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a CONFERENZA
CONFERENZA DELL’ABATE SERAPIONE
GLI OTTO VIZI CAPITALI
III – Due sono i gruppi dei vizi e quattro i modi in cui esercitano il loro potere
Questi vizi si dividono in due raggruppamenti: alcuni sono naturali, come la
gola; altri sono innaturali, come l’avarizia. Il loro modo di operare può
prendere quattro aspetti diversi. Alcuni non possono operare senza il concorso
del corpo: come avviene per la gola e la lussuria; altri non chiedono
necessariamente il concorso del corpo: questo è il caso dell’orgoglio e della
vanagloria. Alcuni vizi traggono i loro stimoli da cause esteriori, come avviene
per l’avarizia e per la collera; altri nascono da impulsi interiori, come si
riscontra nell’accidia e nella tristezza.
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V – Come soltanto nostro Signore fu tentato senza peccato
Nostro Signore Gesù Cristo è stato « tentato in tutte le forme, a somiglianza di
noi » (Eb 4,15), ma l’Apostolo subito aggiunge: « Però, senza peccato », vale a
dire: senza la macchia del vizio di cui ora parliamo. Egli non assaporò
minimamente gli stimoli della concupiscenza carnale, quelli che
noi sperimentiamo anche a nostra insaputa e controvoglia. In Gesù infatti non
ci fu somiglianza — per quanto riguarda la generazione — con gli altri uomini:
l’arcangelo parlò così della sua straordinaria generazione: « Lo Spirito
Santo scenderà su di te, la virtù dell’Altissimo ti avvolgerà, perciò il Santo che
nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio » (Lc 1,35).
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VII – La vanagloria e l’orgoglio operano senza il concorso del corpo
Fedeli all’ordine che ci siamo proposti, parleremo ora del modo in cui si
manifestano gli altri vizi e riprenderemo l’esposizione che abbiam dovuto
interrompere per trattare della gola e delle tentazioni del Signore.
La vanagloria e la superbia si consumano di solito senza intervento del corpo:
esse infatti non hanno alcun bisogno di un intervento carnale. Bastano la
compiacenza e l’appetito di lode che esse esercitano sull’anima, fatta loro
schiava, per produrre una rovina di vaste proporzioni. Che forse l’antica
superbia di Lucifero ebbe qualche effetto corporale? Non derivò, invece,
unicamente dal suo spirito e dal suo pensiero? Il Profeta ne parla in questi
termini: « Tu dicevi nel tuo cuore: salirò in cielo, al disopra degli astri di
Dio innalzerò il mio trono; salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile
all’Altissimo » (Is 14,13-14).
E poiché nessuno lo aveva sollecitato esteriormente alla superbia, così il suo
delitto e la sua perpetua rovina si consumano nel solo pensiero, senza che alcun
effetto esteriore consegua al sogno ambizioso di una grandezza
orgogliosamente agognata.
VIII – L ‘amore del denaro non è secondo natura: differenza fra questo vizio
e quelli naturali.
L’avarizia e l’ira non sono della stessa natura. La prima infatti è al difuori della
natura; la seconda, invece, sembra avere in noi il suo germe originale.
L’avarizia e l’ira — dicevamo — si somigliano quanto al modo della loro origine:
intendo dire che a metterle in moto sono per lo più cause esteriori. I più deboli,
quando soccombono a questi vizi, si lamentano spesso di essere stati spinti o
provocati da altri e si scusano della loro caduta addossandone la responsabilità
a questo o a quel provocatore.
Che l’avarizia sia contro natura appare evidente dal fatto che essa non ha in noi
il suo principio originale, e l’oggetto al quale si rivolge non ha nulla che possa
giovare all’anima o al corpo, o alla nozione fondamentale della vita. Le
necessità della nostra natura non chiedono di più che il pane e la bevanda di
ogni giorno: questo è fuori di ogni dubbio. Tutte le altre cose, qualunque sia
l’ardore e la passione che si mette in possederle, rimangono estranee alle
necessità dell’uomo, come testimonia l’esperienza della vita. Quei vizi che sono
al di fuori della natura — come l’avarizia — possono assalire soltanto i monaci
tiepidi e vacillanti nel loro proposito; i vizi naturali, al contrario, non cessano
di tentare neppure i monaci più santi, fino nei più segreti recessi della loro
solitudine.
Ciò è tanto vero che noi conosciamo popoli pagani assolutamente liberi dalla
passione dell’avarizia: questa è una malattia che non lasciarono entrare nei loro
costumi. Io credo anche che il mondo antico, prima del diluvio, non abbia
conosciuto affatto il furore dell’avarizia. E tra i monaci quel vizio si estingue
completamente senza alcuna fatica in tutti coloro che hanno fatto una perfetta
rinuncia e, dopo aver lasciato i loro beni, si son votati così integralmente alla
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disciplina cenobitica da non ritenersi neppure un soldo. A tal proposito
abbiamo migliaia di esempi. Moltissimi monaci, spogliandosi dei loro beni,
sradicarono dal cuore questo vizio in modo tale da non sentirne più il minimo
attacco. Essi invece dovettero lottare continuamente contro la gola, dalla quale
non poterono mettersi al sicuro se non a prezzo di una circospezione e di una
astinenza senza tregua.
X – Connessione tra i primi vizi e parentela degli ultimi due con i primi
Per quanto i vizi capitali siano diversi nell’origine e nel modo in cui si
manifestano, i primi sei, cioè la gola, la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza e
l’accidia, son legati fra loro da una specie di parentela, o — per dirla con altre
parole — sono vicendevolmente concatenati; cosicché l’esuberanza del vizio
precedente diviene l’origine del seguente. Dalla sovrabbondanza della gola
nasce necessariamente la lussuria; dalla lussuria l’avarizia; dall’avarizia l’ira;
dall’ira la tristezza; dalla tristezza l’accidia.
Per questo conviene usare contro questi vizi una tattica unica, che consiste nel
cominciare dal vizio precedente la lotta contro il vizio seguente.
Se una pianta gigantesca si mostra dannosa, c’è un mezzo per farla seccare:
basta mettere le radici al sole e tagliarle. Se c’è un fiume che porta infezione,
basterà, a renderlo innocuo, chiudere la sorgente da cui nasce e disperdere
gli affluenti che vanno ad arricchirlo. Per vincere l’accidia bisogna trionfare
prima sulla tristezza; per liberarsi dalla tristezza, bisogna prima debellare l’ira;
per estinguere l’ira bisogna calpestare l’avarizia; per spiantare l’avarizia
bisogna reprimere la lussuria; per togliere di mezzo la lussuria bisogna
castigare il vizio della gola.
Gli ultimi due vizi: la vanagloria e la superbia sono anch’essi intimamente
collegati, come gli altri di cui abbiamo già parlato sopra: l’abbondanza del
primo è ancora origine del secondo. Che cosa è infatti la superbia se non
una vanagloria che trabocca? Questi ultimi tuttavia si distinguono dai primi sei
e non hanno con essi un legame naturale. Non sono cioè i primi sei vizi a dare
origine agli ultimi due della serie; al contrario: i due ultimi nascono quando i
primi sei vengono a mancare. Allorché i primi sono estirpati gli ultimi si
ramificano enormemente: questi nascono dalla morte di quelli, con prepotente
vitalità. Da ciò deriva che gli assalti degli ultimi vizi son di natura tutta speciale.
Nella prima serie bisogna aver ceduto al vizio precedente per essere vinti da
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quello seguente; con gli ultimi due son proprio le nostre vittorie e i nostri trionfi
a metterci nel pericolo di cadere ed essere sconfitti.
Resta tuttavia comune ai vizi di entrambe le serie il fatto che la crescita di uno
diventa l’origine di un altro e la liberazione da uno inizia la liberazione da un
altro. In forza di questo principio, per cacciare la superbia bisogna soffocare la
vanagloria: tolto il primo vizio, il secondo perde il suo sostegno. Recise che
siano le prime passioni, quelle che ne derivano spariranno senza fatica.
Senza nulla rinnegare di quanto abbiamo detto dei modi in cui si uniscono gli
otto vizi capitali, dobbiamo ora osservare che tra essi esistono quattro
combinazioni… matrimoniali. Esiste una particolare connessione tra la gola e
la lussuria, un’altra tra l’avarizia e l’ira; la tristezza e l’accidia; la vanagloria e la
superbia sono unite da un vincolo di strettissima parentela.
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così accadrà che noi, per soddisfare la nostra gola, recheremo offesa a molti.
Per questi motivi dobbiamo nel modo più assoluto proibirci una tale libertà.
Tre sono le forme della lussuria. La prima consiste nell’unione dell’uomo con
la donna. La seconda si compie senza contatti sessuali ed è quella per cui Onan,
figlio del patriarca Giuda, fu colpito da Dio (Gn 38,8-10). La sacra Scrittura la
chiama « impurità » e l’Apostolo ne parla in questi termini: « Dico poi ai celibi
e alle vedove: è bello per loro se rimangono come sono io, ma se non si
contengono, si sposino, poiché è meglio sposarsi che ardere » (1 Cor 7,8-9). La
terza forma è un peccato di pensiero e di desiderio; di questa dice il Signore nel
Vangelo: « Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già — in cuor suo
— commesso adulterio con lei » (Mt 5,28).
L’Apostolo proclama che bisogna estirpare queste tre forme del vizio: «
Mortificate — egli dice — le vostre membra terrene, cioè la fornicazione,
l’impurità, la libidine » (Col 3,5). Agli Efesini l’Apostolo parla di due specie di
lussuria e dice: « La fornicazione e l’impurità non siano neppur nominate tra
voi » (Ef 5,3). E ancora: « Questo dovete tenere a mente, che ogni adultero o
impudico o avaro, che vuol dire idolatra, non ha eredità nel regno di Cristo e di
Dio » (Ef 5,5). Le tre colpe sono globalmente colpite con la minaccia di
esclusione dal regno di Dio, perché da tutte ci guardiamo con uguale
attenzione.
Anche l’avarizia ci presenta tre forme. La prima impedisce all’uomo che
rinuncia al mondo di liberarsi completamente dai suoi beni e dalle sue
ricchezze. La seconda è quella che ci fa ricercare e richiedere con accresciuto
ardore tutto ciò che avevamo dato qua e là o distribuito ai poveri. La terza ci fa
desiderare e acquistare certe cose che neppure prima di lasciare il mondo
possedevamo.
Tre sono anche i generi dell’ira. Il primo è fuoco che arde dentro: i greci la
chiamano « thumòs ». Il secondo si manifesta violentemente nelle parole e
negli atti. I greci lo chiamano « orghé ». Di questi due primi generi, così
parla l’Apostolo: « Buttate via anche voi tutte codeste cose: ira, animosità »
(Col 3,8). Il terzo genere d’ira non è, come i due primi, una fiamma di poca
durata, è un fuoco che cova per giorni e mesi. I greci lo chiamano « ménis ».
Tutti questi gradi del vizio debbono essere da noi condannati con uguale orrore.
La tristezza ha due forme soltanto. La prima nasce dalla collera che si estingue,
da un danno sofferto, da un desiderio impedito; l’altra deriva da ansietà di
spirito o da irragionevole perdita della speranza.
Due sono ancora i generi di accidia. Uno fa cercare vogliosamente il sonno,
l’altro spinge a fuggire dalla cella e a starne lontani.
La vanagloria prende molti aspetti e si distingue in molte specie, noi però ne
enumeriamo due soltanto. La prima specie è quella che si gonfia per le cose
carnali e capaci d’impressionare i sensi, la seconda si compiace nel desiderio
di una rinomanza legata a beni spirituali e ultrasensibili.
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XII – In che cosa consista l’utilità della vanagloria
In un caso la vanagloria può essere utile, almeno ai principianti, cioè a coloro
che sono ancora esposti ai vizi della carne. Facciamo un esempio. Mentre la
tentazione impura li stimola più crudelmente, questi monaci alle prime
armi, ripensano alla dignità sacerdotale che voglion raggiungere, o al giudizio
comune fra gli uomini, secondo il quale sono stimati santi e senza peccato.
Potrà così avvenire che gli stimoli impuri della concupiscenza appaiano turpi e
indegni sia della stima che godono da parte degli uomini, sia del sacerdozio al
quale aspirano, e questo pensiero farà sì che si difendano dall’assalto impuro.
In tal modo un vizio minore — come la vanagloria — serve a difenderli da
uno più grande, come la lussuria. È certamente meglio subire i danni della
vanagloria che cadere nel fuoco dell’impurità, da dove l’anima non può uscire,
o può uscire a stento.
Il profeta ha espresso felicemente questo concetto quando ha detto, parlando a
nome di Dio: « Per amore del mio nome, nel mio furore sarò longanime, e per
la mia gloria, ti tratterò con raffrenato sdegno affinché tu non perisca » (Is
48,9). Ciò significa: ti frenerò affinché, incatenato dalle lodi che son care alla
vanagloria, tu non vada a precipitarti nell’inferno e a seppellirti in esso
commettendo il peccato mortale.
Non ci deve meravigliare che la vanagloria abbia il potere di trattenere
qualcuno sull’orlo del peccato impuro. E’ provato da una esperienza
lunghissima che quando la vanità ha inoculato a qualcuno il suo veleno, quello
diventa così insensibile ai richiami della carne che può digiunare perfino due o
tre giorni di seguito senza risentirsene. Molti monaci di questo deserto hanno
fatto esperienza di ciò e lo hanno candidamente confessato. Nel tempo in cui
vivevano nei monasteri di Siria essi riuscivano senza difficoltà a prender cibo
ogni cinque giorni; ora invece la fame li tormenta fin dall’ora di terza, cosicché
durano una gran fatica a rimandare il pasto quotidiano fino all’ora di nona.
C’è a questo proposito una profonda risposta dell’abate Macario. Un tale gli
domandò perché mai nel deserto fosse tormentato dalla fame fin dall’ora di
terza, mentre quando stava nel cenobio riusciva a digiunare settimane
intere senza bisogno di nutrirsi. Macario rispose: « Qui nel deserto il tuo
digiuno non ha alcun testimone che ti nutra e ti sostenga con le sue lodi; nel
cenobio, invece, l’ammirazione di coloro che ti segnavano a dito t’ingrassava
con la refezione della vanagloria ».
Nel libro dei Re si legge un’allegoria bella ed espressiva per dimostrare che
all’arrivo della vanagloria deve ritirarsi la lussuria. Nacao, re d’Egitto, tiene
prigioniero il popolo d’Israele, ma sopraggiunge Nabucodonosor, re d’Assiria,
che trasferisce gli ebrei dalle regioni d’Egitto a quelle del suo regno. Costui non
li restituisce alla libertà o al suolo natale, ma li conduce nella sua terra, in una
regione che per gli ebrei era più lontana dello stesso Egitto (2 Re 24,7-16).
Questa figura risponde perfettamente al nostro argomento. La schiavitù della
vanagloria è certamente più leggera di quella della lussuria, ma è più difficile
sottrarsi alla tirannia della vanagloria. Un prigioniero condotto in terre
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lontanissime trova maggior difficoltà a ritornare nella terra natale e nella patria
in cui si vive liberi. A quel prigioniero si rivolge giustamente il rimprovero del
Profeta: « Perché sei invecchiato in terra straniera? » (Bar 3,11). È veramente
un « invecchiare in terra straniera » il non potersi « rinnovare » spogliandosi
dei vizi terrestri.
Finalmente esistono due forme di superbia. La prima è carnale, la seconda è
spirituale. Questa è la più pericolosa perché si attacca soprattutto a coloro che
son progrediti in qualche virtù.
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superare per prime le passioni più forti e passare poi alle più deboli; con questo
metodo otterremo, senza il minimo rischio, la più completa vittoria.
Né dobbiamo credere che, orientando i nostri sforzi contro un vizio in
particolare, ci esporremo al pericolo di qualche ferita imprevista, quasi che
ponessimo mente soltanto ai colpi che vengono da una parte.
Questo male non c’incoglierà. È impossibile che un uomo, il quale si dà
premura di purificare il suo cuore, e per questo convoglia tutte le potenze
dell’anima contro un vizio particolare, non coinvolga gli altri vizi in un
sentimento globale di odio, e non stia in guardia contro di essi. Come potrebbe
conseguire la vittoria sulla passione che tanto lo inquieta, chi si mostrasse
indegno della vittoria con l’abbandonarsi alle brutture degli altri vizi?
Ma quando avremo preso come scopo della nostra vita la lotta contro un vizio
determinato, noi pregheremo con una attenzione, una sollecitudine, un fervore
speciale, per meritare la grazia di una vigilanza più delicata a proposito del vizio
che ci preme sradicare e per ottenere una pronta vittoria.
Il Legislatore del popolo ebraico ci suggerisce di seguire una simile tattica nei
nostri combattimenti, pur raccomandandoci di non aver fiducia in noi stessi: «
Tu non avrai paura di loro, perché il Signore Dio tuo sta in mezzo a te, Dio
grande e terribile. Egli sterminerà nel tuo cospetto queste nazioni e poco per
volta. Non le distruggerà tutte insieme, perché non abbiano a moltiplicarsi a
tuo danno le bestie feroci. Il Signore Dio tuo metterà quei popoli in tuo potere,
e li farà perire sinché siano affatto sterminati » (Dt 7,21-24).
XV – Senza l’aiuto di Dio, niente potremmo contro i vizi: nelle vittorie ottenute
su di essi non dobbiamo esaltarci
Ma lo stesso Mosè ci avverte anche di non insuperbire delle nostre vittorie. Egli
dice: « Dopo aver mangiato ed esserti satollato, dopo aver edificato belle case
ed avervi abitato, dopo aver avuto armenti di bovi e greggi di pecore,
abbondanza d’argento e d’oro e d’ogni cosa, non s’insuperbisca il tuo cuore, e
non dimenticare il Signore Dio tuo, che ti trasse dall’Egitto, dal luogo di
schiavitù, e fu tua guida nel deserto grande e terribile » (Dt 8,12-15). E
Salomone dice nei Proverbi: « Della caduta del tuo nemico, non te ne
rallegrare, e della sua rovina non ti goda il cuore. Ché il Signore non veda e gli
dispiaccia e da lui storni l’ira sua » (Pr 224,17-18).
E questo va inteso così: evita che il Signore, vedendo che il tuo cuore si è
insuperbito, cessi di combattere il tuo nemico, e tu — abbandonato da Dio —
sia nuovamente tormentato dal vizio sul quale la sua grazia ti aveva fatto
trionfare. E il profeta non avrebbe mai detto a Dio, nella sua preghiera: « Non
abbandonare alle bestie, o Signore, l’anima di coloro che ti lodano » (Sal 73,19),
se non avesse conosciuto che molti, a causa della superbia del loro cuore, sono
nuovamente abbandonati a quei vizi che avevano vinti, affinché, così, siano
umiliati.
Così la nostra esperienza e le testimonianze innumerevoli delle Scritture ci
istruiscono e ci persuadono che le nostre sole forze, senza quell’aiuto che Dio
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solo può dare, non sarebbero capaci di superare nemici tanto potenti. Per
questo noi dobbiamo riferire ogni giorno a Dio l’onore delle nostre vittorie.
Questo avvertimento ci ripete il Signore per bocca di Mosè: « Quando il Signore
Dio tuo li avrà sterminati dalla tua presenza, non dire: Per i miei meriti mi
ha condotto il Signore a posseder questa terra, come per le loro empietà sono
state distrutte queste nazioni. Non pei tuoi meriti, né per la rettitudine del cuor
tuo, entrerai al possesso delle loro terre, ma perché esse avevano
operato empiamente sono state distrutte al tuo arrivo » (Dt 9,4-5). Di grazia,
come si poteva parlare più chiaramente contro la funesta opinione e la
presunzione che ci fa attribuire tutto ciò che facciamo al nostro libero arbitrio
e alla nostra industria? « Non dire — raccomanda il Signore — quando il tuo
Dio avrà distrutto quelle nazioni alla tua presenza, non dire: per la mia giustizia
il Signore mi ha condotto a posseder questa terra ».
Per chiunque ha gli occhi dell’anima aperti ed ha le orecchie capaci d’intendere,
è come se dicesse chiaramente: quando la vittoria avrà coronato i tuoi sforzi
contro i vizi della carne, quando ti sarai liberato dalle loro brutture e dalla vita
del mondo, non attribuire la vittoria alla tua virtù e alla tua sapienza, come se
fossero stati i tuoi sforzi, il tuo zelo, il retto uso della libertà, ad ottenerti la
vittoria sulle potenze del male e sui vizi della carne. È certissimo che non avresti
potuto vincere alcuna occasione se Dio non fosse venuto a soccorrerti e a
proteggerti.
XVI – Senso mistico delle sette nazioni sulle quali il popolo ebreo, entrato nella
terra promessa, riportò vittoria. Perché talvolta si dice che quelle nazioni
erano sette, altra volta si dice che erano molte?
Questi vizi sono i sette popoli le cui terre il Signore promette ai figli d’Israele,
usciti che siano dall’Egitto. Secondo l’Apostolo tutto ciò che capitò agli Ebrei
era una figura dei tempi messianici; noi dunque dobbiamo osservare questi
fatti e sentirli scritti per la nostra istruzione. Dice dunque il Libro sacro: «
Quando il Signore Dio tuo ti avrà introdotto nella terra di cui devi diventare
possessore, ed avrà fugate dinanzi a te molte genti, l’Heteo, il Gergeseo,
l’Amorreo, il Cananeo, il Ferezeo, l’Heveo, e il Gebuseo, sette popoli molto più
numerosi e più forti di te, ed il Signore Dio tuo te li avrà abbandonati, li
sterminerai fino all’ultimo » (Dt 7,1-2).
Perché è detto che queste nazioni sono molto più numerose? Perché il numero
dei vizi è più grande di quello delle virtù. Il catalogo enumera sette nazioni, ma
quando si tratta della loro disfatta non si fa più menzione di un numero
determinato. Dice la Scrittura: « Quando Dio avrà annientato molte
nazioni davanti a te ». Il popolo dei vizi carnali che nasce da queste sette radici
è assai più numeroso del popolo d’Israele. Di là nascono gli omicidi, le contese,
le eresie, i furti, le false testimonianze, le bestemmie, gli eccessi nel mangiare,
le ubriachezze, le maldicenze, i sollazzi, i discorsi osceni, le bugie, gli spergiuri,
i discorsi sciocchi, le scurrilità, l’inquietudine, la rapacità, la scontentezza, il
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frastuono, lo sdegno, il disprezzo, la mormorazione, la tentazione di Dio, la
disperazione e molti altri vizi che sarebbe troppo lungo elencare.
Siccome questi vizi a noi sembrano leggeri, ascoltiamo ora che cosa ne pensa
l’Apostolo e quale giudizio ne formula: « Non mormorate come alcuni di loro
mormorarono, e perirono per opera dello sterminatore » (1 Cor 10,10), e della
tentazione di Dio: « Non tentiamo il Cristo, come fecero alcuni di loro, che
perirono morsi dai serpenti » (1 Cor 10,9). Della detrazione è scritto: « Non
voler dire male degli altri, per non essere sradicato » (Pr 20,13). Della
disperazione è detto: « Essi, perduta ogni speranza, si son dati alla dissolutezza,
così da operare ogni impurità nella loro cupidigia di possesso » (Ef 4,19). Che
il frastuono, l’ira, lo sdegno, la bestemmia siano da condannare ce lo afferma s.
Paolo quando insegna: « Ogni acrimonia e animosità e ira e clamore e
maldicenza sia bandita da voi insieme con ogni malizia » (Ef 4,31). E si
potrebbe continuare ancora.
Benché sia vero che il numero dei vizi supera di gran lunga quello delle virtù,
tuttavia, poiché tutti derivano dagli otto vizi capitali, vinti che siano questi, tutti
gli altri si afflosciano e scompaiono in una stessa morte. Dalla gola nascono gli
eccessi nel mangiare e le ubriachezze; dalla lussuria nascono il turpiloquio, la
scurrilità, i doppi sensi osceni, lo spergiuro, il desiderio di guadagni illeciti, le
false testimonianze, le violenze, la crudeltà, la rapacità; dall’ira nascono gli
omicidi, il clamore, la disperazione; dall’accidia nascono l’ozio, la sonnolenza,
l’importunità, l’inquietudine, il vagabondaggio, l’instabilità della mente e del
corpo, la ciarla e la curiosità; dalla vanagloria nascono le dispute, le divisioni,
la millanteria, l’amore delle novità; dalla superbia nascono: il disprezzo,
l’invidia, la disobbedienza, la bestemmia, la mormorazione, la detrazione.
Questi vizi funesti non sono soltanto più numerosi delle virtù, sono anche più
forti, come sentiamo bene dagli assalti che ci muove la nostra stessa natura.
Nelle nostre membra è più forte il richiamo delle passioni carnali che il gusto
delle virtù. Queste si acquistano a prezzo di una grande fatica dello spirito e del
corpo.
Se poi si considera con gli occhi della fede la schiera innumerevole di nemici
che il beato Apostolo descrive quando dice: « La nostra lotta non è contro il
sangue e la carne, ma contro i Principi e le Podestà, contro i dominatori
del mondo delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’ira » (Ef 6,12); se si
considera quel che è detto nel Salmo 90 a proposito dell’uomo giusto: « Mille
cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra » (Sal 90,7), apparirà
chiaramente che questi nemici sono molto più numerosi e più forti di noi. Noi
siamo carnali e terreni, ai nostri nemici è stata concessa una sostanza spirituale
e sottile come l’aria.
XVII – Domanda sulle somiglianze tra le sette nazioni e gli otto vizi
Germano — Come mai sono otto i vizi capitali che ci fanno guerra, mentre Mosè
enumera soltanto sette nazioni che si sono opposte al popolo d’Israele? E in
qual senso è bene per noi possedere le terre occupate dai vizi?
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XVIII – Risposta: agli otto vizi corrispondono otto nazioni
Serapione: Otto sono i vizi che fanno guerra al monaco: questa è la sentenza
comune e assoluta. Se la sacra Scrittura non ce li presenta tutti, sotto il nome
dei popoli che li contengono in figura, si deve al fatto che gli Ebrei son già usciti
dall’Egitto e liberati da una nazione potentissima, quando Mosè, anzi il Signore
stesso per bocca di Mosè, fa udir la sua voce nel Deuteronomio.
La figura delle sette nazioni vale perfettamente anche per noi, che ci siamo
liberati dai lacci della « gastrimargia », la quale è una specie di pazzia dello
stomaco e della gola. Ormai anche noi abbiamo da combattere contro sette
vizi: il primo, essendo già vinto, non conta più.
C’è poi da notare che il territorio di questo popolo — la regione della
gastrimargia — non viene assegnato da Dio al popolo d’Israele. Anzi, un
comando espresso del Signore ordina di uscire per sempre da quella terra. Da
questo siamo ammaestrati a regolare i nostri digiuni in maniera tale da non
causare un indebolimento o una malattia della carne che ci risospingano verso
l’Egitto, vale a dire, verso la concupiscenza del ventre e della gola, con la quale
rompemmo i rapporti allorché rinunciammo al mondo. Qualcosa di questo
genere capitò — in figura — agli Ebrei, i quali, usciti dall’Egitto per entrare nel
deserto delle virtù, rimpiangevano le pentole piene di carne davanti alle quali
stavano assisi in Egitto.
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devo pagarle una tassa che non ha né fine né tregua, è come un debito che non
si estingue mai ».
Allora i filosofi, che in principio lo avevano disprezzato come un sempliciotto e
un rozzo, dissero che quel vecchio eccelleva nella parte più importante della
filosofia, che è l’etica o scienza dei costumi. Furono anche pieni di meraviglia
quando s’accorsero che costui aveva raggiunto, naturalmente e senza scuola,
una scienza che essi, con tanta pratica e lunghi studi, non avevan potuto
procurarsi. Ma è tempo di metter fine al nostro discorso sul vizio della gola.
Torniamo all’argomento, già incominciato e poi sospeso, della parentela stretta
che esiste fra tutti i vizi.
XXII – Perché Dio profetizzò ad Abramo che il popolo d’Israele avrebbe vinto
dieci nazioni
C’è una difficoltà sulla quale non mi avete interrogato: quando il Signore parlò
del futuro con Abramo, non enumerò sette nazioni ma dieci, e promise che
avrebbe dato ai discendenti d’Abramo le terre di tutti quei popoli. La difficoltà
si risolve facilmente: se si aggiungono agli otto vizi già elencati, l’idolatria e la
bestemmia, che prima della conoscenza di Dio e del battesimo accompagnano,
là nell’Egitto dello spirito, i pagani empi e i giudei bestemmiatori, il numero di
dieci è raggiunto. Supponiamo ora che, mosso dalla grazia di Dio, uno rinunzi
al mondo, esca dall’Egitto, trionfi sul vizio della gola e venga nel deserto
spirituale. Costui è già vittorioso sugli attacchi di tre nazioni, gli rimane da
combattere soltanto con le sette nazioni elencate da Mosè.
XXIII – È utile per noi entrare in possesso di quella zona del nostro essere che
era dominata dai vizi
Quanto al comando di possedere le terre già occupate da questi popoli terribili,
ecco come va inteso. Ogni vizio ha una particolare regione nel nostro cuore: di
lì cerca di sterminare Israele, vale a dire la contemplazione delle cose celesti, e
non si ritiene mai dal fargli guerra. Vizi e virtù non possono stare insieme: «
Che cosa ha a che fare la giustizia con l’iniquità? Quale accordo può esservi tra
Cristo e Belial? Quale comunanza tra la luce e le tenebre? » (2 Cor 6,14).
Ma quando i vizi son vinti dal popolo d’Israele, cioè dalle virtù ad essi opposte,
allora la regione che nel nostro cuore era occupata dallo spirito di
concupiscenza e di fornicazione passa alla castità; la pazienza occupa il
territorio dell’ira; alla tristezza che produceva morte, subentra una tristezza
salutare e piena di gioia; dove l’accidia produceva le sue devastazioni
incomincia a costruire la virtù della fortezza; l’umiltà innalza ciò che la superbia
si metteva sotto i piedi.
Così, ad ogni vizio messo in fuga, succede la virtù contraria, che ne prende il
posto. Queste virtù si chiamano giustamente « Figlie di Israele », cioè
dell’anima che vede Dio. Ma poi, a voler essere esatti, quando le virtù scacciano
i vizi non si deve dire che esse s’impossessano di un territorio straniero, è
meglio dire che rientrano in possesso di ciò che loro appartiene.
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XXIV – Le terre dalle quali furono espulsi i Cananei furono assegnate ai
discendenti di Sem
Un’antica tradizione insegna che la terra di Canaan (in cui furono introdotti i
figli d’Israele) all’epoca della divisione del mondo, era toccata in sorte ai figli di
Sem. Soltanto più tardi vi penetrarono con la forza e con la violenza i
discendenti di Cam e la possedettero col diritto degli invasori. Ma qui appare il
giusto giudizio di Dio che scaccia gli usurpatori dai luoghi ingiustamente
occupati e restituisce al popolo d’Israele la terra dei loro padri, quella terra che
era stata loro assegnata nella divisione del mondo. E qui c’è una figura che ha
certamente in noi la sua realizzazione. La volontà di Dio assegnò il dominio del
nostro cuore alle virtù, non ai vizi, ma dopo la prevaricazione di Adamo, questi
cananei che sono i vizi cacciarono le virtù dalla loro terra. Ecco però che,
ristabilite nei loro diritti per i nostri sforzi e le nostre fatiche, le virtù rientrano,
con la grazia di Dio, nei loro possedimenti, né si può dire in alcun modo che
occuparono terre straniere.
XXVI – Dopo la vittoria sul vizio della gola, occorre applicare tutte le forze
all’acquisto delle altre virtù
Dobbiamo perciò stare attenti affinché, dopo esserci impegnati nel digiuno e
nella mortificazione, e dopo aver vinto il vizio della gola, non lasciamo l’anima
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nostra priva di quelle virtù che la devono abitare. Dobbiamo invece far
occupare dalle virtù tutti gli angoli del nostro cuore per evitare che lo spirito di
concupiscenza, al suo ritorno, non ci trovi vuoti e sprovveduti. Se così ci
trovasse, non si accontenterebbe di entrare da solo nell’anima nostra, ma
introdurrebbe pure il suo corteggio di sette vizi e farebbe diventare la nostra
nuova condizione peggiore di quella precedente. Colui che si vanta di aver
rinunciato al mondo ha maggior ragione di arrossire, se accetta la tirannia dei
vizi; la sua anima è più immonda e merita un castigo più severo di quello che
avrebbe meritato se fosse rimasto nel secolo e non avesse scelto di far vita da
monaco, o di portarne il nome.
Si dice che questi sette spiriti sono peggiori del primo, perché la gola presa in
sé sarebbe quasi innocua, se non si tirasse dietro altri vizi più gravi, come la
lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza, la superbia, che senza alcun dubbio sono
mortalmente dannosi all’anima. Perciò non speri di ottenere la purezza dei
perfetti colui che la chiede solo alla mortificazione o al digiuno corporale.
Bisogna guardare più lontano e proporsi di voler usare la mortificazione del
corpo come strumento per meglio assalire gli altri vizi, senza essere — in questo
combattimento — attardati dall’insolenza di un corpo riempito fino alla
saturazione.
XXVII – L’ordine da seguire, nel combattere i vizi, non è lo stesso che si trova
nella lista dei vizi stessi
Ricordiamo bene però che l’ordine da seguire in questo combattimento non è
uguale per tutti. L’assalto non si presenta in modo uniforme: ciascuno deve fare
i suoi piani di battaglia secondo il nemico che più lo tormenta. Uno dovrà forse
combattere per primo quel vizio che nel nostro elenco sta al terzo posto, un
altro avrà da liberarsi prima dal quarto o dal quinto.
Così regoleremo la nostra tattica tenendo conto dei vizi che sono in noi più
potenti e badando al modo in cui ci assalgono. Una tattica intelligente ci otterrà
vittoria e trionfo, e ci farà giungere alla purezza del cuore e alla pienezza
della perfezione.
Qui terminò il discorso dell’abate Serapione, sugli otto vizi capitali. Fino a quel
momento noi eravamo stati incapaci di conoscere la sorgente e la parentela che
lega tra loro le passioni nascoste nel nostro cuore. Ne avevamo però conosciuta
la guerra dall’esperienza quotidiana. Ora, dopo che l’abate aveva gettato su
quelle passioni una luce tanto abbondante, ci pareva di vederle davanti ai nostri
occhi come riflesse in uno specchio.
Note:
1) Questa enumerazione ottonaria dei vizi capitali non si accorda con quella
settenaria ora in uso nella Chiesa. Per capire la differenza fra le due
enumerazioni, si rifletta che Cassiano si limita a riferire una dottrina comune,
ai suoi tempi, presso i moralisti del chiostro.
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Prima che il monachesimo prendesse vigore i peccati più gravi si chiamavano
semplicemente « mortali »; furono i monaci a parlare di peccati capitali e a
cercare di darne una classificazione. I primi elenchi non ebbero un numero e
un ordine fisso; pare sia stato Evagrio Pontico — un monaco vissuto
lungamente in Egitto, sul monte Nitro, e nel deserto delle Celle, durante la
seconda metà del secolo III — a ridurre a sette i vizi capitali.
L’enumerazione ottonaria che abbiamo letta in Cassiano è identica a quella di
Evagrio Pontico, come si può riscontrare nella Storta Ecclesiastica di Socrate
al capo 23 del libro IV. (P. G. 67, 516). San Giovanni Climaco (vissuto nel secolo
VII sul monte Sinai) ridusse a sette i vizi capitali, basandosi sull’autorità di san
Gregorio Nazianzeno e di altri, che però non ricorda espressamente. (Scala
Paradisi grado 22; P. G. 88, 948).
Dopo il Climaco tutti accettano il numero settenario e riducono vanagloria e
orgoglio ad uno stesso vizio: la superbia, di cui la vanagloria è il principio e
l’orgoglio è la completa consumazione, o grado supremo.
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6.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL’ABATE TEODORO
LA MORTE DEI SANTI
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del volgo, terremo la dottrina verace della sacra Scrittura, l’errore degli uomini
senza fede non arriverà ad ingannarci.
III – Tre categorie in cui si dividono le cose esistenti in questo mondo: le buone,
le cattive, le indifferenti
Tutte le cose che sono al mondo si dividono in tre categorie, esse sono: o buone,
o cattive, o indifferenti. Tocca dunque a noi sapere ciò che è veramente buono,
cattivo, o indifferente, affinché la nostra fede, sostenuta da una scienza sincera,
rimanga salda dinanzi a tutte le prove.
Notiamo che nelle cose umane, niente merita di essere stimato pienamente
buono, all’infuori della virtù, la quale ci conduce a Dio nella sincerità della fede
e a Dio ci fa aderire continuamente, come a sommo bene. Così pure, non c’è
nulla di male in senso assoluto, all’infuori del peccato, il quale, dopo averci
separati da Dio che è buono, ci unisce al diavolo che è cattivo. È indifferente
tutto ciò che può essere indirizzato al bene o al male dalla volontà e dalla libertà
di colui che ne usa. Indifferenti sono: le ricchezze, la potenza, l’onore, la forza
fisica, la salute, la bellezza, la vita, la morte, la povertà, la malattia, le ingiurie e
altre cose simili, che, secondo i sentimenti di colui che ne usa, possono servire
sia al bene che al male.
Non si può negare che le ricchezze servono spesso al bene: lo attesta l’Apostolo
che dà questi consigli: « Ai ricchi dell’età presente do il consiglio di non essere
alteri d’animo, ma di esser pronti a donare ai poveri i loro beni, tesoreggiando
così per se stessi un buon fondamento per l’avvenire, affinché possano
raggiungere quella che è veramente vita » (1 Tm 6,17-19). Anche il Vangelo
afferma che son buone quelle ricche2ze che si usano a fare il bene: « Fatevi
amici col denaro dell’iniquità » (Lc 16,9). Sono invece cattive quelle ricchezze
che si ammassano al solo scopo di tesoreggiare, o per soddisfare la lussuria,
non già per dispensarle ai poveri.
Che la potenza, l’onore, la gagliardia fisica e la salute son cose indifferenti e
suscettibili di servire al bene come al male, si prova facilmente dal fatto che
molti santi dell’Antico Testamento furono in possesso di fortune sterminate,
altissime dignità, forza e salute fisica e non furono per questo meno graditi a
Dio. Lo stesso libro sacro ci mostra anche che coloro i quali abusarono delle
ricchezze servendosene per soddisfare la loro cattiveria, furono giustamente
puniti e tolti dal mondo; così attestano molti esempi del libro dei Re.
La nascita di san Giovanni Battista e quella di Giuda dimostrarono che anche
la vita e la morte sono cose indifferenti. Al Battista la vita giovò tanto che la sua
nascita donò gioia anche agli altri, secondo quanto è scritto: « Molti godranno
per la nascita di lui » (Lc 1,14). Di Giuda invece si legge: « Sarebbe meglio, per
quest’uomo, se non fosse mai nato » (Mt 26,24).
Di san Giovanni e di tutti i santi si dice: « Ha un prezzo assai alto al cospetto
del Signore la morte dei suoi santi » (Sal 115,15). Della morte di Giuda, come di
quella dei suoi consorti, si legge: « La morte dei peccatori è orribile » (Sal
33,22).
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Quali vantaggi possono ritrovarsi nella infermità del corpo, appare dalla gloria
in cui ci è mostrato Lazzaro, il mendicante ricoperto di piaghe. Siccome la sacra
Scrittura non nota in lui alcun’altra virtù, bisogna dire che egli meritò la bella
sorte di essere ricevuto nel seno di Abramo per la grande pazienza esercitata
nel sopportare la povertà e la malattia.
Il bisogno, le persecuzioni, le ingiurie, son ritenute mali dal volgo; eppure la
loro utilità è grandissima, come è provato dalla vita dei santi. Costoro, non
contenti di accettare senza ribellarsi quei cosiddetti mali, li cercarono
eroicamente e li sopportarono senza debolezza. In tal modo diventarono amici
di Dio e guadagnarono il premio della vita eterna. Ecco a tal proposito come
canta l’apostolo Paolo: « Io mi compiaccio nelle infermità, negli oltraggi, nelle
privazioni, nelle persecuzioni, nelle angustie incontrate per Cristo. Quando
sono infermo, proprio allora son forte, perché nella mia infermità risplende
intera la forza di Dio » (2 Cor 12,10 e 9).
Perciò non dobbiamo credere che coloro i quali si distinguono in questo mondo
per le ricchezze, onori e potenze, siano in possesso del bene vero e sommo, che
si ritrova soltanto nella virtù. Coloro che la fortuna ha ben provveduto sono in
possesso di cose indifferenti. Quei beni sono utili e vantaggiosi ai giusti, che ne
usano rettamente per soddisfare a reali bisogni — si tratta infatti di mezzi che
aiutano a ben fare e a produrre frutti di vita eterna — sono invece inutili e
dannosi a coloro che ne abusano, perché danno un’occasione di peccato e di
morte.
VII – Domanda: Siccome il giusto riceve il premio della sua morte, è proprio
colpevole colui che l’uccide?
Germano – Se il giusto che muore non soffre un male, ma riceve un premio
della sua sofferenza, come si può accusare di colpa colui che, uccidendolo, non
gli ha fatto del male, ma gli ha fatto invece un ottimo servizio?
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