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Università Cattolica del Sacro Cuore

di Milano

Facoltà di Lettere e filosofia

La formazione letteraria di Antonia Pozzi

Relatore:
chiarissimo prof.
Enrico ELLI

Candidata:
Federica CECCO
matr. 4611201

Anno accademico 2017-2018


«Le opinioni alle quali teniamo di più
sono quelle di cui più difficilmente
potremmo rendere conto.»

Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza

«Ogni uomo che compia un determinato lavoro,


completa l’opera di un predecessore ignorato,
prepara quella di un successore,
che ignorerà sempre il suo merito verso di lui.
Così si alimenta sulla terra intera il lavoro umano:
ogni uomo sente l’influenza delle forze degli altri come vita sua propria.»

F.D.E. Schleiermacher
SOMMARIO

Introduzione IV

Capitolo I: La relazione autentica con la natura come

funzione letteraria nella poesia di Antonia Pozzi 6

1. Antonia Pozzi e la montagna 29

a. Scrittori, poeti e alpinisti 71

Capitolo II: Gli anni del liceo: 1927-1930 140

Capitolo III: Gli anni dell’università: 1930-1935 255

1. L’orma del simbolismo francese e il riscatto oltre il

decadentismo europeo 293

Conclusione 368

Bibliografia 373

Fonti web 379

Indice essenziale dei nomi 380

Indice delle riviste 384

Ringraziamenti 386
INTRODUZIONE

L’obiettivo di questa tesi è iniziare uno scavo più approfondito e circostanziato

in merito alla formazione letteraria di Antonia Pozzi, avvalendosi degli apporti

e dei suggerimenti della critica fin qui redatti, ma soprattutto respirando l’aria

della biblioteca della sua casa di Pasturo – paesino della Valsassina ove la

giovane poetessa era solita trascorrere frequenti periodi di vacanza dalla sua città

natale, Milano, immergendo il suo corpo nella natura e la sua mente nei libri.

La biblioteca, oggi trasferita e attentamente conservata presso il Centro

Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” di Varese, offre uno

squarcio dell’immensità di quest’anima e della serietà di questa giovane mente,

immagine che emerge in modo chiaro dalla ricchezza culturale dei titoli e dei

relativi marginalia annotati dalla Pozzi. Testi di poesia, di filosofia, romanzi,

saggi critici, dizionari di lingue straniere: dai dorsi colorati dei volumi e dalle

pagine dei libri – ormai rese delicate dal passaggio del tempo – rivivono un

desiderio di umanità e un anelito curioso e tenace rivolto dalla poetessa alla

risoluzione del dolore e del problema dell’esistere.

Questo lavoro, che ho creduto estremamente necessario considerando la

posizione della Pozzi nel panorama della poesia del Novecento e lo stato degli

studi attuale, parte dalla presa di coscienza che non esiste poesia senza un

intorno, psicologico e storico – come suggerisce il filosofo Dino Formaggio,


grande amico della poetessa negli ultimi anni della sua vita – ma soprattutto

letterario.

La formazione di Antonia Pozzi – intesa come sistema di relazioni stratificato

che ha influenzato il suo fare poetico – vive di innumerevoli e a volte contrastanti

apporti, ma si avvale, poi, di uno stimolo costante alla scrittura: il rapporto

immediato e intenso con la natura, in particolar modo con la montagna.

Attraverso una prima analisi di questo rapporto, e dunque, degli intorni letterari

che lo alimentano e lo influenzano, si delineerà uno schema utile per

comprendere il fare poetico pozziano e il taglio attraverso il quale leggere

l’influenza di tutte le altre relazioni che negli anni della sua breve vita (1912-

1938) arricchiranno il suo panorama letterario e umano.

Lo studio parte dunque dai testi pozziani (poetici, epistolari, diaristici, saggistici

e da alcune bozze di traduzione e di romanzo) per confrontarsi costantemente

con una serie di altri autori, scrittori, filosofi, poeti, nella convinzione –

condivisa con la critica Graziella Bernabò – che la poesia della Pozzi sia una

poesia dell’incontro e della relazione, con le persone e con le cose, votata alla

lettura emblematica dei segni che da questi rapporti andavano intrecciandosi.

A seguito dunque di un primo capitolo dedicato alla scoperta della funzione

letteraria della natura in Antonia Pozzi, e quindi all’approfondimento del suo

rapporto con la montagna, traccerò le influenze autorali che si sono rese più

evidenti negli anni della sua formazione, dividendo il periodo liceale (1927-

1930), da quello universitario (1930-1935).


Capitolo Primo:

La relazione autentica con la natura come


funzione letteraria nella poesia di Antonia
Pozzi

La natura, in tutte le sue forme, è lo specchio e lo stimolo delle prime impressioni

poetiche di Antonia Pozzi, che inizia a scrivere versi, il 1° aprile 19291, a

Sorrento, alla precoce età di 17 anni.

Spazzolate di vento

Una finestra spalancata


– due metri di larghezza –
mi ammannisce una porzioncina di mare
– centinaia di metri quadrati –.

Il telaio mi spicca e mi incornicia


un ritaglio di cartone spiegazzato
che il vento, a gran colpi di scopa,
impiastriccia di polvere azzurra.

Le folate pazzerelle,
con mano impertinente,
fanno il solletico alla pellicina dell’acqua
che rabbrividisce, si raggriccia tutta,

s’increspa, rapida, in striature tanto fini


che mi sembra il capino di un uccello
dove qualcuno soffi, delicatamente,
rovesciando le piume in rotelline trepide2.

1
Per un confronto in merito alla storia editoriale e alla ricezione dei versi pozziani, si veda
almeno il saggio di G. BERNABÒ, Antonia Pozzi: le ragioni di una riscoperta, in AA. VV., … e
di cantare non può più finire… Antonia Pozzi (1912-1938), atti del convegno organizzato
dall’Università degli Studi di Milano (23-26 novembre 2008), Viennepierre edizioni, Milano
2009, pp. 81-104.
2
A. POZZI, Parole. Tutte le poesie, a cura di G. Bernabò e O. Dino, Ancora, Milano 2015, p. 41.

6
Il tono della poesia, giocoso e quasi bozzettistico nel rilevare le somiglianze che

una finestra spalancata le ammannisce, sembra sottolineare un intento quasi di

esercizio ironico, senza impegno nel porre l’una accanto all’altra queste prime

parole. Le impressioni che si rincorrono spazzate dal vento, con la stessa

rotondità delle onde del mare, fanno del discorso poetico di Antonia una

fotografia dell’istante, preciso e delineato dalla realtà dell’oggetto posto

dall’uomo (il telaio che spicca e incornicia), ma nel contempo aperto alla

possibilità di intravedere una mutevole consonanza fra i propri pensieri e i gesti

della natura. La poesia è la narrazione di una tranche de vie in definitiva

abbastanza comune, rassicurante e condivisibile, tanto è vero che Antonia riesce

a riportarne l’esperienza da cui origina in una lettera del 03 aprile 1929 alla

nonna Nena quasi con le stesse parole:

«Qui è tutto bello di una bellezza violenta, che fa persino male; che ti prostra in
un’ammirazione opprimente e angosciosamente inadeguata allo sfarzo di tutta questa natura. Se
una finestra ti ammannisce una porzioncina di mare spazzato dal vento, tu butti lì sopra tutti i
tuoi pensieri e stai a vederli giocherellare con le folate che fanno il solletico alla pellicina
dell’acqua, la quale, poverina, si raggrinza tutta e s’increspa in striature tanto fini che sembra il
capino di un uccello quando qualcuno, soffiandovi delicatamente sopra, rovesci le piume in
rotelline trepide.»3.

L’intima confidenza con cui la Pozzi si confessa alla nonna Nena rivela però

anche un altro aspetto molto importante circa la relazione di Antonia con questa

natura dirompente, dettaglio che non emerge direttamente dalla poesia ma

sembra esserne il fondamento. Un senso profondo di inadeguatezza rispetto alla

3
A. POZZI, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938., a cura di G. Bernabò e O. Dino,
Ancora, Milano 2014, p. 85. Corsivo mio.

7
bellezza offerta dal paesaggio, una sensazione indefinita4 stimola l’animo della

giovane Antonia a tentare una conversione in forma poetica di ciò che continua

a mulinare nel cervello5. E proprio in questo scarto fra se stessa, i suoi pensieri,

e una realtà che supera in bellezza ogni possibilità di registrazione oggettiva e

ogni volo ingenuo della fantasia, che Antonia sente un’esigenza di

contemplazione che «non è un riposo; ma è una vita intensissima e bella». Per

quella settimana Antonia esplora i luoghi «in un’inerzia apparente, ma con tutto

il [suo] spirito teso a fare tesoro dell’ebbrezza che emana dalla vastità sconfinata

dell’orizzonte e dell’insolita ricchezza della vegetazione»6. Solo leggendo

attentamente gli incisi, si scopre la diffrazione sorprendente che stimola il

pensiero e la scrittura, ossia quella fra la poetessa, fra il mondo umano e limitato

degli oggetti che la circondano «– due metri di larghezza –» e l’infinita vastità

della natura «– centinaia di metri quadrati –».

Si possono quindi individuare, in forma del tutto empirica rispetto alle fonti

citate (la poesia e le lettere che accompagnano i momenti della sua nascita), le

prime sensazioni, le prime parole-stimolo che avviano Antonia sul sentiero della

poesia: un’inadeguatezza rispetto alla bellezza sovrabbondante della natura che

genera stupore, ammirazione e desiderio di contemplazione, di esplorazione.

Quest’offerta inconsueta del reale, incorniciata come un bel quadro da decifrare,

spinge la poetessa alla ricerca di intime risonanze. La poesia è un’occasione, una

finestra per far risuonare lo spazio della natura, colta nel suo avvenire davanti ai

4
Cfr.: lettera a Lucia Bozzi del 30 marzo 1929, Ivi, p. 84.
5
Cfr.: lettera alla Nena, Ivi, p.85.
6
Ibidem.

8
suoi occhi.

Ben diverso è, a distanza di una sola settimana e nel ritrovarsi a Milano, il

rapporto che lega lo sguardo di Antonia all’oggetto narrato: una povera cosa7

che la riporta inesorabilmente ad un vivo e desolato commento sulla propria

situazione esistenziale:

Cencio

C’era uno straccetto celestino


sopra il muro
tutto gualcito di ditate rosa
tenuto su da due borchie di stelle
ed io lì sotto
come un cencio cinerino
in cui la gente incespica
ma che non val la pena di raccogliere
– lo si stiracchia un po’ di qua e di là coi piedi
e poi
a calci
lo si butta via –

Milano, 8 aprile 1929

In questo caso Antonia si presenta per la prima volta in una poesia: si

immedesima nel cencio protagonista della sua osservazione e addirittura ne

acuisce il carattere umile, intristendo i toni del colore nel paragone (da celestino

a cinerino), degradando la propria posizione (da sopra il muro ad un indefinito

lì sotto), smarrendosi passivamente nelle azioni di distratti passanti che con la

7
Così scrive Antonia in una lettera del 29 gennaio 1933 al suo amico poeta Tullio Gadenz: «Io
so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e
le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.», in
POZZI, Ti scrivo…, p. 161. L’importanza della relazione con le cose permea la poesia di Antonia,
con fasi estreme di entusiastica adesione e di doloroso distacco, sino ad individuare in esse
l’unica possibilità di ancoraggio alla realtà in un’epoca di profonda crisi. Come sottolinea
Graziella Bernabò, in questo processo si ritrova: «un’anticipazione della “poetica degli oggetti”
della “linea lombarda”», in G. BERNABÒ, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la
sua poesia, Viennepierre edizioni, Milano 2004, p. 127.

9
sua presenza lei può solo infastidire, a differenza del cencio che è stato

comunque utile (gualcito di ditate rosa) ed ha una sua posizione definita, seppur

infima (tenuto su da due borchie di stelle).

Si può credere che questo repentino cambio di prospettiva – il passaggio da uno

sguardo descrittivo e analogico sulle cose8 osservate, ad uno che gioca l’analogia

includendosi come oggetto di analisi – sia un’evoluzione temporanea dovuta alla

fase iniziale, sperimentale, della poesia di Antonia; oppure che sia una semplice

testimonianza di un diverso rapporto della Pozzi con un ambiente sconosciuto e

naturale (Sorrento) rispetto ad uno consueto e cittadino (Milano). Si sarebbe

portati a credere infine che, nell’evoluzione innegabilmente sempre più

intimistica della sua scrittura poetica – come emergerà fra poche righe

nell’analisi comparativa sulla parola-tema crepuscolo – la poetessa scarterà una

delle due vie per privilegiare l’altra. Invece la mutevole prospettiva d’uso del

meccanismo dell’analogia è un punto emblematico e chiarificatore del suo

comporre autentico: ogni testo di Antonia è la traduzione in parole di una

scoperta, la presa di coscienza della possibilità di un nuovo sentiero personale e

al contempo – indissolubilmente – relazionale, oltre che linguistico ed

espressivo.

Ma in che senso il sentiero relazionale apre nuove possibilità poetiche per

Antonia? Dobbiamo sfruttare tutto il campo semantico del termine “relazione”

8
Uso questo termine intendendo la globalità dei temi toccati da Antonia, il rapporto che instaura
con la realtà tutta, fra cui sicuramente spicca la sua relazione con la natura come una delle “cose”
in cui riversare l’anima. Cfr. a questo proposito la poesia Cose del 10 dicembre 1933, in POZZI,
Parole, p. 293: «E tu non dire / ch’io perdo il senso e il tempo / della mia vita - / se cerco nella
sabbia / il sole e il pianto / dei mondi – / se getto nelle cose la mia anima / più grande – e credo
/ ad immense magie…»

10
per poter penetrare fino in fondo alla pratica della scrittura della Pozzi. La parola

“relazione” va intesa sia come documento, resoconto in qualche modo

commemorativo di qualcosa di visto, sperimentato, vissuto, sia come tensione

alla creazione di un legame con le cose che vada al di là della mera capacità di

registrarle, di tramandarle per come appaiono esteticamente. Antonia certamente

vuole – e nel passare degli anni ha sempre più bisogno – che la bellezza della

natura possa essere ricordata e vissuta anche attraverso l’umana unicità della

propria anima, ossia del suo sguardo di poeta: ma questo non esclude che, a volte,

la purezza dell’immagine sia talmente perfetta di per sé da non aver bisogno di

esplicitare, tramite la presenza diretta dell’io, un legame analogico con il suo

stato d’animo, o con il suo pensiero. Anche quando l’esperienza poetica è avviata

già da alcuni anni, la presenza della natura, il suo vivere, può bastare affinché si

realizzi la necessità della scrittura. Riporto a titolo di esempio due poesie9 – il

cui titolo tradisce una vicinanza tematica – scritte a distanza di anni da

Spazzolate di vento ma emerse da un medesima concezione di “relazione” come

“resoconto” di un fatto nel suo accadere:

Sole d’ottobre Ottobre

Felci grandi È crollo di morta stagione


e garofani selvaggi quest’acqua notturna sui ciotoli.
sotto i castani –
Lànguono
mentre il vento scioglie fuochi di carbonai sulla montagna
l’un dopo l’altro e gela
i nodi rossi e biondi nella fontana un fioco lume.
alla veste di foglie
del sole – L’alba vedrà
l’ultima mandria divallare
e il sole in quella coi cani, coi cavalli,

9
Cfr. POZZI, Parole, per Sole d’ottobre, p. 272, per Ottobre, p. 390.

11
brucia in poca polvere
della sua bianca dietro un dosso scomporsi.
bellezza
come un fragile corpo Pasturo, 30 settembre 1935
nudo –

20 ottobre 1933

Il sopraggiungere inesorabile dell’autunno (Ottobre) o il prolungarsi di exploit

estivi (Sole d’ottobre), sono polarità tipiche di una mezza stagione: è chiaro che,

in filigrana ma ben distinti fra loro, ci sono due differenti vissuti emotivi di

Antonia che condizionano il tono con cui la poetessa annota l’emergere della

natura nel suo farsi, ma questa corrispondenza non si esplicita in un “io”. Come

ho anticipato, le poesie sono state scritte nel 1933 e nel 1935 date distanti dagli

esordi poetici di Antonia che risalgono al 1929 e confermano quindi

l’inconsistenza di una contrapposizione o di un’evoluzione a senso unico nella

dinamica dello sguardo di Antonia sul o con la realtà.

C’è un terzo significato del termine “relazione” che, oltre all’atto di

registrazione delle e alla corrispondenza con le cose, insiste sull’idea di

relazione come rapporto, dinamica fra esseri umani.

In questo senso mi riferisco sia ai rapporti quotidiani di Antonia con persone

fisiche (famigliari, amici, professori, altri scrittori e poeti, ecc.), sia alla

costruzione di un interlocutore poetico via via differente ma assimilabile alla

funzione testuale del tu, sia a quelle relazioni con l’altro che si possono radicare

attraverso un testo scritto, e quindi in particolar modo ai “suoi” autori. Nella

progressione della tesi, cercherò di approfondire sempre più sottilmente questi

aspetti relazionali in quanto funzioni letterarie della scrittura di Antonia.

12
A partire dall’indagine sulla natura come funzione letteraria nella poesia di

Antonia, è possibile tracciare il seguente schema:

Poesia di Antonia


Parole

Analisi della natura come tema – stimolo – specchio privilegiato

Relazione
↓ ↓ ↓
1. Atto di 2. Individuazione di un rapporto analogico 3. Con le persone
registrazione/resoconto a. fra le cose
di un fatto nel suo accadere b. Antonia con le cose

a. Fisiche b. Tu letterario c. altri autori letti



a.1 famiglia
a.2 amici
a.3 professori
a.4 guide alpine
a.5 altri scrittori e poeti

In definitiva, è possibile leggere le Parole di Antonia Pozzi in forma di poesia

come l’apertura di più punti di vista relazionali compresenti, fra i quali a poco a

poco si costruisce anche l’incontro con un tu non rinnegabile che accade, vive e

può tramandarsi solo e unicamente in quella forma, selezionata e protetta da

Antonia, come giocata su un piano trascendente che è per lei ancora di verità e

salvezza. L’autenticità della poesia di Antonia scaturisce da questo sforzo

continuo di intrecciare la relazione fra se stessa, le proprie percezioni, il mondo

come le viene ammannito – spesso, ma non esclusivamente, dalla natura –, ed

un tu preciso e selezionato, il tutto tentando di non violare la verità di nessuno

degli elementi in causa. Sia che siano le cose a dirsi a lei, sia che la sua stessa

13
presenza abbia bisogno delle cose per narrarsi, sia che esista un tu incarnato

dialogante, Antonia cerca una corrispondenza vera nelle e con le parole10,

sempre rinnovate nella contemplazione del momento, tanto più perché

intrecciate in un discorso, in una relazione continuativa e totalizzante. Infatti

proprio quando i temi, in superficie, sembrano ripetersi, c’è sempre qualcosa che

suggerisce la presenza di uno stimolo contingente, stringente di novità, al quale

non si può negare la possibilità di dirsi in modo autentico.

La tabella sottostante11 propone una comparazione esemplificativa – ma non

esaustiva – delle poesie di Antonia che hanno lo stesso titolo (o varianti molto

prossime), e testimonia in parte l’insistenza di queste relazioni-stimolo alla

scrittura, reiterate e durative nel tempo:

Titolo 1 Titolo 2 Titolo 3 Titolo 4 Titolo 5 Titolo 6 Titolo Titolo


7 8
Abbando Abbando
no, p. nati in
357 braccio
al buio,
p. 443
A Emilio Per
Comici Emilio
p. 402 Comici,
p. 441
Alba, p. Notte e
200 alba sulla
montagn
a, p. 264
Acqua Alpe, p. Flora
alpina, p. 111 alpina, p.
230 99
Amore di Amore Amor

10
Cfr.: F. PAPI, L’infinita speranza di un ritorno. Sentieri di Antonia Pozzi, Viennepierre
edizioni, Milano 2009, p.64: «Questo è sempre stato (ovviamente non detto così) il compito – il
destino – che Antonia ha assegnato a se stessa: la capacità di segnare il rapporto possibile tra
l’orizzonte dell’autopercezione e la sua traducibilità in un linguaggio poetico».
11
Riporto a fianco di ogni poesia, per comodità di consultazione, le pagine dell’edizione Ancora
del 2015 di Parole.

14
lontanan dell’acqu fati, p.
za, p. 63 a, p. 249 422
Canto Canto Canto
selvaggio rassegnat della mia
, p. 98 o, p. 100 nudità, p.
102
Crepusco Ultimo Crepusco
lo, p. 42 crepuscol lo, p. 187
o, p. 92
Distacco, Distacco
p. 73 dalle
montagn
e, p. 240
Dopo la Dopo,
tormenta, p.383
p. 359
Fantasia Settembr Sera a
settembri e, p. 246 settembre
na, p. , p. 428
116
Fine, p. Fine di
411 una
domenic
a, p. 420
Gioia, p. La gioia,
179 p. 301
Giorni in Giorno
collana, dei
p. 118 morti, p.
184
La vita La vita, Vita, p. In riva
sognata, p. 387 115 alla vita,
p. 299 p. 141
La voce, Voce di
p. 291 donna, p.
429
Le mani Le mani,
sulle p. 333
piaghe,
p. 120
Lagrime, Le tue
p. 97 lacrime,
p 337
Luce Luci L’operai
bianca, libere, p. o delle
p. 197 437 luci, p.
444
Lume di Λύχνος,
luna, p. [licnos,
202 lume], p.
211
Mattino, Mattino,
p. 263 p. 440
Minacce Minacce,
di p. 315

15
temporal
e, p. 67
Distacco Le
dalle montagn
montagn a, p. 427
e, p. 240
Morte Morte di Inizio Bambino Giorno I morti, La Maggio
delle una della morente, dei morti, p. 426 morte desideri
stelle, p. stagione, morte, p. p. 423 p. 184 bionda, o di
251 p. 430 303 p. 287 morte,
p. 408
Neve, p. Neve sul Nevai, p.
176 Grappa, 313
p. 311
Capricci Notte e Annotta, La notte Notte di Notte, p.
o di una alba sulla p. 342 inquieta, festa, p. 425
notte montagn p. 368 396
burrascos a, p. 264
a, p. 126
Passatem Notturno Risveglio Notturno, Notturno,
po invernale notturno, p. 239 p. 393
notturno, , p. 137 p. 170
p. 88
Odor di Odor di
fieno, p. verde, p.
82 321
Ora Ora L’ora di
intatta, p. sospesa, grazia, p.
377 p. 382 171
Ottobre, Sole
p. 390 d’ottobre
, p. 272
Pensiero Pensiero,
di p. 314
malata,
p. 233
Periferia, Periferia Periferia,
p. 406 in aprile, p. 436
p. 414
Pianura, Pianure a
p. 319 maggio,
p. 366
Preghiera Preghiera Preghiera
, p. 128 , p. 183 alla
poesia, p.
320
Rifugio, Rifugio,
p. 318 p. 404
Ritorni, Ritorno Ritorno
p. 79 vespertin serale, p.
o, p. 124 270
Salire, p. Salita, p.
296 398
Sentiero, Il
p. 317 sentiero,

16
p. 351
Passeggi Sera Sera, p. Ritorno Sera sul Sera a
atina d’aprile, 201 serale, p. sagrato, settembr
serale, p. 153 270 p. 280 e, p. 428
p.78
Precoce Spazioso
autunno, autunno,
p. 386 p. 395
Sgelo, p. Sgelo, p.
372 392
Sogno Sogno Sogno In sogno, Gli occhi
dell’ulti nel sul colle, p. 262 del
ma sera, bosco, p. p. 191 sogno, p.
p. 163 190 308
Solitudin Solitudin Io,
e, p. 83 e, p. 215 bambina
sola, p.
87
Sonno, p. Sonno e
188 risveglio
sulla
terra, p.
421
Stelle sul Stelle
mare, p. cadenti,
210 p. 273
Tramont Tramont
o o, p. 185
corruccia
to, p. 51
Spazzola Vento, p. L’orma In
te di 80 del campagn
vento, p. vento, p. e di
41 143 vento, p.
412

L’eterogeneità nei temi che ne emerge – si va dalla concentrazione su vari

momenti della giornata come in Crepuscolo, Sera, Mattino, ecc., a figure

emblematiche come Emilio Comici, sino a situazioni ambientali e/o esistenziali

come Preghiera, Rifugio, Salire –, fa presumere che esistano delle condizioni in

cui la poetessa è portata a contemplare, a confidare alla pagina bianca il proprio

osservare o le proprie sensazioni, a confrontarsi con una ricerca di verità da

scolpire nelle parole.

Ad avere una rilevanza numerica sono sicuramente i momenti della giornata che,

17
con il loro scandire lo scorrere del tempo, sembrano rievocare all’anima i

passaggi esistenziali e meditativi più sentiti. In particolare prevale tutto lo spettro

collegato alla fase notturna: Notte/Notturno, ecc., 11 occorrenze; Sera/serale,

almeno 6; i momenti liminali come il Crepuscolo, 3 occorrenze; le situazioni

connesse a questa fase della giornata come Sonno, 2 occorrenze, e Sogno, 4, per

un totale di circa 26 poesie.

Concentrandosi ad esempio sull’evocazione del Crepuscolo come parola-

stimolo-specchio nella poesia di Antonia, si può notare con facilità come le tre

modalità relazionali precedentemente individuate12 trovino spazio d’espressione

anche quando la parola-stimolo è collegata ad una stessa situazione:

Crepuscolo Ultimo crepuscolo Crepuscolo

L’ovatta grigia delle nubi L’acqua gioca con gli scogli Le crode non hanno più rose:
assorbe l’orizzonte sbavando il sole le ha tutte portate
il sudore perlaceo del mare. come un cavallo sudato con sé
– due paranze ritornando con nel suo morire.
Sorrento, 2 aprile 1929 vele flosce –]
Sola sul trampolino, Anima, del tuo sfiorire
coi miei vaneggiamenti perché ti duole? –
importuni,]
ostento nel grigio Lo stesso tuo pallore
la mia maglia scarlatta: è sulla fronte
ma – dentro – l’anima d’ogni montagna,
illividisce lo stesso tuo desio
come la carne molle d’assopimento –
di un bambino annegato.
Vedi le grandi cime
S. Margherita, 30 giugno 1929 come si sbiancano:
gli immensi volti
come distendono
sul dolore degli occhi
le palpebre
e giacciono puri,
protesi
a una carezza stellare –

12
Ricordo che le tre modalità sono quelle riportate nello schema a p. 13. Ad esse farò riferimento
anche in seguito.

18
O non attendi anche tu
per la tua vita
che si scolora
il bagliore supremo?

S. Martino di Castrozza,
gennaio 1933

Quello che cambia però sono le circostanze, i tempi e i luoghi in cui questi

stimoli vengono a bussare per mettersi in relazione con la poetessa. Inoltre, in

questo movimento oggetto-soggetto, Antonia inserisce anche – in Crepuscolo

del 1933 – il terzo elemento relazionale che ho individuato: è presente un tu-

anima che fa da ponte fra le prime due modalità di sguardo. In questo caso

l’interlocutore non abita propriamente un altro corpo, ma è Antonia stessa che

sente la necessità di esteriorizzare una parte di sé per rientrarvi, poi, in dialogo,

per approfondire la propria complessità, per darsi l’occasione di esplorare a più

voci questa cosa curiosa che sono io13.

Leggendo attentamente le tre composizioni, si possono notare delle spie

linguistiche che suggeriscono una sorta di evoluzione, come se Antonia cercasse

nel tempo di approfondire, di “fare più sua” la relazione con il paesaggio,

sfruttando vie d’accesso differenti, a partire da differenti punti di vista, su uno

stesso “tema”. Il percorso di analisi che mi propongo di attuare aiuterà forse a

comprendere le progressive acquisizioni contemplativo-intimistiche dell’animo

della poetessa, configurandosi quasi come un modello di sviluppo del suo fare

13
Cfr. la poesia Rossori, in POZZI, Parole, pp. 157-159, scritta a Pasturo il 06/04/1931.
Interessante notare come sia la mediazione dello sguardo dei bambini del paese a metterla in
contatto con se stessa, a farle immaginare come possa essere percepita dall’esterno: «Ma davanti
al cancello / del mio giardino / un grappolo di bimbi / attende il mio ritorno. / Per guardarmi, /
per guardare bene da vicino, / per vedere com’è fatta / questa cosa curiosa che son io.». Anche
qui, è sera.

19
poetico, data la scansione temporale crescente dei testi. Vorrei ribadire però che

non si tratta affatto di uno schema esaustivo del suo rapporto con la parola

poetica, che anzi vive di una compresenza temporale dei tre meccanismi

relazionali (resoconto di immagini, corrispondenza con le cose, rapporto con un

tu), sino agli ultimi versi14. L’obiettivo dell’analisi è invece, semplicemente,

evidenziare la concretezza delle tre diverse tipologie relazionali.

Nella prima poesia del 1929 è un colore fatto materia ad assorbire il sudore

prezioso, perlaceo (e dunque ricco di riflessi e sfumature) del mare, segnando il

limite fra giorno e notte, diventando esso stesso orizzonte e assorbendo nella sua

morbidezza tutti i possibili contrasti. È un’immagine poetica forte, intravista

nell’accadere della natura e riportata con un buon lavoro di pulizia del verso, che

ascende in ultimo all’endecasillabo piano, sul gradino di un settenario. Nella

seconda poesia, a pochi mesi di distanza e sempre ambientata al mare, ritroviamo

a metà componimento questo colore grigio che fa da contrappunto ad un rosso

portato, ostentato dalla poetessa, ma non veramente assunto. Anzi, sembra quasi

che il grigio e il rosso si mischino nella loro verità, tradendo un presentimento

livido, violaceo, di triste morte che contrasta con l’apparente atmosfera giocosa

su cui si articola l’iniziale rapporto analogico fra l’acqua e Antonia. Il grigio fa

sempre parte quindi dell’ambiente esterno ma ha trovato in questo

componimento una via per risuonare attraverso un’interiorità esplicitata, facendo

riemergere, galleggiare tristemente, quelli che sono i pensieri più intimi e le

immagini cupe di Antonia: l’ultimo crepuscolo arriva troppo presto ad

14
Cfr. il precedente esempio sul rapporto di relazione come resoconto anche in poesie di anni
distanti dall’esordio come Sole d’ottobre e Ottobre.

20
interrompere i suoi vaneggiamenti proprio come ingiusta e precoce è la morte di

un bambino annegato nel mare. Nel frattempo, fuori da questa simbiosi tragica,

le paranze (barche strutturate per permettere le operazioni di pesca in qualsiasi

condizione metereologica) proseguono tranquille la propria attività, portando i

segni solo esteriori di questa mollezza (le vele flosce), trascinate senza volontà

dall’andare delle cose, seguendo la propria natura senza angosce, senza farsi

domande, sfruttando anzi l’energia indefessa dell’acqua per muoversi. Ritorna

proprio all’inizio della seconda poesia l’immagine del sudore del mare – di cui

è chiarita l’origine nel suo affannarsi quotidiano contro gli scogli – mediata però

dalla similitudine del cavallo. Il trampolino e lo scoglio sono i due compagni di

giochi vani rispettivamente per Antonia e per l’acqua: la poetessa è però la sola

a rendersi conto della propria situazione esistenziale, che gli elementi del

paesaggio evocano attraverso la meditazione e infine specchiano, in un rimando

senza dialogo. Ed è per questo che diventa ancora più interessante lo scarto che

avviene a distanza di tre anni e mezzo con la terza poesia, nella quale

l’indifferenza dello scoglio e il distacco in altezza del trampolino vengono fusi

e traslati nella presenza di un elemento naturale amico, roccioso ed elevato,

esterno e interno, in grado di ascoltare e, a suo modo, rispondere: la montagna.

Essa diventa per Antonia, «un luogo dell’anima», come viene definita in queste

parole di Marco Dalla Torre, introduttive alla sua monografia Antonia Pozzi e la

montagna:

«[Antonia] dapprima intuisce, e poi razionalizza l’insufficienza di questo mondo.


La montagna rappresenta allora una possibilità ben più che sportiva: diventa un luogo
dell’anima, dove specchiarsi, comprendersi, misurarsi al cospetto di ciò che è maestoso eppure

21
non arrogante, di ciò che sembra immutabile ma è pienamente vitale, di ciò che è equilibrio di
vita e non mera apparenza.»15.

Nella poesia del 1933 si crea quindi un dialogo per immagini fra la montagna

dolomitica e un tu/anima a cui si rivolge la poetessa. Nel duplice passaggio di

relazione (come contemplazione iniziale e come rovesciamento della situazione

in un rapporto con un tu), è la stessa montagna che, mutando aspetto al

trascorrere del crepuscolo, suggerisce all’anima uno spunto su cui meditare, un

termine di paragone a cui rifarsi, una soluzione definitiva al desiderio di

assopimento: è tempo di cedere, sbiancare, giacere. È arrivato, e trascorso, il

crepuscolo: l’ultimo sole è morto, portandosi via le rose16, ma si tratta di un

passaggio naturale, non bisogna dolersene. L’abbandonarsi delle crode alla

propria natura passiva le fa paradossalmente più umane, modelli con cui

solidarizzare empaticamente: hanno fronti, immensi volti con palpebre che

distendono sul dolore degli occhi. Possono così giacere pure, possono

protendersi a ricevere carezze stellari.

Resta da chiarire però l’immagine iniziale della poesia che mi aiuta così ad

avanzare sul sentiero interpretativo-relazionale legato al discorso delle fonti

letterarie che hanno influenzato Antonia.

«Le crode non hanno più rose:


il sole le ha tutte portate
con sé
nel suo morire.»17

15
M. DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, Ancora, Milano 2009, p. 12.
16
Poco più avanti è chiarita l’origine di questa immagine.
17
POZZI, Parole, p. 187.

22
Antonia si riferisce chiaramente al fenomeno dell’enrosadira, quando al

crepuscolo le cime delle Dolomiti si tingono di un colore rossastro, essendo

rocce (dolomie) formate principalmente dall’omonimo composto minerale, fatto

di magnesio e carbonato di calcio, che è in grado di offrire questo spettacolo

unico rifrangendo i raggi del sole che lo colpiscono con una certa inclinazione,

in un’atmosfera e un’aria particolarmente nitide e pulite. Altrettanto chiaramente

però Antonia non usa l’immagine del colore rosso, del fenomeno chimico, ma si

rifà ad una leggenda letta nel testo di Carlo Felice Wolff18 I monti pallidi, libro

che era in possesso di Antonia sin dal 192919. Si tratta de La leggenda della

rose20, in cui si narra che:

«Nel buon tempo antico, quando gli uomini non si odiavano né si uccidevano fra loro,
la grande montagna che si vede a levante di Bolzano non era, come ora, aspra e nuda: era anzi
facile e dolce, e tutta mirabilmente fiorita di rose rosse.»21

18
K. F. Wolff (1879 – 1966) è stato un giornalista, scrittore e antropologo nato a Karlsstadt da
padre austriaco e madre sudtirolese di lingua italiana. Visse dall’età di due anni a Bolzano e nel
1887/1888, quando si ammalò per un lungo periodo, sviluppò, ascoltando i racconti della sua
infermiera, “La vecchia Lena”, un vivo interesse per le storie delle valli di cui era originaria: la
Val di Fiemme. Alcuni anni più tardi, nel tentativo di raccoglierle, si accorse che era un
patrimonio che si stava disperdendo e del quale la gente del luogo negava ogni valore. Per questo
intensificò la ricerca, imparando i dialetti, le abitudini, i modi di dire di quelle popolazioni,
arrivando infine a costruire un’opera che per alcuni tratti si può dire del tutto originale rispetto
alle fonti. Per eventuali riscontri sulla biografia, si legga quella riportata in calce al volume
consultato per le ricerche di questa tesi C.F. WOLFF, I monti pallidi. Leggende delle dolomiti,
Cappelli Editore, Bologna 1987.
19
La notizia è in una nota a p. 22 di DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna: «In quei giorni
compra anche il famoso libro di Carlo Felice Wolff, I monti pallidi. Leggende delle dolomiti,
trad. di C. Ciraolo, Mondadori, Milano 19293. Sul frontespizio segna: “Antonia Pozzi, Madonna
di Campiglio 10 agosto 1929”. Il libro è conservato nella sua biblioteca di Pasturo». In realtà
oggi la biblioteca di Antonia è stata trasferita, e, dal 2015, insieme all’archivio delle sue carte e
delle sue fotografie, si trova presso il Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio
Preti di Varese. Rilevo, consultando la biblioteca, che oltre all’edizione del 1929 ne è presente
anche una del 1922 della casa editrice S. Poetzelberger di Merano, sempre tradotte da Clara
Ciraolo ma contenente meno testi (fra cui figura comunque la leggenda del giardino delle rose).
In copertina, una pallida, bianca croda di sfondo a destra, una montagna di abeti sulla sinistra e
un ramo di rododendri di un bellissimo colore rosa in primo piano.
20
Per leggere la versione completa della leggenda si rimanda a C.F. WOLFF, I monti pallidi.
Leggende delle dolomiti, pp. 29-35.
21
Ivi, p. 29.

23
La credenza è che il Rosengarten, parola tedesca per “giardino delle rose”,

esistesse veramente ai piedi di quel massiccio dolomitico omonimo22 e che fosse

abitato da un popolo di Nani, comandati dall’amato Re Laurino. Un giorno

quest’ultimo scopre che la figlia del re di un popolo vicino, Similda, è bellissima

e vuole chiederla in sposa. Questa unione viene impedita da molti fattori, primo

fra tutti l’opposizione di Vítege, guardia alla porta del castello reale di Similda.

Egli non considera come suoi pari i Nani ambasciatori inviati da Laurino per

chiedere la mano della principessa e non vorrebbe nemmeno farli passare. Si

innesca un conflitto fra i due popoli che dura per molti anni, e che porta prima

al rapimento di Similda (che viene condotta nel regno dei Nani e ovviamente

trattata da Laurino come una regina) e successivamente alla triste prigionia di

Laurino, tenuto in scacco da Vítege e da un manipolo di soldati, legato con una

corda e obbligato a cantare e ballare per divertirli.

In una sera di distrazione dei soldati, Laurino riesce a liberarsi e a tornare alle

sue montagne:

«Ma quando, a una svolta della valle, gli apparve il bel giardino di rose, rosso-
splendente al di sopra dei boschi, re Laurino disse: – Son le rose che mi hanno tradito. Se gli
uomini non le avessero viste, non avrebbero mai scoperto il mio regno.
E, per renderlo invisibile, Laurino trasformò in pietra tutto il roseto e fece un
incantesimo, che le rose non potessero vedersi né di giorno, né di notte.
Ma nell’incantesimo il re Nano aveva dimenticato il crepuscolo, che non è giorno e non
è notte: così ogni sera, dopo il tramonto, si rivedono le rose rosse del giardino incantato. Allora
gli abitanti della montagna escono dalle capanne e guardano e ammirano, e, per un attimo solo,
nelle loro menti inconsapevoli sorge una confusa intuizione del buon tempo passato, quando gli
uomini non si odiavano né si uccidevano e tutte le cose erano più belle e più buone.
E quando il Rosengarten si spegne e le sue punte di pietra ridiventano chiare e fredde,
gli uomini rientrano in silenzio, presi da indefinita tristezza, nelle loro capanne fumose.»23.

22
Per gli italiani prende invece il nome di Catinaccio.
23
WOLFF, I monti pallidi…, pp. 34-35.

24
Credo però che la connessione fra l’incipit della poesia di Antonia e l’immagine

creata dalla leggenda non suggerisca solo un richiamo linguistico-simbolico. La

leggenda narra anche di un amore negato, di un uomo umiliato e tenuto

prigioniero perché ritenuto inferiore, di una donna che vuole difenderne la

reputazione contro i pregiudizi della propria famiglia, di un tempo di pace e

fiducia reciproca tra esseri umani – ove la montagna era facile e dolce – ormai

perduto.

Proprio nel 1933, anno di composizione della poesia, Antonia deve rinunciare

definitivamente all’idea di poter rendere stabile la propria relazione con il grande

amore della sua vita, il suo ex professore di latino e greco al Liceo Manzoni di

Milano, Antonio Maria Cervi. La Pozzi è costretta a desistere quando il padre,

Roberto Pozzi, minaccia di sfidare il professore a duello, dopo anni di

coinvolgimento in un rapporto più sognato24 che vissuto – iniziato per Antonia

già dal 1929, esplicito per entrambi dal 1930 e osteggiato sin dal 1931 dal padre

di lei a seguito della proposta di matrimonio di Cervi –. Secondo Graziella

Bernabò l’avvocato Pozzi, per vari motivi, non riteneva il professore un partito

adatto a sua figlia:

«Ma perché questa ostilità dell’avvocato Pozzi nei confronti di un uomo serio e di valore
come Antonio Maria Cervi? Certo inizialmente ci poteva essere la legittima preoccupazione di
un padre molto legato alla propria figlia e desideroso di proteggerla da decisioni avventate; ma
ciò non è sufficiente a motivare la sua opposizione, anche successiva, verso di lui. In parte
dovevano giocarvi pregiudizi di classe. È vero che anche Roberto Pozzi era di origine piccolo-

24
La vita sognata è il titolo che Antonia dà ad una raccolta di dieci poesie scritte nel 1933 e
dedicate ad Antonio Maria Cervi. Esse rappresentano l’apice della sua vicenda sentimentale e
una volontà di superamento del dolore – causato dall’impossibilità di concretizzare la relazione
– attraverso il meccanismo catartico dell’arte. Le poesie sono ordinate secondo uno schema
narrativo, «tematico-simbolico» non cronologico (cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 147-148
e la relativa nota n°2 a p. 175).

25
borghese, ma con il matrimonio era asceso socialmente; grazie alla sua preparazione e
intraprendenza aveva inoltre avviato una brillante carriera di avvocato ed era diventato a Milano
un personaggio importante, che si sentiva a tutti gli effetti inserito nell’alta società. Un uomo
ambizioso come lui non avrebbe potuto aderire facilmente a un matrimonio non particolarmente
prestigioso dell’unica figlia, dato anche che il professor Cervi non aveva ancora iniziato la
carriera universitaria.»25 .

Spicca in questa prima26 parte della spiegazione della Bernabò circa l’avversione

di Roberto Pozzi per Cervi, la questione della differenza sociale, del vedere la

proposta di matrimonio quasi come un pericolo o un affronto. Trovo sia giusto

ricordare che la motivazione addotta da Vítege ne La leggenda delle rose per

impedire il passaggio degli ambasciatori Nani (e quindi il concretizzarsi della

proposta di matrimonio del Re Laurino a Similda) sia in fondo molto simile: non

li considerava all’altezza. Così si esprime Vítege: «– È senza esempio la

sfacciataggine di questi Nani: si considerano nostri pari. Se fossi il re, li farei

bastonare e mettere alla porta, questi ambasciatori da ridere.»27.

Al di là di queste analogie – che possono sembrare solo suggestioni – fra la storia

personale della Pozzi e la vicenda narrata nella leggenda, è certo che l’idea di

abbandono di un mondo felice, idilliaco e perduto a causa del morire del sole in

Crepuscolo e della prepotenza dei conflitti fra uomini ne La leggenda delle rose,

siano testimonianze testuali forti della necessità di assecondare un sentimento di

resa rispetto all’evidenza degli eventi. Della bellezza e della purezza passate

resta solo un ricordo di sogno che può brillare di un’ultima luce nell’immagine

25
Ivi, pp. 74-75.
26
La Bernabò, per ‘attenuare’ questo giudizio – constatando che l’ostilità per il Cervi non poteva
essere dovuta solo alla sua condizione sociale, data la benevolenza con cui Roberto Pozzi accolse
in seguito le simpatie della figlia per compagni di università ugualmente non ricchi – propone
come cause in seconda battuta: la differenza d’età fra i due, la paura di un possibile trasferimento
di Antonia a Roma (dove Cervi viveva dall’estate del 1928) e le radici meridionali del professore,
cfr. ivi, p. 75.
27
WOLFF, I monti pallidi…, p. 31.

26
delle crode appena sfiorite28. L’atteggiamento mansueto delle cime è un

consiglio quasi sussurrato all’anima in pena di Antonia. Per rafforzare queste

mie ipotesi, propongo di confrontare le parole della poesia del ’33 con quelle che

Antonia rivolge nella sua prima lettera a Tullio Gadenz, giovane poeta trentino

conosciuto a San Martino di Castrozza proprio in quel periodo:

«Io salii al cimitero di guerra in un pomeriggio nebbioso, dopo che Lei era partito.
Nevicava rado e leggero: tutta la bianca muta strada era per me, per me sola. Non aveva voci,
neppure d’uccello, la cupa folla degli abeti: solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole
più tristi. Al cimitero nessuno era andato da tempo: il sentiero era quasi intatto. Al cancello
dovetti scavare con le mie mani la neve, per aprire: ma poi, all’interno, era così tesa ed
immacolata la coltre bianca, che non osai imprimerla del mio passo pesante; colsi da un pino un
ramoscello in forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via. Le crode erano tutte pallide, come
un gran volto che cali sul dolore degli occhi le palpebre. Ed ecco, il mio sfiorire non mi doleva
più, tanto concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose.»29.

E ancora in una lettera del 29 gennaio sempre indirizzata a Tullio, evocando il

suo dolore senza contestualizzarlo:

«Io ho tanto sofferto, Tullio; e se oggi non soffro più come un giorno, è forse perché –
già gliel’ho detto – la mia anima si sbianca tutta e crede che sia giunto il crepuscolo estremo.
Dentro me è tutto un giardino di fiori morti […].»30.

28
La Pozzi aveva peraltro già usato l’immagine dei rosai crepuscolari in una poesia composta
pochi giorni dopo l’entrata in possesso de I monti pallidi, il 10 agosto 1929, ed espressamente
dedicata ad Antonio Maria Cervi. Si tratta della poesia La discesa: «Già, sulle crode, sono rifioriti
/ i perenni rosai crepuscolari. / Lontana, ormai, la malga abbandonata / fra i rododendri. Il vento
delle gole / non geme più, mordendoci la nuca. / Sale l’umida calma del pineto. / I larici e gli
abeti, con la vetta, / ruban la prima oscurità, su in cielo; / con le ricurve frangie, / l’accompagnano
/ fin presso a terra: lì, piano, la versano / a fare viola il muschio dei mirtilli, / a fare azzurri i sassi
del sentiero. // Nel mio ricordo stanco, disperato, / tu ti frantumi d’ombra e di silenzio. //
Madonna di Campiglio, 14 agosto 1929», in POZZI, Parole, p. 107. L’immagine però è colta qui
nel su farsi (il rifiorire e non lo sfiorire di Crepuscolo [1933]), nella speranza di un breve
miracolo che si rinnova perennemente, anche se subito minacciato dall’avanzare dell’ombra che
ne annulla la magica compattezza.
29
Cfr. la lettera scritta da Antonia Pozzi l’11 gennaio 1933 in risposta a quella di due giorni
antecedente di Tullio Gadenz in: A. POZZI – T. GADENZ, Epistolario (1933 – 1938), a cura di O.
Dino, Viennepierre edizioni, Milano 2008, pp. 88 – 89.
30
Ivi, p. 100.

27
Come delinea con delicatezza Onorina Dino nella prefazione alla raccolta

dell’epistolario fra i due poeti, una timida commozione fa da sfondo all’incontro

di queste due anime, avvenuto appunto in un momento di estrema crisi per

Antonia, a seguito di un anno che, come ho accennato, è stato atrocemente

negativo dal punto di vista sentimentale e durante il quale è riuscita a scrivere

solo dieci poesie31:

«L’incontro con uno spirito che le somiglia nella passione per la montagna e nell’amore
per la poesia agisce come una spinta vitale, una carica inattesa di entusiasmo, di emozione e
commozione: respirare con lo stesso ritmo, guardare con gli stessi occhi, incontrarsi sulle stesse
visioni, inebriarsi di azzurro e di altezze, di candore e di sole, di fruscii e di silenzi, di parole
bisbigliate dalla natura e percepite soltanto con il cuore, con lo stesso cuore: è davvero una
“rivelazione” che riempie l’anima; Antonia sembra avere lavato veramente occhi, mani, cuore
con la neve di S. Martino, sembra essere resuscitata a vita nuova e non indugia a rispondere al
breve scritto del nuovissimo amico.»32.

Ma qual è stato fino a quel momento il rapporto di Antonia con la montagna?

Perché e in che modo questo «luogo dell’anima» assume una rilevanza per la sua

poesia? Quali sono state le località, le persone, gli autori che hanno alimentato

ed indirizzato questa passione? Come si inserisce in questo rapporto la relazione

Gadenz-Pozzi? Nel prossimo paragrafo ordinerò gli argomenti, chiarendo inoltre

grazie al tema più circoscritto – Antonia Pozzi e la montagna – le modalità di

attivazione dei modelli relazionali come funzioni letterarie nella sua poesia.

31
In nessuno di questi testi compare un riferimento alla montagna.
32
Ivi, p. 13.

28
«Ma non pensare più di finire. Che la montagna è la prima
che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi.»33

1. Antonia Pozzi e la montagna

Raccontare il rapporto di Antonia Pozzi con la montagna, è come voler osservare

l’evolversi negli anni della relazione fra una figlia e la propria madre34. La donna

più matura – da modello, da nucleo onnipresente anche nel silenzio, da figura

protettiva e amorevole –, diventa per una giovane, pian piano, un’immagine da

cui emanciparsi, differenziarsi, entrando con essa in maturo dialogo. La madre

può essere considerata anche come una figura da ‘vincere’ nell’affermazione di

un sé diverso da quello che il nucleo d’origine si sarebbe aspettato. Nel contempo

– e in ideale – la madre resta come figura-rifugio per definizione durante i

momenti del più duro sconforto, come esempio di calma, compostezza,

equilibrio raggiunto dopo misteriosi anni di lotte di cui le figlie sono messe

lateralmente al corrente, attraverso una narrazione di fatti vissuti in passato da

un corpo altro, quasi estraneo, di cui se ne possono solo studiare i misteriosi e

arcani segni. Accennando quindi al rapporto di Antonia con la madre, Carolina

33
Dalla lettera di Antonia Pozzi ad Elvira Gandini dell’8 agosto 1933 in POZZI, Ti scrivo…, p.
178.
34
È Antonia stessa a fornire questo termine di paragone, come si vedrà più avanti.

29
(Lina) Cavagna Sangiuliani di Gualdana35, come riferimento reale per la

poetessa rispetto al ruolo materno, bisogna ammettere che esso è stato descritto

in modo ambivalente da due delle studiose che più hanno fatto ricerca sulla sua

poesia e sulla sua vita personale (intuendo che per la Pozzi non è possibile

separare troppo rigidamente la vita dall’opera, essendo la stessa meditazione sul

rapporto fra questi due ambiti parte integrante del suo lavoro). Per Alessandra

Cenni:

«Antonia cresce tra rigori formali e sostanziali dimenticanze. La madre è occupata,


contro le sue più vere inclinazioni, in attività mondane e nasconde la sua inquietudine esistenziale
dietro un placido perbenismo. Non è una fanatica osservante, ma crede alla necessità
dell’apparenza, elargisce cospicue elemosine e insiste perché la figlia abbia un’educazione
cattolica. Discende da una famiglia di antico lignaggio, radicata in terra lombarda da molte
generazioni. Dalla madre, la nonna Nena, la migliore amica di Antonia, eredita il senso della
concretezza, ma si differenzia dalla spontaneità di lei per un’indole schiva e un po’ ombrosa.»36.

Secondo Graziella Bernabò invece:

«Sulla madre Lina è nata una leggenda negativa: essa è stata cioè considerata come una
persona ombrosa, sfuggente e convenzionale; talora anche come una donna altezzosa e ansiosa
di evasione nella vita mondana; in ogni caso è stata vista come fredda e poco legata ad Antonia.
Poiché le testimonianze di chi l’ha effettivamente frequentata ne restituiscono una visione molto
diversa, ci si chiede se non abbiano pesato su questa poco persuasiva rappresentazione di lei
generici pregiudizi sul rapporto tra madre e figlia. Essi sono spesso il frutto di una tendenza a
esacerbare l’idea dei contrasti edipici tra l’una e l’altra (e, di conseguenza, a incolpare la madre
delle problematiche della figlia), che spesso persiste anche in ambienti molto acculturati,
nonostante i più recenti sviluppi della psicanalisi abbiano portato a una riscoperta in positivo del
ruolo materno nell’infanzia delle bambine.»37.

La Bernabò mostra di sposare la linea «parzialmente convenzionale» che il

35
La famiglia è di nobili proprietari terrieri del pavese. Il padre di Lina possiede una vasta
biblioteca che Roberto Pozzi, studente di legge, consulta spesso. Conosce così la moglie. La
madre di Lina, la Nena, è inoltre nipote di Tommaso Grossi. Cfr. BERNABÒ, Per troppa…, p. 36.
36
A. POZZI, Lieve offerta. Poesie e prose, a cura di A. Cenni e S. Raffo, Edizioni Bietti
Paperback, Milano 2014, p. 29.
37
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 48-49.

30
marito, Roberto Pozzi, traccia in Vita di Antonia, quando esalta «alcune virtù

tradizionali delle donne in genere e di quelle aristocratiche in particolare» che

sarebbero appartenute alla moglie, legate anche ad una «sorta di [sua]

timidezza»38. A supportare quanto scritto dal marito sono «le testimonianze delle

amiche di Antonia, Lucia Bozzi ed Elvira Gandini39, nonché di Luisa Gandini,

parente della madre di lui [Roberto Pozzi], Rosa Pastori.»40. Se quindi Lina

appare nei ricordi dei più come una donna schiva, soccorrevole con i bisognosi,

rifuggente dalla chiacchiera vana, non è escluso però che ella potesse risultare

anche «persona raffinata, brillante, cordiale e fiera», soprattutto con quei parenti

di cui condivideva il lignaggio nobile e con i quali proseguì la frequentazione

anche dopo la morte della figlia: Giuseppe e Maresin Cavagna di Gualdana. Nei

confronti di quest’ultima che

«era molto giovane e particolarmente interessata alla letteratura e all’arte, mostrava una
grande simpatia. Forse in quella ragazza vedeva qualcosa che le ricordava Antonia; perciò la
valorizzava sul piano culturale e le regalava spesso libri che erano stati della figlia. In
privatissimi colloqui con lei parlava spesso, con infinito amore, di Antonia, ricordandola
perlopiù in situazioni felici, soprattutto in riferimento al suo meraviglioso rapporto con la natura,
oppure in momenti sereni di studio o di vita quotidiana. Parlava volentieri anche del suo valore
letterario, sempre più riconosciuto dai critici. A volte, però, toccava l’argomento del suicidio: in
questi casi le venivano gli occhi lucidi, ma non si lasciava andare. Mostrava di essersi tanto

38
Ibidem. Dalla stessa p. 49 riporto la citazione che la Bernabò trae da Vita di Antonia e che
descrive la madre Lina come: «[un’]elettissima dama, per cui l’alta tradizione patrizia si traduce
in dolcezza e bontà, in altezza di vita interiore, in semplicità schiva di forme vane, in una
timidezza istintiva, rifuggente dalle inutili parole; soccorrevole alle miserie e al dolore; signora
nella sua casa, custodita dalle sue mani esperte di arti gentili: “mani di mamma”, come le
chiamava Antonia.».
39
Lucia Bozzi ed Elvira Gandini saranno, sin dagli anni del liceo, le più grandi amiche di
Antonia, conosciute per caso alla Biblioteca Braidense di Milano mentre la Pozzi cercava un
testo consigliatole dal Cervi, ex professore anche delle due ragazze che, essendo di quattro anni
più grandi, ormai frequentavano l’università. Alla loro amicizia congiunta la Pozzi dedicherà la
poesia Sorelle, a voi non dispiace…, nella quale si raffigura come una stellina cieca che segue
due bianche stelle in grado di proteggerla e condurla verso il grembo del mare, ossia di
accoglierla in uno spazio per loro certo e per la poetessa ancora angusto e pauroso. Si confrontino
i versi della poesia in POZZI, Parole, p. 136.
40
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 49.

31
interrogata sui motivi che potevano averla condotta a quella terribile decisione e rivelava un
grande rimpianto per non aver capito, per non aver avuto un’adeguata confidenza con lei. Il suo
dolore non faceva sottintendere tuttavia un vero e proprio senso di colpa personale:
probabilmente, da donna intelligente e sensibile qual era, doveva aver capito quanto varie e
complesse potessero essere state le cause della sofferenza di Antonia, e quanto la vita le fosse
diventata a un certo punto insostenibile. Interessante è soprattutto un aspetto delle sue confidenze
sulla morte della figlia: infatti, negli anni, giunse a considerarla non come una vittima, ma come
una donna che aveva deciso con estrema dignità la propria fine, come una persona, quindi, non
da compatire ma da rispettare.»41.

Con questo saggio giudizio di madre e di donna nel cuore, proseguo l’analisi del

rapporto materno che la Pozzi instaura con la montagna, assicurandomi alla via

che vede nella relazione con la madre “reale” Lina «un rapporto tutt’altro che

distaccato»42, magari non di perfetta confidenza43, ma sicuramente di tenero

amore. Ad argine di questo sentiero pongo, seguendo sempre la linea

interpretativa della Bernabò, le tre poesie, Febbre, Sogno dell’ultima sera e

Nostalgia44 in cui la figura di Lina appare chiaramente come salvifica e

addirittura quasi come l’unico schermo in grado di allontanare il pensiero del

suicidio45:

41
Ivi, pp. 50-51.
42
Ivi, p. 51: «Inoltre, quando frequentava la casa dei parenti milanesi del marito Mario e Paola
Gandini e vedeva la loro figlia Luisa alle prese con le lezioni scolastiche, Lina ricordava che
anche Antonia le chiedeva di essere ascoltata per esercitarsi nell’esposizione: segno. questo, di
un rapporto tutt’altro che distaccato tra di loro.».
43
Così si esprime Antonia in una lettera a Cervi del 26 aprile 1930 in cui confessa i suoi
sentimenti per i genitori, in una tenera ricerca di conciliazione fra la figura paterna e l’amato:
«Io non t’ho mai parlato del mio papà, Antonello. Ma è tanto tanto buono, sai: anche se non vive
come te, anche se la vita gli ha imposto una professione diversa da quella per la quale era nato.
È un’anima immensamente forte, entusiasta, onesta: di un’infinita rettitudine. Io ho tante colpe
verso di lui: non gli ho mai voluto abbastanza bene; ne ho sempre avuto terribilmente paura. Ora
soltanto mi sembra di capirlo. Confidenza non ne ho mai avuta, neppure in lui: nessuno dei miei
conosce la mia anima. Non posso cominciare ora: non è più possibile, ormai. Ma bene gliene
voglio, questo sì: un bene immenso. Come alla mamma […].». Purtroppo il dattiloscritto si
interrompe qui. Ora è raccolto in POZZI, Ti scrivo…, p. 100.
44
Cfr.: POZZI, Parole: Febbre p. 90, Sogno dell’ultima sera, pp. 163-164, Nostalgia, p. 167.
45
Questo ruolo limitante di Lina rispetto ad un gesto definitivo da parte della figlia ricompare
nel diario di Antonia, in riferimento al suicidio dell’amico Manzi, avvenuto il 17 maggio 1935.
Antonia scrive il 17 ottobre dello stesso anno: «– Qui, o si muore o si comincia una tremenda
vita. Io non devo morire, perché la mamma, sentendo il tonfo del mio corpo sulla terrazza del
piano terreno, griderebbe “cosa c’è”, si affaccerebbe e la porterebbero morta anche lei nel suo

32
Febbre Sogno dell’ultima sera

Di prima notte, Per l’ultima sera il vento


i grilli elettrizzati a carezzare la mia montagna
a strofinarmi, ad arroventarmi le tempie che prona, in alto, numera le stelle.
e la luna sanguigna Per l’ultima sera il vento
a bollare di spettri rossi a donare a ciascun albero un pianto
il mio corpo maturo. tormentoso di fronde,
perch’io m’illuda d’ascoltarne un addio.
Più tardi, la mamma, entrata Poi, nella stanza, a fianco
camminando piano, del mio piccolo letto,
con una fioca oscillante stellina io a togliermi di dosso le mie vesti,
a farle rosa il cavo della mano: per ogni nodo sfatto dicendo:
la mamma che portava una lucciolina è l’ultimo, è l’ultimo, è l’ultimo,
alla sua bimba malata. nella mia casa, a fianco
di questo piccolo letto…
S. Margherita, 24 giugno 1929 Più tardi, come ogni sera, il sonno
a premere con mani grigie il mio capo
e tu, mamma, a riporre
silenziosamente le mie robe,
piangendo, piangendo, piangendo.
Nostalgia Ed ecco io sogno: sono
nel sogno, mamma, un cercatore d’oro,
C’è una finestra in mezzo alle nubi: che va, che va per un’ignota landa
potresti affondare e mai non trova,
nei cumuli rosa le braccia mai non trova il suo oro.
e affacciarti La terra è gialla, intorno: poca acqua
di là stagna qua e là, fra i giunchi.
nell’oro. Ma che fare
Chi non ti lascia? dell’acqua, mamma,
Perché? se non ho del pane?
Di là c’è tua madre Io non ho se non questo sacco lieve
– lo sai – che tu m’hai dato; dentro vi rimane
tua madre col volto proteso solo un tuo dolce piccolo ritratto
che aspetta il tuo volto. di quand’eri fanciulla e ricamavi,
esile e bianca, presso la finestra.
Kingston, 25 agosto 1931 Ora poiché non ho
più speranze di vita,
ora poiché non so
se non morire
in questa atroce terra,
mamma, io voglio
baciare il tuo ritratto.
E sfaccio il nodo che serra
questo piccolo sacco
e vi affondo le mani…
Mamma, che sono
questi grani leggeri che mi sfioran le dita,
che mi gonfian le palme,

letto. Io sono una donna, ma devo essere più forte del povero Manzi che si è ammazzato per una
ragione uguale alla mia.», in A. POZZI, Diari, a cura di O. Dino e A. Cenni, Libri Scheiwiller,
Milano 1988, p. 47.

33
che mi coprono i polsi?
Briciole sono!
Briciole bianche, briciole di pane!
Mamma, mamma, ma sono
le tue lacrime, queste, le tue lacrime
che fioriscon così, per la mia vita!
Mamma, ma è il tuo
povero pianto, questo, tutto il pianto
che hai versato per me, l’ultima sera!
Tutto il tuo pianto, divenuto pane.

Repton, 12 luglio 1931

Antonia in qualche modo sapeva, intuiva, che la madre era per lei una presenza

in grado di invalidare l’enorme dolore che la attanagliava, ma era come se le

fosse impossibile raggiungerla, fondersi in comunione con lei: come se fra loro

si fossero imposti dei ruoli “altri” ormai impossibili da disattendere.

Ben interpreta anche in questo caso la Bernabò:

«Per la figlia femmina, soprattutto durante l’infanzia e l’adolescenza, il rapporto, non


importa se a volte polemico, con una madre sentita come forte è determinante e salvifico, perché
comporta, attraverso un modello e un riferimento adeguati, un opportuno radicamento nella
realtà, nonché la possibilità di inserirsi nel mondo liberamente e con agio a partire veramente da
se stessa, riservandosi il diritto di esistere in modo autonomo, e di esplicare una creatività che
vada oltre la maternità e, più in generale, le semplici funzioni di accudimento. Lina Pozzi, di
animo dolce e sensibile, ma anche decisamente colta (sapeva parlare bene il francese, conosceva
probabilmente anche l’inglese e leggeva moltissimo), avrebbe avuto tutti gli elementi per essere
un buon riferimento per la figlia (che in molti momenti della vita le fu grata per un amore che
intuiva grande e profondo); le fu però difficile esserlo completamente perché immersa in un
sistema culturale che negava al femminile qualunque forma di importanza simbolica e che,
oltretutto, si incarnava in un marito certamente cordiale e generoso, ma molto autoritario. È
dunque probabile che l’eccessivo protagonismo del padre all’interno della famiglia, e il fatto di
avere una madre succube dei suoi confronti, abbiano impedito ad Antonia, in certi momenti della
vita, di rivolgersi a lei come a una figura femminile forte, nella quale trovare un sostegno sicuro.
Forse per questo motivo cercò altri riferimenti femminili importanti nella nonna materna, in
Lucia Bozzi, in Elvira Gandini e nella signora Olga Treves (madre dei suoi amici Paolo e Piero);
e molto ne risentì quando li perse o temette di perderli per varie circostanze.»46.

Come accade con queste figure femminili – corpi reali che la circondavano –

46
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 54-55.

34
anche le montagne sono lette al plurale, un femmineo materno che si fa

molteplice apice di confronto, vario e frammentato forse proprio nella speranza

di non essere del tutto disperso, ma sempre ritrovato in un dettaglio fremente di

identità. Le montagne per Antonia sono le mamme47: sono figure di confidenti,

lette appunto al plurale anche nella loro idillica assolutizzazione. Le cime sono

figure del confronto che permettono una crescita, un’ascesa che in molti

momenti diventa quasi un’ascesi.

Come tutti i rapporti, quello con la montagna vive di differenti prospettive e di

molteplici proiezioni di desideri e bisogni, nella ferma convinzione, però, di un

affetto saldo e unificante, vivificato da una maturazione, un’elevazione possibile.

Le montagne sono allora per Antonia l’esempio di una resistenza che la guida

nella ricerca di quella risposta, faticosa da trovare ma durevole, salda, franca e

onesta, quasi una verità in grado di vivere al di fuori di ogni borghese

affettazione, oltre alla recita di ruoli convenzionali-famigliari, fuori anche da

quell’ambiente cittadino in cui lei, pur essendo molto giovane, vedeva assegnarsi

un ruolo mondano preciso, fosse anche solo quello di “brava scolara”.

Inizialmente è comunque la famiglia a darle la possibilità di entrare in contatto

47
Cfr. la poesia Le montagne in POZZI, Parole, p. 427: «Occupano come immense donne / la
sera: / sul petto raccolte le mani di pietra / fissan sbocchi di strade, tacendo / l’infinita speranza
di un ritorno. // Mute in grembo maturano figli / all’assente. (Lo chiamaron vele / laggiù, o
battaglie. Indi azzurra e rossa / parve loro la terra). Ora a un franare / di passi sulle ghiaie / grandi
trasalgon nelle spalle. Il cielo / batte in sussulto le sue ciglia bianche. // Madri. E s’erigon nella
fronte, scostano / dai vasti occhi i rami delle stelle: / se all’orlo estremo dell’attesa / nasca
un’aurora // e al brullo ventre fiorisca rosai. // Pasturo, 9 settembre 1937». Cfr. anche un passo
del diario scritto il giorno seguente, 10 settembre, recandosi a far visita al cimitero di Pasturo:
«Sono rimasta molto tempo con la testa appoggiata alle sbarre del cancello. Ho visto un pezzo
di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone e vi piantassero ogni
anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna. Pensare di essere sepolta qui non è
nemmeno morire, è un tornare alle radici. Ogni giorno le sento più tenaci dentro di me. Le mie
mamme montagne.», in POZZI, Diari, p. 50. In queste due date Antonia scrive di aver incontrato
un angelo.

35
con questo ambiente. Nel 1918 infatti il padre, Roberto Pozzi, acquista una villa

a Pasturo:

«un minuto paese della Valsassina, ai piedi della Grigna. Qui [Antonia] giunse per la
prima volta nel giugno del 1918 con la madre e la zia paterna Ida (il padre era ufficiale di
artiglieria sul fronte del Piave); e qui trascorse molti periodi della sua vita. Già nel 1917 i genitori
avevano deciso di acquistare una villa patrizia del Settecento, di proprietà dei Marchiondi, perché
Lina Pozzi desiderava ritrovarsi in un tipo di dimora che le potesse ricordare, anche se più
modestamente, le ville della propria famiglia, di cui aveva nostalgia.»48.

Antonia verrà subito conquistata dalla franca semplicità del posto: Pasturo è lo

spazio in cui il silenzio si allarga nelle sue giornate in modo amico, riportandola

alla radice più profonda di se stessa49. Un rifugio, dove negli anni ospiterà gli

amici più cari50. Questa la descrizione51 che ne dà nel 1926, contenuta nei suoi

Diari:

«Superato l’ultimo tratto di strada, ecco appare una vasta conca verdeggiante,
circondata da montagne nevose e cosparse di ridenti paeselli. Laggiù, occhieggiante tra il verde,
sorge, ai piedi della Grigna settentrionale, il villaggio ove passo le vacanze che, al pari di un
bimbo pauroso che si aggrappa alle gonne della mamma, si inerpica sul fianco della gran
montagna che lo sovrasta, quasi per chiederle protezione.
Sul davanti lo sguardo può spaziare liberamente fino all’opposto versante. Ecco la
strada maestra che percorre la vallata e che accoglie da ambe le parti le stradicciuole sassose che
scendono da ogni paesello, come torrenti che scendono al fiume. Laggiù, fiancheggiato da verdi
prati, rumoreggia il torrente che, scendendo da un’altra valle, scorre in uno stretto e altissimo
burrone (che si scorge là in fondo, tra due monti), sul quale si stende un ondeggiante ponticello,
detto “ponte di corda”, dalle corde di ferro che lo sostengono. Lassù le cime, candide d’inverno,
cosparse nelle parti più basse di umili baite, di rozze cappellette, elevate ai Santi o alla Madonna,
o di piccoli santuari, dai quali echeggia a mezzodì un allegro e argentino scampanio, tosto seguito
dalle voci gravi dei campani dei villaggi.
Nel placido silenzio dei monti, risuonano di tratto in tratto il canto di una pastorella, il
muggito di una mucca, le grida dei carrettieri, il cigolio dei carri e, molto raramente, il pulsare
di un’automobile; una rarità per gli umili montanari che solo ora conoscono le meravigliose
opere del progresso, ma che, vivendo tra le bellezze della natura, potrebbero insegnarci di essa

48
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 29.
49
Cfr. la lettera scritta a Remo Cantoni da Pasturo il 14 aprile 1935, che riporto più avanti e che
si trova in POZZI, Ti scrivo…, pp. 215-217.
50
Ibidem.
51
«Un’esercitazione scolastica raccolta nel Quaderno (1925-1927)» secondo Marco Dalla Torre.
Cfr.: DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, p. 14.

36
tante cose belle.»52.

Il continuo ricorso alla deissi spaziale (laggiù, lassù, là), l’insistenza dei

diminutivi (paeselli, cappellette, stradicciuole, ponticello, pastorella) e le

interiezioni volte a coinvolgere all’interno della narrazione il lettore (ecco),

supportate da un ricorso frequente a suoni e colori in sinergia sinestetica ed

onomatopeica (conca verdeggiante, ridenti paeselli, rumoreggia il torrente, le

cime candide d’inverno, echeggia a mezzodì un allegro e argentino scampanio,

il canto di una pastorella, il muggito di una mucca, le grida dei carrettieri, il

cigolio dei carri e il raro pulsare dell’automobile) testimoniano già un sapiente

uso della lingua italiana per una quattordicenne intenta a descriverci

un’immagine che le è cara e che le è come sempre presente davanti agli occhi,

quasi si trattasse di una pittura paesaggistica incorniciata53 e appesa nella propria

stanza. È necessario ricordare infatti che Antonia, all’altezza del 1926, sta

ricevendo un’educazione diversificata e ampia, si esercita nel disegno e nella

52
POZZI, Diari, pp. 29-30.
53
Già in Spazzolate di vento, la sua prima poesia, Antonia sembra descrivere un quadro
incorniciato dal telaio della finestra. Usa infatti l’espressione «mi spicca a m’incornicia» per
denotare il limite entro cui si esercita il suo sguardo poetico. Cfr., POZZI, Parole, p. 41.

37
scultura54, e che più tardi approderà alla fotografia55, intesa non come banale

passatempo ma come un linguaggio alternativo e parallelo rispetto alla poesia

attraverso il quale dare voce alle cose.

Antonia inoltre studierà Lettere e Filosofia all’Università, laureandosi in

Estetica: tutti indizi che sottolineano l’importanza che assume per lei l’idea di

un’immagine condensata di bellezza, intesa in un legame non superficiale ma

profondo con il reale, specchio di una verità delle cose che sembra nascondersi

fra candide vette – ardue da raggiungere – e, contemporaneamente, nel placido,

semplice, silenzio dei monti – ove è lecito perdersi in contemplazione –. Il

silenzio di Pasturo descritto in queste pagine di diario perfora tutta la realtà,

permane in essa, quasi immobilizzandola, traendola fuori dal tempo, se non fosse

per il raro pulsare di un’automobile che annuncia il progresso, il fluire sincopato

di un ritmo distante, diverso, ontologicamente estraneo perché teso ad

un’evoluzione per cui questo piccolo mondo non è stato creato. Il paesello di

54
Cfr. l’introduzione di Graziella Bernabò a POZZI, Ti scrivo…, p. 14: «Dall’epistolario emerge
l’educazione di prim’ordine impartita ad Antonia, la quale poté integrare gli studi regolari con
lezioni private di disegno, lingue straniere e pianoforte, con viaggi di studio in Italia e, a un certo
punto, anche all’estero, nonché con la pratica di vari sport, come il tennis, il nuoto, l’equitazione,
lo sci, l’alpinismo, che le era particolarmente caro.». Si confrontino anche in ivi, pp. 52-53 la
lettera del 03 giugno 1923 ai genitori: «Sapete che ho finite quelle famose foglie a colori? Sono
venute davvero una meraviglia»; e sempre in ivi, p. 58 la lettera alla madre del 12 agosto 1925,
scritta dal passo Tre Croci: «Io non ho ancora disegnato niente, ma con la Maria [Giussani,
compagna di scuola, e inoltre figlia di un collega del padre] ci proponiamo di copiare qualche
cima, sperando di riuscirvi.»; infine sempre in ivi, pp. 59 – 60 la lettera alla nonna Nena del 22
gennaio 1926, in cui, dopo averla ragguagliata sulla pagella scolastica, scrive: «Le lezioni a casa
proseguono bene: di disegno sto colorando con le matite un ramoscello di quercia con le sue
brave ghiande. Al piano suono ora alcune Romanze senza parole di Mendelsshon, molto belle, e
la Rêverie di Debussy, difficiletta, specie per l’espressione.».
55
Cfr. il saggio di Ludovica Pellegatta “Ora intatta, ora sospesa”: Antonia Pozzi e la fotografia
contenuto in AA. VV., … e di cantare non può più finire… pp. 105-114 e il relativo apparato
fotografico. Ne riporto l’incipit: «Ora intatta, Ora sospesa, la fotografia per Antonia Pozzi è
tensione verso una continuità e un rapporto a tempo lungo con l’esistente, un tempo “debole” e
contemplativo che dà la parola alla vita, è possibilità di prolungare l’incontro con il mondo,
ricerca di un momento di equilibrio, più che del “momento decisivo”. Poesia e fotografia nella
Pozzi rappresentano sin dagli inizi due voci di una stessa verità.», in ivi, p. 105.

38
Antonia è una realtà che ama essere scandita solo dai versi famigliari dei suoi

abitanti, siano essi umani (la pastorella, il carrettiere), animali (la mucca), o

oggetti (i carri). Una realtà che ha bisogno di protezione come un bimbo pauroso

che si aggrappa alle gonne della mamma. Pasturo sembra essere lei stessa, un

bimbo che si inerpica al fianco della gran montagna che lo sovrasta. Ed è forse

per questo che Antonia ne resterà per sempre attratta: ce ne fornisce un riassunto

per punti che sembra quasi il tracciare le linee di un autoritratto, un guardarsi

allo specchio, tanto presente e vivida è la descrizione dei dettagli, tanto

famigliare il trascorrere delle lente e salde abitudini. A distanza di anni

confesserà in una lettera a Remo Cantoni56, scritta proprio da Pasturo il 14 aprile

1935, il permanere di questo senso di profonda famigliarità con un luogo in

grado di essere un porto sicuro, di riportarla a se stessa:

«… ti scrivo dal mio vecchio tavolo, dalla mia vecchia cara stanza 57. Fuori sta già
venendo sera. Guardo dalla finestra bassa e larga le cime dei pini contro il cielo pallido: erano
tre, qui davanti, fino all’anno passato; ma poi uno ammalò e gli dovemmo tagliare tutta la punta.
Adesso, a vederlo così monco, fa malinconia.
Dunque sono qui, dopo tanti mesi d’inverno, dopo tanta vita. Qui, a questo tavolo che
io chiamo il mio porto. Ho trovato sopra una sedia un giornale del 15 ottobre 1934 (“L’assassino
di Re Alessandro sarebbe certo Georgiev?”). Che silenzio, qua dentro, da allora. E io via, proprio

56
Cfr. in POZZI, Ti scrivo…, la nota in accompagnamento alla lettera a p. 215 che ci introduce
alla sua figura: «Cantoni [1914-1978] – che, a breve, sarà ospitato a Pasturo dai Pozzi per
rimettersi da una malattia polmonare – è uno dei principali allievi di Antonio Banfi. A. P. prova
per lui un sentimento d’amore, che inizialmente crede ricambiato; ma capisce presto di essere
per Remo soltanto un’amica, sebbene carissima. Cantoni fondò con Banfi la rivista “Studi
filosofici” (1940-1949) e successivamente fondò e diresse “Il pensiero critico” (1950-1962).
Elaborò, sulle tracce della filosofia banfiana, un pensiero definito “umanesimo critico” e
introdusse in Italia l’antropologia filosofica. Tra le sue opere si ricordano in particolare: Il
pensiero dei primitivi (1941); Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij (1948); La coscienza
inquieta. Sören Kierkegaard (1949); Mito e storia (1953); Umano e disumano (1958); Tragico
e senso comune (1963); Illusione e pregiudizio. L’uomo etnocentrico (1967); Che cosa ha
veramente detto Kafka (1970).».
57
Lecito chiedersi se la Pozzi abbia letto il testo di Virginia Woolf, A room of your own (Una
stanza tutta per sé), del 1929. Nella biblioteca conservata a Varese, che riproduce solo ciò che
la poetessa possedeva a Pasturo, è presente Flush, nell’edizione Mondadori del 1934 (Medusa,
41).

39
come una nave da carico per i mari, a raccogliere merci in tutti i paesi; e poi una mattina,
finalmente, torna a vedere la sua baia, la sua terra, si accosta al molo, apre tutte le stive… Anch’io
apro la stiva, calo giù grossi uncini, scarico la mia merce sulla banchina: la roba buona si tiene,
la cattiva si butta a mare. E tutti gli anni è così: quando rientro in questa stanza e guardo i rami
di fiori disegnati sulla tappezzeria e respiro questo odore speciale dei mobili, dello zoccolo di
legno, istintivamente, in un attimo, mi faccio come un esame di coscienza: tutto quello che ho
vissuto fuori di qui, quello che ho aggiunto alla mia anima e che queste pareti non sanno ancora,
mi si riassume così nitidamente nel pensiero, come se qui qualcuno mi domandasse ragione della
mia vita. Quando dico che qui sono le mie radici non faccio solo un’immagine poetica. Perché
ad ogni ritorno fra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e
chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri. E queste pareti se ne sono fatte
custodi, così che, quando rientro qui, tutto il mio passato, tutto quello che sono stata, per cui sono
– oggi – quella che sono, mi balza incontro ed io ritrovo la più completa me stessa. Qui non sono
solo raccolte tangibilmente tutte le immagini delle persone care, dei luoghi amati e non più
veduti, delle cose d’arte predilette, ma l’aria stessa è come se conservasse l’eco delle voci,
l’ombra dei volti, il senso delle ore vissute.
Ho tanta voglia che tu venga qui. Sempre, tutte le persone a cui ho voluto più bene, ho
desiderato che venissero qui; perché vederle qui è come una consacrazione, una benedizione
dell’affetto che mi lega a loro e mi sembra che poi non potrò mai veramente perderle, che qui
potrò sempre ritrovarle vive, anche quando saranno lontane e mi avranno dimenticata.
Oggi ho fatto una breve passeggiata fino a un bosco vicino. Fa ancora freddo, gli alberi
sono completamente nudi. Ma nei prati ci sono moltissimi fiori: le viole, le primule, i giacinti,
l’erica rossa sotto i castani. Le miosotidi sono piccole e chiuse: in maggio diventano alte, i prati
sono tutti azzurri. Quando verrai, ci saranno più fiori che erba. A pensare che tu vedrai questo
mio paese, queste cose umili, tutto mi sembra così angusto, misero, brullo: vorrei raccomandare
alle cose di farsi il meno brutte possibile, all’aria d’essere dolce, al sole d’essere chiaro, sapendo
che tu vieni.
Stamattina un uomo del paese, un vecchio, s’è fermato al cancello: ha voluto che
portassi alla mamma un pezzo del ramo d’ulivo che aveva preso in chiesa. Mi ha tanto
commosso. Qui non c’è che gente taciturna, rozza: ma io penso che se un giorno resterò sola e
verrò a vivere qui, il saluto di questi vecchi baffuti, di queste donne sdentate, il sorriso dei
bambini sudici che mi vengono nelle gambe, mi consolerà molto…».58

La soavità con la quale l’amato amico viene introdotto nel proprio porto più

intimo rende certi dell’intenso carico emotivo che Antonia riversava su

quell’ambiente, in grado di farle da specchio interiore e da moltiplicatore della

realtà esterna: «questo mio paese, queste cose umili», chiamate quasi a

completare la figura della poetessa diventando meno brutte possibile59 per

58
Ivi, pp. 215-217.
59
Cfr. per espressioni e sentimenti simili verso Pasturo, la lettera del 13 luglio 1929 ad Antonio
Maria Cervi, dove anticipa il tema del ritorno presente nella lettera a Cantoni: «Cervi caro, voglio
dedicare a lei questa prima sera che passo nel mio brutto dolce paese. Che cosa è un ritorno?
Una cosa che, per qualche ora, scioglie i groppi duri che separano l’oggi dall’ieri e fonde il
passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo. La mia anima di oggi, la
mia anima dell’anno passato, si sono ritrovate senz’urto e restano ancora abbracciate, stasera, in
questo mio studio strano, fatto di mobili vecchi, accattati un po’ dappertutto; lo zoccolo di legno,

40
colpire l’amato e farsi amare al posto suo.

Ma se in Pasturo la poetessa vedeva il luogo in cui le era possibile ritrovare la

più vera se stessa, esaminare le proprie evoluzioni scandite dallo scorrere del

tempo e dal mutare degli eventi, scandagliare il valore della merce raccolta in

tutti i paesi, buttando a mare quella cattiva, inutile, non furono meno

fondamentali per lei le relazioni che si svilupparono con altre località di

montagna, quali Madonna di Campiglio, San Martino di Castrozza, Breil

(odierna Breuil-Cervinia). Località già in quei tempi molto rinomate e

frequentate – oltre che da alpinisti appassionati – da borghesi abbienti,

villeggianti raffinati, osservati da Antonia con un distacco cinico, quasi

sofferente, che la porta, per reazione, a fondersi ancora più intimamente, quasi

selvaggiamente, con lo spirito e la natura del luogo.

«Cia cara, il silenzio è nelle nostre abitudini e non te ne chiedo perdono. Ho trovato qui
quello che prevedevo: ragazzine dipinte e ragazzi scemi che stanno a guardarle. Noi, per fortuna,
non conosciamo nessuno; stiamo sempre soli e ce la passiamo bene, nonostante il perfido tempo.
Appena posso giro la pineta con un’assetata smania di fanciullerie: le labbra me le dipingo col
nero dei mirtilli. Sulle pareti della sala da pranzo c’è affrescata una mirabolante flora alpina,
intercalata di quadretti e di figurine: sovra il mio tavolo c’è un roccione livido e ai piedi un nano
barbuto che addita. Più lontano c’è una fatina presso una cascata, che mi ricorda Rautendelein.
Perché ti racconto queste sciocche cose? Non so. So che ho il cuore gonfio di tutte le mie fantasie
di bambina. Ieri è stata l’unica giornata di sole, finora: siamo saliti ad un rifugio ed ho colto un
mazzo di stelle alpine, su un prato ripido, sfiorato di purissima brezza… Ti annuncio con dolore
che la Musa è morta: non so che cosa le sia successo, povera piccola. Ma chissà che oggi non
resusciti, tutta ammollita di pioggia, davanti a queste nubi soffocanti che premono sulla pietra
nera…»60.

l’armadio a muro, odoroso di pino, la finestra bassa e larga, il soffitto e le pareti irregolari gli
danno l’aspetto di una baita alpestre.», in POZZI, Ti scrivo…, pp. 90-91. Così invece alla nonna
Nena in una lettera del 25 agosto 1929: «Mia carissima Nena, da quattro giorni siamo tornati
nelle nostre brutte e care montagne.», in ivi, p. 94.
60
Ivi, pp. 92-93. Si tratta della lettera spedita alla Cia, l’amica Lucia Bozzi, da Madonna di
Campiglio il 05 agosto 1929.

41
In questo breve scritto possiamo notare alcune affiliazioni di Antonia rispetto a

mondi lontani evocati attraverso i propri ricordi fanciulleschi, immagini che si

ravvivano intrecciandosi ad alcuni modelli culturali per lei molto affascinanti,

avvolgendola in un’atmosfera di fiaba dalla quale è come romanticamente

sopraffatta. La montagna è quindi in relazione con un sentimento fiabesco già

espresso e diffuso da una certa temperie culturale, conosciuta da Antonia sin da

bambina anche attraverso la musica61. Il personaggio di Rautendelein è, secondo

la nota riportata nel volume da cui è tratta la lettera, «la piccola fata del dramma

fiabesco La campana sommersa di Gerhart Hauptmann [Die versunkene Glocke

del 1896] trasformato in opera lirica da Ottorino Respighi 62, su libretto di

Claudio Guastalla. La prima rappresentazione avvenne ad Amburgo nel

1927.»63.

Confrontando la poesia di Antonia, la sua ciclica riproposizione di mondi

connessi alla dimensione del sogno, della fiaba, di ciò che è liminale e a volte

oscuro, orfico64, in connessione anche a stati di oppressione, sofferenza acuta o

61
Cfr. ad esempio la lettera alla Nena del 22 gennaio 1926 in ivi, pp. 58-61, in cui è presente un
elenco di opere liriche amate fra cui: il Ballo in maschera di Verdi, il Faust di Gounod, la
Butterfly di Puccini, i Maestri Cantori di Wagner, la Carmen di Bizet, l’Hänsel e Gretel di
Humperdinck e il Carillon Magico di Pick-Mangiagalli.
62
Il riferimento di Antonia a questo compositore non è episodico. Nella lettera già citata del 13
luglio 1929 al Cervi Antonia scrive: «Prima di venire a scriverle, ho sonato le Fontane di Roma,
per levigarmi l’anima. […] Non è avvilente, Cervi, sentirsi più purificati per effetto della musica
che per effetto della propria volontà?», in ivi, p. 91. Come accennato in precedenza, Antonia
prende lezioni di pianoforte e la musica è sicuramente una delle arti che l’accompagnerà tutta la
vita. Le fontane di Roma che ella cita è un poema sinfonico, ossia una composizione musicale
per orchestra che sviluppa musicalmente un’idea poetica, concentrandola in un unico ampio
movimento. Erede diretta della musica a programma di epoca romantica. Fu composta da
Respighi nel 1916.
63
Ivi, p. 93.
64
Per comprendere il senso di questo aggettivo, si legga il saggio di Alessandra Cenni contenuto
in POZZI, Lieve offerta…, pp. 7-14, in particolare i seguenti passaggi: «Nella poesia di Antonia
Pozzi, come in quella dell’amato Rilke, avviene un’orfica dissoluzione della vita in canto. Il
destino di una vita diventa ritmo universale del tempo rifluendo nelle vene cosmiche. Il poeta

42
desiderio di evasione molto personali, si intuisce una vena sommersa della sua

anima, come trattenuta e sfogata nei versi quasi fosse un atto di ribellione: una

voce a cui aveva creduto sin da bambina ma che sapeva non sarebbe stata

compresa né tantomeno accettata, soprattutto nell’ambiente culturale a cui era

legata negli ultimi anni universitari – gli anni della messa alla prova definitiva

del suo valore personale e poetico –. Si tratta del periodo dell’incontro con il

magistero del prof. di Storia della Filosofia ed Estetica Antonio Banfi65, al quale

più vicino ad Antonia Pozzi, anche per l’area linguistica da lei prediletta, è stato appunto Rainer
Maria Rilke. Egli più di ogni altro ha rappresentato il momento orfico del ‘900 come ricerca
incessante di un’armonia irraggiungibile. La poesia torna così al suo momento fondativo, quello
in cui, secondo il verbo di Nietzsche, sposa la retorica e la musica. […] Oltre alla tragica figura
del poeta [Orfeo] che perde per uno sguardo di desiderio l’amata Euridice rapita agli Inferi,
occorre soffermarsi sul significato della sua eccellenza nel canto, sulla sua capacità di ammansire
gli animali, di incantare la natura e fondere il proprio canto dì amore e di dolore con il cosmo
tutto. Nel Malte Lauris Brigge di Rilke, Antonia aveva studiato le parole che intendevano dare
forma a questo indicibile senso del tempo. La scalata di una montagna diventa vento e l’aria
stessa una vela in mare. Rilke vuole rappresentare le cose, nella loro semplice sussistenza, ma
mentre dà loro i nomi, le fa nascere. E mentre vivono contempla il frutto della loro morte, che si
prepara. Questo senso amoroso del tempo, il tempo cosmico, ciclico, è anche quello della poesia
di Antonia Pozzi, che non cede mai a tentazioni metafisiche o al culto del verbo, ma, nella sua
semplice sussistenza, analogamente a quella del suo amico Vittorio Sereni, aderisce ai ritmi
profondi della natura.».
65
«Antonio Banfi (1886-1957) insegnava Storia della filosofia ed Estetica presso la Regia
Università degli Studi di Milano. Estraneo all’idealismo imperante in quell’epoca nelle
università italiane, Banfi era vicino al neokantismo della scuola di Marburgo, alla fenomenologia
di Husserl, al pensiero di Simmel e di Scheler. Sulla base della filosofia tedesca contemporanea,
aveva elaborato un pensiero antimetafisico e antidogmatico, che fu definito “razionalismo
critico”. Successivamente aderì al marxismo. Negli anni 1940-1949 diresse la rivista “Studi
filosofici”. Molte le sue opere, tra le quali: La filosofia e la vita spirituale (1922); Principi di
una teoria della ragione (1926); L’uomo copernicano (1950); La ricerca della realtà (2 voll.,
postuma, 1959); Saggi sul marxismo (postumi, 1960). Per i suoi studi di estetica cfr. A. Banfi,
Vita dell’arte. Scritti di estetica e di filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli – G. Scaramuzza,
con la collaborazione di L. Anceschi e D. Formaggio, Istituto Antonio Banfi – Regione Emilia
Romagna, Reggio Emilia 1988 (“Opere”, V).», in POZZI, Ti scrivo…, p. 219. Banfi fu professore
della Pozzi nell’a.a. 1933/’34, quando tenne un corso di Storia della Filosofia su Nitzsche.
Probabilmente la Pozzi seguì anche il corso dell’anno seguente, pur essendo fuori corso, tenuto
su Spinoza. Banfi fu relatore della sua tesi di laurea su Flaubert, malgrado la Pozzi avesse seguito
il corso di Lingua e Letteratura Francese con Francesco Remigereau, sempre nell’a.a. 1933/’34,
dedicato in parte a “La vita e l’opera di G. Flaubert”. Questa scelta fu dovuta anche
all’importanza data alla metodologia adottata nella redazione di un testo di natura critica come
la tesi, piuttosto che all’argomento trattato. In merito a queste notizie e alla frequentazione di
Banfi da parte della Pozzi negli anni universitari e, infine, per un approfondimento circa i corsi
effettivamente seguiti, si veda M.M. VECCHIO, Gli appunti universitari inediti di Antonia Pozzi,
in AA. VV., … e di cantare…, pp. 333-358.

43
la Pozzi fece leggere la raccolta delle dieci poesie de La vita sognata,

condensazione sublimata nell’arte della sua esperienza amorosa-dolorosa con

Cervi, e quindi rientrante – dal suo punto di vista di allieva, in quel momento –

nella dinamica dell’insegnamento del suo professore, non ricevendone però la

risposta che si aspettava:

«Se non abbiamo notizia di un giudizio positivo di Banfi sui versi della Pozzi (ma
neppure di altre sue allieve del resto), non è difficile congetturare che in essi egli intravedesse
appunto un modo inadeguato di rispondere alla crisi e, in controluce, una visione del mondo
parziale. Banfi proponeva una storicizzazione della crisi, una superabilità per chi sapesse
collocarsi nel solco del divenire storico; il suo atteggiamento implicava una fiducia ottimistica.
Nella poesia dell’allieva doveva invece vedere sedimentate ragioni fragili, una reazione troppo
debole: eccedenze contemplative, tonalità estetico-ricettive (“femminee”), tendenze al
ripiegamento interiore, che poteva comprendere, ma non condividere
Le sue riserve nei confronti del soggettivismo, e verso figure della crisi predilette da
Antonia Pozzi e dai suoi amici più cari, dovevano d’altronde finire col sottovalutare qualcosa di
profondamente radicato in lei. L’atteggiamento di Banfi (consono peraltro al suo filosofare)
psicologicamente non poteva esser letto che come uno stimolo a proiettarsi oltre la dolorosa
densità delle esperienze attraversate, a non soffermarsi su di esse, a non volger lo sguardo
indietro – quasi come un invito a “dimenticare”, potremmo dire in altri termini. E con ciò
rischiava di compromettere quel sofferto riconoscimento della realtà (consegnato nella poesia)
da parte di Antonia Pozzi, che solo poteva far argine alla sua disperazione.»66

La Pozzi cercava così di adattarsi e ri-crearsi sul modello culturale razionalista

del mondo banfiano, rinnegando questi “sogni”, queste parole, questo “modo

d’essere” profondamente diverso, in cui credo l’elemento nordico/germanico

tradotto in fiaba abbia, a suo modo sommessamente, scavato un certo spazio.

Uno spazio importante proprio perché Antonia lo rintracciava nella sua relazione

con una natura di montagna in grado di far risuonare in armonica dissonanza

tutte le voci che le dittavano dentro67, anche quelle apparentemente più distanti

66
G. SCARAMUZZA, Antonia Pozzi tra gli allievi di Banfi, in ivi, p. 42.
67
Mi riferisco a Purgatorio XXIV, quando Dante incontra Bonagiunta Orbicciani e nel
riconoscersi i poeti si rivolgono i seguenti versi: «Ma dì s'i' veggio qui colui che fore / trasse le
nove rime, cominciando / `Donne ch'avete intelletto d'amore'”. / E io a lui: “I' mi son un che,
quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando”.». D. ALIGHIERI,

44
da una immediata e razionale concretezza delle cose. La lotta struggente di

Antonia, ancora più dolorosa per noi da leggere nella consapevolezza che è stata

vissuta nascostamente e in solitudine, portò la poetessa, come giustamente

sottolinea Alessandra Cenni guardando la sua parabola attraverso il mito di

Orfeo, a «compie[re] il cammino di Orfeo per ritrovarsi Euridice, come accadrà

a Marina Cvetaeva, poetessa dell’anima anch’essa catturata dal mito, il proprio

stesso mito di morte.»68.

Vorrei proporre l’analisi di due poesie, Fiabe e Tempo69, in cui questo elemento

fiabesco, posto in relazione con la natura di montagna, si rende più evidente, e

dove ricompare come importante fonte il libro di C.F. Wolff, I monti pallidi. Già

Graziella Bernabò nel suo Per troppa vita che ho nel sangue, analizza queste

poesie70 scritte in un anno molto critico, il 1935, l’anno della tesi sulla

formazione letteraria di Flaubert e della caduta delle illusioni amorose verso

Remo Cantoni. La studiosa sottolinea l’impossibilità per Antonia di superare il

conflitto posto in essere fra la sua essenza – femminile, poetica e culturale – e

l’implicito modello da soddisfare per aderire alla “scuola” filosofica che fa capo

al suo relatore, Antonio Banfi. Una scuola di pensiero che è anche un gruppo di

giovani studiosi e amici con il quale questa sua essenza tripolare si confronta

quotidianamente, intimamente ed esplicitamente. Un ambiente che le è molto

caro, ma pur sempre rappresentato da un mondo maschile, razionalista,

La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002, p. 449-450,


vv. 49-54.
68
POZZI, Lieve offerta…, p. 9.
69
Rispettivamente a p. 360 e p. 379 di POZZI, Parole.
70
Cfr.: BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 242-247.

45
sospettoso nei confronti della lirica (o quantomeno di un certo modo romantico-

sentimentale di intenderla come “sfogo” personale)71.

Diventa facile allora comprendere come la personalità ancora in fieri di una

giovane donna come Antonia, ancora insicura del proprio valore e del proprio

immenso potenziale, sia stata infine travolta dalla sua stessa forza, proprio per

troppa vita che aveva nel sangue72. Ma questa vita, nelle sue lotte, prima di

soccombere, aveva tuttavia il coraggio di cantare così:

Fiabe Tempo

Vai a un reame di vento, I


cauta rechi
sul capo una ghirlanda Mentre tu dormi
di primule. le stagioni passano
sulla montagna.
Sugli alberi le donne
con i capelli verdi, La neve in alto
nelle cascate i nani struggendosi dà vita
che sanno il destino – al vento:

71
«È verosimile che, nell’ambiente banfiano, Antonia Pozzi fosse sottovalutata, non già come
studiosa, ma piuttosto rispetto alle sue capacità poetiche e, quel che è peggio, alla sua stessa
personalità. La sua natura estremamente sensibile e vibrante e il legame, costante in lei, tra
istanza intellettuale e desiderio affettivo, lo stesso suo alto concetto della relazione, amicizia o
amore che fosse, sconcertavano e spaventavano i giovani del gruppo Banfi, senza peraltro
escludere una simpatia nei suoi confronti.». Mi permetto di ricalcare parte della bellissima
citazione che la Bernabò trae dal testo Filosofia e poesia della poetessa spagnola Maria
Zambrano, leggendo nel distacco fra Antonia e i suoi compagni della facoltà di Filosofia, lo
stesso distacco che si operò fra il logos poetico e il logos filosofico, già ai tempi di Platone e che
portò: «“alla vita rischiosa della poesia, quasi respinta ai margini della legge, maledetta, costretta
a vagare su accidentati sentieri, sempre sul punto di perdersi, esposta al continuo pericolo della
follia”. Il filosofo, – dice la Zambrano – “procedendo lungo la via della ragione, si pone al riparo”
dalla “luttuosa malinconia delle belle apparenze. La ragione è effettivamente la speranza. Ma a
costo di quali rinunce! Il poeta invece non rinuncia. Nessuno lo convincerà mai a rinunciare,
nessuno lo consolerà del giorno che passa, né lo persuaderà mai ad accettare il cinereo
trasformarsi degli occhi amati, il dileguarsi, nelle brume del tempo, del fantasma amato. Niente
e nessuno.”», in ivi, pp. 192-193.
72
Cfr. la poesia Sgorgo del 12 gennaio 1935 in POZZI, Parole, p. 344: «Per troppa vita che ho
nel sangue / tremo / nel vasto inverno. // E all’improvviso, / come per una fonte che si scioglie /
nella steppa, / una ferita che nel sonno / si riapre, // perdutamente nascono pensieri / nel deserto
castello della notte. // Creatura di fiaba, per le mute / stanze, dove si struggono le lampade /
dimenticate, / lieve trascorre una parola bianca: / si levano colombe sull’altana / come alla vista
del mare. // Bontà, tu mi ritorni: / si stempera l’inverno nello sgorgo / del mio più puro sangue, /
ancora il pianto ha dolcemente nome / perdono. // 12 gennaio 1935».

46
dietro la casa il prato parla,
i pallidi guerrieri fra le barance, la luce
le fanciulle che muoiono beve orme di pioggia sui sentieri.
per desiderio di sole –
Mentre tu dormi
e le capanne abbandonate anni di sole passano
fra le miosotidi, fra le cime dei làrici
le pianure e le nubi.
d’asfodeli in cima alle rocce –
II
porte che si spalancano
su tesori sepolti, Io posso cogliere i mughetti
arcobaleni che giacciono mentre tu dormi
infranti nei laghi – perché so dove crescono.
E la mia vera casa
Sali per la morena azzurra, con le sue porte e le sue pietre
tra filari di guglie grigie: sia lontana,
porti sulle spalle né io più la ritrovi,
un bambino ma vada errando
addormentato. pei boschi
eternamente –
18 febbraio 1935. mentre tu dormi
ed i mughetti crescono
senza tregua.

28 maggio 1935

Nella poesia Fiabe è racchiuso tutto il senso dell’amore di Antonia per il mondo

fatato raccontato da Wolff: può essere talmente dolce il rievocarlo da far

addormentare un bambino, può essere trasmesso in semplicità anche all’anima

più pura, insegnando una bellezza magica che dona pace al cuore. Dico

‘racchiuso’ perché la prima e l’ultima strofa sembrano maggiormente connesse

ad una situazione-stimolo reale o realistica73, una passeggiata in montagna che

presuppone il valico di un passo (il reame di vento può esserne metafora) e

73
Anche per queste due immagini si potrebbero cercare dei riferimenti, ma credo che siano usate
più con un valore di introduzione e conclusione al mondo del racconto, in modo da permettere
un collegamento fra lo spazio della fiaba e quello del reale. Una relazione dolce poiché si tratta
di una cornice creata dallo sguardo poetico della Pozzi (e dunque comunque allusivo e
metaforico). In ogni caso per il bambino addormentato si può considerare almeno la leggenda
de I fiori di Lagorài in WOLFF, I monti pallidi…, pp. 37-44, ove si narra dell’incontro fra una
pietosa donna, Dina, e un bambino smarritosi nel bosco, entrambi orfani di vero affetto.

47
quindi un’ascesa in montagna che si conclude ai bordi di un ghiacciaio (Sali per

la morena azzurra). Il mondo delle fiabe non ha bisogno di un avvallo culturale

‘alto’ per essere creduto: sul capo Antonia non porta l’alloro dei poeti ma una

colorata e freschissima ghirlanda di primule. La fiaba si tramanda per

generazioni attraverso la calda cultura dell’oralità e non viene messa in

discussione proprio perché totalmente altra dalla realtà quotidiana, seppur

profondamente intrecciata con la sua natura più selvaggia e misteriosa,

inconoscibile o difficile da spiegare (oltre che con un passato feudale mitizzato

dei cui resti – torri, castelli, fortezze – siamo ancora oggi testimoni in Europa).

Le fiabe sono il primo modo di orientare un bambino alla distinzione fra il bene

e il male presenti nel mondo, fra ciò che è permesso e ciò che non lo è: e quanto

avrebbe amato Antonia sentirsi sulle spalle il peso di quella dolce educazione

che l’avrebbe elevata, l’avrebbe fatta sentire perennemente in ascesa verso le sue

guglie grigie!74

74
Così scrive in una lettera alla cara amica Alba Binda il 20 giugno 1935 nel pieno della tempesta
sentimentale con Remo Cantoni (il quale, presumibilmente da fine maggio, aveva passato un
lungo periodo con lei e la sua famiglia a Pasturo per riprendersi da una malattia polmonare):
«Mia cara cara Alba, io mi sento più che mai Tonia Kröger, come diceva il povero Manzi, e
queste mie montagne sono le uniche cose mute e fedeli con le quali so intessere delle misteriose
trame di affetto. Credo veramente che il mio destino sarà di scrivere dei libri di fiabe per i
bambini che non avrò avuto. Tuffarmi nella realtà sarebbe un perdere il meglio di me stessa e
smarrire completamente il senso della mia vita.», in POZZI, Ti scrivo…, p. 219. Quasi con le
stesse parole si rivolge in due lettere del medesimo giorno a Remo Cantoni e a Vittorio Sereni:
«Forse il mio destino sarà davvero di scrivere dei bei libri di fiabe per i bambini che non avrò
avuti.». Cfr. ivi, p. 222 a Sereni e p. 218 a Cantoni con un “davvero” anticipato, subito dopo il
“forse”. Questo passaggio dal “credo” concesso ad Alba, al “forse” indirizzato ai due uomini,
insinua il dubbio che Antonia, nello scrivere, considerasse il diverso punto di vista dei referenti
sul problema. Probabilmente pensava che quello che si prefiggeva come un possibile obiettivo
per una vita attiva potesse essere visto quasi come troppo ingenuo, troppo al di fuori dai modelli
culturali dei due compagni, quasi una regressione rispetto al loro modo di intendere la letteratura.
È sicuramente uno slittamento linguistico interessante che andrebbe approfondito e che non resta
isolato raffrontando le tre lettere, molto simili ma non identiche per contenuto. Qui interessa
sottolineare il rapporto con le montagne, mute e fedeli, le uniche con le quali la poetessa sa
intrecciare misteriose trame d’affetto, come richiamo ad un destino che relazioni, intrecci il
mestiere di scrivere con una maternità universalizzata, poiché negata nella sfera privata.

48
Nelle quattro strofe centrali – tutte come inserite in inciso (vedi l’uso del trattino

alla fine di ognuna) e colte nell’immediatezza quasi fotografica di quadretti

scorti e ‘rubati’ durante la salita per poi essere rivissuti e descritti nel ricordo

della poesia –, Antonia compie una carrellata dei personaggi che l’hanno

accompagnata a scoprire via via le bellezze uniche della natura montana. Alberi,

cascate, barance, sole, miosotidi, pianure d’asfodeli in cima alle rocce,

arcobaleni che giacciono infranti nei laghi, sono tutti elementi di una natura

reale colta e riproposta con occhi di fiaba: sono infatti tutti75 accompagnati da

creature delle leggende di Wolff.

«Sugli alberi le donne / con i capelli verdi» si riferisce alle mitiche Anguane76,

ninfe presenti nella saga di Wolff Il regno dei Fanes77 pubblicata in Italia nel

1932. A questo libro Antonia si riferisce anche nei versi immediatamente

successivi: «nelle cascate i nani / che sanno il destino». Questi personaggi infatti

avevano predetto il futuro alla protagonista della saga, l’amazzone Dolasilla,

rivelandole che la sua invincibilità sarebbe durata sino a che non si fosse sposata.

Le tre immagini seguenti della poesia Fiabe fanno invece riferimento all’altro

libri di Wolff I monti pallidi, che ho già rilevato come una delle fonti letterarie

di Antonia. «I pallidi guerrieri fra le barance» si trovano infatti nella leggenda

La moglie dell’Arimanno:

75
Sono riuscita a trovare coincidenze per tutti i versi della poesia Fiabe con le leggende di Wolff,
tranne per: «Le pianure di asfodeli / in cima alle rocce».
76
Anche se il dettaglio dei capelli verdi le rende più vicine alle Krivapete. Cfr. F. NATIVO, I
Benandanti: Una storia senza tempo, Panda Edizioni, Castelfranco Veneto (TV) 2010.
77
Il libro è presente nella biblioteca di Pasturo della Pozzi, ora trasferita al Centro Internazionale
Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” di Varese.

49
«Sera d’estate. Una notte calma. Nell’acqua buia del lago la luna metteva un po’
d’argento. Una brezzolina lieve lieve scherzava fra i rami delle barance 78 e su per la corazza di
ghiaccio della Marmoléda correva uno scricchiolío aspro e continuo: perché si sa che, se l’aria e
l’acqua ogni tanto si riposano, il ghiacciaio non può mai fermarsi, e il suo corpo stanco geme e
rantola eternamente sul letto dei sassi. I soldati dormivano in un fienile e soltanto il loro
comandante stava desto, sulla sponda del lago, e tendeva l’orecchio nella notte silenziosa.» 79.

L’immagine de «le fanciulle che muoiono / per il desiderio di sole» può riferirsi

a diversi personaggi. Un primo accenno potrebbe essere quello relativo alla

leggenda da cui prende il nome la raccolta, I monti pallidi, in cui si narra che il

figlio di un re delle Alpi Orientali era tormentato da «un gran desiderio, un

desiderio stolto, pazzo, irrealizzabile: voleva andare nella luna.»80. Quando

finalmente trova la strada per giungervi, viene avvertito sui pericoli di questo

viaggio da due vecchi abitanti della Luna che incontra per via:

«– Un abitante della Terra non può restare a lungo nella Luna, spiegò il più vecchio.
Tutto è bianco lassù. Monti e pianure, boschi e città, laghi e fiumi splendono come fossero
d’argento, e gli occhi che non vi sono avvezzi fin dalla nascita perdono la vista, se restano esposti
per troppo tempo a quella luce abbagliante. D’altra parte, nemmeno un abitante della Luna
potrebbe vivere sulla Terra: verrebbe preso da mortale tristezza e in breve tempo la nostalgia per
il suo paese bianco e luminoso lo farebbe morire.»81.

Il principe si innamora della principessa della Luna, ricambiato: resta però

78
In questo punto c’è una nota a piè pagina nel testo, che recita: «piccoli pini alti un metro, coi
rami a terra, che crescono sopra i 2000 metri.» Da questo si deduce che non fosse vocabolo
circolante o comprensibile ai lettori, ed è infatti la voce ladina per indicare i pini mughi, gli unici
a crescere a quell’altezza. Si confronti questo estratto dal sito ladinia.org che fornisce un
glossario ladino: «Il "pino" merita qualche parola di commento. Se è quello silvestre, ovunque
da noi è detto pin, evidentemente da p i n u; se, invece, è "pino cembro" si chiama thirm, thirmo,
thirum o, con suffisso, thirmol, dalla voce tirolese Zirm, scesa fin nelle nostre vallate e oltre.
Infine se è "pino mugo" continua una vecchissima parola e diviene ovunque barancio, barance.
Altra parola antica è quella che indica la "fronda d'albero" che tutti i ladini chiamano dasa.».
Proprio dall’uso di questo termine così specifico e dalla situazione dei soldati, connotati come
pallidi forse perché illuminati dalla luna o perché, essendo Fassani ossia della Val di Fassa,
vivevano nella regione dei Monti Pallidi, derivo la filiazione dell’immagine nella poesia.
79
WOLFF, I monti pallidi…, pp. 59-60. Per la leggenda completa vedi pp. 59-68.
80
Ivi, p. 13. Per un raffronto con l’intera leggenda cfr. pp. 13-27.
81
Ivi, p.

50
troppo a lungo nel regno e comincia ad avere problemi di vista. I due decidono

di andare sulla Terra, dove, dopo qualche tempo, è la principessa ad essere in

pericolo di vita, soffrendo della malinconia mortale a cui accennavano i due

vecchi, malgrado fosse stata inizialmente felice e ammaliata dalla varietà e dalla

bellezza del paesaggio:

«Dal canto suo la principessa non si stancava mai di ammirare i prati ridenti di fiori di
ogni colore, i pascoli verdi, i laghi azzurri delle Alpi; e dichiarava di preferire di molto la bella
varietà della Terra alla bianca monotonia della Luna»82.

La soluzione finale al dilemma verrà offerta dal re dei nani Salvani che si prende

l’impegno di «rivestir di bianco»83 le montagne in cambio della possibilità di

vivere nel regno del principe con il suo popolo senza essere molestato. Questa

prima coincidenza fra l’immagine della Pozzi e la principessa della Luna non

sembra essere del tutto calzante, ma credo sia importante comunque rilevare un

legame fra l’amore per il regno della Terra – un regno in qualche modo solare –

e l’impossibilità di attuare questo sentimento perché in grado di danneggiare fino

alla morte la fanciulla.

Un secondo riferimento per l’immagine delle fanciulle che muoiono per il

desiderio di sole è alla leggenda di Albolina84, figlia di un signore di un castello

che sorge sul dosso roccioso della Dolèda. La fanciulla, «debole, anemica e

sempre malaticcia»85 arrivata intorno all’età di diciassette anni senza aver

82
Ivi, p. 19.
83
Ivi, p. 23. I nani useranno lo stratagemma di “filare” la luce della luna.
84
Ivi, pp. 141-155.
85
Ivi, p. 141.

51
trovato un rimedio al proprio precario stato di salute, viene soccorsa da una

Bregostena86 incontrata dal padre durante una battuta di caccia, la quale

annuncia: «– Questa fanciulla ha il male della notte. Bisogna darle luce, molta

luce; e specialmente la luce rosata dell’aurora.»87. La giovane impara una

filastrocca, l’Incantesimo del Mattino, attraverso il quale, giorno dopo giorno,

assorbe l’energia benefica ed il colore dell’Aurora, ma, una volta ristabilitasi

completamente, non vuole smettere di rubare questa luce, mettendo in serio

pericolo la sopravvivenza della sua benefattrice. Albolina rischia la vita più volte

nel corso della leggenda per la sua ostinazione a non voler restituire la luce

rubata, ossia non volendo pronunciare le parole dell’Incantesimo della Notte.

Il terzo riferimento, che ritengo il più calzante, è quello contenuto all’interno del

ciclo I figli del sole88, composto da tre leggende: I. Elba, II. Soreghina, III. Cian

Bolpin. Elba è la figlia del Sole che muore dopo aver dato alla luce la principessa

Soreghina, della quale si dice «che non poteva vivere se non quando splendeva

il sole.»89.

Per quanto riguarda i versi seguenti della poesia Fiabe «e le capanne

abbandonate / fra le miosotidi,» l’immagine viene ripresa e approfondita nella

poesia Tempo, che analizzerò in seguito, per cui riferisco solo il nome della

leggenda a cui è connessa: La capanna delle miosotidi90.

86
La nota in merito nella stessa p. 141 riporta: «Le Bregostene sono esseri selvatici, in parte
umani e in parte bestiali. Hanno aspetto di donna, ma sono coperti di pelo e hanno artigli al posto
delle mani.».
87
Ivi, p. 142.
88
Ivi, pp. 159-189. È un ciclo a sé stante ma inserito nella raccolta de I monti pallidi.
89
Ivi, p. 165.
90
L’importanza per Antonia di questa leggenda all’interno dell’intero corpus, può essere
confermata dalla presenza, nell’indice dell’edizione del 1929 di WOLFF, I monti pallidi, di una
croce vicino al titolo.

52
Nei versi «porte che si spalancano / su tesori sepolti», mi sembra di ravvisare la

leggenda del tesoro dell’Aurona, presente ne Il regno dei Fanes di Wolff. Ne

riporto la sintesi dal sito ilregnodeifanes.it:

«Sotto la catena del Padon c’era un tempo una porta d’oro, sempre sbarrata, che dava
nel paese dell’Aurona, i cui abitanti avevano rinunciato alla luce del sole per poter ammassare
ricchezze in oro e pietre preziose. Un giorno nel soffitto si crea un forellino, attraverso il quale
un vecchio può ammirare la bellezza del mondo di fuori; ma ne rimane acciecato. Così il buco
viene turato, ma in tutti nasce la smania di uscire; soprattutto nella principessa Sommavida, che
resta a lamentarsi vicino alla porta. Giunge Odolghes, giovane re di Contrin, e per liberarla
sfonda la porta d'oro picchiando per sette giorni con la spada. Quindi se la sposa, sdegnando le
altre ricchezze; ma la punta della sua spada rimane splendente d’oro, tanto che l’eroe viene
soprannominato Sabja de Fek (Spada di fuoco). Gli abitanti dell’Aurona si disperdono per il
mondo e l’ingresso del sotterraneo viene dimenticato e sepolto dalle frane.» 91.
Restano in ultimo i versi «arcobaleni che giacciono / infranti nei laghi».

Chiarissimo è qui il riferimento a Il lago dell’arcobaleno92 di cui riporto

l’incipit:

«Nel lago di Carezza, che i Ladini chiamano Lèc del ergobando, si vedono riflessi tutti
i colori dell’iride. Gli altri laghi di montagna sono azzurri o verdi e talvolta neri: soltanto nel
lago di Carezza splendono insieme le tinte più diverse, azzurro e verde, rosso e giall’oro. Alcuni
credono sia il riflesso di pietre sepolte in gran quantità nel fondo del lago: ma questa non è una
buona spiegazione, perché i magnifici colori che si vedono sulla superficie dell’acqua son colori
d’arcobaleno, non di pietre preziose. E i Turalignes, gli antichi abitanti di quella regione,
chiamavano il lago di Carezza Acqua dell’arcobaleno, e raccontavano che, ai tempi dei loro
antenati, l’arcobaleno c’era veramente caduto dentro.»93.

La leggenda narra dell’innamoramento di uno Stregone per un’Ondina, una ninfa

che stava sulle sponde del lago di Carezza e che lui aveva deciso di rapire. Dopo

vari stratagemmi andati a vuoto, su consiglio della Stria del Masarè, una Strega

91
Cfr. la fonte web ilregnodeifanes.it pagina di ricerca sulla saga dei Fanes curata da Adriano
Vanin. Ha pubblicato nel 2013 con la casa editrice di Rimini, Il Cerchio, il libro Il regno dei
Fanes: analisi di una leggenda delle Dolomiti.
92
L’intera leggenda si trova in WOLFF, I monti pallidi…, pp. 69-72.
93
Ivi, p. 69.

53
che stava sul Catinaccio94, lo Stregone creò un arcobaleno che collegava il

Latemar, catena di monti a sud del lago, con il lago stesso, in modo da attrarre

l’Ondina che mai aveva visto una simile meraviglia, facendole abbassare la

guardia e dando a lui il tempo di trasformarsi in un vecchio. Quest’ultimo

avrebbe dovuto tagliare pezzi di arcobaleno per farne gioielli d’aria, invitando

la ninfa a seguirlo per scoprire quali altre meraviglie possedesse a casa sua. Lo

Stregone però non riuscì ad attuare nemmeno questo piano, in quanto appena

vide lo stupore dipingersi sul viso dell’Ondina all’apparizione dell’arcobaleno,

credette di aver vinto e si dimenticò di trasformarsi nel vecchio. Così la ninfa

fuggì, lui si arrabbiò e:

«alla fine afferrò l’arcobaleno, lo fece a pezzi e lo gettò nel lago. Poi si arrampicò sui
monti e non si fece mai più vedere. Intanto l’arcobaleno s’era disciolto e i suoi colori s’erano
sparsi sulla superficie dell’acqua, dove son sempre rimasti.»95.

Dopo aver illustrato passo passo la coincidenza delle leggende di Wolff con le

immagini presenti nella poesia Fiabe di Antonia, credo possa risultare più chiaro

il termine relazione in merito al rapporto della poetessa con i ‘suoi’ autori: lo

scrittore austriaco è presente probabilmente sin dall’infanzia (1922) nella

biblioteca della poetessa, con certezza dalla sua adolescenza (1929), ma noi lo

ritroviamo in poesie del 1933 (Crepuscolo) e addirittura del 1935 (appunto Fiabe

e Tempo). Credo allora sia corretto sottolineare come queste fonti letterarie

legate al mondo della fiaba intessano un duraturo rapporto96 con la poesia della

94
Il gruppo montuoso del Rosengarten, a nord del lago.
95
Ivi, p. 72.
96
Con queste parole si esprime Antonia in una lettera a Remo Cantoni del 17 luglio 1935: «Tu
mi hai detto un giorno che io sembro sempre colta alla sprovvista dalle cose, svegliata alla vita
ogni giorno e ogni giorno stupita e impreparata: eppure dentro di me, nel mio mondo
sentimentale, c’è un grande senso di continuità. Alti e bassi, sì, burroni e vette: ma fra le vette,

54
Pozzi, a partire da una fervida immaginazione di fanciulla, connessa ad una

natura montana esperita molto intensamente97, grazie ad una sensibilità acuta e

aperta. Antonia approda poi all’uso del fiabesco attraverso una scelta più

consapevole, ribelle sia rispetto a certi canoni culturali che la parte di lei più pura

e intima – ebbra di vita – sentiva sicuramente ristretti, come imposti; sia rispetto

ad alcuni – tristemente noti – consigli ricevuti in merito alla sua poesia98. In

parte, però, in questo voler mettere in versi le fiabe c’è anche un movimento

contraddittorio, tipico di una giovane donna in cerca di conferme, come

accennavo più sopra. Trasformando le leggende in poesia, è come se la poetessa

volesse preservare ed eternare il suo personale mondo di sogno dandogli

un’ulteriore spinta lirica, una forma più elevata, che possa aspirare alle sue vette,

quelle dell’anima. È giusto anche ammettere che questo modello fiabesco ‘alto’

avrà vissuto di arricchimenti e certificazioni di merito letterario da tanta altra

parte della letteratura tedesca presente nella biblioteca della Pozzi, nonché della

cultura musicale da cui sono partita per il raffronto99. Mi sembra però che

cioè fra i momenti di più intensa sincerità spirituale, come una linea ininterrotta, come il crinale
delle montagne, ed una, l’ultima, la più alta, non ci sarebbe se non ci fossero le precedenti…»,
in POZZI, Ti scrivo…, p. 224.
97
Cfr. ad esempio la poesia Odor di verde in POZZI, Parole, p. 321, dove la montagna non è
direttamente nominata ma è evocata in tutte le relazioni con gli altri elementi naturali che
l’attraversano e la sustanziano: «Odor di verde – / mia infanzia perduta – / quando m’inorgoglivo
/ dei miei ginocchi segnati – / strappavo inutilmente / i fiori, l’erba in riva ai sentieri, / poi li
buttavo – / m’ingombran le mani – // odor di boschi d’agosto – al meriggio – / quando si rompono
col viso acceso / le ragnatele – / guardando i ruscelli il sasso schizza / il piede affonda / penetra
il gelo fin dentro i polsi – / il sole, il sole / sul collo nudo – / la luce che imbiondisce i capelli –
// odor di terra, / mia infanzia perduta. // Pasturo, agosto 1934.». In questa poesia c’è tutto il
ritmo del passo che ascende, guadagna la vetta, si fa natura.
98
Enzo Paci, amico e compagno di università, dopo aver letto alcune poesia di Antonia, le disse:
“Scrivi il meno possibile”. Per un approfondimento in merito cfr. cap. III di questa tesi e lo stesso
diario della Pozzi nelle sofferte pagine del 4 febbraio 1935: «Nessuno mi toglie dall’anima il
giudizio di Paci» in POZZI, Diari, pp. 37-41.
99
Cfr. la lettera alla Nena del 22 gennaio 1926 in POZZI, Ti scrivo…, p. 60.

55
Antonia cerchi, almeno in queste poesie, dei modelli a lei più cari, più vicini, più

densi di ricordi fanciulleschi, personali, come se la sua missione fosse davvero

donare un sereno riposo, un rifugio, ai bambini dispersi nel mondo, o meglio a

quella parte innocente dell’uomo che crede ancora nei sogni e che non deve

essere smentita in modo superficiale.

Riporto nuovamente i versi della poesia Cose100, ma stavolta per intero: «Questo

pugno di terra / che raccolse / per me – sul Palatino / la tua mano pura // io

verserò nell’urna / di smorta argilla / che sul rosso lido di Selinunte / un pescatore

mi donò, sporgendo / il braccio fra i cespugli di lentischio. // E tu non dire / ch’io

perdo il senso e il tempo / della mia vita – / se cerco nella sabbia / il sole e il

pianto / dei mondi – / se getto nelle cose la mia anima / più grande – e credo /

ad immense magie… / 10 dicembre 1933». Mi sembra che la richiesta della

poetessa al tu con il quale è potentemente in relazione101 sia chiara: non svalutare

la mia capacità di credere alle immense magie che la mia anima vede nelle cose,

nella relazione simbolica che si instaura fra di esse (siano eventi personali o

storici, gesti, persone). Non svalutare la mia anima che ricerca la sua eternità

nel momento, nella condensazione fra il dolore per il destino di sofferenza

dell’uomo e la sua capacità luminosa di risorgere sempre a nuova luce.

Permane, dopo la lettura di Cose, il senso di uno scorrere naturale del tempo che

100
POZZI, Parole, p. 293.
101
In questi versi si manifesta forse la ribellione di Antonia verso la concezione religiosa
dogmatica e cattolica di Antonio Maria Cervi in cui la giovane non si ritrovava. Il contrasto fra
i due su questo argomento è indicato da suor Onorina Dino nell’introduzione a POZZI, Parole, p.
10: «Questo amore, idealizzato, purissimo e appassionato al tempo stesso, trova però motivi di
scontro, non solo nella profonda diversità di temperamento e di carattere dei due innamorati, ma
in modo particolare nelle differenti convinzioni religiose; scontro che vede le punte più accese
nel 1932, perché Antonia, nonostante l’amore, non accetta di piegarsi a una fede che non sente
propria e alla quale vorrebbe arrivare per convinzione personale, più che per condiscendenza.».

56
può essere fermato in modo altrettanto naturale solo seguendo il cammino della

propria anima. Già nel Natale del 1926 Antonia annotava nel suo diario – in

modo veramente precoce per la sua età e anticonvenzionale rispetto alla classe

sociale (borghese e tradizionale) in cui era inserita –:

«È passato anche questo Natale. Giorno lieto, di una letizia un po’ tradizionale, come il
panettone e il tacchino, come il vischio porta-fortuna, come il Presepio o l’Albero di Natale;
giorno dunque di festa, ma, come ogni data singolarmente importante e solenne, giorno di
rimpianto per quelli passati. Sentimento strano, ingiusto in me, che sono ancora quasi bambina,
che dovrei guardare solo all’avvenire, fiduciosa, serena! Forse gli anni scorsi sentivo così;
quest’anno, invece, no; è diverso, non so perché. Ho paura, e non so di che: non di quello che mi
viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge
così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena
che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole
di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, così anche
del tempo che passa resta a noi la traccia. Forse è perché quella rimasta in me è particolarmente
lieta, forse perché, se pure alcunché di doloroso o violento è passato nella mia vita tranquilla, io
ho vissuto questa vita intensamente, godendo quasi della mia stessa sofferenza, esultante per la
gioia di poter vivere dentro di me, di sentirmi dentro, chiusa come in uno scrigno, un’anima,
un’anima palpitante, ridente, nostalgica, appassionata; è forse per questa piena di sentimenti,
per cui in una giornata soffro e godo ciò che apparentemente si può soffrire e godere in tutta
un’esistenza che rimpiango il passato, che adoro il presente, che non desidero l’avvenire; perché
sono contenta di essere io, con i miei difetti e con le mie poche virtù, perché non so se in avvenire
potrò ancora essere così.»102.

Ricompare qui l’immagine della rena come metafora del tempo che ci aiuta a

chiarire perché in Cose abbia poi scelto proprio quell’elemento della natura – la

sabbia – per significare la condensazione del godere e del soffrire: una crasi che

è ciò che sostanzia e differenzia ogni granello dall’altro. Qual è allora il valore

del tempo che la Pozzi ritrova nella fiaba? Credo sia l’incanto di un momento

eterno, sospeso e unico ma anche ciclico, nel suo riproporsi di personaggi e

immagini. Un momento intimamente compreso e quindi capace di insegnare

importanti verità sulla vita per generazioni, proprio come Antonia voleva fosse

102
POZZI, Diari, pp. 30-31.

57
la sua poesia. Fra i versi di Tempo, Antonia cerca parole e parabole “di un tempo

che fu” in grado di narrare con voce antica fatti del cuore dolorosi che le

accadono oggi. Come ho anticipato, il riferimento è alla leggenda La capanna

delle miosotidi. Attraverso l’analisi di questa poesia vorrei però sottolineare un

altro rapporto di relazione, ossia quello fra il mondo di fiaba che caratterizza

l’immaginazione poetica di Antonia e il dato reale da cui parte poi il gioco di

immedesimazione con la fonte letteraria. Nella primavera del 1935 la giovane

poetessa sta vivendo un momento difficile con Remo Cantoni: nell’autunno del

1934 si era innamorata di lui, illudendosi che il sentimento potesse essere

ricambiato con la stessa profonda intensità e totale dedizione che lei vi aveva

riversato103. Per Antonia incontrare Remo era stato come Rinascere: dopo anni

di vita sognata con Cervi e di idillio contrastato, riesce a trovare un Secondo

amore a cui dedicare canti di Bellezza, porgendoli come una Lieve offerta, su Le

Mani forti di lui104. Ma l’inverno si fa lungo, e Antonia confida nel diario già in

febbraio105 e poi in marzo106 la fatica della relazione con Cantoni, ancora una

volta proiettata su un piano ideale e quasi pedagogico107. Nonostante la crisi,

103
Per i rapporti fra Remo e Antonia e i relativi fraintendimenti si confronti BERNABÒ, Per
troppa vita…, pp. 187-197. Nel capitolo relativo, (pp. 179-189) l’autrice analizza le relazioni
che Antonia intesse con i suoi compagni di università, il gruppo legato al docente di Estetica e
Storia della Filosofia, Antonio Banfi.
104
Quelle in corsivo sono tutte poesie scritte per Remo Cantoni sul finire del 1934. Ne riporto i
titoli e le pagine relative a POZZI, Parole, integrando con le altre di quel periodo: Rinascere, del
24 ottobre-8 novembre, pp. 322-324; Tre sere, 1° dicembre, pp. 325-326; Secondo amore, 4
dicembre, pp. 328-329; Bellezza, 4 dicembre, pp. 330-331; Lieve offerta, 5 dicembre, p. 332; Le
mani, 6 dicembre, pp. 333-334; Pausa, 7 dicembre, p. 335; Confidare, 8 dicembre, p. 336; Le
tue lacrime, 15 dicembre, pp. 337-338; L’àncora, 16 dicembre, p. 339. Al 31 dicembre succede
qualcosa che interrompe questa progressione positiva della poesia e del sentimento con Inverno
lungo ad annunciare la prima caduta delle illusioni.
105
Cfr. annotazione del 04 febbraio 1935, in POZZI, Diari, pp. 37-41.
106
Ivi, pp. 44-46, annotazione del 12 e del 21.
107
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 187-197 per il piano ideale; per quello pedagogico, si
confrontino le pagine dei Diari relative al 1935, particolarmente quella del 12 e del 21 marzo in

58
Remo è ospite in primavera a Pasturo per ristabilirsi da una malattia polmonare

e qui Antonia ha modo di misurare tutta la loro distanza, come confida a più

riprese a Remo stesso, a Vittorio Sereni e ad Alba Binda108 nelle lettere a loro

indirizzate fra il 19 e il 20 giugno del 1935.

Nel momento in cui avviene la stesura di Tempo che porta in calce la data del 28

maggio 1935, credo, però, che Antonia sia agli inizi di questa convivenza

pasturese, presa da una sorta di incantesimo che la sospende in sogno, la

allontana dall’idea della rinuncia alla sua poesia. Il 17 maggio muore suicida il

POZZI, Diari, pp. 44-46. Anche la fine della pagina del 4 febbraio può dare un’idea della
distorsione di un legame che dovrebbe essere fra pari, in ibidem, p. 41.
108
Cfr. in particolar modo i seguenti passaggi rivolti ad Alba Binda in POZZI, Ti scrivo…, p. 219,
e a Vittorio Sereni, in ivi, pp. 221-222. All’amica: «Oggi, in questa pausa di solitudine [Remo è
andato con la madre di Antonia a Milano], non so cavare nessun senso da tutti i giorni che ho
passati qui – quasi un mese, ormai. Mi sembra che quel sentimento che mi ha riempita durante
un lungo inverno sia andato giorno per giorno disfacendosi, al di sotto di tante piccole cure
materiali, e come sminuzzandosi in tante discussioni che continuamente svelano nuove diversità
e nuovi abissi. Di modo che forse l’esser venuti a questa prova, se ha un po’ logorato il mio
sistema nervoso, in un certo senso non è però stato un male, perché mi ha aiutata – come dici tu
– a liberarmi dagli idoli e a vedere in faccia la realtà. Credo che ora della fine potrò dire di
conoscere la vita molto meglio di quel che la conoscessi prima: e questo, anche se distrugge
molto idealismo e molta poesia, può sempre servire.». A Vittorio Sereni chiarisce in immagine
poetica questa distruzione dell’idealismo e della poesia, usando la metafora del velo d’acqua:
«Non so: da tutti questi giorni che ho vissuti non riesco a trarre nessun senso. Sono qui, in questa
pausa di silenzio, come un velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta
di precipitare ancora. È come se avessi tagliato tutti i legami col mondo di fuori, a beneficio di
un mondo che ha già la sua data di morte, che forse non esiste neppure come mondo a sé, ama è
solo il morire di tutto un lungo spazio di vita. […]. Quanti spaventosi abissi, fra Remo e me. Di
gusti, di sensibilità; di moralità, soprattutto. E questo soprattutto è terribile: la mia assoluta
inadattabilità alla vita pratica, il frantumarsi di tutta la mia unità di vita quando mi si porti fuori
dell’atmosfera irreale in cui m’ha cresciuta la solitudine. Ma io non so quanta ragione abbia
Remo dicendo che vuol fare di me una vera donna: io credo e temo che una vera donna non sarò
mai, che anzi, cercando malamente di esserlo, finirei col perdere la parte più vera e meno banale
di me.». Si ripropone, raffrontando le due lettere, lo stesso slittamento nelle immagini che danno
forma ai contenuti che avevo analizzato in nota n. 73, p. 48: più lirica con Sereni, alla ricerca di
una risposta più totalizzante, più risolutiva di un intero modo di vedere la vita che però non neghi
la sua intima essenza. A Remo rivolge parole molto simili a quelle indirizzate a Sereni,
scrivendogli: «sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po’ d’acqua ferma per un attimo
sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora.». Sparisce il
poetico velo d’acqua, o non è ancora nato, visto che la lettera a Cantoni è di un giorno precedente.
Per un approfondimento in merito alla scrittura epistolare di Antonia Pozzi si legga almeno il
capitolo IV degli studi di M.M. VECCHIO, Perché la poesia ha questo compito sublime: Antonia
Pozzi. Otto studi, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (No) 2013, pp. 95-103.

59
suo compagno di università e amico, Gianni Manzi, il quale stava scrivendo una

tesi sul romanzo tedesco contemporaneo. Il 23 maggio Antonia sembra voler

resistere alle Intemperie causate da questa drammatica fine, scrivendo: «In rete

d’acque, m’è rinato il convento dell’infanzia.»109. Antonia sembra ritrovare un

attimo di pace in quel mondo fanciullesco che ho delineato con l’analisi di Fiabe:

una pace momentanea rispetto al dubbio sulla validità della sua poesia come atto

di resistenza nella lotta fra Geist (spirito, arte) e Leben (vita)110. Un’Ora intatta

in cui: «Nuovo, / come voce di donna mattutina / in paese di mare ov’io sia

giunta – a notte – / m’è questo disco di vecchia canzone: / che una danza ricanta

/ ed alla soglia / – singhiozzando fra risa – mi conduce / l’ora intatta, col passo /

di bimba scalza.»111.

Ma diversamente da Fiabe, in cui i riferimenti al mondo di Wolff sono

abbastanza espliciti, in Tempo Antonia guarda la sua emozione attraverso il

ricordo di un momento di sospensione, critico e criptico, della leggenda,

rielaborandola nel suo vissuto. La capanna delle miosotidi (La tambra de

selièttes in ladino) narra dell’amore sbocciato un’estate sui pascoli della Val

Travignolo112 fra un giovane pastore orfano e un po’ zoppo, Ciompo113, e una

misteriosa ragazza, Jendsàna, venuta dai boschi a raccogliere le miosotidi

presenti in abbondanza sui prati attorno al torrente che taglia la valle. Ciompo

109
In POZZI, Parole, p. 378.
110
Questo conflitto che nascerà in sede critica nell’animo della Pozzi durante la frequentazione
delle lezioni universitarie del prof. Antonio Banfi, non era sentito originariamente dalla poetessa,
secondo quanto afferma nelle conclusioni del suo libro la Bernabò. Cfr., ID., Per troppa vita…,
p. 306.
111
Cfr. la poesia Ora intatta in POZZI, Parole, p. 377.
112
Nelle Dolomiti di Fiemme.
113
In ladino ciompo significa proprio zoppo.

60
insiste per conoscere le origini della ragazza che rivela di essere stata allevata

dalle lontre. A sera il ragazzo la riaccompagna al torrente, dove lui torna la

mattina seguente per aspettarla, ma lei non si fa più vedere per molti giorni. Una

sera d’autunno, sempre attendendola, si addormenta e cade vittima

dell’incantesimo delle Comèlles che gli rubano la ragione. Una domenica

d’inverno alcuni giovani del paese, insospettiti dalla sua assenza, si recano alla

sua capanna e trovano attorno ad essa, invece che neve abbondante come ve ne

era su tutto il paesaggio circostante, un prato fiorito di miosotidi: dentro,

addormentato in un sonno impossibile da rompere c’è Ciompo, disteso su un

banco presso il davanzale della finestra. Atterriti da questa vista i ragazzi

fuggono al paese, dove raccontando l’accaduto, ma non vengono creduti. Altri

uomini vanno alla capanna e verificano che:

«Intorno alla tambra c’[è] sempre lo stesso prato fiorito, e anzi ora le miosotidi
cresc[ono] fin dentro la capanna. Ciompo dorm[e] tranquillo nello stesso posto, col suo
mazzolino di selièttes fresche nelle mani. Gli uomini […], d’accordo che dove[sse] esserci sotto
qualche stregoneria, deci[dono] di nascondersi sul tetto per cercar di scoprire qualche cosa.»114.

Vedono allora Jendsàna che viene a trovare Ciompo, gli mette nelle mani un

fresco mazzolino di miosotidi e pronuncia strane frasi sul tempo che avrebbe

dovuto attendere prima di riaverlo115. Poi, toccata la neve, la donna si trasforma

in lontra e fugge. La vista di questa scena misteriosa rafforza negli uomini e negli

altri abitanti del paese la convinzione che Ciompo sia caduto sotto un

114
Cfr. WOLFF, I monti pallidi…, pp. 101-102.
115
Jendsana dice: «– Ora devo aspettare altri sette anni prima di riaverti». Successivamente, dopo
che altri ragazzi sono saliti a spiare lei e Ciompo dice: «– Ora devo aspettare tredici anni prima
di riaverti.». I numeri 7 e 13 ricorrono con frequenza in queste leggende e sono legati alla
simbologia della luna. Per le citazioni della leggenda cfr. Ibidem.

61
incantesimo e fino alla primavera nessuno ha più il coraggio di salire alla

capanna. Quando si sciolgono le ultime nevi e qualche curioso si reca a

controllare, la capanna è sparita. Al suo posto si trova un mare di miosotidi. I

giovani del paese, meravigliati dalla situazione, chiedono la spiegazione ad un

vecchio che aveva fama di stregone. Egli incolpa le lontre, che, ritenute

pericolose, vengono sterminate. Del destino dei due innamorati non è precisato

più nulla nella leggenda. Ma:

«Ancora adesso i pastori e i taglialegna, se capitano a passare per la Val Travegnòl,


quando arrivano a un prato tutto azzurro di miosotidi dicono fra loro: – Guardate, un tempo qui
c’era la tambra de selièttes.»116.

Come si vede, gli elementi che ricollegano questa storia alla poesia Tempo non

sono così diretti ma sono abbastanza affascinanti da meritare un’analisi. La

poesia è divisa in due tempi. Nel primo tempo Antonia si concentra sullo scorrere

delle stagioni che il tu con cui è in relazione non può vedere perché dorme117,

proprio come dorme Ciompo nella sua capanna mentre si passa dall’autunno alla

primavera: «Mentre tu dormi / le stagioni passano / sulla montagna […] Mentre

tu dormi / anni di sole passano / fra le cime dei làrici / e le nubi. //». Ma Antonia

non perde tempo, osserva tutti i segnali che la natura, seguendo il proprio corso,

va disperdendo, dapprima cogliendoli con uno sguardo descrittivo, ponendo in

relazione le cose, cadenzando il sonno del tu, inserendovi la sua veglia: «La neve

116
Ivi, p. 104.
117
Presumo che questa poesia sia stata pensata per Remo Cantoni, il quale, essendo salito a
Pasturo per rimettersi da una malattia, avrà avuto bisogno di molto riposo. Questo sonno può
essere forse anche connesso all’impossibilità dell’amato di vedere il mondo naturale attraverso
lo sguardo di profondo mistero con cui lo osservava Antonia, e può essere dunque considerato
un sonno dell’immaginazione. Non ci sono chiari riferimenti nel testo, né dediche.

62
in alto / struggendosi dà vita / al vento: / dietro la casa il prato parla, / la luce /

beve orme di pioggia sui sentieri.»; poi, nel secondo tempo della poesia, si

immerge direttamente nell’azione: «Io posso cogliere mughetti / mentre tu dormi

/ perché so dove crescono.». Questa sapienza quasi medicinale della donna ha

sapore antico e magico, e ricorda veramente da vicino Jendsàna che coglie ed

offre all’amato le miosotidi, annunciando l’intenzione di voler aspettare il

risveglio del suo amato Ciompo per anni. La simbologia dei due fiori però è

differente: mentre le miosotidi118 sono il simbolo del ricordo d’amore e dalla sua

speranza, della fedeltà e di un sentimento duraturo e indimenticabile, i mughetti

hanno una simbologia varia a complessa, che si rifà a leggende cristiane119 e

pagane, nonché ad una festività francese che cade il 1° maggio:

«Convallaria majalis è il neologismo latino […] per indicare il “giglio di maggio delle
valli”, ovvero il mughetto. I romani usavano adornarsene alle Calende di Maia, […] per
festeggiare il ritorno della bella stagione. Il 1° maggio 1561, qualcuno ne regalò un rametto a re
Carlo IX, il quale decise di inaugurare una nuova moda: d’ora in poi, ogni 1° maggio, avrebbe
donato mughetto alle donne della corte. Il fiore diventa così anche l’emblema degli incontri
amorosi, tanto che nacquero in Francia i Bals du mughet, in cui le fanciulle vestivano di bianco,
i signorotti portavano il mughetto all’occhiello e, [durante quest’] unico ballo, i genitori […] non
erano ammessi.»120.

118
Cfr. per questa simbologia legata al fiore, il libro di C. SALVY [M.-M. POISSON] Il linguaggio
dei fiori, Edizioni Corticelli, Milano 1953, pp. 90-91: «Il suo nome deriva dal greco e significa
orecchio di sorcio. Come ognuno sa è il fiore del ricordo. La sua leggenda ci viene dalla
Germania, patria del fiore azzurro. Si racconta che due giovani fidanzati passeggiavano un
giorno sulle rive del Danubio là ove nascono i nontiscordardime bagnati dalle onde. La fanciulla
prese ad ammirare i fiori, il ragazzo innamorato li volle cogliere ma per la sua imprudenza
scivolò nelle acque e la corrente lo trascinò via. Prima di sparire nei gorghi era tuttavia riuscito
a tendere all’amata un mazzolino di miosotide gridandole: “non mi dimenticare” e da quel giorno
in Francia o in Inghilterra, in Brasile o in Olanda, in Finlandia o in qualsiasi altro paese, il
miosotide si chiama anche non ti scordar di me.».
119
«Secondo una leggenda cristiana i primi mughetti sarebbero nati dalle lacrime della Madonna
sparse ai piedi della Croce: per questo motivo si dice che il loro colore verginale simboleggia la
Purezza. S’incontra come simbolo di Salvezza e attributo del Cristo in molte raffigurazioni del
ciclo della nascita di Gesù e anche del Giudizio finale, dove spicca sempre nella parte del dipinto
occupata dai beati», in A. CATTABIANI, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996, pp. 574-575.
120
Rielaborato dal sito vogliadifrancia.it

63
Fiore bianco, piccolo, è da sempre associato alla purezza, all’innocenza, alla

verginità e al ritorno della primavera, il mughetto è una pianta di buon auspicio:

significa infatti anche «la fine delle pene e il ritorno della felicità.»121. Si può

ipotizzare che Antonia, raccogliendo i mughetti, volesse trovare il suo modo di

curare l’amato, di ballare con lui, lontana da occhi adulti e indiscreti; che volesse

ricercare un tempo di pace al di là dei conflitti che li avevano colpiti nei mesi

precedenti; o più semplicemente che volesse guarirlo, mettendo fine alle sue

pene e donandogli felicità.

In ogni caso il potere taumaturgico di questa poesia sembra essere racchiuso

nell’infinita comprensione da parte di Antonia del valore eterno della natura

proprio nel suo ciclico e incessante ricomparire: «E la mia vera casa / con le sue

porte e le sue pietre / sia lontana, / né io più la ritrovi, / ma vada errando / pei

boschi / eternamente – / mentre tu dormi / ed i mughetti crescono / senza

tregua.». La montagna su cui passano le stagioni fa da sfondo all’incanto, è quasi

il metronomo di questa musica del sogno che batte al ritmo della volontà di

eternare il momento: tiene il tempo di questa danza a cui manca un momento

conclusivo. Si erra per i boschi, non si sa cosa ne sarà dei protagonisti, se il tu

tornerà a partecipare alla vita; proprio come il finale della leggenda La capanna

121
«Il mughetto viene festeggiato al primo maggio più che per una civetteria, per una
superstizione o meglio ancora per una religione. Il suo culto suscita l‘entusiasmo nella
popolazione di una capitale, entusiasmo che si spegna al di là della periferia. (Colette). Il suo
nome significa “giglio della valle”, era conosciuto in Francia nel XII secolo e gli innamorati già
da allora andavano a cercarlo all’ombra delle querce o sulle rive dei ruscelli. Si dice che
l’usignolo attenda la prima fioritura del mughetto per volere nel folto della foresta e celebrarvi i
suoi amori. Il mughetto, fiore di maggio, è il fiore della gioia che annunzia la fine delle pene e il
ritorno della felicità.».

64
delle miosotidi, la poesia resta aperta, lontana da una visione sul destino dei due

innamorati122.

Non è da sottovalutare l’importanza di un altro possibile modello per la poesia

Tempo, anche se rovesciato o quanto meno rielaborato nel rapporto pessimistico

voce poetica-natura e amato-amata, ossia quello leopardiano de La sera del dì di

festa:

«Tu dormi, che t’accolse agevol sonno / Nelle tue chete stanze; e non ti morde / Cura
nessuna; e già non sai né pensi / Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. / Tu dormi: io questo
ciel, che sì benigno / Appare in vista, a salutar m’affaccio, / E l’antica natura onnipossente, / Che
mi fece all’affanno.»123.

Questa lirica, che è fra quelle studiate dalla Pozzi nel volume dei Canti presente

nella sua biblioteca pasturese, è informata sul non-senso di un tempo che scorre,

tutto portando con sé all’oblio. Questi i versi leopardiani sottolineati dalla

poetessa:

«E fieramente mi si stringe il core,


A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,

122
«E se sono le cose, se è il mondo che ci rende lontani e mi fa cattiva, poterlo riavere per me
lontano dalle cose e dal mondo.». Così si esprimeva Antonia in merito a Remo nel suo diario, il
12 marzo 1935. Cfr., POZZI, Diari, p. 46.
123
G. LEOPARDI, Canti, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, p. 303, vv. 7-14.

65
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.»124.

In Tempo Antonia però, al contrario di Leopardi, sembra voler recuperare la

possibilità di un legame più profondo con la vita e con l’amato proprio grazie

alla forza energica della natura che costantemente vive e tutto trasforma. Il

volume dei Canti sottolineato dalla Pozzi è privo di datazione, ma si può

immaginare che appartenga agli anni liceali, o forse ancora ad anni precedenti,

se si paragonano certe considerazioni sul tempo presenti nei diari, così simili allo

spirito di questa poesia, come ad esempio la pagina dedicata alla notte di S.

Silvestro 1926, in cui la Pozzi, considerando la propria solitudine, scrive come

le sarebbe dolce iniziare l’anno a scuola, fra le abitudini consuete e le cose più

care. La Pozzi sottolinea con un deittico Ecco!, come il Leopardi (Ecco è fuggito

/ Il dì festivo, ed al festivo il giorno / Volgar succede), il passaggio fra l’anno

vecchio e quello nuovo:

«Sei minuti soli, e poi… e poi, che cosa, in fondo? Dodici tocchi, come le altre notti, e
neppure una sosta, neppure un distacco; perché crucciarsi? Sono gli uomini, col loro
convenzionalismo, che hanno creato l’affanno di questi istanti; se il calendario fosse diverso e la
fin d’anno cadesse un’altra notte, questa di S. Silvestro passerebbe inavvertita, come tutte le
altre… Ecco! Suona alla pendola! Perché mi sembra che i rintocchi mi martellino il cuore? …è
finito. Perché non succede nulla? Tic-tac, tic-tac, tic-tac…: uguale, monotono, inosservato; fino
ad un’altra notte come questa, per 365 giorni ancora. Un altro anno di vita. Antonia Pozzi, 3
gennaio 1927.»125.

In un salto temporale di quasi dieci anni, la Pozzi saprà rielaborare queste

considerazioni malinconiche, fondendole con uno spirito vitale che è una

124
Ivi, p. 304, vv. 28-46. I versi 45-46 sono sottolineati due volte.
125
POZZI, Diari, p. 33.

66
promessa di speranza e di riconciliazione con l’ordine naturale dell’esistenza.

Ma il sintagma Mentre tu dormi si può forse riferire anche alla poesia Castello

in aria126 di Sergio Corazzini, crepuscolare molto letto dalla Pozzi, soprattutto

per quanto riguarda la raccolta da cui è tratta questa lirica, ossia il Libro per la

sera della domenica (1906). Dell’autore si conserva nella biblioteca pozziana un

volume di Liriche, presentate come una raccolta definitiva con prefazione di

Fausto M. Martini, pubblicato postumo a Napoli da Riccardo Ricciardi Editore

nel 1922. Intessuto di viva malinconia, il componimento fa parte di una serie di

poesie dedicate al tema della nostalgia, della fine del sogno, dell’illusione vana,

temi di fondo anche de La sera del dì di festa leopardiano. Tramite la voce di

Corazzini però le immagini sono come estenuate e legate ad una realtà

infinitamente più umile che non può – e forse non vuole – raggiungere le altezze

meditative e assolute del recanatese. Già dal primo componimento, Sera della

domenica, «il Poeta, ebro di morte, / viene a patti / con la Disperazione / che gli

offre il domani con tutte / le sue piccole ire sorde, / le sue facili rassegnazioni, /

mentre gli ride in faccia / perché non seppe ancora / morire di fame!»127. Le

liriche sono variamente segnate e sottolineate dalla Pozzi; con un segno prima

del titolo, all’inizio del componimento, come una sbarra “/” si trovano Sera

della domenica, Le illusioni128; con due segni “//” Elemosina nel sonno129,

126
In Libro per la sera della domenica, in S. CORAZZINI, Poesie edite e inedite, a cura di S.
Jacomuzzi, Giulio Einaudi Editore, Torino 1968, p. 150. Castello in aria è dedicata all’amico
G.W. Sbordoni. Tutte le poesie della raccolta domenicale riportano una dedica.
127
Ivi, pp. 141-142.
128
Ivi, p. 145.
129
Ivi, p. 144.

67
Dialogo di Marionette130, Stazione sesta131; ne L'ultimo sogno, sottolinea «Ah!

Sono forse io colui / che non dormirà più, / che non sognerà più / fino alla

morte?»132; La liberazione133, Castello in aria, Scena comica finale134 e Bando135

non sono segnate. Quasi per rispondere alla domanda sottolineata ne L’ultimo

sogno sembra essere composta Castello in aria:

Oh! piangi ancora, mia


piccola tenerezza!
Piangi, fosse anche per un’ora!
che t’importa? Sarà questa
l’ultima grazia... Non sai
che me ne voglio andare?

Ma se tu non piangerai,
come allora, per una
improvvisa tristezza,
per una melanconia
senza causa, mia
piccola tenerezza,
come potrò questa sera,
mentre tu dormi e sogni
la mia bocca, fuggire?

Andarmene a morire nel castello


della Nostalgia?

Trasferendo il sonno e il sogno al corpo di un tu a cui si riferisce come alla sua

piccola tenerezza, Corazzini anela al sentimento della nostalgia come ad una

nuova compagna che personifica. Il pianto di quel tu, l’illusione di una comune

tristezza nell’abbandono, potranno assicurare al poeta la fuga e la morte «nel

130
Ivi, p. 146.
131
Ivi, p. 147.
132
Nell’edizione Einaudi in realtà suona: «Ah! sono io dunque colui / che non dormirà più / che
non sognerà più / fino alla morte?», ivi, p. 149. La poesia si trova alle pp. 148-149. Quella citata
è la versione letta da Antonia nella sua edizione.
133
Ivi, p. 143.
134
Ivi, p. 151.
135
Ivi, p. 152.

68
castello / della Nostalgia». L’emozione ha quasi il compito di una regina in grado

di signoreggiare sul destino solitario del poeta.

Cosa filtra di questa poesia in Tempo della Pozzi? Credo, oltre alla possibile

memoria del verso, l’idea di un’eternità fatata e fatale che protegge lo statuto del

desiderio, del sogno. Per il resto, i versi di Corazzini sono del tutto affidati

all’azione del tu, ai suoi sentimenti che possono dettare ed influenzare il

definitivo destino del poeta; per la Pozzi, come già sottolineato, vi è invece una

tensione infinita all’azione connaturata al fiorire perenne dei mughetti che è

indipendente dal sonno dell’amato, ed anzi ne sembra protezione.

Dopo aver esemplificato in che modo la relazione con la natura può essere intesa

come funzione letteraria nella poesia della Pozzi, ho creduto doveroso saggiare

il modello relazionale che ho individuato nel fare poetico dell’autrice, attraverso

la relazione ambientale più duratura che Antonia esprime nei suoi testi: quella

con le montagne. Essendo queste ultime considerate come mamme dalla

poetessa, ho esposto la mia posizione sul rapporto che legava Antonia alla madre

Lina, per poi indagare il significato profondo che le fece individuare nelle Grigne

di Pasturo le sue mamme montagne. Nel confronto con altri luoghi dell’anima,

come le Dolomiti, è emerso un mondo fanciullesco/fiabesco che mi ha portato

all’analisi della relazione di Antonia con una fonte letteraria molto presente nella

sua poesia, quella legata alle leggende dolomitiche e al lavoro dello scrittore Karl

69
Felix Wolff. Queste fonti non sono solo riproposizioni all’interno di una

particolare poesia di certe immagini lette e amate, ma sono anche serbatoi attivi

da cui attingere per trasformare il racconto e arricchirlo, intrecciandolo con

dettagli intimi, affinché la vita e la fonte letteraria possano, insieme, avere un

valore poetico, o meglio, creare una nuova e personalissima poetica.

Chiarito l’emergere di questo mondo fiabesco in relazione al fare poetico della

Pozzi, vorrei approfondire alcune relazioni personali con autori viventi che

Antonia alimentò durante le sue frequentazioni della montagna. Si tratta di capire

se e come l’incontro con Tullio Gadenz e Guido Rey – in modi differenti e

autonomi – abbia costituito o meno per Antonia un arricchimento per la sua

formazione letteraria. Nell’arrivare a queste due figure, ne citerò altre che in

qualche modo hanno delineato il volto dell’ambiente montano per la Pozzi,

scolpendone il vissuto da cui molte poesie hanno tratto l’argomento: le guide

alpine (Emilio Comici, Oliviero Gasperi, Joseph Pellissier); le amiche e i

personaggi vicini alla famiglia (Elvira Gandini, Alba Binda, Camillo Giussani).

70
1.a. Scrittori, poeti e alpinisti

La passione di Antonia per l’alpinismo si concretizza fin da giovanissima136,

grazie anche all’amicizia con la famiglia Giussani, il cui capofamiglia, Camillo,

è un collega del padre. Egli è:

«figura poliedrica, personaggio eminente del moderno mondo culturale milanese:


valente traduttore di classici latini, sarà membro dell’Ente Autonomo del Teatro alla Scala.
Grande appassionato di montagna, nel 1929 è tra i membri fondatori del GISM (Gruppo Italiano
Scrittori di Montagna): nel 1931 pubblica per Mondadori il volume Chiacchiere di un alpinista
[…]. Giussani, con il suo prestigio e la sua passione alpinistica, esercita certamente una grande
influenza sulla giovanissima Antonia. Con la famiglia di lui e con suo padre, Antonia trascorre
alcuni giorni di vacanza a Cortina d’Ampezzo nell’agosto del 1925.»137.

In una lettera inviata alla madre, Antonia fa un gioioso resoconto delle sue

camminate durante quella vacanza138, nelle quali si preannunciano però già

alcune difficoltà fisiche139, che la ragazza supererà brillantemente nell’agosto

del 1929 a Madonna di Campiglio, tanto che il padre le permetterà poi di

proseguire con l’attività alpinistica. Così scrive, con ritmo allegro di canzonetta,

alla madre, in partenza per la sua prima scalata con la guida di Oliviero Gasperi:

«Gloriosa e trionfante / è tornata la tua infante. / Doman parte per la Brenta /

136
«Nel 1923, intanto, a soli 11 anni, Antonia si iscrive alla Sezione di Milano del CAI. Sarà un
rapporto duraturo: la sua tessera, custodita nell’archivio di Pasturo, reca tutti i regolari bollini,
ininterrottamente fino al 1938, l’anno della sua morte.». Cfr., DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la
montagna, p. 16.
137
Ivi, pp. 15-16.
138
«Qui il nostro arrivo ha portato un sole meraviglioso, che ci ha permesso ieri di fare una
magnifica passeggiata di due ore solamente fino a un delizioso laghetto alpino, circondato da
ripidissime rupi a strapiombo. Che bel posto! Abbiamo colto tanti tanti fiori lungo la strada,
abbiamo fatto una spanciata di mirtilli e ci siamo divertiti molto.», in POZZI, Ti scrivo…, p. 55.
139
Cfr. la lettera dell’agosto 1925: «Il mio piede è andato magnificamente…» in ibidem e
BERNABÒ, Per troppa vita, p. 29: «Similmente l’amore per la montagna e le scalate non si risolse
per Antonia in un semplice fatto sportivo, ma ebbe sempre un significato esistenziale profondo,
fu cioè una ricerca a volte anche ai limiti del sacrificio (aveva una debolezza congenita ai
legamenti degli arti che le rendeva difficile arrampicarsi), di essenzialità, di purezza, di forza.»

71
niun dirupo la spaventa. / L’appetito è colossale: / cara mamma, “vale, vale”.»140.

Ascende così al Castelletto Inferiore: l’esperienza apre a lei porte di ossimorica

comprensione rispetto alla tensione del corpo che ricerca la sua volontà di vivere

al di là del proprio stesso peso, sfidando la roccia nello sforzo dell’ascesa. Nasce

la bellissima immagine della fragilezza ardente che Antonia inserisce nella

poesia Dolomiti141, del 13 agosto, e che ripete a distanza di più di dieci giorni

(25 agosto), ormai tornata a Pasturo, in una lettera entusiastica alla nonna

Nena142:

Dolomiti Lettera del 25 agosto 1929 alla Nena

Non monti, anime di monti sono Soli con una buona guida si può andare
queste pallide guglie, irrigidite ovunque. E, credi, la montagna è una palestra
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo insuperabile per l’anima e per il corpo. Nel
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo, salire, non si è che carne pieghevole e istinto
con l’arcuata tensione delle dita, felino aggrappati alla rupe pungente. A
con la piatta aderenza delle membra, palmo a palmo, con l’arcuata tensione delle
guadagn[i]amo la roccia; con la fame dita, con la piatta aderenza delle membra, si
dei predatori, issiamo sulla pietra guadagna la roccia. E poi, in vetta, quando ti
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso, vedi intorno un anfiteatro di guglie e di
inalberiamo sopra l’irta vetta ghiaccio, o da una cenghia esilissima, guardi,
la nostra fragilezza ardente. In basso, sotto lo strapiombo affogata nella fluidità
la roccia dura piange. Dalle nere, vertiginosa, la falda verde da cui balza il
profonde crepe, cola un freddo pianto getto estatico di massi che hai conquistato,
di gocce chiare: e subito sparisce allora un’ebbrezza folle ti invade e
sotto i massi franati. Ma, lì intorno, l’adorazione selvaggia della tua fragilezza
un azzurro fiorire di miosotidi ardente che vince la materia. Eppure, là in
tradisce l’umidore ed un remoto alto, anche la materia, la colossale materia
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo che ci attornia, non sembra inerte ed ostile,
rattenuto, incessante, della terra. ma viva ed amica: e le guglie pallide non
sembrano monti, ma anime di monti,
Madonna di Campiglio, 13 agosto 1929. irrigidite in volontà d’ascesa.

Segnalo – senza tornare ad approfondire l’importanza del libro di Wolff che la

140
POZZI, Ti scrivo…, pp. 93-94.
141
POZZI, Parole, p. 106.
142
POZZI, Ti scrivo…, p. 64.

72
Pozzi aveva comprato appena tre giorni prima della composizione della lirica

Dolomiti – che l’espressione anime di monti compare anche nell’introduzione a

I monti pallidi, scritta dalla traduttrice, Clara Ciraolo:

«Le Dolomiti sono la parte più bella e più caratteristica dell’Alto Adige, quella che lo
rende un paese differente da tutti gli altri. Il loro profilo alto e sottile si vede ad ogni orizzonte.
Le loro punte bianche che si alzano verso il cielo come le dita di una mano aperta sembrano
anime di montagne; al tramonto le loro vette pallide prendono le più fantastiche tinte di viola,
d’oro e di rosa, e ne scende una malinconia piena di soavità di cui appena si può rendersi conto
e che non si può spiegare.»143.

La guida di Antonia per questa scalata è, come ho anticipato, Oliviero Gasperi,

che la poetessa:

«frequenterà a più riprese […] nell’estate del 1932 e ancora nel gennaio 1934, quando
Gasperi sarà […] istruttore di sci [suo e dell’amica Alba Binda144], sempre a Madonna di
Campiglio. Come avverrà anche in seguito con altri forti rocciatori che le faranno da guida,
l’atteggiamento di Antonia è non solo improntato alla stima e alla gratitudine, ma anche a una
certa affettuosa consonanza interiore.»145.

La sua figura aleggia in due poesie composte in quell’estate del 1929, Addio e

Vertigine146:

Addio Vertigine

143
L’espressione si trova già alle pp. VI-VII della prefazione all’edizione S. Poetzelberger de I
monti pallidi di Wolff presente nella biblioteca di Antonia. Il libro riporta scritto a mano sulla
prima pagina: «Sulden – Valle Atesina. Estate del 1922».
144
Di questa esperienza così scrive, in una lettera alla Bozzi del 04 gennaio 1934, contenuta in
POZZI, Ti scrivo…, p. 185: «Poche righe soltanto, intanto che fuori le mie montagne si spengono
come grandi lampade esauste. Non ho mai passato giorni così belli. Non ho più né pensieri né
parole. Soltanto occhi per guardare e muscoli per camminare. Alba scopre la montagna, giorno
per giorno, con me: mi sembra di essere io a svelargliela, a fargliela amare. La mia
montagna…Tutte le cose morte si struggono nel gran sole. Mi lavo le mani nella neve e me le
asciuga il vento. Tutte le cose che penso sono sincere e bianche. Queste giornate me le regala
Dio, come un miracolo. Oh, queste sono davvero le montagne di tutti i miracoli, Lucia!».
145
DALLA TORRE, Antonia Pozzi..., p. 24.
146
Rispettivamente a p. 108 e p.109 di POZZI, Parole.

73
Oggi – intristito cielo, ultimo giorno – Afferrami alla vita,
un ansioso spiare, mascherato uomo. La cengia è stretta.
di calma girellona, intorno all’umile
baracca delle guide; e un batticuore E l’abisso è un risucchio spaventoso
improvviso, violento, all’apparire che ci vuole assorbire.
d’una testina fulva147. Il primo approccio, Vedi: la falda erbosa, da cui balza
questo zampillo estatico di rupi,
esitante: e d’un subito le mani somiglia a un camposanto sconfinato,
mie, lunghe e lievi, sul visino acceso; con le sue pietre bianche.
le mie mani graffiate e illividite Io mi vorrei tuffare a capofitto
dalle rupi su cui, la prima volta, nella fluidità vertiginosa;
il padre della bimba mi ha guidato. vorrei piombare sopra un duro masso
Poi, la rapida fuga in mezzo ai pini, e sradicarlo e stritolarlo, io,
a passi lunghi, con la gola chiusa. con le mie mani scarne;
Sotto un leggero crepitio di pioggia, strappare gli vorrei, siccome a croce
dietro l’abside grigia della chiesa,
mesta offerta di colchici violetti di cimitero, una parola sola
che mi desse la luce. E poi berrei
ad un erboso tumulo d’ignoto. a golate gioiose il sangue mio.

Madonna di Campiglio, 19 agosto 1929. Afferrami alla vita,


uomo. Passa la nebbia
e lambe e sperde l’incubo mio folle.
Fra poco la vedremo dipanarsi
sopra le valli: e noi saremo in vetta.

Afferrami alla vita. Oh, come dolci


i tuoi occhi esitanti,
i tuoi occhi di puro vetro azzurro!

Pasturo, 22 agosto 1929.

Dopo che già da un anno aveva iniziato la sua attività di scialpinismo148, Antonia

si iscrive per l’inverno 1929-1930 allo Sci Club Milano del CAI. Il natale di

quell’anno lo trascorre al Passo Spluga, con la famiglia; l’estate seguente è

invece povera di notizie: da una cartolina spedita alla Nena il 07 agosto e dalla

poesia Lago in calma, sappiamo che è a Silvapiana, in Svizzera, dove

«nonostante il cattivo tempo, compie alcune escursioni; dalle foto si ricavano le

147
La figlia di Oliviero Gasperi, Silvia, nata nel 1926.
148
Marco Dalla Torre individua, deducendo da alcune foto, «la Carta di Turismo Alpino n.
011397 rilasciata [ad Antonia] dal questore di Sondrio. Tale carta, di cui tanto si parla in quegli
anni nelle riviste del CAI, era necessaria per avere accesso alle zone montane di confine.». Cfr.
DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, p. 30. Per le notizie che riporterò in seguito, si
confronti sempre il testo di Dalla Torre (pp. 33-38), da cui sono in gran parte tratte.

74
ascensioni al Piz Albana (3100 m) il giorno 30 agosto, al Fuorcla Surley (2755

m), balcone panoramico sul settore occidentale del gruppo del Bernina, e al Piz

Corvatsch (3452 m), quest’ultima in compagnia del padre e di un altro uomo,

che [potrebbe] essere una guida.»149. Negli anni seguenti Antonia continua la sua

attività scialpinistica: nel Natale del 1930 è a Foppolo, in Alta Val Brembana;

nel marzo del 1931 è alla Presolana. L’estate del 1931 la trascorre lontana dalle

montagne, in Inghilterra per il volere del padre che tenta così di distoglierla dal

proseguire la relazione con Cervi. Agli inizi del 1932 è per la prima volta a San

Martino di Castrozza; poi, il 17 gennaio, partecipa a una giornata sciistica sul

Mottarone, organizzata dal CAI, mentre il 19 febbraio è a quella svoltasi a

Sestriere. In estate torna a Madonna di Campiglio ed effettua diverse ascensioni

con Oliviero Gasperi150. L’inverno seguente è a San Martino di Castrozza dove

conosce Tullio Gadenz, un giovane poeta trentino, di cui ammira la poesia e con

il quale stringe una sincera e duratura amicizia151. Fra i due è quasi152 immediato

149
Ivi, pp. 33-34.
150
Cfr. il libretto di guida di Gasperi, come riportato in DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la
montagna, p. 38: «Inesperta di roccia e senza allenamento, devo alla sicurezza meravigliosa ed
alla gaia e fidata compagnia di Oliviero Gasperi la gioia di aver compiuto in pochi giorni le
seguenti ascensioni: cima Grostè – Campaniletto dei Camosci – Cima Brenta – Croz Rifugio
(per la Direttissima Gasperi) – Parete della Cima Campiglio (per il camino Gasperi). 13-18
agosto 1932. Antonia Pozzi.».
151
L’epistolario fra i due è stato ritenuto di una tale importanza da costituire un corpus a sé. Cfr.
A. POZZI - T. GADENZ, Epistolario (1933-1938), a cura di Onorina Dino, Viennepierre edizioni,
Milano, 2008. Per le notizie in merito a Tullio Gadenz, ho consultato primariamente i seguenti
testi, da cui riporto gran parte delle citazioni: M. DALLA TORRE - S. GADENZ, A voce sola. Tullio
Gadenz (1910-1945): le montagne dell’anima, Associazione culturale voci di Primiero, Trento
2008; T. GADENZ, Infinitezze, a cura di M. Dalla Torre, Edizioni il Foglio, Piombino (Lu), 2010.
152
Gandenz nel ricordo dell’amica Antonia Pozzi e la montagna, che viene pubblicato in “Lecco
(Rivista di cultura e turismo)”, nn° 5-6 (settembre-dicembre 1941-XX), p.56, commenta così il
rapporto di Antonia con la Poesia e il suo modo di rivelargli questa relazione: «Ma soprattutto la
Montagna fece ad Antonia Pozzi il divino dono della Poesia. Della Poesia che le era sacra, essa
parlava come un credente può parlare del suo Dio. “Perché non per astratto ragionamento, ma
per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile,
del più profondo essere, io credo alla Poesia”. […] Per questo Antonia Pozzi, che alla Poesia
dedicò anche una soave preghiera, non pubblicò mai le sue liriche, né rivelò di averne scritte,

75
lo scambio di versi, fatto abbastanza singolare se si considera che Antonia non

era solita far leggere a molte persone i suoi scritti. Questo atto di fiducia e di

stima da parte della poetessa si deve ad una consonanza con l’anima di Gadenz

che, in qualche modo, insieme alle bellezze della natura di San Martino, riesce a

tirarla fuori da un periodo in cui il tormento della sua vita sentimentale le strozza

in gola il canto. Così infatti si rivolge a Lucia Bozzi alla fine della vacanza, il 09

gennaio 1933:

«…Domani partiremo; e quali siano stati gli effetti di tutta questa bianchezza non te lo
so dire: so che ritorno col cuore che straripa di poesia e tanto più mi tormento perché non so più
buttar fuori una riga. Ho dentro come un nodo di cristallo che non si scioglie. E poi ho fatto una
“scoperta” che interesserà anche te…»153.

Il termine “scoperta”154 si riferisce proprio a Tullio Gadenz, studente di

Giurisprudenza a Padova, nato il 21 aprile del 1910 a Fiera di Primiero da

Sebastiano e da Margherita Kinspergher «che portava – nel cognome di chiara

matrice tedesca – il ricordo delle grandi migrazioni di intere famiglie che dal

bassopiano germanico erano venute a stabilirsi in questo distretto all’epoca delle

miniere.»155. L’accenno a questo dettaglio non è mero biografismo: come

giustamente è sottolineato nell’introduzione al libro A voce sola. Tullio Gadenz

(1910-1945): le montagne dell’anima, le radici tedesche fanno emergere un lato

tanto che facendomi leggere un giorno alcune delle sue composizioni più belle me le presentava
come canti di un poeta ignoto.». Cfr. DALLA TORRE - GADENZ, A voce sola, p. 122.
153
POZZI, Ti scrivo…, p. 154.
154
Nelle due cartoline ai genitori scritte in precedenza, Antonia aveva alluso a Gadenz nei
seguenti termini: «Dopo pranzo torneremo al “tabarino” [locale da ballo] dall’“oste-poeta” e
prima di mezzanotte non andremo certo a dormire», in ivi, p. 152, scritto del 4 gennaio 1933;
poi, il 6 gennaio 1933: «Alla sera siamo stati al “tabarino” e il “poeta” ci ha dato alcune sue cose
da leggere veramente belle», in ivi, p. 153.
155
DALLA TORRE - GADENZ, A voce sola…, p. 13.

76
della personalità di Tullio che lo avvicina alle atmosfere culturali nordiche156,

alla base delle quali vi è uno dei motivi della consonanza con lo spirito della

Pozzi. Secondo suor Onorina Dino, quelli dei due giovani poeti «sono, dunque,

due spazi interiori in perfetta sintonia; essi condividono tutto: l’amore per la

montagna, la grande sensibilità per ogni aspetto e ogni voce della natura, per la

sua musica; il gusto del silenzio e della solitudine, il fascino dei paesaggi

innevati, che emanano profumo di purezza e di elevatezza spirituale e morale; la

delicatezza dei sentimenti, delle parole, dei gesti; la malinconia per la finitezza

e il fluire delle cose e della vita; la riflessione sulla morte, sull’al di là, su

Dio.»157. Graziella Bernabò ritorna sulla nota nordica di Gadenz per sottolineare

l’affinità con la Pozzi:

«Di Tullio Gadenz, poeta crepuscolare molto incline al gusto del paesaggio come
malinconico specchio dei sentimenti dell’animo, si trova tutt’ora nella biblioteca di Pasturo la
raccolta dattiloscritta Viandanti. Benché meno ricco e complesso nelle tematiche e nello stile,
Gadenz rivela però nei suoi versi una sensibilità in qualche modo affine a quella della Pozzi.»158.

È necessario chiarire questo aspetto crepuscolare e nordico dell’autore, per

indagare l’interesse della Pozzi nei suoi confronti, fatto anche di consigli e

156
In ivi, p. 13, sono citate le tre città tedesche dove la presenza del cognome Gadenz era più
diffusa: «Il cognome Gadenz appare nei registri di Ringingen fin dal 1145, di Jena nel 1304, e
successivamente in quelli di Worms. Di queste tre città, Jena è quella situata più a Nord, nel
Land della Turingia e la sua università è dedicata proprio ad un poeta, Friedrich Schiller, che qui
fu docente. […]. A sud-ovest, in Renania-Palatinato, sorge invece Worms, la città dei
Nibelunghi; anche in questo caso un invisibile filo legato alla poesia sembra rimandarci a Tullio,
soprattutto nei contenuti di certe sue liriche. In realtà, diversi episodi riguardanti i Nibelunghi
sono ambientati a Worms: le figura di Brunilde, Sigfrido e Hangen non sfigurerebbero nelle
atmosfere che la vena poetica di Tullio ci ha lasciato. Il Nibelungenlied è il più complesso poema
epico composto in terra di lingua tedesca agli inizi del XIII secolo; esso alterna scene cortesi a
momenti di barbarica eticità e giunse ad affascinare il grande Richard Wagner che gli dedicò il
celebre Ring des Nibelungen, segnato da quell’aria crepuscolare tanto cara al nostro poeta.».
157
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 32.
158
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 144, nota n° 4.

77
correzioni sui testi del giovane trentino. Nella biblioteca della poetessa, infatti,

non è presente solo la raccolta dattiloscritta159 Viandanti del 1934, ma anche un

secondo fascicolo dal titolo Liriche della sera, di due anni successivo160. Se nella

prima raccolta sono presenti 45 liriche (78 pagine), divise in sei sezioni (Poesie

dell’amore e del passato, Poesie delle montagne, Poesie delle tombe, Poesie

romane, Poesie dell’autunno e della morte, Venezia) precedute dalla poesia

Viandanti (per un totale di 46 liriche), nel secondo fascicolo del 1936 (46 pagine

sempre in forma dattiloscritta), troviamo 36 liriche, divise in quattro sezioni:

Vette nell’ombra, Viandanti, Cipressi romani e Rintocchi. Si tratta in gran parte

dello stesso libro di poesie inedite, inviate ad Antonia, e costantemente

rimaneggiate161. Gadenz pubblicò il suo libro solo dopo la morte della Pozzi,

presso la casa editrice La Prora di Milano, il 15 novembre 1939162, con il titolo

159
«Abitudine contratta, probabilmente, a causa della sua grafia, difficilmente decifrabile». In
GADENZ, Infinitezze…, p. 118.
160
Nella biblioteca della Pozzi vi sono inoltre quattro numeri della Rivista della Venezia
Tridentina. Ne dà notizia anche Suor Onorina Dino in POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 151:
«Nell’Archivio Pozzi si conservano quattro numeri di questa rivista, relativi agli anni 1935,
1936, 1937, 1938, ciascuno dei quali riporta alcune poesie di T. Gadenz, antologizzate con quelle
di altri autori.». Nella lettera del 28 marzo 1937, scritta da Antonia a Tullio, la poetessa mostra
di apprezzare la lirica Passato, contenuta nella rivista del 1937: «Lassù tra gli abeti solinghi / la
porta / si spalanca della sera: // piccole stelle / giocano sulla soglia / in silenzio / come nel bel
tempo che fu / quando a te sola pensando / nella dolcezza avvolgeami / del crepuscolo / e l’ore /
ed il vento / non udivo più.», in AA. VV., «Poesia», Sindacato fascista degli scrittori della
Venezia Tridentina, 1937-XV, p. 31.
161
Si può constatare questa continua revisione dei testi da parte di Gadenz facendo una collazione
fra ciò che si trova pubblicato in A voce sola e in Infinitezze, nonché nel raffronto con i due
fascicoli dattiloscritti presenti nella biblioteca della Pozzi. In ogni caso riporto le parole di
Onorina Dino a commento di una lettera del 27 marzo 1934 che il giovane poeta invia ad Antonia,
annunciandole che le spedirà con ritardo il suo libro perché rileggendolo, ha trovato che varie
liriche devono essere ritoccate: «T. Gadenz rielabora continuamente le sue poesie, cambiando
spesso anche i titoli.», in POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 127.
162
«Pochi giorni dopo Tullio ne invia una copia al padre di Antonia Pozzi con la seguente dedica:
“Al Gr. Uff. Avv. Roberto Pozzi, nel ricordo di Antonia. 4 dicembre 1939. Tullio Gadenz”; è
passato un anno dalla morte dell’amica.» in GADENZ, Infinitezze, p.17.

78
di Melodie della sera163. In seguito, prima della precoce morte – avvenuta l’8

aprile del 1945 in circostanze mai del tutto chiarite, su un sentiero che collega

Fiera di Primiero a San Martino di Castrozza164 –, Tullio Gadenz andrà di nuovo

rivedendo e ampliando le sue liriche, pubblicando il 02 gennaio del 1944, per la

casa editrice Delfino di Rovereto, la raccolta Vento sugli alberi. Solo leggendo i

titoli delle sezioni delle raccolte che Gadenz aveva inviato alla Pozzi, emergono

chiaramente le tematiche care all’autore, fatte di assorte meditazioni sepolcrali e

umbratili, di amori perduti, di fredde atmosfere di morte, di desiderio di

liberazione da uno scorrere del tempo che sottolinea inesorabilmente il ciclico

riproporsi di vivi dolori. Al poeta è spesso compagna solo la natura, trasfigurata

a volte in un magico incanto, partecipe del sogno di un mondo ultraterreno di

pace.

Grazie alle ricerche di Marco Dalla Torre, risulta che Antonia aveva copiato 21

163
Si tratta di 20 liriche divise in tre sezioni: Melodie (12 liriche), Cipressi romani (11 liriche),
e Rintocchi (7 liriche).
164
O meglio, una morte per la quale i veri responsabili non sono mai stati sottoposti a processo.
Si veda l’intera storia narrata, quattro anni dopo, da un cronista anonimo sulle pagine del
quotidiano trentino Alto Adige e pubblicata in 5 puntate fra il 21 e il 27 agosto 1949. Essa è
riportata in DALLA TORRE – GADENZ, A voce sola…, pp. 138 – 149. Con tutta probabilità Tullio
è stato ucciso da un soldato disertore tedesco in fuga e bisognoso di denaro: la verità fu sempre
taciuta, data la criticissima contingenza storica dell’epoca (siamo infatti agli ultimi giorni della
Seconda Guerra Mondiale). Si legge nell’introduzione agli articoli a p. 138: «Le indagini
sull’assassinio furono condotte separatamente, e in contrasto, tra la magistratura italiana e le
autorità tedesche d’occupazione.». Nello stesso volume, alla p. 35, si riporta anche dal libro del
1974 scritto dal Professor Antonio Simion, Primiero oasi di pace: «Lo trovarono nelle prime ore
del pomeriggio, ucciso con un colpo alla nuca, sul sentiero denominato poi “Via Tullio”, che dal
fondovalle sale lungo la destra del Cismon verso il ponte dei Camòi, qualche minuto prima del
ponte stesso. Un tabernacolo ne ricorda il luogo della morte e una lapide sulla casa paterna di
Fiera ne ricorda la data. Viveva ritirato e non aveva amici. Poiché gli furono tolti l’orologio, la
stilografica d’oro e una busta di cuoio, si pensò e si pensa tuttora a una rapina, ma non è estranea
al fatto quella mentalità così diffusa durante la seconda guerra mondiale, per cui la vita di una
persona valeva meno di una stilografica. Tale mentalità era propria dell’esercito germanico nei
confronti degli italiani. E non c’è dubbio, anche se mancano le prove, che si tratta del gesto di
un soldato germanico, abile nel colpo alla nuca. La zona di San Martino pullulava di soldati
germanici e c’erano pure in giro disertori tedeschi in attesa dell’imminente fine della guerra.».

79
liriche di Gadenz in un suo quaderno [M]165, parte manoscritte, parte

dattiloscritte e incollate. Antonia mostra di apprezzare esplicitamente, fin dai

primi scambi epistolari, le poesie di Gadenz, soprattutto la lirica Preghiera.

Come ricostruito da Dalla Torre in Infinitezze di essa parlerà a più riprese nelle

lettere inviate al poeta trentino:

«È la lirica di Gadenz più amata da Antonia Pozzi, che cita spesso nelle sue lettere. Il
18 gennaio 1933 scrive: “I suoi versi hanno commosso altre anime, profondamente. Per tutti,
come anche per me, le sue cose più belle sono la Preghiera alle Dolomiti, i versi della novella166
e la prima strofa di Ritorno, così vasta, così aerata, degna veramente delle grandi crode. Se non
temessi di essere indiscreta, vorrei proprio chiederLe un grande favore: non potrebbe farmi avere
quel numero della Rivista della Ven. Tridentina, in cui è stampata Preghiera? Tutta la pagina,
con quell’immagine scura delle rocce in alto, è infinitamente suggestiva e mi sarebbe molto caro
averla.”. Poi ancora il 23 marzo successivo: “Mi mandi qualche Sua poesia, Tullio. Tante volte
io ripenso alle parole della Sua Preghiera alle Dolomiti ed ogni volta esse mi sembrano le più
belle che voce di poeta abbia pronunciate.”. Nella […] lettera dell’8 maggio 1934, al ricevere il
fascicolo Viandanti, la Pozzi scrive: “Di quelle che già conoscevo, non mi piace sempre la nuova

165
Cfr. GADENZ, Infinitezze, p. 117: «[M] block notes di Antonia Pozzi con poesie di Tullio
Gadenz in parte trascritte dalla poetessa, in parte battute a macchina e incollate. Contiene 21
liriche (Archivio Gadenz)». In Infinitezze, sono riportati per intero le seguenti poesie di [M]:
Nostalgia, Sonno di guerra, Fanciulla (che però è indicata come riportata dalla Pozzi con il titolo
Fedeltà), Stella cadente [II], Risurrezione, Ritorno, Incontri, Oltretomba, Pace, Ignoto,
Malinconia, L’isola di San Michele. Sempre in Infinitezze, vengono poi riportate poesie presenti
in altre raccolte, che figurano in [M] con varianti. Si tratta di Fedeltà (in Viandanti; il titolo in
[M] è Annie), Via Appia (in Viandanti; in [M] con il titolo Plenilunio e una diversa lezione),
Sogno (in Liriche della sera; in [M] con il titolo Primo Bacio), A John Keats (in Liriche della
sera; in [M] la versione è John Keats, piuttosto diversa), Campo Verano (in Melodie della Sera;
in [M] con il titolo L’ultimo dolore e poche varianti), Dolomiti [II] (in [M] con il titolo Preghiera
e copiata dalla Rivista della Venezia Tridentina, nn° 10-11 ottobre-novembre 1931, p. 14).
Mancano a questo appello di [M] tre poesie. Dato che Tullio Gadenz rielabora varie volte i testi,
modificandone versi e titoli (che a volte vengono attribuiti a tutt’altre composizioni), è necessario
confrontare ogni versione a seconda del lavoro di ricerca che si vuole svolgere, non essendo
sufficiente basarsi sul titolo delle liriche. Ho cercato di leggere, confrontare e riportare i testi che
Antonia poteva aver letto, in parte inediti e dattiloscritti in Viandanti e in Liriche della Sera, in
parte ricopiati nel suo quaderno [M], o pubblicati su varie riviste da lei lette o possedute (come
la «Rivista della Venezia Tridentina»).
166
La novella a cui la Pozzi fa riferimento è La fine del mondo, apparsa nella Rivista della
Venezia Tridentina, n°8, 1932, pp. 22-23. Ne riprendo i versi da DALLA TORRE - GADENZ, A
voce sola, pp. 105-106: «Quando sopra la terra / Più non s’udranno i rintocchi / Dei secoli /
Quando l’autunno / Con l’urna sua grande di cenere / Solo errerà sulle mute / Ruine delle foreste
e cadute / Saran le pesanti catene / Degli astri nel buio e le ultime / Nubi emigranti /
Scoscenderanno nei cieli. // Ed immobili i mari / Riposeranno nell’infinito. // Allora alla piccola
chiesa / Battuta dal tempo sul colle / Davanti all’estremo tramonto/ Io tornerò dal profondo. //
Sulla tua pietra ancora / Supremo altare del mondo / Con te parlerà la mia Ombra / Sotto gli
ultimi stormi / Di sfolgoranti comete. // Finché la tua fiamma leggera / Si spenga nell’oscurità /
Della gelida sera.».

80
divisione ritmica. Preghiera, per esempio, era così bella con la cadenza di prima! E alla fine,
perché – corona – sostituito a – ghirlanda –?”. Tullio seguirà il consiglio, tornando
successivamente alla primitiva lezione.»167.

Riporto le quattro versioni di Preghiera, che mostrano chiaramente il continuo

lavorìo di Gadenz sui propri versi; inoltre, l’esempio di questa poesia favorita

dalla Pozzi mi aiuta a sottolineare come il motivo del sacrificio ascensionale,

ispirato da una relazione intima con le vette, possa avere affascinato la sensibilità

della poetessa e suscitato l’ammirazione per il poeta trentino:

1. Preghiera 2. Preghiera
Versione copiata a mano dalla Pozzi168. Versione in Viandanti, pp. 39-40.

O Dolomiti O dolomiti,
Alte sugli orizzonti Alte sugli orizzonti
Come Come
Crocefissi immensi Crocefissi immensi
In quest’ora di morta speranza In quest’ora
Di morta speranza;
La vita abbastanza
M’ha incoronato di spine: La vita
Il mio cuore Abbastanza m’ha incoronato
Invoca l’agonia. Di spine:
Il mio cuore
Oh, assunto Invoca l’agonia.
Sopra le vostre
Rocce Oh, assunto
In croce il mio corpo Sopra le vostre
Sia Rocce,
Nella luce del tramonto. In croce
Il mio corpo
E quando come trionfale Sia nella luce del tramonto
Aquila
L’anima mia E quando
Sui picchi d’Elisio ove eterno Come trionfale
Aquila
Risplenda il sole L’anima mia
Discenda Sui picchi
D’Elisio ove eterno
O Dolomiti Risplende il sole

167
GADENZ, Infinitezze, p. 65.
168
La versione è presente come foto del foglio scritto da Antonia nel volume di DALLA TORRE -
GADENZ, A voce sola, p 23. Secondo Onorina Dino e Marco Dalla Torre, rispettivamente in
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 133 e in GADENZ, Infinitezze, p 65, la poetessa deve averla
ricopiata dalla Rivista della Venezia Tridentina.

81
S’accenda Discenda,
Sopra il mio capo piegato
Una ghirlanda di stelle. O dolomiti,
S’accenda
Tullio Gadenz Sopra il mio capo
Piegato,
una corona di stelle.

3. Preghiera 4. Dolomiti [II]


Versione in Liriche della sera, pp. 6-7. in Melodie della sera, 1939*.

O dolomiti O dolomiti,
alte sugli orizzonti alte sugli orizzonti
come come crocifissi immensi
crocefissi immensi in quest’ora
in quest’ora di morta speranza,
di morta speranza:
la vita
[Segni di cancellatura su tutta la strofa] abbastanza
la vita mi ha incoronato
abbastanza di spine: il mio cuore
m’ha incoronato invoca l’agonia.
di spine: il mio cuore
invoca l’agonia Oh, assunto
sopra le vostre
Oh; assunto [sia] rocce
sopra le vostre in croce
rocce il mio corpo sia
in croce nella luce del tramonto.
Il mio corpo sia
nella luce del tramonto. E quando
come trionfale
E quando aquila
come trionfale l’anima mia
aquila sui picchi
l’anima mia d’Elisio ove eterno
sui picchi risplende il sole
d’Elisio ove eterno discenda,
risplende il sole
discenda, o dolomiti,
s’accenda
o dolomiti, sopra il mio capo
s’accenda una ghirlanda di stelle.
sopra il mio capo
una ghirlanda di stelle.

La prima versione – quella sinceramente apprezzata dalla Pozzi – è molto

asciutta a livello di punteggiatura: soprattutto nelle ultime due strofe dove il tema

82
dell’ascensione si fa stringente, l’occhio del lettore è catturato al punto d’arrivo,

seguendo il movimento dell’aquila-anima nel suo volo. Questa coppia, unita

dalla similitudine, è portata dalla corrente al proprio eletto destino: la poesia fa

così riferimento diretto al mondo della classicità per la presenza dell’immagine

dei picchi d’Elisio, nella quale le dolomiti vengono trasfigurate. L’anima,

dunque, anela alla sua pace, da viversi sia come ultima agonia – richiesta in tono

di preghiera –, che come liberazione dalla sofferenza stessa – ultimo momento

di una lotta con la vita che è stata combattuta a sufficienza –. Il martirio richiede

il suo premio, la santificazione finale, suggellata dalla ghirlanda di stelle.

L’insistenza per la conservazione di questa parola da parte della Pozzi nei

confronti di Gadenz, che la sostituisce in Viandanti con corona, mi pare

comprensibile, data la ricchezza semantica e l’etimo incerto che la connette sia

al mondo germanico che a quello latino169.

A suggerire l’orazione è l’immagine delle ieratiche dolomiti che figurano come

crocefissi immensi, quasi Gadenz vedesse appeso ad esse il corpo del Cristo sulla

croce e volesse emularlo. Vi è dunque un rapporto intimo, sacrale, con una natura

che fluisce, suggerendo visioni che vengono tradotte dall’immaginazione e dalla

sensibilità del poeta. Questo aspetto di relazione fra il non detto della realtà nel

suo farsi e la capacità di lettura del poeta che ne trascrive i muti lamenti, caro

alla Pozzi, verrà sottolineato nella lettera del 29 gennaio del 1933 che la poetessa

invia a Gadenz:

«Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta

169
Si confronti la voce ghirlanda nel dizionario etimologico on-line etimo.it.

83
la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile, dal più profondo essere, io credo, Tullio, alla
poesia. E vivo di poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere
negli occhi tutta l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio,
sentire mute sorelle al nostro dolore. Perché per me Dio è e non può essere altro che un Infinito,
il quale, per essere perennemente vivo e quindi più Infinito, si concreta incessantemente entro
forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l’urgere del fluire divino e ad ogni attimo
si riplasmano per esprimere e concretare quella Vita che, inespressa, si annienterebbe.».170

È necessario, a questo punto, nell’ottica dell’individuazione dell’incidenza della

relazione Gadenz-Pozzi sulla formazione letteraria della poetessa, fare alcune

precisazioni, in primis sulla natura del carteggio fra i due, e, in secundis, sulle

fonti letterarie e filosofiche che emergono dalla poetica espressa da Antonia.

In merito alla prima precisazione, mi riservo di sottolineare, con Matteo M.

Vecchio, che non è sempre chiaro quanto e in che modo la Pozzi liberi senza

filtri la propria anima e il proprio pensiero nelle lettere, e quanto, invece, tenti di

costruire una comunicazione “al ribasso”, tesa cioè a soddisfare le aspettative

dell’altro pur di mantenere la relazione con l’interlocutore su di un piano a lui (e

indirettamente anche a lei) confacente:

«Nella sua specificità, in merito soprattutto all’officina ideologica pozziana, il corpus


non ampio ma sostanzioso del carteggio intercorso tra la poetessa e Tullio Gadenz – pur ritenuto,
a uno stadio di lettura emozionale, “bello” – risulta di fatto di complessa decifrazione, dacché
non è ben chiaro dove, in esso, per quanto concerne i materiali pozziani, si possano rintracciare
i confini di una precisa e originale ideologia, e dove invece si consumi l’osmosi, o meglio
l’adeguazione, da parte di Antonia Pozzi, nei confronti di posizioni, umane e critiche, che le
vengono presentate da Tullio Gadenz. Dove, in altre parole, a sostanziare da parte della Pozzi
una propria ideologia poetica e critica, intervenga l’influsso esterno – senz’altro prossimo a
livello di comune sensibilità e tuttavia, per quanto riguarda i modi mediante i quali esso si
declina, esistenzialmente e creativamente altro – di Gadenz, la cui scrittura, rispetto ai più
complessi e reticolari tessuti simbolici proposti e percorsi dalla Pozzi, attinge a un più piano e
sostanzialmente codificato repertorio di immagini e di marche testuali.»171.

Ovviamente in questa ricerca di equilibrio nel linguaggio, nelle tematiche e nei

170
POZZI - GADENZ, Epistolario..., pp. 99-100.
171
VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 95-96.

84
toni usati dalla Pozzi per comunicare con Gadenz, non c’è un esplicito intento di

falsificazione, quanto una volontà di alimentare, «nella solidale empatia

ricercata e almeno in superficie trovata – e così intensamente desiderata –, una

tensione partecipativa con un altro da sé, un altro simile, certo, a livello di élan

emotivo, e tuttavia diverso nel modulare questa stessa tensione e nel proiettare

la vita, attraverso il ventilabro della propria sensibilità, nella scrittura.»172.

In questo senso Vecchio sembra suggerire l’assenza di una forte influenza di

Gadenz sul fare poetico della Pozzi:

«Benché nelle lettere a Gadenz […] si assista, da parte della Pozzi, a un fondamentale
epigonismo e a una sottile sottomissione ideologica nei confronti del destinatario, nell’opera
poetica, pur restandovi leggeri sedimenti, essi si attenuano fino a declinare. Se in alcune poesie
della Pozzi – soprattutto imbastite attorno a esperienze di montagna – sussistono immagini e
stilemi, sebbene sfuocati, attinti a Gadenz, essi sono modulati attraverso filtri che da loro, a
livello ideologico almeno (ma anche, tutto sommato, tecnico), si emancipano.»173.

Provando a mettere a confronto le sole poesie pozziane dei primi mesi del ’33,

compaiono in effetti questi leggeri sedimenti tratti da Gadenz, che vengono però

risolti da Antonia in modo del tutto personale, e in cui rientra la forte necessità

per lei di attingere alla poesia per risolvere domande contingenti, stringenti nel

momento dell’emersione della relazione con la realtà circostante. Si veda il

diverso esito del tema dei caduti di guerra per la Pozzi (In un cimitero di

guerra174) e per Gadenz (Sonno di guerra175) :

172
Ivi, p. 96.
173
Ibidem.
174
POZZI, Parole, p. 186.
175
In GADENZ, Infinitezze, pp. 30-31. In nota si legge: «Appare in medesima versione sia in [V]
che in [M]. Nella versione ricopiata a mano da Antonia Pozzi viene indicato, al termine: “S.
Martino di Castrozza – agosto 1929”». [V] è l’abbreviazione che Dalla Torre usa per indicare la

85
Sonno di guerra In un cimitero di guerra

O ignoti compagni sepolti Così bianca ed intatta è la coltre


Davanti alle Dolomiti splendenti di neve
Soli di roccia su voi
Sui campi di fiori che segnarla del mio passo non oso
Fra voli di nuvole bianche dopo tanto cammino
sopra le vie di terra.
O ignoti compagni Per voi dall'alto suo grembo
Che al rombo non vi destate di ghiacci e pietra discioglie
Più dei torrenti un lento manto di nubi
Ma ancor sollevate il Cimon della Pala.
Le palpebre stanche e corrose Per voi taccion le strade
Stringendo le dolorose e tace il bosco d'abeti
Livide labbra alla voce spegnendo
Di una mamma che invano lungo la valle
Fra i vostri tumuli cerca ogni volo di vento.
Nei boschi d’abeti Io strappo alla chioma di un pino
un ramo in forma di croce:
O compagni di là dal cancello lo infiggo
Che più non gridate per tutte le tombe.
Sui valichi orrendi Ma di qua dal cancello
Nei cieli tremendi di guerra serrata
Che più non salite dai foschi contro le sbarre
Burroni sull’ultima vetta dalla mia profonda
Del Colbricon a colloquio pena d'esser viva
Lassù con la notte ch’affretta rimango
Vicino ai cannoni e solo è in pace
Con l’ampio con la vostra pace
Vestito orlato di stelle il sogno
dell'estremo giacere.
Con voi finalmente
In un drappo ravvolto di nebbia (S. Martino) - Milano, 12 gennaio 1933
Dormire, o caduti, aspettando
D’udire nel magico sonno
Le trombe
Che su dalle tombe obliate
Nei secoli alla marcia
Finale gli eserciti chiamano
Sulle pianure dell’eternità.

È evidente che il tono della poesia di un Gadenz diciannovenne che medita in

attesa della resurrezione, evocata dalla compagnia dei soldati caduti, è

celebrativo: con la reiterazione del vocativo (O compagni), Tullio cerca di

raccolta Viandanti di Gadenz, mentre ricordo che [M] è il quaderno della Pozzi. La presenza in
esso è segno che questa poesia aveva destato in lei un certo interesse.

86
innalzare ad ultima gloria l’anima dei morti, mostrando anche la loro pietà nel

non restare ciechi di fronte al dolore di una madre in cerca del figlio fra le tombe.

Anche qui, come in Preghiera, Gadenz propone e anela a una risposta certa e

risolutiva, quella di un credente che in cuor suo è forte della fede in una trionfale

rivincita degli animi che si sono battuti in vita in modo puro, totale. I giovani,

morti per difendere la propria terra, sono oramai un tutt’uno con essa, soli di

roccia che brillano come le Dolomiti splendenti.

I compagni di Tullio sembrano già famigliari ad Antonia: li appella con un

semplicissimo voi che introduce ad un tono del tutto diverso della lirica. La

relazione che ispira la meditazione della poetessa è vissuta attraverso uno

sguardo di rispetto e pudore nei confronti di una pace assoluta, intima, non

cadenzata dalla retorica del sacrificio militare. Lo spirito di Antonia, infatti, è

segnato da guerre e tumulti talmente interiori da non essere nemmeno trascritti:

sono vie di terra il cui tanto e indicibile peso non deve lasciare traccia sul

candore della neve, profanando la pace dei morti. Non ci sono nemmeno accenni

alle contingenze storiche recenti, la purezza dei sepolti è universale (tutte le

tombe), è intatta e compatta, come la coltre che li ricopre: va oltre l’umana

speranza di partecipazione e comprensione. La religiosità di Antonia e la

possibilità di mettersi in contatto con quella pace è ritrovata, per un breve istante,

in un segno della natura colto in un gesto (lo strappo del ramo in forma di croce),

subito interrotto dall’impossibilità di fondersi fino in fondo con quella quiete

assoluta. Il ramo si fa reliquia di un’epifania osservata e non partecipata: troppa

la paura di rompere l’incanto, di essere ancora una volta esclusa da una

87
consonanza d’anime. Solo il sogno dell’estremo giacere può permettersi di

vivere la pace che appartiene ai morti: ad Antonia è dato di soffrire il peso della

vita, di sostare al limbico cancello prima del quale non può nemmeno godere la

felicità che dovrebbe essere la norma della sua condizione esistenziale di giovane

donna nel fiore degli anni.

La trasformazione operata rispetto al modello di Gadenz (se di modello possiamo

parlare e non di semplice coincidenza tematica), si esplicita soprattutto in due

immagini. La prima è quella della madre in cerca del figlio nella poesia di Tullio,

che per Antonia si assolutizza e si fonde nel corpo della montagna, diventa il

grembo del Cimon della Pala che evapora il proprio dolore nelle nubi e ne fa un

velo per proteggere i suoi figli caduti. La seconda immagine è come verificata

da Antonia attraverso un rovesciamento: lo scorrere della vita naturale, dalla

quale per Tullio i caduti sono esclusi (O ignoti compagni / Che al rombo non vi

destate / Più dei torrenti) viene reinterpretato dalla Pozzi con l’arrestarsi stesso

della natura per rispettare il loro non esser più (Per voi taccion le strade / e tace

il bosco d'abeti / spegnendo / lungo la valle / ogni volo di vento). Ed è così, nel

rispetto grandioso della vita per la morte, che Antonia ritrova se stessa:

nell’arrestarsi, serrata al cancello, nel trattenere l’atto in potenza.

In un cimitero di guerra è nata da una reale esperienza, che la poetessa racconta

a Gadenz in una delle prime lettere (11 gennaio 1933):

«Se lei verrà a trovarmi, parleremo di tante cose: delle sue montagne divine, dell’ora in
cui si scolorano, della pineta viva, dei soldati morti che dormono in pace sotto il Cimon della
Pala.
Io salii al cimitero di guerra in un pomeriggio nebbioso, dopo che Lei era partito.
Nevicava rado e leggero: tutta la bianca muta strada era per me, per me sola. Non aveva voce,

88
neppure d’uccello, la cupa folla degli abeti: solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole
più tristi. Al cimitero nessuno era andato da tempo: il sentiero era quasi intatto. Al cancello
dovetti scavare con le mie mani la neve, per aprire: ma poi, all’interno, era così tesa ed
immacolata la coltre bianca, che non osai imprimerla del mio passo pesante; colsi da un pino un
ramoscello in forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via. Le crode erano tutte pallide, come
un gran volto che cali sul dolore degli occhi le palpebre. Ed ecco, il mio sfiorire non mi doleva
più, tanto era concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose.»176

Si potrebbero fare molti altri esempi per rilevare le influenze Gadenz-Pozzi nei

rispettivi testi poetici. Dei temi citati da Antonia in apertura della precedente

citazione (le montagne divine nell’ora in cui si scolorano, la pineta viva, i soldati

morti che dormono in pace), si riconoscono le occorrenze in alcune poesie dei

due, basti pensare a Crepuscolo177 della Pozzi, in merito alla quale ho già usato

questa lettera per rilevare l’immagine dello sbiancarsi delle cime. Il rapporto di

analogia è collegabile alla poesia Ritorno di Gadenz, apprezzata da Antonia e

copiata in [M]: «O Dolomiti, / Mie grandi sorelle astrali / Che sopra i viali / Del

cielo aspettate, / Nell’incantevole oblio / Del crepuscolo, il mio / Ritorno. // Col

vento / Delle foreste, le porte, / Ecco, del vostro / Regno io varco: cantate, /

Cantate sull’arpe degli orizzonti / Il cantico delle antiche / Primavere. // Ancora,

/ Mentre la luce del sole / Con le sue pallide mani accarezza / La fronte agli eroi

sulle vette / Del Colbricon, io cammini / Con le musiche morte ai giardini / Delle

regine risorte. // Poi, quando / Sull’alte soglie funebri della sera / Io chiuda gli

occhi sognando / Le fate, / Le mie fidanzate / Defunte nello sfiorito /

Incantesimo, / Su, fra le stelle, / O mie divine sorelle, / Levatemi allora: //

Lontano, lontano / Portatemi voi, sulla vostra / Cavalcata notturna, / Nel

176
POZZI - GADENZ, Epistolario…, pp. 88-89.
177
La versione del 1933.

89
plenilunio dell’infinito //»178. È da rilevare in questa poesia di Gadenz anche la

presenza di un certo legame con il fiabesco, legame che ho indagato ampiamente

nelle poesie Fiabe e Tempo della Pozzi. Credo che la grande gioia, vivificatrice

per Antonia, nella “scoperta” di Tullio, sia stata in fondo anche questa: trovare

verificata la sua intuizione poetica, avvallati i temi portanti e ribadite le proprie

consonanze emotive con la natura. La relazione con Tullio è una boccata d’aria

fresca179 che restituisce fiducia al suo lavoro poetico, il quale nell’anno

precedente era stato estremamente silente e sofferto:

«[…] da S. Martino siamo partiti soltanto ieri e fino all’ultimo momento ho sperato di
poterLa rivedere. Mi sembrava di avere ancora tante cose da dirLe: temevo che le mie povere
parole non Le avessero fatto comprendere tutta la commozione che i suoi versi mi hanno
suscitato nel cuore. Ma qui ho trovato la sua breve lettera e ne ho avuta un’infinita gioia: Lei ha
compreso con quanto religioso amore, con quanta pienezza d’anima io ho accolto la rivelazione
della sua poesia. E d’esser stata capita mi fa tanto bene. Lei non sa, Tullio, Lei forse non saprà
mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato, la “scoperta” meravigliosa di Lei. […] Tanto
più grande di quella è la mia gioia d’oggi: perché il libro più bello del mondo finisce e dopo
l’ultima pagina non si può chiedere che altre ne vengano aggiunte; ma il libro vivo di un’anima
non finisce mai. Io spero, Tullio, che a queste prime pagine del Suo Libro che mi sono state
mostrate, altre ne potrò aggiungere via via: e la mia vita, creda, mi dorrà meno, se Lei vorrà
infiorarla della sua poesia.»180.

Subito dopo, in questa lettera dell’11 gennaio, Antonia fa una dichiarazione di

poetica che mi aiuta a tornare al tema delle fonti, tema che costituisce il secondo

178
GADENZ, Infinitezze, pp. 35-36.
179
Così si esprime Antonia in una lettera del 18 gennaio 1933: «Per ritrovare un po’ d’aria pura,
bisogna che rilegga la sua lettera, così nitida e cristallina, come i ghiaccioli ai suoi vetri.», in
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 93.
180
Ivi, pp. 87-88. Appena più avanti specifica: «Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa
duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi
sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel
cuore. Per chi ai suoi giorni non vede più che un colore di tramonto e sente, attraverso il suo
cielo, salire l’estremo pallore, per chi ancora beve, con occhi allucinati, l’incanto delle cose, ma
non sa, non può (perché è troppo tardi – perché non c’è più forza – perché tutto è stato bruciato,
fino all’ultima stilla) tradurlo in parole, ah, Tullio, è come rivivere trovare un’anima giovane che
sprigiona il nostro stesso canto inespresso.».

90
punto di indagine rispetto al frammento di lettera del 29 gennaio 1933:

«Perché la poesia, non è vero, ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore
che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma
dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del
dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita.»181.

In questi frammenti182, vi è molto di classico, di greco, per via di Aristotele e di

Plotino: l’idea della catarsi del dolore attraverso l’arte e di un Dio pensato come

un Infinito che si concreta incessantemente entro forme determinate per poi

spezzarsi e riplasmarsi, sono una chiara derivazione delle concezioni di questi

due filosofi, di cui si trovano tracce anche nel quaderno delle Spigolature.

Questo taccuino non datato, è costituito da frammenti di autori letti e trovati

particolarmente consonanti, soprattutto dal punto di vista di una ricerca

spirituale, la quale si intreccia con la volontà di determinarsi in un

posizionamento filosofico e poetico. Secondo suor Onorina Dino, che dà notizia

di questo quaderno in una nota all’introduzione dell’Epistolario fra Gadenz e la

Pozzi, Antonia ha «iniziato, se non completato, il lavoro di selezione e copiatura

nel 1931, proprio durante l’esilio in Inghilterra, quando il dolore per il distacco

e la lontananza forzati [da Cervi], insieme al bisogno di verità sul problema

religioso, la spingono a cercare letture significative che l’aiutino a trovare un po’

di serenità e una spinta morale.»183. La Dino ci informa inoltre che «il taccuino

181
Ivi, p. 88.
182
Ricordo che l’altro frammento della lettera del 29 gennaio 1933 che qui interessa è: «Perché
per me Dio è e non può essere altro che un Infinito, il quale, per essere perennemente vivo e
quindi più Infinito, si concreta incessantemente entro forme determinate che ad ogni attimo si
spezzano per l’urgere del fluire divino e ad ogni attimo si riplasmano per esprimere e concretare
quella Vita che, inespressa, si annienterebbe.», in ivi, p. 99-100.
183
Ivi, pp. 72-73, nota n°17.

91
non è datato, come pure nessuna delle citazioni trascritte.»184.

Su questo problema di datazione vorrei avanzare un’opinione diversa, che

comprenda addirittura gli anni del liceo, se non del ginnasio, data appunto la

presenza nel quaderno di citazioni in greco (che nella poesia Canzonetta del 12

maggio 1933 dirà – forse ironicamente, dato lo stile della poesia – di aver

dimenticato)185 e in latino, oltre al dettaglio che il frammento di apertura

proviene del Daniele Cortis, letto dalla Pozzi presumibilmente in quegli anni186.

Credo che la Pozzi sentì la necessità di annotare frammenti di percorsi di autori

184
Ibidem.
185
Volendo tener fede alle parole di Antonia, riportate nella poesia di chiaro stampo crepuscolare
Canzonetta, proprio nel 1933 la conoscenza del greco risulta essere solo un ricordo: «Ciascuno
la propria tristezza / se la compra dove vuole – // anche in una bottega nera / austera / tra libri
impolverati / che si liquidano a prezzi dimezzati – // libri inutili – / tutti i TRAGICI GRECI – /
ma se il greco non lo sai / più – / mi sai dire perché li hai / comprati? // […] Milano, 12 maggio
1933». Cfr. POZZI Parole, pp. 219-220. Rilevo invece, ad esempio, la presenza nella biblioteca
della Pozzi de Il teatro greco di Ettore Romagnoli, Fratelli Treves, 1924, sul quale la poetessa
segna: «Antonia Pozzi, Milano – Luglio 1928». Ciononostante, la Pozzi frequentò nell’a.a.
1930/’31 e ’31/’32, il corso di Lingua e Letteratura greca presso l’Università di Milano, cfr.
VECCHIO, Gli appunti…, pp. 341-342.
186
Il quaderno si apre con la citazione «Hieme et Aestate / et prope et procul. / Usque dum vivam
et ultra» sottolineata dalla Pozzi con la matita rossa nella sua copia del libro di A. FOGAZZARO,
Daniele Cortis, Casa Editrice Baldini e Castoldi, Milano 1923, p. 63. Si tratta delle parole della
protagonista del romanzo, Elena, che trova nella propria onestà la forza di lasciare il suo amato
cugino Daniele scrivendogli questo biglietto e facendo così vincere la ragione sulla passione,
evitando di consumare adulterio. Nella biblioteca pozziana sono presenti quasi tutti i romanzi di
Fogazzaro. Purtroppo la data apposta da Antonia sul volume è tagliata dalla pagina. Si legge
solo: «Antonia Pozzi 27 giugno 19[…]». Le ultime due cifre, che sarebbero determinanti per la
datazione delle Spigolature restano perse, probabilmente tracciate su un foglio sottostante. È
chiaro però che già nell’estate del 1925 la Pozzi si era accostata all’opera dell’autore, se si trova
nella biblioteca anche Piccolo Mondo Antico, della stessa casa editrice e stampato nello stesso
anno del Daniele Cortis, con la firma «Antonia Pozzi, Agosto 1925». La progressione con cui
sono ordinati i libri, da sinistra a destra, è la seguente: Piccolo Mondo Antico (ed. firmata e datata
1925), Piccolo Mondo Moderno (ed. non firmata), Daniele Cortis (ed. 1925 con firma giugno
19[...]), Il mistero del poeta (edito nel 1925 non firmato), Il santo (edito nel 1925 non firmato),
Leila (edito nel 1925 non firmato); Vita di Antonio Fogazzaro (firmato e datato Febbraio 1927)
del Gallarati Scotti. Di Fogazzaro, prima di questi volumi ci sono Le ascensioni umane del 1914
e un’altra edizione di Leila del 1911, entrambe di una differente casa editrice (Piacenza,
Stabilimento tipografico “L’arte Bodoniana”, Lorenzo Rinfreschi di A.), e forse passate ad
Antonia dai genitori. Questa progressione mi fa credere che l’opera sia stata integralmente letta
fra il 1925 e il ’27. L’inizio del quaderno delle Spigolature è forse da retrodatare dunque al 1925,
soprattutto se si considera che la seconda citazione è riferita alla Lettera di G. Puccini a G.
Adami, (che tratta il tema della febbre, della malattia dell’arte), e che impressioni sullo stesso
Puccini sono contenute in apertura dei diari pozziani, nella pagina del 21 dicembre 1925.

92
che potessero farle da guida, aiutarla nella creazione di un senso di radicamento

alla vita tramite una direzione che potesse essere anche spirituale, ma personale.

L’attitudine alla scrittura deve essere iniziata per gradi: se si considera che il

primo frammento diaristico (noto) è del 21 dicembre 1925, e che questo tipo di

scrittura conferma la necessità per la Pozzi di trovare uno spazio dove riversare

l’impeto dei propri pensieri, non mi sembra assurdo pensare che al contempo la

poetessa avesse già necessità anche di uno spazio dove riordinare le idee in

merito alle numerosissime letture che stava, negli stessi anni, precocemente

affrontando. Il lavoro sarà andato intensificandosi poi negli anni liceali,

soprattutto a motivo di quella fervente ricerca filosofica – anche al di fuori del

programma scolastico – a cui Cervi spingeva gli alunni e di cui Antonia parla sia

a lui che alla nonna in due lettere del 1928. Al professore, il 25 luglio del 1928:

«Molti dei libri che, da quest’inverno, ella mi va consigliando, mi hanno aperto degli
spiragli su un mondo nuovo, al quale non avevo pensato mai, e mi hanno suscitato una folla di
incertezze e di dubbi […] provo un gran senso di smarrimento. Ora mi permetto di chiedere a
Lei, che è sempre tanto buono con me, da dove io debba cominciare per dare una base alle mie
idee che sento sperdute in un buio spaventoso. Ho tanta voglia di imparare; mi sembra di non
aver mai vissuto prima d’ora […]»187.

Qualche giorno dopo, il 31 luglio 1928, Antonia scrive alla nonna Nena una

lettera da Pasturo, dove ritroviamo un accenno alle traduzioni dal greco e dove

vengono sottolineati gli apporti dei libri di filosofia consigliati dal Cervi:

«Io ho ripreso qui a studiare un po’ per conto mio: traduco specialmente dal greco, per
familiarizzarmi un po’con questo terribile osso duro; adesso, se non altro, mi è venuto a piacere
molto: indizio, credo, che faccio progressi. Spessissimo ho la gioia di vedermi ricordata dal
Professor Cervi, che ha poi la pazienza di chiarirmi per iscritto tutte le difficoltà che incontro
nello studio, e che mi manda in dono sino a qui molti bellissimi libri. Così le buone letture non
mi mancano. Ritiro anche, sempre con le schede firmate dal Professore, molti volumi a Brera.
Altri ne compro. E sono sempre libri sulle origini, lo sviluppo, la storia, il contenuto filosofico

187
POZZI, Ti scrivo…, p. 76.

93
dell’arte, libri di storia greca e romana, di letteratura, di filosofia soprattutto. Sento che questo
studio mi fa un bene immenso. Mi pare di affacciarmi a una grande luce, mi sembra di cominciare
a vivere adesso.»188.

In particolare la ricerca di Dio e di una vita morale devono essere stati argomenti

molto discussi fra Cervi e la Pozzi, come sottolineato dalla stessa Dino 189. Un

altro tassello che mi spinge a retrodatare l’inizio del quaderno delle Spigolature

è appunto la presenza in esso di frammenti di un articolo di Guzzo190 del 1914,

apparso sulla rivista L’Eco della cultura e che Antonia riporta con il titolo Una

geremiade. Nelle citazioni si fa spesso riferimento ad un’esperienza della vita

completamente scollegata da confini morali in grado di distinguere

razionalmente il bene dal male e di guidare così l’azione. Si delinea quindi la

cruda realtà dell’espunzione della vita morale dalla condotta moderna: si sono

perse le ragioni delle distinzioni operate dalla coscienza, vige il principio del

piacere. Nella lettera del 30 maggio del 1929 che Antonia indirizza a Cervi, mi

pare di ritrovare sostanzialmente un’ammissione di colpa in merito ad una vita

senza fede da parte della giovane studentessa – forse per attirare i rimproveri (e

le conseguenti attenzioni) del professore, forse per una concreta visione

autodistruttiva del sé (non credo davvero che l’anima di Antonia, per quello che

traspare dai suoi scritti, per il ricordo che ne hanno portato i compagni e gli

amici191, possa considerarsi, in effetti, a-morale, ma anzi, tutt’altro,

188
Ivi, p. 77.
189
Nell’introduzione a POZZI, Parole, p. 10.
190
Augusto Guzzo, amico di Cervi e, negli anni relativi alla datazione della lettera, docente di
Filosofia e Storia della Filosofia al Magistero di Torino. Cfr. POZZI, Ti scrivo…, p. 87, nota n°80.
191
Si confronti per esempio la lettera che Remo Cantoni invia il 04 dicembre 1938, subito dopo
la morte di Antonia, al padre Roberto Pozzi: «La nostra “Antonia”, mi permetta in quest’ora di
chiamarla così, ebbe purtroppo uno stranissimo destino, che solo ora mi si svela nella sua dura
tragicità. Ella si dava con l’anima intera alle cose, alle persone che le erano care, era un continuo

94
costantemente tesa ad una vita morale superiore192), forse per un momento di

effettiva stanchezza interiore, disorientamento e disillusione –.

Queste le parole della lettera:

«Caro Cervi, ho letto stamattina la relazione di Guzzo al congresso di filosofia. Sono


un po’ scossa, ma non sto male. Cosa vuole: io non ho la forza di star male. Sì, potrò illudermi,
per qualche ora, come oggi, di non poter più vivere così, sena fede, senza religione, negando più
per abitudine che per convinzione…Ma poi!... Che cosa vuole che nasca da questi brevi momenti
d’ansia, se non una confusione sempre più folta che io, nella mia ipotesi intellettuale e morale,
posso risolvere soltanto con una scrollata di spalle? Stasera sarà tutto passato. E allora, quando
sarebbe il momento di mettermi con calma a pensare e soprattutto a studiare, io dimentico
completamente l’affanno di poco prima: mi metto a guardare il cielo; penso che le stelle sono
fitte come i battiti del mio orologio: per ogni stella un ticchettio. Mi esaurisco così, in una
contemplazione superficiale e incosciente. Poi mi dipingo la scorza a tinte liliali: dentro rimango
un torso di cavolo. Vede, Cervi: penso che è anche inutile che lei mi mandi dei libri: tanto non li
leggo. Non ho più la forza di fare niente di serio. Anche questo mio scriverle, cos’è, se non uno
sfogo egoistico? Posso scriverle le cose più impure: sempre lei mi risponde con la stessa dolcezza
silenziosa. Mai una volta che m’abbia additato i miei errori. Le ho chiesto una parola d’aiuto nel
problema vitale: lei me l’ha negata. Lei comprende che da sola non posso cercare niente. Che
cosa vuole che concluda io sulla divinità di Cristo, se nessuno mi ha insegnato a crederci193; se
quando ero bambina ne ridevo e adesso mi sembra che non valga nemmeno la pena di pensarci?

dono del suo aiuto, del suo appoggio, del suo conforto ch’essa recava agli amici, poche persone
avevano il senso del sacrificio e la generosità dell’animo suo. […] Vedo ora chiaro in molte cose,
soprattutto nel “senso” della sua vita, tesa tra due estremi, che hanno nome poesia e amore. Erano
per lei le cose più serie della vita. E poesia non era solo per lei i versi ch’essa amava e
componeva, ma uno stile una forma di vivere. In ogni suo atto, in ogni suo pensiero ha portato
questa sua poesia che le colorava l’universo e mentre le dava la certezza di vivere con maggiore
profondità, l’allontanava talvolta dalla realtà vissuta. Amore era la sua essenza, la sua radice. Lo
portava negli studi come il fuoco con cui ravvivava la cultura, l’arte, la letteratura e lo portava
nella vita.», in ivi, pp. 362-363. Oppure si veda la testimonianza di Isa Buzzoni, impegnata – con
Graziella Bernabò – a fugare l’ipotesi di un amore saffico fra lei e Antonia, non per pudicizia o
omofobia ma perché il fatto concretamente non sussistette mai. Ella sottolinea, nella figura
dell’amica poetessa, gli aspetti di impegno verso la vita come doti da ammirare: «Antonia era
una creatura pulitissima e sono state dette e scritte cose che non corrispondono alla sua
personalità. La mia amicizia con lei è stata serena e l’ammiravo per la sua cultura e il suo
comportamento nella vita. Isa Buzzoni Pizzi, 24 ottobre 2002.», in BERNABÒ, Per troppa vita…,
p. 273.
192
Suor Onorina Dino afferma in merito, nell’introduzione a POZZI - GADENZ, Epistolario…, p.
35: «Questa ricerca di Dio appare un tutt’uno con il desiderio di elevazione spirituale, di ascesi
e di ascesa, di ricerca incessante di un’alta moralità di vita; anzi spesso esse sembrano prevalere,
quasi fino a sostituirsi a Dio: “…i doveri che mi attendono mi sono tutti presenti: e i più ardui
sono i più belli. Io voglio essere capace di compierli tutti.”». La citazione di Antonia è tratta
dalla lettera del 26 aprile ad Antonio Maria Cervi.
193
In un frammento di lettera della Pozzi a Cervi del 14 luglio 1929 è conservata questa icastica
descrizione della vita religiosa della sua famiglia: «delle […] loro […] anime, una non pensa,
un’altra nega decisamente, e un’altra, che sarebbe poi la mia, cammina a zig-zag, tentando di
frenare, da una parte, il sentimento, che avrebbe pace soltanto nel dire sì, ciecamente; e
trascinando, dall’altra, la ragione che, nel buio, si ostina a gridare di no […]». In POZZI, Ti
scrivo…, pp. 91-92.

95
In uno dei miei fugacissimi risvegli, le ho chiesto, in nome della fraternità, di guidarmi e di
stimolarmi, perché mi conosco bene e so che ho bisogno di uno sprone continuo per combattere
la mia incostanza che mi fa dimenticare tante cose con una facilità spaventosa: lei mi ha negato
il suo aiuto. In fondo, ha avuto ragione: io non sono né un’anima religiosa né una mente
filosofica. Di filosofia, quando leggevo qualchecosa e lei mi era vicino, credevo di capirne un
poco: ma oggi mi accorgo che non ci ho mai capito niente. Non so nemmeno che cosa voglia
dire immanente e trascendente: si figuri se penso a conciliarli! Credo che posso benissimo andare
avanti così: qualche stella, qualche fiore, qualche poesiucola. La mia pigrizia ne ha fin troppo.
Poi, quando resterò sola e avrò bisogno di trovare i miei morti in qualche luogo, allora troverò
comodo adagiarmi supinamente in una fede acquisita, di recitare l’imparaticcio, così, per
consolarmi…»194.

Anche se i due documenti relativi a Guzzo non coincidono195, è interessante

notare che nel quaderno delle Spigolature appare subito dopo un’ampia

campionatura dei versi del fratello di Cervi, Annunzio, che Antonia cita per

l’appunto anche nella lettera del 30 maggio, subito dopo il frammento che ho

riportato:

«Le voglio bene, sì: che importa? Lei è la mia vita: il pensiero di lei mi carezza l’anima,
continuamente. Ma cosa vuol dire, questo, se io non conosco nemmeno il suo Dio; se non so
nemmeno pregare per il suo fratello caduto?».196

Di quel giorno, come notano le curatrici della raccolta epistolare di Antonia da

cui traggo le citazioni, è anche la poesia Vuoto, dedicata ad Antonio Maria Cervi,

dove vengono raccolte molte delle immagini di questa lettera, fra le quali vi è

anche questa impossibilità di pregare per il suo fratello caduto.

Questo approfondimento in merito al quaderno delle Spigolature, mi è utile per

194
Ivi, pp. 87-88.
195
Il congresso al quale A. Pozzi fa riferimento nella lettera è indicato da M.M. VECCHIO in Gli
appunti…, in AA. VV., … e di cantare…, p. 356: «La P. allude alla relazione letta da Guzzo al
VII Congresso italiano di filosofia (cfr. A. Guzzo, Il VII Congresso italiano di filosofia, in “La
Cultura”, luglio 1929, pp. 432-433; cfr. Aa. Vv. Augusto Guzzo, cit., p. 15), non reperita
nell’archivio Pozzi.». L’articolo de «L’Eco della Cultura» al quale mi riferisco, Una geremiade.
A proposito del frammento nietzscheano": Uber Musik und Wort, come ho anticipato, è del 16
dicembre 1914; credo che la lettura risalga al massimo al 1929.
196
Ibidem.

96
sottolineare un aspetto molto importante della formazione di Antonia. Se, infatti,

la sua vocazione è sicuramente lirica, è necessario ricordarsi, ai fini di una ricerca

sulle fonti che influenzarono il suo punto di vista sulla vita e la sua poetica, che

la giovane aveva uno spirito eclettico, si interessava ai più disparati aspetti della

cultura ed era incline ad ampie meditazioni filosofiche, con l’obiettivo di dare

una risposta al proprio dolore, ossia alla difficoltà con cui si trovava ad affrontare

l’esistenza – o meglio, la pena con cui sopportava il ruolo che si sentiva cucito

addosso da fattori esterni (sociali, famigliari, amicali, relazionali) nell’esistere –

. Ribadisco, come ho già fatto in precedenza, che la sua scelta universitaria fu

per la facoltà di Lettere e Filosofia, e che si laureò in Estetica, pur avendo optato

per il curriculum di Filologia Moderna197. La poesia, come poi sarà la fotografia,

resta un linguaggio attraverso il quale riesce a rompere l’assordante silenzio in

cui era rinchiusa quella vena ricca di vita che sentiva pulsare dentro di sé, ma

che non sapeva come conciliare con un mondo che ad ogni occasione sembrava

respingerla. Per tutta la vita Antonia ha avuto un atteggiamento ambivalente nei

confronti dei suoi versi: vi riversava la sua anima, ma spesso non ne era sicura o

soddisfatta, e li denigrò in varie occasioni198. Per questo tentò fin da

giovanissima di trovare una risoluzione anche razionale o quanto meno – a suo

modo – critica – ossia verificabile nel percorso di altri autori, a problemi che

sentiva come intimamente personali e al contempo universali. Antonia assorbiva

con estrema serietà gli insegnamenti ricevuti, ma soprattutto il senso delle parole

197
VECCHIO, Perché la poesia…, p. 117.
198
Si veda per esempio l’espressione «“l’esercito di monchi e di storpi”» usata per riferirsi al
suo quaderno di versi ed utilizzata in una lettera che scrive a Paolo Treves il 26 agosto 1933, in
POZZI, Ti scrivo…, p. 179.

97
che erano in grado di toccarle l’anima, di essere verificate nel suo stesso dolore.

È giusto quindi, nell’ottica di una ricerca sulla formazione letteraria di Antonia,

indagare ancora la concezione di Dio per come la Pozzi stessa la propone

attraverso la lettera a Gadenz del 29 gennaio 1933, perché, introducendo

velatamente il pensiero di alcuni filosofi199, frutto di una lunga meditazione, la

poetessa arriva, a mio parere, a conclusioni molto vicine anche a quelle di un

grande letterato, uomo di teatro e pensatore come Luigi Pirandello200. Del noto

scrittore e drammaturgo siciliano, la Pozzi possedeva – almeno per quanto è dato

ricostruire dalla biblioteca pasturese – otto volumi della raccolta di testi

drammatici Maschere nude201, i romanzi I vecchi e i giovani202 e Quaderni di

Serafino Gubbio operatore203 (quest’ultimo con alcune parti sottolineate), le

199
O. Dino, primariamente nelle pp. 38-39 dell’introduzione a POZZI - GADENZ, Epistolario…,
individua alcuni di questi filosofi, presenti negli scritti della Pozzi, nelle Spigolature e nel diario,
citando così la nostalgia metafisica dell’anima e il percorso ciclico delle ipostasi di Plotino;
l’idealismo romantico di Fichte (che è tratto però da un passo del diario del 1935, dunque più
tardo); la teologia romantica di F.D.E. Schleiermacher, corredata da postille di A. Guzzo.
200
Nato a Girgenti, ora Agrigento, in Sicilia, il 28 giugno 1867 e morto a Roma il 10 dicembre
del 1936, Nobel per la letteratura nel 1934, Luigi Pirandello fu uno dei massimi uomini di cultura
dell’inizio del Novecento. Iniziò come poeta, proseguì come scrittore di novelle e romanzi, per
dedicarsi poi anima e corpo al rinnovamento del linguaggio teatrale.
201
Nell’edizione Mondadori delle Maschere nude, Tutto il teatro di Pirandello, sono presenti i
seguenti volumi, senza dedica: vol. III contiene L' uomo dal fiore in bocca * Il giuoco delle parti
* Il piacere dell'onestà * L' imbecille * L' uomo, la bestia e la virtù, edito nel 1935; vol. V: Cosí
è (se vi pare) * Tutto per bene * La ragione degli altri, 1937; vol. VII: Pensaci, Giacomino! *
Lumíe di Sicilia * Il berretto a sonagli * La giara * Cecè * Il dovere del medico * Sagra del
Signore della nave, 1937; vol. VIII: Ma non è una cosa seria * Bellavita * La patente * L'altro
figlio * Liolà * O di uno o di nessuno, 1937; vol. IX Non si sa come * Trovarsi * Quando si è
qualcuno, edito nel 1938. Tre volumi portano la dedica di Lucia Bozzi: vol. I, edito nel 1933:
«Al mio sempre caro Tugnin, / da Mortara (!!!) / Lucia / S. Antonio 1934», contenente Sei
personaggi in cerca d’autore * Ciascuno a suo modo * Questa sera si recita a soggetto; vol. II
«13 febbraio 1934 Lucia» contenente Enrico IV * Diana e la Tuda * La vita che ti diedi, edito
nel 1933; vol. IV Come prima meglio di prima * Vestire gli ignudi * Come tu mi vuoi, edito nel
1935 con dedica di Lucia Bozzi «Al Tugnin di sempre, la / vecchia Cia, come sempre. / S.
Antonio 1938 XVI». Non è presente il vol. VI.
202
L. PIRANDELLO, I vecchi e i giovani, A. Mondadori Editore, Milano 1931.
203
ID., Quaderni di Serafino Gubbio operatore, A. Mondadori Editore, Milano 1934.

98
raccolte di Novelle per un anno204 e Una giornata205. È giusto ipotizzare che la

Pozzi fosse affascinata dall’anticonformismo delle posizioni di Pirandello, teso

a smascherare le affettazioni della società riproducendone gli allucinati

meccanismi sulla scena. Le radici filosofiche che accomunano le intuizioni del

drammaturgo siciliano alla poetessa milanese, si possono individuare

primariamente nel pensatore tedesco Georg Simmel206 che fu maestro di Antonio

Banfi207, quest’ultimo a sua volta docente della Pozzi nei primi anni Trenta.

Riporto il passo della lettera per poi approfondire l’intreccio di Pozzi-Pirandello:

«Ora Lei [Gadenz] vede che un Dio così non si può né chiamare né pregare né porre
lungi da noi per adorarLo; lo si può soltanto vivere nel profondo, poi che è Lui l’occhio che ci fa
vedere, la voce che ci fa cantare, l’amore, ed il dolore che ci fa insonni. E questa nostra vita
irrimediabile, questo nostro cammino fatale, in cui ad ogni istante noi realizziamo, noi creiamo,
per così dire, Dio nel nostro cuore, altro non può essere che l’attesa del gran giorno in cui
l’involucro si spezzerà e la scintilla divina balzerà nuovamente in seno alla grande Fiamma. Ora,
di questo Dio che non si lascia staccare dalla vita, dove possiamo avere più immediato il senso
che nei momenti in cui più la lotta si acuisce tra lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire?
E non è la poesia uno di questi momenti? L’estasiata gioia del sogno non si scontra forse nel
bisogno e nella fatica di gettare quel sogno in parole? E un po’ dell’assolutezza divina non riluce
forse nell’atto di quella fatica? Io credo che il nostro compito, mentre attendiamo di tornare a
Dio, sia proprio questo: di scoprire quanto più possiamo Dio in questa vita, di crearLo, di farLo
balzare lucendo dall’urto delle nostre anime con le cose (poesia e dolore), dal contatto delle
nostre anime fra di loro (carità e fraternità). Per questo, Tullio, a me è sacra la poesia; per questo
mi sono sacre le rinunce che mi hanno tolto tanta parte di giovinezza, per questo mi sono sacre
le anime ch’io sento, di là dalla veste terrena, in comunione con la mia anima.»208.

Con queste parole Antonia sistematizza in maniera molto chiara a Gadenz – che

204
ID., Novelle per un anno, vol. I, Arnoldo Mondadori, Milano 1937.
205
ID., Una giornata, in Novelle per un anno, vol. XV, Arnoldo Mondadori, Milano 1937.
206
Georg Simmel (1858-1918) filosofo e sociologo tedesco. «Punto di partenza della riflessione
di S. fu l'insieme dei fenomeni storici e sociali indagati come manifestazione di vita, e dunque
per un verso dal punto di vista sociologico, per l'altro nella prospettiva di una filosofia morale e
di una filosofia della storia profondamente rinnovate.». Cfr. voce enciclopedia on-line Treccani.
207
Cfr. F. PAPI, Vita e Filosofia. La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Guerini e
associati, Milano 1990, p. 74.: «Simmel, maestro berlinese di Banfi nel 1910.».
208
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 100.

99
doveva pur conoscere Simmel209 – la posizione del poeta (e quindi la propria)

rispetto a Dio, alla realtà delle cose nel loro fluire, alle altre anime con le quali

si sente in comunione. Il lessico, davvero religioso, ma di una religiosità senza

dogmi, tutta indirizzata ad un’esperienza della spiritualità che sia connessa al

proprio intimo e più profondo modo di sentire e intuire l’energia della vita – e

quindi anch’essa in costante evoluzione e movimento –, dimostra un’ascesa alle

vette del pensiero che vive di sincretismi. Mi sembra che Antonia, infatti,

esponga a Gadenz – nelle lettere dell’11 e del 29 gennaio 1933 – un sistema

poetico-filosofico-religioso fortemente improntato a una pragmatica, e che vada

quindi ricucendo parola per parola una serie di insegnamenti ricevuti dai propri

maestri, proponendoli insieme ad un sedimentarsi delle verità apprese e

guadagnate con dolore nella quotidianità della vita, usando il filo delle proprie

vaste letture, degli studi e delle meditazioni più personali. Riguardo ad esempio

al frammento di lettera dell’11 gennaio dove Antonia parla della poesia come

catarsi del dolore, Graziella Bernabò evidenzia come:

«Affior[i] qui una concezione che si potrebbe definire “neoclassica”, purificatrice, della
poesia, mediata però dall’insegnamento di estetica ricevuto da Giuseppe Antonio Borgese210,
con un di più, evidente in quell’immagine finale della “immensità della morte” come “catarsi
della vita”, che fa pensare alla “grande morte” di Rilke (nella quale si esprime l’intero senso di
un’esistenza) e a tutto un complesso retroterra culturale di matrice mitteleuropea.» 211.

209
Il critico Matteo Veronesi, nel suo saggio dedicato a Tullio Gadenz La “lunga pazienza” di
un poeta mitteleuropeo, commenta così la presenza del pensiero di questo filosofo nella relazione
Gadenz-Pozzi: «Il dramma di queste due anime stava anche e proprio nel conflitto fra abbandono
alla natura e travaglio della riflessione filosofica: la “tragedia della cultura” indagata da Georg
Simmel, e ripresa da Banfi nella sua riflessione fra “mondo della vita”, libero fluire
dell’esperienza, e stabilità, relativa fissità, delle forme concettuali.». Il saggio si trova in
GADENZ, Infinitezze…, pp. 135-142, la citazione è tratta da p. 141.
210
Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), giornalista, scrittore e docente universitario di
Antonia Pozzi, fu figura di intellettuale e critico letterario influente, scrivendo fra le varie testate,
alcune anche da lui fondate, per il «Corriere della Sera» di Milano e per «La Stampa» di Torino.
211
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 126.

100
La relazione fra questa cultura mitteleuropea – che diventerà un tassello

importantissimo della formazione letteraria di Antonia durante e dopo gli anni

universitari –, e la cultura classica della poetessa, costituisce uno degli snodi

fondamentali della sua evoluzione, nonché il tentativo di respirare un’aria

eccentrica rispetto ai diktat culturali fascisti – secondo i quali la cultura non-

italiana era da guardarsi con sospetto –212. In particolare lo studio della filosofia,

che negli ultimi due secoli aveva visto la Germania protagonista, non poteva

prescindere dall’apprendimento della lingua e della cultura tedesche. Comincia

così per Antonia anche un grande amore per la letteratura germanica, un amore

che la vedrà soggiornare per lunghi periodi all’estero. Nell’estate del 1936 è in

Austria, a Gmunden, dove frequenterà «per due mesi un corso universitario di

lingua e letteratura tedesca per stranieri, in particolare sul Faust di Goethe e su

Hugo von Hofmannsthal»213 e dove « in seguito sarà raggiunta dalla madre, con

la quale visiterà varie città della Germania»214. Dal febbraio 1937 sarà, invece,

«per più di un mese, in Germania e a Praga»215, sacrificando addirittura «la

montagna alle pietre e alle luci delle grandi città straniere», vivendo giorni

intensissimi e imparando «abbastanza bene il tedesco».

L’importanza della cultura tedesca, vista come porta d’ingresso al pensiero

filosofico, è cresciuta sulla base dello studio che, in anni precedenti a quelli

universitari, Antonia andava coltivando grazie ai consigli di lettura di Cervi, fra

212
Approfondirò la relazione fra fascismo e formazione pozziana nel cap. III.
213
POZZI, Ti scrivo…, p. 239.
214
Ibidem.
215
Questa e le citazioni seguenti sono riprese dalla lettera indirizzata a Tullio Gadenz da Milano
il 28 marzo del 1937 contenuta in POZZI, Ti scrivo…, pp. 268-269.

101
cui figurano i Monologhi del filosofo e teologo tedesco F.D.E. Schleiermacher.

Nato a Breslavia il 21 novembre del 1768 e morto a Berlino il 12 febbraio 1834,

il filosofo romantico ci viene presentato da suor Onorina Dino come colui che

«riduce il problema religioso a sentimento della relazione diretta dell’anima con la


divinità; la sua è una religione senza dogmi e senza chiesa, coscienza immediata della dipendenza
dell’uomo da Dio, coscienza che si realizza, appunto, nell’affettività e, forse, proprio per questo
“non si lascia staccare dalla nostra vita […]; lo si può soltanto vivere nel profondo [e] non si può
né chiamare né pregare né porre lungi da noi per adorarlo”; [quello di Schleiermacher] è, dunque,
un Dio individuale e soggettivo, che, a ben considerare, nemmeno la morte può staccare “dalla
nostra vita”, dal momento che essa sarà semplicemente un ritorno alla “grande Fiamma”» 216.

In questa sintesi della Dino fra le parole della Pozzi rivolte a Gadenz nella lettera

del 29 gennaio 1933 e il sistema di pensiero di Schleiermacher, si legge appunto

la capacità riorganizzativa della Pozzi nel modellarsi una cultura che, come

accennavo, possa vivere di sincretismo e progressive acquisizioni, oltre che di

summe del tutto originali. L’operazione continua di ricerca, rielaborazione e

sintesi culturale era vissuta con l’etica del compito, della missione, da parte di

Antonia, che era interessata a dare un fondamento filosofico – una legittimazione

– alla propria vocazione poetico-esistenziale. Questa prolifica relazione fra

filosofia e poesia si evidenzia, secondo Graziella Bernabò217, proprio nel passo

della lettera del 29 gennaio 1933 in cui Antonia parla della sacralità della poesia,

della vita e dei rapporti umani, generando:

«una poetica che mediava tale romanticismo [filosofico] attraverso il misticismo


poetico di Rilke. Ma tutta [di Antonia] era la generosità con la quale intendeva, ben diversamente

216
POZZI - GADENZ, Epistolario…, pp. 39-40.
217
In BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 128: «Una concezione dunque, sacrale della vita e dei
rapporti umani, quella della Pozzi, sulla traccia della filosofia romantica in genere, e più
specificatamente di quella del filosofo e teologo tedesco Schleiermacher, ai cui Monologhi
l’aveva accostata Cervi».

102
da quest’ultimo (che amava ritirarsi spesso in solitudine), protendersi in concreto verso il mondo
esterno per “chiamare le cose e le anime sorelle”. Su questa strada Antonia Pozzi approdava
perciò a una poetica e a una poesia dell’incontro e dell’accoglienza, nell’intenzione di mettere
l’altro-da-sé, in ogni schietto e profondo contatto con gli esseri umani e con gli oggetti, al centro
non solo della propria poesia ma della propria vita.»218.

Al centro dell’indagine culturale della Pozzi, torna quindi il tema della relazione,

declinata in un rapporto fra dottrina e prassi, fra filosofia e poesia, fra sentimento

religioso e osservazione della realtà nel suo farsi: in sostanza fra l’Infinito e il

suo limite. Una relazione creatrice che si esprime in Dio e che vive

dell’immediato e continuo trasformarsi della vita in forme, le quali si spezzano,

poi, per costituirsi nuovamente in altro. È, quindi, nella strozzatura di questa

evoluzione che Antonia si sente: la poetessa ha necessità di limiti219 (forme,

ruoli) che la tengano al sicuro e la proteggano dalla malattia della malinconia e

della solitudine220, ma al tempo stesso è irrimediabilmente attratta dal fluire della

vita, dalle alte vette del sublime e dai misteri degli abissi nascosti che la realtà le

mostra o le fa intuire, senza posa. La sua razionalità non cessa di soffrire e

interrogarsi circa la propria eccessiva sensibilità, accusandosi di mutevolezza e

218
Ibidem.
219
Così scrive in una poesia della primavera del 1932, Limiti: «Tante volte ripenso / alla mia
cinghia di scuola / grigia, imbrattata, / che tutta me coi miei libri serrava / in un unico nodo /
sicuro – / Né c’era allora / questo trascendere ansante / questo sconfinamento senza traccia /
questo perdersi / che non è ancora morire – / Tante volte piango, pensando / alla mia cinghia di
scuola – // Milano, 16 aprile 1932». In POZZI, Parole, p. 180.
220
Per una lettura della malinconia di Antonia si veda il delicato saggio di Eugenio Borgna
contenuto in E. BORGNA, Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano 2003, cap. III, Morire
dell’indicibile fiore del sorriso, pp. 68-84. In particolare riporto questo passaggio delle pp. 74-
75: «Ogni esistenza è colma di silenzio e di mistero, di ritrosia e di nascondimento; e la sua cifra
segreta è luminosa e oscura, aperta alla speranza e trafitta dal dolore. Resta, comunque, straziante
questa divaricazione, questa dissonanza, fra esteriorità, i modi di apparire e di essere percepiti
dagli altri, e interiorità, i modi di vivere la vita nella profondità della coscienza, in una figura
umana immersa in un orizzonte di assoluta creatività come questa di Antonia Pozzi. Nel suo
destino, nelle sue poesie, nei suoi diari e nelle sue lettere rinascono motivi di riflessione dolorosa
e accorata che possono aiutarci a dilatare la nostra conoscenza della vita e del dolore: della
malinconia.».

103
di incostanza221, senza riuscire a darsi risposte che non siano un nuovo

mascheramento attraverso l’arte, dove può attingere in maniera pura alla propria

visione e alla propria, immediata, verità. L’unico modo per riconciliarsi con se

stessa sembra essere quello di contraddire una parte di sé, ed è qui, in questa lotta

titanica consumata in silenzio, che io leggo nella Pozzi molto del forestiere della

vita pirandelliano, di quel tipo di eroe che è tale perché ha compreso il carattere

fittizio del meccanismo sociale e accetta il continuo fluire della vita, al quale

anch’esso si risolve di partecipare, senza schematizzarsi in alcuna forma. Nel

contempo, però, Antonia, pur avendo capito il giuoco delle parti, non può

prescindere, per via della contingenza storica, sociale, famigliare, in cui si trova

a vivere, dal darsi una forma accettabile da tutto questo contesto e si sente – con

essa – condannata ad essere inesorabilmente finta, posticcia, incompleta. La

Pozzi non può accedere, dunque, alla soluzione di Pirandello, ad una visione

umoristica della vita, partecipare di uno sguardo distaccato – insieme pietoso e

lievemente divertito – sulla società che pure, nelle sue grette trappole, ha in odio.

Nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, ad esempio, sottolinea

specialmente quei passi in cui si vive un senso di rovesciamento, straniamento

ed esclusione rispetto al contesto e al canone di una normalità:

«Già, perché tutto ciò che faccio, sento e dico, è condannato a parere a tutti

221
Fin dalle prime poesie emerge questo senso di inadeguatezza della sua persona, ad esempio
in Gelosie: «Mi son detta ch’egli è stato giusto: / ch’io non sono degna di niente: // io, accozzaglia
sommessa d’inquietudini. / Io, sonnolenza e febbre addizionate, / biascicato rosario di abitudini,
/ rimescolio di nostalgie sbavate. // […] Milano, 15 maggio 1929.», in POZZI, Parole, p. 74.
L’egli a cui si riferisce è Antonio Maria Cervi che aveva donato una fotografia del fratello
Annunzio, a un’altra persona – forse Lucia Bozzi –, anziché a lei: da qui la gelosia. Cfr. la nota
relativa alla poesia. Con Remo Cantoni, come spiegherò in seguito, era attivo un dibattito sul suo
presunto “disordine” mentale e morale, in chiave autoaccusatoria.

104
esagerato!»222:

«Quanto mi piacque quest’improvviso ritorno allo sprezzo!» 223;

«Ma più strano ancora m’è sembrato questo: che quando invece a un certo punto,
parlando, il suo sentimento s’è accostato – per così dire – alle lagrime, queste d’un tratto gli son
venute meno. Mentre la voce gli s’inteneriva e gli tremava, gli occhi, al contrario – quegli occhi
insanguati e disfatti poc’anzi dal pianto – gli sono diventati arsi e duri: feroci.
Quel ch’egli dice e i suoi occhi non possono dunque andar d’accordo.»224.

«Se rientrassi di là, nella sua stanza, e gli dicessi con gioja: “Signor Nuti, sa? Ci sono
le stelle! Lei certo se n’è dimenticato; ma ci sono le stelle!”, che avverrebbe? A quanti uomini,
presi nel gorgo d’una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe
bene pensare che c’è, sopra il soffitto, il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle.» 225.

Ed è in questi esempi che si palesa la divaricazione che strazia Antonia, la quale

percepisce e vorrebbe sanare una forte frammentazione dell’io, ma non può

ricordarsi che nel cielo ci sono le stelle come soluzione perenne alle tristezze

che la opprimono226. Questa crisi dell’io è un tema ricorrente negli scritti di

Pirandello, sia come romanziere (si pensi anche solo ai più famosi Il fu Mattia

Pascal e Uno, nessuno, centomila) che come drammaturgo (una su tutte la pièce

222
L. PIRANDELLO, Quaderni di Serafino…, p. 132. Cito dall’edizione della biblioteca Pozzi.
223
Ivi, p. 133.
224
Ivi, p. 153.
225
Ivi, p. 161.
226
Il passaggio dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nella sua risoluzione pacificatoria
dei drammi dell’uomo attraverso l’ammirazione estatica della natura, è molto simile a quello che
si trova in un frammento, probabilmente di lettera inviata a Tullio Gadenz nell’estate del 1938,
e che racconta di un’ascesa con la guida alpina Emilio Comici e una ragazza di Padova, alle tre
Cime di Lavaredo, sopra Misurina: «Lassù nei turbini bianco-azzurri del sogno, col corpo mi si
è rinforzata l’anima. […] C’era un silenzio infinito e pur denso di suoni. Dalla valle profonda di
Sesto, salivano rotti palpiti di campani, giù dalle gole, dai camini, rispondevano rarissime
pietruzze rimbalzanti sul ghiaione. E a me, così supina, pareva che l’enorme conca deserta fosse
pur piena di un’altra musica, una specie di ronzio gonfio e continuo, che sembrava partire da un
gigantesco organo sospeso fra cielo e terra, ed eco: guardando in alto, pensai che avverrebbe
delle nostre anime se quelle nuvole bianche che passano incessantemente lassù avessero ciascuna
un suono, una nota, un canto; più basso le nuvole lente e scure, chiaro argentino le nuvole
candide. Forse in quell’ora era il passo delle nuvole, era la voce che mi sonava dentro come una
sinfonia orchestrale. O forse erano le Tre Cime, là erette come una cattedrale gotica, sventrata
dal fulmine e spalancata a Dio, che lasciavano prorompere l’urlo delle loro preghiere di pietra.
E forse in tutto quel canto la nota più alta era tenuta dall’anima dell’uomo solo lassù, con la sua
vittoria e il suo sonno sotto il sole […] Se potessi sempre ricordarmi di quell’ora, la vita sarebbe
una vittoria continua […].». Si trova in POZZI - GADENZ, Epistolario…, pp. 155-156.

105
Enrico IV). Forse poche delle persone vicine alla poetessa conoscono questo suo

interesse verso il drammaturgo, che deve essere però stato molto importante se

si considera che tre degli otto volumi delle Maschere Nude le sono stati regalati

– tra l’altro in giorni significativi per lei come il suo onomastico o il suo

compleanno – da Lucia Bozzi, la persona con la quale maggiormente

condivideva certi suoi travagli interiori227. Come ricorda Eugenio Borgna,

eminente psichiatra che alla Pozzi ha dedicato alcune pagine dei suoi studi:

«questa separazione, questa scissione, fra la vita interiore, fra le emozioni realmente
provate, e la vita esteriore, le emozioni intenzionalmente tenute nascoste fa ripensare (vorrei
ripeterlo) al mistero del dolore e ai segreti dell’anima, che vivono in ciascuno di noi e che non
vengono decifrati, non vengono interpretati, dagli altri; fa ripensare, ancora, a queste infinite
maschere nietzschiane che si sovrappongono ai nostri volti, al volto luminoso di Antonia Pozzi,
che le fotografie ci mostrano nel suo dolce sorriso e nella sua espressione meditativa e
malinconica. Ma noi desideriamo essere smascherati, essere riconosciuti, nella nostra autentica
dimensione psicologica e umana. In ogni caso, non si può non essere angosciati e stupefatti
dinanzi alle inquietudini e alla malinconia di Antonia Pozzi: dinanzi alle torturazioni interiori e
alle vertigini della morte volontaria che erano in lei, e che solo nella sua scrittura diaristica e
poetica si manifestavano nella loro radicale sincerità.».228

Come suggerisce Borgna, le affermazioni che Antonia fa nelle sue lettere, non

appartengono al linguaggio della radicale sincerità. Vi è un mascheramento del

227
Si legga almeno questo commovente passo della Bozzi, scritto ad Antonia «verosimilmente
da Brescia, dove insegna presso un istituto di suore, con l’intento di verificare la propria
vocazione alla vita religiosa» nel giorno di S. Antonio del 1936: «Forse la sorgente più fonda
della nostra pace è la fede: pace che non è ozio o pigro ristagno della vita, ma equilibrio, saldezza
interiore, compenetrazione dell’ideale con la realtà, condizione unica e necessaria perché le
energie dell’anima non si disperdano vanamente, ma producano e segnino frutti concreti per il
potenziamento sempre maggiore di noi; fede che forse è più che amore, che è, dell’amore, la
realtà più piena. Per questa fede e sulle tracce di questa pace io sono qui ora, tu lo sai. Perché ho
udito la parola di Colui che disse, ai discepoli che non s’eran turbati per la sua morte: “Io vi do
la mia pace”. Si riveli anche a te, mia sorella, un segno cui tendere in dedizione ferma e sicura,
una realtà in cui credere e per cui operare, nella pace, qualcosa che, trascendendo le mobili
vibrazioni dell’anima, ti radichi con sé nella realtà, perché tu possa produrre frutti concreti di
vita.». In questo stesso giorno, due anni prima, la Bozzi aveva regalato alla Pozzi una copia del
primo volume delle Maschere nude di Pirandello. Due anni dopo questa lettera, il vol. IV. Le
citazioni delle lettere della Bozzi sono tratte da POZZI, Ti scrivo…, pp. 328-329.
228
BORGNA, Le intermittenze del cuore, p. 75.

106
dolore, del caotico – il dionisiaco nietzschiano – attraverso una compostezza

intessuta e imprigionata in un meccanismo – apollineo –, inalienabile per

Antonia e che le è utile per mantenere un qualche tipo di contatto con l’altro da

sé. La maschera vorrebbe essere disvelata per accedere più facilmente ad una

relazione libera, vera, con l’altro, ma non può – seguendo ancora una volta

l’interpretazione di Matteo M. Vecchio – ontologicamente essere violata

attraverso la scrittura epistolare, perché proprio quest’ultima rappresenta

«l’impedimento, la slogatura – laddove la scrittura poetica configura e

costituisce uno spazio di apertura comunicativa e di libertà relazionale.»229.

Questa tragedia paradossale si consuma nella «volontà [di Antonia] di

assestamento identitario sulle attese dell’altro, [la quale] impedisce, rendendola

impraticabile [per questo “altro”], ogni possibilità di legittimazione – oltre che

lacerare ogni potenziale opzione comunicativa – dell’io che scrive, non

permettendo al destinatario di avere accesso all’effettiva fisionomia del

mittente.»230. Mascherandosi per tenere l’altro più vicino a sé, nelle lettere

Antonia finisce inevitabilmente per perdere ogni opportunità di comunicazione

e reale confronto fra la sua vera anima e quella dell’interlocutore. Come si deve

interpretare, dunque, sul piano della verità e dell’utilità per uno studio sincero

della figura della poetessa, la dichiarazione di poetica esplicitata da Antonia

nelle lettere a Gadenz? Io credo che si debba interpretarla nel segno

dell’evidenza di una ricerca costante della Pozzi – sia nel senso culturale del

termine, che in quello di conferme relazionali –. Le lettere testimoniano proprio

229
VECCHIO, Perché la poesia…, p. 99.
230
Ibidem.

107
quell’emersione di una forma momentanea che sussurra mille significati

sommersi e che chiede – anche oggi, implicitamente, ai lettori contemporanei –

di essere disvelata, di essere sciolta dai nodi con cui la Pozzi cercava di legare le

anime dei suoi interlocutori nel momento della scrittura. Nodi creati per

«aggrapparsi a identità verso le quali [provava] affetto e stima e alla cui

fisionomia [guardava] con tesa affettività sfociante in desiderio di

identificazione.»231. Nodi dei quali non è possibile, a priori, verificare lo statuto

di verità se non attraverso la prova della poesia. È importante notare, nell’ottica

di una possibile influenza di Pirandello sulla Pozzi, che la poetessa tentava, nello

stringere questi nodi, di aggrapparsi ad una forma che vedeva come

particolarmente riuscita, che credeva completa e bene avviata su un destino.

Tentava di «aggrapparsi all’altro, cioè, per non permettere che la propria identità

naufrag[asse] nel contesto indistinto del mondo, e per rintracciare un frammento

di sé nell’identità, percepita come felicemente egemone, dell’altro.»232.

Come considerare poi il non-detto, ciò che resta ai margini, escluso o velato dalla

comunicazione epistolare? Secondo Vecchio esso costituisce per Antonia una

sorta di protezione di quel sé più vero che in fondo lei credeva quasi impossibile

mettere in gioco, in relazione con il mondo esterno:

«Questo velame di non-detto può attingere a una volontà da parte dell’io di non rivelare
il profondo di sé – un sé che, nel momento in cui fosse rivelato, perderebbe forse quella sua
dimensione interiore, quel secretum non condivisibile né rivelabile se non a costo di svilirlo e di
perderlo, e di perdersi. Il non-detto può dunque costituire una sorta di reticolo protettivo che si
frappone tra il sé che scrive e, sensu lato, il mondo. Un sé che non va scalfito ma preservato, in
quanto parte “più vera” e autentica – e autenticante –, in un certo senso fondativa, senza la quale

231
Ivi, p. 100.
232
Ivi, pp. 100-101.

108
sarebbe lo smarrimento e la caduta.»233.

Questa volontà di mantenere il più possibile fedele la relazione con il più intimo

sé e, contemporaneamente, rispondere all’aspettativa che lei immagina l’altro

abbia su di lei, è una spinta fortissima nella ricerca esistenziale di Antonia, che

non la costringe, però, ad operare lo stesso tipo di rapporto con la scrittura

poetica, per quanto anch’essa non sia da considerarsi ingenua, o immediata:

«La cura con cui Antonia Pozzi polisce le proprie parole, e a livello epistolare (anche
nella parziale magniloquenza delle lettere a Gadenz) e, su un piano tuttavia ideologicamente
diverso, a livello poetico, rivela quanto, nelle lettere, tale politura sia strumentale e voluta,
implicata, per lei, nel profondo della forma comunicativa epistolare; e quanto invece, nelle
poesie, essa si configuri quale acuminato esercizio attentivo, essenzialmente rivolto all’io che
scrive, e come spazio simbolico entro cui l’io può, senza lacci coercitivi e senza indossare
maschere incongrue, abbracciare la verità di se stesso.»234.

Seguendo le tesi di Vecchio e di Borgna, ci si dovrebbe forse allontanare

definitivamente dalle lettere per comprendere la vera natura della poetica di

Antonia, o quanto meno tenere sempre presente che le parole subivano in quel

contesto una serie di macchinazioni e di filtri. Per quanto questo distacco critico

possa sembrare naturale, credo, però, che non si debba ingenuamente

prescindere dalla lettura dell’epistolario nell’ottica di uno studio sulla

formazione letteraria della poetessa, poiché non si arriverebbe a comprendere un

certo retroterra che la Pozzi non mostrava apertamente, ma che di fatto

strutturava, attraverso meditazioni magari eccentriche dalla prassi poetica, lo

stesso terreno relazionale da cui, poi, prendevano il largo le immagini poetiche.

233
Ivi, p. 100.
234
Ivi, p. 103.

109
Senza considerare l’epistolario Gadenz-Pozzi non sarebbe forse emerso così

inaspettatamente il ruolo di Pirandello e non sarebbe stato così semplice chiarire

quanto la filosofia abbia costituito, sin dagli albori, uno strumento attraverso cui

Antonia tendeva a una sintesi legittimante fra il proprio modo di intuire la vita e

i modelli entro i quali era costretta a vivere e ad operare.

Ciò che vado indagando all’interno di questo capitolo, non è, quindi, solo

un’identità di lessico o una campionatura di versi e di modelli, ma è l’intero

sistema di pensiero condiviso con altri scrittori, filosofi e amanti della montagna

– sistema che costituisce la rete imprescindibile di relazioni adatta a far emergere

la formazione letteraria di Antonia Pozzi –.

Nella lettera dell’8 maggio 1934 a Tullio Gadenz, Antonia scrive, in merito alla

raccolta di liriche Viandanti:

«Vi sono molte cose che amo nel suo libro, cose per me nuove, come Desolazione,
Eclisse, Fate, Nembi, Vespero e soprattutto Campane, – le campane della mia morte.»235.

Credo sia giusto riportare i testi delle liriche citate dalla poetessa, che mi aiutano

a tracciare un bilancio della relazione Gadenz-Pozzi, prima di passare ad un

breve excursus in merito alla figura di Guido Rey:

235
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 132. Le poesie di Gadenz sono tratte dal dattiloscritto
Viandanti: Desolazione, p. 18; Eclisse, p. 26; Fate, p. 29; Nembi, p. 37; Vespero, p. 43; Campane,
p. 69.

110
Desolazione Eclisse

Tornate Era come se gli astri


Tornate, malinconie: Si fossero
Voci Spenti sui loro
Di pianto Candelabri.
Date
Alle campane del crepuscolo; Ma in un albale
Chiarore, una nuvola
E nella funebre Come un’oscura
E immensa musica Chioma
Della sera, si colmino Scioglievasi lentamente;
Tutte le valli
Di tenebre; e annerino E nell’alveo
I monti Sconfinato
Sugli orizzonti Delle valli,
Stormire sempre più forte
E più S’udiva
Non ritrovi il sole Una fiumana
Questo pianeta Di vento
Mai più. Immensa.

Fate Nembi

Morivan nei cieli le stelle; Transitan come enormi


La luna correva Vele fuggenti da mari
Correva negli ultimi Lontani,
Veli notturni; Pel firmamento i nembi.
Un frusciare
Di fate bianche Sul lento
Passare s’udiva tra i neri Navigar, come fari,
Cipressi: le vele Ardon gli astri
Stormendo fuggivano Dai picchi;
Via per l’alba
Naufragante E la via
Sulle acque Segnan laggiù per la fosca
Lontana. Notte dei monti le Orse.

Vespero Campane

Il grande tramonto glorificava Sentivo suonar le campane.


Il piccolo cimitero: la pace Ma il cuore non udivo più:
Del cielo, Liberamente per l’infinito
Eguale era alla pace Spazio mi portavano
Delle tombe. Ali potenti;

All’oriente, la luna I venti


Da una collina Al mio volo s’aprivano,
Usciva E sparivano nel profondo
Come da un’arca Gli astri

111
Immensa; Con la musica dei loro mari;

E le stelle, Mentre sempre più alte


Azzurri uccelli della sera, Mi seguivano
Dolcemente venivano Coi loro chiari
A posarsi Rintocchi le campane
Sui rami Le campane della mia morte.
Più alti.

Quello che credo aiuti maggiormente a capire il legame fra i due poeti è la

fusione sinestetica della loro capacità visionaria-fantastica con la musicalità

della vita quotidiana, condensata in una parola che indica distintamente una

realtà, ma al contempo apre al volo verso l’infinito, l’oltre, l’alidilà. Si tratta di

una ricerca tesa all’elevazione del concreto tramite l’esposizione della sua più

umile natura, lavoro che al contempo fa emergere, per misterioso contrasto, un

significato ulteriore, più profondo. Il ruolo è così via via interpretato in primis

dalle campane, dal vento, dal canto degli uccelli, da elementi – naturali e non –

dotati di una propria capacità musicale: in Gadenz: «Mi seguivano / Coi loro

chiari / Rintocchi le campane / Le campane della mia morte»236; in Pozzi: «il

canto del torrente / sosterrà / fedele / sopra il suo grembo / il silenzio

fanciullo.»237. Poi, anche ciò che non avrebbe una musicalità propria se non

quella in grado di vivere della sensibilità dei due poeti, assume una voce,

soprattutto in relazione alla natura. Ma la modalità per i due poeti è differente.

Ad esempio, Gadenz crea, tramite Gli astri / Con la musica dei loro mari di

Campane, un accostamento di immagini che vive della sua capacità fantastica di

intrecciare un rapporto fra due entità naturali che appartengono ad elementi

236
Campane in GADENZ, Viandanti, p. 69.
237
Attendamento, in POZZI, Parole, p. 238.

112
diversi: lo scorrere degli astri in cielo (che di per sé non ha suono) è

accompagnato dalla musicalità del mare nel suo frangersi continuo. È lui il

demiurgo, è lui che connette attraverso il filtro lirico ciò che in realtà potrebbe

anche essere diviso o in relazione con tutt’altro. L’immagine è effusiva,

comprensibilissima per chi è in sintonia con la sensibilità del poeta; ma altri

elementi celesti, per esempio le nuvole, potrebbero essere al posto degli astri e

l’accompagnamento sonoro dei mari funzionerebbe ugualmente238. In un certo

senso, la creazione sonora di Gadenz qui analizzata resta – e non è un giudizio

ma una constatazione – arbitraria e aperta. Questo movimento, – il dono di una

voce a realtà che di per sé sarebbero mute – questo trascolorare delle cose in

suoni, è più complesso e oggettivo in Antonia. La Pozzi sembra avere sempre

bisogno di un intermediario molto reale, come se temesse di tradire la vera voce

delle cose, e, forse, in parte, di non poter essere compresa. Si legga la poesia

Esempi del 10 aprile del 1931:

«Anima, sii come la montagna:


che quando tutta la valle
è un grande lago di viola
e i tocchi delle campane vi affiorano
come bianche ninfee di suono,

238
Si veda in questo senso lo studio di Dalla Torre in merito al lavorìo di Gadenz sulla lirica di
Viandanti del 1934 Nuvole, che diventa Mezzanotte in Vento sugli alberi del 1944 in GADENZ,
Infinitezze..., p. 130-131. Le nuvole della prima lirica, si trasformano proprio in astri, con un
movimento opposto a quello che ho cercato di suggerire per Campane. Riporto i versi di Nuvole,
in Viandanti, p. 48: «Salgon dall’oscuro / Recinto le nubi / Furtive / A baciare / La pallida / Luna
morente; // Le stelle / Ignude / Si celano / Nell’azzurro; // Ed i venti / Sulle cime / Degli alberi /
Senza / Respiro si fermano. //». Questi invece i versi di Mezzanotte: «Roghi di astri ardono /
solitari sui monti; / alla luce / di remotissimi mondi / rivolta è la luna. // Nel profondo / come
foglie i rintocchi / dei campanili si perdono / e i venti / sulle cime degli alberi / senza respiro si /
fermano.». Chiaramente il movimento trasformativo qui è ampio e porta con sé, nelle prime
strofe, concetti differenti. Ma è un indizio che nell’immaginazione del poeta un certo sentimento
del tempo notturno possa filtrare in modo ugualmente efficace da nuvole e astri, che ne sono
correlativi oggettivi.

113
lei sola, in alto, si tende
ad un muto colloquio col sole.»239.

La voce della montagna viene comunque rispettata nella sua condizione

ontologica: è un silenzio che cerca il proprio dio-sole, un atteggiamento che

l’anima è invitata ad emulare in funzione di un’ascesi. Ma nel descrivere il

momento del muto colloquio che la montagna-anima intrattiene con il sole-dio,

la poetessa mostra l’uso differente del meccanismo sonoro rispetto a Gadenz:

sono sempre i suoni delle campane, reali, a ritrovare nella natura delle immagini

rassomiglianti, in questo caso delle immagini che traducano il loro ritmo fatto di

apparizioni di suono cadenzate da pause. La realtà è prima trasformata

fantasticamente dalla poetessa: la valle che diventa lago viola, interpretando il

momento del crepuscolo. Quest’immagine è poi precisata ed arricchita, descritta,

attraverso metafore che si propongono come univoche, quasi a giustificare

razionalmente l’invenzione poetica: le bianche ninfee di suono sono paragonate

chirurgicamente ai rintocchi delle campane. Non è possibile veder affiorare altro

dalle ninfee sul lago della valle per significare il ritmo sonoro240. Si può quindi

239
POZZI, Parole, p. 161.
240
L’immagine delle ninfee, presente anche in Gadenz, ha una sua valenza nella poesia di fine
Ottocento (come nella pittura, una su tutte quella impressionista di Claude-Oscar Monet). Cito
dal saggio di Matteo Veronesi dedicato proprio a Gadenz La “lunga pazienza” di un poeta
mitteleuropeo, contenuto in GADENZ, Infinitezze…, p. 140: «“Abissi delle astrali ninfee / nel
golfo del crepuscolo”. Così, nella poesia Incantesimi (trascritta interamente dalla Pozzi, per
essere poi ridotta e modificata da [Gadenz]), con una metafora alata, fra simbolismo ed
ermetismo, [il poeta trentino] fondeva i vertici siderali con le profondità oscure della terra,
dell’origine, del declinare e adombrarsi che precede la notte. È il D’Annunzio di Canto novo,
che fa sorgere i versi “come da l’acqua nenufari in fiore”; o il Nénuphar blanc di Mallarmé, che
con il suo intangibile candore avvolge “un nulla fatto di sogni intatti, della felicità incompiuta e
del soffio trattenuti nel timore d’una apparizione”. Eppure, per Tullio ed Antonia il fiore della
poesia – quasi il segno stilizzato del pensiero, dell’espressione, della vocazione che è destino,
accettazione, scelta di vita e insieme voce, sillaba, parola, canto – non sfuma in dantesco, e
dannunziano, impalpabile “incognito indistinto”, ma è semmai esperienza vitale,

114
affermare che la tensione relazionale dei due poeti nei confronti dell’emersione

della musicalità e della connotazione poetica degli elementi sia quasi vicina

all’opposizione. Cerca lo spazio e l’effusione immaginativa dalla condensazione

di poche parole l’uno; cerca di precisare e giustificare il proprio diffuso sentire

simbolico l’altra. Cosa li unisce dunque, se non il ritmo e non lo stile?

«La montagna e i suoi silenzi, la montagna e le sue voci sono il fascino di

entrambi: la stessa vetta, un pensiero di morte e l’indefinito spazio celeste»241.

Così suor Onorina Dino suggella la relazione Gadenz-Pozzi, come un colloquio

tematico delicatissimo che riesce a rendere reali le fantasie, affascinante la

morte, vicine e sorelle le stelle, testimoni del fluire misterioso della vita fino al

suo perire242.

fenomenologicamente sentita nella concezione e nella creazione.». Ricordo che la poesia della
Pozzi è del 1931, per cui esente da influssi di Gadenz.
241
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 45.
242
Si confrontino, almeno per il tema delle stelle, le poesie della Pozzi, Sorelle a voi non dispiace
in POZZI, Parole, p. 136 «Sorelle, a voi non dispiace / ch’io segua anche stasera / la vostra via?
/ Così dolce è passare / senza parole / per le buie strade del mondo – / per le bianche strade dei
vostri pensieri – / così dolce è sentirsi / una piccola ombra / in riva alla luce – / così dolce serrarsi
/ contro il cuore il silenzio / come la vita più fonda / solo ascoltando le vostre anime andare – /
solo rubando / con gli occhi fissi / l’anima delle cose – / Sorelle, se a voi non dispiace – / io
seguirò ogni sera la vostra via / pensando ad un cielo notturno / per cui due bianche stelle
conducano / una stellina cieca / verso il grembo del mare. // Milano, 6 dicembre 1930», Notte e
alba sulla montagna, pp. 264-265: «Ascesa lenta / nel chiarore lunare, / mentre il sonno degli
uomini ed i lumi / delle strade deserte / stagnano nelle valli – // ascesa – per i prati / vestiti / di
seta bianca – / e gli alberi, / draghi neri / con occhi di luce / nelle paurose creste – // attonito
ruscello, il sentiero / per trecce di ghiaia conduce / alla sua fonte / sul volto / della montagna
dormiente, / alla fronte / dove crescono le più fini erbe, / arsi capelli / e dalle sigillate pupille /
un tremito / sulla vetta / nasce – // Or lenta una stella s’invola / e già rapida trae / a sé in fondo
al cielo lo stormo / delle sorelle: / muti sull’orma spenta / ricadono i battenti celesti / dell’alba –
/ Ora guance di lontani monti / fra le nebbie si volgono /nel risveglio, al primo / rossore – / Già
escono dai campanili le voci / delle nuove campane: / a groppa a groppa, / urtandosi, salgono –
/ gregge in cerca di sole – // 1 ottobre 1933», e Morte delle stelle p. 251: «Montagne – angeli
tristi / che nell’ora del crepuscolo / mute piangete / l’angelo delle stelle – scomparso / tra nuvole
oscure – // arcane fioriture / stanotte / nei bàratri nasceranno – // oh – sia / nei fiori dei monti /
il sepolcro / degli astri spenti – // 13 settembre 1933» con quelle di Gadenz contenute in
Viandanti, come Mistero, p. 28: «O stelle immortali, che uscite / Nei cieli, ogni sera, e alle vette
/ Dell’Universo salite; // O voi, che passare vedeste / Iddio abbagliante sul caos, / E giù
nell’abisso calare / Dei mondi, il sole; // Perché tanto buio s’addensa / Ora alla volta suprema? /
Perché il vostro sguardo trema / D’orrore, ogni notte, lassù?», Fate (il cui primo verso è Morivan

115
Un’eccezione in ambito italiano, secondo il critico Matteo Veronesi, questa

poesia di montagna che legava Gadenz alla Pozzi e, quindi, a tanti autori del

mondo germanico e mitteleuropeo.

«Si può dire che l’Italia non abbia avuto – anche per ragioni di geografia letteraria –
una poesia della montagna quale quella del mondo germanico e mitteleuropeo, da Hölderlin (per
il quale le altezze e le nubi sono emblema di un limite conoscitivo da inseguire e sfiorare, senza
poterlo varcare, ma trascendendo i confini del sé) a Rilke, i cui monti, nelle Elegie Duinesi, sono
invece le estremità e le acutezze di uno spazio e di un tempo metafisici, assoluti, puri, cristallini
e tersi proprio come l’aria e l’acqua delle vette, da Nietzsche, che proprio lungo i sentieri
dell’Engadina – viatico verso l’esperienza del limite e del suo superamento – incontrò quell’altro
se stesso che è Zarathustra, per arrivare a Thomas Mann, che nella Montagna incantata vede le
altezze di roccia e di ghiaccio come spazio della sospensione esistenziale, del limbo interiore,
dell’esitante distanza del mondo. È se vogliamo emblematico – anche se certo non in senso
assoluto –, e figlio dell’astrazione e dell’artificio estetizzanti, il “blasfemo disgusto” di
d’Annunzio di fronte alla natura alpina e lacustre del paesaggio svizzero, e all’enfasi romantica
degli Idilli di Salomon Gessner, che proprio a quello scenario di ispiravano.
Diverso il caso di Tullio Gadenz, e della sua delicata e dolente interlocutrice Antonia
Pozzi: per i quali, peraltro, la montagna, le altezze, le guglie, le rupi, le voragini non sono affatto
indistinta hyle, materia selvaggia, informe, ingovernabile, e neppure spaesante abisso,
vertiginoso gorgo nel senso del sublime romantico; ma, semmai, specchio limpido dell’anima,
eco materiata del pensiero creatore, correlato oggettivo – quasi come nel Petrarca dell’ascesa del
Ventoso – di un percorso conoscitivo proteso oltre se stesso, di un itinerarium mentis che,
valicando ascensionalmente i limiti della contingenza, poteva culminare nella concezione e
nell’esperienza del Divino e dell’Essere così come del Vuoto e del Nulla.»243.

Si lega così – in una vicinanza tematica eccentrica rispetto al coevo mondo

poetico italiano ed esplicitata, quindi, in amore per la montagna e in anelito

all’ascesa –, il nodo fra la cultura mitteleuropea e il sentire poetico di Gadenz e

della Pozzi. A trasportarli nel fluire del verso è una costante tensione di assoluti:

nei cieli le stelle), Vespero, Plenilunio (p. 47, soprattutto l’ultima strofa: «Sul cancello /
Spalancato, / Fermo è come una visione / Il plenilunio mentre ardente / Passa il grande funerale
/ Delle stelle / Tra i cipressi d’occidente //» e, infine, Stelle, pp. 54-55: «Palpitan come cuori /
Gonfi d’azzurro / Ed eterno / Sangue, / Le stelle: che siano / I nostri morti lassù? // In lunghe fila
per l’alta / Notte camminano / Pellegrini celesti, / O in splendenti / Ghirlande d’argento /
Lievissimi danzano: // Voci / Già udite, e lontani / Canti d’amore / Si odono / Giungere /A volte
sul vento.». Quest’ultima poesia riporta, nella versione di un quaderno inedito dattiloscritto che
sembra essere una rielaborazione di Vento sugli alberi, e quindi dopo la morte della poetessa, la
dedica scritta a mano «Ad Antonia Pozzi».
243
Il saggio di Veronesi è contenuto, come già accennato nelle precedenti note, in GADENZ,
Infinitezze…; la citazione è tratta dalle pp. 135-136.

116
«Come Antonia, così anche Tullio Gadenz vedeva, nella montagna, nella tensione di
superamento, di ascesa/ascesi, che essa evocava, un riflesso di quella dialettica di Leben e Geist,
di Vita e Spirito, immediatezza dell’esperienza e riflessione intellettuale (come pure fra Mehr-
Leben e mehr-als-Leben, più-Vita e più-che-Vita, esistenza intensificata, resa più significativa e
più piena, e nello stesso tempo oltrepassata e trascesa, nelle forme dell’arte), che la Pozzi, allieva
della scuola fenomenologica, proiettava sugli autori letti e amati – si trattasse di Flaubert, di
Mann o di Rilke – come, con duplice reciproco riflesso, sul proprio stesso vissuto. La Vita,
levatasi al di sopra e al di là di se stessa, finiva per sfumare, coscientemente, nell’oltrevita,
nell’al-di-là-della-Vita, infine nella negazione, nell’Abisso, nel Vuoto, in un Nulla sidereo ed
eterno.»244.

Al di là di questa consonanza nel sentire il rapporto arte-vita e nella conseguente

esplicitazione tematica, resta innegabile il fatto che, se per la Pozzi il canto

disciolto nei versi è la forma naturale del suo più intimo sentire, per Gadenz

sembra richiedere molto meno sforzo, invece, l’effusione in prosa:

«L’amicizia di Antonia e Gadenz, nata sulla montagna e all’insegna della poesia, di esse
continuamente si alimenta: stelle e rocce, alberi e nuvole, nelle lettere e nelle poesie fanno
sempre da sfondo ai sentimenti e alle parole dei due corrispondenti, e se Gadenz fa più fatica a
creare il ritmo, nella prosa dimostra un’abilità metaforica e pittorica che rivelano la sua
straordinaria delicatezza d’animo; del resto, al primo incontro, proprio questo deve aver colpito
la sensibilissima Antonia con le antenne dello spirito sempre tese ad intuire e percepire […]»245.

244
Ivi, p. 138.
245
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 44. A mio parere la continua revisione dei propri versi da
parte di Gadenz, che di raccolta in raccolta cambia la divisione ritmica delle liriche, non
determinando – almeno apparentemente – uno slittamento sostanziale del contenuto, è una prova
di questa difficile operazione di condensazione poetica, paragonabile al sacrificio di se stessi
nell’atto di ascendere alle vette, spogliazione di invisibili dettagli che diventa pura ascesi. Si
legga in questo senso l’interessante saggio di Matteo Veronesi La “lunga pazienza” di un poeta
mitteleuropeo, contenuto in GADENZ, Infinitezze…, pp. 135-151. Per avere, invece, un riscontro
dell’incanto totale in cui Gadenz riesce ad immergere il lettore attraverso i suoi testi in prosa, si
leggano almeno le due relazioni d’ascensione alpina contenute in DALLA TORRE - GADENZ, A
voce sola…, pp. 93-102 Le Aquile e Il Cimone della Pala, pubblicate originariamente in
Brennero rispettivamente l’8 e il 21 gennaio 1931. Dall’incipit de Le Aquile cito il risveglio
sonoro del poeta-viandante-alpinista: «Dolce preludio di campane, nel silenzio notturno e dalle
vie dei sogni, eccoci sul sentiero di Val di Roda, nel giardino selvaggio della foresta. Alte le nubi
dormono ancora sulle soglie dei cieli; ma già le stelle s’illuminano del sorriso dell’alba, mentre
le fronde si dondolano ebbre nella freschezza della notte. Sul limitare della selva, le prime luci
risvegliano le miosotidi della malga; un soffio di gioia passa su tutti gli origlieri [cuscini]; il
canto dell’alba intessuto di gorgheggi, sale dagli abeti, i balconi celesti si riempiono di azzurro,
lontana lontana, l’Aurora varca le porte dell’infinito…». Ivi, p. 93.

117
Subito dopo la Dino rievoca come esempio di questa sensibilità del poeta

trentino – dimostrata nella prosa –, un passo della lettera di Gadenz del 15

gennaio 1933 in cui risponde ad Antonia in merito alla visita della poetessa al

cimitero di guerra246:

«Cara Antonia,
la notte scorsa molte stelle devono esser morte di freddo in mezzo alle roccie [sic] –
poiché svegliandomi – ho trovato sul vetro della finestra un meraviglioso giardino di ghiaccio;
c’erano tanti minuscoli alberi con le fronde larghe e sottili come quelle dei salici; ma sopra tutta
quella foresta d’incantesimo c’era un abete con in vetta una piccola croce. Era passata forse la
sua mano durante la notte – vicino alla mia finestra?
Mi sono incuriosito e stasera sono salito a quel cimitero sotto il Cimon della Pala. La
sua crocetta non c’era più fra le sbarre: era caduta sulla neve. Ma io l’ho raccolta – ho varcata la
soglia – dopo tanti mesi – e mi sono arrampicato su quella croce alta e bianca nel mezzo del
camposanto. Ed ho messo il Suo ramoscello lassù: la Sua gentilezza per i morti meritava
quell’atto. Io ho visto in quell’istante che gli abeti si destavano e che i raggi di sole orlavano
d’oro quel grande monumento funerario che è il Cimone da lassù.».247

Così commenta il passo, dunque, la Dino:

«L’immagine delle stelle che “devono essere morte di freddo in mezzo alle rocce”
rivela l’umanità del giovane poeta trentino e al tempo stesso l’innocente fantasia del fanciullo
che ama le fiabe e le inventa, trasformando i ghirigori del ghiaccio sui vetri in un “meraviglioso
giardino, una foresta d’incantesimo”, nella quale il desiderio dell’amica, di deporre una piccola
croce sulle tombe dei caduti, diviene realtà, perché in quella foresta spicca più in alto “un abete
con in vetta una piccola croce”.»248

Gadenz, come la Pozzi, crede nella purezza dei gesti e in una dimensione

incantata dell’esistere che va osservata, accolta, cantata, sacralmente, in modo

da permetterle di trovare una sua realtà concreta. Porta infatti a compimento con

delicatezza la missione dell’amica, un atto che lei, presa da un dubbioso rispetto

e dall’impossibilità di considerarsi anima degna di pace, non riesce a compiere.

246
Lettera dell’11 gennaio 1933.
247
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 91.
248
Ivi, p. 44.

118
Ma – e qui sta il miracolo di questa amicizia che non è mai scesa nella totale,

quotidiana confidenza249–, è come se Tullio, a seguito del gesto, venisse

assorbito dai concreti dubbi a-confessionali di Antonia, quelli che lei nemmeno

gli ha mai esplicitato. Subito però la certezza della fede – sussurrata da una

panica natura –, rassicura l’animo del giovane che vorrebbe addirittura

trasformare la luce di tramonto della vita della poetessa in luce d’aurora. Così

si esprime Tullio nel prosieguo della lettera:

«Ma poi – scendendo in mezzo alle tombe – ho avuto l’impressione che anche la pace
dell’al di là sia una grande illusione. Se fosse vero – se tutti quei soldati dormissero soavemente
– non crede Lei che tutti i viventi si precipiterebbero verso la Morte? Le dico questo non per una
convinzione passeggera – ma perché io sento questo grande fiume funebre che abbraccia la terra
– e più ancora le nostre vite – come l’antico Oceano. Anzi talvolta essa mi prende – come un
alto mare di tenebre – e mi porta in mezzo a tempeste attraverso il futuro. Così io immagino l’al
di là: questa sarà forse la pace verso la quale corriamo con tanta fede.
Ma Lei non mi creda – io stesso non voglio crederci; e ritornando a S. Martino – quasi
per dirmi che non era vero – la foresta ha fatto riudire i canti dei suoi uccelli – anche se cadeva
la neve – ed io ho parlato con Lei di ben altre cose – mentre camminavo fra gli alberi. Vorrei
ripetere qui quel colloquio – e la luce di tramonto della sua vita – diventerebbe luce d’aurora –
ma il silenzio è forse più bello.». 250

Nell’identità delle Radici251 e nella differenza degli esiti: è in questo scarto del

vissuto che si consuma la relazione poetico-esistenziale fra Antonia e Tullio.

249
«L’amicizia fra Antonia e Gadenz è, fin dall’inizio, un’amicizia a tutto tondo, fiduciosa e
confidente, senza tuttavia varcare mai i confini della riservatezza; Antonia, infatti, fa intuire
all’amico l’angoscia che la stringe da ogni parte, anzi gliene parla esplicitamente, ma non ne
rivela le cause, come, del resto, fa l’amico. In questa amicizia tutto è fonte di gioia, tutto dà una
sensazione di sicurezza, di dolcezza, di soavità.». Onorina Dino così condensa la natura della
relazione fra i due in ivi, p. 31.
250
Ivi, pp. 91-92.
251
Titolo di una poesia della Pozzi del 15 febbraio 1935, in POZZI, Parole, pp. 355-356: «Gronda
di neve disciolta / la casa. Trasale / l’anima al tonfo delle gocce fitte. // Così sfacendosi / dolorano
le cose. // Ma lontano, / oltre i vali del sole e gli insicuri riflessi, / oltre il trascolorare delle ore,
/ vive un esiguo mondo / d’erba e di terra. // Radici / profonde nel grembo di un monte / a
Primavera votate / si celano. // E conosco / io sola / il nome d’ogni fiore / che fiorirà, / la luce
ed il pezzo di zolla / in cui prima riappaia la tenera / esistenza delle foglie. // Radici / profonde
nel grembo di un monte / conservano un sepolto segreto / di origini – / e quello per cui mi riapro
/ stelo / di pallide certezze. //».

119
Fino all’ultimo, nel segno della Malinconia252 la poetessa porterà nel cuore le

dolci immagini del giovane trentino:

«Tante immagini risorgono, con la dolcezza suasiva del sogno: rivivo una lontana sera,
l’assorto silenzio suo e mio nel vocìo confuso di tante persone ignote; rivedo le sue mani, nel
gesto rapido con cui mi donarono alcuni fra i suoi versi più belli – si rammenta? – “…ed esser
vorrei – di un grand’albero – in una scura – sera la più profonda – radice”. Come una radice
profonda, su dalla terra segreta dell’anima, risale fino ai miei occhi la luce pensosa dei Suoi
occhi.»253.

Sulle note di questa dolcezza malinconica vorrei riprendere il filo della

narrazione delle relazioni di Antonia con le Alpi e l’alpinismo, e spostarmi verso

ovest, alle vette del Cervino. Nel luglio 1933254 la Pozzi si trova a Breil con

l’amica Elvira Gandini, per partecipare al X attendamento sociale della Sezione

CAI di Milano. La musica della natura è nuovamente la protagonista

dell’incontro con la pace montana, così essenziale per lei in questo momento del

difficile distacco da Cervi. Un’armonia che Antonia assorbe con ogni fibra del

suo corpo e della sua anima come un balsamo benefico e che riesce a rielaborare

e rivivere in poesia solo nella distanza, dalle sue montagne di Pasturo. Tanta è la

potenza delle impressioni e delle esperienze di quei giorni che i versi255

fioriscono rompendo un periodo di silenzio della Musa di quasi tre mesi. Il canto

252
Malinconia è una poesia di Tullio Gadenz, pubblicata in O. DINO, Introduzione in POZZI -
GADENZ, Epistolario…, p. 69. Secondo Dalla Torre, si trattava in origine di un «foglietto
manoscritto di Gadenz, incollato da Antonia Pozzi in [M].», in GADENZ, Infinitezze…, p. 41.
Ecco il testo: «Quando io mi ricordo / D’esser ancor sulla terra / Subito al cuore s’afferra / La
malinconia, // E più non v’è donna / Che in dolce abbraccio chiudendomi / Possa destarmi alla
gioia // Ma esser vorrei / Di un grand’albero / In una oscura / Sera – la più profonda / Radice.
//».
253
Lettera a Gadenz dell’estate del 1938, scritta da Pasturo, in POZZI - GADENZ, Epistolario…,
p. 157.
254
Confrontando le date delle lettere, delle fotografie, si dovrebbe trattare della settimana 23-30.
255
Si tratta delle poesie Acqua alpina, Respiro, Mano ignota, Cervino, Attendamento, Notturno,
Distacco dalle montagne, tutte in POZZI, Parole, fra le pp. 230-241.

120
prende l’abbrivio dallo scrosciare lieto del torrente di Acqua alpina: «Gioia di

cantare come te, torrente; / gioia di ridere/ sentendo nella bocca i denti / bianchi

come il tuo greto; / gioia d’essere nata / soltanto in un mattino di sole / tra le

viole / di un pascolo; / d’aver scordato la notte / ed il morso dei ghiacci.»256. Per

la poetessa è come ritrovare un sicuro abbandono panico nella natura, il conforto

del Respiro257 della giovinezza perduta, ora cadenzato dal ritmo della dolce

compagnia musicale dell’armonica a bocca della Gandini: «Abbandono notturno

/ sul masso / al limite della pineta / e il tuo strumento fanciullesco lentamente /

a dire / che una stella / due stelle / sono nate / dal grembo del nevaio / ed un’altra

sprofonda / dove la roccia è nera – //»; poi è già il tempo delle consonanze degli

elementi, dall’ascesa delle luci notturne che danzano sulla melodia e

simboleggiano il riscatto alpino dell’uomo: «ed un lume va solo / sul ciglio del

ghiacciaio / più grande di una stella / più fioco – / forse la lampada di un pastore

– / la lampada di un uomo vivo / sul monte – / colloquio intraducibile / del tuo

strumento / col lume dell’uomo vivo – // ascesa inesorabile dell’anima / di là dal

sonno – / di là dal nero informe / stupore delle cose – // abbandono notturno / sul

masso / al limite della pineta –». Questa purezza intraducibile del tentativo

assoluto dell’uomo di mettersi in dialogo con una natura che – con la propria

maestosità quasi invincibile – costantemente sforza, sfida, ammaestra e ammalia,

è l’insegnamento più forte di quei giorni. Una lezione che ritroviamo nei versi

256
Ivi, p. 230. Porta in chiusura la dicitura «(Breil) – Pasturo, 12 agosto 1933».
257
La poesia, da cui sono tratte le successive citazioni, si trova in ivi, pp. 231-232. Riporta la
dicitura: «(Breil) – Pasturo, 13 agosto 1933»

121
di Cervino258 e nelle parole lette e rilette259 dell’alpinista e scrittore Guido Rey:

Cervino Lettera a Elvira Gandini dell’08 agosto 1933

Ribellione di massi – Come mi sia passato il tempo fino ad oggi, non te lo


Cervino – saprei dire: so che più le giornate di Breil si
volontà dilaniata. allontanano, e più mi sembrano al di là di ogni
misura, un crepaccio azzurro nella vita uniforme. Ho
Tu stai contro alla notte letto e riletto il libro del Rey: gli ultimi capitoli sono
come un asceta assorto in preghiera. meravigliosi. La precipitosa discesa notturna dalla
Giungono a te le nuvole vetta al rifugio è indimenticabile: e così la
cavalcando descrizione degli abissi del Tiefenmatten. Un po’ in
su creste nere: ritardo, mi ha preso la malattia del Cervino: e popolo
dalle regioni dell’ultima luce di creste, di spigoli, di pareti la sonnolenza borghese
portano doni di porpora e d’oro di queste montagne. Sabato notte, con una luna che
al tuo grembo. inondava tutta la valle, sono salita sulla Grigna, ed
Tu affondi nei doni i ginocchi: ero lassù prima dell’alba, sola sulla vetta, sotto il
chiami le stelle sorriso gelido delle ultime stelle. A poco a poco,
che t’inghirlandino rompendo con gli occhi intenti la nebbia, ho visto il
nudo. nostro Cervino sorgere dalla notte e chiamare a sé i
primi raggi del sole e indorarsene. Allora ho pensato
Cervino – che voglio camminare molto e imparare a non
estasi dura – stancarmi e prepararmi con tutte le mie forze, per
vittoria poter andare almeno fino alla Capanna, e vedere di
oltre l’informe strazio – lassù un tramonto e un’alba. E mentre ero lì,
eroe sacro. immobile, sull’erba madida di guazza, rosata al
primissimo sole, e non mi giungeva altro suono che
(Breil) – Pasturo, 20 agosto 1933 quello delle campane, sospinto, verso l’alto, a
ondate, pensavo alle nostre sere di Breil, alla voce
del tuo strumento che parlava lentamente coi lumi
dei pastori sulla montagna, con le stelle che si
levavano dal nevaio e si coricavano tra le rocce.

Ma chi è Guido Rey e che tipo di relazione si può individuare in merito

all’influenza dei suoi scritti e della sua esperienza di montagna sulla formazione

della Pozzi? Dalla nota su di lui presente in calce alla lettera scritta alla Gandini

e contenuta nella raccolta epistolare Ti scrivo dal mio vecchio tavolo, si

258
Ivi, p. 237.
259
POZZI, Ti scrivo…, p. 177. Le parole lette e rilette dovrebbero essere quelle de Il monte
Cervino, libro di Rey edito da Hoepli nel 1926. Da questa lettera si apprende che anche la
Gandini doveva essere operativa dal punto di vista artistico, se non ci sono elementi sufficienti
che dimostrino uno scambio propriamente lirico-letterario fra le due amiche. La citazione in
esergo al paragrafo 1 «Ma non pensare più di finire…» sembrerebbe riferirsi a questo.

122
apprende:

«Guido Rey (1861-1935), alpinista, fotografo e autore di importanti libri di montagna.


Nella biblioteca Pozzi è presente Il tempo che torna, Montes, Torino, 1929; ma A. P. aveva letto
sicuramente anche Il monte Cervino, Hoepli, Milano, 1926: un libro, come ricordava Elvira
Gandini, fondamentale per capire il senso di un alpinismo ascetico e puro, quindi profondamente
spirituale, in antitesi con quello eroico e nazionalistico di epoca fascista.» 260.

Sicuramente ad affascinare Antonia resta l’impressione spirituale – che risulta

al lettore contemporaneo ancora freschissima e coinvolgente – dei resoconti

delle ascensioni di Rey. Nella biblioteca della Pozzi, insieme al volume citato,

si trova anche Alba alpina, un dolcissimo ricordo di Rey bambino, quando ad

otto anni per la prima volta vede da vicino il Monviso, guidato da un vecchio

cugino pastore. La rievocazione è un misto di fervore patriottico per la prima

guerra Mondiale che incombe a liberare la famiglia di Alpi irredente; di orgoglio

umile nel riconoscere i propri avi padroni della montagna; di celebrazione verso

uno zio come Quintino Sella261 che per primo conquistò il Monviso; di presagi

e dettagli simbolici intimi della relazione che il fanciullo avrebbe costruito con

la montagna; del confronto, a volte sfumato a volte nettissimo, fra la montagna

del sogno e della favola, immaginata dalla pianura e quella per la prima volta

vissuta e scoperta, goduta nella sua semplicità, in grado di superare la fantasia e

260
Ibidem.
261
Nato nel 1827 e morto nel 1884, il Sella si laurea in Ingegneria idraulica il 03 agosto 1947
presso l’Università di Torino. Nel 1852 viene nominato professore di Geometria applicata alle
Arti presso il Regio Istituto Tecnico di Torino (che diventerà l’attuale Politecnico). Competente
in mineralogia, venne nominato direttore del museo mineralogico dell’Istituto. Alla fine del 1853
è nominato professore di Matematica presso l’Università di Torino. Fu quindi valente scienziato
in questo ambito, oltre che Ministro delle Finanze negli anni della Destra Storica e fondatore del
CAI nel 1863.

123
in quella, poi, definitivamente, perdersi262. Soprattutto questo ultimo tratto è

richiamato anche nel capitolo quarto de Il monte Cervino, La prima volta che

vidi il Cervino, in cui Rey rievoca le prime gite in montagna, con la compagnia

di cugini che lo zio Sella allenava alle vette. Si tratta di tempi innocenti in cui

era ancora ignaro che avrebbe avuto il grande privilegio di scalare il Cervino:

«Ora che quel tempo è lontano, mi sembra che del primo desiderio dei monti fosse molta
parte il senso dell’emulazione. Allora io conosceva la montagna per averla veduta da lunge, da’
miei colli, o per aver guardato qualche stampa a colori, di quelle molto primitive che ci venivano
allora dalla Svizzera; mi ero fabbricato nella mente montagne immaginarie come quelle che i
bimbi costruiscono a Natale pel presepio. E, la prima volta che fui condotto entro la montagna
vera, provai, lo confesso, una specie di delusione.
Non riconoscevo le belle vette azzurre che avevo guardato da lontano; qui era un
mucchio di rovine opprimente, triste, massiccio. Non trovavo il paesaggio alpestre quale era
raffigurato nelle vignette romantiche, ove ogni scena è bene composta, con uno sfondo di
ghiacciai miti e tranquilli, inquadrati entro folte foreste di pini; un sentiero orlato di fiori che
serpeggia in fondo alla valle; qua e là un châlet lindo e pittoresco; la cascatella che scende sul
fianco elegante della montagna, e in mezzo al quadro il torrente d’argento che passa sotto il
ponticello di legno.
Non rinvenni allora quest’arcadia dell’Alpi. Le coste dei monti, brulle e pietrose, mi
parevano brutte; in luogo dei poetici casolari di legno incontrai misere macerie di sassi, covi
sudici ed oscuri, che, all’avvicinarli esalavano un acre odore di fumo e di letame; invece del
sentiero infiorato, una traccia irta di ciottoli e di macigni, troppo ripida, che affaticava i miei
piccoli polmoni, e in segreto pensavo che le montagne descritte ne’ libri o dipinte ne’ quadri
erano più belle di quelle vere. […]
Giunto in alto, sulle creste, là donde già si potevano scorgere le valli profonde ai nostri
piedi e si scoprivano i ghiacciai e le catene lontane e l’orizzonte infinito, allora capivo che egli 263
aveva ragione. Trovavo la montagna quale nessuno aveva mai dipinto, che nessun libro mi aveva
descritto, così maravigliosa e nuova come niuna storia di fate mi aveva mai fatto sognare. Provai
sensazioni che niuna cosa mi aveva dato prima: il piacere istintivo di elevarsi al di sopra della
bassura, la voluttà della grande fatica e del profondo riposo che la seguiva. Il pane che divoravo
lassù aveva un sapore che non avevo mai gustato. E scopersi la gioia nuovissima, inesplicabile,
di giungere al punto culminante, ove è la vetta, ove il monte ha cessato di salire e l’animo cessa
di desiderare: è una forma quasi perfetta di soddisfazione dell’istinto, quale forse la prova il

262
«Il giorno passato all’alpe della Coche dovette essere assai importante perché esso abbia
lasciato in me tanta traccia di ricordi; mi sembra oggi che io apprendessi in quelle poche ore più
cose che non in tutto il tempo prima passato. Non sono mai più ritornato lassù: ignoro se il
casolare ospitale esista ancora e se vi abiti un qualche mio lontano parente pastore; di quella
vetta ove, mezzo secolo addietro, ho tanto sofferto e goduto non so dirvi il nome; forse non ne
aveva alcuno, né saprei ritrovare la via; e quasi ho più caro che quei luoghi rimangano nella mia
memoria indefiniti, lontani, come veduti in un caro sogno della fanciullezza. Altri bimbi,
giungendovi, li troveranno intatti, quali a me apparvero allora e, come me, crederanno di avere
scoperto su questa terra un paradiso.». In G. REY, Il tempo che torna, CAI, Milano 2010, p. 171.
263
Lo zio, Quintino Sella, che gli aveva citato Dante: «Questa montagna è tale / Che sempre il
cominciar di sotto è grave / E quant’uom più va su, e men fa male». G. REY, Il monte Cervino,
Hoepli, Milano 2015, p. 164.

124
filosofo che ha conquistato alfine una verità nella quale la mente sua si appaga e riposa.»264.

Il tema dunque di un’ascesi che concilia il corpo con lo spirito, che sazia in modo

quasi perfetto desideri e appetiti, ristorando con il riposo di una gioia vera,

perennemente acquisita, l’inquietudine dell’uomo; la ferma concretezza di una

comunione con la natura libera conquistata tramite la vincita faticosa sopra la

propria stessa natura umana: un credo semplice che la Pozzi dovette sentire

intimamente consonante con la propria visione dell’alpinismo. Secondo

Graziella Bernabò:

«Il tema, che sarà sempre presente in Antonia, dell’“ascesa” [è un ] motivo insieme
realistico e simbolico, di un simbolismo però complesso, interpretabile sia in senso religioso, sia
come una forte affermazione di quella vitalità che il mondo esterno le negava, sia, soprattutto,
come profonda ricerca interiore al cospetto di una natura intatta.»265.

Il tentativo di legittimazione, elevazione e divulgazione dell’idea nobile di uno

sport che si riprometteva più che la semplice esposizione di una prodezza fisica,

ma che ai più sembrava ancora solo una follia per eccentrici abbienti, si ebbe

proprio a cavallo del Novecento, per opera del Rey. Celebre è rimasta la sua

definizione – acquisita dal CAI che la stampò per anni su ogni tessera266 –: «Io

credetti, e credo, la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte,

bella come una fede.»267.

264
Ivi, pp. 163-165.
265
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 89.
266
L’ente era impegnato in quegli anni a indorare di retorici intenti la grande passione per l’Alpe.
Per un confronto sulla scrittura di montagna, la sua retorica e l’intreccio con i valori storico-
sociali in evoluzione nel Novecento si veda l’articolo di Ermanno Filippi Guido Rey e “la lotta
con l’Alpe”, presente sul sito del comune di Bolzano, comune.bolzano.it.
267
La frase è la chiusa dell’introduzione ad un libro di grande successo di G. REY, Alpinismo
acrobatico, edito nel 1914 da Lattes.

125
Il complesso di questi elementi mi pare più che sufficiente a testimoniare il

fascino che la personalità di Rey può aver suscitato sull’animo della Pozzi. Ma

soprattutto, a consolidare la posizione d’importanza dell’autore nel novero degli

autori della poetessa, sarà stata la capacità di quest’ultimo di legittimare ancora

una volta le sue intuizioni appassionate di donna innamorata della natura.

Antonia si vede confermare, nella lettura di una relazione con la montagna

immersa in un immaginario purificante, la propria vocazione a cantarla

ampiamente in poesia. La Pozzi sperimentava infatti, nella lotta per la conquista

della vetta e nella fatica per limarne in versi alcune immagini, una radice

comune. Si tratta, infatti, della stessa lotta morale, della stessa volontà dilaniata

dallo sforzo del lavoro – alpinistico e/o poetico –, teso a raggiungere un’ideale

nobile ma concreto. In questo ascendere è come scrivere, ossia è segnare una via

che possa essere condensata ed espressa attraverso una concezione creativo-

artistica della vita, e tuttavia reiterabile, utile, educativa nella sua bellezza pura.

Il percorso tracciato sulla roccia resta visibile, con la sua grammatica di corde e

di bivacchi, proprio come le parole in poesia possono essere sciolte da mille

nuove voci che in esse sentono risuonare la propria anima. Tre poesie suggellano

questa rinnovata armonia, con note e riferimenti musicali vibranti:

Attendamento268 Notturno269 Distacco dalle montagne270

Stanotte calerà il vento Curva tu suoni Questa è la prova


immenso falco ed il tuo canto è un albero che voi mi benedite –
sulla nostra tenda; d’argento] montagne –
rapirà le nuvole nel silenzio oscuro –

268
POZZI, Parole, p. 238.
269
Ivi, p. 239.
270
Ivi, pp. 240-241.

126
lacerate. se nell’ora del distacco
Sul nostro sonno Limpido nasce la vostra chiesa m’accoglie
le stelle dal tuo labbro – il profilo con la sua bianchezza di sole
sciolte dai veli delle vette – nel buio – e abbraccia forte la mia
intrecceranno ghirlande malinconia
di fiamma e lentissime Muoiono le tue note col canto
danze.] come gocce assorbite dalla delle campane di
All'alba terra – ] mezzogiorno – ]
sarà tepido il risveglio,
dolce come l'accendersi Le nebbie sopra gli abissi Nella piccola piazza
di una lampada fioca: percorse dal vento una donna ridente
il canto del torrente sollevano il suono spento vende le prugne rosse e
sosterrà nel cielo – gialle]
fedele per la mia ardente
sopra il suo grembo (Breil, luglio 1933) – sete –
il silenzio fanciullo. Pasturo, 22 agosto 1933
Per noi, portati sul gradino di pietra
dagli artigli notturni della fontana
del vento, luccica la lama
giaceranno i messaggi delle di una piccozza –
vette]
alla soglia: l’acqua diaccia gela
leggerli sarà lavare il riso in bocca
nel puro azzurro a un fanciullo –
gli occhi le mani stampa lo stesso riso
il cuore – sulla mia bocca –

(Breil, luglio 1933) – Questa è la vostra


Pasturo, 21 agosto 1933 benedizione –
montagne.

(Valtournanche, 30 luglio
1933) – Pasturo, 23 agosto
1933

A gridare questa gioia raggiunta della relazione poesia-Alpe – fatta appunto di

lotta, utile lavoro, nobile arte, bella fede – c’è sicuramente il rapporto

privilegiato con il Cervino, che la poetessa confessa di aver caro, e la conoscenza

diretta con Guido Rey, che incontra nell’estate del 1934, ormai anziano. Così

Antonia parla di lui in tre lettere inviate rispettivamente al padre, alla madre e a

Lucia Bozzi:

127
Breil, 24 luglio 1934271 Breil, 24 luglio 1934272 Pasturo, 28 agosto 1934273

Caro il mio papà, […]. Ieri Carissima mamma, […]. Il …Al Breil rimasi fino al 10
mi hanno condotta da Guido Breil ha però tante attrattive agosto: venti giorni molto
Rey e ne sono rimasta lo stesso: non ultima – anzi intensi, benché a volte tetri e
ammaliata. È un povero una delle più grandi – la minacciosi; ora li ricordo
vecchio malaticcio, ma ha presenza di Guido Rey, che come un miraggio lontano…
due occhi, due occhi color ho conosciuto ieri nella sua Nelle mattine serene salivo
pervinca come non ne ho meravigliosa casa valdostana da sola alla morena del
visti mai. Sta in una casa di e che è un tremulo, Fürggen, che è cosparsa di
legno e pietra, come una bellissimo vecchio, con due fiori meravigliosi; e lì restavo
grande baita valdostana, con occhi color pervinca quali per delle ore, nel sole
larghe vetrate sul Cervino. non ho mai, assolutamente violento. A 3000 metri, sotto
Parla piano di un’infinità di mai, visto al mondo. Si le immense pareti del
cose rare, del mondo di rimane incantati a guardarli, Cervino, sola come la prima
artisti, alpinisti e guide in cui come si guarderebbe il cielo anima sulla terra, portata
è vissuto. Non ci si stanca di sopra una montagna, avanti da quel vento che non
ascoltarlo e di guardarlo, resuscitato dopo anni di è neppur vento, che è come il
mentre racconta. Ci sono tempesta. Non so: occhi che tremito leggero del silenzio e
delle sue nipoti, con lui, sono di più di tutta una storia, che solo il fischio di una
amiche della Maria e della di tutta una vita; che fanno marmotta lacera o il cadere
Giulia [Giussani], che ci pensare alle fiabe e alla delle slavine. […] Quando
tengono tanta simpatica poesia. Sono tanto contenta, poi parlai della mia gioia
compagnia. perché la cara e della solitudine, qualcuno si
simpaticissima Elena Belotti stupì: chi mi capiva e mi
(nipote di G. R.) mi ha detto approvava, senza parlare, col
oggi che io sono molto solo cenno dei suoi magici
piaciuta allo zio, che si è occhi azzurri, era Guido Rey.
tanto divertito a sentire le mie Che occhi, Lucia! Color
storie del campeggio e tanti pervinca, cielo dopo la
altri discorsi: figurati! È un tempesta, fiaba: si pensa ai
vero piacere poterlo distrarre secoli di luce sepolti oltre le
e divertire un po’, perché è vette, oltre le nubi. Si resta
molto malato e nervoso: sono muti a guardarli, a berli, ci si
tanto contenta di esserci perde in un prato di
riuscita. E poi dice che io prodigiosa innocenza, in un
sono divertente, perché parlo fiume di silenzio. Oh, la sua
con le mani e con le bracca: è voce dolce di vecchio, nella
vero? sua casa di pietra e di legno!
Le sue mani pallide, scarne,
sul tavolo scuro di abete – o
levate nel saluto come a
benedire! Che bello, che
bello, Lucia, avergli parlato,
aver sentito che lui mi
capiva, ch’era contento
quando andavo a trovarlo!
Che gioia vedere il suo
fuoco, quella notte, su dal
rifugio…

271
POZZI, Ti scrivo…, pp. 201-202.
272
Ivi, pp. 204-205.
273
Ivi, pp. 211-212. Frammenti di lettera indirizzati alla Bozzi trascritti a mano da Roberto Pozzi.

128
Nella parte di lettera inviata a Lucia Bozzi che ho omesso per il confronto, sono

narrate le esperienze alpinistiche di quell’estate 1934, condotte insieme alla

guida alpina dei Giussani, Joseph Pellissier274:

«Molto in alto fui soltanto due volte: in una giornata splendente sulle creste del Fürggen,
che è facile facile, ma in uno scenario incomparabile; e una orrenda giornata di nebbia e neve,
sulla Becca di Guen, che non è difficile, ma dove ci si prova abbastanza sulla roccia. Giornata
orrenda; ma siccome ero sola con Pellissier, la bravissima guida del Cervino, e dormimmo al
rifugio dei Jumeaux (per la strada ci eravamo colti dei legni di rododendri morti per accendere il
fuoco – Pellissier mi preparò la minestra, mentre io guardavo il tramonto e le valli lontane,
azzurre delle prime ombre, e pensavo come è bella, come è dolce la terra quando s’addormenta
–), credo che me ne ricorderò a lungo. Alla sera accesero dei gran fuochi, giù al Breil, ed anche
noi incendiammo, su di una roccia, un fascio di paglia e le scintille volavano giù nella
notte…»275.

Antonia immortala il ricordo di questa ascesa alla Becca di Guen nei versi di

Rifugio, dedicandoli, non esplicitamente, a Pellissier. La poesia misura la

potenza relazionale che la poetessa, in queste esperienze per lei così intense,

riesce a condensare in immagini: quadri che a mio parere si arricchiscono anche

della nitidezza dei racconti di Rey276.

274
Traggo qualche notizia sul suo conto dal libro di DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna,
p. 65: «All’epoca Pellissier ha 53 anni (era nato nel 1881). Già nel 1907 (con la qualifica di
“portatore”) aveva partecipato alla famosa prima invernale del Cervino per la Cresta del Leone
con Mario Piacenza. Viene ingaggiato anche da Quintino Sella. […] Per molti anni è guida e
amico di Camillo Giussani, con cui trascorre mesi interi, nelle Alpi occidentali ma anche sulle
Dolomiti.». Nel proseguire, Dalla Torre cita Giussani, che nel suo libro Chiacchiere di un
alpinista, sottolinea le doti umane di Pellissier: «Nato e vissuto fra i monti, quel mio amico non
ebbe, e non ha, né consuetudini di vita né scuola di cultura sostanzialmente diverse da quella
della generalità de’ suoi compagni; ma come dall’amore per la montagna egli ha attinto un alto
senso di nobiltà nell’esercizio dell’arte sua, così nel contatto con gli alpinisti (e nomi celebri
illustrano il suo libretto di guida) ha saputo affinare in una sensibilità squisita le sue originarie
doti di cuore e ingegno.».
275
Ibidem.
276
Un certo sguardo non privo di allenamento nei confronti della ricerca di una potenza pittorica
da trasmettere attraverso la costruzione dell’immagine visiva – intesa in senso proprio e non solo
poetico-metaforico – era attribuibile anche all’identità fotografica di Rey. Credo che la sua
attenzione per certi dettagli della vita, della popolazione e dell’ambiente montano siano stati un
ulteriore ponte di collegamento con l’anima di Antonia Pozzi: per questo aspetto, si può fare
riferimento alla serie “Ricordo di Viù” ballo pubblico per la sagra annuale, presente sul sito
dell’Alinari. La montagna come oggetto d’attenzione fotografica – interesse suggerito anche

129
Rifugio277 La punta bianca278

Nebbie. E il tonfo dei sassi Siamo a circa 3200: la notte è calma e serena. E,
dentro i canali. Voci d’acqua appena fermi, sono cessate le nostre inquietudini sulla
giù dai nevai nella notte. via; ogni pensiero è rinviato al giorno seguente. Il
luogo ove ci siamo alloggiati è un corridoio verticale:
Tu stendi una coperta per me limitano lo sguardo a destra ed a sinistra mostruose
sul pagliericcio: pareti nere, terminate da due grandi linee che
con le tue mani dure sembrano scendere dal cielo e precipitare nel vuoto.
me l’avvolgi alle spalle, lievemente, Non vediamo altro che uno stretto triangolo di cielo
che non mi prenda stellato che finisce al basso nell’orizzonte lontano in
il freddo. una linea misteriosa, biancastra; sono i monti della
Valtournanche: e fra quella linea e noi una distanza
Io penso immensa, un vuoto profondo ed oscuro, che è la valle.
al grande mistero che vive E, a poco a poco, ci avvolge la calma infinita della
in te, oltre il tuo piano notte come ha avvolto le montagne tutto all’intorno. E
gesto; al senso questa calma è forse uno dei grandi segreti che l’anima
di questa nostra fratellanza umana del creato ci confida quando lo ascoltiamo in silenzio
senza parole, tra le immense rocce in questi suoi grandi templi che sono le montagne.
dei monti. Ma è difficile spiegare la poesia infinita di un alto
E forse ci sono più stelle bivacco: forse il fondo ingenuo e primitivo dell’anima
e segreti e insondabili vie nostra si sprigiona quassù, libero da ogni pensiero
terreno, ritorna semplice, e ritrova l’istinto antico
tra noi, nel silenzio, dell’uomo, la percezione chiara delle grandi bellezze,
la voluttà delle grandi lotte, e dei grandi riposi. E, nella
che in tutto il cielo disteso intima comunione con la severa ed alta natura, ci si
al di là della nebbia. rivela di quanta gioia purissima, non già di volgare
allegria, sarebbe piena la nostra vita, se sapessimo
Breil, 9 agosto 1934. ritrovare l’arte di appassionarci ancora delle cose
proprio grandi e belle.

Con il solito movimento compositivo della Pozzi che parte da un’esperienza

concreta di vita, studia l’impatto che essa trasferisce sul piano dell’emozione,

dalla stessa attività del cugino, Vittorio Sella –, è però traslata dal Rey in un linguaggio estetico
ben codificato, vicino anch’esso ad un altro aspetto della sensibilità della Pozzi, quello nei
confronti dell’arte visiva pura. Rey, studente all’Accademia delle Belle Arti di Torino, è, infatti,
(come si apprende al sito della Fondazione Sella): «uno dei massimi esponenti della fotografia
pittorica italiana. Per ottenere ambienti artistici Guido Rey ricorreva alla costruzione di scenari
ispirati all’antichità classica e ai dipinti Olandesi del Seicento (Rembrandt, Vermeer, Hals).
Importanti sono anche le fotografie dei suoi viaggi – quello in Oriente costituisce l’oggetto della
sua prima mostra fotografica a Torino nel 1892 – e delle sue ascensioni in montagna: il Cervino
è per lui un obiettivo sia alpinistico, sia fotografico.».
277
POZZI, Parole, p. 318.
278
È il terzo movimento del racconto della conquista della Punta Bianca, dopo due fallimenti
descritti in I. Il Colle Tournanche e II. La Punta Maquignaz. La citazione di trova in REY, Il
tempo che torna, CAI, Milano 2010, p. 60. Si tratta di una copia anastatica del volume pubblicato
da Alfredo Formica editore nel 1929.

130
condensando il tutto in un ricordo intimo che a volte sfuma nella memoria

letteraria – o meglio quasi ammicca ad essa – si genera questa meditazione

filosofica stupita circa la natura umana, sublimata in fratellanza. Un legame di

profondo rispetto e di cura dell’altro che sembra nascere senza motivo, anzi quasi

contro natura, in un luogo assolutamente inospitale per la vita e potenzialmente

pericoloso. La situazione infatti si apre con un paesaggio infestato dalle nebbie,

i cui soli riferimenti spaziali sono portati dai suoni che le fendono: dal

movimento sordo dei sassi dentro i canali, alle voci dell’acqua che scendono dai

nevai, nella notte. È bellissimo questo uso in apertura del plurale nebbie perché

accompagna subito nell’indefinitezza, nella molteplicità degli attacchi

atmosferici dei banchi, che fa immaginare una visibilità ciclicamente interrotta

e riacquistata. Nebbie quindi da cui possono emergere indifferentemente cose

amiche o nemiche, pensieri malinconici o sublimi: condizione ad un tempo

materiale ed esistenziale. A dissipare qualsiasi altra possibilità irrompe un tu,

colto in gesti di protezione infinitamente teneri, in contrapposizione con

l’apparenza del corpo: la guida, pur avendo mani dure, riesce ad avvolgere

lievemente la Pozzi nella coperta, per proteggerla dal freddo. Il rifugio si

configura quindi non solo come mero luogo fisico di approdo per ristorare sul

pagliericcio le membra stanche della giornata passata in montagna, ma

soprattutto come sede sicura per l’anima. L’io di Antonia entra in scena portando

questa considerazione, questa differenza rispetto al tu in azione: lei pensa al

grande mistero che vive in lui, al senso di una fratellanza umana che non ha

bisogno di parole, che diventa d’un tratto la cosa più ovvia nello scenario delle

131
immense rocce dei monti. Questa situazione non si darebbe altrove, il pericolo

di una giovane ragazza sola con un uomo maturo quasi sconosciuto in un luogo

isolato, si sarebbe forse sclerotizzato in un atto vile o in un atteggiamento di

diffidenza, di presa di distanza, di fuga. Ma sulla cima di una montagna, dove la

natura canta il proprio tempo in modo così sacro e ancestrale, dove la

condivisione della fatica umana è speranza di sopravvivenza, non c’è spazio per

altro che per segni di luce (stelle) e segreti da rispettare, per insondabili vie che

si allargano ai confini del silenzio, superando ciò che il cielo oltre la nebbia

potrebbe suggerire al pensiero. «Ci son più cose, Orazio, in cielo e in terra / di

quante sa sognar filosofia.»279: così dice Amleto nell’omonimo famosissimo

dramma di Shakespeare all’amico Orazio nell’atto di far giurare a lui e a

Marcello il riserbo in merito all’apparizione dello spettro del padre. Antonia,

però, va oltre il cielo e la terra, rendendo l’affermazione un dubbio insieme

ancora più concreto, incarnato, e aereo, spirituale. «E forse ci sono più stelle / e

segreti e insondabili vie / tra noi, nel silenzio, / che in tutto il cielo disteso / al di

là della nebbia.». La Pozzi sembra aggiungere, con quel forse, un suggerimento

e fare un’ammenda. Per Amleto la cultura, ossia la filosofia razionale, la scienza

naturale, l’etica, la logica dei tempi dell’università di Wittenberg, possono

spiegare molto poco di certi apparenti misteri, che invece si consumano tutti

279
«There are more things in heaven and earth, Horatio, / Than are dreamt of in your
philosophy». Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, Act I, Scene V, in W.
SHAKESPEARE, Amleto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011 (Oscar Mondadori, 129), p.
74. La traduzione in italiano è tratta da L. FONTANA, Shakespeare come vi piace, il Saggiatore,
Milano 2009, p. 217. La scelta di non riferire “your” del secondo verso ad Orazio – come si trova
in molte traduzioni – è stata così motivata dal traduttore Luca Fontana: «L’articolo “your” è
enfatico e dunque non riferito specificatamente ad Orazio.». La fonte è una lezione universitaria
del corso Strutture drammaturgiche per il teatro alla quale ho assistito nell’anno accademico
2012/2013 presso l’Università Iuav di Venezia.

132
nella relazione fra i desideri terreni – non sempre nobili – e un misto di

predestinazione divina. Il danese chiede all’amico di giurare con il cuore, non

con la testa. Anche se per Antonia i segreti che tenta di disvelare non sono quelli

di Amleto, la poetessa è d’accordo: non può essere la filosofia la risposta al

bisogno umano primario di verità. Quest’ultima si disvela attraverso puri gesti

di fratellanza, di solidale fiducia, di protezione, di rispetto. Ma ciò a cui arriva

la Pozzi, riportando al centro una diversa concezione dell’intuizione poetico-

filosofica – espunta da Amleto nella sua veste nozionistico-classificatoria e

reintrodotta nella prassi dal gesto inaspettato di un Pellissier –, è anche una

messa al bando della propria stessa continua ricerca di risposte nel mondo del

sogno, dell’immaginazione, ossia nel cielo disteso al di là della nebbia. La Pozzi

nella relazione genuina con la sua guida, coglie il vero mistero da indagare: il

silenzio, portatore di infiniti significati, che nasce fra due anime nel momento in

cui si prendono cura l’una dell’altra.

Nel gennaio del 1936 Antonia è sulla neve di Misurina con Lucia Bozzi. Il loro

maestro di sci è un’altra figura gloriosa dell’epoca: Emilio Comici280. Vorrei

280
L’alpinista «è un mito tra gli arrampicatori italiani. Nato a Trieste nel 1901, è il primogenito
di una famiglia modesta. Dopo le scuole medie, viene assunto come impiegato nei Magazzini
Generali del porto triestino. Si iscrive all’associazione sportiva XXX Ottobre, dove si esercita
nella ginnastica attrezzistica e poi nel gruppo speleologico. Nel 1922, frattanto, muore la sorella
Lucia, cui Emilio è legatissimo. L’amore per la montagna giunge piuttosto tardi, nel 1924,
proprio durante un’uscita speleologica; è una folgorazione e nel giro di qualche anno le montagne
colmeranno l’intero suo tempo libero. Con altri alpinisti del CAI di Trieste inventa la scuola di
alpinismo in Val Rosandra. Nel 1932 si licenzia dai Magazzini Generali, deciso a fare della guida
alpina il suo lavoro; tra il 1932 e il 1938 è a Misurina, e poi fino al 1940 a Selva di Val Gardena,
quando – lui, sempre prudente – morirà per un banale incidente facendo salire un’amica su una
semplice paretina di allenamento. Il carnet delle sue audaci “prime” è impressionante e, in quegli

133
tentare, malgrado l’alpinista non abbia pubblicato libri in vita (postumo, del

1942, è Alpinismo eroico), lo studio della relazione Pozzi-Comici, al di là della

possibilità di rintracciare un’influenza immediata legata alla formazione

letteraria della poetessa. La consonanza, tutta di personalità e di attitudine alla

roccia – forse anche alla vita –, deve aver insegnato molto ad Antonia,

rasserenandola, specialmente in anni in cui le sue visioni si esplicitano sempre

di più attraverso un gusto espressionista, in tinte al contempo sempre più

sublimate e lacerate281. Al rocciatore infatti:

«Antonia riserva un posto del tutto particolare. A lui dedica due liriche nominatim, cosa
che è un unicum nella poesia della Pozzi. Nella prima delle due, A Emilio Comici, che risale
proprio a questi giorni (16 gennaio 1936) si nota quasi una sorta di immedesimazione nel
fortissimo scalatore, noto come “l’Angelo delle Dolomiti”. Non è certo un confronto tecnico, ma
il fascino della grande umanità e anche della concezione non tanto sportiva quanto interiore
dell’alpinismo.»282.

Come suggerisce l’autore del libro da cui ho tratto la citazione, Marco Dalla

Torre, «avrà favorito tale comunanza il carattere del rocciatore e fors’anche la

sua origine cittadina (fu il primo tra i grandi arrampicatori italiani a non essere

nato nelle valli alpine) e infatti la poesia è tutta giocata su questo prescindere

anni di nazionalismo, il regime lo esalta a scopo propagandistico.» DALLA TORRE, Antonia Pozzi
e la montagna, p. 84.
281
Si confrontino ad esempio alcune poesie del 1937, prese in esame anche dalla Bernabò per
spiegare l’evoluzione post 1935 della scrittura di Antonia, ove «troviamo […] due filoni, che a
volte si intersecano altre volte rimangono indipendenti: uno realistico e sottilmente malinconico;
l’altro decisamente più energico, con tratti talora espressionistici talora surreali», in BERNABÒ,
Per troppa vita, p. 258. Si tratta di Viaggio al nord (in POZZI, Parole, p. 413), Morte di una
stagione (ivi, p. 430) e Nebbia (ivi, p. 433). La lettura di quest’ultima è utile anche per
confrontare il differente significato che questo elemento della natura prende, una volta ritrovato
in città, rispetto alla poesia Rifugio del 1934: «Se c’incontrassimo questa sera / pel viale oppresso
di nebbia / si asciugherebbero le pozzanghere / intorno al nostro scoglio caldo di terra: / e la mia
guancia sopra le tue vesti / sarebbe dolce salvezza della vita. / Ma fronti lisce di fanciulle / a me
rimproverano gli anni: un albero / solo ho compagno nella tenebra piovosa / e lumi lenti di carri
mi fanno temere, / temere e chiamare la morte. // 27 novembre 1937.».
282
Ivi, p. 85.

134
dalla propria città e dal suo mondo di affetti per restarsene inchiodato dal

tramonto allo strapiombo.»283. Ecco dunque il testo del 1936, A Emilio Comici,

insieme ai versi di Per Emilio Comici del 1938:

A Emilio Comici284 Per Emilio Comici285

Mille metri Si spalancano laghi di stupore


di vuoto: a sera nei tuoi occhi
ed un pollice di pietra fra lumi e suoni:
per una delle tue
suole di corda. s’aprono lenti fiori di follia
sull’acqua dell’anima, a specchio
Ti ha inchiodato il tramonto allo strapiombo. della gran cima coronata di nuvole…

A quest’ora la tua città Il tuo sangue che sogna le pietre


coi vetri in fiamme abbacina le barche. è nella stanza
Dove hai lasciato le tue vesti, un favoloso silenzio.
i volti
delle ragazze, i remi? Misurina, sera d’agosto 1938

Questa notte al bivacco


nubi bianche
si frangeranno sulla pietra
mute:
così lontano il tonfo dei marosi
sul molo di Trieste.

Né la luna
disvelerà giardini, chiaro riso
di donne intorno ad un fanale,
o tepido
sciogliersi di capelli,

ma te solo
vedrà
alla tua fune
gelida avvolto –
ed il tuo duro cuore
tra le pallide guglie.

16 gennaio 1936

283
Ibidem. Mi sembra però di ritrovare l’intuizione del legame con la città già nelle parole di
Graziella Bernabò: «c’è una sorta di immedesimazione in quella sorta di titano che ha lasciato la
sua città, Trieste, e il suo mondo di affetti per restarsene “inchiodato” dal tramonto “allo
strapiombo”.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 250.
284
POZZI, Parole, pp. 402-403.
285
Ivi, p. 441.

135
Credo si debba fare attenzione ai toni e ai modi di questa “immedesimazione”

della Pozzi in Comici. Come ho precedentemente affermato, la poetessa cercava

riscontri e appigli nella costruzione di un io che sentiva costantemente in

divenire. Un modo di esistere fluido, in ascolto di se stesso, che, se da una parte

le acuiva e affinava l’amata dimensione creativa, dall’altra la lasciava con un

profondo senso di disorientamento e di sconforto, di umana solitudine. Nella

relazione con le guide alpine e soprattutto con un rocciatore come Comici –

ammirato da una personalità della levatura di Dino Buzzati per la sua natura di

«intellettuale della montagna»286 –, Antonia va dunque via via scoprendo lati dal

sé contrastanti che finalmente non generano solo strazianti incomprensioni.

Nell’assonanza, come nella dissonanza, dell’io-con-sé e dell’io-con-l’altro,

grazie alla forza mediatrice dell’ascesa alla roccia che ristabilisce una

dimensione umana – gloriosa perché fallibile –, la Pozzi concreta e riplasma le

parti più vere di sé, intravede finalmente il senso di questa continua lotta. Nella

poesia del 1936 leggo entrambi questi movimenti assimilatori e distanziatori

rispetto alla figura cantata dalla poetessa: il primo appunto nell’azione della

scalata; il secondo nel ricordo immaginato, bello e malinconico, della città.

Trieste, infatti, non è Milano, e per quanto essere cittadini amanti della montagna

286
Così si esprime Buzzati su Comici, secondo quanto rilevato da DALLA TORRE, in Antonia
Pozzi e la montagna, pp. 84-85: «Le complicate e apparentemente sofisticate manovre – questo
era soprattutto meraviglioso – Comici le eseguiva con una eleganza, con una leggerezza e
armonia di movimenti da incantare. Lui stesso – era animo sensibilissimo, suonava bene il
pianoforte, lo si poteva definire un intellettuale della montagna – considerava l’arrampicamento
come una vera e propria arte. Tale, in ogni modo, egli la rese. Dopo averlo visto innalzarsi con
la levità di un grazioso insetto, su per gli strapiombi, tutti gli altri arrampicatori, anche bravissimi,
apparivano al confronto dei goffi e pesanti scimmioni.».

136
possa far sentire fratelli, i pensieri gioiosi, ricchi di luce e di vita del porto non

possono essere in alcun modo assimilati allo svelamento della periferia che la

Pozzi andava crudamente leggendo nel tessuto urbano a lei contemporaneo (si

veda almeno la poesia Periferia287, scritta tre giorni dopo, il 19 gennaio del

1936). L’abbandono di una città così piena di vita da parte di Comici è eroico:

per la Pozzi, di contro e non esplicitamente, sembra quasi colpevole, tanto ci

sarebbe da fare per renderla un posto migliore.

Nella poesia del 1938 il rocciatore è ormai quasi fuso con la sua natura: i suoi

occhi ospitano laghi di stupore; l’anima è fatta limpida come l’acqua, specchio

talmente trasparente della gran cima coronata di nuvole da non poter – e

nemmeno voler – nascondere l’emergere lento di fiori di follia. Il suo stesso

sangue – la stessa sostanza che lo tiene in vita ma lo costringe in un corpo, in

uno spazio fisico (la stanza) che impossibilita la sua fusione panica con l’adorata

montagna –, sogna le pietre, la relazione con la roccia, ed è correlativo oggettivo

di un favoloso silenzio che emoziona profondamente Antonia, e che è la stessa

radice del suo comporre, del suo desiderare la parola. «E vivo della poesia come

le vene vivono del sangue»288. In questa muta similitudine che scivola

nell’identità fra l’uomo e il suo desiderio, si rinnova quella consonanza intuitiva

che aveva colpito Antonia durante la notte passata con Pellissier al rifugio. Le

parole che lei ritrova nella natura per descrivere Comici, sono un dono e un

mezzo, introdotte infatti dalla dedica Per: omaggio a lui e al suo essere

innamorato dell’alpe; strumento per cantarlo, per arrivare a lui e immortalarlo.

287
POZZI, Parole, p. 406.
288
Cfr. lettera a Tullio Gadenz del 29 gennaio 1933 in POZZI, Ti scrivo…, p. 161.

137
Dono non trascurabile se si pensa alla concezione non tanto sportiva quando

interiore e artistica dell’alpinismo che in qualche modo li accomunava289.

In questo capitolo, ho individuato uno schema relazionale nel fare compositivo

della Pozzi, a partire dall’esempio di una natura vista come funzione-stimolo

della sua scrittura. Mettendo alla prova questo schema analizzando il rapporto

con l’ambiente che ricorre più assiduamente nei suoi testi, ossia la montagna,

sono emerse alcune figure importanti nella formazione di un orizzonte

intellettuale non solo letterario, ma anche filosofico e umano.

Nei prossimi capitoli ripercorrerò la cronologia della produzione poetica di

Antonia per verificare più puntualmente le relazioni con e le influenze degli

autori che sono state via via indicate dai suoi più attenti lettori e critici, senza

dimenticare le stesse attestazioni di lettura da parte della poetessa, che emergono

ancora una volta dai suoi scritti (lettere, poesie, diari, saggi critici), ma anche dai

libri presenti nella parte della sua biblioteca che si è conservata a Pasturo.

Vorrei lasciare però alla Pozzi la battuta finale attraverso cui descrivere la

propria relazione con la montagna, ossia con una natura composita che sembra

289
Queste le parole di Comici in Alpinismo eroico: «Ho detto prima che Preuss e Dülfer erano
artisti, e lasciatemi aggiungere “artisti grandi”. Qualcuno obietterà, dicendo che per salire sula
roccia non occorre l’arte, ma soltanto il fegato. No! Saper ideare la via più logica ed elegante per
attingere una vetta disdegnando il versante più comodo e più facile, e percorrere questa via in
uno sforzo cosciente di tutti i nervi, di tutti i tendini, disperatamente tesi per vincere l’attrazione
del vuoto e il risucchio della vertigine, è una vera e qualche volta stupenda opera d’arte: vale a
dire il prodotto dello spirito e dell’estetica.», in DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, p.
85 che a sua volta riprende da E. COMICI, Alpinismo eroico, Vivalda editori, Torino 1995, pp.
180-181.

138
partecipare di un moto perpetuo pur stando immobile nel posto assegnatole:

Nevai290

Io fui nel giorno alto che vive


oltre gli abeti,
io camminai su campi e monti
di luce –
Traversai laghi morti – ed un segreto
canto mi sussurravano le onde
prigioniere –
passai su bianche rive, chiamando
a nome le genziane
sopite –
Io sognai nella neve di un’immensa
città di fiori
sepolta –

io fui sui monti


come un irto fiore –
e guardavo le rocce,
gli alti scogli
per i mari del vento –
e cantavo fra me di una remota
estate, che coi suoi amari
rododendri
m’avvampava nel sangue –

290
POZZI, Parole, p. 313. La poesia è scritta il 1° febbraio 1934.

139
Capitolo Secondo:

Gli anni del liceo: 1927-1930

«…ho guardato l’ansito del faro, che anela


sempre al largo: mi sono detta che è sciocco voler
restare nell’ombra quando sappiamo che la luce è
più in là. Io vincerò gli ostacoli […] studierò,
studierò tanto, per crearmi un pensiero e una fede.
Oggi il cammino non mi fa paura.»1.

Gli anni della formazione liceale costituiscono per Antonia Pozzi un primo

tentativo di determinazione del sé, fra la ricerca di un modello-guida che possa

indirizzarla su un sentiero sicuro e la volontà di autodeterminarsi, anche

attraverso la via della sperimentazione artistica, ossia della scrittura poetica.

Come sottolineato in precedenza, il cardine di questo movimento fu Antonio

Maria Cervi, il suo professore di greco e latino al Liceo Classico Manzoni di

Milano:

«Nel 1922, terminata la scuola elementare, [Antonia] approda al Liceo Ginnasio


Manzoni dove, conclusi gli studi ginnasiali, nell’ottobre 1927 si ritrova al liceo “molto compresa
e un po’ intimorita all’idea di questi studi, che mi dicono tanto seri; ma alla mia età, che cosa c’è
di meglio che la scuola? Interromperla, vorrebbe dire troncare tante amicizie, tante consuetudini,
chiudere un periodo di vita che si deve invece prolungare il più possibile, poiché in esso sono
alcuni fra i nostri anni migliori: non più quelli della beata innocenza, ma quelli che ci portano
consapevoli verso la vita, nel mondo”2. E veramente gli anni del liceo portano Antonia “verso la
vita, nel mondo”, a cominciare dal primo, il 1927: esso è l’anno della grande passione per lo
studio, passione nuova, non provata al ginnasio; della grande amicizia con Lucia Bozzi ed Elvira

1
Frammento di una lettera inviata da Antonia Pozzi ad Antonio Maria Cervi il 16 giugno 1928,
ora in POZZI, Ti scrivo…, p. 89.
2
Ivi, p. 69. Lettera scritta dalla Pozzi alla nonna Nena il 16 settembre 1927.

140
Gandini, conosciute per caso alla biblioteca Braidense, e che lei, “stellina cieca” in cerca di luce
e verità, considera e ama come “sorelle” e come guide3. Soprattutto, il 1927 è l’anno dell’incontro
con il professore che al Manzoni insegna latino e greco: Antonio Maria Cervi. Cervi non è un
docente qualunque: incanta gli studenti per la passione con cui legge e traduce gli autori classici
e per la sua “cultura sterminata”; non solo ama la musica, ma sa anche suonare il violino.
Pretende molto dagli allievi, e tuttavia li ama e, ai più bravi e impegnati, regala libri importanti
per la loro formazione e la loro cultura; li sa tenere allegri, anche se prepara le versioni di latino
e greco in modo che ciascuno ne abbia una diversa e non possa copiare dagli altri. Talvolta
un’ombra di tristezza gli si stampa sul viso, improvvisamente, anche quando s’infiamma di
passione per ciò che legge o spiega. Un dolore acuto e incancellabile si nasconde dietro la sua
allegria: quello per la morte del fratello maggiore Annunzio, volontario nella Prima guerra
mondiale e caduto sul Grappa il 25 ottobre del 1918. Antonia, come tutti nella classe, è
affascinata dall’eccezionale insegnante e, mentre s’impegna al massimo negli studi, sente
nascere dentro di sé sentimenti di stima e affetto profondi, che non tarderanno ad assumere tutti
i caratteri dell’innamoramento.»4.

Cervi sarà insegnante di Antonia solo per un anno scolastico: nell’estate del 1928

chiede il trasferimento a Roma per stare più vicino alla famiglia d’origine. Il

distacco sarà vissuto in maniera drammatica da Antonia, che ne parla in questi

termini in una lettera del 21 agosto 1928 alla nonna Nena:

«Ho un gran bisogno di calma e di raccoglimento: non so se la zia Luisa ti abbia detto
che dispiacerone mi sia capitato addosso, d’improvviso, qualche settimana fa. Non te lo vorrei
neppure raccontare, perché sono sicura che immantinente tu mi cominci a fare l’olio, e allora gli
occhiali ti si appannano e ti scivolano sul naso; ma sono ancora tanto triste e non ho altro sfogo
che raccontare il mio dolore a chi lo sa capire; che parlare di quello che è stato, di quello che
vorrà essere; che parlare un po’ del mio Maestro che mi hanno portato via! Pensa che una mattina
apro il giornale e, nella lista dei trasferimenti dei professori, il primo nome, dico il primo, che
mi salta all’occhio è quello del professor “Cervi Antonio Maria, da Milano a Roma”. È stato
atroce: non ho saputo che piangere, e piangere, e piangere per due giorni che sono finora i più
bui ch’io abbia avuti nella mia vita.
Ho imparato che cosa sia il dolore. Tu non immagini che cosa fosse lui per me. Io avevo
avuto la fortuna di incontrarlo nell’età inquieta in cui tutto il nostro essere sboccia e anela alla
vita, in cui ogni influenza esterna lascia nell’anima una traccia indelebile, in cui ci torturiamo
ricercando l’inizio della nostra vita e l’indirizzo del nostro cammino nel mondo.»5.

Subito dopo Antonia traccia un profilo di Cervi da cui, secondo le curatrici

dell’epistolario integrale di Antonia, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo, Graziella

3
Cfr. la già citata poesia Sorelle a voi non dispiace…, in POZZI, Parole, p. 136.
4
Ivi, pp. 7-8.
5
POZZI, Ti scrivo…, pp. 78-79.

141
Bernabò e Onorina Dino, si intravedono già le basi del profondo innamoramento

della poetessa per il suo professore:

«Egli era, o meglio, è, uno spirito come pochi, come nessuno se ne può trovare. Una
gran fiamma dietro una grata di nervi; un’anima purissima anelante a sempre maggior purezza,
destinata purtroppo a inaridirsi sola, in una sete inesauribile di sapere, di perfezione, di luce; uno
studioso dalla coltura sterminata, dalla memoria prodigiosa, dalla volontà ferrea che gli faceva
passare la vita nella penombra delle biblioteche, chino sulle più ardue pagine di filosofia; un
insegnante tutto ardore ed entusiasmo per la scuola, tutto affetto fraterno per gli scolari; un
povero figliolo che, a vent’anni, si è veduto morire sul Grappa il fratello maggiore, e poco dopo
il padre, e si è trovato sulle spalle la mamma e il fratellino; che vivacchia solo in pensione, che
porta anche con la neve il soprabito di primavera con le tasche rotte 6, e che pure era sempre
allegro con noi come un bambino e ci elettrizzava tutti con il suo fuoco inesauribile… Con la
parola e con l’esempio egli mi ha dato uno scopo e una fede; mi ha insegnato a guardare più in
alto e più lontano; mi ha additato la via per diventare più buona. Anche nel dolore di vedermi
tolta così bruscamente la sua guida immediata, ricorro per conforto ai suoi insegnamenti; so che
il dovere che mi resta è uno solo: studiare; e non tradire il suo consiglio; ed anelare sempre, con
tutta l’anima, a quella “luce” ch’egli mi ha insegnato a cercare.»7.

La differenza fra un professore come Cervi e «l’altro che dovrà vedere al posto

suo» è da ricercarsi, secondo Antonia, non tanto nell’insegnamento del greco e

del latino, ma nella «virtù e [nel]la vita» che egli riusciva a trasmettere insieme

a questo insegnamento. Sin da questa lettera alla Nena è però chiaro che il

rapporto con Cervi non sarà destinato ad interrompersi a causa della lontananza,

ma anzi, al contrario, si intensificherà e si renderà sempre più intimo e personale,

attraverso uno scambio epistolare assiduo e intenso. «Si diedero del “lei” fino

alla fine del 1929, quando Antonia, con la sua giovanile esuberanza, riuscì a

6
Graziella Bernabò in Per troppa vita…, p. 68, lima i caratteri di povertà suggeriti da questa
rappresentazione di Antonia del professor Cervi: «È palese, in questo ritratto, la forte
idealizzazione del proprio insegnante da parte della giovane allieva, che, tra l’altro, forse per
destare interesse e pietà nella nonna verso di lui, ne esagera la povertà. Cervi non era certo ricco
come i Pozzi, ma viveva dignitosamente e, se portava un soprabito leggero anche d’inverno, lo
faceva verosimilmente perché non era per nulla freddoloso [come testimoniato dalla nipote di
lui, Romana Itala Romano].».
7
POZZI, Ti scrivo…, pp. 79-80.

142
coinvolgerlo in un rapporto d’amore fieramente avversato da suo padre»8. Inoltre

Antonia riceverà in dono dal professore molti libri, come era solito fare con i

suoi studenti migliori, tenendo fede a quanto affermato da Elvira Gandini,

anch’essa sua ex-allieva9.

Così la Pozzi, infine, riporta alla nonna, nella lettera del 21 agosto 1928, le parole

che ha ricevuto dal professore, per rincuorarla della sua disperazione:

«“Mia buona sorellina, d’ora in poi se non Le dispiace, La chiamerò sempre così. Ormai,
ne sono sicuro, avrà ripreso vigorosamente lo studio per non tralasciarlo più: sarà questa la prova
più bella della sua serietà e del suo affetto che mi è tanto caro. Il mio aiuto fraterno non le verrà
mai meno. Dallo studio, con la tormentosa ansia del progredire, Le verrà tanta serenità e tanta
luce che non si pentirà mai di esservisi dedicata e di aver ripudiato le frivolezze delle Sue
coetanee…” Che cosa posso desiderare di più? Io so di non meritarmi tanto: ma farò in modo di
sapermelo meritare.».10

Ai fini di una ricerca sulla formazione letteraria della Pozzi, è interessante

soffermarsi su alcuni aspetti del rapporto con Cervi, in primis sul ruolo che il

fratello di lui morto in guerra, Annunzio, essendo un poeta, assume

nell’immaginario e nella poesia di Antonia. Inoltre vi è l’aspetto che ricopre la

figura di Antonio Maria anche in anni distanti dalla fine del liceo, legato alla

relazione d’amore fra i due che Antonia a più riprese sublimerà in versi, sino alla

composizione de La vita sognata11 e all’accendersi del suo secondo amore per

Remo Cantoni (autunno 1934). Una terza prospettiva attraverso la quale leggere

la relazione Pozzi-Cervi, è quella che ho già trattato nel capitolo precedente, e

8
Ivi, p. 79.
9
Cfr. ibidem.
10
Ivi, p. 80.
11
È la piccola raccolta di dieci poesie composta nel 1933 per sublimare la fine della storia
d’amore con Cervi.

143
che riguarda i consigli di lettura del Cervi e l’attenzione che egli dedicò alla

formazione e allo sviluppo della personalità culturale, filosofica e religiosa di

Antonia.

Come confermato dagli studi di Onorina Dino e Graziella Bernabò, vi è una

volontà di apprendistato della Pozzi sui versi di Annunzio Cervi12. Poeta non

certo maturo ma eclettico, promotore entusiasta di quel sorpasso della poesia

dannunziana che, attraverso il dissacrante futurismo e la rielaborazione del

variegato panorama crepuscolare, andrà ad essere responsabilità di un Ungaretti,

il fratello maggiore di Antonio Maria nasce nel 1892 a Sassari, il 06 agosto, da

una famiglia dell’agiata borghesia. «Anche il padre di Cervi si chiamava

Antonio13, era figlio di un notaio di Sulmona e insegnava lettere classiche; la

madre Costanza, nata Cabras, era figlia di un avvocato sassarese e, per parte

materna, discendeva dai Satta Puliga, ramo cadetto dei Savoia di Villa

Hermosa.»14.

«Con la Sardegna, lasciata a cinque anni, Annunzio conserva per tutta la vita un legame
profondo, viscerale. Nella prima delle sue lettere al poeta veronese Lionello Fiumi, inizio di un
affettuoso sodalizio letterario, lo ringrazia del dono della raccolta Pòlline infilando nella busta
una foglia d’alloro. “È un alloro per me sacro – gli spiega –: d’un ramo colto nella mia Sardegna
l’anno scorso”. All’isola Cervi riconduce, in molte occasioni, il proprio temperamento focoso e
sanguigno, i modi bruschi e talvolta spiazzanti. “Sono sardo e, convenevoli, non ne faccio, non
ne so fare – si giustifica con un altro caro corrispondente, Giuseppe Ravegnani –. Sono un sardo

12
Si leggano per un confronto e un approfondimento, l’introduzione all’Epistolario fra Gadenz
e la Pozzi scritta da Onorina Dino, e il capitolo IV di Per troppa vita che ho nel sangue, dedicato
alle prime esperienze poetiche di Antonia fra 1929 e il 1930, scritto dalla Bernabò. Nel corso del
capitolo farò riferimenti più precisi a questi studi.
13
Nell’introduzione a Le cadenze di un monello sardo a cura di Anna Chella si legge: «Antonio
Giovanni Cervi, originario di Civitella Alfedena in Abruzzo, aveva ricevuto il suo primo incarico
come professore di Lettere a Sassari, dove aveva sposato la giovanissima Costanza Cabras». In
A. CERVI, Le cadenze di un monello sardo, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2016,
p. 9.
14
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 69.

144
di vera razza: certi sentimenti non li dico”.»15

«La famiglia si era trasferita prima a Campobasso e poi a Napoli nel 1908, in

quanto il padre vi aveva ottenuto la cattedra di lettere al Ginnasio dell’“Umberto

I”.»16. Nell’ambiente napoletano Nunzio (questo il vero nome di battesimo,

tratto dal nonno e mutato in Annunzio «in omaggio al venerato autore delle

Laudi»17, ossia D’Annunzio) si inserì molto precocemente. «All’Università fu

amico di Luciano Nicastro, destinato a diventare un importante letterato, e del

grande critico Francesco Flora che lo ricorda così nella sua Storia della

letteratura italiana: “Annunzio Cervi nelle Cadenze di un monello sardo svelava

la sua parentela con gli scrittori che si dissero crepuscolari e con quelli che si

annunziavano nella rivista Diana di Gherardo Marone, a cominciare da

Ungaretti, del quale procreava certe movenze. Ma la fine immatura (che egli

presentì in vari versi quando andò alla guerra) tolse alle lettere un ingegno assai

più ricco di quel che le pagine pubblicate rappresentino”. Andando alla guerra,

a 23 anni, Annunzio aveva già al proprio attivo una intensa attività pubblicista

[ad esempio per l’Eco della cultura, per la Vela Latina e per il Don Marzio] e

un libro tutto attraversato di spiriti classici, Il toro di Falaride.»18.

15
CERVI, Le cadenze…, p. 10.
16
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 69.
17
CERVI, Le cadenze…, p. 10.
18
Da un articolo apparso il 24 gennaio 2002 sulla versione web del quotidiano «La Nuova
Sardegna», sezione locale di Sassari, dal titolo: Annunzio Cervi, il sardo “monello” bombardiere
e scrittore di liriche. Alcune precisazioni su Il toro di Falaride: «A Napoli, il giovane Annunzio
tiene spesso conferenze e pubbliche letture. Nella primavera del ’14, nell’ambito delle iniziative
della rivista Eco della cultura, introduce l’esecuzione di quattro brani del Martirio di San
Sebastiano, l’opera di d’Annunzio musicata da Debussy, presentata in anteprima italiana dal
maestro Ranieri Mucci. L’immaginoso intervento di Cervi, letto in un’aula dell’Università di
Napoli mentre “i fratelli più piccoli ruzzavano in galleria”, sarà poi pubblicato nelle edizioni di
Vela latina con il titolo Il toro di Falaride.», in CERVI, Le cadenze…, p. 14. Dalla nota dedicata
all’opera inoltre si apprende che si tratta di: «un lungo racconto mitolgico: narra di Périllos,

145
«La figura di Annunzio Cervi resta legata soprattutto alla raccolta poetica Le cadenze
di un monello sardo. Nonostante il volume sia stato pensato e allestito mentre l’autore si trovava
in guerra, le Cadenze sono un libro ben congegnato, compatto e coerente. La limpida struttura
cronologica lo avvicina da una parte al diario, dall’altra al romanzo di formazione. I versi, scritti
tra il 1915 e il ’17, sono il racconto di una giovinezza scandita in due tempi. La raccolta non ha
sezioni né vi è traccia di partizioni interne, ma il punto di svolta si avverte in modo chiarissimo
e coincide, naturalmente, con la partenza per il fronte. Tutta la prima parte del libro – dal testo
di apertura Anticipo, fino a Notturno in gastronomia – appartiene al periodo e all’atmosfera di
Napoli. Se le poesie di guerra sono le più convincenti dal punto di vista stilistico, i versi
napoletani godono della freschezza di un vivace corpo a corpo tra il poeta e la sua città, percorsa
in irrequieti vagabondaggi, derisa nelle sue ipocrisie ed esplorata nei suoi vicoli e sobborghi, tra
panni stesi al sole, pollai, tram […]. Le Cadenze più antiche restituiscono gli ultimi mesi trascorsi
da Annunzio nella città partenopea, dalla settimana santa del 1915 alla partenza per il fronte
avvenuta alla fine dell’anno. Il libro si regge su un equilibrio quasi perfettamente simmetrico.
Diciassette sono i testi scritti a Napoli; sedici quelli inviati dal fronte: dodici poesie e quattro
prose liriche, che nelle sue lettere Cervi chiama “cartoline” o “centellini”, immaginando di farli
confluire nel progetto più ampio dell’NN 2701 [romanzo].»19.

Con estrema convinzione, infiammato di patriottismo, il Cervi partirà volontario

per il fronte della Prima Guerra Mondiale nel mese di novembre 1915, ricevendo

«due medaglie d’argento e una di bronzo al valor militare».20

«Nei ricordi dei commilitoni Luciano Nicastro e Antonio Greppi, egli appare un
compagno colto e frizzante, che recita a memoria i classici, cita Claudel e Bergson, si diverte
con i soprannomi roboanti, ma diventa di colpo serissimo durante le esercitazioni. In battaglia
Cervi dimostra un’audacia spericolata: riportò almeno due ferite gravi e si guadagnò tre medaglie
al valore, di cui andava orgoglioso, anche se con gli amici si schermiva nascondendosi dietro
l’ironica maschera del “monello”. Sognava di scrivere un romanzo intitolato NN 2701, la sigla
della sua baionetta. Di quello che, nelle lettere a Marone, chiama il suo “Schreibheft”
[quaderno]21 rimane solo qualche frammento.»22.

L’estate del 1915, prima di partire per il fronte, Annunzio era diventato un

scultore bovaro adolescente dalla straordinaria bravura, sfidato dal tiranno di Falaride a costruire
un mostruoso strumento di tortura. La vicenda dell’artefice, condannato dal tiranno a morire
dentro la sua stessa macchina (un toro bronzeo arroventato capace di trasformare i gemiti umani
in muggiti), è “il simbolo dello spasimo mistico nella sua essenza di esagerazione sensitiva”. Ad
essa Cervi paragona lo slancio mistico del Martirio di San Sebastiano che, a suo parere, non è
altro che un’esasperazione del tormento dei sensi, poiché per l’autore delle Laudi “la carne è
sopra ogni cosa, sia che goda come nelle Laus Vitae, sia che soffra”. Il toro di Falaride uscì in
tre puntate su Vela latina tra il giugno e il luglio del 1914 e fu poi ristampato, con la prefazione
di Fernando Russo, nelle Edizioni di Vela latina.», in ivi, p. 60.
19
CERVI, Le cadenze…, pp. 8-9.
20
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 69.
21
E quaderni si chiameranno quelli poetici di Antonia Pozzi.
22
CERVI, Le cadenze…, p. 8.

146
«filologo di letteratura latina medioevale»23, laureandosi con il linguista Michele

Kerbaker,

«Tra gli allievi di Kerbaker, Cervi si lega a Enrico Pappacena, l’“amico buono” di
Ordinotte senza parole, che, dopo la sua morte al fronte, sarà a lungo custode della sua memoria
e delle sue carte. Michele Kerbaker, che occupa la cattedra di Filologia medievale, schiude ad
Annunzio il mondo dei poemi vedici e della filosofia indiana. In questo universo culturale remoto
e affascinante, il giovanissimo poeta intravede un salutare antidoto alle pastoie e alle
mistificazioni in cui talvolta gli sembra intrappolata la letteratura a lui contemporanea. Alle
letture appassionate di D’Annunzio e di Pascoli, si affianca così l’interesse per Tagore, per i testi
sacri dell’induismo, per il poema epico Mahabharata, tradotto da Kerbaker in “ottave metalliche
e precise come un’acquaforte”. Nello studio di Kerbaker, all’ombra del ritratto di Vittorio Alfieri
e della Deposizione di Raffaello, mentre sullo sfondo si muove dolcemente la presenza luminosa
di donna Assunta, moglie del professore, Annunzio vive momenti importanti della sua
giovinezza, tutta infiammata di ardori patriottici e letterari.».24

L’interesse suscitato in Annunzio da Kerbaker per il pensiero e la cultura indiani

passeranno, via Antonia Maria, anche ad Antonia Pozzi25. L’eminente linguista

muore nel settembre del 1914, provocando un grande dolore ad Annunzio. Dalle

parole di Francesco Flora e dal breve ritratto della relazione di Annunzio con il

Kerbaker, si evince che il temperamento e l’adesione poetica del Cervi, esaltate

da un personalissimo ardore, non permettono con facilità di incasellarlo in un

preciso movimento, considerato anche il fermento di quegli anni nell’ambiente

napoletano. Le etichette con cui si è abituati a semplificare l’andamento della

vita culturale del primo Novecento non sembrano essere state gradite allo stesso

23
Cfr. lettera all’amico Lionello Fiumi del 15 ottobre 1915, in ivi, p. 155.
24
CERVI, Le cadenze…, pp. 10-11.
25
Cito dalla Bernabò che fornisce questo dettaglio in merito ad un possibile sogno di
reincarnazione di Annunzio Cervi condiviso dal fratello Antonio Maria e da Antonia Pozzi: «Dal
canto suo, [Antonio Maria] Cervi era un attento studioso delle religioni orientali e aveva
condiviso con il fratello Annunzio lo studio dell’antico pensiero indiano alla scuola napoletana
di Michele Kerbaker. Di questi argomenti, come ricorda Elvira Gandini, parlava anche a scuola;
inoltre testi relativi al buddismo e alla cultura indiana furono da lui regalati ad Antonia e sono
tuttora presenti nella biblioteca di Pasturo. Non è perciò escluso che nelle loro conversazioni
intervenisse anche qualche elemento connesso con un tipo di pensiero che contemplava forme di
reincarnazione.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p.136.

147
poeta e sarebbe un tradirne la memoria e la figura appiattirsi su di esse per trovare

un collegamento immediatamente comprensibile e schematico con la prima

scrittura della Pozzi. Data la centralità della sua figura nell’immaginario

pozziano, e quindi per comprenderne fino in fondo la personalità, sarebbe meglio

ascoltare quanto il poeta dice di se stesso e del suo modo di vedere la cultura del

tempo; ne ha riportato alcuni stralci lo studioso Nicola D’Antuono nel suo saggio

L’Eco della cultura, la Diana e il futurismo. Cervi contribuì notevolmente al

rinnovamento d’indirizzo dell’Eco – rivista che nel 1916 arrivò a definirsi

«organo quindicinale di pensiero arte discussione, indipendente da gruppi e da

scuole»26 – soprattutto in visione di un deciso smantellamento del pigro

ambiente culturale napoletano27:

«Cervi affermò anche, con violenza linguistica e sintattica, che Eco della cultura
intendeva spezzare il circuito perverso di una tradizione regressiva; perciò egli si dichiarava in
rivolta contro il dialettale, il provincialismo, la Piedigrotta, la panoramistica. La distruzione
barbarica barrèsiana28 e la violenza imperialistica kiplinghiana 29 si rendevano perciò

26
N. D’ANTUONO, L’Eco della cultura, la Diana e il futurismo, p. 166. L’articolo di D’Antuono
è il «testo della relazione letta al convegno Il futurismo a Napoli (Napoli, 26-28 novembre 1990),
organizzato dall'Istituto italiano per gli Studi filosofici e dall'Università degli Studi di Napoli
"Federico IT"». Si può trovare in «Forum Italicum: a journal of Italian studies», vol. 27, March-
September 1993, pp. 147-175, al sito http://journals.sagepub.com.
27
«A Napoli la sensazione di essere intrappolati in un universo letterario soffocante e ristretto è
particolarmente acuta, e profondo è il rancore verso la cultura stantia delle aule universitarie. È
una rabbia che, per molti intellettuali, troverà un tragico appagamento proprio nell’esperienza
della guerra. […] “Le trincee – proclamerà Enzo Palmieri nel ’17 su un[a] rivista d’avanguardia
napoletana – non sono soltanto contro gli austriaci, sono contro il passato per noi giovini.”»,
dall’introduzione di Anna Chella a CERVI, Le cadenze…, p. 16.
28
Maurice Barrès (1862-1923) fu scrittore e politico francese, promotore di idee nazionaliste che
passarono attivamente anche in Italia.
29
Joseph Rudyard Kipling (1865-1936) scrittore e poeta britannico, nato a Bombay. «Tra i più
noti autori di libri di avventura e per ragazzi, ha scritto poesie, romanzi e racconti – molti dei
quali di ambientazione indiana – in cui ha profuso talento narrativo e impegno politico-sociale.
Identificato come il cantore dell'imperialismo britannico, K. in realtà non si è limitato a esaltarne
gli ideali, ma li ha articolati in un ricchissimo immaginario, senza perdere di vista i lati più aspri
del dominio coloniale. Raggiunse la notorietà con le poesie Barrack-room ballads (1892);
seguirono i suoi capolavori: The jungle book (1894), The second jungle book (1895), Captains
courageous (1897) e Kim (1901). Nel 1907 gli è stato conferito il premio Nobel per la
letteratura.», fonte Enciclopedia Treccani on-line.

148
indispensabili. Solo cosi avrebbe potuto irrompere, sulla scena della vita artistica partenopea, la
“fresca giovinezza che non ha mai voluto sguazzugliare nella mediocrità.” Salutando Lacerba e
La rivista d'oggi (definite “sorelle combattive”), Cervi sottolineò inoltre che Eco della cultura
entrava “risolutamente in un secondo periodo della sua vita”, per imporre “non più l'innovazione
silenziosa, raccolta, incompresa quasi, ma l'audacia che dirompe e demolisce accanto alla tenacia
che rimpella e ricolma.” Il cambiamento di registro della rivista nei confronti dei precedenti
fascicoli era notevole, almeno nella teorizzazione. Iniziava un'avventurosa “battaglia” di alcuni
giovanissimi studenti universitari napoletani, sorretti e coadiuvati da un atteggiamento
aristocratico (e antidemocratico) e da una furia incendiaria (che in Cervi certamente risentiva del
Palazzeschi, ma era fortemente stimolata anche dalla leggenda indiana del Nanaganda30),
“contro la senilità famosa, verbosa, trempellante”. Le condizioni concrete offerte dalle
circostanze di uno spazio storico-sociale come quello partenopeo, con le sue incrinature dopo
l'euforia dissipatrice degli ultimi decenni e con i sintomi della finis, motivavano fortemente le
giovani generazioni. Ovviamente non tutti i redattori di Eco della cultura erano convinti della
radicalità delle posizioni di Cervi e della sua furia polemica, già evidenziata in alcuni articoli di
Vela latina e del don Marzio. Egli fu l'unico intellettuale della rivista ad essere infuriato anche
stilisticamente, utilizzando un lessico caotico e una sintassi scabra e durissima, particolarmente
verso i frequentatori del Gambrinus31 (Murolo, Bovio e C.ia32). Tra l'altro ridicolizzò la
dialettomania della vita quotidiana partenopea e le connesse mitologie, e spiegò che voleva
distruggere: “Non per fare del chiasso, miei cari ciofi e grulli, non per amore del bel gesto, non
per combattere i mulini a vento ma perché è necessario affermare che Napoli è tutto, tranne che
dialettale. Tutto, tranne che questa buffa combriccola di scimmie, che a somiglianza del Bandar-
Log kiplinghiano gridacchia a squarciagola canzoni prive di senso per attirare l'attenzione, si
gattiglia, si acciuffa, si abbaruffa disperatamente, a quando a quando.”» 33.

Quelle del Cervi sono considerazioni contro una vita culturale impostata su una

tradizione regressiva e mediocre da demolire utilizzando un linguaggio che

funziona per converso come furia caotica a colpire quella che diventerà

l’espressione tipicizzata – classica – della musica napoletana che gridacchia a

squarciagola canzoni prive di senso per attirare l’attenzione. Nella battaglia di

Cervi, vi è dunque preoccupazione circa la vita e lo spirito musicale34

30
Le fonti che sono riuscita a reperire in merito si riferiscono al Nāgānanda e non al Nanaganda,
tradotto in italiano come La gioia dei serpenti a cura di Agata Sannino Pellegrini per le edizioni
Paideia di Brescia nel 1998. L’autore a cui si attribuisce questo dramma sanscrito in cinque atti
è Harṣavardana, re dal 606 al 648. La storia natta del sacrificio del protagonista Jimutavahana,
per salvare i Naga, un’antica razza di uomini-serpente.
31
Famoso cafè-chantant.
32
Cervi si riferisce ai rappresentanti di spicco di quella che sarà chiamata l’epoca d’oro della
canzone napoletana: Ernesto Murolo (1876-1939), poeta, drammaturgo e giornalista, e Libero
Bovio (1883-1942). Con “C.ia” indica una compagnia, ossia una serie di altri artisti dalla
sensibilità affine come presumibilmente il musicista Ernesto Tagliaferri, (1889-1937), il poeta,
drammaturgo e saggista Salvatore Di Giacomo (1860-1934) e altri personaggi che frequentavano
il Gambrinus, come la scrittrice e giornalista Matilde Serao (1856-1927).
33
Ivi, p. 148.
34
La ricezione del pensiero sulla musica sarà il tema che affronterà anche l’amico Augusto

149
napoletano, legati all’ambiente del Caffè Gambrinus e alla tradizione della

Piedigrotta (festa musicale annuale, allora al massimo del suo splendore), ma

anche stoccate dirette all’idea imperante e onnicomprensiva di futurismo come

possibilità di innovazione culturale:

«Cervi sapeva pure di non porre nulla in alternativa alla distruzione dell'esistente, ma
era stato troppo attento lettore del barrèsiano Ennemi des lois per prefissarsi regole e codici;
gl'importava solo frantumare, disorganizzare, triturare. Diventava ovvia, pertanto, l'accusa
denigratoria che furore polemico e frenesia distruttiva derivassero a Cervi dall'essere “futurista.”
Ma egli, che aveva appreso la lezione di Bergson ed aveva assimilato così bene la monelleria
anarchica palazzeschiana (non avrebbe cominciato entro pochi mesi a scrivere le Cadenze d'un
monello sardo?), si divertiva di fronte agli avversari: “quando mi chiamano futurista, tocca a me
scompisciarmi dalle risa: perché oggi si è tanto saturi di kantismo, che si vuole, ad ogni costo,
ridurre la letteratura ad un casellario ed ogni rassomiglianza, sia pur lontana e incerta, è buona
per farvi ficcare in una delle buche già prestabilite!'. All'etichettatura di “futurista,” Cervi
rispondeva con sarcasmo: “Io non mi sono ancora aggarzonato con nessuno. Non sono nulla,
tranne che me stesso. E non ho niente di comune coi futuristi. E niente di comune coi
d'annunziani” esprimendosi con la sicurezza di colui che sull'argomento aveva idee ben
consolidate, se già l'anno precedente, in un saggio molto importante, aveva fornito una sua
valutazione del futurismo, con il quale dichiarava di essere in disaccordo. Aveva puntualizzato,
nel saggio dell'anno precedente, che “Il futurismo non è altro che un d'annunzianismo esagerato,
il quale ha per conseguenza talvolta un' esaltazione eroica, spesso un disquilibrio eroico dal quale
l'umorismo nasce naturalmente,” sottolineando una questione non certamente pacifica in quei
tempi: che D'Annunzio fosse· “maestro” del futurismo perché ne aveva anticipato i motivi: “Il
disprezzo della donna, l'esaltazione della guerra, la trasformazione delle nuove energie in nuovi
elementi di bellezza, l'odio per la saggezza, sono tutte conseguenze diretta dell'arte
d'annunziana.”»35.

Nel denso passaggio riportato, risalta l’affermazione quasi altera nella sua

umiltà: Non sono nulla tranne che me stesso. Il filo che lega dunque la Pozzi al

Cervi è sicuramente quello di una ricerca personale, dettata dalla coerenza e da

uno spirito poco accondiscendente nei confronti di ciò che viene pigramente

condiviso dalla mentalità culturale in cui ci si dovrebbe sentire inseriti, anche

Guzzo, sempre dalle pagine dell’Eco della cultura, ove ricordo che era stato pubblicato l’articolo
Una geremiade. A proposito del frammento nietzscheano": Uber Musik und Wort, a.I, fasc.21-
22, 31 dicembre 1914, pp.227-229, che risulta essere una lettura di cui la Pozzi ha riportato ampi
stralci nelle sue Spigolature.
35
Ivi, p. 149.

150
per estrazione sociale. L’aspirazione alla scrittura e ad un’elevazione costante è

declinata però diversamente dai due poeti: se per Annunzio si tratta di «aggredire

le questioni della vita civile, in pieno, essendo persuaso che solo in tal modo

sarebbe stato possibile un profondo rinnovamento culturale partenopeo»36, per

la Pozzi, si tratta e si tratterà, di trovare il modo di restare connessa alla più vera

se stessa pur volendo restituire la voce alle cose e delineare la fitta trama di

emozioni che sostanziano la relazione costante con l’altro-da-sè. Onorina Dino

rileva nell’introduzione ai Diari pozziani:

«“Essere sempre più ciò che sono: questa è la mia unica volontà”, sottolinea [Antonia]
in una pagina dei Monologhi di Schleiermacher, e, in margine, aggiunge una nota, siglata
Augusto Guzzo: “Noi vogliamo essere i padroni della nostra barca”; e nella pagina successiva,
alle parole dell’autore [Schl.]: “…Fino a che saprò conservare nella coscienza anche ciò che
all’esterno sarò costretto a interrompere” – aggiunge di sua mano “e sentire e benedire la
lontananza materiale come la più divina, indissolubile vicinanza spirituale” e sottolinea ancora
la continuazione dell’autore: “e saprò perseverare nel volere ciò che ancora non ho compiuto e
nel riferire tutto ciò che compio a ciò che io stesso volli, fino allora la mia volontà dominerà il
destino che potrà, in virtù della libertà, volgere al suo fine tutto ciò che il destino le apporta.”»37.

Onorina Dino, nell’introduzione all’Epistolario Gadenz-Pozzi, rileva come dal

quaderno delle Spigolature emerga l’esigenza di trovare alcuni punti chiari in

merito al problema di Dio; fra gli autori selezionati, vi è anche lo stesso

Annunzio Cervi, di cui Antonia copia questi versi: «Dove la rinunzia più duole,

là è più Dio: / quel che più ci distrugge più ci crea. [Restiamo bombardieri del

Re!]»38. Queste parole sono spia di un cammino già impostato sulla

36
Ibidem.
37
POZZI, Diari, pp. 12-13. La Dino prosegue rilevando l’incertezza della datazione di questi
marginalia, e delle relative citazioni del Guzzo che sembrano materiale di studio e non di letture
personali, ipotizzando il 1929, anno seguente alla partenza di Cervi o il 1932 «quando il suo
sogno d’amore viene frantumato dalla volontà paterna, ma ella non ha ancora perduto la speranza
di poterlo realizzare», in ibidem.
38
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 37. Nell’estate del 1916, Annunzio Cervi era entrato a far

151
prefigurazione della rinuncia (alla quale effettivamente la poetessa dovrà

sottostare in merito all’amore per Antonio Maria) e alla conseguente

sopportazione del dolore. Si tratta di un’ascesi impegnativa, permessa anche

dall’allontanamento del superfluo, come conferma la seconda citazione riportata

sul quaderno, ossia la copiatura della poesia Custodia di violino, di cui sottolinea

i seguenti versi: «cacciate tutte le poesie di ieri / a calci – le puttanelle di poco

prezzo – // avresti dovuto cacciarle da un pezzo / Per non averlo già fatto te ne

disperi»39. La poesia doveva avere un significato particolare per lo stesso Cervi,

dato che porta la data del suo compleanno, 6 agosto 1915, ed è dedicata ad uno

dei suoi amici più cari, Francesco Meriano40. Anche secondo Graziella Bernabò:

«Molto evidente nelle prime composizioni di Antonia Pozzi è l’influsso della


produzione poetica di Annunzio Cervi, le cui opere le erano evidentemente note attraverso
Antonio Maria, che, per quanto schivo, tanto all’interno della scuola quanto al di fuori da essa,
era solito parlare molto del proprio fratello e della sua poesia. Da Annunzio Antonia ricavava,
accanto a un gusto dei diminutivi desunto da Palazzeschi, alcune immediatezze folgoranti e
audaci, certamente d’avanguardia in quegli anni, per quanto vi poteva essere di futuristico e di
ungarettiano. È possibile citare esempi sia delle derivazioni più banali che di quelle più
innovative dal poeta sassarese nella prima produzione della Pozzi.»41

parte «come ufficiale di artiglieria, volontario[, d]el corpo ad alto rischio dei Bombardieri del
Re.», in Bernabò, Per troppa vita…, p. 69. Nel 1917 pubblica Restiamo bombardieri del Re:
parole militari, opuscolo stampato a Treviso dalla tipografia Zoppelli e dedicato all’amica
Eleonora Duse, con cui intrattenne un contatto epistolare. I due si erano conosciuti insieme a
Nicastro in una libreria della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, dove l’attrice si era
commossa ascoltando i due giovanissimi soldati discutere animatamente in merito a Claudel e
Villon e, avendoli abbracciati, diceva loro commossa: «Voi partirete oggi. Vincerete la guerra.
Salverete l’Italia. Sì, sì, voi, che siete giovani, sapete come si può salvar l’Italia. E ora ditemi il
vostro nome, qui, scrivetelo qui! Metteteci accanto l’indirizzo del reparto e, se potete, anche il
nome della località in cui vi mandano.». Cfr. CERVI, Le cadenze…, pp. 45-47.
39
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 77. La citazione che Antonia riporta nel suo quaderno di
Spigolature è tratta dalla rivista Eco della cultura del 1915. È stata poi editata nel febbraio 1918
nel volume Le cadenze di un monello sardo dalla Libreria della Diana.
40
«A Francesco Meriano, anch’egli poeta, intellettuale, traduttore, Cervi confida il suo enorme
bisogno di comprensione e di “fraternità”, lo stesso che emerge in varie liriche delle Cadenze.
L’amicizia inizia nell’agosto del ‘15 con una lettera del Cervi e una passeggiata, al tramonto, nel
Parco Reale di Portici.», dall’introduzione di Anna Chella a CERVI, Le cadenze..., p. 22.
41
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 90.

152
Seguendo la categorizzazione della Bernabò, fornisco alcuni esempi delle

derivazioni lessicali ‘più banali’ che si ritrovano in Antonia. Le folate di

Anticipo42 (v. 30), ridotte a folatine e ventatine di Pomeriggio di Pasqua43 (v.

72; v.14, 27 e 57) del Cervi, si possono ritrovare già dalla prima poesia di

Antonia, Spazzolate di vento (v.9 le folate pazzerelle); gli spilli d’oro del sole e

i chiodetti delle stelle di Venerdì Santo44 (vv. 15-16) del Cervi, possono

rassomigliare alle due borchie di stelle del v.4 di Cencio della Pozzi; sempre in

Anticipo vi è l’immagine delle pochine monetine argentine del v. 16 per

designare la scarsità delle stelle che Antonia riprende in Passatempo notturno45

(v. 7) introducendo però una metafora di guerra e cambiando il soggetto della

fonte luminosa (la luna / bersaglia di monetine d’argento). Come si evince, il

lessico di Cervi è reintrodotto in funzione di un’immaginazione trasformativa

relata alla dimensione pozziana: non si tratta di un centone aprioristico. Fra le

derivazioni più innovative, invece, si possono riscontrare, a livello tematico, la

predilezione di entrambi per l’ambientazione notturna, vista come il tempo della

creatività, della diversità e della più viva meditazione poetica. In Cervi si legga

la contrapposizione fra il giorno e la notte di Notturno in metafisica46 «il giorno

come le vecchie filosofie / un’unica luce / la staticità d’un’unica luce / e tutte le

cose in quell’unica luce guardate // il giorno il barbogio giorno / confezionata

approssimazione di monotonie / come nelle vecchie filosofie / sonnacchioso

42
CERVI, Le cadenze…, pp. 79-80.
43
Ivi, pp. 85-88.
44
Ivi, p. 81.
45
POZZI, Parole, p. 88.
46
CERVI, Le cadenze…, pp. 108-109.

153
riposo d’identità in ritorno […] ogni notte la filosofia dinamica d’una realtà / in

mobilissime centralizzazioni / sartoria di continue confezioni / per ogni stella

una luminosa verità // ogni notte lo sforzo di diverse prese di possessi /

successioni sena riduzioni in analogia e simmetria / geniale reame privo di

cronologia / e senza più ricordi e senza più riflessi // ogni notte esasperazione di

originalità / mondi di metafisiche sovrapposte / talvolta in unisono giustaposte /

nella loro più stridente diversità». Per la Pozzi basti il numero – già rilevato come

il più alto – delle liriche dedicate a questa fase della giornata, a farne intuire

l’interesse: la molteplicità di derivazioni poetiche dalla stessa ambientazione

conferma che non si tratta di una posa letteraria ma di una relazione lirica

produttiva e vissuta. Innovativa è poi la schietta trasposizione di momenti di

debolezza o molto intimi del poeta, riversati anche con un linguaggio ricercato:

si veda l’esposizione della febbre in Notturno in nausea di febbre47 di Cervi, in

cui il poeta cerca di associare ad un colore le impressioni del dolore e del mondo

allucinato che percepisce intorno a sé, fino alla calmante apparizione della

madre, con l’intento di cucirle insieme per appagare l’arlecchino del suo Io. La

stessa valenza positiva dell’ingresso materno è ripresa dalla Pozzi con note più

dolci in Febbre48. Altre tematiche di Cervi trattate in modo spudorato sin dal

titolo (Masturbazione di trincea avanzata49, Chiavata50) non verranno mai

riprese con la stessa sfrontatezza d’avanguardia dalla Pozzi, ma rielaborate in

corde più consone e personali, pur mantenendo una forte carica espressiva

47
CERVI, Le cadenze…, pp. 96-97.
48
POZZI, Parole, p. 90.
49
CERVI, Le cadenze…, p. 131.
50
Ivi, p. 135.

154
(penso a Canto della mia nudità51). Nelle prime liriche della Pozzi è presente poi

una concentrazione quasi scientifica sul dettaglio dell’istante o del luogo già dal

primo verso, come a voler fermare l’attimo esatto dell’epifania poetica, che

sembra essere desunto dalla scrittura vibrante del Cervi (v. 1 di Notturno in

nausea di febbre: «ribrezzo di febbre per tutto il mio corpo stasera» o di Tuffo52:

«stasera le campane»); si confrontino gli incipit delle seguenti poesie:

Mascherata di peschi53 (Stanotte i peschi), Presentimenti di azzurro54

(Stamattina / sono rimasta tanto alla finestra), Muffe sotto vetro55 (A Napoli, su

a S. Martino), Sdolcinerie56 (Sono sicura che oggi), Le pratoline57 (Oggi t’ho

colto cinque pratoline), Bambinerie in tinta chiara58 (Ieri, in campagna, ero

rimasta sola), Afa59 (Oggi), Minacce di temporale60 (Al crepuscolo), Pioggia61

(Stasera la mia sonnolenza), e l’elenco sarebbe ancora lungo. Il valore preciso e

straordinario del tempo, pur nella cadenza ordinaria del suo scorrere, è inscritto,

secondo Nicola D’Antuono, sin dal titolo, per volontà del Cervi:

«Il titolo Cadenze di un monello sardo annuncia la forma dell’opera. La nuova poetica
è visibilissima già dall’organizzazione formale del volume. Ogni cosa è ritmo, cadenza, intervalli
regolari; la realtà fluisce sul piano tecnico ed il ritmo è connesso al succedersi delle cose, al
tempo che scorre […]. La temporalità è nella forma diaristica del volume, nel tono di
confessione, nella sintassi iterativa, nella stessa forma di tipo biografico-narrativo, se l’incipit è
in Anticipo e l’explicit in Io:».62

51
POZZI, Parole, p. 102.
52
CERVI, Le cadenze…, 141.
53
POZZI, Parole, p. 43.
54
Ivi, p. 50.
55
Ivi, p. 52.
56
Ivi, p. 56.
57
Ivi, p. 58.
58
Ivi, pp. 60-61.
59
Ivi, p. 65.
60
Ivi, p. 67.
61
Ivi, p. 70.
62
CERVI, Le cadenze…, p. 64.

155
Cercando analogie stilistiche nei due poeti, si può concordare che la sintassi

iterativa (si confrontino in questo senso e con diversi intenti le poesie Il cielo in

me, Inezie, Esempi della Pozzi63 e Venerdì Santo, Ordinotte senza parole,

Sviluppo in monotona rima di Cervi64) e, meno prepotentemente, il tono di

confessione riscontrato da D’Antuono nelle Cadenze, siano la base della

relazione Pozzi-Cervi, insieme al lavoro già rilevato sul lessico e sui temi. Sulla

forma biografico-narrativa invece, se in apparenza può sembrare un altro forte

punto di contatto, non è possibile creare un nodo fondante della relazione.

Purtroppo, come è noto, la Pozzi non ebbe modo di organizzare l’intero corpus

delle sue poesie, di farne una selezione in vista di una possibile pubblicazione

seguendo un proprio filo meditativo che rendesse coerente la scelta dei testi

rispetto a un titolo, ossia ad un’intenzione o ad una temporalità. Non poté – e

non volle – darsi forma poetica definitiva, pronta per gli sguardi dei lettori. È

indubbio però che la voce che emerge dai suoi quaderni sia stata scambiata per

molto tempo per quella di un ‘Diario di poesia’ se questa fu la notazione che la

raccolta ebbe sin dal 1939, mantenendola anche in seguito, malgrado gli

aggiustamenti critici e le differenti letture proposte già da Montale all’altezza

dell’edizione del 194365. Emerge dunque prepotentemente il dato innegabile che

la poesia della Pozzi scaturisca da un certo autobiografismo, da una relazione

63
POZZI, Parole, pp. 288-290; 222-223; 160-161.
64
CERVI, Le cadenze…, pp. 81-84; pp. 92-95 e pp. 114-116.
65
Cfr. il capitolo che Matteo M. Vecchio dedica in merito alla lettura che Montale ed Eliot fanno
degli scritti pozziani in Eugenio Montale e Thomas S. Eliot lettori di Antonia Pozzi, quinto
capitolo di VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 105-111. In particolare secondo Montale: «Ci sono
due modi per capire questo libro: si può leggerlo come il diario di un’anima e si può leggerlo
come un libro di poesia.», in ivi, p. 208.

156
quotidiana con il vissuto che ha necessità di essere sublimato ed espresso

attraverso lo sguardo poetico. Bisogna sforzarsi di ricordare però che la raccolta

Parole è in realtà fatta di annotazioni private su vari quaderni organizzata solo

in seguito da curatori che seguirono l’ordine cronologico di composizione.

Bisogna sforzarsi di ricordare che, dunque, la scrittura della Pozzi non può che

apparire cronologia, poesia legata all’evento quotidiano e dunque offuscare i

sensi del lettore con l’illusione che il dato biografico sia tutto quanto è necessario

sapere per comprendere la poesia di Antonia. Parole si compone iterando alcuni

temi, come il sogno dell’amore per Antonio Maria, il desiderio di maternità,

l’appassionata sensibilità nei confronti della natura, la concretezza dello scavo

nei ritratti di persone amate, le fulminazioni della bellezza e della malinconia di

certi ricordi, lo strazio della periferia e il profumo della ricerca vera di sé nella

relazione con l’Altro, che non tengono conto dello sguardo di un lettore, almeno

non da ciò che è dato sapere. Questi temi compaiono ciclicamente nei versi di

Antonia a prescindere dall’idea di un giudizio di sintesi sulla sua scrittura

operato da altri che non fossero le anime sorelle a cui faceva leggere i suoi versi.

In questo senso credo sia molto difficile, se non assurdo, giudicare il lavoro di

Antonia con gli occhi della normale critica letteraria, come se lei avesse cercato

dei lettori estranei al suo mondo, perché viceversa tutto di lei è stato come rubato

e trascritto, a prescindere da un preciso intento di pubblicazione dell’autrice. Se

oggi più che mai abbiamo bisogno di una critica pozziana non è per darle una

posizione all’interno di un panorama letterario (o almeno non solo), ma perché

si metta in luce il suo essere in divenire nella poesia. Vi è la necessità che la sua

157
ricerca sia davvero ascoltata, studiata e compresa come tentativo di innovazione

relazionale, sia a livello umano che letterario. Concordo dolorosamente ma

razionalmente con la linea di Stefano Raimondi che parla di una poesia in

potenza66 e trovo molto più interessante e coerente cercare, magari

utopisticamente, di comprendere lo statuto di quella potenza e delle relazioni

(letterarie e non) che hanno nutrito la volontà di Antonia di fare poesia per il

bisogno di liberarsi dal peso eccessivo della vita e della morte. Lo scopo della

sua poesia è nella lezione che dà in merito al valore del fare, a prescindere da

qualsiasi guadagno o riconoscimento, ma per amore e vocazione, e, poi e in

particolare, per chi ama la poesia, la sua lezione è in merito al valore del fare

poesia, intendendo la sua lotta come una resistenza culturale per dare un senso

alla vita che scorre al di là di ogni possibile giudizio estetico.

Diverso se non opposto è il legame di Annunzio con la propria scrittura.

Malgrado questa opposizione, resta ad accomunarli la volontà, fortissima per

entrambi, di esistere cantando, di essere come gioiosi fanciulli e nel contempo

di darsi un obiettivo creativo adulto e impegnativo. Così si possono accostare

per analogia, ma non per derivazione, le storie delle invenzioni poetiche e degli

sviluppi testuali dei due diversi ‘diari’, essendo consapevoli che il termine è

riduttivo e non declinabile allo stesso modo per i due poeti. Per Cervi inoltre, a

differenza di ciò che ho appena scritto per Antonia, si trattò sempre di un lavoro

da «filologo di formazione [che sorvegliò] con grande cura i propri testi»67 fino

66
Cfr. il saggio di S. RAIMONDI, “Dio maledica la primavera” Antonia Pozzi e l’inadeguatezza
delle parole, in AA. VV., …e di cantare…, pp. 159-177.
67
CERVI, Le cadenze…, p. 29.

158
alla pubblicazione e anche oltre. Cervi era poi teso a proporre una certa

innovazione alla collettività che lasciò interdetto e ammirato lo stesso Ungaretti:

«Appena rientrato al fronte, il 30 gennaio del ’17, scrive a Marone: “dimenticavo di


dirti bene di Cervi; spinge un motivo fino a raffreddarlo in un manierismo stupido; fa dimenticare
l’essenziale originalità di una sua ispirazione in una prolissità asfissiante di dettagli; ma quel che
conta è che qui c’è una facoltà nuova di pronta trasfigurazione della realtà con ironia lirica; una
sensibilità e un temperamento veramente ricchi. Una strana fusione potrebbe essere questo poeta
di Rabelais e Laforgue.” E il giorno dopo confessa: “Sono ancora dietro a Cervi che si mangia
l’universo con una raffinatezza e avidità pantagruelica. Peccato che i suoi slanci lirico-ironici
abortiscano in un fiume di chiacchiere”. Qualche giorno dopo insiste ancora: “Guarda com’è
poliedrica quell’immagine di Cervi fratello dei senzacena […] infine ti suggerisce una
sensazione di consuetudine, il povero che guarda fermo alla sua cantonata, sempre la stessa cosa,
la stessa strada, lo stesso punto di cielo ecc.; e amore per via di consuetudine ch’è quasi un
obbligo, una gratitudine, qualche cosa d’involontario, di subìto; chissà perché in questa città, per
queste strade; eppure a furia di andarci in giro, amarle e un intimo corrosivo desiderio di
liberazione”. L’ironia lirica che sorprende Ungaretti è proprio il tratto più innovativo della
poesia delle Cadenze, e sembra per Cervi un atteggiamento naturale, quasi istintivo. I versi del
“monello” mostrano, certo, momenti di incertezza metrica e stilistica, ma la trasfigurazione e
rilettura del mondo che vi trova spazio non può non stupire per la sua coerenza, tenuta e vivacità.
Cervi non si congeda mai, nemmeno al fronte, dallo sguardo lirico-ironico del “monello”; la sua
evoluzione andrà rintracciata semmai nella direzione che sembra additare il parere di Ungaretti:
una liberazione dalla chiacchiera e dalla prolissità, una salutare semplificazione delle
immagini»68.

L’ironia lirica ravvisata da Ungaretti nella poesia di Cervi viene considerata

dalla curatrice dell’edizione 2016 delle Cadenze, Anna Chella, una sorta di

maschera rispetto ad un atteggiamento più complesso nei confronti della vita e

soprattutto delle relazioni. Atteggiamento che molto ci può dire anche in merito

all’interesse e all’affinità della Pozzi nei confronti di Annunzio:

«L’io delle cadenze coincide spesso con la parte più intima e sofferente della personalità
di Cervi. Dietro il riso, gli sberleffi e i “capricci riderelli” si cela un profondo bisogno di amore,
comprensione, fraternità. Il poeta soffre della propria condizione di “ritardataria fanciulleria”
(Neniettina) e non nasconde i momenti in cui la maschera infantile va in pezzi: accade, per
esempio, di fronte allo sguardo dei bambini veri, che si accostano perplessi al “disperato monello
in volto d’uomo” (Interferenze d’autunno). Il poeta delle Cadenze è un amico silenzioso
(Ordinotte senza parole), abituato a “serotini ritorni da passeggiate senza compagnia”
(Interferenze d’autunno), che ama fuggire la folla e rifugiarsi sui tram diretti fuori città,

68
Ivi, pp. 31-32.

159
lasciandosi trasportare “verso un sobborgo in zitta pace” (Ottobrata in malinconia di sbagliato
destino). L’appassionato collezionista di parole bizzarre, il poeta dalle metafore immaginose e
iperboliche, desidera, nell’amicizia, la comprensione muta e immediata, il “silenzio che
presente”, la tacita “fraternità” di cui parla nelle lettere a Meriano. Forse – riflette in Sviluppo in
monotona rima, datata sulla Diana 7 ottobre 1915 – la vera amicizia è impossibile per il poeta
condannato alla parola e a un amore per tutti e per nessuno: “solitario in amore di tutti soltanto
ho dolore / per ogni strada in cui passo deriso / di sentirmi umiliato per questo mio viso / troppo
brutto a poterlo coniare in un soldo d’amore”. La raccolta illumina molti tratti della multiforme
personalità di Cervi – il coraggio, la delicatezza, il desiderio di fraternità, l’ingegno “riderello”
– lasciando in ombra forse soltanto gli accenti più eroici e superomistici della sua figura. Dal
volume restano escluse poesie come Il sonno dei cannoni latini o Gli artiglieri della gioia, che
pure sono contemporanee alle prime liriche del libro. A questi testi patriottici e altisonanti, pur
non avendo affatto mutato le proprie idee politiche e interventiste, Cervi rinuncia, lasciando la
raccolta completamente affidata allo sguardo e alla voce del “monello”.»69.

Malgrado dunque questa vena malinconica celata dietro all’ironia-lirica di Cervi

(o forse proprio a causa di quella, si pensi ai Rossori70 della Pozzi davanti allo

sguardo dei bambini di Pasturo e alla sua ricerca della pace e del silenzio, alle

sue fughe fuori città), ritengo che proprio lo spirito del ‘monello’ fu una funzione

letteraria molto importante per la Pozzi, poiché le diede la spinta per trovare la

propria voce poetica, proprio quando iniziava a capire che essa era espressione

di un diverso, e a tratti irriverente, modo di vedere il mondo. Secondo la

Bernabò:

«A certi modi scherzosi del primo Cervi, riconducibili a Palazzeschi, si possono

69
Ivi, pp. 37-38.
70
«[…] Ma davanti al cancello / del mio giardino / un grappolo di bimbi / attende il mio ritorno.
/ Per guardarmi, / per guardarmi bene da vicino, / per vedere com'è fatta questa cosa curiosa che
son io. / Me li trovo davanti all'improvviso, / che mi fissano, dritti, / senza scomporsi: / e di colpo
sento / che ho io di loro assai più vergogna / che non essi di me. / Vergogna del mio mazzo / di
bucaneve troppo semplici / che a loro paiono brutti, / vergogna del mio passo, / del mio corpo,
troppo pesanti, / che a me sembrano goffi... / Ed ecco, vorrei essere come loro, / piccina, povera,
oscura, / più vicina alla loro piccolezza, / e non aver da dire / la paroletta benevola / che suona
male, / non aver da sorridere / con le labbra dure / che si aprono male... / Mi rifugio dietro il
cancello / come dietro una porta impenetrabile. / Ma quando devo infilare / la chiave nella toppa
/ e chiudere / con armeggìo sgarbato, / mi sento morire, mi sento morire di vergogna / davanti ai
loro occhi tondi di passeri / che mi guardano di là dalle sbarre; / davanti alle loro animette / di
passeri liberi, avvezzi / ad entrare, ad uscire / dagli uscioni sgangherati / delle vecchie cascine,
senza smuovere mai / l'enorme catenaccio arrugginito... Pasturo, 6 aprile 1931», in POZZI,
Parole, pp. 157-159.

160
collegare ad esempio versi come questi [della Pozzi] di Bambinerie in tinta chiara: “Il cielo si
era chiuso indifferente / in un suo pastranello grigio chiaro, / spolverato di sbuffi freddolini”, che
ricordano alcuni accenni di Pomeriggio di Pasqua di Annunzio: “Nell’ombra improvvisa le
ventatine / ballano, in mezzo alla piazza, con sciarpe agili di polvere, / tre o quattro danze
serpentine.»71.

La lirica della Pozzi a cui accenna la Bernabò è effettivamente dedicata ad

Antonio Maria Cervi e sembra fondere sensazioni ed emozioni dei due vivi – la

Pozzi e il professore – proiettate sulla memoria del giovane fratello morto:

Bambinerie in tinta chiara Pomeriggio di Pasqua 72

Ad A.M.C. Il sole ha slargata la piazza a pugni d’oro.

Ieri, in campagna, ero rimasta sola, Docce di sole sui palazzi:


in un prato, a snidare le violette. pazzi
Il cielo si era chiuso indifferente con occhiatacce di vetri sbarbaglianti.
in un suo pastranello grigio chiaro,
spolverato da sbuffi freddolini: Non tram = sbarazzini
ma la terra, in compenso, mi alitava sgambettanti
sulle mani il suo fiato umido e caldo con ballonzolìo nelle tasche di soldini.
e a districare piano i ciuffi d’erba
mi sembrava d’insinuar le dita Nessun automobile, in fuga, acciabatta
fra i capelli d’una persona viva. la cadenza del suo motore:
Pensavo intensamente al mio fratello e, con la sirena, si arrabatta
e una lenta tristezza m’invadeva, a sgolarsi sopra una nota di basso profondo o
diffusa come uno stupore bianco. di tenore.]
Mi dicevo che forse nella vita
non potrò dargli mai neppure un fiore: Il sole fa cilecca al vento
un fiore ch’io abbia colto in questi prati dietro un fiocco di nube corpulento.
dove, bambina, camminavo scalza
per un’ebbra ed inconscia frenesia Nell’ombra improvvisa le ventatine
di contatti selvaggi con la terra. ballano, in mezzo alla piazza, con sciarpe
Ieri, s’egli mi fosse stato accanto, aaaaaaaaaaaaaaaaaagili di polvere, tre o
non gli avrei regalato delle viole: quattro danze serpentine.]
odoravano troppo sottilmente
e, a toccarle, sembravano aggricciarsi Con le tre bandierole del tassametro, una
già col presentimento d’avvizzire. aaaaaaaaaaaaaaaaaacarrozzella stinta e
Avrei preso due o tre margheritine, vecchia]
i più dimessi fiori, i più sereni, nella sua immobilità una tartana quasi mi
che si lasciano coglier senza brividi, pare]
che non odoran tanto sono puri. che innasti i suoi segnali in pericolo di
Con pure mani gliele avrei offerte, affondare:]
gettata tutta la mia vita inquieta striminzito ma sazio, con la bocca nel sacco,

71
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 90.
72
Ho riportato per intero i versi della poesia Pomeriggio di Pasqua, di Annunzio Cervi, per
permettere più completi riscontri. Sono tratti da CERVI, Le cadenze…, pp. 85-88.

161
in uno stordimento blando e chiaro, il cavallo sonnecchia.]
che mi riconduceva lievemente
la mia rinata fanciullezza intatta. La piazza senza sole si è rattrappita.

Milano, 22 aprile 1929 Nell’appannamento, con appannamento


accompagna la danza delle ventate
con piccole note flautate,
laggiù in fondo alla piazza, una banda di
reggimento.]

All’agitarsi d’una barchetta


dagli strumenti sbucano le noticine
per un ballónzolo – vólgolo di ventatine,
come in una fanciullesca favoletta.

Pochi borghesi – pancia rimpinza, faccia


contenta – ]
accanto al palcone della banda, nel
pomeriggio pasquale,]
con commozione anale,
compiono, a suon di musica, la loro siesta
sonnolenta.]

Il sole respinge i palazzi a pugni d’oro.

Un fiorario vende e nessuno compra


la primavera spicciolata in fastelli di
ciclamini.]

Ruzzerellano tre o quattro bambini


intorno a Mussorgski che annoia e al palco
che ingombra.]

Oggi tutto mi ha un’aria di rimpinzamento:


persino sono meglio gonfiati
– su palafitte convergenti di fili – i celestini
palloncini frenati,]
che un vecchiotto, con l’avarizia del pugno
chiuso, nega al vento.]

E sazie le campane d’aver mangiato


con schiocchi pazzi di lingua
il silenzio della settimana santa.

E sazio il sole che s’incanta


e di luce s’impingua
nel cielo di primavera,
dopo aver, con bocca d’oro, divorato
tutto il cumulo invernale della nuvolaglia
nera.]

E le bocche delle fresie – un po’ contuse di


viola –]
sazie d’aver succhiati gli umori della loro
aiuola.]

162
Vespro di Pasqua: diffusa sazietà…
Puah!

Primavera: assenza di avidità…


Puah!

In mezzo a tutte le cose brutalizzate


io soffro come queste ventatine,
incorporee veline,
che si stordiscono in vertigini di ballate.

Fra gli abbuzziti borghesi in grassa siesta,


come le folatine godo di sentirmi snello:
io, eterno monello,
al quale il poco è molto e il molto è troppo
per la sua festa.]

All’agitarsi della barchetta


– oh, non per questi lardosi borghesi! –
Si sdilinquisce una Pastorale sui corni inglesi
come in una fanciullesca favoletta:

e l’anima mi si slancia,
nella piazza, in gara di danza col vento,
e mi burlo, a scompisciamento,
di queste persone tutta pancia.

Le folatine all’orecchio mi ventilano che per


loro]
il sole ha slargata la piazza a pugni d’oro…

La capacità di ridestare la propria innocenza attraverso un dono della natura,

puro e sereno, come quello delle due o tre margheritine, in contrapposizione alle

violette, fiore del ricordo dal timbro mitico, greco, è tipica della funzione

emotivo-letteraria che Antonia attribuisce agli elementi attorno a sé,

specialmente alla colorata spontaneità dei fiori, sempre capaci di arricchirsi di

importanti significati personali a seconda del contesto. Lo scartare le violette

snidate, che odorano già sottilmente di morte, e che vengono poi chiamate viole,

mi porta ad indagare meglio il significato simbolico di questo fiore.

Se si accetta la spiegazione di Claude Salvy, che accomuna la violetta alla viola

163
del pensiero73, si può ritrovare la radice del concetto legato alla simbologia di

questo fiore, il ricordo, nel mito dell’amore fra Giove ed Io:

«La viola del pensiero è anche chiamata violetta a tre colori o erba della SS. Trinità,
perché un’antica credenza scorgeva nella forma della sua corolla il triangolo divino. L’occhio
aperto era rappresentato dallo stimma e le scanalature intorno formavano i raggi. […] La
leggenda della viola del pensiero è quella di Io, figlia di Ismene e di Inaco, grande sacerdotessa
del tempio di Giunone. Io, che era come tutte le dee di una grande bellezza, turbò un giorno il
cuore di Giove e conobbe con lui l’amore. I loro convegni sulle prime furono tenuti nascosti, ma
poi Io fu tradita da una delle sue compagne e Giunone decise di vendicarsi. Giove, per evitare
l’ira di sua moglie mutò Io in una bianca giovenca. Questa, accovacciata nei prati stava
piangendo sul suo triste destino quando intorno a lei spuntarono dei fiorellini. Erano le viole del
pensiero che rivolgevano verso Io le loro piccole curiose persone rievocando i volti di coloro che
costei aveva amato nel suo soggiorno sulla terra. Le viole del pensiero erano dono di Cibele, dea
della terra, che aveva avuto pietà di Io. La viola del pensiero è sempre il simbolo del ricordo.»74.

Questa spiegazione mitica mi sembra accettabile nella progressione di senso

della poesia: se inizialmente la poetessa va alla ricerca di violette, di volti amici

offerti dalla terra con i quali omaggiare il defunto, – forse anche accogliendo

questa idea della trinità simbolica letta nel fiore, e quindi di un legame sacro e

sublimato, un amore solenne e misterioso fra lei e i fratelli Cervi –,

successivamente però non sembra ritenere questi fiori adeguatamente vivi per

costituire l’oggetto di un dono. La volontà di darsi totalmente di Antonia ha

bisogno di un simbolo puro, un fiore dimesso come la margherita75 che possa

73
SALVY, Il linguaggio dei fiori, p 142.
74
Ivi, pp. 139-140.
75
Secondo Salvy, «il suo nome significa perla. Ha una grande corolla ed è il fiore oracolo per
eccellenza. Per conoscere la risposta della margherita, ognuno la coglie in mezzo ai prati, poi ad
uno ad uno ne sfoglia i petali. Sia buona o cattiva la risposta il fiore mutilato viene subito gettato
via. Vi ama appassionatamente o niente affatto? La margherita ve lo dirà. La margherita
semplice è il simbolo della preferenza. Margherita di Francia, figlia di Francesco I, fu scelta
come sposa fra tutte le principesse del suo tempo, dal principe Emanuele Filiberto; allo stesso
modo ella, tra tutti i fiori, predilesse sempre la margherita bianca.». Ivi, pp. 89-90. Le margherite
sono anche i fiori della poesia Alla serenità del crepuscolare Corazzini, come dirò più avanti.
Nel loro nome latino, Bellis perennis sono state cantate anche dal Pascoli dei Nuovi poemetti.
Secondo il Cattabiani: «La margherita che annuncia e simboleggia la primavera è stata chiamata
anche pratolina e primaverina. Poiché fiorisce all’inizio di questa stagione, che nel calendario di
molte città dell’Antico Regime segnava il rinnovamento dell’anno, molti pittori, dal Botticelli al

164
rappresentare il ricordo del suo legame più ebbro e selvaggio: quello con la terra

di quando era bambina, quando la vita fluiva impetuosa e innocente. Annunzio

«il monello insofferente ad ogni ipocrisia, sottile fino all’eccesso nello scrutare

dentro di sé, ma capace anche di trasfigurare la realtà con la sua fantasia

immaginosa»76 si merita di essere ricordato attraverso un gesto concreto, il

ritrovato legame della poetessa con una fanciullezza intatta. Antonia ripaga il

fratello con lo stesso spirito di attaccamento alla terra e infantile genuinità che

caratterizzava il giovane poeta sin dalla sua prima poesia, Anticipo: «C’è della

gente tanto idiota / da volersi far prendere sul serio: / io sono invece tanto serio

/ da volermi preso per un idiota. // Rimango, dopo tutto, sempre quello / che fui

da bambino in Sardegna, con birichina ostinazione / groviglietto di ghiribizzi,

monello più d’ogni monello, / espansivo pizzinno-bizzone77.».78

Quello della Pozzi ad Annunzio diventa allora un dono di serenità perpetua

importantissimo perché effettivamente sperimentato: non si tratta di una

promessa eterna acquisita per una fede ignota ai sensi. Inoltre, per Fulvio Papi,

«La purificazione del proprio desiderio, del modo profondo di essere se stessa,

è quanto Antonia desidera donare per amore al fine di essere al livello desiderato

Ghirlandaio a Gentile da Fabriano, la facevano figurare nei dipinti e negli affreschi che
ricordavano la nascita del Cristo e l’adorazione dei Magi, dove alludeva alla “primavera” della
Redenzione. D’altronde anche il suo pistillo solare, giallo oro, e i petali che trascolorano dal
bianco al rosa delle punte alludono al nuovo sole primaverile: il bianco simboleggia infatti il
biancore dell’alba che trascolora nel rosato della primissima aurora o della primavera,
annunciando la salita del sole sopra l’equatore celeste. In questa luce la cantò Pascoli», in
CATTABIANI, Florario…, pp. 572-573.
76
CERVI, Le cadenze…, p. 11.
77
Cfr. ivi, p. 60, nelle note, la spiegazione di questo termine alla n°10: «Pizzinni-bizzoni si
chiamano i monelli sardi: e l’espressione vale bimbetti-uccelli.»
78
Ivi, p. 13.

165
dall’amato.»79. Si dimostra ancora, quindi, che il metodo di lettura degli autori

letti e considerati modelli per la Pozzi è – come già nel precoce caso di Annunzio

Cervi –, in funzione rielaborativa, rigenerativa:

«In molte poesie del 1929 Antonia Pozzi riprende dunque da Annunzio Cervi il lessico
ardito, aspro, quasi prosastico, l’assenza di punteggiatura, la giovanile e baldanzosa nervosità;
forse anche il gusto delle lineette utilizzate al di là del loro uso canonico, che era decisamente
presente nelle Cadenze di un monello sardo.
Ma, pur partendo, come è comprensibile per un’autrice alle prime armi, da un altrui
modello di poesia, raggiunge spesso esiti personali: è il caso, ad esempio, della bella immagine
ossimorica che conclude Giacere (bere / con le pupille larghe, / l’anima bianca della notte),
dove compaiono il gusto dell’antitesi luce-buio e il motivo della “bianchezza”, che con più ampi
significati torneranno nella sua poesia più matura.»80.

Successivamente la Bernabò cita una poesia emblematica della prima

produzione di Antonia, Filosofia81, ove accenna ad alcuni influssi di Annunzio:

Non trovo più il mio libro di filosofia.


Tiravo in carrettino
un marmocchio di otto mesi – robetta molle, saliva, sorrisino –.
Quel che m’ingombrava le mani, l’ho buttato via.

Il fratellino di quel bimbetto,


a due anni, è caduto in una caldaia d’acqua bollente:
in ventiquattro ore è morto, atrocemente.
Il parroco è sicuro che è diventato un angioletto.

La sua mamma non ha voluto andare al cimitero


a vedere dove gliel’hanno sotterrato.
Pei contadini, il lutto è un lusso smodato:
la sua mamma non veste di nero.

Ma, quando quest’ultima creaturina,


con le manine, le pizzica il viso,
ella cerca il suo antico sorriso:
e trova soltanto un riso velato – un povero riso in sordina.

Oggi, da una donna, ho sentito


che quella mamma, in chiesa, non ci vuole più andare.
Stasera non posso studiare,

79
PAPI, L’infinita speranza..., p. 22.
80
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 90.
81
POZZI, Parole, p. 94.

166
perché il libro di filosofia l’ho smarrito.

Carnisio, 7 luglio 1929

La Bernabò non esplicita il testo di riferimento del Cervi82, ma gli influssi sono

riconducibili, rispetto all’elenco che aveva appena formulato, soprattutto al tono

aspro, quasi cinico di Antonia – ad esempio nel connotare le parole del parroco

piene di stolide e stucchevoli certezze83 o nel descrivere l’estrema miseria

dell’impossibilità di vestire a lutto per i contadini – e nell’uso di lineette, che

spezzano qualsiasi possibilità di idillio nella loro funzione precisatoria (il

marmocchio di otto mesi è ridotto ad un impasto di dettagli corporali, una robetta

molle, fatta di saliva e sorrisino; il riso della madre è velato, come un povero

riso in sordina che non può ritrovare la piena gioia del suono, della sua potenza).

Chiaramente il tono non è calibrato per colpire ulteriormente la donna nel suo

dolore, ma, anzi, per farlo risaltare in modo lucido, non ammettendo scuse o

facili consolazioni, stridendo per il contrasto dei diminutivi e della forma

82
Almeno per quanto riguarda il tema, potrebbe trattarsi della poesia Per la morte di un bambino,
in A. CERVI, Poesie scelte (1914-1917), con un saggio di L. Fiumi, Casa Editrice Ceschina,
Milano 1968, p. 65. Il tono è però dolce, con influssi meditativi leopardiani: «Anche tu morto
bambino. E io stupisco a guardarti. / Come tu che la lenta continua rinunzia ignorasti / hai saputo
d’un tratto, in un sol giorno, rinunziarti? // Tu, che il silenzio prima d’ogni parola hai saputo, /
troppo dovresti dirmi per quel che appena balbettavi. / Forse, a non dire tutto, al tutto più amasti
esser muto. // Ora più non saprai quello che ad esser fosti. / Compierti non sapesti che nella tua
incompiutezza, / e all’Infinito, in silenzio inesplicato, ti raccosti. // Bambino, ecco la bara a te
che non sei che una bara. / Per la tua essenza di Dio che in Dio non trovò concretezza / lampada,
d’esaurirsi in giubilo di luce ignara, // tu, che d’un tratto a non essere il tuo essere esauristi, /
come in tomba prenatale in bozzolo di corpo moristi. // 1915.».
83
Si pensi alla differenza di tono con cui la stessa espressione di una fede semplice entra nei
versi di un Pascoli in Sera festiva, anche se pur sempre per bocca di un bambino che dà corpo
alla voce poetica: «Tu pensi.... Oh! ricordo: la pieve... / quanti anni ora sono? una sera... / il
bimbo era freddo, di neve; / il bimbo era bianco, di cera: / allora sonò la campana / (perchè non
pareva lontana?) / din don dan, din don dan. // Sonavano a festa, come ora, / per l’angiolo; il
nuovo angioletto / nel cielo volava a quell’ora; / ma tu lo volevi al tuo petto, / con noi, nella
piccola zana: / gridavi; e lassù la campana... / din don dan, din don dan.», in G. PASCOLI, Myricae,
Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1943, pp. 24-25.

167
compatta dei versi ordinati in rima incrociata. A sottolineare questo smarrimento

tutto al femminile è la doppia perdita di fede sperimentata da Antonia e dalla

donna: quella nelle risoluzioni razionali della filosofia a cui la poetessa era

spronata dallo studio; quella semplicistica e religiosa della madre che ha perso il

figlio. Davanti ad un fatto del genere, assurdo e casuale, atroce e irreversibile,

senza logica e senza pietà, non si può più andare in chiesa, non si può più

studiare. Resta solo la possibilità della poesia. Secondo la Bernabò:

«Si tratta di un testo interessante da diversi punti di vista. Prima di tutto, l’argomento,
in sé ben triste, della morte di un bambino viene inquadrato in una composizione calibrata che
in qualche modo riesce a contenere l’impatto emozionale: benché i versi non abbiano tutti la
medesima lunghezza, la poesia è infatti risolta in cinque quartine a rigorosa rima incrociata.
Inoltre, i frequenti diminutivi di gusto crepuscolare sono volutamente stridenti con il tema,
decisamente drammatico, e adempiono a una funzione critica nei confronti di una religione in
quel momento vista solo come formale. Infine, il lessico è volutamente semplice, prosastico
(robetta molle, saliva, sorrisino), con una ripresa, insieme all’uso delle lineette, anche di certi
modi spicci dell’ultimo Annunzio Cervi, piegati però a significati del tutto personali. Fin dai
primi approcci liceali alla filosofia, materia che avrebbe molto seguito anche all’Università,
Antonia Pozzi faceva capire a chiare lettere che non le interessava un pensiero astratto, disgiunto
dalla vita; e lo dimostrava, lei diciassettenne, con una fermezza da adulta.»84.

Antonia si sforzò a più riprese, per tutta la vita, di darsi una fede certa – anche

se personale e non dogmatica –, di costringere la propria emotività e sensibilità

letteraria in un lavoro razionale, o come ebbe a dire negli anni universitari,

produttivo: ma la profondità della sua ricerca, la commozione sincera che

provava nella relazione con un mondo fatto di carne, gioioso e sofferente,

estremo e vivo, la portò a rilevare l’evidenza di questo sdoppiamento fra Essere

e dover-Essere in modo fatale. Ella scelse la poesia come linguaggio e tramite

di sé al mondo (e viceversa), ma non si arrese mai in modo passivo alla propria

84
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 91-92.

168
natura perché intuiva che vi erano numerosi altri linguaggi che avrebbero potuto

con più facilità portarla all’incontro, tanto desiderato, con l’altro-da-sé. Anche

per questo motivo, dagli anni dell’università in poi, pensò spesso di abbandonare

la poesia e di approdare alla prosa. Il rapporto con la propria creatività e la

propria ricerca personale fu quindi ambiguo, o quanto meno visse fasi differenti

e spesso contraddittorie, di fiducia e sfiducia in se stessa e nel proprio cammino.

La poesia è dunque, inizialmente, amore e dono più vero di sé, ma è anche, al

contempo, rifugio per preservarsi, per avere disposizione di sé in modo libero, a

prescindere da qualsiasi obbligo o compito che il mondo esterno volesse

assegnarle. Antonia partecipa quindi anche ad un movimento opposto a quello

assimilatorio rispetto ai maestri e agli autori, al pensiero e alla fede del suo

tempo (assimilazione che le derivava molto probabilmente dallo studio

scolastico): la poetessa si rende protagonista di un movimento dissimilatorio e

dissimulatorio di non facile soggezione nei confronti di una cultura imposta

dall’alto. Come sottolinea Fulvio Papi:

«Più che la vocazione, la decisione di avere una propria vita poetica appartiene ai
diciassette anni di Antonia. Ha perfettamente ragione Giuseppe Sandrini quando scrive “[…] il
cuore dell’esperienza poetica di Parole non si capisce senza tenere ben d’occhio la sapienza
formale che Antonia Pozzi si foggia a partire dalla sua esperienza adolescenziale”. Dal punto di
vista psicologico, rubare un proprio tempo “personale” – come racconta Antonia – ai doveri
scolastici per scrivere poesie significa sottrarsi al comune uso del linguaggio che ne fanno (o ne
facevano) i ragazzi come in un teatro improvvisato e continuo di se stessi. Condurre il proprio
discorso nelle leggi formali del verso poetico vuol dire scegliere nella propria esperienza
un’abilità che si riconosce in una tradizione. A Dino Formaggio85 in una celebre lettera

85
Riprendo la nota che introduce Dino Formaggio al lettore di POZZI, Ti scrivo…, p. 272: «Dino
Formaggio (1914-2008), studente lavoratore prossimo alla laurea con Banfi con una tesi sul
concetto di “tecnica artistica”. Quello per lui fu l’ultimo, sfortunato, innamoramento di A.P.
Dopo la partecipazione attiva alla Resistenza, Formaggio si dedicò alla carriera universitaria,
senza mai rinunciare all’impegno politico e civile. Fondò in Italia l’“estetica fenomenologica”,
nell’intento di sottrarre la riflessione sull’arte a qualunque forma di idealismo, ponendo invece
l’accento sulle modalità concrete della creazione dell’opera e riavvicinando così l’arte alla vita.

169
dell’agosto del 1937, ormai nell’ambito problematico del “fare artistico”, Antonia dice di se
stessa: “Io ricordo di non essere mai stata spiritualmente così viva, di non avere mai prodotto
tanto come quando al liceo e più tardi dovevo strappare coi denti del dovere assillante i piccoli
ritagli di tempo che fossero miei, della mia anima.”. Sottrarre (immaginiamo questa scena in una
ragazza di diciassette anni) la parola alla fuggevolezza del discorso, poiché non esiste uno
scambio comunicativo diretto, significa fissare la parola stessa in una memoria che ne muta il
senso e lo rende esemplare in due direzioni: certamente nella sua disciplina formale ma anche
nella modalità solitaria e autoriflessiva del fare esperienza (ancora poesia e diario connessi tra
loro).»86.

La formazione letteraria – e di conseguenza l’apprendistato poetico – di Antonia

risente dunque anche di una vena ribelle87, di una forza costruttiva del sé

indipendente dai luoghi comuni88. Osservando la sola parte di biblioteca che lei

teneva a Pasturo e che oggi si è conservata, diventa chiaro come questa passione

eclettica, onnivora, sia la riposta ad una spinta interiore molto forte, che nessuno

studio canonico, già risolto e inscritto nel seno di un percorso condiviso da una

comunità culturale, avrebbe potuto del tutto soddisfare. Ciononostante, la morsa

dei suoi continui dubbi, la volontà di ascendere e costruirsi come persona, la

spingevano anche a chiedere consigli, ad affidarsi ai maestri, a tentare la strada

Tra i suoi molti scritti si ricordano in particolare: Fenomenologia della tecnica artistica (1953),
L’idea di artisticità (1961), L’arte come idea e come esperienza (1973), La “morte dell’arte” e
l’Estetica (1983), Van Gogh in cammino (1986), I giorni dell’arte (1991), Problemi di estetica
(1991), Separatezza e dominio (1994), Filosofi dell’arte del Novecento (1996), Variazioni
sull’idea di artisticità (2000), Riflessioni strada facendo. Un cammino verso il sociale (2003).»
86
PAPI, L’infinita speranza..., pp. 64-65.
87
Faccio mia la precisazione di Tiziana Altea, contenuta nel suo saggio Il silenzio come “altra
voce” in Antonia Pozzi: «L’urgenza di autonomia e anticonformismo non si traducono, per la
Pozzi, in volontà di trasgressione in senso stretto, ma in una ricerca di autenticità con sé e con
gli altri, per cui ad esempio, si vorrebbe “[…] non aver da dire / la paroletta benevola / che suona
male, / non aver da sorridere / con le labbra dure / che si aprono male…” (Rossori).», in AA.
VV., …e di cantare…, p. 227.
88
Si veda anche la poesia Cadenza esasperata: «Rabbiosa e scema esasperazione / delle mie
unghie rosicchiate / e queste parole dannate / che graffiano la carta con furiosa ostinazione //
invece del compito che lunedì dovrei portare / rimaner qui a farneticare / a dondolarmi
sull’altalena del passato / idiotamente con torpore assonnato // stimolati certi sobbalzi di
inquietudine stizzosa / da ogni ora che scocca / ed una voglia sciocca / di affrettarmi in
melensaggine lacrimosa // l’incubo della lezione che avrò fra un quarto d’ora / l’oppressione di
questo giorno snocciolato ansiosamente / la visione di me stessa che mi percuote desolatamente
– // una bambina che bamboleggerà sempre – come ha fatto finora – // Milano, 13 aprile 1929»,
in POZZI, Parole, op. cit. p. 49.

170
della certezza già valida per le persone a lei care. Per questo Antonio Maria Cervi

– oltre che per il sentimento che ne derivò –, fu una figura fondamentale per

Antonia: poiché ella lo investì del ruolo di colonna e argine della sua vita, intesa

come anelito alla verità. Dal professore Antonia assorbì un intero modo di

esprimersi, un linguaggio, non solo per poter meglio comunicare con lui – e,

quindi, per quel sottile gioco di assimilazione epistolare verso le attese del

destinatario che ha analizzato Matteo M. Vecchio89 –, ma anche perché la sua

ricerca poetico-esistenziale aveva bisogno di specchiarsi in un’anima salda e

pura come quella di A.M. Cervi. Fulvio Papi ricostruisce così la verità di questo

rapporto:

«Su una questione di vita Antonia – come ho già ricordato – ha in buona parte ragione
quando scrive: “Antonello io ti prego di non negare […]. Le cose, ho imparato a guardarle con i
tuoi occhi”90. Mi pare sicuro che il mondo intellettuale e religioso di Cervi sia entrato in Antonia,
certamente non come ripetizione, ma come problema, immaginazione, e anche lessico. Almeno
sino al 1934»91.

La dialettica più pura che Antonia riesce a esprimere nella relazione con Cervi è

quella che gli espone nella lettera citata da Papi, quella dell’11-15 febbraio 1934,

l’ultima a noi nota e la più sofferta. Una dialettica sacra che era stata già

condensata dai versi de Il cielo in me92:

Io non devo scordare


che il cielo
fu in me.

89
Cfr. il cap. IV Sulla scrittura epistolare di Antonia Pozzi, della raccolta di saggi di M.M.
Vecchio, in VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 95-103.
90
Cfr. la lettera che Antonia scrive a Cervi da Milano, datata 11-15 febbraio 1934 e contenuta in
POZZI, Ti scrivo…, pp. 186-190. La citazione è tratta da p. 187.
91
PAPI, L’infinita speranza..., p. 40.
92
POZZI, Parole, pp. 288-290.

171
Tu
eri il cielo in me,
che non parlavi
mai del mio volto, ma solo
quand’io parlavo di Dio
mi toccavi la fronte
con lievi dita e dicevi:
– Sei più bella così, quando pensi
le cose buone –

Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi per la mia persona
ma per quel seme
di bene
che dormiva in me.

E se l’angoscia delle cose a un lungo


pianto mi costringeva,
tu con forti dita
mi asciugavi le lacrime e dicevi:
– Come potrai domani esser la mamma
del nostro bimbo, se oggi piangi così? –

Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi
per la mia vita
ma per l’altra vita
che poteva destarsi
in me.

Tu
eri il cielo in me
il gran sole che muta
in foglie trasparenti le zolle

e chi volle colpirti


vide uscirsi di mano
uccelli
anzi che pietre
– uccelli –
e le loro piume scrivevano nel cielo
vivo il tuo nome
come nei miracoli
antichi.

Io non devo scordare


che il cielo
fu in me.

E quando per le strade – avanti


che sia sera – m’aggiro
ancora voglio

172
essere una finestra che cammina,
aperta, col suo lembo
di azzurro che la colma.

Ancora voglio
che s’oda a stormo battere il mio cuore
in alto
come un nido di campane.
E che le cose oscure della terra
non abbiano potere
altro – su me,
che quello di martelli lievi
a scandere
sulla nudità cerula dell’anima
solo
il tuo nome.

11 novembre 1933

In questa poesia Antonia ricuce per un attimo la ferita aperta della sua anima: si

dà il compito della memoria di un istante, di un incontro vero e vivificatore,

quando si è sentita compresa, in fusione perfetta con un tu-cielo, metafora di

tutto quanto è più alto, puro e sacro. Nei passaggi di questa poesia il Tu è

immenso, prende lo spazio di un intero verso: diviene la potenza stessa del cielo

nell’amare la propria creatura oltre, al di là dell’aspetto e della concretezza stessa

dell’io. Il cielo abbraccia interamente la poetessa e si ipostatizza negli stessi gesti

d’amore di Cervi93: asciuga le lacrime, sussurra le parole più dolci, sprona

93
Questa personificazione divina di Cervi è espressa a chiare lettere nell’ultima missiva di
Antonia per il professore, quella dell’11-15 febbraio 1934, nella quale lei afferma l’eternità del
loro legame: «Quado io volevo baciarti con labbra impure, tu mi scostavi piano, mi dicevi: “Ti
fanno male i baci, oggi, Pupa”. Io credo, io so, che nessun uomo ha mai detto alla sua donna
delle parole così sante. Tu solo, Antonello, tu solo. Perché era Dio che parlava in te, che voleva
salvarmi attraverso di te. Tu non puoi distruggere te nella mia vita, perché tu sei stato la parola
di Dio in me, la promessa della mia redenzione. Non è vero che tu non mi creda. Tu sei in me
più di quel che io sia e sai tutto di me: vedi attraverso lo spazio e gli anni, oltre questo viso che
la gente crede di conoscere, oltre le tante false figure di me stessa che girano per le “strade” e
vanno nelle case degli uomini a ridere e a dire bugie: tu sei nel profondo di me, a colloquio con
l’unica vera me stessa, quella che è stata tua. Tu mi credi quando ti dico che per me tutto è come
prima, più di prima; che io non sono stata e non sarò mai d’altri che tua. Di più, di più: che la
mia anima, non soltanto il mio cuore, la mia mente, il mio indirizzo di pensieri e di vita, la mia
dignità umana, saranno per sempre quali tu li hai veduti e voluti.». In POZZI, Ti scrivo…, pp. 188-
189.

173
all’acquisizione di una forza interiore. Sembra davvero di assistere all’atto

creativo di un’anima, di essere partecipi dell’infinito sguardo d’amore di un Dio

che ama in modo totalmente trascendente anche rispetto alla professione di una

fede. Basta il seme di bene che dorme in lei, basta la possibilità di essere fertile

terreno per la nascita di una nuova vita: in questi versi Antonia crede

profondamente di essere amata come strumento donativo, come lei voleva essere

amata, ossia come una creatura creatrice, al di là della povera forma di se stessa.

Negli ultimi versi Antonia è addirittura la finestra, forse la stessa che aveva

descritto nella sua prima poesia, Spazzolate di vento, ossia è proprio lei che ora,

con la sua disponibile apertura, permette al mondo di vedere fuori tempo

massimo avanti / che sia sera, l’immagine di un lembo di puro azzurro. Lei

stessa è simbolo di una speranza ai limiti della fede, sublimata nel colore del

cielo che la colma. E il suo cuore batte per l’emozione di questa trasformazione

del sé, è un alto rifugio sonoro, come un nido di campane. In questo momento le

cose oscure della terra non hanno altro potere che scandere sulla nudità cerula

della sua anima il suo nome, il nome di quel prodigioso tu. È chiaro che dietro a

questo pronome personale si cela la figura di Cervi: ed è meraviglioso come

Antonia riesca a condensare la potenza educativa e metamorfica del suo

professore, davvero di demiurgo neo-platonico, nell’immagine del gran sole che

muta / in foglie trasparenti le zolle. Vi è l’idea del tempo ciclico che torna, con

pazienza e vera forza di luce inesauribile, a compiere gli stessi gesti, a maturare

dal niente frammentario e scuro delle zolle di terra, la trasparenza aerea, quasi

174
vergine delle foglie94.

Tutto il male del mondo viene trasformato dalla capacità celeste di questo Tu, ed

anche le pietre, dure, pesanti, lanciate per fare del male, si trasformano in una

volatile beffa, in uccelli che sembrano usciti dai miracoli antichi a rimarcare la

grandezza, la superiorità del suo nome. Sprigionare dall’interno la forza mitica

della classicità, l’eleganza di una cultura, la leggerezza della pace interiore: solo

un’anima come quella di Cervi poteva esserne esempio.

Antonia parla di questo momento di intima e infinita comprensione io-cielo-tu,

di vera unione della sua anima con quella dell’amato, in una lettera a Cervi del

1° marzo del 1932, riferendosi ad un fatto accaduto durante l’allontanamento

inglese della Pozzi, nell’estate del 1931.

«La cosa più vera, quella che io – non potrai negarlo – intravvedevo già dal maggio
1929, quando, per vincere la tua oscura riluttanza a parlarmi dei massimi problemi, invocavo la
fraternità che m’avevi promessa e t’imploravo di non venirle meno, la cosa più vera e più atroce
e non so se reparabile è questa: che noi ci siamo baciati tante volte e abbiamo creduto di parlarci
di cose sacre e abbiamo sognato di donarci interi, ma le nostre anime non si sono mai nemmeno
sfiorate. Fuorché in una sera. In una sera che non puoi aver dimenticata. A Londra, sotto i grandi
alberi, là dove ci pareva di essere soli sulla terra e tu non sentivi altro che amore per me e allora,
non so con quale ardore, io, io per la prima, io senza forse essere compresa, tentai di rompere la
barriera che ci separava e ti parlai del mio Dio, di quello che, in un’altra sera d’oro, sulle colline

94
«E tu, tu che cosa facesti, omaccio, della mia povera animula sgualcita e accartocciata come
una foglia vizza? La mia animula, me l’apristi piano, con le tue mani sante; la lisciasti, l’allargasti
fino ai confini delle cose più vaste, la distendesti tutta al sole, perché il sole la mondasse e ne
condensasse gli aromi. Ed io, io che avevo cominciato a guardarti solo per capriccio, solo, forse,
per dimenticare l’altro, io… oh! Piccolo: era la vita, sai, la vita nuova e vera, l’ignota luce tanto
invocata, che scendeva in me, da te, a ondate larghe…». Queste parole di Antonia sono tratte
dalla prima lettera in cui si esprime in termini intimi e affettuosi al Cervi, quella dell’11 gennaio
1930. Appare qui l’immagine dell’anima della poetessa come quella di una foglia vizza, spiegata
e aperta dalle mani sante del professore, finalmente portata alla luce. L’altro a cui Antonia si
riferisce è un cantante d’opera con il quale dice di aver avuto degli incontri nei tre anni precedenti
la conoscenza di Cervi, incontri dai quali lei fuggiva: «con un senso di amarezza e di disgusto»
per le proposte poco perbene che riceveva da quest’uomo. La lettera è contenuta in ivi, p. 96.
Cito solo la memoria dei versi montaliani di Ossi di seppia: «Spesso il male di vivere ho
incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il
cavallo stramazzato.», dove anche in questo contesto l’anima sofferente figura in forma di foglia
che si accartoccia su se stessa. In E. MONTALE, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1997, p. 35.

175
rosseggianti d’erica95, m’era balenato nel cuore. Io oggi non so più se tu allora raccogliesti le
mie parole; ma allora mi sembrò che veramente qualchecosa di duro si sciogliesse tra noi e te lo
dissi – ti rammenti? – e piangevo di dolcezza e tu non mi dicesti, come ora, che il piangere mi fa
brutta, ma così mi dicesti: “Stellina, sei più bella quando pensi delle cose come queste” e mi
baciasti la fronte…»96.

Queste parole arrivano a smentire uno scritto sgomento del professore, il quale

deve aver a sua volta ricevuto, in precedenza, una lettera per lui sconvolgente da

parte di Antonia. Di questa missiva è rimasto, però, solo il seguente frammento

non datato:

«[…] Io non credo a quello che credi tu, lo sai. E una volta questa disparità mi pareva
un abisso terribile. Ma ora non più. Ora non ho più i miei diciassette anni: mi sento molto grigia
e quieta. Tutti i miei pensieri sono tranquilli. E sono certa della mia vita senza pensare a Dio. Mi
sembra che come molta gente vive senza intuizioni artistiche, così si può vivere senza intuizioni
religiose. Io non cerco Dio perché non sento il bisogno di cercarlo; perché credo che la mia vita
può essere moralissima anche se io faccio le cose per se stesse e non perché Dio lo vuole. Mi
sembra che il mio pensiero sia ritornato molto semplice, bambino quasi: ma dritto, sicuro,
calmissimo. Un giorno, se il dolore mi vorrà far pregare, sentirò anch’io il bisogno di Dio e forse
lo cercherò. O forse non lo cercherò. Non so. Io so che mai come ora io ho sentito la mia vita
nelle cose fuori di me: ed è un dissolversi soavissimo. Ti mando poche righe che ho scritto alcune
sere or sono: sono le più spontanee, le più vere ch’io abbia scritto mai.
In questa calma, vedi, io so ora capire ed ammirare più di prima la tua religiosità fervida.
E anche davanti al più sacro pensiero ch’io possa avere, davanti al pensiero di una nostra creatura,
io mi sento serena. Io saprò insegnarle col più grande amore, col più grande fervore, tutto ciò
che tu vorrai che la tua creatura sappia.
Quando sarà grande, sceglierà lei la sua strada. Perché io credo e l’ho provato su di me
che è più grave impaccio al pensiero il non aver niente dietro di sé che l’avere una fede. È più
facile ricostruire sulle rovine che costruire nel vuoto. Ecco, Antonello, ti ho detto le cose più
gravi, quelle che più mi rimordeva di averti taciuto […].»97

95
«La sera d’oro» a cui Antonia si riferisce è forse quella della poesia Fede, in POZZI, Parole,
pp. 168-169. Eccone i versi: «Come potresti, come potresti, creatura, / andartene da sola / per
questo prato che somiglia a una steppa / e cogliere l’erica / e contare le stelle / e non morire / se
fosse la tua patria vera / quella che t’è lontana? // Come potresti, come potresti, creatura, /
strappare a queste pietre / le stesse erbe che crescono / vicino alla tua casa / ed amarle / se questa
terra non fosse / quella stessa, portata / dai tuoi occhi pel mondo? // E come potresti donare / alle
cose una vita / se fosse nelle cose la tua patria / e non in te / la patria di ogni cosa? // Come
potresti tu, / creatura, creare / ad ogni istante il tuo mondo / e sognare d’una patria più vera / se
Dio in te non creasse / ad ogni istante il Suo mondo, / il suolo sacro, / la Patria? // Kingston, 25
agosto 1931.».
96
POZZI, Ti scrivo…, pp. 144-145.
97
Ivi, pp. 143-144.

176
È chiaro che il Dio di Antonia è il Dio di tutti i poeti, o meglio di tutti gli artisti,

secondo quanto espresso da Madeleine Delbrêl in Abbagliata da Dio98:

«Gli artisti (poiché prenderò i poeti soltanto a titolo d’esempio, penso che non ci siano
le arti, ma l’Arte, detta con parole diverse), gli artisti sono il popolo più religioso del mondo:
hanno il loro Dio, la loro morale e se posso dire la loro mistica.
Il loro Dio: è essenzialmente il Dio sconosciuto di cui parla San Paolo e io dico che è
lo stesso. Lo chiamano con uno dei molteplici nomi che indicano la sua incorruttibile unità, lo
chiamano Bellezza, lui che è la perfezione di ciò che è bello e vivente. Arrivano a lui attraverso
una strada che si unisce ad altre strade, quella della Verità, quella dell’amore, quella della
conoscenza, poiché sono strade di una montagna e tutte si riuniscono sulla vetta. Come i cristiani
più religiosi conoscono il loro Dio maggiormente attraverso le insufficienze delle sue
manifestazioni che non per ciò che rivela di se stesso. […] Tutti i fenomeni religiosi si incontrano
presso gli artisti su un altro piano. Sono inquieti finché non trovano la rivelazione perfetta e
restano inquieti in eterno proprio perché non è attraverso l’arte che si possiede Dio, si vede
semplicemente dov’è.».

È nei versi della chiusura di Fede, a cui Antonia allude nella lettera del 1°marzo

1932, che troviamo le immagini del suo Dio. Ella sussurra chiaramente a se

stessa la risposta da un rosso, campo d’erica inglese – e dunque pericolosamente

straniero nell’ottica fascista contemporanea, ma per la poetessa tutt’altro che

straniante –: «Come potresti tu, / creatura, creare / ad ogni istante il tuo mondo /

e sognare d’una patria più vera / se Dio in te non creasse / ad ogni istante il Suo

mondo, / il suolo sacro, / la Patria?». La potenza universale della natura nel

suggerire allo sguardo amorevole di Antonia l’evidenza della Sua Verità è

sconvolgente: ancora l’ambiente vissuto, esperito e meditato, ascoltato, si rivela

il mezzo più proficuo per la ricerca poetica della Pozzi.

La relazione con Antonio Maria è dunque da leggersi in modo attento (evitando

banalità superficiali), sia come una dialettica amorosa, sia come una dialettica

98
Riprendo la citazione fatta da Onorina Dino in POZZI - GADENZ, Epistolario, pp. 40-41, che a
sua volta la trae da M. DELBRÊL, Abbagliata da Dio. Corrispondenza, 1910-1941, prefazione di
E. Bianchi, Gribaudi, Milano 2007, pp. 89-90.

177
nient’affatto passiva fra maestro e allieva. La Pozzi infatti rivendica a più riprese

la Verità della sua ricerca, essendo una verità esperita e accolta come

un’illuminazione donata dal suo Dio. Se la poetessa inizialmente ha cercato con

forza di essere instradata da Cervi su un cammino spirituale, attraverso la propria

sofferenza, il proprio apprendistato poetico, la propria evoluzione culturale e

umana, arriva ad esprimersi in questi termini emancipatori nella lettera del 1°

marzo 1932:

«Perché se è questo che tu mi rimproveri, Antonello, di non credere nel tuo Dio; e se
quel che tu dici camminare vuol dire entrare nella tua chiesa, tu capisci, vero, che sarebbe
disonesto verso la mia coscienza il fingermi un dovere che non comprendo e non sento. E allora
tu dici che sono stata insincera quando ti ho mandato le parole del Vangelo, quando ti ho scritto
che mi mettevo a ginocchi con te per pregare e che pregavo per il povero Annunzio? […]
Tu non ammetti che oggi si senta e si creda vera una cosa e che domani la si riconosca
falsa? Oppure pensi che, pur riconoscendo sbagliato uno dei nostri atti passati, questo atto ci
obblighi a credere anche oggi a ciò che ieri ce lo aveva ispirato? Ma come, ma come, ma come
hai potuto pensare che in quel momento non credessi a quel che scrivevo? Mi accusi di verbosità.
Ma dunque pensi che chi è verboso non creda alle proprie parole? Pensi che verbosità sia come
dire: qui ci sta bene un “giuro”, qui ci sta bene un “supplico”, qui ci sta bene “Dio”?
Ma come, come, come puoi pensare che io giuochi con le mie parole così?
Accusami d’impulsività: in questo sì, hai ragione, hai ragione.
Il mio torto massimo è proprio questo: di prendere per duraturo quello che è mutevole,
e di fermarlo in iscritto e di gettarmi in esso con passione e dopo poco riconoscerlo per quello
che è e rimediarlo, vedere il suolo fermo là dove non sono che nuvole.
E tu questo lo chiami insincerità, Antonello? Ma chi è impulsivo non può essere
insincero! Chi è impulsivo è anzi troppo sincero, perché non lascia nell’ombra il minimo dei suoi
moti d’animo, ma tutti li esterna con lo stesso accento di verità. E questo è un male, un male
grandissimo, lo so. Ma non è che noi si voglia ingannare gli altri; siamo anche noi degli ingannati,
in quanto crediamo ciecamente a tutto quello che sentiamo.»99.

Vi è in queste righe un meraviglioso motivo in sordina che ritma la relazione

poesia-realtà che è semplice come quel vissuto quotidiano che non si lascia

guardare nel vivere, ma tutto sorpassa e consuma nel suo essere genuinamente

una forza d’amore. Forse non sempre conduce alla Verità, come Antonia

99
POZZI, Ti scrivo…, pp. 145-146.

178
riconosce, ma sospinge con energia una ricerca momento per momento che

concreta il valore del tempo in un suo scorrere ingenuo, a-priori, senza necessità

di dogmi religiosi-filosofici in cui incanalare un reale pre-compreso. È in questa

forbice che credo si consumi la distanza fra la Pozzi e il suo professore: per l’una

c’è un’unica possibilità di vero che è l’eterno fluire di quello che lei sente e

riconosce come divino nella natura mutevole – e per questo curiosa, interessante

– delle cose; per l’altro c’è una verità assoluta che pre-comprende e informa una

volta per tutte la realtà, una Divinità che va studiata razionalmente e alimentata

dalla fede.

Cosa resta, dunque, del loro rapporto se non possono giurare sullo stesso Dio?

«Ma Nello, Nello, sentimi: non vedi come tutto ciò che è mutevole, falso, vano, passa
rapidamente, non vedi che pochi giorni, poche ore, a volte, bastano a far sbollire i miei capricci
inutili, a cancellare le mie fantasticherie stolte, e, per quello ch’è più profondo, non hai veduto
in questi anni quanti mutamenti sono avvenuti nella mia anima e quanti smarrimenti e quanti
ritrovamenti, e invece in un’unica cosa, sopra tutto, in fondo a tutto, immutabile: l’amore per te.
Tu non puoi dire, non puoi dire – te lo proibisco, perché non esisterebbe una cosa più
orrendamente falsa – non puoi dire che in questi cinque anni io abbia mai, per un istante solo,
mancato al giuramento che ti ho fatto, in nome del tuo povero Fratello, di volerti sempre
bene.»100.

Per Antonia è Annunzio, la promessa fatta in suo nome, ad unire in un vincolo

sacro le anime dei due amanti, e credo che sulla santità di questo vincolo potesse

porre fede anche il Cervi, e forse fu effettivamente così, vista la totale dedizione

che egli ebbe verso la memoria di lei, anche dopo la sua tragica fine nel 1938, e

sino al giorno della sua stessa morte nel 1966101.

100
Ivi, p. 147. Si tratta sempre della lettera del 1° marzo 1932.
101
Sono commoventi le immagini con cui vengono ritratte le azioni del professore in seguito alla
morte di Antonia nella biografia della BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 140-143:
«Contrariamente a ciò che Antonia, a un certo punto, gli aveva chiesto di fare, e pur avendone
avuto più volte la possibilità, [Cervi] non volle mai legarsi a un’altra donna. La morte di lei ne

179
La prima poesia che Antonia dedica espressamente ad Antonio Maria, Offerta a

una tomba102, suggella quasi questo patto:

Dall’alto mi hai mostrato,


un po’ fuori dalla frana ruinosa di case,
un additare nero di cipressi
saettati attraverso l’azzurro
a custodire
i marmi bianchi del cimitero.
Ho pensato ad una tomba
che non ho mai veduta
e mi è sembrato
di deporvi in quell’istante,

accentuò la preesistente tristezza e lo gettò in una grande angoscia, che però egli espresse soltanto
a poche persone fidate verso la fine della sua vita. Come ricorda la nipote Romana, tenne fino
alla morte la fotografia di Antonia giovinetta (qual era ai tempi del loro rapporto d’amore)
accanto ai ritratti dei genitori e del fratello Annunzio, nella stanza che era stata della madre: lì
Antonio Maria entrava ogni mattina per salutare i suoi cari. […] L’anno precedente alla morte
[avvenuta nel 1966], sentendosi ormai al tramonto della vita, piangendo consegnò a Elvira
Gandini, in una busta sulla quale c’era scritta la parola “silenziosamente”, le fotografie di
Antonia bambina, che gli erano state regalate da lei molti anni prima. Senza venire meno alla
sua abituale riservatezza, con quel pianto rivelò tuttavia in tutta la sua portata lo sgomento per
tutto ciò che era accaduto alla sua “piccola” e il rimpianto doloroso del passato. Quello stesso
anno, il 15 aprile 1965, Cervi, che si recava frequentemente al cimitero di Pasturo, condusse a
sé la nipote Romana, allora circa ventiseienne. Durante il viaggio in treno, nel tratto tra Milano
e Lecco, mostrò il desiderio di confidarle i suoi ricordi, dandole da leggere il libro di poesie di
Antonia edito da Mondadori e indicandogliene alcune in particolare. Come sempre, posò sulla
tomba di Antonia un fascio di garofani rossi (viene in mente il vivo fascio / di garofani rossi che
la poetessa diciassettenne avrebbe voluto deporre sulla tomba di Annunzio Cervi) e un biglietto
con la scritta “All’adorata Antonia / il suo Antonello”. La nipote, nel corso della visita al
cimitero, lo fotografò più volte di spalle e, in seguito, gli mandò le fotografie, temendo però una
sua reazione negativa. Invece egli mostrò di gradirle; anzi ne fece riprodurre una in diverse copie
da regalare alle persone che più erano state vicine ad Antonia. Dietro alla stampa fotografica,
Cervi appose quella stessa dedica in greco, tratta dal libro sesto dell’Antologia Palatina, che
spesso trascriveva sui biglietti per la tomba di Pasturo, alcuni dei quali ci sono pervenuti raccolti
dal domestico di Lina, il fedele Pierino Camesasca. Si trattava della conclusione di un
meraviglioso epitaffio d’amore del poeta Meleagro, qui riportata nella traduzione della Gandini:
“Ma io ti supplico in ginocchio, o Terra che tutto nutri, lei, che è tutto un pianto, dolcemente nel
tuo seno, o madre, avvolgi, nascondendola.”. L’anno seguente, nel mese di aprile, Cervi si era
recato a Milano per presenziare ad Azzate alla posa della lapide sulla tomba del defunto amico
Luigi Castiglioni. La nipote Romana ricorda che, essendosi infortunata, era costretta
all’immobilità e che l’11 aprile lo zio Antonio Maria le fece compagnia tutto il giorno con il suo
fare consueto, austero ma anche sensibile, paterno, e le disse: «Stellina, guarisci presto, così
andiamo a Pasturo dall’Antonia”. Romana non poté accompagnare lo zio, che peraltro visi era
già recato il 6 aprile, come risulta da un biglietto con tale data presente nell’Archivio Pozzi.
Cervi vi tornò da solo anche il 12 aprile. In tale occasione fu infatti trovato sulla tomba di Antonia
un altro fascio di garofani freschi verosimilmente lasciato dal professore. Il 13 aprile Cervi si
sentì male durante la visita alla tomba di Castiglioni e, appena rientrato a Milano, morì. Aveva
settantadue anni e mai era venuto meno al ricordo fedele di Antonia.».
102
POZZI, Parole, p. 54.

180
con trepido cuore a fior di mani,
un vivo fascio
di garofani rossi.

17 aprile 1929

Come viene spiegato nella nota relativa al titolo della poesia nell’edizione

Ancora di Parole: «La tomba è quella di Annunzio Cervi, fratello di Antonio

Maria, morto [sul fronte del Grappa il 25 ottobre 1918] e sepolto al cimitero di

Poggioreale della Pietà a Napoli. Antonia Pozzi visitò la città con Cervi nel corso

di un viaggio con la famiglia in Sicilia, con tappe a Napoli e a Roma. Al

medesimo viaggio si riferiscono anche altre poesie dello stesso periodo»103,

quali, ad esempio, La stazioncina di Torre Annunziata104, Muffe sotto vetro105,

Mascherata di peschi106, e le più volte citate Spazzolate di vento107e

Crepuscolo108. Offerta a una tomba è divisa in due periodi: il primo muove dal

gesto di Antonio Maria che mostra i cipressi, custodi del cimitero; il secondo è

l’immediata intuizione di Antonia nata da quel gesto, ossia l’immagine di se

stessa che depone dei garofani rossi su una tomba mai veduta (che si suppone

sia quella di Annunzio, perché niente è detto esplicitamente ma tutto vibra

intenso e pudico dalle corde del cuore).

La poesia presenta una metrica mista, quasi Antonia volesse far rientrare tutte le

possibilità di scrittura future in questi versi. Il primo periodo si apre con un

ottonario, seguito da un verso libero (che in fondo calca il senso eccedente del

103
Ibidem.
104
Ivi, p. 55.
105
Ivi, pp. 52-53.
106
Ivi, p. 43.
107
Ivi, p. 41.
108
Ivi, p. 42.

181
luogo mostrato da Cervi: «un po’ fuori della frana ruinosa di case»); si

aggiungono poi due endecasillabi, solenni nel rilevare un additare nero di

cipressi / saettati attraverso l’azzurro, chiusi da uno dei due quinari dalla poesia

a custodire il decasillabo de i marmi bianchi del cimitero. Le rime e le assonanze

sono solo interne, forse a sottolineare la volontà di un’intimità segreta: v. 1 alto

/ mostrato; vv. 2-3: case / additare; al v. 3 compare la consonanza additare /

nero, ripresa nel v. 5 custodire prima di essere fermata nella rima del v. 6

cimitero con v. 3 nero. Questo movimento musicale che dà solidità al periodo è

suggellato anche dall’assonanza dei marmi / bianchi, sempre al v. 6, e dalla

presenza di alcune allitterazioni, come quelle delle liquide /l/ al v. 1 Dall’alto e

/r/ al v. 2 fuori / frana / ruinosa dove compare anche la ripetizione di /f/. Tra il

v. 3 e il v. 4 la ripetizione di /s/ prepara la cadenza tagliente della /t/: cipressi /

saettati / attraverso che sottolinea lo slancio della pianta a sfidare l’azzurro. La

ricercatezza di questo primo periodo è condensata in immagini che non rendono

eccessivamente retorica la descrizione, ma anzi ne concretano l’essenza: la frana

ruinosa di case tratteggia in modo incisivo l’idea delle costruzioni aggrappate

sul fianco delle colline partenopee fino a rovinare dentro al mare; l’innalzarsi

solenne ed energico, quasi austero, dei cipressi che indicano compatti il cielo e

si fanno custodi dei morti (evocati dalla sineddoche marmi bianchi) è ben

richiamato dagli endecasillabi dei versi 3-4.

Nel secondo periodo invece il lavoro sulle figure fonetiche si fa meno intenso

(segnalo solo la rima interna ai vv. 7-9, cucita da una consonanza al v. 8: pensato

/ veduta / sembrato) per lasciare spazio alle immagini finali, dense di emozione,

182
del trepido cuore che a fior di mani, depone finalmente sulla cara tomba un vivo

fascio / di garofani rossi. Questo fiore dalla simbologia ricca109, sarà presente

anche in altre poesie (come Sole d’ottobre110 che è analizzata nel precedente

capitolo), ma soprattutto diventerà l’emblema di una comunanza con alcuni

morti eroici a lei cari, anche per il tramite di altri affetti, come lo stesso Annunzio

Cervi e «la povera Signora Anna»111 Kuliscioff112, citata nella penultima lettera

invita all’amico Paolo Treves prima della morte. E dopo la tragica scomparsa

della poetessa, sarà lo stesso Antonio Maria Cervi a portare i garofani rossi sulla

tomba della sua mai dimenticata Antonia.

Secondo Fulvio Papi, in merito all’apprendistato poetico della Pozzi, è proprio

l’endecasillabo, che si è visto risuonare potente anche in Offerta a una tomba, a

109
Cfr.: CATTABIANI, Florario…, pp. 563-564: «Secondo una leggenda rinascimentale il
garofano nacque da un capriccio di Diana: la dea cacciatrice, che si era innamorata di un pastore
ma non poteva unirsi a lui poiché era votata alla verginità, gli strappò gli occhi per impedirgli di
vedere le altre donne e li gettò sul terreno dove spuntarono due garofani bianchi. Non a caso in
francese garofano si dice proprio oeillet, occhiello. […] Il garofano […] ha genericamente
simboleggiato Fedeltà, Amore vivissimo, Eleganza. […] Nella seconda metà dell’Ottocento il
rosso divenne emblema dei socialisti e anche loro sinonimo, tant’è vero che Antonio Gramsci
avrebbe poi scritto: “Gli arresti si moltiplicavano e le guardie regie davano la caccia ai
garofani”.».
110
POZZI, Parole, op. cit. p. 272.
111
POZZI, Ti scrivo…, p. 309.
112
Si tratta della moglie di Filippo Turati, grande rivoluzionaria socialista e medico, di origine
russa, morta a Milano nel 1925. Durante il corteo funebre, dei fascisti ne attaccarono le carrozze.
Lo stesso Paolo Treves (1908-1958), che portava periodicamente dei fiori sulla sua tomba, fu
condotto in commissariato per questo gesto di pietà nei confronti di una persona che era a lui
cara, oltre che per la fede politica (il padre Claudio era infatti deputato socialista ed aveva
trasmesso la fede al figlio, il quale dal 1926 militava nel partito), anche per un sincero legame di
amicizia che la Kuliscioff, insieme a Turati, aveva avuto con la sua famiglia. Si confronti in
merito il capitolo Fiori bianchi e fiori rossi in PAPI, F., L’infinita speranza…, op. cit. pp. 181-
187, in cui si delinea nel rosso il colore dei fiori donati alla Kuliscioff da Treves e nel bianco
quelli portati alla tomba della «Signora» da Antonia in vece del Treves, nel giorno dei morti del
1938. L’assenza del giovane in questo giorno così solenne era dovuta alla sua origine ebrea,
ereditata dalla madre, Olga: negli anni dell’amicizia con Antonia, insieme al fratello Piero,
vissero alcuni momenti drammatici a causa del fascismo, sino alla fuga definitiva dall’Italia,
avvenuta dopo la promulgazione delle leggi razziali (settembre 1938) e prima della loro effettiva
applicazione (17 novembre 1938). Ricavo la data considerando che la lettera sconvolta che
Antonia invia a Paolo nell’apprendere la notizia della partenza della famiglia per l’Inghilterra è
del 23 ottobre 1938.

183
costituire «l’esperienza più importante, quella che nel tempo è destinata a durare

con effetti che nei vari testi non sono naturalmente sempre gli stessi.»113.

Papi offre una breve antologia di poesie in cui analizza l’evoluzione della Pozzi

nell’uso di questo metro, fra cui figurano, nella cornice temporale che qui

interessa, Sollievo114, Addio115, Vita116, e Anniversario117, oltre a due

componimenti su cui vengono ipotizzati anche rimandi alla cultura classica della

poetessa118: Sorelle, a voi non dispiace…119 e Notturno invernale120. L’esito

dell’uso dell’endecasillabo nelle prime due è promosso da Papi come di una

«completezza straordinaria»121, mentre nella terza, dedicata ad Annunzio Cervi,

si veicola un effetto contrario di «retorica piuttosto infelice […] dove i versi

positivi vengono quasi solo dal repertorio autobiografico mentre gli altri

diventano simili a una decorazione pubblica dove l’enfasi (se vogliamo:

“squillante a piena gola”122) non può prendere il posto della poesia. Il desiderio

113
PAPI, L’infinita…, p. 65.
114
POZZI, Parole, p. 76.
115
Ivi, p. 108.
116
Ivi, p. 115.
117
Ivi, p. 119.
118
Anche Graziella Bernabò si esprime in merito alla cultura classica di Antonia: «La poesia
diventò quasi naturalmente lo sbocco di quell’animo appassionato. Antonia non vi giunse
tuttavia impreparata, poiché vi approdò dopo un assiduo esercizio di traduzione dei poeti classici.
Roberto Pozzi in Vita di Antonia, ricordava, a questo proposito, alcune versioni poetiche di
Catullo e Orazio che andavano ben oltre le semplici versioni richieste dalla scuola e denotavano
una ricerca letteraria già personale.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 84. Nella nota relativa
a p. 95 (n°3), si precisa che la traduzione citata dal padre è di Orazio, Carmina, I-IX.
119
POZZI, Parole, p. 136. Della poesia il Papi parla in questi termini: «Quanto alla memoria di
poeti classici potrei forse aggiungere che il verso “Sorelle, se a voi non dispiace” della poesia di
Antonia del dicembre 1930 potrebbe ricordare, di Catullo, “Oramus, si forte non molestum est”
(Carmina, LV).», in PAPI, L’infinita…, p. 68.
120
POZZI, Parole, p. 137.
121
PAPI, L’infinita…, p. 66.
122
Segnalo che questa formula a piena gola ritorna in una cartolina che Annunzio stesso scrive
a Francesco Meriano il 18 dicembre 1915: «Cecco mio, stasera a te: sono più uomo stasera. Mi
hanno armato. NN 2701: il mio fucile. E la baionetta, di puntuto scatto. Monello, monello a
piena gola, stasera. NN 2701. Ad anima gonfia. E con un presentimento di brigante sardo.», in
CERVI, Le cadenze..., pp. 39. Non ho evidenze in merito alla conoscenza della Pozzi di questo

184
di dire, di rappresentare, sceglie parole risonanti di elevato senso comune.»123.

Al lettore il confronto dei versi:

Sollievo Vita

Stasera, un cielo teso, tutto gonfio Alla memoria di A.C.


di bianco, come fosse una gran vela
assicurata al margine dei tetti No, non sei morto. L’anima agguantata
con poche cuciture rosa e viola. m’hai e sgualcita, come un foglio sperso;
Un’impazzata stridula di rondini racchiuse v’hai le transazioni vili
scatta a tradurne in veementi guizzi della mia inconscia vita senza Dio;
i contenuti palpiti di luce, un cartoccio ne hai fatto, sodo, greve:
ed il rosso fervore del mio sangue scagliato l’hai dentro l’azzurra vampa
si scolora subitamente in lacrime, dei tuoi canti, squillati a piena gola;
limpide e pure come gocce d’acqua. scagliato l’hai dentro la rossa vampa
del tuo sangue d’eroe. No, non sei morto.
Milano, 20 maggio 1929 In ogni nuovo fiore che invermigli,
silenzioso nel sole, un camposanto,
vive ed arde il tuo sangue; in ogni lacrima
che, nelle notti insonni e solitarie,
beve con le sue ciglia chi è rimasto,
vive e brucia il tuo pianto; e nel mio cuore,
largo di lontananza, tu divampi:
alla mia fonda e cupa tenerezza,
alla rinuncia mia che si dibatte,
tu dài la luce bianca e rassegnata,
tu dài la rossa luce di battaglia.
Tu mi rinsaldi, tu mi rendi pura:
nel mio amore, la tua morte è Vita.

Pasturo, 21 settembre 1929

Un altro punto fondamentale che mi spinge a concordare con l’analisi di Papi, è

il differente esito dell’enjambement nei due testi: se in Sollievo esso riesce

scorrevole e accompagna piacevolmente il senso del respiro che prima si tende

(vv. 1-2 gonfio / di bianco; vv. 2-3 vela / assicurata) e poi si rompe nel seguire

l’immagine che solleva l’anima dall’angoscia (vv. 5-6 rondini / scatta; vv. 8-9

scritto, né se possa aver trovato il sintagma in altri simili.


123
Ivi, pp. 66-67.

185
sangue / si scolora, sciogliendosi nell’allitterazione della /s/), in Vita esso è

forzato, costretto da un pensiero che vuole dimostrare una fede e non trasferire

un’emozione (all’orecchio risulta ancora più strana l’inversione del verbo in

enjambement nei vv. 1-2 agguantata / m’hai). Mi sembra chiaro che questo tipo

d’invenzione razionalizzata, a-priori, non appartiene alla vocazione della Pozzi.

In Anniversario, costruita sull’alternanza endecasillabo/settenario, Papi vede il

modello di Leopardi. Confrontando i libri presenti in Archivio Pozzi, risulta

un’edizione dei Canti dell’Istituto editoriale di Milano, purtroppo non datata124,

con sottolineature su quattro componimenti: La vita solitaria (vv. 23-29); La

sera del dì di festa (il cui modello è già stato analizzato nel precedente capitolo

in relazione alla poesia Tempo); Ad Angelo Mai (vv. 106-115); Il sabato del

villaggio (vv. 39-42). Nessuna di queste liriche mi sembra possa aver influenzato

direttamente il tema di Anniversario, che riguarda l’impossibilità per Antonia di

condividere il dolore di Antonio Maria per la perdita di Annunzio, data la

lontananza della poetessa rispetto alla fede cristiana e la sua incapacità di

pregare. Tuttavia, oltre al metro, ciò che mi sembra possa avvicinare questa

poesia al Leopardi è anche il senso di una radicale impossibilità per la poetessa

a farsi partecipe di una normalità: esclusa da un esistere che possa trovare

sollievo o conforto in una fede o in un credo risolutivo a causa della sua natura.

Antonia è diversa e questo crudelmente la porta ad essere esclusa anche dalla

possibilità di condividere – come desidererebbe – il dolore più grande dell’uomo

124
G. LEOPARDI, Canti, con un saggio di C.A. Sainte-Beuve, Istituto Editoriale Italiano, Milano,
(Classici Italiani, Biblioteca diretta da Ferdinando Martini, Serie I, vol. XV). È presente anche il
vol. XVI, G. LEOPARDI, Prose, con uno studio di P. Giordani, oltre ad altri numerosissimi volumi
della stessa collana.

186
amato. Allo stesso modo, nella poesia di Leopardi, è frequente il tema della

solitudine esistenziale, dell’esclusione dal sogno di una vita adulta felice: questo

tema è sicuramente la cadenza portante anche de Il sabato del villaggio, de La

sera del dì di festa e de La vita solitaria. Ancora una volta, come in Filosofia,

l’unica possibilità che resta ad Antonia per esserci, è ricomporsi nei versi di una

poesia:

Anniversario

ad A.M.C.

Anch’io li vedo, sai, i ciuffi d’erica


molli di pioggia rossi del suo sangue;
ma l’anima mia ignora la preghiera,
anche quella dei morti.
È come se il tuo pianto mi cadesse
tutto sovra le mani, né una stilla
io sapessi asciugarne.
È come se anche tu, bianco, riverso,
stramazzassi di schianto,
né io sapessi prenderti la nuca
per sostenerti. E forse una preghiera
sarebbe buona, come quella terra
che abbracciò il tuo fratello;
sarebbe buona come quella luce
che gli lavò di bianco le pupille
nel suo ultimo istante.
Io vorrei, per te, essere la terra
tepida e molle, che attutisce l’urto;
io vorrei, per te, essere una luce,
l’ultimo sguardo bianco d’orizzonte,
che fascia gli occhi e il cuore.
Io vorrei, per te, dare la mia vita:
e tu lo sai. Ma la mia vita è vuota,
priva di Dio, ignara di silenzio.
La mia vita non può esserti nulla:
ed il tuo pianto è solo.

Milano, 25 ottobre 1929

La poesia è meravigliosamente intessuta in una rete di rimandi, quasi a farsi

struttura di un legame e di una vicinanza che non può in altro modo essere

187
espressa: oltre alle più evidenti anafore (vv. 5-8: È come se; vv. 6/7-10: né io

sapessi; vv. 12-14: sarebbe buona come quella; vv. 17-19-22: Io vorrei, per te,

essere che in v. 22 si trasforma in dare) vi è lo scorrere finale della vita di

Antonia che dall’ultima posizione del verso 22, estremo dono all’amato, deve

ritirarsi in mezzo al vuoto del verso successivo, introdotta da un avversativo (Ma

la mia vita) e infine, al penultimo verso della poesia (v. 25), regredire all’inizio,

lasciando il posto all’ultimo verso (26) al tuo pianto solo. Quest’ultimo sintagma

compare anche al quinto verso in posizione mediana, vicino ad altre due parole

che si trovano all’inizio e alla fine della poesia e che sono opposizioni riferite ai

due amanti: ignora/ignara è la coppia che connota Antonia al terzo e al

terzultimo verso; sai è il trisillabo che dapprima cerca di coinvolgere Cervi, di

fargli comprendere il proprio stato d’animo da parte della poetessa, infine sigilla

la consapevolezza – che non può essere negata – della volontà di Antonia di

donarsi intera (vv. 1-23).

Tre parole in posizione forte, restano a tentare di cucire le possibilità di senso

della poesia: preghiera (vv. 3-11); terra (vv. 12-17) e luce (vv. 14-19). Non

potendo l’anima di Antonia sciogliersi in una preghiera, che sarebbe buona come

quella terra e quella luce che hanno accolto Annunzio, la poetessa vorrebbe farsi

essa stessa terra e luce, elementi a lei così cari e famigliari da poter quasi rendere

realizzabile questo desiderio. Vi sono anche due passaggi di senso che legano, a

livello di aggettivi, l’atmosfera generale dei versi: molle (nel senso di umido, vv.

2-18) e bianco (vv. 8-15-20). I ciuffi d’erica125 molli di pioggia e rossi del sangue

125
Così nella poesia L’erica, dedicata a Lucia Bozzi e scritta a Pasturo il 26 agosto del 1929: «tu
offri l’erica livida dei morti / e il mio offuscato amore / lustra / lavato d’acido pianto.», in POZZI,

188
di Annunzio, evaporano nel pianto di Antonio Maria che la poetessa non sa

asciugare; per questo ella vorrebbe almeno essere la terra molle che attutisce

l’urto di una caduta che immagina essere il modo del morire di Cervi. Molle

rappresenta la caduta, la tristezza del pianto e, in definitiva, la corruzione della

morte. L’atmosfera che gradatamente risolleva il senso legato all’oltre-vita è

data dal colore bianco: se inizialmente rappresenta il corpo riverso, stramazzato

di schianto di Antonio Maria, si trasfigura poi già in un tono più pacifico nelle

pupille lavate dalla luce nell’ultimo istante della vita di Annunzio, per approdare,

infine, alla definitiva speranza de l’ultimo sguardo bianco d’orizzonte, / che

fascia gli occhi e il cuore, sempre per opera della luce. Tutto questo sforzo

relazionale io-tu intrecciato come una delicata corona funebre per celebrare

l’anniversario della morte eroica di Annunzio (che cade proprio il 25 ottobre,

data di composizione della poesia), è strutturato di slanci di sogno, puntellato di

verbi condizionali subito smentiti dalla cruda realtà delle frasi avversative. Se si

vuole trovare Leopardi in questi versi, si deve considerare quelli finali, quando

tutta la realtà emerge nella sua lucida disillusione eppure resta definita da

aggettivi vaghi e perciò poeticissimi126, come vuota, silenzio, nulla, solo: «Io

vorrei, per te, dare la mia vita: / e tu lo sai. Ma la mia vita è vuota, / priva di Dio,

Parole, p. 110.
126
Poeticissime sono definite alcune parole e alcune lingue nello Zibaldone di Leopardi (p. 1534
Indice leopardiano). A partire dal 20 agosto 1821 il poeta ne stila un elenco e ne fornisce dotti
esempi. Il senso di questo aggettivo è legato al piacere dell’indefinito che ad esse è associato.
«Le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una sensazione piacevole
(se l’uomo non vi si avvezza troppo), perché destano un’idea senza limiti, e non possibile a
concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e
giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta.», in G. LEOPARDI, Teorica delle arti, lettere ec.
Parte pratica, storica ec., edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici
leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, prefazione di A. Prete, Donzelli Editore, Roma 2002, p.183.

189
ignara di silenzio. / La mia vita non può esserti nulla: / ed il tuo pianto è solo».

Tutta di Antonia è però – anche in questi versi – la capacità di creare immagini

fortissime e assolutamente personali, che chiamano in causa la capacità di

intravedere le delicate pieghe dell’anima da parte del lettore: non si possono

usare altre parole per sciogliere una vita ignara di silenzio, se non quelle di un

profondo ascolto.

Mi preme sottolineare un altro panorama possibile rispetto all’influsso

leopardiano sulla Pozzi: quello legato alla profonda considerazione per l’età

dell’infanzia, il cui specchio è nella dinamica del sogno e dell’illusione. Questa

ignoranza del reale nei suoi aspetti più crudi è da considerarsi condizione

privilegiata perché aumenta il desiderio del mondo e di conseguenza il piacere

rispetto alla sua effettiva conoscenza che invece limita e delude127. La rinata

127
Riporto alcuni frammenti dello Zibaldone in cui Leopardi parla della teoria del piacere e
dell’inclinazione dell’uomo all’infinito: «[165]Il sentimento della nullità di tutte le cose, la
insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non
comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale.
L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira
unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è
tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché ingenita o
congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere
infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione.
Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è
eterno, 2. né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta
che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere
non ha limiti per durata, perché, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo
non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perché sostanziale
in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura
porta con sé materialmente l’infinità, perché ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui
estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta
l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perché non si
può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. […] Veniamo alla inclinazione
dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà
immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non
sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà
immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E
stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non
esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che
non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la

190
fanciullezza intatta di Bambinerie in tinta chiara che si sprigiona nel dono puro

di sé, si converte già in profonda meditazione in Scampagnata128, dove lo stile

crepuscolare ricco di diminutivi si eleva, nel secondo movimento della poesia,

sino ad approdare a una conclusione filosofica molto simile a quella de Il sabato

del villaggio129 di Leopardi:

speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene,
2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni.
Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte
non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente, dell’amor del piacere che è una
conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione
necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti,
ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle
come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll’immensa varietà
[168]acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche
disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non
potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di
lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti
i piaceri a soddisfarlo.». La teoria è stata redatta fra il 12 e il 23 luglio 1820 e si trova alle pp.
165-183 di G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri: edizione fotografica dell'autografo con gli indici
e lo schedario, a cura di E. Peruzzi, Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1989, vol. I.
Da questa teoria si evince l’importanza delle immaginazioni fanciullesche delle pp. 514-515, in
ivi, vol. II: «Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. un racconto,
una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e
quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza
limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi anche
ogni concezione) di quell’età tien sempre all’infinito: e ci pasce e ci riempie l’anima
indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori,
o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura
ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all’infinito, o certo non sarà
così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il
piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo
[515]qual fosse la strada che prendeva l’immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con
quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all’idea ed al piacere
indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni
indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che
una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come
un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella
tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa
sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze.
Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli
oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o
riflesso della immagine antica. […] (16. Gen. 1821)».
128
POZZI, Parole, pp. 68-69.
129
G. LEOPARDI, Canti, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, pp. 381-384. La data
apposta sull’autografo napoletano è il 29 settembre 1829. D’ora in poi farò sempre riferimento
a questa edizione e non a quella posseduta dalla Pozzi.

191
Scampagnata Il sabato del villaggio

In giardino, un laghetto quasi vero, La donzelletta vien dalla campagna,


con la frangia di salici piangenti. In sul calar del sole,
Noi, tutto il pomeriggio, a schiaffeggiare, Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
da un fradicio guscetto, l’acqua bassa, Un mazzolin di rose e di viole,
con pazzi strilli di spensieratezza. Onde, siccome suole,
Al tramonto, il laghetto insonnolito Ornare ella si appresta
a lasciarsi ninnare quietamente Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
dal gocciolante acciabattio dei remi: Siede con le vicine
in cielo una diffusa macchia chiara Su la scala a filar la vecchierella,
– l’ultima occhiata languida del sole – Incontro là dove si perde il giorno;
a farci cenno di parlare piano. E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
II Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Non ricordo chi m’abbia offerto i fiori: Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
credo una ragazzina un po’ scontrosa Già tutta l’aria imbruna,
che aveva delle lunghe trecce, belle. Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Io presi il mazzo, silenziosamente: Giù da’ colli e da’ tetti,
e d’un subito cadde, a quel contatto Al biancheggiar della recente luna.
di freschezza recisa, la gaiezza Or la squilla dà segno
che tutto il giorno aveva ridacchiato Della festa che viene;
nel mio quasi fanciullesco cuore. Ed a quel suon diresti
Guardai ai miei compagni, fissamente; Che il cor si riconforta.
lo sguardo intorbidato di tristezza. I fanciulli gridano
Mi dicevo che il mio fratello è andato Su la piazzuola in frotta,
lontano, senza più fare ritorno: E qua e là saltando,
così, domani, anch’essi se n’andranno, Fanno un lieto romore:
ciascuno per seguire il suo cammino. E intanto riede alla sua parca mensa,
Nascostamente avrei voluto porre Fischiando il zappatore,
in quelle anime ignare di fanciulli E seco pensa al dì del suo riposo.
tutta la gioia che mi è riservata,
perch’essi la ritrovino, da uomini, Poi quando intorno è spenta ogni altra
quando conosceranno la stanchezza face, ]
e piangeranno, soli, nella vita. E tutto l’altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
III Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
Accanto a me, al ritorno, E s’affretta, e s’adopra
un fascio di serenelle, Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
abbandonate al vento della macchina in corsa,
a crollare convulsamente le corolle e il fogliame, Questo di sette è il più gradito giorno,
come in un riso sfrenato, Pien di speme e di gioia:
sulla mia vana malinconia. Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Milano, 1° maggio 1929 Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
È come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave
Stagion lieta è cotesta.

192
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

Nella poesia di Leopardi, la Pozzi sottolinea i vv. 39-43: «Questo di sette è il più

gradito giorno, / Pien di speme e di gioia: / Diman tristezza e noia / Recheran

l’ore, ed al travaglio usato / Ciascuno in suo pensier farà ritorno.». Credo che

dell’intero tema dalla lirica leopardiana Antonia effettivamente sviluppi in

Scampagnata proprio l’idea di questo domani adulto, ricco di solitudine, ove non

ci sarà più spazio per i pazzi strilli di spensieratezza che un laghetto quasi vero

e dei giochi innocenti riuscivano ancora a stimolare. La malinconia si accende

in Antonia al contatto con i fiori recisi, rivedendo nel loro veloce destino di

morte, la fine dell’età fanciulla, della gaiezza. Com’è tipico di Antonia, con uno

slancio dell’anima, ella vorrebbe proteggere dall’amaro destino i suoi compagni:

«Nascostamente avrei voluto porre / in quelle anime ignare di fanciulli / tutta la

gioia che mi è riservata, / perch’essi la ritrovino, da uomini, / quando

conosceranno la stanchezza / e piangeranno, soli, nella vita.». Vi è una ripresa

qui del tema leopardiano del garzoncello scherzoso al quale il poeta non vuole

prefigurare il destino amaro che verrà, e quindi, di nuovo, della contrapposizione

tra conoscenza e ignoranza in merito al godimento del piacere e alla felicità. Per

Antonia però non si tratta di un’osservazione della realtà del villaggio e quindi

già di per sé estranea e amena: si tratta della sua stessa vita, dei suoi amici che

un giorno perderà perché anch’essi se n’andranno / ciascuno per seguire il suo

cammino, forse quello stesso triste cammino che ha portato il suo fratello (molto

193
presumibilmente Annunzio), lontano130, alla morte. Rovesciata è anche la

prospettiva sul tema dei fiori: se per Leopardi sono il simbolo univoco della

giovinezza che si adorna (le rose e le viole della donzelletta), della

spensieratezza, dell’età più bella, che si ricorda anche in vecchiaia con piacere

(la vecchierella che ornata di fiori soleva danzare con i compagni al dì di festa),

tanto da essere condensati nell’immagine finale dell’età fiorita del garzoncello,

per Antonia i fiori sono ambivalenti, sono uno strumento che via via riflette il

suo stato d’animo: vederli recisi le fa cadere subito la gaiezza che era quasi

riuscita a riportarla ad avere un cuore fanciullesco. La consapevolezza della

morte, la malinconica razionalità, entra prepotentemente nei suoi pensieri e

nemmeno la vista delle serenelle che, abbandonate al vento della macchina in

corsa, scrollano convulsamente le corolle e il fogliame in un tentativo di riso

sfrenato – allegria che, quindi, dovrebbe irresistibilmente coinvolgerla –

riescono più ad aggiustare questo sentimento triste, che pure è riconosciuto dalla

Pozzi come vano (e aggettivo più leopardianamente sentito non poteva essere

usato). L’innovazione di Antonia è la sua incarnazione totale nella scena: è lei

stessa a vivere e sperimentare tutte le fasi dell’ignoranza e della consapevolezza,

della gaiezza e della malinconia; niente le è risparmiato e niente può consolarla.

Sempre sul tema della fanciullezza gaia perché ignara della crudeltà della vita e

sempre nei primi anni di apprendistato poetico di Antonia, si trovano – con

variabili di senso anche consistenti – alcune altre poesie come Sventatezza131,

130
Così il Leopardi nel suo Zibaldone (P. 1789,1 degli Indici leopardiani) il 25 settembre 1821:
«Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e
indefinite, e non determinabili e confuse.», in LEOPARDI, Teorica delle arti…, p. 205.
131
POZZI, Parole, p. 77.

194
Innocenza132, Visione133:

Sventatezza

Ricordo un pomeriggio di settembre,


sul Montello. Io, ancora una bambina,
col trecciolino smilzo ed un prurito
di pazze corse su per le ginocchia.
Mio padre, rannicchiato dentro un andito
scavato in un rialzo del terreno,
mi additava attraverso una fessura
il Piave e le colline; mi parlava
della guerra, di sé, dei suoi soldati.
Nell’ombra, l’erba gelida e affilata
mi sfiorava i polpacci: sotto terra,
le radici succhiavan forse ancora
qualche goccia di sangue. Ma io ardevo
dal desiderio di scattare fuori,
nell’invadente sole, per raccogliere
un pugnetto di more da una siepe.

Milano, 22 maggio 1929.

In questa prima poesia è il Ricordo in posizione forte ad introdurci nel senso

storico della Pozzi, largamente influenzato da una memoria personale di

desiderio per la natura in parte resistente ai racconti del padre. È infatti ancora

l’avversativa come in Anniversario a rompere la costruzione del pensiero: Ma io

ardevo / dal desiderio di scattare fuori / nell’invadente sole, per raccogliere /

un pugnetto di more da una siepe. Il Montello non è per lei solo il simbolo –

come per un intero popolo – dell’eroica resistenza italiana al nemico sul Piave134:

132
Ivi, p. 91.
133
Ivi, p. 95. «Ancora, per un anno, la scuola / a preservare la mia fanciullaggine cocciuta. / Poi,
la mia vita sola / in mare aperto – come una vela sperduta. // Carnisio, 9 luglio 1929».
134
Per comprendere fino in fondo la mentalità dell’epoca bisognerebbe anche ricordare che, data
l’eroica vittoria italiana riportata sul fiume, sul finire della Grande Guerra il Vate si sentì in
dovere di cambiare il genere grammaticale del corso d’acqua: dunque l'articolo per introdurlo
passò da la Piave a il Piave. D’Annunzio intendeva così celebrare la potenza maschia del fiume
che resistette al nemico e il Piave fu elevato a fiume sacro della Patria. Cfr. l’articolo di Paolo
Rumiz sulla versione on line del quotidiano «La Repubblica» intitolato Il Piave, l’eroe di
D’Annunzio, pubblicato il 21 agosto 2013. Per una delucidazione in merito al genere dei fiumi e

195
il luogo è rivissuto attraverso il filtro delle emozioni sventate assolutamente

personali della poetessa. Il ricordo di quelle giornate gloriose della Prima Guerra

Mondiale alle quali aveva partecipato anche il padre, si accosta alle emozioni

prorompenti della sua fanciullezza, sentimenti ardenti, irrefrenabili: desiderio di

fondendosi con una natura che sentiva davvero sua, come dimostra il prurito alle

ginocchia che non riescono a trattenere le pazze corse. L’assenza di riflessione

di Antonia che è ancora una bambina, / col trecciolino smilzo, e che è insita nel

comportamento che dà il titolo alla poesia, viene però interrotta per un breve

momento dall’immagine del sangue dei morti che nutre l’erba gelida e affilata

che le sfiora i polpacci. Non è possibile sapere se questa sia una memoria

aggiunta dalla meditazione della scrittura, ossia dai più coscienti diciassette anni

di Antonia, o sia un’intuizione appartenente davvero al tempo dell’infanzia. In

ogni caso questo contrasto dell’erba che dovrebbe essere un elemento solare,

vivo, ma che invece diventa – nell’ombra della conca dove si trova con il padre

– simile ad un’arma di metallo, sporca l’impasto emotivo, e allontana ancora di

più la fanciulla dal vissuto storico del padre. L’orrore della morte è vinto dal

desiderio innocente di vita: un’avversione che sarà destinata a mutare in scritti

più maturi, o comunque non legati al tempo idillico dell’infanzia135.

un approfondimento sulla questione del Piave, si legga l’interessante articolo di Massimo


Fanfani sul sito dell’Accademia della Crusca: Fiumi femminili, fiumi maschili. I siti di
riferimento sono: www.repubblica.it e www.accademiadellacrusca.it
135
Si veda anche solo l’esplicita Alpe del 28 agosto 1929 scritta a Pasturo con in mente le altezze
di Madonna di Campiglio: «Sulla parete strapiombante, ho scorto / una chiazza rossastra e ho
creduto / che fosse sangue: erano licheni / piatti e innocui. Ma io ne ho tremato. / Eppure, folle
lampo di tripudio / e saettante verità sarebbero / un volo e un urto ed un vermiglio spruzzo / di
vero sangue. Sì, bello morire, / quando la nostra giovinezza arranca / su per la roccia, a
conquistare l’alto. / Bello cadere, quando nervi e carne, / pazzi di forza, voglion farsi anima; /
quando, dal fondo d’una fenditura, / il cielo terso pare un’imparziale / mano che benedica e i
picchi, intorno, / quasi obbedienti a una consegna arcana, / vegliano irrigiditi. Sulle vette, /

196
Il tema della fanciullezza per Antonia assumerà in futuro anche un altro

significato, che si stratificherà sul primo, leopardiano, senza annullarlo. Si tratta

del tema del bambino non nato, ossia del figlio che la Pozzi voleva avere da

Cervi per risarcirlo della morte del fratello Annunzio136. Un primo ambiguo

accenno (il senso profondo della poesia è aperto), si trova in Innocenza:

Sotto tanto sole


nella barca ristretta
il brivido
di sentire contro le mie ginocchia
la nudità pura d’un fanciullo
e l’ebbro strazio di covare nel sangue
quello ch’egli non sa.

S. Margherita, 28 giugno 1929

Qui vi è un primo tentativo di differenziazione della Pozzi, rispetto ad un’età che

sente di aver oltrepassato, con la coscienza ormai adulta di un ebbro strazio che

ancora non può appartenere alla nudità pura d’un fanciullo. Il lessico utilizzato

crea una scia che taglia antiteticamente il panorama semantico della poesia e che

accade proprio nel contatto fra i due corpi: da una parte vi è il sole, la purezza

quando la brezza che ci sfiora è l’alito / di vite arcane riarse di purezza / ed il sole è un amore
che consuma / e, a mezza rupe, migrano le nubi / sopra le valli, rivelando a squarci, / con riflessi
di sogno, la pensosa / nudità della terra, allora bello / sopra un masso schiantarsi e luminosa, /
certa vita la morte, se non mente / chi dice che qui Dio non è lontano. //», in POZZI, Parole, p.
111.
136
Cfr. l’introduzione di Graziella Bernabò a POZZI, Parole, p. 18: «Sarà proprio questa figura
idealizzata di poeta e di eroe, già centrale in alcune ardenti poesie del 1929 (Offerta a una tomba,
Vita, Anniversario), a ispirarle in seguito il motivo ricorrente del “bimbo non nato”, legato al
sogno impossibile di far rivivere Annunzio, nel nome e nello spirito, in un figlio suo e di Antonio
Maria Cervi. Un’immagine molto fantasticata che, negli anni 1931-1933, comparirà con accenti
di cupa angoscia o di mesta religiosità (Domani, Scena unica, Unicità, Alba, Lume di luna, Santa
Maria in Cosmedin, Lamentazione, Voto, Gli occhi del sogno, Saresti stato, Maternità, Il bimbo
nel viale); successivamente invece, nel 1935, con una connotazione più pacata, diventando per
la Pozzi una sorta di prolungamento di sé in una dimensione di sogno (il “bambino addormentato
di Fiabe).»

197
della nudità, il non sapere; dall’altra vi è il brivido, dunque il freddo, il sentire

lucidamente la differenza e lo strazio di covare (dunque nascondere, aspettare,

dare rifugio a qualcosa o qualcuno) nel sangue tutto ciò che l’universo del

bambino non può sapere. Vi è forse il desiderio di un altro tipo di nudità da parte

della poetessa, considerata però come una folle volontà di distruzione di se stessa

(l’ebbro strazio). Il verbo covare137 è semanticamente ricco: legato alla sede del

sangue rimanda all’ineluttabilità di una natura animalesca, che dona calore alla

prole per il suo sviluppo futuro e al contempo la nasconde da eventuali predatori,

coprendola con il proprio corpo. Questa idea è alimentata dal tema del segreto,

dell’attesa di qualcosa che nascerà, se nutrita della propria più intima fibra. Non

si può non pensare al desiderio di una gravidanza e del sogno di Antonia, forse

ancora inespresso al Cervi in modo diretto. Ma al contempo l’immagine del

covare può essere legata all’idea della malattia, dei pensieri più tristi che non

possono essere condivisi o di sentimenti inappropriati rispetto al contesto. In

questi pochi versi la Pozzi compone sinteticamente una vastità tale di significati

da riuscire a concretare, attraverso un cammino personale e novecentesco138, la

ricerca di vaghezza leopardiana: qualcosa del luogo ligure in cui è stata composta

la poesia deve essere filtrato in questi versi, forse la voce di un altro poeta, l’onda

137
Ricordo in Pascoli, del Gelsomino notturno, dedicato alle nozze di un amico, Gabriele
Briganti, i versi vissuti con drammatica ambivalenza, relativi al risveglio dopo la prima notte di
nozze, dove compare il verbo covare: «È l’alba si chiudono i petali / un poco gualciti; si cova, /
dentro l’urna molle e segreta / non so che felicità nuova. //», in PASCOLI, Canti di Castelvecchio,
Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1943, p. 118.
138
Con questo aggettivo intendo un sinonimo di travagliato che porti con sé l’idea di una
problematicità esistenziale radicata e radicale, diffusa e sconcertante, sentita e delineata a livello
culturale in tutta Europa, per la quale non sembra più esserci una soluzione, una via d’uscita
definitiva. L’inquietudine è alimentata anche dalla critica contingenza storico-politica e dai
risultati, a volte disumanizzanti, di una corsa verso la modernità e il progresso portata avanti nei
due secoli precedenti.

198
di un Montale139.

Sul tema del segreto, e della solitudine che ne deriva, poiché il desiderio di

avvinghiare / qualchecosa di vivo, che io senta / più piccolo di me, non può

essere certamente realizzato, ma nemmeno espresso, parlano chiaro i versi di

Solitudine140, dedicati ad Antonio Maria Cervi e composti all’inizio dello stesso

mese di Innocenza:

Ho le braccia dolenti e illanguidite


per un’insulsa brama di avvinghiare
qualchecosa di vivo, che io senta
più piccolo di me. Vorrei rapire
d’un balzo e poi portarmi via, correndo,
un mio fardello, quando si fa sera;
avventarmi nel buio, per difenderlo,
come si lancia il mare sugli scogli;
lottar per lui, finché mi rimanesse
un brivido di vita; poi, cadere
nella più profonda notte, sulla strada,
sotto un tumido cielo inargentato
di luna e di betulle; ripiegarmi
su quella vita che mi stringo al petto –
e addormentarla – e anch’io dormire, infine…
No: sono sola. Sola mi rannicchio
sopra il mio magro corpo. Non m’accorgo
che, invece di una fronte indolenzita,
io sto baciando come una demente
la pelle tesa delle mie ginocchia.

Milano, 4 giugno 1929

139
Mi riferisco alla relazione che il poeta intesse con il mare, nella sezione Mediterraneo di Ossi
di seppia, edita nel 1925. Dalla – già ai tempi della Pozzi – molto famosa raccolta di Montale,
strappo almeno l’atmosfera di questi versi: «Antico, sono ubriacato dalla voce / ch’esce dalle tue
bocche quando si schiudono / come verdi campane e si ributtano / indietro e si disciolgono. / La
casa delle mie estati lontane / t’era accanto, lo sai, / là nel paese dove il sole cuoce / e annuvolano
l’aria le zanzare. / Come allora oggi in tua presenza impietro, / mare, ma non più degno / mi
credo del solenne ammonimento / del tuo respiro. Tu m’hai detto primo / che il piccino fermento
/ del mio cuore non era che un momento / del tuo; che mi era in fondo / la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso / e insieme fisso: / e svuotarmi così d’ogni lordura / come tu fai che sbatti
sulle sponde / tra sugheri alghe asterie / le inutili macerie del tuo abisso. //», in MONTALE, Tutte
le poesie, p. 54. Non è più possibile per il poeta, essere fanciullo, aderire con facilità all’esempio
del mare: essere un singolo che partecipa al tutto. Vi è nell’età adulta una stortura, un’alienazione
rispetto alla pura e giusta legge della natura, da affrontare con coraggio etico. Vi è un complicarsi
dell’esistenza che appartiene alla dinamica della scelta che la Pozzi inizia a presentire, senza
giungere, all’altezza del 1929, agli esiti del pensiero di Montale.
140
POZZI, Parole, p. 83.

199
Le due sensibilità verso il tema fanciullesco – quella leopardiana dell’età più

bella e quella pozziana che vi somma, senza abbandonarla, prima quella della

visione di se stessa come di una donna innocua pura come un fanciullo e poi

quella del bambino non nato, vagheggiato in sogno – si ritrovano in una poesia

composta qualche giorno dopo rispetto a Innocenza, Pace141 (3 luglio 1929).

Scritta a Carnisio e dunque lontana dalla latente sensualità marittima dei corpi

nella barca ristretta, la poesia sembra chiedere pietà al Cervi per i propri slanci

di donna innamorata. Riporto solo i versi che dimostrano la fusione di questa

doppia sensibilità: «Ogni cosa, d’intorno, è grande e ombrosa / come tutti i

ricordi dell’infanzia. […] Ma vieni: camminiamo: anche l’ignoto / non mi

spaventa, se ti son vicina. / Tu mi fai buona e bianca come un bimbo / che dice

le preghiere e s’addormenta. //». Per arrivare al tema del bambino non nato, che

è prima desiderio di maternità e poi cristallizzazione della malinconia derivata

dall’impossibile realizzazione di quel desiderio, bisognerà attendere il 1930 e

quindi l’esplicitazione dell’amore per Cervi. Inizialmente si tratta di un

Presagio142, un biancore di stella cadente che passa nella tenebra nostra, ossia

di Cervi e della Pozzi; successivamente prende corpo nel passo di un fanciullo

che segue la poetessa in Notturno invernale143:

Presagio Notturno invernale

Esita l’ultima luce Così lieve è il tuo passo, fanciullo,


fra le dita congiunte dei pioppi – che quasi non t’odo,
l’ombra trema di freddo e d’attesa dietro me, sul sentiero.
dietro di noi E così pura è l’ora, così puro

141
Ivi, p. 93.
142
Ivi, p. 135.
143
Ivi, pp. 137-138.

200
e lenta muove intorno le braccia il lume delle grandi stelle
per farci più soli – nel cielo viola
che l’anima schiarisce
Cade l’ultima luce dentro la notte
sulle chiome dei tigli – come i tetri pini che albeggiano
in cielo le dita dei pioppi nel biancore della neve.
s’inanellano di stelle – Un alto sonno tiene la foresta
ed i monti
Qualcosa dal cielo discende e tutta la terra.
verso l’ombra che trema – Come una grazia cade
qualcosa passa dal cielo il silenzio.
nella tenebra nostra Ed io ti sento l’anima battere,
come un biancore – dietro il silenzio,
forse qualcosa che ancora come un filo vivo di acque
non è – dietro un velo di ghiaccio –
forse qualcuno che sarà e il cuore mi trema,
domani – come trema il viandante
forse una creatura quando il vento gli porta
del nostro pianto – attraverso la notte
l’eco d’un altro passo
Milano, 15 novembre 1930 che segue il suo cammino.
Fanciullo, fanciullo,
sopra il mio cammino,
che va per una landa senza ombre,
sono i tuoi puri occhi
due miracolose corolle
sbocciate a lavarmi lo sguardo.
Fanciullo, noi siamo
in quest’ora divina
due rondini che s’incrociano
nell’infinito cielo,
prima di mettersi in rotta
per spiagge remote.
E domani saremo
soli
col nostro cuore
verso il nostro destino.
Ma ancora, nel profondo, tremerà
il palpito lontano delle ali sorelle
e si convertirà
in nuova ansia di volo.

Gennaio 1931

Già in Presagio è l’atmosfera notturna che, con il suo lento sopraggiungere,

permette la fusione delle ombre dalle quali può meglio risaltare il biancore

dell’ipotesi di una nuova vita, creata a risarcire il pianto degli amanti (segnalo

in questa poesia, con Papi, la memoria sonora del secondo verso «fra le dita

201
congiunte dei pioppi» che sembra arrivare da «le tremule foglie dei pioppi» de

La mia sera di Pascoli)144. Ma è ovviamente in Notturno invernale che il tema

dell’oscurità si assume la responsabilità di legare gli echi classici del tempo di

quiete ad una sensibilità tutta moderna, intessuta della dinamica del sogno e

dell’irrazionale che irrompe a sciogliere il controllo razionale del giorno. Nel

gennaio del 1931 Antonia ha iniziato da pochi mesi l’università e non è dato

sapere quanto delle lezioni di Borgese, dedicate nell’a.a. 1930/1931 a «una breve

storia del pensiero estetico a partire da quello di Aristotele, [al]la concezione

dell’arte dello stesso Borgese e [ad] uno studio del Decadentismo francese»145,

possa essere già filtrato nella poesia di Antonia. Sicuramente però oltre ai

«“ricordi di scuola” [che] Carlo Annoni, con grande competenza e sensibilità,

trova in Notturno invernale [ossia] echi di Saffo146 e Alcmane147 [è giusto

ricordare anche che] Antonia frequentava all’università il corso di letteratura

greca»148. Gli echi presenti in questa poesia sono densi. Segnalo almeno l’alto

sonno dantesco149, sintagma che appartiene all’incipit del quarto canto

144
PAPI, L’infinita…, p. 56. La poesia si trova in PASCOLI, Canti di Castelvecchio, pp. 141-142.
145
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 100.
146
«Plenilunio (34 V.): Le stelle intorno alla bella luna / celano il chiaro viso / quando, piena,
inonda del suo lume / tutta la terra… / argentea», in SAFFO, Saffo, traduzioni e note di Mario
Marzi, Neri Pozza Editore, Vicenza 1986, p. 26.
147
«La notte: Dormono i vertici dei monti e i baratri, / le balze e le forre, / e le creature della
terra bruna, / e le fiere che ai monti s’acquattano, e gli sciami, / e i cetacei nei fondi del mare
lucente. / Dormono le famiglie degli uccelli / fermo palpito d’ali.», in ALCMANE STESÍCORO
ÍBICO, Frammenti, traduzione di Filippo Maria Pontani, Giulio Einaudi Editore, Torino 1968
(Collezione di Poesia, 54), p. 33.
148
PAPI, L’infinita speranza…, p. 67.
149
Cfr. l’incipit del canto IV dell’Inferno: «Ruppemi l’alto sonno ne la testa / un greve truono,
si ch’io mi riscossi / come persona ch’è per forza desta; / e l’occhio riposato intorno mossi, /
dritto levato, e fiso riguardai / per conoscer lo loco dov’io fossi. / Vero è che ‘n su la proda mi
trovai / de la valle d’abisso dolorosa / ch’ntrono accoglie d’infiniti guai. / Oscura e profonda era
e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa.», in ALIGHIERI,
La Divina Commedia, pp. 57-58, vv. 1-12.

202
dell’Inferno dove, oltre ai bambini nati morti – gli infanti che secondo la dottrina

dei Padri della Chiesa, risiedevano effettivamente nel limbo – Dante incontra (e

quindi sceglie di porre autonomamente dalla dottrina ufficiale) anche i virtuosi

non battezzati perché nati prima di Cristo, fra cui figurano ovviamente i quattro

grandi poeti della classicità Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Dante si trova

nella più profonda oscurità e cammina con Virgilio che gli fa da guida: anche il

fanciullo segue Antonia nel suo cammino e rende l’atmosfera di Notturno

invernale simile a quella di un Averno in cui un’anima innocente e imprigionata

segue chi può salvarla. È dunque un’allusione velatissima al mito di Orfeo ed

Euridice trasfigurato poi nell’ansia del viandante che sente il passo di qualcuno

sconosciuto dietro al suo: malgrado la tensione, Antonia riesce a trovare una via

di resistenza ed è già oltre, in una landa senz’ombre dove giunge il domani, una

speranza di rinascita che riscatta il mito e si converte in nuova ansia di volo.

Come ho rilevato precedentemente, il tempo della notte è particolarmente fertile

per l’immaginazione poetica della Pozzi; in particolar modo al titolo Notturno si

lega anche l’idea di una dolcezza musicale, di un ritmo che era caro allo stesso

Annunzio Cervi150, il quale nei versi pozziani dovrebbe impersonare il fanciullo.

Per chiudere con un ultimo esempio il cerchio della relazione Leopardi-Pozzi,

vorrei proporre una lettura della poesia Amore di lontananza151, in parallelo con

150
Nelle Cadenze sono ben cinque le poesie dedicate, o impostate sul ritmo, del notturno:
Notturno in nausea di febbre, N. in metafisica, N. in gastronomia, N. in interdizione, N. in siesta.
151
POZZI, Parole, p. 63. Il titolo richiama alla memoria anche l’amore di lontananza (amor de
lonh) del trovatore francese di lingua occitana Jaufré Rudel, vissuto nel XII secolo, famoso per
aver composto canzoni (ad esempio, Lanquan li jorn son lonc en mai) per un’innamorata mai
vista – di cui però aveva sentito parlare molto bene dai pellegrini che venivano da Antiochia –
la contessa di Tripoli. La Pozzi dichiara nella poesia un amore nostalgico per il mare che aveva
visto una sola volta e che tentava di figurarsi in un’immaginazione che arrivava a piacerle più
del mare vero, ricalcando nella composizione il fine stesso dell’amore cortese medievale, ossia

203
L’infinito152:

Amore di lontananza L’infinito

Ricordo che, quand’ero nella casa Sempre caro mi fu quest’ermo colle,


della mia mamma, in mezzo alla pianura, E questa siepe, che da tanta parte
avevo una finestra che guardava Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
sui prati; in fondo, l’argine boscoso Ma sedendo e mirando, interminati
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo, Spazi di là da quella, e sovrumani 5
c’era una striscia scura di colline. Silenzi, e profondissima quiete
Io allora non avevo visto il mare Io nel pensier mi fingo; ove per poco
che una sola volta, ma ne conservavo Il cor non si spaura. E come il vento
un’aspra nostalgia da innamorata. Odo stormir tra queste piante, io quello
Verso sera fissavo l’orizzonte; Infinito silenzio a questa voce 10
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
i contorni e i colori tra le ciglia: E le morte stagioni, e la presente
e la striscia dei colli si spianava, E viva, e il suon di lei. Così tra questa
tremula, azzurra: a me pareva il mare Immensità s’annega il pensier mio
e mi piaceva più del mare vero. E il naufragar m’è dolce in questo mare. 15

Milano, 24 aprile 1929

La parola-tema con cui la Pozzi apre la poesia è la stessa di Sventatezza: ricordo.

Qui però la natura è partecipata nella sua essenzialità famigliare, che stempera e

adatta il modello leopardiano allo sguardo e al vissuto della Pozzi. Non vi è un

filtro (come ci sarà in Sventatezza fra il suo sentire e il racconto paterno) ma

un’appartenenza e un possesso totale di ciò che era nella casa della mamma in

mezzo alla pianura153: l’ambiente domestico permette addirittura di trasformare

la realtà a seconda dei propri bisogni grazie alla forza dell’immaginazione (la

striscia dei colli in lontananza che assume le forme del mare di cui Antonia

l’elevazione spirituale attraverso l’esercizio poetico e non per forza il possesso dell’oggetto
amato.
152
LEOPARDI, Canti, pp. 300-301.
153
«I suoi nonni materni possedevano grandi e lussuose ville nella pianura lombarda, a Carate
Urio sul lago di Como e alla Zelada di Bereguardo, in prossimità del Ticino. In quelle dimore
Antonia soggiornò spesso da bambina, prima che fossero alienate in seguito alla divisione
ereditaria dei beni del nonno, e di esse conservò sempre un ricordo molto vivo.», in BERNABÒ,
Per troppa vita…, p. 28.

204
conservava un’aspra nostalgia da innamorata). Non è più solo la cornice della

finestra a proporre ciò che deve essere visto, non è più solo il limite che dà la

possibilità di creare un’occasione poetica154: ciò che l’anima ha bisogno di

vedere detta il ritmo dei versi, crea autonomamente il piacere. Non è quindi la

vista della vicina siepe e del più distante colle che limitava l’ampiezza

dell’orizzonte di Leopardi a stimolare la finzione del pensiero: a muovere la

Pozzi è la fisica ricerca del suo sguardo che si getta lontano e trasforma

effettivamente ciò che vede, carezzandolo con amore tra le ciglia. Il canto

pozziano è tutto innestato sul senso dello sguardo che fonde con l’amore della

lontananza gli elementi della natura, comprendendoli; la meditazione del

recanatese è invece evocata dal contrasto di un secondo limite sonoro che si

aggiunge al primo visivo e ne allarga a dismisura la portata immaginativa.

Ritornano comunque gli elementi della natura che erano in Leopardi, svolti dalla

Pozzi in una costruzione personalissima, stimolata dal quadro del ricordo: il colle

de L’Infinito diventa la striscia di colli che mantiene la sua funzione di limite-

stimolo per l’immaginazione poetica; il mare metaforico dell’immensità in cui

s’annega il pensiero del poeta di Recanati, si trasforma, per la poetessa milanese,

in un concreto desiderio fisico di vedere quell’ambiente naturale. Nessuno dei

due possiede realmente il proprio mare, ma ne percepiscono la vastità, sebbene

in modo diverso, attraverso l’invenzione del pensiero, riuscendo a goderne

pienamente. Secondo Graziella Bernabò:

154
Ricordo che il tema della finestra era presente anche in Spazzolate di vento, sua prima poesia,
ed è stato rilevato anche ne Il cielo in me.

205
«Il gusto romantico dello sconfinamento è qui, [in Amore di lontananza], temperato
dalla dolcezza infantile del richiamo iniziale alla casa della madre e dal riferimento ai luoghi
precisi di una geografia lombarda sentita come familiare e rassicurante. I riferimenti, anche
metrici (quindici endecasillabi sciolti), all’Infinito del Leopardi non riescono ad annullare
l’impressione della domesticità iniziale, nella quale rientrano gli stessi colli, più graditi in
definitiva del “mare vero”, quasi a trattenerla in un mondo ancora circoscritto e protettivo. Quella
pianura la legava alla madre, alla nonna e ai suoi antenati; alla nonna materna scriveva infatti il
2 luglio 1938: “Tu mi rappresenti la mia pianura lombarda, malinconica forte e reale, coi rossi
tramonti sulle risaie, l’odore caldo di stalla e la terra nera e umida: la pianura che ho tanto poco
goduto eppure mi sento nel sangue e verso la quale mi porta la nostalgia […].»155.

La poesia Amore di lontananza è, dunque, importante perché introduce un altro

paesaggio con cui Antonia entra in relazione156, la pianura, che è sì una funzione

letteraria per Antonia, ma in un senso romanzesco che diventerà opposto rispetto

a quello poetico, come si evince dal prosieguo della lettera del 02 luglio del 1938

citata dalla Bernabò e indirizzata alla Nena:

«…Cara la mia Nena, io avrei bisogno da te un favore grandissimo. Ci penso da anni.


Ci vorranno certo altri anni prima di attuare questo sogno, ma io me lo propongo come lo scopo
più importante della mia vita. Tu dovresti mettermi giù, su di un foglio, in ordine cronologico,
le date, i luoghi, gli avvenimenti più importanti della tua vita: magari anche le persone che sei
venuta via via conoscendo e non le illustri soltanto. Capisci quello che vorrei fare? Un grande
romanzo, capisci? (Ma non dirlo a nessuno ti prego). La storia della nostra pianura lombarda, e
della vita lombarda dal ’70 in poi: e te, la donna lombarda per eccellenza.»157

L’idea del grande romanzo in prosa era nata già negli anni dell’università, e si

era consolidata durante la stesura della tesi con un primo Progetto per un

romanzo di cui sono rimasti «due capitoli poco riusciti […], poi accantonati, ma

comunque interessanti tanto per la sua biografia quanto perché ci restituiscono

155
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 28-29.
156
Altro rispetto a quello della montagna indagato nel precedente capitolo. Si confronti sempre
quanto sostiene la Bernabò: «La pianura lombarda e le montagne della Valsassina furono invece
[rispetto a Milano] per lei l’occasione di un profondo contatto con una natura che le restituiva
un senso di radicamento e di pace e assecondava una sua profonda ricerca di significati
esistenziali.», in ivi, p. 28.
157
POZZI, Ti scrivo…p. 293.

206
il senso che per lei aveva assunto la poesia in quel momento della vita.»158. La

prosa era vista da Antonia come una forma di allontanamento dai picchi e dalle

vertigini del disordine di cui la poetessa si colpevolizzava dopo i giudizi ricevuti

in merito ai suoi versi e dopo le discussioni avute con Remo Cantoni. Seguendo

la poetessa Ida Travi nel suo ragionamento:

«Ad Antonia Pozzi veniva rimproverato un certo disordine. Non un disordine delle
cose, non un disordine della persona, ma un disordine nella vita, un disordine nelle idee, forse
uno scarto, più che altro un certo dislivello; in lei si intravedeva, appunto, qualcosa di non
allineato. Proprio Remo Cantoni, parlando ad Antonia Pozzi di questo disordine, apre ai nostri
occhi uno squarcio chiarificatore. È uno squarcio chiarificatore, sì, ma va proprio nella direzione
opposta alla direzione che Cantoni intendeva. Dove Remo Cantoni vedeva una specie di
disordine, noi intravediamo più precisamente uno sbilanciamento, un squilibrio. […] La vita di
Antonia Pozzi scorre come su un doppio binario: da un lato ci sono la nonna, la madre, […], le
amiche Elvira e Lucia, Pasturo e la casa a cui tornare. Dall’altro ci sono il padre, il professore, il
maestro filosofo, i compagni di studi, gli amici, la città e la casa da “lasciare”. Da un lato ci sono
le lettere, i diari, le cartoline, i biglietti scritti in una lingua libera e vivente. Dall’altro ci sono gli
appunti di studio, le note per la tesi, la storia della letteratura e le sue regole, le convenzioni nelle
discipline, la tacita lingua dei libri. Da un lato, la natura e il libero fiorire. Dall’altro, le periferie
e la città con le sue leggi. Due linee separate, due lingue diverse. Una lingua per sognare e una
per adattarsi. Due lingue, due punti fermi da cui sporgersi e a cui appigliarsi nel disequilibrio.
Questo movimento fuori dall’equilibrio, questa zoppìa del linguaggio per eccesso o
sdoppiamento del verbo, fu forse vissuto da alcune persone vicine ad Antonia come un fastidio,
come la costante minaccia di una persona incerta nella sua postura, così sbilanciata da rischiare
la caduta. Questo movimento fuori dall’equilibrio fu probabilmente inteso come pericoloso per
l’ordine del discorso. Fu certamente inteso come qualcosa di simile a un mistero, un sogno, un
enigma.». 159.

Non sono completamente d’accordo sulla divisione così netta degli ambiti, in

particolare quelli legati alla lingua libera e vivente della scrittura delle lettere,

dei diari, delle poesie, delle cartoline e dei biglietti presi in blocco come pietra

di paragone contro la tacita lingua dei libri, poiché certa scrittura poetica poteva

derivare da un lungo esercizio e quella connotazione di libertà potrebbe essere

158
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 194.
159
Si confronti la tesi di Ida Travi in I. TRAVI, Lingua poetica / lingua materna in Antonia Pozzi,
in AA. VV., … e di cantare…, pp. 281-288. La citazione è tratta da pp. 282-283.

207
fuorviante160; lo stesso vale per la scrittura epistolare di cui ho analizzato i sottili

rimandi e gli assestamenti via via regolati sulle attese del destinatario. Allo stesso

modo è emerso in che modo le fonti dei libri non fossero affatto tacite (si pensi

al lavoro di Antonia su Wolff), ma anzi potessero trovare una nuovissima voce

nei versi, rappresentando una lingua altrettanto libera e vivente. Sicuramente

però la dicotomia ritrovata dalla Travi è indirizzata a sottolineare una

contrapposizione fra un’imposizione linguistica dettata dal contesto sociale

(riferendosi forse al manuale scolastico, alla lettura del libro per la preparazione

di un esame universitario, e dunque, ad una lingua di sistema e relativamente

utilitaristica) e una lingua che appartiene al libero scavo delle parole che dicono

l’esistere. La citazione della Travi mi sembra importante per rilevare certe

ambivalenze che indubbiamente andavano schematizzandosi nel vissuto di

Antonia. Certe poesie erano veramente il ritratto di una ricerca linguistica

personale, a differenza di alcuni passaggi della scrittura della tesi dove la lingua

e gli esempi161, per forza di cose, andavano adattandosi alle attese del contesto e

160
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 156-157: «Dunque le varie “figure” [retoriche e non
solo] compaiono certamente nelle poesie di Antonia Pozzi; ma il cammino attraverso il quale
l’autrice vi giunge è strettamente legato alla fisicità dei luoghi e delle cose, e al proprio aderirvi
in modo emozionale. Questo infonde ai suoi versi un grande senso di concretezza e di
domesticità, facendo a volte dimenticare, per il fluire naturale delle immagini, la densità
dell’assunto poetico. Ciò ha generato in alcuni lettori, soprattutto della prima ora, l’idea di una
facilità della poesia di Antonia Pozzi; idea che si rivela falsa ad una considerazione più attenta
che consenta di illuminarne l’uso voluto e personale dei meccanismi stilistici. Come attestano,
all’interno dei diari e delle lettere, i riferimenti alle situazioni reali da cui sono scaturite le poesie,
e le varianti raccolte nell’ultima edizione garzantiana di Parole, Antonia sa lavorare di lima; ma
lavora a suo modo, senza tradire la vicinanza alle cose e al sentire del suo corpo e della sua anima
di donna generosamente aperta all’accoglienza integrale degli esseri umani e del mondo.».
161
Ad esempio riporto la nota di Matteo M. Vecchio in merito allo stigma della scrittura
femminile che era pensiero corrente nella cultura dell’epoca, alla quale la stessa Antonia
sembrava credere, come tesa alla conferma di un’autosvalutazione: «Nella propria dissertazione
di laurea Antonia Pozzi peraltro riporta questa affermazione flaubertiana: “(Le donne) scrivono
per soddisfare il proprio cuore, ma non per fascino dell’Arte” (ANTONIA POZZI, Flaubert negli
anni della sua formazione letteraria, p. 134, nt. 119); sempre FLAUBERT, in Madame Bovary, fa

208
del pensiero dominante. Antonia non poteva non essere cosciente delle proprie

maschere: i diversi elementi visti nella selezione dualistica della Travi – diciamo

materni e paterni, immaginativi e razionali – a volte si manifestavano in una

dialettica esageratamente contradditoria per la poetessa, sia nel momento in cui

venivano vissuti, sia – e forse soprattutto – nel momento in cui venivano riletti

o rivissuti nel pensiero e nella scrittura. Per questo credo che la Pozzi andasse

infine ricercando attraverso la poesia una forma della natura che avesse la

funzione di ago della bilancia fra differenti stimoli: la ritrovò costante solo nel

volto della montagna – o meglio nel movimento di ascesa e dunque nella

relazione stessa del suo corpo con l’ambiente, poi ritessuta in parole – vista come

solida opportunità di equilibrio fra opposti. Nel febbraio del 1935, quando chiese

conferma di sé, del suo essere, del suo sentire e del suo vedere la realtà attraverso

gli occhi della poesia, proprio a persone che appartenevano ad un contesto

estraneo alla possibilità di comprendere la bellezza e lo statuto del suo

linguaggio poetico, Antonia iniziò a concepire di calmarsi162 nella scrittura di un

sostenere ad Emma che “[u]n uomo […] è libero; può esplorare le passioni e i paesi, superare gli
ostacoli, assaporare le gioie più remote. Ma una donna è sempre incatenata. Inerte e insieme
flessibile, ha contro di sé le debolezze della carne e i rigori della legge. La sua volontà, come il
velo del suo cappello trattenuto da un nastro, palpita a ogni vento, e c’è sempre qualche desiderio
a darle slancio, qualche convenzione a trattenerla” (GUSTAVE FLAUBERT, Madame Bovary,
traduzione di Maria Luisa Spaziani, in Opere, progetto editoriale e saggio introduttivo di
Giovanni Bogliolo, Milano, I Meridiani, Mondadori, 1997, I vol., pp. 605-606).». La nota si
trova in VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 112-113.
162
«Antonia Pozzi riferì infatti piangendo a Elvira Gandini che Banfi nel riconsegnarle le poesie,
le disse: “Signorina, si calmi!”. Fulvio Papi, un noto filosofo banfiano di seconda generazione,
che frequentò a lungo Banfi e ne conobbe bene “la strategia colloquiale”, sempre attenta a non
offendere l’interlocutore, ma semmai ad allontanare diplomaticamente gli argomenti a lui non
graditi, suppone che egli abbia speso “poche parole convenzionali sulle poesie” e poi abbia detto:
“Adesso pensiamo alla tesi”; e che “l’invito alla calma” sia stato “molto indiretto, anche se
leggibile da una ragazza piena d’ingegno e umiliata”. Ed è plausibile, in effetti, che Antonia,
parlando con un’amica intima quel era Elvira, abbia calcato il tono, riferendo magari una frase
estrapolata dal contesto. In ogni caso, resta ferma la sostanza della netta disattenzione banfiana
alla sua poesia.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 205.

209
romanzo per meglio indirizzarsi, per meglio impostare l’esigenza di un lavoro

letterario morale163. «Vivere di sola pace e silenzio per poter coltivare la propria

creatività (montagna) è un’illusione, perché la vita è anche urlo e dolore

(pianura-città)»164. Il soggetto lombardo comparve però più tardi rispetto ai

primi tentativi del 1935, in una lettera inviata a Dino Formaggio il 28 agosto

1937. Quello che mi preme sottolineare attraverso questa digressione, è

l’importanza della relazione con la natura che si esplicita in Amore di lontananza

fondendovi differenti placidi elementi: la pianura, la striscia dei colli, l’argine

boscoso del Ticino portano al segreto di una dolcezza marina più ricordata che

vissuta. La poesia dimostra come la natura – a partire da modelli poetici desunti

magari da altri autori, ma ampiamente rielaborati – riesca ad attivare canali e

linguaggi diversi a contatto con lo spirito creativo, con il sentire e con gli

obiettivi in evoluzione di Antonia, soprattutto se paragonata alle liriche di

montagna. In questo panorama e nei confronti di questa malleabilità

dell’invenzione poetica, la relazione con la montagna rappresenta, infatti, una

sfida costante all’ascesi e alla resistenza rispetto a una possibile deriva (emotiva,

psicologica, morale). La montagna insegna a durare, nonostante gli squarci e

163
Il lavoro letterario morale è inteso dalla Pozzi come il superamento della propria flessione
introspettivo-poetica, sulla quale ha avuto modo di meditare giudicandola negativamente rispetto
ai parametri razionalisti del mondo banfiano con cui è entrata in dialettica negli anni universitari,
e che ha avuto modo di ritrovare nello stesso “superamento” operato dal Flaubert durante la
ricerca della tesi. Si tratta della rinuncia «all’espansione della propria immediata personalità in
arte» per scoprire «la propria più vera personalità, salvata e convalidata in un mondo che non è
più rifugio per gli abbandoni lirici, ma cantiere per la fatica attiva.», in POZZI, Flaubert. La
formazione letteraria (1830-1856), con una premessa di A. Banfi, Libri Scheiwiller, Milano
2012, p. 280. Poco più avanti la Pozzi riporterà la seguente citazione di Flaubert: «“Io credo che
proprio in questo senso si debba cercare la moralità dell’Arte. Come la natura, essa sarà dunque
moralizzante per la sua elevazione virtuale e utile per il sublime”», in ivi, p. 281.
164
ALTEA, Il silenzio…, in AA. VV., …e di cantare…, p. 232.

210
gli strazi165, come scrive Antonia ad Elvira Gandini. La poetessa così ritorna,

ciclicamente, a confrontarsi con le cime, a trascrivere ciò che esse, nel silenzio,

le comunicano, facendo i conti con la verità emersa dal più profondo di se stessa:

«Antonia sale. Nell’ascesa c’è una continua doppia tensione: da un lato c’è la ricerca
d’Assoluto, una tendenza all’Uno, alla fusione amorosa, e dall’altro c’è l’andare oltre, il donarsi,
il continuo farsi in due nell’amore, come nell’evento di nascita. E nel farsi in due, si rischia ogni
volta lo sdoppiamento, la caduta, il precipizio, lo squilibrio dei rapporti, per salvarli» 166.

Ma la doppia tensione della montagna è ricomposta nello sforzo, trova il suo

senso d’esistere nel sacrificio del corpo, che scopre la semplice comunione con

la natura: la possibilità di sperimentare uno squilibrio proficuo, quasi salvifico.

È questa verità dell’irrazionale e dell’esperienza – svelata e creduta poco a poco,

a volte con slancio e a volte con ripensamenti –, che Antonia tenterà per tutta la

vita di comunicare. Anche il mare e la pianura, la campagna ed alcuni elementi

naturali simbolici (come i fiori), o mutevoli (come le nuvole), sono molto

presenti nella sua poesia, ma la profondità e lo statuto della relazione non sono

assimilabili a ciò che essa cerca, trovando, nella montagna. Ed è così che quando

Antonia pensa alla scrittura di un romanzo, la montagna è lontana, non può

essere coinvolta in un tale ‘tradimento’ della voce poetica. Fulvio Papi legge nel

rapporto di Antonia con la montagna la stessa esclusiva differenza che

caratterizza la relazione di Montale con il mare:

«Ma è quasi ovvio osservare che al paesaggio marino scabro, secco, parlante, segno
della memoria, della nostalgia, delle pieghe emotive della vita, corrisponde, con una molto
minore spigolosa concettualità, l’ambiente montano di Antonia, più prossimo a se stessa, quasi

165
Cfr. la lettera dell’8 agosto 1933 contenuta in POZZI, Ti scrivo…, p. 178.
166
TRAVI, Lingua poetica / lingua materna…, in AA. VV., … e di cantare…, pp. 285.

211
un prolungamento dell’anima e del corpo più che una scenografia di un vivere “malato”.»167.

Ed in effetti nella montagna Antonia trova la salvezza, il miracolo di un

benessere vissuto senza turbamenti.

Vorrei tentare di approfondire ora alcuni altri influssi che sono stati ravvisati

dalla Bernabò nella prima poesia pozziana:

«La produzione poetica di Antonia dell’anno 1929, cioè del periodo del suo
innamoramento ancora unilaterale per Antonio Maria Cervi, è, come si è visto, in gran parte
acerba, tra echi leopardiani, dannunziani e crepuscolari ed esperimenti più moderni mediati dalla
poesia del fratello dell’uomo amato; tuttavia, in queste liriche, si aprono alcuni spiragli che
lasciano trasparire la precocità della sua vocazione poetica e la potenzialità di una sua personale
vocazione artistica.
Dal 1930, anno in cui iniziò il suo vero e proprio rapporto con Cervi, restano in tutto tre
belle lettere a lui indirizzate e sette poesie invece un po’ troppo effusive. Antonia, in quel
periodo, era troppo tesa a vivere la sua storia d’amore per trovare la concentrazione necessaria
al superamento dell’immediatezza sentimentale. […]
Senza insistere su un discorso che sembrerebbe riprendere quello crociano, ormai
superato, della distinzione tra poesia e non poesia, è sufficiente rilevare il fatto che nelle prime
liriche di Antonia Pozzi, come in generale nella produzione letteraria di una persona molto
giovane, la retorica, i calchi e le zeppe sono spesso presenti; ma è anche vero che, come accade
quando ci si trova di fronte a un vero talento, qualcosa in esse già preannuncia il canto più maturo
e vibra di una grandezza propria.
Infatti, anche nella produzione del 1930, ci sono versi che si imprimono fortemente
nella mente e nel cuore di chi legge, come alcuni di Novembre, che pure contiene un calco
dannunziano (chissà dove – chissà dove), filtrato forse attraverso il Cervi di Notturno eroico;
qui, in mezzo a più banali echi crepuscolari, un’immagine si delinea pudica, delicata, a dipingere
qualcosa di più di un semplice stato d’animo e a farci presentire un destino.»168.

La Bernabò allude, quando parla di canto più maturo e di una grandezza propria

della Pozzi, ai versi della prima strofa di Novembre169, che riporto per intero:

167
PAPI, L’infinita…, p. 68.
168
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 92-94.
169
POZZI, Parole, p. 134.

212
Novembre Notturno eroico170

E poi – se accadrà ch’io me ne vada – Tutto il giorno s’accanì il cannone


resterà qualchecosa giù dal monte, su l’avversa altura:
di me poi fu pioggia, e sotto la frescura
nel mio mondo – rallentò, si tacque la tenzone.
resterà un’esile scia di silenzio
in mezzo alle voci – Sopra l’acre odore degli scoppi
un tenue filato di bianco passò il buon profumo della terra:
in cuore all’azzurro – sull’accanimento della guerra
un fruscio d’acquata sopra i pioppi
Ed una sera di novembre
una bambina gracile come una preghiera
all’angolo di una strada sul far della sera.
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle Fra ceppaie d’abbattuti abeti
gelide verdi remote – lucidi i cannoni tamponati,
Qualcuno piangerà dianzi tanto irosi di boati,
chissà dove – chissà dove – si raffreddan, dormono ora quieti.
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me Li assopisce la pioggerellina
nel mondo che bisbiglia la lusinga fresca
quando accadrà che senza ritorno così sulla batteria tedesca,
io me ne debba andare. come sulla batteria latina,

Milano, 29 ottobre 1930 mentre il cielo annera


nella rosea sera.

Dentro l’abetaia gli stalloni,


liberi dal freno pascolando
schiudono le froge, a quando a quando,
ai sentori della terra buoni:

annitrendo fra gli scuri abeti,


scrollando la testa, imperlinata
dalle goccioline dell’acquata,
che pispissa i suoi freschi segreti,

mentre il cielo annera


nella rosea sera.

Anche l’acqua lentamente tace:


ora al cielo che si rasserena
sale il rame della luna piena,
delle Dolomiti sulla pace.

Una tromba nella lontananza


chiama (chi sa dove, chi sa che),
tranne quella voce, altra non v’è
nella pura notte, che si avanza

mentre il cielo annera

170
CERVI, Poesie scelte…, pp. 69-72. La poesia non venne inserita nella raccolta delle Cadenze,
ed è presentata nel volume curato da Fiumi sotto la sezione Il sonno dei cannoni latini.

213
nella rosea sera.

Son venuti tre bimbetti biondi,


snelli, su alla nostra batteria,
di gridosa garrula allegria
arruffati in testa, in cuor giocondi.

Son sgusciati fra le sentinelle,


han portato, in mezzo agli artiglieri,
fresche frutta in piccoli panieri
ed in bocca fresche risatelle,

nella lunatìa
pallida chiarìa…

Gruppi fusi in bronzo verdolino,


presso i loro pezzi, in gesti fieri,
parvero di giorno gli artiglieri
sopra l’irto greppo del Trentino:

verdi gli artiglieri sui cannoni


e a cavallo il verde capitano,
il binocolo alla scarna mano,
gesti brevi e a valle lunghi tuoni:

e gli abeti, neri


sopra i cannonieri.

Ora invece neri anche i soldati


nella silenziosa avemaria,
dei bimbetti intorno all’allegria
nostalgicamente raggruppati:

d’altri bimbi, a un tratto, pensierosi,


bimbi sul cadere della sera
tutti assorti in tremula preghiera,
bimbi per l’assente dolorosi

nella loro casa


di silenzio invasa…

Tra i cannoni della rossa morte


ruzzerellano i tre bimbi ignari
e s’inseguono, con gridi chiari
che riecheggia il nero contrafforte.

Il più piccolino s’addormenta


sui ginocchi d’uno dei soldati:
gli artiglieri cantano, aggruppati,
una ninna-nanna sonnolenta

nella lunatìa
pallida chiarìa…

Sul cannone della rossa morte

214
il bimbetto, nel suo sonno bianco,
ha poggiato il suo capino stanco,
ha serrato i suoi braccini forte:

così tutti i bimbi della Terra


ai cannoni nostri avviticchiare
si potrebbero ed addormentare,
tanto è pura questa nostra guerra,

tanto umana resta


questa nostra gesta…

1915

La Bernabò sottolinea per la seconda strofa di Novembre della Pozzi (v.16) il

prestito da D’Annunzio de La pioggia nel pineto, famosissima poesia della

raccolta Alcyone del 1903, in particolare dal v. 94, che ivi suona «chi sa dove,

chi sa dove!», supponendo una mediazione dal v. 36 del Cervi di Notturno

eroico, «chi sa dove, chi sa che». Sempre la Bernabò accenna anche a più banali

echi crepuscolari. Novembre riporta la data del 29 ottobre, quattro giorni dopo

l’anniversario della morte del ‘fratello’ d’elezione. Non si rilevano per il 1930

poesie encomiastiche dirette, ma sembra appunto che, dall’esercizio sui versi, la

Pozzi tenti una connessione impostata su un livello differente. Dal novembre del

1929 al luglio del 1930 Antonia non scrive: ci lascia nel suo secondo anno da

poetessa, solo 9 componimenti che paragonati ai 76 del primo anno sembrano

rispondere all’entusiasmo iniziale con un rassegnato silenzio. È vero anche che

in quei mesi Antonia era impegnata a concludere gli studi liceali, ma credo sia

giusto sottolineare questo aspetto silente e a volte carsico di quella che lei

definisce la Musa171. Ed effettivamente negli ultimi componimenti del 1929, una

171
Nelle lettere, soprattutto quelle inviate a Lucia Bozzi, emergono allusioni alla sua Musa, alla
prodigalità o all’assenza di versi: cfr. in POZZI, Ti scrivo…, la già citata lettera del 05 luglio 1929,

215
volta che crede raggiunta la meta del suo amore, Antonia sembra richiedere una

pausa dalla scrittura:

Lettere brevi172 Vicenda d’acque173

Mio, mio… La mia vita era come una cascata


solo il silenzio, oggi, può dire. inarcata nel vuoto;
Il dono di Sua Madre ed il Suo dono la mia vita era tutta incoronata
redimono il mio amore ed il mio pianto. Il di schiumate e di spruzzi.
mio amore è puro, sereno nello spasimo, Gridava la follia d’inabissarsi
gigante. La mia offerta è tutta scarlatta, senza in profondità cieca;
macchie, senza screziature. Le lego ai polsi la rombava la tortura di donarsi,
mia vita come un nastro rosso. in veemente canto,
…, mio amore. in offerta ruggente,
al vorace mistero del silenzio.
8 novembre 1929
Ed ora la mia vita è come un lago
Mio amore, scavato nella roccia;
il nome che mi hai dato è l’acqua e il pane, l’urlo della caduta è solo un vago
con cui si va fino ai confini del mondo. mormorio, dal profondo.
Tutte le tue lagrime sul mio grembo, tutte le Oh, lascia ch’io m’allarghi in blandi cerchi
mie carezze sul tuo capo. di glauca dolcezza;
Anima mia. lascia ch’io mi riposi dei soverchi
balzi e ch’io taccia, infine:
14 novembre 1929 poi che una culla e un’eco
ho trovate nel vuoto e nel silenzio.

Milano, 28 novembre 1929

Dalle Lettere brevi si evince che oggi solo il silenzio può dire: Antonia, con il

nome datole da Cervi, ha energie sufficienti (l’acqua e il pane) per andare fino

ai confini del mondo. Deve essere accaduto qualcosa di straordinario fra Cervi e

Antonia174, qualcosa che ha cambiato l’atteggiamento di quest’ultima e che trova

pp. 92-93;
172
POZZI, Parole, p. 122.
173
Ivi, p. 123.
174
Cfr. ad esempio l’incipit della lettera dell’11 gennaio del 1930, ove Antonia per la prima volta
chiama Cervi Piccolo mio. Si è giunti, dunque, all’esplicitazione di questo amore. I termini
riprendono fortemente l’idea della contrapposizione fra le fantasticherie tormentose di Antonia,
fatte di rotte parole, e il silenzio del Cervi: «avrei voluto scriverti subito ieri; ma non ne fui
capace. La pura e dolcissima realtà che hai offerto alla mia giovinezza assetata d’amore fascia e
disperde le mie fantasticherie tormentose; la tua voce adorata versa il silenzio sulle mie rotte

216
una sua forma poetica solo – forse e in parte – nella poesia successiva, Vicenda

d’acque. Questi versi sembrano chiudere programmaticamente un anno (otto

mesi) di tentativi, segnati dallo sforzo folle di trovare le parole, di sciogliersi in

canto per arrivare all’anima dell’amato, cercando di sublimare nei versi l’essenza

più pura di se stessa (rombava la tortura di donarsi). La metafora attraverso la

quale Antonia parla di sé è quella molto suggestiva dell’acqua, un elemento

naturale che può cambiare forma, posizione, movimento, ma che è certamente

indispensabile per il fluire stesso della vita. Alla fine della propria storia – della

propria vicenda d’acqua legata all’idea della cascata e dunque di una giovinezza

turbinosa che vuole interamente donarsi, sprezzante del pericolo di morte pur di

raggiungere il proprio obiettivo – però, la poetessa sembra avere bisogno di una

pausa, di distendersi in un lago di silenzio. Avendo trovato il suo posto fra le

rocce dopo tanta caduta, ora vuole riposare dai soverchi balzi, nel vuoto e nel

silenzio che le fanno da culla. Riemerge quindi anche l’idea di una regressione e

di una protezione ancestrale, materna, che non ha bisogno di parole per

concretarsi: una fanciullezza implicita dell’anima. I ruoli del vuoto e del silenzio,

dopo la caduta, si rovesciano: se inizialmente avevano rappresentato una sfida e

un percolo (e il secondo addirittura un mistero inconoscibile, quasi fosse un dio

pagano in attesa costante, data la sua voracità, di un’offerta di parole), alla fine

della poesia si trasformano in un rifugio. Ma a cambiare è in realtà lo statuto

dell’acqua-Antonia: non vi è più l’opposizione esistenziale della poetessa nei

parole.». In POZZI, Ti scrivo…, pp. 95-96. Graziella Bernabò nell’introduzione alla raccolta di
poesie della Pozzi afferma: «Il 1930 si svolge per Antonia all’insegna di un nascente rapporto
d’amore, quindi di un’urgenza di vita che inibisce in buona parte la sua scrittura poetica.», in
POZZI, Parole, p. 19.

217
confronti di queste due parole che da oggi diventano la sua eco, il suo nuovo

modo di dirsi per riflesso in ciò che non è175. Questo ritrarsi nel silenzio, può

anche essere avvicinato ad un atteggiamento crepuscolare, che vorrei

approfondire, perché è un altro modo di leggere l’allontanamento della Pozzi

dalla propria vocazione poetica, un modo, quindi, che avviene in tempi molto

più antichi rispetto alla scelta della scrittura in prosa che vorrebbe, invece,

intraprendere in anni più maturi. Un allontanamento dalla parola che è in realtà

una relazione costante, radicale, con la sfera del silenzio, connaturata alla

scrittura poetica pozziana, e che è più simile al vacillare di una fiamma sul

cerino, mossa dal vento, alimentata quindi da differenti sfumature di intensità,

ma mai spenta. Per la poetessa infatti restano affascinanti sin dall’inizio tutta una

serie di temi umili, ossia prosaici176, per i quali non varrebbe forse la pena di

scomodare la poesia e che sono stati cantati appunto da quei poeti detti

crepuscolari. A connotarli con questo nome è Giuseppe Antonio Borgese che

nel 1930 diventerà professore della Pozzi. In un articolo dal titolo Poesia

crepuscolare, apparso su La Stampa del 1° settembre 1910, ove recensisce la

175
Come ho già accennato, Tiziana Altea ha dedicato un intero saggio al rapporto della Pozzi
con il silenzio: Il silenzio come “altra voce” in Antonia Pozzi, in AA. VV., …e di cantare…, pp.
217-249.
176
Ricordo che il termine prosaico ha proprio l’accezione opposta al termine poetico: si tratta di
ciò che per contrasto non riesce ad avere un’elevatezza tale da potersi dire poetico. Dalla voce
dell’enciclopedia Treccani on line: «prosaico: agg. [dal lat. tardo prosaicus] (pl. m. -ci). – 1.
letter. Che ha il tono, il carattere della prosa, detto come giudizio per lo più negativo con
riferimento a opere, componimenti, discorsi che dovrebbero avere uno stile elevato: versi p.;
locuzione, espressione p.; stile prosaico. 2. fig. Privo di poesia, di sentimento, di ideali, incapace
di trascendere gli aspetti materiali della vita, e quindi meschino, banale, volgare: discorsi p.; un
uomo p.; avere interessi p.; non essere così p.!; 3. ant. Prosastico: scritti p.; anche riferito a
scrittore in prosa.». Quest’accezione negativa nei confronti dell’aggettivo prosaico andrà
scemando in ambito letterario proprio grazie alla poesia dei crepuscolari e di tanta parte del
Novecento, oltre che per merito dei poeti che lo stesso Borgese individua, con Umberto Saba
capofila, come Poeti prosaici, in un articolo del 30 giugno 1911 apparso su Le cronache
letterarie de «La Stampa», n° 179, p. 3.

218
poesia di Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves, il critico

letterario siciliano si esprime in questi termini:

«Che cosa sia la poesia italiana dopo la gloriosa fioritura di Pascoli e di D'Annunzio
non è facile capire a chi non s'occupi di letteratura per professione. A interrogare i critici, che
distribuiscono ogni anno eque razioni di lodi fra cinquanta o sessanta volumi di versi, si direbbe
che Apollo musagete tenga fermo il suo carro di fuoco sullo zenith del nostro cielo. A interrogare
il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta.
Si spenge infatti, ma in un mite o lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso
un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non
dorme e non muore. In una morbida via soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi
sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettìi di una grandezza che verrà un giorno
alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell'alba.
Ma la grandezza passata – la meravigliosa giornata lirica che dal grigio e magro civismo
di Parini compì la sua parabola fino alla retorica e tragica sensualità dannunziana – è un fatto
compiuto, acquisito alla nostra conoscenza, palpitante nel nostro sentimento; mentre la
grandezza futura, alla quale abbiamo bisogno di credere per una fede quasi religiosa nel destino
della nostra cultura, è un enigma da lasciarsi ai profeti. Perciò è più facile e meno arbitrario
cogliere i segni di ciò che muore anzi che il preannunzio di ciò che nascerà, e li cogliamo con un
misto di pietà simpatica e di tenerezza accorata. Ecco tre giovani poeti crepuscolari – Marino
Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves — che sono indubbiamente fra i migliori
rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s'annoiano e
non hanno che un'emozione da cantare: la torpida e limacciosa malinconia di non aver nulla da
dire e da fare.
Vi sono, fra i tre, differenze notevoli di contenuto e di stile; ma son di quelle differenze
che fra una trentina d'anni dilegueranno sotto quella patina unitaria che il tempo sovrappone alle
opere di un'epoca medesima, quando quest'epoca non abbia messo fuori una personalità così
vigorosa da superare l'imperativo dell'ambiente. Noi, vicini, sappiamo facilmente discernere che
Moretti fu il più languido e delicato e Martini il più canoro ed impreciso, mentre Chiaves, come
individuo, è il più forte e quello che più consciamente adopera l'ironia. Ma i lontani vedranno
più facilmente, nei tre poeti nostri e negli altri molti loro coetanei, un'identica maniera di sentire
la vita e di trattar l'arte. Arcadia? secentismo? decadenza? futurismo? novecentismo, come io
stesso altra volta chiamai questo poetare sfiancato e invertebrato, senza capo né coda, cullato
passivamente da un ritmo monotono e da una rima narcotica, salvo che, invaso da un'improvvisa
fede nella sua missione vaticinatrice, non si metta a rotolare con una valanga di epiteti
amplificativi e di enumerazioni enfatiche? Sono tutte formule che implicano una condanna; e
l'importante non è né esaltare né condannare, ma capire.»177.

Questo lunghissimo crepuscolo letterario che non deve essere né esaltato né

condannato, ma capito, risolve al critico il compito della sua definizione,

colmando con un’analisi sottile il vuoto percepito dai lettori dopo le parole di un

177
G.A. BORGESE, Poeti crepuscolari, in La Stampa, 1° settembre 1910, n. 242, p. 3, oggi
riprodotto on line in www.archiviolastampa.it.

219
Carducci, di un Pascoli, di un D’Annunzio, tutte volte ad alti ideali – se non

sempre, e insieme, etici, politici e sociali, almeno stilistici e formali, dunque

estetici.

«Chi ci ha regalato questa poesia del «triste far niente»? Pascoli col suo “fanciullino”, i
decadenti francesi con le loro corsie d'ospedali, d'Annunzio col suo Poema paradisiaco, le cui
reminiscenze traspaiono di tanto in tanto negli ultimi epigoni? Un po' tutti, un po' nessuno. In
senso stretto, non si può dire che i giovani poeti siano dannunziani o pascoliani: prendono il loro
magro bene dove lo trovano, e, poiché son giunti al levar delle mense, devono contentarsi delle
briciole. Che cosa cantare? La passione epica di Carducci per la patria e per la libertà? Passione
esaurita con Carducci; l'umanitarismo di Pascoli e l'imperialismo di d'Annunzio erano già
dilettantesimi. Ma Pascoli aveva la sua pia ed ingenua novità da cantare, il campo seminato,
l'infanzia tormentata; d'Annunzio aveva la sua leonina sensualità dionisiaca. Anche questo è
finito. Un nuovo ideale da cantare? I tempi sono incerti, e la poesia non elabora che ideali
concreti. Così alla poesia (alla santa poesia, come la chiama ancora il Martini) non resta che
idolatrar se stessa e di se stessa nutrirsi. Fantasticherie campate nel vuoto: povere di realismo e
non di lirismo.
Così per la forma. Che c’è da fare dopo le Odi barbare, dopo l’Otre, dopo la Morte del
cervo, dopo quella dozzina di liriche dannunziane, nelle quali la nostra lingua mostrò veramente
tutto il suo potere? Dovranno passare molti anni prima che quel' eco si spenga, o dovrà sorgere
un altro temperamento di quella forza. Frattanto, chi ha una piccola vena di cose sue da dire e
non ha voglia di emulare con le ali dell’anitra il volo di Pindaro, preferisce cantare con un fil di
voce. Qui subentrano gli insegnamenti di alcuni decadenti francesi e poi di Giulio Orsini e poi
di Guido Gozzano: una certa volontaria e studiata sciatteria; la sintassi prosaica, l’epiteto
diminutivo, la quartina pedestre, il verso ritmicamente insipido, simile, nel suo povero profumo,
a un fiorellino, a quattro petali. Contro la retorica dell’enfasi vien fuori la retorica – che qualche
volta è sincera, come tutte le retoriche, del resto – dell'ingenuità e della semplicità. E poiché non
han nulla da cantare, ma sentono un veritiero bisogno di cantare, s'attaccano alle quisquiglie, ai
fiori di carta ed alle cose buffe e malinconiche ch'erano di moda cinquanta o settant'anni fa. Si
sono anche rimessi a idealizzare la tubercolosi, la quale – in quanto tubercolosi poetica – pareva
ormai domata dal siero della gaia impostura stecchettiana. La ballata romantica s'intreccia con
la delicata e sospirosa elegia di Cosimo Giorgieri-Contri: l'atmosfera sa di incenso e di acido
fenico. Poiché il gran campo della nostra poesia fu mietuto con falci d'oro, essi indugiano sui
margini della via spigolando i residui del romanticismo e le scorie del classicismo e
contentandosi di capire in Pascoli la balbuzie, in d'Annunzio il Poema Paradisiaco.
Se Carducci offriva un bicchiere a Pio IX, essi cantano le suore; se d'Annunzio
vaticinava l'impero del mondo, essi si rifugiano nelle “rosse stazioni provinciali” o invocano la
“natìa porta Palazzo”; se i satanici fervevano di lussuria, essi esaltano l'ambigua castità della
carne sazia. Hanno un non so che di quegli adolescenti un po' precoci e un po’ grulli, intelligenti
e fiacchi, allampanati e sentimentali che a Firenze chiamano con parola di affettuoso dispregio
baccelloni. La loro poesia è la fodera della robusta ed impetuosa poesia che godemmo e
amammo. Pure è poesia. Hanno poca o nessuna smania di vanità, poca ambizione, molta delicata
intimità di sentimento. Chi vorrebbe negare la fine sensibilità di Moretti, la monellesca sveltezza
di Chiaves, la soffice musicalità di Martini? Bisogna prenderli così come sono e goderli nei limiti
del loro potere senza incrudelire contro manchevolezze, di cui, presi uno per uno, non hanno
tutta la colpa. La loro poesia è come l'amore di cui parla Martini, “simile a un'urna di cristallo,
cui protegga la sua fragilità”. È una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si
spenge. Non hanno tanta forza da soverchiare l'ultime risonanze delle grandi antiche voci, e il

220
crepuscolo li involge. Giacché non solo le colpe, anche le glorie dei padri pesano sui figli.»178

Il Borgese risolve dunque con l’esposizione dei temi (il disprezzo per se stessi;

l’amore per il passato e, dunque, l’attenzione per il mondo della scuola179 e della

prima infanzia contrapposta alla noncuranza per il presente e per il futuro; il

giorno della domenica prima aspettato con bramosia e poi trascorso nella noia

del nulla; gli argomenti ricorrenti dei decadenti francesi180), con l’attenta analisi

dei versi (caratterizzati come i poeti da poca o nessuna smania di vanità, poca

ambizione, molta delicata intimità di sentimento) e dello stile (caratterizzato da

una certa volontaria e studiata sciatteria; dalla sintassi prosaica, dall’epiteto

diminutivo, dalla quartina pedestre, dal verso ritmicamente insipido) il suo

compito di critico di fronte all’andamento della poesia contemporanea.

Fantasticherie campate nel vuoto: povere di realismo e non di lirismo. […] Pure

è poesia, chiosa infine l’intellettuale siciliano, con un’assoluzione finale. Ma per

178
Ibidem.
179
Scrive il Borgese in merito al Moretti in ivi: «Alla prima infanzia il poeta ripensa con
invincibile fissità, con una tenerezza fra commovente e scimunita, e, componendo quartine sul
sillabario, sulla maestra, sui nomi dei compagni allineati in ordine alfabetico, riesce a darci cose
di una futile ma inquietante e squisita delicatezza. Leggendo la Signora Lalla o il Sillabario, non
è possibile, pur mentre si respinge quell'ozioso fantasticare, comprimere un sorriso di affettuosa
simpatia: “Oh si! prendiamo la cartella scura, / il calamaio in forma di barchetta, / i pennini, la
gomma e la cannetta, / la storia sacra e il libro di lettura... […] // andiamo, andiamo! Il tema è
messo in bella! / Andiamo, andiamo! Il sunto è messo in buona! / Dio, com'è tardi! La campana
suona... / Fra poco suonerà la campanella… […] // Come son vani, come son diversi, / signora
Lalla, i miei compiti d'ora! / Dimmi, vuoi riguardarmeli tu ancora? / Sembra uno scherzo, ma
son tutti in versi...”». Il tema, con tutt’altra profondità d’esito, si può ritrovare nella già citata
Limiti della Pozzi, espressione turbata degli immensi apporti culturali universitari: «Tante volte
ripenso / alla mia cinghia di scuola / grigia, imbrattata, / che tutta me coi miei libri serrava / in
un unico nodo / sicuro – / Né c’era allora / questo trascendere ansante / questo sconfinamento
senza traccia / questo perdersi / che non è ancora morire – / Tante volte piango, pensando / alla
mia cinghia di scuola – // Milano, 16 aprile 1932», in POZZI, Parole, op.cit., p. 180.
180
Sempre il Borgese, nell’articolo del 1° settembre 1910, precisa: «Dai decadenti francesi è
passato al Moretti, al Marini ed ai loro colleghi questa fissazione delle suore di carità, delle
domeniche autunnali, dei canali di Bruggia (“per cacciare un poco l'uggia”), delle vecchie
signorine che lavorano al crochet, dei sonnacchiosi paesaggi provinciali.». Bruggia è il nome
antico per Bruges, cittadina belga.

221
un giovane poeta che, a circa vent’anni da queste righe, volesse intraprendere

nuovamente la scrittura in versi, senza essere un nuovo Carducci, un nuovo

Pascoli, un nuovo D’Annunzio, quale sarebbe la soluzione? Come porsi inoltre

– e al contempo – di fronte al proprio forte credo nel valore delle parole –

all’essenzialità della loro ricerca volta ad attribuire uno status di verità

all’esistenza, sia pure intrisa di fantasticherie? Come affrontare l’esigenza di

cantarsi al femminile181? Queste potrebbero essere le forme dei dubbi che

attraversano la vocazione poetica della Pozzi nei primi anni, dubbi che – più che

risolversi – trovano spesso uno sfogo in un’adesione proprio ai temi e ai toni

crepuscolari, quasi connaturati alla vena malinconica di Antonia. Ed ecco

dunque spiegata, in parte, l’origine del tono dimesso di molte poesie della Pozzi,

a volte addirittura colloquiali e veramente prosaiche (Cencio, Primizie di

stagione, Muffe sotto vetro)182, l’attenzione per le tematiche lacrimevoli (Crollo,

Lagrime, L’erica)183, fino ad abbracciare anche a livello esistenziale il ruolo

dimesso del poeta in Largo184. Antonia chiede in questi versi uno spazio – e forse

ancora di più il tempo di un accompagnamento musicale lento185 – per questa

sua voce poetica che quasi la annulla come essere umano, assimilandola alle

cose:

181
Così si sfoga Antonia in una lettera a Cervi del 13 luglio 1929: «è terribile essere una donna,
ed avere diciassette anni. Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi», in POZZI, Ti
scrivo…, p. 91.
182
Rispettivamente alle pp. 44, 47-48, 52-53 di POZZI, Parole, op. cit.
183
Ivi, alle pp. 84, 97, 110.
184
Ivi, pp. 132-133.
185
Il titolo della poesia può essere a mio parere un’indicazione di lettura musicale per le note a
cui Antonia accenna attraverso la sua scrittura: meste, solenni, come di preghiera finale o di
requiem, per se stessa e per il suo ultimo, calmo, anelito alla luce.

222
Largo

O lasciate lasciate che io sia


una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda –

O lasciare lasciate ch’io mi perda


ombra nell’ombra –
gli occhi
due coppe alzate
verso l’ultima luce –

E non chiedetemi – non chiedetemi


quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l’arcana folla
dei miei fantasmi –
e non cercate – non cercate
quello ch’io cerco
se l’estremo pallore del cielo
m’illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare –

Non domandatemi se prego


e chi prego
e perché prego –

Io entro soltanto
per avere un po’ di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlano le cose sorelle –

Poi ch’io sono una cosa –


una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo –
due coppe alzate
verso l’ultima luce –

Milano, 18 ottobre 1930

Secondo Fulvio Papi186, nel sintagma cosa di nessuno vi è una memoria di Un

186
PAPI, L’infinita…, p. 56: «”Cosa di nessuno” richiama la povera cosa di una celebre poesia di
Gozzano, Un rimorso (“Rivedo la povera cosa”) e, più tardi, anche Quasimodo in Autunno:
“povera cosa caduta / che la terra raccoglie”». Nella biblioteca della Pozzi figurano
effettivamente entrambi gli autori. Di Guido Gozzano vi sono due volumi: I colloqui, Fratelli
Treves Editori, Milano 1922, segnato in vari punti; L’ultima traccia, raccolta di novelle edita
sempre dai Treves ma nel 1919 ove non appaiono particolari segni a margine o sottolineature
della Pozzi. Di Salvatore Quasimodo vi è Acqua e Terre, pubblicato a Firenze nel maggio 1930
per le Edizioni di Solaria, al quale accennerò nel prossimo capitolo.
Il volume de I colloqui è diviso in tre sezioni di cui solo due componimenti sembrano aver

223
rimorso187 di Gozzano o forse di Autunno188 di Quasimodo, ma sarei più

propensa a leggervi due lamenti di Sergio Corazzini, Il soliloquio delle cose e la

Desolazione di un povero poeta sentimentale. Nella biblioteca pozziana, come

precedentemente accennato, si conserva un volume del poeta, letto con

attenzione (addirittura emendato dagli errori di stampa!) e variamente segnato

dalla poetessa, edito postumo nel 1922 a Napoli. Si tratta di Liriche. Raccolta

definitiva con prefazione di Fausto M. Martini, Riccardo Ricciardi Editore.

L’indice è così composto: Dolcezze, L’amaro calice, Le aureole189, Poemetti in

catturato l’attenzione di Antonia. La prima sezione, Il giovenile errore, non riporta segni; nella
seconda, Alle soglie, vi è un interesse per il quarto componimento, Cocotte, dove la Pozzi
sottolinea: «Il mio sogno è nutrito d’abbandono, / di rimpianto. Non amo che le rose / che non
colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state… Vedo la casa, ecco le rose
/ del bel giardino di vent’anni or sono!»; nella terza sezione, Il reduce sottolinea la chiusura
dell’ultimo componimento, I colloqui: «ma lasciava la pagina ribelle / per seppellir le rondini
insepolte, / per dare un’erba alle zampine delle // disperate cetonie capovolte…». Cfr. per
Cocotte, G. GOZZANO, I colloqui in Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1991,
p. 192; per I colloqui, ivi, p. 218. Citerò sempre da questa edizione.
187
«I. //O il tetro Palazzo Madama... / la sera... la folla che imbruna... / Rivedo la povera cosa, //
la povera cosa che m’ama: / la tanto simile ad una / piccola attrice famosa. // Ricordo. Sul labbro
contratto / la voce a pena s’udì: / "O Guido! Che cosa t’ho fatto / di male per farmi così?" // II.
// Sperando che fosse deserto / varcammo l’androne, ma sotto / le arcate sostavano coppie //
d’amanti... Fuggimmo all’aperto: / le cadde il bel manicotto // adorno di mammole doppie. // O
noto profumo disfatto / di mammole e di petit-gris... / "Ma Guido che cosa t’ho fatto / di male
per farmi così?". // III. // Il tempo che vince non vinca / la voce con che mi rimordi, / o bionda
povera cosa! // Nell’occhio azzurro pervinca, / nel piccolo corpo ricordi / la piccola attrice
famosa... // Alzò la veletta. S’udì / (o misera tanto nell’atto!) / ancora: "Che male t’ho fatto, / o
Guido, per farmi così?". // IV. // Varcammo di tra le rotaie / la Piazza Castello, nel viso / sferzati
dal gelo più vivo. // Passavano giovani gaie... / Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono
cattivo, // non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: "Che male t’ho fatto,
/ o Guido per farmi così?".». In ivi, pp. 127-128. Come si vede, il tema è molto lontano da Largo.
Lo sono meno, forse, nella loro placida umiltà (anche se generano per converso un senso di
straniante e affettuosa ironia), le buone cose di pessimo gusto del v.2 de L’amica di nonna
Speranza, sempre del Gozzano de I colloqui e quindi in ivi, p. 183.
188
«Autunno mansueto, io mi posseggo / e piego alle tue acque a bermi il cielo, / fuga soave
d’alberi e d’abissi. // Aspra pena del nascere / mi trova a te congiunto; / e in te mi schianto e
risano: // povera cosa caduta / che la terra raccoglie.», in S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla
poesia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996 p. 53.
189
Antonia inserisce, prima di questa raccolta, quattro quadrifogli, che si sono seccati fra le
pagine. Sottolinea due volte i primi due versi in Alla serenità: «Stelle! che gioia! Quanto cielo e
quanti / voli s’io chiuda gli occhi alla freschezza / di questa sera piena di dolcezza, / accolgo in
essi ancor tristi di pianti!», ora in S. CORAZZINI, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi,
Giulio Einaudi Editore, Torino 1968, p. 103. Questa memoria si fonderà forse – per la
composizione della poesia Stelle cadenti del 21 ottobre 1933 che suona, in riferimento agli astri,

224
prosa, Dal “piccolo libro inutile”190, Elegia, Libro della sera della domenica

(da cui sono tratte la maggior parte delle sottolineature e di cui ho già parlato),

Il sentiero, La morte di Tantalo191.

In questa fase della poetica pozziana, e particolarmente in Largo, ritengo che sia

il Corazzini – molto più affine all’Antonia con i suoi richiami sommessi ma

continui ad un senso mistico-religioso192 e ad un mistero che accomuna le anime

al v.1 e al v. 9: «Quante!» – con la poesia Stanchezza di Eurialo de Michelis, di cui possiede il


libro Aver vent’anni, Edizioni “Alpes” Milano 1927, dal 30 gennaio 1932: «Ma oggi sono troppo
stanco. E quante, / quante stelle stasera!», in ivi, p. 41. Il libro di de Michelis deve essere stato
una lettura e una scoperta tanto attesa, se nella prima lettera che scrive a Gadenz paragona la
gioia di averlo conosciuto a quella di aver ritrovato questo amato libro: «Lei non sa, Tullio, Lei
forse non saprà mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato, la “scoperta” meravigliosa di
Lei. Io mi rammento ancora del giorno in cui trovai, su un banco di vecchi libri, le poesie di
Eurialo De Michelis: era un po’ una mattina come questa, tutta d’azzurro pallido, con un sole
mite; e tutta d’azzurro mi sentivo l’anima, ritornando con il libro amato; strani ricordi di scuola
mi affioravano alla mente: dei vecchi umanisti che, nelle biblioteche dei conventi, scovavano gli
antichi testi e poi, agli amici, scrivevano: “Fratello dilettissimo, ieri m’avvenne di ritrovare…”
e della loro ricerca nutrivano la vita. Tanto più grande di quella è la mia gioia d’oggi: perché il
libro più bello del mondo finisce e dopo l’ultima pagina non si può chiedere che altre ne vengano
aggiunte; ma il libro vivo di un’anima non finisce mai.», in POZZI, Ti scrivo…, pp. 155-156.
190
Il segnalibro è posto sulla lirica A Gino Calza, in CORAZZINI, Poesie…, pp. 127-128.
Contrassegna per interno la poesia Dopo: «Il passo degli umani / è simile a un cadere / di foglie…
Oh! Primavere / di giardini lontani! // Sanità delle sere / che non hanno domani: / congiungiamo
le mani / per le nostre preghiere. // Chiudi tutte le porte. / Noi veglieremo fino / all’alba originale,
// fino a che un immortale / stella segni il cammino, / novizii, oltre la Morte! //», in ivi, p. 132.
191
Segnata per intero: «Noi sedemmo sull'orlo / della fontana nella vigna d'oro. / Sedemmo
lacrimosi in silenzio. / Le palpebre della mia dolce amica / si gonfiavano dietro le lagrime / come
due vele / dietro una leggera brezza marina. // Il nostro dolore non era dolore d'amore / né dolore
di nostalgia / né dolore carnale. / Noi morivamo tutti i giorni / cercando una causa divina / il mio
dolce bene ed io. // Ma quel giorno già vanía / e la causa della nostra morte / non era stata
rinvenuta. // E calò la sera su la vigna d'oro / e tanto essa era oscura / che alle nostre anime
apparve / una nevicata di stelle. // Assaporammo tutta la notte / i meravigliosi grappoli. /
Bevemmo l'acqua d'oro, / e l'alba ci trovò seduti / sull'orlo della fontana / nella vigna non più
d'oro. // O dolce mio amore, / confessa al viandante / che non abbiamo saputo morire / negandoci
il frutto saporoso / e l'acqua d'oro, come la luna. / E aggiungi che non morremo più / e che
andremo per la vita / errando per sempre.». In ivi, p. 159-160.
192
La Pozzi sottolinea addirittura due volte alcuni versi, che metterò in corsivo, dalla poesia
Rime del cuore morto di Corazzini ove il poeta paragona il suo cuore morto a quello martirizzato
di Cristo: «O piccolo cuor mio, tu fosti immenso / come il cuore di Cristo, ora sei morto; /
t’accoglie non so più qual triste orto / odorato di mammole e d’incenso. // Uomini, io venni al
mondo per amare / e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti / vostri e ho cantato tutti i vostri canti!
/ Io fui lo specchio immenso come il mare. // Ma l’amor onde il cuor morto si gela, / fu vano e
ignoto sempre, ignoto e vano! / Come un’antenna fu il mio cuore umano, / antenna che non seppe
mai la vela. // Fu come un sole immenso, senza cielo / e senza terra e senza mare, acceso / solo
per sé, solo per sé sospeso / nello spazio. Bruciava e parve gelo. // Fu come una pupilla aperta e
pure / velata da una palpebra latente; / fu come un’ostia enorme, incandescente, / alta nei cieli

225
sorelle193 alle cose – a radicare profondamente l’attenzione della poetessa per la

poesia crepuscolare. Non ritrovo quell’ironia mista ad un senso degradante di

desolazione dell’umano, incapace di conciliare sensibilità empatica e duraturi

sentimenti che Gozzano espone – quasi alienato da se stesso – ne Un rimorso.

L’autore torinese potrebbe interessarla per la sua vena ironica e talvolta

dissacrante, per la sua schietta ambivalenza in reazione a certi

sentimentalismi194, forse anche per il suo rapporto con la Musa, al contempo

fra due dita pure, // ostia che si spezzò prima d’avere / tocche le labbra del sacrificante, / ostia le
cui piccole parti infrante / non trovarono un cuore ove giacere.». In ivi, p. 70. I continui paragoni
non servono a dare uno statuto di senso all’immensità dell’amore provato da questo cuore e
costantemente disillusa: la sconfitta e la morte sono date proprio forse dal non aver potuto trovare
la rotta da dare alla vela.
193
Si veda la poesia Invito, dove l’anima è chiamata più volte e di per sé, sorella: «Anima pura
come un’alba pura, / anima triste per i suoi destini, / anima prigioniera nei confini / come una
bara nella sepoltura, // anima, dolce buona creatura, / rassegnata nei tristi occhi divini, / non più
rifioriranno i tuoi giardini / in questa vana primavera oscura. // Luce degli occhi, cuore del mio
cuore, / tenerezza, sorella nel dolore, / rondine affranta nel mio stesso cielo, // giglio fiorito a
pena su lo stelo / e morto, vieni, ho spasimato anch’io, / vieni, sorella, il tuo martirio è il mio.».
In ivi, p. 69. L’immagine delle anime sorelle nel dolore ritorna nel Sonetto dedicato a Suor Maria
Gesù, tratto da Le aureole del 1905: «Sorella, dolce riguardare il chiostro / che le vestite d’umiltà
rinchiude, / oggi che aprile giovinetto illude / soavemente ogni martirio nostro! // E caro m’è
pensar dov’io mi prostro / Gesù trafitto per le membra ignude / e ancor vorrei pellegrinare in
rude / saio e domar mie carni a più d’un rostro. // Vorrei morirmi di melanconia, / vedovo di un
desiderio, solo, / con l’altissimo sogno che mi tiene, // e le anime, sorelle in questa mia / doglia
infinita di levarmi a volo, / dissetare col sangue delle vene.», in ivi, p. 101. Questa poesia può
essere testimonianza anche del senso religioso di cui ho specificato i termini nella nota
precedente.
194
Del 7 luglio 1938 è il suo riferimento a La signorina Felicita ovvero la Felicità di Guido
Gozzano, inserito in una lettera scritta ad Alba Binda da Pasturo: «Perché fai la Signorina Felicita
così? Cosa parli di vecchie cinture, di zuccherini della zia Federica, di giovinezza tramontata?
Madre santa, a guardarti non ti si danno vent’anni e ti riempi di crepuscolerie… proprio tu, così
bionda, così solare, con quei dentoni bianchi che ridono. […] Ma non devi, assolutamente,
pensare che sei vecchia. Abbiamo la stessa età, pensa! E cerca di ricordare in quali abissi di
pessimismo e di debolezza mi son trovata io! Comunque vada “la solita storia” (oh, Alba, tu sai
che in cose di questo genere nessuno è in grado di dar consigli agli altri, e nessuno neanche li
chiede, i consigli!) cerca di conservare una tua serenità, ma non di reazione, non di
mortificazione, non da Signorina Felicita!». POZZI, Ti scrivo…, pp. 296-298. Il componimento
di Gozzano ritrae impietosamente un’innamorata di campagna, con paragoni veramente prosaici,
da cui però sembra essere genuinamente attratto: «Sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue
vesti quasi campagnole, / ma la tua faccia buona e casalinga, / ma i bei capelli di color di sole, /
attorti in minutissime trecciuole, / ti fanno un tipo di beltà fiamminga.... // E rivedo la tua bocca
vermiglia / così larga nel ridere e nel bere, / e il volto quadro, senza sopracciglia, / tutto sparso
d’efelidi leggiere / e gli occhi fermi, l’iridi sincere / azzurre d’un azzurro di stoviglia… // Tu
m’hai amato. Nei begli occhi fermi / rideva una blandizie femminina. / Tu civettavi con sottili
schermi, / tu volevi piacermi, Signorina: / e più d’ogni conquista cittadina / mi lusingò quel tuo

226
protettivo e come esternalizzato195, ma non credo sia il caso di Largo.

L’affinità fra la Pozzi e Corazzini si può intravedere anche leggendo parte

dell’epistolario del poeta romano, e particolarmente una lettera scritta da Nocera,

21 agosto 1905, all’amico Antonello Caprino:

«Tutta la dolce, rassegnata tristezza della mia vita è in un pensiero di morte. La


dedizione del mio corpo al Nulla o al Tutto, secondo l'ora che passa, si intensifica in un desiderio
così folle e così enorme come se nella cessazione della mia esistenza io intravedessi ciò che tiene
gli occhi del prigioniero, rimasto per un caso, privo di sorveglianza. E questa voglia di morire è,
talvolta, dolce come il bacio dell'amata, come il primo bacio. È una dolcezza nova che tu, forse,
hai provato, che, senza dubbio, proverai, mio povero Antonello, se continuerai a volermi bene.
Io mi sento, allora, grande, o più che grande, vecchio e tenero come un nonno. L'atto sublime di
Cristo è crocifisso nell'anima mia come il sorriso lo era sulle labbra di quella piccola suora
malata, evocata da Matilde Serao in Fantasia. E mi sento buono follemente, poiché la Morte è
un'amante pura come la libertà, direbbe Enjolras. E veramente, Libertà e Morte: quale più grande
significazione dell'Ideale? Vedi, allora che io mi sento forte e sano, - in campagna ciò mi avviene

voler piacermi!», in GOZZANO, I colloqui in Tutte le poesie, pp. 170-171. L’ironia risalta
soprattutto se si paragonano – come lo stile allusivo del Gozzano porta talvolta a fare – questi
versi a quelli che un Leopardi dedica A Silvia o in generale ai suoi amori disattesi.
195
Cfr. l’ultima poesia de I colloqui, omonima, di cui la Pozzi sottolinea i versi finali, in
GOZZANO, I colloqui in Tutte le poesie, pp. 217-218. Gozzano, infine, soppesa e valuta il suo
lavoro poetico, strizzando l’occhio ai grandi della letteratura italiana e paragonando ad essi – fra
il deluso e l’orgoglioso – il lavoro dei suoi primi vent’anni, giungendo alla conclusione che forse
sarebbe meglio tacere: «I. // “I colloqui” ... Rifatto agile e sano / aduna i versi, rimaneggia, lima,
/ bilancia il manoscritto nella mano. // – Pochi giochi di sillaba e di rima: / questo rimane dell’età
fugace? / È tutta qui la giovinezza prima? // Meglio tacere, dileguare in pace / or che fiorito
ancora è il mio giardino, / or che non punta ancora invidia tace. // Meglio sostare a mezzo del
cammino, / or che il mondo alla mia Musa maldestra, / quasi a mima che canta il suo mattino, //
soccorrevole ancor porge la destra. // II. // Ma la mia Musa non sarà l’attrice / annosa che si
trucca e pargoleggia, / e la folla deride l’infelice; // giovine tacerà nella sua reggia, / come quella
Contessa Castiglione / bellissima, di cui si favoleggia. // Allo sfiorire della sua stagione, /
disparve al mondo, sigillò le porte / della dimora, e ne restò prigione. // Sola col Tempo, tra le
stoffe smorte, / attese gli anni, senz’amici, senza / specchi, celando al Popolo, alla Corte // l’onta
suprema della decadenza. // III. // L’immagine di me voglio che sia / sempre ventenne, come in
un ritratto; / amici miei, non mi vedrete in via, // curvo dagli anni, tremulo e disfatto! / Col mio
silenzio resterò l’amico / che vi fu caro, un poco mentecatto; // il fanciullo sarò tenero e antico /
che sospirava al raggio delle stelle, / che meditava Arturo e Federico, // ma lasciava la pagina
ribelle / per seppellir le rondini insepolte, / per dare un’erba alle zampine delle // disperate
cetonie capovolte…». È soprattutto nella chiusa del terzo movimento che si rivede Antonia, che,
pur meditando sulla grandezza delle cose, preferiva ancora di più ripristinare con gesti pietosi
nei confronti della natura, la tacita armonia delle cose. Anche il silenzio del poeta che si vuole
ritirare a venticinque anni per lasciare agli amici solo l’immagine dell’amico, il ricordo delle sue
fanciullerie da mentecatto, è assimilabile al linguaggio che Antonia usa per descrivere i suoi
versi e il suo atteggiamento ingenuo nei confronti del sogno della vita, che è poi sogno di poesia.
Cfr. ad esempio i vaneggiamenti importuni di Ultimo crepuscolo in POZZI, Parole, p. 92; il titolo
stesso della poesia Bambinerie in tinta chiara, in ivi, pp. 60-61; la visione di se stessa in Cadenza
esasperata: «una bambina che bamboleggerà sempre», in ivi, p. 49.

227
spesso - provo disgusto di me medesimo e voglia intensa di piangere. Può essere ridicolo, ma è
così dolce! E quando ho pianto, la lenta malattia delle lacrime mi penetra tutto, stilla sull'anima
mia, simile a rugiada malata sopra una corolla disfatta, e la grande, l'usata tristezza mi ha
nuovamente. La mia vita sarà senza dubbio di assai breve durata e me ne andrò, forse un giorno,
il giorno in cui un incidente fatuo, in apparenza, determinerà per sempre, la grande risoluzione.
Quanti suicidi avvengono per una frase udita passando vicino a due esseri ebri di gioia di vivere,
o scorgendo le porte illuminate di un teatro o leggendo un libro! Dove più ferve la vita, è la
Morte. E che cosa è la vita – Claudio Larcher mi perdoni – se non il perché della Morte! L'uomo
deve morire. Ora, per morire bisogna pur che viva. Ma tu scuoti la testa e il tuo occhio vivo e
buono vede ben altre imagini di gioia, la tua anima freme per un sogno puro e sano di vita e,
forse, ti senti in cuore una grande, un’immensa pietà, la pietà che può destare un malato
inguaribile, il tuo Sergio che ti abbraccia teneramente.».196

Come ho sottolineato più volte, la Pozzi è ambivalente rispetto ai suoi sentimenti

e alla sua poesia: si può dire che rispetto a questo scritto di Corazzini, si

troverebbero frammenti delle lettere di Antonia che rispecchiano in toto sia

l’atteggiamento malinconico-simbolista, affascinato dalla morte «[…] Né per

amarezza io ricordo la morte, ma forse per una maggiore serenità che invade da

tempo i miei pensieri, che accomuna in una sola bellezza la luce del giorno e

l’azzurro della notte […]»197, sia l’atteggiamento opposto e vitalista attribuito

all’amico Antonello Caprino: «[…] ho guardato l’ansito del faro, che anela

sempre al largo: mi sono detta che è sciocco voler restare nell’ombra quando

sappiamo che la luce è più in là. Io vincerò gli ostacoli […] studierò, studierò

tanto, per crearmi un pensiero e una fede. Oggi il cammino non mi fa paura

[…].»198. È indubbio però che la malinconia di fondo e un’attenzione per il

manifestarsi di un patetico mistero nel corpo delle cose (nelle quali fin dall’inizio

di questo scritto insisto nell’individuare anche gli elementi e gli ambienti della

196
La lettera è tratta dall’appendice alla tesi di Anna Galetti, Sergio Corazzini e il suo cenacolo
romano, pp. 115-116.
197
POZZI, Ti scrivo…, p. 103. Si tratta di un frammento di lettera ad Antonio Maria Cervi, datato
11 maggio 1931.
198
Ivi, p. 89. Frammento del 16 giugno 1929.

228
natura) siano la base che rende sorelle le anime dei due poeti. Riporto per intero

i due testi citati come fonte per Largo e che mi sembrano il miglior punto di

partenza per interpretare la dinamica analogica della relazione Pozzi-Corazzini:

Soliloquio delle cose199 Desolazione del povero poeta sentimentale 200

...Je crois que nous sommes à l'ombre.201 I


Maeterlinck
Perché tu mi dici: poeta?
Les choses ont leur terrible «non Io non sono un poeta.
possumus»202 Hugo Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Dicono le povere piccole cose: Oh Perché tu mi dici: poeta?
soffochiamo d'ombra! Il nostro amico se
ne è andato da troppo tempo: non tornerà II
più. Chiuse la finestra, la porta; il suo
passo cadde nel silenzio del lungo Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
corridoio in cui non s'accoglie mai sole, Le mie gioie furono semplici,
come nel vano delle campane immote, semplici così, che se io dovessi confessarle a te
poi la solitudine stese il suo tappeto arrossirei.]
verde e tutto finì. Oggi io penso a morire.
Qualche cosa in noi si schianta,
qualche cosa che il nostro amico direbbe: III
cuore. Siamo delle vecchie vergini,
chiuse nell'ombra come nella bara. E Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
abbiamo i fiori. Egli avanti di andarsene, solamente perché i grandi angioli
per sempre, lasciò sul suo piccolo letto su le vetrate delle catedrali
nero delle violette agonizzanti. mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
Disperatamente ci penetrò quel sottile solamente perché, io sono, oramai,
alito e ci pensammo in una esile tomba di rassegnato come uno specchio,
giovinetta, morta di amoroso segreto. come un povero specchio melanconico.
Oh! come fu triste la perdita cotidiana
del povero profumo! E se ne andò come Vedi che io non sono un poeta:
lui, con lui, per sempre. Noi non siamo sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
che cose in una cosa: imagine

199
CORAZZINI, Poesie…, pp. 109-111.
200
Ivi, pp. 117-119.
201
«…Credo che siamo all'ombra». La citazione è tratta dall’opera teatrale I ciechi di Maurice
Polydore Marie Bernard Maeterlinck (1862-1949) poeta, drammaturgo e saggista belga,
vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1911.
202
«Le cose hanno il loro terribile “non possiamo”», Victor Hugo. La citazione latina è ripresa
da una lunga tradizione nella storia della Chiesa che la proclama in opposizione a chi tenti di
ledere il maggior potere dell’autorità divina. La prima volta fu pronunciata dagli apostoli Pietro
e Giovanni in risposta a chi chiedeva loro di non predicare il Vangelo subito dopo la morte di
Cristo: “noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato (Atti 4,20)”; nella
modernità, fu usata da Papa Pio VII per respingere la richiesta, perpetrata da Napoleone nel 1809,
di cedere i territori dello Stato Pontificio: “Non debemus, non possumus, non volumus” (non
dobbiamo, non possiamo, non vogliamo); poi fu di la volta di Papa Pio IX, che la usò per non
avviare un dialogo con il Regno d’Italia in merito alla questione romana.

229
terribilmente perfetta del Nulla. IV
Qualche volta le campane della
piccola parrocchia suonano a morto. Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
Tutto ciò sarebbe tristissimo per noi, E non domandarmi;
povere piccole cose sole, se egli fosse io non saprei dirti che parole così vane,
qui. Ma è lontano e le campane non Dio mio, così vane,
tarlano il silenzio per lui, povero caro. che mi verrebbe di piangere come se fossi per
Un tempo lo vedemmo e l'udimmo morire.]
piangere senza fine: volevamo Le mie lagrime avrebbero l’aria
consolarlo, allora, e mai ci sentimmo di sgranare un rosario di tristezza
così spaventosamente crocefisse. Oggi, davanti alla mia anima sette volte dolente
oh, oggi è un'altra cosa: dove piange? ma io non sarei un poeta;
perché piange? sarei, semplicemente, un dolce e pensoso
Allora lacrimò desolatamente fanciullo]
perché una sua piccola e bianca sorella cui avvenisse di pregare, così, come canta e come
non veniva, a sera, come per il passato, a dorme.]
farlo men solo... o più solo. Così egli le
diceva mentre l'abbracciava. E V
soggiungeva: «Noi ricordiamo e nulla
come il ricordo è simbolo di solitudine e Io mi comunico del silenzio, cotidianamente,
di morte». Rievocavano molte liete come di Gesù.]
fortune e molte tristi vicende, anche, ma E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
non troppo di queste si amareggiavano. poi che senza di essi io non avrei cercato e
Una sera il nostro amico attese trovato il Dio.]
inutilmente. Attese fino all'ora delle
prime rondini e delle ultime stelle... Oh, VI
egli ci voleva bene: qualche volta ci
parlava a lungo, come in sogno. In sogno Questa notte ho dormito con le mani in croce.
parlava. Avanti di dormire, accendeva un Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
piccolo lume giallo, sospeso al muro. dimenticato da tutti gli umani,
Forse aveva paura. È una così dolce povera tenera preda del primo venuto;
cosa, la paura, appunto perché è dei e desiderai di essere venduto,
fanciulli! di essere battuto
Noi non dormiamo; noi siamo le di essere costretto a digiunare
eterne ascoltatrici, noi siamo il silenzio per potermi mettere a piangere tutto solo,
che vede e che ascolta: il visibile disperatamente triste,
silenzio. in un angolo oscuro.
La casa dev'essere molto vasta.
Udiamo a tratti delle voci lontanissime e VII
che pensiamo non vengano dalla piccola
piazza. Oh, la finestra, se si spalancasse e Io amo la vita semplice delle cose.
facesse entrare un poco di sole, un poco Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
di vento! oh, nulla è simile al cuore per ogni cosa che se ne andava!
perduto come il sole che vuole entrare, e Ma tu non mi comprendi e sorridi.
tutti i giorni domanda e tutte le sere, E pensi che io sia malato.
triste e bianco, smuore di rinunzia. Un
convento, una chiesa, un lungo muro VIII
basso, interrotto da due piccole porte, la
cui soglia allora era sempre verde. La Oh, io sono, veramente malato!
neve restava intatta, davanti a quel muro, E muoio, un poco, ogni giorno.
un tempo interminabile. Il nostro amico Vedi: come le cose.
diceva che una porta chiusa è figurazione Non sono, dunque, un poeta:
di gran gioia. Noi siamo semplici, non io so che per esser detto: poeta, conviene
abbiamo mai comprese queste parole, viver ben altra vita!
sarà, forse, perché siamo così sole e così Io non so, Dio mio, che morire.

230
sconsolate, da tanti anni, in questa Amen.
camera chiusa!
Oh, gli occhi aperti
smisuratamente nell'ombra terribile, sono
così simili a noi! Sanno vedere ma non
possono vedere.
Per quanto ci disfaceremo nel buio
come le stelle dietro le nuvole? Per
quanto la nostra cecità apparente, ci
vieterà il sole, o, forse anche, un poco di
dolce luna?
Come tante piccole monache in
clausura, noi, povere cose, viviamo e
morremo. Pietà! Pietà!
Quante rughe ci solcano! Siamo
vecchie, oh così vecchie da temere la
fine improvvisa. E la polvere che noi
pensavamo cipria, ci seppellisce
cotidianamente come un becchino troppo
scrupoloso.
Come ci carezzavano le tende,
piene di vento a primavera! Ella doveva
carezzare così il nostro amico, doveva
farlo morire di spasimo, così. Ora,
anch'esse, come le vele di una decrepita
barca inservibile, chiusa nel vano di un
piccolo porto solitario e triste, pendono
flosce e vecchie: oggi una loro carezza ci
farebbe pensare alle mani di un
agonizzante.
Un passo. Una mano tenta la
chiave... oh, non spasimiamo: è un
bambino, è il solito bambino di tutti i
giorni, che passa lungo il corridoio per
andare chi sa dove; non spasimiamo, è
inutile.

Antonia sembra portare fino in fondo il Soliloquio delle cose, immedesimandosi

in esse e crudelmente dando loro un epilogo, in forma di risposta: “se lui non

viene, significa che non siete di nessuno”. E così anche lei, priva del corpo del

suo amore che potrebbe farla vivere, diventa una cosa di nessuno, a cui non val

la pena chiedere quali siano i suoi desideri, né domandare quale sia la sua fede:

agli articolati ma non molto dialettici – nel senso della ricerca di connessione e

231
comunicazione con un-altro-da-sé inconoscibile – Colloqui di Gozzano203

(malgrado gli intenti che il titolo potrebbe suggerire), Corazzini e Pozzi

203
L’intento di Gozzano infatti non è cercare il dialogo diretto con il lettore, e nemmeno esporre,
se non come spunto narrativo, dei dialoghi fra personaggi: questi ultimi infatti non canalizzano
l’attenzione in merito al senso poetico da attribuire al titolo della raccolta. La ragione del termine
colloqui è tutt’altra. In questa prospettiva si legga la nota critica ai testi dell’edizione Mondadori,
oltre all’introduzione di Marziano Guglielminetti, da cui si evince che il lavoro su I colloqui è
improntato ad un dialogo con i massimi modelli poetici della letteratura italiana e ad un
superamento sia degli stessi, che delle vicende quotidiane del Gozzano attraverso il filtro e il
canale della poesia: «Non per nulla Gozzano ha praticato largamente in questo periodo un
esercizio di catarsi del linguaggio poetico personale, che ha lasciato qualche eco in zone ben note
della sua opera: l’esercizio di raccogliere in quaderni ad uso personale versi di Dante, di Petrarca
e anche di moderni (Jammes, Rodenbach, ecc.), talora inserendovi qualche timida variazione in
proprio. Se si conosce la sua naturale tendenza ad esprimersi utilizzando punti d’appoggio
preesistenti e ben visibili, simile tecnica di accaparramento non può essere scambiata per un
modo antico e sorpassato di comporre. Poiché, occorre dirlo subito a scanso di equivoci, non è
certo della citazione più o meno illustre e nobilitante di cui Gozzano va in cerca durante questo
lavoro, ma piuttosto della soluzione linguistica che egli sente catturabile e inseribile nel proprio
sistema espressivo. Lo scopo, ha detto Montale, è da ricercarsi nella volontà di raggiungere
quell’“urto, o choc, di una materia psicologicamente povera, frusta, apparentemente adatta ai
soli toni minori, con una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé”.
L’operazione coinvolge specialmente I colloqui […]». Addentrandosi nell’analisi di quest’opera,
sempre il Guglielminetti riafferma come tesi quasi indiscutibile che: «dietro il disegno dei
Colloqui ci sta l’ambizione, più o meno segreta, di riportare a vita l’autoritratto di sé promosso
dalle Rime di Petrarca, dai Canti di Leopardi […]; tanto più che è cura di Gozzano condurre i
nomi di questi poeti alla memoria del lettore. Illuminante, in questo senso, è la prima sezione dei
Colloqui: fin dal titolo Il giovenile errore, che si pone volutamente sotto l’egida petrarchesca.
[…] E poiché, stando alla dichiarazione introduttiva, il protagonista non sarebbe affatto l’autore,
ma un suo “fratello muto”, “spettro ideale” di lui, abbiamo persino fornita la giustificazione del
perché questo “alter ego” del poeta assuma modi della tradizione lirica più illustre. Avendogli
Gozzano assegnato la voce e la vita dell’amante presto disilluso e progressivamente inariditosi
nel suo impulso erotico, Petrarca e Leopardi, che di questa tradizione sono gli esponenti più
prestigiosi, diventano necessari punti di riferimento. Ma civettare con la loro poesia, per
coglierne intere frasi, non comporta la rinuncia a motivare la propria scelta in senso provocatorio.
[…]; sicché l’ossequio verso i due capostipiti della poesia d’amore finisce per rivelarsi
abbastanza funzionale a quella ricerca dell’“urto, o dello choc” individuata da Montale.». In,
GOZZANO, Tutte le poesie, pp. XXII-XXIII e XXVI-XXVII. L’atteggiamento dialogico di
Gozzano è di ambivalenza, dunque, per confrontarsi e smarcarsi, per denunciare la sonnolenza
borghese e trovare una via letteraria alternativa, ma soprattutto per tamponare lo iato fra Arte e
Vita che tanto lederà ai poeti di quella generazione e alla stessa Pozzi. Si veda più avanti nelle
note critiche a I colloqui la specifica di Andrea Rocca: «Per circa tre anni (dall’estate 1907
all’autunno 1910) Gozzano attese alla composizione della raccolta “maggiore”. Tre anni quasi
ininterrottamente vissuti in terapeutico isolamento, e per ciò assoggettati alla dimensione
dell’Opera: come sembra avvertire […] la specificità della scrittura epistolare. Referto di un
produttivo egotismo […] le lettere alla Guglielminetti, al Vallini e al De Frenzi non si limitano
infatti a registrare le confessioni dell’“esule” sul lavoro poetico in cantiere […] ma permettono
altresì di cogliere il sorprendente processo di osmosi per effetto del quale ogni occasione
biografica vi è condotta a trascendere il piano del vissuto, istituendosi, oltre che come parola
avente corso nella realtà, quale momento di una dialettica autocomprensiva intesa a riscattare in
toto la convenzionalità dell’“evento”: quindi tendenzialmente a risolvere […] l’inautenticità
della Vita nella menzogna riflessa della Letteratura.», in ivi, pp. 660-661.

232
oppongono idealmente dei Soliloqui che in realtà cercano profondamente l’altro,

pur negandone in apparenza l’esistenza. Anzi è proprio per questo statuto del

discorso, improntato sulla preterizione e sulla negazione reiterata, che infine, a

furia di farsi preghiera-litania, si concreta l’ultima luce, arriva il momento del

morire (fosse anche solo quello dello scritto nero sul bianco della pagina).

La ricerca della Pozzi, le ripetizioni che chiedono di non chiedere – nella seconda

strofa di Largo – lo statuto della sua persona e dei suoi desideri, velano, lettura

dopo lettura del testo, l’ipotesi che in realtà la poetessa sia sfinita

dall’indifferenza e dall’assordante silenzio attorno a lei, dentro di lei, e che

sarebbe così dolce abbandonarsi a una risposta definitiva204. La folla è vuoto, ma

è anche il voi (riferimento plurale raro per la Pozzi a cui è molto più funzionale

il tu) di chi forse le è intorno e non arriva a comprendere che in quello stesso

vuoto (o forse in un altro che in quello si specchia, più denso e più profondo)

vivono i suoi fantasmi inconoscibili, maschere dei corpi muti che condividono

la sua realtà quotidiana ma non riescono a sfiorarla, a comprenderla. Domande

che non hanno risposta e che dopo tanta speculazione si sublimano nella

concretezza della porta di una chiesa, che la illumina, le dà energia per l’azione.

Allora in quel momento mi è più facile credere alle sue richieste, al suo negarsi

nella pace appena empiricamente ritrovata, una pace che non ha parole di

preghiera se non quelle abbozzate per delineare il silenzio della tregua in cui

204
Si confronti la lontananza che vige ormai dal tono scanzonato (seppur per posa) di un Cervi
che in Venerdì Santo recita più volte: «Di quello che ho in me stesso, non me ne domandate: / a
che dirlo? Dopo tutto, non mi potreste capire. / Da queste mie risatine contentatevi di intuire /
quanto la vostra e la mia anima siano in fondo diversificate…», in CERVI, Le cadenze…, pp. 82
e 84.

233
parlano le cose sorelle. Adesso essere una cosa di nessuno non è più sinonimo

di perdita, d’ombra che si aggiunge all’ombra, con gli occhi rovesciati dalla

morte quasi per disperazione di una risposta alternativa: ora la morte sembra

essere scelta consapevole, destino condiviso nella pace delle cose che si lasciano

usare, che si fanno strumento di un destino più grande. La poesia sembra

ripercorrere le parole di Gesù nel Vangelo: «Perché chi vorrà salvare la propria

vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.»205. Se

all’inizio della poesia l’essere cosa di nessuno faceva risentire dei toni elegiaci

del Corazzini, alla fine è la ritrovata pace nel Dio personale e misterioso della

poetessa a sciogliere il senso di questo farsi cosa di nessuno, un’estrema

disponibilità che non inquieta e non preoccupa, ma che sembra la prefigurazione

di un risveglio dello spirito: un senso dell’essere cosa immersa nel cammino per

le vecchie vie del suo mondo, cantandolo. Anche la direzione di quegli occhi /

due coppe alzate / verso l’ultima luce – lascia presagire un differente movimento,

che seppure chiude il cerchio iniziale, sembra già intravedere nuove risposte

ricche di speranza. Quanto meno, la morte è una speranza: il momento della fine

è alluso come il tempo della liberazione, della cessazione delle richieste, delle

205
Mt. 16, 25. Riporto un frammento più completo del passo del Vangelo: «24 Allora Gesù disse
ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e
mi segua. 25 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita
per causa mia, la troverà. 26 Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero,
e poi perderà la propria anima? O che cosa l'uomo potrà dare in cambio della propria anima? 27
Poiché il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno
secondo le sue azioni. […]”». Antonia Pozzi cita queste parole nel terzo capitolo della sua tesi,
in merito alla svolta estetica definitiva del “suo” autore, Flaubert: «Ecco a che cosa lo porta
quella decisa, intransigente rinuncia all’espansione immediata della propria personalità in arte:
lo porta alla scoperta della propria vera personalità, salvata e convalidata in un mondo che non
è più rifugio per gli abbandoni lirici, ma cantiere per la fatica attiva. “Chi perderà l’anima sua
per me, la ritroverà”.», in POZZI, Flaubert. La formazione…, p. 280.

234
parole vane, dove è solo il silenzio a dettare il largo cantare delle cose sorelle.

Più avanti, verso la fine della parabola amorosa con Cervi, Antonia scriverà al

professore:

«Antonello, mio cuore, questo volevo dirti: che io rimango qui, vedi, dove tu mi lasci.
Noi non sappiamo le vie di Dio, Antonello.
E se Dio un giorno volesse, per impreviste strade, richiamarci l’una all’altro: ebbene,
Nello, io sarò ancora qui, dove mi hai lasciato: qui potrai ritrovarmi sempre; te lo giuro.
Ed anche questo volevo dirti: che se un giorno sentirai parlare di me e di qualchecosa
di mio ( se il Signore mi darà la mente e la forza di dar vita ai miei fantasmi), tu dovrai sapere e
sentire che tutto sarà nato per te, per amore di te, della tua scuola, della tua anima benedetta e
tutto sarà tuo, anche se non porterà, sulla prima pagina, il tuo nome.» 206.

Vi è ribadito dunque il ruolo e il potere del Signore nel mantenere ferma la mente

di Antonia nell’atto di dare un corpo, una forma poetica, ai suoi fantasmi. Il suo

stesso essere oggetto, una cosa di nessuno, diventa «piuttosto che un simbolo,

un riflesso significante ed occulto della nostra esistenza»207. Sono le parole che

il critico Luigi Baldacci indirizza alla poesia di Corazzini, in contrapposizione

al Gozzano che Montale definisce l’‘ultimo dei classici’:

«[…] quando si considerino le possibilità di fondo, bisogna concludere che c’è maggior
apertura in Corazzini che in Gozzano e che manca pochissimo perché l’oggetto diventi, in
Corazzini, piuttosto che un simbolo, un riflesso significante ed occulto della nostra esistenza.
Nel crepuscolarismo di Corazzini c’è soprattutto una tale capacità di ritrovare e ristabilire il
silenzio interiore, senza civetterie e senza lenocini, che lo stesso silenzio, la stessa rinuncia alla
forma che sono caratteristici del primo Ungaretti, faranno pensare per analogia – non per
derivazione diretta – alla rinuncia di Corazzini.»208.

Il curatore della raccolta di Corazzini per Einaudi, Stefano Jacomuzzi, aggiunge

206
Lettera scritta da Milano, l’8 maggio 1933 alle ore 16, in POZZI, Ti scrivo…, p. 169.
207
L’affermazione si trova nella nota n° 2 scritta da Stefano Jacomuzzi, curatore della raccolta
di CORAZZINI, Poesie…, p. 29.
208
Ivi, pp. 29-30.

235
a questa nota del Baldacci alcune considerazioni personali proprio in merito allo

statuto ontologico del poeta:

«Aggiungerò che la protesta di Corazzini: “Io non sono un poeta. / Io non sono che un
piccolo fanciullo che piange. /…/ io so che per esser detto: poeta, conviene / vivere ben altra
vita! / Io non so, Dio mio, che morire” ha ben poco da spartire con quelle apparentemente
analogiche di Gozzano (“…Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!”) o di Moretti
(“Aver qualche cosa da dire / nel mondo a se stessi, alla gente! / Che cosa? Io non so veramente
/ perché…non ho nulla da dire”; oppure: “Il poeta che si mostra / su un cavallo della giostra /
sembra il pagliaccio che egli è”), o di Palazzeschi con il notissimo “Son forse un poeta? / No
certo / … / Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia”; e neppure di Jammes (“Penser cela, est-
ce être poète? / Je ne sais pas. Qu’est-ce que je sais? / Est-ce que je vis? Est-ce que je réve?”): la
rinuncia di Corazzini assume, nei confronti, il valore di una denuncia più matura, di un’offerta
stoica di silenzio per una nuova dignità di vita e di parola ed è molto più vicina all’affermante
grido ungarettiano: “Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni”»209.

Ed è proprio sulla via del superamento dannunziano attraverso il crepuscolare

Corazzini che credo si intessa il percorso poetico della Pozzi, seppur per breve

tempo e per guardare poi oltralpe (ai decadenti francesi e non solo), dove lo

stesso poeta romano ha attinto alcuni temi e preso le mosse dai primi maestri. Il

Jammes citato da Jacomuzzi è infatti il poeta francese, Francis Jammes, che,

insieme ai connazionali, Albert Samain (1858-1900) e Charles Guérin (1873-

1907) e ai belgi Georges Rodenbach (1855-1898), Maurice Maeterlinck (1862-

1949) sono indicati dal critico come «la schiera dei poeti francesi della

generazione immediatamente seguente ai grandi simbolisti, i quali, almeno

inizialmente, assunsero statura di ‘maestri’ agli occhi di Corazzini»210. Ad essi

vanno aggiunti per dovere di completezza, sicuramente Jules Laforgue (1860211-

1870), e poi molto probabilmente anche Tristan Klingsor (1874-1966) ed

209
Ivi, p. 30.
210
Ivi, p. 10.
211
Nato a Montevideo, in Uruguay, nel 1860 ma trasferitosi con la famiglia già nel 1866 in
Francia.

236
Édouard Dubus (1864-1895)212. E di questi maestri ne avrà sicura conoscenza la

stessa Pozzi, se ancora ne condividerà, all’altezza del 28 ottobre 1933, le

atmosfere con Gadenz (ben più crepuscolare di lei), e si rammaricherà per un

volume del Rodenbach andato presumibilmente213 perduto dall’amico trentino:

«Caro, caro Tullio: bisogna proprio che Lei venga ancora. Vorrei – non so –

darLe qualchecosa che sostituisse Bruges – la Morte perduta: vorrei che lei

scrivesse tante e tante note nuove e che da ciascuna nascesse una nuova

poesia.»214. L’opera a cui la Pozzi si riferisce è la più famosa dello scrittore

belga, e uscì a puntate su Le Figarò fra il 4 e il 14 febbraio del 1892, mentre

tradotto in Italia nel 1907. Pietra miliare della via crucis dell’anima decadente,

l’opera si conferma modello indiscusso della volontà d’acquietamento

crepuscolare anche per il Corazzini:

«Le manifestazioni esterne della religiosità, attinte alla liturgia decadente fiamminga,
fissata soprattutto da Rodenbach in Bruges-la-Morte (i conventi, le suore, le beghine, le chiese,
le processioni, le cerimonie, gli oggetti del culto) sono un’ulteriore manifestazione della volontà
d’acquietamento nell’immobilità di un rituale ripetuto all’infinito ed insieme il tramite
convenzionale per evocare sensazioni spirituali raffinate, la cui morbosità oscilla dal livello
patologico di un duca Des Esseintes, al compiacimento estetizzante di Rodenbach, al
dilettantismo un po’ astratto di Corazzini.».215

Bruges – la Morte tratta di un uomo, Huges, che, rimasto improvvisamente

212
Cfr. A. NOZZOLI - J. SOLDATESCHI, I crepuscolari, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1978, p.
8. Nel volume vi sono pagine dedicate esclusivamente a Sergio Corazzini, pp. 32-50.
213
Potrebbe anche trattarsi, data l’affine sensibilità di Gadenz alla tematica dell’opera del
Rodenbach (ossia il lamento per un amore lontano e perduto), di un tentativo di componimento
del giovane poeta, non riuscito, o smarrito nella sua versione manoscritta. Oppure potrebbe
trattarsi di una situazione reale – la conclusione definitiva di un amore – allusa attraverso un
riferimento letterario, per mantenere la riservatezza. Sta di fatto che quello che oggi appare un
mistero non del tutto decifrabile per il lettore contemporaneo rafforza l’idea che il riferimento
per i due fosse molto preciso, condiviso e intimo.
214
POZZI, Ti scrivo…, p. 182.
215
NOZZOLI - SOLDATESCHI, I crepuscolari, p. 9.

237
vedovo della giovane moglie Ofelia, si trasferisce nella cittadina di Bruges

poiché sembra meglio rispecchiare il suo spirito affranto dalla grave perdita:

«Nel libro prevale un’atmosfera di lutto soffocante e morbosa, tipica di una certa
letteratura decadente. Rimasto vedovo a quarant’anni, Hugues Viane sprofonda in un “autunno
precoce” nel quale si circonda degli oggetti e dei ricordi di lei, nel tentativo disperato di “eternare
il rimpianto”, e si aggira nel dedalo nebbioso delle strade di Bruges. Ben lungi dal rappresentare
solo lo scenario di sottofondo del romanzo, la città stessa è un “personaggio necessario”, avverte
l’autore, fatta di “quais, strade deserte, vecchie case, canali, beghinaggio, chiese…”» 216.

L’uomo si innamora di una donna che ha le fattezze della moglie defunta, ma è

opposta nell’indole e nel carattere, e appartiene al mondo – allora considerato

poco dabbene – del teatro:

«Uno spettacolo teatrale e un incontro fortuito lo porteranno alla perdizione. Hugues si


innamora di una ballerina, copia perfetta della moglie morta ma cinica e sguaiata, e resta
invischiato nel suo stesso autoinganno, prima ancora che nelle menzogne di lei. “Egli possedeva
il senso della somiglianza. (…) Per questo aveva scelto Bruges. Bruges da cui il mare si era
ritirato, portando via con sé un’antica felicità. (…) Ma il senso della somiglianza, con uno scarto
brusco e quasi prodigioso, operava questa volta in senso inverso”. Il pettegolezzo, il pregiudizio,
la condanna morale di cui è fatto oggetto sembrano non contenere un valore sanzionatorio
sufficiente a inibire e frenare i suoi impulsi distruttivi. Cade in discredito, si lascia abbindolare,
si corrompe. “Il demone dell’Analogia si stava prendendo gioco di lui”. Il suo rapporto con la
profittatrice diventa patologico e perverso, e scivola verso un epilogo tragico e scontato. “Aveva
cercato di eludere la Morte, di vincerla e beffarla grazie al raffinato artificio di una somiglianza.
Forse la Morte si sarebbe vendicata”.»217.

La ricerca dell’Analogia, dunque, come tentativo di beffare la Morte, come

contrario della vita realmente vissuta e quindi come simbolo di sublimazione

letteraria; ma anche come contrario dell’afasia, dell’impossibilità di trovare una

somiglianza cantabile fra le cose: temi e meditazioni tutti crepuscolari che

ritroviamo a collegare il Corazzini alla Pozzi. Una breve carrellata di versi basata

216
Recensione a cura di Alessandro Litta Modignani apparsa sulle pagine de «Il Foglio» on line
il 16 settembre 2016 in occasione della nuova edizione italiana di Fazi.
217
Ibidem.

238
proprio sull’analogia fra i due poeti basterà a rendere sicuro questo percorso. Per

riprendere e ampliare il tema delle anime sorelle, si confronti come in A la

sorella218 di Corazzini sembra essere prefigurata sia l’esistenza stessa di Lucia

Bozzi, ragazza orfana e veramente pia con cui la Pozzi compiva opere di carità

e che decise di avviarsi alla vita religiosa nel 1935219 («Tu che non hai per la tua

doglia viva / una madre serena che consoli, / un orto dolce con i girasoli / e il

canto di una limpida sorgiva, // tu che, accesa una lampada votiva, / pregavi per

i tuoi fratelli soli / e per la doglia di che tu ti duoli / la bocca non ad implorar

s’apriva»), sia la natura siderale dell’amicizia Pozzi-Bozzi che verrà cantata

nella più volte citata Sorelle, a voi non dispiace…: «tu che mi sei tristissima

sorella, / batti alla porta del mio cuore vano, / lascia che io senta il tuo cuore

tremare // nel mio come una stella in una stella / per un cielo più novo e più

lontano / sovra il pianto degli uomini e del mare»220. Alla composta semplicità

di questi versi di Corazzini, si paragoni quindi direttamente la voce della Pozzi

che all’amica Lucia dedica alcune poesie dell’aprile 1929. Esse risentono di una

dolce atmosfera crepuscolare di riduzione dell’io poetante a elementi della

natura piccoli, delicati e sofferenti. Si legga Meriggio: «In questa doratura di

sole / io sono / una gemma pelosa / legata crudelmente con un filo di refe / perché

non possa sbocciare / a bagnarsi di luce. / Accanto a me tu sei / una freschezza

riposante d’erba / in cui vorrei affondare / perdutamente / per sfrangiarmi anch’io

/ in un ebbro ciuffo di verde – / per gettare in radici sottili / il mio più acuto

218
CORAZZINI, Poesie…, p. 105.
219
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 214.
220
CORAZZINI, Poesie…, p. 105.

239
spasimo / ed immedesimarmi con la terra. // Milano, 19 aprile 1929»221. Ho in

mente una suggestione sull’uso di quel filo di refe, ossia la rilegatura in brossura

dei libri, ma non voglio spingermi a considerazioni ulteriori che porterebbero ad

identificare nel bagno di luce la ricerca di elevazione culturale forse ancora più

profonda e personale a cui Antonia anelava attraverso la propria stessa creazione

poetica, inibita, come già sottolineato, dalla costrizione del tempo dedicato allo

studio. Altri due componimenti per la Bozzi rispecchiano una relazione ancora

ingenua e semplice con il tu letterario, veramente impastato con la vita e con il

topos della natura primaverile. Il fiore-Antonia che non può sbocciare, trova

dunque il suo valore letterario e insieme intimo, attraverso se stessa, nella veste

del dono all’amica descritta ne Le pratoline222: «Oggi t’ho colto cinque pratoline:

/ bianca semplicità primaverile / schietta innocenza attonita di sole. / Tu le hai

messe davanti alla tua mamma / e immagino che appena sarà buio / si

chiuderanno tutte infreddolite; / penso ch’esse dovranno somigliare / delle

manine rosa di bambino, / giunte e protese con inconscio gesto / per l’usata

preghiera d’ogni sera. // Milano, 20 aprile 1929». Lo stesso meccanismo

condensato nel dono avviene in Scambio223, ove vi è la ripresa di questo tema,

assunto come impegno quotidiano per la relazione, in cui il fiore stesso diventa

quasi un sinonimo e un simbolo del dono di poesia: «Continueremo così: / io a

darti la poesia e la prima margherita / da mettere davanti alla tua mamma; / tu ad

arginarmi la vita / con certezza di fiamma. // 21 aprile 1929». Sempre per la

221
POZZI, Parole, p. 57.
222
Ivi, p. 58.
223
Ivi, p. 59.

240
Bozzi, del 23 aprile, è Un’altra sosta224, dove di rileva l’emotivamente intensa

atmosfera della relazione, intessuta però nell’immagine domestica, colloquiale e

femminile della gugliata225: «Appoggiami la testa sulla spalla: / ch'io ti carezzi

con un gesto lento, / come se la mia mano accompagnasse / una lunga invisibile

gugliata. / Non sul tuo capo solo: su ogni fronte / che dolga di tormento e di

stanchezza / scendono queste mie carezze cieche, / come foglie ingiallite

d'autunno / in una pozza che riflette il cielo.». L’animetta della Pozzi risulta alla

fine di quel mese di dediche, sbiadita nei Riscatti illeciti226 forniti dall’intimità

della relazione. A livello di lessico, compaiono vari elementi crepuscolari, dagli

oggetti compagni della quotidianità, ai pianti, ai diminutivi e vezzeggiativi, per

approdare a livello tematico alla morte e all’inutilità della vita del poeta: «Da un

pianoforte, dietro la parete, / gocciola qualche nota smorta, / punteggiatura ai

nostri pensieri. / Tu mi parli di tua madre morta: / e la mia animetta sbiadita / si

stiracchia in singhiozzi, / per riscattare col dolore altrui / la sua inutile vita. //

Milano, 25 aprile 1929». Nell’autunno di quello stesso anno i versi rivolti

all’amica si fanno già più aulici, pur mantenendo il tema corazziniano dell’anima

sorella, e aleggiando una certa idea di religiosità. Si veda Benedizione227:

«Tempia contro tempia / si trasfondono / le nostre febbri. / Fuori, tremoli lunghi

224
Ivi, p. 62.
225
Propriamente, la quantità di filo che si introduce ogni volta nell’ago per cucire, tagliandola
via da un rocchetto. In Cervi di Notturno in nausea di febbre: «ho un filo di nausea nella testa /
in una lunghissima agugliata / infilata / nella cruna delle due tempie // agugliata di nausea nera
// ribrezzo d’acciaio per tutto il mio corpo stasera // ago con agugliata di nausea agucchio / fra
brevi brandelli d’impressioni – / tutte colte in colore le sensazioni / ad imbastirle in multicolore
mucchio» e via così il termine torna in molte altre strofe. Cfr. CERVI, Le cadenze…, op. cit. pp.
96-97. Ricordo ancora che anche la Pozzi dedica una poesia alla Febbre, in POZZI, Parole, p. 90.
In entrambe le poesie compare la figura della madre consolatrice.
226
POZZI, Parole, p. 64.
227
Ivi, p. 113.

241
di stelle / e l’edera, con le sue palme protese, / a trattenere un luccicore mite. /

Nella mia casa che riscalda, / tu mi parli delle grandi cose / che nessun altro sa.

/ Lontano, / una gran voce d’acqua / scroscia a parole incomprese / e forse a te

benedice, / dolce sorella, / nel nome del mio amore e della tua tristezza, / a te, /

ala bianca / della mia esistenza.». La poesia, scritta da Pasturo, luogo dell’anima

per eccellenza ove probabilmente le due amiche si trovavano insieme (sinonimo

di un’intimità che ha raggiunto il suo massimo livello, considerando

l’importanza simbolica che quel luogo ha per Antonia), non supera la relazione

con una poesia d’effetto, vibrato negli scrosci dell’acqua che riportano la

memoria alla segretezza mistica di un messaggio panico della natura, tipico di

un certo D’Annunzio ed espresso dalla Pozzi con molta più evidenza in Fuga228.

In una prospettiva di relazione intima ma altamente spirituale, si possono

accostare i versi – anche se già del febbraio 1931 e quindi leggermente eccentrici

rispetto alla cronologia di questo capitolo – de La porta che si chiude229, che

228
Ivi, p. 105. Questi i versi di Fuga dedicati ad Antonio Maria Cervi: «Anima, andiamo. Non ti
sgomentare / di tanto freddo, e non guardare il lago, / s'esso ti fa pensare ad una piaga / livida e
brulicante. Sì, le nubi / gravano sopra i pini ad incupirli. / Ma noi ci porteremo ove l'intrico / dei
rami è tanto folto, che la pioggia / non giunge a inumidire il suolo: lieve, / tamburellando sulla
volta scura, / essa accompagnerà il nostro cammino. / E noi calpesteremo il molle strato / d'aghi
caduti e le ricciute macchie / di licheni e mirtilli; inciamperemo / nelle radici, disperate membra
/ brancicanti la terra; strettamente / ci addosseremo ai tronchi, per sostegno; / e fuggiremo. Con
la piena forza / della carne e del cuore, fuggiremo: / lungi da questo velenoso mondo / che mi
attira e respinge. E tu sarai, / nella pineta, a sera, l'ombra china / che custodisce: ed io per te
soltanto, / sopra la dolce strada senza meta, / un'anima aggrappata al proprio amore. // Madonna
di Campiglio, 11 agosto 1929». I versi sono molto vicini per musicalità e ambientazione a La
pioggia nel pineto di D’Annunzio, di cui riporto almeno la prima strofa: «Taci. Su le soglie / del
bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e
foglie / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. / Piove su le tamerici / salmastre ed arse,
/ piove su i pini / scagliosi ed irti, / piove su i mirti / divini, / su le ginestre fulgenti / di fiori
accolti, / su i ginepri folti / di coccole aulenti, / piove su i nostri vólti / silvani, / piove su le nostre
mani / ignude, / su i nostri vestimenti / leggieri, / su i freschi pensieri / che l’anima schiude /
novella, / su la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude, / o Ermione.», in G.
D’ANNUNZIO, Alcyone, a critica e cura di P. Gibellini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988,
pp. 79-80.
229
POZZI, Parole, p. 139.

242
cercano, nel conforto della sorella (molto probabilmente sempre la stessa

Bozzi)230, uno sfogo e un dialogo che possa liberare, almeno per lo spazio di

questa poesia, le parole prigioniere:

La porta che si chiude La villa antica231

Tu lo vedi, sorella: io sono stanca, Dopo tanti anni, ieri. Il viale breve
stanca, logora, scossa, dietro il vecchio cancello si distende
come il pilastro d’un cancello angusto come un tempo; però sotto la neve
al limitare d’un immenso cortile; non vi sono più fiori, e più non pende
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita alcun frutto dai rami; stanca e lieve
sia stato diga all’irruente fuga ne la triste fontana l'acqua scende...
d’una folla rinchiusa. Nel portico, due legiadrette Eve
Oh, le parole prigioniere un Don Giovanni sotto braccio prende.
che battono battono
furiosamente Sorridentesi sempre! O, se la pioggia
alla porta dell’anima vi renda gialle o brutte o, se di notte
e la porta dell’anima vi allieti il bacio buono delle stelle
che a palmo a palmo
spietatamente di fra l'edera verde de la loggia,
si chiude! o statuette moribonde e rotte,
Ed ogni giorno il varco si stringe o, della villa dolci sentinelle!
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,

230
Ibidem. La Bernabò aggiunge anche: «Vedervi, come si è fatto, una sorta di congiunta
apostrofe alla poesia non mi pare persuasiva per i seguenti motivi: in quel periodo Lucia fu molto
vicina all’amica; le invocazioni di Antonia Pozzi alla poesia sono in genere dirette (si pensi, ad
esempio, a Preghiera alla poesia); come Leopardi, l’autrice predilige il vocativo concretamente
rivolto a una persona specifica, in nome anche di un suo senso molto affettivo, relazionale, del
fare poetico.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 105.
231
CORAZZINI, Poesie…, p. 171.

243
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.

Milano, 10 febbraio 1931

Il tema del cancello è peraltro riscontrabile ne La villa antica di Corazzini, ma

con movimento lievemente nostalgico, sfumato nel ricordo e nell’ambientazione

invernale – ove aleggia quindi l’immagine di una vita congelata nella morte –

molto più simile, se si vuole, a In un cimitero di guerra232 della Pozzi. Le sbarre

che separano i mondi, le stagioni, e, infine, i vivi dai morti, sono il simbolo di

un confine che solo l’immaginazione, la sensibilità del poeta, può varcare,

modificandone lo statuto di limite. Ed è chiaro lo scarto promosso da Antonia se

in entrambe le poesie pozziane, la poetessa non può o si rifiuta di assumere

questo compito di valicare la soglia e dice: «di qua dal cancello / serrata / contro

le sbarre / dalla mia profonda / pena d'esser viva / rimango / e solo è in pace /

con la vostra pace / il sogno / dell'estremo giacere»233. Una morte-in-vita che è

il rovesciamento dell’immagine che promuove il Corazzini, ossia quella della

fissità delle statue che pure continuano a sorridere nella buona e nella cattiva

sorte, malgrado il passare delle stagioni che portano loro anche un lento degrado.

All’altezza del 1931 dunque la Pozzi ha già trovato il suo modo fermo e

personale di reinterpretare le suggestioni crepuscolari 234, coadiuvata

232
POZZI, Parole, p. 186.
233
Ibidem.
234
Il tema del cancello e del cimitero appare per esempio anche nella già citata La signorina
Felicita ovvero la Felicità di Gozzano, ma con un movimento talmente aulico da andare oltre la
lotta che per tutto il tempo della poesia il lettore si sente di dover affrontare fra credibile e

244
probabilmente anche dal contatto con la letteratura straniera. Questo passaggio

deve essere letto sempre alla luce della forte dinamica relazionale attraverso la

quale la Pozzi elabora i suoi versi, che non possono presentarsi mai, quando sono

veramente poetici, come campionatura sterile di parole già dette. Nel caso de La

porta che si chiude, è stata addirittura riscontrata una sovrapposizione fra l’afasia

poetica da cui era colpita, come a ondate di silenzio, la Musa della poetessa, e

l’impossibilità di dare una vita di carne al suo bambino di cielo:

«Nella sua stanchezza, l’io-poetante si identifica con un vecchio pilastro di uno stretto
cancello: il motivo del cancello era tipico dei crepuscolari, nonché del grande poeta ceco di
lingua tedesca Rainer Maria Rilke235, che l’autrice avrebbe studiato a fondo in seguito, ma al
quale forse si accostò già nel 1931, se non prima. L’immagine del cancello, comunque, assume
per lei un significato drammatico, diversamente dalla connotazione prevalentemente elegiaca
che essa aveva nei crepuscolari e nel primo Rilke, quello allora più noto in Italia. Nella poesia

incredibile in merito alle affermazioni del poeta: «Andai vagando nel silenzio amico, / triste e
perduto come un mendicante. / Mezzanotte scoccò, lenta, rombante / su quel dolce paese che non
dico. / La Luna sopra il campanile antico / pareva “un punto sopra un İ gigante”. // In molti mesti
e pochi sogni lieti, / solo pellegrinai col mio rimpianto / fra le siepi, le vigne, i castagneti / quasi
d’argento fatti nell’incanto; / e al cancello sostai del camposanto / come s’usa nei libri dei poeti.
// Voi che posate già sull’altra riva, / immuni dalla gioia, dallo strazio, / parlate, o morti, al
pellegrino sazio! / Giova guarire? Giova che si viva? / O meglio giova l’Ospite furtiva / che ci
affranca dal Tempo e dallo Spazio? // A lungo meditai, senza ritrarre / la tempia dalle sbarre.
Quasi a scherno / s’udiva il grido delle strigi alterno…/ La Luna, prigioniera fra le sbarre, /
imitava con le sue luci bizzarre / gli amanti che si baciano in eterno. // Bacio lunare, fra le nubi
chiare / come di moda settant’anni fa! / Ecco la Morte e la Felicità! / L’una m’incalza quando
l’altra appare; / quella m’esilia in terra d’oltremare, / questa promette il bene che sarà…», in
GOZZANO, I colloqui, in Tutte le poesie, pp. 179-180. Anche Palazzeschi nella sua prima raccolta
I cavalli bianchi (1905) dedica un pensiero poetico a Il cancello: «L’oscuro viale dai mille
cipressi / che porta al cancello del grande piazzale / è aperto a la gente. / Soltanto il cancello non
s’apre. / Va e viene la gente pel lungo viale / che il sole soltanto non lascia passare, / si sosta al
cancello che à cento colonne di ferro / la gente a guardare. / In una carretta ch’è piccolo letto /
due monache nere conducono attorno / pel grande piazzale, il Signore, / padrone del grande
castello. / Cent’anni à il Signore / padrone del grande castello! / Lo portano attorno due monache
nere, / attorno al castello ch’è in mezzo al piazzale. / Non ode non vede la gente / che al vano dei
ferri del grande cancello / sta ferma a guardare. / Va e viene la gente pel lungo viale / che il sole
soltanto non lascia passare, / si sosta al cancello che à cento colonne di ferro / la gente a guardare.
/ Ogn’anno a quel grande cancello / s’aggiunge una nuova colonna di ferro: / il posto d’un altro
a guardare.», in A. PALAZZESCHI, Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002, p.
8.
235
Cfr.: BERNABÒ, Per troppa vita..., p. 122: «Per il motivo dei cancelli in Rilke si vedano,
nell’edizione [Alpes, Milano 1929] delle Liriche, Giardino a notte (pp. 34-35) e Uno son dei
miseri tuoi figli (pp. 142-43).».

245
in questione il cancello è stato a lungo “diga” alla pressione di una folla 236, che è una folla di
parole, le quali inutilmente battono alla porta dell’anima per uscirne. Soltanto “l’ultimo giorno”
con un “urto tremendo” e un “urlo mortale” esse usciranno e “sarà la pace”, la pace, si presume,
della morte. Stilisticamente il contenuto è affidato all’uso, consueto in Antonia Pozzi,
dell’iterazione con variazioni (“come il pilastro”; “come un vecchio pilastro”; “Ed ogni giorno”;
“E l’ultimo giorno”). Un meccanismo che altrove risultava semplicistico e che invece qui è
funzionale a rendere l’estrema emozionalità dello stato d’animo e, in modo quasi onomatopeico,
il battito forsennato delle parole non dette. Alessandra Cenni ha giustamente parlato, a proposito
di questa poesia, di “mimesi del parto”. Giuseppe Strazzeri ha aggiunto che si tratta di un “parto
sì, ma di parole”, a “ulteriore riprova dell’ambivalenza che la dimensione creativa ha nella
Pozzi”, riferendosi al suo duplice desiderio di fecondità fisica e poetica.»237.

Secondo questa sintesi operata dalla Bernabò, La porta che si chiude aiuterebbe

a riflettere «sulla complessità della sua [di Antonia] posizione di donna e di

intellettuale», poiché «Antonia si trovava in realtà stretta tra due opposte

vocazioni: quella, in parte personale e in parte sollecitata dai tempi, alla

maternità reale, e quella, curiosamente mutuata in gran parte dal padre e dallo

stesso Cervi, all’affermazione intellettuale».238

Entra in gioco su entrambi i fronti la dinamica del desiderio inconscio rafforzata

da quella vera e propria del sogno, della volontà di realizzazione di una meta che

si vede lontana e, a volte, impossibile da raggiungere.

«Era forse, consciamente o inconsciamente, desiderosa di fondere in un insieme


personale eros e logos, affettività e creatività; ma si ritrovava a non essere capita proprio dalle
due persone, il padre e Antonio Maria, che da lei erano maggiormente amate e assecondate. Al
di là dell’antagonismo personale fra i due, bisogna dire che entrambi le rivolgevano un doppio
messaggio: da un lato infatti la invitavano allo studio, e quindi all’emancipazione e
all’autonomia, dall’altro tendevano a imporle le loro scelte di vita. Ecco che allora i suoi veri e
complessi desideri, le sue autentiche “parole” erano destinate a restare soffocate, e si delineava
in lei l’idea della morte come restitutrice di serenità. Soltanto nella poesia poteva esplodere il
suo desiderio di autenticità e di una libera ricerca di sé.»239

236
Parola già usata dalla Pozzi in Largo per connotare il ciclo relazionale pieno-vuoto
relativamente ai suoi fantasmi e dunque ai suoi arcani pensieri poetici e forse anche personali e
malinconici.
237
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 105-106.
238
Ivi, p. 106.
239
Ibidem.

246
Il sogno dell’estremo giacere che compare In un cimitero di guerra diventa ad

un certo punto la soluzione non solo poetica, ma anche esistenziale di Antonia

Pozzi rispetto alle strozzature della vita di cui questo rapporto critico eros-logos

può essere solo un banale esempio. I riferimenti nei testi compaiono già nelle

poesie d’ispirazione montana dell’estate del 1929 (Vertigine, Alpe)240 e in parte

in poesie dall’alto tenore espressivo come Canto selvaggio241 e Canto della mia

nudità242, ove si può studiare il problema eros-logos da una diversa prospettiva:

Canto selvaggio Canto della mia nudità

Ho gridato di gioia, nel tramonto. Guardami: sono nuda. Dall'inquieto


Cercavo i ciclamini fra i rovai: languore della mia capigliatura
ero salita ai piedi di una roccia alla tensione snella del mio piede,
gonfia e rugosa, rotta di cespugli. io sono tutta una magrezza acerba
Sul prato crivellato di macigni, inguainata in un color d’avorio.
sul capo biondo delle margherite, Guarda: pallida è la carne mia.
sui miei capelli, sul mio collo nudo, Si direbbe che il sangue non vi scorra.
dal cielo alto si sfaldava il vento. Rosso non ne traspare. Solo un languido
Ho gridato di gioia, nel discendere. palpito azzurro sfuma in mezzo al petto.
Ho adorato la forza irta e selvaggia Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
che fa le mie ginocchia avide al balzo; è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
la forza ignota e vergine, che tende e le caviglie e tutte le giunture,
me come un arco nella corsa certa. ho scarne e salde come un puro sangue.
Tutta la via sapeva di ciclami; Oggi, m'inarco nuda, nel nitore
i prati illanguidivano nell'ombra, del bagno bianco e m'inarcherò nuda
frementi ancora di carezze d'oro. domani sopra un letto, se qualcuno
Lontano, in un triangolo di verde, mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
il sole s'attardava. Avrei voluto stesa supina sotto troppa terra,
scattare, in uno slancio, a quella luce; starò, quando la morte avrà chiamato.
e sdraiarmi nel sole, e denudarmi,
perché il morente dio s'abbeverasse Palermo, 20 luglio 1929
del mio sangue. Poi restare, a notte,
stesa nel prato, con le vene vuote:
le stelle – a lapidare imbestialite
la mia carne disseccata, morta.

Pasturo, 17 luglio 1929

240
POZZI, Parole, p. 109 e 111.
241
Ivi, p. 98
242
Ivi, p. 102.

247
La morte è bella, è estetizzata, passa attraverso la carne fresca, giovane ed

elastica di un’Antonia consapevole della potenza del proprio corpo243: esso

diventa offerta selvaggia per il dio morente (di sapore quasi zarathustriano).

Bisognerà aspettare ben altri disagi esistenziali perché la morte si concreti in

un’ipotesi realmente sfiorata e vagheggiata, come appunto nei versi di In un

cimitero di guerra o di Funerale senza tristezza244 – questi ultimi con la levità

davvero del sogno che non sai se definire letterario o ultima speranza concreta

della poetessa, ossia quella che la morte fosse veramente dolce: «Questo non è

essere morti / questo è tornare / al paese, alla culla: / chiaro è il giorno / come il

sorriso di una madre / che aspettava. […] Le fiammelle dei ceri, naufragate /

nello splendore del mattino, dicono quel che sia / questo vanire / delle terrene

cose / – dolce –, / questo tornare degli umani, / per aerei ponti / di cielo, / per

candide creste di monti / sognati, / all’altra riva, ai prati / del sole. // 3 dicembre

1934» – per approdare, infine, all’immagine intensissima de La vita245: «Alle

soglie d’autunno / in un tramonto / muto // scopri l’onda del tempo / e la tua resa

/ segreta // come di ramo in ramo / leggero / un cadere di uccelli / cui le ali non

reggono più. // 18 agosto 1935».

In Corazzini troviamo esempi in cui il tema onirico vero e proprio viene

permeato da stilemi religiosi. L’ultimo sogno246 presenta moltissime immagini

243
È esemplare del dualismo di Antonia che, fra la composizione di queste due poesie, essa
scriva il 18 luglio 1929 tre liriche dedicate ad Antonio Maria Cervi, in cui sembra quasi voler
lavare in una purezza estenuata il grido altero di questi due Canti. Le poesie sono Flora alpina,
Canto rassegnato (il cui aggettivo la dice lunga sull’antitesi in questione) e Vaneggiamenti e si
trovano in ivi, p. 99, 100 e 101.
244
Ivi, p. 327.
245
Ivi, p. 387.
246
CORAZZINI, Poesie…, pp. 148-149.

248
che si ritroveranno nei versi della Pozzi (il bosco, il battere alle porte senza

ricevere risposte, il grido, la ghirlanda nei capelli, le piccole mani pure, il sapere

solo una povera preghiera), senza dimenticare che sottolineerà nella sua copia

del libro, l’intera strofa finale. Per restare negli anni 1929-1930, si potrebbe

prendere la poesia Le mani sulle piaghe247 che rovescia l’angoscia del fanciullo

lasciato solo come un agnello sacrificale del Corazzini in una visione straziata

di malattia e di morte in cui la Pozzi si immola e si sacrifica per salvare il

prossimo dalla sofferenza, dandosi un ruolo operativo nel silenzio e nella fede

per non essere colta dal dubbio di non sognare più dopo la morte dell’amato:

L’ultimo sogno Le mani sulle piaghe

per Alfredo Tusti ad A.M.C.

Io sono giunto alla città E quando tu te ne sarai andato,


nel mezzo del bosco. fratello, io seguirò la bianca strada
Batto alla porta, nessuno domanda, ovattata di nebbia.
batto a tutte le porte L'acqua andrà remigando come un'ala
della città muta; non odo languida e nera: giù dai vecchi muri,
che fontane cantare qualche grido di verde e di scarlatto,
canzoni senza ritornelli vite, edera, veccia.
a la Monotonia. Tanto silenzio ci sarà, lì presso:
un silenzio d'attesa.
Io grido: «non saprò Allora farò lieve la mia voce,
domani tornare farò lievi i miei passi:
per la stessa via! m'inoltrerò nel luogo dei malati
Sono un fanciullo bianco come il bimbo che entra in un suo sogno
ed è fiorita per i miei capelli di paradiso, dove tutto è bianco.
una ghirlanda! Non ci saran più volti, né capelli,
Le mie piccole mani sono pure né età, né nomi: ci sarà un candore
come quelle dei santi di cera; infinito, vorace.
amo le creature Ma, dal candore, mille urli rossastri
non so che una povera preghiera». si leveranno: oh, mani
livide, abbandonate sulle coltri;
Le fontane cantano sempre mani che vi portate come artigli
nella città muta dei sogni. sopra le piaghe aperte
per difenderle a unghiate o per squarciarle;
Io mi allontano mani che avete in voi tutto il dolore
e la mia veste bianca e il mistero dell'essere;

247
POZZI, Parole, pp. 120-121.

249
se la dividono i rovi, io farò lievi, un giorno, le mie mani
e la mia ghirlanda s’è mutata sopra di voi. E là dove il silenzio
in una corona di spine, è un'attesa di morte o di salvezza,
le mie piccole mani sanguinano il silenzio e la fede vestiranno
senza fine la mia esistenza nuda.
e l’anima è triste come Fratello, io farò lieve il mio respiro,
li occhi l'anima mia farò lieve e sicura
di un agnello che sia per morire. sopra il gran male umano:
dentro i labbri di tutte le ferite
E le fontane cantano io stagnerò il tuo sangue,
dietro le bianche porte. fra le ciglia di ognuno che si strazia
asciugherò il tuo pianto.
Ah! sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?

Non assimilerei, invece, questo mondo onirico a quello de La vita sognata,

poiché in quel caso si tratta di un desiderio talmente nutrito di linfa vitale da

essere vissuto e riscritto solo dopo aver perso il suo statuto di sogno, come se si

trattasse di lasciare memoria della parte più vera della prima esperienza

esistenziale e poetica della poetessa. Proporrei solo un ultimo parallelismo, nel

seno di una comune sensibilità poetica, per chiudere la trattazione della relazione

Corazzini-Pozzi: l’attenzione di entrambi i poeti per la vita vissuta attraverso il

filtro dell’immaginazione e del teatro, ossia nell’ipotesi di persone e personaggi

che non ricoprono interamente il ruolo assegnato o che sono impossibilitati a

vivere una vita piena proprio per il loro appartenere ad un mondo inesistente.

Dialogo di Marionette248 Scena unica

per André Noufflard Vedi:


questo è il mio bambino
— Perché, mia piccola regina, finto.
mi fate morire di freddo?
Il re dorme, potrei, quasi, Gli ho fatto il vestitino

248
CORAZZINI, Poesie…, p. 146.

250
cantarvi una canzone, all’uncinetto
ché non udrebbe! Oh, fatemi con la lana bianca.
salire sul balcone!
— Mio grazioso amico, Dice anche “mamma” –
il balcone è di cartapesta, sì –
non ci sopporterebbe! se lo rovesci sopra il dorso.
Volete farmi morire
senza testa? Dammelo qui in braccio
— Oh, piccola regina, sciogliete per un pochino:
i lunghi capelli d’oro! ecco,
— Poeta! non vedete hai sentito
che i miei capelli sono come ha detto
di stoppa?
— Oh, perdonate! “mamma”?
— Perdono.
— Così? Questo è il mio bambino –
— Così...? vedi –
— Non mi dite una parola, il mio bambino
io morirò... finto.
— Come? per questa sola
ragione? 31 gennaio 1933
— Siete ironica... addio!
— Vi sembra?
— Oh, non avete rimpianti
per l’ultimo nostro convegno
nella foresta di cartone?
— Io non ricordo, mio
dolce amore... Ve ne andate...
Per sempre? Oh, come
vorrei piangere! Ma che posso farci
se il mio piccolo cuore
è di legno?

È interessante notare che comunque, questi esseri hanno una voce per dire

l’essenziale: il bambino finto può interpretare il sogno di maternità della Pozzi

con la straziante parola mamma; la piccola regina può lamentare di non riuscire

a corrispondere i sentimenti del Corazzini perché il suo piccolo cuore è di legno.

Magra consolazione, se per il poeta romano il dialogo con la Marionetta è la

constatazione della diffrazione fra la realtà immaginata e quella vissuta, che

prende corpo proprio nei materiali di cui è fatta la regina: una risposta

dell’esistenza povera come la stoppa e dura come il legno. Per la Pozzi invece il

251
folle conforto è tutto concentrato proprio nell’essenza di quella voce, morbida

come il vestitino fatto di lana all’uncinetto, puro e bianco.

Come ho aperto la carrellata, vorrei concluderla con una poesia di Corazzini

sicuramente cara alla Pozzi e più volte citata, Alla serenità, ove si possono

ritrovare varie parole del primo biennio – e non solo di quello – di produzione

poetica pozziana:

Io t’ò nel cuore e tu, sole, mi scaldi


e le cose non oggi allo sfacelo
imminente rassegnansi: che cielo,
oggi! e che squilli! Nunziano gli araldi

giovinetti l’avvento che sognai?


Come tutto è soave, come tutto
mi canta in cuore! non m’hai tu costrutto
un nido nei novissimi rosai?

Stelle! che gioia! Quanto cielo e quanti


voli s’io chiuda gli occhi alla freschezza
di questa sera piena di dolcezza,
accolgo in essi ancor tristi di pianti!

Pianti lontani come le tue, nonna,


favole buone, come le mie pure
notti, oh, quiete delle creature
che una fata protegge e una madonna!

Serenità, non tu mi riconduci,


nave di sogno, a una perduta riva?
non è forse una luce primitiva
questa che vince tutte le altre luci?

E colgo ancora le margheritine


per i capelli de le mie sorelle
e m’inebrio del sole e de le stelle
e piango se mi pungono le spine.

Tutto quel che fu mio, teneramente,


mette le foglie, mette i fiori, odora;
oh, mai tramonto si sbiancò in aurora
più di questa soave e più ridente!

Serenità, ben tu mi ricomponi


gioie profonde per il mio ritorno,
e suoni tutte le campane a stormo,
le campane già vedove di suoni,

252
entro il mio cuore, e vuoi tu che al fiorito
maggio spalanchi l’umili finestre
e odori il davanzale di ginestre
e canti ancora quello che infinito

canto mi parve e non fu che una nota!


Vuoi che l’orto mi dia ghirlande e frutti...
ma non sai farmi libero di lutti,
ma non sai popolarmi questa vuota

casa! E allora?... perché farmi tornare?


Serenità: quiete al mio tormento
vana, sono perduto, ora, mi sento
morire e gli occhi s’empiono di bare

e questo cielo non conobbe voli


mai, questa casa non s’aprì alla gioia,
serenità, serenità, ch’io muoia
dunque se il cuore tu non mi consoli,

se non valse al dolor tua compagnia,


se il passato mi stringe sì che in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia.

253
In questo capitolo ho introdotto gli anni di formazione liceali di Antonia Pozzi

insistendo su alcune relazioni che ritengo centrali per lo sviluppo della sua

pratica poetica. Se dai fratelli Cervi la Pozzi ha tratto soprattutto la volontà e

l’obiettivo della sua poesia – declinata, oltre che come modalità di dialogo con

e di elevazione per l’amato Antonio Maria, anche come intento di rottura rispetto

ad una cultura e ad una mentalità borghese che, come Annunzio, disprezzava –

dal modello di Leopardi ha assunto la malinconica fierezza dei temi esistenziali

tradotti nell’impossibilità di una partecipazione felice all’età adulta e quindi nel

vagheggiamento del ricordo della fanciullezza. In modo dissacrante, attraverso

l’esercizio del linguaggio, la stessa figura del ‘monello’ cerviano torna a

sottolineare tutta la distanza fra la sensibilità di chi è poeta (e sa quali dolori si

nascondano dietro l’esposizione della gioia) e quella di chi vive nella brutalità

dell’indifferenza, colui a cui basta aver la pancia piena nel giorno di festa per

essere sazio. Ma la fame di verità e di poesia non lasciano pace ai dubbi di

Antonia che si sente chiamata a guardare sempre al largo, più in là. Nello spirito

crepuscolare, e in particolar modo in quello di Corazzini, la Pozzi trova una

consonanza tematica e formale che la aiuta a non immergersi eccessivamente nei

grandi modelli dei poeti di fine Ottocento-inizio Novecento (Carducci, Pascoli e

d’Annunzio), ma a preparare la strada per alcuni dei maestri degli anni

universitari: i simbolisti francesi e Ungaretti.

254
Capitolo Terzo:

Gli anni dell’università: 1930-1935

«Forse – chissà – l’età delle parole è finita per sempre.»1

Gli anni universitari furono per Antonia Pozzi un banco di prova sotto molteplici

aspetti – relazionali, culturali, vocazionali – che si influenzarono l’un l’altro fino

a raggiungere una sorta di forzoso equilibrio che non poté durare a lungo e che

portò alla definitiva disgregazione, negli anni post universitari, degli obiettivi e

delle certezze che erano stati faticosamente preservati da continue ondate di

disillusione e di sfiducia.

Vi è una spaccatura che corre lungo l’anno 1933 a chiudere un primo tentativo

di soluzione esistenziale e amorosa con Antonio Maria Cervi e ad aprire,

nell’autunno del 1934, la possibilità di un secondo amore con Remo Cantoni. A

fornire un sicuro passaggio sul crinale della solitudine è la scoperta del poeta

Tullio Gadenz, che dagli inizi del 1933 sembra costituire un rifugio poetico e

umano all’anima stanca di Antonia, la quale vede in questa amicizia la possibilità

di confidare e mettere in salvo tanta parte di sé. Proprio nel 1933, l’anno più

1
POZZI, Ti scrivo…, p. 227. Da una lettera scritta a Vittorio Sereni il 13 agosto 1935 da Pasturo.

255
prolifico dal punto di vista della scrittura, la Pozzi medita un primo serio riscatto

della sua vita nella poesia. Sempre dal punto di vista relazionale, nell’ a.a

1933/’34 Antonia fece il suo ingresso nell’universo dell’intellighenzia banfiana:

«Tra il 1934 e il 1938 frequentò attivamente il gruppo che faceva riferimento a[l prof.
A.] Banfi e divenne amica di alcuni dei suoi più brillanti allievi. I suoi amici più cari furono
Remo Cantoni, Vittorio Sereni, e, più tardi, Dino Formaggio; ma frequentò anche Gianluigi
Manzi, Enzo Paci, Alberto Mondadori, Ottavia e Clelia Abate, e altri. Praticamente si legò a tutta
l’intellighenzia milanese che non era ancorata all’idealismo, ma si apriva alla cultura europea
nel suo insieme, e che, anche politicamente, era più disponibile a scelte alternative a quella
fascista.».2

Questo universo banfiano costituirà per Antonia una grossa sfida, mettendola a

confronto con un modo di intendere il rapporto arte-vita che lascerà segni di crisi

in lei e nei suoi stessi compagni e che la obbligherà a forti mutamenti di

sensibilità nei confronti del suo approccio alla scrittura. Ma soprattutto questa

intellighenzia era costituita effettivamente da amici che lasciarono un segno

emotivo profondo in Antonia e per i quali la poetessa mise in gioco davvero tutta

se stessa. Remo Cantoni e Dino Formaggio non furono solo due amori di

gioventù, ma due uomini che, con l’esempio del loro approccio alla vita, la

aiutarono a scavare in sé stessa, a volte anche troppo duramente. La loro

frequentazione spinse la Pozzi a cercare di darsi un indirizzo intellettuale e

pratico opposto a quello romantico e sognatore, immaginifico e poetico, che le

era stato abituale sino al 1934. In quel periodo conobbe poi anche il poeta

Vittorio Sereni, con il quale strinse una profonda e fraterna amicizia: fu uno dei

pochi ad essere a conoscenza della poesia di Antonia, a sostenerla e ad

2
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 182.

256
apprezzarla. All’amico dedicò poche parole di commiato anche il giorno del

tragico gesto suicida.

Vorrei ora ripercorrere gli anni della formazione universitaria, nella

consapevolezza che, pur tenendo ben presente la linea di demarcazione

temporale prima accennata, gli influssi degli autori a cui Antonia si accostò non

sono declinabili se non nel segno di un’evoluzione continua. Pur dichiarando

degli scarti e degli abbandoni nel proprio rapporto con la scrittura, il fare poetico

di Antonia è intessuto di legami con certi autori e certe tematiche che non si

esauriscono nel momento del primo incontro – incontro che, fra l’altro, spesso è

desunto da parte di chi si impegna in un’analisi della sua poesia da molteplici

fattori, pur sempre limitati dalla casualità di ciò che è frammentariamente

pervenuto fino ad oggi, ossia dalla presenza di testi in una biblioteca parziale,

dai ricordi delle persone che la poetessa frequentava all’epoca3, dai corsi di studi

frequentati di cui si ha notizia4 – ma ritornano a seconda della relazione attiva

3
Cfr. ad esempio lo scritto di Alba Binda che ricorda l’amica A. Pozzi in relazione agli anni
universitari e alla frequenza dei corsi, in M.M. VECCHIO, Gli appunti universitari inediti di
Antonia Pozzi, in AA. VV., … e di cantare…, p. 343: «Furono anni intensi di studio, di scoperta
e di affermazione delle sue capacità intellettuali. Ordinata, precisa, esigente da sé, Antonia aveva
predisposto il suo piano studi dopo aver ascoltato per alcune settimane le conferenze
accademiche dei vari professori, commisurandole con le sue proprie tendenze ed aspirazioni; e
non derogò mai in seguito dallo schema che aveva stabilito. […] Ma due professori [soprattutto]
influirono nel suo inquadramento culturale: Luigi Castiglioni, preside di facoltà e docente di
latino e di greco, Antonio Banfi[,] docente di storia della filosofia e di estetica. Uno contribuì a
rinsaldare la sua logica, l’altro a raffinarne la sua sensibilità.».
4
Cfr. ivi, p. 341-342: «Il piano di studi scelto dalla Pozzi, in Filologia Moderna, prevede, al
primo anno di studio, la frequenza dei corsi di Lingua e Letteratura Latina e Greca e di Storia
della Filosofia o Filosofia (cioè Teoretica), con durata biennale (dilatata quindi anche al secondo
anno di corso), di Storia comparata delle lingue classiche e neolatine (anch’esso corso biennale,
che era possibile frequentare anche al terzo e al quarto anno), e di Lingua e Letteratura Italiana,
con durata triennale (estesa ai due anni di corso successivi al primo); di Geografia e di Letteratura
Inglese o Tedesca, con durata annuale. Al secondo anno, mentre proseguono i corsi di Letteratura
Latina, Greca e Italiana, di Storia comparata delle lingue classiche e neolatine e di Storia della
Filosofia o Filosofia, viene consigliata la frequenza dei corsi annuali di Estetica e di Storia
dell’Arte. A partire dal terzo anno, durata biennale ha il corso di Storia moderna, esteso dunque
al quarto anno, mentre annuali sono i corsi di Storia antica e di Storia del Risorgimento italiano.»

257
nel momento della stesura.

Cercherò comunque di restare aderente il più possibile ad un’impostazione

cronologica, partendo dall’ingresso di Antonia all’università e permettendomi

una prima iniziale digressione in merito al problema della relazione fra Antonia

e il fascismo, in prospettiva di una dinamica di reazione culturale della poetessa:

«Dopo aver conseguito la maturità classica al “Manzoni” con la media dell’otto,


Antonia Pozzi, nell’anno accademico 1930/31, si iscrisse all’indirizzo di Filologia Moderna della
Facoltà di Lettere e Filosofia presso la Regia Università di Milano. […]
Contraddittoria realtà quella dell’ateneo milanese; sulla libertà di studio pesava ormai
un dirigismo fascista fortemente condizionante, cui si sovrapponeva però, da parte di alcuni
docenti, un magistero alto, originale e potenzialmente eversivo. I nomi più prestigiosi erano
quelli di Piero Martinetti e Giuseppe Antonio Borgese; in un secondo momento si sarebbe
affermato quello di Antonio Banfi.
Non risulta che Antonia Pozzi avesse assistito alle lezioni del professor Martinetti,
ordinario di Filosofia teoretica e, in assoluto, la figura di maggior spicco all’interno della facoltà,
sia per il prestigio degli studi che per l’alta statura morale. Il filosofo, tra l’altro, fu costretto a
lasciare il servizio proprio nel 1931, per non aver voluto prestare il richiesto giuramento di
fedeltà al fascismo».5

È importante rilevare questa contraddittorietà fra i dettami del fascismo e le

esigenze di ricerca degli intellettuali dell’epoca, il cui fervore per un pensiero

filosofico dedito al bello e al vero, capace di infiammare le menti degli studenti,

costituiva un pericolo per il regime che tanto faticosamente cercava di tenere

vicino a sé i giovani con una serie di attività anche extra scolastiche sin dalla più

tenera età6. Professori come Martinetti infatti erano capaci di aprire le menti ad

5
Ivi, pp. 97-98.
6
Si pensi all’organizzazione (dettagliata per sesso e fascia d’età) della gioventù fino ai
diciott’anni nell’OPN (Opera Nazionale Balilla), e poi dai 18 ai 21 anni nei Fasci giovanili di
combattimento, nelle giovani fasciste a nei GUF (Gruppi Universitari Fascisti). Questi ultimi
arrivarono ad assorbire altre associazioni, dedite all’escursionismo in montagna, come la SUCAI
(Stazione Universitaria del CAI), frequentata dalla stessa Pozzi per il X attendamento sociale del
Breil nell’estate del 1933. Sul sito del CAI, nella sezione la nostra storia, si legge quanto segue:
«Nel 1927 ha inizio una trasformazione del CAI, dettata dagli eventi politici, che durerà [fino] a
tutto il 1943; il primo passo è il cambiamento del nome da Club Alpino Italiano a Centro
Alpinistico Italiano e l’inquadramento del CAI nel CONI [Comitato Olimpico Nazionale

258
un diverso approccio alla realtà. Malgrado il suo allontanamento:

«Le idee filosofiche di Martinetti erano ormai diffuse all’interno dell’Università Statale;
in particolare ne erano influenzate le lezioni di estetica di Giuseppe Antonio Borgese, che
Antonia seguì con grande passione nell’anno accademico 1930-31 insieme a Lucia Bozzi e ad
Elvira Gandini, la quale si stava laureando proprio con lui e la conduceva anche ai seminari del
giovedì. Come ricorda la Gandini, Antonia Pozzi maturò il suo interesse per l’estetica proprio
attraverso le lezioni di Borgese.
Molto di Martinetti era passato in lui. Per esempio, l’aspirazione a una conoscenza
derivante dal superamento dei dati frammentari in una unità tesa a restituire l’intima verità del
reale trovava una trasposizione, sul piano dell’estetica di Borgese, nella sua forte valorizzazione
dell’unità dell’opera d’arte, emergente dal caos della frammentarietà e della discontinuità.
Similmente l’idea, in fondo religiosa, anche se non confessionale, che Martinetti aveva della
filosofia, ritenendo che, con il riconoscere ad ogni persona in quanto soggetto spirituale un valore
di fine, essa inducesse ad accostarsi al fondamento divino della realtà, si rifletteva sul concetto,
centrale in Borgese, dell’artista come “grande artiere nel senso di essere l’architetto cosmico,
l’architetto di Dio”, quindi in un’idea religiosa dell’arte. Ma soprattutto interessante era il forte
legame che, sulla traccia di Martinetti, Borgese, stabiliva tra estetica e morale. Non a caso
Borgese, nelle lezioni dell’anno accademico 1930-31, come risulta dalle dispense che la stessa
Antonia Pozzi ebbe tra le mani, volle citare questa frase del proprio allievo Robertazzi: “È certo
che l’arte presuppone la moralità e la conoscenza. Dove non c’è già ricchezza di contenuto
spirituale non c’è neppure arte di sorta. Chi non ha nulla veduto, chi non ha mai agito, come può
essere artista?”
Tali concetti di Borgese, che avevano come sottofondo una polemica con Croce (il quale
troppo svincolava l’arte dalla vita), dovevano piacere molto ad Antonia, in quanto la
confermavano nella propria concezione alta della poesia, cui fino a quel momento aveva aderito,
in parte, istintivamente, in parte sulle tracce di una filosofia di tipo romantico. Alcune idee di
Borgese sarebbero poi confluite anche nella personale interpretazione che l’autrice avrebbe dato
in seguito al contrasto tra Geist (spirito, cultura, arte) e Leben (vita, esperienza), messo in
evidenza da quel Tonio Kröger di Thomas Mann che tanto coinvolse i giovani intellettuali
milanesi degli anni Trenta.»7.

Seppur non direttamente quindi, la figura di Martinetti fu importante per

Italiano], insieme alle federazioni sportive. In seguito a questa rivoluzione il Presidente generale
è nominato dal Governo; è confermato il milanese Eliseo Porro. Nel 1929 i soci del CAI Milano
sono oltre 6400. Il Presidente, dal 1926, è il Podestà di Milano, Ernesto Belloni. […]
Il periodo tra il 1929 e il 1930 determina per decisione governativa una riforma della struttura
del CAI; la Sede centrale è trasferita a Roma, cambia il Presidente generale (è nominato Augusto
Turati) e cambia anche il Presidente di Milano, che sarà Gianni Albertini, protagonista di
spedizioni artiche. Viene ordinato il ritorno dei membri del Club Alpino Accademico alle proprie
sezioni e l’abolizione della SUCAI, con travaso dei soci alpinisti universitari nel GUF (Gruppi
Universitari Fascisti), ma con tessera del CAI.». Fonte: www.caimilano.org
Del 2 gennaio del 1934 è il seguente frammento di lettera della poetessa scritta ai genitori da
Madonna di Campiglio, in cui si evince l’organizzazione imperiosa che il regime doveva avere
anche sull’andamento delle libere attività alpinistiche: «Allo Spinale andremo dopodomani: non
domani, perché ci sono le gare di discesa del GUF e vogliono che la pista sia sgombra prima
delle 11 di mattina, quindi ci toccherebbe fare una cammellata.», in POZZI, Ti scrivo…, p. 184.
7
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 98-99.

259
Antonia, in quanto filtrò nel pensiero di Borgese, che fu assolutamente centrale

per la poetessa nei primi anni di formazione universitaria. Il professore siciliano

«era famoso soprattutto per il suo romanzo Rubé, pubblicato nel 1921 e

sicuramente noto ad Antonia Pozzi, che aveva tutte le sue opere nella propria

biblioteca»8. Anch’egli, malgrado le sue lezioni in Aula Magna fossero

affollatissime, seguite persino dalla Milano altolocata, fu vittima delle

prepotenze fasciste:

«Nell’anno accademico 1929-30 c’era stata una manifestazione fascista contro di lui:
durante uno dei seminari ristretti del giovedì un gruppo di energumeni era entrato in aula con il
manganello e aveva picchiato alcuni ragazzi presenti; Guido Piovene, uno degli alunni più vicini
a Borgese, ne aveva riportato una frattura nasale. Il professore era riuscito a uscirne incolume e
aveva sospeso per due mesi la sua attività, riprendendola successivamente (forse per l’intervento
a suo favore di Mussolini), finché nel 1931 si mise prudentemente a disposizione del Ministero
degli Esteri per insegnare Letteratura italiana in una università statunitense; avrebbe poi dato le
dimissioni nel 1934. Per evitare rischi fisici, dopo le lezioni, alcuni studenti lo riaccompagnavano
a casa; peraltro, la segreteria trasmetteva i nomi degli studenti di Borgese alla caserma di via
Mario Pagano, dove alcuni di essi, fra cui Elvira Gandini, furono sgarbatamente interrogati. Era
un momento di grande tensione per l’Università Statale, che, nell’intenzione del regime, doveva
essere completamente fascistizzata: il Preside della Facoltà di Lettere, Luigi Castiglioni, sebbene
non fosse intimamente fascista, era costretto ad indossare la camicia nera e le angherie contro gli
spiriti liberi si susseguivano, anche per la presenza, tra gli studenti, di spie che si prestavano a
denunciare ogni atteggiamento sospetto.»9.

In un momento che presentava non pochi rischi per chi non era disposto ad

uniformarsi ad un pensiero condiviso, borghese e tranquillizzante (e Antonia era

radicalmente e intimamente indisponibile, anche se ad uno sguardo esterno

poteva non sembrare), la poetessa si trovò a seguire le lezioni di Borgese. Gli

argomenti, come ho accennato nel precedente capitolo, compresero una breve

storia del pensiero estetico (a partire da Aristotele fino ad includere le concezioni

8
Ivi, p. 99.
9
Ivi, pp. 99-100.

260
dello stesso Borghese) e un approfondimento sul Decadentismo francese.

«Tornando a casa dall’università, Lucia Bozzi, Elvira Gandini e Antonia Pozzi


parlavano con grande interesse dell’estetica di Borgese, soprattutto in relazione al fatto che egli
considerava il processo della creazione artistica come simile al “travaglio del parto”. Il fatto di
entusiasmarsi tanto a questo concetto del docente, e alla vibrante similitudine da lui
frequentemente usata per definirlo con la sensibilità che gli derivava dell’essere egli stesso uno
scrittore, era per loro un modo di filtrare attraverso una concreta emozionalità di donne un
pensiero attinto a una cultura per altri aspetti prettamente maschile. Sempre in quest’ottica,
Antonia si mostrava particolarmente interessata alla lettura che Borgese aveva fatto
dell’Aesthetica in nuce di Croce, un’interpretazione nella quale la rigidità del pensiero crociano
veniva parzialmente a stemperarsi lasciando intravedere una sorta di sovrapposizione tra arte e
vita; per esempio nell’idea che certe intuizioni non risolte in piena espressione potessero avere
comunque una dignità, in quanto “parole mormorate tra sé e sé dall’autore”, “canto risuonante
nel suo cuore”.
Le tre amiche discutevano anche con molta partecipazione dei “poeti maledetti”, che le
turbavano e attiravano particolarmente.»10.

Quanto la vocazione di Antonia per la poesia che coltivava in modo privato

avesse trovato nuova linfa nell’idea che certe intuizioni non risolte potessero

avere comunque una dignità e che quindi le «parole mormorate tra sé e sé

dall’autore» avessero importanza di per se stesse, come «canto risuonante nel

suo cuore» non è difficile da immaginare. L’impostazione data da Borgese si

ricollega ad un’idea pozziana di moralità artistica, di una ricerca spirituale nel

profondo e nell’intimo per arrivare, con un certo dolore (il travaglio del parto),

ad una sublimazione della vita nell’arte, a quella poesia come catarsi che in

seguito espliciterà al Gadenz. A catturare l’attenzione di Antonia e delle sue

amiche fedeli, Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, sono, dunque, anche i tormenti

dei ‘poeti maledetti’:

«Nei primi mesi del 1931 (come dimostrano le date da lei stessa apposte sui libri della
sua biblioteca), andando ben oltre il programma d’esame, acquista opere di Rimbaud, dei

10
Ivi, pp. 100-101.

261
simbolisti belgi Verhaeren e Maeterlinck e, soprattutto, un’antologia di liriche rilkiane, che in
seguito leggerà con grande attenzione in tedesco alla scuola di Vincenzo Errante.»11

Cercherò di approfondire in seguito i possibili legami della poesia di Antonia

con quella del decadentismo d’oltralpe, facendo particolare attenzione a quella

vena di inquietudine e turbamento che certi versi potevano suscitare nel suo

animo, già parecchio travagliato in quegli anni dall’opposizione del padre

all’unione con Cervi e da tutti i problemi che sorsero nella relazione fra i due a

seguito di questo impedimento. Prima di proseguire con l’analisi di questi

rapporti però, vorrei continuare a rilevare, come ho a tratti accennato anche nei

precedenti capitoli, che l’attenzione della Pozzi per la letteratura straniera si pone

in un periodo, quello appunto del ventennio fascista12, in cui il problema della

ricezione della cultura estera era quanto meno controverso, a partire dallo studio

delle stesse lingue. Secondo Stefano Rapisarda13:

«Il rapporto tra regime fascista e lingue straniere appare per molti versi ambiguo e
controverso e tutt’altro che monolitico. Un libro recente (Valentina Russo, Le lingue estere.
Storia, linguistica e ideologia nell’Italia fascista. Prefazioni di Norbert Dittmar e Alberto
Manco, Aracne, Roma, 2013) getta nuova luce sul problema dello studio delle lingue straniere
in Italia e sulla fase in cui per la prima volta la società italiana vi si cimentò a livello di massa.
[…] La fonte primaria del libro sono Le lingue estere (dopo il 1945 Le lingue del mondo), una
rivista di divulgazione linguistica e più specificamente glottodidattica, pubblicata a Milano tra il

11
POZZI, Parole, p. 20. Dall’introduzione di Graziella Bernabò.
12
Per dare una visione completa del fenomeno, dovrò operare alcuni balzi temporali nella
cronologia pozziana, inserendo notizie che precedono la formazione universitaria e al contempo
spingendomi oltre i suoi esisti. Questa “ribellione cronologica” rispetto ai confini del capitolo è
necessaria per capire come l’approccio allo studio letterario pozziano degli anni ’30-‘38 sia in
qualche modo più o meno condizionato anche dalle contingenze storiche, portandone l’esito
pratico su sentieri inaspettati, non solo dal punto di vista intellettuale ma anche velatamente
politico.
13
Seguo il ragionamento in materia di avvicinamento allo studio delle lingue straniere in Italia
in epoca fascista del professore associato di Filologia e Linguistica Romanza dell’Università di
Catania Stefano Rapisarda, A proposito dello studio delle lingue straniere in epoca fascista,
reperibile in AA. VV., «Letteratura, alterità, dialogicità. Studi in onore di Antonio Pioletti», a
cura di Eliana Creazzo, Gaetano Lalomia, Andrea Manganaro, Le forme e la storia, n.s. VIII,
2015, 2, Rubettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2016, pp. 817-827.

262
1935 e il 1950, in grande formato illustrato e paginazione a giornale di 32 fogli: tipo doppiamente
raro in Italia, per la tematica glottodidattica e per l’intento divulgativo, ambito nel quale l’Italia
non ha mai avuto una grande tradizione. […]
La redazione della rivista Le lingue estere [ha sede a Milano], in uno stabile di via
Cesare Cantù, 2 nel quale, e non dev’essere casuale la coincidenza, si trova anche la sede italiana
dell’azienda, che oggi diremmo multinazionale, “Linguaphone”. Anzi, è assai probabile che la
rivista operi in stretta connessione, fors’anche in dipendenza, con quella società pionieristica,
ancora oggi colosso mondiale dell’insegnamento linguistico, fondata a Londra nel 1901, grazie
all’intuizione del fondatore, il traduttore russo-polacco Jacques Roston, di utilizzare a scopo
glottodidattico i nuovi ritrovati per la riproduzione del suono: dapprima i “rulli di Edison”,
successivamente i dischi piatti, cosiddetti “Berliners”, che intorno al 1930 favoriscono
ulteriormente la diffusione dei prodotti sonori e il loro uso casalingo.
È notorio che la linguistica, come l’archeologia e la filologia, è uno degli ambiti delle
scienze umane in cui più intensa può essere l’interazione con l’ideologia politica, e l’Italia
fascista, tra nazionalismo e autarchia, non è un ambiente favorevole alla diffusione delle “lingue
estere”. Sono ormai numerosi gli studi sul modo in cui il Fascismo tentò (senza riuscirvi) di
normare il modo di parlare e di scrivere degli Italiani rispetto alla marea montante degli
anglicismi e americanismi che già si imponevano con l’irresistibile potenza della “modernità”.
Va quanto meno richiamata la normativa protezionista varata a tutela della “purezza” della lingua
italiana: i decreti che prevedono il pagamento di un’imposta quadrupla per chi utilizzi un
foresterismo in un’insegna commerciale (d. 11.2.1923, n. 352) e che nel 1937 si impenna dal
quadruplo a 25 volte (d. 9.9.1937, n. 1937); la legge che proibiva uso di parole straniere nei nomi
dei locali di pubblico spettacolo (d. 5.12.1938, n. 2178) e di nomi stranieri per i neonati di
cittadinanza italiana (d. 9.7.1939, n. 1238); la legge che proibiva nomi stranieri nelle intestazioni
di attività commerciali, industriali e professionali (l. 23.12.1940, n. 2042). Una è ancora vigente,
per quanto ne so: quella che vieta l’introduzione di titoli cinematografici in lingua straniera e
impone un sottotitolo italiano. A questi decreti si sommano le norme, prescrizioni,
raccomandazioni del Ministero della Cultura Popolare in materia lessicale, tutte ridicolmente
fallimentari, come le taberne potorie, le code-di-gallo e le fette di pan tosto… Tra le centinaia
di neologismi fascisti, quelli arrivati all’italiano contemporaneo si contano sulle dita (autista,
regista, barista, tramezzino e pochi altri), a ricordarci che normare la lingua è come normare il
vento, la pioggia o lo spostamento dei continenti.
Problematico, dunque, legittimare una rivista di divulgazione glottodidattica, in un
siffatto clima. La chiave che la dirigenza della rivista si trova a utilizzare per aggirare il problema
politico-ideologico è quella della “utilità strumentale”. Studiare le “lingue estere” non per
riconoscimento e omaggio a una cultura straniera, ma perché può essere utile a scopi personali e
utilitari: trovare un buon lavoro, migliorare la propria posizione economica, fare carriera,
progredire socialmente; può costituire inoltre un vantaggio per la propaganda: l’italiano che
viaggia all’estero diventa, se possiede qualche capacità linguistica, un “faro di italianità”.
La rivista propaganda dei “miti di fondazione”. Mussolini sarebbe capace di comunicare
disinvoltamente in una pluralità di lingue. Nell’articolo del 1935 Mussolini dà l’esempio si
racconta che, nel corso di un incontro diplomatico con Lord e Lady Chamberlain, il Duce si
sarebbe dichiarato indifferente all’uso della lingua di conversazione, potendo egli esprimersi
fluidamente sia in inglese che in francese e in tedesco. L’episodio è ancora più significativo se,
secondo gli estensori della rivista, tale poliglossia sarebbe il frutto di un rapido apprendimento,
dato che, all’atto dell’assunzione del potere, Mussolini avrebbe dichiarato di non conoscere
l’inglese ma avrebbe pubblicamente e solennemente preso l’impegno di impararlo nel corso di
un anno. L’esempio di Mussolini ricorda che l’apprendimento delle lingue è un’“arma
potentissima per il vittorioso conseguimento [di] scopi pratici” e va a onta di quelli che
dichiarano indisponibilità di tempo come alibi per la procrastinazione […]. Ulteriore
corroborazione agli scopi della rivista viene dall’esempio di alcuni grandi Italiani, come Dante,
Leopardi, Carducci e D’Annunzio, che oltre alla “lingua materna” e a una lingua classica,
avrebbero conosciuto chi tre, chi quattro, chi cinque lingue moderne […], o come Baretti e

263
Ruffini, che non “ebbero vergogna’ (sic!) a studiare l’inglese.»14.

Le motivazioni che giustificano gli studiosi di lingue straniere possono essere

ricondotti dunque solo ad un ambito utilitaristico e non ad una generale passione

per la conoscenza, men che meno per un particolare riconoscimento e omaggio

a una cultura straniera. In quest’ottica pratica, dal 1938, il Ministero della

cultura popolare addirittura promuoverà per radio un ciclo di lezioni che riguarda

«– strumentalmente – [le lingue delle colonie, dunque,] tripolino, amarico ed

etiopico, e alcune europee, ma soprattutto il tedesco»15, lingua quest’ultima che

aveva visto crescere il suo prestigio man mano che ci si avvicinava ad

un’alleanza con l’Asse e alla guerra.

L’interesse e l’approccio della Pozzi alle lingue moderne, precedette di almeno

un decennio questa fase e riguarda ancora una volta la sua formazione scolastica.

Bisogna dunque indagare brevemente «l’idea di lingua straniera che si ebbe in

Italia [con] la riforma “protofascista”, ma in realtà più “elitista-borghese”, di

Giovanni Gentile del 1923»16. Antonia nell’anno scolastico 1922/’23

frequentava il primo ginnasio inferiore. Con quella serie di atti normativi che

andranno a costituire la Riforma Gentile, attuati per regio decreto fra il 31

dicembre 1922 e il 31 dicembre 1923, l’assetto dello studio delle lingue straniere

al ginnasio e al liceo classico, frequentati da Antonia, andrà a impostarsi come

segue:

14
Ivi, pp. 820-823.
15
Ivi, p. 823.
16
Ivi, p. 818.

264
«Chi prosegue gli studi elementari si iscrive al Ginnasio, di durata quinquennale,
suddiviso in corso inferiore (triennale) e corso superiore (biennale); qui una lingua straniera si
studia a partire dal secondo anno del corso inferiore, equivalente alla nostra II media (art.40), e
lo studio si prosegue per gli altri quattro anni, sino al Liceo. Nell’ambito dell’istruzione classica,
che “ha per fine di preparare alle università ed agli istituti superiori”, e dura 8 anni, 5 di Ginnasio
più 3 di liceo, la lingua straniera si studia solo al Ginnasio. La lingua straniera scompare al Liceo
(triennale), in favore di lettere italiane, latine e greche; filosofia, storia ed economia politica;
matematica e fisica; scienze naturali, chimica e geografia; storia dell’arte (art.42).»17.

Secondo Rapisarda, insomma, è vero che lo studio delle lingue straniere non

venne privilegiato in quel Liceo Classico che era considerato la punta di

diamante dell’istruzione superiore e che permetteva l’accesso a tutte le Facoltà

universitarie; nel contempo però non era nemmeno così fieramente avversato:

semplicemente per la formazione delle élites si ritenevano più importanti, in

ottica idealista-gentiliana, altre discipline, come ovviamente le lingua classiche,

la filosofia e la storia. In ottica fascista, lo studio di queste materie avrebbe

dovuto radicare l’amore per la grandezza della Patria, alimentando sentimenti

nazionalisti.

La Pozzi dunque approdò all’università con una conoscenza di lingue straniere

alla quale sembrerebbe aver provveduto anche la famiglia18 per completare la

sua educazione in senso moderno. Si tratta certamente del francese, che anche la

madre sapeva parlare bene19, e che comunque aveva studiato con ottimi risultati

già al ginnasio20; si può ipotizzare un primo approccio di tedesco, appreso

17
Ivi, p. 819.
18
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 45: «L’educazione di Antonia fu completata dallo studio
della musica, del disegno, della scultura e delle lingue straniere, nonché da una serie di attività
sportive, quali il tennis, il nuoto, l’equitazione, lo sci e l’alpinismo. Insomma, l’avvocato Pozzi
voleva il massimo per la figlia, per la quale intravedeva evidentemente un futuro di, almeno
parziale, emancipazione.».
19
Ivi, p. 54.
20
In quella lingua aveva addirittura ottenuto il massimo voto nella pagella del gennaio della sua
quarta ginnasio. Così alla Nena, il 22 gennaio 1926: «A scuola ci hanno dato le pagelle ed è
andata abbastanza bene: 7 in latino – 8 in italiano – 8 in greco – 9 in francese (!) – 7 in matematica

265
attraverso la frequentazione della Scala di Milano e dunque, ad esempio,

dall’ascolto di alcune opere liriche che dice di aver visto, come l’Hänsel e Gretel

di Engelbert Humperdink e i Maestri Cantori di Richard Wagner21; infine

potrebbe essere stata data ad Antonia l’opportunità di crearsi delle basi di lingua

inglese, se la motivazione del viaggio in Inghilterra dell’estate 1931 per tenerla

lontana da Cervi – quindi dopo il primo anno di università – fu ufficialmente

quella di «approfondire lo studio»22 di quella lingua.

Questo interesse per le lingue straniere, che dagli anni universitari vedrà un

progressivo ampliarsi della preferenza verso il tedesco, sarà mediato anche dalle

capacità traduttive derivate alla poetessa dallo studio delle lingue classiche. La

traduzione fu sicuramente uno degli ambiti di applicazione più vivo

dell’intelligenza pratica della Pozzi: se si osserva l’entità dei libri presenti nella

sua biblioteca di Pasturo in lingua originale (in massima parte francesi e tedeschi,

alcuni in inglese), oltre a tenere conto dei lavori di traduzione alla quale si dedicò

in prima persona, non si può non rilevare che il suo approccio alle lingue

straniere andò ben al di là del dettame utilitaristico della visione di regime. Il suo

fu un interesse totalizzante che comprendeva una grande passione per la cultura

e la letteratura di quei Paesi stranieri, oltre che un’attenzione per il significato

delle parole e per lo stile proprio degli autori che andava salvaguardato il più

possibile nel processo di ricezione. Già nell’intelligente avvertenza della propria

– 8 in storia – 7 in geografia. Ho paura che nel prossimo bimestre calerò molto. Basta!!», in
POZZI, Ti scrivo…, p. 59.
21
Ivi, p. 60.
22
Ivi, p. 103, nota n° 111. Anche la madre Lina doveva averne delle basi, se nelle lettere inviate
a lei da Repton, Antonia inserisce una serie di termini inglesi. Cfr. ivi, pp. 103-105 e BERNABÒ,
Per troppa vita…, p. 54: «Lina Pozzi […] conosceva probabilmente anche l’inglese».

266
pregevole23 tesi, Flaubert: la formazione letteraria (1830-1856), Antonia Pozzi

infatti dimostra una vera sensibilità in materia dei problemi di traduzione e di

ricezione di un’opera d’arte in lingua straniera:

«Per le Opere e la Corrispondenza di Flaubert mi sono valsa dell’edizione Conrad,


Paris, 1910-30. Non ho ritenuto opportuno di tradurre le citazioni tratte dalle Opere: in cospetto
di uno scrittore che poneva lo stile e le qualità evocatrici della parola al di sopra di tutte le
preoccupazioni artistiche e per il quale era fede vissuta l’identità di forma e di pensiero, sarebbe
stata profanazione pretendere di saper riprodurre in altra lingua l’armonia espressiva della sua
prosa.
Questo scrupolo non ha luogo nei riguardi della Correspondance, scritta senza precisi
intenti stilistici: ho quindi tradotto tutte le lettere citate, non giovandomi tuttavia della traduzione
pubblicata dall’Angioletti24 perché in parte non rispondente al mio modo d’intendere alcune
espressioni flaubertiane, e in parte mancante di molti passi da me riferiti.»25

Quest’attenzione della Pozzi per la letteratura straniera, connessa anche ad un

attento lavoro di traduzione, non è un episodio isolato nel mondo intellettuale

giovanile a lei contemporaneo, il quale era legato ad un fenomeno sommerso di

presa di coscienza autoriale rispetto al potere eversivo del traduttore nel proporre

un testo proprio di un’altra cultura in quella – magari asfittica, perché assediata

23
Cfr. il saggio di Liana Nissim “L’incessante tensione trattenuta”: il Flaubert di Antonia Pozzi,
in AA. VV., …e di cantare…, pp. 133-145. In particolare: «Dunque la tesi si pone davvero, per
l’epoca, come opera originale, lasciando quasi stupita l’incredula studentessa, [come scrive] al
suo professore Antonio Banfi, “mi sembra […] di star facendo un lavoro non fatto prima da
altri”.», in ivi, pp. 135-136 e «Accanto alla stupefacente conoscenza di tutta l’opera di Flaubert
e alla notevole capacità di concentrarne le idee e le immagini in un discorso suo proprio, Antonia
Pozzi dà anche prova di una conoscenza davvero approfondita e consapevole della letteratura e
della cultura francese che precede o che sta attorno all’opera di Flaubert, conoscenza della quale
[…] non abusa mai, ma che sa utilizzare per illustrare in modo convincente il clima culturale che
insieme spiega Flaubert e ne illumina la novità grandissima. Victor Hugo, Alexandre Dumas,
Chateaubriand, Balzac e tutto il romanticismo, Gautier, Baudelaire e la scuola parnassiana,
Shakespeare, Goethe e Cervantes, Walter Scott, Hoffmann e Poe, La Bruyère, Rabelais e
Montaigne…la gran pare degli autori che entrano in qualche modo nella storia spirituale di
Flaubert trovano la giusta collocazione del discorso critico di Antonia Pozzi, che sa ricostruire
con pennellate rapide e ferme, senza sbavature, la formazione di Flaubert e il clima di un’epoca.»,
in ivi, pp. 141-142. La tesi verrà pubblicata nel 1940.
24
G. FLAUBERT, Corrispondenza, a cura di G.B. Angioletti, 2 voll., Carabba, Lanciano 1931.
25
A. POZZI, Flaubert: la formazione letteraria (1830-1856), con una premessa di Antonio Banfi,
Libri Scheiwiller, Milano 2012, pp. 38-39.

267
da un regime totalitario, come nel caso del fascismo in Italia – di appartenenza26.

Veicolando dei messaggi distorsivi rispetto al modo accettato di intendere la

realtà a livello nazionale, era in qualche modo possibile agire una resistenza

politica e culturale. In questo senso proprio nel 1930, si aprì quello che fu

chiamato da Cesare Pavese “il decennio delle traduzioni”:

«Il decennio dal trenta al quaranta che passerà nella storia della nostra cultura come
quello delle traduzioni, non l’abbiamo fatto per ozio né Vittorini né Cecchi né altri. Esso è stato
un momento fatale e proprio nel suo apparente esotismo e ribellismo è pulsata l’unica vena vitale
della nostra recente cultura poetica. L’Italia era estraniata, imbarbarita, calcificata – bisognava
scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti primaverili d’Europa e del mondo. Niente
di strano se quest’opera di conquista dei testi non poteva essere fatta da burocrati o braccianti
letterari, ma ci vollero giovanili entusiasmi e compromissioni. Noi scoprimmo l’Italia – questo
il punto – cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in Francia, nella Spagna.»27.

Questo “decennio” si pose in contrasto ideale con la stretta che nei medesimi

anni il regime stava cercando di porre sulla circolazione libraria, dopo aver già

normato negli anni precedenti la stampa giornalistica in modo soffocante28:

26
Cfr. per le idee sui rapporti fra la capacita eversiva della traduzione e la resistenza al fascismo
il libro di Valerio Ferme Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale sotto il
Fascismo, Longo Editore, Ravenna 2002, (L’interprete, 70), pp. 15-19.
27
C. PAVESE, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962, p. 247.
28
Riprendo l’incipit del primo capitolo del libro di Maurizio Cesari La censura nel periodo
fascista: «“…Oggi la stampa è ridotta a dire solo quello che il Governo e i suoi prefetti le
consentono, come durante la guerra. Anzi peggio: perché durante la guerra vigeva giustamente
la censura, ed il censore rendeva noti i criteri quasi sempre ovvii a cui il Ministro degli Interni si
ispirava. Adesso no: si è sequestrati a casaccio, non con criteri politici di interesse generale, ma
con criteri ispirati da considerazioni e necessità personali. I divieti più enormi vengono imposti.
Si perseguita più questo che quel giornale. Chi scrive ha il tormento di non sapere ciò che può
dire e non dire, fino a qual punto può spingersi nelle notizie e nelle critiche. Ed egli non ha
nemmeno la certezza che il sequestro sia la sola disgrazia in cui può incadere. No: come
c’insegnano i casi della Voce Repubblicana e del Caffè e la recente vicenda del maggior organo
di opposizione democratica, del Mondo, ai sequestri può far seguito la diffida che [prelude] alla
soppressione del giornale, sospensione o soppressione che, inflitta non dalla magistratura, ma
dal potere esecutivo, rappresenta non soltanto un’enormità giuridico-morale senza esempio, ma
anche una penalità che colpisce duramente i proprietari, i redattori, gli operai, il personale tutto
del giornale. Dove si vuole arrivare? A non far vivere più che la stampa ligia al Governo?...”.
Con questo stralcio di un discorso tenuto dal senatore Luigi Albertini al Senato il 07 maggio
1925, entriamo nella torbida atmosfera di quegli anni in cui il Governo Mussolini aveva
ingaggiato la sua battaglia per l’eliminazione sistematica di ogni stampa d’opposizione.», in M.

268
«Per quanto riguarda i libri, il Regime fascista si era interessato ad un loro controllo fin
dagli inizi degli anni trenta, ma in modo episodico, senza portare avanti una vera e propria
politica censoria, per cui erano in circolazione e si potevano leggere finanche nelle biblioteche
(controllate da commissioni dipendenti dal Ministero dell’Educazione nazionale) libri
antifascisti o romanzi della letteratura americana (tanto malvista dal Regime). In realtà il
Ministero dell’Interno controllava, tramite i prefetti, le letture degli italiani e lo stesso ministro
a volte era intervenuto per togliere dal commercio libri ritenuti chiaramente sovversivi o
“pericolosi”. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i criteri censori dei prefetti erano polizieschi
e completamente inadeguati per l’assoluta mancanza di cultura e di sensibilità, indispensabili per
esprimere un giudizio sui lavori letterari (specie se di un certo valore). Quando nacque il
Ministero per la stampa e la propaganda [26 giugno 1935; Ministro fino all’11 giugno 1936:
Galeazzo Ciano; sottosegretario e successivo ministro dall’11 giugno 1936: Edoardo (Dino)
Alfieri], il servizio di censura ai libri passò dal Ministero dell’Interno alla Direzione generale per
la stampa italiana, dove una speciale divisione cominciò ad analizzare tutti i libri italiani che
venivano messi in circolazione.
Molti libri furono vietati, altri rimandati agli editori ed autori con numerosi tagli; per
tutti ci sembra interessante sottolineare il caso del Garofano rosso di Vittorini che, pubblicato a
puntate in Solaria, ne determinò insieme con il racconto Le figlie del generale di E. Terracini, la
soppressione.»29.

In questa operazione del regime, inizialmente, non ci fu un’attenzione particolare

dedicata alla letteratura straniera in quanto tale30: erano gli argomenti considerati

scabrosi o poco attenti a far emergere una visione virtuosa dell’Italia fascista ad

essere considerati inammissibili31. Il controllo dei libri tradotti in Italia durante

il fascismo, infatti, paradossalmente, si instaurò in modo più lento a livello

ministeriale. Fu invece l’opinione pubblica ad aprire il dibattito: nel luglio 1928

la rivista Il Torchio. Settimanale Fascista di Battaglia e di Critica, pubblicò una

CESARI, La censura nel periodo fascista, Liguori Editore, Napoli 1978, (Le istituzioni culturali,
3), pp. 11-12.
29
Ivi, pp. 52-53.
30
Le informazioni delle prossime pagine riguardanti la relazione fra letteratura straniera e
fascismo sono rielaborate interamente dal saggio di Christopher Rundle Il ruolo/la (in)visibilità
del traduttore e dell'interprete nella storia. Importazione avvelenatrice: la traduzione e la
censura nell'Italia fascista, in AA. VV., «Il traduttore nuovo», Atti delle conferenze organizzate
da AITI Liguria nell'ambito delle manifestazioni Genova 2004, Capitale Europea della Cultura,
Associazione Italiana Traduttori e Interpreti, Numero speciale 2004/1-2, vol. LX, pp. 63-76.
31
«Dal clima culturale dell’epoca e dal modo in cui il regime censurava la stampa, era chiaro
che si dovevano evitare storie di suicidio, aborto, incesto, storie contenenti scene
“pornografiche” o critiche a Mussolini o al regime.», in ivi, p. 68.

269
lettera dai toni aspramente critici contro il dilagare di pessime traduzioni di

romanzi stranieri in italiano, e quindi contro le proposte che case editrici, “fin

troppo note”, facevano alle masse popolari pubblicando libri a basso costo in un

italiano “voltato” improponibile, per puri scopi commerciali. La stessa rivista

lanciò un “referendum” sul problema delle traduzioni, nell’ottica in cui esse

andavano a danneggiare gli interessi generali – non meglio precisati – della

lingua e della cultura italiana. Secondo la fonte di queste informazioni, lo

studioso Christopher Rundle, l’Italia viveva inoltre in una sorta di sbilancio

traduttivo, («bilancio culturale in passivo»)32 ossia era il Paese in cui si traduceva

di più dalle altre lingue, ma le cui opere erano meno tradotte negli altri Paesi,

soprattutto a paragone della Francia e della Germania. La situazione emerse con

chiarezza l’anno successivo:

«Nel 1929 […] la pubblicazione dei primi Libri gialli della Mondadori inaugurò una
lunga stagione di successi con traduzioni di romanzi popolari in edizioni economiche a grandi
tirature e distribuiti anche con sistemi innovativi, come la vendita nelle edicole in forma di
dispensa. Va ricordato che un romanzo italiano medio poteva sperare di vendere 3000-5000
copie nell’arco di qualche anno mentre il primo romanzo giallo di Edgar Wallace vendette più
di 50,000 copie nei primi mesi. Oltre alla Mondadori, molte altre case editrici lanciarono serie
dedicate alla letteratura tradotta: Sperling & Kupfer lanciarono i Narratori nordici e una serie
intitolata Pandora; Bietti avviò una Biblioteca Russa, e Slavia pubblicò due serie intitolate Genio
russo and Genio slavo; La Modernissima iniziò una serie chiamata Scrittori di tutto il mondo che
sarebbe poi passata a Corbaccio e apparvero altre serie edite da Sansoni, UTET, Sonzogno,
Treves Treccani Tumminelli, Vallardi e Zanichelli.»

Come accennato, fino al 1934 il dibattito restò interno al mondo dell’editoria e

il regime non si occupò di regolamentare il flusso e la ricezione della letteratura

straniera33:

32
Ivi, p. 64.
33
Per spiegare questo disinteresse del regime Rundle scrive: «Innanzitutto un conflitto di
interessi tra due attori nel mercato librario non era necessariamente un problema per il regime;

270
«[La situazione sfociò] in uno scontro quasi sindacale tra gli autori da una parte che si
sentivano minacciati dai bestseller stranieri, e gli editori dall’altra, i cui legittimi interessi
commerciali venivano tacciati come anti-patriottici e la loro produzione veniva accusata di essere
di bassa lega e addirittura dannosa. Però, la campagna costrinse gli editori a riconoscere che le
traduzioni stavano diventando un “problema”. Nell’ aprile del 1934, durante l’Assemblea
Generale della Federazione degli Editori, il vice Presidente Antonio Vallardi affrontò la
questione con un’ammissione molto franca della difficoltà della situazione:
“Altro fenomeno che merita la nostra attenzione è quello delle traduzioni. L'Italia è il
paese che traduce di più come prova l'Index Translationum, in modo irrefutabile. […] È un bene
o un male che l'Italia sia la maggior tributaria della letteratura straniera?”
“[È un problema] che investe essenzialmente la letteratura amena, mentre nella scienza
e nell'arte, nelle discipline storiche come nelle giuridiche, nella filosofia e nella didattica l'Italia
è ormai quasi del tutto svincolata dalla sudditanza straniera.” […]
Qui Vallardi ammette l’imbarazzo politico degli editori usando termini molto forti. Per
quanto legittimi i loro interessi commerciali, per quanto il mercato continuasse a richiedere
questi prodotti, non si poteva negare la cattiva luce che i dati sulle traduzioni gettava su di loro,
dati che confermavano che l’Italia fosse la “maggior tributaria” della letteratura straniera, dati
che rivelavano l’Italia in un ruolo di “sudditanza” culturale, ideologicamente inaccettabile.» 34

Non essendo i libri sottoposti alla censura preventiva, ma subendo spesso atti di

censura a posteriori (rispetto alla stampa e alla distribuzione) che comportavano

il ritiro delle copie (e dunque la negazione di ogni possibile guadagno derivato

dalla vendita), gli editori decisero di collaborare preventivamente con il

Ministero della Cultura Popolare (MCP), soprattutto per evitare il danno

economico. Con la fondazione dell’Impero coloniale nel 1935/’36, Mussolini

aveva ormai stretto le maglie della censura in favore del vettore di un’autarchia

che avrebbe dovuto garantire l’immagine di forza e indipendenza della “razza

italiana” 35. Secondo l’analisi di Rundle:

il fatto che l’editoria italiana si stesse modernizzando era un dato positivo e l’industrializzazione
dei sistemi di produzione e distribuzione, che avveniva anche grazie al successo delle traduzioni
dei romanzi popolari, rientrava in una visione fascista di produzione culturale. Fino a quando la
traduzione era vista come uno scambio culturale “sano”, cioè un scambio reciproco tra culture
alla pari, essa non poneva un problema per il regime. Fintanto che il regime non coltivava
progetti di espansione culturale attraverso le traduzioni dall’italiano, non si avvertiva alcuna
esigenza a porre dei limiti a questo mercato così proficuo. Ma quando, poi, sarebbe diventato
chiaro che nella realtà il fenomeno non rappresentava né uno scambio alla pari, né tanto meno
un’espansione, ma invece una eccessiva ricettività italiana, l’atteggiamento del regime sarebbe
cambiato.», in ivi, pp. 66-67.
34
Ivi, p. 66.
35
Ricordo inoltre che l’attenzione del regime, dal 1938 in poi, sarà catalizzata dal problema della

271
«In questo clima di nazionalismo esasperato e di “preoccupazioni” per gli effetti
potenzialmente dannosi di tutto quello che è straniero, esterno e implicitamente inferiore, non
sorprende che il regime cominciasse a guardare con più attenzione all’influsso costante di
traduzioni e che avvertisse una contraddizione tra l’ideale della cultura dominante fascista che
conquista il mondo da una parte, e la realtà della cultura Italiana dall’altra, che assorbe più
prodotti stranieri di qualunque altro paese al mondo. Il primo provvedimento che sono riuscito
a trovare che riguardi specificamente le traduzioni è del gennaio 1937. Si direbbe quindi che fino
a quella data le traduzioni sono state trattate come qualsiasi altra pubblicazione non-periodica,
senza una procedura formale specifica, e tanto meno una legislazione. Nel gennaio del 1937,
invece, l’MCP informa gli editori attraverso un circolare alle prefetture che devono informare il
ministero “preventivamente” ogni volta che decidono di tradurre un’opera straniera – non
chiedere il permesso di tradurre, ma semplicemente informare l’MCP. Questo non era un
provvedimento particolarmente serio ma era un primo segnale che l’MCP stesse cominciando ad
interessarsi in maniera diversa delle traduzioni, esigendo di conoscere quante erano le traduzioni
in programma e chi li avrebbe pubblicate. Poi, nel gennaio 1938, lo stesso mese in cui Marinetti
portò la sua mozione al Ministro Alfieri 36, l’MCP chiede agli editori una lista completa, da
inviare “con massima sollecitudine”, di tutte le opere straniere già pubblicate e quelle in progetto.
Questo era già un segnale più preoccupante per gli editori, e lo si vede anche dalla reazione di
Arnoldo Mondadori. Mondadori scrisse al ministero dicendo che la sua casa pubblicava poche
traduzioni e allegò una lista dove dichiarava di aver pubblicato 269 traduzioni dalla fondazione
della sua casa fino al 31 dicembre 1937 e annunciava 29 traduzioni per il 1938. In realtà aveva
pubblicato 707 traduzioni fino al 1937 e ne avrebbe pubblicato 91 nel 1938. Con un abile colpo
di mano toglie dal suo elenco tutte le opere che venivano stampate in forma di dispensa con la
giustificazione che queste avevano “vita effimera” e che quindi non meritavano di essere prese
in considerazione – il che è alquanto discutibile dato che si riferiva a due serie, i Libri gialli e i
Romanzi della palma, che includevano quasi la metà delle traduzioni da lui pubblicate. Colpisce
il modo in cui Mondadori manipolava i suoi dati in maniera così trasparente, ma colpisce anche
il fatto che l’MCP abbia accettato questo escamotage senza obbiettare – il che non fa che
confermare che nell’Italia fascista contava molto di più l’obbedienza apparente, l’essere
pubblicamente ligio al dovere, che non la realtà di quello che facevi.».37

razza anche a livello librario, fino alla nascita della “Commissione di bonifica del libro” ai danni
degli ebrei: «Tutta la produzione letteraria degli ebrei fu sottoposta ad un severo esame per
togliere dal commercio la maggior parte dei libri di autori ebrei; inoltre si stabilì che per le nuove
produzioni, specialmente se di religione, diritto, letteratura, arte, storia, scienze antropologiche,
si doveva esercitare un controllo assai più severo di quello normale, ed ispirato a netti principi
razzisti. Tale opera di revisione fu esercitata dalla “Commissione di bonifica del libro” di recente
creazione. Il 10 novembre 1938 furono approvate dal Consiglio dei ministri le leggi per la tutela
della razza in seguito alla deliberazione del Gran Consiglio del 06 ottobre. La censura allora fu
inesorabile per cui nel giro di due mesi furono soppresse tutte le pubblicazioni ebraiche. Si giunse
perfino alla compilazione di un elenco delle case editrici che dovevano modificare il nominativo
ebraico.», in CESARI, La censura…, p. 60. Nella relativa nota a p. 74 è riportato l’elenco dei
mutamenti: «Casa editrice Bemporad = Poliziano; Casa editrice Lattes = Editrice libraria italiana
S.A.; Casa editrice Treves = Soc. An. T.R.E.V.E.S.; Casa editrice Formiggini = Edizioni
dell’I.C.S.».
36
Marinetti colse l’occasione del rinnovato spirito autarchico-imperialista per presentare,
insieme al Sindacato degli Autori e Scrittori, una mozione all’allora Ministro del MinCulPop,
Dino Alfieri, mozione che fra le altre cose proponeva «una commissione ministeriale per il vaglio
delle traduzioni che doveva servire a “limitare l’invadenza delle opere straniere” e che doveva
imporre un sistema di reciprocità “specie per quanto riguarda la letteratura narrativa e la così
detta letteratura gialla” (specificazione che conferma come gli autori si sentivano minacciati in
particolare dal successo delle traduzioni in questo campo); e un albo dei traduttori che li avrebbe
portati sotto l’egida degli autori, condividendo i loro stessi interessi, e allontanandoli dagli editori
che li impiegavano.», in RUNDLE, Il ruolo…, p. 69.
37
Ivi, pp. 71-72.

272
È difficile riuscire a formulare con nettezza un giudizio circa la relazione

divergente fra la crescente attenzione della Pozzi per la letteratura straniera, e

l’intenzione culturale autarchica sempre più pressante in Italia dal 1935-‘36 in

poi. Mi sembra giusto rilevare però che i due movimenti coincisero

temporalmente nel loro culmine: si tratta del biennio 1937-1938. Negli anni post

universitari, la Pozzi infatti continua a dedicarsi alla critica letteraria di autori

stranieri, come dimostrano «le due conversazioni su Huxley38 che tiene

all’Università nell’aprile del 1938. La prima è poi pubblicata su Vita giovanile,

n.9, a. I, 31 maggio 1938»39, rivista che «prenderà il nome di Corrente di Vita

Giovanile nel settembre del 1938 e verrà soppressa da Mussolini il giorno

dell’entrata in guerra. Corrente è un importante punto di riferimento per i giovani

che non si riconoscono nel conformismo culturale del regime, diventa il luogo

di mediazione tra la cultura milanese e le novità europee e americane, quindi

palestra di idee radicalmente innovative in campo artistico, dalla pittura alla

poesia. Vi collaborano, tra gli altri: Treccani, Del Bo, Lattuada, Sereni, De

Grada, Paci, Vigorelli.»40, molti di questi amici della stessa Pozzi.

In quegli ultimi anni della sua vita Antonia sembra aver trovato un sentiero per

la desiderata applicazione della cultura vasta e approfondita che sia era creata

nei dieci anni precedenti, a partire dalle appassionate traduzioni liceali, sino

all’interesse per un autore sicuramente al di fuori dei canoni graditi al regime

38
Aldous Leonard Huxley (Godalming, 26 luglio 1894 – Los Angeles, 22 novembre 1963),
scrittore britannico conosciuto per l’immaginario distopico creato nel suo più famoso romanzo,
Brave New World, tradotto in Italia nel 1933 da Lorenzo Gigli per i tipi di Mondadori sotto il
titolo di Il mondo nuovo.
39
POZZI, Diari, p. 101. La citazione è tratta dalla nota n°23, curata da Onorina Dino.
40
Ivi, pp. 101-102.

273
fascista, come appunto Aldous Huxley, di cui la poetessa possedeva gran parte

dell’opera in prosa (in italiano, in francese e in inglese) che l’autore aveva

pubblicato sino al 193841. Tutto questo fermento era forse dovuto anche alla sua

intenzione di scrivere “il romanzo della pianura lombarda”, prendendo spunto

dal percorso di Flaubert42 e dedicandosi intensamente al proprio lavoro43.

«Lavoro: sto traducendo dal tedesco un libro – a mio parere bellissimo, ma

alquanto difficile, perché pieno di una specie di gergo che mi fa sudare!»44,

scrive in una lettera ad Alba Binda del 7 luglio 1938, riferendosi a Lampioon

küsst Mädchen und kleine Birken di Manfred Hausmann)45 (romanzo del 1928

41
Cfr. ivi, p. 102. Confrontando personalmente nella biblioteca pozziana, ho rilevato la presenza
dei seguenti titoli in italiano: A. HUXLEY, Due o tre Grazie (titolo originale del racconto: Two ot
Three Graces, 1926), traduzione di Alfredo Pitta, Monanni, Milano 1933; Giallo Cromo (titolo
originale del romanzo: Crome Yellow, 1921), trad. di Cesare Giardini, Monanni, Milano 1932;
Il sorriso della Gioconda (racconto, The Gioconda Smile, 1921), Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1933 (Medusa, 5); Dopo i fuochi d’artificio (After the fireworks, 1930), Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1937 (Medusa, 69). In francese sono presenti: Croisière d’Hiver en
Amérique Centrale, (Beyond the Mexique Bay, 1934; prima traduzione italiana Oltre la baia del
Messico, trad. di Daniela Del Sero, F. Muzzio, Padova 1994), Librairie Plon, Paris 1935; La paix
des profondeurs (Eyeless in Gaza, 1936), voll. I e II, Librairie Plon, Paris 1937; Contrepoint,
(Point counter Point, 1928), voll. I e II, Librairie Plon, Paris 1930 (firmato all’interno: «Antonia
Pozzi Letto a Pasturo, settembre 1937»); Les Meilleur Des Mondes (Brave New World, 1932),
Librairie Plon, Paris 1933. Solo due i libri in lingua originale (inglese): Music at night and other
essays, Tauchnitz Edition, Leipzig 1931 (Collection of British and American Authors, 5017);
Those Barren Leaves, Tauchnitz Edition, Leipzig 1928 (Collection of British and American
Authors, 4816).
42
«Io lavorerò, Flaubert m’insegni.», in POZZI, Diari, p. 47.
43
Ricordo il senso altamente morale di questa volontà di prassi ritrovandolo nelle stesse,
purtroppo frammentate, parole di Antonia: «…A volte mi sembra che l’unica possibilità di vita,
per me, stia lì; l’unica possibilità morale, intendo; perché sarebbe uno sforzo di volontà continuo,
lo sforzo più grande ch’io possa fare: vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vivere…
Ah, sogni, ancora sogni… chi mi dice se è sogno o dovere?...», in POZZI, Ti scrivo…, p. 180. Si
tratta del frammento di una lettera del 9 settembre 1933 trascritta a mano da Roberto Pozzi e
indirizzata a Paolo Treves
44
POZZI, Ti scrivo…, pp. 296. In quel libro Antonia ha fatto seccare numerose stelle alpine. Il
Roberto Pozzi scrisse sulla pagina iniziale del libro, a matita: «I fiori, contenuti fra le pagine, /
si furono posti dalla povera / Antonia si prega si conservarli / Il papà.».
45
Sull’argomento cfr. A. MORMINA, Una traduzione inedita di Antonia Pozzi: Lampioon di
Manfred Hausmann, in «Rivista di Letteratura Italiana», Pisa-Roma, XXVIII, 3 (sett.-dic. 2010),
pp. 75-112. Onorina Dino riporta una citazione parziale e inedita nell’introduzione che scrive a
POZZI, Diari, p. 15: «E intanto comincia a tradurre dal tedesco Lampioon […] dove il destino di
Lampioon è il suo, ma anche quello di tutti gli uomini: “…Noi siamo tutti in cammino, anche tu,
di’ quel che vuoi, anche tu. Ma molti di noi hanno una meta. Ogni giorno hanno una meta, una

274
ancora inedito in Italia il cui titolo suonerebbe Lampioon bacia ragazze e giovani

betulle)46, proseguendo poi: «Sto prendendo appunti per un saggio su Morgan47,

l’autore della Fontana (che, tra parentesi, non mi piace affatto, perché troppo

metafisicizzante, ma in ogni modo, ci sono cose interessanti da dire sul suo

conto) e, da ultimo, ho ormai chiaro in mente lo schema […] di un grande

romanzo, che sarà – come nocciolo – la storia della mia nonna, cioè la storia

della Lombardia e della nostra pianura del ’70 circa in poi»48.

Alcune frasi emblematiche contenute nella conversazione su Huxley illuminano

l’anticonformismo (se non posso scrivere apertamente l’antifascismo, data anche

la posizione politica del padre, a cui lei era molto legata, il quale ricoprì la carica

di Podestà di Pasturo dal 1935 al 194249) di Antonia, anche solo nella scelta del

volta piccola, una volta grande, e si impongono delle privazioni e non guardano né a destra né a
sinistra finché non l’hanno raggiunta. E poi? Niente. Sì, hanno raggiunto la loro meta. E alla fine
si buttano giù e muoiono.»
46
Gabriella Rovagnati in “Parole-Worte”. Per far conoscere Antonia Pozzi al pubblico tedesco,
descrive così la relazione di Antonia con l’opera di Hausmann: «Faceva certamente parte del suo
desiderio di appropriarsi del tedesco anche il lavoro di versione di un romanzo di Manfred
Hausmann (1898-1986), che Antonia iniziò nell’estate del 1938, quando, dopo essere stata
operata d’appendicite, trascorse un periodo di convalescenza nella sua amata Pasturo.
Hausmann, che proprio nell’anno della morte di Rilke, nel 1926, si era trasferito con la famiglia
a Worpswede – il villaggio presso Brema che anche nella vita del poeta di Praga aveva significato
molto –, fu giornalista e scrittore assai prolifico, e al successo arrivò nel 1928 proprio con il
romanzo Lampioon […], che, per quanto mi risulta, non è mai stato tradotto in italiano. Come
mai Antonia Pozzi decise di tradurre proprio quel volume, è difficile stabilirlo. Probabilmente
qualcuno gliene aveva consigliato la lettura o forse quel libro, che porta il sottotitolo Abenteuer
eines Wanderers [Avventure di un vagabondo] le piaceva per le sue appassionate descrizioni di
paesaggi vissuti come spazi della libertà e della totale assenza di costrizione. Come mai Antonia
non abbia deciso di tradurre invece poesie, benché anche in questo caso siano possibili soltanto
illazioni, si deve forse al fatto che lei stessa aveva deciso di cimentarsi con la prosa.», in AA.
VV., …e di cantare…, p. 155.
47
Charles Langbridge Morgan (1894-1958), scrittore inglese. The fountain a cui accenna la
poetessa è del 1932. È presente nella sua biblioteca nell’edizione Mondadori (Medusa, 33) del
1937. Dello stesso autore e della stessa collana (Medusa, 91), si trova anche Nel bosco d’amore
(titolo originale Sparkenbroke, 1936), edito in traduzione italiana nel 1938.
48
POZZI, Ti scrivo…, pp. 296-297.
49
Cfr. La sezione del sito internet Il Grinzone intitolata Pasturo e la guerra che si apre così:
«Nel 1942 il podestà Pozzi si dimetteva dopo sette anni di attività. Passarono mesi prima che
venisse sostituito da Isaia Bonasio, con comunicazione del prefetto Rino Parenti in data 17 aprile
1943. Nel frattempo, nei primi mesi di quell’anno, era nato a Lecco un comitato di azione

275
romanzo da analizzare, Eyeless in Gaza (letto da lei nella versione francese).

Pubblicato nel 1936, inedito in lingua italiana fino all’edizione del 1950 di

Mondadori50, il titolo dato da Huxley si riferisce all’episodio biblico in cui

Sansone, giudice-eroe dalla forza prodigiosa, viene imprigionato dai Filistei, che

gli cavano gli occhi e in seguito lo trascinano a Gaza riducendolo in schiavitù.

L’analisi della Pozzi si concentra sul tema del sangue che lega il romanzo al suo

interno e, nel contempo, si riallaccia all’epifania del Selvaggio di Brave New

World, «colui che non accetta il Mondo Nuovo perché qui “nulla si paga

abbastanza caro”, colui che vuole Dio, vuole la poesia, il pericolo reale, la

libertà, la bontà, vuole il peccato e il diritto di essere infelice»51. Subito dopo la

Pozzi tradisce, nella tensione irrequieta del Selvaggio letta fra parentesi, la sua

visione della latinità, collegata all’Europa romantica e al cristianesimo, connessa

ad un senso del sacrificio nella morte che chiede di essere compiuto

nell’individualità, per una fusione definitiva di sé con sé, dell’intuizione con

l’azione:

«(e noi ancora, latini ed europei, con tutto il cristianesimo e il romanticismo che
portiamo nel sangue, come sentiamo di somigliargli!)»52.

Secondo la Pozzi i latini e gli europei vogliono ancora la libertà e il peccato di

scegliere la propria infelicità, fuori dai confini di una realtà in cui il futuro è già

antifascista, che comprendeva anche don Giovanni Ticozzi, nato a Pasturo nel 1897 e preside del
Liceo Classico.»
50
Tradotto da Paola Ojetti, nella collana Medusa, 250. La Pozzi lo leggerà nell’edizione francese
sopra menzionata, con il titolo La paix des profondeurs.
51
POZZI, Diari, p. 86.
52
Ibidem.

276
deciso. Con queste parole a mettere in risalto la scelta del Selvaggio, la Pozzi si

distanzia da un’idea di mondo come organizzazione perfetta per avvicinarsi alla

prova dell’esperienza salvifica dell’esistenza intesa come caos. La poetessa

ricorda il personaggio del Selvaggio come esempio di una vita differente e

solitaria, bella e tragica:

«è la pagina in cui il Selvaggio, fanciullo percosso ed escluso, si trova completamente


solo, fuori dal pueblo, sul nudo pianoro, a guardare il suo sangue stillare contro il cielo notturno:
“A intervalli di qualche secondo una goccia cadeva, scura, quasi senza colore nella morta luce.
Una goccia, una goccia, una goccia. Domani e domani e domani… Egli aveva scoperto il Tempo
e la Morte e Dio”.»53

A partire da questa precisazione, la poetessa si ritrova immersa in una serie di

descrizioni vivide relative alla connessione interna di Eyeless in Gaza, basata

non sulla cronologia degli eventi ma sulla sovrapposizione di attimi di una «vita

[che] ha da far sentire il suo richiamo violento»54. Niente si potrebbe distanziare

di più dalla pudicizia fascista che il suicidio del migliore amico del protagonista

(Anthony Beavis), schiantatosi «ai piedi della roccia, sfracellandosi»55; o dal

«tetro sangue animale, del cane che precipita dall’aeroplano e va a frantumarsi

sulla terrazza rovente di sole ove Anthony ed Helen giacciono nudi»56.

Basterebbero queste notazioni per affermare che il tracciato della Pozzi verso

l’eversione e la resistenza con le armi della scrittura si stava profilando sempre

più nitidamente. Segnalando oltre ai contenuti, anche le scelte stilistiche e di

traduzione che la Pozzi adotta nel suo intervento per diramare l’immaginario di

53
Ivi, pp. 86-87.
54
Ivi, p. 87.
55
Ivi, p. 88.
56
Ibidem.

277
Huxley, vorrei far emergere quanto della professionalità di Antonia nella

scrittura fosse in gioco in queste pagine.

La poetessa infatti riesamina con una lucidità tagliente il sentiero delineato da

Huxley, fatto di alcune considerazioni decisamente sovversive rispetto ad una

visione del mondo57 di regime, unitaria. Non per niente il romanzo del britannico

da cui la Pozzi parte per l’analisi di Eyeless in Gaza è uno scritto a più voci del

1928, Point Counter Point, che la poetessa traduce in autonomia58 come

Contrappunto rifacendosi all’idea musicale di contrasto che questo titolo con più

facilità poteva evocare e che nella sua analisi rispondeva con più aderenza alla

necessità dell’autore inglese di esporre:

«una posizione di estremo, delicatissimo equilibrio fra quella sua intelligenza da un lato,
vastamente comparativa e critica, tesa ad abbracciare ottave amplissime di realtà sovrapposte
(dalle note basse del mondo fisico a quelle eccelse e spiranti in silenzio delle sfere spirituali), e
la mordente nostalgia dell’umanità dall’altro.»59

Effettivamente il titolo dato da Huxley, Point counter point si riferisce alla forma

del libro, quasi un dibattito fra differenti storie che si intrecciano fra loro su un

tema ricorrente, proprio come nel contrappunto musicale: l’interpretazione della

Pozzi risulta quindi più efficace. Per esemplificare l’eccentricità60 di questa

lettura a livello di contenuti, riporto il risvolto dell’edizione Adelphi:

57
Il termine tedesco usato è quello proprio della filosofia, Weltanschauung, come si vedrà più
avanti.
58
Rispetto al titolo tradotto in italiano nel 1933 da Silvio Spaventa Fillippi per Sonzogno e che
ancora oggi (per la casa editrice Adelphi 2011, trad. di Maria Grazia Bellone) è Punto contro
punto (forma che deriva dal latino medievale punctus contra punctum e che significa
letteralmente, “nota contro nota”). La scelta della Pozzi, più moderna e immediata nel suo legame
con la terminologia musicale, probabilmente è anche influenzata dal titolo della versione
francese che ha letto, Contrepoint.
59
POZZI, Eyeless in Gaza, in ID., Diari, p. 85.
60
Mi riferisco sempre ad un’eccentricità rispetto ai canoni di letteratura accettati dal regime.

278
«Un giornalista timido e inconcludente, certo soltanto di non amare più la donna con
cui vive; un pittore di fama mondiale, celebre anche per i suoi scandali privati; il direttore di una
rivista letteraria, meschino e ipocrita ma dotato di una sorprendente capacità di seduzione; una
giovane ereditiera vanesia, amorale e condannata all’eterna insoddisfazione: sono solo alcuni dei
personaggi che nella Londra degli anni Venti intrecciano le proprie vite – tra passione e infedeltà,
violenza politica e noia esistenziale, volontà di dominio e paura della morte – in questo superbo
“romanzo di idee” di Aldous Huxley. “Il carattere di ciascun personaggio dovrà emergere, per
quanto è possibile, dalle idee di cui è portavoce. Dato che le teorie sono la razionalizzazione di
sentimenti, istinti e stati d’animo, si tratta di una cosa fattibile”. La dichiarazione d’intenti,
affidata al taccuino di uno dei personaggi, è esplicita quanto la tecnica di composizione, ispirata
al contrappunto – come in Beethoven: “La maestosità che si alterna con la leggerezza ... La
commedia che di colpo accenna a prodigiose e tragiche solennità”. Tecnica che Huxley
padroneggia mirabilmente, combinando cinismo ed empatia, raziocinio e caricatura nella sua
spietata dissezione di comportamenti e moventi psicologici. Il risultato è una satira paradossale
che mantiene immutata la sua freschezza, così come immutati restano i conflitti, le paure e i
desideri umani.»61.

Questo mondo dipinto da Huxley – nella sua contraddittorietà illuminante

rispetto alla visione borghese della società contemporanea – genera per Antonia

l’idea di apertura da cui partire per l’analisi di Eyeless in Gaza, ossia l’immagine

di un delicatissimo equilibrio fra aspetti contrastanti del genio autorale. Ma

nell’analisi dell’opera del 1936, la penna critica della Pozzi arriverà a rilevare

una disgregazione molto più profonda di quella presupposta nell’unitarietà della

persona:

«Huxley si è ancora più a fondo curvato sul microscopio; e, per analogia con l’atomicità
dei corpi, l’atomicità dello spirito gli diventa attuale e urgente verità di vita. “È finita – scrive
Anthony – con la sua personalità nel vecchio senso della parola. Era riservato a Blake di
razionalizzare l’atomismo psicologico per farne un sistema filosofico. L’uomo secondo Blake
(e, dopo di lui, secondo Proust, secondo Lawrence) è semplicemente una serie di stati. Il bene e
il male non possono essere affermati che relativamente agli stati e non per quello che concerne
gl’individui, i quali, di fatto, non esistono se non come i luoghi dove si verificano gli stati. (Non
è questo – fra parentesi – il principio di una nuova specie di personalità? Quella dell’uomo totale,
non evirato, non selezionato, non canalizzato, per variar la metafora, lungo un qualunque e
particolare tubo di scarico che costituisce una Weltanschauung – dell’uomo, in una parola, che
è effettivamente ciò che può essere?)”. In questa concezione della personalità come aggregato di
stati atomici ha la sua spiegazione la tecnica ardita e nuova di Eyeless in Gaza. »62.

61
A. HUXLEY, Punto contro punto, Adelphi, Milano 2011, risvolto di copertina.
62
POZZI, Eyeless in Gaza, in ID., Diari, p.89.

279
Si deve supporre che, essendo Eyeless in Gaza inedito in Italia, la traduzione del

passo citato sia della Pozzi: la poetessa sceglie di portare la voce del protagonista

attraverso queste parole che annunciano una novità del pensiero e al contempo

la mettono alla prova quasi fisicamente. Di fronte ad esse il lettore si sente

immediatamente coinvolto ad esaminare la propria esperienza, a verificare la sua

stessa esistenza che si muove attraverso stati disgregati di personalità in azione.

Precisamente nell’attuazione del proprio io possibile e parziale, l’uomo acquista

una possibilità di essere totale. Attraverso la conservazione e la riproposizione

del vocabolo tedesco usato da Huxley, Weltanschauung, proprio della filosofia

e considerato intraducibile per la sua ricchezza semantica, la Pozzi conferma sì

la sua intelligenza critica e la sua sensibilità, ma tradisce anche la sua stessa

incapacità concreta di aderire a un modo di vivere caratterizzato da una visione

del mondo precompresa. Di questa presa di coscienza del sé come di una

singolarità che cerca via via la verità della propria risposta nell’esperienza

quotidiana, ho dato numerosi esempi nei capitoli precedenti: si tratta della sua

ferma opposizione alla visione religiosa di Antonio Maria Cervi; dell’interesse

per la fluidità pirandelliana; della volontà di diventare sempre più se stessa che

sottolinea e commenta nelle parole di Schleiermacher. Anche qui, nell’opera di

Huxley, Antonia decide di evidenziare questo statuto ontologico di

inappartenenza ad un progetto predefinito in grado di limitare le possibilità

umane a seconda di ciò che viene programmato dalla società, e non credo sia un

caso. La coscienza della poetessa in merito è lucida: lo spirito è atomico,

disgregato. La stessa consapevolezza appartiene ad Anthony. L’impossibilità

280
per il protagonista di percepirsi e narrarsi attraverso un filo cronologico e

monolitico, lo porta alla conoscenza di sé attraverso la sovrapposizione di più

piani temporali, dall’infanzia all’età adulta. Questa modalità innovativa di

narrazione spinge la Pozzi ad una considerazione sul tema arte-vita che non può

che avere risvolti molto interessanti e vicini alla sua stessa ricerca63: un tema

connesso con una percezione della morte vista come gesto reiterato per uscire

dall’apatia dell’intellettualismo e, quindi, come concreta possibilità di

resurrezione della vita64. Ovviamente questo approccio ha a che fare con la

tensione infinita verso l’impossibile e verso l’altro da sé:

«“L’interesse sta proprio nell’esigere da sé medesimi il compimento dell’impossibile.


L’interesse risiede proprio nel paradosso, nel fatto che l’unità è il principio e la fine di tutto e
che tuttavia la condizione della vita e d’ogni esistenza è la separazione che è l’equivalente del
male”.
Delle vite intere possono passare nel tentativo di aprire un po’ di più, ancora un po’ di
più, l’universo chiuso che tende perfettamente a suggellarsi in modo ermetico appena lo sforzo
si rilassa. Vite intere possono passare in isforzi costanti per realizzare l’unità con altre vite e altri
modi d’esistenza. Per farne esperienza nell’atto dell’amore e della compassione. Per farne

63
Cfr. ivi, p. 90: «Se già in Contrappunto e nel Mondo Nuovo la prosa narrativa si era spezzata,
dando luogo ad accavallamenti e a intrecci più fitti, ciò era stato per dare forma ad una
sovrapposizione di piani più che altro spaziali: qui invece sono di indole cronologica. Ma
badiamo: questa tecnica della rievocazione non ha nulla in comune con la lenta, tortuosa,
aggrovigliata esplorazione a ritroso del je proustiano. Quello snoda un suo esile e complesso
gomitolo luminoso per i corridoi della memoria: qui sono vere sciabolate crude di luce, come di
un faro che giri assiduo, segando e frugando a volta a volta gli angoli più remoti di un cielo
nitido. Non atmosfera di stanza chiusa, non creazione di un mondo d’arte, di conoscenza,
strettamente valido per se stesso, esiliato dal mondo reale; ma definizione precisa di gradi
progressivi di una conoscenza della realtà che, a un certo punto, per essere sempre più vasta e
profonda, non si contenta più, toccato il limite esterno dell’analisi e della disgregazione, della
sua capacità critica, ed ecco, mira a risalire verso la vita, per trovarvi la giustificazione di se
stessa.»
64
Cfr. ivi, p. 87: «Questo tema del sangue ci introduce direttamente nel mondo di Eyeless in
Gaza, di Sansone cieco al mulino con gli schiavi, che nella profondità delle sue tenebre coscienti
esplora il mistero della vita, giù fino all’analisi del suo sangue e di quello dei fratelli, giù fino al
disgregamento fisico e spirituale della personalità in atomi vitali indifferenziati e poi, da questo
smisurato mare sotterraneo, a capofitto, in uno slancio deliberato, di nuovo nella vita, nell’amore
della vita – anche se questa dura una notte sola e l’indomani sarà la morte, poiché certe
rivelazioni di completezza non si possono pagare altro che con la morte; (anzi, proprio nella
morte accettata e cercata in nome di quella vita riconosciuta concreta e assunta a idealità, sta la
resurrezione dal mondo dell’intellettualismo, apatico, il riscatto del pensiero nel gesto).».

281
esperienza, su un altro piano, per mezzo della meditazione, nel lampo dell’intuizione diretta…
“In quello stato di spirito contemplativo che serve per abbordare gli altri, in quello sforzo di
realizzare l’unità delle vite e dell’essere con l’intelletto e infine – intuitivamente – in un atto di
comprensione completa. Da un argomento all’altro, passo per passo, verso una consumazione
ove non sia più ragionamento alcuno, dove non ci sia più che l’esperienza, che la conoscenza
immediata, come quella di un colore, di un profumo, di un suono. Passo per passo verso
l’esperienza di non essere più interamente separato, ma di essere unito nel profondo con le altre
vite, col resto di ciò che è”. Unito in pace, nella pace oscura degli abissi, lontano dalle onde
mutevoli…
In queste profondità si conclude il dramma dell’autocoscienza, il pensiero si giustifica
sgorgando immediatamente in volontà d’azione.
L’equilibrio critico fragilissimo di Contrappunto si spezza. Ad Anthony che
domandava: “come si può essere simultaneamente senza passione e non indifferente, avere la
serenità di un vecchio e l’attività di un uomo giovane?” risponde dal profondo il sorriso
onnicosciente dell’Apollo di Veio.
La solitudine del Selvaggio percosso, la solitudine di Sansone cieco alla macina con gli
schiavi trovano qui finalmente lo sgorgo verso l’assurda, inaccettabile, e per questo
irrazionalmente accettata realtà della vita.»65

Inutile sottolineare quanto della Pozzi sia condensato in queste righe conclusive

del saggio, quanto del suo tentativo costante di tenere aperta la relazione con

l’altro da sé in vista di una fusione totalizzante che potesse finalmente garantirle

la pace. Si tratta di una liberazione dalle maglie di un pensiero talmente razionale

da essere inconcludente, verso un’immediata comprensione della vita che è, per

converso e al contempo, già sciolta in volontà d’azione. Ed è proprio nel

pacifismo66 e nella meditazione huxleyana a cui allude con ammirazione – oltre

che nel sentimento della sua cultura classica, nell’uso di quell’immagine del

sorriso onnicosciente dell’Apollo di Veio67 che non ha niente a che fare con

65
Ivi, pp. 93-94.
66
Citando da Eyeless in Gaza, traduce: «Forse noi siamo in realtà ciò che sembriamo essere nel
sonno. Innocenza e pace, – l’essenza dello spirito, tutto il resto non essendo altro che semplice
accidentalità», in ivi, p. 88.
67
Cfr. ivi, p. 85-86. L’Apollo di Veio compare all’inizio del saggio in relazione a Fanning
personaggio di Fuochi d’artificio, racconto che si trova in Dopo i fuochi d’artificio e altri
racconti pubblicato in traduzione da Mondadori nel 1936. «Di questa tensione fra chiarità
cosciente e penombra istintiva si intesseva anche il sorriso dell’Apollo di Veio, caro a Fanning
di Fuochi d’Artificio; il sorriso di un Dio che era il ritratto di Omero; di Omero, ma col sorriso
etrusco: di Omero che sorride alla triste, misteriosa, splendida assurdità del mondo.
“Disgraziatamente – concludeva Fanning – un uomo può sorridere e sorridere e non diventare
perciò Apollo”.»

282
l’esaltazione del littorio – che non posso fare a meno di rilevare lo stacco

definitivo della Pozzi rispetto alla mentalità fascista contemporanea.

In merito alla scelta di questo testo e di questo autore da parte della Pozzi,

Graziella Bernabò rileva una sostanziale identità fra la sensibilità della poetessa

e quella di Huxley, nonché una coincidenza nella soluzione della contraddizione

in merito al problema del rapporto arte-vita attraverso una tensione verso

l’opposto di ciò che la propria natura comanderebbe:

«Al di là dell’apparente freddezza […] Huxley era tormentato da problemi simili a


quelli che affliggevano i giovani intellettuali del gruppo banfiano, e ancor di più la Pozzi: il
rapporto tra arte e vita e, collegato con esso, il rapporto tra io e mondo. […] Antonia Pozzi e
Anthony-Huxley sono molto diversi tra di loro, ma hanno qualcosa in comune: l’una, partita da
un piano schiettamente emozionale, per autodisciplina è arrivata al tono composto e razionale
del Flaubert; l’altro si è mosso dal più asettico razionalismo e ha ritrovato, inaspettatamente,
anche se un po’ miracolisticamente, il senso dell’emozione e della passione verso la vita. Due
opposti che si incontrano in un simile estremismo, in una radicalità che li spinge entrambi a
cercare in un gesto forte e solenne un riscatto dall’opacità dell’essere.
L’idea huxleyana della morte come prezzo accettabile di “certe rivelazioni di
completezza”, evidenziata e accolta da Antonia, ben rende quel senso di assolutezza a cui era
ormai giunta e che l’avrebbe condotta, di lì a poco, a scegliere di morire, non potendo realizzare
quella pienezza di vita, intesa come libertà, amore, creatività alla quale aspirava dal profondo
del suo essere.»68

Ed è proprio in merito a questa mancata liberà, intesa anche come possibilità di

espressione socio-politica, che vorrei sottolineare l’ultima connessione fra il

protagonista del romanzo di Huxley e Antonia, in chiave sovversiva. Sempre

riportando le parole della Bernabò, Anthony compie «una metamorfosi che [lo]

conduce […] da un iniziale atteggiamento di cinismo e indifferenza agli altri, al

progressivo desiderio di uscire dalla prigione dell’io e di tornare all’unità del

tutto, tanto da accettare, lui solitamente egoista e indifferente a ogni tipo di

68
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 281-282.

283
impegno, di tenere una conferenza politica volta a denunciare un gruppo di tipo

fascista del quale sa già di dover diventare il bersaglio mortale (i particolari

certamente non vengono tutti chiariti da Antonia, che non può, in epoca fascista,

permettersi di essere troppo esplicita.»69. Anche se i particolari non vengono

chiariti, anche se Antonia non è manifestamente concentrata nella lotta politica

al regime quando scrive queste pagine, credo si possa affermare che la sua presa

di coscienza nei confronti di una realtà, personale e sociale, che stava diventando

sempre più oppressiva, trovò una sottile forma di ribellione attraverso il

meccanismo della traduzione e l’interesse per le tematiche sovversive di autori

stranieri. La sua arma era la scrittura, improntata ad un certo stile concreto e

lucido, e a un’attenzione allusiva per il dettaglio, raccolto il quale, era possibile

ricomporlo – da parte del lettore – nel quadro di una volontà di riscatto e di

differenziazione rispetto al sistema.

In questo senso, per ribadire l’importanza del ritessere i fili sottili di queste

connessioni, mi avvalgo del delicato giudizio di Dino Formaggio, che conobbe

bene la vitalità e le necessità estetiche della Pozzi in quegli anni:

«Volendo contribuire a quest’opera di ricostruzione di una poesia e di una vita, diventa


necessario aggiungere dati e testimonianze dirette che possano meglio documentare quanto già
il commento critico ha potuto acquisire. Non si tratta, in questa necessità di ampliamenti storici
e psicologici, di ricadere in vieti schemi positivistici per qualche meccanico rapporto di causa ed
effetto, o automatico condizionamento ambientale. Ma neppure di dimenticare che il poetare e
la poesia non nascono nel vuoto, ma si generano nutrendosi delle arie e dei fatti di ben
determinabili intorni.»70

69
Ibidem.
70
D. FORMAGGIO, Una vita più che vita in Antonia Pozzi, in AA. VV., La vita irrimediabile. Un
itinerario tra esteticità, vita e arte, a cura di Gabriele Scaramuzza, Alinea Editrice, Firenze 1997,
p. 143.

284
Più avanti nel saggio dedicato all’amica, Una vita più che vita in Antonia Pozzi,

lo stesso Formaggio chiarirà la natura storica, sociale e politica di questi intorni:

«Per comprendere [l’espressione artistica della Pozzi] è ancora necessario tentare l’altro
cammino, da coniugare con quello della interiorità psichica; che è quello, pur esso fortemente
accidentato, dei condizionamenti – dove nulla nasce dal nulla – dell’intorno storico e ambientale
dal quale e in mezzo al quale, l’arte e la poesia vengono a nascere e a compiersi. […] Si tratta di
sgrovigliare qualche filo di una matassa di eventi che, nell’oscuro avviarsi di quelli che altrove
avevo definiti “i terribili anni Trenta” teneva legati società e individui. La loro crescente violenza
in Europa venivamo noi allora considerando ad occhi bene aperti, ma in uno stato di inquietudine
crescente. Il graduale approssimarsi della seconda guerra mondiale filtrava ogni giorno di più
sotto la nostra pelle e condizionava gli incontri della vita universitaria e fuori, la vita dei corpi e
degli atteggiamenti culturali e sociali. Spingeva i gruppi di un diverso sentire esistenziale e
ideologico a serrarsi sempre più stretti o a dividersi sempre più decisamente, nelle strade come
nelle case. L’atmosfera era quella di un frequente rinchiudersi su se stessi, come di un
raggricciarsi raggelato degli entusiasmi e delle speranze, per il sopraggiungere improvviso di
venti glaciali, sotto il succedersi, l’una dopo l’altra, di funeste notizie.
Diverso era il rifrangersi in ciascuno di noi, a seconda della vita che avevamo alle spalle
e dei diversi stati di sensibilità e di visione del mondo, di cui, in quei momenti preliminari a dure
scelte, potevamo disporre. Altro per me, che venivo dalle officine meccaniche del proletariato
milanese, e altro per chi veniva da ambienti più ovattati e da grembi famigliari di ricchezza e di
cultura. Le divisioni interne profonde restavano e inconsciamente agivano nei rapporti
interpersonali»71.

Formaggio passa quindi in rassegna fatti storici cruciali, come il primo formarsi

di associazioni clandestine con idee ribellistiche di resistenza, «scambi interiori,

che moltiplicavano più che diminuire i sensi di solitudine e di sofferenza

spirituale»72; il precipitare della situazione in Germania intorno all’anno 1935,

quando Hitler dopo due anni di cancellierato annette la regione mineraria della

Saar, denuncia il trattato di Versailles ed emette le leggi razziali antisemite di

Norimberga. Nel contempo il 05 febbraio di quell’anno la Pozzi chiosa in una

nota diaristica: «Mussolini ha detto che il 1935 è un anno cruciale. Direi proprio

di sì.»73 a commento degli sconvolgenti mutamenti che stanno avvenendo anche

71
Ivi, pp. 149-150.
72
Ivi, p. 150.
73
POZZI, Diari, p. 42.

285
nella sua vita, soprattutto a seguito dell’intenzione di esporre al giudizio di Banfi

la sua anima poetica, oltre alla progressiva perdita delle amiche più care a causa

delle loro scelte di vita (il matrimonio per Maria Giussani, il convento per Lucia

Bozzi), fino alla fatica del lavoro di tesi su Flaubert (discussa nel novembre di

quell’anno).

«Ma sempre nel 1935, nuovi allarmanti fuochi di guerra sorgono e investono il vivere,
il pensare, i rapporti interpersonali, il senso di destino di ciascuno di noi: l’allargarsi incendiario
della guerra civile spagnola, con la partecipazione di armi fasciste e naziste e di volontari
anarchici e social-comunisti, ulteriormente incideva sulla divisione degli animi nei gruppi e nelle
case. Due anni dopo, nell’aprile del 1937, l’aviazione tedesca sperimentava il primo
bombardamento a tappeto della sua aviazione su una popolazione civile; Guernica […] Ed
ancora, nel 1935, in Italia il paese veniva portato nei gorghi di una guerra coloniale con
l’invasione dell’Etiopia.
Noi non dormivamo e discutevamo tutto, con accanimento, fino all’esasperazione. Non
solo perché si avvicinava qualcosa che metteva in mezzo la pelle, ma perché, dentro e fuori
l’Università, sentivamo il profilarsi di ineludibili urgenze di scelte decisive di destino, tra
soffocazioni culturali di decisioni ideologiche e politiche, di duri scontri polemici. Si aggiunga
l’atmosfera dei presentimenti, che sempre più terrificanti ci penetravano, dell’avanzare
precipitoso e inarrestabile di una seconda, ormai sovrastante, guerra mondiale.»74

Sul finire del 1935 la voce della Pozzi si leva a sottolineare i risvolti inquietanti

di questa campagna di guerra in Etiopia, intrapresa con trionfalismo fascista,

considerando come la vittoria sia, molto più antropologicamente ed

escatologicamente, in mano alla morte:

Le donne75 Notturno76

In urlo di sirene Lene splendore


una squadriglia di stelle
fiammante spezza il cielo. in vetta alle bandiere:

Rotte tra case affondano il vento


le campane. piega l’erba sulla fronte dei morti.

74
FORMAGGIO, Una vita…, p. 151.
75
POZZI, Parole, p. 391.
76
Ivi, p. 393.

286
S’affacciano le donne Da sùbite fronde si leva
a tricolori abbracciate; l’uccello nerazzurro:
gridan coraggio
nel vento e cade
i loro biondi capelli. il remeggio del volo
gravemente
Poi, sul notturno monotono cuore.
occhi si chinano spenti.
18 dicembre 1935
Nella sera
guardan laggiù il primo morto
disteso sotto le stelle.

3 ottobre 1935

È lo stesso Dino Formaggio a cogliere la complessa sensibilità da cui potevano

essere distillate certe note sofferte di queste poesie della Pozzi, dove la realtà

emerge nei suoi dettagli contraddittori, amplificata dallo sguardo lucido e dallo

stile icastico di una poesia ormai matura:

«C’è quanto basta [nella descrizione storico-ambientale appena fatta] per poter capire,
ancora oggi, il quadro che ha fatto fa sfondo, ma uno sfondo penetrante e agente con tutti i suoi
veleni, a condizionare le nostre vite e le nostre opere in quell’infuocato e duro tempo di
maturazione delle nostre giovinezze, spingendole a scavare inconsciamente solchi di rigide
divisioni anche, a volte, nel cuore delle amicizie più profonde. […] Per cui anche nella stessa
vita universitaria delle Statale di Corso Roma, fuori e intorno, circolava un’aria di veleni e di
sospetti che aumentavano le diffidenze e la solitudine, facendo inclinare gli spiriti liberi verso
interne macerazioni segrete, col risultato di complicare non poco i rapporti esistenti tra di noi,
giovani che interrogavano dubbiosi il domani.
Sconvolgenti e drammatici dovevano diventare anni così turbinosi in chi già doveva
contenere a fatica la tensione esplosiva di interne contraddizioni e di acuti, pungenti contrasti tra
un proprio mondo di felici fortune e le crescenti miserie circostanti, più drammatiche nelle
periferie popolari, nei quartieri operai, nelle tristi stanze degli sfrattati, dove la sofferenza
quotidiana era di casa e sempre più tetro, doloroso e incerto, si faceva il domani.
Antonia personalmente andava a visitare e a beneficiare queste case di povera gente. Ne
parlava come del dovere di scontare la sua nascita in un ben protetto benessere. Ne fa fede la
poesia Via dei Cinquecento (del 27 febbraio 1938), una via, allora, dove nell’inferno di povertà
delle case operaie di una estrema banlieue milanese, si acuiva il contrasto di due diverse storie
ambientali e perfino di due diverse vite, anche se ora affratellate.»77

77
FORMAGGIO, Una vita…, pp. 152-153.

287
Effettivamente la poesia di Antonia, Via dei Cinquecento78 insieme alle altre

dedicate alla periferia milanese (Periferia79, Periferia in aprile80, e ancora una

Periferia81) interpretano bene questo groviglio di sentimenti di carità intrecciati

con un profondo desiderio di espiazione per la propria condizione privilegiata:

si tratta in definitiva di un volontà di riscatto della vita nell’azione.

Periferia Periferia in aprile

Lampi di brace nella sera: Intorno aiole


e stridono dove ragazzo t’affannavi al calcio:
due sigarette spente in una pozza. ed or fra cocci
s’apron fiori terrosi al secco fiato
Fra lame d’acqua buia dei muri a primavera.
non ha echi Ma nella voce e nello sguardo
il tuo ridere rosso: hai acqua,
apre misteri tu profonda frescura, radicata
di primitiva umanità. oltre le zolle e le stagioni, in quella
che ancor resta alle cime
Fra poco umida neve:
urlerà la sirena della fabbrica: così correndo in ogni vena
curvi profili in corsa e dici
schiuderanno ancora quella strada remotissima
laceri varchi nella nebbia. ed il vento
leggero sopra enormi
Oscure baratri azzurri.
masse di travi: e il peso
del silenzio tra case non finite 24 aprile 1937
grava con noi
sulla fanghiglia,
ai piedi
dell’ultimo fanale.

19 gennaio 1936

Periferia Via dei Cinquecento

Sento l’antico spasimo Pesano fra noi due


– è la terra troppe parole non dette
che sotto coperte di gelo
solleva le sue braccia nere – e la fame non appagata,
e ho paura gli urli dei bimbi non placati,

78
POZZI, Parole, p. 439.
79
Ivi, p. 406.
80
Ivi, p. 414.
81
Ivi, p. 436.

288
dei tuoi passi fangosi, cara vita, il petto delle mamme tisiche
che mi cammini a fianco, mi conduci e l’odore –
vicino a vecchi dai lunghi mantelli, odor di cenci, d’escrementi, di morti –
a ragazzi serpeggiante per tetri corridoi
veloci in groppa a opache biciclette,
a donne, sono una siepe che geme nel vento
che nello scialle si premono i seni – fra me e te.

E già sentiamo Ma fuori,


a bordo di betulle spaesate due grandi lumi fermi sotto stelle nebbiose
il fumo dei comignoli morire dicono larghi sbocchi
roseo sui pantani. ed acqua
che va alla campagna;
Nel tramonto le fabbriche incendiate
ululano per il cupo avvio dei treni… e ogni lama di luce, ogni chiesa
nera sul cielo, ogni passo
Ma pezzo muto di carne io ti seguo di povere scarpe sfasciate
e ho paura –
pezzo di carne che la primavera porta per strade d’aria
percorre con ridenti dolori. religiosamente
me a te.
21 gennaio 1938
27 febbraio 1938

Allo stesso modo la poesia La Terra82 del 1° novembre 1937 (festività di

Ognissanti) impasta tutto questo complesso emotivo con il ricordo di notazioni

antropologiche dei luoghi visitati nei viaggi, e con fondamentali verità apprese

da personaggi considerati “folli” e marginali, ma capaci di vedere più

lucidamente di tutti le atrocità apocalittiche delle guerre in corso83:

Stella morta, ai tuoi orli


nubi di sogno e corolle di parole
volgi nei cieli.

Vedo per fondi mari


pescatori notturni metter barche
e sulle chiglie tracciare ghirlande

82
Ivi, pp. 431-432.
83
Riporto la nota in ivi, p. 431: «La poesia contiene molteplici riferimenti: alle ghirlande di fiori
dipinte sulle barche dei pescatori dell’Adriatico; ai santi rappresentati sulle baite della Val
d’Ayas (molto fotografate dalla Pozzi nell’ottobre 1937); ai terribili annunci del “vecchio gobbo”
– il mendicante indovino che giungeva ogni anno a Pasturo per la fiera di settembre – in
riferimento alla fioritura del bambù su tutta la Terra – sogno infausto per i popoli orientali – e
alle guerre sino-giapponesi e di Spagna.»

289
di gialle margherite,

vedo in fronte ai ghiacci


volti di santi spalancarsi all’alba
sui muri delle stalle:

e a mezzodì s’avanza il vecchio gobbo,


canta sui ciotoli e per le donne accorse
fra i trilli del suo timpano d’argento:
«È fiorito il bambù, dopo cent’anni.
In riva a tutti i mari e ne morrà.
Coll’autunno si secca la foglia,
a oriente scorron fossati di sangue,
vidi le braccia di migliaia d’uccisi
penzolar sull’abisso
ad occidente.»

Nubi di pianto e corolle di deliri


si torcono ai tuoi orli
o Terra.

Resta chiaramente sconcertante l’evoluzione poetica della Pozzi negli ultimi

anni di scrittura, capace di condensare in sé e rafforzare tutte le linee tematiche

e le influenze degli autori amati dall’inizio del suo percorso poetico, in uno stile

personalissimo, teso a decifrare con crescente precisione e, insieme, a sfumare

in un immaginario ricchissimo di rimandi, l’incontro sempre più misterioso e

carico di arcani significati, fra sé e il mondo. Ma, purtroppo, nessuno sforzo valse

a vincere la lotta contro questi ‘intorni’, queste circostanze terribili che

peseranno ulteriormente sul suo animo già afflitto da troppe dure prove.

Nel suo messaggio d’addio ai genitori, scritto nel giorno del suicidio, comparirà

anche questa emblematica frase, conferma definitiva dell’entità della sua

coscienza politica84: «Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele

84
Si confronti anche la lettera che Antonia Pozzi spedisce al padre da Gmunden, in Austria, il
1° agosto del 1936, intrisa di preoccupazione in merito alla tensione politica fra Germania ed
Austria, piena di sconcerto in merito alle vicende spagnole (che causano il rimpatrio dei
Carandini, parenti dei Pozzi) e attenta nel tenere d’occhio la sanguinosa situazione in Etiopia. Si
vedano le note alla relativa lettera delle curatrici in POZZI, Ti scrivo…, pp. 250-253. Risulta
chiaro che è lo stesso Roberto Pozzi ad essere sinceramente preoccupato per il degenerare delle

290
oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite.»85.

In questo clima complessivo, che abbraccia l’arco degli anni Trenta e che

comprende quindi gli anni della formazione universitaria della Pozzi e i primi

tentativi di darsi un indirizzo intellettuale e umano che sfocerà in ultimo

nell’identità di traduttrice e di critica di autori stranieri, ho cercato di evidenziare

le conseguenze ultime, velatamente politiche oltre che culturali e personali,

dell’adesione pozziana al mondo intellettuale dell’Università Statale di Milano.

Dopo aver approfondito il complesso problema della ricezione della letteratura

straniera in Italia e il progressivo posizionamento eversivo del ruolo del

traduttore nel mediare contenuti innovativi rispetto al panorama politico-

culturale di riferimento – excursus compiuto per porre in una certa prospettiva

la stessa vocazione pozziana a questo mestiere – vorrei riprendere ora la

trattazione della formazione letteraria della poetessa negli anni universitari, a

partire dalla relazione di Antonia Pozzi con i simbolisti francesi. La lunga

premessa appena conclusa aiuterà a comprendere come le scelte in fatto di autori,

contingenze storiche, ossia che fra i due quello politico fosse un argomento di discussione su cui,
almeno in parte, c’era una sensibilità comune. Lo dimostra anche una precedente lettera di
Antonia (Breil, 27 luglio 1934) ove chiede di conoscere il parere del padre circa l’uccisione del
cancelliere austriaco Dollfuss per mano di Hitler e, quindi, circa la successiva mobilitazione delle
forze italiane al Brennero per bloccare le mire espansionistiche di Hitler: «Meglio davvero
andare sulle creste, che restar giù, con le belle cose che succedono! Sono tanto ansiosa di sapere
quello che ne dici tu e che cosa si dice fuori. Qui aspettiamo sempre febbrilmente il giornale, il
quale arriva alle sei del pomeriggio: che agonia!», in ivi, p. 206. Il padre le risponderà con toni
accesi, «di vera e propria requisitoria contro Hitler» il 30 luglio 1934, e poi ancora il 04 agosto,
arrivando a definire Hitler «quella belva dal grugno d’idiota», in ivi, p. 325.
85
BERNABÒ, Per troppa vita..., p. 295.

291
soprattutto dopo il nodo della tesi su Flaubert (1934/’35), saranno fatte sempre

meno in una direzione intimistica e personale e sempre più in una direzione che

vede nella soggettività lo scoglio da superare. Le modalità di questa evoluzione

saranno da rintracciare attraverso l’aderenza ad un lavoro letterario che nel

progetto della Pozzi dovrebbe essere sempre meno dedicato alla poesia e sempre

più indirizzato verso la prosa.

292
«7 febbraio 1926: Sono appena tornata dalla casa dei miei amici. Abbiamo
ragionato a lungo intorno a cose grandi, troppo grandi per noi, e abbiamo
detto del principio e della fine del mondo, dell’origine della materia; abbiamo
vagato con la mente nello spazio costellato di pianeti, abbiamo discusso sulla
vita dell’aldilà, abbiamo finito col rimanere assorti in uno stesso pensiero,
mentre le ombre della sera scendevano lente, avvolgendo tutto delle loro
brume misteriose. È strana l’impressione che provo io nel pensare alla vastità
della terra: spingo più che posso il mio sguardo al limite dell’orizzonte; mi
dico: è più grande – rivedo il panorama goduto dalla Madonnina del Duomo:
no, è più grande ancora – mi si riaffaccia la visione scintillante avuta sulle
cime della Grignetta: no, no, è più vasta. E allora tento, tento raffigurarmi una
distesa immensa, sconfinata, che s’incurva così, laggiù… E lo stesso provo
pensando all’eternità; sempre, ripeto a me stessa; sempre… sempre… Mi
scuoto con un brivido: sempre! Parola terribile, terribile come mai!»86

1. L’orma del simbolismo francese e il riscatto della poesia oltre il

decadentismo europeo

Tentare di tracciare la serie di relazioni con cui la poetessa si è approcciata negli

anni universitari ai ‘poeti maledetti’87, e quindi al fenomeno del simbolismo

francese (e in seguito del decadentismo europeo), non è cosa semplice,

soprattutto per la vastità delle letture che si sono succedute, spesso in lingua

originale, e quindi foriere di un’impronta, anche musicale, nell’animo della

poetessa che per me, digiuna di lingue estere che non siano inglese e spagnolo,

risulta quasi indecifrabile. Inoltre, è impossibile delimitare precisamente i

confini di questa influenza all’interno degli anni dedicati al primo incontro e allo

studio di poeti come Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Émile Verhaeren, Maurice

Maeterlinck e Georges Rodenbach, tutti presenti nella sua biblioteca con volumi

86
POZZI, Diari, pp. 28-29.
87
Paul Verlaine pubblicò il saggio Poeti maledetti (Poètes maudits) nel 1884, dedicando l’opera
ai poeti che frequentava personalmente, come Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé, Tristan
Corbièr. Dopo quattro anni il libro uscì rinnovato, arricchito dei nomi di Auguste Villiers de
L'Isle-Adam, Marceline Desbordes-Valmore. Fra di loro figurava anche un certo Pauvre Lelian,
in realtà pseudonimo dello stesso Verlaine.

293
variamente segnati88. Come ho già sottolineato, le relazioni letterarie di Antonia

sono di lunga durata e certi temi, oltre a certi processi stilistici e a certe influenze

autorali, riemergono anche a distanza di anni, restando come memoria poetica.

D’altronde la sua stessa vita è impostata su un ritorno ciclico della sofferenza

che viene a congelare nelle maglie della malinconia e della disillusione tutti i

suoi più genuini slanci, per cui è normale che altrettanto ciclicamente certe

visioni tornino a condizionare le sue parole.

Al di là di queste premesse, l’importanza che l’incontro con i simbolisti francesi

ha avuto per la formazione letteraria della Pozzi, mi spinge a delineare almeno

un profilo sintetico, ossia non approfondito sui singoli esponenti del simbolismo,

ma lumeggiato attorno ai temi e alle concezioni stilistiche che li accomunavano.

Si può partire dal rilevare che la predisposizione ad accogliere una certa

sensibilità decadente – in ogni sua intima fibra veggente89, ossia spinta dalla

88
Nella biblioteca di Pasturo ora conservata al Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e
Giulio Preti, si possono trovare i seguenti volumi, tutti variamente segnati e sottolineati, che
attestano approfondite letture: P. VERLAINE, Choix de poésies de Paul Verlaine, Eugène
Fasquelle Editeur, Paris 1929, (Bibliothèque Charpentier); É. VERHAEREN, Choix de poésies,
avec una preface d’Albert Heumann, Mercure de France, Paris 1931, il quale presenta anche la
firma in prima pagina di Antonia Pozzi e la data Milano, 9 gennaio 1932; dello stesso autore,
veramente amatissimo stando alle segnature del precedente volume, la Pozzi possiede anche dal
28 dicembre 1931 (libro firmato e così datato, in luogo Milano): ID., Les Heures du Soir precedes
de Les Heures claires, Les Heures d’après-midi, Mercure de France, Paris 1929; G. RODENBACH,
Le Carillonneur, Eugène Fasquelle Editeur, Paris 1923, (Bibliothèque Charpentier); A.
RIMBAUD, Poésies, Mercure de France, Paris 1929 (presenta la firma in copertina, sottolineata
in rosso e all’interno, con la data «giugno 1931» e il suo indirizzo di Milano: «via Mascheroni
23»). Del premio Nobel Maeterlinck sono presenti molti testi teatrali.
89
Sulla poetica del veggente cfr. A. RIMBAUD, Il poeta è un ladro di fuoco. Le lettere del
veggente, L’orma, Roma 2013. In particolare ricordo queste parole rivolte a Paul Demeny, nella
lettera del 15 maggio 1871: «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa
veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme
d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne
che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza
sovrumana, nella quale fra tutti diviene il grande infermo, il grande criminale, il grande
maledetto, – e il Sapiente supremo! – Perché egli giunge all’ignoto! Perché ha coltivato la sua
anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quando anche, smarrito, finisse
col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà comunque pur viste! Che crepi pure

294
volontà di vedere al di là di ciò che è dato vedere dai più – sia da rintracciarsi

già in un certo modo romantico di interrogarsi sulla realtà presente sin dalla

prima adolescenza della poetessa. Una necessità di risposte che non trova

soddisfazione, e che la sprona, anzi, a seguire il corso del pensiero sino

all’estremo terribile delle antinomie assolute, del sempre e del mai. L’esergo di

questo paragrafo, risalente alle confessioni diaristiche di un’Antonia non ancora

quattordicenne, chiarificano come le domande troppo grandi trascritte con

impeto romantico, la portino alla considerazione di concetti – che in lei spesso

si fanno sensazioni e viceversa – legati al problema insolubile dell’infinito e

dell’eterno. La Pozzi intraprendendo poi il cammino della ricerca poetica,

inseguirà con slancio (malgrado la grandezza del compito), questo sentiero

dell’impossibile, con la convinzione intima che una pienezza spirituale sia

raggiungibile attraverso le momentanee risposte della natura, tramite epifanie

simboliche per lei estremamente significative. L’attenzione per la

manifestazione dell’inaspettato, che, con la sua testimonianza di verità, consola

l’animo attento del poeta veggente, è il primo importante tratto in comune da

rilevare nell’accostare la Pozzi ai simbolisti, cucito da una rinnovata attenzione

per la tecnica ad opera della poetessa. Antonia dunque è affascinata dalla

proposta di una poesia che si prospetta come volontà di connessione fra le

intuizioni più profonde dell’animo e una realtà in apparenza misteriosa e tuttavia

concretamente conoscibile da parte del poeta: la Pozzi coglie nell’attitudine

vocazionale dei simbolisti – quella di un traduttore/sacerdote di misteri

balzando attraverso cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori, e


ricominceranno dagli orizzonti in cui l’altro s’è schiantato!»., in ivi, p. 41.

295
inaccessibili – una consonanza ideale.

Il rapporto fra il poeta e la realtà nella visione simbolista è altamente soggettivo

ed evocativo, a volte autoreferenziale: in contrapposizione con alcune poetiche

precedenti, come quella naturalista, non vi sono intenti esterni, o sociali, al fare

arte. Questo aspetto soggettivo del simbolismo non avrà un potere duraturo su

Antonia, almeno a livello teorico, se con la sua tesi su Flaubert dimostrerà di

condividere piuttosto il percorso dell’autore di Madame Bovary verso una nuova

oggettività90.

La poetessa si esercita dunque verso una nuova direzione stilistica, proprio come

i simbolisti erano alla ricerca di forme nuove. A partire dal 1930/’31 infatti la

Pozzi compie una svolta netta in direzione di un’amplificata musicalità del verso,

data da meccanismi iterativi tesi a legare internamente componimenti che si

90
Così fin dal primo capitolo della sua tesi Antonia prefigura gli esiti del percorso flaubertiano:
«Il poeta, specchio dell’infinito “voit le ciel à travers les astres et le bonheur dans l’immensité”
[“vede il cielo attraverso gli astri e la felicità nell’immenso”]: in basso, il mondo non è che una
vasta disarmonia la cui ultima nota è il nome di Satana, la cui unica creatura felice è la morte.
La parola in cui il poeta dovrebbe costringere il grande afflato è così insufficiente ch’egli
vorrebbe rinunciarvi e perdersi nell’infinita natura. “Oh! poésie, fille de Dieu, viens à moi! Mais
qu’as tu besoin d’un mot pour parler? Tu respires dans la nature, tu pleures dans l’homme, tu
chantes dans l’amour. Viens, car je ne ferai plus de vers, cela est trop petit. Je me perdrai dans
la course errante du monde… Comme le matelot, je m’abandonnerai au vaste océan du désepoir
et j’appellerai comme lui une mort lente à venir… Je n’ai ni femme qui m’aime, ni mère, ni
famille; le poète est orphelin. C’est un monde que lui même.” [“Oh! Poesia, figlia di Dio, vieni
a me! Ma hai bisogno di una parola per parlare? Tu respiri nella natura, tu piangi nell’uomo, tu
canti nell’amore. Vieni perché non farò più versi, son troppo piccoli. Mi perderò nelle
peregrinazioni del mondo… Come il marinaio, mi abbandonerò al vasto oceano di disperazione
e chiederò come lui una morte lenta a venire… Non ho moglie che mi ami, né madre, né famiglia,
il poeta è un orfano. È un mondo lui stesso…”]. “Io non ho né madre né fratelli” diceva il
Rivelatore del Regno di Dio e forse un’eco della frase evangelica colora di sé questa concezione
romantica del poeta come rivelatore di un mondo a cui egli attinge nell’intimo di se stesso e che
trasmette il reale. Poi, la concezione muterà: nel senso che il poeta non sarà più il cantore ispirato
da Dio, ma l’umile lavoratore umano, la cui missione non è quella di rilevare un mondo di verità
metafisiche, ma di scavare il solco per cui la verità immanente alle cose emerga attraverso il
Bello nell’opera d’arte. Quello che rimarrà, per Flaubert, e si farà da immagine vita, sarà la
grande solitudine dell’artista, il sacrificio di tutti gli affetti e interessi umani alla religione
dell’arte.», in POZZI, Flaubert…, pp. 92-93.

296
fanno sempre più lunghi. In questo senso, come influenza ideale, si possono

ricordare i famosissimi versi di Verlaine, Art poétique91 che la stessa Pozzi

mostra di apprezzare proprio nelle sue parti ‘prescrittive’ nei confronti della

composizione poetica, sottolineandone la prima, la seconda e la quarta strofa

(che sono poi quelle ove il poeta dà consigli in merito alla musicalità, alla

vaghezza, alla versificazione impari, e alla sfumatura del concetto):

Art poétique Arte poetica

à Charles Morice à Charles Morice

De la musique avant toute chose, La musica, prima di ogni altra cosa:


Et pour cela préfère l’Impair e per questo preferisci l’impari,
Plus vague et plus soluble dans l’air, più vago e solubile nell’aria,
Sans rien en lui qui pèse ou qui pose. senza nulla in sé che pesi e posi.

Il faut aussi que tu n’ailles point È necessario poi che tu non scelga
Choisir tes mots sans quelque méprise: le tue parole senza qualche errore:
Rien de plus cher que la chanson grise nulla è più caro della canzone grigia
Où l’Indécis au Précis se joint. in cui l’incerto si unisca al preciso.

C’est des beaux yeux derrière des voiles, Sono occhi deliziosi dietro veli,
C’est le grand jour tremblant de midi, è la grande luce tremula del mezzogiorno,
C’est, par un ciel d’automne attiédi, è – in un cielo tiepido d’autunno –
Le bleu fouillis des claires étoiles! l’azzurro brulichio di chiare stelle!

Car nous voulons la Nuance encor, Perché vogliamo ancor la sfumatura,


Pas la Couleur, rien que la nuance! non colore, ma solo sfumatura!
Oh! la nuance seule fiance Oh, solo essa accoppia il sogno
Le rêve au rêve et la flûte au cor! al sogno e il flauto al corno!

Fuis du plus loin la Pointe assassine, Va più lontano possibile dall’assassina arguzia,
L’Esprit cruel et le Rire impur, dal crudele spirito e dall’impuro riso,
Qui font pleurer les yeux de l’Azur, che fanno piangere gli occhi dell’azzurro
Et tout cet ail de basse cuisine! e tutto quell’aglio di bassa cucina!

Prends l’éloquence et tords-lui son cou! Prendi l’eloquenza e torcile il collo!


Tu feras bien, en train d’énergie, E farai bene, in vena d’energia,
De rendre un peu la Rime assagie. a moderare un poco anche la rima.
Si l’on n’y veille, elle ira jusqu’où? Fin dove andrà, se non la tieni d’occhio?

O qui dira les torts de la Rime? Oh, chi dirà i torti della rima?
Quel enfant sourd ou quel nègre fou Quale bambino sordo o negro pazzo

91
P-M. VERLAINE, Poesie, cura e traduzione di Renato Minore, testo francese a fronte, Newton
Compton Editori, Roma 1973IV (2004) (Grandi Tascabili Economici, 35), pp. 254-257.

297
Nous a forgé ce bijou d’un sou ci ha plasmato questo gioiello da un soldo,
Qui sonne creux et faux sous la lime? che sotto la lima suona vuoto e falso?

De la musique encore et toujours! La musica, ancora e sempre!


Que ton vers soit la chose envolée Il tuo verso sia la cosa che va via,
Qu’on sent qui fuit d’une âme en allée che si sente fuggire da un’anima in cammino
Vers d’autres cieux à d’autres amours. verso altri cieli ed altri amori.

Que ton vers soit la bonne aventure Il tuo verso sia l’avventura buona
Eparse au vent crispé du matin sparsa al vento increspato del mattino
Qui va fleurant la menthe et le thym … che va sfiorando la menta e il timo…
Et tout le reste est littérature. E tutto il resto è letteratura.

Come ho sottolineato sin dall’inizio di questa tesi però, non esiste un’unica

direzione evolutiva nella poesia della Pozzi, che si sostanzia invece proprio di

più approcci, tecniche e temi a volte anche in aperto contrasto fra loro, o

comunque che non arrivano mai a rappresentare scelte definitive in vista di un

percorso lineare, ma piuttosto sperimentazioni e dialoghi fra influssi

compresenti. Nel ’31 infatti la poetessa traccia anche in scorci molto sintetici92

epifanie o ricordi per lei particolarmente significativi, legati alla presenza di un

oggetto o alla sua prefigurazione immaginata, il che dimostra un interesse – che

vive di folgorazioni – per il meccanismo simbolico-relazionale fra il suo stato

d’animo – ciò che le accade – e la realtà. In Sera d’aprile93 è il vaso di primule

che riesce a farle immaginare la luna che vi si riflette come in uno specchio; in

Nostalgia94 è la finestra circondata di nubi che aspettano il suo affacciarsi «di là

92
E dunque idealmente in contrasto con quella linea di progressivo allungamento dei
componimenti che ho appena sottolineato.
93
POZZI, Parole, p. 153: «Batte la luna soavemente / di là dai vetri / sul mio vaso di primule: /
senza vederla la penso / come una grande primula anch’essa, / stupita, / sola, / nel prato azzurro
del cielo. // Milano, 1° aprile 1931»
94
Ivi, p. 167. Cfr. il cap. I per il testo integrale.

298
/ nell’oro»95; in Risveglio notturno96 è la mancanza di una presenza – quella di

Dio – esaltata dallo «scroscio pazzo / di pioggia nera / e dall’urlo del vento ai

vetri»97; infine in Rivelazione98 l’intera poesia è intrecciata da questa relazione

epifanica fra sé e l’altro, fra sé e il mondo: «C’erano tutte le luci accese, / tutte

le porte aperte, / nella mia casa ricca, fredda / e noi due c’eravamo / a toccarci

per la prima volta / con mani cieche / e nel vuoto le nostre labbra / ignare, inerti,

/ congiunte. // Milano, 15 novembre 1931».

Come avrà a confessarsi in una pagina di diario del 21 marzo 1935, che mi

sembra molto significativa a commento di questo modo di comporre (più facile

da leggersi nell’espressione sintetica, ma presente anche in liriche più lunghe) la

Pozzi crea uno schema relazionale-simbolico che possa dare valore alla vita

dell’istante (individuato e individuale) nell’istante:

«Io ho sempre teorizzato, simbolizzato, divinizzato le contingenze particolari, proiettato


in ischemi quelle che erano solo delle esperienze individuali. Ognuna delle posizioni
momentanee mi pareva la missione di tutta la vita.»99.

Tornando invece ad analizzare la guadagnata volontà di rinnovamento nel ritmo

e nella musicalità in componimenti più distesi, si legga la poesia che Antonia

scrive in riva al suo diciannovesimo compleanno, il 12 febbraio 1931:

95
Ibidem.
96
Ivi, p. 170.
97
Ibidem: «Riemersa da chissà che ombre, / a pena recuperi il senso / del tuo peso / del tuo calore
/ e la notte non ha, / per la tua fatica, / se non questo scroscio pazzo / di pioggia nera / e l’urlo
del vento ai vetri. / Dov’era Dio? // Milano, ottobre 1931».
98
Ivi, p. 173.
99
POZZI, Diari, p. 46.

299
In riva alla vita100

Ritorno per la strada consueta,


alla solita ora,
sotto un cielo invernale senza rondini,
un cielo d’oro ancora senza stelle.
Grava sopra le palpebre l’ombra
come una lunga mano velata
e i passi in lento abbandono s’attardano,
tanto nota è la via
e deserta
e silente.
Scattano due bambini
da un buio andito
agitando le braccia:
l’ombra sobbalza
striata da un tremulo volo
di chiare stelle filanti.
Gridano le campane,
gridano tutte
per improvviso risveglio,
gridano per arcana meraviglia,
come a un annuncio divino:
l’anima si spalanca
con le pupille
in un balzo di vita.
Sostano i bimbi
con le mani unite
ed io sosto
per non calpestare
le pallide stelle filanti
abbandonate in mezzo alla via.
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.

Milano, 12 febbraio 1931

Con meccanismi iterativi, scegliendo con cura i rimandi delle parole fra loro,

quasi a comporre un dialogo fra personaggi (il canto gracile dei bambini, il

silenzio delle rondini assenti, il grido alto delle campane) Antonia descrive

100
POZZI, Parole, pp. 141-142.

300
un’epifania inaspettata nel movimento del ritorno sulla strada consueta, in un

tempo ciclico, ripetuto, solito. Grava un’atmosfera pesante, attardata a ripetere

l’assenza di novità nell’andare: la sua incisività sul reale è condensata in

un’ombra che come una mano velata pesa sulle palpebre. La percezione che ha

di sé la poetessa è come imprigionata nell’apparenza tranquilla di una

consuetudine che per suo stesso statuto è silente, deserta, insignificante: una via

segnata da un cielo d’oro, compatta nel suo rigore invernale, dalla quale però

sono assenti le stelle e i canti gioiosi delle rondini, sulla quale facilmente si

possono proiettare le presenze più oscure. Lievemente la poesia si compone già

di rimandi, di sottili relazioni fra cielo e terra.

Inaspettatamente due bambini scattano da un andito buio a rompere quella

monotonia, portando in dono festanti (agitando le braccia) delle stelle filanti. A

sottolineare la gioia di questa manifestazione quasi divina le campane gridano

(vv. 17-18-20), per improvviso risveglio, per arcana meraviglia: ora su tutto il

tessuto della poesia fervono l’analogia e la metafora. Costante è il richiamo

sonoro a collegare piani di realtà che assumono un potente significato nella

visione della poetessa. L’apparizione semplice e giocosa dei bambini che

portano sulla strada quel riflesso di luce stellare che altrimenti mancherebbe, ha

fatto balzare l’ombra: l’anima si spalanca poi al grido delle campane, come a

intuire una lettura stratificata della realtà che le pupille registrano con un balzo

di vita. La nuova tensione è trattenuta in sosta (vv. 25-27-31-33): i bambini e

così Antonia (per non calpestare le stelle filanti in mezzo alla via); i bambini

cantando il canto alto delle campane e Antonia trovando il suo doppio nel

301
silenzio del pensiero, filtrando la sua immagine nelle forme di un cespo di

giunchi, fermo in riva alla vita. La poetessa trema presso l’acqua in cammino,

osserva ai margini l’esistenza e non partecipa allo scorrere dell’acqua nel pieno

della sua forza vitale101.

Come ho già sottolineato in altre poesie, il lavoro della Pozzi si intreccia su

assonanze e consonanze, allitterazioni e rime interne che rompono gli schemi

consueti per sottolineare un andamento vibratile interno all’intero

componimento, volto a porre l’attenzione sull’emozione di certe parole e di certe

immagini.

La poesia si apre già con una parola che evoca la reiterazione: /Ritorno/ in

assonanza con /sotto/ del v.3. Il vuoto che incombe è sottolineato dai vv. 3-4 di

un cielo senza. Particolarmente musicale è il verso 5: l’allitterazione della /r/

accompagnata da /p/ e /b/ fa sì che la situazione generi uno scambio fra

l’oppressione del vuoto del cielo ove si sta sotto (v. 3) e la gravità dell’ombra

che sta sopra (v.5); /ombra/ e /sopra/ compongono in assonanza la loro

relazione, come /una lunga/ (v. 6) e come /grava-velata/ (vv. 5-6) che aprono e

chiudono il pensiero prima dalla coordinazione /e/. I passi (v. 7) non sono

sottolineati nel loro ritmo in modo esplicito, ma indirettamente attraverso la

ripresa in consonanza dell’aggettivo che li denota nel loro abbandono: /lento/ (v.

7) con /tanto/ (v. 8) e con /silente/ (v. 10). L’allitterazione della /t/ fra i vv. 7-11

101
L’immagine della sua presenza ai margini di un corso d’acqua era già comparsa in Canto
rassegnato, poesia scritta a Pasturo il 18 luglio 1929, di cui riporto il frammento consonante:
«Arriveremo giù, fino a quel ponte / sorretto dallo scroscio del torrente: / là tu continuerai pel
tuo cammino. / Io resterò sul greto, fra i cespugli, / dove l’acqua non giunge, fra le pietre / chiare,
rotonde, immote, come dorsi / di una gregge accosciata.», in POZZI, Parole, p. 100.

302
riempie concretamente il ritmo, fino a /scattano/ del v. 11 che fa rima con

/attardano/ del v. 7 (e precedentemente anche se in posizione meno rilevante con

/mano/ del v. 6, mediato dalla consonanza /abbandono/ del v. 7). Il movimento

di questi passi è poi trasformato in un rimbalzo dall’allitterazione di /b/ e /d/: due

bambini (v. 11) da un buio andito (v. 12) agitando le braccia (v 13) l’ombra

sobbalza (v. 14). Nel verso 14 si ripropone l’ombra del v. 4. L’assonanza v. 14-

15 /sobbalza-striata/, introduce l’allitterazione della /t/: striata; tremulo; stelle;

filanti (vv. 15-16). Ho già sottolineato l’anafora di gridano, nel v. 17 anche in

consonanza con il soggetto /campane/ e al v. 20 con /arcana/. La ripetizione per

è supportata anche dalla consonanza /risveglio-meraviglia/ (vv. 19-20). Sempre

in anafora il tema della sosta, preparato dalla grande lentezza con cui si è giunti

fino a questo punto della poesia, sottolineato dalla dolce presenza dei bimbi alla

quale si aggiunge anche quella del canto: sostano i bimbi (v. 25) e sostano i

bimbi cantando (v. 31) alimentato dall’allitterazione della /c/ nei versi seguenti

(32: con gracile voce; 33: canto campane). La sosta nel suo significare una

presenza marginale per la poetessa è sottolineata anche dall’enjambement che

cade fra i versi 33 e 34 ed io sosto / pensandomi ferma stasera, stasi ribadita

dalla doppia assonanza che chiude la poetessa nella sua prigione: ferma-stasera,

riva-vita (v. 35). Gli ultimi versi vedono la coppia /c/ e /m/ creare la vibrazione

interna di un movimento che non può per sua natura compiersi. I giunchi, presi

dalla poetessa come elemento in cui immedesimarsi, non arriveranno mai

all’acqua, ma saranno sempre mossi dalla volontà di partecipare al suo cammino.

Su tutta la poesia aleggia l’ombra del mistero, delle corrispondenze inesplicabili,

303
dei miracoli arcani che fondono le epifanie in un messaggio che solo lo sguardo

del poeta può comprendere. Antonia infatti sembra fermarsi per attendere una

lezione, in segno di rispetto: alla fine, senza esplicitarlo, la poetessa trova il

proprio modo panico di partecipare ad un certo movimento, che è quello

dell’immaginazione tremante, insicura, che pure ha ancora la forza di trasferire

il suo personale modo di sentirsi esclusa nell’essenza stessa di un elemento della

natura. La poetessa non può forse partecipare alla gioia della vita, ma può

continuare a tradursi in versi, farsi immagine di una certa attitudine al desiderio.

Se ne In riva alla vita sono presenti i tanti elementi tipici dell’estetica decadente

che ho appena elencato, è del tutto assente quella tendenza all’ermetismo e al

valore puramente fonico e a-logico della parola. Antonia non si spingerà mai a

tanto: la poesia le interesserà sempre come forma di traduzione di sé al mondo,

malgrado non scrivesse per trasmettersi, nell’immediato, ad un pubblico.

Quello che sicuramente colpisce la poetessa a proposito del simbolismo

decadente è la capacità di cogliere aspetti apparentemente insignificanti della

realtà che per il poeta rappresentano invece l’evidenza di piani e livelli che

comunicano fra loro e che solo attraverso la sensibilità del suo canto possono

aprire le porte della percezione, della verità – o quanto meno di una verità

sensibile – a chi saprà mettersi in ascolto. La tendenza per l’espressione

attraverso il ricordo, il vago, l’indefinito, l’emozionalità ingenua del fanciullo

che la Pozzi aveva attinto da sé e dall’incontro con un Giacomo Leopardi e un

Annunzio Cervi, si amplificano e maturano nella conferma di una via misteriosa

ma già come preclusa, già come usurpata e battuta, tipica della visione

304
decadente. Da qui nasce la voce affranta da un’infinita malinconia che trova

conferma nell’aridità della vita proprio in questi anni di esautorazione del sogno

d’amore e di maternità con Antonio Maria Cervi, giungendo, già l’anno

seguente, il 10 febbraio 1932, ad esiti strazianti e intensissimi come quelli di

Grido102:

Non avere un Dio


non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono –
essere senza ieri
essere senza domani
ed acciecarsi nel nulla –
– aiuto –
per la miseria che non ha fine –

10 febbraio 1932.

La poesia, scritta appunto a circa un anno di distanza da In riva alla vita,

testimonia il reiterarsi, in questi primi anni universitari, della presenza del vuoto

nella vita di Antonia: vuoto al quale la poetessa cerca di rispondere opponendo

la barriera delle sue parole, della sua ricerca, in un crescendo di solitudine e

sofferenza. Se il nulla è quello che possiede, e il nulla è la morte, che le evidenzia

il suo essere totalmente inappropriata alla vita, non si può che lanciare un grido

per tentare di rompere la monotonia della negazione di una miseria, di una

povertà di appigli sani alla vita, che non ha fine. Antonia non possiede niente

che la aiuti a resistere mentre le cose vive sfuggono: le sue opportunità di

riscatto, di felicità, di bellezza, nella loro vitalità non possono restare ferme con

102
Ivi, p. 175.

305
lei ad osservarsi. Questo lucido sentimento di angoscia e d’inappartenenza ad

uno ieri già vissuto e ad un domani talmente sognato che è come se facesse già

parte dell’anima della poetessa non è difficile da ricollegare al naufragare della

speranza di vita con Cervi. Questa profonda inquietudine precipita Antonia nel

punto più vicino alla sensibilità decadente, espressa però secondo un aggettivo

tedesco l’Unheimliche, che ha bisogno di una piccola digressione per essere

spiegato, in quanto è lo sfondo emotivo che a mio parere tiene insieme, da questi

anni di nuova ed estrema consapevolezza, l’intera sensibilità della poetessa e la

sua percezione della relazione realtà-immaginazione. Spiegato il concetto di

Unheimliche non sarà difficile comprendere come i differenti autori dei quali ho

esposto sin qui le modalità della relazione con la poetessa, si ritrovino

sostanzialmente nel seno di un percorso di progressiva alienazione dai

meccanismi della vita.

Bisogna risalire al genio creativo di Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann

(Königsber, 24 gennaio 1776 – Berlino, 25 giugno 1822) per insinuarsi nel

concetto di Unheimliche dal punto di vista letterario.

«Scrittore, magistrato, musicista, pittore […]. Personaggio poliedrico in tutti gli aspetti
della sua non lunga vita, Hoffmann sviluppò sin dai primi anni una straordinaria sensibilità che
fece nascere in lui l’amore per la musica e il disegno, ma che nel contempo gli permise di
penetrare la realtà e le sue incongruenze con rara immediatezza e disincantato atteggiamento
satirico. […] I suoi interdisciplinari interessi compresero, oltre alla musica e alla letteratura,
anche il disegno, la pittura, la critica musicale, la psicologia e fenomeni quali mesmerismo,
magnetismo e sonnambulismo. Questo enorme eclettismo si riflette appieno nella sua vivace
produzione letteraria. Filo conduttore è la “Erkenntnis der Duplizität”, la conoscenza della
duplicità: la realtà concepita come una tensione tra due sfere che si compenetrano l’una nell’altra.
Ne dà magistrale testimonianza nella fiaba Der goldne Topf (1813) [La pentola d’oro]. Nella
raccolta Die Serapionsbrüder [I confratelli di Serapione][…]. Hoffmann esprime a livello
teorico questa visione dualistica del mondo, indicando nella rottura con la vita quotidiana il punto
di partenza per una elevazione dell’esistenza nella sfera del fantastico, del sogno, della magia
della follia. La duplicità dell’essere è un problema sia ontologico, sia antropologico. La
descrizione di personaggi che incontrano il proprio sosia […] o con doppia personalità […] fanno

306
di Hoffmann un anticipatore della pirandelliana scissione della personalità. Il tema della
depersonalizzazione compare in un’infinita gamma di sfumature anche nella sua produzione
noir. La dimensione notturna diventa per Hoffmann la metafora di una realtà, la cui limpida
perscrutabilità decretata dalla luce della ragione si sgretola di fronte alla consapevolezza
dell’irrimediabile perdita di punti di riferimento certi. I suoi Nachtstüche (1816-17) [Racconti
notturni], tra cui il famoso Der Sandmann [L’uomo della sabbia] che Sigmund Freud usò per
descrivere il fenomeno del perturbante (Das Unheimliche, 1919), sono un viaggio negli abissi
dell’inconscio, che pone l’essere umano di fronte a realtà e forze misteriose, incontrollabili e
inquietanti.»103.

Come si evince da questa sintetica biografia, la sensibilità dello scrittore tedesco

è molto vicina a quella della Pozzi. Tanti sono gli aspetti di Hoffmann che si

potrebbero ritrovare anche nella poetica della poetessa: l’eclettismo creativo; lo

sguardo lucido e penetrante sulla realtà che gli permette di considerare la

deviazione verso il fantastico, il sogno e la follia come una forma di elevazione;

l’interesse per la tematica dello sdoppiamento e per la dimensione notturna104.

Proprio nell’ultimo racconto citato, Der Sandmann, si profila la figura

inquietante dell’umano non umano: il protagonista, Nathanael, si innamora di

una donna che si rivelerà essere una bambola, un automa. L’inganno è

103
Biografia a cura di Sandro Moraldo per AA. VV., Enciclopedia Filosofica, Fondazione Centro
Studi Filosofici di Gallarate, vol. 6, Hau-Lam, Milano 2006, p. 5326.
104
Purtroppo non sono presenti volumi di E.T.A. Hoffmann nella biblioteca di Pasturo che
aiutino a verificare ulteriormente la potenza di quest’affinità elettiva. Pure la Pozzi doveva
conoscerlo in quanto accenna a lui nella sua tesi, tramite la lettura che il critico Wilhem Fischer
fa relativamente agli influssi letterari nel racconto di Flaubert La Peste à Florence: «Il Fischer
crede vedere in questa scelta di soggetti lugubri e terribili un influsso dei racconti di Hoffmann»,
in POZZI, Flaubert…, p. 69. Poco più avanti il nome dell’autore tedesco torna ancora, parlando
di altre opere della giovinezza di Flaubert: «In questo anno 1837 egli già cerca di mettersi in
quella posizione di scherno con due racconti fantastici, a ciascuno dei quali potrebbe essere
premessa la frase di La Bruyère che precede il primo dei due, Rêve d’Enfer: “C’est souvent avoir
une très fausse opinion de l’esprit d’autrui que de ne point le nourrir de fadaises” [“Accade
sovente di avere un’opinione tanto falsa dello spirito altrui da non nutrirlo che di sciocchezze”].
Hoffmann ha certo contribuito alla creazione di quest’uomo senz’anima e di questo demonio
senza corpo che si dibattono in un desiderio di annientamento, incapaci di completarsi come di
distruggersi, impegnati in una lotta disperata “qui devait finir entre eux, comme chez l’homme…
par le doute et l’ennui, C’etait deux principes inchoérents qui se combattaient en face; l’esprit
tomba d’épuisement de lassitude devant la patience du corps” [“che doveva finire tra loro come
per gli altri esseri umani… per dubbio e per noia. Erano due princìpi contraddittori che lottavano
faccia a faccia; lo spirito cadde esausto di stanchezza di fronte alla sofferenza del corpo”», in ivi,
p. 75. L’altro racconto di Flaubert a cui riferisce influssi di Hoffmann è Quidquid volueris.

307
perpetrato, almeno secondo la prospettiva del protagonista, grazie ai trucchi di

un vecchio amico del padre, l’avvocato Coppelius, che da sempre Nathanael

sospetta essere stato anche il suo omicida. Quest’uomo inquietante turba sin

dall’infanzia l’immaginario del protagonista: certe sere la madre spediva lui e i

fratelli a letto minacciando l’arrivo dell’uomo della sabbia, capace di cavare gli

occhi ai bambini che avessero disubbidito a quest’ordine per darli in pasto ai

suoi stessi figli. Spinto dalla curiosità il protagonista resta una sera sveglio e

viene scoperto proprio dal Coppelius, con il quale il padre conduceva

esperimenti alchemici. L’uomo dall’aspetto ripugnante lo minaccia proprio di

cavargli gli occhi, confermando i sospetti di Nathanael, facendolo svenire dal

terrore. Il dettaglio degli occhi vacui sarà ciò che inquieterà il ragazzo nel

riconoscere, molti anni dopo, che la sua innamorata è un automa senza vita.

La capacità di Hoffmann di collegare attraverso la distanza elementi chiave che

si ripetono nella narrazione è ciò che riesce a generare pian piano il sentimento

dell’Unheimliche e a far immedesimare il lettore nel punto di vista folle del

protagonista, avendo sempre però la possibilità di considerare la questione anche

da una prospettiva esterna e scettica. Questo mescolarsi del famigliare e

dell’estraneo è proprio ciò su cui si basa il concetto dell’Unheimliche, concetto

che nella sua traduzione italiana – perturbante – non riesce ad avere la stessa

potenza semantica. Si tratta in ogni caso di una parola molto studiata in area

tedesca, poiché già nel 1906 Ernst Jentsch, psicologo tedesco, vi dedica un

saggio Zur Psychologie des Umheimlichen (Sulla psicologia del perturbante)

ispirato proprio da questo racconto di Hoffmann, il cui tema sarà poi ripreso e

308
allargato da Freud nel saggio Il perturbante del 1919105. Qui lo psicoanalista

austriaco collaziona una serie di definizioni di heimlich e del suo contrario (dato

il prefisso privativo un-) unheimlich, arrivando a scoprire una sovrapposizione

semantica fra quelli che dovrebbero essere due termini opposti. Heimlich è: 1.

ciò che appartiene alla casa; domestico: fidato ed intimo; del focolare; 2. Ma è

anche ciò che è nascosto, tenuto celato, in modo da non farlo sapere ad altri o da

non far sapere la ragione per cui lo si intende celare; sornione. Unheimlich

significa: disagevole, che suscita trepidante orrore; può in rari casi fornire da

contrario al significato 2 di heimlich. Inoltre, fra le varie definizioni di

unheimlich, Freud sembra apprezzare particolarmente quella di Schelling: «Si

dice unheimlich tutto ciò che dovrebbe restar… segreto, nascosto, e che è invece

affiorato.»106.

Il perturbante arriva allora a coprire quell’ambito dell’immaginazione che viene

sconvolta nell’apprendere che qualcosa di famigliare, si rivela non esserlo più,

ma anzi arriva proprio attraverso questo processo di spossessamento, ad essere

disturbante. Un’inquietudine senza apparente giustificazione razionale che non

permette una presa di posizione definita e che lascia il soggetto ai margini della

follia. Ed ecco ritrovo il motivo che mi ha spinto a considerare come il concetto

del perturbante potesse rappresentare l’essenza stessa della prima svolta di

Antonia durante gli anni universitari. La presa di coscienza che tutto quanto è

stato creduto vero e importante, elevato e puro ma raggiungibile con sforzi

105
Riprendo infatti le mie considerazioni da S. FREUD, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la
letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 269-275. Il saggio prosegue
fino a p. 307.
106
Ivi, p. 275.

309
estremi, sia in realtà fuggevole, falso, concretamente impossibile da attuare. Con

lo stesso Cervi attraversa una fase iniziale di profonda familiarità nella relazione,

per approdare poi ad una di quasi totale irriconoscibilità e ad uno straniamento

reciproco. Questa svolta di disillusione estrema nei confronti di una certa realtà

che non può conformarsi alle altezze del sogno e che per questo diventa

perturbante e dolorosa, è un processo che caratterizza gli anni 1931-’33 della

vita, e in conseguenza anche della poesia di Antonia Pozzi. Il suo sogno della

casa, della famiglia, della maternità, conosciuto e vissuto tanto intimamente da

essere ritenuto certo, viene via via infranto dal contatto sempre più duro con la

realtà, dall’avversione del padre, dal distacco dello stesso Cervi. L’acciecarsi

nel nulla, il diventare un essere senz’anima, come un automa che tutti

considerano senza sentimenti: questo sembra essere il destino di morte-in-vita

che si prospetta per Antonia e che ella coglie lucidamente, tentando un’ultima

fuga nell’arte di un grido. Questa presa di coscienza non sarà improvvisa, ma

graduale: acquisterà forma attraverso le diverse sfumature del suo canto, fino al

superamento della dinamica del sogno per opera dell’incontro con (o meglio,

forse, del conseguente distacco da) Remo Cantoni e alla decisione di votarsi al

romanzo negli anni della più profonda frequentazione con Dino Formaggio. Ma

si tratta già degli anni seguenti al 1933, anni intrisi di una nuova serie di dolorose

prese di coscienza, basati anche sull’accettazione da parte della poetessa di

raffigurarsi vittima di un certo disordine rispetto al modello banfiano.

Vorrei analizzare invece, ora, all’interno di questa cornice simbolista-decadente

qualcuna di queste sfumature o nuances – termine consigliato dal Verlaine

310
dell’Art poétique per conseguire una composizione poetica musicale –

ripartendo dall’idea della ricerca pozziana del ritmo, ma tenendo presente anche

l’ingresso di un perturbante sempre più pressante.

Negli anni ’30-’33 la poesia di Antonia vive di quel fenomeno carsico al quale

ho accennato in precedenza: se nel ’30 e nel ’32 la poetessa scrive pochissimo

(rispettivamente nove e dieci poesie) – ma si può ipotizzare che abbia coltivato

il suo amore per la poesia dedicandosi a letture importanti – nel ’31 e nel ’33 la

scrittura si riafferma come forza centrale, anche se con dinamiche diverse. Nel

’31 i componimenti sono ventidue tentativi di combattere contro l’inaridimento

e le difficoltà di una vita in progressiva trasformazione negativa; nel ’33 si

tratterà di una vera e propria esplosione poetica (novanta poesie), attraverso la

quale la Pozzi riuscirà a far germogliare gli influssi di alcune letture, avvenute

anche in anni precedenti, e a far evolvere la natura del suo canto, liberandola

definitivamente dal tema – a tratti anche inquietante nella sua continua

riproposizione – dell’amore con Cervi e del bambino non nato.

Secondo l’analisi della Bernabò in merito al biennio ‘31-‘32:

«Il 1931 e il 1932 furono per Antonia intensi e ricchi sia sul piano umano che su quello
intellettuale, ma anche difficili, perché l’opposizione familiare al rapporto con Antonio Maria
Cervi, che in qualche modo doveva essersi rivelata già nel 1930, esplose drammaticamente
nell’estate del 1931 [portando al viaggio in Inghilterra] e si esacerbò all’inizio del 1932. Anche
per questi anni mancano totalmente note diaristiche; restano invece numerose lettere, tra le quali
le più interessanti sono quelle inviate ad Antonio Maria Cervi, Lucia Bozzi ed Elvira Gandini.
Numerose sono poi le poesie, che testimoniano le sofferenze di Antonia legate al suo travagliato
rapporto d’amore. […]
Il tono complessivo dei versi del 1931 è più drammatico rispetto a quello delle poesie
precedenti, verosimilmente per il veto posto dai Pozzi al rapporto d’amore di Antonia con Cervi,
ma forse perché anche lo stesso Antonello, offeso dal loro atteggiamento ostile, e portato per
carattere alla rinuncia e al ripiegamento su se stesso, si dimostrava spesso nervoso e diffidente
con lei. In effetti, tra i due, era Antonia quella che più persisteva nell’idea di mantenere il legame,
nonostante l’opposizione dei familiari. La giovane donna si trovava a vivere dunque una
situazione estremamente conflittuale e resa difficile dall’amore che la legava tanto al padre

311
quanto ad Antonello, e, per di più, poco incoraggiata da quest’ultimo.
Entrambi gli uomini della sua vita, il padre e l’amato, rientravano in fondo in uno stesso
sistema rigidamente patriarcale (tipico dell’Italia dell’epoca) che voleva ricondurla a una sorta
di ordine: quello della figlia emancipata, ma ligia ai doveri del suo rango sociale, nel caso del
padre; quello della sposa-madre portatrice di valori tradizionali nel caso di Cervi, con l’aggiunta,
oltretutto, dell’idea di una maternità di Antonia che gli restituisse il fratello morto, Annunzio.
Va considerato che entrambi gli uomini avevano subito due gravi lutti: Roberto Pozzi quelli del
suicidio del padre e della sorella e Antonio Maria Cervi quelli della morte del padre e del fratello.
Forse, inconsciamente, essi desideravano dalla vita un risarcimento affettivo: l’avvocato Pozzi
trattenendo la figlia presso di sé, Cervi sognando con Antonia un nuovo piccolo Annunzio che
in qualche modo facesse rivivere il fratello: l’idea che potesse nascere una bambina non sfiorava
neppure i due innamorati. Comunque, sia il padre che Antonello, pur volendole sinceramente
bene, non le riconoscevano, in quanto sostanzialmente uomini all’antica, una vera autonomia, e
non le dimostravano quel tipo di amore che vuol dire riconoscimento dell’altro esclusivamente
per se stesso. Antonia andò incontro a una terribile crisi pur di non venire meno ai doveri verso
di loro e per cercare di conciliarli, con il risultato di scontentare entrambi e di esaurire le proprie
energie. In tale contesto, particolarmente ossessivo era diventato per lei il progetto di restituire
all’uomo amato il fratello morto: un’idea che, a un certo punto, andò oltre le stesse aspettative
di Cervi. Questo avvenne peraltro sia per un eccesso di generosità e di idealizzazione dell’amato
e delle sue esigenze psicologiche, sia per problemi personali della stessa Antonia, che,
nell’immagine di quel bambino, proiettava alcune parti interiori proprie che restavano irrisolte,
per vari motivi, nella vita reale.
In effetti, per essere comprese in tutta la loro complessità, le poesie del 1931 richiedono
una lettura che, pur partendo dagli elementi concreti e contingenti della difficile storia d’amore
dell’autrice con Cervi, non ne trascuri il significato più ampio di sofferta ricerca interiore. In
quest’ottica, si vedrà allora alternarsi nei versi, da una parte, un senso di perdita di energia e di
progressiva estraniazione dalla vita, dall’altra una diversa concentrazione di Antonia su di sé,
talvolta negativa nel suo sentirsi goffa e irrisolta, ma nello stesso tempo importante perché
tendeva a riportarla in qualche modo al centro di se stessa. Tralasciando Notturno invernale e
Fede, che peccano ampiamente di retorica, tutte le altre poesie del 1931 da La porta che si chiude
a Nostalgia ben rappresentano un’alternanza tra abbandono alla sconfitta e disperato sforzo di
ritrovare una consistenza e un senso dell’esistere.»107.

Dall’analisi della Bernabò si evince come la poesia di questi anni scaturisca da

una lotta e da una sofferta ricerca interiore, nel tentativo di comporre emozioni

turbinose e di dare un senso ad una serie di eventi dai risvolti complicati. A

questa ricerca corrispondono i diversi livelli di intensità (nuances) musicale che

si possono leggere attraverso una rinnovata attenzione al ritmo nella scrittura

della poetessa. In merito si confrontino le poesie del 1931 in cui l’iterazione,

sotto forma di anafora ma non solo, compare con insistenza, ondeggiando

proprio fra un tentativo di ricomposizione del sé e un desiderio di abbandono

107
BERNABÒ, Per troppa…, pp. 101-103.

312
perturbante. Si tratta ad esempio di L’orma del vento, Esempi, Sogno dell’ultima

sera, Fede108. Mi concentrerò sulla prima in quanto le altre sono state già trattate

in differenti parti di questa tesi; inoltre L’orma del vento esemplifica al meglio

attraverso l’immagine tematica del vento, colto nel suo movimento, la sfumatura

nel contrasto fra le differenti direzioni emotive che la poetessa tentava di

ricomporre.

L’orma del vento

Corre incontro al sereno il folle vento


recando nelle aeree braccia
una tremante attesa di gemme.
Corre l'anima incontro
a un ignoto miracolo
recando in tutto l'essere
un'infinita, prodigiosa attesa.
Tornano i passi a strade abbandonate,
per un sole che ride
come in luoghi lontani,
per un'aria che odora
come in perduti giorni.
Torna l'ansia di un tempo
e la certezza
la divina certezza ritorna:
oh, tu ancora mi attendi
in fondo a questa via,
presso il vecchio cancello
mascherato d'edera nera!
ancora, ancora
tu mi prendi le mani
e me le baci
e mi chiami giaggiolo...

Urta il folle vento e si spezza


contro un cumulo greve di nubi.
L'aria sembra morire
senza respiro.

Oh, tu non torni,


tu non puoi tornare!
Ben altra pena,
ben altro sangue
chiama i miracoli!

108
Rispettivamente alle pp. 143-144; 160-161; 163-164; 168-169 di POZZI, Parole.

313
Cade il folle vento: si perde
dietro le nebbie grigie il sereno.
L'anima sembra morire
senza più sogni.

E il cielo è ormai tutto di perla


e chiama, chiama,
nel vuoto enorme,
un sorriso di stelle.
Presso il vecchio cancello,
contro le croci nere dell'edera,
una fioraia ha deposto i suoi fiori.
Per poche lire mi compro
un mazzo magro di fresie,
e a consolarmi l'anima
basta il pensiero
che il grande ignoto miracolo,
il volto arcano
della mia attesa prodigiosa,
si chiuda in queste bocche protese
che mordono con labbra di viola
qualche pallido filo di sole;
in queste tenui vite
che nella malinconia di una sera
calata sopra un'orma di vento,
fanciullescamente mi dono,
per la mia primavera.

Milano, 27 febbraio 1931

In questa poesia si opera una vera e propria condensazione delle influenze che

ho rilevato sin qui, fra cui spiccano quelle di un certo romanticismo leopardiano

(Oh, tu non torni, / tu non puoi tornare! / Ben altra pena, / ben altro sangue /

chiama i miracoli!) e di un crepuscolarismo (Presso il vecchio cancello, / contro

le croci nere dell'edera, / una fioraia ha deposto i suoi fiori) dal quale è difficile

separare il risvolto simbolista-decadente (e a consolarmi l'anima / basta il

pensiero / che il grande ignoto miracolo, / il volto arcano / della mia attesa

prodigiosa, / si chiuda in queste bocche protese). Tutte queste immagini tese a

filare un senso ulteriore del discorso poetico, vengono però dopo il grande

movimento costruttivo della prima strofa e la brusca rottura della seconda strofa

314
che urta e si spezza contro le grevi nubi, riproducendo un passaggio analogo –

ma inverso nell’esito – a quello generato dallo Scattano dei bambini ne In riva

alla vita, ossia rovesciando l’andamento iniziale della poesia e l’aspettativa del

lettore. Nel caso de L’orma del vento però l’attesa positiva creata stilisticamente

e ribadita contenutisticamente, si rompe e si rovescia in negativo. Se nella prima

strofa Antonia espone la propria visione aperta e fiduciosa nel leggere il miracolo

della natura in divenire (e i vasti rimandi fonici, le iterazioni e il senso stesso

della poesia dimostrano questo sforzo condotto nell’attesa del grande miracolo

salvifico) nelle strofe seguenti, a seguito della mancata epifania, del mancato

ritorno di quel tu tanto atteso, Antonia sembra aggrapparsi al già noto. La

poetessa, che aveva costruito con le sue sole forze l’impianto della prima strofa,

propriamente pozziana nel rispecchiare la propria emotività attraverso la natura,

nelle strofe successive ricompone le parole in schemi consueti, si aggrappa per

uscire dalla malinconia ad esempi (anche letterari) già noti che sanno di sconfitta

e di abbandono: il cancello, il mazzo di fresie, la fioraia… persino il suo

fanciullesco donare a se stessa un simbolo di primavera, non è che un’orma della

freschezza gioiosa e sempre nuova del vento nella quale lei stessa si era ormai

identificata. Il perturbante si fa dunque presente in questo senso di familiarità

perduta – ossia nell’attesa di qualcosa di noto e amato che viene sostituito da un

vuoto incolmabile – oltre a manifestarsi nell’estraneità dei surrogati che non

riescono a sopperire all’assenza del tu. Il vento simbolista si frange, non regge

la carica emotiva e ha bisogno di una forte strutturazione interna per non suonare

come puro lamento.

315
Una breve analisi della composizione rafforzerà queste prime impressioni.

La prima strofa è la più complessa e, come anticipavo, la più personale nella

costruzione: si presentano infatti tanti elementi che via via sfuggono

dall’immaginario della poetessa e che si ritrovano, ma sempre più raramente –

come l’eco di una voce che esca man mano fuori dalla scena di un teatro –

all’interno delle strofe seguenti. In primis c’è l’immagine della corsa che nella

sua forza si sdoppia sia in funzione del soggetto che dell’oggetto: il vento va

incontro al sereno, come l’anima al suo ignoto miracolo. Questo doppio

movimento reca con sé due diverse personificazioni del soggetto: il vento reca

nelle aeree braccia una tremante attesa di gemme; l’anima è in tensione con

tutto il suo essere, diventando quasi essa stessa una prodigiosa attesa. Lo

sdoppiamento prosegue attraverso l’immagine del ritorno, che a sua vola, come

un sasso gettato nello stagno, duplica altre onde. Tornano i passi a strade

abbandonate (v. 8); torna l’ansia di un tempo (v. 13): una prima coppia. Poi,

riferito al v. 8 ci sono le due motivazioni, a propria volta sdoppiate nel paragone:

per un sole che ride / come in luoghi lontani, / per un'aria che odora / come in

perduti giorni dove si accumulano le immagini attraverso figure vaghe e

indefinite che aumentano la poeticità del testo (introiettando la lezione di

Leopardi e dell’Art poétique). Riferito al v. 13 si aggancia un movimento che è

quasi un chiasmo: torna l’ansia di un tempo / e la certezza / la divina certezza

ritorna. Da questo ‘quasi’ si libera, a partire dall’interiezione oh – pura nota

emotiva –, la conclusione (vv. 16-19) di un ciclo di attesa che si era man mano

accumulata nei rimandi dei versi precedenti: oh, tu ancora mi attendi / in fondo

316
a questa via, / presso il vecchio cancello / mascherato d'edera nera!

L’ancora del v. 16 viene ripreso due volte nel v. 20 per caricare i gesti della

attesa di quel tu comparso al v. 16 legato al mi attendi e poi riemerso nel ricordo

rivissuto del v. 21 dove è legato ad una sorta di iter di avvicinamento amoroso:

tu mi prendi le mani / e me le baci / e mi chiami giaggiolo...109. In quest’ultimo

verso compare per la prima volta il verbo chiamare che tornerà nel v. 32 e poi

ancora due volte nel v. 38, sfumando nel significato dalla più dolce speranza alla

più estrema disperazione. Nelle tre strofe centrali intanto si consuma l’intera

disgregazione della speranza, come spazzata dal folle vento che ritorna dal v.1 al

v. 24 dove urta e si spezza e al v. 33 dove cade definitivamente lasciando l’anima

in agonia senza più sogni. Anche queste due strofe, la seconda e la quarta, dove

si rovescia il senso del movimento del vento, sono caratterizzate da un

parallelismo compositivo, dove si legge un sottile rovesciamento rispetto alla

situazione iniziale: se infatti era il vento ad andare incontro al sereno nel v.1,

lasciando all’anima il suo ignoto mistero, adesso nel v. 35 della quarta strofa è

l’anima ad essere accostata al sereno: il folle vento è caduto (e con esso anche il

mistero), lasciando il sereno perso dietro alle nebbie grigie (v. 34). Di questo

epilogo triste è l’anima a soffrirne: sembra morire / senza più sogni. La stessa

formula, sembra morire / senza respiro, era stata dedicata nella seconda strofa

alla reazione dell’aria, che aveva visto urtare e spezzarsi il vento contro un

109
Dietro a quel tu c’è la figura di Antonio Maria Cervi, che soleva chiamare giaggiolo la
poetessa. Cfr. anche lettera del 1° marzo 1932, in cui la Pozzi scrive della rottura di questo
incanto: «O forse semplicemente io non ti piaccio più come una volta, non sono più il tuo
giaggiolo, la tua primavera: mi trovi brutta e vecchia, come sono, come sono, in realtà, e la mia
voce sgarbata ti irrita, i miei occhi rossi ti fanno dispetto e ribrezzo…», in POZZI, Ti scrivo…, p.
148.

317
cumulo di grevi nubi (controcanto di v. 34). La reazione dell’aria (che era già

comparsa nel suo odore in grado di richiamare il ricordo di perduti giorni al v.

11) anticipa quella dell’anima, che aspetta la definitiva caduta del vento prima

di perdere del tutto le speranze e morire.

Nella terza strofa, fra i due specchi offerti dalla natura e le relative reazioni delle

strofe due e quattro, si posiziona la presa di coscienza della poetessa, che apre

gli occhi sulla realtà di questo tu che non torna, rafforzato nella negazione

finanche della possibilità (non può tornare), e che si scontra con l’idea indefinita

di ben altre cause che chiamano, esigono l’esistenza o la realizzazione dei

miracoli.

A chiudere il componimento, una strofa che parte da un soggetto del tutto nuovo,

il cielo grigio di perla, ma che in realtà rovescia il senso di alcun simboli a cui

il buon presagio era legato, svelandoli o svuotandone il significato: il vecchio

cancello torna dal v. 18 al v. 41 e l’edera che lo copre si svela nella forma di

croce, (adatta per l’umile offerta della fioraia che vi depone i suoi fiori, come su

una tomba), sostituendo la maschera con cui si adombrava nel v.19; il chiama

chiama del v. 38 cade nel verso successivo in un vuoto enorme poiché non sente

rispondere il sorriso di stelle (v. 40). Per consolarsi allora la poetessa si dona

(sottolineando la miseria di questa soluzione: v. 44: per poche lire; v. 45: magro;

v. 47: basta il pensiero; v. 53: qualche pallido filo; v. 54: tenui), con un

malinconico spirito fanciullo, un mazzo di fresie, comprato da una fioraia,

nell’illusione che i fiori possano, con le loro bocche protese, con labbra di viola,

mimare la pienezza del grande ignoto miracolo, del volto arcano / della sua

318
attesa prodigiosa nell’atto di mordere qualche pallido filo di sole. L’anima, il

miracolo e l’attesa prodigiosa sono tutto quanto resta (a livello lessicale) della

prima strofa, insieme al cancello, all’edera e al chiama che reiterando cade nel

vuoto. I simboli che restano in mano alla Pozzi alla fine della poesia, sono

dunque quelli che nuovamente lei si crea, o che cerca di trattenere, ma filtrati dal

contatto con una realtà selezionata per rappresentare il suo più intimo sentimento

di nostalgia, ormai scarichi di tutto il valore che l’attesa di un amato altro da sé

aveva loro affidato.

Malgrado tutta questo lavoro sulla struttura, la poesia è fresca e vive di una

dinamicità rara, capace di rappresentare l’evolversi emotivo della scena in modo

immediato. La ricercatezza nelle reiterazioni che sorreggono la struttura come

esercizio di rinnovamento linguistico vicino all’atmosfera simbolista è

supportata anche a livello contenutistico, data la tematica di intenso scambio fra

anima e cosmo, fra segni che sembrano poter portare la poetessa alla

realizzazione del sogno. Ma la struttura cade, come urtata da un colpo troppo

forte del vento che l’aveva ispirata: resta solo un’orma, un’idea sensibile del

simbolo con la quale la poetessa può consolarsi e proseguire la propria ricerca.

Le figure fonetiche come assonanze, consonanze e allitterazioni sono

numerosissime: farò l’analisi della prima strofa per darne un’idea. Ricordo che

l’uso di queste figure era già consolidato in Antonia e viene qui ulteriormente

spinto dalla frequentazione dei simbolisti.

Sin dal verso uno si ripete la dinamica dell’accumulo tramite coppie di parole in

assonanza fra loro che vanno a rafforzarsi reciprocamente, incrociandosi

319
nell’attribuzione di senso del verso e nella distribuzione delle vocali /o/ ed /e/.

/Corre/ e /folle/; /sereno/ e /vento/110. /Folle/ e in consonanza poi con /nelle/ del

v. 2, come in consonanza è /vento/ con /tremante/111 del v. 3. Sempre nel verso

3 l’allitterazione della /t/ rende sensibile la tremante attesa. I versi 4 e 5 sono

collegati dall’assonanza rotonda della /o/, che riesce quasi a farsi interiezione

stupita: /incontro/, /ignoto/ e /miracolo/. Al v. 7 la consonanza della /s/ fra due

parole vicine ferma su di essere il senso, che è poi proprio quello della

/prodigiosa attesa/. Stessa costruzione di rafforzamento alla fine del v. 8 /strade

abbandonate/, ma tramite assonanza; questa figura di suono lega anche i vv. 9-

10 con le parole /sole/ /come/. Al v. 10 l’allitterazione di /l/: luoghi lontani a

precedere quella di /r/, che fra i versi 11 e 12 presenta anche la ripetizione /per/-

/perduti/ e la consonanza /aria/ /odore/, fino a cadere in /giorni/, a sua volta

consonante con /Torna/ del v. 13 e ripreso da /ritorna/ del v. 15. Queste due

parole aumentano il senso di accumulo essendo in assonanza con /ancora/. I versi

16-17 presentano una consonanza rotonda che li lega: /attendi/ e /fondo/,

all’interno dell’assonanza fra 15-17 /certezza/ e /questa/. Al v. 18 segnalo

l’assonanza /presso/ /cancello/. Al 19 l’idea di un primo ingenuo inganno,

110
Segnalo che la coppia /sereno/-/vento/ è presente in una poesia di Quasimodo Sapore del
pane, (Acque e Terre, Edizioni di Solaria, Firenze 1930, p. 31) letta e segnata dalla Pozzi proprio
a partire da quel verso che li vede insieme: «Mai ti vinse notte così chiara / se t’apri al riso e par
che tutta tocchi / d’astri una scala / che già scese in sogno rotando / a pormi dietro nel tempo. //
Era Iddio allora timor di chiusa stanza / ove un morto posa, / e a centro motore d’ogni cosa: / del
sereno e del vento, del mare e della nube / una preghiera stava sapor del pane, / grazia d’ogni
sera e mattutina. // E quel gettarmi alla terra / quel gridare alto il nome del silenzio / Era dolcezza
di sentirmi vivo.». L’ultima strofa è sottolineata due volte dalla poetessa.
111
Nel testo di Rimbaud presente nella biblioteca pozziana la poetessa sottolinea proprio la
coppia /nt/ nel v. 1 della seconda strofa de Les Étrennes des Orphelins (Le strenne degli orfani):
«Or les petits enfants, sous le rideau flottant, / parlent bas comme in fait dans une nuit obscure.»,
in RIMBAUD, Poésies, p. 6.

320
ventilata con la parola mascherato si completa nell’eco della finta rima edera-

nera. Tra questi versi segnalo l’allitterazione della /c/ completata anche dal

suono duro /ch/: /vecchio/, /cancello/, /mascherato/. Con /nera/ si ha piuttosto la

ripresa della consonanza /ancora/, rivelando dunque un’allitterazione della /r/ fra

i vv. 18-21: mascherato, edera, nera, ancora ancora, prendi. I versi finali della

prima strofa (vv. 21-23) sono ammorbiditi dalla dolce presenza

dell’allitterazione della /m/ contro cui la parola della ripresa /Urta/ nella seconda

strofa, è ancora più violenta: /mi/, /mani/, /me/, /mi chiami/. Anche il nome

giaggiolo ha questa funzione quasi di ninnananna onomatopeica, in cui si

scioglie l’essenza della poetessa nella visione dell’amato. Sempre in questi tre

versi finali, segnalo l’assonanza che pone il significato su /mani/, /baci/ e

/chiami/.

Attraverso l’analisi della poesia L’orma del vento appare dunque chiaro il lavoro

della poetessa che, pur non rinunciando all’espressione di una forte emotività

interiore e alla trasposizione letteraria di accadimenti intimi e privati, trova una

prima via di sublimazione della vita (dolorosa) nell’arte della parola attraverso

la lezione simbolista. La capacità di composizione poetica è esercitata con

finezza e sensibilità, presentando una caratterizzazione personale nello stringere

i legami con la natura e con le cose. Il loro esserci come correlativo oggettivo

della poetessa andrà via via strutturandosi e differenziandosi dalle arcane

intuizioni simboliste, per approdare ad una poetica degli oggetti che nella loro

concreta presenza veicoleranno l’ultimo segno di amore e di appartenenza alla

vita da parte di Antonia. Proprio la relazione con le cose è la traccia su cui si

321
possono profilare le altre sfumature che conducono all’evoluzione del ’33 e che

faranno prendere sempre più coscienza alla Pozzi del proprio destino di poeta

(Un destino, 13 febbraio 1935). A mediare questo passaggio sarà l’incontro con

Rainer Maria Rilke, poeta che moltissimi critici112 hanno accostato alla Pozzi e

112
Oltre a Graziella Bernabò (che fa ampi riferimenti a Rilke nel suo libro Per troppa vita che
ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia), Alessandra Cenni (di cui ho già citato il saggio
Antonia Pozzi: Orfeo o Euridice?, contenuto in POZZI, Lieve offerta…, pp. 7-14, in cui afferma
essere Rilke «il poeta più vicino» alla poetessa, e della quale è presente in chiusura dei Diari
pozziani il testo L’angelo disabitato ove rievoca questa vicinanza) e Onorina Dino (che
addirittura apre l’introduzione ai Diari pozziani con una citazione di Presagio di Rilke), hanno
dedicato studi alla relazione Rilke-Pozzi, Matteo M. Vecchio (peraltro scettico in merito ad
effettive ascendenze fra i due poeti, data l’impronta molto evidente della traduzione di Errante,
ossia di concezioni del traduttore non coincidenti con il gusto della Pozzi, come spiega in nota
n° 87 al cap. III Antonia Pozzi e il contesto universitario milanese del suo Perché la poesia ha
questo compito sublime. Antonia Pozzi. Otto studi, pp. 86-87) e Gabriella Rovagnati, della quale
riporto l’interessante ricostruzione in merito alla ricezione dell’autore di lingua tedesca
nell’ambiente milanese: «Presente, nei suoi versi è anche, benché non in citazioni così esplicite,
Rainer Maria Rilke, introdotto in Italia in traduzione negli anni Trenta dal suo maestro Vicenzo
Errante, ma del quale fin dagli anni Venti si aspettava la venuta a Milano. La germanista Lavinia
Mazzucchetti, infatti, che nel 1929 aveva rinunciato alla cattedra di Letteratura tedesca presso
l’Ateneo Milanese per divergenze con il regime (lasciando appunto il posto a Errante, meno
inflessibile nei confronti del fascismo), aveva suscitato l’interesse per il poeta praghese già
dall’inizio degli anni Venti con una serie di recensioni, mentre l’amica milanese di Rilke, Lella
(Aurelia) Gallarati Scotti, imparentata con la famiglia veneta dei Valmarana, aveva preparato il
terreno per una lettura pubblica del poeta presso il circolo letterario “Il Convegno”, dove aveva
parte attiva suo marito, l’italianista, studioso di Antonio Fogazzaro, Tommaso Gallarati Scotti,
che divideva con Rilke un’autentica venerazione per Eleonora Duse. Rilke, che come si sa dalla
corrispondenza con la signora, si era dichiarato disposto ad accettare l’invito, non era poi più
riuscito a realizzare questo progetto per motivi di salute. Certo, in quegli anni – Rilke morì nel
1926 – Antonia Pozzi sarebbe forse stata troppo giovane per rimanerne affascinata. Tuttavia a
Milano di Rilke si parlava, e molto, anche prima che Errante ne pubblicasse l’opera in traduzione;
milanese fu per altro anche la prima traduttrice italiana del poeta di Praga, Cecilia Braschi, amica
della Mazzucchetti, che già nel 1914 sottopose di persona a Rilke la propria versione italiana del
Cornet, purtroppo andata perduta. Non abbiamo certezza, ma non lo possiamo neppure
escludere, che i Pozzi avessero contatti con i duchi Gallarati Scotti, che abitavano nel loro
palazzo di Via Manzoni al numero 30, e che Antonia nomina una volta soltanto in una lettera.
Certo è che anche Rilke la influenzò molto, ed è probabile che di lui avesse sentito parlare non
solo da Errante, ma anche da Giuseppe Antonio Borgese, altro suo maestro affascinato dal
mondo tedescofono, che poi sarebbe diventato il genero di Thomas Mann, sposando in seconde
nozze l’ultima figlia dello scrittore, Elisabeth. Borgese, che prima di essere docente d’Estetica e
direttore della terza pagina del “Corriere della Sera” aveva svolto in Germania attività di
giornalista ed aveva frequentato con intensità Stefan Zweig, era stato, come quest’ultimo, un
ammiratore di Rilke della prima ora, ossia già dai primi anni del Novecento, quando il poeta non
era ancora “riserva degli snobs di mezz’Europa”, quando cioè lui, fatto in seguito oggetto di tanti
pettegolezzi per la via della sua tendenza a frequentare signore altolocate, si ammirava soltanto
l’“irripetibile musicalità o surrealtà linguistica”. Ed è questa melodia peculiare dei versi rilkiani,
animata da un intenso afflato metafisico, quello che affascinava anche la Pozzi, che lo lesse in
lingua originale, come dimostrano i volumi presenti nella sua biblioteca.», in ROVAGNATI,
“Parole-Worte”.., in AA. VV., ...e di cantare…, pp. 153-155.

322
che entra effettivamente nella sua formazione universitaria attraverso la lezione

di Vincenzo Errante, germanista della Statale di cui la poetessa «frequentò

nell’anno accademico 1933-34 [proprio] un corso su Rilke»113 e che fu il primo

a riconoscere la bellezza e il valore dei versi di Antonia dopo la morte.

In merito all’effettiva data di inizio di questa relazione poetica, però, la Bernabò

precisa:

«Nella biblioteca di Antonia Pozzi di Pasturo è presente tuttora 114 il seguente volume:
Rainer Maria Rilke, Liriche, traduzione di Vincenzo Errante, Milano, Alpes, 1929. Elvira
Gandini pensa che esso sia stato acquistato da Antonia intorno al 1931. Forse, in occasione del
corso universitario di Errante, l’autrice riportò su quel medesimo libro i testi in tedesco del poeta
austriaco, integrandone a p. 162 uno tratto dal Libro della povertà e della morte riportato soltanto
parzialmente da Errante (Dà, Signore, ad ognuno la “sua” morte), sia con il testo tedesco che
con la traduzione del germanista, da lei forse reperita a p. 230 di un altro suo libro (Vincenzo
Errante, Rilke. Storia di un’anima e di una poesia, Milano, Alpes, 1930)115; la Pozzi peraltro ne
modificò alcune parole, rendendola più semplice e moderna.»116.

Proverò a tracciare un sintetico profilo delle evoluzioni biografiche-poetiche di

Rilke per illuminare come tante delle ‘svolte’ di questo poeta furono vissute e

messe in pratica dalla stessa Pozzi, in una direzione che mise la poesia in costante

confronto con la realtà delle cose:

«Rainer Maria Rilke, nato a Praga il 4 dicembre 1875, rimase per tutta la vita fedele alla
leggenda che la sua famiglia avesse origini nobili. Irrequieto, viaggiava spesso e cambiava
domicilio: ora era a Monaco, a Berlino, a Worpswede, ora a Parigi o a Muzot, in Svizzera. Nella
poesia Der Dichter (Il poeta) scrive: “Non ho né amata, né casa, / nessun posto dove vivere”. È
quasi uno sradicato, ma si abbandona all’illusione di discendere da una di quelle nobili famiglie
che devono crescita, durata e continuità della casata a un luogo fisso e ben preciso, col quale si
identificano totalmente, persino nel nome che portano. La madre nutriva velleità letterarie e
scriveva poesie di facile musicalità, mentre il padre era un semplice ispettore ferroviario. Sulla

113
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 121. La citazione è ripresa dalla nota n°12.
114
Non ho riscontrato la presenza del volume fra quelli trasferiti nell’archivio del Centro
Internazionale Insubrico di Varese.
115
Questo libro è un regalo di Lucia Bozzi e porta la dedica: «a Tugnin sempre cara e / buona
Lucia. / 13 febbraio 1934».
116
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 121-122.

323
scia della creduta origine nobiliare, scriverà nel 1899 la celebre Canzone d’amore e di morte
dell’alfiere Christoph Rilke117, opera in prosa dall’andamento lirico, che ci presenta un presunto
antenato del poeta mentre infuria la guerra contro i turchi. […]. Rilke ha sempre considerato Das
Stundenbuch (Il libro d’ore, 1905) il suo vero grande inizio, l’opera in cui tratteggia la precarietà
del possesso (“Dicono mio e lo chiamano possesso, / …dicono: la mia vita, la mia donna / il mio
cane, il mio bambino, e sanno esattamente / che tutto: vita, donna e cane e bambino / sono
configurazioni estranee”) e, per converso, rivaluta la positività dell’ascesi e la pienezza della
povertà francescana: “Ché la povertà è grande splendore che viene dall’intimo”. Povertà non
solo delle cose, ma anche dell’amore che tende al distacco, e quindi alla solitudine, rivelandosi
eros della lontananza e della nostalgia. Il poeta innanzitutto vuole la solitudine, convinto che la
rinuncia al legame dell’amore sia necessaria premessa per concentrarsi nella propria interiorità.
È una presa di posizione che, più o meno variata, durerà all’incirca fino al 1914.»118.

È evidente quali possano essere i primi tratti di interesse della Pozzi per questo

poeta che fa delle scelte di vita (oltre che di sguardo su di essa) per correggere

una realtà che non è sufficiente a colmare le necessità dell’anima. Rilke ha

bisogno di nobiltà, di radici salde e di una famiglia con un passato proprio perché

non possiede tutto questo. Al contempo, dopo aver incontrato l’amore con

l’affascinante intellettuale Lou Andreas-Salomé ed essere stato assorbito dalla

passione per alcuni anni, decide di immergersi nella solitudine perché

comprende che i beni incontrati sulla terra non sono duraturi, non possono

soddisfare l’infinita sete di possesso da cui è spinto l’uomo. Per questo abbraccia

l’idea di povertà e di intimità francescane, preferendo concentrarsi nella propria

interiorità. La Pozzi pur desiderando per certi versi l’opposto del poeta austriaco

117
Questo libro compare nella biblioteca pozziana nella versione tedesca Die Weise von Liebe
und Tod des Cornets Christoph Rilke, Insel, Leipzig 1934 (la data di stampa non è presente sul
volume, ma è molto probabile che coincida con quella dalla versione digitale presente sul sito
theeuropeanlibrary.org. In ogni caso il libro comparse in prima edizione nel 1912, stando alle
notizie della casa editrice (suhrkamp.de sotto la sezione Bücher – libri – cercando il titolo di
Rilke). Fu il volume con cui la casa editrice iniziò la collana “Biblioteca Insel” (Insel-Bücherei,
n° 1). Della stessa collana (di rara bellezza e cura editoriale) la Pozzi possiede molti libri, fra cui
un altro, il n° 406, dello stesso Rilke, Briefe an einen jungen Dichter (Lettere a un giovane poeta),
pubblicato dalla casa editrice il 7 gennaio 1929 (fonte suhrkamp.de).
118
Dalla nota biografica curata da Gio Batta Bucciol a R.M. RILKE, La gioia degli angeli,
Edizione speciale per il Corriere della Sera, Milano 2012 (Le raccolte del Corriere della Sera,
Un secolo di poesia, 10), pp. 224-226.

324
nella pratica – ossia, ad esempio, una povertà intesa anche come assenza del peso

dato dalla condizione socio/familiare e assolutamente non relativa alla

compagnia di un affetto saldo (arricchimento umano nel quale, invece, sperava)

–, è mossa dallo stesso spirito di contraddizione rispetto alla propria condizione

esistenziale. Il 29 gennaio del 1938 arriverà ad esprimere lucidamente questo

disagio, in una lettera – che è una vera evocazione-confessione del proprio sé

più nascosto a partire dalla meditazione sulla solitudine delle cose – mai spedita,

ma indirizzata alla madre:

«Cara mamma,
dagli orologi fermi capisco la tua assenza. E stamattina nel solito bicchiere bianco, c’era
uno spazzolino da denti solo. Il tuo te lo sei portato via. Ma non credere che, te lontana, io faccia
cose che a te dispiacciono. Il mio sogno più caro è destinato a oscillare nell’aria lungamente, ma
poi – certo – a dissolversi nel sereno, oltre le cose. Perché amiamo perdutamente soltanto ciò che
non avremo mai: e per me è la miseria, vecchi con lunghi mantelli fra ciminiere di fabbriche
lontane, carraie che conducono a una cava di sabbia, bambine col grembiule rosso riflesse
nell’acqua dei fossi. La strada vera va lungo il marciapiede, ha consuete parole, vetrine infiorate,
un “Punto giallo” fra gli specchi, e un mite desiderio di sicuri stipendi.
Cara mamma, augurami di soffrire ancora a lungo per amore di fantasia: a questo patto
la tua ragazza potrà non morire. Antonia»119

La relazione di Antonia Pozzi con le cose è intrinseca nella sua natura di poeta.

Ma dall’incontro con Rilke e dall’approfondimento della sua poesia, avvenuto

fra il 1933 e il 1934, quando la Pozzi supera in modo doloroso la delusione data

dalla conclusione del rapporto con Cervi e si lega all’idea di un nuovo amore

con Remo Cantoni, la poetessa trae la forza per seguire il sentiero della loro

matericità, al di là delle tentazioni puramente simboliste. Certo sarà stato anche

l’avvio ad una più profonda riflessione sul proprio fare artistico, data dalla

119
POZZI, Ti scrivo…, p. 285. Nella nota relativa viene precisato: «Lettera non spedita, scritta
nell’ultimo dei tre quaderni di poesie di A.P., tra Luci libere, del 27 gennaio, e Pan, del 27
febbraio 1938.».

325
frequentazione delle lezioni di Antonio Banfi, avvenuta proprio in quell’a.a., a

volgerla verso questo sentiero di autoanalisi, in un momento in cui la prima

spinta vocazionale, data anche dalla volontà di ‘raggiungere’ l’amato Cervi e di

sublimarsi per lui, arriva ad esaurirsi. La domanda implicita e lecita che aleggia

nei meandri delle tensioni pozziane di questi anni universitari sembra essere in

sintesi: “che fare, dunque, ora, della mia poesia? Quale indirizzo per lei nella

mia vita?”.

Anche per Rilke questo aggancio verso le cose in poesia avviene attraverso una

serie di relazioni, fra cui quella con il ‘mestiere’ di un altro grande artista, Rodin:

«Nel 1900 si stabilisce a Worpswede, presso Brema, dove abita una piccola colonia di
artisti, tra cui […] la scultrice Clara Westhoff, la futura sposa da cui avrà la figlia Ruth. Tramite
Clara, allieva di Rodin, nel 1902 entra in contatto con lo scultore francese e si reca a Parigi,
deciso a diventare poeta plastico. Rodin, che con la sua risoluta personalità irruppe nell’animo
umbratile e sensibile del poeta, insisteva sul concetto di “mestiere”, del lavoro assiduo, continuo
e paziente, proprio dell’artigiano. Musil dirà che la poesia di Rilke, in precedenza di porcellana,
stava diventando di marmo.
Il nuovo traguardo della poetica rilkiana è la plastica oggettività delle Neue Gedichte
(Nuove poesie, 1907-1908), in cui decanta la lezione di Cézanne e Baudelaire e crea il tipo della
“poesia-oggetto”, che non rappresenta sensazioni, ma oggetti, “cose scritte”. […]
Ma una poesia del 1914, che porta il significativo titolo di Wendung (Svolta), mette in
crisi un tal modo di osservare: l’oggetto non reclama la distanza o l’impassibilità, ma lo sguardo
dell’eros coinvolgente. “Ché al guardare, ecco, è posto un limite / e il mondo guardato / vuole
crescere nell’amore”. È il momento cruciale, Rilke è arrivato alla svolta che salda l’arte alla vita
e che lo porta alle Elegie Duinesi e ai Sonetti a Orfeo. […]
Le Elegie Duinesi, in cui convivono poesia filosofia e squarci discorsivi, fanno
intendere il lungo cammino percorso dal lontano debutto – sensitivo e impressionistico – fino a
questi tardi blocchi di versi vigorosi e aspri, dove il vedere e il dire oggettivo vengono
relativizzati a favore di un’arte che prende coscienza delle istanze ultime dell’uomo e del poeta.
La ricerca rilkiana dell’interpretazione della vita approda all’ultima fase, in cui vita e morte si
presentano come due aspetti di un’unica affermazione. Orfeo, il dio della metamorfosi e del
congedo, insegna all’uomo che, a dispetto della sua caducità, può innalzarsi ad attimi di estatico
appagamento nominando le cose e godendone esistenza e contatto: “Provate a dire ciò che
chiamate mela. / Questa dolcezza”… “Danzate il sapore del frutto assaggiato”.»120.

La centralità del tema del mestiere dell’artista è lo snodo da porre in risalto e

120
RILKE, La gioia…, pp. 226-228.

326
verso il quale confluiscono, dal 1933 al 1935, le energie del pensiero pozziano,

che osserva l’evolversi del rapporto arte-vita sia negli autori letti o affrontati per

approfondimento personale, sia in se stessa. La Pozzi ricerca una seconda

motivazione che dia senso e valore al suo scrivere versi, tentando di trovarla in

una concezione che sia slegata dalla motivazione autobiografica e autonoma da

un’esigenza vocazionale ma comunque ancorata alla vita, alle cose121. In questo

caso l’esempio di Rilke, ricco di svolte e di sfumature, ha un andamento simile

a quello analizzato dalla Pozzi in Flaubert, ossia parte da un debutto sensitivo e

impressionistico per arrivare a un vedere e dire oggettivo in grado di godere

ugualmente della vita e della morte perché non sono che due aspetti di una stessa

natura. In questo senso le cose, nella loro essenza muta, insegnano all’uomo il

valore dell’attesa e della scoperta, della permanenza e della caducità, ossia

ricompongono in una trama di opposti la realtà e il sogno.

La svolta che la Pozzi sottolinea all’interno della dinamica artistica di Flaubert

è molto simile in quanto a progressione dal soggettivo all’oggettivo: la delineerò

brevemente per rendere chiaro il riferimento. Si tratta di citazioni dalla tesi che

Antonia discute nel novembre del 1935, e quindi frutto di un percorso che era

iniziato quanto meno l’anno precedente, se già in una lettera alla madre, scritta

dal Breil il 24 luglio del 1934, dichiara: «ritornerò tutta contenta e riposata, tutta

121
Cfr. ROVAGNATI, “Parole…”, in AA. VV., …e di cantare…, p. 153: «C’è quindi in lei sempre
più impellente con il passare degli anni, soprattutto dopo la “rinunzia” definitiva all’amore per
Antonio Maria Cervi e fino all’incontro con l’impegno sociale concreto di Dino Formaggio, il
desiderio di coniugare il proprio quotidiano con il mondo della poesia, cha ha senso solo se di
questo quotidiano si nutre e, a sua volta, gli restituisce senso nella forma sublimata dell’arte».

327
“arzuta e pettorilla”, pronta a prendermi a pugni con Flaubert.»122.

La svolta che la studentessa Pozzi rileva nel percorso artistico dell’autore

francese si delinea al meglio proprio nella sua opera più tormentata,

L’educazione sentimentale (1843-1869), che lo impegnò, «nei suoi successivi

ripensamenti[, per] ventisei»123 anni. La Pozzi nel secondo capitolo della sua tesi

intitolato L’evoluzione teorica. (“Novembre” e la prima “Education

Sentimentale”) appunta:

«Le cose, dunque, l’esame ragionato della realtà, la disciplinata aderenza al concreto
avviano Jules [il protagonista dell’E.S.] alla guarigione dagli eccessi fantastico/sentimentali della
sua gioventù romantica. I successivi trapassi di questo progressivo intellettualizzarsi di tutte le
posizioni sono riassunti nettamente in poche righe: [“Dal suo personale dolore ha contemplato
tutti gli altri, e in tale spettacolo è tato abbastanza lungimirante da poterlo sempre vagliare; per
breve tempo l’arte lo ha abbagliato, così come viene il capogiro a quanti si trovano ad altezze
eccezionali, e ha chiuso gli occhi per non restare accecato; poi ciascuna linea ha ripreso il suo
posto, i piani si sono stabilizzati, sono risaltati i particolari, i vari accordi sono comparsi, si sono
allargati gli orizzonti, l’ordine ch’egli ha scoperto si è trasferito in lui, le sue forze si sono
ripartite, la sua intelligenza s’è equilibrata”]124.»125.

La lezione della fondamentale aderenza alle cose appresa in questo passaggio è

122
POZZI, Ti scrivo…, p. 205. La stesura in sé durò solo due mesi, come confessa in una lettera
del 28 agosto 1937 scritta a Dino Formaggio: «fino ai due mesi pazzeschi in cui riuscii a buttar
giù una tesi, in cui – forse – c’è tutto il meglio di me – la storia e il programma – forse – della
mia vita, o almeno di un aspetto della mia vita.», in POZZI, Ti scrivo…, op. cit., pp. 273-274. In
un altro scritto, contenuto in A. POZZI, Soltanto in sogno. Lettere e fotografie per Dino
Formaggio, a cura di G. Sandrini, alba pratalia, Verona 2011, p. 39, la Pozzi dà una versione
leggermente diversa (e lievemente denigratoria nei confronti del proprio lavoro) per spronare
Dino al lavoro assiduo: «Te la do io sulla testa la pigrizia! – Quel che mi dici sulla tesi mi
spaventa addirittura: ma figliolo, figliolo, ricordati (non “che dobbiamo morire”) ma che hai
soltanto poco più di due mesi e una tesi in filosofia non s’improvvisa in una notte, lo sai anche
tu! Ce ne ho messi più di tre anch’io, che avevo da sbrigarmela solo con della robetta letteraria!»
123
Dall’introduzione a cura di A. Cenni a POZZI, Flaubert…, p. 11.
124
In francese nel testo: «De sa douleur particulière il a contemplè toutes les autres, il a vu assez
loin dans ce spectacle pour le pouvoir regarder toujours; un moment l’art l’a ébloui, ainsi que la
tête tourne a ceu qui se trouvent à des hauteurs extraordinaires, et il a fermé les yeux pour n’en
être pas aveuglé; puis toutes les lignes ont repris leur place, les plans se sont venus, les horizons
se sont élargis, l’ordre qu’il a découvert a passé à lui, ses forces se sont réparties, son intelligence
s’est équilibrée.», ivi, p. 163. La traduzione che ho citato è riportata in nota n°1 alla stessa pagina.
125
Ibidem.

328
essa stessa per la Pozzi un ordine ch’ella ha scoperto e che si è trasferito in lei,

giacché la ricalca nell’analisi della sua stessa vita sognata attraverso la pagina

della ripresa della scrittura diaristica, dopo un vuoto di otto anni126. Si tratta della

tormentata data del 04 febbraio 1935, quella dell’incontro con il suo relatore,

Antonio Banfi, in cui gli confessa di scrivere «degli orribili versi»127:

«L’evasione dal reale nel fantastico è lecita solo quando venga scontata con la pena
attiva dell’espressione. Per questo, della mia vita sognata, resta moralmente valida solo “La vita
sognata”, quei dieci fogli che sono riuscita a buttare fuori da me.
Tortura è stata la mia maternità immaginaria, valida fino a che ci fu al mio fianco un
essere che condivideva questo anelito di salvazione di una vita in un’altra vita, valida finché fu
non illusione, ma speranza, e speranza di bene non soltanto per me; ma quando si riconobbe
illusione e divenne soltanto dolore mio, si isterilì, si schematizzò. Feci del mio dolore
un’astrazione, un’armatura su cui appoggiare, scaricare la responsabilità della mia vita. Da quel
momento il mio dolore non ebbe più ragione, più diritto di esistere. Compiuta la rinuncia, io
avrei dovuto ricominciare a vivere, non fare di quella una teoria per sostenere la negatività della
mia vita. Come se quella che era stata la mia vita morale, giustificasse la mia vita amorale della
giornata. Amorale perché subita, coscientemente subita come uno smembramento della
personalità, un lasciarsi andare, disperdersi fra le cose, le anime, i gesti irriflessi, senza un
nocciolo interno, una mano che raduni le fila, che sprema l’uva perché ne coli il mosto.»128.

Per chiarire questo parallelismo delle svolte e delle prese di coscienza del

‘maestro’ e dell’‘allieva’, bisogna osservare con attenzione le note che Antonia

inserisce a margine della progressione logica della tesi, e che sono fondamentali

per comprendere quanto di personale ella rivedesse nella figura del Flaubert, per

esempio quando ne sottolinea gli spasimi della malattia di nervi oltrepassata la

quale tutto era diventato più chiaro nelle cose:

126
È molto probabile che Antonia avesse proseguito nella scrittura anche nel periodo 1927-1935,
ma che i fogli siano andati distrutti (forse per mano del padre). Così la Dino ne fornisce
ragguaglio: «Nel quaderno manoscritto a matita, qualche pagina manca, accuratamente tagliata
e incollata. Sulla copertina, sotto la dicitura in stampa “Quaderno di”, si legge: Diario intimo,
nella grafia del padre di Antonia Pozzi.», nota n°9 all’introduzione a POZZI, Diari, p. 21.
127
Ivi, p. 39.
128
Ivi, pp. 38-39.

329
«La mia giovinezza è passata. La malattia di nervi che m’è durata due anni ne è stata la
conclusione, a chiusura, il risultato logico. Per aver avuto quello che ho avuto, bisogna bene che
qualche fatto abbastanza tragico sia successo anteriormente nella scatola del mio cervello. Poi
tutto si è ristabilito ho visto chiaro nelle cose, e in me stesso, ciò che è più raro. […] Avevo tutto
compreso in me, separato, classificato, così che fin[o] allora non c’era stata epoca della mia
esistenza in cui mi fossi sentito più tranquillo.»129.

Questo punto di estrema chiarificazione è ciò che porta l’artista francese alla

necessità di uno sguardo preciso sulla realtà, che evoca quello della geometria e

della matematica130 (ed è curioso che Antonia, appassionandosi poi allo studio

della lingua tedesca ne parli proprio in questi termini alla sua amica Lucia

Bozzi)131; un autore che con grande lucidità non vedeva in sé la forza del genio

di un Goethe132, ma l’alacre attitudine al lavoro partita dallo studio sullo stile dei

‘secondi’ autori, magari anche molto diversi per sensibilità e per questo

maggiormente in grado di liberarlo dal peso del sentimentalismo e della

soggettività. Lo scopo di questo sforzo è l’espressione compiuta della parola in

una sintesi di Idea e Forma; la Pozzi cita le parole di Flaubert:

«”Per me […] finché, di una frase data, non mi verrà separata la forma dal contenuto,
sosterrò che queste sono due parole vuote di senso. Non ci sono bei pensieri senza belle forme,
e viceversa. La Bellezza trasuda dalla forma nel mondo dell’arte, come nel nostro mondo ne
nasce la tentazione, l’amore. Così come non puoi estrarre da un corpo fisico le qualità che lo
costituiscono, ossia il colore, l’estensione, la solidità, senza ridurlo a una vuota astrazione, senza
distruggerlo, in una parola, così non toglierai la forma dall’Idea, poiché l’Idea non esiste che in

129
POZZI, Flaubert…, p. 163.
130
Cfr. ivi, p. 164, ove la Pozzi cita, per chiarificare il carattere di Jules: «Egualmente lontano
dallo scienziato che si limita all’osservazione d’un fatto quanto dal retore che pensa soltanto ad
abbellirlo, per lui esisteva un sentimento nelle cose stesse, e le passioni umane nel loro sviluppo
seguivano parabole matematiche.». Poi in nota la Pozzi riporta la confessione di Flaubert riferita
a questo passo: «La poesia è una cosa altrettanto precisa quanto la geometria.», in ibidem.
131
Cfr. POZZI, Ti scrivo…, p. 254, lettera del 24 agosto 1936: «E questa lingua tedesca, la più
splendente, più spietata costruzione razionale, geometrica che si vede sulla terra.».
132
«Nel ’52 Flaubert scriverà: “(I sommi scrittori) non hanno bisogno di fare dello stile…; sono
forti a dispetto di tutti gli errori e anzi a causa di essi. Ma noi, che siamo piccoli, valiamo soltanto
per la compiutezza dell’esecuzione… Azzardo qui un giudizio che non pronuncerei in nessun
luogo: che i grandissimi uomini scrivono spesso male, e tanto meglio per loro. Non è lì che
bisogna cercare l’arte della forma, ma nei secondi (Orazio, La Bruyère)…Come istruzione
tecnica, c’è più profitto da trarre dagli ingegni sapienti e abili”», in POZZI, Flaubert, p. 188.

330
virtù della sua forma.”»133.

La poetessa prosegue poi nella sua analisi:

«Su questa forma che, superato a poco a poco il distacco platonico dall’Idea, attrae
questa in sé, fino a divenire con lei espressione unica e immediata dello spirito, si concentra
dunque l’interesse supremo dell’artista.
A ogni sfumatura di pensiero dovrà corrispondere una sfumatura di parola: e il cogliere,
fra le tante, la sfumatura esatta, “le mot juste”, “le mot unique”, dando vita con questo al pensiero,
è il compito e l’attributo del vero poeta.»134.

E la conclusione del capitolo da parte della Pozzi lascia stupiti per quanto il

vissuto del Flaubert coincidesse in quel momento proprio con il suo, ossia fosse

permeato da un’evidenza critico-teorica del percorso artistico da seguire

ampiamente sconfessata da un’inattualità pratica:

«Nelle Correspondance di Flaubert leggiamo: “Non si arriva allo stile che con un
travaglio atroce, con una ostinazione fanatica e devota. […]”.
Così, viene concentrandosi davanti a Flaubert e radicandosi nella sua anima stessa, la
figura ideale dell’artista lavoratore, con le ore del suo vivere affaticato, con le sue ascetiche
ebbrezze d’immaginazione. […].
Ma questo personaggio di Jules, viaggiatore in un simbolico deserto, scalatore di
un’ideale piramide dall’alto della quale, nella raggiunta pace della contemplazione, insegue
immobile gli infiniti orizzonti […] rivela troppo palesemente una capitale diversità con quel
torturato e acerrimo aggressore di vette in cui Flaubert raffigurerà se stesso alla fine del 1853:
“Non è forse della vita d’artista, o piuttosto di un’opera d’Arte che si deve compiere, come di
una grande montagna da scalare? Duro viaggio, e che domanda una volontà accanita!...A ciascun
rialzo della strada, la cima ingigantisce, l’orizzonte si allontana, si va attraverso precipizi, le
voragini e gli scoraggiamenti… Qualche volta, tuttavia, un colpo di vento arriva dai cieli e svela
al vostro stupore prospettive innumerevoli, infinite, meravigliose!... Poi, la nebbia ricade e si
continua a tastoni, a tastoni, scorticandosi le unghie sulle rocce e piangendo nella solitudine. Non
importa! Moriamo nella neve, periamo nel bianco dolore del nostro desiderio, al murmure dei
torrenti dello Spirito e col viso rivolto verso il sole!” ».135.

Molto argutamente la Pozzi rileverà, però, che le teorie di Flaubert vengono

133
Ivi, p. 191.
134
Ivi, p. 192.
135
Ivi, pp. 193-195.

331
sconfessate dal fatto stesso che ad esprimerle sia Jules, suo personaggio fittizio,

così che allontanarsi dall’autobiografismo nella produzione artistica diventa una

meta ancora lontana da raggiungere per l’autore francese:

«Flaubert dovrà compiere dunque un lungo cammino prima di trovare la terra su cui
usare gli strumenti già approntati dalla sua coscienza critica.»136.

Come accennavo in precedenza, sarà la stessa poetessa, a non riuscire a uscire

dall’impasse, troncando prima del tempo i germi di un’evoluzione letteraria e

esistenziale che aveva forse bisogno solo di radicarsi, di verificarsi. Il dramma

della Pozzi è racchiuso nell’impossibilità di trasformare le sue intuizioni di

studiosa e di critica in merito alla necessità di questo percorso di

oltrepassamento della vita nell’arte in una vera e propria prassi nella poesia. Ne

parla emblematicamente già in una lettera a Remo Cantoni del 25 agosto 1935,

in cui il ruolo della prosa si profila come quello di una sorta di allenamento nel

contrasto rispetto alla sua natura e in vista del miglioramento dello stile, come il

Flaubert le insegna:

«…sono stanca di questa pace, di questa natura che ormai presente l’autunno e
s’intristisce ogni sera, sempre al suono delle stesse campane. Ho ricominciato a scrivere versi e
non vorrei; è un brutto segno, ed è troppo presto. Avevo bisogno di un più lungo silenzio per
combinare qualchecosa di buono. Anch’io dovrei andar via, vedere molta gente e molto mondo,
sola e responsabile di me. Vorrei imparare a scrivere in prosa, e con questo intendo tutto un
nuovo modo di vedere la vita, più sano e più concreto. Non è detto che poi non debba tornare
alla poesia, ma forse sarebbe una poesia più completa, non più soltanto un’evasione, ma una
comprensione. Questi però sono bei discorsi teorici: in pratica non ho né abbastanza ingegno né
abbastanza volontà, e resterò sempre a mezz’aria, con la mia irrequietezza e la mia
insoddisfazione. Uno strambo Tognin scombinato.»137.

136
Ivi, p. 196.
137
POZZI, Ti scrivo..., p. 232.

332
Ma la sua decisione di deviare l’esperienza della scrittura in una pratica come

quella della prosa che non le riesce congeniale138 (e i due esperimenti del marzo

1935, Intervallo e Ultimo capitolo, lo provano)139 non fa che acuire il sentimento

di rifiuto che ella percepisce da parte del mondo nei suoi confronti, esperienza

sulla quale si era lucidamente confessata continuando la nota diaristica del 4

febbraio 1935:

«Desiderare di donarsi non può non essere la suprema delle aspirazioni di una creatura;
ma volersi ad ogni costo donare quando del rifiuto delle cose si ha già coscienza, è uno sconfinare
illecito, un proiettarsi in gigantesche fantasie che non hanno più realtà di un’ombra nera sul
muro.»140.

Lo stesso Rilke aveva espresso questo sentimento nella fase delle Nuove poesie

(1907-1908) ne Il poeta141

Ti distacchi da me, Ora, scorrendo;


e mi ferisce ogni tuo colpo d’ala.
Che mai potrà, su te, la voce mia?

138
Scelgo di adottare la prospettiva di Tiziana Altea che nel suo saggio Il silenzio come “altra
voce” in Antonia Pozzi giunge a queste conclusioni: «Se poi ella individua nella produzione
letteraria in prosa, più aderente ai multiformi aspetti del reale, la composizione del conflitto
Geist/Leben, accettando la svalutazione banfiana della poesia coeva e arrivando così – atroce
silenzio nel finale del suo Flaubert – all’imbavagliamento della propria vocazione visceralmente
lirica, pur sa già che quando ci si misura – colti da afasia poetica – con la prosa senza averne
nell’intimo la peculiare “nudità e sanità”, allora “il lirismo rientrato salta fuori a tutti i passi e
cambia il colore giusto delle cose”. Nella Pozzi non può tacere il poeta e il suo protendersi alla
prosa resta, di fatto, solo un’esigenza teorica», in AA. VV., …e di cantare…, pp. 224-225. In
merito a questa scelta della Pozzi mi sembra corretto, per completare il quadro nelle sue
sfumature, aggiungere anche la precisazione che Michela Beatrice Ferri desume da Onorina
Dino, nella nota n° 28 del suo saggio Antonia Pozzi e Enzo Paci lettori del “Tonio Kröger”, in
ivi, p. 276: «A proposito della risoluzione del conflitto arte-vita, Onorina Dino sostiene che “se
tenta il passaggio dalla poesia alla prosa, come testimoniano le lettere alla nonna dell’ultimo suo
anno di vita, non lo fa per un rifiuto della poesia quasi fosse evasione e non vita, ma solo perché
ha fede anche nella prosa, cui affida il ruolo di risolutrice delle ‘crisi di incompatibilità tra arte e
vita, sofferte dai vari Tonio Kröger, dagli ultimi poètes maudits’”, O. Dino, “Postfazione”, in A.
Pozzi, L’età delle parole è finita, a cura di A. Cenni e O. Dino, Archinto, Milano 1989, p. 126.»
139
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 194-197.
140
POZZI, Diari, p. 39.
141
R.M. RILKE, Liriche, traduzione di Vincenzo Errante, Alpes, Milano 1929, p. 188.

333
Che farò delle notti e de’ giorni?

Un’amante non ho, non ho dimora;


luogo non ho dove adagiar la vita.
Ciascuna cosa a cui mi getto in dono,
n’è subito ricolma; – e mi rifiuta.

Ma la presa di coscienza in merito a questo risvolto negativo dell’immenso

amore per le cose è latente anche in moltissime liriche della Pozzi, sin dal 1929,

a testimonianza di un percorso in cui figurano diversi livelli di un senso

progressivo di alienazione e solitudine, riscattato a volte da una visione più

positiva, come le parole della Bernabò avevano già anticipato nella lunga

citazione che ho inserito in merito al biennio ’31-‘32. La poesia, a differenza del

meccanismo di forte tensione e messa alla prova di se stessa che si avvia con il

tentativo di prosa lombarda, aveva avuto però il pregio di riuscire sempre a

trovare la via di vincere questa malinconia, questo senso di Unheimliche.

Darò quattro esempi (Preghiera142, Sfiducia143, Preghiera alla poesia144, Fuochi

di S. Antonio145) di questo sentimento della lontananza per coprire il periodo che

vado ora trattando, a cavallo della prima svolta di dedizione totale verso la

pratica della poesia (1933) fino all’inizio del processo di trasfigurazione della

sua vocazione verso la prosa (1935) – cammino sul quale iniziò a meditare in

quello stesso 1935, con i brevi tentativi a cui ho accennato, e che poi intraprese

con piglio volontaristico negli ultimi due anni della sua vita, pur essendo

estremamente consapevole del suo destino di poeta. Attraverso l’analisi di

142
POZZI, Parole, p. 183.
143
Ivi, p. 269.
144
Ivi, p. 320.
145
Ivi, p. 345.

334
questo rapporto sofferente rispetto ad un mondo che sembra rifiutarla,

riscontrerò anche altre influenze letterarie importanti di quegli anni, per

comprendere quanto il comporre versi di Antonia fosse anche il tentativo di

conciliare la sua voce con le tante altre voci di poeti amati, di anime sorelle. Poi

mi avvierò a delineare il percorso inverso, ossia la sottotraccia del legame

profondo di Antonia con le cose, che la renderà precocemente vicina alle

intenzioni poetiche della linea lombarda, di cui il suo amico Vittorio Sereni fu

il maggiore esponente.

Preghiera Preghiera alla poesia

Signore, tu lo senti Oh, tu bene mi pesi


ch'io non ho voce più l’anima, poesia:
per ridire tu sai se io manco e mi perdo,
il tuo canto segreto. tu che allora ti neghi
Signore, tu lo vedi e taci.
ch'io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue Poesia, mi confesso con te
consolatrici. che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
Signore, per tutto il mio pianto, tu lo sai che ho tradito,
ridammi una stilla di Te ho camminato sul prato d’oro
ch'io riviva. che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
Perché tu sai, Signore, rovinata la terra –
che in un tempo lontano poesia – quella terra
anch'io tenni nel cuore dove tu mi dicesti il più dolce
tutto un lago, un gran lago, di tutti i tuoi canti,
specchio di Te. dove un mattino per la prima volta
Ma tutta l'acqua mi fu bevuta, vidi volar nel sereno l’allodola
o Dio, e con gli occhi cercai di salire –
ed ora dentro il cuore Poesia, poesia che rimani
ho una caverna vuota, il mio profondo rimorso,
cieca di Te. oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Signore, per tutto il mio pianto, Poesia che ti doni soltanto
ridammi una stilla di Te, a chi con occhi di pianto
ch'io riviva. si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
20 ottobre 1932 poesia che mi guardi.

Pasturo, 23 agosto 1934

335
Sfiducia Fuochi di S. Antonio

Tristezza di queste mie mani Fiamme nella sera del mio nome
troppo pesanti sento ardere in riva
per non aprire piaghe, a un mare oscuro –
troppo leggere e lungo i porti divampare roghi
per lasciare un'impronta – di vecchie cose,
d’alghe e di barche
tristezza di questa mia bocca naufragate.
che dice le stesse
parole tue E in me nulla che possa
– altre cose intendendo – esser arso,
e questo è il modo ma ogni ora di mia vita
della più disperata ancora – con il suo peso indistruttibile
lontananza. presente –
nel cuore spento della notte
16 ottobre 1933 mi segue.

17 gennaio 1935

La prima poesia in ordine cronologico, Preghiera, è intessuta di una dinamica

religiosa, presente anche in Rilke, particolarmente in questi versi tradotti da

Errante da Il libro della vita claustrale146:

Signore Iddio! Se qualche volta io turbo


con duri colpi, a notte, il tuo riposo,
e che non sempre ne avverto il respiro,
e so che stai, nella tua casa, solo.
Ove t'asseti un desiderio – alcuno
non v'ha che rechi alle tue labbra il sorso.
Io sempre origlio, invece, alle tue porte.
Dammi, Signore, anche il più tenue cenno,
poi che ti son vicino.

Una lieve parete è fra di noi:


efimera così, che un grido solo,
delle tue labbra o delle labbra mie,
la crollerebbe – tacita nel nulla.

Foggiata ell'è d'imagini soltanto,


che ripetono a mille il nome tuo.

E se un giorno divampi in me la luce


per cui ti riconosca il fondo abisso

146
RILKE, Liriche, p. 129.

336
di quest'anima mia – si effonderà,
balenando su tutte le cornici
che rinserrano, Dio, l'effigie tua.

I sensi miei che rapidi si estenuano


non han rifugio, Dio, da te discissi.

«Dammi, Signore, anche il più tenue cenno, / poi che ti son vicino» è

un’invocazione rilkiana al Signore, del quale il poeta riconosce i bisogni in modo

solerte: «Ove t'asseti un desiderio – alcuno / non v'ha che rechi alle tue labbra il

sorso. / Io sempre origlio, invece, alle tue porte.». Nella Pozzi la preghiera si

trasforma affinché Dio discenda in lei, le ridia la stilla di vita del canto: «Signore,

per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di Te / ch'io riviva.». A legare le due

poesie è anche la simbologia dell’acqua, e quindi per converso dell’aridità, ossia,

sciogliendo la metafora, dell’abbondanza o dell’assenza, per Rilke, di contatto

con Dio; per la Pozzi, di parole poetico-salvifiche. Come ho anticipato, il 1932

è stato un anno arido dal punto di vista poetico, oltre che personale, e la Pozzi

sente di aver bisogno di riottenere ciò che le è stato bevuto. Al tema dell’acqua

in rapporto al divino si possono accostare anche i versi di Quasimodo di Acque

e Terre (presente in biblioteca Pozzi nell’edizione di Solaria, edito a Firenze nel

maggio 1930 e variamente segnato dalla poetessa), particolarmente della lirica

Tua sete, Signore147 della quale la Pozzi sottolinea il v. 2, «la tua sete mi insabbia

147
S. QUASIMODO, Acque e Terre, Edizioni di Solaria, Firenze 1930, pp. 55-57. Ecco la poesia:
«I. // Signore degli Ulivi, / la tua sete m’insabbia la gola / movendo al Golgota, / con i cipressi
che in cupo saio avvolti / lievemente salgono il pendio / come cenobiti che tornano al rifugio. //
E le giare di Cana prima del miracolo // gorgogliano versando l’acqua gelida / in ciotole d’argilla,
sempre cave / per le labbra ch’ardono spaccate. // E il tonfo, e l’eco in fondo alle cisterne / dei
ciottoli lanciati dai fanciulli / m’è ritmo d’angeli nell’ora di canicola. // Nemmeno mi si porta
alle paludi / per bere la torba ch’ulcera le prode, / per succhiare la melma che mi guarda / dal
concavo dei botri / cogli occhi dei molluschi; // o alla mia terra ch’ha nuvole di zagara: / pistilli
e stami chiusi in una fiala / bianca e carnosa che spacca nella notte / per profumare la bocca delle
vergini; / e per me le transenne delle viti / gonfie di grappoli gelati dalla panna; // e il succo dei
cedri e dei limoni / che cola dai torchi negli ingordi tini, / e la sansa delle scorze umide / ove i

337
la gola».

Segnalo che a questa altezza la Pozzi poteva aver già letto anche le poesie a tema

religioso del simbolista da lei più amato – e veramente simile a lei per le delicate

sfumature delle pieghe dell’anima che dipinge in poesia –, il belga Émile

Verhaeren, più appartato nei toni rispetto agli altri simbolisti. La poetessa segna

nel suo volume Choix de Poèmies la sezione Les Moines (I monaci, 1886) e

quindi la poesia Rentrée Des Moines (Ritorno dei monaci), Soir religieux (Sera

religiosa), Croquis de cloitre (Schizzo del chiostro) e nella sezione Les Débâcles

(1887; il senso del termine è in uso anche nell’italiano; in ogni caso in senso

proprio significa “il disgelo”, mentre in senso figurato “le sconfitte gravi”, “le

disfatte”), l’emblematica – per la sua sofferta dicotomia fra corpo e spirito – Vers

le cloitre (Al chiostro).

La poesia Sfiducia del 16 ottobre 1933 è legata temporalmente alla composizione

de La vita sognata (25 agosto-25 ottobre, anniversario della morte di Annunzio),

e quindi vive della volontà di dare forma alla propria incompiutezza, alla propria

sconfitta e al proprio dolore, malgrado ogni gesto e ogni parola vengano

sovvertite, come per uno scherzo della natura. È ancora inserita nella poetica che

la Pozzi comunica a Gadenz, ossia quella della catarsi del dolore attraverso la

poesia e rientra dunque in una sorta di aderenza lirica alla biografia che tenta la

porci guazzano, su l’aia. // II. // Il cammino è bruciato e già la croce, / a gobbe e circoli di
gromma, / m’inchioda e penetra nell’anima. // E in te l’anima s’avvolge / come l’orza alle bitte.
// Mi spezzano ghignando. Anche sul basto / le rosette di rame infisse agli orli / si battono con
cura; / e la crusca e l’avena in dolce impasto / fonde la greppia perché la zampa nuda / cinga ad
òmega la tempera di ferro. // Ho sete, Signore, ed è già sera; / e l’arsura mi venne dal tuo pane /
che gonfia al lievito che anima le pietre.».

338
sublimazione. La poesia è molto sintetica e rivive della lettura intensa di un

Ungaretti che nel Sentimento del Tempo è in cerca di un nuovo equilibrio nel

verso e nelle cose, attento a sottolineare l’unione dei contrari che materializzano

il tempo nel suo farsi. Di Ungaretti la Pozzi possedeva, nella sua biblioteca di

Pasturo, sia L’Allegra (Giulio Preda Editore, Milano 1931), invero poco letta

(più di metà del libro ha le pagine ancora da tagliare) che il Sentimento del Tempo

(nella collana Poeti d’oggi, Editore Vallecchi, Firenze 1933-XI, con un saggio

di Alfredo Gargiulo) invece molto letta e segnata dalla poetessa. Questo diverso

approccio nei confronti delle due raccolte è forse rintracciabile nella natura a due

tempi della scrittura di Ungaretti: se ne L’Allegria infatti il verso viene

sottoposto alla disgregazione (e poteva interessare la poetessa, nel 1931, per le

parole che essa stessa sottolinea nella notizia in apertura, legate ad una visione

biografica di poesia in cui si insinua il problema della forma)148, è solo nel

Sentimento del Tempo che si comprende lo scopo della sua operazione, tesa alla

ricerca di un metro della tradizione italiana (l’endecasillabo)149 che potesse

risuonare come nuovo, ricomposto dall’interno, nell’ottica di una classicità del

moderno, di una novità memore150. Questa svolta non poteva non essere

apprezzata dalla Pozzi, che si era esercitata sull’endecasillabo fin dalle prime

148
Cfr. la notizia in apertura a G. UNGARETTI, L’Allegria, Giulio Preda Editore, Milano 1931, di
cui riporto la parte sottolineata da Antonia: «Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha
altra ambizione, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero altre, se non quella di lasciare
la sua bella biografia. Le sue poesie rappresentano dunque i suoi tormenti formali, ma vorrebbe
si riconoscesse una buona volta che la forma lo tormenta solo perché la esige aderente alle
variazioni del suo animo»
149
Cfr. il saggio del poeta Difesa dell’endecasillabo, in: G. UNGARETTI, Vita d’un uomo. Saggi
e interventi, Mondadori, Milano 1974, pp. 154-157.
150
Cfr. A. SACCONE, L’“attuale” e l’“eterno”: Ungaretti lettore di Dante, «Revue des études
italiennes», XLVI, (Janvier-Juin 2003), 1-2, pp. 121-132.

339
poesie, e che stava cercando una musicalità che potesse far coincidere il suo

mondo interiore, sognato e fantastico, con l’esigenza di una forma elevata,

sublimante. Con le parole dello stesso Ungaretti, il nocciolo della questione della

forma da dare alla poesia, in quegli anni, era il seguente: «La difficoltà è di non

turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunziare ad alcuna delle

infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato, e insieme di non essere

inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo.»151.

La poesia Sfiducia della Pozzi dimostra per converso la felicità di questo

ricongiungimento fra forma e contenuto, proprio nell’esposizione della sua

inavvicinabilità: ripartita in due strofe che descrivono la tristezza

dell’inadeguatezza del corpo nel veicolare la comunicazione dell’anima e

l’interazione con l’altro, è composta su uno schema ben definito per tipologia di

versi, (in maggioranza quinari e settenari, con due decasillabi in apertura delle

strofe) che tuttavia non raggiungono mai la pienezza dell’endecasillabo. La

poetessa si cura di inserire, a chiusura del componimento, due versi che proprio

nella loro divisione sottolineano questa incompiutezza: se fossero uniti, infatti,

andrebbero a comporre un endecasillabo, ma non lo sono. Con un procedimento

analogo a quello di Ungaretti ne L’Allegria152, accostando un quaternario a un

settenario, la Pozzi scrive per separare il senso di unità metrica dall’interno,

amplificandone il vuoto: il contenuto è «della più disperata / lontananza». Solo

151
Ivi, p. 121. La citazione che fa Saccone è ripresa da: G. UNGARETTI, Intervista con G.B.
Angioletti: La poesia italiana è viva o morta?, [1929], in SI, p. 191.
152
Ad esempio in San Martino del Carso, se si uniscono i vv. 9-10, seguendo il senso del
periodare, si forma un endecasillabo: «Ma nel cuore / nessuna croce manca», in G. UNGARETTI,
Vita di un uomo. 106 poesie (1914-1960), Mondadori, Milano 199214 (Oscar classici moderni,
51), p. 36.

340
in un’ideale ricongiungimento si potrebbe ridare almeno una fede formale ad un

senso che, invece, essendosi spezzato, ha amplificato la percezione della

distanza, del distacco, dell’impossibilità. Della sfiducia, insomma.

Questa definitiva deflagrazione era stata preparata nella prima strofa, spezzando

un pensiero per poi duplicarlo in uno stesso negativo esito, contenutistico e

formale: «troppo pesanti» quinario, è completato da «per non aprire piaghe»,

settenario, e insieme non riescono a formare l’endecasillabo. Lo stesso accade

leggendo la coppia di versi immediatamente successiva: «troppo leggere / per

lasciare un’impronta». Oltretutto, a livello di senso/contenuto, i vv. 5-6 fanno

capo allo stesso sentimento di inadeguatezza dei vv. 3-4, ma per opposti motivi

e con opposti disagevoli conseguenze. Chiaramente la coppia di opposti

(pesanti/leggere) è intelligentemente introdotta dalle stesse parole in anafora

(troppo, per), accentuando quanto qualsiasi possibilità di equilibrio sia

irrimediabilmente negata. Vorrei accostare a Sfiducia due poesie del Sentimento

del tempo, segnate dalla stessa poetessa, Canto153 e La pieta154 che credo possano

interpretare bene il sentimento di rottura e di lontananza, oltre che la natura della

relazione Pozzi-Ungaretti. La seconda poesia riconnette anche il tema di Sfiducia

a quello di Preghiera.

Canto

Rivedo

La tua bocca lenta


(Il mare le va incontro delle notti),

153
G. UNGARETTI, Sentimento del tempo, con un saggio di Alfredo Gargiulo, Editore Vallecchi,
Firenze 1933, pp. 161-162.
154
Ivi, pp. 129 – 136.

341
E la cavalla delle reni
In agonia caderti
Nelle mie braccia che cantavano,

E riportarti un sonno
Al colorito e a nuove morti.

E la crudele solitudine,
Che in sé ciascuno scopre, se ama,
Ora tomba infinita,
Da te mi divide per sempre.

O tu lontana come in uno specchio….

In Canto, la Pozzi sottolinea il verso Ora tomba infinita; ricompaiono qui alcuni

elementi della sua Sfiducia, come la bocca lenta a cui va incontro il mare delle

notti, che introduce già ad un certo senso di oblio e di distanziamento. Ma è

soprattutto il tentativo del poeta di trovare un oggetto che sia correlativo

oggettivo al sentimento della lontananza in presenza a farmi credere che questa

poesia fosse presente nella memoria della Pozzi, o quanto meno che la poetessa

ne condividesse la stessa visione della solitudine, inevitabilmente causata dal

fatto stesso di amare qualcosa che è altro da sé. L’introduzione dello specchio

da parte di Ungaretti è geniale in quanto evoca l’apparire inconsistente

dell’immagine, sia essa ricordo o realtà, rendendo il corpo della persona, la sua

figura, un qualcosa di irraggiungibile: anche se perfettamente somigliante, resta

differito, diverso. E questo è il modo della più disperata lontananza155.

La poesia La pietà – lunga e complessa, densa di spunti meditativi sulla natura

dell’uomo, sul rapporto con Dio e con la morte, nonché sulla contraddittorietà

della vita che per essere tale ha bisogno dello scontro ma anche dell’equilibrio

155
Da Sfiducia in POZZI, Parole, p. 269.

342
fra opposti –, è stata sottolineata dalla Pozzi nella seconda delle sue quattro parti,

che riporto, mentre il resto della poesia è posta in nota156:

II.

Malinconiosa carne
Dove una volta pullulò la gioia,
Occhi socchiusi del risveglio stanco,
Tu vedi, anima troppo matura,
Quel che sarò, caduto nella terra?

È nei vivi la strada dei defunti,

Siamo noi la fiumana d'ombre,

Sono esse il grano che ci scoppia in sogno,

Loro è la lontananza che ci resta,

E loro è l'ombra che dà peso ai nomi.

La speranza d'un mucchio d'ombra


E null'altro è la nostra sorte?

E tu non saresti che un sogno, Dio?

Almeno un sogno, temerari,


Vogliamo ti somigli.

156
Leggendola emergeranno altri interessanti spunti con la poetica pozziana che potrebbero
essere ulteriormente indagati: «I. // Sono un uomo ferito. // E me ne vorrei andare / E finalmente
giungere, / Pietà, dove si ascolta / L'uomo che è solo con sé. // Non ho che superbia e bontà. // E
mi sento esiliato in mezzo agli uomini. // Ma per essi sto in pena. // Non sarei degno di tornare
in me? // Ho popolato di nomi il silenzio. // Ho fatto a pezzi cuore e mente / Per cadere in servitù
di parole? // Regno sopra fantasmi. // O foglie secche, / Anima portata qua e là... // No, odio il
vento e la sua voce / Di bestia immemorabile. // Dio, coloro che t'implorano / Non ti conoscono
più che di nome? // M'hai discacciato dalla vita. // Mi discaccerai dalla morte? // Forse l'uomo è
anche indegno di sperare. // Anche la fonte del rimorso è secca? // Il peccato che importa, / Se
alla purezza non conduce più. // La carne si ricorda appena / Che una volta fu forte. // È folle e
usata, l'anima. // Dio, guarda la nostra debolezza. // Vorremmo una certezza. // Di noi nemmeno
più ridi? // E compiangici dunque, crudeltà. // Non ne posso più di stare murato / Nel desiderio
senza amore. // Una traccia mostraci di giustizia. // La tua legge qual è? // Fulmina le mie povere
emozioni, / Liberami dall'inquietudine. / Sono stanco di urlare senza voce. // II. [cfr. citazione
nel testo] // III. // La luce che ci punge / È un filo sempre più sottile. // Più non abbagli tu, se non
uccidi? //Dammi questa gioia suprema. // IV. // L'uomo, monotono universo, / Crede allargarsi i
beni / E dalle sue mani febbrili / Non escono senza fine che limiti. // Attaccato sul vuoto / Al suo
filo di ragno, / Non teme e non seduce / Se non il proprio grido. // Ripara il logorio alzando
tombe, / E per pensarti, Eterno, /Non ha che le bestemmie.», in UNGARETTI, Vita di un…, pp.
113-116.

343
È parto della demenza più chiara.

Non trema in nuvole di rami


Come passeri di mattina
Al filo delle palpebre.

In noi sta e langue, piaga misteriosa.

La Pozzi evidenzia dal v. 6 al v. 10, sottolineando poi la parola mucchio del v.

11. L’enigmatico verso che collega La pietà a Sfiducia è: «Loro è la lontananza

che ci resta», inserito nel contesto della relazione fra i vivi e i morti. Il senso di

questa impossibile ricomposizione fra i due opposti dell’essere e del non essere,

è in realtà racchiuso nell’identità del tempo che arriverà a far coincidere

l’inconciliabile, semplicemente scorrendo, portando i vivi ai morti e dando il

frutto della morte in pasto ai vivi. Il dubbio è racchiuso in questa analisi che

svela il bisogno di una fede in cui riposare il pensiero, poiché se di tutto l’affanno

della vita, del peccato della carne, della follia dell’anima che sogna, non resta

che un’ombra simile alla morte – il ricordo di una vita lontana – quale sarebbe il

senso del destino dell’uomo? Credo che la Pozzi abbia meditato ancora più

profondamente il valore di queste parole, ossia intendendo che tutto ciò che resta

ai vivi non è altro che il sentimento della lontananza, la presenza della coscienza

della morte in vita, che condiziona tutto l’essere e vi getta un’ombra di distacco

e di solitudine, di malinconica inadeguatezza all’esistenza stessa e alla relazione.

Come nella prima Preghiera, anche in Preghiera alla poesia le parole della

Pozzi verranno ascoltate dal destino, inviandole una persona in grado di farle

rinascere il canto. Se nel 1933 fu l’incontro con Gadenz a far rifiorire il credo

344
della Pozzi, nel 1934 sarà invece l’innamoramento per Remo Cantoni e dunque

la possibilità di reimmergersi, anche se solo per breve tempo, nell’illusione di

una profonda comunanza d’anime e di intenti. Entrambe le poesie sono una

testimonianza della lontananza della Musa e della difficoltà di ritrovare il canto

e il sentimento delle cose viste in una prospettiva di estrema aderenza lirica. Ma

se nei versi del 1932 il vocativo era rivolto al Signore, nella seconda Preghiera

è chiamata a colmare il suo vuoto, a perdonare il suo tradimento, direttamente la

poesia: Antonia sembra non aver più intenzione di rivolgersi ad intermediari,

sembra essere più consapevole del nome da dare a quella parte di sé, a quella

voce profonda che per tanti anni ha costituito il suo alto paese ove era possibile

tessere il sogno di una vita non vissuta, tradotto nel più dolce di tutti i canti. In

questa poesia, come in Fede, Antonia sembra aver fatto sue le parole di

Epilogo157 di Rilke:

Epilogo

Non attendere che Dio su te discenda


e che ti dica: Sono.

Senso alcuno non ha quel Dio che afferma


l’onnipotenza sua.

Sentilo tu, nel soffio ond’Ei ti ha colmo


da che respiri e sei.

Quando, non sai perché, ti avvampa il cuore,


è Lui che in te si esprime.

A partire da Rilke, la Pozzi giunge però alle estreme conseguenze di una

religione personalizzata anche nel linguaggio, trasfigurando il sentimento di un

157
RILKE, Liriche, p. 47.

345
divino tanto cercato – e mai del tutto abbracciato nella sua forma confessionale

–, nella poesia e nella vocazione poetica stessa. Antonia riafferma così la visione

già adombrata nelle conseguenze di Fede, ossia che in realtà la differenza fra i

due termini “Dio” e “Poesia” sia solo nella forma della parola, ma non nella

sostanza, che è quella dell’anelito all’alto. In Fede Antonia prendeva coscienza

che la sua creazione non poteva che essere un meccanismo attivato da un Dio

creatore interno a lei; in Preghiera alla poesia condensa Dio con sé e con la

poesia. In questi versi scritti nell’estate del 1934 Antonia però è in preda ad

un’inquietudine latente, si sente colpevole di aver rovinato la relazione con

qualcosa di purissimo, che è ovviamente figurato attraverso elementi della

natura: il prato d’oro, l’erba, la terra. Anche in questo caso in cui le metafore

volano verso l’alto e la fantasia collega facilmente la terra al cielo («quella terra

/ […] dove un mattino per la prima volta / vidi volar nel sereno l’allodola / e con

gli occhi cercai di salire»158), sono presenti, come all’ombra delle parole, dei

sentimenti bui, legati al senso di colpa e al rimorso, soprattutto se letti nell’ottica

di una dipendenza da una misericordia esterna che sembra essere l’unica

garanzia per ritrovare la leggerezza dell’anima. In definitiva, la poesia la

giudica, la guarda, le pesa l’animo, sa se lei manca e si perde: Antonia non è

padrona della sua vocazione, e nota che alcuni suoi comportamenti vengono

puniti con il silenzio e il rifiuto della presenza da parte della poesia. Veramente

quest’ultima potrebbe rivestire altrettanto perfettamente il ruolo di una dea

pagana, per la quale la poetessa è spinta alla fede dalla paura, e non dall’amore,

158
POZZI, Parole…, p. 320.

346
come e fosse imbrigliata in una ritualità sacrificale per tornare gradita alla

divinità. Al contempo però questa poesia è anche parte della stessa Antonia, è

voce profonda e appare a chi con occhi di pianto si cerca: ritorna l’idea del dolore

come catarsi attraverso la quale il poeta arriva alla meta del suo alto paese. Il

suggerimento della via del dolore come redenzione per il poeta potrebbe venire

dal Quasimodo di Elemosina159:

In povertà di carne, come sono


eccomi, padre; polvere di strada
che il vento leva appena in suo perdono

Ma se scarnire non sapevo prima


la voce primitiva anche rozza
avidamente allargo la mia mano:
dammi dolore cibo cotidiano.

La posizione di questo dolore necessario al poeta per creare, verrà chiarita da

Antonia nell’importante e densissima pagina di diario del 12 marzo 1935. Se

nella pagina del 4 febbraio 1935 aveva spiegato come la sublimazione del suo

dolore attraverso l’arte fosse stata moralmente lecita solo nel momento in cui

aveva davvero cercato di oltrepassare la vita – nel suo tormento – in una

condensazione artistica, nella pagina del mese seguente si immerge nell’analisi

di un libro e di un personaggio che in quegli anni, nel gruppo dei giovani

banfiani, era al centro del dibattito arte-vita: il Tonio Kröger di Thomas Mann.

Prima di riportare l’analisi pozziana di questo romanzo, e dunque le connessioni

con il suo stesso modo di affrontare il rapporto fra Geist e Leben, ne spiegherò

brevemente l’oggetto e il valore che prese in relazione al contesto banfiano,

159
QUASIMODO, Acque e Terre, p. 30.

347
grazie alla sintesi che tratteggia la Bernabò:

«Il rapporto tra Geis e Leben con tutti gli aloni evocati da tali termini tedeschi: spirito,
arte, anticonformismo il primo; vita, quotidianità, aderenza a comportamenti più normalmente
borghesi il secondo [rappresentava una] questione [che] era stata posta dal celebre Tonio Kröger
di Thomas Mann, sicuramente l’opera più letta, discussa e sofferta da Antonia e dai suoi
compagni, con particolare riferimento a Gianluigi Manzi, Vittorio Sereni ed Enzo Paci.
Pubblicato a Berlino nel 1903, il libro è una sorta di incrocio tra il racconto lungo e il
saggio. In una città tedesca, che da vari elementi risulta essere Lubecca (città natale dell’autore),
si svolge la problematica adolescenza di Tonio Kröger, figlio dell’austero e ricco console Kröger
e di una fantasiosa brasiliana. Indifferente agli impegni scolastici, allo sport e al ballo, Tonio
ama la poesia e il violino. Nelle amicizie è però portato a ricercare, anziché chi gli è simile, chi
gli si contrappone per l’aspetto fisico e per gli interessi. Bruno come la madre, preferisce le
ragazze e i ragazzi biondi e con gli occhi azzurri; sensibile, umbratile, malinconico, si lascia
incantare dalle persone solari e in definitiva superficiali, alle quali vorrebbe assomigliare, pur
disprezzandole in un certo senso nell’intimo. Concepisce così un forte sentimento, prima, per il
baldo compagno di scuola Hans Hansen, poi, per la bella Ingeborg Holm. Dopo la morte del
padre e la chiusura della ditta familiare, si trasferisce nella Germania meridionale, seguendo le
sue inclinazioni letterarie, e diventa un personaggio famoso. Nel corso di n colloquio con l’amica
pittrice Lisaveta Ivanovna esprime, con una certa sofferenza, l’idea che, per essere veri artisti,
per creare, si debba rinunciare a vivere una vita normale, cioè alla comune, sana e un po’ banale
vita degli altri; e aggiunge di essere stanco del privilegio doloroso della conoscenza, che lo ha
portato, per un senso di naturale diversità, a estraniarsi da quel mondo borghese da cui pure
proviene e che in fondo non ha mai cessato di amare. Sente cioè di aver pagato un prezzo troppo
alto all’esercizio dell’arte. La risposta di Lisaveta, che è una specie di alter ego di Tonio, è la
seguente: “Lei è un borgese che si è messo su una falsa strada, Tonio Kröger, – un borghese
smarrito”. In seguito Tonio parte per un viaggio verso il Nord e, dopo un soggiorno nella città
natale, si reca in una località balneare danese, dove spera di riposare in tranquillità. Qui un
mattino vede (o crede di vedere, ma poco importa, dato il significato simbolico della cosa) Hans
e Inge e, alla sera, li rivede ancora mentre ballano leggiadramente davanti a lui. Tornato nella
sua camera, sente rivivere in sé per gli amici le emozioni di un tempo e si lascia invadere dalla
nostalgia per quel misto di gioia e di sofferenza che essi, senza neppure immaginarlo, in passato
avevano provocato in lui. In seguito scriverà a Lisaveta questo passo esemplare, che risulta
interessante anche per Antonia Pozzi: “se c’è qualche cosa che è in grado di fare di un letterato
un poeta, questa cosa è l’amore borghese per l’umano, per il vivente e l’usuale”.»160

Per Antonia l’identificazione con il personaggio manniano era iniziata ad opera

di Gianni Manzi, l’amico morto suicida che stava scrivendo la propria tesi

proprio sul conflitto fra Geist e Leben nell’autore tedesco161. La Pozzi confesserà

già nelle lettere dell’estate del 1935 a Remo Cantoni e a Vittorio Sereni, dopo il

160
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 224-225.
161
Ivi, p. 226. Cfr. lettera a Remo Cantoni del 19 giugno 1935: «Povero Manzi: senza saper
niente mi chiamava Tonia Kröger», in POZZI, Ti scrivo…, p. 218.

348
naufragio della possibilità di una storia d’amore con Cantoni di sentirsi «proprio

Tonio Kröger nella tempesta»162. Tornando però al marzo di quell’anno, la

poetessa si esprimeva con lucidità in merito alle reali implicazioni del romanzo

e in particolare circa la sua lezione che Tonio Kröger poteva rappresentare per

l’autrice stessa. La Pozzi cercava di illuminare al contempo non solo quanto il

conflitto interiore fosse connaturato alla dinamica esistenziale dell’artista, ma

anche che la drammaticità della situazione di conflitto poteva essere accettata

solo se fosse stata oltrepassata dall’opera d’arte:

«Essere Tonio Kröger sta bene: ma non devo dimenticare che T.K. non viveva, ma per
creare.
Non vivere e non creare sarebbe da impotenti, da minorati. La nostra vita deve essere
la creazione. Ci vuole un seguito a T.K., o per lo meno bisognerebbe vederne l’altra faccia: la
rivincita sulla vita, sul ritmo a tre tempi, dolce e volgare della vita. La rivincita ottenuta col
lavoro preciso, assiduo, vivificatore: con l’arte che dell’oggetto che fu vivo e che dovette morire
rifà una cosa vivente.
T.K. nella tempesta, quando il suo cuore batte all’unisono con le onde sconvolte, non
sa formulare nessun canto. Saprà cantare – sebbene T.M. non ce lo dica – solo da riva, quando
la tempesta sarà solo un ricordo ed egli la contemplerà oggettivata nella sua immaginazione.
Il contrasto tra geist e leben non va inteso nel senso che l’artista è colui che non arriva
alla vita, ma colui che va oltre la vita. Infatti, come potrebbe comprendere, veder chiaro,
riflettere su ciò che non ha vissuto? Io vorrei dire questo, in ogni modo: che la luminosa vita di
Hans e di Inge può essere materia all’arte di T.K. solo in quanto egli vive dolorosamente il
distacco da essa e la vede attraverso il suo rimpianto.
Ma non nel momento in cui il rimpianto gli duole potrà farne materia d’arte: bens^
quando anche questa vita del suo cuore gli starà davanti, come un oggetto. A Tonio Kröger
mancano le pagine della ricostruzione, della gioia creatrice, della fertilità operosa. Ma queste
T.M. non ce le voleva dare: egli ha voluto oggettivare in un racconto la sua pena di borghese
sborghesizzato, la sua bohème spirituale.
Ha voluto mostrare a costo di che sangue ci si fa chiamare poeti: e l’errore di chi crede
che si possa – cogliere una fogliolina sola dell’alloro dell’arte – “sans la payer de sa’ vie”.»163.

La sintesi che opera la Pozzi, sulla scia del magistero banfiano-simmeliano

dell’etica del lavoro, è essa stessa un oltrepassamento degli insegnamenti

162
Ivi, p. 224. Lettera del 20 giugno 1935 a Vittorio Sereni. Il momento della tempesta nel
romanzo coincide con il distacco del protagonista dalla Germania verso la Danimarca, ossia
quando è in viaggio per mare.
163
POZZI, Diari, pp. 44-45.

349
ricevuti all’università, in direzione di una definitiva comprensione del sé in tutte

le fasi della sua evoluzione, per arrivare al rinnovo del desiderio verso le cose.

Conclude la Bernabò:

«Certamente, in questa interpretazione, il fatto di non confondere l’arte con l’effusività


sentimentale e l’attenzione al solido lavoro che attende l’artista, nonché l’idea che l’arte debba
presupporre la vita per poterla poi superare, sono elementi simmeliani e banfiani […] che si
pongono però in sintonia con quanto Antonia aveva appreso da Borgese e, più ancora, con quella
poesia dell’incontro con gli altri e perfino con le cose, con quel fervore di sentimento e con quella
ricchezza di vita intima che erano caratteristiche spiccatamente sue. Di tutto questo Banfi
accentuò, assegnandole la tesi su Flaubert e guidandola in questo lavoro, soprattutto l’idea
dell’arte come duro mestiere che salva dall’evasione nel sogno.»164

La poesia Fuochi di S. Antonio del gennaio del 1935 scopre il passo

immediatamente precedente a questa evoluzione. Antonia comprende di non

avere in sé nulla da ardere, da gettare, perché la memoria di ogni singolo

momento le è ancora troppo presente. Non esistono dunque per lei vecchie cose:

in lei tutto si conserva con il suo peso indistruttibile, condensando ogni ora della

sua vita in un’entità – indefinibile ma greve, notturna – che la insegue. Secondo

Tiziana Altea, in questa poesia Antonia è «al contempo presente a se stessa e

separata da sé»165: ossia probabilmente cosciente che la vita non può essere

l’accumularsi di un vissuto nelle maglie del ricordo, della nostalgia, del dolore,

ma dovrebbe essere come un fuoco ardente, capace di far risorgere lo spirito

dalle proprie ceneri.

Come ho anticipato, la Pozzi aveva già tentato una prima svolta nel 1933,

affidando alla poesia il compito di cantare il proprio dolore e al contempo di

164
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp.228-229.
165
ALTEA, Il silenzio…, p. 230.

350
trasformare la propria solitudine dall’interno: in questo senso le cose, la realtà

esterna, sono anche esempio di ancoramento alla realtà, di tentativo di destarsi

da una spersonalizzazione del sé. Se inizialmente il loro richiamo giovane, vitale

non fa che aumentare il senso di Solitudine166 e di perdita di ogni appiglio umano

e divino:

Benché l’odore delle foglie nuove ti desti


ad una voglia di umano sole

ed il tramonto non trascolorato ancora in sera


ti spinga
per vie di terra
– remote
le soglie spente del cielo –

tu cerchi invano chi possa


in quest’ora per un tuo voto giungere
presso il tuo cuore –

vero è che nessuno


più giunge presso il tuo cuore
inaccessibile –

ch’esso è fatto solo –


dannato ai gridi
delle sue
rondini –

4 maggio 1933

pure la poetessa non si arrende completamente all’idea di un’incomunicabilità

fra sé e il mondo, e tenta di doppiare la linea della propria Sfiducia, creandosi, –

non senza un grande senso di inquietudine – un Volto nuovo167:

Che un giorno io avessi


un riso
di primavera – è certo;

166
POZZI, Parole, p. 215.
167
Ivi, pp. 235-236.

351
e non soltanto lo vedevi tu, lo specchiavi
nella tua gioia:
anch’io, senza vederlo, sentivo
quel riso mio
come un lume caldo
sul volto.

Poi fu la notte
e mi toccò esser fuori
nella bufera:
il lume del mio riso
morì.

Mi trovò l’alba
come una lampada spenta:
stupirono le cose
scoprendo
in mezzo a loro
il mio volto freddato.

Mi vollero donare
un volto nuovo.

Come davanti a un quadro di chiesa


che è stato mutato
nessuna vecchia più vuole
inginocchiarsi a pregare
perché non ravvisa le care
sembianze della Madonna
e questa le pare
quasi una donna
perduta –

così oggi il mio cuore


davanti alla mia maschera
sconosciuta.

20 agosto 1933

La Pozzi non è autonoma in questo movimento di mascheramento del sé: sono

state le cose stesse che, scoprendo il volto freddato della poetessa, un volto senza

gioia (privo del riso che è luce di primavera), vollero donarle un volto nuovo. È

emblematico che la poetessa identifichi questa mancanza del suo corpo (che

riflette un’amputazione dell’anima) nella funzione disattivata di un’oggetto

creato apposta per fare luce alla notte: l’alba, la natura nel suo ciclico rinnovarsi,

352
la trova come una lampada spenta, una cosa senza vita.

Ma Antonia si sente come una vecchia affamata del volto noto e amato della

Vergine, dell’immagine che abitualmente prega nella sua chiesa, e non può

credere a questa mutazione, non può venerare qualcosa di così distante dalla sua

verità, ossia non può cedere al compromesso di trasformare la parte più giovane,

vitale, pura, di sé: guardandosi, il suo cuore vede una donna perduta in quella

maschera. Eppure le cose, nella loro offerta del molteplice, riusciranno a vincere,

ancora una volta dal di dentro, ossia lasciando che la poetessa trovi l’oggetto più

rappresentativo di sé per cantarsi, per affrontare le tempeste della vita:

Barche168

Come una barca


da carico, a sera,
quando il maltempo viene sul lago –
se non è nel suo porto
toglie l'áncora
e si accinge a tornare –

e a lungo costeggiando va,


mentre un uomo, da bordo, contro il fondo
la sua pertica spinge e dalla riva
un vecchio, incappucciato – perché già
piove –
accompagna la gomena

168
Ivi, p. 258. Graziella Bernabò rinviene l’eco del noto Bateau ivre di A. Rimbaud: «È evidente
qui l’eco del Battello ebbro di Rimbaud, non tanto però della parte che esalta la straordinarietà
del viaggio del battello-poeta, quanto piuttosto della seconda parte, riguardante la stanchezza del
medesimo e la sua nostalgia di un ritorno al punto di partenza. Ma le analogie con Rimbaud
finiscono qui e, d’altra parte, i versi più originali e interessanti della poesia sono quelli in cui
l’autrice concentra la sua attenzione sul carico della nave.», in BERNABÒ, Per troppa…, p. 163.
Si possono accostare anche i versi di Presagio di RILKE, Liriche, p. 68, poesia già usata dalla
Dino per aprire l’introduzione ai Diari pozziani come metafora di un «travaglio di uno spirito
che si confessa a se stesso», in POZZI, Diari, p. 9. Riporto almeno i versi della poesia di Rilke,
tradotta da Errante: «Io sono come la piccola bandiera / tra i comignoli eretta, / cui circonda lo
spazio, remoto. // M’è presagio dei venti che vengono: / e tutti io li vivo, / già prima che, sotto,
le cose / abbian palpito e moto. // Ancora si schiudono piano / le porte; / ancor nelle gole / di tutti
i camini, è silenzio; / né tremano i vetri; / e la polvere è greve. // Io so già la tempesta; / e son
come un mare agitato. / E mi spalanco, e mi chiudo, / mi torco, mi getto, ricado; // e son tutto
solo / per entro l’immenso uragano.».

353
fin ch'è doppiata
laggiù
la punta –
ed oramai la barca
più
non si vede –

così tu sai –
non è vero –
quale è il tuo villaggio, la tua casa,
quando ti colga la pioggia
in un porto straniero –
e la notte.

25 settembre 1933

Chiaramente il ruolo della montagna sarà più volte centrale nel percorso di

riacquistata fiducia nelle cose, che è un sentirsi parte dei luoghi amati, un dolce

Ritorno serale169

Giungere qui – tu lo vedi –


dopo un qualunque dolore
è veramente
tornare al nido, trovare
le ginocchia materne,
appoggiarvi la fronte –

mentre le rocce, in alto,


sui grandi libri rosei del tramonto
leggono ai boschi e alle case
le parole della pace –

mentre le stanche campane discordi


interrogano il silenzio – sui misteri
della sera, dei cimiteri
dischiusi, dell'inverno
che si avvicina –

ed il silenzio allarga,
impallidendo, le braccia –
trae nel suo manto le cose
e persuade
la quiete –

18 ottobre 1933

169
POZZI, Parole, p. 270.

354
Nel 1933 dunque Antonia impegna tutte le sue forze nel canto, non lascia

esaurire nessun dettaglio della vita nel silenzio, nemmeno il silenzio stesso che

allarga / impallidendo, le braccia – / trae nel suo manto le cose / e persuade la

quiete –. Anzi è proprio un rinnovato valore del dialogo con il silenzio che ricrea

in Antonia il desiderio di ascoltare più profondamente la voce delle cose, fino ad

una finale Riconciliazione170:

La luna è vitrea e lieve


ancora, nel vasto tramonto.
Perché non uscire
di qui? Perché non portare
laggiù, nelle strade, la mia
nostalgia dei monti perduti,
tradurla in amore
pel mondo
che amai?

Già troppo soffersero


del mio rancore
le cose: e vivere non si può
a lungo
se silenziosamente piangono
le cose, su noi.

Stasera, stasera,
quando i volti degli uomini
saran macchie d'ombra e non più –
quando le case
al sommo
sole vivranno di luce –
io troverò me stessa
nel vecchio mondo
e profondo
sarà l'abbraccio
delle cose con me.

Riconteremo i fili
che legano i miei occhi
agli occhi illuminati delle vie,
riconteremo i passi
per cui l'anima versa
la sua sete di strade
sopra la buia terra –

170
Ivi, pp. 282-283.

355
Forse le cose
perdoneranno ancora –
forse, facendo
delle gran braccia arco
su me,
pergolati di sogni stenderanno
domani sovra il mio
solitario meriggio.

3 novembre 1933

E alle Cose171 sarà dedicata l’emblematica poesia che sancisce la fede nella loro

missione di rispecchiamento di un reale mutevole ma eterno: esse sanciscono il

legame fra la visione di Antonia – portata ancora nel 1933 a ricercare simbologie

e a tradurre la realtà in schemi di senso del tutto personali – e il sole e il pianto /

dei mondi, ossia la storia umana nel suo rinascere e fallire continuo. Questo anno

di profondo scavo verso il senso da dare alla poesia, nell’estremo tentativo di

posizionarsi in merito ai travagli della relazione con Cervi e al di là da essa, viene

chiuso con l’immersione totale della sua anima nel credo di immense magie

perché esperite, verificate nell’epifania delle cose stesse.

Il 1934 si situa in questo percorso di riaffermazione del valore delle cose

nell’alveo della relazione con Remo Cantoni, già ampiamente analizzata.

Segnalo solo la volontà di oltrepassare la pesantezza della propria condizione

esistenziale, agli inizi dell’anno, in un Desiderio di cose leggere172 dettato dalla

definitiva messa in arte/superamento del proprio dramma, nei versi de La vita

sognata, di cui riporto il sesto movimento, Saresti stato173, anche per dare

un’idea di quanto questo modo di fare poesia potesse essere distante dalle idee

171
Ivi, p. 293.
172
Ivi, p. 312.
173
Ivi, pp. 304-305. «Annunzio» ha un doppio significato di nome proprio (A. Cervi, il fratello
reincarnato nel figlio) e nome comune (messaggio di una nuova vita e di un sogno realizzato).

356
di Banfi e fosse in verità distante anche dalle linee più avanzate della stessa

poesia pozziana:

VI. Saresti stato Desiderio di cose leggere

Annunzio Giuncheto lieve biondo


saresti stato come un campo di spighe
di quel che non fummo presso il lago celeste
di quello che fummo
e che non siamo più. e le case di un’isola lontana
color di vela
In te sarebbero pronte a salpare –
ritornati i morti
e vissuti i non nati, Desiderio di cose leggere
sgorgate le acque nel cuore che pesa
sepolte. come pietra
dentro una barca –
La poesia,
da noi amata e non sciolta Ma giungerà una sera
dal cuore mai, a queste rive
tu l'avresti cantata l’anima liberata:
con gridi di fanciullo. senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
L'unica spiga salperà – con le case
di due zolle confuse dell’isola lontana,
eri tu – per un’alta scogliera
lo stelo di stelle –
della nostra innocenza
sotto il sole. 1° febbraio 1934

Ma sei rimasto laggiù,


con i morti,
con i non nati,
con le acque
sepolte –
alba già spenta al lume
delle ultime stelle:

non occupa ora terra


ma solo
cuore
la tua invisibile
bara.

22 ottobre 1933

Il 1935, anno cruciale per i tanti motivi sin qui descritti, è rappresentativo a

357
livello di poesia soprattutto per i versi di Un destino che chiamano la poetessa

alla missione della fenice, al rinascere ogni giorno per dare vita al mondo intorno

a sé nella gioia del canto, pur nella difficoltà di seguire una pallida strada nella

notte e nel constatare che nessuna porta / s’apre alla [s]ua fatica. Torna anche

l’immagine del peso del volto, disagio vissuto probabilmente anche a causa

dell’antinomia fra la propria passione, il proprio credo interiore così

profondamente radicato e sentito da non poter essere più in alcun modo smentito,

e la consapevolezza critica di doversi, invece, nell’anima – come confesserà in

una lettera molto più tarda a Dino Formaggio del 5 maggio 1938 – appannare,

mascherare, amputare174 per continuare a recitare il ruolo che altri (famiglia,

società, istituzioni culturali, sistemi dominanti di pensiero) le hanno assegnato.

Emblematica di questa condizione di duplicità contrastante è la prospettiva che

Antonia ha sulle vite degli altri, assorte in un unico fuoco che le dilacera nella

cecità, senza che possano rendersi consapevoli, di altri sentieri, di altri percorsi.

Anime serene in vita ma forse dannate alla maniera di Dante, chiuse in un proprio

inferno ottuso e saldo.

Un destino

Lumi e capanne
ai bivi
chiamarono i compagni.

174
Cfr. POZZI, Ti scrivo…, pp. 290-291: «Caro Dino, l’altro giorno hai detto che nelle fotografie
si vede la mia anima: e allora eccotele. Perché l’unico fratello della mia anima sei tu e tute le
cose che mi sono state più care le voglio lasciare in eredità a te, ora che la mia anima si avvia
per una strada dove le occorre appannarsi, mascherarsi, amputarsi. Qui troverai tante cose che
già conosci: dietro ciascuna ho scritto un titolo o delle parole con poco senso, che però tu capirai.
Conservale per mio ricordo, per ricordo del nostro incontro che è stato buono e bello e mi ha
dato tanta gioia anche in mezzo al dolore. Caro caro Dino, che tu almeno possa foggiare la tua
vita come io sognavo che diventasse la mia: tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù. In
ciascuna di queste immagini vedi ripetuto questo augurio questa certezza. Ti abbraccio.».

358
A te resta
questa che il vento ti disvela
pallida strada nella notte:
alla tua sete
la precipite acqua dei torrenti,
alla persona stanca
l’erba dei pascoli che si rinnova
nello spazio di un sonno.

In un suo fuoco assorto


ciascuno degli umani
ad un’unica vita si abbandona.

Ma sul lento
tuo andar di fiume che non trova foce,
l’argenteo lume di infinite
vite – delle libere stelle
ora trema:

e se nessuna porta
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti

ora accetti
d’esser poeta.

13 febbraio 1935

La difficoltà di questo rapporto antinomico fra sé e sé oltre che fra sé e gli altri,

si legge in una poesia del maggio del 1935, La Sorgente175:

Al tuo monte
che il vento esilia
dietro siepi di gemme chiuse
risali in sogno:
vinci a strappi il tuo peso tra le pietre.

E nasci
vena bianca nell'attimo d'azzurro,
nudo canto proteso
oltre le nubi

175
POZZI, Parole, p. 367.

359
mute.

Ma cada un raggio – ed è risveglio:


in terra
muore a singulti la tua vita effimera.

Acqua di stagno
ti spaventa – ora – la voce
ridestata del vento,
lento ti beve
il sole
tra le canne sconvolte.

3 maggio 1935

La poesia rovescia costantemente gli appigli che erano noti e rassicuranti: gli

stessi elementi della natura che un tempo sapevano dirle parole di conforto oggi

la spaventano. Ma è una contraddizione solo apparente: la vittoria del legame fra

Antonia e le cose sta proprio in questa loro estrema duttilità, nel servirle come

correlativo oggettivo di emozioni anche inconsuete, sovvertite. In ogni caso, se

non nel contenuto, nella loro forma poetica riescono a dare vita alla relazione

con la poesia stessa, si fanno specchio di quella Sorgente che – se un tempo tutta

l’acqua le fu bevuta, destandole sgomento176 – ora le fa paura proprio perché

presente, perché capace di affascinarla con la propria ricchezza, distogliendola

dal compito di razionalizzazione prosaica che si stava imponendo.

La forza del richiamo della poesia nell’Assenza177 delle cose, dunque.

Il tuo volto cercai


dietro i cancelli.

Ma s’ancorava in golfo di silenzi


la casa,
s’afflosciavano le tende
tra i loggiati deserti,
morte vele.

176
Cfr. la poesia Preghiera in ivi, p. 183: «Ma tutta l’acqua mi fu bevuta».
177
Ivi, p. 370.

360
Al largo,
a sbocchi d’irreali monti
fuggiva il lago,
onde verdi e grigie
su scale ritraendosi
di pietra.

Lenta vagò la barca


sotto l’assorto cielo,
in rosso cerchio
vedemmo crescere alla riva
le azalee, cespi muti.

Monate, 5 maggio 1935

A partire da questi versi178 vorrei cercare di delineare, per brevi linee,

l’importanza della relazione con Vittorio Sereni e in quale senso si possa parlare

della poesia di Antonia come di «un’anticipazione della “poetica degli oggetti”

della “linea lombarda”»179, chiarendo innanzi tutto la direzione di questo fare

poetico:

«Per “linea lombarda” si intende un genere di poesia nato spontaneamente da alcuni


autori di area milanese e, più generalmente, lombarda negli anni Trenta, al di fuori di specifici
programmi iniziali; e poi sviluppatosi successivamente con maggiore consapevolezza. Tale
produzione poetica restava molto concentrata sugli “oggetti”, i quali, spesso legati a una precisa
geografia regionale (la città e le sue periferie, i laghi, le zone di “frontiera”) mantenevano intatta
la loro fisica concretezza e la loro naturale evidenza, pur caricandosi di un forte significato
simbolico e di sollecitazioni culturali di respiro europeo. Caposcuola del gruppo fu considerato
Vittorio Sereni; altri autori significativi furono Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Nelo Risi, Renzo
Modesti, Luciano Erba […] Antonia Pozzi, in molte sue poesie, fu, sebbene in modo
personalissimo (e forse proprio per tale ragione poco riconosciuta in questo dalla critica
lombarda degli anni Trenta) molto vicina a questa linea, che contrapponeva alle algide analogie
degli ermetici di scuola fiorentina una poesia di “immagini” rapide, nitide e affettive.»180

178
I quali, nell’immagine finale – simbolica e allo stesso tempo concreta – delle azalee, risuonano
in un altro ricordo, più equilibrato nel dosare sentimento nostalgico e istinto alla gioia: quello
del poeta Vittorio Sereni. Si tratta di Azalee nella pioggia: «Maturità scoppiante dei colori, / fu
vostra la grazia dell’aria / nel lume di primavera. Ora si turba / lo splendido fervore. // Ma se il
lago riaccenna al sereno / tra i canti d’una gita / sul mondo scampato ai temporali / le più bianche
s’illudono d’eterno. // Villa Carlotta – maggio 1937», in V. SERENI, Frontiera (1935-1940),
Edizioni di «Corrente», Milano 1941, p. 36.
179
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 127.
180
Ivi, p. 144. Si cfr. l’indicazione data dalla Bernabò in ibidem: «(cfr. Luciano Anceschi, Linea
Lombarda. Sei poeti, Varese, Editrice Magenta, 1952).».

361
Come ebbe a confessare la stessa Pozzi in una lettera a Vittorio Sereni del 16

agosto 1935, la poesia Assenza si riferisce molto probabilmente a «quella famosa

domenica dell’inutile gita a Monate»181, lettera che interessa soprattutto per

l’esplicita dichiarazione di amicizia che la poetessa fa a Sereni, sottolineando fra

i due la profonda consonanza d’animo poetico:

«Mio caro Vittorio, ti ringrazio con tutto il cuore della tua buona lettera. Forse, da un
mese a questa parte, è stata l’unica gioia vera; mi è parso di ritrovarti di colpo e ho risentito tutto
quello che è ancora la tua amicizia per me, come quel giorno, sulle scale di casa mia, mentre
l’Alba era di sopra e non capiva niente, e io piangevo per le tue poesie – meglio: per quel che mi
facevano sentire le tue poesie in confronto dell’irrimediabile esteriorità di tutti gli altri miei
rapporti – ti ricordi? […] Mi ricordo di un discorso che mi facesti in treno, quella famosa
domenica dell’inutile gita a Monate: il tuo tormento era proprio questo, il senso di non saper
vivere, di aver nelle vene un sangue fittizio e degli arabeschi davanti agli occhi invece che delle
creature reali. Sono contenta, tanto tanto contenta di quello che mi scrivi ora. Soprattutto perché
è una gioia immensa sentire che al mondo ci sono ancora degli esseri – come te – capaci di
freschezza, di fiducia, di rinascita. Guai – io credo – anche per la poesia, se questa facoltà di
valicare di quando in quando il distacco, di riaffondare e perdersi nella vita venisse a mancare!
Cristallizzarsi in una posizione unica è rinunciare per sempre alla spinta, al moto: questo nasce
solo dall’oscillìo fra due poli contrari. Anche il fuoco non nasce da un sasso solo, ma da due
sassi percossi insieme. E quindi è un bene se per un po’ di tempo dimentichi di aver scritto
poesie: quelle che scriverai domani avranno in sé tutta la forza della vita a cui ti abbandoni
oggi»182

Due quindi gli elementi su cui mi vorrei soffermare: il carattere di rilevanza dato

al silenzio poetico in funzione della vita, a sua volta vissuta per tornare con più

forza alla poesia (ciclo che presuppone un’accettazione teorica di questo

meccanismo dicotomico volto all’unità da parte della stessa Pozzi, ma che ella

non riuscì fino in fondo a vivere); il sentimento di profonda consonanza che la

poetessa sente attraverso la lettura dei versi di Sereni, in particolare nell’ottica

di una separatezza dalla verità della vita, sia attraverso il proprio stesso corpo

181
POZZI, Ti scrivo…, p. 228. Si tratta probabilmente di una domenica di aprile, stando ad alcuni
documenti fotografici in cui si riconoscono la Binda, Remo Cantoni e il fratello Ralph, Vittorio
Sereni, Antonia e Lina Pozzi. Cfr. ivi, pp. 228-229.
182
Ivi, pp. 228-229.

362
(«aver nelle vene un sangue fittizio»)183, sia attraverso la paura di non

confrontarsi mai con una realtà reale, con i corpi e le anime reali degli altri

(«degli arabeschi davanti agli occhi invece che delle creature reali»)184.

In questo senso vorrei accostare con la levità dell’impressione due poesie della

coppia Pozzi-Sereni, Convegno185 e Le mani186:

Convegno Le mani

Nell’aria della stanza Queste tue mani a difesa di te;


non te mi fanno sera sul viso.
guardo Quando lente le schiudi, davanti
ma già il ricordo del tuo viso la città è quell’arco di fuoco.
come mi nascerà Sul sonno futuro
nel vuoto saran persiane rigate di sole
ed i tuoi occhi e avrò perso per sempre
come si fermarono quel sapore di terra e di vento
ora – in lontani istanti – quando le riprenderai.
sul mio volto.

29 maggio 1935

Questa capacità congiunta dei due poeti di andare oltre la presenza delle cose

per evocarle ancora più fortemente nell’anima, nel ricordo, al di là dell’istante

della vita, è frutto di una ricerca meditata sul senso del fare arte, dello scrivere

versi, dell’essere poeta – nata con la frequentazione di Banfi187 - che non potrà

che portarli entrambi, su due binari paralleli, verso un’attenzione per tutto ciò

183
Ibidem.
184
Ibidem.
185
POZZI, Parole, p. 381.
186
SERENI, Frontiera (1935-1940), p. 14.
187
Anche Vittorio Sereni si laureerà con il professore, nel ’36, scrivendo una tesi su Guido
Gozzano, del quale ho analizzato in precedenza il rapporto – non comune nel panorama della
poesia coeva di inizio Novecento – con le cose. Per la notizia cfr.: A. POZZI - V. SERENI, La
giovinezza che non trova scampo. Poesie e lettere degli anni Trenta, a cura di A. Cenni, Libri
Scheiwiller, Milano 1995, p. 110.

363
che nella sua liminalità conferma la centralità della realtà nella verifica del

proprio sentire: ed ecco che nascono le poesie dedicate alla Periferia negli ultimi

anni di vita di Antonia; ed ecco che il giovane Vittorio Sereni trova le parole per

condensare l’identità al limite di una giovinezza che non trova scampo188:

Compleanno

Un altro ponte
sotto il passo m’incurvi
ove a bandiere e culmini di case
è sospeso il tuo fiato,
città grave.
Ancora nel sonno
canti di uccelli sento
lontanissimi unirsi
e del pallido verde
mi rinnovi il tempo,
d’una donna agli sguardi serena
mi ritorni memoria,
amara estate.

Ma dove t’apri
e tra l’erba orme di carri
e piazze e strade in polvere spaési
senso d’acque mi spiri
e di ridenti vetri una calma.
Maturità di foglie, arco di lago
altro evo mi spieghi lucente,
in una strada senza vento inoltri
la giovinezza che non trova scampo.

Certo a legare i due giovani poeti non è solo la volontà di oltrepassare sé nell’arte

– e nel contempo, di indagare con precisione questa soglia –, ma anche la

meditazione su maestri come Rilke, pur nella consapevolezza di una propria

188
Verso tratto dalla poesia Compleanno, riportata immediatamente in seguito. La lirica si trova
in SERENI, Frontiera, pp. 18-19.

364
identità poetica189. Si confrontino Suburbio190 del poeta austriaco e Viaggio al

nord191 della Pozzi:

Suburbio Viaggio al nord

Là dove sorgon gli ultimi cantieri, Primavera che ci dolevi


e, dalla morsa delle impalcature, oltre il valico,
le case nuove svicolano il petto ora riaffonda
anche di scrutare onde si parta nostra ansia serale per la piana:
la distesa dei campi – ivi non giunge, i nostri fiori
pallida ed egra, Primavera al colmo; son fari rossi e verdi
ivi l’Estate febrica maligna, alle folate di tormenta, l'albero
avvizziscono i bimbi ed i ciliegi. di nostra vita si biforca agli scambi.
Solo l’Autunno ha suasivi fascini,
come di lontananza. I dolci vespri Primavera che più non duoli,
son di un tenero smalto. In pelli chiuso, t'uccide
su l’armento che a tratti ribalugina, tra lumi or sottilissima la neve
il pastore s’appoggia – oscuro, enorme – e il vin dolce ti smemora
all’ultimo fanale. terra perduta:
ma ai muri
corolle enormi di giunchiglie fingono
un mondo di miracoli
per gli insetti...

Ripudia
questo sangue il suo sole e le stagioni
infuriando
così sotterra, nella magica notte.

Berlino, febbraio-marzo 1937

Alle impressioni rilkiane rielaborate dei versi pozziani si possono accostare

189
Cfr. la nota di Vecchio in merito al rapporto fra Rilke e alcuni banfiani, in VECCHIO, Gli
appunti…, pp. 356-357. In particolare riporto: «Si consideri inoltre, in relazione a Rilke, quanto
Sereni rivela a F. Camon (cit. in F. Camon, Il mestiere di poeta, Garzanti, Milano 1982, p. 124)
o scrive, polemicamente, a G. Vigorelli (“sono io che vado in cerca degli oggetti, non sono gli
oggetti che cadono e si raccolgono spontaneamente in me (Rilke, Rilke)”, lettera del 20
novembre 1940, e quanto L. Lenzini annota sull’immagine sereniana del treno e della ferrovia,
in Inverno a Luino, avvertendovi ascendenze rilkiane (V. Sereni, Il grande amico. Poesie (1935-
1981), introduzione di G. Lonardi, commento di L. Lenzini, Rizzoli, Milano 1990, p. 195).», in
ivi, p. 356.
190
RILKE, Liriche, p. 32.
191
POZZI, Parole, p. 413.

365
anche quelle altrettanto sfumate della Canzone lombarda192 di Sereni, il quale

riporta le evocazioni nordiche all’ambiente lombardo:

Sui tavoli le bevande si fanno più chiare,


l’inverno sta per andare di qua.

Nell’ampio respiro dell’acqua


ch’è sgorgata col verde delle piazze
vanno ragazze in lucenti vestiti.
Noi dietro vetri in agguato.
Ma quelle su uno svolto strette a sciami
un canto fanno d’angeli
e trascorrono:

– Digradante a cerchi
in libertà di prati, città,
a primavera. –

E noi ci si sente lombardi


e noi si pensa a migrazioni per campi
nell’ombra dei sottopassaggi.

Ed è in alcuni versi di Sereni, nello strano presagio del tragico evento della morte

di Antonia che si anima in Diana193 e al contempo nel denso ricordo che egli

traccia nell’anniversario della scomparsa dell’amica 3 dicembre194, che va a

ritrovare posto la Pozzi, fra le cose e le parole, tutte intessute di una tensione fra

terra e cielo, vivi e morti.

Diana 3 dicembre

Torna il tuo cielo d’un tempo All’ultimo tumulto dei binari


sulle altane lombarde, hai la tua pace, dove la città
in nuvole d’afa s’addensa in un volo di ponti e di viali
e nei tuoi occhi esula ogni azzurro, si getta alla campagna
si raccoglie e riposa. e chi passa non sa

192
SERENI, Frontiera, pp. 16-17.
193
Ivi, pp. 24-25. Anche in POZZI - SERENI, La giovinezza…, pp. 44-45. Sul foglio manoscritto
che Antonia aveva di questa poesia, ella diede il suo ultimo saluto all’amico: «addio / Vittorio, /
caro – mio caro / fratello / ti ricorderai / di me / insieme con / Manzi».
194
Ivi, p. 43. Anche in SERENI, Frontiera, p. 23.

366
di te come tu non sai
Anche l’ora verrà della frescura degli echi delle cacce che ti sfiorano.
col vento che si leva sulle darsene
dei Navigli e il cielo Pace forse è davvero la tua
che per le rive s’allontana. e gli occhi che noi richiudemmo
per sempre ora riaperti
Torni anche tu, Diana, stupiscono
tra i tavoli schierati all’aperto che ancora per noi
e la gente intenta alle bevande tu muoia un poco ogni anno
sotto la luna distante? in questo giorno.

Ronza un’orchestra in sordina;


all’aria che qui ne sobbalza
ravviso il tuo ondulato passare,
s’addolce nella sera il fiero nome
se qualcuno lo mormora
sulla tua traccia.

Presto vien giugno


e l’arido fiore del sonno
cresciuto ai più tristi sobborghi

e il canto che avevi, amica, sulla sera


torna a dolere qui dentro,
alita sulla memoria
a rimproverarti la morte.

367
CONCLUSIONE

Il percorso di formazione letteraria di Antonia Pozzi si avvale di acquisizioni

progressive, in una direzione esemplare in quanto a vastità di interessi, serietà di

approfondimenti e forzatura del proprio sé in direzione di ciò che ella scopre,

per via critica o sperimentale, come vero e dotato di senso.

La poesia della Pozzi si concreta di una serie di relazioni con le cose, mai

caratterizzate in senso assoluto e quindi non monotone nella loro riproposizione,

ma altresì variate nell’impianto emotivo e stilistico proprio a seconda di come e

quanto esse riescono a riflettere il suo stato d’animo, il suo pensiero, o il suo

desiderio del momento. Se questo tratto della scrittura della poetessa porta ad un

inevitabile sperimentalismo, non si tratta mai di tentativi superficiali o

immediati: l’accento grave sull’importanza del lavoro artistico che verrà posto

dall’incontro con l’etica banfiana (1933), era già molto presente anche nei primi

componimenti giovanili (1929), che si avvalgono di una costante ricerca metrica,

spesso impostata sull’endecasillabo.

Il rapporto più intenso e duraturo con la realtà che la poetessa riesce a vivere è

quello con la natura di montagna: esso è la costante in grado di riequilibrare

intenti e obiettivi, di riportarla a sé, soprattutto nella veste delle «mamme

montagne» pasturesi. La montagna è vissuta dalla Pozzi nella doppia

rappresentazione di sfida e di rifugio, di ambiente estremamente concreto e,

insieme, in grado di trasportarla verso mondi fantastici. L’incontro con alcuni

368
autori, come Guido Rey e Carlo Felice Wolff non fanno che nutrire queste

antinomie, che vivono una sorta di ricomposizione nell’incontro con il poeta

trentino Tullio Gadenz nel quale la Pozzi sente rispecchiarsi la forza e il credo

della poesia, condensata nella folgorazione, quasi spirituale, di certe immagini.

Se la prima grande spinta alla poesia le deriva, in definitiva, dall’incontro, al

liceo classico Manzoni di Milano, con il suo professore di latino e greco, Antonio

Maria Cervi – e, quindi, dalla tragica parabola del fratello poeta, Annunzio

Cervi, morto durante il primo conflitto mondiale –, sarà poi la necessità di

rispondere in modo del tutto personale alle proprie pressanti domande in merito

al senso e al tempo dell’esistenza in relazione all’identità dell’artista, a colmare

il vuoto lasciato dall’impossibile realizzazione del suo amore per Cervi.

Alla fine del primo periodo di apprendistato – esemplato sull’attenzione a certe

tematiche tratte da Giacomo Leopardi, e sulla dirompente lezione eclettica di

Annunzio Cervi –, Antonia approda a un sentimento crepuscolare nella relazione

con le cose, mediato da Sergio Corazzini. La visione assolutamente personale e

simbolica, proiettata in schemi che aggiungono un significato orfico ed epifanico

al dettaglio e al segno che la realtà le veicola, porterà la poetessa a sentire, poi,

profonde consonanze nei simbolisti di area francofona (Paul Verlaine, Arthur

Rimbaud, Émile Verhaeren, Maurice Maeterlinck e Georges Rodenbach) e in

Rainer Maria Rilke.

In seguito, l’incontro con l’impostazione filosofica del suo professore di Estetica

e di Storia della Filosofia, Antonio Banfi, spingerà la poetessa a verificare

369
negativamente le istanze del sogno in cui ha fatto vivere la sua poesia (e parte

delle sue aspirazioni esistenziali), verso un definitivo incontro con la realtà,

intesa come un fare arte per andare oltre la vita. Consapevole criticamente della

necessità di questo passaggio dal soggettivo all’oggettivo, dall’impressione

sensibile alla sistematizzazione razionale, nell’equilibrio fra Idea e Forma,

attraverso le cose, la poetessa non riuscirà però a strozzare nella pratica la forza

della lirica, ben radicata in lei, e quindi a compiere il passaggio dalla poesia alla

prosa, come avrebbe voluto. Continuerà a scrivere versi, avvicinandosi

idealmente alla poetica che più tardi verrà definita “linea lombarda” e della quale

sarà caposcuola il suo grande amico, Vittorio Sereni.

Compagni di queste rielaborazioni estetiche saranno la tesi sulla formazione

letteraria di Gustave Flaubert e l’analisi del Tonio Kröger di Thomas Mann,

romanzo incentrato sul problema – per un artista, nato borghese – della relazione

fra Geist (arte) e Leben (vita).

Dopo gli anni universitari, la Pozzi mantenne il contatto con l’universo banfiano,

pur iniziando ad insegnare presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli di Milano.

Scrisse così alcuni saggi critici su Aldous Huxley e si impegnò nella traduzione

dal tedesco di un romanzo di Manfred Hausmann. L’interesse per la letteratura

straniera, così controverso negli anni del fascismo, è un altro volto della presa di

coscienza di Antonia in merito al valore dell’anticonformismo e al senso

dell’azione dell’artista nel contesto storico di aperta crisi – da intendersi sotto i

370
più diversi fronti, ma soprattutto culturale e umana – svelato dal magistero

banfiano.

Il carattere di resistenza della poetessa, che per tutta la vita ha dovuto lottare fra

forze controverse, si esprime in modo esemplare in questa scelta sottile e

apparentemente non determinante, ma invero molto coraggiosa.

Per concludere vorrei precisare un aspetto in merito al taglio adottato per

l’analisi dei testi di Antonia Pozzi. Esistono certamente dei temi individuabili

nella poesia pozziana, ma non sono questi a muovere le direzioni della sua

ricerca. I luoghi dei suoi viaggi, la montagna, le meditazioni sulla vita, la

contemplazione estatica della natura, l’ascesi e il problema di Dio, la semplice

umanità ritrovata nelle cose più umili, la realtà dura della periferia, la morte e il

silenzio, l’amore impedito, quello immaginato, quello abortito ancor prima di

nascere – come il bambino che non le è mai nato –, possono rappresentare alcuni

panorami ricorrenti. Ma ciò che traccia il sentiero della sua poetica è la

conversione costante e quotidiana del suo essere persona, donna e poeta in fieri

in un atto linguistico autentico, istituito hic et nunc con la realtà che la circonda.

Ciò che muove Antonia sono gli incontri, le occasioni mancate, i sogni infranti,

i tentativi di realizzazione di sé e, insieme, di abbandono alle esigenze dell’altro,

il suo tentativo di crescere eticamente come una vera donna e un vero poeta,

sfruttando le parole per denunciare il tabù di essere stata destinata a questo

difficile connubio in un momento storico e in un ambiente sociale e culturale che

non era preparato a ricevere la stratificazione del suo messaggio.

371
La sua poesia è un ascolto poetico e puro dell’istante, vero perché sofferto e poi

donato, che rende il tema già superato nella concretezza scavata delle parole: il

titolo che è stato dato alla sua raccolta focalizza la nostra attenzione proprio su

questo aspetto. L’unico rifugio per Antonia sono le parole, nella loro concreta

possibilità di farsi relazione. Alcune parole presuppongono un lavoro che per

forza di cose si confonde con la vita, la cui analisi in definitiva non risulta mai

conclusa, ma sempre stimola ad altro, all’oltre.

Ed è questo l’augurio e il monito che oggi, nel tempo della nostra crisi, traggo

da questo lavoro: continuare lo scavo, non arrendermi alle evidenze, ma lottare

per riaffermare sempre, nel loro spazio di unicità, il valore delle parole come atti

in potenza.

372
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379
INDICE ESSENZIALE DEI NOMI

Alighieri Dante 44n, 114n, 124n, 202, 231n, 262, 257, 338n.

Banfi Antonio 39n, 43, 43n, 44, 44n, 45, 45n, 58n, 59n, 98, 98n, 99n, 168n,

208n, 209n, 255, 256n, 257, 266n, 282, 284, 309, 332n, 325, 328, 346, 348, 349,

356, 362, 364n.

Borgese Giuseppe Antonio 100, 100n, 201, 217, 217n, 218n, 220, 220n, 257,

258, 259, 260, 321n, 349.

Bozzi Lucia 8n, 31, 31n, 34, 41n, 72n, 75, 98n, 103n, 105, 105n, 127, 127n,

128, 133, 139, 187n, 206, 214n, 238, 239, 240, 242, 242n, 258, 260, 285, 310,

322n, 329.

Cantoni Remo 36n, 39, 39n, 40n, 45, 48n, 54n, 57, 58, 58n, 59n, 62n, 94n, 98n,

103n, 142, 206, 254, 255, 309, 324, 331, 344, 347, 347n, 348, 355, 361n.

Cervi Annunzio 95, 103n, 115, 140, 142, 143, 144, 144n, 145, 146, 146n, 150,

150n, 151, 157, 158, 160, 160n, 164, 165, 167, 177, 178, 179n, 180, 182, 183,

183n, 185, 187, 188, 193, 196, 196n, 202, 253, 303, 311, 337, 355n, 356.

Cervi Antonio Maria 25, 25n, 27n, 40n, 56n, 94n, 95, 103n, 139, 139n, 140,

142, 143, 146n, 151, 156, 160, 170, 176, 179, 179n, 180, 182, 185, 188, 196n,

198, 211, 227n, 241n, 245, 247n, 253, 254, 279, 304, 310, 311, 316n, 326n.

380
Corazzini Sergio 66, 66n, 67, 68, 163n, 223, 223n, 224, 224n, 226, 227, 227n,

228, 228n, 231, 233, 234, 234n, 235, 236, 236n, 237, 238, 238n, 240, 242n, 243,

247, 247n, 248, 249, 249n, 250, 251, 253.

D’Annunzio Gabriele 114n, 115, 144, 144n, 146, 149, 194n, 214, 218, 219, 221,

241, 241n, 253, 262.

Flaubert Gustave 43n, 45, 116, 207n, 208n, 209n, 233n, 265, 265n, 266, 266n,

273, 273n, 282, 285, 290, 295, 295n, 306n, 326, 327, 327n, 328, 329, 329n, 330,

331, 332n, 349.

Formaggio Dino 168, 168n, 209, 255, 283, 286, 309, 326n, 327n, 357.

Gadenz Tullio 27, 27n, 28, 69, 74, 74n, 75, 75n, 76, 76n, 77, 77n, 78, 78n, 79,

79n, 80, 80n, 81, 82, 83, 83n, 84, 84n, 85, 85n, 86, 87, 88, 88n, 89, 89n, 90, 97,

97n, 98, 99, 99n, 101, 101n, 108, 109, 110, 110n, 111, 112, 112n, 113, 114, 114n,

115, 115n, 116, 116n, 117, 117n, 118, 118n, 150, 236, 236n, 254, 260, 337, 343.

Gandini Elvira 29n, 31, 31n, 34, 69, 120, 121, 121n, 122, 139, 142, 146n, 179n,

208n, 210, 258, 259, 260, 310, 322.

Gozzano Guido 219, 222n, 223, 223n, 225, 225n, 226n, 231, 231n, 234, 235,

243n, 244n, 362n.

Hausmann Manfred 273, 273n, 274n.

Hoffman Ernst Theodor Amadeus 266n, 305, 306, 306n, 307.

Huxley Aldous 272, 272n, 273n, 274, 275, 276, 277, 278, 278n, 279, 281, 282.

381
Leopardi Giacomo 64, 64n, 65, 65n, 66, 185, 185n, 186, 188, 188n, 189, 189n,

192, 193, 193, 196, 197, 199, 202, 203, 203n, 204, 205, 211, 253, 262, 303, 313,

315.

Maeterlinck Maurice Polydore Marie Bernard 228, 228n, 235, 260, 292, 293n.

Mann Thomas 115, 258, 246, 247, 321n.

Palazzeschi Aldo 148, 149, 151, 159, 235, 244n.

Pirandello Luigi 97, 97n, 98, 98n, 104, 104n, 105, 105n, 107, 109.

Quasimodo Salvatore 222n, 223, 223n, 319n, 336, 336n, 346, 346n.

Rey Guido 69, 110, 121, 121n, 122, 123, 123n, 124n, 125, 125n, 127, 129, 129n.

Rilke Rainer Maria 42n, 100, 102, 115, 116, 224, 244, 244n, 274n, 321, 321n,

322, 323, 323n, 324, 325, 325n, 326, 332, 332n, 335, 335n, 336, 344, 344n, 352n,

363, 364n.

Rimbaud Arthur 260, 292, 292n, 293n, 319n.

Rodenbach Georges 231n, 235, 236, 236n, 292, 293n.

Sereni Vittorio 42n, 48n, 58, 58n, 59n, 225, 254n, 272, 334, 347, 348n, 360,

360n, 361, 361n, 362, 362n, 363, 363n, 364n, 365, 365n.

Ungaretti Giuseppe 143, 144, 151, 158, 234, 235, 253, 338, 338n, 339, 339n,

340, 340n, 341, 342n.

Verhaeren Émile 260, 292, 337, 393n.

Verlaine Paul 292, 292n, 296, 309, 293n, 296n.

382
Wolff Carlo Felice 23, 23n, 24n, 26n, 45, 47, 47n, 48n, 49, 49n, 52, 52n, 53n,

54, 60, 61n, 69, 71, 72n, 207.

383
INDICE DELLE RIVISTE

«Corrente di vita giovanile» 272

«Diana» 144, 147, 147n, 159

«Lacerba» 148

«Lecco (Rivista di cultura e turismo)» 74n

«Lingue estere (Le)» 261, 262

«Lingue del mondo (Le)» 261, 262

«Eco della Cultura (L’)» 93, 95n, 144n, 147, 147n, 148, 151n

«Foglio (il)» 237n

«Forum Italicum: a journal of Italian studies» 147n

«Repubblica (La)» 194n

«Rivista della Venezia Tridentina» 77n, 79n, 80n, 93, 95n

«Rivista di Letteratura Italiana» 273n

«Rivista d’oggi (La)» 148

«Stampa (La)» 217, 217n, 218n

«Studi Filosofici» 39n, 43n

«Torchio. Settimanale Fascista di Battaglia e di Critica (Il)» 268

384
«Traduttore nuovo (Il)» 268n

«Vita giovanile» 272

385
RINGRAZIAMENTI

Ringrazio di cuore tutta la mia famiglia per il sostegno di questi mesi di ricerca

e lavoro intensi: la vostra presenza, l’interessamento, lo sprone, la vicinanza

sono state la base morale e materiale di un tempo sereno da dedicare alla

scrittura.

A mio padre, Saturnino, che ha letto tutto in anteprima con passione e a cui

auguro di lasciarsi stupire da molte altre parole; a Matteo, che con i suoi consigli

netti e i suoi gesti d’amore, mi ha aiutato a uscire dai vicoli ciechi e a restare

nella luce; a mia madre Luisa che con il suo com-patire mi ha fatto prendere

coscienza della semplicità nella complessità;

A mia sorella Valentina, perché vuole esserci e c’è, anche ad oceani di distanza,

nella determinazione delle mie vene;

A Dario e Lella, che con la loro amorevole e assidua presenza mi hanno accolta

e sostenuta come una figlia;

A Irene, perché vederti crescere nell’amore delle parole è la gioia più grande per

un’anima sorella.

Alla compagnia silenziosa e morbida di Trilly.

A nonna Pinuccia che dice: “Dopo di questa basta, neh, ti riposi?” E che voleva

studiare lingue ma ha dovuto desistere sotto le minacce di bombardamento

all’università Bocconi se non avesse sposato il nonno Ezio. Nonno, so che mi

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guardi da lassù e ti sento nella carne azzurra del cielo come nella stanchezza

solida delle mie gambe in marcia.

Ringrazio tutti gli amici e i conoscenti che venendo a sapere della strana storia

della mia seconda laurea hanno reagito con grande entusiasmo e ammirazione:

invece che criticare e distruggere, avete alimentato la decisione un po’ folle di

ripartire con il sorriso utopico di chi vuole sempre donare di più. Grazie a

Daniela, Marta, Giulia, Arianna, Giulia, Alessia, Valeria, Luca, Giovanna,

Francesco L., Francesco B., Martino, Clelia, Daniela, Anna.

A suor Cry che ha posto tanti semi di bene in me, e a tutti i magnifici professori

che non ho speranza di eguagliare e che ho incontrato nel mio cammino e sono

con me nel mio voler essere migliore: la maestra Lorena, Suor Emanuela, la

prof.ssa Cammarano, il prof. Ferri, la prof. Pirocchi.. ognuno mi ha lasciato

davvero qualcosa che spero di far fiorire ancora a lungo.

Ai sorrisi degli adolescenti e ai dubbi che fanno crescere e aspettano me.

Ringrazio il mio relatore, Enrico Elli, per la lettura estiva della tesi, in un tempo

costretto ma intenso, e per aver colto il senso della mia ricerca, aiutandomi a

superare le maglie della burocrazia;

Ringrazio il personale della biblioteca di Andalo, sempre attento e gentile,

sollecito nel soddisfare ogni richiesta con lo slancio di chi prende veramente a

cuore le esigenze dell’altro.

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Ringrazio il Prof. Minazzi e la Prof.ssa Lazzari del Centro Internazionale

Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti di Varese per avermi concesso di

respirare i colori e toccare le pagine del libri amati da Antonia. Trovare le

coincidenze con le mie ricerche nei testi in un clima di fraternità di intenti alti e

di dono mi ha sorpresa ed emozionata. Il ricordo e l’esempio dei fiori che

sopravvivono nei suoi libri non mi abbandonerà facilmente.

Ringrazio la Biblioteca Nazionale di Firenze e il centro Apice dell’Università

Statale di Milano per la disponibile concessione di testi rari digitalizzati; la

biblioteca centrale dell’Università Cattolica e la Biblioteca Sormani per avermi

concesso di trattenere i libri per un tempo lunghissimo; la Biblioteca Nazionale

Braidense per il senso di mistero e profondità che scaturisce dalla sua bellezza.

Ancora ringrazio la Biblioteca di Montebelluna e la Biblioteca Calvairate di

Milano.

Ringrazio tutto ciò che ho sofferto e abbandonato, con amore, per poter essere

qui.

E poi dovrei ringraziare il destino che, in una misteriosa catena di relazioni e di

sguardi, mi ha portato nel destino di Antonia Pozzi.

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