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Giancarlo Mauri

Aiyanar, il Signore

nuova edizione con testi integrativi


e cinquantadue fotografie dell’autore

MONOGRAFIE DI GCM
LE MONOGRAFIE DI GCM
15.2
© 1986, 1989, 2013, 2022 MONOGRAFIE DI GCM
Numero 15.2
Nuova edizione : giugno 2022

In copertina: Aiyanar Temple, località Veedapatti (Tamil Nadu)


Fotografia di Giancarlo Mauri, 24 dicembre 1996
© LE FOTOGRAFIE DI GIANCARLO MAURI
Giancarlo Mauri

Aiyanar, il Signore

nuova edizione con testi integrativi


e cinquantadue fotografie dell’autore

MONOGRAFIE DI GCM
INDICE

Aiyanar, il Signore p. 9

mail inviata ad un gruppo di amici e


conoscenti in data 16 agosto 2017 pp. 27, 45, 54, 62

estratto dal volume Ritorno alle sorgenti


di Lanza Del Vasto p. 63

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INTROIBO

Bruce Chatwin era venuto in Sudafrica per incontrare Bob (Robert) Brain,
paleontologo, dopo averne letto il libro The Hunters or the Hunted? […]
l’ormai classica opera di Brain sul modo di vivere dei nostri più lontani
antenati, derivata da quindici anni di scavi nella caverna di Swartkrans, nei
pressi di Johannesburg. In base all’esame delle ossa fossili Brain aveva
ipotizzato che i primi uomini non fossero dei selvaggi cannibali come
generalmente si ritiene, ma la preda preferita di uno dei grandi felini con cui
dividevano le vaste praterie africane. Attorno a 1.200.000 anni prima di
Cristo, quando l’homo erectus aveva cominciato ad avere la meglio sul suo
predatore, il dinofelis o tigre dai denti a sciabola, le parti si erano invertite.
Che cosa aveva messo l’uomo in posizione di superiorità? «Tutto si collega
alla padronanza del fuoco» dichiara Brain. […] Bruce si valse delle scoperte
di Brain per suffragare la sua convinzione che l’essere umano «non è poi così
cattivo» e che l’istinto rapace non è insito nella sua natura. Se quel grande
felino dotato di zanne faceva stragi tra i nostri antenati, allora in origine
l’uomo non era necessariamente aggressivo. Viveva nella paura sapendo che
il dinofelis era in agguato nel buio.
Bruce - che chiamava quel felino «Il Principe delle Tenebre» - divertiva il
paleontologo. Nelle parole di Brain: «Sentiva il “Principe delle Tenebre”
come una necessità psicologica. Secondo lui eravamo vissuti così a lungo
nelle vicinanze di minacciosi predatori notturni che essi sono diventati parte
della nostra struttura mentale. Quando questi animali non sono più stati
fisicamente presenti, noi abbiamo inventato i draghi e gli eroi che andavano
a combatterli». Per Chatwin, ad esempio, il san Giorgio che trafigge il drago
nel dipinto di Paolo Uccello era l’illustrazione di un fatto realmente avvenuto.
Nicholas SHAKESPEARE
Bruce Chatwin
Baldini&Castoldi, 1999
pp. 19-21

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Aiyanar, il Signore

Dal 1968 il nome Tamil Nadu (1) indica la parte dell’ex Presidenza
britannica di Madras (2) dove si parla il tamil, la lingua dravidica (3)
supportata da una letteratura così antica da perdersi nella leggenda (4).
Col passare dei secoli questa regione ha sviluppato una delle più
originali civiltà dell’India, tramandataci sia dalla letteratura del
shangam, sia dai costruttori dei suoi celeberrimi santuari, autentiche
città nella città. Ed è soprattutto in queste costruzioni che ancor oggi
si intravede la forza dei Dravida, in netto contrasto con le culture
sviluppatesi nell’area gangetica, più profondamente segnate dalle
migrazioni straniere e dall’Islam.
Nel tardo periodo del shangam era consuetudine che dotti e “santi”
uomini si recassero periodicamente nei villaggi per divulgare il
pensiero dei poeti e dei filosofi, gettando le basi di una vasta cultura
popolare - e sarà questa ricchezza a permettere al popolo tamil di
mantenere una sua compatta identità di fronte ai successivi tentativi
di invasione ideologica, riuscendo a tutelare i propri valori originari.

1 Letteralmente: Paese tamil.


2 La città è ora chiamata Chennai.
3 Il termine “dravidico” deriva da Dravida, il nome di un popolo di probabile

origine mediterranea giunto in India 12.000 anni orsono. In seguito, da Dravida


derivò il termine moderno Tamil o Tamul.
4 Aggiunge Alvaro Enterría [in] L’India. Una guida culturale per il viaggiatore,

Ibis edizioni 2011, p. 437: «Il tamil, la lingua del Tamil Nadu, è l’unica, a parte il
sanscrito, la cui letteratura è molto antica. È una letteratura ricca e ha circa duecento
autori classici in un periodo di venti secoli. Nei primi secoli, prima e dopo l’era
cristiana, si sviluppò la letteratura chiamata del śangam. La grammatica
Tolkappiyam, il libro di precetti Tirukkural, l’epica Shilappadikaram costituiscono
i principi di una letteratura di alto livello, che continuerà poi con la prima poesia
devozionale dell’India.»
Il termine shangam (“scuola poetica”) identifica la mitica fucina di letteratura
storica, religiosa e scientifica che la tradizione orale vuole sia stata fondata nell’anno
9999 a.e.c. per concludersi nel 50 e.c.

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LA SEPARAZIONE DELLE CASTE

Il sistema vedico di separare gli umani in quattro caste e in miriadi di


sottocaste ha influenzato anche l’India meridionale (1). I suoi numerosi
villaggi sono ancor oggi essenzialmente abitati dai vellalar (2 ), la
principale sottocasta contadina, mentre sono rari i brahmana (3), gli
appartenenti alla casta sacerdotale.
Il terzo posto (4) è occupato dalla casta degli artigiani, rappresentati da
fabbri, carpentieri, falegnami, tessitori e vasai. Molto più in basso,
ormai dalit (fuoricasta), si trovano gli addetti ai lavori impuri, quali i
barbieri, i toddy-tappers (5) e le lavandaie. A raschiare il fondo del
pentolone della gerarchia sociale vi sono gli adi-dravida, l’epiteto dato
agli infimi, gli intoccabili, gente destinata a lavorare per poche rupìe
alla costruzione e al mantenimento delle strade, aiutare i contadini nel
periodo del raccolto, pulire i rigagnoli del liquame organico oppure
tingere il pellame. In pratica, una forma di schiavitù legalizzata.
In tempi recenti, nel rigido sistema delle caste ha avuto inizio un
graduale collasso, grazie ai sempre più frequenti matrimoni misti, alle
cariche istituzionali in campo politico e all’uso di partecipare a
cerimonie di culto collettivo dedicate ai devata, nome generico che
include la miriade di genius loci preposti alla tutela delle case, dei
campi e del bestiame.
Il tabù della contaminazione resta invece ben vivo all’interno del culto
ortodosso, dove ancor oggi i brahmana richiedono forti somme di
denaro per accettare i dalit nei loro templi, dichiarando che dopo il
loro passaggio sono necessari speciali riti di riconsacrazione, il cui
esoso costo è ovviamente a carico del “contaminatore”.
Tradotto in linguaggio politicamente scorretto, dunque non ipocrita,
la realtà si traduce così: è ben noto che la casta sacerdotale, detentrice
della purezza hindu, non vuole avere a che fare con i poveri - che
essendo tali mai lasceranno ricche donazioni o conferiranno privilegi
esentasse. Ma se il dalit “ha fatto carriera” nell’industria o nel
commercio - meglio ancora: in politica o nell’Amministrazione, grazie

1 Per approfondimenti, si veda Le Leggi di Manu, a cura di Wendy Doniger con la

collaborazione di Brian K. Smith, Adelphi edizioni, 1996.


2 Tribù dravidica che prende il nome dai Vel, capi locali ridotti allo stato di

vassallaggio da Karikala Chola (II secolo). Tutti agricoltori, costituiscono un gruppo


sociale ben definito, imparentato con quelli dei Kallar e dei Palli.
3 Brahmino, in hindi: il sacerdote sacrificatore.
4 Il secondo è occupato dai ksatriya, i re-guerrieri (che in origine erano al primo,

poi usurpato dal clero).


5 Gli incaricati della preparazione del vino di palma.

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alle laiche leggi statali - e quindi può permettersi di pagare la
“riconsacrazione” del tempio, ben vengano i suoi soldi. Pecunia non
olent si dice abbia detto l’inventore dei vespasiani. Un esempio per
tutti è lo scritto di M. G. Radhakrishnan per India Today del 2 ottobre
2000:

Temple Tattle
Was it religion or caste that led to a purification rite after a wedding?

It’s a wedding that has generated much heat. Shortly after Ravikrishnan, son
of Congress MP Vayalar Ravi, was married in a ceremony at the Guruvayoor
Temple last fortnight, the thantri (temple head priest) ordered a puniaham
(purification rite) and directed a relative of the bride to pay Rs 1,500 towards
the cost. Ravi, a former Kerala Pradesh Congress Committee president and
an Ezhava (OBC) by caste, has now decided move court against what he
thinks is the temple authorities’ attempt to bring back untouchability in the
temple. Other organisations have joined the clamour. The Kerala Dalit
Panthers described the purification rites as an attempt to bring back
‘Brahmin hegemony’. Even the Vishwa Hindu Parishad has questioned the
thantri’s decision, with Organising Secretary Kummanam Rajasekharan
calling for a probe, ‘the purification rites were unwarranted’, he says. But the
thantri, 71-year-old Chennas Divakaran Namboodiri, says he ordered the
purification because he was not sure if Ravi’s son was a Hindu. Ravi’s wife
Mercy is a Christian. Temple rules forbid non-Hindus from entering its
precincts and even singer Yesudas was denied entry some years ago.
Namboodiri justified his action sAiyng, ‘if the son of Ravi and Mercy is a
Hindu there is no restriction on his entering the temple. But the onus of
proving that his son is a Hindu lies with Ravi’. This statement has further
angered Ravi, ‘all his records show my son is a Hindu. The thantri has asked
for the puniaham not because my son is a non-Hindu but because he is a
backward-caste Hindu’, says Ravi. The Sree Narayan Dharma Pariapala
Yogam, the powerful organisation of the Ezhavas, has lambasted the Left
Democratic Front (LDF) Government in the state for having allowed such a
‘regressive custom’ to continue in the temple. The temple’s board has
nominees from all parties in the LDF. The incident has also brought
considerable embarrassment to the Janata Dal, which claims to be the votary
of backward castes. Temple Administrative Committee Chairman M.
Venugopala Kurup, a Janata Dal nominee, expressed helplessness sAiyng
that by law the thantri has the final say in all matters related to rituals and
customs to be followed in the temple.

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GRAMADEVATA, LE DÈE DI VILLAGGIO

Col termine gramadevata si identificano le divinità tutelari tipiche di


ogni villaggio (1), il cui culto, risalente al periodo predravidico, è
certamente una delle più antiche forme di religiosità dell’India.
Divinità di rango inferiore, le gramadevata rappresentano la realtà
della vita di un villaggio contadino, lontana dai grandi avvenimenti
storici e pertanto mai connesse con le grandi forze cosmiche ma
unicamente con gli avvenimenti legati alla sopravvivenza umana, quali
l’esito di un raccolto o le epidemie, sia umane sia del bestiame.
Genericamente collegate alle Dee Madri, le gramadevata sono
presenti in tutte le comunità rurali dell’India, soprattutto in quelle del
meridione, dove si ritiene che esse siano felicemente installate sulle
bocche di ogni vaso, brocca e giara - i classici recipienti collegabili al
vaso generativo femminile (2) - nonché intorno ad ogni vasca d’acqua.
Se all’interno delle abitazioni le gramadevata sono facilmente
localizzabili in ogni contenitore, all’esterno la presenza del loro culto
si rivela sotto forme diverse. A volte questo può essere rivelato da una
semplice piattaforma all’ombra degli alberi, oppure da una lastra di
pietra con incisa una figura femminile in parte stilizzata, più sovente
dalla raffigurazione della yoni, l’organo genitale femminile, simbolo
dell’energia (shakti) procreativa divina (3).
Per queste divinità sono costruiti dei piccoli templi a ridosso degli
alberi, in modo che possano facilmente nascondersi nel tronco
all’avvicinarsi di ogni essere umano. Periodicamente, gli abitanti del
villaggio sacrificano loro del bestiame domestico quali capre, pollame
e bufali (4). Il sangue delle vittime è poi sparso - puro o misto a riso -
sopra ogni linea di confine, quali le strade periferiche del villaggio o gli

1 Genius loci di “quel” villaggio; ma anche di “quella” casa, di “quella” famiglia, di


“quella” persona.
2 In particolar modo nell’argha (l’orlo esterno della yoni), la coppa o il cerchio su

cui si erge l’itifallico lingam.


3 Il disegno più classico è il trikona - triangolo con la punta rivolta verso il basso

-, simbolo della yoni della dea.


4 Che sia offerto ad una dea oppure a un dio, ogni animale sacrificale deve essere

di sesso maschile. Ancora una volta, il “sacro” si mescola col più pragmatico
“profano”: le femmine figliano e producono uova o latte; all’opposto, i maschi,
esaurito il loro compito riproduttivo (ne bastano pochi ma buoni esemplari), sono
un costo inutile se non addirittura un concorrente alimentare. Si veda il caso del
maiale, grande concorrente degli umani, dunque animale “proibito” in ambienti
aridi, dove si privilegiano le capre mangiatrici di sterpi.

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stipiti delle porte della casa o della stalla (1). Infine, la stretta
connessione delle divinità femminili con i liquidi fa sì che al loro culto
aderiscano anche le comunità che trovano sostentamento nelle acque,
quali i pescatori (mina) e i barcaioli.

AIYANAR, IL SIGNORE

Rara eccezione maschile in questo universo di femmine è la presenza


di Aiyanar, potente divinità di rango superiore tipica del pantheon
autoctono delle comunità contadine del Sud. Probabile evoluzione del
primordiale Dio Nero (2), la figura di Aiyanar si caratterizza per la
capacità di inglobare in un unico corpo sia le funzioni tipiche di una
divinità maschile (difesa) che quelle femminili (fertilità).
Egli è, infatti, visto dai tamil quale complemento della Signora - la
personificazione dell’insieme di tutte le dèe tutelari del villaggio - che
assimila nella sua figura, sintesi della massima espressione
dell’energia creativa. Reso potente da questa dualità, agli occhi del suo
popolo egli non può essere altro che “il Signore” per eccellenza, il dio
puro che comanda sugli dèi impuri. Una grande invenzione, questa:
perché disperdere soldi ed energie in molti riti quanti sono gli dèi
malevoli, quando si ha a disposizione il loro Signore, il Dio supremo
degli dèi? Se sostanziosi, i riti e le donazioni a lui fatte basteranno per
convincerlo a eseguire al meglio il suo lavoro, tenendo a bada i
sottoposti (3).
1 Un rito questo della “consacrazione” dei confini del villaggio che è stato ripreso
nel mondo cristiano con le rogazioni, processioni dove il sacerdote, seguito dai suoi
fedeli, “consacra” il territorio a lui soggetto effettuando un giro circolare: lo stesso
rito del parikrama indiano. Ricordo che le nostrane rogazioni hanno avuto inizio
quando la Chiesa cattolica, in periodo medievale, definì “una parrocchia” il mero
territorio racchiuso nello spazio che poteva essere percorso in una giornata di
cammino a piedi. Altre informazioni sono reperibili nel saggio di Jonathan Sumption
Monaci Santuari Pellegrini. La religione nel Medioevo, Editori Riuniti, 1981.
2 Nero (kali in hindi, kala in sanscrito) è il colore che riporta al sasso sporcato dal

fuoco, la cui padronanza, in unione alla parola, elevò l’homo erectus al di sopra degli
altri animali. In tempi a noi più vicini il sasso annerito dal fuoco e dal fumo del
sacrificio (cfr.: il turibolo con l’incenso) assumerà la forma antropomorfa del
“divino”. Mentre in Occidente il clero ha poi provveduto a sostituire i tribali sassi
neri con le Madonne nere, figure prese dal pantheon egiziano, nell’India dravidica il
ruolo di Dio Nero che fu di Karuppan, l’arcaico Signore degli spiriti della notte, è
stato affidato ai pey, gli effimeri spiriti maligni non soggetti a riti devozionali.
3 Seppur con altri intenti, l’atto politico di rivolgersi ad un capo piuttosto che

sprecare energie a dar retta al popolo intero mi ha fatto ricordare quanto scritto da
Catherine MACARTNEY nel suo Chini Bagh. Una lady inglese nel Turkestan cinese,
Giano Editore, 2004: «Benché siano confuciani, i cinesi evitano ogni interferenza

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Secondo l’antica tradizione tamil, Aiyanar trarrebbe le sue origini dalla
naturale evoluzione fisiologica dello sperma ritualmente deposto dai
contadini sul bordo delle pozze d’acqua utilizzate per l’irrigazione dei
campi, concreto simbolo di fertilità (1). Poi, con l’avvento della filosofia

nella vita sociale e religiosa dei nativi, e gli unici contatti che l’amban [governatore]
cinese ha con i suoi sudditi passano attraverso i capi locali. Non vi è dubbio che
costoro esercitano impunemente una certa oppressione sui contadini e, finché
questa non supera un limite insopportabile, i cinesi chiudono un occhio. C’è un modo
di governare che essi sembrano comprendere meglio di noi, vale a dire: se vuoi
mantenere il paese tranquillo è meno vantaggioso avere la gente contenta ed è meglio
semmai avere coloro che contano dalla tua parte; in altri termini, preoccupati di
piacere al pastore e non alle pecore, perché queste sono mute!»
1 Estraggo dal mio Glossario orientale: «Ferro : Nell’India dravidica ancor oggi i

contadini usano praticare ai bordi delle pozze d’acqua un buco nella terra e poi,
straiandovisi sopra, copulare con essa fino all’eiaculazione. Per creare il buco è
d’obbligo l’impiego di un ficcone di ferro. Inoltre, nei siti più arcaici, Aiyanar appare
sempre circondato da una fitta serie di lance di tale materiale, che creano attorno al
sasso nero - la sua rappresentazione antropomorfa - una sorta di gabbia protettiva.
Interessante è il paragone con i nostrani culti volutamente fatti dimenticare. A pag.
17 del saggio I fuochi dei Sette Fratelli. Ricerche etno - antropologiche su tradizioni,
culti e magia in Valcavargna e in Valsassina (Lombardia), Università Cattolica del
Sacro Cuore, Milano, 1982, si legge: [Valsassina. Casa d’abitazione di tipo
tradizionale] Elementi della facciata: i portoni erano assai robusti, e tenuti insieme
mediante grossi chiodi di ferro a capocchia in forma di piramide a base quadrata;
interessante il fatto che l’informatore Aldo Mainetti abbia affermato “tenevano
lontano l’orso”; la figura misteriosa dell’orso e l’idea che un oggetto di ferro possa
tenerlo lontano, sembrano derivare direttamente dalla preistoria e dai suoi culti; che
sia rimasta nella gente della valle una più che vaga coscienza dei “poteri” del ferro e
dell’aura di sacralità che lo ha circondato, è incontestabile e risulta dalle parole dei
vari informatori; Mainetti dice: “i chiodi pungevano, rinforzavano il portone, ma
forse era proprio il ferro che aveva la forza di scacciare l’orso…”; Piatti Anna Maria
dà una versione cristianizzata del potere dei chiodi di ferro, ammettendo però con
questo che tale potere rientra nella sfera del sacro: “I chiodi di ferro erano una
sicurezza contro ogni cattivo influsso perché erano quelli dei portoni delle chiese…».
Non a caso l’evoluzione del mito cristiano ha imposto la crocifissione di Gesù con
3 chiodi di ferro anziché coi legacci di corda (metodo riservato ai due “ladroni” utili
per formare il numero 3 sul Golgotha). Per ulteriori approfondimenti sul tabù del
ferro rinvio alle varie ristampe dell’edizione abriged del 1922 de Il ramo d’oro di
James George FRAZER; dalla sua edizione Newton & Compton, 1992, pp. 266-7,
estraggo: «Ma l’antipatia che il ferro suscita negli dèi e nei loro ministri, presenta
anche un altro aspetto. La loro avversione nei confronti di questo metallo offre agli
uomini un’arma che, in caso di bisogno, può essere rivolta contro gli spiriti. Si ritiene,
infatti, che essi provino una tale ripugnanza verso il ferro da non accostarsi a persone
o cose protette dall’aborrito metallo; che, naturalmente, può servire - e spesso serve
- da amuleto per scacciare spettri e altri spiriti pericolosi. Per esempio, negli
Highlands scozzesi, la migliore difesa contro elfi e folletti è il ferro o, meglio ancora,
l’acciaio; sotto ogni forma - spada, coltello, canna di fucile, o quel che sia - è infallibile
per questo scopo. [...] Basterà tenere in tasca un temperino o un chiodo, e le fate non

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shaiva, lo sperma divenne quello spiritualmente deposto da Shiva
nelle vesti di yogin erotico (1). Mai rinchiuso all’interno di un tempio,
Aiyanar è solitamente raffigurato per mezzo di una statua di terracotta
posta nelle vicinanze delle pozze d’acqua, in piedi o seduto, talvolta
affiancato dalle sue due mogli - una di carnagione chiara, l’altra scura
- da un elefante e da un leone, antichi elementi simbolici nella
cosmologia dell’acqua ma anche terrestri segni di potere, ricchezza e
sovranità.
Portamento severo, enormi baffi, denti prominenti e spada sguainata,
Aiyanar - diversamente dalle altre divinità maschili, che hanno un
ruolo subordinato alle Dee Madri - svolge una funzione fondamentale,
essendo incaricato di proteggere l’intero territorio del villaggio dai
pericolosi spiriti della notte, compito che assolve con l’aiuto dei viran
- nome inglesizzato in veeran, gli “eroici” spiriti fedeli che
l’accompagnano e lo proteggono - e di Karuppan (2), il suo alter-ego
negativo.
Nei tempi arcaici si riteneva che Aiyanar usasse pattugliare il territorio
del villaggio affidatogli cavalcando un toro (3) o un elefante -

vi porteranno via di notte. [...] In Marocco, il ferro è considerato un’efficace


protezione contro i dèmoni e, per questo motivo, spesso si pone un coltello o un
pugnale sotto il guanciale di un malato. [...] Sulla Costa degli Schiavi, una donna che
vede suo figlio deperire, pensa subito che un dèmone sia entrato in lui [...] Per
attirare lo spirito maligno fuori dal bambino, offre in sacrificio del cibo; e, mentre il
dèmone si sta ingozzando, attacca dei cerchietti di ferro e dei campanellini alle
caviglie del piccolo, e gli mette delle catenine di ferro al collo. Il tintinnio del ferro e
delle campanelle dovrebbe impedire al dèmone, ormai sazio, di rientrare nel corpo.
Infatti, in questa zona dell’Africa, si incontrano spesso bambini carichi di monili di
ferro.»
In realtà, i nostri progenitori avevano una sacrale considerazione per il ferro,
tanto da farne il metallo divino per eccellenza. Ancor oggi all’esterno degli arcaici
templi dell’India (ma non solo) - strutture rigorosamente costruite col legno “sacro”
del cedro e mai con la “profana” muratura - penzolano delle cordicelle con tante
lamine metalliche che il vento provvede a far tintinnare. Il loro scopo è di ricordare
agli spiriti maligni (in particolar modo quelli notturni, i più temuti) della presenza di
un deota protettore del territorio, tenedoli lontani. Oggi la stessa funzione viene
svolta dai tubetti metallici che molti occidentali appendono fuori di casa: conviviamo
ogni giorno coi miti e i riti ereditati dalla preistoria, senza averne coscienza.
1 Si veda il mio scritto Shiva.
2 Quale dio “nero” e carnivoro, Karuppan divenne per i brahmana il simbolo delle

caste intermedie, gerarchicamente sottoposte a quelle vegetariane.


3 In seguito, nei templi shaiva il toro è stato onorato come Nandi, cavalcatura di

Shiva. Soprattutto nell’India del Sud, il toro annesso al tempio e investito della
funzione riproduttiva vive in libertà e può capitare che attacchi chi si trova sulla sua
strada. Commentando questi attacchi di collera, gli abitanti del villaggio chiamano il
suo autore Shivan, identificando così il toro col dio. É noto che nel Tamil d’altri tempi

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cavalcature che dopo le invasioni del settentrione dell’India si sono
mutate nel più veloce e guerresco cavallo (1) - trascinandosi appresso
le orde degli Spiriti Neri, distogliendo così la loro attenzione dal
villaggio.
Per agevolargli il lavoro notturno, i tamil usano circondare l’effigie di
Aiyanar con i kudarai, i cavalli costruiti con un impasto di acqua,

si praticava la jalli-kattu, una corsa di tori a carattere profano, simile alla corsa con
la coccarda in uso nella Provenza. Meno nota, e segnalata solo a Tanjore, è la erudu-
kattu (“legare il toro”). Alquanto differente dalla prima, era paragonabile alla corsa
provenzale con la corda detta “à la bourgine”: dedicata al dio Aiyanar, si svolgeva
presso il suo tempio il giorno seguente l’erezione dei cavalli di terracotta. Una corda
enorme, intrecciata dagli intoccabili, era legata per un capo al collo del toro; quando
questi veniva sciolto, l’altro capo della corda strisciava sul terreno dietro di lui e i
giovani tentavano, afferrandola, di domare la bestia. In questo modo si facevano
correre, uno dietro l’altro, i tori dei notabili in ordine gerarchico. Finita la festa, la
corda restava appesa a un albero presso il tempio.
1 «Sul bordo di destra due rozze figure di animali, un cavallo ed un elefante. [...]

Ma il vedervi qui appaiate le figure del cavallo e dell’elefante mi fa pensare agli altri
due, cioè al leone e al bue che secondo alcune concezioni cosmografiche buddhiche
stanno ai quattro lati del lago Anavatapta e dalla cui bocca scaturiscono i quattro
grandi fiumi del Jambudvipa, cioè la Ganga dal bue verso oriente; il Sindhu (noto
come la Sutlej nel Kinnaur) dall’elefante a sud; il Vaksu (o Paksu) dal cavallo ad
occidente; la Sita dal leone a nord. Queste credenze cosmografiche che i buddhisti
hanno conservato e che presuppongono una divisione quadripartita del mondo,
originata forse in una civiltà svoltasi lontano dal mare ma lungo grandi fiumi, sono
probabilmente da mettersi in relazione con la dottrina dei quattro imperatori fra cui
una tradizione indiana, raccolta più tardi anche dai viaggiatori musulmani, vorrebbe
diviso il mondo. Esse hanno certo origini molto antiche. I quattro animali da cui
scaturiscono i quattro fiumi, secondo la leggenda sopra accennata, già simboleggiano
i quattro punti cardinali sui capitelli di Sarnatha e non è improbabile che il loro
prototipo sia da ricercarsi in miti cosmografici antichi di cui, all’infuori di sporadici
accenni nella letteratura buddhica, si sono perdute le tracce: non è da escludersi che
credenze consimili abbiano ispirato un famoso sigillo ritrovato a Mohenjodaro in cui
la divinità centrale è circondata appunto da quattro animali, elefante, tigre, bufalo,
rinoceronte: la sostituzione del rinoceronte col cavallo può bene spiegarsi con il
diffondersi delle comunità indo-iraniche, che introdussero in India il cavallo. Ad ogni
modo questa quadruplice serie di animali, di cui l’eco è giunto anche in Cosma-
Indicopleuste e che ricorre pure nella monetazione buddhica, mi sembra abbia
piuttosto origini e connessioni cosmografiche anziché valore simbolico di momenti
speciali della vita di Shakyamuni, e cioè: elefante = concezione; toro = mese di
Vaishaka (aprile-maggio) in cui egli nacque; cavallo = abhiniskraramana o
abbandono della vita mondana per quella dell’ascesi; leone = predicazione della
legge detta simhanada, ruggito del leone, così come Shakyamuni è chiamato anche
Shakyasimha, il leone della stirpe degli Shakya. Ciò non toglie tuttavia che, come
spesso succede in India, i due simbolismi si siano col tempo sovrapposti l’uno
all’altro.» Giuseppe TUCCI, Indo-Tibetica. Reale Accademia d’Italia, Roma, 1932, vol.
I, pp. 80-81.

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paglia e terra prelevata dall’area di culto, alti fino a dieci metri. Dopo
la cottura, i cavalli sono vivacemente dipinti e capricciosamente
bardati con specchietti, campanelli e figure di màkara, il mitico pesce-
coccodrillo simbolo delle profondità insondabili delle acque (1).

SIMBOLISMO DEI KUDARAI, I CAVALLI DI TERRACOTTA

I cavalli di terracotta sono la divina riflessione del potere di Aiyanar,


colui che protegge il villaggio e ne assicura il benessere. Questi animali,
stranieri del Tamil Nadu, sono strettamente connessi ai condottieri e
ai sovrani che un tempo dominavano su questa regione. La forza, la
potenza e il valore di questi eroi venne poi trasferita in Aiyanar.
Per svolgere al meglio il suo compito, gli indigeni fornirono ad Aiyanar
i più efficienti mezzi di protezione che vedevano utilizzare dai loro
condottieri: il cavallo e la spada. Per i contadini delle epoche più
recenti, il cavallo rappresentava la velocità, la manovrabilità e la
potenza con cui gli antichi re intervenivano in difesa dei villaggi ed
attaccavano i territori altrui, dando alle loro imprese un alone di
leggenda (2).
È evidente come nelle suddette raffigurazioni affiorino sia il concetto
della caccia selvaggia che il ruolo svolto dagli antichi re guerrieri,
garanti, con le loro armate, della sicurezza del popolo contadino, a cui
si chiedeva di essere pacifico, laborioso e sottomesso - per tramite del
clero - al potere del sovrano. In quest’ottica, Aiyanar è identificato
come massimo protettore del villaggio, ricambiato dal popolo con
adeguate cerimonie di consacrazione, la più importante delle quali è
l’abhiseka, il rito dell’unzione o aspersione eseguito con l’acqua.

1 In un viaggio tra le comunità tamil della Malaysia (1999), mi è capitato di trovare


Aiyanar rinchiuso in appositi templi a lui dedicati - solitamente messi a protezione
delle spianate utilizzate dai pescatori per seccare i pesci al sole - talvolta inseriti
all’interno dei grandi templi dedicati a Mariamma, la dea madre per eccellenza dei
Dravida (e tra le Sette sorelle - o Sette vergini - che presiedono alle malattie è quella
che protegge dal vaiolo).
2 La presenza del cavallo farebbe di Aiyanar una divinità recente. In realtà non è

così, essendo provata l’esistenza in passato di altre sue immagini in terracotta su di


un toro o di un elefante, primitivi mezzi di trasporto. Quando il cavallo arriverà in
India con gli “invasori Aryan” e dimostrerà di essere un ben più efficiente veicolo,
sarà prontamente fornito ad Aiyanar per migliorarne le prestazioni. Interessante è il
fatto che nessuno dei primitivi modelli di cavalli di terracotta è fisicamente
rassomigliante all’animale rappresentato, e questo farebbe supporre che l’artigiano
costruiva il cavallo per sentito dire, senza averne mai visto uno.

17
18
In quest’occasione la statua del dio è dapprima lavata, poi cosparsa
sulla fronte e sulle vesti di un impasto fatto con olio di zenzero, succo
di cedro, latte e pasta di legno di sandalo.
Alla cerimonia dell’unzione seguono le offerte rituali, a base di noci di
cocco e di betel, banane e paysam, il budino di riso dolce. Infine, dopo
aver bruciato incenso e canfora (1), il cibo offerto alla divinità è
ritornato al popolo per essere consumato.
Attualmente, la dualità del dio e quindi dei riti a lui dedicati richiede
la presenza sia di un brahmana, per il rito connesso al lato vegetariano
del dio, sia di altri officianti di bassa casta per il sacrificio di animali ai
suoi viran, le cui immagini sono poste a
distanza dalla divinità principale e per
l’occasione nascosti dietro un sipario.
Oltre che nel Tamil Nadu, il simbolismo
dei cavalli di terracotta lo troviamo anche
nelle aree tribali del Gujarat, da dove
proviene l’immagine qui a lato.
Si tratta di un cavallo con due teste e
recante sul dorso due tipi di bhoot
(spiriti) - lo scuro tapio (caldo, maschio)
e il chiaro vetri (freddo, femmina) -
oggetto “magico” sovente utilizzato dagli
sciamani per “purgare” il paziente dalle malattie.
In questo esempio, la predominanza del colore scuro sul chiaro ci
ricorda che in origine queste terre erano abitate dai neri Adivasi, con i
bianchi Arya nel ruolo degli invasori.

HARIHARA, METÀ MASCHIO E METÀ FEMMINA

Verso i secoli VII-VIII dell’era corrente (e.c.), l’importanza filosofica del


duplice ruolo svolto dalla singola figura di Aiyanar indusse i
brahmana ad inglobare nel mondo delle loro divinità una

1 La fusione tra incenso e canfora coniugano in un solo corpo solido tre proprietà

simboliche: l’aspetto purificatore del fuoco sacro, la salita verso l’alto del fumo e il
profumo sottile che cancella gli odori profani, e tutti e tre, a modo loro,
accompagnano le preghiere fino al cospetto degli dèi. Per analogia, ricordo che anche
i cinesi ritengono che ogni corso o pozza d’acqua abbia il suo Re Drago e per questa
ragione a fianco di ogni pozzo vi è sempre un minuscolo tempio a cui offrire in
sacrificio tre bastoncini d’incenso. Esempi del tutto identici sono ben visibili anche
tra i cristiani, che accendono candele (la fiamma, il fumo e il profumo della cera che
si fonde sono tre proprietà assimilabili a quelle dell’incenso e della canfora) davanti
alle immagini dei santi prediletti affinché intercedano per loro presso il Divino.

19
rappresentazione similare, in altre parole Ardhanari, detto anche
Harihara, in seguito “perfezionato” come Shiva Ardhanarishvara.
La storia della sua origine è fatta perdere nella notte dei tempi, quando
gli dèi non erano ancora immortali. Grazie a Visnu, che si mutò nella
tartaruga (1) capace di sostenere il peso del monte Mandara, e al
serpente Vasuki che si prestò ad essere utilizzato come corda, le
opposte forze della Natura poterono unirsi per rimestare con forza le
acque dell’Oceano primordiale (simbologia del cosmo immanifesto) e
trarne da esso l’amrita, la bevanda dell’immortalità. Mentre le forze
positive festeggiavano il fausto evento, le forze a loro ostili si
aggiravano con fare sospetto attorno alla brocca contenente il potente
liquido, cercando il momento opportuno per trangugiarlo a danno dei
rivali (2). Intuito ciò, Visnu subito si mutò nelle femminili forme di
Mohini (“concupiscenza”), riuscendo a sedurre i demoni e ad
impossessarsi dell’ambrosia, che subito portò ai suoi colleghi affinché
la bevessero. Ma al suo apparire, il sanguigno Shiva venne attratto da
quel sensualissimo corpo di donna e senza lasciare il tempo a Visnu di
rivelarsi, la prese e l’ingravidò, generando Harihara.
Personalità sfuggente, Harihara ben si prestava alle più disparate
interpretazioni, di cui la più faziosa ne faceva il simbolo della vittoria
della filosofia shaiva su quella vaisnava. In realtà, ad una più critica
interpretazione appare chiaro che egli è soltanto la rappresentazione
“fisica” della tentata fusione tra le due differenti correnti di pensiero al
fine di creare una terza e nuova scuola dottrinale.
D’altronde, la semplicità mentale degli abitanti dei villaggi mal
tollerava questa nuova “filosofia” tipicamente clericale, causa di non
pochi problemi comportamentali. Infatti, la componente di Harihara
collegata a Shiva richiede sia il sacrificio animale celebrato da sotto-
caste, che l’erezione presso ogni suo tempio di un lingam, problema
risolto seppellendo un itifallo sotto la statua di Aiyanar: c’è ma non si
vede.

1 Akupara è il nome della tartaruga cosmica; immersa nelle acque porta la Terra

sul suo dorso.


2 Nei testi post-vedici questo ruolo toccò alle tribù indigene che si opponevano

all’espansionismo politico e religioso degli “indo-aryan”. Nelle lingue dell’India il


termine arya non ha una connotazione razziale. Designa a volte l’insieme degli
uomini che appartengono al mondo nel quale i precetti della Rivelazione (shruti)
vedica e della Memoria (smriti) sono rispettati, a volte gli uomini perbene, i generosi.
Arya è anche il termine sovente utilizzato per qualificare una dottrina elevata, come
le quattro nobili verità (ciatvari arya-satyani) del buddhismo, o un “aristocratico”
dello spirito.

20
All’opposto, l’aspetto originario di Aiyanar era quello di una divinità
vegetariana, usa a cerimonie incruente celebrate da caste superiori.
Onde rispettare la dualità presente nella sua raffigurazione - concetto
delle opposte filosofie che unite in un unico corpo divengono
complementari - si prese l’abitudine di stendere un telo davanti
l’immagine di Aiyanar durante i sacrifici richiesti dalla sua
componente cruenta.
Per onore della verità, va pur detto che questa duplicità già esisteva nei
miti predravidici, laddove si delegava Aiyanar alla protezione della
componente vegetariana del villaggio, quindi onorato con riti a base di
fiori e di frutti, relegando Karuppan, il suo alter-ego di rango inferiore,
a rappresentare i mangiatori di carne e da questi venerato con riti di
sangue.

AIYAPPAN E SABARIMALA

Per completare il complesso quadro delle divinità poste a protezione


del singolo villaggio, si deve prendere in considerazione un nuovo
personaggio di sesso maschile, ovvero Dharma Shasta (“sovrano del
dharma”), antica e popolare divinità posta a protezione dei cacciatori
e dei boscaioli del Kerala, divenuta prominente tra i secoli VI e VIII,
periodo in cui i brahmana tramutarono anche questa figura locale nel
simbolo della fusione tra shaivismo e visnaismo, mutandone il nome
primitivo in quello di Aiyappan. Per rafforzare la presenza del nuovo
dio, sue iscrizioni e immagini iconografiche sono fatte apparire tra i
secoli VIII e IX in ogni parte del Kerala meridionale. Sebbene la natura
del culto di Aiyappan sia diversa da quella di Aiyanar, la similitudine
dei nomi e del ruolo ne indica una probabile origine comune.
Attualmente, Aiyappan è venerato soprattutto nel tempio di
Sabarimala, meta di un importante pellegrinaggio divenuto popolare
a partire dal secolo scorso.
Sull’origine di questo culto esistono molte versioni locali. Una di
queste ci informa che un giorno il re e la regina di Pandalam, sul cui
territorio vi è Sabarimala, andando a caccia nella vallata del fiume
Pampa trovarono abbandonato nella foresta un bellissimo neonato,
che adottarono quale loro figlio. Siccome aveva delle macchie blu e
diamante attorno alla gola, al piccolo venne imposto il nome di
Manikanta. Crescendo, il ragazzo dimostrò di possedere grandi doti
intellettive, imparando in brevissimo tempo tutto quello che vi era da
sapere sulle arti e sulla scienza. Nel frattempo la regina partorì il suo
primo figlio, che il re considerò cadetto lasciando il ruolo di

21
primogenito al trovatello. Questo non piacque alla moglie, che prese
ad odiare Manikanta, organizzando contro di lui numerosi complotti,
ovviamente tutti andati falliti.
L’occasione propizia per sbarazzarsene le fu offerta dal medico di
corte, a cui necessitava del latte di tigre per preparare una potente
pozione. A Manikanta fu dato l’ordine di partire per l’impresa,
completamente solo; come cibo, ricevette soltanto un fagotto di noci di
cocco. Girovagando nella foresta, il giovane si imbatté in Indra, il re
degli dèi, a quel tempo disturbato da Mahisa (1), che qui, nei miti del
meridione, era un perfido asura dalle forme di bufalo, il quale aveva
accumulato tanta potenza da essere in grado di distruggere tutte le
divinità. Una profezia voleva che Indra sarebbe ritornato nelle grazie
di Brahma solo se il figlio di Shiva e Visnu l’avessero aiutato ad
uccidere Mahisa. Su richiesta di Indra, Manikanta combatté contro il
deota-bufalo, decapitandolo. Riuscendo in questa difficilissima prova,
il trovatello si rivelò non essere un semplice umano ma nientemeno
che Dharma Shasta, la creatura a suo tempo nata dalle forze congiunte
di Shiva e Visnu. In cambio della morte di Mahisa, Indra diede al
giovane eroe il potere sulle belve della foresta, dono che subito utilizzò
per rientrare a palazzo scortato dal suo nuovo esercito, le tigri della
foresta, che fecero a gara per fornirgli il latte richiesto. Allo sbalordito
re, Dharma Shasta rivelò la sua origine divina, dichiarando di
desiderare da lui la costruzione di un tempio nella foresta, luogo dove
potersi ritirare e da lì governare i suoi sudditi felini (2).
Nacque così Sabarimala, mèta di un arduo pellegrinaggio che trova la
sua apoteosi in tre grandi giorni: Mandala Puja e Makara Vilakku (nel
periodo tra dicembre e gennaio) e Visnu Puja in aprile. I pellegrini che

1 “Bufalo”. Il nome di un asura (dèmone) che aveva acquisito tanta potenza da

sconfiggere gli dèi e insediarsi in cielo. I divini presero allora a vagare sconsolati per
il mondo, finché Visnu e Shiva non consigliarono loro di concentrare le proprie
energie; queste si mostrarono sotto la forma di getti di fiamme e da esse emerse
Camundi, l’aspetto terrificante di Durga. Cavalcando un leone e brandendo le armi
ricevute dagli dèi, la dea si lanciò contro Mahisa, ma il dèmone mutava
continuamente d’aspetto e solo quando commise l’errore di apparire sotto forma di
bufalo Durga poté ucciderlo (perché un animale). Mahisa cercò allora di sfuggire
dalla carcassa inanimata, ma la dea lo prevenne mozzandogli la testa con la sua spada
divina: da qui l’epiteto di Mahisasuramardini, “la schiantatrice dell’asura Mahisa”.
La testa mozzata di Mahisa bloccò l’entrata alla regione dei Kuru settentrionali: il
cielo era tornato agli dèi. - La mitologia hindu, canonizzata dal Mahabharata, indica
Skanda quale uccisore di Mahisa.
2 Alcuni, ritenendo che gli antichi miti di Shasta e di Aiyanar contengano elementi

buddhisti o jaina, propongono una diversa versione: per loro fu Agastya il re che fece
costruire il tempio e che iniziò la pratica del pellegrinaggio.

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vogliono partecipare al Mandala Puja, il massimo evento, devono
assoggettarsi a rigide regole. Per tutti i 41 giorni che precedono la salita
al tempio i partecipanti devono vestire abiti di colore nero o blu scuro,
dormire sulla nuda terra, praticare il digiuno e l’astinenza sessuale.
Durante il viaggio (da fare di corsa, in gruppo e sotto la guida di un
guru) ai devoti è concesso di portare soltanto l’irumudi (“due nodi”),
bagaglio diviso in due sacche, l’una contenente gli articoli di devozione
(una noce di cocco riempita di burro, il riso e la canfora), l’altra gli
effetti personali. Entrambe le sacche devono essere chiuse da una
corda annodata, creando i due nodi che danno il nome al fardello.
Quando si incontrano, i gruppi di pellegrini si salutano gridando
Swami saranam, “Signore io ti appartengo”.
Sintetizzando, l’ascensione al tempio di Sabarimala è il retaggio di un
arcaico rito collettivo che porta le popolazioni locali, essenzialmente
contadini e boscaioli, a salire fino al palazzo del Signore delle belve per
intercedere la sua protezione contro gli assalti dei felini (ormai rari) e
di ogni altro animale notturno.

MADURAI-VIRAN, SPOSO DI MINAKSHI

La terza divinità maschile associabile ad Aiyanar è Madurai-viran (1).


Una vecchia leggenda locale narra che la figlia di Nayak Pandya, re di
Madurai, andò sposa ad un suddito di suo padre, un soldato che era
emerso sopra gli altri per il suo innato istinto al comando e per il valore
dimostrato in battaglia. Non avendo il re Nayak generato figli maschi
altrettanto validi, alla sua morte il trono dei Pandya di Madurai fu
occupato dal genero, che si prodigò a combattere contro ogni invasore
delle proprietà ereditate, divenendo di fatto il difensore unico delle
comunità agricole e dei villaggi dei pescatori a lui sottomessi. In
seguito la credenza popolare attribuì a questa mitica coppia reale
poteri taumaturgici e il culto di Madurai-viran e Minakshi (2) assunse
dimensioni importanti, con ingenti folle di pellegrini in perenne visita
al tempio a loro dedicato. Questo fatto non poteva sfuggire ai
brahmana depositari dell’unico e vero credo ufficiale, i quali, come
ogni religione moderna insegna, non esitarono ad inglobare nel loro

“Eroe di Madurai” (o Madura), la Mathura del meridione.


1
2“Dagli occhi di pesce”, la dea tutelare di Madurai. Per alcune scuole hindu è
moglie di Himavat e madre di Parvati e Uma, per altre è una moglie di Shiva.

23
pantheon anche queste arcaiche divinità locali, modificandone i nomi
in Shiva Sundareshvara (1) e Parvati.
Iconograficamente parlando, nei villaggi dei pescatori Madurai-viran
è sempre rappresentato seduto su di un pesce, simbolo sia di sua
moglie sia della dinastia dei Pandya di Madurai. All’opposto, nelle
comunità rurali Madurai-viran è raffigurato a cavallo di un destriero,
attorniato dal fido attendente Muniyandi, con una o due mogli sedute
di fronte a lui. Tra i contadini, la cattiva fama del suo carattere ne fa
una divinità inferiore, al servizio di Mariyamma, la temibile dea del
vaiolo, una divinità il cui rito cultuale (associato a quello di Kaliyamma
e di Muniyandi) richiede sacrifici di animali e l’assunzione del toddy,
il vino di palma, e di arrack, bevanda alcolica derivata dalla
fermentazione dei cereali. Oggi queste divinità cruente sono rimaste a
sorvegliare le tenebre dei villaggi abitati da caste basse, dove sono
venerati più in spirito di paura che di felicità (2).

1 “Il Bel Signore”. Epiteto di Shiva come sposo di Minakshi. Sundari è il titolo

classico con cui ci si rivolge ad una signora nei drammi in sanscrito, mentre Sundara
è l’epiteto del bell’asceta itinerante.
2 Sebbene camuffata dalle rivisitazioni teologiche, la presenza dell’arcaico “uomo

nero” qual’è Aiyanar - forse la prima idea di un “divino” antropomorfizzata in essere


umano - si ritrova ovunque nei testi “sacri”, raccolte di miti antichi riveduti e corretti
ad uso delle masse ed imposti anche attraverso l’arte “sacra”. In ogni tempio del
mondo ne sono chiari esempi le figure scolpite ai lati e/o sopra i portali, ma anche la
presenza all’ingresso di mostri (in Oriente) o di leoni (in Occidente; laddove queste
belve sbranano un essere umano si è di fronte alla tarasca importata dalla pagana
Gallia), figure che in passato avevano il compito di impedire la contaminazione del
tempio da parte degli spiriti del male che inevitabilmente accompagnano il fedele
peccatore. Questo paganesimo visibile ma non recepito lo si ritrova anche
nell’ambito civile: per difendere le proprietà dagli “spiriti maligni della notte” non si
sono lesinati nani o mostri sui muri di recinzione delle ville, precauzione integrata
da facce mostruose o omenoni sopra ogni porta e ogni finestra. Ancora: «Sempre di
impronta tipicamente medioevale è la concezione soggiacente al culto delle reliquie
custodite nelle basiliche presso o al di fuori delle mura: i santi infatti sono considerati
protettori o baluardi della città, la vera difesa dagli attacchi nemici ed insieme
garanzie di prosperità economica e di stabilità politica.» [in] Storia religiosa della
Lombardia. Diocesi di Milano (1° parte). A cura di A. Caprioli, A. Rimoldi, L.
Vaccaro. Editrice La Scuola, Brescia, 1990, p. 96.
Per approfondimenti su queste mie osservazioni - ma anche sui simboli della
dualità maschile-femminile, tra i molti libri disponibili indico Arte dei numeri.
Letture iconografiche, di Fernando RIGON, Skira 2006, da affiancare alla lettura del
fondamentale Le Imagini de i Dei de gli Antichi di Vincenzo CARTARI, opera
pubblicata per la prima volta nel 1556 e ristampata più volte tra il 1987 e il 2004. Per
la figura della tarasca (da cui prende il nome la città di Tarascon): La Tarasque par
Louis DUMONT. Éditions Gallimard, 1951 (nouvelle édition 1987).

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L’UNIONE DELLE FORZE OPPOSTE

Concludendo, si possono indicare le figure gemelle di Aiyanar, di


Aiyappa e di Madurai-viran quali espressioni delle paure e speranze
dei semplici contadini, i quali finanziano l’erezione di gigantesche
statue per favorire un buon raccolto e la felicità domestica. In questo
modo, ciò che è stato dedicato ad Aiyanar (il villaggio, la famiglia) è da
lui protetto dal pericolo notturno. Ma anche: queste divinità sono il
punto d’unione tra la duplice componente delle comunità agricole,
formate da gruppi vegetariani (con un pandaram, una sorta di sotto-
brahmana, quale guida spirituale) e quelli onnivori, il cui sacerdote è
lo stesso figurinaio incaricato della costruzione dei cavalli votivi.
Connessione tra le forze note e le forze sconosciute, capace di integrare
in un unico corpo sia i ruoli tipicamente maschili che quelli femminili,
Aiyanar è sempre stato considerato dal popolo tamil “il Signore” per
eccellenza, l’unica figura in grado di rappresentare nella minuta scala
delle comunità rurali tutte le duplici componenti della vita e della
natura (positivo e negativo, maschio e femmina, nascita e morte, salute
e malattia, pioggia e siccità, eccetera), da lui magnificamente
sintetizzate in un tutt’uno, divenendo l’esempio della neutralità e della
perfetta unione delle forze opposte e contrarie. Ed è questa sintesi
perfetta, unita alla sua forza e al suo vigore, che consente ad Aiyanar
di proiettarsi con successo verso il pericoloso mondo delle forze
sinistre che esiste oltre lo spazio chiuso delle capacità umane.

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mail inviata ad un gruppo di amici
e conoscenti in data
16 agosto 2017

Cercando una frase letta decenni di anni fa, ho riaperto Ritorno alle
sorgenti, libro che porta la firma di Lanza Del Vasto, edito da
Bompiani nel 1949.
La frase non l’ho trovata, ma alcune pagine mi hanno riportato al 1988,
l’anno del mio primo viaggio nell’India dravidica, la parte più
meridionale di quel sub-continente, che ha in Kannyakumari
(inglesizzato in Cape Comorin) il suo punto estremo. Qui il triangolo
pubico della vergine (kumari) dea locale è soggetto al fluire e al ritrarsi
delle acque che portano il nome di tre oceani, creando uno dei luoghi
più sacri dell’India. Occupare un posto sul triangolo sabbioso
momentaneamente lasciato libero dalle acque ritratte per godere del
sole che tramonta è un rito che nessun indiano deve (se può) perdersi.
L’uno e il trino qui trova il suo compimento: il maschio dio Sole sorge
dalle acque del Golfo del Bengala; a mezzogiorno svetta in pieno
Oceano Indiano; tramonta nel Mar Arabico. Io, unico occidentale
presente in quel fatidico mese di ottobre del 1988, ho voluto fare di più
(non una bravata: solo che probabilmente ero l’unico a saper nuotare):
al tramonto sono entrato in acqua per una rinfrescante, benefica,
nuotata in quelle acque “sacre”. Mi ha portato fortuna - e vado a
raccontare perché.

Il 1988 è stato l’anno dedicato alla ricerca di Aiyanar o Ayyanar o


Ayanar o Ayannar, forme grafiche diverse per tradurre lo stesso nome-
concetto: IL Signore, la prima forma antropomorfa data ad un
archetipo divinizzato: il sasso nero, il sasso purificato dalla sua
vicinanza al fuoco, infisso nella terra. Sì, la prima raffigurazione visiva
del concetto astratto di un divino è stato un fallo nero copulante con la
Madre Terra. Un rito arcaico che risale all’incirca a dieci-dodicimila
anni fa, quando la casta sacerdotale - così come è oggi perlomeno - era
ancora da inventare. Popolo semplice creava divinità semplici, senza
riti né parassiti.

A Thanjavur fatico non poco prima di riuscire a trovare una persona


disposta a parlarmi dell’esistenza di luoghi di culto dedicati ad

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Aiyanar, che lo studioso francese Louis Dumont aveva definito
“religione non più esistente, un retaggio del nostro più antico passato”.
Balle. Se il quotato studioso avesse alzato il culo dalla poltrona avrebbe
(forse) scoperto che il culto di Aiyanar esiste ancora, sebbene nascosto
tra le più assolate lande dell’India del sud.
Alla fine trovo chi mi indirizza ad un primo luogo. Lui non può
accompagnarmi, dice, ma un ragazzino lì presente, in cambio del
giusto prezzo, può caricarmi sul suo tuk-tuk e portarmi nel luogo che
lui gli indica parlando in dialetto locale (1).
Arrivati in un disadorno tempio, il ragazzino spiega ad un’anziana
donna cosa vado cercando. Dalla sua reazione capisco che la frase - in
dialetto, quindi per me incomprensibile - aveva urtato la loro
suscettibilità. Quasi subito abbandoniamo il tempio, ma non prima di
essere riuscito a farmi dare un nuovo indirizzo, che il ragazzino
immagazzina nella sua memoria.
Altri chilometri su stradine di campagna ed ecco alcune capanne: qui
le donne sono più gentili. Dico loro una sola parola: Aiyanar. Cade il
gelo. Ripeto: Aiyanar. Una di loro alza il braccio sinistro e mostra una
direzione. Il sentiero indicato è impraticabile anche al tuk-tuk, quindi
lasciamo la motocarrozzetta e proseguiamo a piedi. Il ragazzino è
stralunato: non capisce cosa cerco, dove voglio andare ...e soprattutto
perché. Sa solo che i soldi li riceverà alla fine, al rientro in città, quindi
è costretto a seguirmi.
Arriviamo ad un canale. Una giovane donna circondata dai suoi
bambini sta lavando i panni. La saluto, lei mi sorride: bene.
Pronuncio la fatidica parola, Aiyanar, e lei mi indica una direzione.
Ringrazio e mi rimetto in viaggio, ma fatti pochi passi trovo quello che
più desideravo: davanti a me, sui bordi di un laghetto, si innalza un
cavallo di terracotta alto una dozzina di metri. Il mio cuore impazzisce:
ho ritrovato un luogo di culto dedicato ad Aiyanar, la più antica forma
antropomorfa del concetto di dio mai apparsa sulla Terra, l’origine di
ogni credo, fede e religione.

1 Il metodo da me utilizzato: in pieno pomeriggio, col sole che mi arrostiva la pelle,

mi sono inerpicato sopra il basamento di un pilone dell’alta tensione e da questa


postazione ogni volta che un treno scaricava i suoi passeggeri attiravo l’attenzione
urlando: Aiyanar! Aiyanar! Aiyanar! Dopo un paio d’ore, un uomo si ferma, mi
guarda e mi chiede: Perché urli quel nome? Scendo dal basamento, mi avvicino a lui
e gli spiego le mie ragioni. Lui mi guarda e dice: non ho tempo da dedicarti, ma posso
esserti d’aiuto. Chiama un giovane seduto nella cabina di un tuk-tuk, parlotta con
lui, stabilisce il prezzo da pagare, poi rivolto a me dice: ho spiegato a lui dove
portarti. Dagli 70 rupie…

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Scatto alcune foto, disturbato da un uomo che immerso nell’acqua del
lago mi urla frasi incomprensibili, ma che il mio sesto senso - sempre
attivo in questi casi - percepisce come benevoli. Mi avvio verso di lui e
subito capisco: un boschetto di alberi di pipal nasconde una sequenza
di cavalli di terracotta, a misura naturale, su cui stanno seduti in posa
come se stessero cavalcando i seguaci di Aiyanar, gli spiriti neri
incaricati di proteggere, girando in cerchio, il villaggio a loro affidato,
al fine di tener lontani gli spiriti malvagi della notte.
Avanzo nel boschetto ed eccomi al santo-dei-santi: di fronte a me vi
sono tre sassi neri, di cui uno ha un volto abbozzato: i due enormi baffi
mi dicono che questa statua centrale rappresenta lui, Aiyanar - il primo
Aiyanar della mia vita. Le altre due statue, una a destra l’altra a
sinistra, sono le sue due mogli, e chi ha domestichezza con
l’antropologia del sacro non esita a cercarne le prove: accanto ad
Aiyanar vi è il cane psicopompo, colui che accompagna nell’aldilà;
accanto alle due donne vi è il vaso di terracotta, simbolo del loro sesso,
il vaso generativo dell’umanità.
Per oggi è troppo. Si torna in città.

Finito qui? Posso tornare a casa in pace? Fosse vero…


[continua a pagina 45]

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La rivista del trekking
n. 29, maggio 1989

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[continua da pagina 29, prosegue a pagina 54]

Martedì 24 dicembre 1996. Dopo una nuova visita a


Gangaikondacholapuram e una sosta notturna a Thanjavur, ritorno a
metter piede a Madurai, la capitale dello Stato indiano del Tamil Nadu.
Profondo sud, pelle nera, tanto pepe e altre sostanze da droghe e
coloniali in vendita sui carretti fermi sui bordi delle strade. Prendo una
stanza in hotel vicino al ponte e al Tempio, come leggo sul dépliant,
pagata 30 rupie, 1500 lire. Il tempo di una lavata, di un rapido pasto
(sempre quello, riso e lenticchie, o meglio: rise and dhal) e dopo 8 anni
sono di nuovo all’ingresso del Meenakshi Amman Temple, uno dei
luoghi più santi del Tamil. Qui sono custodite le immagini della dea
Meenakshi (Dagli occhi di pesce) e del suo sposo Madurai-viran (Eroe
di Madurai), forma locale di Aiyanar poi fagocitata nel pantheon
hindu col nome di Sundareshvara (Il bel Signore), uno dei troppi
epiteti di Shiva.
Il tempio è gigantesco e mai meno di diecimila persone riempiono le
sue sale, i suoi corridoi. A me, straniero pagante, in cambio di un
biglietto da 10 rupie viene permesso di aggirarmi in quel labirinto
anche dalle 12 alle 14, l’orario di chiusura. Sono solo, salvo i pujari e i
brahmana, quindi mi godo il fresco, fotografo le conturbanti apsaras
dai caratteristici seni a melone, “attacco bottone” con tutti quelli che
mi regalano il loro tempo, brahmana soprattutto.
Il culmine si ha al tramonto, quando una folla immensa (decine di
migliaia di persone) stipa ogni millimetro possibile: è questa l’ora in
cui la coppia divina - due piccole statue fuse con l’oro e ricoperte da
gioielli e abiti preziosi - vengono spostate dalla stanza dell’adorazione
alla camera da letto. A nessun mortale - esclusi i brahmana di più alto
lignaggio - è permesso accedere a questa intima stanza. In passato,
neppure ai sovrani è stato concesso questo privilegio.
Qui le statue vengono spogliate, lavate, profumate; vengono loro fatte
indossare vesti notturne; le si adagia nel letto matrimoniale e infine si
sbarrano le porte. La loro intimità è sacra. Le porte si riapriranno il
mattino dopo, poco prima del sorgere del sole, quando i brahmana
busseranno, attenderanno i previsti minuti, poi entreranno nella
stanza augurando il buongiorno alla coppia divina, che sarà lavata,
profumata, rivestita e riportata nella sala del trono, quella
dell’adorazione.

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Madurai
Meenakshi Amman Temple

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[continua da pagina 45, prosegue a pagina 62]

E io che faccio? Il giorno dopo, 25 dicembre, al sorgere del sole lascio


la mia camera e mi porto al Tempio. Un guardiano armato di fucile mi
apre una porta laterale e mi permette d’entrare (perché?). Punto subito
al sancta-sanctorum, sperando di poter essere in prima fila all’uscita
dei due corpi santi dalla camera nuziale …invece sulla mia strada
incappo in un brahmana, uno con cui il giorno prima avevo a lungo
discusso di religiosità hindu. Lui sa che io conosco e mi butta lì una
frase inattesa: è l’ora di rivestire la coppia divina. Vieni?
Non capisco ma non me lo faccio dire due volte, seguendolo per bui
corridoi. Con la chiave lui apre un portone, che subito richiude alle
nostre spalle. Altre stanze da attraversare e già un po’ di luce del
mattino filtra dalle aperture all’altezza del soffitto. Infine, eccomi
davanti al letto. Fatico a credere ma sono lì, quindi è vero. Ho con me
la fedele Leica M6 col suo 35 mm 1,4 apocromatico, ma non oso
toglierla dallo zainetto. Mi limito a vivere il momento.
Dopo la toeletta, le due statue vengono portate in un grande stanzone,
dove gli inservienti stanno lucidando due grandi cavalli (o tori?) fusi
con l’argento, le cavalcature che dovranno tirare il carro degli sposi da
questo stanzone alla sala del trono (in realtà il carro sarà spinto da altri
inservienti).
Siamo usciti dalla camera nuziale, quindi un piccolo gruppo di persone
è ammessa al rito del trasporto. Non resisto: chiedo al “mio” brahmana
se posso scattare delle immagini. Lui mi guarda e mi risponde: se lo fai
con discrezione…
Imposto diaframma 1,4, un secondo di posa. Mi appoggio ad un
pilastro e scatto alcune diapositive, immortalando gli inservienti che
trafficano intorno alle statuette degli sposi, fissandole in modo che non
cadano durante il tragitto. Poi tutto finisce e io mi ritrovo intruppato
tra le migliaia di fedeli assiepati fuori dall’ultimo portone.
Questi scatti li ho mostrati una sola volta, a Bresso, nel contesto di una
conferenza su Aiyanar. Poi sono tornate nel buio: nessuno le ha volute
vedere e io non le ho mostrate a nessuno. Come la coppia divina di
Madurai …ci sono, ma chiuse nel buio della loro stanza.

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[continua da pagina 54]

Perché ho raccontato tutto questo?


Perché cercando una frase ho trovato nel libro di Lanza Del Vasto
alcune pagine dedicate al Tempio di Madurai, da lui visitato nel 1937.
Una visione a mio avviso sciocca, la sua, da occidentale incapace di
saper cogliere la profondità dei miti locali: per lui esiste solo
l’hinduismo, unica fede dell’India - e già questo è una bestemmia.
L’hinduismo non esiste. L’hinduismo è l’etichetta sotto la quale gli
inglesi, incapaci “di voler” comprendere le altrui diversità, hanno
unificato tante scuole di pensiero filosofico.
Prima di leggere le pagine di Del Vasto - sono qui sotto - fate una
ricerca su internet e capirete molte cose: seguace di Gandhi, in seguito
abbandona il maestro prendendone le distanze …salvo poi fondare un
movimento basato sui concetti dell’ahimsa gandhiana, che gandhiana
mai fu: l’ahimsa, la cosiddetta non-violenza, è un’invenzione jaina, in
seguito ripresa dai buddhisti. Due filosofie atee nate 700-600 anni
avanti Cristo, mica ieri.
Ma tant’è e quindi …avanti o popolo.

PS: Lanza Del Vasto scrive questo libro in lingua francese, pubblicato nel 1943 dalle
Editions Denoël di Parigi col titolo Le pèlerinage aux sources. Tradotto in lingua
italiana dallo stesso Del Vasto, esce per la prima volta in Italia nel 1949 col titolo
Ritorno alle sorgenti, Valentino Bompiani editore. Quasi trent’anni dopo appare in
libreria Pellegrinaggio alle sorgenti - sottotitolo: L’incontro con Gandhi e con
l’India. L’editore è la Cooperativa Edizioni Jaca Book (un marchio che fa capo al
movimento Comunione e Liberazione) che nel colophon dichiara: prima edizione
italiana, dicembre 1978. Chiedo: e quella di Bompiani del 1949 - identica nel testo in
tutto e per tutto a questa di Jaca Book - che è?

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Estratto dal volume
Ritorno alle sorgenti
di Lanza Del Vasto
Valentino Bompiani, Milano, 1949, pp. 38-45

Entro nel santuario all’ora della solitudine, allorché l’afa di mezzodì


schiaccia i mendicanti nel sonno, all’ombra dei porticati.
Persino il mio fedele mi ha lasciato per cercare nei terreni incolti un
morbido guanciale di polvere che sia di suo gradimento.
Giungo nella sala donde, alla sera, partono le processioni. La luce vi
penetra solo da sfiatatoi a fior del soffitto a lastre di granito come il
pavimento. Lo scettro di Sciva, colonna di bronzo dorato piantata in
terra, passa dal buco del tetto e inalza nel cielo il toro d’oro massiccio
che non vedo da qui, di faccia ai tetti laminati in oro della suprema
cella del Tempio, del Santo-dei-Santi.
Ci vuole un po’ di tempo perché l’occhio si rianimi all’ombra e scorga
le statue che ornano i pilastri e un po’ di tempo ancora perché il lor
significato si chiarisca alla mente.
Ecco, ad inquadrar l’entrata, di qua e di là, un’effige di Sciva che ha tre
volte misura d’uomo. Il suo passo danzante scavalca ampio spazio, il
mulinello di braccia che lo circonda getta fulgori di lame, i suoi baffi
fiammeggiano, le sopracciglia sembra sprizzino fuochi d’artifizio, la
corona in capo è un incendio.
Di fronte appare una figura, indubbiamente femminile, poiché la vita
è flessuosa, le membra rotonde e cariche d’ornamenti; la mammella di
sinistra prorompe. Ma il seno destro resta liscio: è la corazza di muscoli
del guerriero. I due lati della faccia divisa dallo spigolo del naso si
mostrano disuguali e contraddittori. È Sciva di nuovo, il duplice, il
disgiunto, l’ambiguo che soltanto la bellezza ricompone e la serenità
vittoriosa del sorriso.
Eccolo di nuovo danzante e minaccioso. Conficca una lunga lancia
nella gola di un piccolo essere dalle membra aggrovigliate: Yama, il
Signore della Morte. Nella mano di Yama pende ancora la rete che
circuisce lo zoccolo e allaccia un fanciullo implorante: Sciva il
Distruttore distrugge la Distruzione: è il Protettore degli Afflitti, il
Salvatore.
Sciva si avanza qui su di un carro simile a quelli che tutto il popolo
trascina nelle feste solenni. La Luna e il Sole fanno da ruote al carro di

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Sciva; il carro raffigura la terra decorato da tutti gli animali che
arricchiscono la terra. L’arco impugnato dal Dio è Vishnù stesso e la
freccia Brahma. Ma la Luna, il Sole e la Terra si son detti: «Senza di
noi come potrà Sciva ottenere la vittoria?» Allora Sciva ha sorriso. E
tale è la potenza di quel sorriso che il carro si è mosso da sé sulle ruote
degli astri, l’arco si è teso come il bove fra il pungolo e il giogo; la freccia
è partita volando. Sciva mira con la freccia il pilastro di faccia su cui si
trovano figurate in bassorilievo le Tre Città: la Città di Ferro, la Città
d’Argento e la Città d’Oro, abitate rispettivamente dai demòni del
ventre, dai demòni del cuore, dai demòni della testa. E distruggerà le
tre città e i demòni che le abitano: è il distruttore delle tenebre, del
desiderio e delle illusioni: è il Principe degli Yòghì, il Redentore dello
spirito.
Più in là, seduto sulla montagna, col rosario nella mano sinistra, con
la destra alzata, «nella posa dell’argomentazione», egli predica ai
discepoli adunati davanti alle sue gambe incrociate. E più in là ancora
riposa e gioca con la sposa, piccola, seduta sul suo ginocchio.
Infatti ha sposato, il Principe degli Asceti, mentre i suoi devoti, gli
Yóghì, si sono consacrati alla castità e al vagabondaggio. Ha sposato
come i Riscì vedici sposavano... E certo essi praticavano i riti
dell’amore carnale, come una specie di esercizio ascetico. E Sciva,
essendo Dio, raggiunge, senza cadere, il termine di questo cammino
pericoloso.
Il matrimonio di Sciva occupa il centro della sala. La giovane sposa,
sorella di Vishnù, si erge fra i due grandi Dei, minuta e ben tornita. La
vita par che pieghi per il peso dei seni, frutti offerti all’amore. La felicità
le ride in faccia, le corre per le spalle, le gioca fra le dita, la felicità
dell’abbandono e del trionfo. La felicità di dare irraggia dal viso di
Vishnù. In segno di offerta versa l’acqua da una piccola anfora. L’acqua
s’inanella intorno alle dita delle tre Divinità, le unisce col suo tremulo
nastro. Sciva sorride pure, ma con la punta delle labbra e come
disdegnoso. Consente a queste nozze per condiscendenza, per
rispondere ai voti e alle preghiere del mondo; la sua felicità e il suo
compimento stanno altrove. Le tre figure sono scolpite nella stessa
pietra, altrettanto lo zoccolo e il fregio dei musicisti e della folla festosa
che prende parte all’unione divina. Da questa unione sono nati il
Santuario, la Città e il Popolo di Madura.
Scopro, nella più folta ombra, un ultimo aspetto di Sciva. Si drizza
piatto contro il pilastro, con la testa affondata nella pietra del capitello,
i piedi nella pietra della base. Uno spirito sublime sotto la forma di un
uccello si slancia alla ricerca della testa e uno spirito indagatore in

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forma di rospo si tuffa per scoprire le fondamenta sulle quali posano i
piedi del Dio. Ma né l’uno né l’altro hanno trovato la fine di Dio e
ritornano alla base del pilastro, in forma umana fianco a fianco,
imploranti, a mani giunte.
Ma se qualche cosa del Dio risiede in ognuna di queste immagini fatte
a immagine dell’uomo, il Dio stesso si presenta tutto intero solo come
un corpo senza viso.
Nell’antro più tenebroso del Tempio, più stretto e più nudo, nella
camera senza finestra ove penetrano solo i Brahmini, là egli si erge
solenne e potentemente presente, in forma di un colossale membro
virile in erezione.
Il Fallo è di pietra e sempre unto di burro fuso. Intorno pendono
ghirlande e si ammassano fiori doviziosi, dolci, soffocanti come la
carne innamorata.

Questo gran diavolo di Dio, questo protettore più temibile di


Satanasso, decorato di crani e di cobra attorcigliati, raggiante di armi
spaventose, che balza in cerchi di fuoco e pesta la creatura atterrita,
rallegrato dal panico e dalle sventure, urla e danza, padrone di sé
nell’orgia e nell’estasi, teso come un arco per il sorriso o la pietà. Con
la gola azzurra per aver bevuto il veleno del Gran Serpente che per poco
non aveva avvelenato il mondo.
Questo, il Buon Pastore, il Padrone del Gregge,
Del gregge dei Giganti, dei Vampiri e dei Geni Malefici, degli spiriti
vaganti che abitano le pire funerarie e il vento della notte, de’ ladri,
degli accattoni, de’ fachiri erranti che contraffanno i pazzi,
Incomprensibile e contraddittorio come l’uomo,
Inspiegabile, irrefutabile pure, come la bestia vivente,
Stravagante e sereno come i saggi,
Inesorabile e truce come la vita e pieno di grazia come la morte,
Nero e fiammante come il sesso,
Che nome ha, dite, che nome ha questo gran diavolo di Dio?
Si chiama Sciv: «Il-Piacente».

Siamo lontani dal Buddha che medita all’ombra pacifica degli alberi di
Anuradhàpura.
Fra l’uno, fissato nell’immobile verità conquistata e nell’immacolato
vuoto del Nirvana, e l’altro, Re della Danza, del Furore e del Coito,
s’apre un abisso.
Il loro stesso sorriso segna il punto culminante del loro contrasto: il
sorriso dell’uno impercettibile come l’orlo bianco di un petalo di fior di

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loto appoggiato al biancore del petalo vicino; il sorriso dell’altro uguale
al filo delle robuste lame.
Sciv e Buddha si sono contesi la medesima terra, la terra sacra
dell’India. Sciv ha vinto Buddha: lo ha cacciato dalla terra natia, lo ha
cacciato verso il gelido Tibet, la Cina uguale, piatta e verso le languide
isole. Qui Sciv regna solo.
Solo, cioè in compagnia degli altri Dei Supremi, degli altri Dei Unici,
di Vishnù e di Brahma, come lui supremi, come lui unici e da lui non
dissimili più di quanto non siano fra loro le molteplici forme ch’egli
stesso assume a suo piacere.
Buddha si è inalzato per intero alla più alta cima dello spirito.
Ma può uno esser totalmente perfetto quando non è altro che perfetto?
Colui che si è inalzato per intero alla più alta cima, è sorpassato da Sciv:
lo sorpassa per di sotto.
Sciv è sublime, ma Sciv è profondo quanto è sublime.
Ciò che Buddha dimentica e lascia dietro a sé, Sciva lo raccoglie e lo
serba.
Ciò che Buddha respinge e rinnega, Sciva afferma e esalta: per
distruggerlo.
Mentre Buddha si libera nella luce dell’alto, Sciva, sgambettando e
ridendo, spazza il camino nell’inferno, raschia la terra, sprona i vivi,
solletica i pigri sotto le ascelle, punge il sedere degli ipocriti, soffia via
il turbante al vanitoso, strappa la veste allo schifiltoso e la borsa
all’avaro, fa crollare la casa su quelli che leticano, accende la guerra
negli imperi imputriditi, distribuisce il dolore secondo la giustizia del
Caso, decanta le inquietudini e tempera al fuoco le virtù, e su noi tutti
sparge la morte come segno di ritorno e l’ombra rovesciata della
Liberazione Universale.

***

Sciva è solo un soprannome: il vero nome, del resto dimenticato è


Rudra. Rudra dai capelli rossi appare negli Inni Vedici in mezzo ai
tuoni e ai lampi, scuote e devasta la terra, alla testa dei Maruti dai
cavalli galoppanti.
Allora figurava solo come un valoroso capobanda fra gli Dei. Ha fatto
fortuna nelle rovine. È diventato Re dei re e Dio degli dèi.
Quando Sciva non era altro che Rudra, uno c’era che tirava a sé più
inni di tutti gli dèi riuniti: era Ag-ni, il Fuoco-del-Sacrificio.

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Infatti Ag-ni assommava in sé tutti gli dèi poiché possedeva la lor
comune bocca, la bocca e lingua di fuoco con che essi divorano la
vittima e gustano l’offerta.
Ma Rudra è piuttosto il libero fuoco che scende dalle nubi come a lui
piace, infiamma un albero sul ciglio della strada, uccide un uomo e
passa. È nascosto dappertutto poiché lo si ricava dall’urto di una pietra
o dal confricare dei bastoni. Veglia nei focolari, cuoce gli alimenti.
Protegge dalle fiere coloro che si perdono di notte nella foresta.
Rischiara la camera e incita i giovani sposi ai giochi d’amore. Terribile
e familiare, tiene tutti i fili della vita.
Sale al di sopra della testa di Varuma e di Indra, Suo Sovrano in altri
tempi; raggiunge il sole e le stelle che sono la dimora del fuoco, e quel
fuoco che brilla è lo stesso, capite, lo stesso di quello che brucia nel
cuore dell’uomo: perciò i segreti del destino sono scritti nei segni
celesti.
Ma Sciva un giorno inventò un nuovo fuoco per metterlo nel cuore
degli uomini: il fuoco ascetico. Quel giorno vinse Ag-ni e diventò il
Signore degli Dei.
Non un capretto, non un cavallo l’asceta immola e brucia al fuoco di
Sciva, non un poco di riso o di sesamo, non burro liquefatto versato
nella fiamma; bensì il soffio della sua gola, la parola della sua bocca, i
movimenti delle sue membra, gli affetti del suo cuore, gli ornamenti
del suo pensiero, tutte le forze sue, tutte le ore della sua vita. Soltanto
il sacrificio veritiero di tutto l’uomo è capace di strappare la grazia al
Dio di Verità.
Colui che presenta la sua offerta ad Ag-ni può certo ottenere dagli Dei
tutti i beni di questo mondo, ma colui che si consacra al sacrificio
interiore respinge i beni di questo mondo, fa a meno degli Dei e li
supera.
Un asceta può persino diventare pericoloso per gli dèi, con le sue
macerazioni che gli assicurerebbero il potere di impossessarsi del loro
trono se tuttavia volesse distrarsi dallo scopo suo, che è quello di
liberarsi dal bene come dal male e da ogni condizione, fosse pure
divina.
Così, accanto ai Brahmini che prendono moglie e hanno casa, che
sacrificano sull’altare familiare e nei templi, si erge la grande strana
famiglia dei figli di Sciva che vivono isolati o a gruppi nelle foreste e
nelle grotte e non conoscono altro tempio se non il corpo dell’uomo,
che distruggono e che ricostruiscono in vita.

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La veste del monaco rosseggia. Ei va rivestito del fuoco di Sciva, oppure
va come il suo dio, «vestito d’aria», cioè nudo, col corpo strofinato di
cenere.
A volte la sua capigliatura arrossata di gherù gli avviluppa il capo d’un
fuoco sfavillante mentre nella cenere della faccia gli occhi brillano
come brace.
Ci voleva il culto di quel dio feroce e fallico per introdurre nella vita
religiosa degli indiani due elementi: la tenerezza mistica e la castità.

***

Gl’Inni Vedici, che costituiscono la tradizione religiosa più antica, non


hanno niente di simile. Vi si trova la solenne glorificazione dei Grandi
Dei nel loro splendore tempestoso e solare. Ad essi, quando son
benevoli, gli oranti chiedon lunga vita e numerosa progenie, mèssi
abbondanti e greggi prospere; quando son terribili lo siano pure pei
nemici ma risparmino coloro che li glorificano. Vi si trovano canti
dialogati, abbozzi di drammi, enigmi filosofici, formule per far crescere
i capelli o per vincere i dinieghi d’una bella.
Soltanto verso il VI secolo della nostra èra, fra gli Scivaiti del
Mezzogiorno si levò un soffio mistico paragonabile a quello che fece
tremare, piangere, cantare il Beato Raimondo Lull e San Francesco
d’Assisi.
È stato quel dio irto e minaccioso a fare, per la prima volta, sciogliersi
il cuore del devoto, non di spavento, ma di tenerezza a far sorgere
l’inno come intima e libera effusione dell’adoratore all’Adorato.

***

Il celibato non fu d’uso fra i Santi dei tempi vedici, così come non lo
era fra i patriarchi e i profeti della Bibbia. Ma diventa regola rigorosa
per gli Yóghì di Sciva, nonché per gli Sciakta, non meno, credo, che per
gli altri.
Gli Sciakta sono gli zelatori della Sciakti cioè della Potenza. La potenza
di Sciva non è altro che la sua Sposa. Gli Sciakta adorano quindi la Dea;
poiché mediante la Dea Sciva si manifesta al mondo e opera in esso. La
Sciakti non è solo una delle dee che abitano questo tempio e di cui
sappiamo i nomi e le storie, non una delle spose di Sciva (che forse son
le diverse forme di un’unica sposa), ma ella è, in uno, tutte le divinità
femminili e persino tutte le donne e tutte le vacche, le quali son
certamente le forme di una sola grande Madre degli Dei, degli uomini

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e di tutte le creature. Gli Sciakta finiscono col non veder la divinità se
non sotto una forma femminile, mentre Dio si è ritirato nel cielo
dell’astrazione.
Ciò che gli Sciakta vogliono ottenere dalla Potenza, è la potenza, cioè i
poteri magici. Sono essi i manipolatori di filtri, coloro che preparano
amuleti, i maestri d’incantesimi, coloro che guariscono, che operano
miracoli.
I loro libri santi sono i Tantra. Gli orientalisti affermano quasi
unanimamente che si dedicano a culti orgiastici. Io sono incline a
credere che qui si tratti di un equivoco.
Anche se ci insegnano che il maestro il quale sottopone i discepoli alle
prove del Tantra offre alla loro contemplazione l’attributo del sesso
opposto al loro; anche se veniamo a sapere che questo oggetto non è
dipinto né scolpito, ma fatto di carne viva e presentato tale e quale; e
non solamente esposto agli sguardi ma eccitato, teso e in piena
funzione, anche se aggiungono il discepolo che sta lì nudo, sotto gli
occhi del maestro, ancora non sarebbe dimostrato che si tratti di orge.
Le Baccanali, le Liberali, le Saturnali, le Falloforie erano orge sacre; il
loro significato appare chiaro: onorare le sorgenti della procreazione e
dello spasmo.
Il Sabba degli stregoni era un’orgia, anzi un’orgia sacra; lo scopo di
coloro che vi prendevano parte non lascia dubbio: soddisfare nel
festino un istinto fino allora costretto, maledetto e ridotto al segreto e
nello stesso tempo di vendicare questo istinto contro quelli che lo
maledicono, contraffacendo i loro riti in modo osceno e ridicolo.
Invece le pratiche del Tantra hanno per effetto di dominare l’istinto o
piuttosto di provare che tale dominio è un fatto compiuto. Il discepolo,
nudo sotto gli occhi del maestro, non può abbandonarsi al turbamento
dello spettacolo senza che il suo corpo (per lo meno se è uomo) mostri
segni evidenti e vergognosi.
Così come i Dervish che urlano e girano in cerchio, lungi dal ricercare
di stordirsi con le grida e la danza raggiungono, al colmo delle grida
dell’agitazione, l’intero possesso e godimento del silenzio e
dell’immobilità interiore, così lo Sciakta, abbandonandosi a ciò che il
profano chiama orgia, ottiene la purificazione.
Il principio fondamentale del Tantra risponde alla formula seguente:
Se certi atti sono peccaminosi perché sprofondano l’uomo nella
passione e nella cecità, convien compiere quegli stessi atti
solennemente e sotto la vigilanza d’un maestro per giungere alla
liberazione e alla santità.

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Non c’è niente di più sottile e profondo di questo pensiero; niente di
più pericoloso ed efficace di un tale metodo.
Lo Sciakta tende alla potenza magica. Ora la potenza magica non è
altro che la potenza genitale, deviata dal naturale scopo e applicata ad
una impresa di seduzione sulla sostanza delle cose.
Perciò non può mancare alla castità. Per gli altri monaci, la regola di
continenza è rigorosa e senza eccezione.
Nel resto non vi è niente che meno si presti alla lussuria dei culti fallici.
Nella misura in cui è sacro, il sesso trovasi votato al sacrificio.

Lingam vuol dire Segno e Lingam vuol dir Fallo. Il Lingam è la chiave
magica. Davanti a lui ogni forma si spalanca come una porta.

Il fuoco che sale in quei roghi di pietra che sono i porticati esterni del
Tempio, carichi della loro piramide ove tutti gli ordini della creazione
si sovrappongono, si aggrovigliano e s’abbracciano,
Il fuoco che s’arrampica sulla pietra dei cortili lastricati battuti dal sole
di mezzogiorno,
Il fuoco che sui laghetti verdi striscia come una serpe,
Il fuoco che sfavilla sulla veste di un monaco randagio,
Il fuoco che brucia nel bronzo di tutte quelle figure danzanti, il fuoco
che turbina lingueggiando in mille membra, mille teste e mille lamine.
Il fuoco ristà infine nel cuore del Santuario, là, nel freddo, fisso, scuro
fulmine del Lingam.

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