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di Alessandro Grossato
1 Come abbiamo avuto occasione di scrivere qualche anno fa, una forma assai margi-
nale di sopravvivenza, via via sempre più residuale, di questo specifico retaggio scia-
manico delle società di cacciatori preistorici, si può probabilmente riconoscere nelle
più antiche forme associative, e relative ritualità, di ladri e briganti: cfr. Grossato
[2006].
2 Basterebbe, ad esempio, riflettere sulle inaspettate sopravvivenze dello sciamanesi-
Egli non provava gioia; per questo chi è solo non prova gioia. Allora desiderò un
secondo. Ora egli occupava tanto [spazio] quanto un uomo e una donna insieme ab-
bracciati. Egli si divise in due e quindi sorsero il marito e la moglie. Per questo
tiche e credenze taoiste; è il suo rivale e, nella Cina moderna, il suo complemento in-
separabile. In tutte le epoche il taoismo si è definito anzitutto rispetto a esso» (ibi-
dem: 13-4), e aggiunge in nota: «La Cina antica, come pure la Cina d’oggi, conosceva
culti sciamanici molto vicini dal punto di vista tipologico a quelli dell’Asia centrale,
della Mongolia e della Siberia» (ibidem: 14, n.9).
3 Il 17 febbraio 2015 la stampa internazionale ha riportato la notizia della prossima
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Yājñavalkya diceva «Noi siamo ciascuno una metà». Per questo il vuoto è riempito
dalla donna. Egli si congiunse con lei e ne nacque la stirpe umana.
La femmina pensò: «Come mai dopo avermi da sé generata s’unisce con me? Or-
sù, bisogna che io mi nasconda». Diventò vacca, l‘altro [si fece] toro, s’unì con essa e
nacquero i bovini. Diventò giumenta, l’altro stallone; diventò asina e asino l’altro; si
unì con essa e nacquero i monoungulati. Diventò poi capra e l’altro becco; diventò
pecora e l’altro montone: si unì con essa e nacquero capre e pecore. Così generò tutte
le coppie fino alle formiche (Della Casa [1976: 70]).
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partire dal XII e XIII secolo15 fra le foreste di mangrovie del Bengala
meridionale, quando persino gli invasori islamici incontrarono in quel
labirinto di acque e vegetali, delle popolazioni nelle quali il retaggio
sciamanico era rimasto, grazie alla loro marginalizzazione e solo par-
ziale induizzazione, pressoché intatto, sviluppando nel corso dei secoli
il culto di particolari santi e divinità che, per la loro intrinseca capacità
di trasformarsi in serpente, tigre o coccodrillo, o quantomeno di ren-
der mansueti tali animali, erano perfettamente in grado di proteggere
contadini, pescatori e mercanti dal pericolo che tali fiere costituivano
da sempre in quell’habitat ancora semiselvaggio [Fig. 1]16.
L’Islam, a partire dal XIII secolo, è stata una grande forza culturale
nell’India orientale. Ma non c’è da stupirsi se anche le élites islamiche,
così come quelle dei primi invasori indoeuropei, hanno finito non solo
con l’accettare e riconoscere tali divinità e forme di culto, ma sono ad-
dirittura riuscite a farle proprie, sin quasi ai giorni nostri, soprattutto
grazie alla mediazione di quei missionari islamici che appartenevano al
Sufismo. Fra questi ultimi, la figura di Ghāzi Pir costituisce un esem-
pio piuttosto interessante.
15 Vedi R.M. Eaton, The Rise of Islam and the Bengal Frontier, 1204-1760, University
of California Press, Berkeley 1993.
16 Com’è noto, l’Islam è stata una grande forza culturale, soprattutto religiosa,
nell’India orientale: cfr. Bausani [1973], dove si legge, riguardo a questa parte
dell’India, che «Una posizione un po’ speciale occupa il Bengala, convertito quasi in
massa – separatamente dalla zona dell’Islam “continuo” – dal XIII secolo in poi. Si
trattava di una zona forestale relativamente meno profondamente induizzata di altre
parti dell’India (vi fu particolarmente forte il buddismo) islamizzata da avventurieri e
commercianti» (p. 5); cfr. anche Bausani [1971].
17 Ghazi è un termine arabo che significa ‘guerriero’.
18 Il sostantivo pir, di origine persiana, significa letteralmente ‘vecchio’. Nella termi-
nologia spirituale del Sufismo, questo vocabolo è passato a significare anche ‘guida’,
‘maestro’ e persino ‘santo’, divenendo così un equivalente del termine arabo shaykh. È
importante ricordare che i Pir musulmani, ritenuti detentori del massimo consegui-
mento spirituale, venivano normalmente riconosciuti e trattati come santi e maestri
anche all’interno della tradizione induista dei Nāth Yogi, una corrente spirituale shi-
vaita che affermava di risalire al quasi leggendario maestro bengalese Ma-
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tsyendranāth (X secolo ca.), e che fu successivamente riformata dal celebre yogi Go-
raksflanāth fra il X e l’XI secolo. Anche la figura di Matsyendranāth presenta degli
evidenti tratti sciamanici. In particolare, la leggenda gli attribuisce una singolare
forma di apprendistato spirituale: dodici anni trascorsi all’interno della pancia del
gigantesco pesce, che l’aveva ingoiato.
19 Stando all’ipotesi più accreditata fra gli studiosi, Ghāzi Pir avrebbe fatto la sua
comparsa in questa regione durante il regno del Sultano Barbak Shah (1459-1474),
quando un suo generale conquistò l’Orissa e il Kamarupa, ovvero l’attuale Assam.
20 In arabo l’appellativo Mubārak significa ‘Benedetto’.
21 Figlio di Śiva, Dakṣin Rāy, il cui nome letteralmente significa ‘Re del Sud’, è la di-
vinità patrona delle tigri, e il suo culto è ancor oggi diffuso in tutte le Sundarban. Se-
condo il mito, sarebbe nato dalla metamorfosi della prima testa di Gaṇeśa, quella
umana, decapitata da Śiva e quindi rotolata fino al delta del Gange: cfr. Sarkar
[2010: 34-9].
22 Kālu è il fratello di Ghāzi.
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their prosperity to the former. It is significant that both Dakṣin-rāy and Ghāzi were,
in their respective traditions, credited with command over tigers and crocodiles (Roy
[1983: 52-3]).
His image, worshipped in many places, speaks of his handsome appearance and
prowess. Usually fakirs or pirs perform the rituals but there is no hard and fast rule.
Even Hindus performer the rituals, praying for the welfare of their children and
their domestic animals. Ghazi Zinda Pir is referred to in the Maimansingha-gitika
and also in the Raimangal written by Krishnaram Das (ibidem: 39).
II secolo a. C., e si è conservata nelle zone rurali del Bengala fino a tempi relativa-
mente recenti.
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Mi rivolgo ad est in segno di rispetto a Bhanushvar (il Sole) la cui ascesa illumina il mon-
do. Poi adoro Ghāzi, dal cuore di fanciullo, che è salutato sia dagli Indù che dai Musulmani.
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Fig. 2 – Riquadro centrale del Gazir Pat proveniente dal distretto di Murshidabad,
del 1800 circa, attualmente conservato nel British Museum di Londra.
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gre dalle fauci spalancate, sellata a regola d’arte [fig. 2]. Con le dita
della mano destra, Ghāzi sta facendo scorrere i grani del tasbih, il rosa-
rio islamico, mentre con la sinistra stringe un serpente, in apparenza
un cobra, a mo’ di pungolo e scudiscio della sua insolita cavalcatura. La
lunga coda del felino e quella del rettile circoscrivono quasi completa-
mente la metà superiore del corpo del santo, quasi in segno di prote-
zione e rispetto.
Non va infine dimenticato che Ghāzi Pir condivide da sempre que-
sta sua miracolosa dimestichezza con tigri e serpenti oltreché con
Dakṣin-rāy, con altre due figure carismatiche, questa volta femminili,
anche loro assai popolari nel Bengala: la santa Banbibi29, la cui venera-
zione è nata inizialmente in ambito propriamente islamico, ma che alla
fine è stata fatta propria anche dagli Hindu, e Manasā Devī30, divinità
tipicamente indiana, ma alla quale anche i Musulmani si rivolgono con
intensa devozione. Come ha scritto Sutapa Chatterjee Sarkar:
These deities were not the regular godheads of the Indian pantheon. On the oth-
er hand, they were fashioned from day to day experiences and realities that revolved
around conflict and strife. The attributes of the deities reflected the angst of the set-
tlers who battled against nature and whose survival was by no means easy. The dei-
ties thus became essentially patron saints whose benevolence could effectively ward
off the dangers of the jungle and its dreaded fauna. What therefore evolved here was
not so much of a civilization as a way of living, but a culture emerging from respons-
es to the challenges of nature in various forms (Sarkar [2010: 24]).
Venerata sia dagli Hindu che dai Musulmani, ma da ciascuna comunità alla propria
maniera, è una sorta di divinità guardiana delle Sundarban, che in particolare proteg-
ge i taglialegna e i raccoglitori di miele selvatico dall’aggressione delle tigri: cfr. Ud-
din [2009: 301-11; 2011: 61-68].
30 Manasā, divinità di origine tribale assimilata dall’Induismo, è considerata la sorella
di Vāsuki, cfr. supra n. 12. Talvolta descritta come cieca da un occhio, la sua funzione
principale è quella di proteggere i devoti dal morso dei rettili velenosi. Iconografi-
camente si presenta come una donna-serpente dalle caratteristiche ofidiche più o me-
no accentuate. Sull’iconografia delle donne-serpente in riferimento allo sciamanesimo
eurasiatico, cfr. Grossato [1999; 2013].
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Testi citati
Athickal, J. [1992], Maram Nagas, a socio-cultural study, New Delhi.
Bausani, A. [1971], L’Islam non arabo, in P. Tacchi Venturi (ed.), Storia delle
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Blurton, T.R. [1998], The ‘Murshidabad’ paths of Bengal, in J. Jain (ed.), Pic-
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