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Ghāzi Pir e l’eredità sciamanica

delle Sundarban bengalesi

di Alessandro Grossato

Dopo aver viaggiato in lungo e in largo, alla fine egli


giunse nel Bengala e si stabilì nelle Sundarban. Là emi-
se un urlo feroce e tutte le tigri della foresta si riuniro-
no dinnanzi a lui e divennero sue discepole.

Abdur Rahim, Ghazi-Kalu-Champavati-Kanyar punthi


(tardo XIX secolo)

Dopo la scoperta di Göbekli Tepe, si è notevolmente rafforzata


l’ipotesi che una qualche sorta di sciamanesimo sia stata la forma cul-
tuale condivisa nell’Eurasia preistorica (cfr. ad esempio Clottes -
Lewis-Willians [1997]), almeno fino all’avvento della rivoluzione del
Neolitico. Un passaggio che, nonostante la sua indubbia ‘criticità’, non
ha significato sempre ed ovunque la fine dei diversi e molteplici retag-
gi dei cacciatori sciamanici bensì, assai più spesso, solo una loro so-
pravvivenza in forme sempre più marginali e ridotte1, tanto in Europa
quanto in Asia2. Così è certamente stato anche nel caso del Subconti-
nente indiano.

1 Come abbiamo avuto occasione di scrivere qualche anno fa, una forma assai margi-
nale di sopravvivenza, via via sempre più residuale, di questo specifico retaggio scia-
manico delle società di cacciatori preistorici, si può probabilmente riconoscere nelle
più antiche forme associative, e relative ritualità, di ladri e briganti: cfr. Grossato
[2006].
2 Basterebbe, ad esempio, riflettere sulle inaspettate sopravvivenze dello sciamanesi-

mo nella Cina contemporanea, messe in luce dall’importante studio di Schipper


[1983]. Schipper fra l’altro scrive che «lo sciamanesimo cinese è sopravvissuto fino a
oggi, senza dubbio come parente povero della religione ma con sufficiente vitalità
perché noi lo si possa conoscere ancora. Esso è il substrato dell’intero sistema di pra-

«Quaderni di Studi Indo-Mediterranei», VII (2014), pp. 335-347.


Alessandro Grossato

Se una delle principali funzioni sciamaniche è certamente quella di


assicurare un rapporto diretto con tutti gli esseri naturali di cui è cir-
condato l’uomo, esseri dai quali in parte si difende e dall’altra si nutre,
è molto significativo il fatto che diversi sigilli della Civiltà della Valle
dell’Indo raffigurino degli sciamani, incoronati da corna di bufalo e
circondati da diverse specie animali. Tracce residue, ma ancora chia-
ramente presenti, persino in quella civiltà già urbana, di quale fosse
stata la forma religiosa prevalente nella parte settentrionale dell’India,
assai prima del definitivo ingresso degli Indoeuropei3.
Lo stesso Induismo, fin dalle sue forme più antiche dei periodi sia
vedico che brahmanico, ha inevitabilmente finito con l’assimilare e
adattare alle sue prospettive tale inestirpabile eredità di arcaiche cono-
scenze ed esperienze di quel legame, di origine direttamente divina,
che indissolubilmente unisce, sia in modo carnale che spirituale, l’uomo
agli animali. Lo si evince, con ogni evidenza, fin dai celebri versi della
Brhfladāranflyaka Upaniṣad4 (I, iv, 3-4) ove, senza alcuna ambiguità, si de-
scrivono le molteplici metamorfosi animali della stessa coppia divina
suprema, costituita da Puruṣa e Prakṛti. I loro indefiniti amplessi, dopo
aver dato vita alla prima progenie umana, generano infatti direttamen-
te anche i primi esemplari viventi di ogni singola specie animale. Se si
noti come la prima a trasformarsi in animale sia sempre la Dea:

Egli non provava gioia; per questo chi è solo non prova gioia. Allora desiderò un
secondo. Ora egli occupava tanto [spazio] quanto un uomo e una donna insieme ab-
bracciati. Egli si divise in due e quindi sorsero il marito e la moglie. Per questo

tiche e credenze taoiste; è il suo rivale e, nella Cina moderna, il suo complemento in-
separabile. In tutte le epoche il taoismo si è definito anzitutto rispetto a esso» (ibi-
dem: 13-4), e aggiunge in nota: «La Cina antica, come pure la Cina d’oggi, conosceva
culti sciamanici molto vicini dal punto di vista tipologico a quelli dell’Asia centrale,
della Mongolia e della Siberia» (ibidem: 14, n.9).
3 Il 17 febbraio 2015 la stampa internazionale ha riportato la notizia della prossima

pubblicazione di uno studio di un gruppo di ricercatori, guidati dal paleobiologo au-


straliano Wolfgang Haak dell’Università di Adelaide e dai genetisti statunitensi Da-
vid Reiche e Iosif Lazaridis della Harvard Medical School di Boston, secondo i quali
l’origine delle popolazioni parlanti un embrione di quelle che saranno più di 400 tra
lingue e dialetti indoeuropei, va definitivamente collocato, all’incirca 4500 anni fa,
all’interno dell’area compresa fra l’Ucraina e la Russia. Esattamente all’incrocio tra i
movimenti di artigiani appartenenti sia alla cultura di Jamna, provenienti dalle attua-
li Ucraina e Kazakistan, che a quella della ceramica cordata, mossisi dalle regioni set-
tentrionali della Germania.
4 Un testo vedico databile all’incirca tra il X e il VII secolo a.C.

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Yājñavalkya diceva «Noi siamo ciascuno una metà». Per questo il vuoto è riempito
dalla donna. Egli si congiunse con lei e ne nacque la stirpe umana.
La femmina pensò: «Come mai dopo avermi da sé generata s’unisce con me? Or-
sù, bisogna che io mi nasconda». Diventò vacca, l‘altro [si fece] toro, s’unì con essa e
nacquero i bovini. Diventò giumenta, l’altro stallone; diventò asina e asino l’altro; si
unì con essa e nacquero i monoungulati. Diventò poi capra e l’altro becco; diventò
pecora e l’altro montone: si unì con essa e nacquero capre e pecore. Così generò tutte
le coppie fino alle formiche (Della Casa [1976: 70]).

Nell’Induismo postvedico, erede diretta di questa coppia divina è


quella costituita da Śiva e Durgā. Se infatti Rudra-Śiva, sempre a fian-
co di un toro e circondato di serpenti, erediterà persino i tratti esterio-
ri degli sciamani della Valle dell’Indo, la sua sposa, spesso rappresenta-
ta a cavallo di una tigre, diverrà addirittura una sorta di Potnia The-
ron con le sue inesauribili manifestazioni secondarie in forme ibride di
donna-animale, presenti sia nel culto tantrico e śakta, ad esempio in
quello dedicato alle sessantaquattro yoginī, che nelle innumeri varianti
regionali del suo nome, della sua iconografia e del suo culto, presenti
in ogni singolo villaggio dell’India.
In realtà, tutti gli dei del pantheon hindu sono dotati, e fin
dall’epoca più antica, di altrettanti vāhana (‘veicoli’ o ‘cavalcature’) nel-
la forma dei più diversi animali, dall’elefante al topo e dall’aquila al
coccodrillo. E non solo gli Asura, ovvero le divinità decadute dei mondi
passati, saranno dotati di teste marcatamente ferine sia nella descri-
zione letteraria che nell’iconografia sacra, ma persino il figlio predilet-
to di Śiva, Gaṇeśa, mostra con orgoglio la sua testa di elefante innesta-
ta dal padre su di un corpo umano. E ancora più evidente è
l’importanza attribuita dall’Induismo alle forme ibride uomo-animale
nella successione dei primi quattro avatāra di Viṣṇu nella forma rispet-
tiva di un pesce, di una tartaruga, di un cinghiale e di un uomo-leone.
La cosa più interessante è che tali avatāra, in particolare i primi tre,
possono venire raffigurati addirittura in una forma completamente
animale senza perdere per questo nulla della loro natura assolutamen-
te divina. Persino l’ultimo avatāra, il decimo, può essere rappresentato
nella forma di un sovrano a cavallo, di un uomo con la testa di cavallo
oppure, semplicemente, nella forma di un cavallo bianco. Lo stesso
Viṣṇu, manifestandosi ad Arjuna nella sua forma suprema5, rivendica
del resto con giusto orgoglio, tra le altre, anche le sue principali mani-
festazioni animali:

5 Sono i celebri versi della Bhagavat Gītā, X, 19-42.

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Il Beato Signore disse:


Su, dunque! Io ti esporrò le mie divine manifestazioni, limitandomi all’essenziale,
o migliore fra i Kuru! Perché la mia espansione è illimitata.
Sappi che fra i cavalli io sono Uccaihflśravas6, nato dall’ambrosia, fra gli elefanti
Airavāta7 […]
fra le vacche da latte la vacca d’abbondanza8; io sono il procreatore Kandarpa9 e
fra i serpenti Vāsuki10, Ananta fra i Nāga11, […]
il leone fra gli animali selvaggi e il figlio di Vinatā fra gli uccelli.12 […]
il coccodrillo13 fra i pesci […]
E io sono ogni essere , qualunque sia la sua forma, o Arjuna. Non vi è essere, mo-
bile o immobile, che esista al di fuori di me. […]
Ogni essere dotato di una manifestazione, di virtù, di prosperità o di forza, rico-
noscilo come sorto da una particella del mio splendore (Esnoul [1972: 111-4]).

A questo punto risulta davvero difficile misconoscere le numerose,


vistose tracce che l’antico sciamanesimo preindoeuropeo ha lasciato
persino nell’Induismo contemporaneo. Com’è noto, il processo cultura-
le di induizzazione è tuttora in corso in una parte non trascurabile
dell’India meridionale, dove si concentrano alcune residue comunità
tribali e sciamaniche di ceppo dravidico e veddoide. Mentre vigorose
forme superstiti di più antichi culti e riti sciamanici sopravvivono sia
in molte valli della catena himalayana14, che ai confini più orientali
dell’India, in particolare nel cosiddetto Kamarūpa, ossia nell’odierno
Assam e dintorni (cfr. Athickal [1992]).

6 Uccaihshravas è il cavallo di Indra che emerse dopo il frullamento dell’Oceano di


latte da parte degli dèi.
7 Airavāta, l’elefante bianco che emerse a sua volta dall’Oceano di Latte, è il Re degli

elefanti, nonché vāhana di Indra, Re degli dèi.


8 La Vacca dell’abbondanza, Surabhi detta anche Kāmadhenu, è il primo dei tesori

che emersero dall’Oceano di Latte.


9 Kandarpa è uno degli appellativi di Kāmadeva, il dio dell’amore.
10 Vāsuki, il serpente dalle molte teste, che attorcigliato intorno alla Montagna co-

smica, servì a Deva e Asura per zangolare l’Oceano di latte.


11 I Nāga costituiscono una particolare categoria di serpenti mitici, dai tratti spesso

antropomorfi, di cui Ananta è appunto il Sovrano. Ed è anche il vāhana particolare di


Viṣṇu, quand’egli dorme disteso sulle Acque cosmiche, nell’intervallo atemporale tra
la fine di un Mondo e l’inizio del successivo.
12 È Garuḍa, l’aquila-fenice dai tratti parzialmente antropomorfi, sintesi simbolica di

diverse specie ornitomorfe, vāhana di Viṣṇu.


13 Il Makara, che non è un semplice ‘coccodrillo’, bensì anch’egli un animale mitico,

sintesi simbolica di diverse specie di animali acquatici.


14 Sulla diffusa presenza dello sciamanesimo in Nepal, cfr. ad esempio Hitchcock -

Jones [1977], Mastromattei [1989], Miller [1999].

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Fig. 1 – Le principali specie animali presenti nell’ecosistema delle Sundarban.

Ma senza dover risalire così indietro nella storia religiosa dell’India


e dell’Induismo, è sufficiente gettare un’occhiata a quanto successe a

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partire dal XII e XIII secolo15 fra le foreste di mangrovie del Bengala
meridionale, quando persino gli invasori islamici incontrarono in quel
labirinto di acque e vegetali, delle popolazioni nelle quali il retaggio
sciamanico era rimasto, grazie alla loro marginalizzazione e solo par-
ziale induizzazione, pressoché intatto, sviluppando nel corso dei secoli
il culto di particolari santi e divinità che, per la loro intrinseca capacità
di trasformarsi in serpente, tigre o coccodrillo, o quantomeno di ren-
der mansueti tali animali, erano perfettamente in grado di proteggere
contadini, pescatori e mercanti dal pericolo che tali fiere costituivano
da sempre in quell’habitat ancora semiselvaggio [Fig. 1]16.
L’Islam, a partire dal XIII secolo, è stata una grande forza culturale
nell’India orientale. Ma non c’è da stupirsi se anche le élites islamiche,
così come quelle dei primi invasori indoeuropei, hanno finito non solo
con l’accettare e riconoscere tali divinità e forme di culto, ma sono ad-
dirittura riuscite a farle proprie, sin quasi ai giorni nostri, soprattutto
grazie alla mediazione di quei missionari islamici che appartenevano al
Sufismo. Fra questi ultimi, la figura di Ghāzi Pir costituisce un esem-
pio piuttosto interessante.

Ghāzi Pir, incantatore di tigri, serpenti e coccodrilli

Ghāzi17 Pir18 è un santo guerriero islamico, come denota il suo stes-


so nome (cfr. Roy [1983: 52-4] e soprattutto Sarkar [2010]), ancor

15 Vedi R.M. Eaton, The Rise of Islam and the Bengal Frontier, 1204-1760, University
of California Press, Berkeley 1993.
16 Com’è noto, l’Islam è stata una grande forza culturale, soprattutto religiosa,

nell’India orientale: cfr. Bausani [1973], dove si legge, riguardo a questa parte
dell’India, che «Una posizione un po’ speciale occupa il Bengala, convertito quasi in
massa – separatamente dalla zona dell’Islam “continuo” – dal XIII secolo in poi. Si
trattava di una zona forestale relativamente meno profondamente induizzata di altre
parti dell’India (vi fu particolarmente forte il buddismo) islamizzata da avventurieri e
commercianti» (p. 5); cfr. anche Bausani [1971].
17 Ghazi è un termine arabo che significa ‘guerriero’.
18 Il sostantivo pir, di origine persiana, significa letteralmente ‘vecchio’. Nella termi-

nologia spirituale del Sufismo, questo vocabolo è passato a significare anche ‘guida’,
‘maestro’ e persino ‘santo’, divenendo così un equivalente del termine arabo shaykh. È
importante ricordare che i Pir musulmani, ritenuti detentori del massimo consegui-
mento spirituale, venivano normalmente riconosciuti e trattati come santi e maestri
anche all’interno della tradizione induista dei Nāth Yogi, una corrente spirituale shi-
vaita che affermava di risalire al quasi leggendario maestro bengalese Ma-

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oggi venerato nelle Sundarban bengalesi. La sua leggenda si è svilup-


pata intorno al XV secolo19, un periodo durante il quale, fra l’altro, eb-
be a intensificarsi in tutto il Bengala l’intensa azione missionaria di di-
verse figure di Sufi, in maggioranza mercanti, ma talvolta anche guer-
rieri. Questa è certamente la realtà storica che possiamo ancora intra-
vedere sullo sfondo, e infatti ghāzi pir è in fondo un appellativo così
generico, da poter venire quasi indifferentemente applicato a molte al-
tre figure di missionari islamici partiti in direzione del delta del Gan-
ge. Così lo descrive Asim Roy, nel suo vecchio, ma ancora interessante
studio dedicato alle più significative influenze e modifiche apportate
all’Islam bengalese dalle locali tradizioni hindu:

In the district of 24-Parganas Mubārak20 Ghāzi, popular as Mobrā Ghāzi, was a


widely popular pir, who reclaim the jungly tracts along the left bank of the river
Hugli, and each village had an altar dedicated to him. No one would enter the forest,
and no crew would sail through the district, without first of all making offerings at
one of the shrines. The faqirs “residing in these pestilential forests, claiming to be
lineally descend from Ghazi”, indicated with pieces of wood, called “sang”, the exact
limits within which the forest was to be cut. Also the Bengali folk literature, both
Hindu and Muslim, underlined the wide popularity of a tradition involving Ghāzi,
his close associate, and some elements of Hindu opposition. The Hindu Rāy-mangal
literature depicts the conflict between Dakṣin-rāy21, a local Hindu chief, and Ghāzi,
assisted by Kālu22, over the control of the active deltaic region of southern Bengal.
And even battle, it was ended, we read, by a happy compromise based on territorial
divisions dictated by God, appearing in a significant form, half Hindu and half Mus-
lim. The Muslim version of this tradition made Ghāzi and his closet associate, Kālu,
arrive and land at Sundarban in South Bengal infested by tigers, snakes, and croco-
diles. The tradition also associated them with the local wood-cutters, who owed

tsyendranāth (X secolo ca.), e che fu successivamente riformata dal celebre yogi Go-
raksflanāth fra il X e l’XI secolo. Anche la figura di Matsyendranāth presenta degli
evidenti tratti sciamanici. In particolare, la leggenda gli attribuisce una singolare
forma di apprendistato spirituale: dodici anni trascorsi all’interno della pancia del
gigantesco pesce, che l’aveva ingoiato.
19 Stando all’ipotesi più accreditata fra gli studiosi, Ghāzi Pir avrebbe fatto la sua

comparsa in questa regione durante il regno del Sultano Barbak Shah (1459-1474),
quando un suo generale conquistò l’Orissa e il Kamarupa, ovvero l’attuale Assam.
20 In arabo l’appellativo Mubārak significa ‘Benedetto’.
21 Figlio di Śiva, Dakṣin Rāy, il cui nome letteralmente significa ‘Re del Sud’, è la di-

vinità patrona delle tigri, e il suo culto è ancor oggi diffuso in tutte le Sundarban. Se-
condo il mito, sarebbe nato dalla metamorfosi della prima testa di Gaṇeśa, quella
umana, decapitata da Śiva e quindi rotolata fino al delta del Gange: cfr. Sarkar
[2010: 34-9].
22 Kālu è il fratello di Ghāzi.

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their prosperity to the former. It is significant that both Dakṣin-rāy and Ghāzi were,
in their respective traditions, credited with command over tigers and crocodiles (Roy
[1983: 52-3]).

Noto come Mobrā Ghāzi, ma anche col nome di Barakhan Ghāzi,


Zinda Pir o Ghāzi Sahab, il suo culto è principalmente presente nel di-
stretto di South 24 Parganas, di Khulna e Jessore (cfr. Sarkar [2010:
39]). Come segnala Sutapa Chatterjee Sarkar,

His image, worshipped in many places, speaks of his handsome appearance and
prowess. Usually fakirs or pirs perform the rituals but there is no hard and fast rule.
Even Hindus performer the rituals, praying for the welfare of their children and
their domestic animals. Ghazi Zinda Pir is referred to in the Maimansingha-gitika
and also in the Raimangal written by Krishnaram Das (ibidem: 39).

Aggiungendo due altre importanti osservazioni:

The downtrodden Muslims of the Sundarbans were converted lower caste


Hindus who retained their old beliefs and customs. The followers of Dakshin Ray on
the other hand were also lower caste Hindus. They too, were oppressed by the upper
caste Hindus in the same manner as the converted Muslims had once been. Apart
from this, both the communities lived under the constant fear of tigers. Common
origin and the deadly environment impelled the Hindus and Muslims to worship
both the deities, who were regarded as the tiger godlings. Both communities had to
conjure up deities who would protect them and hence saw no contradiction in wor-
shipping one while being the followers of the other (ibidem: 39-40)23.

Le gesta di Ghāzi Pir sono ancor oggi tramandate in forma di can-


zonieri, i Gazir Gan, i cui versi, mandati a memoria, vengono pubbli-
camente declamati da un cantastorie professionista24, accompagnato da
un gruppo di suonatori di flauto e strumenti a percussione, più quattro
o cinque dohar o coristi, che ripetono il ritornello della canzone.
L’esecuzione di un Gazir Gan si svolge prevalentemente nelle zone ru-
rali, ad esempio nella corte di una fattoria. A commissionare tali esecu-
zioni è quasi sempre chi ha ricevuto dei doni dal santo sufi, o desidera

23 In India, si registra abbastanza spesso un’occasionale condivisione, da parte di


Hindu e Musulmani, degli stessi santi e divinità e dei relativi santuari, culti e pelle-
grinaggi: cfr. ad esempio Grossato [2004: 155-73]).
24 Nel Subcontinente indiano, la tradizione dei cantastorie itineranti risale almeno al

II secolo a. C., e si è conservata nelle zone rurali del Bengala fino a tempi relativa-
mente recenti.

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implorarne la grazia. Il cantastorie inizia recitando il seguente inno


propiziatorio:

Mi rivolgo ad est in segno di rispetto a Bhanushvar (il Sole) la cui ascesa illumina il mon-
do. Poi adoro Ghāzi, dal cuore di fanciullo, che è salutato sia dagli Indù che dai Musulmani.

Segue quindi la canzone vera e propria, che racconta la storia di


Ghāzi Pir, a partire dalla nascita, soffermandosi in particolare sui suoi
combattimenti con animali, dèmoni e spiriti maligni d’ogni genere, e
sugli episodi in cui salva delle persone in difficoltà. Mentre racconta,
aiutandosi con un sottile bastone di bambù, il cantastorie srotola pro-
gressivamente davanti al suo pubblico il Gazir Pat, un lungo e spesso
di cotone, dipinto a vivaci colori sul quale, mediamente in venticinque
riquadri, sono stati raffigurati i principali eventi della leggenda. La
tradizione dei Gazir Pat può esser fatta risalire al VII secolo se non
prima (cfr. Cooper - Gillow [1996], Blurton [1998]). Coloro che
prendevano parte a tali eventi erano membri della comunità dei Be-
dey25, di fede principalmente islamica. Oltre ai Gazir Pat esistevano al-
tri tipi di rotoli dipinti con le storie assai note come nel caso del Ma-
nasā Pat che si basava sulla dea Manasā, il Rāmāyaṇa Pat dedicato a
Rāmacandra, il Krisva Pat dedicato a Kṛṣṇa e così via26.
L’ecosistema delle Sundarban, intersecate da una complessa rete di
vie d’acqua e di piccole isole con foreste di mangrovie, è l’habitat d’una
enorme varietà di fauna selvatica, comprendente tigri, coccodrilli e
svariate specie di serpenti. Secondo la leggenda, Ghāzi Pir sarebbe sta-
to dotato di uno speciale potere carismatico, che gli consentiva di am-
mansire e farsi obbedire da tutti questi animali, persino dalle fiere più
pericolose. La sua iconografia tradizionale, che è documentata soprat-
tutto dall’arte della pittura di rotoli detta patrachitra27, ce lo mostra
mentre cavalca una temibile tigre del Bengala o un coccodrillo, e tiene
nelle sue mani dei serpenti velenosi.
25 I Bedey sono una comunità che appartiene principalmente al gruppo etnico dei
Mong-tong, o Mangta, di Arakan, che nel 1638 accompagnarono il re fuggitivo di
Arakan, Ballal Raja, stabilendosi definitivamente nell’area di Bikrampur vicino a
Dhaka. La maggior parte di essi finì col convertirsi all’Islam.
26 Ricche collezioni di questa particolare forma d’arte, sono oggi custodite

nell’Asutosh Museum of Indian Art di Calcutta in India, il Gurusaday Dutt Museum


sempre a Calcutta e il Museum of Folk Art and Crafts di Sonargaon nel Bangladesh.
27 Sono i rotoli utilizzati fino a poco tempo fa dai cantastorie bengalesi, sia hindu che

musulmani, per narrare diversi miti e leggende tradizionali, compresa quella di


Ghāzi Pir.

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Fig. 2 – Riquadro centrale del Gazir Pat proveniente dal distretto di Murshidabad,
del 1800 circa, attualmente conservato nel British Museum di Londra.

L’esempio più bello, è il riquadro centrale di un lungo rotolo in tes-


suto di cotone dipinto degli inizi del XIX secolo, oggi custodito al Bri-
tish Museum di Londra28, ritrae Ghāzi Pir proprio a cavallo di una ti-

28Cinquantasette sono le scene raffigurate su questo straordinario rotolo dipinto, più


del doppio di quelle solitamente presenti.

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gre dalle fauci spalancate, sellata a regola d’arte [fig. 2]. Con le dita
della mano destra, Ghāzi sta facendo scorrere i grani del tasbih, il rosa-
rio islamico, mentre con la sinistra stringe un serpente, in apparenza
un cobra, a mo’ di pungolo e scudiscio della sua insolita cavalcatura. La
lunga coda del felino e quella del rettile circoscrivono quasi completa-
mente la metà superiore del corpo del santo, quasi in segno di prote-
zione e rispetto.
Non va infine dimenticato che Ghāzi Pir condivide da sempre que-
sta sua miracolosa dimestichezza con tigri e serpenti oltreché con
Dakṣin-rāy, con altre due figure carismatiche, questa volta femminili,
anche loro assai popolari nel Bengala: la santa Banbibi29, la cui venera-
zione è nata inizialmente in ambito propriamente islamico, ma che alla
fine è stata fatta propria anche dagli Hindu, e Manasā Devī30, divinità
tipicamente indiana, ma alla quale anche i Musulmani si rivolgono con
intensa devozione. Come ha scritto Sutapa Chatterjee Sarkar:

These deities were not the regular godheads of the Indian pantheon. On the oth-
er hand, they were fashioned from day to day experiences and realities that revolved
around conflict and strife. The attributes of the deities reflected the angst of the set-
tlers who battled against nature and whose survival was by no means easy. The dei-
ties thus became essentially patron saints whose benevolence could effectively ward
off the dangers of the jungle and its dreaded fauna. What therefore evolved here was
not so much of a civilization as a way of living, but a culture emerging from respons-
es to the challenges of nature in various forms (Sarkar [2010: 24]).

Se per garantire all’intera sua comunità tribale un rapporto diretto


con le potenze psichiche di natura animale, e ancor più con i principi
spirituali ch’esse direttamente esprimevano, lo sciamano primordiale
doveva anch’egli in qualche modo ritualmente ‘animalizzarsi’, il culto e
l’iconografia di Manasā, Banbibi e Ghāzi Pir, che esprimono il rispetti-

29 Il suo nome, in lingua bengali, significa letteralmente la ‘Signora della Foresta’.

Venerata sia dagli Hindu che dai Musulmani, ma da ciascuna comunità alla propria
maniera, è una sorta di divinità guardiana delle Sundarban, che in particolare proteg-
ge i taglialegna e i raccoglitori di miele selvatico dall’aggressione delle tigri: cfr. Ud-
din [2009: 301-11; 2011: 61-68].
30 Manasā, divinità di origine tribale assimilata dall’Induismo, è considerata la sorella

di Vāsuki, cfr. supra n. 12. Talvolta descritta come cieca da un occhio, la sua funzione
principale è quella di proteggere i devoti dal morso dei rettili velenosi. Iconografi-
camente si presenta come una donna-serpente dalle caratteristiche ofidiche più o me-
no accentuate. Sull’iconografia delle donne-serpente in riferimento allo sciamanesimo
eurasiatico, cfr. Grossato [1999; 2013].

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vo legame o identità simbolica con serpente, tigre e coccodrillo, costi-


tuiscono un’ulteriore testimonianza di quanto sia antico e stratificato il
retaggio sciamanico delle Sundarban. E come esso si sia mantenuto nel
tempo, nonostante gli inevitabili adattamenti, riuscendo così ad impor-
si prima all’Induismo e quindi all’Islam, ovvero a due forme così diver-
se e quasi opposte di cultura religiosa, arrivando sin quasi a saldarle
insieme. Sulla base di un più antico, ma in fondo comune, retaggio
preistorico. Perché a volte i cosiddetti ‘sincretismi’ finiscono col resti-
tuire ai miti e ai simboli, e agli stessi dèi, le loro ascendenze ancestrali.

Testi citati
Athickal, J. [1992], Maram Nagas, a socio-cultural study, New Delhi.
Bausani, A. [1971], L’Islam non arabo, in P. Tacchi Venturi (ed.), Storia delle
Religioni, vol. V, Torino, pp. 181-211.
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L’archetipo del maestro invisibile, Milano, pp. 155-173.
— [2006], Le vie spirituali dei briganti in Europa e in Asia, in Id. (ed.), Le vie
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