La stampa, tanto di destra che di
sinistra (Liberation), insieme a schiere di intellettuali e
artisti, fecero a gara nel denunciare «il razzismo del
Pcf». Nel suo libro Le suicide francais (2014), Éric
Zemmour scrive che Marchais fu ridicolizzato e
insultato e che il Pcf capitolò, rinunciando a combattere
l’immigrazione, a seguito di una riunione del suo ufficio
politico nel corso della quale il segretario venne
convinto dai suoi compagni che il partito non era in
grado di resistere al mitragliamento mediatico-politico.
Quella sconfitta lasciò tracce profonde e durature – a
tal punto che dopo di allora vi furono due soli tentativi
degni di nota, all’interno della sinistra in Europa, di
contrastare l’immigrazione, entrambi miseramente falliti:
quello compiuto in Germania da Oskar Lafontaine,
all’inizio del cancellierato di Gerhard Schröder, prima di
dimettersi nel 1999 tanto da ministro dell’Economia che
da presidente della SPD, e quello compiuto in Francia
dal solito Chevènement, prima di dimettersi nel 2000 da
ministro dell’Interno del governo di Lionel Jospin.
Nel corso dell’ultimo trentennio, non solo per la
sinistra modernista ma anche per la sinistra cosiddetta
antagonista la difesa della sovranità nazionale in campo
economico, più in generale della sovranità popolare, ha
cessato di essere bussola di azione politica. Essa rigetta
con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua
ideologia è ormai essenzialmente costituita da una
miscela di antirazzismo e multiculturalismo, una sorta di
cosmopolitismo intriso di marxismo volgare, visto cioè
come un aspetto ineluttabile di quella forza
continuamente sovvertitrice del capitalismo che
sarebbe reazionario oltre che insensato cercare di
contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi
come ad un’“opportunità”. Così, per quanto riguarda la
questione dell’immigrazione, mentre come abbiamo
appena ricordato ancora all’inizio degli anni Ottanta
“razzisti” erano per la sinistra di classe padronato e
governo, che attraverso l’immigrazione stavano
alimentando la formazione di un esercito di «schiavi
moderni super sfruttati e sottopagati», per la sinistra
antagonista “razzista” è ogni manifestazione di
esasperazione popolare nei confronti di questa massa
crescente di moderni schiavi, capace di compromettere
gli esiti principali del conflitto di classe – livelli salariali,
condizioni di lavoro, protezione sociale – e di
sconvolgere le condizioni di vita di interi quartieri. Il
fatto è che tra lavoratori indigeni e lavoratori immigrati
non può esserci che concorrenza e conflitto quando i
secondi siano disposti ad accettare salari e condizioni
di lavoro e di vita inaccettabili per i primi. Tutta la storia
del capitalismo mostra in modo chiaro che tra lavoratori
di diversa provenienza e coscienza di classe non può
esservi alcuna unione o solidarietà. Già nel 1870 Marx
scriveva in una lettera inviata a New York a Sigfrid
Meyer e a August Vogt:

Ma ciò che più conta è che attualmente in Inghilterra


ogni centro industriale e commerciale dispone di una
classe lavoratrice divisa in due campi ostili, i proletari
inglesi e i proletari irlandesi. Il normale lavoratore
inglese odia il lavoratore irlandese come un
concorrente che abbassa il suo standard di vita. […]
Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della
classe lavoratrice inglese, nonostante la sua
organizzazione. È il segreto attraverso il quale la
classe capitalista conserva il suo potere.

L’unione dei “proletari di tutto il mondo” nel conflitto


di classe interno a ciascuna nazione è inconcepibile, a
meno di ipotizzare che i rapporti di forza tra capitale e
lavoro siano sufficientemente omogenei nei diversi
contesti geopolitici. Prima vengono i rapporti di forza
all’interno delle singole nazioni e i loro esiti: se questi
sono abissalmente diversi, allora nelle nazioni più
sviluppate un conflitto interno alla classe lavoratrice,
indigena e immigrata, è inevitabile, con conseguente
indebolimento generale del suo potere contrattuale.
Naturalmente, vi sono forme diverse dall’ “accoglienza
fraterna” degli immigrati per esprimere solidarietà di
classe nei confronti dei lavoratori dei Paesi meno
sviluppati. Opporsi, come nel corso dei Trenta gloriosi,
a ogni forma di aiuto a quei Paesi che non sia
subordinato al perseguimento effettivo di politiche di
crescita dell’occupazione e rivendicare l’erezione di
barriere doganali contro le importazioni da Paesi ad
infimo costo del lavoro sono due forme concepibili di
tale solidarietà.

7. Gli effetti depressivi dell’immigrazione sui salari


erano in passato riconosciuti anche dagli economisti
ortodossi. Così il premio Nobel Paul Samuelson, nella
sesta edizione (1964) del suo influente libro di testo,
scriveva:

Contenendo l’offerta di lavoro, politiche limitative


dell’immigrazione tendono a mantenere elevati i salari.
Al riguardo va tenuto presente il seguente principio
di base: limitazioni dell’offerta di qualsiasi tipo di
lavoro relativamente a tutti gli altri fattori produttivi
tenderanno a far aumentare i salari; un aumento
dell’offerta, tutto il resto rimanendo invariato, tenderà
invece a deprimerli.

Ragionando insomma sulla base di una spiegazione


della distribuzione del reddito in termini di funzioni di
domanda e offerta di fattori produttivi, l’immigrazione
deprime i salari semplicemente perché aumenta l’offerta
di lavoro. Ma l’approvazione incondizionata e fideistica
di ogni aspetto della mondializzazione da parte degli
economisti ortodossi ha prodotto nel corso degli ultimi
trent’anni una voluminosa letteratura di carattere
“empirico” in cui si tende a negare che l’immigrazione
abbia effetti significativi sui salari nei Paesi interessati
dal fenomeno. Qualsiasi misurazione dell’impatto
dell’immigrazione sui salari è resa estremamente
problematica dal fatto che sul loro livello e andamento
agiscono continuamente una molteplicità di circostanze
che non restano immutate a fronte di variazioni dei
flussi migratori. Così, l’assenza di una significativa
correlazione negativa tra immigrazione e salari, come ad
esempio quella riscontrata nel corso degli anni
Sessanta con l’approssimarsi del pieno impiego, può
significare ben poco se non è possibile escludere che
senza immigrazione il livello medio dei salari sarebbe
stato maggiore di quello effettivamente verificatosi. Più
interessanti sono perciò le ragioni teoriche che
vengono tirate in ballo per tentare di spiegare l’assenza
di un significativo effetto depressivo dell’immigrazione
sui salari quale risulterebbe dall’analisi empirica.
Per una prima spiegazione, l’immigrazione avrebbe sì
effetti depressivi sui salari ma essi sarebbero solo
temporanei; nel più lungo periodo tenderebbero a
sparire grazie alla maggiore formazione di capitale
determinata dai più alti profitti e dalla conseguente
maggiore offerta di risparmio. La maggiore formazione
di capitale si tradurrebbe in un aumento della domanda
di lavoro, capace di neutralizzare l’effetto sul salario
d’equilibrio dell’accresciuta offerta di lavoro dovuta
all’immigrazione. Questo tipo di spiegazione poggia
naturalmente sulla validità del postulato tradizionale
della dipendenza degli investimenti dai risparmi;
chiunque riconosca che il volume delle decisioni di
investimento è invece indipendente dall’offerta
(potenziale) di risparmio, e riconosca al contempo che
minori livelli di consumo influiscono negativamente
sulla formazione di capitale perché indeboliscono
l’incentivo ad investire, non avrà alcuna difficoltà ad
ammettere il carattere persistente della tendenza
dell’immigrazione ad esercitare un impatto negativo sui
salari. Una seconda e più frequente spiegazione insiste
piuttosto sulla non-sostituibilità tra lavoro immigrato e
lavoro indigeno, vale a dire sul postulare
implausibilmente che la forza lavoro immigrata
costituisca un’enclave non in grado di incidere sul
salario del lavoro indigeno, che dipenderebbe solo dalla
quantità disponibile di quest’ultimo. Un’eco di questa
spiegazione si riscontra frequentemente sulla stampa,
allorquando vi si afferma che gli immigrati non fanno
concorrenza ai lavoratori indigeni in quanto destinati a
mansioni che i secondi non sarebbero più disposti a
svolgere.
Insieme a queste due spiegazioni principali non
mancano altri tentativi di sostenere teoricamente la
presunta irrilevanza dell’immigrazione per i livelli
salariali dei Paesi industrialmente avanzati. Qui ci
sembra meriti soprattutto segnalare al lettore come
l’esponente di questa letteratura generalmente
riconosciuto come il più autorevole, l’economista
americano George J. Borjas, abbia gradualmente
cambiato idea sulla questione finendo per ammettere
nel 2003 che «l’evidenza empirica suggerisce
invariabilmente che l’immigrazione ha effettivamente
arrecato pregiudizio alle opportunità d’impiego dei
lavoratori indigeni concorrenti […] e che a livello
nazionale essa esercita un effetto considerevole sul
salario dei lavoratori concorrenti».
Allo stesso risultato di Samuelson (e di Borjas), ma per
una strada completamente diversa, si giunge attraverso
la teoria che vede la distribuzione del reddito tra salari e
redditi da capitale e impresa come dipendente dalle
«forze relative dei combattenti» (Marx). Secondo
quest’impostazione l’immigrazione è stata
semplicemente una determinante importante, tra
numerose altre, compresa la condotta della stessa
sinistra, dell’indebolimento del potere contrattuale dei
salariati sperimentato dal capitalismo avanzato nel
corso degli ultimi tre decenni. L’aumento del numero
relativo di lavoratori immigrati si è sommato
all’abbandono delle politiche di pieno impiego e alla
crescita del peso relativo del settore dei servizi,
prodotto dalle delocalizzazioni e dall’apertura alle
importazioni di manufatti dai Paesi a bassi salari, nel
determinare un’influenza decrescente dei sindacati,
l’aumento dei posti di lavoro sottopagati rispetto a
quelli con salari vicini al valore mediano, l’aumento del
tasso di povertà e della quota di percettori di redditi
bassi nella popolazione attiva. È stato essenzialmente
attraverso il settore dei servizi che l’immigrazione ha
contribuito alla diminuzione persistente del salario,
facendo diventare superflue o “di lusso” cose
precedentemente comprese nella normale
“sussistenza”. Sui salari e le condizioni di lavoro del
settore dei servizi, dove già in partenza si trovava
concentrata la maggioranza degli occupati
sindacalmente e socialmente non protetti e peggio
pagati, la concorrenza esercitata dai flussi in
espansione di lavoratori stranieri si è sommata a quella
dei lavoratori indigeni “liberati” dal settore
manifatturiero. Ciò che insomma l’immigrazione ha
contribuito a determinare, specialmente per il tramite del
settore dei servizi, è stato un abbassamento
nell’insieme dell’economia del prezzo minimo del lavoro
che occorre pagare per evitare sia diminuzioni della
produttività individuale che una generale instabilità
sociale. E la riduzione di questo prezzo minimo ha
depresso il livello medio dei salari in quanto esso di
fatto stabilisce uno standard in base al quale tende a
determinarsi la remunerazione della maggior parte dei
lavoratori.
Riguardo poi alla sinistra “antagonista”, sulla quale ci
soffermeremo nell’ultimo capitolo, particolarmente
sconcertante nella sua posizione sull’immigrazione è
stata la tendenza ad ignorare l’aspetto più generale del
problema, forse il più importante. Ci riferiamo
all’«influenza snervante prodotta dall’insicurezza di
vita» (Engels), ossia all’impatto sui lavoratori indigeni
della prossimità fisica a masse in miseria: l’inevitabile
crescente propensione ad accettare salari minori e
maggiore flessibilità prodotta dalla paura di finire nelle
sotto-classi le cui condizioni di vita si dispieghino
quotidianamente sotto i propri occhi.

Nota Bibliografica
Le concezioni dominanti nei Trenta gloriosi sul ruolo
del controllo nazionale della politica monetaria e di
bilancio e del controllo delle transazioni con il resto del
mondo sono discusse, insieme al loro abbandono a
partire dall’inizio degli anni ’80, in M. Pivetti,
“Maastricht e l’indipendenza politica delle banche
centrali: teoria e fatti”, Studi Economici, Vol. L, n. 55,
1995, e, dello stesso autore, in: “Bretton Woods,
through the lens of state-of-the-art macrotheory and
the European Monetary System”, Contributions to
Political Economy, Vol. 12, 1993; “Debito pubblico e
inflazione: sul progetto di unione monetaria europea
come fattore di disciplina”, in A. Graziani (a cura di),
L’economia mondiale in trasformazione, manifestolibri,
Roma 1998; “Monetary versus political unification in
Europe. On Maastricht as an exercise in ‘vulgar’
politica economy”, Revue of Political Economy, Vol. 10,
n. 1, 1998. Sui vincoli posti dal trattato di Maastricht e
dai piani di rientro del debito pubblico in esso
contenuti ad un utilizzo espansionistico della politica
fiscale nei Paesi sottoscrittori si veda A. Barba “Note
sul ‘patto di stabilità e crescita’ ed il rientro del debito
pubblico”, Studi Economici, n. 68, 1999. Sulla
consapevolezza esistente all’inizio degli anni ’80 circa il
cambiamento radicale che stava verificandosi negli
obiettivi della politica economica dei maggiori Paesi
capitalistici, merita vedere l’indagine conoscitiva che
venne promossa in Inghilterra dalla Camera dei Comuni
sugli effetti economici e sociali del cambiamento: House
of Commons, sessione 1979-1980, Treasury and Civil
Service Committee, Memorandum on Monetary Policy,
2 volumi, HMSO, Londra 1980.
Sul libero scambio, gli investimenti e gli arbitrati
internazionali si vedano, oltre ai dati
dell’Organizzazione mondiale del commercio
sull’espansione degli scambi negli ultimi decenni (Omc,
International Trade Statistics 2014), European
Commission, Transatlantic Trade and Investment
Partnership. The economic analysis explained,
Bruxelles, settembre 2013; United Nations Conference
on Trade and Development, Recent developments in
investor-state dispute settlement (ISDS), New York,
maggio 2013; S. Donan, “EU and US pressed to drop
dispute-settlement rule from trade deal”, Financial
Times, 10 marzo 2014, e il contributo apologetico di R.
Rosencrance, The Resurgence of the West: How a
Transatlantic Union Can Prevent War and Restore the
United States and Europe, Yale University Press, New
Haven 2013. Meritano poi di essere segnalati i seguenti
contributi critici sul ruolo del mercato internazionale
come regolatore per eccellenza dell’attività degli Stati e
la loro progressiva sottomissione a una concorrenza
sempre più impermeabile ad ogni norma sociale,
sanitaria e ambientale: H.E. Daly, “The perils of free
trade”, Scientific American, novembre 1993; R.M.
Jennar e L. Kalafatides, AGCS. Quand les Etats
abdiquent face aux multinationales, Raisons d’agir,
Parigi 2007; R.M. Jennar, Le Grand Marché
Transatlantique. La menace sur les peuples d’Europe,
Cap Bear Editions, Perpignan 2014, e, dello stesso
autore, “Cinquante États négocient en secret la
libéralisation des services», Le Monde Diplomatique,
settembre 2014; S. George, Les usurpateurs. Comme les
entreprises internationales prennent le pouvoir, Seuil,
Parigi 2014; T. Porcher e F. Farah, Tafta. L’accord du
plus fort, Max Milo, Parigi 2014. Sul periodico-bibbia
dei libero scambisti, si veda A. Zevin, “’The
Economist’, le journal le plus influent du monde”, Le
Monde Diplomatique, agosto 2012.
Per le vicende francesi relative alle restrizioni
all’immigrazione degli anni Settanta è utile consultare Y.
Gastaut, “La volte-face de la politique française
d’immigration durant les Trente Glorieuses”, Cahiers de
l’URMIS, 5, 1999; per quelle tedesche, si veda W.
Seifert, “Social and Economic Integration of Foreigners
in Germany”, in Path to Inclusion. The Integration of
migrants in the United States and Germany, a cura di P.
Schuck and R. Munz, Berghahn Books, New York e
Oxford 1998. I dati relativi ai nati all’estero presenti nei
maggiori Paesi europei sono tratti da International
Migrant Stock, The 2015 Revision, Nazioni Unite, New
York 2015. La citazione di Pompidou a p… è da Le
peuple, Organe du syndicat Cgt, novembre 1963.
Un’ampia rassegna della letteratura neoclassica cui
abbiamo fatto riferimento nel testo, relativa agli effetti
dell’immigrazione sui salari, è contenuta in D.B.
Bodwarsson e H. Van der Berg, The Economics of
Immigration. Theory and Policy, Springer, Heildelberg,
Londra e New York 2009. Di G.J. Borjas, il principale
autore neoclassico in materia, si vedano: “The labor
demand curve is downward sloping: reexamining the
impact of immigration on the labor market”, The
Quarterly Journal of Economics, novembre 2003;
“Increasing the supply of labor through immigration.
Measuring the impact on native-born workers”, Center
for Immigration Studies Backgrounder, 2004, e,
insieme a L. Katz, “The evolution of the Mexican-born
workforce in the United States”, in Mexican
Immigration to the United States, University of
Chicago Press, Chicago 2007.
La nozione classico-marxiana del salario è analizzata in
M. Pivetti, “Il concetto di salario come ‘costo e
sovrappiù’ e le sue implicazioni di politica economica”,
in M. Pivetti (a cura di), Piero Sraffa. Contributi per
una biografia intellettuale, Carocci, Roma 2000. Il
brano di Marx sulla divisione della classe lavoratrice in
due campi ostili, citato nella sez. 5, è tratto da Karl
Marx and Friedrich Engels; Selected Correspondence,
Progress Publishers, Mosca 1975 (lettera del 9 aprile
1870). La citazione di Engels alla fine del capitolo è
tratta da La condizione della classe operaia in
Inghilterra (1845), il cui capitolo sull’immigrazione
irlandese illustra la lotta dell’operaio inglese “con un
concorrente che sta nel gradino più basso che è
possibile in un Paese civilizzato e che perciò abbisogna
di un salario minore di chiunque altro”.
Capitolo V

La “corsa alla modernita”: istituzioni del


mercato del lavoro e ruolo dello stato

1. Discusso nel capitolo precedente il tema delle


relazioni con il resto del mondo, concentreremo ora
l’attenzione sui canali più interni attraverso i quali la
svolta compiuta dalla sinistra ha prodotto in Europa il
cambiamento delle condizioni di potere e distributive
cui abbiamo assistito nel corso dell’ultimo trentennio.
Istituzioni del mercato del lavoro, politica tributaria e
Stato sociale, privatizzazioni e decentramento
amministrativo sono i principali aspetti interni del
cambiamento che prenderemo in considerazione.
La vicenda europea dalla fine della seconda guerra
mondiale ai nostri giorni mostra in modo chiaro come
organizzazioni dei lavoratori e Stato centrale tendano a
rafforzarsi o a indebolirsi vicendevolmente.
L’indebolimento dei sindacati e la decrescente
importanza del ruolo dello Stato nella distribuzione del
reddito rappresentano i due lati di una stessa medaglia,
così come l’istituzione nel primo trentennio post-bellico
di sistemi tributari marcatamente progressivi, dei servizi
sanitari nazionali, di sistemi generali d’istruzione gestiti
dallo Stato, di generosi sistemi pensionistici pubblici e
di cospicui apparati produttivi di proprietà pubblica fu
allo stesso tempo il riflesso e la condizione di un
crescente potere contrattuale del lavoro dipendente e
delle sue organizzazioni all’interno delle società
europee. Ma l’esperienza del capitalismo avanzato ha
anche rivelato, in primo luogo per quanto riguarda le
istituzioni del mercato del lavoro, la presenza di
un’asimmetria importante nei processi di cambiamento
che le hanno interessate: mentre istituzioni “benigne”
nei confronti dei salariati si erano andate costituendo
faticosamente durante un lungo periodo di tempo in
condizioni storico-sociali complesse, la loro
eliminazione o il loro ridimensionamento sono stati
molto più semplici e rapidi proprio perché hanno potuto
avvalersi della collaborazione della sinistra.

2. In ogni economia capitalistica avanzata, lo stato


generale dell’occupazione può essere considerato come
il contesto di fondo con il quale interagiscono tutti gli
altri principali determinanti della forza contrattuale dei
salariati e dell’andamento dei salari reali. Come abbiamo
già messo in luce nel secondo capitolo, agli alti e
persistenti livelli di disoccupazione hanno corrisposto,
da una parte, la riduzione del potere dei sindacati e
dello stesso tasso di sindacalizzazione; dall’altra, un
maggior peso della contrattazione salariale al livello
della singola impresa, ossia una minore estensione
all’insieme della forza lavoro, attraverso meccanismi
formali o informali, delle condizioni salariali e di lavoro
stabilite in sede di contrattazione collettiva nazionale.
Agli effetti negativi sul livello medio dei salari generati
dalla riduzione del potere contrattuale dei sindacati si
sono perciò sommati quelli generati dalla decrescente
influenza degli esiti della contrattazione collettiva sui
livelli salariali della forza lavoro non sindacalizzata. È
ampiamente riconosciuto che i livelli salariali conseguiti
dai lavoratori sindacalizzati attraverso la contrattazione
collettiva tendono a costituire un determinante del
livello generale dei salari, anche quando non
esplicitamente stabilito dalle leggi. Gli esiti della
contrattazione collettiva diventano uno standard di
riferimento di ciò che i lavoratori si aspettano dalle
imprese; inoltre, le imprese operanti in settori
scarsamente sindacalizzati, proprio per non
incoraggiare una maggiore sindacalizzazione al loro
interno, sono indotte a pagare salari più elevati di quelli
che sono disposte a pagare in assenza di contrattazione
collettiva.
Naturalmente rientrano tra le istituzioni “benigne” nei
confronti dei salariati le cosiddette rigidità del mercato
del lavoro, ovvero quell’insieme di garanzie a tutela del
lavoro dipendente istituite nel corso del tempo in
Europa e via via incorporate nelle legislazioni
lavoristiche grazie alla pressione esercitata dalla sinistra
e dai sindacati: dai limiti alla libertà di licenziamento
delle imprese alle varie forme di assicurazione contro la
disoccupazione; dai vincoli stabiliti dalla legge in
materia di assunzioni e durata dei contratti alla
regolamentazione dei tempi di lavoro e dei periodi di
ferie retribuite. Ma la minore forza contrattuale dei
lavoratori, determinata dall’aumento persistente della
disoccupazione, è andata di pari passo con la
conversione della sinistra alla flessibilità del mercato
del lavoro. Ne sono risultati dei cambiamenti
sfavorevoli ai salariati in tutte queste istituzioni. Ciò ha
contribuito ad abbassare il livello minimo dei salari reali
compatibile con l’ordinato svolgimento del processo
produttivo e la stabilità sociale. Con quei cambiamenti,
infatti, per le imprese è divenuto sempre più facile e
meno costoso sostituire i lavoratori e per questi ultimi
sempre più difficile sia trovare un’occupazione stabile
che sopportare la condizione di disoccupato. La
riduzione dei redditi da lavoro dipendente che ne è
derivata ha teso ad autoalimentarsi perché in tutto il
capitalismo avanzato salari e stipendi costituiscono la
quota preponderante del reddito complessivo delle
famiglie (pressoché la sua totalità per quanto riguarda
le famiglie a medio e basso reddito), sicché ogni
riduzione dei redditi da lavoro dipendente, attraverso il
suo impatto sui consumi, ha ripercussioni negative
sulla domanda aggregata e l’occupazione, creando i
presupposti di ulteriori cambiamenti nella distribuzione.
Merita qui di essere sottolineata l’esistenza di una
stretta connessione tra l’abbandono delle politiche
pubbliche di gestione della domanda aggregata
finalizzate al mantenimento di alti livelli di occupazione
e la progressiva riduzione dell’insieme delle tutele
giuridiche dei lavoratori. Un buon grado di protezione
degli occupati e dei disoccupati è a ben vedere
concepibile nel capitalismo solo in presenza di politiche
di pieno impiego, di modo che l’abbandono di queste
ultime ha portato con sé anche il progressivo
smantellamento del sistema di garanzie istituito a difesa
del lavoro dipendente. L’economia di mercato è infatti
incompatibile con un sistema avanzato di istituzioni a
tutela del lavoratore in assenza di una politica
economica volta a neutralizzare il suo principale
“fallimento”, ovvero la sua incapacità di assicurare
l’assorbimento di tutto quanto il sistema è via via in
grado di produrre. Le imprese non assumono se non
sono libere di licenziare a piacimento, né di scegliere chi
e come assumere, a meno che non possano
ragionevolmente contare, alla luce dell’esperienza, su di
una crescita stabile della domanda dei loro prodotti e
quindi dei loro livelli di attività. Le garanzie a difesa dei
lavoratori sono state possibili e si sono diffuse in
Europa nei trent’anni successivi alla seconda guerra
mondiale perché tra gli imprenditori era allora diffusa la
consapevolezza che l’obiettivo primario della politica
economica era il mantenimento di alti livelli di
occupazione, a loro volta ritenuti indispensabili dai
governi per la stabilità sociale.

3. Così come, direbbe Marx, «senza teoria nessuna


rivoluzione», anche una restaurazione ha bisogno di
una teoria adatta a provvedere il suo percorso di
giustificazioni analitiche che ne facilitino la
realizzazione. La sinistra complice della restaurazione
liberista in Europa ha semplicemente fatto propria la
teoria economica dominante, per la quale concorrenza e
flessibilità in tutti i mercati, a partire da quello del
lavoro, è tutto quanto occorre per assicurare, insieme
all’allocazione ottima delle risorse, l’adeguamento
automatico del prodotto effettivo dell’economia al suo
prodotto potenziale e la piena occupazione. Posto che i
salari siano flessibili verso il basso in presenza di
disoccupazione involontaria, produzione e occupazione
aumenteranno insieme alla domanda di lavoro da parte
delle imprese e variazioni del tasso di interesse si
incaricheranno di portare in equilibrio anche il mercato
dei beni, assicurando che tutta la parte dell’accresciuta
produzione non assorbita dai consumi delle famiglie sia
assorbita dagli investimenti decisi dalle imprese. Per la
visione dominante, questa interazione tra il mercato del
lavoro e il mercato del prodotto, di cui la flessibilità
salariale costituisce l’elemento cruciale, andrebbe
avanti fino al raggiungimento del pieno impiego.
Facendo propria questa visione, la sinistra ha finito per
individuare proprio nei lavoratori sindacalizzati e nelle
loro “resistenze” l’ostacolo principale alla crescita
dell’occupazione. Gli occupati stabili si sono così
trasformati da componente più avanzata dei salariati sul
fronte del conflitto distributivo a principale nemico dei
disoccupati.
È impossibile riscontrare nella realtà – in particolar
modo in quella dell’ultimo trentennio – una qualsivoglia
conferma della validità della visione dominante. Gli
ultimi tre decenni hanno visto in tutto il capitalismo
avanzato e specialmente in Europa livelli di
disoccupazione molto più elevati che nel trentennio
precedente, nonostante i mercati del lavoro siano
divenuti dappertutto molto più flessibili. Questa
“fastidiosa” evidenza empirica ha indotto l’economista
neoclassico Gregory Mankiw (multimilionario grazie al
suo costoso e vendutissimo Principi di economia) a
considerare un “mistero” l’aumento della
disoccupazione sperimentato dal capitalismo avanzato
negli ultimi decenni. Di fatto non si troverà proprio
niente di misterioso nel fenomeno quando non si perda
di vista che già da molto tempo ormai la critica della
teoria economica ha invalidato l’intero apparato
analitico in base al quale viene generalmente postulata
l’esistenza di una relazione inversa tra salari e
occupazione. Ma il punto è che, purché si impieghino
nella bisogna mezzi adeguati, critica teorica ed evidenza
empirica possono essere fatti perdere di vista. E non c’è
dubbio che mezzi adeguati vengono effettivamente
impiegati senza scrupoli e senza badare a spese, in
gioco essendoci niente di meno che il consolidamento
di un cambiamento delle condizioni di potere e
distributive quale quello avvenuto in Europa.
La sinistra complice della restaurazione liberista si è
fatta bandiera negli ultimi decenni di ogni esperienza
che sembrasse provare la rilevanza per i livelli
occupazionali di una maggiore flessibilità del mercato
del lavoro. Negli anni Novanta il “chiaro esempio” era
costituito dal caso americano, dove si registrava una
crescita relativamente elevata della domanda interna
nonostante il mutamento della distribuzione dei redditi
avverso ai salariati ed un orientamento restrittivo della
politica fiscale. Chiaritosi con la crisi che nessuno
stimolo agli investimenti ne era derivato e che i
maggiori consumi erano stati generati da un processo
di crescente indebitamento delle famiglie insostenibile
nel più lungo periodo, all’inizio del decennio
successivo l’attenzione si è rivolta agli interventi sul
mercato del lavoro del socialdemocratico Gerhard
Schröder, divenuto cancelliere in Germania nel 1998. Tra
le maggiori nazioni dell’Europa continentale, la
Germania è effettivamente quella che dalla fine degli
anni Novanta ha avuto il tasso di disoccupazione più
basso; allo stesso tempo, è quella che ha sperimentato,
insieme al maggior calo dell’incidenza della
contrattazione collettiva nella determinazione dei salari,
la maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro –
compreso il taglio dei sussidi di disoccupazione,
l’obbligo per i disoccupati di accettare un lavoro e il
maggior aumento di tutte le forme di occupazione
atipica – con il risultato che alla vigilia dello scoppio
della crisi (2008) l’incidenza dei bassi salari (quelli
inferiori ai 2/3 del salario mediano nazionale)
sull’occupazione complessiva vi aveva quasi raggiunto
il livello statunitense e superato quello del Regno
Unito. Ma, come per il caso statunitense, anche per
quello tedesco la relazione inversa tra salari e
occupazione non ha avuto niente a che vedere con i
postulati della teoria economica dominante. In regime di
moneta unica, i bassi salari hanno semplicemente reso
più competitivi i prodotti tedeschi. Si è trattato in
pratica di una svalutazione, attuata dalla Germania
attraverso i salari anziché attraverso il cambio, che
nonostante la stagnazione dei suoi consumi interni è
riuscita a sostenere i livelli occupazionali attraverso
flussi crescenti di esportazioni nette di beni e servizi.
Questo punto suggerisce una riflessione sul gioco delle
parti attualmente in atto in Europa, gioco nel quale la
sinistra del continente si trova interamente coinvolta.
Mentre tutte le economie possono riuscire a crescere
simultaneamente attraverso l’espansione dei loro
mercati interni, una crescita simultanea di tutte
attraverso le esportazioni nette di beni e servizi è
inconcepibile: alle esportazioni nette delle une
corrispondono necessariamente importazioni nette da
parte delle altre. La via tedesca al sostegno
dell’occupazione non è percorribile dall’insieme dei
Paesi capitalisti. Ci troviamo pertanto in Europa di
fronte al seguente paradosso: in un’unione di mezzo
miliardo di persone, il ruolo di guida viene lasciato a
una nazione che alla sua totale inadeguatezza storico-
culturale a svolgerlo, somma il fatto che, pur essendo
divenuta a seguito della riunificazione la maggiore
nazione europea, non cresce e non trascina la crescita
degli altri attraverso l’espansione continua del proprio
cospicuo mercato interno, ma si adopra invece con ogni
mezzo per vendere agli altri i volumi crescenti di
produzione che la sua atavica parsimonia non le
consente di assorbire. Il grado di successo di questa
strategia di crescita dipende crucialmente dalla misura
in cui essa non sia perseguita anche dai suoi partner
commerciali. Non appena la flessibilità del mercato del
lavoro e l’austerità hanno incominciato ad essere
imitate da tutti in Europa e la domanda proveniente dai
Paesi in via di sviluppo ha rallentato, la contrazione dei
livelli di vita per la maggioranza della popolazione è
diventato un disastro continentale, destinato a
coinvolgere presto o tardi la stessa “nazione guida”.
Ma nel ritardare il più possibile l’esplosione sociale
provocata dall’aumento continuo della parte destinata
ai ricchi di prodotti nazionali tendenzialmente stagnanti,
la grossa Germania sta giocando il ruolo dell’utile
idiota: il suo relativo successo può continuare ad
essere dappertutto additato come prova
dell’opportunità di non interrompere la restaurazione
liberista; allo stesso tempo, se in questo o quel
contesto la situazione diviene particolarmente
problematica, i governi locali possono agevolmente
imputarne la responsabilità all’eccessiva rigidità della
“nazione guida”.

4. L’esperienza del capitalismo avanzato dalla fine della


seconda guerra mondiale rivela l’esistenza di
connessioni significative anche tra lo stato generale
dell’occupazione e quella parte dello standard di vita
del lavoro dipendente di una nazione che è determinato
dalle forme del prelievo fiscale e da alcune importanti
componenti della spesa pubblica, come sanità,
pensioni, istruzione, edilizia abitativa, trasporti. Lo
sviluppo dello Stato sociale è stato in Europa l’aspetto
principale delle “politiche dei redditi”, ossia del
cosiddetto scambio sociale. Si trattava di fare in modo
che, pur in presenza di bassi tassi di disoccupazione e
di rapporti di forza conseguentemente favorevoli al
lavoro dipendente, la crescita dei salari monetari si
mantenesse per quanto possibile entro i limiti della
crescita della produttività del lavoro al fine di non
pregiudicare la profittabilità degli investimenti privati o
compromettere la competitività internazionale della
produzione interna. In sostanza, attraverso lo Stato
sociale, la forza contrattuale dei lavoratori si traduceva
in una certa misura in un’espansione dei servizi
collettivi anziché incidere direttamente sui margini di
profitto delle imprese.
Con il cambiamento degli obiettivi della politica
economica, al crescere della disoccupazione e al
diminuire del potere contrattuale dei sindacati anche il
mantenimento di uno Stato sociale generoso, ma
fiscalmente oneroso per i ceti abbienti, è divenuto
sempre meno necessario. Esso è apparso divenire
anche sempre più insostenibile, da una parte per
l’impatto negativo del nuovo orientamento
deflazionistico della politica economica sulla crescita
del reddito e delle entrate tributarie, dall’altra per la
riduzione, imposta dalla liberalizzazione finanziaria, della
progressività generale dei sistemi di tassazione. Siamo
qui di fronte all’interconnessione sulla quale abbiamo
attirato l’attenzione del lettore all’inizio del capitolo e
cioè al fatto che forza contrattuale del sindacato e
importanza del ruolo dello Stato nel conflitto
distributivo tendono a crescere o a diminuire insieme.
All’aumentare della disoccupazione e all’indebolirsi dei
sindacati, non solo i salari hanno preso a crescere
sistematicamente meno della produttività del lavoro, ma
la spesa sociale è stata ridimensionata parallelamente
alla diminuzione della progressività dei sistemi
impositivi (cfr. cap. II, pp. 65-67).
Tanto le riduzioni della progressività dell’imposizione
che le riduzioni delle spese sociali hanno agito
negativamente sulla domanda aggregata. Nei limiti in
cui la minore spesa sociale è stata compensata da
maggiori spese private per la sanità, le pensioni e
l’istruzione, sono diminuite corrispondentemente le
disponibilità delle famiglie a medio-basso reddito per
altre spese e così sono diminuiti i livelli di attività e
l’occupazione. Anche in questo caso dunque, come in
quello discusso nella sez. 2, il processo ha teso ad
autoalimentarsi: uno Stato sociale generoso è divenuto
sempre meno sostenibile, ma anche sempre meno
necessario a causa del progressivo indebolimento della
forza contrattuale dei sindacati.

5. Nelle tre maggiori nazioni continentali si sono avute


delle differenze importanti rispetto ai canali interni più
interessati dalla svolta compiuta dalla sinistra. La
“corsa alla modernità” della sinistra tedesca ha
riguardato specialmente le istituzioni del mercato del
lavoro e la tassazione dei redditi delle società e dei
redditi più elevati delle persone fisiche, le cui aliquote
impositive sono state considerevolmente ridotte; quella
della sinistra francese si è tradotta soprattutto nel
ridimensionamento dell’istruzione pubblica, a tutti i
livelli, oltre che nell’abbassamento delle aliquote
impositive sui redditi più elevati; quella della sinistra
italiana ha colpito specialmente la spesa pubblica per le
pensioni e per la sanità.
Sia in Francia che in Germania la spesa sanitaria è stata
la componente della spesa sociale che ha subito il
ridimensionamento minore (tanto in percentuale del Pil
che in termini di spesa pro-capite). Pur con i tagli decisi
dopo la crisi del 2008 per sottostare ai vincoli di
bilancio europei, non si è avuto in queste due nazioni
niente di paragonabile ai ridimensionamenti della spesa
sanitaria attuati in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Si
può parlare per la Francia e la Germania di stagnazione
piuttosto che di riduzione netta in termini reali delle
risorse impegnate. Anche per la Francia e la Germania,
tuttavia, un peso crescente nel corso degli ultimi due
decenni delle assicurazioni private rispetto alle
assicurazioni sociali obbligatorie rivela la tendenza a
maggiori diseguaglianze nell’assistenza sanitaria, pur se
molto più contenute di quelle determinate in Italia e
altrove dai tagli lineari per medici, posti letto, acquisti di
beni e servizi e dalle diminuite possibilità di accesso
fisico ed economico alle cure (con l’allungamento delle
liste di attesa e i forti aumenti delle spese di
partecipazione dei cittadini in campo specialistico).
Soprattutto due circostanze contribuiscono a spiegare
la maggiore cautela della Francia e della Germania nel
ridimensionamento delle rispettive sanità pubbliche.
Innanzitutto una più antica e profonda consapevolezza
della loro importanza primaria per il mantenimento della
pace sociale in contesti di generale peggioramento delle
condizioni materiali di vita per la maggioranza della
popolazione, quali quelli connessi con una
disoccupazione persistentemente elevata, precarietà
diffusa e bassi salari. Legata a questa consapevolezza
può considerarsi la tendenza riscontrabile in entrambe
le nazioni a reinvestire nella sanità stessa le risorse
risparmiate con razionalizzazioni e riduzioni di sprechi,
piuttosto che destinarle a riduzioni del disavanzo
pubblico e ad obiettivi di rientro del debito. In secondo
luogo, in entrambe le nazioni una conoscenza molto più
diffusa che altrove del caso statunitense, con il suo
pessimo e costosissimo sistema sanitario privato
(classificato dall’Organizzazione mondiale della sanità al
37° posto nel mondo, con 50 milioni di americani privi di
qualunque copertura sanitaria nonostante una spesa
pro-capite più che doppia di quella francese e tedesca)
ha seriamente ostacolato il diffondersi nella
popolazione del preconcetto della maggiore efficienza e
qualità di servizi sanitari privati. Allo stesso modo,
nessun cittadino francese o tedesco sceglierebbe di
affidare la cura della propria salute alle strutture
dell’inglese National Health Service, dopo la sua
“mercatizzazione” nel corso degli ultimi venticinque
anni, così come nessuno si sarebbe sognato di lodare
lo sgangherato sistema ferroviario britannico dopo le
privatizzazioni dell’era Thatcher-Blair.
Nel campo dell’istruzione, invece, è la Francia la
nazione europea che nel corso degli ultimi tre decenni
ha subito i cambiamenti più rilevanti rispetto a un
sistema originario pubblico centralizzato, gratuito e
marcatamente meritocratico. A seguito delle leggi sul
decentramento del 1982 e del 1983, il peso dello Stato
nel finanziamento della spesa complessiva per
l’istruzione è sensibilmente diminuito a favore di quello
degli enti territoriali. La Francia è allo stesso tempo
passata dal secondo all’undicesimo posto tra i Paesi
dell’Ocse per la parte del Pil destinata alla scuola
primaria e secondaria. Questo, nonostante il maggior
peso nella sua popolazione dei giovani in età scolare (il
20 per cento della popolazione francese ha un’età
compresa tra i 5 e i 18 anni, contro il 15 per cento sia in
Germania che in Italia). Il ridimensionamento
dell’impegno pubblico ha colpito anche la scuola
materna, e, all’estremo opposto, l’istruzione superiore.
Nella prima, a fronte di un rapido aumento del numero
di bambini nella fascia di età 2-5 anni, non
accompagnato dall’apertura di classi supplementari, il
tasso di scolarizzazione è caduto nel corso dell’ultimo
trentennio dal 35 per cento al 20 per cento
(raggiungendo valori bassissimi, intorno al 5 per cento,
proprio nei dipartimenti con le difficoltà economiche e
sociali più acute). La conseguenza naturalmente è stata
un forte aumento della scolarizzazione privata e della
spesa delle famiglie. Anche nell’istruzione superiore le
debolezze crescenti dell’università pubblica hanno
aumentato le possibilità di sviluppo del settore privato.
A fronte del raddoppio del numero degli studenti –
nell’istruzione superiore sono attualmente 2 milioni e
mezzo contro 1,2 milioni nel 1980 – il peso del
finanziamento pubblico è andato continuamente
diminuendo così che il settore privato raccoglie
attualmente il 20 per cento degli studenti contro il 13
per cento nel 1990. Secondo l’Insee (l’Istituto nazionale
di statistica), nell’istruzione superiore negli ultimi dieci
anni ben l’80 per cento dell’aumento del numero degli
studenti si è rivolto a istituzioni private. Insomma, con
l’indebolimento dell’istruzione pubblica nel corso degli
ultimi decenni, il peso dell’istruzione privata è
incontestabilmente aumentato in Francia a tutti i livelli
del sistema educativo insieme alla posizione delle
scuole private nella gerarchia qualitativa degli istituti e
all’incidenza delle spese per l’istruzione sui bilanci delle
famiglie. I livelli crescenti di disoccupazione,
aumentando la concorrenza tra i giovani per l’accesso
all’impiego, hanno contribuito all’espansione della
domanda, quindi dell’offerta, di servizi d’istruzione
privati: il ricorso da parte di alcuni a una preparazione
privata migliore o supplementare costringe gli altri ad
allinearsi, al costo di doversi indebitare. Naturalmente
non si è ancora, per l’università, in una situazione
comparabile a quella statunitense, dove l’indebitamento
degli studenti è ormai fuori controllo ed è scarsamente
suscettibile di essere ripagato visto l’andamento
dell’occupazione e dei salari. Tuttavia, con la complicità
della sinistra, i principi repubblicani di uguaglianza e
gratuità sono ormai diventati delle parole sempre più
vuote: secondo un rapporto della Corte dei conti
francese, la Francia è oggi una delle nazioni sviluppate
in cui gli esiti dell’istruzione sono più fortemente
correlati all’estrazione sociale degli studenti e allo
statuto culturale delle loro famiglie e in cui maggiore è il
peso sui loro risultati della composizione sociale
dell’istituto scolastico frequentato. Nelle parole di un
docente di scienze economiche e sociali di un
prestigioso liceo parigino:
un’offerta privata diversificata e di buon livello è
esplosa nel corso degli ultimi anni in risposta al
degrado del servizio pubblico sempre più a corto di
soldi e a una domanda sociale sempre più forte,
alimentata dalla volontà disperata dei genitori di
riuscire a far entrare i loro figli nell’ascensore sociale
o, almeno, di evitare loro la disoccupazione. L’insieme
di queste nuove offerte costituisce ormai un sistema,
un arcipelago dalla ramificazioni infinite, di cui il
denaro costituisce la chiave di accesso.

Per quanto riguarda la previdenza pubblica, è stata


soprattutto la sinistra italiana ad essersi distinta nella
sua “riforma”. Alla fine degli anni Sessanta (legge
Brodolini del 1969) la sinistra era riuscita a far adottare
in Italia un generoso sistema pensionistico pubblico a
ripartizione, di tipo retributivo, con elevato rapporto tra
pensione e ultima retribuzione e prestazioni indicizzate
in base al costo della vita, successivamente anche in
base alla dinamica dei salari, capace di preservare al
termine della vita attiva gli standard di vita acquisiti
dalle diverse categoria di lavoratori dipendenti. (Il
sistema presentava senza dubbio dei difetti – in
particolare lasciava spazio a dei comportamenti
opportunistici da parte di questa o quella categoria di
lavoratori dipendenti – che tuttavia avrebbero potuto
essere emendati senza troppe difficoltà.) Ma all’inizio
degli anni Novanta la sinistra italiana si convertì all’idea
che la collettività non poteva più permettersi di
assicurare ai suoi anziani pensioni elevate e indicizzate
ai salari, e che se il livello medio delle pensioni
pubbliche non fosse stato ridotto il loro onere avrebbe
necessariamente finito per determinare una caduta
sostanziale del tenore di vita degli occupati. Insomma,
giovani contro anziani, occupati contro disoccupati,
ogni istanza divisiva in grado di occultare il comune
interesse di classe dei salariati era colta con prontezza
dalla sinistra, desiderosa di muoversi su un terreno sul
quale le forze di destra avrebbero incontrato ben altre
resistenze.
Iniziò così, con la legge Amato del 1992, il processo di
ridimensionamento delle prestazioni della previdenza
pubblica. Questo processo è sostanzialmente avvenuto
innestando nel sistema il principio dell’ “ognuno per
sé”, sia attraverso il passaggio graduale dalla
ripartizione di tipo retributivo a una di tipo contributivo,
sia incoraggiando lo sviluppo di un sistema
complementare di fondi pensione privati, deputato a
evitare che le decurtate prestazioni pensionistiche
pubbliche si traducessero a regime in intollerabili livelli
di povertà per gli anziani. Con il nuovo sistema
contributivo la pensione dipende dall’ammontare totale
dei contributi versati nel corso della vita attiva ed è
perciò tanto più bassa quanto più a lungo si sia rimasti
disoccupati o sottopagati; essa è inoltre tanto più
bassa, dato l’ammontare dei contributi versati, quanto
più lunga l’aspettativa di vita al momento del
pensionamento.
Tanto la sinistra che i sindacati sposarono
acriticamente la tesi che l’invecchiamento della
popolazione rendesse ineludibile l’abbandono del
vecchio sistema pensionistico. In realtà, l’aumento del
rapporto tra gli anziani e la popolazione in età da lavoro
non comportava affatto, di per sé, l’insostenibilità di
lungo periodo del vecchio sistema. Infatti, l’incidenza
della spesa pensionistica pubblica sul Pil dipende –
oltre che dal rapporto tra gli anziani e la popolazione in
età da lavoro e dal livello medio delle pensioni – dal
prodotto per occupato e da quanta parte della
popolazione in età da lavoro partecipa alla forza lavoro
e diviene effettivamente occupata. Ora, tutte queste
grandezze, non solo il livello medio delle pensioni, sono
controllabili nel medio-lungo periodo dalla politica
economica. Tasso di partecipazione e prodotto per
occupato dipendono infatti in larga misura dai livelli
occupazionali: se questi vengono mantenuti
sufficientemente elevati da politiche sistematicamente
espansive, il conseguente maggiore potere contrattuale
dei salariati si traduce prima o poi in più alti livelli
salariali che da una parte incoraggiano la partecipazione
e dall’altra spingono le imprese al miglioramento delle
tecniche per cercare di compensare i più alti salari con
una più alta produttività del lavoro. L’esperienza di
questi ultimi decenni ha poi mostrato che i tassi di
fertilità – dunque anche il fenomeno demografico
dell’invecchiamento della popolazione – dipendono
largamente dalla stato dell’economia e dal benessere
generale della collettività e sono pertanto suscettibili di
essere influenzati dall’orientamento della politica
economica.
L’incapacità della sinistra di cogliere questo nesso tra
fertilità e benessere economico l’ha spinta ad assumere
al riguardo una posizione che sfiora il paradosso. Essa
riconosce la necessità di innalzare i tassi di fertilità
ormai giunti a livelli insufficienti a garantire anche la
sola stazionarietà della popolazione. Ma questo
riconoscimento è tutto asservito all’argomento che gli
immigrati, con i loro più alti tassi di fertilità, devono
aumentare per “ringiovanire la popolazione e pagarci le
pensioni”. Ciò equivale a confondere la soluzione con il
problema: gli effetti sui salari dell’accresciuta
immigrazione sono infatti tra le cause principali del calo
della fertilità e del conseguente invecchiamento della
popolazione.
Va infine aggiunto che la presenza stessa di un sistema
pensionistico pubblico generoso, nei limiti in cui, una
volta istituito, il suo smantellamento fosse
politicamente inconcepibile, agisce da fattore
incorporato di crescita. Direttamente, perché accresce la
propensione al consumo dell’economia e quindi stimola
anche la formazione di capitale; indirettamente, perché
tende ad imporre un orientamento espansivo alla
politica economica dal momento che i suoi responsabili
sono naturalmente interessati a contenere il più
possibile, attraverso una crescita sostenuta del
prodotto, l’onere delle pensioni sulla loro base
elettorale. Il punto però è che non c’è nessuna
conquista – nessun importante fattore di coesione
sociale del tipo del sistema previdenziale istituito in
Italia nel 1969 – il cui smantellamento possa
considerarsi politicamente inconcepibile. La vicenda
della sinistra europea nel corso dell’ultimo trentennio
ce lo ha rivelato in modo inconfutabile.

6. Soffermiamoci ora sulle privatizzazioni, uno dei


canali principali attraverso i quali la sinistra ha
contribuito a produrre in Europa il cambiamento delle
condizioni di potere e distributive a favore dei
percettori di redditi da capitale e impresa. In un
contesto di tendenziale stagnazione, per i capitalisti e i
loro rappresentanti l’unico modo per poter continuare
ad assicurarsi la crescita dei profitti è quello di
accaparrarsi una quota più grande del prodotto sociale,
abbassando i salari e appropriandosi di pezzi
dell’apparato produttivo precedentemente riservati allo
Stato.
Come abbiamo rilevato nel secondo capitolo, le
privatizzazioni, avviate in Europa dalla destra alla fine
degli anni Settanta, raggiunsero il loro apice nel corso
degli anni Novanta ad opera soprattutto di forze
politiche di sinistra: in Francia Jospin, dal 1997 al 2002,
privatizzò più dei governi Balladur e Juppé; in Italia, tra
il 1996 e il 2000 i governi Prodi, D’Alema e Amato
realizzarono le grandi privatizzazioni delle banche e
delle telecomunicazioni; in Inghilterra, Blair aprì
all’impresa privata il territorio dei servizi pubblici
essenziali (carceri, ospedali e istruzione) attraverso le
privatizzazioni striscianti dei partenariati pubblico-
privato.
Se la destra aveva presentato i programmi di
privatizzazione come una scelta politica di netta cesura
con l’assetto dei Trenta gloriosi, esplicitamente volta a
muovere il primo fondamentale passo verso la
marginalizzazione dell’intervento pubblico
nell’economia e l’indebolimento delle rappresentanze
sindacali, il favore della sinistra europea si è basato su
argomenti in apparenza più sfumati e sofisticati. Il
principale tra essi richiamava la necessità di affidare allo
Stato solo un ruolo di garante della concorrenza al fine
di assicurare ai cittadini servizi migliori a prezzi più
bassi; si avanzò poi l’esigenza di superare le politiche
di sostegno ai “campioni nazionali”, favorendo al loro
posto aggregazioni volte a creare imprese in grado di
operare su scala mondiale; le privatizzazioni avrebbero
inoltre favorito lo sviluppo del mercato mobiliare,
consentendo di ampliare la diffusione dell’azionariato
popolare e spingere il sistema pensionistico verso la
capitalizzazione; infine, si sottolineò la necessità di
assicurare un importante fonte di entrate allo Stato che
consentisse di avviare i piani di rientro del debito
pubblico senza ricorrere ad impopolari quanto
economicamente dannosi incrementi dell’imposizione
fiscale.
In forme più o meno consapevoli e coerenti, queste
diverse argomentazioni confluirono in
un’incondizionata adesione ideologica alle virtù della
proprietà privata dei mezzi di produzione che portò le
forze di sinistra al passo con i tempi sul terreno
dell’antistatalismo, contendendolo ad una destra
accusata di favorire un processo di ritorno al privato
troppo brutale e avversa all’idea di disegnare per lo
Stato un ruolo di attento “arbitro” del gioco del
mercato. Una “terza via”, come sottolineato nel 1995 da
Blair nel prendere il controllo del partito laburista, da
percorrere alla luce del convincimento secondo cui «il
socialismo non era mai stato qualcosa che riguardasse
le nazionalizzazioni o il potere dello stato […]. Era
invece uno scopo morale della vita, un insieme di valori,
un credere nella società, nella cooperazione,
nell’ottenere insieme ciò che non possiamo ottenere da
soli». Per procedere «insieme e non da soli» il potere
dello Stato era quindi inessenziale, ma nulla invece si
sarebbe ottenuto nel caso di

un quinto mandato Tory in Inghilterra. Ci sarebbe


stato un Servizio Sanitario Nazionale? (“No!”) Ci
sarebbe stato un sistema d’istruzione statale gratuita
per tutti? (‘No!’) Ci sarebbe stato uno stato sociale?
(“No!”). Bene, facciamo in modo che non accada. Ri-
eleggeteli e non ci sarà alcun dubbio. Con loro
tornerà l’Iva sui carburanti, […] il vostro ufficio
postale sarà venduto, più privatizzazioni del sistema
sanitario, giganteschi monopoli privatizzati che
controllano i vostri servizi, il loro prezzo deciso da un
branco di ex ministri nei consigli di amministrazione.

Molti degli esiti nefasti paventati da Blair in caso di


ritorno dei conservatori al potere si verificarono in
realtà proprio nel decennio del New Labour (lo stesso
Blair, un anno dopo le sue dimissioni, finì nel consiglio
di amministrazione della banca J.P. Morgan che aveva
assistito finanziariamente numerose privatizzazioni).
L’eclettismo della “terza via”, infatti, non aveva nessun
solido retroterra programmatico, consistendo in una
riproposizione edulcorata di tutti gli argomenti della
destra, arricchiti da un’incrollabile fede nella capacità
della finanza e della borsa di indirizzare al meglio
l’attività economica. Riconsideriamo brevemente quegli
argomenti.
Il più importante tra essi era indubbiamente il vecchio
pregiudizio sulla maggiore efficienza e qualità dei servizi
offerti dall’impresa privata. I liberisti avevano sempre
considerato l’intervento dello Stato produttore
tollerabile solo quando, grazie ad esso, fosse stato
possibile attenuare gli effetti dell’assenza di
concorrenza (di fatto o potenziale), confinandolo così ai
casi della produzione di servizi godibili solo
collettivamente (beni pubblici come la difesa) e dei
monopoli naturali. Se nei Trenta gloriosi si era assistito
al superamento della nozione secondo cui dove vi era
concorrenza, o possibilità di crearla, non doveva
esserci l’impresa di Stato, dopo la grande svolta di
politica economica anche questo ristretto ambito di
intervento venne posto in discussione alla luce della
moderna teoria dei contratti. L’economista Andrei
Shleifer, nell’illustrare la questione nel 1998 in
un’influente saggio contro l’impresa pubblica,
sottolineava che «la prima intuizione fondamentale
dell’approccio dei contratti concerne alcuni casi in cui è
indifferente se l’attività sia svolta direttamente dallo
Stato o data in appalto. Se il governo sa esattamente
ciò che vuole far fare al produttore, allora può mettere la
propria volontà nel contratto (o in un regolamento) e
farlo rispettare. In questo caso, la differenza tra
fornitura diretta o in appalto scompare». Monopoli
naturali, sanità, istruzione: grazie alle “intuizioni
fondamentali” della teoria dei contratti, i vantaggi
dell’impresa pubblica evaporavano anche in settori
tradizionalmente considerati appannaggio dello Stato.
Si riteneva poi che l’inefficienza dell’impresa di Stato
fosse accresciuta dalla sua possibilità di attingere alla
finanza pubblica, sottraendosi ai vincoli di bilancio e
alla disciplina dei mercati dei capitali che invece
assoggettavano l’impresa privata indirizzandola sulla
frontiera dell’efficienza produttiva.
Rispetto a questo insieme di convincimenti, la
posizione della sinistra divenne sempre più quella di
accettare senza troppe riserve tutti i pregiudizi avversi
allo Stato imprenditore, limitandosi al compassionevole
riconoscimento della necessità di garantire ai più
bisognosi la fruizione di servizi essenziali, che nella
maggior parte dei casi sarebbe stato però opportuno
non far produrre direttamente dallo Stato. Quest’ultima
scelta sarebbe dipesa da un’attenta analisi del “tasso di
purezza” concorrenziale dei mercati privati e dei sistemi
di disciplina ed incentivazione che potevano
correggerne le imperfezioni. Ma mentre i governi di
sinistra si impegnavano in una febbrile attività di
creazione di autorità di vigilanza e comitati di controllo,
gli esiti disastrosi di questa linea politica divenivano
via via più evidenti. Come rilevato nel 2014 da uno
sconsolato editorialista del Guardian,

le privatizzazioni non funzionano. Ci avevano


promesso la democrazia degli azionisti, la
concorrenza, il calo dei costi e servizi migliori. Con il
passare di una generazione, la maggioranza del
pubblico ha sperimentato esiti opposti. Dall’energia
all’acqua, ai servizi pubblici ferroviari, la realtà è stata
la creazione di monopoli privati, sussidi perversi,
prezzi esorbitanti, misero sotto-investimento,
affarismo e cattura dei regolatori […]. I consumatori e
i politici sono ingannati dal segreto commerciale e
dalla complessità contrattuale. La forza lavoro ha
visto tagliate le sue retribuzioni e peggiorate le
condizioni di lavoro. Il controllo dei servizi essenziali
non solo è passato nelle mani di giganti aziendali
basati all’estero, ma questi giganti sono spesso di
proprietà statale – solo che si tratta di un altro stato.
Relazioni dopo relazioni hanno mostrato che i servizi
privatizzati sono più costosi e inefficienti rispetto ai
loro omologhi di proprietà pubblica. E non sorprende
che una grande maggioranza del pubblico, che non
ha mai sostenuto una sola privatizzazione, non ha né
fiducia nei corsari delle privatizzazioni né voglia di
affidar loro la gestione dei servizi pubblici.

I guadagni di efficienza delle imprese privatizzate non


si materializzarono. I prezzi non diminuirono con il taglio
dei costi ed i guadagni di produttività. La qualità di
molti dei servizi era peggiorata notevolmente e alcuni di
essi cessarono di essere offerti. Le imprese privatizzate
o ereditarono la posizione di monopolio dello Stato
avvantaggiandosene senza freni, oppure si riunirono in
cartelli, sotto lo sguardo distratto o compiacente dei
comitati di controllo. Numerose imprese privatizzate
giunsero addirittura al collasso, imponendo la
socializzazione delle perdite o la rinazionalizzazione. I
salari e le condizioni di lavoro nelle imprese privatizzate
peggiorarono. Di particolare rilievo fu il dato relativo
agli scarsi investimenti. È importante infatti non
dimenticare che in molti Paesi (l’Italia è un chiaro
esempio in tal senso), lo Stato si era dovuto far carico
in passato, in tutti i settori di maggior rilievo, di grande
parte degli investimenti ad alta intensità di capitale e
particolarmente rischiosi che gli imprenditori privati non
avevano trovato conveniente effettuare e che era
tuttavia necessario intraprendere per tenere il passo
delle nazioni più industrializzate. Date queste premesse,
era inevitabile che le privatizzazioni, invece di aprire una
fase in cui l’iniziativa privata si sarebbe assunta il ruolo
di promotrice del processo di sviluppo, avrebbero
semplicemente finito per coincidere con un
impoverimento della matrice industriale e la definitiva
rinuncia a programmi di ampio respiro di ricerca e
sviluppo.
Un altro ordine di argomenti a favore delle
privatizzazioni chiamò in causa gli effetti che esse
avrebbero avuto in termini di internazionalizzazione
proprietaria delle imprese, favorendo l’ingresso di
nuovi soggetti economici e nuovi capitali in grado di
modernizzare e vitalizzare uno spirito industriale
nazionale fiaccato dall’invasione dello Stato. Le
posizioni della sinistra al riguardo furono oltremodo
contraddittorie. Dal punto di vista astratto, infatti, gli
stessi ragionamenti che portavano a ritenere che la
proprietà privata era preferibile a quella pubblica
avrebbero dovuto condurre alla negazione di ogni
ragione di bandiera. In concreto, la sinistra europea
conservò una sua concezione di “patriottismo
economico” favorendo la creazione di cordate nazionali
con diversa intensità nei diversi contesti nazionali:
scarsa ad esempio nel caso dell’Inghilterra, con
carattere di piano in Francia, in forme confuse e dagli
esiti spesso grotteschi in Italia, dove in molti casi i
capitalisti nazionali assunsero solo il ruolo di
intermediari di successive operazioni di cessione
all’estero, lucrando cospicue plusvalenze.
Ma al di là di questi esiti diversi, la questione centrale
investì il significato che l’interesse nazionale poteva
ancora assumere per la sinistra nell’era della
mondializzazione e della fine dell’impresa pubblica. È
evidente che il patriottismo economico, inteso come
tutela del capitalista nazionale, non ha di per sé alcun
valore per i lavoratori, acquisendolo solo nei limiti in cui
esso è funzionale ad un progetto di sviluppo indirizzato
dallo Stato ed avente come obiettivi la massima
occupazione e la crescita dei salari. L’interesse
nazionale non coincide con quello dei capitalisti di
bandiera ma con l’interesse dei lavoratori; esso è
pertanto incompatibile con le privatizzazioni, come pure
con le liberalizzazioni, la deregolamentazione del
mercato del lavoro, la libera circolazione di merci,
uomini e capitali – insomma, con tutto l’assetto di
politica economica dei Trenta pietosi.
Il settore in cui la questione emerse con maggiore
evidenza fu quello dell’intermediazione finanziaria. Il
suo funzionamento si basa sulla garanzia pubblica ed
un suo ordinato sviluppo è impensabile senza una
pervasiva presenza statale. D’altro canto, un moderno
sistema industriale si controlla attraverso il sistema
finanziario e quasi nessuna leva di politica economica
può essere manovrata agevolmente dallo Stato senza
un sicuro controllo del settore. Non fosse altro che per
elementari considerazioni di perdita di potere, ciò non
poteva sfuggire alle componenti della sinistra di
governo non completamente ottenebrate dall’ideologia
liberista. Il problema era come conciliare questa
consapevolezza con il favore accordato alle
privatizzazioni di banche e assicurazioni. L’opposizione
al passaggio di intermediari finanziari di grande rilievo
in mani straniere altro non fu che un modo di
barcamenarsi in questa contraddizione, traducendosi in
concreto in interventi senza nessun carattere
programmatico volti soltanto a promuovere interessi
economici amici per assicurarsene la lealtà politica.
Ancora più assurdi furono gli esiti dell’idea che le
privatizzazioni avrebbero catalizzato la trasformazione di
un sistema finanziario “bancocentrico”, caratterizzato
da un mercato azionario asfittico. Molti investitori
privati, infatti, acquistarono le aziende pubbliche con
capitale di finanziamento, scaricando quindi sulle
imprese privatizzate un’enorme massa di debito che ne
compromise la capacità di effettuare nuovi investimenti
e in molti casi la stessa capacità operativa. Le
privatizzazioni operarono in questo modo come un
potente fattore di accrescimento dell’indebitamento
privato e della fragilità finanziaria del sistema
produttivo.
A rendere impellenti tutte le argomentazioni a favore
delle privatizzazioni vi erano infine gli effetti che si
sosteneva esse avrebbero avuto sulle finanze
pubbliche e sulla stabilità del più generale quadro
macroeconomico. Le ragioni delle privatizzazioni si
fondevano così con quelle dell’austerità: la vendita
dell’impresa pubblica avrebbe consentito da un lato di
arrestare il flusso delle spese e dei trasferimenti ad essa
collegati; dall’altro di acquisire allo Stato ingenti risorse
finanziarie dai soggetti privati che ne avrebbero
assunto il controllo. L’adesione della sinistra all’idea
che le privatizzazioni fossero un veicolo “per abbattere
il debito pubblico e il suo onere sulle generazioni
future” ha rappresentato una delle manifestazioni più
evidenti del suo smarrimento politico. Come si è appena
osservato, le privatizzazioni agirono come fattore di
accrescimento del debito privato piuttosto che di
riduzione del debito pubblico. Ma, più in generale, vi è
che i problemi che pone la gestione del debito pubblico
non sono mai problemi di rapporti tra generazioni: sono
essenzialmente problemi di carattere distributivo intra-
generazionale, determinati dal fatto che chi è chiamato
ad onorarne il servizio attraverso le imposte non
coincide con chi possiede le cartelle del debito
pubblico. Nella testa della sinistra un presunto conflitto
generazionale ha così finito con il prendere il posto del
conflitto effettivo tra lavoro e capitale e tra chi paga le
imposte e chi, della stessa generazione, percepisce
dallo Stato gli interessi. Essa ha perso completamente
di vista che un elevato e crescente rapporto tra il debito
pubblico e il prodotto interno lordo è dannoso proprio
perché implica un crescente asservimento dei lavoratori
ai percettori della rendita finanziaria. Il problema è che il
determinante fondamentale di questo crescente
asservimento è un prodotto che cresce ad un tasso più
basso del tasso di interesse. Le pur ingenti risorse
finanziare raccolte con le privatizzazioni (sebbene molto
decurtate dalle commissioni delle banche di
investimento che gestirono le operazioni di
collocamento) non potevano in alcun modo arrestare la
spirale di avvitamento del debito in rapporto al
prodotto, ma operarono al contrario nel senso di
accelerarla perché hanno agito come fattore di
rallentamento della crescita. Va poi considerato che le
privatizzazioni, favorendo e accompagnandosi ad
interventi fiscali volti ad alleggerire il carico tributario
sui redditi più elevati, hanno rafforzato quella dinamica
redistributiva perversa dai più poveri ai più ricchi che
costituisce il vero problema posto da un’irresponsabile
gestione del debito pubblico.
Per la sinistra, ridurre la questione dell’impresa
pubblica al “far cassa” equivaleva a confinarla nel
perimetro definito dalla destra, perdendosi
completamente di vista il fatto che le nazionalizzazioni
servivano in primo luogo gli interessi dei lavoratori. Ad
ispirarle erano state solo in parte le questioni poste dai
monopoli dovuti a ragioni tecnologiche e dalla non
esclusività nel consumo dei beni pubblici. Con esse ci
si prefiggeva soprattutto di assicurare il livello di
occupazione più alto possibile a prescindere dal
contributo offerto dall’iniziativa privata; migliorare le
relazioni industriali facendo del lavoro pubblico il fronte
più avanzato del conflitto distributivo; massimizzare i
guadagni di produttività e la possibilità per i lavoratori
di goderne eliminando dalla scena elementi di rendita
assenteista; non subordinare gli investimenti alla
massimizzazione del profitto di breve periodo ma ad
obiettivi sociali e nazionali di più lungo periodo. In
breve, la resa della sinistra sulla questione delle
privatizzazioni è equivalsa allo svuotamento di tutti i
contenuti di classe della sua azione politica.

7. La subordinazione del potere legislativo al potere


esecutivo, il decentramento amministrativo e fiscale
come fattore di indebolimento dello Stato centrale, la
crescente subalternità in Europa degli ordinamenti
giuridici nazionali alle norme sovranazionali sono i
segni più evidenti lasciati sull’assetto istituzionale dei
Trenta pietosi dallo spirito antistatalista che li ha
permeati.
Non intendiamo discutere in dettaglio questi
mutamenti e la sorprendente facilità con la quale si
sono diffusi. Ci sembra importante tuttavia soffermarci
sull’invaghimento delle forze politiche di sinistra per il
tema dell’autonomia locale. L’avversione della sinistra
al modello centralista acquista rilevanza per il suo porsi
in evidente contrasto con l’importanza storicamente
attribuita dai partiti dei lavoratori all’unità politica e
morale della nazione. Per usare le parole di Togliatti
all’Assemblea Costituente, «la classe operaia fu
unitaria perché la sua missione non poteva adempiersi
se non su una scala nazionale». L’azione politica della
sinistra aveva sempre ruotato intorno all’unità dei
salariati come classe, unità minacciata appunto dalla
frammentazione territoriale, specialmente in presenza di
profonde differenze nel grado di sviluppo economico e
sociale delle diverse realtà locali. Il contrasto al
localismo come fattore divisivo andava quindi
perseguito senza limiti, se non quelli definiti dai confini
dello Stato. Si riteneva che, pur proiettandosi
idealmente oltre lo Stato sul piano dei principi, la
missione politica di una forza di sinistra avesse
possibilità di trovare compimento solo su una scala non
più grande e non più piccola di quella nazionale.
La concezione centralista del potere dello Stato che
prevalse nei decenni post-bellici non implicava
naturalmente trascurare le realtà locali. Dal punto di
vista politico, le istanze locali giungevano agli organi
centrali di governo attraverso la supremazia del potere
assembleare, sistemi elettorali proporzionali e un forte
legame del parlamentare con il territorio ed il suo
elettorato. Dal punto di vista amministrativo, la
presenza capillare dello Stato centrale sul territorio si
concretizzava in un rapporto diretto tra lo Stato e la
città, indispensabile entità autonoma chiamata a
soddisfare le esigenze delle comunità locali sotto la
vigilanza del potere prefettizio. Dal punto di vista
finanziario, se agli enti locali era riconosciuta una
minima capacità di spesa, la totalità delle imposte era
riscossa dal governo centrale.
Gestire dal centro la spesa pubblica e l’imposizione
fiscale era considerato fondamentale per poter
assicurare livelli uniformi di spesa pro-capite, a fronte di
livelli impositivi eterogenei. L’eterogeneità impositiva
avrebbe così automaticamente realizzato un
trasferimento di risorse dalle zone più ricche a quelle
più povere. Nessun fenomeno di “concorrenza fiscale”
tra le basi impositive più mobili poteva attivarsi nel
territorio dello Stato. Inoltre, proprio perché ricondotta
alla finanza pubblica centrale, la spesa locale avrebbe
potuto essere più agevolmente finanziata grazie al
debito pubblico nazionale e alla possibilità di
monetizzare parte dei disavanzi. Infine, la creazione di
livelli intermedi di governo avrebbe comportato un
inutile quanto considerevole aggravio dei costi politici
e burocratici dello Stato, senza contare che la capacità
di influenza dei gruppi di pressione volti a distogliere a
proprio vantaggio le risorse pubbliche non avrebbe più
incontrato nel governo centrale il massimo livello di
resistenza, derivante sia dalla maggior forza e distanza
dello Stato centrale che dalla migliore qualità degli
amministratori.
Tutti gli argomenti portati a sostegno del centralismo
nel corso dei Trenta gloriosi si trasformarono a partire
dagli anni Ottanta in altrettante ragioni a favore del
localismo. Un livello uniforme di spesa pubblica pro-
capite iniziò ad essere considerato come “inefficiente”,
in quanto solo grazie a centri di spesa decentrati
sarebbe stato possibile differenziare tipologie e livelli di
offerta accordandoli ai gusti delle comunità locali. I
trasferimenti, qualora se ne fosse ravvisata la necessità,
dovevano avvenire attraverso il meccanismo esplicito
dei fondi di solidarietà, ai quali le comunità più povere
potevano accedere grazie alle contribuzioni di quelle
più ricche. La concorrenza impositiva tra diverse
giurisdizioni fiscali avrebbe consentito ai cittadini di
“votare” la qualità delle amministrazioni locali,
accrescendone efficacia ed efficienza. Nello stesso
senso avrebbe operato l’impossibilità di finanziare la
spesa pubblica locale emettendo moneta e la necessità
di ricorrere alle più onerose modalità di finanziamento a
debito sul mercato: sottoposti a vincoli di bilancio
stringenti, gli amministratori locali si sarebbero visti
costretti a gestire la produzione decentrata dei beni
pubblici in base a criteri aziendalistici. Il corpo politico
locale, divenuto una sorta di amministratore delegato di
aziende possedute dall’“azionista contribuente”,
sarebbe stato forzato ad operare limpidamente,
contrariamente alla remota quanto opaca classe politica
centrale.
Allo Stato centrale andavano affidate le sole politiche
macroeconomiche anticongiunturali e redistributive,
nonché la produzione dei beni pubblici che potevano
essere goduti solo dalla nazione collettivamente (come
la difesa). Il principio guida divenne la presunzione che
l’offerta di beni pubblici dovesse essere affidata al più
basso livello di governo in grado di includere tutti
coloro i quali ne godevano i benefici e ne sopportavano
i costi. I livelli superiori andavano chiamati in causa
solo quando quello inferiore non fosse stato, in senso
spaziale, inclusivo. Il ruolo del governo centrale fu
visto come residuale, a fronte di un’identificazione tra
autonomie regionali, accrescimento della partecipazione
democratica e efficienza dell’operato dei pubblici poteri.
Poco importava che vi fossero chiari segnali circa
l’effetto di affievolimento della progressività fiscale
determinato dalla riduzione del tasso di centralismo del
sistema impositivo, come pure che non vi fosse
nessuna prova solida dell’esistenza di una relazione tra
decentramento fiscale ed efficienza della pubblica
amministrazione.
A chiarire quale fosse il senso di questa corsa al
decentramento era in realtà il sostegno che essa
raccoglieva da destra. Le autonomie regionali potevano
finanziarsi solo ricorrendo all’imposizione o a forme
onerose e limitate di indebitamento. Ma essendo la
capacità di finanziarsi attraverso le imposte fortemente
differenziata nei diversi contesti territoriali, ed in ogni
caso compromessa dalla mobilità delle basi imponibili e
dai conseguenti fenomeni di concorrenza fiscale, il
ruolo principale che il decentramento era chiamato a
svolgere era quello di “affamare il leviatano” e arrestare
la crescita del settore pubblico. Le comunità che
avessero visto sottofinanziata la spesa per i servizi
locali non avrebbero avuto troppe alternative al ridurne
l’offerta e abbassarne la qualità, visto che era
francamente difficile attendersi che i benefici derivanti
da una maggiore concorrenza fossero in grado di
compensare sul piano dell’efficienza quello che veniva
meno sul piano delle risorse. Lo stesso sarebbe
accaduto nelle zone più ricche, dal momento che i
cittadini più abbienti, quindi meno bisognosi dei servizi
pubblici locali, avrebbero avuto più possibilità di
piegare a proprio vantaggio le scelte politiche
ottenendo meno tasse e meno spesa. La spinta al
decentramento convergeva in tal modo con quella alle
privatizzazioni: le imprese private, liberate dall’oneroso
“obbligo di servizio” (si pensi al trasporto locale e alla
necessità di assicuralo anche su tratte economicamente
non convenienti) avrebbero preso il posto di quelle
pubbliche portate al collasso finanziario. In altre parole,
austerità e privatizzazioni trovarono proprio nella
dimensione regionale lo spazio dove potersi affermare
con più forza. Tutta la retorica sulla possibilità di
adeguare l’offerta dei servizi pubblici ai gusti dei
cittadini si tradusse in null’altro che nell’iniziare ad
accordare ai più ricchi la possibilità di non usufruire e
non contribuire.
Le spinte appena descritte sono talmente irragionevoli
da poter essere spiegate solo come una delle
manifestazioni della perdita di sovranità nazionale.
Decentramento e subalternità dei poteri nazionali alle
norme e alle istanze sovranazionali sono strettamente
collegati: più l’Europa indebolisce gli Stati, più ha
bisogno delle regioni per amministrare il territorio.
Sarebbe tuttavia un errore pensare che il favore della
sinistra europea per il decentramento sia nato con i
trattati UE e l’affermazione del principio della
sussidiarietà. Come ben illustra il caso italiano, sul
quale ci soffermeremo nel prossimo capitolo, una
pulsione all’autonomismo locale è stata sempre
presente in seno alla sinistra, motivata quantomeno dal
tentativo di acquisire sul piano regionale una centralità
politica negata, per motivi esterni o per il percepirsi
come inadeguata, sul piano nazionale. Contenuta per
decenni dalla consapevolezza che statalismo e
centralismo fossero una sola cosa, questa pulsione
eruppe con il progressivo imporsi dell’azione
disgregatrice della sovranità nazionale esercitata dal
progetto europeo. Si può dire pertanto che la
responsabilità della sinistra per non aver avversato
quest’azione di frammentazione si sia sovrapposta al
suo favore di più lungo corso per il regionalismo. Ed è
proprio con il sovrapporsi di queste due tendenze che
si giungerà alla paradossale coesistenza tra la
negazione dell’interesse nazionale e l’affermazione
dell’interesse locale.

Nota bibliografica
L’impatto delle politiche dell’occupazione e dei livelli
occupazionali sulle istituzioni del mercato del lavoro, il
potere contrattuale dei sindacati e i livelli salariali è
stato analizzato nel corso degli ultimi 10 anni da
numerosi autori. Si vedano in particolare: I. Dew-Becker
e R.J. Gordon, “Selected issues in the rise of income
inequalities”, Brookings Papers on Economic Activity,
2, 2007; W. Salverda e K. Mayhew, “Capitalist
economies and wage inequalities”, Oxford Review of
Economic Policy, Vol. 25, n. 1, 2009; G. Bosch et al.,
“Industrial Relations, legal regulations, and wage
setting”, in J. Scmitt e J. Gautié (a cura di), Low-Wage
Work in the United States and Europe, Russel Sage,
New York 2010; M. Pivetti, “On advanced capitalism
and the determinants of the change in income
distribution: a classical interpretation”, in E.S. Levrero
et al. (a cura di), Sraffa and the Reconstruction of
Economic Theory: Volume One (Theories of Value and
Distribution), Palgrave Macmillan, Londra 2013.
Il processo di sostituzione di indebitamento privato a
salari come strumento di sostegno dei consumi delle
famiglie americane è analizzato in A. Barba e M. Pivetti,
“Rising household debt. Its causes and macroeconomic
implications: a long-period analysis”, Cambridge
Journal of Economics, Vol. 33, n. 1, 2009.
Sull’orientamento neo-mercantilista della politica
economica tedesca e le sue ripercussioni sui Paesi
europei, si veda S. Cesaratto, “Europe, German
mercantilism and the current crisis”, in E. Brancaccio e
G. Fontana, The Global Economic Crisis. New
Perspectives on the Critique of economic Theory and
Policy, Routledge, Londra 2011. Per quanto riguarda
l’accresciuta flessibilità del mercato del lavoro tedesco,
i ridimensionamenti dell’istruzione pubblica in Francia e
i tagli della previdenza e della sanità pubbliche in Italia,
si vedano C. Weinkopf, “A changing role of temporary
agency work in the German employment model?”,
International Employment Relations Review, Vol. 12, n.
1, 2006 e i saggi contenuti in G. Bosch e C. Weinkopf (a
cura di), Low-Wage Work in Germany, Russel Sage,
New York 2008; Cour des Comptes, L’education
nationale face à l’objectif de la réussite de tous les
élèves, Rapport public, La Documentation Française,
Parigi, maggio 2010; A. Parienty, School business.
Comme l’argent dynamite le système éducative, La
Découverte, Parigi 2015 (da cui è tratto il brano citato
nella sez. 5); M. Pivetti, “The ‘principle of scarcity’,
pension policy and growth”, Review of Political
Economy, numero speciale sulle pensioni a cura di S.
Cesaratto, Vol. 18, n. 3, 2006; A. Barba, “Previsioni
demografiche e sostenibilità della spesa pensionistica
in Italia”, Studi Economici, Vol. 94, n. 1, 2008; S.
Gabriele, “Politiche recessive e servizi universali: il caso
della sanità”, in S. Cesaratto e M. Pivetti (a cura di),
Oltre l’austerità, eBook di Micromega, Roma 2012.
La citazione di Tony Blair è tratta da “Leader’s Speech
– Brighton 1995 (Tony Blair)”, in Speech Archive at
www.britishpoliticalspeech.org. Per una rassegna dei
principali argomenti teorici sviluppati nel corso degli
ultimi decenni dagli economisti avversi all’impresa
pubblica si veda A. Shleifer, “State versus private
Ownership”, Journal of Economic Perspectives, Vol.
12, n. 4, autunno 1998. W. Maggison e J. Netter, “From
State to Market: A Survey of Empirical Studies on
Privatization”, Journal of Economic Literature, Vol.
XXXIX, giugno 2001, offre una più articolata disamina
del tema, di carattere sia teorico che empirico. L’articolo
di The Guardian citato a p… è di Seumas Milne, “The
tide is turning against the scam that is privatisation”,
del 9 luglio 2014. Sui pessimi esiti delle privatizzazioni
nel caso inglese, si veda anche J. Meek, Private Island,
why Britain now belongs to someone else, Verso,
Londra 2015. Per un quadro conciso degli effetti della
privatizzazione delle ferrovie in Europa, si veda J.
Mischi e V. Solano, “Accélération de la privatisation du
rail en Europe. Trent-six compagnies pour une ligne de
chemin de fer”, Le Monde Diplomatique, giugno 2016.
Una chiara introduzione ai principali temi del dibattito
corrente sul federalismo fiscale è contenuta in W.
Oates, “An Essay on Fiscal federalism”, Journal of
Economic Literature, XXXVII, n. 3, settembre 1999.
Fiscal Federalism in the European Union, edito da A.
Fossati e G. Pannella, Routledge, Londra 1999, è una
raccolta di saggi che analizzano in chiave comparata i
rapporti economici tra governi locali e centrali in tutti i
principali Paesi europei. La citazione di Togliatti è
dall’intervento all’Assemblea Costituente dell’11 marzo
1947, seduta pomeridiana, Tipografia della Camera dei
Deputati, Roma 1947, p. 2001.
Capitolo VI

Il caso italiano: comunisti? Brava gente

1. Più che di “corsa alla modernità”, per la sinistra


italiana si può parlare di una lunga marcia verso il vuoto
ideologico e programmatico. Non ci occuperemo in quel
che segue di questo vuoto né dei suoi protagonisti.
Cercheremo invece di metterne a fuoco le premesse,
concentrando l’attenzione sul periodo che a noi sembra
quello decisivo per la comprensione del fenomeno,
ossia il decennio compreso tra la fine degli anni
Sessanta e la fine degli anni Settanta. Cercheremo
anche di individuare gli elementi più significativi del
percorso che portò il maggiore partito della sinistra
italiana alle scelte che esso compì in quel decennio.

2. Un’accresciuta forza contrattuale del lavoro


dipendente si manifestò in modo chiaro in Italia a
partire dall’“autunno caldo” del 1969 attraverso
l’aumento dei salari reali (cresciuti mediamente di circa il
5 per cento all’anno tra il 1969 e il 1975), il rafforzamento
della loro difesa dall’inflazione (attraverso l’accordo del
gennaio 1975 tra sindacati e confindustria, il cosiddetto
accordo Lama-Agnelli sul punto unico di contingenza)
e la realizzazione di importanti riforme economiche e
sociali: la riforma del sistema pensionistico (cfr. sopra,
p. 165); lo Statuto dei diritti dei lavoratori; nuove norme
per la tutela delle lavoratrici madri e la parità di
trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro;
l’avvio di un tentativo di riforma del sistema tributario
nel senso dell’aumento della sua progressività;
l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Ma
all’accresciuto potere contrattuale dei salariati e
all’avvio anche in Italia di un riformismo effettivo
corrisposero una serie di avvenimenti, interni ed
esterni, che ebbero un’influenza importante sulle scelte
che il partito comunista italiano (Pci) finì per compiere
nella seconda metà del decennio in questione.
All’interno, la reazione stragista alle riforme: la stagione
delle grandi riforme fu in Italia anche la stagione dello
stragismo, inaugurata alla fine del 1969 dalla strage di
piazza Fontana. All’esterno, il colpo di Stato in Cile
dell’11 settembre 1973 contro il governo del socialista
Salvador Allende e lo scoppio della prima crisi
petrolifera alla fine di quello stesso anno. Infine, ma
come vedremo non per ultimi, l’acutizzarsi dei problemi
dell’inflazione e della bilancia dei pagamenti, a fronte
degli aumenti salariali, degli aumenti dei prezzi delle
materie prime e delle continue svalutazioni della lira tra
il 1973 e il 1977.
Questi avvenimenti fecero da sfondo, costituendone
per così dire la ratio, alla strategia berlingueriana del
“compromesso storico” e della connessa politica di
“solidarietà nazionale”: una scelta di non belligeranza e
di collaborazione con la democrazia cristiana (Dc) di
fronte alla crisi economica, in una situazione ritenuta di
pericolo per la democrazia soprattutto a causa del
terrorismo interno. Come è noto, quella linea non
produsse alcuna partecipazione del Pci al governo
nazionale; essa si risolse nel suo appoggio esterno al
III e al IV governo Andreotti, ossia ai governi
monocolori democristiani del 1976-1977 e del 1978-1979.
Il Pci divenne così “partito di governo” senza essere
nel governo, si assunse cioè delle responsabilità senza
alcun potere. Ciò che in sostanza prevalse all’interno
del Pci fu la decisione di non usare, praticamente in
cambio di niente, i maggiori consensi che il partito era
riuscito a conquistare nel Paese dalla fine degli anni
Sessanta e grazie ai quali esso era passato dal 27,9 per
cento (1970) al 34,6 per cento – il suo massimo storico –
alle elezioni amministrative del 1975, a fronte di un
sensibile arretramento della Dc (dal 38 per cento al 35
per cento, ma già alle elezioni politiche del giugno
dell’anno successivo essa sarebbe risalita al 38,7 per
cento, a fronte di un primo calo, ancora molto
contenuto, del Pci: 34,4 per cento). A seguito
dell’avanzata elettorale del 1975, il Pci insieme al partito
socialista (Psi) ottenne il governo di altre tre regioni
(Liguria, Piemonte e Marche) in aggiunta alle
tradizionali tre regioni “rosse”. Napoli, Roma, Firenze,
Bologna e Torino ebbero dei sindaci comunisti o
sostenuti dai comunisti e all’incirca la metà della
popolazione italiana si trovò a vivere in aree
amministrate dalla sinistra. All’indomani delle elezioni
politiche del 1976, la Dc (nonostante il suo recupero) e i
tre partiti centristi minori non si trovarono più in grado
di formare una maggioranza e il Psi era molto restio a
farne parte se il Pci fosse rimasto escluso. Il potere
politico contrattuale dei comunisti era dunque tale da
consentire loro di porre con determinazione sul tappeto
la questione della partecipazione al governo nazionale,
invece di mostrarsi disponibili a sostenerlo senza farne
parte e senza alcuna contropartita certa in termini di
politiche di sostegno dell’occupazione e di ulteriori
riforme economiche e sociali.
Tra i Paesi europei facenti parte dell’Ocse, l’Italia
aveva in quegli anni (1974-1979) il tasso di
disoccupazione più elevato (mediamente il 6,6 per
cento). Ma in quegli stessi anni l’inflazione subì
un’accelerazione all’interno di tutto il capitalismo
avanzato – con il tasso d’inflazione italiano del 16 per
cento tra i più elevati – facilitando dovunque
l’abbandono dell’obiettivo del pieno impiego. La
“solidarietà nazionale” fu di fatto in Italia il passaggio
politico attraverso il quale tutto venne subordinato alla
lotta all’inflazione, indicata in una risoluzione approvata
dalla direzione del Pci il 7 ottobre 1976 come lotta
contro «il pericolo più grave per le masse». Quanto alle
riforme, grazie a quelle economico-sociali sopra
ricordate, era finalmente iniziata anche nel nostro Paese
la costruzione di una rete di solidarietà effettive tra i
membri della collettività nazionale, tesa in primo luogo a
ridurre l’esposizione del lavoro dipendente e della parte
più debole della popolazione alle vicissitudini del
mercato e all’avidità dei ceti abbienti. Ma si trattava
appunto solo di un inizio. La rete di solidarietà e
garanzie avrebbe dovuto essere consolidata e
sviluppata; essa avrebbe potuto essere consolidata e
sviluppata, grazie alla forza e al prestigio conquistati nel
Paese dalla sinistra. Con la “solidarietà nazionale” si
iniziò invece a procedere nella direzione opposta.
Insieme all’ulteriore aumento della disoccupazione e
delle disuguaglianze, tutte le controriforme che da allora
si sono susseguite a un ritmo sempre più serrato hanno
incrinato la coesione sociale all’interno della nazione e
contribuito a minare le già non solide fondamenta della
sua unità.

3. Le implicazioni di politica economica del


“compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”
emersero in modo chiaro in un convegno organizzato a
Roma nel marzo 1976, tre mesi prima delle elezioni
politiche, dal Centro studi di politica economica (Cespe)
del Pci, dal titolo «Crisi economica e condizionamenti
internazionali dell’Italia». Un titolo apparentemente
promettente, in quanto suggeriva che all’interno del Pci
si fosse fatta strada la consapevolezza della necessità
di mettere in discussione i condizionamenti
internazionali dell’economia italiana, che, sotto forma di
ingenti fughe di capitali e ingenti disavanzi commerciali
con l’estero, ne costituivano i principali fattori di crisi,
ossia l’ostacolo maggiore alla crescita dell’occupazione
e al miglioramento delle condizioni di vita della
maggioranza della popolazione. Dunque, che il
problema fosse essenzialmente quello di individuare
misure capaci di allentare i vincoli esterni alla crescita
dei salari e dell’occupazione e di riuscire a usare la forza
accumulata dalla sinistra per imporne l’adozione ai
responsabili della politica economica. Ma al convegno
questo orientamento non informò che tre contributi,
che alla fine risultarono del tutto eccentrici rispetto
all’impostazione generale ad esso data dai suoi
promotori. Il senso del convegno e di quel titolo risultò
semplicemente essere il seguente: dati i suoi
condizionamenti internazionali – ovvero, data
l’irremovibilità dei vincoli esterni – l’Italia non avrebbe
potuto affrontare la crisi economica in corso che
attraverso il contenimento dei salari e politiche
monetarie e di bilancio restrittive. Ogni “tentazione
protezionistica” avrebbe dovuto essere respinta. Nella
sua relazione introduttiva, l’economista ufficiale del Pci
nonché segretario del Cespe, Eugenio Peggio,
riconosceva che

il problema dell’equilibrio della bilancia dei


pagamenti costituisce uno dei problemi più urgenti e
più acuti che sta dinnanzi al Paese. Di tale problema,
le forze di sinistra e il movimento sindacale non
possono disinteressarsi, pensando che si tratti
essenzialmente di un affare altrui. […] Ma in ogni
caso non è possibile preporsi il riequilibrio della
bilancia dei pagamenti e il superamento della crisi
dell’economia italiana attraverso una politica
protezionistica, che tra l’altro creerebbe serie
difficoltà a tutta la politica internazionale del nostro
Paese. Non è neppure percorribile la strada di una
continua svalutazione della lira, che cerchi di forzare
al massimo le esportazioni italiane. […] Di fronte
all’impossibilità di ricorrere a una ulteriore dilatazione
dell’indebitamento verso l’estero, di tornare a una
politica protezionistica e di affidare a una continua
svalutazione della lira il riequilibrio nei conti con
l’estero, appare evidente che i problemi del Paese
possono essere affrontati e avviati a soluzione
soltanto con un grande sforzo di tutta la nazione: uno
sforzo che comporta necessariamente sacrifici, anche
per la classe operaia e per le grandi masse popolari.
[…] In linea generale deve ritenersi che la dinamica
del costo del lavoro per unità di prodotto non possa
differire sostanzialmente da quello che si verifica
negli altri Paesi con i quali l’Italia deve più competere.
È questa la condizione necessaria per far sì che l’Italia
possa continuare ad agire in un’economia aperta, e
non debba fare concessioni di carattere
protezionistico.

Naturalmente queste proposizioni riscossero una


totale approvazione da parte della star internazionale
del convegno, l’economista italo-americano Franco
Modigliani, le cui ricette per i problemi dell’economia
italiana erano note da tempo:

Sono in pieno accordo con Eugenio Peggio sulla


impostazione che egli ha dato al problema della
dinamica salariale, in un sistema che vuole restare
pienamente funzionante e godere dei benefici del
commercio internazionale; […] ma bisogna anche
vedere se partiamo da un livello [dei salari] che è
compatibile con il sistema, se cioè il livello corrente
non sia già tale da schiacciare i profitti ad un punto
incompatibile con il pieno impiego. […] Comunque la
condizione che Peggio ha posto è non solo
condizione necessaria per l’equilibrio della bilancia
dei pagamenti, ma è anche la condizione necessaria
perché si possa evitare un processo distruttivo ed
esplosivo di inflazione e svalutazione. […] Come si fa
a fermare l’inflazione? Non esiste altra maniera che io
conosca se non quella di fermare il costo unitario del
lavoro. […] Questo naturalmente richiede qualche
sacrificio ai lavoratori. […] Quali sono le
contropartite? […] Le contropartite dirette di questo
sacrificio sono tre: difesa dell’occupazione,
riassorbimento della disoccupazione e fine
dell’inflazione. Queste sono le tre contropartite per la
classe operaia.

Nei giorni in cui si svolse il convegno del CESPE, ai


lavoratori italiani si era già iniziato a far fare dei sacrifici.
Nonostante la forte svalutazione della lira attuata
all’inizio dell’anno, che avrebbe permesso alle imprese
di trasferire l’aumento dei costi sui prezzi senza
rischiare un calo delle loro esportazioni, le
confederazioni sindacali non solo non avevano
modificato le piattaforme contrattuali elaborate prima
della svalutazione, ma avevano anche accettato uno
scaglionamento degli aumenti salariali. Allora avrebbe
dovuto già essere chiaro a tutti che il contenimento
delle rivendicazioni salariali non avrebbe avuto alcuna
contropartita in termini di maggiori investimenti e di una
riduzione della disoccupazione. Questo semplicemente
perché più alti margini di profitto per unità di prodotto
non avevano mai costituito, di per sé, una circostanza
capace di tenere alto il livello degli investimenti privati:
non importa quanto elevati fossero tornati ad essere i
margini di profitto, nuovi investimenti non sarebbero
stati effettuati se le imprese non si fossero aspettate di
riuscire a vendere il prodotto dell’accresciuta capacità
produttiva. Quanto agli investimenti sociali, era difficile
capire in che modo il contenimento dei salari avrebbe
dovuto determinare il loro aumento, considerato che il
Pci non era al governo e che nessuna sinistra al mondo
aveva mai ottenuto per buona condotta il premio di
essere ammessa a partecipare al governo della propria
nazione – a meno di intendere per “buona condotta”
semplicemente la rinuncia alla tutela degli interessi della
propria base sociale. Alla luce dell’esperienza già
accumulata dal movimento operaio italiano, era
evidente che questi interessi avrebbero potuto essere
efficacemente tutelati solo con controlli severi dei
movimenti di capitali e la riduzione del contenuto di
importazioni della domanda interna, ossia con
restrizioni temporanee delle importazioni di beni non
indispensabili al processo produttivo e l’avvio di una
politica industriale di sostituzione di importazioni con
produzione interna. Ora, non i “sacrifici”, ma al
contrario proprio la ferma indisponibilità da parte del
movimento operaio ad offrirne degli altri è ciò che
avrebbe potuto indurre i responsabili della politica
economica a percorrere la strada della riduzione della
dipendenza dall’estero dell’economia italiana. Di fronte
infatti ad una tale indisponibilità, le alternative
percorribili per riassorbire il disavanzo esterno
sarebbero state o una drastica contrazione dei livelli di
attività, quindi anche della massa dei profitti delle
imprese, da ottenersi mediante il ricorso a politiche
monetarie e di bilancio fortemente restrittive, o il
proseguimento del ricorso a svalutazioni competitive,
con l’impatto negativo della conseguente spirale
svalutazione-inflazione-svalutazione su gran parte della
base sociale della Dc e dei partiti centristi minori:
risparmiatori, creditori e ceti di piccola e media
borghesia scarsamente protetti o non protetti affatto
dall’inflazione.
Questi argomenti, sostenuti nella sua comunicazione al
convegno da uno degli autori di questo volume,
suscitarono in Luciano Lama, segretario generale della
Cgil, una certa sorpresa:

In sostanza mi è sembrato di intendere che […] se


non cresce la domanda interna di beni di consumo e
quindi il salario, non si fanno investimenti privati, e
poiché quelli pubblici si dà per scontato che sono
bolle di sapone, l’unica soluzione giusta sarebbe la
rivalutazione delle rivendicazioni elaborate prima della
svalutazione monetaria. È l’unica voce che ho inteso,
così chiara, ma l’ho intesa. E naturalmente, per ridurre
il grado di vulnerabilità della nostra economia a
eventi esterni, si dovrebbe dissentire da quelli che
Pivetti ha chiamato i fuorvianti tabù dell’autarchia e
realizzare una politica di controllo delle importazioni
[…]; tutto ciò a me sembra arieggiare il ripristino di un
sistema protezionistico che potrebbe davvero
riportarci indietro di molti decenni sul piano
economico e politico, con la prevedibile
conseguenza: di un drastico, rovinoso
peggioramento del livello di vita dei lavoratori e del
nostro popolo; di una rapida uscita dell’Italia non
solo dal serpente monetario, ma dal novero dei Paesi
industrializzati, sia pure a metà e con tanti ingiusti
squilibri. Non credo che possa essere, una sorta di
autarchia degli anni Ottanta, la medicina che ci serve
per uscire dalla crisi e per combattere validamente la
spirale svalutazione-inflazione-svalutazione […]. Noi
non abbiamo mutato le piattaforme contrattuali e non
abbiamo intenzione di mutarle. Scontiamo che queste
non costituiscono, per le nuove previsioni
inflazionistiche, una difesa totale del potere di
acquisto per il futuro. I sacrifici, si dice. […] Ma per
compenetrare pienamente le masse popolari della
gravità della situazione e della necessità di affrontarla
anche, se necessario, con sacrifici ulteriori, occorre
una tensione nuova, politica e morale, che oggi non
c’è. […] Una linea di moderazione non è cedimento,
se si pone obiettivi qualitativamente più importanti,
che valgono di più, più di un aumento nominale dei
salari […]. Lungi da me l’intenzione di indirizzare i
lavoratori su obiettivi illusori e sbagliati. Ma se
vogliamo ragionare seriamente e preparare un futuro
diverso, occorre rispondere prima di tutto a una
domanda: che cosa bisogna fare in Italia per
assicurare gradualmente, ma con certezza, il lavoro a
tutti, specialmente ai giovani? […] La strategia del
sindacato [è dare] priorità alle riforme e al
cambiamento del modello di sviluppo […]. Il
sindacato ha compiuto razionalmente questa scelta e
non ha nessuna intenzione di cambiarla […] e per
questo abbiamo affermato unitariamente come
movimento sindacale la necessità di dar vita a un
governo fondato su un largo consenso delle masse
lavoratrici e popolari.

Non molto diversa nella sostanza, ma decisamente più


surreale nell’articolazione, fu la posizione espressa al
convegno da Bruno Trentin, segretario generale della
Federazione lavoratori metalmeccanici, allora
considerato come l’esponente più autorevole della
“sinistra” del movimento sindacale. Nel passo che qui
riportiamo, egli sembra aspirare a poter continuare a far
fare sacrifici ai lavoratori italiani, ma da ministro del
Lavoro piuttosto che da dirigente sindacale:

È possibile che un mutamento radicale degli indirizzi


di politica economica, una svolta esemplare nei criteri
ispiratori di una necessaria politica di austerità e
quindi un mutamento del quadro politico pongano
l’esigenza di nuove scelte autonome da parte del
sindacato e che le stesse reazioni del sistema e più
stringenti condizionamenti internazionali pongano
l’esigenza di nuovi sacrifici per le classi lavoratrici.
Con quali contropartite? […] Le contropartite non
potranno a breve termine essere commisurate in
termini di riduzione sensibile della disoccupazione
strutturale. Ci vorrà del tempo per questo. E non
potranno neanche essere commisurate in termini di
riforme pur indispensabili con i loro effetti a medio
termine sull’occupazione e il salario dei lavoratori;
questi effetti si faranno sentire anche essi solo con il
tempo, appunto. La contropartita che il sindacato può
pretendere in questo caso – e si tratta di una
contropartita non monetizzabile – potrà consistere
nella possibilità offerta alla classe operaia di
partecipare alla gestione dei suoi sacrifici. È una
contropartita che ripropone, come tutta l’esperienza
recente del movimento sindacale italiano, un
problema di potere, di partecipazione, di articolazione
democratica della società.

Due anni dopo, nel 1978, terminata l’esperienza del


primo monocolore democristiano di “solidarietà
nazionale” e alla vigilia dei rinnovi contrattuali di fine
1978, inizio 1979, i due autorevoli sindacalisti
continuavano a condividere e sostenere la tesi del loro
partito circa i sacrifici dei lavoratori come condizione
necessaria sia di una riduzione della disoccupazione
che dell’adozione di mai chiaramente specificate misure
concrete per il «cambiamento del modello di sviluppo»,
«un mutamento radicale degli indirizzi di politica
economica», il «rinnovamento della vita economica e
sociale del Paese». In un’intervista rilasciata al
quotidiano La Repubblica del 24 giugno 1978, Lama
ribadiva che se si voleva essere coerenti con l’obiettivo
di ridurre la disoccupazione era “ovvio” che ogni
miglioramento delle condizioni dei lavoratori occupati
avrebbe dovuto passare in subordine: «Il sindacato
propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Non si
tratterà di sacrifici marginali, ma sostanziali. […] Nei
prossimi anni la politica sindacale dovrà essere molto
moderata. […] Dal 1969 ad oggi, abbiamo puntato a
introdurre elementi di rigidità nell’impiego della forza
lavoro. […] Ebbene, bisogna essere intellettualmente
onesti. È stata un’idiozia». Il mese successivo, il nuovo
indirizzo sindacale venne sancito all’Assemblea
generale delle tre confederazioni – la cosiddetta svolta
dell’EUR. In un articolo su Le Monde del dicembre di
quell’anno, anche Trentin dichiarava che dopo il 1969 il
sindacato non aveva previsto tutte le implicazioni
economiche delle sue rivendicazioni: «Avremmo
dovuto prevedere che la riduzione degli orari, i nuovi
diritti sindacali, le rigidità che erano state introdotte
nella produzione avrebbero accelerato la crisi senza che
ne venissero predisposte tempestivamente delle
soluzioni. […] Ora bisogna battersi per i sacrifici! Nel
presente contesto, l’austerità è una strategia che punta
a trasformare le strutture economiche e sociali». E
ancora nel 1980, dopo la seconda esperienza di
appoggio del Pci a un monocolore democristiano, nella
sua opera Il sindacato dei consigli sottolineava
l’importanza dell’avvenuto superamento di una logica
per cui il sindacato riteneva di dover chiedere delle
“contropartite certe” ai sacrifici, e sosteneva che il dato
rilevante della svolta dell’EUR era stato proprio il fatto
dell’esser riuscito il movimento sindacale italiano a
prendere finalmente le distanze da una cosa terra terra
come la contrattazione salariale – dall’essere riuscito,
nelle sue parole, «a distaccarsi da tutta una filosofia
sostanzialmente contrattualistica […] tuttora imperante
in molti Paesi d’Europa».
Il Pci e il movimento sindacale italiano non si
sarebbero mai più ripresi da un simile distacco dai
bisogni e dalle domande della loro base sociale,
distacco operato con i “sacrifici” e l’“austerità”, ossia
con la moderazione e la deflazione, concepiti e accettati
come contropartita socio-economica del “compromesso
storico”. I successi elettorali del 1975-1976 vennero
cancellati nel giro di pochi anni, senza che ciò
provocasse alcun ripensamento tra i dirigenti
comunisti. Essi continuarono a non avere dubbi sul
fatto che di fronte alla crisi economica la linea del
partito non avrebbe potuto essere che quella seguita:
mostrare all’intero Paese «un alto senso di
responsabilità nazionale», come si espresse nel 1986
Gerardo Chiaromonte, uno dei maggiori sostenitori della
linea berlingueriana, nel suo libro Le scelte della
solidarietà democratica. Cronache, ricordi e
riflessioni sul triennio 1976-1979. Insomma, anche
negli anni che seguirono il fallimento dell’esperienza del
compromesso storico i dirigenti comunisti rimasero
convinti che di fronte all’acutizzarsi all’interno della
società, in conseguenza della crisi, del conflitto tra
interessi contrapposti la conventio ad excludendum nei
confronti del partito avrebbe potuto essere superata
solo sacrificando la tutela degli interessi della propria
base sociale alla tutela di un presunto quanto
vagamente specificato interesse generale: «dare un
senso ed uno scopo – aveva avuto modo di dire
Berlinguer nel 1977 – a quella politica di austerità che è
una scelta obbligatoria e duratura, e che, al tempo
stesso, è una condizione di salvezza per i popoli
dell’occidente […], in linea generale, ma, in modo
particolare, per il popolo italiano».
Lo storico inglese Donald Sassoon ha osservato che,
lungi dal riuscire ad eliminare una volta per tutte quella
conventio ad excludendum, accettando di sostenere
dei governi democristiani rimanendone escluso il Pci
implicitamente sancì la propria illegittimità. Ad ogni
modo, con quel suo appello etico a una mobilitazione
generale delle “forze democratiche” contro una sorta di
nemico comune alle porte, il partito comunista italiano
era di fatto giunto alla fine dei suoi giorni – prima e
indipendentemente dalla fine dell’Urss.

4. Gli anni Settanta furono per il Pci anche gli anni del
grande imbarazzo per la passata ammirazione e
solidarietà verso l’Unione Sovietica. Come è noto, la
linea del “compromesso storico” finì per spingere
Berlinguer a compiere un’abiura completa dal sistema e
dal Paese emersi dalla Rivoluzione d’ottobre, fino al
riconoscimento del senso di sicurezza che lui e il partito
ricavavano dall’appartenenza dell’Italia al Patto
Atlantico («mi sento più sicuro da questa parte»,
dichiarò in un’intervista al «Corriere della sera» del 15
giugno 1976). Mentre, come vedremo tra un momento,
sul piano della politica interna si possono individuare
importanti elementi di continuità tra la linea del
“compromesso storico” e la tradizione togliattiana del
Pci, sulla questione dell’Urss e del conflitto tra i due
blocchi la rottura con quella tradizione non avrebbe
potuto essere più netta.
Gli scritti e i discorsi di Togliatti rivelano come egli
considerasse estremamente importante il rafforzamento
dell’Unione Sovietica e come si rendesse perfettamente
conto che la guerra fredda l’avrebbe invece indebolita,
tanto più quanto più accanitamente la corsa agli
armamenti avesse continuato a svilupparsi. Togliatti
pertanto riteneva che il movimento operaio e socialista
di ciascun Paese capitalista – a partire dal movimento
operaio italiano, caratterizzato dalla presenza del
maggior partito comunista del mondo occidentale –
dovesse adoprarsi per la distensione dei rapporti
internazionali e la rimozione degli ostacoli che a questa
si opponevano. È vero che in quegli anni mostrarsi
solidale con l’Unione Sovietica non comportava gli
stessi rischi di isolamento culturale e politico che
avrebbe comportato in seguito. Il sistema sovietico di
fatto riscuoteva ancora un’ammirazione diffusa, in
primo luogo per essere riuscito in poco tempo a
trasformare una nazione per lo più composta di
contadini analfabeti o semi-analfabeti («che si
genuflettevano e invocavano la benedizione dello zar»,
come aveva scritto Benedetto Croce) in una grande
potenza industriale che aveva sconfitto il nazismo e che
stava attirando nella sua orbita un numero crescente di
Paesi. Ma resta il fatto che dalle prese di posizione di
Togliatti sull’Urss emerge in modo chiaro la
consapevolezza della forza e del prestigio che ciascun
movimento operaio e socialista nazionale, non importa
quanto autonoma dall’esperienza del “socialismo reale”
fosse la sua linea, oggettivamente ricavava
dall’esistenza di un modo di produzione e di un sistema
sociale alternativi che si erano mostrati capaci di
assicurare persistentemente, insieme alla piena
occupazione, il soddisfacimento dei bisogni primari
dell’intera collettività (da un alloggio caldo a una buona
istruzione e alla cura della salute per tutti, da una
distribuzione molto egualitaria del reddito a una marcata
parità effettiva tra uomini e donne). E, in aggiunta a
questa consapevolezza, la lucidità del capo dei
comunisti italiani circa l’impatto devastante sulle
condizioni di vita di centinaia di milioni di persone su
tutta la terra che avrebbe avuto un serio indebolimento
dell’Unione Sovietica, o addirittura la sua liquidazione
da parte della maggiore potenza economico-militare
degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Nel corso di
quest’ultimo quarto di secolo, i disastrosi effetti geo-
politici della dissoluzione dell’Urss e del blocco
sovietico si sono andati dispiegando davanti ai nostri
occhi, insieme al degrado economico-sociale dello
stesso capitalismo avanzato che quella dissoluzione ha
contribuito a determinare. Si può affermare, alla luce
dell’esperienza, che l’abiura completa del partito di
Berlinguer dal sistema del “socialismo reale”,
apparentemente lungimirante, fu in realtà anche
un’abiura dall’elemento più intelligente della tradizione
togliattiana.
Il principale tratto di continuità con quella tradizione si
ebbe invece in campo economico, rispetto al quale si
può parlare di un robusto quanto ininterrotto filo rosso
di subalternità del Pci nei confronti della nostra cultura
economica laico-liberale. Nel primo trentennio post-
bellico il partito comunista seppe senza dubbio
conquistarsi una posizione egemone all’interno della
cultura italiana: in campo letterario e artistico, tra gli
uomini di cinema e di teatro. Tuttavia l’intelligentsia
organica al partito, pur presente e influente anche nei
campi filosofico, storiografico e giuridico, continuò a
“brillare” per la sua assenza nella principale disciplina
sociale. Paradossalmente, un grande movimento di
ispirazione marxista continuò a rimanere privo al suo
interno di ogni vera dimestichezza con l’economia
politica critica, i suoi sviluppi, le sue implicazioni di
politica economica. L’insicurezza e la subalternità in
materia economica che hanno caratterizzato tutta la
vicenda del Pci sono in buona misura riconducibili a
una sostanziale carenza di interesse, quindi di
competenza, nella materia. Torneremo alla fine del
capitolo sul carattere per così dire congenito di questa
carenza.

5. Eppure la partenza, con il Piano del lavoro della Cgil


del 1949-1950, era stata promettente, nonostante anche
allora dovette apparire piuttosto sorprendente che
un’iniziativa del genere fosse stata promossa dalla
componente sindacale del movimento operaio e
socialista italiano, anziché dalla sua componente
politica. Né allora né in seguito il Pci promosse mai
alcunché di altrettanto articolato in tema di lotta alla
disoccupazione.
Secondo il Piano, l’intervento dello Stato necessario
per iniziare ad eliminare le piaghe dell’enorme
disoccupazione e degli infimi salari italiani avrebbe
dovuto concentrarsi su tre settori: il settore energetico,
quello agricolo e il settore dell’edilizia. L’espansione
simultanea degli investimenti e dell’attività produttiva
in questi tre settori avrebbe fatto uscire dalla
depressione l’intera industria nazionale. Emerge dal
Piano una visione semplice e chiara sia delle relazioni
tra domanda finale e attività economica generale che
delle interdipendenze settoriali. Meritano di essere
segnalati alcuni aspetti e giustificazioni dell’intervento
propugnato dal Piano nei tre settori da esso
direttamente interessati. Considereremo subito dopo le
idee sulla questione del finanziamento del Piano e su
quella dei “sacrifici” dei lavoratori quali emersero dai
lavori della Conferenza economica nazionale convocata
a Roma dalla Cgil nel febbraio 1950 per la discussione
pubblica delle linee del Piano.
Per quanto riguarda l’industria elettrica, la richiesta di
nazionalizzazione avanzata dal Piano partiva dalla
constatazione che qualora fossero state utilizzate tutte
le risorse idriche del Paese la sua produzione avrebbe
potuto essere più che raddoppiata, consentendo di
soddisfare, oltre al fabbisogno nazionale corrente
(limitato anche dalla presenza di migliaia di comuni
ancora privi di elettricità), l’aumento della domanda di
elettricità connesso con l’espansione industriale e
commerciale e con il progresso civile del Paese. Si
sottolineava poi la riluttanza dei gruppi elettrici privati a
costruire nuovi impianti, a meno di poterne vendere la
produzione a prezzi molto elevati dato che «tutti gli
impianti di meno costosa costruzione erano già stati
fatti e quelli che restavano da fare erano i più cari»; da
qui «il ricatto al Paese, o aumento del prezzo
dell’elettricità per cui è il popolo che pagherà le
costruzioni e la proprietà resterà dei monopoli privati,
oppure non si costruiscono altre centrali e il popolo
soffrirà della deficienza di energia». La conclusione di
Di Vittorio: «Signori, se [la costruzione di nuovi
impianti] se la deve pagare il popolo appartengano essi
allo Stato, alla Nazione italiana e non ai privati». Infine,
venne chiaramente espressa nel Piano la tesi che
importanti economie di scala nella produzione di beni-
base come l’elettricità ne giustificassero ampiamente la
nazionalizzazione. In tal modo, dei minori costi unitari
derivanti da quelle economie si sarebbe avvantaggiata
la collettività sotto forma di prezzi bassi dell’energia,
anziché i privati sotto forma di alti profitti.
Per quanto riguarda l’agricoltura, nel Piano
l’attenzione si rivolse non solo e non tanto alla
questione dei contratti agrari – come tenderà ad
avvenire in seguito, con l’attenzione del Pci pressoché
interamente assorbita dalla questione dell’eliminazione
della mezzadria in regioni come la Toscana – quanto alle
questioni del ruolo dello sviluppo industriale
nell’aumento della produttività della terra e della
costituzione di un Ente nazionale per la bonifica,
l’irrigazione e la trasformazione fondiaria. Si sarebbe
dovuto puntare a non «commettere il furto di aumentare
la produttività della terra privata adoprando denaro
pubblico»; lo Stato avrebbe dovuto dire al latifondista:
«Io ti lascio una parte della tua terra in proporzione al
valore presso a poco che aveva la tua estensione
quando non era bonificata o non era irrigata; […] la
restante parte della terra deve essere data ai contadini
nel modo più conveniente e cioè in enfiteusi, dando
così al contadino la garanzia e la certezza assoluta della
sua presenza nel fondo, in modo da stimolarlo a
compiere una parte delle trasformazioni fondiarie e ad
ottenere il maggiore rendimento della terra che gli si dà
e ciò non solo nell’interesse del contadino, ma anche
nell’interesse della collettività».
Quanto all’edilizia popolare, anche per questo settore
il Piano prevedeva la costituzione di un Ente nazionale
che avrebbe dovuto coordinare e potenziare l’attività
degli organismi già esistenti (INA-casa, INCIS,
cooperative, ecc.). Tanto rispetto alla costruzione di
decine di migliaia di case, destinate a dotare di un
alloggio degno una parte cospicua della popolazione,
che rispetto all’esecuzione di edifici e opere pubbliche
come scuole, ospedali, ambulatori, acquedotti e
fognature, il Piano opportunamente sottolineava il
basso contenuto d’importazioni del settore delle
costruzioni, la cui espansione avrebbe dunque potuto
dare lavoro a milioni di disoccupati incidendo in misura
limitata sulla bilancia dei pagamenti.
Particolarmente interessante fu la posizione che
prevalse alla Conferenza sulla questione del
finanziamento del Piano – una posizione che nei
decenni successivi non sarebbe stato più dato di
incontrare nei principali documenti economici prodotti
dal movimento operaio italiano. Si riconobbe che data la
presenza di milioni di disoccupati e di attrezzature
produttive ampiamente inutilizzate, il Piano avrebbe
potuto essere realizzato anche tramite l’”emissione di
segni monetari” – ossia tramite creazione di moneta da
parte dello Stato – senza avere effetti inflazionistici; si
sarebbe trattato di «un prestito che la collettività fa a se
stessa per creare nuove ricchezze che produrranno a
loro volta un reddito che consentirà nuovi risparmi e
nuovi investimenti». Gli investimenti pubblici nei settori
energetico, agricolo ed edilizio si sarebbero
autofinanziati attraverso l’espansione della
produzione, quindi del reddito e del risparmio, che essi
stessi avrebbero determinato: «il Piano finanzia il
Piano», fu l’espressione ripresa da Di Vittorio nelle sue
conclusioni alla Conferenza. Del resto, in un clima
nazionale pesantemente “einaudiano” in campo
economico, i due principali tecnici esterni al sindacato
(e al partito) invitati alla Conferenza per contribuire alla
discussione dei problemi del finanziamento del Piano
furono gli economisti di orientamento keynesiano
Alberto Breglia e Sergio Steve. Entrambi ribadirono la
validità del principio che sono gli investimenti a
determinare i risparmi, attraverso il livello del prodotto
che proprio da essi dipende, e criticarono «la tesi della
coperta che è quella che è e non si può allungare, tesi
prevalente nelle università italiane, nella stampa e
nell’opinione della classe dirigente italiana» (Steve),
pur essendo basata sull’ipotesi, palesemente assurda
nel caso dell’Italia, che tutti i fattori di produzione siano
sempre pienamente impiegati. Secondo tale tesi, che
come vedremo tra un momento finì per prevalere anche
a sinistra nei decenni successivi, data la quantità di
lavoro, terra e capitale disponibile nell’economia, anche
prodotto e reddito nazionale sono da considerarsi come
dati, sicché non è possibile produrre più macchinari o
più case senza ridurre al contempo la produzione di altri
beni.
Infine, la questione dei “sacrifici”. Anche a questo
riguardo troviamo nel Piano un punto di vista
interessante, molto diverso da quello che avrebbe
prevalso in seguito. Innanzitutto non è riscontrabile in
esso alcuna offerta di sacrifici da parte del mondo del
lavoro come manifestazione di “buona condotta” per
ottenere il “premio” di essere ammessi a partecipare al
governo della nazione; tantomeno vi è nel Piano una
disponibilità ai sacrifici come se un sistema socialista
fosse già stato instaurato nel Paese. La possibilità di
sacrifici da parte dei lavoratori venne concepita per
«dopo, non prima» della realizzazione del Piano, come si
espresse Di Vittorio; quindi anche per dopo la
formazione di un governo riformista a forte
partecipazione popolare capace di assicurare il
perseguimento della piena occupazione e del
miglioramento delle condizioni di vita delle classi
lavoratrici come suoi obiettivi primari. Da questo punto
di vista, il Piano del lavoro della Cgil può essere
considerato come una prefigurazione italiana del “patto
sociale” che avrebbe trovato effettiva realizzazione in
buona parte d’Europa nel corso dei Trenta gloriosi (cfr.
Cap. II).
Un ultimo punto merita di essere sottolineato. Il Piano
del lavoro fu una proposta articolata e responsabile
avanzata dal maggiore sindacato di classe al padronato
e ai suoi rappresentanti politici. Qualora la proposta
fosse stata respinta, l’alternativa, prospettata da Di
Vittorio con sobria fermezza, avrebbe potuto essere per
loro estremamente più gravosa: il travolgimento
completo dell’ordinamento sociale, al quale il
movimento operaio e socialista avrebbe potuto vedersi
costretto dal perdurare di condizioni di vita intollerabili
per i lavoratori.

Questi signori si troveranno di fronte ad una seria


responsabilità in presenza dell’offerta dei lavoratori.
[…] Poiché il Piano richiede uno sforzo da parte di
tutti i cittadini proporzionale alle loro possibilità,
quindi uno sforzo più elevato da parte di coloro che
hanno accumulato maggiori ricchezze, è necessario
che un governo che vuole realizzare il Piano sia del
tutto indipendente dai monopoli e dai grandi
latifondisti e si appoggi sulle grandi masse popolari
italiane, perché uno sforzo di lavoro, uno sforzo
economico come quello che occorre per vincere la
disoccupazione […] ha bisogno dell’entusiasmo e
della volontà attiva delle masse popolari, entusiasmo
creatore che in tanti Paesi ha fatto miracoli quando i
lavoratori hanno avuto la coscienza di lavorare non
per l’arricchimento di qualcuno ma per il benessere
generale della società nazionale a cui essi
appartengono; ci vuole un governo che riscuota la
fiducia delle masse popolari. […] Come
risponderanno i ceti possidenti? Questo lo sapremo
nei prossimi giorni in un modo più preciso e
categorico. Quello che ora sappiamo, però, è questo:
che la grande maggioranza del popolo italiano si
raccoglierà attorno alla bandiera della Cgil, attorno
alla bandiera del Piano del lavoro italiano, alla
bandiera della rinascita economica del Paese ed avrà
tanta forza da travolgere tutte le resistenze che vi si
opporranno.

E concludendo la sua relazione alla Conferenza:

Ascoltate signori della classe dirigente, delle società


per azioni, latifondisti, perché è a voi che ci
rivolgiamo. Bisogna operare, non si può restare inerti.
Gli italiani vogliono lavoro per aumentare le
disponibilità di beni, per portarsi ad un livello di vita
economico e culturale superiore a quello attuale.
Credo che non sia nell’interesse di nessuno e meno
di tutti credo sia nell’interesse dei ceti privilegiati di
tenere una parte così imponente del popolo davanti al
muro, davanti alla necessità di operare un
travolgimento completo dell’ordinamento sociale per
creare nuove basi di vita.

Ma né allora né in seguito il Pci si riconobbe in questa


impostazione della lotta politica; al contrario, il partito si
adoperò – con successo, come abbiamo visto sopra –
per far cambiare orientamento anche al sindacato.

6. Ritorniamo dunque sul filo rosso della subalternità


del Pci nei confronti della cultura economica laico-
liberale, che alla fine della quarta sezione di questo
capitolo indicammo come il principale elemento di
continuità tra la linea berlingueriana del “compromesso
storico” e della “solidarietà nazionale” e la tradizione
togliattiana del partito.
Le questioni della disoccupazione e dell’emigrazione
italiana, centrali nel Piano del lavoro, non figurano nel
discorso complessivo di Togliatti come le questioni
preminenti di cui lo Stato avrebbe potuto farsi carico
attraverso la politica economica. Esse continuarono ad
essere menzionate piuttosto fugacemente nei suoi
interventi, che insistevano invece sulla necessità, per
una politica autenticamente operaia e socialista, di
perseguire «la modifica della struttura economica del
Paese e l’allargamento della sfera di influenza delle
masse lavoratrici nella direzione della vita politica del
Paese». In un intervento al Comitato centrale del 24-27
luglio 1963, un anno prima della sua scomparsa,
Togliatti così ribadiva quella che per lui avrebbe dovuto
continuare ad essere la politica non riformista del
partito:

[Q]ui bisogna fare una scelta: ci può essere una


politica riformista e ci può essere una politica
socialista. Sono due cose diverse. Una politica
riformista non è una politica socialista, ma soltanto
una politica che può portare a correggere alcuni dei
difetti della società capitalista, a colmare alcuni degli
squilibri esistenti. Essa non apre la strada al
raggiungimento degli obiettivi fondamentali che una
politica socialista persegue. E quale è lo spartiacque
oggi? Esso sta prima di tutto nella rivendicazione di
riforme di struttura. Le lotte politiche ed economiche
di un partito operaio e socialista devono infatti
tendere a modificare, a iniziare una trasformazione
della struttura economica della società, al tempo
stesso che l’azione di un partito operaio e socialista
deve tendere ad una estensione dell’autonomia e del
potere della classe operaia, delle masse lavoratrici e
delle loro organizzazioni. Se non si vedono questi due
momenti allora si cade nel riformismo.

Ora, obiettivi classici tanto del riformismo che di una


politica socialista – obiettivi come la piena occupazione
e una maggiore protezione dei salariati dalle
vicissitudini del mercato, una distribuzione più equa del
reddito, un sistema avanzato di protezione sociale,
specialmente in campo sanitario e previdenziale, una
buona scuola pubblica di ogni ordine e grado –
avrebbero potuto essere realizzati solo attraverso
politiche monetarie e di bilancio adeguate, nonché
attraverso politiche industriali e commerciali e un
sistema di controlli delle transazioni con l’estero capaci
di allentare persistentemente i vincoli di bilancia dei
pagamenti alla crescita e alla redistribuzione del reddito.
Ciò che invece concretamente si ricava dal discorso
complessivo che il capo comunista era andato
sviluppando nel corso degli anni è l’idea che la
struttura economica e politica della società italiana
avrebbe potuto essere trasformata essenzialmente a
partire dall’attuazione dell’ordinamento regionale e
dalla rottura del potere dei monopoli – non importa
tanto se privati o pubblici (questo almeno fino al 1962,
allorquando, sotto l’impulso del costituendo centro-
sinistra e la nazionalizzazione delle industrie elettriche
da parte del governo Fanfani, anche Togliatti finirà per
sollecitare «la nazionalizzazione di settori di produzione
monopolistici»). Si può dire che la rivendicazione da
parte di Togliatti di una «modifica della struttura
economica del Paese» fosse accompagnata da una sua
marcata sottovalutazione delle possibilità
dell’intervento economico dello Stato, dunque anche
della rilevanza che avrebbe potuto assumere l’impiego
di tutta la forza del partito nel condizionamento delle
scelte di politica economica dei governi.
L’amministrazione di alcune regioni da parte della
sinistra avrebbe potuto fare ben poco per attenuare
«squilibri e difetti della società capitalista»; tantomeno
avrebbe potuto «aprire la strada al raggiungimento
degli obiettivi fondamentali di una politica socialista».
Tutt’al più, essa avrebbe potuto contribuire ad
accrescere il prestigio della sinistra nel Paese attraverso
la sua migliore gestione di servizi locali come
l’assistenza agli anziani, gli asili infantili e i trasporti
urbani. Forse l’insistenza di Togliatti sulla lotta per la
rivendicazione dell’ente regione rispecchiò una sorta di
ripiegamento, dettato dalla convinzione che il Pci non
sarebbe mai stato ammesso a condividere le
responsabilità del governo nazionale. Quanto alla
necessità di una «rottura del potere dei grandi gruppi
monopolistici», continuamente evocata da Togliatti nel
corso del decennio che precedette la sua scomparsa, si
trattò di una rivendicazione mutuata dalla cultura laico-
liberale – da quei gruppi politici da lui definiti di “terza
forza”, ben rappresentati di volta in volta da
intellettuali-politici come Ernesto Rossi, gli “Amici del
Mondo”, Eugenio Scalfari. Con la parola d’ordine del
«controllo democratico dei monopoli», il Pci fece
semplicemente propria la vecchia tesi liberale secondo
cui, senza una legislazione adeguata e adeguati
controlli pubblici, il mercato avrebbe teso a generare
degli ostacoli al buon funzionamento della libera
concorrenza, sotto forma di monopoli capaci di
pregiudicare la situazione economica generale.
Il passo seguente, tratto da un discorso tenuto da
Togliatti al teatro Adriano di Roma il 22 febbraio 1959,
pubblicato il giorno successivo su l’Unità, illustra
concisamente le ragioni della priorità che secondo il Pci
avrebbe dovuto essere assegnata alla lotta ai monopoli:

Non bisogna fare ciò che i monopoli chiedono, ma


bisogna che il governo abbia una posizione di
controllo e di azione contro i monopoli, i quali
tendono a dominare, nel loro esclusivo interesse,
tutta la situazione economica del Paese, e in questo
modo spingono alla rovina masse di piccoli e medi
produttori e di imprenditori privati.

Emerge qui la mescolanza di subalternità culturale e


calcolo politico che caratterizzò la visione economica
del Pci in quegli anni. Si suggerisce in primo luogo, alla
maniera liberale, che eliminati i monopoli la libera
concorrenza sarebbe stata in grado di servire l’interesse
generale, di assicurare cioè a tutti, date le risorse
disponibili, il maggior benessere possibile attraverso
più alti livelli di occupazione, la diffusione del
progresso tecnico, prezzi inferiori. In secondo luogo,
alle grandi imprese (i monopoli) viene contrapposta
come imprenditoria privata progressiva l’impresa
medio-piccola, ossia quell’imprenditoria, prevalente
nelle regioni “rosse”, considerata dal Pci, insieme al
lavoro autonomo, come il principale bacino di
espansione potenziale della base elettorale del partito
nell’insieme del Paese. Solo che era nella grande
impresa, non in quella medio-piccola, che la presenza
del sindacato poteva assicurare una maggiore tutela del
lavoro salariato; era inoltre nella grande impresa, non in
quella medio-piccola, che avevano luogo le principali
innovazioni tecniche, anche sotto la spinta delle
rivendicazioni salariali; ed infine non erano tanto le
grandi imprese, quanto piuttosto le imprese medie e
piccole sparse su tutto il territorio nazionale quelle i cui
livelli di attività dipendevano massicciamente dalle
esportazioni e dunque dal mantenimento della loro
competitività internazionale attraverso i bassi salari (da
lì a qualche anno anche attraverso le svalutazioni della
lira). La “lotta ai monopoli” significò dunque in pratica
la scelta del ceto medio imprenditoriale e del lavoro
autonomo come interlocutori privilegiati del partito, una
scelta sostanzialmente configgente con gli interessi dei
salariati.
Togliatti tendeva a non soffermarsi troppo su
questioni economiche complesse, spesso rinviando al
contributo che alla loro discussione avrebbero dato
“altri compagni”. Ma i compagni capaci di fornire un
contributo non troppo vago erano pochi e tra quei
pochi praticamente nessuno che sulle questioni cruciali
fosse in grado di sviluppare un punto di vista
alternativo al modo di ragionare tradizionale. Per
decenni la questione economica più spinosa rimase
quella della relazione tra consumi e investimenti – la
questione che avrebbe finito per costituire il vero
fondamento della linea dell’“austerità” e dell’offerta di
“sacrifici” (per i lavoratori) da parte dei dirigenti del
partito. Dopo la parentesi del Piano del lavoro, infatti,
tornò a prevalere all’interno del Pci il convincimento
einaudiano che per “fare il pasticcio di lepre” (gli
investimenti) occorresse procurarsi prima “la lepre” (il
risparmio). Non si sarebbe più sentito parlare di
investimenti pubblici che, disponendo il Paese di
manodopera e attrezzature produttive inutilizzate,
avrebbero finito per “autofinanziarsi” con il prodotto e
il reddito aggiuntivi da essi stessi creati, e che dunque
avrebbero potuto essere immediatamente realizzati
tramite “l’emissione di segni monetari”. Come una sorta
di riflesso condizionato, i canoni del buon padre di
famiglia – “non ci sono i soldi”, dunque non possiamo
fare nuove spese senza ridurre quelle che già facciamo
– non avrebbero mai più cessato di influenzare la linea
del partito. Secondo quei canoni, le spese di cui il Paese
avrebbe avuto bisogno, spese per investimenti e per
maggiori consumi sociali, non avrebbero potuto essere
effettuate senza ridurre o almeno contenere i consumi
privati, quindi senza una disponibilità anche da parte
dei lavoratori a compiere il sacrificio di astenersi dal
rivendicare aumenti salariali.
Nel discorso del Pci, come nel modo di ragionare
tradizionale, il risparmio complessivo continuò ad
essere concepito come una grandezza data, sicché un
risparmio pubblico negativo – una spesa dello Stato in
disavanzo – non avrebbe potuto che essere distruttivo
di un uguale ammontare di risparmio privato. Si
continuò a non considerare che per la presenza di
disoccupazione il risparmio pubblico negativo fa
aumentare la produzione e il reddito e quindi crea per
questa via un corrispondente risparmio positivo
privato. Si può dire che dagli anni Cinquanta fino
all’“austerità” berlingueriana e all’inizio del declino del
partito, i suoi dirigenti non riuscirono mai ad
emanciparsi dall’idea dominante secondo cui l’aumento
del consumo privato è di ostacolo alla formazione di
capitale, né dalla teoria antistatalista dello
“spiazzamento”, ossia dall’idea che maggiori livelli di
spesa pubblica per beni e servizi tendono a contrarre,
piuttosto che a sostenere, i livelli di attività del settore
privato dell’economia. Rappresentative al riguardo
sono le posizioni di volta in volta espresse da Giorgio
Napolitano, a lungo considerato uno dei maggiori
esperti di cose economiche tra i dirigenti del partito.
Così, in una sua relazione al Comitato centrale
dell’ottobre 1977 (citata da l’Unità il 17 ottobre di
quell’anno) si affermava che «la prima fondamentale
scelta di carattere generale deve consistere in uno
spostamento di risorse dai consumi agli investimenti, e
nell’ambito dei consumi, da quelli privati a quelli sociali;
in un contenimento del disavanzo pubblico tale da
lasciare spazio sufficiente per il finanziamento
dell’attività delle imprese». E nella Proposta di progetto
a medio termine, pubblicata dal Pci in quello stesso
anno, veniva indicato come “essenziale” che fosse
stabilita la quota di credito e risparmio assorbita dal
settore statale «per offrire una adeguata disponibilità di
credito all’accumulazione del settore privato».
Alla fine degli anni Settanta i comunisti italiani
avevano insomma imparato ben poco dall’esperienza
economica del precedente trentennio. Dalla fine della
guerra l’Italia aveva continuato ad essere caratterizzata
da alti livelli di disoccupazione e da una rilevante
emigrazione netta (circa 3 milioni di espatri netti nel
primo ventennio postbellico, 1946-1966).
Ciononostante, a fronte di tassi di crescita delle
esportazioni stabilmente molto elevati non si era mai
cercato di tenere il più possibile elevati anche i tassi di
crescita della domanda interna e del prodotto. Di fatto,
lo scarto tra crescita delle esportazioni e crescita
dell’insieme dei consumi e degli investimenti interni si
era mantenuto costantemente molto più alto in Italia
che negli altri principali Paesi industriali, generando
cospicui flussi di esportazioni nette di beni e servizi e
saldi positivi nelle partite correnti della bilancia dei
pagamenti. I nostri consumi e investimenti complessivi
avevano dunque continuato a mantenersi non solo di
molto inferiori a quanto il Paese sarebbe stato in grado
di produrre, ma anche inferiori ai suoi livelli di prodotto
effettivi, col corollario che ad una parte rilevante del
risparmio nazionale aveva continuato a corrispondere,
non un’accumulazione di capitale reale, ma
un’accumulazione di crediti verso l’estero. A dispetto di
tutto ciò, alla fine degli anni Settanta i dirigenti del Pci
continuavano a difendere l’opportunità di contenere la
spinta rivendicativa della classe operaia, l’opportunità
di uno spostamento di risorse dai consumi agli
investimenti e di un contenimento della quota di
risparmio assorbita dal settore statale «per offrire una
adeguata disponibilità di risparmio all’accumulazione
del settore privato». Il Pci continuava indefessamente a
predicare le virtù della parsimonia e a rivendicare un
uso oculato dello scarso risparmio nazionale. È molto
probabile che i suoi dirigenti non si rendessero neppure
ben conto del fatto che predicare le virtù della
parsimonia equivaleva in pratica a giustificare forti
disuguaglianze nella distribuzione del reddito.

7. Nella prefazione alla prima edizione del Primo libro


del Capitale (1867), Marx aveva sottolineato che

nel campo dell’economia politica la libera ricerca


scientifica non incontra soltanto gli stessi nemici che
incontra in tutti gli altri campi. La natura particolare
del materiale che tratta chiama a battaglia contro di
essa le passioni più ardenti, più meschine e più
odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse
privato […]. Oggi perfino l’ateismo è culpa levis, in
confronto alla critica dei rapporti tradizionali di
proprietà (corsivi nel testo).

Nel caso della sinistra italiana, la libera ricerca


scientifica e il pensiero critico in campo economico
incontrarono un ulteriore ostacolo nel conformismo
generato dal fenomeno dell’“intelligenza organica”,
rapidamente diffusosi, specialmente all’interno del Pci,
a seguito della pubblicazione tra il 1949 e il 1951 della
prima edizione tematica dei Quaderni del carcere di
Antonio Gramsci. Per Gramsci, se la propria concezione
del mondo è “unitaria e coerente”, «si appartiene
sempre a un determinato raggruppamento» e «si è
conformisti di un qualche conformismo». Del pari, non
c’è organismo nella società civile senza intellettuali ad
esso più o meno “organici”, cioè senza uno strato di
persone “specializzate” nell’elaborazione della
concezione del mondo propria del gruppo sociale di
appartenenza o di elezione. L’“intellettuale organico” di
Gramsci è insomma una figura molto vicina, se non a
quella dei “pugilatori a pagamento” cui fa riferimento
Marx nel Capitale, per distinguerli dai ricercatori
disinteressati, quanto meno a quella di chierici ben
irreggimentati.
L’enfasi di Gramsci sugli intellettuali come categoria
organica di ogni gruppo sociale fondamentale
rispecchia essenzialmente il fatto che al centro della sua
riflessione vi era la questione delle forme dello sviluppo
progressivo verso il dominio da parte di un determinato
gruppo sociale – delle “funzioni” che il partito politico
di quel gruppo avrebbe dovuto compiere per riuscire a
diventare e rimanere il partito dirigente. La sua idea
principale era che il partito politico avrebbe dovuto in
primo luogo riuscire a formare i propri componenti,
«fino a farli diventare intellettuali politici qualificati,
dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni
inerenti all’organico sviluppo di una società integrale,
civile e politica». La riflessione di Gramsci in carcere
non fu dunque quella di un teorico che intendesse
contribuire alla sviluppo di una determinata concezione
della realtà; fu la riflessione di un capo di partito per il
quale si trattava «di fissare un indirizzo di politica
culturale» che fungesse da «autolimite della libertà di
discussione e di propaganda» e di riuscire ad
«esercitare una funzione unificatrice» – ben
diversamente, egli precisò, da quello che normalmente
avviene nel caso dell’università, la quale «eccetto che
in alcuni Paesi, non esercita alcuna funzione
unificatrice».
Ma con l’accumularsi dalla pubblicazione dei
Quaderni delle interpretazioni della riflessione
gramsciana, un equivoco ha teso a formarsi e a
diffondersi sulla nozione di intellettuale organico. È
come se questa nozione, centrale nella riflessione di un
capo di partito naturalmente assorbito dal problema
della conquista del governo politico e dell’egemonia
sociale, fosse stata scambiata per la nozione centrale
della riflessione di un teorico impegnato nello sviluppo
di una concezione del mondo alternativa a quelle
dominanti – sviluppo imperniato appunto su un nuovo
modo di intendere il lavoro intellettuale. Che la
riflessione carceraria di Gramsci non possa essere
interpretata come un’analisi alternativa della realtà
sociale riceve una conferma importante proprio dal
contenuto delle sue note dedicate a questioni
economiche e di quelle sulle critiche di Croce a Marx.
Nelle prime, Gramsci fa confusione tra economia
classica ed economia borghese contemporanea, ossia
tra il contesto teorico in cui lo stesso Marx si mosse e
in base al quale sviluppò la sua critica, e la successiva
teoria economica marginalista, finendo per definire lo
stesso Einaudi un economista classico. In quelle note si
afferma poi senza fondamento che il concetto di lavoro
socialmente necessario (equivalente al concetto di
condizioni normali di produzione delle merci) è
irrilevante per l’economia borghese e si usa del tutto a
sproposito il termine “costi comparati”, che ha un
significato teorico preciso nella teoria classica
(ricardiana) del commercio internazionale; infine, si
menzionano le gare di emulazione socialista tra i
lavoratori come un passo nella direzione giusta laddove
il lavoro sia diventato esso stesso gestore
dell’economia, ma poi esse vengono oscuramente
assimilate a un «modo di comparare i costi», di
«preoccuparsi delle utilità particolari e delle
comparazioni tra quelle utilità per trarne iniziative di
movimento progressivo». Quanto alle sue note sulle
critiche di Croce a Marx, Gramsci sostanzialmente
accetta il terreno di discussione stabilito dal filosofo
napoletano, delle cui argomentazioni non riesce a
cogliere l’arbitrarietà; non si pronuncia su nessuno dei
punti della critica di Croce all’analisi marxiana del valore
e del profitto in cui viene tirata in ballo l’”economia
pura” (la teoria economica corrente) e in cui alle tesi di
Marx viene contrapposta «l’ovvia legge della domanda
e dell’offerta»: Gramsci è evidentemente consapevole di
conoscere troppo poco della teoria economica corrente
per avventurarsi in questo ambito dei convincimenti di
Croce.
Già ai tempi di Gramsci la scarsa dimestichezza con
l’economia politica era un fenomeno diffuso tra i
marxisti italiani. Gramsci ne era consapevole e lo
giudicò con severità considerandolo un grande
pericolo per il movimento operaio. Tuttavia conferisce
alla sua scarsa dimestichezza con la teoria economica
un carattere doppiamente paradossale: in primo luogo
si trattò appunto di scarsa dimestichezza con
l’economia da parte di un marxista, e in secondo luogo
fu Gramsci stesso a sottolineare il pericolo di una
carenza di competenza e spregiudicatezza nell’analisi
dei fenomeni economici. Gramsci in carcere non colmò
questa carenza di competenza. D’altro canto, i soggetti
di cui più desiderava occuparsi e sui quali avrebbe
voluto «fare qualcosa für ewig», come scrisse in una
nota lettera a Tatiana Schucht del 19 marzo 1927, non
avrebbero potuto essere più distanti dall’economia
politica (una ricerca sugli intellettuali italiani, linguistica
comparata, teatro di Pirandello e romanzi di appendice
sono i quattro possibili soggetti indicati in quella
lettera).
Ancora oggi, la difficoltà maggiore per il lettore dei
Quaderni è di riuscire a distinguere al loro interno le
proposizioni che si riferiscono a una situazione post-
rivoluzionaria come quella sovietica degli anni Venti-
Trenta – una situazione al centro della riflessione di
Gramsci in carcere, come la lettura del quaderno
monotematico su Americanismo e fordismo rende
evidente – da quelle che riguardano invece l’azione del
partito della classe lavoratrice in una società capitalista.
La nozione di “intellettuale organico” e quella ad essa
connessa di “egemonia” hanno un significato chiaro,
nonché un fondamento, se riferite alla situazione
dell’Urss ai tempi di Gramsci, caratterizzata da
un’estrema fragilità della società sovietica e
dall’isolamento del potere. In tal caso si tratterebbe di
nozioni interne a una riflessione sui mezzi idonei a
superare tale fragilità e tale isolamento, in vista del
mantenimento e del consolidamento del potere
conquistato con la rivoluzione. Molto più arduo è
invece dare a quelle nozioni senso e fondamento
qualora esse siano riferite a una società caratterizzata
dalla presenza consolidata di gruppi sociali
contrapposti e alla pratica del partito di uno di tali
gruppi. Non si vede, in primo luogo, come potrebbe
formarsi la teoria o concezione della realtà in base alla
quale un gruppo sociale elaborerebbe i propri
intellettuali organici (=dirigenti=specialisti+politici) se
tutti gli intellettuali fossero effettivamente organici a
questo o quel gruppo sociale. L’intellettuale organico di
Gramsci è in ultima analisi semplicemente un quadro più
o meno qualificato di partito, soggetto alla sua
disciplina e non in grado di elaborare autonomamente
alcunché sul piano dell’interpretazione della realtà. Il
modo di essere del nuovo intellettuale avrebbe dovuto
consistere per Gramsci nel mescolarsi attivamente alla
vita pratica come “persuasore permanente”. Ma
persuasore permanente di che cosa? Delle buone
ragioni del proprio gruppo sociale, della legittimità dei
suoi interessi o magari della loro superiorità rispetto
agli interessi contrapposti degli altri gruppi? Non si
vede che egemonia effettiva avrebbe potuto essere
conquistata sulla base di una simile azione di mera
propaganda o “persuasione permanente”.
Alla luce di quanto sopra, si può dire che all’interno
della sinistra italiana, nei decenni successivi alla
seconda guerra mondiale, la riflessione carceraria di un
capo di partito essenzialmente interessato alla funzione
dell’intellettuale quale “persuasore permanente” abbia
giocato il ruolo svolto altrove o in epoche precedenti
della storia del capitalismo dall’analisi spregiudicata di
studiosi come Ricardo, Marx o l’economista borghese
John Maynard Keynes. Una riflessione sullo specifico
modo di essere dell’intellettuale politicamente
impegnato, che si pone al servizio di un partito, venne
scambiata per un contributo teorico suscettibile di
servire da fondamento all’azione pratica. L’inevitabile
conseguenza di un simile equivoco fu che
continuarono a dominare incontrastate, finendo per
orientare di fatto l’azione di tutte le forze in campo, le
uniche vere idee filosofiche e economiche presenti sulla
scena nazionale: quelle di Croce sommate a quelle di
Einaudi.
La formazione di un equivoco come quello qui indicato
e la soggezione culturale ad esso collegata possono
contribuire a spiegare il paradosso dell’assenza di
politiche di pieno impiego nell’esperienza italiana del
secondo dopoguerra. È indubbio che un fattore che nel
primo trentennio post-bellico spinse i principali Paesi
occidentali al perseguimento di politiche di pieno
impiego fu la necessità di togliere spazio ai movimenti
di opposizione al capitalismo e al sistema dell’economia
di mercato. È paradossale allora che proprio l’Italia, che
aveva il più forte partito comunista dell’Occidente, non
abbia sostanzialmente mai conosciuto politiche di pieno
impiego. Il Pci traeva gran parte della sua forza dal
bisogno di rappresentanza politica di masse di
lavoratori costantemente minacciate dalla
disoccupazione e scarsamente protette dallo Stato;
proprio in ragione di tale forza, la pressione per il
perseguimento di politiche di pieno impiego avrebbe
dovuto essere in Italia maggiore che altrove. Il fatto che
ciò non avvenne è in buona misura riconducibile
all’ininterrotta soggezione del comunismo italiano nei
confronti del pensiero laico-liberale del Paese.

Nota bibliografica
La strategia del “compromesso storico” venne
originariamente delineata da Enrico Berlinguer in tre
articoli apparsi su Rinascita il 28 settembre, il 5 ottobre
e il 12 ottobre 1973, poi ripubblicati nel secondo volume
di E. Berlinguer, La “Questione comunista”, Editori
Riuniti, Roma 1975. Sulla proiezione internazionale di
quella strategia e il suo messaggio socio-economico, si
vedano, dello stesso Berlinguer, La politica
internazionale dei comunisti italiani, Editori Riuniti,
Roma 1976 e Austerità, occasione per trasformare
l’Italia, Editori Riuniti, Roma 1977 (da cui è tratta la
citazione di p. 199). Le implicazioni di politica
economica del “compromesso storico” e della
“solidarietà nazionale”, con particolare riguardo
all’irremovibilità per il Pci dei vincoli esterni alla crescita
dei salari e dell’occupazione, emergono con particolare
chiarezza dagli atti del convegno promosso dal CESPE
nel marzo del 1976, al quale si è fatto riferimento nella
sez. 3, dal titolo «Crisi economica e condizionamenti
internazionali dell’Italia”, Quaderni di Politica ed
economia, Nuova Serie, n. 1, Editori Riuniti, Roma 1976.
Oltre alla comunicazione di Massimo Pivetti, gli altri due
contributi critici a quel convegno furono gli interventi
di Domenico Mario Nuti e di Robert Rowthorn. Sul
convegno del CESPE si veda anche P. Bini, “The Italian
economists and the crisis of the nineteen-seventies.
The rise and fall of the ‘conflict paradigm’”, History of
Economic Thought and Policy, n.1, 2013, pp. 86-89.
Sul convincimento di parte comunista della necessità
di combattere l’inflazione e affrontare il problema della
bilancia dei pagamenti attraverso riduzioni della spesa
pubblica, il contenimento dei salari e lo spostamento di
risorse dai consumi agli investimenti, si veda G.
Chiaromonte, L’accordo programmatico e l’azione dei
comunisti italiani, Editori Riuniti, Roma 1977. La natura
dei vincoli di bilancia dei pagamenti alla crescita
dell’occupazione nel caso italiano e le linee di politica
economica più idonee ad allentarli, sono discusse in M.
Pivetti, Bilancia dei pagamenti e occupazione in
Italia. Integrazione internazionale e equilibri sociali,
Rosenberg & Sellier, Torino 1979. Sull’inutilità
dell’astensione dal consumo come fattore permissivo
dell’investimento in presenza di disoccupazione, si
veda A. Barba e G. De Vivo, “Lo spreco della
parsimonia”, in Economia e luoghi comuni, a cura di A.
Di Maio e U. Marani, L’asino d’oro, Roma 2015. Le
interviste a Lama e a Trentin cui si è fatto riferimento
alle pp. 197-198 del testo, pubblicate rispettivamente nel
gennaio e nel dicembre del 1978 su La Repubblica e Le
Monde, sono citate anche in A. Lipietz, L’audace ou
l’enlisement. Sur les politiques économiques de la
gauche, Editions La Découvert, Parigi 1984, pp. 87-88 e
90-91.
Per un’analisi critica dell’esperimento politico del
“compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”,
si vedano D. Sassoon, Cento anni di socialismo: la
sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Editori
Riuniti, Roma 1997, cap. 20, e, dello stesso autore, The
Strategy of the Italian Communist Party. From the
Resistance to the Historic Compromise, Frances Pinter,
Londra 1981. Si veda anche L. Paggi e M. D’Angelillo, I
comunisti italiani e il riformismo, Einaudi, Torino 1986
(da cui è tratto il titolo del capitolo), in part. cap. I. Il
dissenso, all’interno del Pci, sulla linea dell’EUR (cfr.
sopra, p. 198) è discusso in M. Golden, Labor Divided.
Austerity and Working Class Politics in Contemporary
Italy, Cornell University Press, Ithaca, NY e Londra
1988.
Le posizioni di Togliatti cui si è fatto riferimento nella
sez. 4, tanto quelle sui temi di politica interna che quelle
sull’Urss e il conflitto tra i due blocchi, sono state tratte
soprattutto dai suoi scritti e discorsi ripubblicati con il
titolo Togliatti e il centrosinistra, 1958-1964, Istituto
Gramsci – Sezione di Firenze, Cooperativa Editrice
Universitaria, Firenze 1975. Sul mutato atteggiamento di
Togliatti rispetto alle nazionalizzazioni, si veda la sua
relazione al X congresso del Pci. Per quanto riguarda il
Piano del lavoro, gli atti della conferenza promossa
dalla Cgil, sulla quale ci siamo soffermati nella sez. 5, si
trovano in Il Piano del lavoro. Resoconto integrale
della Conferenza economica nazionale della Cgil,
Roma 18-20 febbraio 1950, Stab. tip. Vesisa, Roma 1950.
Nel 1975 la facoltà di economia e commercio
dell’università di Modena organizzò un convegno sul
Piano del lavoro, i cui atti sono stati pubblicati nel
volume Il piano del lavoro della Cgil, 1949-1950,
Feltrinelli, Milano 1978.
Rispetto alla nozione gramsciana di “intellettuale
organico”, si è fatto riferimento nell’ultima sez. del
capitolo a passi dei Quaderni del carcere contenuti in:
A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della
cultura, Editori Riuniti, Roma 1991, in part. pp. 5, 7, 9,
13, 41; Il materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 4, 7, 9-
16, 22-3, 264-71, 335-7, 342-3; Note sul Machiavelli
sulla politica e sullo stato moderno, Editori Riuniti,
Roma 1991, pp. 459-65. Il passo di Marx sui “pugilatori a
pagamento” è contenuto nel poscritto alla seconda
edizione del Primo libro del Capitale. Per le critiche di
Croce a Marx discusse da Gramsci, si vedano i capitoli
III-VII di B. Croce, Materialismo storico ed economia
marxistica, Laterza, Bari 1961 (10^ ediz.), spec. pp. 65-6,
70, 75, 138, 152-58, 160 e 163. Sulle note economiche di
Gramsci, si vedano anche le osservazioni di Sraffa in N.
Badaloni, “Due manoscritti inediti di Sraffa su Gramsci”,
Critica Marxista, 1 (6), 1992. Le seguenti opere
possono poi considerarsi come particolarmente
rappresentative della considerevole mole di letteratura
dedicata all’interpretazione della riflessione carceraria di
Gramsci: N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi,
Torino 1975; G. Vacca, Politica e storia in Gramsci,
Editori Riuniti, Roma 1977; C. Luporini, Dialettica e
materialismo, Editori Riuniti, Roma 1978; A. Asor Rosa,
Intellettuali e classe operaia, La Nuova Italia, Firenze
1973. Infine, sul conformismo generato dal fenomeno
dell’”intelligenza organica” e la subalternità dei
comunisti italiani nei confronti della cultura economica
laico-liberale, si veda M. Pivetti, “Sulla rilevanza
analitica dei Quaderni e la questione della loro
influenza”, in G. Vacca (a cura di), Gramsci e il
novecento, Carocci, Roma 1997, Volume Secondo.
Capitolo VII

La sinistra “antagonista”

1. Proprio di fronte al cambiamento dei rapporti di forza


a favore del lavoro dipendente e all’acutizzarsi del
conflitto distributivo in Europa alla fine degli anni
Sessanta, una parte della sinistra europea imboccò un
sentiero di progressivo allontanamento dalle questioni
economiche e di classe, ponendosi inizialmente come di
fatto antagonista proprio nei confronti della sinistra
tradizionale e divenendo in seguito sempre più
individualista, attraverso lo spostamento della sua
attenzione dalla sfera dei diritti sociali a quella dei diritti
civili.
Abbiamo già fatto riferimento nel terzo capitolo (cfr.
sopra, pp. 110-111) ai due fiumi scaturiti dal maggio
francese e al ruolo di uno di essi nella svolta ad U
compiuta nel 1982-1983 dal governo della sinistra unita
in Francia: quello dell’insofferenza verso ogni forma di
autorità e di potere; dell’individualismo anarcoide;
dell’autogestionismo antistatalista; dell’antisovietismo
e della mitizzazione della rivoluzione culturale cinese.
All’indomani del collasso del “socialismo reale”, in
tutto il continente questa sinistra cosiddetta
antagonista cessò definitivamente di occuparsi
criticamente di questioni economiche e di classe,
sostituite dall’ecologismo e dall’antinuclearismo, dalle
questioni legate ai diritti degli omosessuali e delle
minoranze etniche, dal nuovo femminismo maternalista
della differenza biologico-sessuale piuttosto che
sociale e culturale. La liberazione di ogni tipo di istanze
individuali, un magma costituito dal diritto alla diversità
– rivendicato da tutte le comunità, da tutte le minoranze
e dai singoli individui – ha finito per informare il
discorso e l’azione politica di questa sinistra.
Meritano però qui di essere innanzitutto segnalati due
filoni di pensiero nei quali ha finito per riconoscersi una
parte della sinistra antagonista. Da un lato, la militanza
ecologista ha favorito un crescente diffondersi al suo
interno di una sorta di ideologia della frugalità, ossia di
un punto di vista ostile alla crescita economica tout
court, indipendentemente dal contesto culturale e dalle
politiche suscettibili di promuoverla. Dall’altro e
indipendentemente dal filone della “decrescita”, anche
all’interno della sinistra antagonista si è finito per
flirtare con la tesi, già precedentemente ricordata (cfr.
cap. I, pp. 21-23), secondo cui fattori strutturali di
natura tecnologica e demografica, piuttosto che linee di
politica economica riflettenti i rapporti di forza venutisi
a stabilire all’interno del capitalismo avanzato nel corso
degli ultimi decenni, avrebbero determinato una sua
ineludibile tendenza alla stagnazione. Per il primo di
questi due punti di vista la crescita della produzione e
del consumo non sarebbe auspicabile e andrebbe
combattuta; per il secondo, auspicabile o meno, la
crescita sarebbe in ogni caso impedita da fattori
oggettivi e le politiche economiche potrebbero farci ben
poco. Nel discutere delle posizioni assunte dalla
sinistra antagonista conviene iniziare proprio da questi
due filoni di pensiero: nonostante le apparenze – la
materia oggetto di entrambi essendo appunto costituita
dal problema della crescita economica – rappresentano
le due manifestazioni più importanti dell’effettivo
allontanamento dalle questioni economiche e di classe
che si è verificato al suo interno. Considereremo
successivamente l’impegno di questa sinistra nella
difesa del “diritto alla diversità”, ossia il suo
coinvolgimento nel variopinto mondo dei diritti civili.

2. L’ecologismo e un’impressione d’inconcepibilità di


«una crescita infinita in un pianeta finito» hanno
determinato all’interno della sinistra antagonista
francese, italiana e tedesca un certo successo di una
letteratura che propugna la necessità di puntare alla
costruzione di una “società della decrescita”.
Riconoscendo che nella nostra società la decrescita è
fonte di catastrofi – un semplice rallentamento della
crescita, osserva Serge Latouche, il principale
esponente di questa corrente, «sprofonda le nostre
società nello sgomento, aumenta i tassi di
disoccupazione e precipita l’abbandono dei programmi
sociali, sanitari, educativi, culturali e ambientali che
assicurano un minimo di qualità della vita» – si
argomenta che essa è concepibile solo in un’altra
società, quella, appunto, della decrescita, che sarebbe
contraddistinta dall’ampio spazio che in essa la
“povertà materiale” lascerebbe alla “creatività
dell’immaginazione”. Si postula in pratica che la durezza
delle condizioni materiali di vita acuirebbe in quest’altra
società lo spirito d’inventiva su come assicurarsi
comunque una “maggiore gioia di vivere”. La società
della decrescita è prefigurata come una società in cui
ciascun individuo avrebbe sia il tempo che lo stimolo
necessari ad inventarsi modi per vivere frugalmente
felice.
Secondo queste idee occorrerebbe in sostanza uscire
dalla società industriale – “uscire dall’economia”,
intesa sia come scienza economica che come vita
economica di qualsiasi società industriale moderna.
Quella cui si anela è una società pre-industriale,
essenzialmente una società contadina, caratterizzata da
una generale austerità o “sobrietà volontaria”, in cui
«un’assemblea possa dire: ‘Due paia di scarpe bastano.
Non avete bisogno di dieci paia’». Per i fautori della
decrescita si tratterebbe tuttavia di una società
dell’abbondanza, anche se di «un’abbondanza
frugale», in quanto basata sull’autolimitazione dei
bisogni che permetterebbe a tutti di vivere meglio
consumando e lavorando di meno. I teorici della
decrescita ritengono che il nemico principale vada
individuato, non nella qualità e nei livelli relativamente
bassi di consumo della maggioranza della popolazione,
ma nel generale sovra consumo; nella nuova società da
essi auspicata ogni lavoro, leggero o pesante che sia,
dovrebbe essere svolto non per guadagnare del denaro
con cui far fronte alle proprie necessità, senza riguardo
al contenuto del lavoro stesso, ma per produrre beni e
servizi per quanto possibile direttamente utili a chi li
produce. Si auspica insomma una sorta di ritorno
all’autoproduzione e una rinuncia al conforto materiale,
onde «restituire dignità alla povertà». Nella società
della decrescita dovrebbe essere decretata una
moratoria sull’innovazione tecnologica, e, in un
contesto di tendenziale autosufficienza di municipalità
sufficientemente piccole da poter essere direttamente
controllabili dai loro cittadini, i bisogni verrebbero
soddisfatti da unità produttive locali di piccole
dimensioni impieganti “tecniche sostenibili”.
Per i “decrescenti” ciò che conta è ritornare al passato
– un passato più o meno remoto a seconda del grado di
ascetismo dei diversi autori – comunque reso per così
dire permanente da un blocco istituzionalizzato del
progresso tecnico e dell’aumento della produttività del
lavoro. Essi sono per il rigetto di qualsiasi società
produttivista: non solo del capitalismo e della
produzione per il profitto, ma di ogni altro tipo di
società più o meno socialista che miri a una più equa
distribuzione dei frutti della crescita e alla
conservazione dell’ambiente attraverso la
regolamentazione o il controllo diretto da parte dello
Stato dei processi produttivi. Nelle parole di Latouche:

La scuola della decrescita non colloca il cuore del


problema nel neo o ultraliberismo o nell’universo del
mercato, ma nella logica della crescita percepita come
essenza dell’economicità. In questo il progetto è
radicale. Non si tratta di sostituire una “buona
economia” a una “cattiva”, una buona crescita o un
buon sviluppo a una crescita e a uno sviluppo cattivi,
ripitturati di verde, di sociale e di egualitario, con una
dose più o meno forte di regolamentazione statalista e
di solidarietà sociale. […] Il progetto della decrescita,
di fatto, non è né quello di un’altra crescita, né quello
di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale,
verde, rosso eccetera), ma piuttosto la costruzione di
un’altra società.

E ancora:

Noi rifiutiamo di “salvare” i miti di un’altra economia,


di un’altra crescita o di un altro sviluppo (che siano
all’insegna del keynesismo, del pubblico, del
socialismo, dell’umanesimo, della sostenibilità ecc.).
[…] Non basta mettere in discussione il capitalismo.
Bisogna contestare ogni società della crescita. E su
questo Marx non ci aiuta. […] Capitalismo più o meno
liberista e socialismo produttivista sono due varianti
di uno stesso progetto di società della crescita
fondato sullo sviluppo delle forze produttive, che
dovrebbe favorire il cammino dell’umanità verso il
progresso. […] La nostra concezione della società
della decrescita è un “superamento” della modernità
(corsivi nell’originale).
Un “superamento della modernità” che resta tuttavia
molto vago. Non è mai chiaro nella letteratura sulla
decrescita quali sarebbero i rapporti di produzione e di
distribuzione nella nuova società, né se l’intero
prodotto andrebbe ai lavoratori in una società nella
quale, secondo i suoi sostenitori, nessuno lavorerebbe
più di due ore al giorno e tutti sarebbero occupati.
Insomma, che fine vi farebbero il capitale e il profitto? Il
“superamento della modernità” auspicato dai
sostenitori della decrescita è poi francamente, oltre che
vago, un po’ sinistro: il lettore dei loro scritti può
difficilmente evitare che gli vengano continuamente alla
mente Pol Pot e i Khmer rossi. Fortunatamente, i
“decrescenti” avvertono il bisogno di dire qualcosa
sulla “transizione” alla società della decrescita e qui
l’argomentare si fa più familiare e rassicurante. Così
Latouche osserva che per alleviare oggi le sofferenze di
numerose popolazioni europee, a partire da quella
greca, sarebbero indispensabili dei rimedi transitori di
buon senso, come la riduzione del tempo di lavoro e il
ricorso a rimedi keynesiani come i disavanzi pubblici e
misure risolutamente protezionistiche. Egli osserva
inoltre, con riferimento alla Francia e alle elezioni
politiche del 2012, che «il programma economico più
intelligente era quello di Marine Le Pen […], di fatto più
o meno il programma che avrebbe dovuto avere la
sinistra». Dopotutto Serge Latouche ha un passato di
economista critico, durante il quale deve aver avuto
dimestichezza con letture decisamente più sensate delle
sue attuali fonti d’ispirazione (tra le quali primeggiano il
pensiero del teologo-filosofo Ivan Illich e L’economia
dell’età della pietra dell’antropologo Marshall
Sahlins).

3. L’idea dell’impossibilità della crescita ha fatto


breccia a sinistra non soltanto con lo scatenamento
della furia crescitoclasta dei “decrescenti”, ma anche
con il diffondersi dell’apparentemente più ragionevole
convinzione che il rallentamento del processo di
crescita dell’ultimo quarantennio abbia poco a che
vedere con la carenza della domanda aggregata e le
politiche economiche liberiste, risultando invece da un
calo del saggio di profitto e della propensione ad
investire, ovvero da una più fondamentale
contraddizione del processo di accumulazione
capitalistica. Questa posizione è espressione dell’antica
avversione della sinistra più radicale alle politiche
keynesiane, considerate in fin dei conti dannose in
quanto

mirano a portare acqua al mulino delle tesi […]


secondo le quali le razzie del capitalismo possono
essere in qualche modo controllate e regolate se solo
vi fosse un ritorno ad alcune delle politiche del
passato. Esse mirano ad impedire la comprensione del
fatto che vi è una «tara profonda e intrinseca», vale a
dire delle contraddizioni irrisolvibili all’interno del
capitalismo che possono essere superate solo
attraverso la rivoluzione socialista e la fine del
sistema del profitto capitalistico.

Ora, a prescindere dall’effettivo operare delle forze che


determinerebbero la caduta del saggio di profitto (come
pure delle controforze, che nei Trenta pietosi avrebbero
in ogni caso dominato), le ragioni dell’avversione alle
politiche keynesiane potrebbero essere comprese
qualora il «ritorno alle politiche del passato» agisse
come fattore di depotenziamento del fronte del lavoro
nel conflitto di classe. Se, viceversa, ci si convincesse
che una forte azione di controllo e regolazione del
capitalismo opera nel senso di rafforzare, non di
indebolire, il fronte del lavoro, le ragioni di
quest’avversione svanirebbero. La critica alle politiche
economiche orientate al buon funzionamento del
capitalismo, in altri termini, ha un significato politico
chiaro soltanto in una fase molto avanzata del conflitto
di classe e delle conquiste dei salariati. In una fase
come quella attuale, appaiono piuttosto come una
forma di pensiero dal contenuto giustificazionista, che
finisce di fatto per rafforzare il fianco della
conservazione.
Queste considerazioni contribuiscono a spiegare il
successo del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel
XXI secolo, anche tra le fila della sinistra antagonista.
Questo autore ritiene ci si trovi di fronte a un tasso di
crescita lenta plurisecolare, determinato da fattori
tecnologici e demografici, al quale tutte le nazioni
finirebbero prima o poi per convergere. Alla luce di
questa convinzione, i casi di più alta crescita sarebbero
null’altro che una manifestazione dell’avvicinamento
dei Paesi a più basso grado di sviluppo a quelli che si
trovano sulla frontiera tecnologica, come pure del
recupero – nell’ambito dei Paesi industrialmente più
avanzati – di fasi di temporaneo arresto o rallentamento
del processo di crescita. L’andamento del capitalismo
mondiale non rifletterebbe quindi che una legge
millenaria, semplicemente di tanto in tanto localmente
perturbata da circostanze di natura accidentale. Né la
crescita del prodotto né la sua distribuzione tra salari e
profitti dipenderebbero dalle linee di politica economica
effettivamente perseguite nei diversi contesti e dai
sottostanti rapporti di forza tra le classi: nella sua
analisi, tanto il tasso di crescita del prodotto che la sua
distribuzione sono sostanzialmente dei dati esogeni,
entrambi dipendendo dall’offerta di lavoro e dalla sua
produttività (ossia dal progresso tecnico). Egli rileva
che

L’Europa continentale – ed in particolare la Francia –


vivono in larga misura nella nostalgia dei Trenta
Gloriosi, vale a dire di quel periodo di trent’anni, dalla
fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Settanta,
durante il quale la crescita è stata eccezionalmente
forte. Non comprendiamo quale genio malvagio ci ha
imposto una crescita così debole a partire dalla fine
degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta.
Ancora oggi, all’inizio degli anni Duemiladieci, ci
immaginiamo spesso che la cattiva parentesi dei
Trenta pietosi (che sarebbero in realtà trentacinque o
quarant’anni) si chiuda, che quest’incubo termini e
tutto ricominci come prima. Di fatto, quando visti in
prospettiva storica, appare chiaramente che è proprio
il periodo dei Trenta Gloriosi ad essere stato
eccezionale, semplicemente perché l’Europa aveva
accumulato nel corso degli anni 1914-1945 un enorme
ritardo di crescita con gli Stati Uniti, che è stato
rapidamente colmato proprio nei Trenta Gloriosi.
Quando questa convergenza è avvenuta, l’Europa e
gli Stati Uniti si sono ritrovati insieme sulla frontiera
mondiale, e si sono messi a crescere allo stesso ritmo,
che è il ritmo strutturalmente lento della frontiera
mondiale. […] È probabile che la Francia, la Germania
e il Giappone avrebbero colmato il loro ritardo di
crescita generato dal collasso 1914-1945 a
prescindere dalle politiche economiche adottate, o
quasi. Al più potremmo affermare che lo statalismo
non ha nuociuto. Allo stesso modo, una volta che la
frontiera è stata raggiunta, non stupisce che questi
Paesi hanno smesso di crescere più dei Paesi
anglosassoni e che i tassi di crescita si sono allineati.
In prima approssimazione, le politiche di
liberalizzazione non sembrano aver cambiato
questa elementare verità, né innalzando e nemmeno
riducendo la crescita (corsivi aggiunti).

Ci troviamo qui di fronte all’idea centrale di questo


filone di pensiero. La tesi dell’“impossibilità della
crescita”, quali ne siano le cause e i giudizi sui livelli
raggiunti nell’ultimo trentennio – grandemente
moderati, secolarmente stagnanti, convergenti ad un
presunto ritmo plurisecolare lento – è in essenza la tesi
dell’impossibilità di influenzare la crescita attraverso
la politica. Del ruolo svolto da questa tesi come
potente strumento di conservazione dello status quo
abbiamo già detto nel primo capitolo. Ci interessa qui
porre in luce che una ragione non secondaria
dell’attrattiva da essa esercitata risiede nel fatto di
costituire un’idea deresponsabilizzante. Che si tratti di
senso di colpa derivante da conversioni
opportunistiche o di frustrazione generata da una
genuina sensibilità sociale, la “crescita impossibile” è
un formidabile alibi, ed è pertanto un comodo abito
mentale nel quale ci si infila senza troppa fatica.
Vi è poi un secondo aspetto che ha favorito la
diffusione di questa idea nella sinistra antagonista. Nel
corso degli ultimi decenni, essa ha coltivato una sorta
di “terzomondismo mondialista” che ha intrecciato
confusamente anticolonialismo e liberismo. La tesi
secondo cui lo sviluppo dei Paesi più avanzati sarebbe
avvenuto a danno dei Paesi meno sviluppati è stata
riproposta per sostenere che la mondializzazione, per
quanto socialmente dannosa nel centro capitalistico,
avrebbe di fatto compromesso quei meccanismi di
asservimento neocoloniale che impedivano lo sviluppo
nella periferia. La bassa crescita del centro, come pure
l’elevata crescita della periferia, sarebbero null’altro che
la manifestazione di questo mutamento. Al motto di
«Nessuna frontiera, nessuno Stato», la sinistra
antagonista si è mossa contro il nazionalismo, il
razzismo, il capitalismo, di fatto identificati come un
solo nemico. Lo stesso benessere relativamente più
elevato dei lavoratori occidentali è stato percepito come
derivante dallo sfruttamento dei lavoratori del terzo
mondo. Apparentemente, queste tesi danno al conflitto
di classe un contenuto nientemeno che universale. In
concreto, individuando come terreno di quel conflitto il
mondo, rappresentano la forma più estrema di
spoliticizzazione della vita sociale, finendo di fatto per
fare dello sterile antioccidentalismo e dell’utile
antistatalismo.

4. La rivendicazione del “diritto alla diversità” cui


abbiamo fatto riferimento all’inizio del capitolo può
considerarsi come un aspetto del più generale
fenomeno del relativismo culturale, molto presente
all’interno della sinistra antagonista: una specie di odio
verso se stessi, che nel corso degli ultimi trent’anni ha
portato un po’ dappertutto in Europa a reclamare il
rispetto integrale dei costumi stranieri, aprendo la
strada a ogni sorta di eccezioni all’universalismo della
legge.
Differenzialismo e relativismo culturale ricevettero un
forte impulso dalla fondazione in Francia nell’autunno
del 1984 di SOS Racisme, un movimento che contribuì a
minare, in un tempo relativamente breve, buona parte
del lungo lavoro assimilazionista che era stato
precedentemente compiuto in quel Paese dalle sue
istituzioni repubblicane. La professione di fede
contenuta nel primo numero di Globe, mensile
dell’antirazzismo francese diretto da Bernard-Henri
Lévy, così recitava: «Di sicuro siamo risolutamente
cosmopoliti. Di sicuro tutto ciò che è tipicamente
francese (franchouillard) o patriottardo (cocardier) ci è
non solo estraneo ma odioso». Per tutti i movimenti del
tipo di SOS Racisme costituitisi in Europa nel corso
degli ultimi trent’anni, le comunità di diversa origine
stabilitesi sul territorio di ciascuna nazione europea non
avrebbero più dovuto sforzarsi di fondersi in un
medesimo amalgama con la popolazione autoctona, ma
avrebbero dovuto al contrario affermare con
determinazione tutte le proprie differenze, le proprie
specificità, concepite come altrettante “opportunità”.
Naturalmente, l’afflusso continuo di lavoratori stranieri
e i conseguenti ricongiungimenti familiari dovevano
essere considerati come le principali fonti di
arricchimento di tali “opportunità”: «l’immigrazione è
una fortuna, un arricchimento» andava conclamando la
sinistra antagonista, mentre la presenza di una
crescente popolazione immigrata di fatto peggiorava
sempre più le condizioni di vita nei quartieri popolari;
sovrapponendosi al disimpegno crescente dello Stato,
accelerava dappertutto il degrado della scuola
pubblica; regalava episodi del tipo del capodanno di
Colonia. Al contempo, la posizione di generosa
apertura all’immigrazione, come abbiamo già ricordato
nel quarto capitolo, faceva oggettivamente il gioco
delle imprese, naturalmente interessate a rifornirsi a
basso costo di tutta la manodopera di cui avevano
bisogno, reclutando gli immigrati come schiavi e
lasciando il più possibile contrattualmente indeboliti i
lavoratori locali. È anche grazie al cosmopolitismo della
sinistra “antagonista” che in tutta Europa le
organizzazioni padronali hanno potuto più agevolmente
far tacciare di razzismo o xenofobia da parte dei
principali mezzi di comunicazione le manifestazioni di
ostilità popolare all’immigrazione.
All’interno della sinistra antagonista, in un rapporto
piuttosto stretto con l’ecologismo mediato dalla
comune idealizzazione della natura, va poi collocato
anche il femminismo della differenza, che dagli Stati
Uniti si è diffuso in Europa nel corso degli ultimi
trent’anni e per il quale la diversità biologica è molto
più importante della diversità sociale. Il nuovo
femminismo postula che la diversità biologica
renderebbe l’universo femminile, mosso allo spirito di
sacrificio ed al coraggio dalle virtù naturali della
maternità, un universo totalmente differente da quello
maschile, predestinato all’opposto alla prevaricazione,
alla violenza e all’asservimento della natura. Proprio
questo dualismo sessuale e la specificità della natura
femminile giustificherebbero la rivendicazione di un
sistema giuridico fondato su diritti particolari, specifici
all’universo delle donne; in pratica, la rivendicazione di
una diversità dei diritti. Come è noto, il femminismo pre-
anni Ottanta alla Simone de Beauvoir mirava
all’emancipazione delle donne attraverso la
realizzazione dell’uguaglianza tra i sessi e alla parità dei
diritti, in primo luogo in campo economico, senza allo
stesso tempo mai perdere di vista le differenze di classe,
ossia senza perdere di vista che sono molto maggiori le
differenze esistenti tra donne appartenenti a classi
sociali diverse che non quelle esistenti tra donne e
uomini appartenenti alla medesima classe. Il
femminismo della differenza biologica ha preso
nettamente le distanze da questa impostazione: se da
un lato mostra un interesse di facciata al fatto che,
anche all’interno del capitalismo avanzato, nonostante
la parità sostanziale raggiunta nei livelli d’istruzione, le
donne continuino a ricevere salari inferiori a quelli degli
uomini e a soffrire di tassi di disoccupazione
sistematicamente più alti, dall’altro ignora
completamente il conflitto di classe, finendo per
fantasticare di una natura comune, comuni interessi e
obiettivi tra l’operaia o la domestica della periferia più
sordida e la ricca borghese dei quartieri residenziali.
Come ha scritto l’acuta critica del nuovo femminismo
Elisabeth Badinter:

Prendendo la strada contraria al femminismo


universalista, [l’attuale femminismo] ha accantonato il
concetto di disuguaglianza e favorito il massiccio
ritorno della biologia. L’inno alla natura ha soffocato
la lotta sociale e culturale. […] I maggiori progressi
son tutti avvenuti grazie all’audace decostruzione del
concetto di natura. Non per negarla ma per rimetterla
al suo giusto posto. Si è offerta così a ciascuno una
libertà senza precedenti in relazione ai ruoli
tradizionali che definivano il genere. È stata quella
filosofia, universalista e culturalista, a mutare la
condizione femminile […]. Si è visto allora che il
sesso, il genere e la sessualità non determinano a
priori un destino. Ora questo discorso non è più di
moda. […] e sono state proprio le donne a riportare in
auge la diversità biologica e con essa la
specializzazione dei ruoli.

La fantasia del nuovo femminismo circa l’esistenza di


un mondo totalmente diverso da quello maschile, un
universo in cui l’operaia disoccupata e la borghese
benestante condividerebbero le medesime virtù naturali
della maternità e avrebbero quindi obiettivi comuni, ha
contribuito involontariamente a generare un’altra
fantasia, non meno assurda, all’interno dell’universo
omosessuale maschile. Una coppia di omosessuali che
rivendichi “il diritto” ad avere un figlio proprio (ma lo
stesso potremmo dire di una coppia eterosessuale in
cui la donna è sterile), sangue del sangue di uno dei
due partner, può oggi più facilmente fantasticare che
una donna, indipendentemente dalla sua classe
sociale e dalle sue condizioni economiche, mossa
naturalmente allo spirito di sacrificio dalle virtù
femminili della maternità, possa accettare di mettere a
rischio la propria salute facendosi usare come
un’incubatrice e portare in grembo per nove mesi un
essere che una volta nato non rivedrà mai più, se non
per eventuale concessione della coppia che ha preso in
affitto il suo utero. Nella carta dell’associazione
francese laica CoRP che rivendica la maternità come
prerogativa femminile da non svendere, si ricordano i
rischi corsi dalle donne che vendono gli ovociti e dalle
madri che affittano gli uteri (cisti ovariche, menopausa
precoce, perdita di fertilità, tumori del sistema
riproduttivo, trombosi, insufficienza renale, ictus e, in
alcuni casi, la morte); i rischi per i nati (nascita
prematura, peso insufficiente, morte intrauterina); le
pesanti conseguenze della rottura del legame biologico
per entrambi; soprattutto si ribadisce che sono i poveri
a vendere e i ricchi a comprare. Una simile
mercificazione del proprio corpo, di fronte alla quale la
prostituzione impallidisce, è semplicemente il frutto di
condizioni economiche particolarmente disagiate. Forse
avrebbe stupito lo stesso Marx, che pure preconizzò
che il capitalismo avrebbe mercificato tutto il
mercificabile e che la borghesia «avrebbe dissolto la
dignità personale nel valore di scambio e […] strappato
alle relazioni familiari il loro toccante velo sentimentale
per ricondurle a una pura questione di denaro». Non è
così per un esponente di primo piano della sinistra
antagonista italiana: «C’è anche un’altra realtà – egli ha
dichiarato recentemente – [quella] di donne che non
sono in condizioni economiche disagiate, che scelgono
come gesto d’amore di mettere a disposizione il proprio
corpo per una gestazione per altri». Di squilibrate ve ne
sono in tutte le classi, questo è fuori di dubbio, sicché
non si può escludere a priori che qualche ricca
borghese acconsenta ad affrontare una gravidanza per
altri come “gesto d’amore” e di sacrificio. Ma il fatto è
che le incubatrici umane sono in gran numero donne
provenienti da famiglie a basso reddito, spesso in
costrizione, in ogni caso suscettibili di abusi e
sfruttamento perché non educate e prive di risorse
finanziarie. D’altro canto, se si considera che nelle
circostanze più favorevoli la “donna contenitore” è
pagata circa 30.000 dollari, il salario orario è inferiore a 5
dollari l’ora, cioè meno della metà di quello corrisposto
da McDonald’s.

5. Possiamo concludere questo capitolo sulla sinistra


“antagonista” osservando che la sua lotta per i diritti
civili sta sfondando delle porte aperte. In tutta Europa,
in una situazione di progressiva liquidazione dei
principali diritti sociali, si tende a lasciare molto spazio
alla tutela dei diritti civili – e non solo perché questi
ultimi sono per lo più a costo zero per i governi. Gli
interessi e i poteri privati forti non sono in nulla scalfiti
dalla loro tutela e sono pertanto disposti (salvo la
Chiesa cattolica che tuttavia è indotta dagli scheletri
presenti nel suoi armadi a non disturbare troppo il
manovratore) a cedere tutto su questo terreno, purché
non si metta il bastone tra le ruote al processo di
smantellamento dei diritti sociali e alle privatizzazioni. Va
poi considerato che la questione dei diritti civili crea un
feticcio di conflitto politico, agendo al contempo
all’interno dei ceti popolari come un fattore divisivo che
distoglie l’attenzione dai comuni interessi di classe. Pur
di riuscire indisturbati ad ottenere ulteriori “riforme” del
mercato del lavoro e ad impadronirsi di parti sempre
maggiori dell’apparato produttivo pubblico, gli interessi
dominanti mettono a disposizione tutti i mezzi di cui
dispongono per mantenere sempre viva la “battaglia
politica” dei diritti civili.

Nota bibliografica
Le idee sulla “decrescita” e i passi citati nel testo sono
tratti dalle seguenti opere di Serge Latouche, che
contengono un’indicazione esaustiva dei contributi di
questa scuola di pensiero e delle sue principali fonti
d’ispirazione: La scommessa della decrescita,
Feltrinelli, Torino 2007; Breve trattato sulla decrescita
serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008; Pour en finir
avec l’économie. Decroissance e critique de la valeur
(in coll. con A. Jaffe), Libre & Solidaire, Parigi 2015. I
contributi italiani più citati in queste opere sono quelli
di A. Magnaghi (Il progetto locale, Bollati Boringhieri,
Torino 2000), M. Pallante (La decrescita felice. La
quantità della vita non dipende dal Pil, Editori Riuniti,
Roma 2005) e F. Gesualdi (Sobrietà. Dalla spesa di
pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, Milano 2005).
L’influenza della scuola della decrescita è inoltre
chiaramente presente nella letteratura italiana in tema di
“beni comuni”, in particolare negli scritti di U. Mattei (si
vedano, di questo autore, Beni comuni: un manifesto,
Laterza, Bari 2011 e Contro riforme, Einaudi, Torino
2013; si veda inoltre “La rivolta dei beni comuni”,
Micromega, n. 3, 2013). Anche la letteratura sui beni
comuni contiene una mitizzazione di situazioni pre-
industriali – una certa nostalgia di legnatico, erbatico,
fungatico.
La citazione che esemplifica l’ansia di mutamento
sociale dei movimenti comunisti più radicali, insieme ai
sentimenti profondamente anti-keynesiani da essa
ispirati, è tratta da un articolo del World Socialist
Website (WSWS.org) del 23 febbraio 2016, dal titolo
“Secular stagnation and the contradictions of
capitalism”, a firma di N. Beam, il leader trotskista del
Socialist Equality Party canadese. La citazione di T.
Piketty è da Il capitale nel XXI secolo, Bompiani,
Milano 2014.
Su SOS Racisme, i suoi fondatori e sostenitori, si veda
É. Zemmour, Le suicide francais, Albin Michel, Parigi
2014, pp. 243-9. In Italia, nel corso degli ultimi
trent’anni, la principale espressione di “generosa
apertura” all’immigrazione da parte della sinistra
antagonista è stata rappresentata dal Manifesto,
fondato nel 1969 sull’onda dell’antisovietismo
montante e dell’idealizzazione della Cina maoista (sulla
formazione del gruppo del Manifesto, si veda V. Foa e
A. Natoli, Dialogo sull’antifascismo, il Pci e l’Italia
repubblicana, Editori Riuniti, Roma 2013, in part. pp.
252-84).
Particolarmente rappresentativo del femminismo della
differenza è il libro di L. Irigaray, Il tempo della
differenza, Editori Riuniti, Roma 1989; ma si vedano
anche S. Agacinsky, La politica dei sessi, Ponte alle
Grazie, Milano 1998 e F. Héritier, Maschile e
femimminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Bari
1997. Il brano di E. Badinter citato nel testo è tratto da
La strada degli errori. Il pensiero femminile al bivio,
Feltrinelli, Milano 2014, pp.116-17. L’opera di S. de
Beauvoir, Il secondo sesso, pubblicata a Parigi da
Gallimard nel 1949 (ed. it. Il Saggiatore, Milano 1961, 2
voll.) fu per 3 decenni il testo di riferimento del
movimento femminista mondiale, prima della svolta
degli anni ’80. Anche le posizioni del nuovo
femminismo hanno trovato spazio in Italia soprattutto
sulle pagine del Manifesto.
Per quanto riguarda il “diritto alla paternità/maternità”,
segnaliamo il lavoro seminale della femminista radicale
G. Corea, The mother machine: Reproductive
technologies from artificial insemination to artificial
wombs, Harper & Row Publishers, New York 1985. La
raccolta di saggi New Cannibal Markets –
Globalization and the Commodification of the Human
Body, edita da J.D. Rainhorn e S. El Boudamoussi,
Edition de la maison des sciences de l’homme, Parigi
2015 (in particolare nella parte 2^: “Wombs for Rent”)
offre un’aggiornata disamina della pratica dell’utero in
affitto negli Stati Uniti, in India e in Israele. Per
un’analisi della condizione di povertà culturale e
materiale in cui versano le ‘donne contenitore’
statunitensi, si veda J. Damelio e K. Sorensen,
“Enhancing autonomy in paid surrogacy”, Bioethics,
2008, 22(5), 269–277. Il documento dell’associazione
CoRP (Collettivo per il rispetto della persona), animata
proprio da S. Agacinsky, figura chiave del più noto
collettivo La manif pour tous, sorto in opposizione al
movimento Le mariage pour tous di Bernard-Henry
Lévy, è consultabile all’indirizzo web
www.stopsurrogacynow.com. La citazione di Marx di p.
239 è dal Manifesto del Partito Comunista. Per la
questione della gravidanza per altri come “gesto
d’amore”, nel testo abbiamo fatto riferimento a
un’intervista concessa da Nichi Vendola a Matrix
(Canale 5), trasmessa il 2 marzo 2016 e citata sul Fatto
Quotidiano del giorno successivo. Sulla “genitorialità
omosessuale” dal punto di vista del femminismo della
differenza, si veda S. Niccolai, “Maternità
omossesussale e diritto delle persone omosessuali alla
procreazione. Sono la stessa cosa? Una proposta di
riflessione”, in Costituzionalismo.it, fasc. 3, 2015.
Infine, per un’analisi critica della tesi tradizionale, in
campo giuridico, di una subalternità dei diritti sociali ai
diritti civili (o “diritti di libertà”), si veda M. Luciani,
“Sui diritti sociali”, in Studi in onore di Manlio
Mazziotti di Celsio, vol. II, Cedam, Padova 1995.
Epilogo

La sinistra europea si è suicidata. La sua scomparsa


non può essere spiegata in termini di opportunismo
politico: l’abbandono nel corso degli ultimi decenni dei
suoi programmi di progresso economico e sociale, lungi
dall’ampliare e consolidare la base del suo potere, ha
portato sistematicamente alla perdita del consenso che
proprio quei programmi le avevano assicurato nel corso
dei Trenta gloriosi. D’altro canto, non è evidentemente
neppure spiegabile in termini di opportunismo
individuale, sebbene quest’ultimo sia stato per
numerosi esponenti della sinistra estremamente
remunerativo sotto il profilo del carrierismo e
dell’arrampicamento sociale: per quanto vergognosa
possa essere stata la sua fine, significherebbe
confondere le cause con gli effetti.
È necessario distinguere tra lo svolgersi progressivo
del processo di disfacimento della sinistra europea e i
suoi determinanti primi. Occorre riflettere, in altre
parole, sulle ragioni che la resero incapace di tenere la
rotta, oltre che analizzare il percorso da essa compiuto
nell’andare col vento. A questo riguardo non va perso
di vista che gli stessi Trenta gloriosi non furono in
primis farina del sacco delle sinistre europee. Il loro
determinante primo va piuttosto individuato nel nuovo
ruolo che lo Stato aveva finito per assumere all’interno
del capitalismo avanzato a seguito di una serie di eventi
epocali della prima metà del secolo: la rivoluzione
bolscevica, la Grande Depressione, la seconda guerra
mondiale, la vittoria sovietica sul nazismo. In
conseguenza di quegli eventi, la macchina dello Stato
semplicemente non poté più funzionare al servizio
pressoché esclusivo dei capitalisti ed essere usata
primariamente come strumento repressivo nel conflitto
di classe. Essa dovette invece essere condivisa con i
salariati, che divennero quindi in grado di servirsene
per i loro obiettivi. Si può dire che alla fine della guerra
le sinistre europee si mossero sostanzialmente a
rimorchio di questo nuovo ruolo dello Stato: certamente
contribuirono allo sviluppo del meccanismo virtuoso
del primo trentennio postbellico, ma non lo avevano
messo in moto.
Anche a monte della svolta del capitalismo avanzato di
fine anni Settanta inizio anni ’80 si possono individuare
degli eventi di natura per così dire strutturale, che
tuttavia la sinistra europea, con la sua azione nel corso
dei Trenta gloriosi, aveva contribuito a determinare. Nel
volume abbiamo soprattutto fatto riferimento a un
contesto caratterizzato dal marcato acutizzarsi del
conflitto distributivo, da una crisi profonda del sistema
sociale alternativo e dal cessato pericolo della
“sovversione comunista”. Posta di fronte a tali eventi,
essa non solo non fu in grado di contrastare la svolta
ma ne assunse la guida. La nostra analisi suggerisce
che il percorso da allora compiuto fu in larga misura
predeterminato nel momento in cui, pur essendo
all’apice della sua forza, la sinistra europea non si
oppose al cambiamento di rotta, al contrario
favorendolo e proponendosi di governarlo. La sua
permanenza o semplice vicinanza al potere fu percepita
come presupponente la rinuncia all’uso di quella forza
ed ebbe quindi come conseguenza la sua dissipazione.
Nel riassumere i principali passaggi e relazioni causali
del processo di disfacimento della sinistra, i tre aspetti
fondamentali ai quali abbiamo rivolto l’attenzione sono
stati le relazioni economiche con l’estero, la questione
salariale e l’orientamento della politica fiscale. Nei
decenni post-bellici, il sostegno della domanda
aggregata attraverso un utilizzo espansionistico e
redistributivo della politica fiscale in un contesto di
tendenziale equilibrio dei conti con l’estero aveva
costituito il presupposto principale della crescita
occupazionale. Questa, aumentando il potere
contrattuale dei salariati, aveva dato ulteriore impulso ai
consumi, alla produzione e all’occupazione, rafforzando
anche per questa via il mondo del lavoro ed i partiti che
dei suoi interessi si facevano promotori. La sinistra
Europa fu dunque parte integrante del circuito virtuoso
occupazione → salario → Stato sociale →
occupazione: con il suo operare lo rafforzò risultandone
al contempo rafforzata. Allo stesso modo, al momento
della svolta, sostenendo l’incondizionata
liberalizzazione di capitali, uomini e merci, insieme
all’austerità, all’arretramento dello Stato e alla
deregolamentazione del mercato del lavoro, essa favorì
l’avvio del circolo vizioso degli ultimi decenni,
facendosi artefice della propria dissoluzione. È in
questo senso che si può sostenere che determinò il
cambiamento dai Trenta gloriosi ai Trenta pietosi:
invece di spendere la sua forza per contrastarlo, la
spese e dissipò per favorirlo e gestirlo.
L’esperienza di tutto il periodo postbellico testimonia
della necessità di attrezzarsi analiticamente e
programmaticamente per riuscire ad inserirsi nell’azione
delle forze suscettibili di generare il cambiamento e
cercare di governarle nella direzione di fatto voluta dai
più ampi strati della popolazione. Proprio il contrario di
ciò che è accaduto in Europa dopo la crisi del 2008, che
ha sì generato diffuse reazioni di rigetto del liberismo
ma nessun recupero a sinistra di consapevolezze capaci
di prefigurare e imporre soluzioni autenticamente
progressive. All’interno del capitalismo avanzato il
consenso liberista si è andato frantumando in questi
ultimi anni, nonostante gli sforzi che una martellante
propaganda ha continuato a compiere per preservarlo
di fronte al sempre più evidente degrado economico e
sociale da esso provocato. L’ostilità popolare nei
confronti di banche e finanza – del loro potere, avidità e
insipienza – non è mai stata così forte nella storia nel
capitalismo. Mondializzazione e multiculturalismo
continuano ormai ad affascinare solo la parte
ideologicamente più disorientata della gioventù, mentre
dappertutto è cresciuta, proprio tra i giovani, la
richiesta di politiche finalizzate alla piena occupazione e
al benessere collettivo, piuttosto che al perseguimento
di “equilibri finanziari” di fatto coincidenti con la tutela
esclusiva degli interessi dei più ricchi. Parallelamente, è
andata crescendo in questi ultimi anni in Europa
l’aspirazione al recupero della sovranità nazionale in
campo economico, finalmente ri-percepita come
condizione necessaria alla conquista di spazi di impiego
della macchina dello Stato da parte del lavoro
dipendente, ossia come condizione dell’esercizio
effettivo della sovranità popolare. Infine, il calo
continuo della partecipazione elettorale ha svelato
un’insofferenza crescente nei confronti di una classe
politica asservita agli interessi dei potenti e quasi
dovunque sempre più composta di figuranti parlanti.
Gli elementi strutturali per la rinascita in Europa di una
sinistra vera, di nuovo consapevole che al potere del
denaro può contrapporsi solo quello dello Stato-
nazione, sono attualmente tutti presenti. Una sinistra
che rimettesse al centro della sua attenzione le
questioni economiche e di classe, la difesa dei salariati
e dei ceti popolari attraverso il rilancio dello Stato e del
pubblico, avrebbe oggi il non trascurabile vantaggio di
non doversi inventare praticamente niente. Tanto a
livello teorico che pratico il più è già stato elaborato e
sperimentato. Si tratterebbe di riprendere le fila di
quanto di meglio una parte sostanziale della civiltà
europea riuscì a realizzare nei primi 30 anni successivi al
secondo conflitto mondiale, facendo in più tesoro
dell’esperienza degli ultimi decenni, ossia dei costi in
termini di degrado economico e sociale che
l’abbandono di quel cammino ha comportato. Non vi
sarebbe dunque da affrontare l’ignoto ma si tratterebbe
piuttosto di riuscire a superare una sorta d’inerzia
culturale. Di fronte ai disastri causati dal liberismo, oggi
possiamo riconoscere che il suo maggior successo è
stato proprio quello di essere riuscito così a lungo a far
credere alle sinistre europee che la difesa degli interessi
dei lavoratori costituisse il retaggio di un’ideologia
arcaica e che lo Stato sociale della “vecchia Europa”
rappresentasse un modello irrimediabilmente esaurito.

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