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di Milano
Relatore:
chiarissimo prof.
Enrico ELLI
Candidata:
Federica CECCO
matr. 4611201
F.D.E. Schleiermacher
SOMMARIO
Introduzione IV
Conclusione 368
Bibliografia 373
Ringraziamenti 386
INTRODUZIONE
e dei suggerimenti della critica fin qui redatti, ma soprattutto respirando l’aria
della biblioteca della sua casa di Pasturo – paesino della Valsassina ove la
giovane poetessa era solita trascorrere frequenti periodi di vacanza dalla sua città
natale, Milano, immergendo il suo corpo nella natura e la sua mente nei libri.
immagine che emerge in modo chiaro dalla ricchezza culturale dei titoli e dei
saggi critici, dizionari di lingue straniere: dai dorsi colorati dei volumi e dalle
pagine dei libri – ormai rese delicate dal passaggio del tempo – rivivono un
posizione della Pozzi nel panorama della poesia del Novecento e lo stato degli
studi attuale, parte dalla presa di coscienza che non esiste poesia senza un
letterario.
Attraverso una prima analisi di questo rapporto, e dunque, degli intorni letterari
l’influenza di tutte le altre relazioni che negli anni della sua breve vita (1912-
Lo studio parte dunque dai testi pozziani (poetici, epistolari, diaristici, saggistici
con una serie di altri autori, scrittori, filosofi, poeti, nella convinzione –
condivisa con la critica Graziella Bernabò – che la poesia della Pozzi sia una
poesia dell’incontro e della relazione, con le persone e con le cose, votata alla
rapporto con la montagna, traccerò le influenze autorali che si sono rese più
evidenti negli anni della sua formazione, dividendo il periodo liceale (1927-
Spazzolate di vento
Le folate pazzerelle,
con mano impertinente,
fanno il solletico alla pellicina dell’acqua
che rabbrividisce, si raggriccia tutta,
1
Per un confronto in merito alla storia editoriale e alla ricezione dei versi pozziani, si veda
almeno il saggio di G. BERNABÒ, Antonia Pozzi: le ragioni di una riscoperta, in AA. VV., … e
di cantare non può più finire… Antonia Pozzi (1912-1938), atti del convegno organizzato
dall’Università degli Studi di Milano (23-26 novembre 2008), Viennepierre edizioni, Milano
2009, pp. 81-104.
2
A. POZZI, Parole. Tutte le poesie, a cura di G. Bernabò e O. Dino, Ancora, Milano 2015, p. 41.
6
Il tono della poesia, giocoso e quasi bozzettistico nel rilevare le somiglianze che
esercizio ironico, senza impegno nel porre l’una accanto all’altra queste prime
rotondità delle onde del mare, fanno del discorso poetico di Antonia una
dall’uomo (il telaio che spicca e incornicia), ma nel contempo aperto alla
a riportarne l’esperienza da cui origina in una lettera del 03 aprile 1929 alla
«Qui è tutto bello di una bellezza violenta, che fa persino male; che ti prostra in
un’ammirazione opprimente e angosciosamente inadeguata allo sfarzo di tutta questa natura. Se
una finestra ti ammannisce una porzioncina di mare spazzato dal vento, tu butti lì sopra tutti i
tuoi pensieri e stai a vederli giocherellare con le folate che fanno il solletico alla pellicina
dell’acqua, la quale, poverina, si raggrinza tutta e s’increspa in striature tanto fini che sembra il
capino di un uccello quando qualcuno, soffiandovi delicatamente sopra, rovesci le piume in
rotelline trepide.»3.
L’intima confidenza con cui la Pozzi si confessa alla nonna Nena rivela però
anche un altro aspetto molto importante circa la relazione di Antonia con questa
3
A. POZZI, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938., a cura di G. Bernabò e O. Dino,
Ancora, Milano 2014, p. 85. Corsivo mio.
7
bellezza offerta dal paesaggio, una sensazione indefinita4 stimola l’animo della
giovane Antonia a tentare una conversione in forma poetica di ciò che continua
a mulinare nel cervello5. E proprio in questo scarto fra se stessa, i suoi pensieri,
quella settimana Antonia esplora i luoghi «in un’inerzia apparente, ma con tutto
il [suo] spirito teso a fare tesoro dell’ebbrezza che emana dalla vastità sconfinata
pensiero e la scrittura, ossia quella fra la poetessa, fra il mondo umano e limitato
Si possono quindi individuare, in forma del tutto empirica rispetto alle fonti
citate (la poesia e le lettere che accompagnano i momenti della sua nascita), le
prime sensazioni, le prime parole-stimolo che avviano Antonia sul sentiero della
finestra per far risuonare lo spazio della natura, colta nel suo avvenire davanti ai
4
Cfr.: lettera a Lucia Bozzi del 30 marzo 1929, Ivi, p. 84.
5
Cfr.: lettera alla Nena, Ivi, p.85.
6
Ibidem.
8
suoi occhi.
rapporto che lega lo sguardo di Antonia all’oggetto narrato: una povera cosa7
situazione esistenziale:
Cencio
acuisce il carattere umile, intristendo i toni del colore nel paragone (da celestino
7
Così scrive Antonia in una lettera del 29 gennaio 1933 al suo amico poeta Tullio Gadenz: «Io
so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e
le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.», in
POZZI, Ti scrivo…, p. 161. L’importanza della relazione con le cose permea la poesia di Antonia,
con fasi estreme di entusiastica adesione e di doloroso distacco, sino ad individuare in esse
l’unica possibilità di ancoraggio alla realtà in un’epoca di profonda crisi. Come sottolinea
Graziella Bernabò, in questo processo si ritrova: «un’anticipazione della “poetica degli oggetti”
della “linea lombarda”», in G. BERNABÒ, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la
sua poesia, Viennepierre edizioni, Milano 2004, p. 127.
9
sua presenza lei può solo infastidire, a differenza del cencio che è stato
comunque utile (gualcito di ditate rosa) ed ha una sua posizione definita, seppur
sguardo descrittivo e analogico sulle cose8 osservate, ad uno che gioca l’analogia
fase iniziale, sperimentale, della poesia di Antonia; oppure che sia una semplice
intimistica della sua scrittura poetica – come emergerà fra poche righe
delle due vie per privilegiare l’altra. Invece la mutevole prospettiva d’uso del
espressivo.
8
Uso questo termine intendendo la globalità dei temi toccati da Antonia, il rapporto che instaura
con la realtà tutta, fra cui sicuramente spicca la sua relazione con la natura come una delle “cose”
in cui riversare l’anima. Cfr. a questo proposito la poesia Cose del 10 dicembre 1933, in POZZI,
Parole, p. 293: «E tu non dire / ch’io perdo il senso e il tempo / della mia vita - / se cerco nella
sabbia / il sole e il pianto / dei mondi – / se getto nelle cose la mia anima / più grande – e credo
/ ad immense magie…»
10
per poter penetrare fino in fondo alla pratica della scrittura della Pozzi. La parola
alla creazione di un legame con le cose che vada al di là della mera capacità di
vuole – e nel passare degli anni ha sempre più bisogno – che la bellezza della
natura possa essere ricordata e vissuta anche attraverso l’umana unicità della
propria anima, ossia del suo sguardo di poeta: ma questo non esclude che, a volte,
stato d’animo, o con il suo pensiero. Anche quando l’esperienza poetica è avviata
già da alcuni anni, la presenza della natura, il suo vivere, può bastare affinché si
9
Cfr. POZZI, Parole, per Sole d’ottobre, p. 272, per Ottobre, p. 390.
11
brucia in poca polvere
della sua bianca dietro un dosso scomporsi.
bellezza
come un fragile corpo Pasturo, 30 settembre 1935
nudo –
20 ottobre 1933
estivi (Sole d’ottobre), sono polarità tipiche di una mezza stagione: è chiaro che,
in filigrana ma ben distinti fra loro, ci sono due differenti vissuti emotivi di
Antonia che condizionano il tono con cui la poetessa annota l’emergere della
natura nel suo farsi, ma questa corrispondenza non si esplicita in un “io”. Come
ho anticipato, le poesie sono state scritte nel 1933 e nel 1935 date distanti dagli
fisiche (famigliari, amici, professori, altri scrittori e poeti, ecc.), sia alla
funzione testuale del tu, sia a quelle relazioni con l’altro che si possono radicare
12
A partire dall’indagine sulla natura come funzione letteraria nella poesia di
Poesia di Antonia
↓
Parole
↓
Analisi della natura come tema – stimolo – specchio privilegiato
↓
Relazione
↓ ↓ ↓
1. Atto di 2. Individuazione di un rapporto analogico 3. Con le persone
registrazione/resoconto a. fra le cose
di un fatto nel suo accadere b. Antonia con le cose
come l’apertura di più punti di vista relazionali compresenti, fra i quali a poco a
poco si costruisce anche l’incontro con un tu non rinnegabile che accade, vive e
Antonia, come giocata su un piano trascendente che è per lei ancora di verità e
degli elementi in causa. Sia che siano le cose a dirsi a lei, sia che la sua stessa
13
presenza abbia bisogno delle cose per narrarsi, sia che esista un tu incarnato
proprio quando i temi, in superficie, sembrano ripetersi, c’è sempre qualcosa che
esaustiva – delle poesie di Antonia che hanno lo stesso titolo (o varianti molto
10
Cfr.: F. PAPI, L’infinita speranza di un ritorno. Sentieri di Antonia Pozzi, Viennepierre
edizioni, Milano 2009, p.64: «Questo è sempre stato (ovviamente non detto così) il compito – il
destino – che Antonia ha assegnato a se stessa: la capacità di segnare il rapporto possibile tra
l’orizzonte dell’autopercezione e la sua traducibilità in un linguaggio poetico».
11
Riporto a fianco di ogni poesia, per comodità di consultazione, le pagine dell’edizione Ancora
del 2015 di Parole.
14
lontanan dell’acqu fati, p.
za, p. 63 a, p. 249 422
Canto Canto Canto
selvaggio rassegnat della mia
, p. 98 o, p. 100 nudità, p.
102
Crepusco Ultimo Crepusco
lo, p. 42 crepuscol lo, p. 187
o, p. 92
Distacco, Distacco
p. 73 dalle
montagn
e, p. 240
Dopo la Dopo,
tormenta, p.383
p. 359
Fantasia Settembr Sera a
settembri e, p. 246 settembre
na, p. , p. 428
116
Fine, p. Fine di
411 una
domenic
a, p. 420
Gioia, p. La gioia,
179 p. 301
Giorni in Giorno
collana, dei
p. 118 morti, p.
184
La vita La vita, Vita, p. In riva
sognata, p. 387 115 alla vita,
p. 299 p. 141
La voce, Voce di
p. 291 donna, p.
429
Le mani Le mani,
sulle p. 333
piaghe,
p. 120
Lagrime, Le tue
p. 97 lacrime,
p 337
Luce Luci L’operai
bianca, libere, p. o delle
p. 197 437 luci, p.
444
Lume di Λύχνος,
luna, p. [licnos,
202 lume], p.
211
Mattino, Mattino,
p. 263 p. 440
Minacce Minacce,
di p. 315
15
temporal
e, p. 67
Distacco Le
dalle montagn
montagn a, p. 427
e, p. 240
Morte Morte di Inizio Bambino Giorno I morti, La Maggio
delle una della morente, dei morti, p. 426 morte desideri
stelle, p. stagione, morte, p. p. 423 p. 184 bionda, o di
251 p. 430 303 p. 287 morte,
p. 408
Neve, p. Neve sul Nevai, p.
176 Grappa, 313
p. 311
Capricci Notte e Annotta, La notte Notte di Notte, p.
o di una alba sulla p. 342 inquieta, festa, p. 425
notte montagn p. 368 396
burrascos a, p. 264
a, p. 126
Passatem Notturno Risveglio Notturno, Notturno,
po invernale notturno, p. 239 p. 393
notturno, , p. 137 p. 170
p. 88
Odor di Odor di
fieno, p. verde, p.
82 321
Ora Ora L’ora di
intatta, p. sospesa, grazia, p.
377 p. 382 171
Ottobre, Sole
p. 390 d’ottobre
, p. 272
Pensiero Pensiero,
di p. 314
malata,
p. 233
Periferia, Periferia Periferia,
p. 406 in aprile, p. 436
p. 414
Pianura, Pianure a
p. 319 maggio,
p. 366
Preghiera Preghiera Preghiera
, p. 128 , p. 183 alla
poesia, p.
320
Rifugio, Rifugio,
p. 318 p. 404
Ritorni, Ritorno Ritorno
p. 79 vespertin serale, p.
o, p. 124 270
Salire, p. Salita, p.
296 398
Sentiero, Il
p. 317 sentiero,
16
p. 351
Passeggi Sera Sera, p. Ritorno Sera sul Sera a
atina d’aprile, 201 serale, p. sagrato, settembr
serale, p. 153 270 p. 280 e, p. 428
p.78
Precoce Spazioso
autunno, autunno,
p. 386 p. 395
Sgelo, p. Sgelo, p.
372 392
Sogno Sogno Sogno In sogno, Gli occhi
dell’ulti nel sul colle, p. 262 del
ma sera, bosco, p. p. 191 sogno, p.
p. 163 190 308
Solitudin Solitudin Io,
e, p. 83 e, p. 215 bambina
sola, p.
87
Sonno, p. Sonno e
188 risveglio
sulla
terra, p.
421
Stelle sul Stelle
mare, p. cadenti,
210 p. 273
Tramont Tramont
o o, p. 185
corruccia
to, p. 51
Spazzola Vento, p. L’orma In
te di 80 del campagn
vento, p. vento, p. e di
41 143 vento, p.
412
Ad avere una rilevanza numerica sono sicuramente i momenti della giornata che,
17
con il loro scandire lo scorrere del tempo, sembrano rievocare all’anima i
connesse a questa fase della giornata come Sonno, 2 occorrenze, e Sogno, 4, per
stimolo-specchio nella poesia di Antonia, si può notare con facilità come le tre
L’ovatta grigia delle nubi L’acqua gioca con gli scogli Le crode non hanno più rose:
assorbe l’orizzonte sbavando il sole le ha tutte portate
il sudore perlaceo del mare. come un cavallo sudato con sé
– due paranze ritornando con nel suo morire.
Sorrento, 2 aprile 1929 vele flosce –]
Sola sul trampolino, Anima, del tuo sfiorire
coi miei vaneggiamenti perché ti duole? –
importuni,]
ostento nel grigio Lo stesso tuo pallore
la mia maglia scarlatta: è sulla fronte
ma – dentro – l’anima d’ogni montagna,
illividisce lo stesso tuo desio
come la carne molle d’assopimento –
di un bambino annegato.
Vedi le grandi cime
S. Margherita, 30 giugno 1929 come si sbiancano:
gli immensi volti
come distendono
sul dolore degli occhi
le palpebre
e giacciono puri,
protesi
a una carezza stellare –
12
Ricordo che le tre modalità sono quelle riportate nello schema a p. 13. Ad esse farò riferimento
anche in seguito.
18
O non attendi anche tu
per la tua vita
che si scolora
il bagliore supremo?
S. Martino di Castrozza,
gennaio 1933
Quello che cambia però sono le circostanze, i tempi e i luoghi in cui questi
anima che fa da ponte fra le prime due modalità di sguardo. In questo caso
della poetessa, configurandosi quasi come un modello di sviluppo del suo fare
13
Cfr. la poesia Rossori, in POZZI, Parole, pp. 157-159, scritta a Pasturo il 06/04/1931.
Interessante notare come sia la mediazione dello sguardo dei bambini del paese a metterla in
contatto con se stessa, a farle immaginare come possa essere percepita dall’esterno: «Ma davanti
al cancello / del mio giardino / un grappolo di bimbi / attende il mio ritorno. / Per guardarmi, /
per guardare bene da vicino, / per vedere com’è fatta / questa cosa curiosa che son io.». Anche
qui, è sera.
19
poetico, data la scansione temporale crescente dei testi. Vorrei ribadire però che
non si tratta affatto di uno schema esaustivo del suo rapporto con la parola
poetica, che anzi vive di una compresenza temporale dei tre meccanismi
Nella prima poesia del 1929 è un colore fatto materia ad assorbire il sudore
limite fra giorno e notte, diventando esso stesso orizzonte e assorbendo nella sua
nell’accadere della natura e riportata con un buon lavoro di pulizia del verso, che
portato, ostentato dalla poetessa, ma non veramente assunto. Anzi, sembra quasi
livido, violaceo, di triste morte che contrasta con l’apparente atmosfera giocosa
14
Cfr. il precedente esempio sul rapporto di relazione come resoconto anche in poesie di anni
distanti dall’esordio come Sole d’ottobre e Ottobre.
20
interrompere i suoi vaneggiamenti proprio come ingiusta e precoce è la morte di
un bambino annegato nel mare. Nel frattempo, fuori da questa simbiosi tragica,
segni solo esteriori di questa mollezza (le vele flosce), trascinate senza volontà
dall’andare delle cose, seguendo la propria natura senza angosce, senza farsi
proprio all’inizio della seconda poesia l’immagine del sudore del mare – di cui
è chiarita l’origine nel suo affannarsi quotidiano contro gli scogli – mediata però
giochi vani rispettivamente per Antonia e per l’acqua: la poetessa è però la sola
a rendersi conto della propria situazione esistenziale, che gli elementi del
senza dialogo. Ed è per questo che diventa ancora più interessante lo scarto che
avviene a distanza di tre anni e mezzo con la terza poesia, nella quale
Essa diventa per Antonia, «un luogo dell’anima», come viene definita in queste
parole di Marco Dalla Torre, introduttive alla sua monografia Antonia Pozzi e la
montagna:
21
non arrogante, di ciò che sembra immutabile ma è pienamente vitale, di ciò che è equilibrio di
vita e non mera apparenza.»15.
Nella poesia del 1933 si crea quindi un dialogo per immagini fra la montagna
distendono sul dolore degli occhi. Possono così giacere pure, possono
Resta da chiarire però l’immagine iniziale della poesia che mi aiuta così ad
15
M. DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, Ancora, Milano 2009, p. 12.
16
Poco più avanti è chiarita l’origine di questa immagine.
17
POZZI, Parole, p. 187.
22
Antonia si riferisce chiaramente al fenomeno dell’enrosadira, quando al
unico rifrangendo i raggi del sole che lo colpiscono con una certa inclinazione,
però Antonia non usa l’immagine del colore rosso, del fenomeno chimico, ma si
rifà ad una leggenda letta nel testo di Carlo Felice Wolff18 I monti pallidi, libro
che era in possesso di Antonia sin dal 192919. Si tratta de La leggenda della
«Nel buon tempo antico, quando gli uomini non si odiavano né si uccidevano fra loro,
la grande montagna che si vede a levante di Bolzano non era, come ora, aspra e nuda: era anzi
facile e dolce, e tutta mirabilmente fiorita di rose rosse.»21
18
K. F. Wolff (1879 – 1966) è stato un giornalista, scrittore e antropologo nato a Karlsstadt da
padre austriaco e madre sudtirolese di lingua italiana. Visse dall’età di due anni a Bolzano e nel
1887/1888, quando si ammalò per un lungo periodo, sviluppò, ascoltando i racconti della sua
infermiera, “La vecchia Lena”, un vivo interesse per le storie delle valli di cui era originaria: la
Val di Fiemme. Alcuni anni più tardi, nel tentativo di raccoglierle, si accorse che era un
patrimonio che si stava disperdendo e del quale la gente del luogo negava ogni valore. Per questo
intensificò la ricerca, imparando i dialetti, le abitudini, i modi di dire di quelle popolazioni,
arrivando infine a costruire un’opera che per alcuni tratti si può dire del tutto originale rispetto
alle fonti. Per eventuali riscontri sulla biografia, si legga quella riportata in calce al volume
consultato per le ricerche di questa tesi C.F. WOLFF, I monti pallidi. Leggende delle dolomiti,
Cappelli Editore, Bologna 1987.
19
La notizia è in una nota a p. 22 di DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna: «In quei giorni
compra anche il famoso libro di Carlo Felice Wolff, I monti pallidi. Leggende delle dolomiti,
trad. di C. Ciraolo, Mondadori, Milano 19293. Sul frontespizio segna: “Antonia Pozzi, Madonna
di Campiglio 10 agosto 1929”. Il libro è conservato nella sua biblioteca di Pasturo». In realtà
oggi la biblioteca di Antonia è stata trasferita, e, dal 2015, insieme all’archivio delle sue carte e
delle sue fotografie, si trova presso il Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio
Preti di Varese. Rilevo, consultando la biblioteca, che oltre all’edizione del 1929 ne è presente
anche una del 1922 della casa editrice S. Poetzelberger di Merano, sempre tradotte da Clara
Ciraolo ma contenente meno testi (fra cui figura comunque la leggenda del giardino delle rose).
In copertina, una pallida, bianca croda di sfondo a destra, una montagna di abeti sulla sinistra e
un ramo di rododendri di un bellissimo colore rosa in primo piano.
20
Per leggere la versione completa della leggenda si rimanda a C.F. WOLFF, I monti pallidi.
Leggende delle dolomiti, pp. 29-35.
21
Ivi, p. 29.
23
La credenza è che il Rosengarten, parola tedesca per “giardino delle rose”,
e vuole chiederla in sposa. Questa unione viene impedita da molti fattori, primo
fra tutti l’opposizione di Vítege, guardia alla porta del castello reale di Similda.
Egli non considera come suoi pari i Nani ambasciatori inviati da Laurino per
innesca un conflitto fra i due popoli che dura per molti anni, e che porta prima
al rapimento di Similda (che viene condotta nel regno dei Nani e ovviamente
In una sera di distrazione dei soldati, Laurino riesce a liberarsi e a tornare alle
sue montagne:
«Ma quando, a una svolta della valle, gli apparve il bel giardino di rose, rosso-
splendente al di sopra dei boschi, re Laurino disse: – Son le rose che mi hanno tradito. Se gli
uomini non le avessero viste, non avrebbero mai scoperto il mio regno.
E, per renderlo invisibile, Laurino trasformò in pietra tutto il roseto e fece un
incantesimo, che le rose non potessero vedersi né di giorno, né di notte.
Ma nell’incantesimo il re Nano aveva dimenticato il crepuscolo, che non è giorno e non
è notte: così ogni sera, dopo il tramonto, si rivedono le rose rosse del giardino incantato. Allora
gli abitanti della montagna escono dalle capanne e guardano e ammirano, e, per un attimo solo,
nelle loro menti inconsapevoli sorge una confusa intuizione del buon tempo passato, quando gli
uomini non si odiavano né si uccidevano e tutte le cose erano più belle e più buone.
E quando il Rosengarten si spegne e le sue punte di pietra ridiventano chiare e fredde,
gli uomini rientrano in silenzio, presi da indefinita tristezza, nelle loro capanne fumose.»23.
22
Per gli italiani prende invece il nome di Catinaccio.
23
WOLFF, I monti pallidi…, pp. 34-35.
24
Credo però che la connessione fra l’incipit della poesia di Antonia e l’immagine
fiducia reciproca tra esseri umani – ove la montagna era facile e dolce – ormai
perduto.
Proprio nel 1933, anno di composizione della poesia, Antonia deve rinunciare
amore della sua vita, il suo ex professore di latino e greco al Liceo Manzoni di
già dal 1929, esplicito per entrambi dal 1930 e osteggiato sin dal 1931 dal padre
Bernabò l’avvocato Pozzi, per vari motivi, non riteneva il professore un partito
«Ma perché questa ostilità dell’avvocato Pozzi nei confronti di un uomo serio e di valore
come Antonio Maria Cervi? Certo inizialmente ci poteva essere la legittima preoccupazione di
un padre molto legato alla propria figlia e desideroso di proteggerla da decisioni avventate; ma
ciò non è sufficiente a motivare la sua opposizione, anche successiva, verso di lui. In parte
dovevano giocarvi pregiudizi di classe. È vero che anche Roberto Pozzi era di origine piccolo-
24
La vita sognata è il titolo che Antonia dà ad una raccolta di dieci poesie scritte nel 1933 e
dedicate ad Antonio Maria Cervi. Esse rappresentano l’apice della sua vicenda sentimentale e
una volontà di superamento del dolore – causato dall’impossibilità di concretizzare la relazione
– attraverso il meccanismo catartico dell’arte. Le poesie sono ordinate secondo uno schema
narrativo, «tematico-simbolico» non cronologico (cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 147-148
e la relativa nota n°2 a p. 175).
25
borghese, ma con il matrimonio era asceso socialmente; grazie alla sua preparazione e
intraprendenza aveva inoltre avviato una brillante carriera di avvocato ed era diventato a Milano
un personaggio importante, che si sentiva a tutti gli effetti inserito nell’alta società. Un uomo
ambizioso come lui non avrebbe potuto aderire facilmente a un matrimonio non particolarmente
prestigioso dell’unica figlia, dato anche che il professor Cervi non aveva ancora iniziato la
carriera universitaria.»25 .
Spicca in questa prima26 parte della spiegazione della Bernabò circa l’avversione
di Roberto Pozzi per Cervi, la questione della differenza sociale, del vedere la
proposta di matrimonio del Re Laurino a Similda) sia in fondo molto simile: non
personale della Pozzi e la vicenda narrata nella leggenda, è certo che l’idea di
abbandono di un mondo felice, idilliaco e perduto a causa del morire del sole in
Crepuscolo e della prepotenza dei conflitti fra uomini ne La leggenda delle rose,
resa rispetto all’evidenza degli eventi. Della bellezza e della purezza passate
resta solo un ricordo di sogno che può brillare di un’ultima luce nell’immagine
25
Ivi, pp. 74-75.
26
La Bernabò, per ‘attenuare’ questo giudizio – constatando che l’ostilità per il Cervi non poteva
essere dovuta solo alla sua condizione sociale, data la benevolenza con cui Roberto Pozzi accolse
in seguito le simpatie della figlia per compagni di università ugualmente non ricchi – propone
come cause in seconda battuta: la differenza d’età fra i due, la paura di un possibile trasferimento
di Antonia a Roma (dove Cervi viveva dall’estate del 1928) e le radici meridionali del professore,
cfr. ivi, p. 75.
27
WOLFF, I monti pallidi…, p. 31.
26
delle crode appena sfiorite28. L’atteggiamento mansueto delle cime è un
mie ipotesi, propongo di confrontare le parole della poesia del ’33 con quelle che
Antonia rivolge nella sua prima lettera a Tullio Gadenz, giovane poeta trentino
«Io salii al cimitero di guerra in un pomeriggio nebbioso, dopo che Lei era partito.
Nevicava rado e leggero: tutta la bianca muta strada era per me, per me sola. Non aveva voci,
neppure d’uccello, la cupa folla degli abeti: solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole
più tristi. Al cimitero nessuno era andato da tempo: il sentiero era quasi intatto. Al cancello
dovetti scavare con le mie mani la neve, per aprire: ma poi, all’interno, era così tesa ed
immacolata la coltre bianca, che non osai imprimerla del mio passo pesante; colsi da un pino un
ramoscello in forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via. Le crode erano tutte pallide, come
un gran volto che cali sul dolore degli occhi le palpebre. Ed ecco, il mio sfiorire non mi doleva
più, tanto concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose.»29.
«Io ho tanto sofferto, Tullio; e se oggi non soffro più come un giorno, è forse perché –
già gliel’ho detto – la mia anima si sbianca tutta e crede che sia giunto il crepuscolo estremo.
Dentro me è tutto un giardino di fiori morti […].»30.
28
La Pozzi aveva peraltro già usato l’immagine dei rosai crepuscolari in una poesia composta
pochi giorni dopo l’entrata in possesso de I monti pallidi, il 10 agosto 1929, ed espressamente
dedicata ad Antonio Maria Cervi. Si tratta della poesia La discesa: «Già, sulle crode, sono rifioriti
/ i perenni rosai crepuscolari. / Lontana, ormai, la malga abbandonata / fra i rododendri. Il vento
delle gole / non geme più, mordendoci la nuca. / Sale l’umida calma del pineto. / I larici e gli
abeti, con la vetta, / ruban la prima oscurità, su in cielo; / con le ricurve frangie, / l’accompagnano
/ fin presso a terra: lì, piano, la versano / a fare viola il muschio dei mirtilli, / a fare azzurri i sassi
del sentiero. // Nel mio ricordo stanco, disperato, / tu ti frantumi d’ombra e di silenzio. //
Madonna di Campiglio, 14 agosto 1929», in POZZI, Parole, p. 107. L’immagine però è colta qui
nel su farsi (il rifiorire e non lo sfiorire di Crepuscolo [1933]), nella speranza di un breve
miracolo che si rinnova perennemente, anche se subito minacciato dall’avanzare dell’ombra che
ne annulla la magica compattezza.
29
Cfr. la lettera scritta da Antonia Pozzi l’11 gennaio 1933 in risposta a quella di due giorni
antecedente di Tullio Gadenz in: A. POZZI – T. GADENZ, Epistolario (1933 – 1938), a cura di O.
Dino, Viennepierre edizioni, Milano 2008, pp. 88 – 89.
30
Ivi, p. 100.
27
Come delinea con delicatezza Onorina Dino nella prefazione alla raccolta
«L’incontro con uno spirito che le somiglia nella passione per la montagna e nell’amore
per la poesia agisce come una spinta vitale, una carica inattesa di entusiasmo, di emozione e
commozione: respirare con lo stesso ritmo, guardare con gli stessi occhi, incontrarsi sulle stesse
visioni, inebriarsi di azzurro e di altezze, di candore e di sole, di fruscii e di silenzi, di parole
bisbigliate dalla natura e percepite soltanto con il cuore, con lo stesso cuore: è davvero una
“rivelazione” che riempie l’anima; Antonia sembra avere lavato veramente occhi, mani, cuore
con la neve di S. Martino, sembra essere resuscitata a vita nuova e non indugia a rispondere al
breve scritto del nuovissimo amico.»32.
Perché e in che modo questo «luogo dell’anima» assume una rilevanza per la sua
poesia? Quali sono state le località, le persone, gli autori che hanno alimentato
attivazione dei modelli relazionali come funzioni letterarie nella sua poesia.
31
In nessuno di questi testi compare un riferimento alla montagna.
32
Ivi, p. 13.
28
«Ma non pensare più di finire. Che la montagna è la prima
che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi.»33
l’evolversi negli anni della relazione fra una figlia e la propria madre34. La donna
equilibrio raggiunto dopo misteriosi anni di lotte di cui le figlie sono messe
33
Dalla lettera di Antonia Pozzi ad Elvira Gandini dell’8 agosto 1933 in POZZI, Ti scrivo…, p.
178.
34
È Antonia stessa a fornire questo termine di paragone, come si vedrà più avanti.
29
(Lina) Cavagna Sangiuliani di Gualdana35, come riferimento reale per la
poetessa rispetto al ruolo materno, bisogna ammettere che esso è stato descritto
in modo ambivalente da due delle studiose che più hanno fatto ricerca sulla sua
poesia e sulla sua vita personale (intuendo che per la Pozzi non è possibile
rapporto fra questi due ambiti parte integrante del suo lavoro). Per Alessandra
Cenni:
«Sulla madre Lina è nata una leggenda negativa: essa è stata cioè considerata come una
persona ombrosa, sfuggente e convenzionale; talora anche come una donna altezzosa e ansiosa
di evasione nella vita mondana; in ogni caso è stata vista come fredda e poco legata ad Antonia.
Poiché le testimonianze di chi l’ha effettivamente frequentata ne restituiscono una visione molto
diversa, ci si chiede se non abbiano pesato su questa poco persuasiva rappresentazione di lei
generici pregiudizi sul rapporto tra madre e figlia. Essi sono spesso il frutto di una tendenza a
esacerbare l’idea dei contrasti edipici tra l’una e l’altra (e, di conseguenza, a incolpare la madre
delle problematiche della figlia), che spesso persiste anche in ambienti molto acculturati,
nonostante i più recenti sviluppi della psicanalisi abbiano portato a una riscoperta in positivo del
ruolo materno nell’infanzia delle bambine.»37.
35
La famiglia è di nobili proprietari terrieri del pavese. Il padre di Lina possiede una vasta
biblioteca che Roberto Pozzi, studente di legge, consulta spesso. Conosce così la moglie. La
madre di Lina, la Nena, è inoltre nipote di Tommaso Grossi. Cfr. BERNABÒ, Per troppa…, p. 36.
36
A. POZZI, Lieve offerta. Poesie e prose, a cura di A. Cenni e S. Raffo, Edizioni Bietti
Paperback, Milano 2014, p. 29.
37
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 48-49.
30
marito, Roberto Pozzi, traccia in Vita di Antonia, quando esalta «alcune virtù
timidezza»38. A supportare quanto scritto dal marito sono «le testimonianze delle
parente della madre di lui [Roberto Pozzi], Rosa Pastori.»40. Se quindi Lina
appare nei ricordi dei più come una donna schiva, soccorrevole con i bisognosi,
rifuggente dalla chiacchiera vana, non è escluso però che ella potesse risultare
anche «persona raffinata, brillante, cordiale e fiera», soprattutto con quei parenti
anche dopo la morte della figlia: Giuseppe e Maresin Cavagna di Gualdana. Nei
«era molto giovane e particolarmente interessata alla letteratura e all’arte, mostrava una
grande simpatia. Forse in quella ragazza vedeva qualcosa che le ricordava Antonia; perciò la
valorizzava sul piano culturale e le regalava spesso libri che erano stati della figlia. In
privatissimi colloqui con lei parlava spesso, con infinito amore, di Antonia, ricordandola
perlopiù in situazioni felici, soprattutto in riferimento al suo meraviglioso rapporto con la natura,
oppure in momenti sereni di studio o di vita quotidiana. Parlava volentieri anche del suo valore
letterario, sempre più riconosciuto dai critici. A volte, però, toccava l’argomento del suicidio: in
questi casi le venivano gli occhi lucidi, ma non si lasciava andare. Mostrava di essersi tanto
38
Ibidem. Dalla stessa p. 49 riporto la citazione che la Bernabò trae da Vita di Antonia e che
descrive la madre Lina come: «[un’]elettissima dama, per cui l’alta tradizione patrizia si traduce
in dolcezza e bontà, in altezza di vita interiore, in semplicità schiva di forme vane, in una
timidezza istintiva, rifuggente dalle inutili parole; soccorrevole alle miserie e al dolore; signora
nella sua casa, custodita dalle sue mani esperte di arti gentili: “mani di mamma”, come le
chiamava Antonia.».
39
Lucia Bozzi ed Elvira Gandini saranno, sin dagli anni del liceo, le più grandi amiche di
Antonia, conosciute per caso alla Biblioteca Braidense di Milano mentre la Pozzi cercava un
testo consigliatole dal Cervi, ex professore anche delle due ragazze che, essendo di quattro anni
più grandi, ormai frequentavano l’università. Alla loro amicizia congiunta la Pozzi dedicherà la
poesia Sorelle, a voi non dispiace…, nella quale si raffigura come una stellina cieca che segue
due bianche stelle in grado di proteggerla e condurla verso il grembo del mare, ossia di
accoglierla in uno spazio per loro certo e per la poetessa ancora angusto e pauroso. Si confrontino
i versi della poesia in POZZI, Parole, p. 136.
40
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 49.
31
interrogata sui motivi che potevano averla condotta a quella terribile decisione e rivelava un
grande rimpianto per non aver capito, per non aver avuto un’adeguata confidenza con lei. Il suo
dolore non faceva sottintendere tuttavia un vero e proprio senso di colpa personale:
probabilmente, da donna intelligente e sensibile qual era, doveva aver capito quanto varie e
complesse potessero essere state le cause della sofferenza di Antonia, e quanto la vita le fosse
diventata a un certo punto insostenibile. Interessante è soprattutto un aspetto delle sue confidenze
sulla morte della figlia: infatti, negli anni, giunse a considerarla non come una vittima, ma come
una donna che aveva deciso con estrema dignità la propria fine, come una persona, quindi, non
da compatire ma da rispettare.»41.
Con questo saggio giudizio di madre e di donna nel cuore, proseguo l’analisi del
rapporto materno che la Pozzi instaura con la montagna, assicurandomi alla via
che vede nella relazione con la madre “reale” Lina «un rapporto tutt’altro che
suicidio45:
41
Ivi, pp. 50-51.
42
Ivi, p. 51: «Inoltre, quando frequentava la casa dei parenti milanesi del marito Mario e Paola
Gandini e vedeva la loro figlia Luisa alle prese con le lezioni scolastiche, Lina ricordava che
anche Antonia le chiedeva di essere ascoltata per esercitarsi nell’esposizione: segno. questo, di
un rapporto tutt’altro che distaccato tra di loro.».
43
Così si esprime Antonia in una lettera a Cervi del 26 aprile 1930 in cui confessa i suoi
sentimenti per i genitori, in una tenera ricerca di conciliazione fra la figura paterna e l’amato:
«Io non t’ho mai parlato del mio papà, Antonello. Ma è tanto tanto buono, sai: anche se non vive
come te, anche se la vita gli ha imposto una professione diversa da quella per la quale era nato.
È un’anima immensamente forte, entusiasta, onesta: di un’infinita rettitudine. Io ho tante colpe
verso di lui: non gli ho mai voluto abbastanza bene; ne ho sempre avuto terribilmente paura. Ora
soltanto mi sembra di capirlo. Confidenza non ne ho mai avuta, neppure in lui: nessuno dei miei
conosce la mia anima. Non posso cominciare ora: non è più possibile, ormai. Ma bene gliene
voglio, questo sì: un bene immenso. Come alla mamma […].». Purtroppo il dattiloscritto si
interrompe qui. Ora è raccolto in POZZI, Ti scrivo…, p. 100.
44
Cfr.: POZZI, Parole: Febbre p. 90, Sogno dell’ultima sera, pp. 163-164, Nostalgia, p. 167.
45
Questo ruolo limitante di Lina rispetto ad un gesto definitivo da parte della figlia ricompare
nel diario di Antonia, in riferimento al suicidio dell’amico Manzi, avvenuto il 17 maggio 1935.
Antonia scrive il 17 ottobre dello stesso anno: «– Qui, o si muore o si comincia una tremenda
vita. Io non devo morire, perché la mamma, sentendo il tonfo del mio corpo sulla terrazza del
piano terreno, griderebbe “cosa c’è”, si affaccerebbe e la porterebbero morta anche lei nel suo
32
Febbre Sogno dell’ultima sera
letto. Io sono una donna, ma devo essere più forte del povero Manzi che si è ammazzato per una
ragione uguale alla mia.», in A. POZZI, Diari, a cura di O. Dino e A. Cenni, Libri Scheiwiller,
Milano 1988, p. 47.
33
che mi coprono i polsi?
Briciole sono!
Briciole bianche, briciole di pane!
Mamma, mamma, ma sono
le tue lacrime, queste, le tue lacrime
che fioriscon così, per la mia vita!
Mamma, ma è il tuo
povero pianto, questo, tutto il pianto
che hai versato per me, l’ultima sera!
Tutto il tuo pianto, divenuto pane.
Antonia in qualche modo sapeva, intuiva, che la madre era per lei una presenza
fosse impossibile raggiungerla, fondersi in comunione con lei: come se fra loro
Come accade con queste figure femminili – corpi reali che la circondavano –
46
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 54-55.
34
anche le montagne sono lette al plurale, un femmineo materno che si fa
lette appunto al plurale anche nella loro idillica assolutizzazione. Le cime sono
figure del confronto che permettono una crescita, un’ascesa che in molti
Le montagne sono allora per Antonia l’esempio di una resistenza che la guida
quell’ambiente cittadino in cui lei, pur essendo molto giovane, vedeva assegnarsi
47
Cfr. la poesia Le montagne in POZZI, Parole, p. 427: «Occupano come immense donne / la
sera: / sul petto raccolte le mani di pietra / fissan sbocchi di strade, tacendo / l’infinita speranza
di un ritorno. // Mute in grembo maturano figli / all’assente. (Lo chiamaron vele / laggiù, o
battaglie. Indi azzurra e rossa / parve loro la terra). Ora a un franare / di passi sulle ghiaie / grandi
trasalgon nelle spalle. Il cielo / batte in sussulto le sue ciglia bianche. // Madri. E s’erigon nella
fronte, scostano / dai vasti occhi i rami delle stelle: / se all’orlo estremo dell’attesa / nasca
un’aurora // e al brullo ventre fiorisca rosai. // Pasturo, 9 settembre 1937». Cfr. anche un passo
del diario scritto il giorno seguente, 10 settembre, recandosi a far visita al cimitero di Pasturo:
«Sono rimasta molto tempo con la testa appoggiata alle sbarre del cancello. Ho visto un pezzo
di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone e vi piantassero ogni
anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna. Pensare di essere sepolta qui non è
nemmeno morire, è un tornare alle radici. Ogni giorno le sento più tenaci dentro di me. Le mie
mamme montagne.», in POZZI, Diari, p. 50. In queste due date Antonia scrive di aver incontrato
un angelo.
35
con questo ambiente. Nel 1918 infatti il padre, Roberto Pozzi, acquista una villa
a Pasturo:
«un minuto paese della Valsassina, ai piedi della Grigna. Qui [Antonia] giunse per la
prima volta nel giugno del 1918 con la madre e la zia paterna Ida (il padre era ufficiale di
artiglieria sul fronte del Piave); e qui trascorse molti periodi della sua vita. Già nel 1917 i genitori
avevano deciso di acquistare una villa patrizia del Settecento, di proprietà dei Marchiondi, perché
Lina Pozzi desiderava ritrovarsi in un tipo di dimora che le potesse ricordare, anche se più
modestamente, le ville della propria famiglia, di cui aveva nostalgia.»48.
Antonia verrà subito conquistata dalla franca semplicità del posto: Pasturo è lo
spazio in cui il silenzio si allarga nelle sue giornate in modo amico, riportandola
alla radice più profonda di se stessa49. Un rifugio, dove negli anni ospiterà gli
amici più cari50. Questa la descrizione51 che ne dà nel 1926, contenuta nei suoi
Diari:
«Superato l’ultimo tratto di strada, ecco appare una vasta conca verdeggiante,
circondata da montagne nevose e cosparse di ridenti paeselli. Laggiù, occhieggiante tra il verde,
sorge, ai piedi della Grigna settentrionale, il villaggio ove passo le vacanze che, al pari di un
bimbo pauroso che si aggrappa alle gonne della mamma, si inerpica sul fianco della gran
montagna che lo sovrasta, quasi per chiederle protezione.
Sul davanti lo sguardo può spaziare liberamente fino all’opposto versante. Ecco la
strada maestra che percorre la vallata e che accoglie da ambe le parti le stradicciuole sassose che
scendono da ogni paesello, come torrenti che scendono al fiume. Laggiù, fiancheggiato da verdi
prati, rumoreggia il torrente che, scendendo da un’altra valle, scorre in uno stretto e altissimo
burrone (che si scorge là in fondo, tra due monti), sul quale si stende un ondeggiante ponticello,
detto “ponte di corda”, dalle corde di ferro che lo sostengono. Lassù le cime, candide d’inverno,
cosparse nelle parti più basse di umili baite, di rozze cappellette, elevate ai Santi o alla Madonna,
o di piccoli santuari, dai quali echeggia a mezzodì un allegro e argentino scampanio, tosto seguito
dalle voci gravi dei campani dei villaggi.
Nel placido silenzio dei monti, risuonano di tratto in tratto il canto di una pastorella, il
muggito di una mucca, le grida dei carrettieri, il cigolio dei carri e, molto raramente, il pulsare
di un’automobile; una rarità per gli umili montanari che solo ora conoscono le meravigliose
opere del progresso, ma che, vivendo tra le bellezze della natura, potrebbero insegnarci di essa
48
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 29.
49
Cfr. la lettera scritta a Remo Cantoni da Pasturo il 14 aprile 1935, che riporto più avanti e che
si trova in POZZI, Ti scrivo…, pp. 215-217.
50
Ibidem.
51
«Un’esercitazione scolastica raccolta nel Quaderno (1925-1927)» secondo Marco Dalla Torre.
Cfr.: DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, p. 14.
36
tante cose belle.»52.
Il continuo ricorso alla deissi spaziale (laggiù, lassù, là), l’insistenza dei
un’immagine che le è cara e che le è come sempre presente davanti agli occhi,
stanza. È necessario ricordare infatti che Antonia, all’altezza del 1926, sta
52
POZZI, Diari, pp. 29-30.
53
Già in Spazzolate di vento, la sua prima poesia, Antonia sembra descrivere un quadro
incorniciato dal telaio della finestra. Usa infatti l’espressione «mi spicca a m’incornicia» per
denotare il limite entro cui si esercita il suo sguardo poetico. Cfr., POZZI, Parole, p. 41.
37
scultura54, e che più tardi approderà alla fotografia55, intesa non come banale
Estetica: tutti indizi che sottolineano l’importanza che assume per lei l’idea di
profondo con il reale, specchio di una verità delle cose che sembra nascondersi
permane in essa, quasi immobilizzandola, traendola fuori dal tempo, se non fosse
un’evoluzione per cui questo piccolo mondo non è stato creato. Il paesello di
54
Cfr. l’introduzione di Graziella Bernabò a POZZI, Ti scrivo…, p. 14: «Dall’epistolario emerge
l’educazione di prim’ordine impartita ad Antonia, la quale poté integrare gli studi regolari con
lezioni private di disegno, lingue straniere e pianoforte, con viaggi di studio in Italia e, a un certo
punto, anche all’estero, nonché con la pratica di vari sport, come il tennis, il nuoto, l’equitazione,
lo sci, l’alpinismo, che le era particolarmente caro.». Si confrontino anche in ivi, pp. 52-53 la
lettera del 03 giugno 1923 ai genitori: «Sapete che ho finite quelle famose foglie a colori? Sono
venute davvero una meraviglia»; e sempre in ivi, p. 58 la lettera alla madre del 12 agosto 1925,
scritta dal passo Tre Croci: «Io non ho ancora disegnato niente, ma con la Maria [Giussani,
compagna di scuola, e inoltre figlia di un collega del padre] ci proponiamo di copiare qualche
cima, sperando di riuscirvi.»; infine sempre in ivi, pp. 59 – 60 la lettera alla nonna Nena del 22
gennaio 1926, in cui, dopo averla ragguagliata sulla pagella scolastica, scrive: «Le lezioni a casa
proseguono bene: di disegno sto colorando con le matite un ramoscello di quercia con le sue
brave ghiande. Al piano suono ora alcune Romanze senza parole di Mendelsshon, molto belle, e
la Rêverie di Debussy, difficiletta, specie per l’espressione.».
55
Cfr. il saggio di Ludovica Pellegatta “Ora intatta, ora sospesa”: Antonia Pozzi e la fotografia
contenuto in AA. VV., … e di cantare non può più finire… pp. 105-114 e il relativo apparato
fotografico. Ne riporto l’incipit: «Ora intatta, Ora sospesa, la fotografia per Antonia Pozzi è
tensione verso una continuità e un rapporto a tempo lungo con l’esistente, un tempo “debole” e
contemplativo che dà la parola alla vita, è possibilità di prolungare l’incontro con il mondo,
ricerca di un momento di equilibrio, più che del “momento decisivo”. Poesia e fotografia nella
Pozzi rappresentano sin dagli inizi due voci di una stessa verità.», in ivi, p. 105.
38
Antonia è una realtà che ama essere scandita solo dai versi famigliari dei suoi
abitanti, siano essi umani (la pastorella, il carrettiere), animali (la mucca), o
oggetti (i carri). Una realtà che ha bisogno di protezione come un bimbo pauroso
che si aggrappa alle gonne della mamma. Pasturo sembra essere lei stessa, un
bimbo che si inerpica al fianco della gran montagna che lo sovrasta. Ed è forse
per questo che Antonia ne resterà per sempre attratta: ce ne fornisce un riassunto
«… ti scrivo dal mio vecchio tavolo, dalla mia vecchia cara stanza 57. Fuori sta già
venendo sera. Guardo dalla finestra bassa e larga le cime dei pini contro il cielo pallido: erano
tre, qui davanti, fino all’anno passato; ma poi uno ammalò e gli dovemmo tagliare tutta la punta.
Adesso, a vederlo così monco, fa malinconia.
Dunque sono qui, dopo tanti mesi d’inverno, dopo tanta vita. Qui, a questo tavolo che
io chiamo il mio porto. Ho trovato sopra una sedia un giornale del 15 ottobre 1934 (“L’assassino
di Re Alessandro sarebbe certo Georgiev?”). Che silenzio, qua dentro, da allora. E io via, proprio
56
Cfr. in POZZI, Ti scrivo…, la nota in accompagnamento alla lettera a p. 215 che ci introduce
alla sua figura: «Cantoni [1914-1978] – che, a breve, sarà ospitato a Pasturo dai Pozzi per
rimettersi da una malattia polmonare – è uno dei principali allievi di Antonio Banfi. A. P. prova
per lui un sentimento d’amore, che inizialmente crede ricambiato; ma capisce presto di essere
per Remo soltanto un’amica, sebbene carissima. Cantoni fondò con Banfi la rivista “Studi
filosofici” (1940-1949) e successivamente fondò e diresse “Il pensiero critico” (1950-1962).
Elaborò, sulle tracce della filosofia banfiana, un pensiero definito “umanesimo critico” e
introdusse in Italia l’antropologia filosofica. Tra le sue opere si ricordano in particolare: Il
pensiero dei primitivi (1941); Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij (1948); La coscienza
inquieta. Sören Kierkegaard (1949); Mito e storia (1953); Umano e disumano (1958); Tragico
e senso comune (1963); Illusione e pregiudizio. L’uomo etnocentrico (1967); Che cosa ha
veramente detto Kafka (1970).».
57
Lecito chiedersi se la Pozzi abbia letto il testo di Virginia Woolf, A room of your own (Una
stanza tutta per sé), del 1929. Nella biblioteca conservata a Varese, che riproduce solo ciò che
la poetessa possedeva a Pasturo, è presente Flush, nell’edizione Mondadori del 1934 (Medusa,
41).
39
come una nave da carico per i mari, a raccogliere merci in tutti i paesi; e poi una mattina,
finalmente, torna a vedere la sua baia, la sua terra, si accosta al molo, apre tutte le stive… Anch’io
apro la stiva, calo giù grossi uncini, scarico la mia merce sulla banchina: la roba buona si tiene,
la cattiva si butta a mare. E tutti gli anni è così: quando rientro in questa stanza e guardo i rami
di fiori disegnati sulla tappezzeria e respiro questo odore speciale dei mobili, dello zoccolo di
legno, istintivamente, in un attimo, mi faccio come un esame di coscienza: tutto quello che ho
vissuto fuori di qui, quello che ho aggiunto alla mia anima e che queste pareti non sanno ancora,
mi si riassume così nitidamente nel pensiero, come se qui qualcuno mi domandasse ragione della
mia vita. Quando dico che qui sono le mie radici non faccio solo un’immagine poetica. Perché
ad ogni ritorno fra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e
chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri. E queste pareti se ne sono fatte
custodi, così che, quando rientro qui, tutto il mio passato, tutto quello che sono stata, per cui sono
– oggi – quella che sono, mi balza incontro ed io ritrovo la più completa me stessa. Qui non sono
solo raccolte tangibilmente tutte le immagini delle persone care, dei luoghi amati e non più
veduti, delle cose d’arte predilette, ma l’aria stessa è come se conservasse l’eco delle voci,
l’ombra dei volti, il senso delle ore vissute.
Ho tanta voglia che tu venga qui. Sempre, tutte le persone a cui ho voluto più bene, ho
desiderato che venissero qui; perché vederle qui è come una consacrazione, una benedizione
dell’affetto che mi lega a loro e mi sembra che poi non potrò mai veramente perderle, che qui
potrò sempre ritrovarle vive, anche quando saranno lontane e mi avranno dimenticata.
Oggi ho fatto una breve passeggiata fino a un bosco vicino. Fa ancora freddo, gli alberi
sono completamente nudi. Ma nei prati ci sono moltissimi fiori: le viole, le primule, i giacinti,
l’erica rossa sotto i castani. Le miosotidi sono piccole e chiuse: in maggio diventano alte, i prati
sono tutti azzurri. Quando verrai, ci saranno più fiori che erba. A pensare che tu vedrai questo
mio paese, queste cose umili, tutto mi sembra così angusto, misero, brullo: vorrei raccomandare
alle cose di farsi il meno brutte possibile, all’aria d’essere dolce, al sole d’essere chiaro, sapendo
che tu vieni.
Stamattina un uomo del paese, un vecchio, s’è fermato al cancello: ha voluto che
portassi alla mamma un pezzo del ramo d’ulivo che aveva preso in chiesa. Mi ha tanto
commosso. Qui non c’è che gente taciturna, rozza: ma io penso che se un giorno resterò sola e
verrò a vivere qui, il saluto di questi vecchi baffuti, di queste donne sdentate, il sorriso dei
bambini sudici che mi vengono nelle gambe, mi consolerà molto…».58
La soavità con la quale l’amato amico viene introdotto nel proprio porto più
realtà esterna: «questo mio paese, queste cose umili», chiamate quasi a
58
Ivi, pp. 215-217.
59
Cfr. per espressioni e sentimenti simili verso Pasturo, la lettera del 13 luglio 1929 ad Antonio
Maria Cervi, dove anticipa il tema del ritorno presente nella lettera a Cantoni: «Cervi caro, voglio
dedicare a lei questa prima sera che passo nel mio brutto dolce paese. Che cosa è un ritorno?
Una cosa che, per qualche ora, scioglie i groppi duri che separano l’oggi dall’ieri e fonde il
passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo. La mia anima di oggi, la
mia anima dell’anno passato, si sono ritrovate senz’urto e restano ancora abbracciate, stasera, in
questo mio studio strano, fatto di mobili vecchi, accattati un po’ dappertutto; lo zoccolo di legno,
40
colpire l’amato e farsi amare al posto suo.
più vera se stessa, esaminare le proprie evoluzioni scandite dallo scorrere del
tempo e dal mutare degli eventi, scandagliare il valore della merce raccolta in
tutti i paesi, buttando a mare quella cattiva, inutile, non furono meno
sofferente, che la porta, per reazione, a fondersi ancora più intimamente, quasi
«Cia cara, il silenzio è nelle nostre abitudini e non te ne chiedo perdono. Ho trovato qui
quello che prevedevo: ragazzine dipinte e ragazzi scemi che stanno a guardarle. Noi, per fortuna,
non conosciamo nessuno; stiamo sempre soli e ce la passiamo bene, nonostante il perfido tempo.
Appena posso giro la pineta con un’assetata smania di fanciullerie: le labbra me le dipingo col
nero dei mirtilli. Sulle pareti della sala da pranzo c’è affrescata una mirabolante flora alpina,
intercalata di quadretti e di figurine: sovra il mio tavolo c’è un roccione livido e ai piedi un nano
barbuto che addita. Più lontano c’è una fatina presso una cascata, che mi ricorda Rautendelein.
Perché ti racconto queste sciocche cose? Non so. So che ho il cuore gonfio di tutte le mie fantasie
di bambina. Ieri è stata l’unica giornata di sole, finora: siamo saliti ad un rifugio ed ho colto un
mazzo di stelle alpine, su un prato ripido, sfiorato di purissima brezza… Ti annuncio con dolore
che la Musa è morta: non so che cosa le sia successo, povera piccola. Ma chissà che oggi non
resusciti, tutta ammollita di pioggia, davanti a queste nubi soffocanti che premono sulla pietra
nera…»60.
l’armadio a muro, odoroso di pino, la finestra bassa e larga, il soffitto e le pareti irregolari gli
danno l’aspetto di una baita alpestre.», in POZZI, Ti scrivo…, pp. 90-91. Così invece alla nonna
Nena in una lettera del 25 agosto 1929: «Mia carissima Nena, da quattro giorni siamo tornati
nelle nostre brutte e care montagne.», in ivi, p. 94.
60
Ivi, pp. 92-93. Si tratta della lettera spedita alla Cia, l’amica Lucia Bozzi, da Madonna di
Campiglio il 05 agosto 1929.
41
In questo breve scritto possiamo notare alcune affiliazioni di Antonia rispetto a
la nota riportata nel volume da cui è tratta la lettera, «la piccola fata del dramma
1927.»63.
connessi alla dimensione del sogno, della fiaba, di ciò che è liminale e a volte
61
Cfr. ad esempio la lettera alla Nena del 22 gennaio 1926 in ivi, pp. 58-61, in cui è presente un
elenco di opere liriche amate fra cui: il Ballo in maschera di Verdi, il Faust di Gounod, la
Butterfly di Puccini, i Maestri Cantori di Wagner, la Carmen di Bizet, l’Hänsel e Gretel di
Humperdinck e il Carillon Magico di Pick-Mangiagalli.
62
Il riferimento di Antonia a questo compositore non è episodico. Nella lettera già citata del 13
luglio 1929 al Cervi Antonia scrive: «Prima di venire a scriverle, ho sonato le Fontane di Roma,
per levigarmi l’anima. […] Non è avvilente, Cervi, sentirsi più purificati per effetto della musica
che per effetto della propria volontà?», in ivi, p. 91. Come accennato in precedenza, Antonia
prende lezioni di pianoforte e la musica è sicuramente una delle arti che l’accompagnerà tutta la
vita. Le fontane di Roma che ella cita è un poema sinfonico, ossia una composizione musicale
per orchestra che sviluppa musicalmente un’idea poetica, concentrandola in un unico ampio
movimento. Erede diretta della musica a programma di epoca romantica. Fu composta da
Respighi nel 1916.
63
Ivi, p. 93.
64
Per comprendere il senso di questo aggettivo, si legga il saggio di Alessandra Cenni contenuto
in POZZI, Lieve offerta…, pp. 7-14, in particolare i seguenti passaggi: «Nella poesia di Antonia
Pozzi, come in quella dell’amato Rilke, avviene un’orfica dissoluzione della vita in canto. Il
destino di una vita diventa ritmo universale del tempo rifluendo nelle vene cosmiche. Il poeta
42
desiderio di evasione molto personali, si intuisce una vena sommersa della sua
anima, come trattenuta e sfogata nei versi quasi fosse un atto di ribellione: una
voce a cui aveva creduto sin da bambina ma che sapeva non sarebbe stata
legata negli ultimi anni universitari – gli anni della messa alla prova definitiva
del suo valore personale e poetico –. Si tratta del periodo dell’incontro con il
magistero del prof. di Storia della Filosofia ed Estetica Antonio Banfi65, al quale
più vicino ad Antonia Pozzi, anche per l’area linguistica da lei prediletta, è stato appunto Rainer
Maria Rilke. Egli più di ogni altro ha rappresentato il momento orfico del ‘900 come ricerca
incessante di un’armonia irraggiungibile. La poesia torna così al suo momento fondativo, quello
in cui, secondo il verbo di Nietzsche, sposa la retorica e la musica. […] Oltre alla tragica figura
del poeta [Orfeo] che perde per uno sguardo di desiderio l’amata Euridice rapita agli Inferi,
occorre soffermarsi sul significato della sua eccellenza nel canto, sulla sua capacità di ammansire
gli animali, di incantare la natura e fondere il proprio canto dì amore e di dolore con il cosmo
tutto. Nel Malte Lauris Brigge di Rilke, Antonia aveva studiato le parole che intendevano dare
forma a questo indicibile senso del tempo. La scalata di una montagna diventa vento e l’aria
stessa una vela in mare. Rilke vuole rappresentare le cose, nella loro semplice sussistenza, ma
mentre dà loro i nomi, le fa nascere. E mentre vivono contempla il frutto della loro morte, che si
prepara. Questo senso amoroso del tempo, il tempo cosmico, ciclico, è anche quello della poesia
di Antonia Pozzi, che non cede mai a tentazioni metafisiche o al culto del verbo, ma, nella sua
semplice sussistenza, analogamente a quella del suo amico Vittorio Sereni, aderisce ai ritmi
profondi della natura.».
65
«Antonio Banfi (1886-1957) insegnava Storia della filosofia ed Estetica presso la Regia
Università degli Studi di Milano. Estraneo all’idealismo imperante in quell’epoca nelle
università italiane, Banfi era vicino al neokantismo della scuola di Marburgo, alla fenomenologia
di Husserl, al pensiero di Simmel e di Scheler. Sulla base della filosofia tedesca contemporanea,
aveva elaborato un pensiero antimetafisico e antidogmatico, che fu definito “razionalismo
critico”. Successivamente aderì al marxismo. Negli anni 1940-1949 diresse la rivista “Studi
filosofici”. Molte le sue opere, tra le quali: La filosofia e la vita spirituale (1922); Principi di
una teoria della ragione (1926); L’uomo copernicano (1950); La ricerca della realtà (2 voll.,
postuma, 1959); Saggi sul marxismo (postumi, 1960). Per i suoi studi di estetica cfr. A. Banfi,
Vita dell’arte. Scritti di estetica e di filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli – G. Scaramuzza,
con la collaborazione di L. Anceschi e D. Formaggio, Istituto Antonio Banfi – Regione Emilia
Romagna, Reggio Emilia 1988 (“Opere”, V).», in POZZI, Ti scrivo…, p. 219. Banfi fu professore
della Pozzi nell’a.a. 1933/’34, quando tenne un corso di Storia della Filosofia su Nitzsche.
Probabilmente la Pozzi seguì anche il corso dell’anno seguente, pur essendo fuori corso, tenuto
su Spinoza. Banfi fu relatore della sua tesi di laurea su Flaubert, malgrado la Pozzi avesse seguito
il corso di Lingua e Letteratura Francese con Francesco Remigereau, sempre nell’a.a. 1933/’34,
dedicato in parte a “La vita e l’opera di G. Flaubert”. Questa scelta fu dovuta anche
all’importanza data alla metodologia adottata nella redazione di un testo di natura critica come
la tesi, piuttosto che all’argomento trattato. In merito a queste notizie e alla frequentazione di
Banfi da parte della Pozzi negli anni universitari e, infine, per un approfondimento circa i corsi
effettivamente seguiti, si veda M.M. VECCHIO, Gli appunti universitari inediti di Antonia Pozzi,
in AA. VV., … e di cantare…, pp. 333-358.
43
la Pozzi fece leggere la raccolta delle dieci poesie de La vita sognata,
Cervi, e quindi rientrante – dal suo punto di vista di allieva, in quel momento –
«Se non abbiamo notizia di un giudizio positivo di Banfi sui versi della Pozzi (ma
neppure di altre sue allieve del resto), non è difficile congetturare che in essi egli intravedesse
appunto un modo inadeguato di rispondere alla crisi e, in controluce, una visione del mondo
parziale. Banfi proponeva una storicizzazione della crisi, una superabilità per chi sapesse
collocarsi nel solco del divenire storico; il suo atteggiamento implicava una fiducia ottimistica.
Nella poesia dell’allieva doveva invece vedere sedimentate ragioni fragili, una reazione troppo
debole: eccedenze contemplative, tonalità estetico-ricettive (“femminee”), tendenze al
ripiegamento interiore, che poteva comprendere, ma non condividere
Le sue riserve nei confronti del soggettivismo, e verso figure della crisi predilette da
Antonia Pozzi e dai suoi amici più cari, dovevano d’altronde finire col sottovalutare qualcosa di
profondamente radicato in lei. L’atteggiamento di Banfi (consono peraltro al suo filosofare)
psicologicamente non poteva esser letto che come uno stimolo a proiettarsi oltre la dolorosa
densità delle esperienze attraversate, a non soffermarsi su di esse, a non volger lo sguardo
indietro – quasi come un invito a “dimenticare”, potremmo dire in altri termini. E con ciò
rischiava di compromettere quel sofferto riconoscimento della realtà (consegnato nella poesia)
da parte di Antonia Pozzi, che solo poteva far argine alla sua disperazione.»66
del mondo banfiano, rinnegando questi “sogni”, queste parole, questo “modo
Uno spazio importante proprio perché Antonia lo rintracciava nella sua relazione
tutte le voci che le dittavano dentro67, anche quelle apparentemente più distanti
66
G. SCARAMUZZA, Antonia Pozzi tra gli allievi di Banfi, in ivi, p. 42.
67
Mi riferisco a Purgatorio XXIV, quando Dante incontra Bonagiunta Orbicciani e nel
riconoscersi i poeti si rivolgono i seguenti versi: «Ma dì s'i' veggio qui colui che fore / trasse le
nove rime, cominciando / `Donne ch'avete intelletto d'amore'”. / E io a lui: “I' mi son un che,
quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando”.». D. ALIGHIERI,
44
da una immediata e razionale concretezza delle cose. La lotta struggente di
Antonia, ancora più dolorosa per noi da leggere nella consapevolezza che è stata
Vorrei proporre l’analisi di due poesie, Fiabe e Tempo69, in cui questo elemento
dove ricompare come importante fonte il libro di C.F. Wolff, I monti pallidi. Già
Graziella Bernabò nel suo Per troppa vita che ho nel sangue, analizza queste
poesie70 scritte in un anno molto critico, il 1935, l’anno della tesi sulla
l’implicito modello da soddisfare per aderire alla “scuola” filosofica che fa capo
al suo relatore, Antonio Banfi. Una scuola di pensiero che è anche un gruppo di
giovani studiosi e amici con il quale questa sua essenza tripolare si confronta
45
sospettoso nei confronti della lirica (o quantomeno di un certo modo romantico-
giovane donna come Antonia, ancora insicura del proprio valore e del proprio
immenso potenziale, sia stata infine travolta dalla sua stessa forza, proprio per
troppa vita che aveva nel sangue72. Ma questa vita, nelle sue lotte, prima di
Fiabe Tempo
71
«È verosimile che, nell’ambiente banfiano, Antonia Pozzi fosse sottovalutata, non già come
studiosa, ma piuttosto rispetto alle sue capacità poetiche e, quel che è peggio, alla sua stessa
personalità. La sua natura estremamente sensibile e vibrante e il legame, costante in lei, tra
istanza intellettuale e desiderio affettivo, lo stesso suo alto concetto della relazione, amicizia o
amore che fosse, sconcertavano e spaventavano i giovani del gruppo Banfi, senza peraltro
escludere una simpatia nei suoi confronti.». Mi permetto di ricalcare parte della bellissima
citazione che la Bernabò trae dal testo Filosofia e poesia della poetessa spagnola Maria
Zambrano, leggendo nel distacco fra Antonia e i suoi compagni della facoltà di Filosofia, lo
stesso distacco che si operò fra il logos poetico e il logos filosofico, già ai tempi di Platone e che
portò: «“alla vita rischiosa della poesia, quasi respinta ai margini della legge, maledetta, costretta
a vagare su accidentati sentieri, sempre sul punto di perdersi, esposta al continuo pericolo della
follia”. Il filosofo, – dice la Zambrano – “procedendo lungo la via della ragione, si pone al riparo”
dalla “luttuosa malinconia delle belle apparenze. La ragione è effettivamente la speranza. Ma a
costo di quali rinunce! Il poeta invece non rinuncia. Nessuno lo convincerà mai a rinunciare,
nessuno lo consolerà del giorno che passa, né lo persuaderà mai ad accettare il cinereo
trasformarsi degli occhi amati, il dileguarsi, nelle brume del tempo, del fantasma amato. Niente
e nessuno.”», in ivi, pp. 192-193.
72
Cfr. la poesia Sgorgo del 12 gennaio 1935 in POZZI, Parole, p. 344: «Per troppa vita che ho
nel sangue / tremo / nel vasto inverno. // E all’improvviso, / come per una fonte che si scioglie /
nella steppa, / una ferita che nel sonno / si riapre, // perdutamente nascono pensieri / nel deserto
castello della notte. // Creatura di fiaba, per le mute / stanze, dove si struggono le lampade /
dimenticate, / lieve trascorre una parola bianca: / si levano colombe sull’altana / come alla vista
del mare. // Bontà, tu mi ritorni: / si stempera l’inverno nello sgorgo / del mio più puro sangue, /
ancora il pianto ha dolcemente nome / perdono. // 12 gennaio 1935».
46
dietro la casa il prato parla,
i pallidi guerrieri fra le barance, la luce
le fanciulle che muoiono beve orme di pioggia sui sentieri.
per desiderio di sole –
Mentre tu dormi
e le capanne abbandonate anni di sole passano
fra le miosotidi, fra le cime dei làrici
le pianure e le nubi.
d’asfodeli in cima alle rocce –
II
porte che si spalancano
su tesori sepolti, Io posso cogliere i mughetti
arcobaleni che giacciono mentre tu dormi
infranti nei laghi – perché so dove crescono.
E la mia vera casa
Sali per la morena azzurra, con le sue porte e le sue pietre
tra filari di guglie grigie: sia lontana,
porti sulle spalle né io più la ritrovi,
un bambino ma vada errando
addormentato. pei boschi
eternamente –
18 febbraio 1935. mentre tu dormi
ed i mughetti crescono
senza tregua.
28 maggio 1935
Nella poesia Fiabe è racchiuso tutto il senso dell’amore di Antonia per il mondo
più pura, insegnando una bellezza magica che dona pace al cuore. Dico
73
Anche per queste due immagini si potrebbero cercare dei riferimenti, ma credo che siano usate
più con un valore di introduzione e conclusione al mondo del racconto, in modo da permettere
un collegamento fra lo spazio della fiaba e quello del reale. Una relazione dolce poiché si tratta
di una cornice creata dallo sguardo poetico della Pozzi (e dunque comunque allusivo e
metaforico). In ogni caso per il bambino addormentato si può considerare almeno la leggenda
de I fiori di Lagorài in WOLFF, I monti pallidi…, pp. 37-44, ove si narra dell’incontro fra una
pietosa donna, Dina, e un bambino smarritosi nel bosco, entrambi orfani di vero affetto.
47
quindi un’ascesa in montagna che si conclude ai bordi di un ghiacciaio (Sali per
‘alto’ per essere creduto: sul capo Antonia non porta l’alloro dei poeti ma una
dei cui resti – torri, castelli, fortezze – siamo ancora oggi testimoni in Europa).
Le fiabe sono il primo modo di orientare un bambino alla distinzione fra il bene
e il male presenti nel mondo, fra ciò che è permesso e ciò che non lo è: e quanto
avrebbe amato Antonia sentirsi sulle spalle il peso di quella dolce educazione
che l’avrebbe elevata, l’avrebbe fatta sentire perennemente in ascesa verso le sue
guglie grigie!74
74
Così scrive in una lettera alla cara amica Alba Binda il 20 giugno 1935 nel pieno della tempesta
sentimentale con Remo Cantoni (il quale, presumibilmente da fine maggio, aveva passato un
lungo periodo con lei e la sua famiglia a Pasturo per riprendersi da una malattia polmonare):
«Mia cara cara Alba, io mi sento più che mai Tonia Kröger, come diceva il povero Manzi, e
queste mie montagne sono le uniche cose mute e fedeli con le quali so intessere delle misteriose
trame di affetto. Credo veramente che il mio destino sarà di scrivere dei libri di fiabe per i
bambini che non avrò avuto. Tuffarmi nella realtà sarebbe un perdere il meglio di me stessa e
smarrire completamente il senso della mia vita.», in POZZI, Ti scrivo…, p. 219. Quasi con le
stesse parole si rivolge in due lettere del medesimo giorno a Remo Cantoni e a Vittorio Sereni:
«Forse il mio destino sarà davvero di scrivere dei bei libri di fiabe per i bambini che non avrò
avuti.». Cfr. ivi, p. 222 a Sereni e p. 218 a Cantoni con un “davvero” anticipato, subito dopo il
“forse”. Questo passaggio dal “credo” concesso ad Alba, al “forse” indirizzato ai due uomini,
insinua il dubbio che Antonia, nello scrivere, considerasse il diverso punto di vista dei referenti
sul problema. Probabilmente pensava che quello che si prefiggeva come un possibile obiettivo
per una vita attiva potesse essere visto quasi come troppo ingenuo, troppo al di fuori dai modelli
culturali dei due compagni, quasi una regressione rispetto al loro modo di intendere la letteratura.
È sicuramente uno slittamento linguistico interessante che andrebbe approfondito e che non resta
isolato raffrontando le tre lettere, molto simili ma non identiche per contenuto. Qui interessa
sottolineare il rapporto con le montagne, mute e fedeli, le uniche con le quali la poetessa sa
intrecciare misteriose trame d’affetto, come richiamo ad un destino che relazioni, intrecci il
mestiere di scrivere con una maternità universalizzata, poiché negata nella sfera privata.
48
Nelle quattro strofe centrali – tutte come inserite in inciso (vedi l’uso del trattino
scorti e ‘rubati’ durante la salita per poi essere rivissuti e descritti nel ricordo
della poesia –, Antonia compie una carrellata dei personaggi che l’hanno
accompagnata a scoprire via via le bellezze uniche della natura montana. Alberi,
arcobaleni che giacciono infranti nei laghi, sono tutti elementi di una natura
reale colta e riproposta con occhi di fiaba: sono infatti tutti75 accompagnati da
«Sugli alberi le donne / con i capelli verdi» si riferisce alle mitiche Anguane76,
ninfe presenti nella saga di Wolff Il regno dei Fanes77 pubblicata in Italia nel
successivi: «nelle cascate i nani / che sanno il destino». Questi personaggi infatti
rivelandole che la sua invincibilità sarebbe durata sino a che non si fosse sposata.
Le tre immagini seguenti della poesia Fiabe fanno invece riferimento all’altro
libri di Wolff I monti pallidi, che ho già rilevato come una delle fonti letterarie
La moglie dell’Arimanno:
75
Sono riuscita a trovare coincidenze per tutti i versi della poesia Fiabe con le leggende di Wolff,
tranne per: «Le pianure di asfodeli / in cima alle rocce».
76
Anche se il dettaglio dei capelli verdi le rende più vicine alle Krivapete. Cfr. F. NATIVO, I
Benandanti: Una storia senza tempo, Panda Edizioni, Castelfranco Veneto (TV) 2010.
77
Il libro è presente nella biblioteca di Pasturo della Pozzi, ora trasferita al Centro Internazionale
Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” di Varese.
49
«Sera d’estate. Una notte calma. Nell’acqua buia del lago la luna metteva un po’
d’argento. Una brezzolina lieve lieve scherzava fra i rami delle barance 78 e su per la corazza di
ghiaccio della Marmoléda correva uno scricchiolío aspro e continuo: perché si sa che, se l’aria e
l’acqua ogni tanto si riposano, il ghiacciaio non può mai fermarsi, e il suo corpo stanco geme e
rantola eternamente sul letto dei sassi. I soldati dormivano in un fienile e soltanto il loro
comandante stava desto, sulla sponda del lago, e tendeva l’orecchio nella notte silenziosa.» 79.
L’immagine de «le fanciulle che muoiono / per il desiderio di sole» può riferirsi
leggenda da cui prende il nome la raccolta, I monti pallidi, in cui si narra che il
finalmente trova la strada per giungervi, viene avvertito sui pericoli di questo
viaggio da due vecchi abitanti della Luna che incontra per via:
«– Un abitante della Terra non può restare a lungo nella Luna, spiegò il più vecchio.
Tutto è bianco lassù. Monti e pianure, boschi e città, laghi e fiumi splendono come fossero
d’argento, e gli occhi che non vi sono avvezzi fin dalla nascita perdono la vista, se restano esposti
per troppo tempo a quella luce abbagliante. D’altra parte, nemmeno un abitante della Luna
potrebbe vivere sulla Terra: verrebbe preso da mortale tristezza e in breve tempo la nostalgia per
il suo paese bianco e luminoso lo farebbe morire.»81.
78
In questo punto c’è una nota a piè pagina nel testo, che recita: «piccoli pini alti un metro, coi
rami a terra, che crescono sopra i 2000 metri.» Da questo si deduce che non fosse vocabolo
circolante o comprensibile ai lettori, ed è infatti la voce ladina per indicare i pini mughi, gli unici
a crescere a quell’altezza. Si confronti questo estratto dal sito ladinia.org che fornisce un
glossario ladino: «Il "pino" merita qualche parola di commento. Se è quello silvestre, ovunque
da noi è detto pin, evidentemente da p i n u; se, invece, è "pino cembro" si chiama thirm, thirmo,
thirum o, con suffisso, thirmol, dalla voce tirolese Zirm, scesa fin nelle nostre vallate e oltre.
Infine se è "pino mugo" continua una vecchissima parola e diviene ovunque barancio, barance.
Altra parola antica è quella che indica la "fronda d'albero" che tutti i ladini chiamano dasa.».
Proprio dall’uso di questo termine così specifico e dalla situazione dei soldati, connotati come
pallidi forse perché illuminati dalla luna o perché, essendo Fassani ossia della Val di Fassa,
vivevano nella regione dei Monti Pallidi, derivo la filiazione dell’immagine nella poesia.
79
WOLFF, I monti pallidi…, pp. 59-60. Per la leggenda completa vedi pp. 59-68.
80
Ivi, p. 13. Per un raffronto con l’intera leggenda cfr. pp. 13-27.
81
Ivi, p.
50
troppo a lungo nel regno e comincia ad avere problemi di vista. I due decidono
vecchi, malgrado fosse stata inizialmente felice e ammaliata dalla varietà e dalla
«Dal canto suo la principessa non si stancava mai di ammirare i prati ridenti di fiori di
ogni colore, i pascoli verdi, i laghi azzurri delle Alpi; e dichiarava di preferire di molto la bella
varietà della Terra alla bianca monotonia della Luna»82.
La soluzione finale al dilemma verrà offerta dal re dei nani Salvani che si prende
vivere nel regno del principe con il suo popolo senza essere molestato. Questa
prima coincidenza fra l’immagine della Pozzi e la principessa della Luna non
sembra essere del tutto calzante, ma credo sia importante comunque rilevare un
legame fra l’amore per il regno della Terra – un regno in qualche modo solare –
che sorge sul dosso roccioso della Dolèda. La fanciulla, «debole, anemica e
82
Ivi, p. 19.
83
Ivi, p. 23. I nani useranno lo stratagemma di “filare” la luce della luna.
84
Ivi, pp. 141-155.
85
Ivi, p. 141.
51
trovato un rimedio al proprio precario stato di salute, viene soccorsa da una
annuncia: «– Questa fanciulla ha il male della notte. Bisogna darle luce, molta
pericolo la sopravvivenza della sua benefattrice. Albolina rischia la vita più volte
nel corso della leggenda per la sua ostinazione a non voler restituire la luce
Il terzo riferimento, che ritengo il più calzante, è quello contenuto all’interno del
ciclo I figli del sole88, composto da tre leggende: I. Elba, II. Soreghina, III. Cian
Bolpin. Elba è la figlia del Sole che muore dopo aver dato alla luce la principessa
Soreghina, della quale si dice «che non poteva vivere se non quando splendeva
il sole.»89.
poesia Tempo, che analizzerò in seguito, per cui riferisco solo il nome della
86
La nota in merito nella stessa p. 141 riporta: «Le Bregostene sono esseri selvatici, in parte
umani e in parte bestiali. Hanno aspetto di donna, ma sono coperti di pelo e hanno artigli al posto
delle mani.».
87
Ivi, p. 142.
88
Ivi, pp. 159-189. È un ciclo a sé stante ma inserito nella raccolta de I monti pallidi.
89
Ivi, p. 165.
90
L’importanza per Antonia di questa leggenda all’interno dell’intero corpus, può essere
confermata dalla presenza, nell’indice dell’edizione del 1929 di WOLFF, I monti pallidi, di una
croce vicino al titolo.
52
Nei versi «porte che si spalancano / su tesori sepolti», mi sembra di ravvisare la
«Sotto la catena del Padon c’era un tempo una porta d’oro, sempre sbarrata, che dava
nel paese dell’Aurona, i cui abitanti avevano rinunciato alla luce del sole per poter ammassare
ricchezze in oro e pietre preziose. Un giorno nel soffitto si crea un forellino, attraverso il quale
un vecchio può ammirare la bellezza del mondo di fuori; ma ne rimane acciecato. Così il buco
viene turato, ma in tutti nasce la smania di uscire; soprattutto nella principessa Sommavida, che
resta a lamentarsi vicino alla porta. Giunge Odolghes, giovane re di Contrin, e per liberarla
sfonda la porta d'oro picchiando per sette giorni con la spada. Quindi se la sposa, sdegnando le
altre ricchezze; ma la punta della sua spada rimane splendente d’oro, tanto che l’eroe viene
soprannominato Sabja de Fek (Spada di fuoco). Gli abitanti dell’Aurona si disperdono per il
mondo e l’ingresso del sotterraneo viene dimenticato e sepolto dalle frane.» 91.
Restano in ultimo i versi «arcobaleni che giacciono / infranti nei laghi».
l’incipit:
«Nel lago di Carezza, che i Ladini chiamano Lèc del ergobando, si vedono riflessi tutti
i colori dell’iride. Gli altri laghi di montagna sono azzurri o verdi e talvolta neri: soltanto nel
lago di Carezza splendono insieme le tinte più diverse, azzurro e verde, rosso e giall’oro. Alcuni
credono sia il riflesso di pietre sepolte in gran quantità nel fondo del lago: ma questa non è una
buona spiegazione, perché i magnifici colori che si vedono sulla superficie dell’acqua son colori
d’arcobaleno, non di pietre preziose. E i Turalignes, gli antichi abitanti di quella regione,
chiamavano il lago di Carezza Acqua dell’arcobaleno, e raccontavano che, ai tempi dei loro
antenati, l’arcobaleno c’era veramente caduto dentro.»93.
che stava sulle sponde del lago di Carezza e che lui aveva deciso di rapire. Dopo
vari stratagemmi andati a vuoto, su consiglio della Stria del Masarè, una Strega
91
Cfr. la fonte web ilregnodeifanes.it pagina di ricerca sulla saga dei Fanes curata da Adriano
Vanin. Ha pubblicato nel 2013 con la casa editrice di Rimini, Il Cerchio, il libro Il regno dei
Fanes: analisi di una leggenda delle Dolomiti.
92
L’intera leggenda si trova in WOLFF, I monti pallidi…, pp. 69-72.
93
Ivi, p. 69.
53
che stava sul Catinaccio94, lo Stregone creò un arcobaleno che collegava il
Latemar, catena di monti a sud del lago, con il lago stesso, in modo da attrarre
l’Ondina che mai aveva visto una simile meraviglia, facendole abbassare la
avrebbe dovuto tagliare pezzi di arcobaleno per farne gioielli d’aria, invitando
la ninfa a seguirlo per scoprire quali altre meraviglie possedesse a casa sua. Lo
Stregone però non riuscì ad attuare nemmeno questo piano, in quanto appena
«alla fine afferrò l’arcobaleno, lo fece a pezzi e lo gettò nel lago. Poi si arrampicò sui
monti e non si fece mai più vedere. Intanto l’arcobaleno s’era disciolto e i suoi colori s’erano
sparsi sulla superficie dell’acqua, dove son sempre rimasti.»95.
Dopo aver illustrato passo passo la coincidenza delle leggende di Wolff con le
immagini presenti nella poesia Fiabe di Antonia, credo possa risultare più chiaro
biblioteca della poetessa, con certezza dalla sua adolescenza (1929), ma noi lo
ritroviamo in poesie del 1933 (Crepuscolo) e addirittura del 1935 (appunto Fiabe
e Tempo). Credo allora sia corretto sottolineare come queste fonti letterarie
legate al mondo della fiaba intessano un duraturo rapporto96 con la poesia della
94
Il gruppo montuoso del Rosengarten, a nord del lago.
95
Ivi, p. 72.
96
Con queste parole si esprime Antonia in una lettera a Remo Cantoni del 17 luglio 1935: «Tu
mi hai detto un giorno che io sembro sempre colta alla sprovvista dalle cose, svegliata alla vita
ogni giorno e ogni giorno stupita e impreparata: eppure dentro di me, nel mio mondo
sentimentale, c’è un grande senso di continuità. Alti e bassi, sì, burroni e vette: ma fra le vette,
54
Pozzi, a partire da una fervida immaginazione di fanciulla, connessa ad una
aperta. Antonia approda poi all’uso del fiabesco attraverso una scelta più
consapevole, ribelle sia rispetto a certi canoni culturali che la parte di lei più pura
e intima – ebbra di vita – sentiva sicuramente ristretti, come imposti; sia rispetto
parte, però, in questo voler mettere in versi le fiabe c’è anche un movimento
un’ulteriore spinta lirica, una forma più elevata, che possa aspirare alle sue vette,
quelle dell’anima. È giusto anche ammettere che questo modello fiabesco ‘alto’
parte della letteratura tedesca presente nella biblioteca della Pozzi, nonché della
cultura musicale da cui sono partita per il raffronto99. Mi sembra però che
cioè fra i momenti di più intensa sincerità spirituale, come una linea ininterrotta, come il crinale
delle montagne, ed una, l’ultima, la più alta, non ci sarebbe se non ci fossero le precedenti…»,
in POZZI, Ti scrivo…, p. 224.
97
Cfr. ad esempio la poesia Odor di verde in POZZI, Parole, p. 321, dove la montagna non è
direttamente nominata ma è evocata in tutte le relazioni con gli altri elementi naturali che
l’attraversano e la sustanziano: «Odor di verde – / mia infanzia perduta – / quando m’inorgoglivo
/ dei miei ginocchi segnati – / strappavo inutilmente / i fiori, l’erba in riva ai sentieri, / poi li
buttavo – / m’ingombran le mani – // odor di boschi d’agosto – al meriggio – / quando si rompono
col viso acceso / le ragnatele – / guardando i ruscelli il sasso schizza / il piede affonda / penetra
il gelo fin dentro i polsi – / il sole, il sole / sul collo nudo – / la luce che imbiondisce i capelli –
// odor di terra, / mia infanzia perduta. // Pasturo, agosto 1934.». In questa poesia c’è tutto il
ritmo del passo che ascende, guadagna la vetta, si fa natura.
98
Enzo Paci, amico e compagno di università, dopo aver letto alcune poesia di Antonia, le disse:
“Scrivi il meno possibile”. Per un approfondimento in merito cfr. cap. III di questa tesi e lo stesso
diario della Pozzi nelle sofferte pagine del 4 febbraio 1935: «Nessuno mi toglie dall’anima il
giudizio di Paci» in POZZI, Diari, pp. 37-41.
99
Cfr. la lettera alla Nena del 22 gennaio 1926 in POZZI, Ti scrivo…, p. 60.
55
Antonia cerchi, almeno in queste poesie, dei modelli a lei più cari, più vicini, più
quella parte innocente dell’uomo che crede ancora nei sogni e che non deve
Riporto nuovamente i versi della poesia Cose100, ma stavolta per intero: «Questo
pugno di terra / che raccolse / per me – sul Palatino / la tua mano pura // io
verserò nell’urna / di smorta argilla / che sul rosso lido di Selinunte / un pescatore
perdo il senso e il tempo / della mia vita – / se cerco nella sabbia / il sole e il
pianto / dei mondi – / se getto nelle cose la mia anima / più grande – e credo /
la mia capacità di credere alle immense magie che la mia anima vede nelle cose,
nella relazione simbolica che si instaura fra di esse (siano eventi personali o
storici, gesti, persone). Non svalutare la mia anima che ricerca la sua eternità
Permane, dopo la lettura di Cose, il senso di uno scorrere naturale del tempo che
100
POZZI, Parole, p. 293.
101
In questi versi si manifesta forse la ribellione di Antonia verso la concezione religiosa
dogmatica e cattolica di Antonio Maria Cervi in cui la giovane non si ritrovava. Il contrasto fra
i due su questo argomento è indicato da suor Onorina Dino nell’introduzione a POZZI, Parole, p.
10: «Questo amore, idealizzato, purissimo e appassionato al tempo stesso, trova però motivi di
scontro, non solo nella profonda diversità di temperamento e di carattere dei due innamorati, ma
in modo particolare nelle differenti convinzioni religiose; scontro che vede le punte più accese
nel 1932, perché Antonia, nonostante l’amore, non accetta di piegarsi a una fede che non sente
propria e alla quale vorrebbe arrivare per convinzione personale, più che per condiscendenza.».
56
può essere fermato in modo altrettanto naturale solo seguendo il cammino della
propria anima. Già nel Natale del 1926 Antonia annotava nel suo diario – in
modo veramente precoce per la sua età e anticonvenzionale rispetto alla classe
«È passato anche questo Natale. Giorno lieto, di una letizia un po’ tradizionale, come il
panettone e il tacchino, come il vischio porta-fortuna, come il Presepio o l’Albero di Natale;
giorno dunque di festa, ma, come ogni data singolarmente importante e solenne, giorno di
rimpianto per quelli passati. Sentimento strano, ingiusto in me, che sono ancora quasi bambina,
che dovrei guardare solo all’avvenire, fiduciosa, serena! Forse gli anni scorsi sentivo così;
quest’anno, invece, no; è diverso, non so perché. Ho paura, e non so di che: non di quello che mi
viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge
così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena
che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole
di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, così anche
del tempo che passa resta a noi la traccia. Forse è perché quella rimasta in me è particolarmente
lieta, forse perché, se pure alcunché di doloroso o violento è passato nella mia vita tranquilla, io
ho vissuto questa vita intensamente, godendo quasi della mia stessa sofferenza, esultante per la
gioia di poter vivere dentro di me, di sentirmi dentro, chiusa come in uno scrigno, un’anima,
un’anima palpitante, ridente, nostalgica, appassionata; è forse per questa piena di sentimenti,
per cui in una giornata soffro e godo ciò che apparentemente si può soffrire e godere in tutta
un’esistenza che rimpiango il passato, che adoro il presente, che non desidero l’avvenire; perché
sono contenta di essere io, con i miei difetti e con le mie poche virtù, perché non so se in avvenire
potrò ancora essere così.»102.
Ricompare qui l’immagine della rena come metafora del tempo che ci aiuta a
chiarire perché in Cose abbia poi scelto proprio quell’elemento della natura – la
sabbia – per significare la condensazione del godere e del soffrire: una crasi che
è ciò che sostanzia e differenzia ogni granello dall’altro. Qual è allora il valore
del tempo che la Pozzi ritrova nella fiaba? Credo sia l’incanto di un momento
importanti verità sulla vita per generazioni, proprio come Antonia voleva fosse
102
POZZI, Diari, pp. 30-31.
57
la sua poesia. Fra i versi di Tempo, Antonia cerca parole e parabole “di un tempo
che fu” in grado di narrare con voce antica fatti del cuore dolorosi che le
altro rapporto di relazione, ossia quello fra il mondo di fiaba che caratterizza
poetessa sta vivendo un momento difficile con Remo Cantoni: nell’autunno del
ricambiato con la stessa profonda intensità e totale dedizione che lei vi aveva
riversato103. Per Antonia incontrare Remo era stato come Rinascere: dopo anni
amore a cui dedicare canti di Bellezza, porgendoli come una Lieve offerta, su Le
Mani forti di lui104. Ma l’inverno si fa lungo, e Antonia confida nel diario già in
febbraio105 e poi in marzo106 la fatica della relazione con Cantoni, ancora una
103
Per i rapporti fra Remo e Antonia e i relativi fraintendimenti si confronti BERNABÒ, Per
troppa vita…, pp. 187-197. Nel capitolo relativo, (pp. 179-189) l’autrice analizza le relazioni
che Antonia intesse con i suoi compagni di università, il gruppo legato al docente di Estetica e
Storia della Filosofia, Antonio Banfi.
104
Quelle in corsivo sono tutte poesie scritte per Remo Cantoni sul finire del 1934. Ne riporto i
titoli e le pagine relative a POZZI, Parole, integrando con le altre di quel periodo: Rinascere, del
24 ottobre-8 novembre, pp. 322-324; Tre sere, 1° dicembre, pp. 325-326; Secondo amore, 4
dicembre, pp. 328-329; Bellezza, 4 dicembre, pp. 330-331; Lieve offerta, 5 dicembre, p. 332; Le
mani, 6 dicembre, pp. 333-334; Pausa, 7 dicembre, p. 335; Confidare, 8 dicembre, p. 336; Le
tue lacrime, 15 dicembre, pp. 337-338; L’àncora, 16 dicembre, p. 339. Al 31 dicembre succede
qualcosa che interrompe questa progressione positiva della poesia e del sentimento con Inverno
lungo ad annunciare la prima caduta delle illusioni.
105
Cfr. annotazione del 04 febbraio 1935, in POZZI, Diari, pp. 37-41.
106
Ivi, pp. 44-46, annotazione del 12 e del 21.
107
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 187-197 per il piano ideale; per quello pedagogico, si
confrontino le pagine dei Diari relative al 1935, particolarmente quella del 12 e del 21 marzo in
58
Remo è ospite in primavera a Pasturo per ristabilirsi da una malattia polmonare
e qui Antonia ha modo di misurare tutta la loro distanza, come confida a più
riprese a Remo stesso, a Vittorio Sereni e ad Alba Binda108 nelle lettere a loro
Nel momento in cui avviene la stesura di Tempo che porta in calce la data del 28
maggio 1935, credo, però, che Antonia sia agli inizi di questa convivenza
allontana dall’idea della rinuncia alla sua poesia. Il 17 maggio muore suicida il
POZZI, Diari, pp. 44-46. Anche la fine della pagina del 4 febbraio può dare un’idea della
distorsione di un legame che dovrebbe essere fra pari, in ibidem, p. 41.
108
Cfr. in particolar modo i seguenti passaggi rivolti ad Alba Binda in POZZI, Ti scrivo…, p. 219,
e a Vittorio Sereni, in ivi, pp. 221-222. All’amica: «Oggi, in questa pausa di solitudine [Remo è
andato con la madre di Antonia a Milano], non so cavare nessun senso da tutti i giorni che ho
passati qui – quasi un mese, ormai. Mi sembra che quel sentimento che mi ha riempita durante
un lungo inverno sia andato giorno per giorno disfacendosi, al di sotto di tante piccole cure
materiali, e come sminuzzandosi in tante discussioni che continuamente svelano nuove diversità
e nuovi abissi. Di modo che forse l’esser venuti a questa prova, se ha un po’ logorato il mio
sistema nervoso, in un certo senso non è però stato un male, perché mi ha aiutata – come dici tu
– a liberarmi dagli idoli e a vedere in faccia la realtà. Credo che ora della fine potrò dire di
conoscere la vita molto meglio di quel che la conoscessi prima: e questo, anche se distrugge
molto idealismo e molta poesia, può sempre servire.». A Vittorio Sereni chiarisce in immagine
poetica questa distruzione dell’idealismo e della poesia, usando la metafora del velo d’acqua:
«Non so: da tutti questi giorni che ho vissuti non riesco a trarre nessun senso. Sono qui, in questa
pausa di silenzio, come un velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta
di precipitare ancora. È come se avessi tagliato tutti i legami col mondo di fuori, a beneficio di
un mondo che ha già la sua data di morte, che forse non esiste neppure come mondo a sé, ama è
solo il morire di tutto un lungo spazio di vita. […]. Quanti spaventosi abissi, fra Remo e me. Di
gusti, di sensibilità; di moralità, soprattutto. E questo soprattutto è terribile: la mia assoluta
inadattabilità alla vita pratica, il frantumarsi di tutta la mia unità di vita quando mi si porti fuori
dell’atmosfera irreale in cui m’ha cresciuta la solitudine. Ma io non so quanta ragione abbia
Remo dicendo che vuol fare di me una vera donna: io credo e temo che una vera donna non sarò
mai, che anzi, cercando malamente di esserlo, finirei col perdere la parte più vera e meno banale
di me.». Si ripropone, raffrontando le due lettere, lo stesso slittamento nelle immagini che danno
forma ai contenuti che avevo analizzato in nota n. 73, p. 48: più lirica con Sereni, alla ricerca di
una risposta più totalizzante, più risolutiva di un intero modo di vedere la vita che però non neghi
la sua intima essenza. A Remo rivolge parole molto simili a quelle indirizzate a Sereni,
scrivendogli: «sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po’ d’acqua ferma per un attimo
sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora.». Sparisce il
poetico velo d’acqua, o non è ancora nato, visto che la lettera a Cantoni è di un giorno precedente.
Per un approfondimento in merito alla scrittura epistolare di Antonia Pozzi si legga almeno il
capitolo IV degli studi di M.M. VECCHIO, Perché la poesia ha questo compito sublime: Antonia
Pozzi. Otto studi, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (No) 2013, pp. 95-103.
59
suo compagno di università e amico, Gianni Manzi, il quale stava scrivendo una
resistere alle Intemperie causate da questa drammatica fine, scrivendo: «In rete
attimo di pace in quel mondo fanciullesco che ho delineato con l’analisi di Fiabe:
una pace momentanea rispetto al dubbio sulla validità della sua poesia come atto
di resistenza nella lotta fra Geist (spirito, arte) e Leben (vita)110. Un’Ora intatta
in cui: «Nuovo, / come voce di donna mattutina / in paese di mare ov’io sia
giunta – a notte – / m’è questo disco di vecchia canzone: / che una danza ricanta
/ ed alla soglia / – singhiozzando fra risa – mi conduce / l’ora intatta, col passo /
di bimba scalza.»111.
selièttes in ladino) narra dell’amore sbocciato un’estate sui pascoli della Val
presenti in abbondanza sui prati attorno al torrente che taglia la valle. Ciompo
109
In POZZI, Parole, p. 378.
110
Questo conflitto che nascerà in sede critica nell’animo della Pozzi durante la frequentazione
delle lezioni universitarie del prof. Antonio Banfi, non era sentito originariamente dalla poetessa,
secondo quanto afferma nelle conclusioni del suo libro la Bernabò. Cfr., ID., Per troppa vita…,
p. 306.
111
Cfr. la poesia Ora intatta in POZZI, Parole, p. 377.
112
Nelle Dolomiti di Fiemme.
113
In ladino ciompo significa proprio zoppo.
60
insiste per conoscere le origini della ragazza che rivela di essere stata allevata
mattina seguente per aspettarla, ma lei non si fa più vedere per molti giorni. Una
d’inverno alcuni giovani del paese, insospettiti dalla sua assenza, si recano alla
sua capanna e trovano attorno ad essa, invece che neve abbondante come ve ne
«Intorno alla tambra c’[è] sempre lo stesso prato fiorito, e anzi ora le miosotidi
cresc[ono] fin dentro la capanna. Ciompo dorm[e] tranquillo nello stesso posto, col suo
mazzolino di selièttes fresche nelle mani. Gli uomini […], d’accordo che dove[sse] esserci sotto
qualche stregoneria, deci[dono] di nascondersi sul tetto per cercar di scoprire qualche cosa.»114.
Vedono allora Jendsàna che viene a trovare Ciompo, gli mette nelle mani un
fresco mazzolino di miosotidi e pronuncia strane frasi sul tempo che avrebbe
in lontra e fugge. La vista di questa scena misteriosa rafforza negli uomini e negli
altri abitanti del paese la convinzione che Ciompo sia caduto sotto un
114
Cfr. WOLFF, I monti pallidi…, pp. 101-102.
115
Jendsana dice: «– Ora devo aspettare altri sette anni prima di riaverti». Successivamente, dopo
che altri ragazzi sono saliti a spiare lei e Ciompo dice: «– Ora devo aspettare tredici anni prima
di riaverti.». I numeri 7 e 13 ricorrono con frequenza in queste leggende e sono legati alla
simbologia della luna. Per le citazioni della leggenda cfr. Ibidem.
61
incantesimo e fino alla primavera nessuno ha più il coraggio di salire alla
vecchio che aveva fama di stregone. Egli incolpa le lontre, che, ritenute
pericolose, vengono sterminate. Del destino dei due innamorati non è precisato
Come si vede, gli elementi che ricollegano questa storia alla poesia Tempo non
poesia è divisa in due tempi. Nel primo tempo Antonia si concentra sullo scorrere
delle stagioni che il tu con cui è in relazione non può vedere perché dorme117,
proprio come dorme Ciompo nella sua capanna mentre si passa dall’autunno alla
tu dormi / anni di sole passano / fra le cime dei làrici / e le nubi. //». Ma Antonia
non perde tempo, osserva tutti i segnali che la natura, seguendo il proprio corso,
relazione le cose, cadenzando il sonno del tu, inserendovi la sua veglia: «La neve
116
Ivi, p. 104.
117
Presumo che questa poesia sia stata pensata per Remo Cantoni, il quale, essendo salito a
Pasturo per rimettersi da una malattia, avrà avuto bisogno di molto riposo. Questo sonno può
essere forse anche connesso all’impossibilità dell’amato di vedere il mondo naturale attraverso
lo sguardo di profondo mistero con cui lo osservava Antonia, e può essere dunque considerato
un sonno dell’immaginazione. Non ci sono chiari riferimenti nel testo, né dediche.
62
in alto / struggendosi dà vita / al vento: / dietro la casa il prato parla, / la luce /
beve orme di pioggia sui sentieri.»; poi, nel secondo tempo della poesia, si
risveglio del suo amato Ciompo per anni. La simbologia dei due fiori però è
differente: mentre le miosotidi118 sono il simbolo del ricordo d’amore e dalla sua
«Convallaria majalis è il neologismo latino […] per indicare il “giglio di maggio delle
valli”, ovvero il mughetto. I romani usavano adornarsene alle Calende di Maia, […] per
festeggiare il ritorno della bella stagione. Il 1° maggio 1561, qualcuno ne regalò un rametto a re
Carlo IX, il quale decise di inaugurare una nuova moda: d’ora in poi, ogni 1° maggio, avrebbe
donato mughetto alle donne della corte. Il fiore diventa così anche l’emblema degli incontri
amorosi, tanto che nacquero in Francia i Bals du mughet, in cui le fanciulle vestivano di bianco,
i signorotti portavano il mughetto all’occhiello e, [durante quest’] unico ballo, i genitori […] non
erano ammessi.»120.
118
Cfr. per questa simbologia legata al fiore, il libro di C. SALVY [M.-M. POISSON] Il linguaggio
dei fiori, Edizioni Corticelli, Milano 1953, pp. 90-91: «Il suo nome deriva dal greco e significa
orecchio di sorcio. Come ognuno sa è il fiore del ricordo. La sua leggenda ci viene dalla
Germania, patria del fiore azzurro. Si racconta che due giovani fidanzati passeggiavano un
giorno sulle rive del Danubio là ove nascono i nontiscordardime bagnati dalle onde. La fanciulla
prese ad ammirare i fiori, il ragazzo innamorato li volle cogliere ma per la sua imprudenza
scivolò nelle acque e la corrente lo trascinò via. Prima di sparire nei gorghi era tuttavia riuscito
a tendere all’amata un mazzolino di miosotide gridandole: “non mi dimenticare” e da quel giorno
in Francia o in Inghilterra, in Brasile o in Olanda, in Finlandia o in qualsiasi altro paese, il
miosotide si chiama anche non ti scordar di me.».
119
«Secondo una leggenda cristiana i primi mughetti sarebbero nati dalle lacrime della Madonna
sparse ai piedi della Croce: per questo motivo si dice che il loro colore verginale simboleggia la
Purezza. S’incontra come simbolo di Salvezza e attributo del Cristo in molte raffigurazioni del
ciclo della nascita di Gesù e anche del Giudizio finale, dove spicca sempre nella parte del dipinto
occupata dai beati», in A. CATTABIANI, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996, pp. 574-575.
120
Rielaborato dal sito vogliadifrancia.it
63
Fiore bianco, piccolo, è da sempre associato alla purezza, all’innocenza, alla
significa infatti anche «la fine delle pene e il ritorno della felicità.»121. Si può
curare l’amato, di ballare con lui, lontana da occhi adulti e indiscreti; che volesse
ricercare un tempo di pace al di là dei conflitti che li avevano colpiti nei mesi
precedenti; o più semplicemente che volesse guarirlo, mettendo fine alle sue
proprio nel suo ciclico e incessante ricomparire: «E la mia vera casa / con le sue
porte e le sue pietre / sia lontana, / né io più la ritrovi, / ma vada errando / pei
il metronomo di questa musica del sogno che batte al ritmo della volontà di
tornerà a partecipare alla vita; proprio come il finale della leggenda La capanna
121
«Il mughetto viene festeggiato al primo maggio più che per una civetteria, per una
superstizione o meglio ancora per una religione. Il suo culto suscita l‘entusiasmo nella
popolazione di una capitale, entusiasmo che si spegna al di là della periferia. (Colette). Il suo
nome significa “giglio della valle”, era conosciuto in Francia nel XII secolo e gli innamorati già
da allora andavano a cercarlo all’ombra delle querce o sulle rive dei ruscelli. Si dice che
l’usignolo attenda la prima fioritura del mughetto per volere nel folto della foresta e celebrarvi i
suoi amori. Il mughetto, fiore di maggio, è il fiore della gioia che annunzia la fine delle pene e il
ritorno della felicità.».
64
delle miosotidi, la poesia resta aperta, lontana da una visione sul destino dei due
innamorati122.
festa:
«Tu dormi, che t’accolse agevol sonno / Nelle tue chete stanze; e non ti morde / Cura
nessuna; e già non sai né pensi / Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. / Tu dormi: io questo
ciel, che sì benigno / Appare in vista, a salutar m’affaccio, / E l’antica natura onnipossente, / Che
mi fece all’affanno.»123.
Questa lirica, che è fra quelle studiate dalla Pozzi nel volume dei Canti presente
nella sua biblioteca pasturese, è informata sul non-senso di un tempo che scorre,
poetessa:
122
«E se sono le cose, se è il mondo che ci rende lontani e mi fa cattiva, poterlo riavere per me
lontano dalle cose e dal mondo.». Così si esprimeva Antonia in merito a Remo nel suo diario, il
12 marzo 1935. Cfr., POZZI, Diari, p. 46.
123
G. LEOPARDI, Canti, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, p. 303, vv. 7-14.
65
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.»124.
possibilità di un legame più profondo con la vita e con l’amato proprio grazie
alla forza energica della natura che costantemente vive e tutto trasforma. Il
immaginare che appartenga agli anni liceali, o forse ancora ad anni precedenti,
se si paragonano certe considerazioni sul tempo presenti nei diari, così simili allo
le sarebbe dolce iniziare l’anno a scuola, fra le abitudini consuete e le cose più
care. La Pozzi sottolinea con un deittico Ecco!, come il Leopardi (Ecco è fuggito
«Sei minuti soli, e poi… e poi, che cosa, in fondo? Dodici tocchi, come le altre notti, e
neppure una sosta, neppure un distacco; perché crucciarsi? Sono gli uomini, col loro
convenzionalismo, che hanno creato l’affanno di questi istanti; se il calendario fosse diverso e la
fin d’anno cadesse un’altra notte, questa di S. Silvestro passerebbe inavvertita, come tutte le
altre… Ecco! Suona alla pendola! Perché mi sembra che i rintocchi mi martellino il cuore? …è
finito. Perché non succede nulla? Tic-tac, tic-tac, tic-tac…: uguale, monotono, inosservato; fino
ad un’altra notte come questa, per 365 giorni ancora. Un altro anno di vita. Antonia Pozzi, 3
gennaio 1927.»125.
124
Ivi, p. 304, vv. 28-46. I versi 45-46 sono sottolineati due volte.
125
POZZI, Diari, p. 33.
66
promessa di speranza e di riconciliazione con l’ordine naturale dell’esistenza.
Ma il sintagma Mentre tu dormi si può forse riferire anche alla poesia Castello
per quanto riguarda la raccolta da cui è tratta questa lirica, ossia il Libro per la
poesie dedicate al tema della nostalgia, della fine del sogno, dell’illusione vana,
infinitamente più umile che non può – e forse non vuole – raggiungere le altezze
meditative e assolute del recanatese. Già dal primo componimento, Sera della
domenica, «il Poeta, ebro di morte, / viene a patti / con la Disperazione / che gli
offre il domani con tutte / le sue piccole ire sorde, / le sue facili rassegnazioni, /
mentre gli ride in faccia / perché non seppe ancora / morire di fame!»127. Le
liriche sono variamente segnate e sottolineate dalla Pozzi; con un segno prima
del titolo, all’inizio del componimento, come una sbarra “/” si trovano Sera
della domenica, Le illusioni128; con due segni “//” Elemosina nel sonno129,
126
In Libro per la sera della domenica, in S. CORAZZINI, Poesie edite e inedite, a cura di S.
Jacomuzzi, Giulio Einaudi Editore, Torino 1968, p. 150. Castello in aria è dedicata all’amico
G.W. Sbordoni. Tutte le poesie della raccolta domenicale riportano una dedica.
127
Ivi, pp. 141-142.
128
Ivi, p. 145.
129
Ivi, p. 144.
67
Dialogo di Marionette130, Stazione sesta131; ne L'ultimo sogno, sottolinea «Ah!
Sono forse io colui / che non dormirà più, / che non sognerà più / fino alla
non sono segnate. Quasi per rispondere alla domanda sottolineata ne L’ultimo
Ma se tu non piangerai,
come allora, per una
improvvisa tristezza,
per una melanconia
senza causa, mia
piccola tenerezza,
come potrò questa sera,
mentre tu dormi e sogni
la mia bocca, fuggire?
nuova compagna che personifica. Il pianto di quel tu, l’illusione di una comune
130
Ivi, p. 146.
131
Ivi, p. 147.
132
Nell’edizione Einaudi in realtà suona: «Ah! sono io dunque colui / che non dormirà più / che
non sognerà più / fino alla morte?», ivi, p. 149. La poesia si trova alle pp. 148-149. Quella citata
è la versione letta da Antonia nella sua edizione.
133
Ivi, p. 143.
134
Ivi, p. 151.
135
Ivi, p. 152.
68
castello / della Nostalgia». L’emozione ha quasi il compito di una regina in grado
Cosa filtra di questa poesia in Tempo della Pozzi? Credo, oltre alla possibile
memoria del verso, l’idea di un’eternità fatata e fatale che protegge lo statuto del
desiderio, del sogno. Per il resto, i versi di Corazzini sono del tutto affidati
definitivo destino del poeta; per la Pozzi, come già sottolineato, vi è invece una
Dopo aver esemplificato in che modo la relazione con la natura può essere intesa
come funzione letteraria nella poesia della Pozzi, ho creduto doveroso saggiare
la relazione ambientale più duratura che Antonia esprime nei suoi testi: quella
poetessa, ho esposto la mia posizione sul rapporto che legava Antonia alla madre
Lina, per poi indagare il significato profondo che le fece individuare nelle Grigne
di Pasturo le sue mamme montagne. Nel confronto con altri luoghi dell’anima,
all’analisi della relazione di Antonia con una fonte letteraria molto presente nella
sua poesia, quella legata alle leggende dolomitiche e al lavoro dello scrittore Karl
69
Felix Wolff. Queste fonti non sono solo riproposizioni all’interno di una
particolare poesia di certe immagini lette e amate, ma sono anche serbatoi attivi
Pozzi, vorrei approfondire alcune relazioni personali con autori viventi che
personaggi vicini alla famiglia (Elvira Gandini, Alba Binda, Camillo Giussani).
70
1.a. Scrittori, poeti e alpinisti
In una lettera inviata alla madre, Antonia fa un gioioso resoconto delle sue
proseguire con l’attività alpinistica. Così scrive, con ritmo allegro di canzonetta,
alla madre, in partenza per la sua prima scalata con la guida di Oliviero Gasperi:
136
«Nel 1923, intanto, a soli 11 anni, Antonia si iscrive alla Sezione di Milano del CAI. Sarà un
rapporto duraturo: la sua tessera, custodita nell’archivio di Pasturo, reca tutti i regolari bollini,
ininterrottamente fino al 1938, l’anno della sua morte.». Cfr., DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la
montagna, p. 16.
137
Ivi, pp. 15-16.
138
«Qui il nostro arrivo ha portato un sole meraviglioso, che ci ha permesso ieri di fare una
magnifica passeggiata di due ore solamente fino a un delizioso laghetto alpino, circondato da
ripidissime rupi a strapiombo. Che bel posto! Abbiamo colto tanti tanti fiori lungo la strada,
abbiamo fatto una spanciata di mirtilli e ci siamo divertiti molto.», in POZZI, Ti scrivo…, p. 55.
139
Cfr. la lettera dell’agosto 1925: «Il mio piede è andato magnificamente…» in ibidem e
BERNABÒ, Per troppa vita, p. 29: «Similmente l’amore per la montagna e le scalate non si risolse
per Antonia in un semplice fatto sportivo, ma ebbe sempre un significato esistenziale profondo,
fu cioè una ricerca a volte anche ai limiti del sacrificio (aveva una debolezza congenita ai
legamenti degli arti che le rendeva difficile arrampicarsi), di essenzialità, di purezza, di forza.»
71
niun dirupo la spaventa. / L’appetito è colossale: / cara mamma, “vale, vale”.»140.
comprensione rispetto alla tensione del corpo che ricerca la sua volontà di vivere
al di là del proprio stesso peso, sfidando la roccia nello sforzo dell’ascesa. Nasce
poesia Dolomiti141, del 13 agosto, e che ripete a distanza di più di dieci giorni
(25 agosto), ormai tornata a Pasturo, in una lettera entusiastica alla nonna
Nena142:
Non monti, anime di monti sono Soli con una buona guida si può andare
queste pallide guglie, irrigidite ovunque. E, credi, la montagna è una palestra
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo insuperabile per l’anima e per il corpo. Nel
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo, salire, non si è che carne pieghevole e istinto
con l’arcuata tensione delle dita, felino aggrappati alla rupe pungente. A
con la piatta aderenza delle membra, palmo a palmo, con l’arcuata tensione delle
guadagn[i]amo la roccia; con la fame dita, con la piatta aderenza delle membra, si
dei predatori, issiamo sulla pietra guadagna la roccia. E poi, in vetta, quando ti
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso, vedi intorno un anfiteatro di guglie e di
inalberiamo sopra l’irta vetta ghiaccio, o da una cenghia esilissima, guardi,
la nostra fragilezza ardente. In basso, sotto lo strapiombo affogata nella fluidità
la roccia dura piange. Dalle nere, vertiginosa, la falda verde da cui balza il
profonde crepe, cola un freddo pianto getto estatico di massi che hai conquistato,
di gocce chiare: e subito sparisce allora un’ebbrezza folle ti invade e
sotto i massi franati. Ma, lì intorno, l’adorazione selvaggia della tua fragilezza
un azzurro fiorire di miosotidi ardente che vince la materia. Eppure, là in
tradisce l’umidore ed un remoto alto, anche la materia, la colossale materia
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo che ci attornia, non sembra inerte ed ostile,
rattenuto, incessante, della terra. ma viva ed amica: e le guglie pallide non
sembrano monti, ma anime di monti,
Madonna di Campiglio, 13 agosto 1929. irrigidite in volontà d’ascesa.
140
POZZI, Ti scrivo…, pp. 93-94.
141
POZZI, Parole, p. 106.
142
POZZI, Ti scrivo…, p. 64.
72
Pozzi aveva comprato appena tre giorni prima della composizione della lirica
«Le Dolomiti sono la parte più bella e più caratteristica dell’Alto Adige, quella che lo
rende un paese differente da tutti gli altri. Il loro profilo alto e sottile si vede ad ogni orizzonte.
Le loro punte bianche che si alzano verso il cielo come le dita di una mano aperta sembrano
anime di montagne; al tramonto le loro vette pallide prendono le più fantastiche tinte di viola,
d’oro e di rosa, e ne scende una malinconia piena di soavità di cui appena si può rendersi conto
e che non si può spiegare.»143.
che la poetessa:
«frequenterà a più riprese […] nell’estate del 1932 e ancora nel gennaio 1934, quando
Gasperi sarà […] istruttore di sci [suo e dell’amica Alba Binda144], sempre a Madonna di
Campiglio. Come avverrà anche in seguito con altri forti rocciatori che le faranno da guida,
l’atteggiamento di Antonia è non solo improntato alla stima e alla gratitudine, ma anche a una
certa affettuosa consonanza interiore.»145.
La sua figura aleggia in due poesie composte in quell’estate del 1929, Addio e
Vertigine146:
Addio Vertigine
143
L’espressione si trova già alle pp. VI-VII della prefazione all’edizione S. Poetzelberger de I
monti pallidi di Wolff presente nella biblioteca di Antonia. Il libro riporta scritto a mano sulla
prima pagina: «Sulden – Valle Atesina. Estate del 1922».
144
Di questa esperienza così scrive, in una lettera alla Bozzi del 04 gennaio 1934, contenuta in
POZZI, Ti scrivo…, p. 185: «Poche righe soltanto, intanto che fuori le mie montagne si spengono
come grandi lampade esauste. Non ho mai passato giorni così belli. Non ho più né pensieri né
parole. Soltanto occhi per guardare e muscoli per camminare. Alba scopre la montagna, giorno
per giorno, con me: mi sembra di essere io a svelargliela, a fargliela amare. La mia
montagna…Tutte le cose morte si struggono nel gran sole. Mi lavo le mani nella neve e me le
asciuga il vento. Tutte le cose che penso sono sincere e bianche. Queste giornate me le regala
Dio, come un miracolo. Oh, queste sono davvero le montagne di tutti i miracoli, Lucia!».
145
DALLA TORRE, Antonia Pozzi..., p. 24.
146
Rispettivamente a p. 108 e p.109 di POZZI, Parole.
73
Oggi – intristito cielo, ultimo giorno – Afferrami alla vita,
un ansioso spiare, mascherato uomo. La cengia è stretta.
di calma girellona, intorno all’umile
baracca delle guide; e un batticuore E l’abisso è un risucchio spaventoso
improvviso, violento, all’apparire che ci vuole assorbire.
d’una testina fulva147. Il primo approccio, Vedi: la falda erbosa, da cui balza
questo zampillo estatico di rupi,
esitante: e d’un subito le mani somiglia a un camposanto sconfinato,
mie, lunghe e lievi, sul visino acceso; con le sue pietre bianche.
le mie mani graffiate e illividite Io mi vorrei tuffare a capofitto
dalle rupi su cui, la prima volta, nella fluidità vertiginosa;
il padre della bimba mi ha guidato. vorrei piombare sopra un duro masso
Poi, la rapida fuga in mezzo ai pini, e sradicarlo e stritolarlo, io,
a passi lunghi, con la gola chiusa. con le mie mani scarne;
Sotto un leggero crepitio di pioggia, strappare gli vorrei, siccome a croce
dietro l’abside grigia della chiesa,
mesta offerta di colchici violetti di cimitero, una parola sola
che mi desse la luce. E poi berrei
ad un erboso tumulo d’ignoto. a golate gioiose il sangue mio.
Dopo che già da un anno aveva iniziato la sua attività di scialpinismo148, Antonia
si iscrive per l’inverno 1929-1930 allo Sci Club Milano del CAI. Il natale di
invece povera di notizie: da una cartolina spedita alla Nena il 07 agosto e dalla
147
La figlia di Oliviero Gasperi, Silvia, nata nel 1926.
148
Marco Dalla Torre individua, deducendo da alcune foto, «la Carta di Turismo Alpino n.
011397 rilasciata [ad Antonia] dal questore di Sondrio. Tale carta, di cui tanto si parla in quegli
anni nelle riviste del CAI, era necessaria per avere accesso alle zone montane di confine.». Cfr.
DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, p. 30. Per le notizie che riporterò in seguito, si
confronti sempre il testo di Dalla Torre (pp. 33-38), da cui sono in gran parte tratte.
74
ascensioni al Piz Albana (3100 m) il giorno 30 agosto, al Fuorcla Surley (2755
m), balcone panoramico sul settore occidentale del gruppo del Bernina, e al Piz
che [potrebbe] essere una guida.»149. Negli anni seguenti Antonia continua la sua
attività scialpinistica: nel Natale del 1930 è a Foppolo, in Alta Val Brembana;
nel marzo del 1931 è alla Presolana. L’estate del 1931 la trascorre lontana dalle
montagne, in Inghilterra per il volere del padre che tenta così di distoglierla dal
proseguire la relazione con Cervi. Agli inizi del 1932 è per la prima volta a San
conosce Tullio Gadenz, un giovane poeta trentino, di cui ammira la poesia e con
il quale stringe una sincera e duratura amicizia151. Fra i due è quasi152 immediato
149
Ivi, pp. 33-34.
150
Cfr. il libretto di guida di Gasperi, come riportato in DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la
montagna, p. 38: «Inesperta di roccia e senza allenamento, devo alla sicurezza meravigliosa ed
alla gaia e fidata compagnia di Oliviero Gasperi la gioia di aver compiuto in pochi giorni le
seguenti ascensioni: cima Grostè – Campaniletto dei Camosci – Cima Brenta – Croz Rifugio
(per la Direttissima Gasperi) – Parete della Cima Campiglio (per il camino Gasperi). 13-18
agosto 1932. Antonia Pozzi.».
151
L’epistolario fra i due è stato ritenuto di una tale importanza da costituire un corpus a sé. Cfr.
A. POZZI - T. GADENZ, Epistolario (1933-1938), a cura di Onorina Dino, Viennepierre edizioni,
Milano, 2008. Per le notizie in merito a Tullio Gadenz, ho consultato primariamente i seguenti
testi, da cui riporto gran parte delle citazioni: M. DALLA TORRE - S. GADENZ, A voce sola. Tullio
Gadenz (1910-1945): le montagne dell’anima, Associazione culturale voci di Primiero, Trento
2008; T. GADENZ, Infinitezze, a cura di M. Dalla Torre, Edizioni il Foglio, Piombino (Lu), 2010.
152
Gandenz nel ricordo dell’amica Antonia Pozzi e la montagna, che viene pubblicato in “Lecco
(Rivista di cultura e turismo)”, nn° 5-6 (settembre-dicembre 1941-XX), p.56, commenta così il
rapporto di Antonia con la Poesia e il suo modo di rivelargli questa relazione: «Ma soprattutto la
Montagna fece ad Antonia Pozzi il divino dono della Poesia. Della Poesia che le era sacra, essa
parlava come un credente può parlare del suo Dio. “Perché non per astratto ragionamento, ma
per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile,
del più profondo essere, io credo alla Poesia”. […] Per questo Antonia Pozzi, che alla Poesia
dedicò anche una soave preghiera, non pubblicò mai le sue liriche, né rivelò di averne scritte,
75
lo scambio di versi, fatto abbastanza singolare se si considera che Antonia non
era solita far leggere a molte persone i suoi scritti. Questo atto di fiducia e di
stima da parte della poetessa si deve ad una consonanza con l’anima di Gadenz
che, in qualche modo, insieme alle bellezze della natura di San Martino, riesce a
tirarla fuori da un periodo in cui il tormento della sua vita sentimentale le strozza
in gola il canto. Così infatti si rivolge a Lucia Bozzi alla fine della vacanza, il 09
gennaio 1933:
«…Domani partiremo; e quali siano stati gli effetti di tutta questa bianchezza non te lo
so dire: so che ritorno col cuore che straripa di poesia e tanto più mi tormento perché non so più
buttar fuori una riga. Ho dentro come un nodo di cristallo che non si scioglie. E poi ho fatto una
“scoperta” che interesserà anche te…»153.
matrice tedesca – il ricordo delle grandi migrazioni di intere famiglie che dal
tanto che facendomi leggere un giorno alcune delle sue composizioni più belle me le presentava
come canti di un poeta ignoto.». Cfr. DALLA TORRE - GADENZ, A voce sola, p. 122.
153
POZZI, Ti scrivo…, p. 154.
154
Nelle due cartoline ai genitori scritte in precedenza, Antonia aveva alluso a Gadenz nei
seguenti termini: «Dopo pranzo torneremo al “tabarino” [locale da ballo] dall’“oste-poeta” e
prima di mezzanotte non andremo certo a dormire», in ivi, p. 152, scritto del 4 gennaio 1933;
poi, il 6 gennaio 1933: «Alla sera siamo stati al “tabarino” e il “poeta” ci ha dato alcune sue cose
da leggere veramente belle», in ivi, p. 153.
155
DALLA TORRE - GADENZ, A voce sola…, p. 13.
76
della personalità di Tullio che lo avvicina alle atmosfere culturali nordiche156,
alla base delle quali vi è uno dei motivi della consonanza con lo spirito della
Pozzi. Secondo suor Onorina Dino, quelli dei due giovani poeti «sono, dunque,
due spazi interiori in perfetta sintonia; essi condividono tutto: l’amore per la
montagna, la grande sensibilità per ogni aspetto e ogni voce della natura, per la
sua musica; il gusto del silenzio e della solitudine, il fascino dei paesaggi
delicatezza dei sentimenti, delle parole, dei gesti; la malinconia per la finitezza
e il fluire delle cose e della vita; la riflessione sulla morte, sull’al di là, su
Dio.»157. Graziella Bernabò ritorna sulla nota nordica di Gadenz per sottolineare
«Di Tullio Gadenz, poeta crepuscolare molto incline al gusto del paesaggio come
malinconico specchio dei sentimenti dell’animo, si trova tutt’ora nella biblioteca di Pasturo la
raccolta dattiloscritta Viandanti. Benché meno ricco e complesso nelle tematiche e nello stile,
Gadenz rivela però nei suoi versi una sensibilità in qualche modo affine a quella della Pozzi.»158.
indagare l’interesse della Pozzi nei suoi confronti, fatto anche di consigli e
156
In ivi, p. 13, sono citate le tre città tedesche dove la presenza del cognome Gadenz era più
diffusa: «Il cognome Gadenz appare nei registri di Ringingen fin dal 1145, di Jena nel 1304, e
successivamente in quelli di Worms. Di queste tre città, Jena è quella situata più a Nord, nel
Land della Turingia e la sua università è dedicata proprio ad un poeta, Friedrich Schiller, che qui
fu docente. […]. A sud-ovest, in Renania-Palatinato, sorge invece Worms, la città dei
Nibelunghi; anche in questo caso un invisibile filo legato alla poesia sembra rimandarci a Tullio,
soprattutto nei contenuti di certe sue liriche. In realtà, diversi episodi riguardanti i Nibelunghi
sono ambientati a Worms: le figura di Brunilde, Sigfrido e Hangen non sfigurerebbero nelle
atmosfere che la vena poetica di Tullio ci ha lasciato. Il Nibelungenlied è il più complesso poema
epico composto in terra di lingua tedesca agli inizi del XIII secolo; esso alterna scene cortesi a
momenti di barbarica eticità e giunse ad affascinare il grande Richard Wagner che gli dedicò il
celebre Ring des Nibelungen, segnato da quell’aria crepuscolare tanto cara al nostro poeta.».
157
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 32.
158
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 144, nota n° 4.
77
correzioni sui testi del giovane trentino. Nella biblioteca della poetessa, infatti,
secondo fascicolo dal titolo Liriche della sera, di due anni successivo160. Se nella
prima raccolta sono presenti 45 liriche (78 pagine), divise in sei sezioni (Poesie
dell’amore e del passato, Poesie delle montagne, Poesie delle tombe, Poesie
Viandanti (per un totale di 46 liriche), nel secondo fascicolo del 1936 (46 pagine
rimaneggiate161. Gadenz pubblicò il suo libro solo dopo la morte della Pozzi,
159
«Abitudine contratta, probabilmente, a causa della sua grafia, difficilmente decifrabile». In
GADENZ, Infinitezze…, p. 118.
160
Nella biblioteca della Pozzi vi sono inoltre quattro numeri della Rivista della Venezia
Tridentina. Ne dà notizia anche Suor Onorina Dino in POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 151:
«Nell’Archivio Pozzi si conservano quattro numeri di questa rivista, relativi agli anni 1935,
1936, 1937, 1938, ciascuno dei quali riporta alcune poesie di T. Gadenz, antologizzate con quelle
di altri autori.». Nella lettera del 28 marzo 1937, scritta da Antonia a Tullio, la poetessa mostra
di apprezzare la lirica Passato, contenuta nella rivista del 1937: «Lassù tra gli abeti solinghi / la
porta / si spalanca della sera: // piccole stelle / giocano sulla soglia / in silenzio / come nel bel
tempo che fu / quando a te sola pensando / nella dolcezza avvolgeami / del crepuscolo / e l’ore /
ed il vento / non udivo più.», in AA. VV., «Poesia», Sindacato fascista degli scrittori della
Venezia Tridentina, 1937-XV, p. 31.
161
Si può constatare questa continua revisione dei testi da parte di Gadenz facendo una collazione
fra ciò che si trova pubblicato in A voce sola e in Infinitezze, nonché nel raffronto con i due
fascicoli dattiloscritti presenti nella biblioteca della Pozzi. In ogni caso riporto le parole di
Onorina Dino a commento di una lettera del 27 marzo 1934 che il giovane poeta invia ad Antonia,
annunciandole che le spedirà con ritardo il suo libro perché rileggendolo, ha trovato che varie
liriche devono essere ritoccate: «T. Gadenz rielabora continuamente le sue poesie, cambiando
spesso anche i titoli.», in POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 127.
162
«Pochi giorni dopo Tullio ne invia una copia al padre di Antonia Pozzi con la seguente dedica:
“Al Gr. Uff. Avv. Roberto Pozzi, nel ricordo di Antonia. 4 dicembre 1939. Tullio Gadenz”; è
passato un anno dalla morte dell’amica.» in GADENZ, Infinitezze, p.17.
78
di Melodie della sera163. In seguito, prima della precoce morte – avvenuta l’8
aprile del 1945 in circostanze mai del tutto chiarite, su un sentiero che collega
casa editrice Delfino di Rovereto, la raccolta Vento sugli alberi. Solo leggendo i
titoli delle sezioni delle raccolte che Gadenz aveva inviato alla Pozzi, emergono
pace.
Grazie alle ricerche di Marco Dalla Torre, risulta che Antonia aveva copiato 21
163
Si tratta di 20 liriche divise in tre sezioni: Melodie (12 liriche), Cipressi romani (11 liriche),
e Rintocchi (7 liriche).
164
O meglio, una morte per la quale i veri responsabili non sono mai stati sottoposti a processo.
Si veda l’intera storia narrata, quattro anni dopo, da un cronista anonimo sulle pagine del
quotidiano trentino Alto Adige e pubblicata in 5 puntate fra il 21 e il 27 agosto 1949. Essa è
riportata in DALLA TORRE – GADENZ, A voce sola…, pp. 138 – 149. Con tutta probabilità Tullio
è stato ucciso da un soldato disertore tedesco in fuga e bisognoso di denaro: la verità fu sempre
taciuta, data la criticissima contingenza storica dell’epoca (siamo infatti agli ultimi giorni della
Seconda Guerra Mondiale). Si legge nell’introduzione agli articoli a p. 138: «Le indagini
sull’assassinio furono condotte separatamente, e in contrasto, tra la magistratura italiana e le
autorità tedesche d’occupazione.». Nello stesso volume, alla p. 35, si riporta anche dal libro del
1974 scritto dal Professor Antonio Simion, Primiero oasi di pace: «Lo trovarono nelle prime ore
del pomeriggio, ucciso con un colpo alla nuca, sul sentiero denominato poi “Via Tullio”, che dal
fondovalle sale lungo la destra del Cismon verso il ponte dei Camòi, qualche minuto prima del
ponte stesso. Un tabernacolo ne ricorda il luogo della morte e una lapide sulla casa paterna di
Fiera ne ricorda la data. Viveva ritirato e non aveva amici. Poiché gli furono tolti l’orologio, la
stilografica d’oro e una busta di cuoio, si pensò e si pensa tuttora a una rapina, ma non è estranea
al fatto quella mentalità così diffusa durante la seconda guerra mondiale, per cui la vita di una
persona valeva meno di una stilografica. Tale mentalità era propria dell’esercito germanico nei
confronti degli italiani. E non c’è dubbio, anche se mancano le prove, che si tratta del gesto di
un soldato germanico, abile nel colpo alla nuca. La zona di San Martino pullulava di soldati
germanici e c’erano pure in giro disertori tedeschi in attesa dell’imminente fine della guerra.».
79
liriche di Gadenz in un suo quaderno [M]165, parte manoscritte, parte
Come ricostruito da Dalla Torre in Infinitezze di essa parlerà a più riprese nelle
«È la lirica di Gadenz più amata da Antonia Pozzi, che cita spesso nelle sue lettere. Il
18 gennaio 1933 scrive: “I suoi versi hanno commosso altre anime, profondamente. Per tutti,
come anche per me, le sue cose più belle sono la Preghiera alle Dolomiti, i versi della novella166
e la prima strofa di Ritorno, così vasta, così aerata, degna veramente delle grandi crode. Se non
temessi di essere indiscreta, vorrei proprio chiederLe un grande favore: non potrebbe farmi avere
quel numero della Rivista della Ven. Tridentina, in cui è stampata Preghiera? Tutta la pagina,
con quell’immagine scura delle rocce in alto, è infinitamente suggestiva e mi sarebbe molto caro
averla.”. Poi ancora il 23 marzo successivo: “Mi mandi qualche Sua poesia, Tullio. Tante volte
io ripenso alle parole della Sua Preghiera alle Dolomiti ed ogni volta esse mi sembrano le più
belle che voce di poeta abbia pronunciate.”. Nella […] lettera dell’8 maggio 1934, al ricevere il
fascicolo Viandanti, la Pozzi scrive: “Di quelle che già conoscevo, non mi piace sempre la nuova
165
Cfr. GADENZ, Infinitezze, p. 117: «[M] block notes di Antonia Pozzi con poesie di Tullio
Gadenz in parte trascritte dalla poetessa, in parte battute a macchina e incollate. Contiene 21
liriche (Archivio Gadenz)». In Infinitezze, sono riportati per intero le seguenti poesie di [M]:
Nostalgia, Sonno di guerra, Fanciulla (che però è indicata come riportata dalla Pozzi con il titolo
Fedeltà), Stella cadente [II], Risurrezione, Ritorno, Incontri, Oltretomba, Pace, Ignoto,
Malinconia, L’isola di San Michele. Sempre in Infinitezze, vengono poi riportate poesie presenti
in altre raccolte, che figurano in [M] con varianti. Si tratta di Fedeltà (in Viandanti; il titolo in
[M] è Annie), Via Appia (in Viandanti; in [M] con il titolo Plenilunio e una diversa lezione),
Sogno (in Liriche della sera; in [M] con il titolo Primo Bacio), A John Keats (in Liriche della
sera; in [M] la versione è John Keats, piuttosto diversa), Campo Verano (in Melodie della Sera;
in [M] con il titolo L’ultimo dolore e poche varianti), Dolomiti [II] (in [M] con il titolo Preghiera
e copiata dalla Rivista della Venezia Tridentina, nn° 10-11 ottobre-novembre 1931, p. 14).
Mancano a questo appello di [M] tre poesie. Dato che Tullio Gadenz rielabora varie volte i testi,
modificandone versi e titoli (che a volte vengono attribuiti a tutt’altre composizioni), è necessario
confrontare ogni versione a seconda del lavoro di ricerca che si vuole svolgere, non essendo
sufficiente basarsi sul titolo delle liriche. Ho cercato di leggere, confrontare e riportare i testi che
Antonia poteva aver letto, in parte inediti e dattiloscritti in Viandanti e in Liriche della Sera, in
parte ricopiati nel suo quaderno [M], o pubblicati su varie riviste da lei lette o possedute (come
la «Rivista della Venezia Tridentina»).
166
La novella a cui la Pozzi fa riferimento è La fine del mondo, apparsa nella Rivista della
Venezia Tridentina, n°8, 1932, pp. 22-23. Ne riprendo i versi da DALLA TORRE - GADENZ, A
voce sola, pp. 105-106: «Quando sopra la terra / Più non s’udranno i rintocchi / Dei secoli /
Quando l’autunno / Con l’urna sua grande di cenere / Solo errerà sulle mute / Ruine delle foreste
e cadute / Saran le pesanti catene / Degli astri nel buio e le ultime / Nubi emigranti /
Scoscenderanno nei cieli. // Ed immobili i mari / Riposeranno nell’infinito. // Allora alla piccola
chiesa / Battuta dal tempo sul colle / Davanti all’estremo tramonto/ Io tornerò dal profondo. //
Sulla tua pietra ancora / Supremo altare del mondo / Con te parlerà la mia Ombra / Sotto gli
ultimi stormi / Di sfolgoranti comete. // Finché la tua fiamma leggera / Si spenga nell’oscurità /
Della gelida sera.».
80
divisione ritmica. Preghiera, per esempio, era così bella con la cadenza di prima! E alla fine,
perché – corona – sostituito a – ghirlanda –?”. Tullio seguirà il consiglio, tornando
successivamente alla primitiva lezione.»167.
lavorìo di Gadenz sui propri versi; inoltre, l’esempio di questa poesia favorita
ispirato da una relazione intima con le vette, possa avere affascinato la sensibilità
1. Preghiera 2. Preghiera
Versione copiata a mano dalla Pozzi168. Versione in Viandanti, pp. 39-40.
O Dolomiti O dolomiti,
Alte sugli orizzonti Alte sugli orizzonti
Come Come
Crocefissi immensi Crocefissi immensi
In quest’ora di morta speranza In quest’ora
Di morta speranza;
La vita abbastanza
M’ha incoronato di spine: La vita
Il mio cuore Abbastanza m’ha incoronato
Invoca l’agonia. Di spine:
Il mio cuore
Oh, assunto Invoca l’agonia.
Sopra le vostre
Rocce Oh, assunto
In croce il mio corpo Sopra le vostre
Sia Rocce,
Nella luce del tramonto. In croce
Il mio corpo
E quando come trionfale Sia nella luce del tramonto
Aquila
L’anima mia E quando
Sui picchi d’Elisio ove eterno Come trionfale
Aquila
Risplenda il sole L’anima mia
Discenda Sui picchi
D’Elisio ove eterno
O Dolomiti Risplende il sole
167
GADENZ, Infinitezze, p. 65.
168
La versione è presente come foto del foglio scritto da Antonia nel volume di DALLA TORRE -
GADENZ, A voce sola, p 23. Secondo Onorina Dino e Marco Dalla Torre, rispettivamente in
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 133 e in GADENZ, Infinitezze, p 65, la poetessa deve averla
ricopiata dalla Rivista della Venezia Tridentina.
81
S’accenda Discenda,
Sopra il mio capo piegato
Una ghirlanda di stelle. O dolomiti,
S’accenda
Tullio Gadenz Sopra il mio capo
Piegato,
una corona di stelle.
O dolomiti O dolomiti,
alte sugli orizzonti alte sugli orizzonti
come come crocifissi immensi
crocefissi immensi in quest’ora
in quest’ora di morta speranza,
di morta speranza:
la vita
[Segni di cancellatura su tutta la strofa] abbastanza
la vita mi ha incoronato
abbastanza di spine: il mio cuore
m’ha incoronato invoca l’agonia.
di spine: il mio cuore
invoca l’agonia Oh, assunto
sopra le vostre
Oh; assunto [sia] rocce
sopra le vostre in croce
rocce il mio corpo sia
in croce nella luce del tramonto.
Il mio corpo sia
nella luce del tramonto. E quando
come trionfale
E quando aquila
come trionfale l’anima mia
aquila sui picchi
l’anima mia d’Elisio ove eterno
sui picchi risplende il sole
d’Elisio ove eterno discenda,
risplende il sole
discenda, o dolomiti,
s’accenda
o dolomiti, sopra il mio capo
s’accenda una ghirlanda di stelle.
sopra il mio capo
una ghirlanda di stelle.
asciutta a livello di punteggiatura: soprattutto nelle ultime due strofe dove il tema
82
dell’ascensione si fa stringente, l’occhio del lettore è catturato al punto d’arrivo,
dunque, anela alla sua pace, da viversi sia come ultima agonia – richiesta in tono
di una lotta con la vita che è stata combattuta a sufficienza –. Il martirio richiede
crocefissi immensi, quasi Gadenz vedesse appeso ad esse il corpo del Cristo sulla
croce e volesse emularlo. Vi è dunque un rapporto intimo, sacrale, con una natura
sensibilità del poeta. Questo aspetto di relazione fra il non detto della realtà nel
suo farsi e la capacità di lettura del poeta che ne trascrive i muti lamenti, caro
alla Pozzi, verrà sottolineato nella lettera del 29 gennaio del 1933 che la poetessa
invia a Gadenz:
«Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta
169
Si confronti la voce ghirlanda nel dizionario etimologico on-line etimo.it.
83
la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile, dal più profondo essere, io credo, Tullio, alla
poesia. E vivo di poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere
negli occhi tutta l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio,
sentire mute sorelle al nostro dolore. Perché per me Dio è e non può essere altro che un Infinito,
il quale, per essere perennemente vivo e quindi più Infinito, si concreta incessantemente entro
forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l’urgere del fluire divino e ad ogni attimo
si riplasmano per esprimere e concretare quella Vita che, inespressa, si annienterebbe.».170
precisazioni, in primis sulla natura del carteggio fra i due, e, in secundis, sulle
Vecchio, che non è sempre chiaro quanto e in che modo la Pozzi liberi senza
filtri la propria anima e il proprio pensiero nelle lettere, e quanto, invece, tenti di
170
POZZI - GADENZ, Epistolario..., pp. 99-100.
171
VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 95-96.
84
toni usati dalla Pozzi per comunicare con Gadenz, non c’è un esplicito intento di
tensione partecipativa con un altro da sé, un altro simile, certo, a livello di élan
emotivo, e tuttavia diverso nel modulare questa stessa tensione e nel proiettare
«Benché nelle lettere a Gadenz […] si assista, da parte della Pozzi, a un fondamentale
epigonismo e a una sottile sottomissione ideologica nei confronti del destinatario, nell’opera
poetica, pur restandovi leggeri sedimenti, essi si attenuano fino a declinare. Se in alcune poesie
della Pozzi – soprattutto imbastite attorno a esperienze di montagna – sussistono immagini e
stilemi, sebbene sfuocati, attinti a Gadenz, essi sono modulati attraverso filtri che da loro, a
livello ideologico almeno (ma anche, tutto sommato, tecnico), si emancipano.»173.
Provando a mettere a confronto le sole poesie pozziane dei primi mesi del ’33,
compaiono in effetti questi leggeri sedimenti tratti da Gadenz, che vengono però
risolti da Antonia in modo del tutto personale, e in cui rientra la forte necessità
per lei di attingere alla poesia per risolvere domande contingenti, stringenti nel
diverso esito del tema dei caduti di guerra per la Pozzi (In un cimitero di
172
Ivi, p. 96.
173
Ibidem.
174
POZZI, Parole, p. 186.
175
In GADENZ, Infinitezze, pp. 30-31. In nota si legge: «Appare in medesima versione sia in [V]
che in [M]. Nella versione ricopiata a mano da Antonia Pozzi viene indicato, al termine: “S.
Martino di Castrozza – agosto 1929”». [V] è l’abbreviazione che Dalla Torre usa per indicare la
85
Sonno di guerra In un cimitero di guerra
raccolta Viandanti di Gadenz, mentre ricordo che [M] è il quaderno della Pozzi. La presenza in
esso è segno che questa poesia aveva destato in lei un certo interesse.
86
innalzare ad ultima gloria l’anima dei morti, mostrando anche la loro pietà nel
non restare ciechi di fronte al dolore di una madre in cerca del figlio fra le tombe.
Anche qui, come in Preghiera, Gadenz propone e anela a una risposta certa e
risolutiva, quella di un credente che in cuor suo è forte della fede in una trionfale
rivincita degli animi che si sono battuti in vita in modo puro, totale. I giovani,
morti per difendere la propria terra, sono oramai un tutt’uno con essa, soli di
semplicissimo voi che introduce ad un tono del tutto diverso della lirica. La
sguardo di rispetto e pudore nei confronti di una pace assoluta, intima, non
sono vie di terra il cui tanto e indicibile peso non deve lasciare traccia sul
candore della neve, profanando la pace dei morti. Non ci sono nemmeno accenni
possibilità di mettersi in contatto con quella pace è ritrovata, per un breve istante,
in un segno della natura colto in un gesto (lo strappo del ramo in forma di croce),
87
consonanza d’anime. Solo il sogno dell’estremo giacere può permettersi di
vivere la pace che appartiene ai morti: ad Antonia è dato di soffrire il peso della
vita, di sostare al limbico cancello prima del quale non può nemmeno godere la
felicità che dovrebbe essere la norma della sua condizione esistenziale di giovane
immagini. La prima è quella della madre in cerca del figlio nella poesia di Tullio,
che per Antonia si assolutizza e si fonde nel corpo della montagna, diventa il
grembo del Cimon della Pala che evapora il proprio dolore nelle nubi e ne fa un
velo per proteggere i suoi figli caduti. La seconda immagine è come verificata
quale per Tullio i caduti sono esclusi (O ignoti compagni / Che al rombo non vi
destate / Più dei torrenti) viene reinterpretato dalla Pozzi con l’arrestarsi stesso
della natura per rispettare il loro non esser più (Per voi taccion le strade / e tace
il bosco d'abeti / spegnendo / lungo la valle / ogni volo di vento). Ed è così, nel
rispetto grandioso della vita per la morte, che Antonia ritrova se stessa:
«Se lei verrà a trovarmi, parleremo di tante cose: delle sue montagne divine, dell’ora in
cui si scolorano, della pineta viva, dei soldati morti che dormono in pace sotto il Cimon della
Pala.
Io salii al cimitero di guerra in un pomeriggio nebbioso, dopo che Lei era partito.
Nevicava rado e leggero: tutta la bianca muta strada era per me, per me sola. Non aveva voce,
88
neppure d’uccello, la cupa folla degli abeti: solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole
più tristi. Al cimitero nessuno era andato da tempo: il sentiero era quasi intatto. Al cancello
dovetti scavare con le mie mani la neve, per aprire: ma poi, all’interno, era così tesa ed
immacolata la coltre bianca, che non osai imprimerla del mio passo pesante; colsi da un pino un
ramoscello in forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via. Le crode erano tutte pallide, come
un gran volto che cali sul dolore degli occhi le palpebre. Ed ecco, il mio sfiorire non mi doleva
più, tanto era concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose.»176
Si potrebbero fare molti altri esempi per rilevare le influenze Gadenz-Pozzi nei
rispettivi testi poetici. Dei temi citati da Antonia in apertura della precedente
citazione (le montagne divine nell’ora in cui si scolorano, la pineta viva, i soldati
due, basti pensare a Crepuscolo177 della Pozzi, in merito alla quale ho già usato
questa lettera per rilevare l’immagine dello sbiancarsi delle cime. Il rapporto di
copiata in [M]: «O Dolomiti, / Mie grandi sorelle astrali / Che sopra i viali / Del
vento / Delle foreste, le porte, / Ecco, del vostro / Regno io varco: cantate, /
/ Mentre la luce del sole / Con le sue pallide mani accarezza / La fronte agli eroi
sulle vette / Del Colbricon, io cammini / Con le musiche morte ai giardini / Delle
regine risorte. // Poi, quando / Sull’alte soglie funebri della sera / Io chiuda gli
176
POZZI - GADENZ, Epistolario…, pp. 88-89.
177
La versione del 1933.
89
plenilunio dell’infinito //»178. È da rilevare in questa poesia di Gadenz anche la
nelle poesie Fiabe e Tempo della Pozzi. Credo che la grande gioia, vivificatrice
per Antonia, nella “scoperta” di Tullio, sia stata in fondo anche questa: trovare
consonanze emotive con la natura. La relazione con Tullio è una boccata d’aria
«[…] da S. Martino siamo partiti soltanto ieri e fino all’ultimo momento ho sperato di
poterLa rivedere. Mi sembrava di avere ancora tante cose da dirLe: temevo che le mie povere
parole non Le avessero fatto comprendere tutta la commozione che i suoi versi mi hanno
suscitato nel cuore. Ma qui ho trovato la sua breve lettera e ne ho avuta un’infinita gioia: Lei ha
compreso con quanto religioso amore, con quanta pienezza d’anima io ho accolto la rivelazione
della sua poesia. E d’esser stata capita mi fa tanto bene. Lei non sa, Tullio, Lei forse non saprà
mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato, la “scoperta” meravigliosa di Lei. […] Tanto
più grande di quella è la mia gioia d’oggi: perché il libro più bello del mondo finisce e dopo
l’ultima pagina non si può chiedere che altre ne vengano aggiunte; ma il libro vivo di un’anima
non finisce mai. Io spero, Tullio, che a queste prime pagine del Suo Libro che mi sono state
mostrate, altre ne potrò aggiungere via via: e la mia vita, creda, mi dorrà meno, se Lei vorrà
infiorarla della sua poesia.»180.
poetica che mi aiuta a tornare al tema delle fonti, tema che costituisce il secondo
178
GADENZ, Infinitezze, pp. 35-36.
179
Così si esprime Antonia in una lettera del 18 gennaio 1933: «Per ritrovare un po’ d’aria pura,
bisogna che rilegga la sua lettera, così nitida e cristallina, come i ghiaccioli ai suoi vetri.», in
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 93.
180
Ivi, pp. 87-88. Appena più avanti specifica: «Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa
duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi
sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel
cuore. Per chi ai suoi giorni non vede più che un colore di tramonto e sente, attraverso il suo
cielo, salire l’estremo pallore, per chi ancora beve, con occhi allucinati, l’incanto delle cose, ma
non sa, non può (perché è troppo tardi – perché non c’è più forza – perché tutto è stato bruciato,
fino all’ultima stilla) tradurlo in parole, ah, Tullio, è come rivivere trovare un’anima giovane che
sprigiona il nostro stesso canto inespresso.».
90
punto di indagine rispetto al frammento di lettera del 29 gennaio 1933:
«Perché la poesia, non è vero, ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore
che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma
dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del
dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita.»181.
Plotino: l’idea della catarsi del dolore attraverso l’arte e di un Dio pensato come
due filosofi, di cui si trovano tracce anche nel quaderno delle Spigolature.
nel 1931, proprio durante l’esilio in Inghilterra, quando il dolore per il distacco
di serenità e una spinta morale.»183. La Dino ci informa inoltre che «il taccuino
181
Ivi, p. 88.
182
Ricordo che l’altro frammento della lettera del 29 gennaio 1933 che qui interessa è: «Perché
per me Dio è e non può essere altro che un Infinito, il quale, per essere perennemente vivo e
quindi più Infinito, si concreta incessantemente entro forme determinate che ad ogni attimo si
spezzano per l’urgere del fluire divino e ad ogni attimo si riplasmano per esprimere e concretare
quella Vita che, inespressa, si annienterebbe.», in ivi, p. 99-100.
183
Ivi, pp. 72-73, nota n°17.
91
non è datato, come pure nessuna delle citazioni trascritte.»184.
comprenda addirittura gli anni del liceo, se non del ginnasio, data appunto la
presenza nel quaderno di citazioni in greco (che nella poesia Canzonetta del 12
maggio 1933 dirà – forse ironicamente, dato lo stile della poesia – di aver
proviene del Daniele Cortis, letto dalla Pozzi presumibilmente in quegli anni186.
184
Ibidem.
185
Volendo tener fede alle parole di Antonia, riportate nella poesia di chiaro stampo crepuscolare
Canzonetta, proprio nel 1933 la conoscenza del greco risulta essere solo un ricordo: «Ciascuno
la propria tristezza / se la compra dove vuole – // anche in una bottega nera / austera / tra libri
impolverati / che si liquidano a prezzi dimezzati – // libri inutili – / tutti i TRAGICI GRECI – /
ma se il greco non lo sai / più – / mi sai dire perché li hai / comprati? // […] Milano, 12 maggio
1933». Cfr. POZZI Parole, pp. 219-220. Rilevo invece, ad esempio, la presenza nella biblioteca
della Pozzi de Il teatro greco di Ettore Romagnoli, Fratelli Treves, 1924, sul quale la poetessa
segna: «Antonia Pozzi, Milano – Luglio 1928». Ciononostante, la Pozzi frequentò nell’a.a.
1930/’31 e ’31/’32, il corso di Lingua e Letteratura greca presso l’Università di Milano, cfr.
VECCHIO, Gli appunti…, pp. 341-342.
186
Il quaderno si apre con la citazione «Hieme et Aestate / et prope et procul. / Usque dum vivam
et ultra» sottolineata dalla Pozzi con la matita rossa nella sua copia del libro di A. FOGAZZARO,
Daniele Cortis, Casa Editrice Baldini e Castoldi, Milano 1923, p. 63. Si tratta delle parole della
protagonista del romanzo, Elena, che trova nella propria onestà la forza di lasciare il suo amato
cugino Daniele scrivendogli questo biglietto e facendo così vincere la ragione sulla passione,
evitando di consumare adulterio. Nella biblioteca pozziana sono presenti quasi tutti i romanzi di
Fogazzaro. Purtroppo la data apposta da Antonia sul volume è tagliata dalla pagina. Si legge
solo: «Antonia Pozzi 27 giugno 19[…]». Le ultime due cifre, che sarebbero determinanti per la
datazione delle Spigolature restano perse, probabilmente tracciate su un foglio sottostante. È
chiaro però che già nell’estate del 1925 la Pozzi si era accostata all’opera dell’autore, se si trova
nella biblioteca anche Piccolo Mondo Antico, della stessa casa editrice e stampato nello stesso
anno del Daniele Cortis, con la firma «Antonia Pozzi, Agosto 1925». La progressione con cui
sono ordinati i libri, da sinistra a destra, è la seguente: Piccolo Mondo Antico (ed. firmata e datata
1925), Piccolo Mondo Moderno (ed. non firmata), Daniele Cortis (ed. 1925 con firma giugno
19[...]), Il mistero del poeta (edito nel 1925 non firmato), Il santo (edito nel 1925 non firmato),
Leila (edito nel 1925 non firmato); Vita di Antonio Fogazzaro (firmato e datato Febbraio 1927)
del Gallarati Scotti. Di Fogazzaro, prima di questi volumi ci sono Le ascensioni umane del 1914
e un’altra edizione di Leila del 1911, entrambe di una differente casa editrice (Piacenza,
Stabilimento tipografico “L’arte Bodoniana”, Lorenzo Rinfreschi di A.), e forse passate ad
Antonia dai genitori. Questa progressione mi fa credere che l’opera sia stata integralmente letta
fra il 1925 e il ’27. L’inizio del quaderno delle Spigolature è forse da retrodatare dunque al 1925,
soprattutto se si considera che la seconda citazione è riferita alla Lettera di G. Puccini a G.
Adami, (che tratta il tema della febbre, della malattia dell’arte), e che impressioni sullo stesso
Puccini sono contenute in apertura dei diari pozziani, nella pagina del 21 dicembre 1925.
92
che potessero farle da guida, aiutarla nella creazione di un senso di radicamento
alla vita tramite una direzione che potesse essere anche spirituale, ma personale.
L’attitudine alla scrittura deve essere iniziata per gradi: se si considera che il
primo frammento diaristico (noto) è del 21 dicembre 1925, e che questo tipo di
scrittura conferma la necessità per la Pozzi di trovare uno spazio dove riversare
l’impeto dei propri pensieri, non mi sembra assurdo pensare che al contempo la
poetessa avesse già necessità anche di uno spazio dove riordinare le idee in
merito alle numerosissime letture che stava, negli stessi anni, precocemente
programma scolastico – a cui Cervi spingeva gli alunni e di cui Antonia parla sia
a lui che alla nonna in due lettere del 1928. Al professore, il 25 luglio del 1928:
«Molti dei libri che, da quest’inverno, ella mi va consigliando, mi hanno aperto degli
spiragli su un mondo nuovo, al quale non avevo pensato mai, e mi hanno suscitato una folla di
incertezze e di dubbi […] provo un gran senso di smarrimento. Ora mi permetto di chiedere a
Lei, che è sempre tanto buono con me, da dove io debba cominciare per dare una base alle mie
idee che sento sperdute in un buio spaventoso. Ho tanta voglia di imparare; mi sembra di non
aver mai vissuto prima d’ora […]»187.
Qualche giorno dopo, il 31 luglio 1928, Antonia scrive alla nonna Nena una
lettera da Pasturo, dove ritroviamo un accenno alle traduzioni dal greco e dove
vengono sottolineati gli apporti dei libri di filosofia consigliati dal Cervi:
«Io ho ripreso qui a studiare un po’ per conto mio: traduco specialmente dal greco, per
familiarizzarmi un po’con questo terribile osso duro; adesso, se non altro, mi è venuto a piacere
molto: indizio, credo, che faccio progressi. Spessissimo ho la gioia di vedermi ricordata dal
Professor Cervi, che ha poi la pazienza di chiarirmi per iscritto tutte le difficoltà che incontro
nello studio, e che mi manda in dono sino a qui molti bellissimi libri. Così le buone letture non
mi mancano. Ritiro anche, sempre con le schede firmate dal Professore, molti volumi a Brera.
Altri ne compro. E sono sempre libri sulle origini, lo sviluppo, la storia, il contenuto filosofico
187
POZZI, Ti scrivo…, p. 76.
93
dell’arte, libri di storia greca e romana, di letteratura, di filosofia soprattutto. Sento che questo
studio mi fa un bene immenso. Mi pare di affacciarmi a una grande luce, mi sembra di cominciare
a vivere adesso.»188.
In particolare la ricerca di Dio e di una vita morale devono essere stati argomenti
molto discussi fra Cervi e la Pozzi, come sottolineato dalla stessa Dino 189. Un
altro tassello che mi spinge a retrodatare l’inizio del quaderno delle Spigolature
apparso sulla rivista L’Eco della cultura e che Antonia riporta con il titolo Una
cruda realtà dell’espunzione della vita morale dalla condotta moderna: si sono
perse le ragioni delle distinzioni operate dalla coscienza, vige il principio del
piacere. Nella lettera del 30 maggio del 1929 che Antonia indirizza a Cervi, mi
senza fede da parte della giovane studentessa – forse per attirare i rimproveri (e
autodistruttiva del sé (non credo davvero che l’anima di Antonia, per quello che
traspare dai suoi scritti, per il ricordo che ne hanno portato i compagni e gli
188
Ivi, p. 77.
189
Nell’introduzione a POZZI, Parole, p. 10.
190
Augusto Guzzo, amico di Cervi e, negli anni relativi alla datazione della lettera, docente di
Filosofia e Storia della Filosofia al Magistero di Torino. Cfr. POZZI, Ti scrivo…, p. 87, nota n°80.
191
Si confronti per esempio la lettera che Remo Cantoni invia il 04 dicembre 1938, subito dopo
la morte di Antonia, al padre Roberto Pozzi: «La nostra “Antonia”, mi permetta in quest’ora di
chiamarla così, ebbe purtroppo uno stranissimo destino, che solo ora mi si svela nella sua dura
tragicità. Ella si dava con l’anima intera alle cose, alle persone che le erano care, era un continuo
94
costantemente tesa ad una vita morale superiore192), forse per un momento di
dono del suo aiuto, del suo appoggio, del suo conforto ch’essa recava agli amici, poche persone
avevano il senso del sacrificio e la generosità dell’animo suo. […] Vedo ora chiaro in molte cose,
soprattutto nel “senso” della sua vita, tesa tra due estremi, che hanno nome poesia e amore. Erano
per lei le cose più serie della vita. E poesia non era solo per lei i versi ch’essa amava e
componeva, ma uno stile una forma di vivere. In ogni suo atto, in ogni suo pensiero ha portato
questa sua poesia che le colorava l’universo e mentre le dava la certezza di vivere con maggiore
profondità, l’allontanava talvolta dalla realtà vissuta. Amore era la sua essenza, la sua radice. Lo
portava negli studi come il fuoco con cui ravvivava la cultura, l’arte, la letteratura e lo portava
nella vita.», in ivi, pp. 362-363. Oppure si veda la testimonianza di Isa Buzzoni, impegnata – con
Graziella Bernabò – a fugare l’ipotesi di un amore saffico fra lei e Antonia, non per pudicizia o
omofobia ma perché il fatto concretamente non sussistette mai. Ella sottolinea, nella figura
dell’amica poetessa, gli aspetti di impegno verso la vita come doti da ammirare: «Antonia era
una creatura pulitissima e sono state dette e scritte cose che non corrispondono alla sua
personalità. La mia amicizia con lei è stata serena e l’ammiravo per la sua cultura e il suo
comportamento nella vita. Isa Buzzoni Pizzi, 24 ottobre 2002.», in BERNABÒ, Per troppa vita…,
p. 273.
192
Suor Onorina Dino afferma in merito, nell’introduzione a POZZI - GADENZ, Epistolario…, p.
35: «Questa ricerca di Dio appare un tutt’uno con il desiderio di elevazione spirituale, di ascesi
e di ascesa, di ricerca incessante di un’alta moralità di vita; anzi spesso esse sembrano prevalere,
quasi fino a sostituirsi a Dio: “…i doveri che mi attendono mi sono tutti presenti: e i più ardui
sono i più belli. Io voglio essere capace di compierli tutti.”». La citazione di Antonia è tratta
dalla lettera del 26 aprile ad Antonio Maria Cervi.
193
In un frammento di lettera della Pozzi a Cervi del 14 luglio 1929 è conservata questa icastica
descrizione della vita religiosa della sua famiglia: «delle […] loro […] anime, una non pensa,
un’altra nega decisamente, e un’altra, che sarebbe poi la mia, cammina a zig-zag, tentando di
frenare, da una parte, il sentimento, che avrebbe pace soltanto nel dire sì, ciecamente; e
trascinando, dall’altra, la ragione che, nel buio, si ostina a gridare di no […]». In POZZI, Ti
scrivo…, pp. 91-92.
95
In uno dei miei fugacissimi risvegli, le ho chiesto, in nome della fraternità, di guidarmi e di
stimolarmi, perché mi conosco bene e so che ho bisogno di uno sprone continuo per combattere
la mia incostanza che mi fa dimenticare tante cose con una facilità spaventosa: lei mi ha negato
il suo aiuto. In fondo, ha avuto ragione: io non sono né un’anima religiosa né una mente
filosofica. Di filosofia, quando leggevo qualchecosa e lei mi era vicino, credevo di capirne un
poco: ma oggi mi accorgo che non ci ho mai capito niente. Non so nemmeno che cosa voglia
dire immanente e trascendente: si figuri se penso a conciliarli! Credo che posso benissimo andare
avanti così: qualche stella, qualche fiore, qualche poesiucola. La mia pigrizia ne ha fin troppo.
Poi, quando resterò sola e avrò bisogno di trovare i miei morti in qualche luogo, allora troverò
comodo adagiarmi supinamente in una fede acquisita, di recitare l’imparaticcio, così, per
consolarmi…»194.
notare che nel quaderno delle Spigolature appare subito dopo un’ampia
campionatura dei versi del fratello di Cervi, Annunzio, che Antonia cita per
l’appunto anche nella lettera del 30 maggio, subito dopo il frammento che ho
riportato:
«Le voglio bene, sì: che importa? Lei è la mia vita: il pensiero di lei mi carezza l’anima,
continuamente. Ma cosa vuol dire, questo, se io non conosco nemmeno il suo Dio; se non so
nemmeno pregare per il suo fratello caduto?».196
cui traggo le citazioni, è anche la poesia Vuoto, dedicata ad Antonio Maria Cervi,
dove vengono raccolte molte delle immagini di questa lettera, fra le quali vi è
194
Ivi, pp. 87-88.
195
Il congresso al quale A. Pozzi fa riferimento nella lettera è indicato da M.M. VECCHIO in Gli
appunti…, in AA. VV., … e di cantare…, p. 356: «La P. allude alla relazione letta da Guzzo al
VII Congresso italiano di filosofia (cfr. A. Guzzo, Il VII Congresso italiano di filosofia, in “La
Cultura”, luglio 1929, pp. 432-433; cfr. Aa. Vv. Augusto Guzzo, cit., p. 15), non reperita
nell’archivio Pozzi.». L’articolo de «L’Eco della Cultura» al quale mi riferisco, Una geremiade.
A proposito del frammento nietzscheano": Uber Musik und Wort, come ho anticipato, è del 16
dicembre 1914; credo che la lettura risalga al massimo al 1929.
196
Ibidem.
96
sottolineare un aspetto molto importante della formazione di Antonia. Se, infatti,
sulle fonti che influenzarono il suo punto di vista sulla vita e la sua poetica, che
la giovane aveva uno spirito eclettico, si interessava ai più disparati aspetti della
una risposta al proprio dolore, ossia alla difficoltà con cui si trovava ad affrontare
l’esistenza – o meglio, la pena con cui sopportava il ruolo che si sentiva cucito
per la facoltà di Lettere e Filosofia, e che si laureò in Estetica, pur avendo optato
cui era rinchiusa quella vena ricca di vita che sentiva pulsare dentro di sé, ma
che non sapeva come conciliare con un mondo che ad ogni occasione sembrava
confronti dei suoi versi: vi riversava la sua anima, ma spesso non ne era sicura o
modo – critica – ossia verificabile nel percorso di altri autori, a problemi che
con estrema serietà gli insegnamenti ricevuti, ma soprattutto il senso delle parole
197
VECCHIO, Perché la poesia…, p. 117.
198
Si veda per esempio l’espressione «“l’esercito di monchi e di storpi”» usata per riferirsi al
suo quaderno di versi ed utilizzata in una lettera che scrive a Paolo Treves il 26 agosto 1933, in
POZZI, Ti scrivo…, p. 179.
97
che erano in grado di toccarle l’anima, di essere verificate nel suo stesso dolore.
grande letterato, uomo di teatro e pensatore come Luigi Pirandello200. Del noto
199
O. Dino, primariamente nelle pp. 38-39 dell’introduzione a POZZI - GADENZ, Epistolario…,
individua alcuni di questi filosofi, presenti negli scritti della Pozzi, nelle Spigolature e nel diario,
citando così la nostalgia metafisica dell’anima e il percorso ciclico delle ipostasi di Plotino;
l’idealismo romantico di Fichte (che è tratto però da un passo del diario del 1935, dunque più
tardo); la teologia romantica di F.D.E. Schleiermacher, corredata da postille di A. Guzzo.
200
Nato a Girgenti, ora Agrigento, in Sicilia, il 28 giugno 1867 e morto a Roma il 10 dicembre
del 1936, Nobel per la letteratura nel 1934, Luigi Pirandello fu uno dei massimi uomini di cultura
dell’inizio del Novecento. Iniziò come poeta, proseguì come scrittore di novelle e romanzi, per
dedicarsi poi anima e corpo al rinnovamento del linguaggio teatrale.
201
Nell’edizione Mondadori delle Maschere nude, Tutto il teatro di Pirandello, sono presenti i
seguenti volumi, senza dedica: vol. III contiene L' uomo dal fiore in bocca * Il giuoco delle parti
* Il piacere dell'onestà * L' imbecille * L' uomo, la bestia e la virtù, edito nel 1935; vol. V: Cosí
è (se vi pare) * Tutto per bene * La ragione degli altri, 1937; vol. VII: Pensaci, Giacomino! *
Lumíe di Sicilia * Il berretto a sonagli * La giara * Cecè * Il dovere del medico * Sagra del
Signore della nave, 1937; vol. VIII: Ma non è una cosa seria * Bellavita * La patente * L'altro
figlio * Liolà * O di uno o di nessuno, 1937; vol. IX Non si sa come * Trovarsi * Quando si è
qualcuno, edito nel 1938. Tre volumi portano la dedica di Lucia Bozzi: vol. I, edito nel 1933:
«Al mio sempre caro Tugnin, / da Mortara (!!!) / Lucia / S. Antonio 1934», contenente Sei
personaggi in cerca d’autore * Ciascuno a suo modo * Questa sera si recita a soggetto; vol. II
«13 febbraio 1934 Lucia» contenente Enrico IV * Diana e la Tuda * La vita che ti diedi, edito
nel 1933; vol. IV Come prima meglio di prima * Vestire gli ignudi * Come tu mi vuoi, edito nel
1935 con dedica di Lucia Bozzi «Al Tugnin di sempre, la / vecchia Cia, come sempre. / S.
Antonio 1938 XVI». Non è presente il vol. VI.
202
L. PIRANDELLO, I vecchi e i giovani, A. Mondadori Editore, Milano 1931.
203
ID., Quaderni di Serafino Gubbio operatore, A. Mondadori Editore, Milano 1934.
98
raccolte di Novelle per un anno204 e Una giornata205. È giusto ipotizzare che la
Banfi207, quest’ultimo a sua volta docente della Pozzi nei primi anni Trenta.
«Ora Lei [Gadenz] vede che un Dio così non si può né chiamare né pregare né porre
lungi da noi per adorarLo; lo si può soltanto vivere nel profondo, poi che è Lui l’occhio che ci fa
vedere, la voce che ci fa cantare, l’amore, ed il dolore che ci fa insonni. E questa nostra vita
irrimediabile, questo nostro cammino fatale, in cui ad ogni istante noi realizziamo, noi creiamo,
per così dire, Dio nel nostro cuore, altro non può essere che l’attesa del gran giorno in cui
l’involucro si spezzerà e la scintilla divina balzerà nuovamente in seno alla grande Fiamma. Ora,
di questo Dio che non si lascia staccare dalla vita, dove possiamo avere più immediato il senso
che nei momenti in cui più la lotta si acuisce tra lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire?
E non è la poesia uno di questi momenti? L’estasiata gioia del sogno non si scontra forse nel
bisogno e nella fatica di gettare quel sogno in parole? E un po’ dell’assolutezza divina non riluce
forse nell’atto di quella fatica? Io credo che il nostro compito, mentre attendiamo di tornare a
Dio, sia proprio questo: di scoprire quanto più possiamo Dio in questa vita, di crearLo, di farLo
balzare lucendo dall’urto delle nostre anime con le cose (poesia e dolore), dal contatto delle
nostre anime fra di loro (carità e fraternità). Per questo, Tullio, a me è sacra la poesia; per questo
mi sono sacre le rinunce che mi hanno tolto tanta parte di giovinezza, per questo mi sono sacre
le anime ch’io sento, di là dalla veste terrena, in comunione con la mia anima.»208.
Con queste parole Antonia sistematizza in maniera molto chiara a Gadenz – che
204
ID., Novelle per un anno, vol. I, Arnoldo Mondadori, Milano 1937.
205
ID., Una giornata, in Novelle per un anno, vol. XV, Arnoldo Mondadori, Milano 1937.
206
Georg Simmel (1858-1918) filosofo e sociologo tedesco. «Punto di partenza della riflessione
di S. fu l'insieme dei fenomeni storici e sociali indagati come manifestazione di vita, e dunque
per un verso dal punto di vista sociologico, per l'altro nella prospettiva di una filosofia morale e
di una filosofia della storia profondamente rinnovate.». Cfr. voce enciclopedia on-line Treccani.
207
Cfr. F. PAPI, Vita e Filosofia. La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Guerini e
associati, Milano 1990, p. 74.: «Simmel, maestro berlinese di Banfi nel 1910.».
208
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 100.
99
doveva pur conoscere Simmel209 – la posizione del poeta (e quindi la propria)
rispetto a Dio, alla realtà delle cose nel loro fluire, alle altre anime con le quali
proprio intimo e più profondo modo di sentire e intuire l’energia della vita – e
vette del pensiero che vive di sincretismi. Mi sembra che Antonia, infatti,
quindi ricucendo parola per parola una serie di insegnamenti ricevuti dai propri
guadagnate con dolore nella quotidianità della vita, usando il filo delle proprie
vaste letture, degli studi e delle meditazioni più personali. Riguardo ad esempio
al frammento di lettera dell’11 gennaio dove Antonia parla della poesia come
«Affior[i] qui una concezione che si potrebbe definire “neoclassica”, purificatrice, della
poesia, mediata però dall’insegnamento di estetica ricevuto da Giuseppe Antonio Borgese210,
con un di più, evidente in quell’immagine finale della “immensità della morte” come “catarsi
della vita”, che fa pensare alla “grande morte” di Rilke (nella quale si esprime l’intero senso di
un’esistenza) e a tutto un complesso retroterra culturale di matrice mitteleuropea.» 211.
209
Il critico Matteo Veronesi, nel suo saggio dedicato a Tullio Gadenz La “lunga pazienza” di
un poeta mitteleuropeo, commenta così la presenza del pensiero di questo filosofo nella relazione
Gadenz-Pozzi: «Il dramma di queste due anime stava anche e proprio nel conflitto fra abbandono
alla natura e travaglio della riflessione filosofica: la “tragedia della cultura” indagata da Georg
Simmel, e ripresa da Banfi nella sua riflessione fra “mondo della vita”, libero fluire
dell’esperienza, e stabilità, relativa fissità, delle forme concettuali.». Il saggio si trova in
GADENZ, Infinitezze…, pp. 135-142, la citazione è tratta da p. 141.
210
Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), giornalista, scrittore e docente universitario di
Antonia Pozzi, fu figura di intellettuale e critico letterario influente, scrivendo fra le varie testate,
alcune anche da lui fondate, per il «Corriere della Sera» di Milano e per «La Stampa» di Torino.
211
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 126.
100
La relazione fra questa cultura mitteleuropea – che diventerà un tassello
italiana era da guardarsi con sospetto –212. In particolare lo studio della filosofia,
che negli ultimi due secoli aveva visto la Germania protagonista, non poteva
così per Antonia anche un grande amore per la letteratura germanica, un amore
che la vedrà soggiornare per lunghi periodi all’estero. Nell’estate del 1936 è in
Hugo von Hofmannsthal»213 e dove « in seguito sarà raggiunta dalla madre, con
la quale visiterà varie città della Germania»214. Dal febbraio 1937 sarà, invece,
montagna alle pietre e alle luci delle grandi città straniere», vivendo giorni
filosofico, è cresciuta sulla base dello studio che, in anni precedenti a quelli
212
Approfondirò la relazione fra fascismo e formazione pozziana nel cap. III.
213
POZZI, Ti scrivo…, p. 239.
214
Ibidem.
215
Questa e le citazioni seguenti sono riprese dalla lettera indirizzata a Tullio Gadenz da Milano
il 28 marzo del 1937 contenuta in POZZI, Ti scrivo…, pp. 268-269.
101
cui figurano i Monologhi del filosofo e teologo tedesco F.D.E. Schleiermacher.
il filosofo romantico ci viene presentato da suor Onorina Dino come colui che
In questa sintesi della Dino fra le parole della Pozzi rivolte a Gadenz nella lettera
la capacità riorganizzativa della Pozzi nel modellarsi una cultura che, come
sintesi culturale era vissuta con l’etica del compito, della missione, da parte di
della lettera del 29 gennaio 1933 in cui Antonia parla della sacralità della poesia,
216
POZZI - GADENZ, Epistolario…, pp. 39-40.
217
In BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 128: «Una concezione dunque, sacrale della vita e dei
rapporti umani, quella della Pozzi, sulla traccia della filosofia romantica in genere, e più
specificatamente di quella del filosofo e teologo tedesco Schleiermacher, ai cui Monologhi
l’aveva accostata Cervi».
102
da quest’ultimo (che amava ritirarsi spesso in solitudine), protendersi in concreto verso il mondo
esterno per “chiamare le cose e le anime sorelle”. Su questa strada Antonia Pozzi approdava
perciò a una poetica e a una poesia dell’incontro e dell’accoglienza, nell’intenzione di mettere
l’altro-da-sé, in ogni schietto e profondo contatto con gli esseri umani e con gli oggetti, al centro
non solo della propria poesia ma della propria vita.»218.
Al centro dell’indagine culturale della Pozzi, torna quindi il tema della relazione,
declinata in un rapporto fra dottrina e prassi, fra filosofia e poesia, fra sentimento
religioso e osservazione della realtà nel suo farsi: in sostanza fra l’Infinito e il
suo limite. Una relazione creatrice che si esprime in Dio e che vive
vita, dalle alte vette del sublime e dai misteri degli abissi nascosti che la realtà le
218
Ibidem.
219
Così scrive in una poesia della primavera del 1932, Limiti: «Tante volte ripenso / alla mia
cinghia di scuola / grigia, imbrattata, / che tutta me coi miei libri serrava / in un unico nodo /
sicuro – / Né c’era allora / questo trascendere ansante / questo sconfinamento senza traccia /
questo perdersi / che non è ancora morire – / Tante volte piango, pensando / alla mia cinghia di
scuola – // Milano, 16 aprile 1932». In POZZI, Parole, p. 180.
220
Per una lettura della malinconia di Antonia si veda il delicato saggio di Eugenio Borgna
contenuto in E. BORGNA, Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano 2003, cap. III, Morire
dell’indicibile fiore del sorriso, pp. 68-84. In particolare riporto questo passaggio delle pp. 74-
75: «Ogni esistenza è colma di silenzio e di mistero, di ritrosia e di nascondimento; e la sua cifra
segreta è luminosa e oscura, aperta alla speranza e trafitta dal dolore. Resta, comunque, straziante
questa divaricazione, questa dissonanza, fra esteriorità, i modi di apparire e di essere percepiti
dagli altri, e interiorità, i modi di vivere la vita nella profondità della coscienza, in una figura
umana immersa in un orizzonte di assoluta creatività come questa di Antonia Pozzi. Nel suo
destino, nelle sue poesie, nei suoi diari e nelle sue lettere rinascono motivi di riflessione dolorosa
e accorata che possono aiutarci a dilatare la nostra conoscenza della vita e del dolore: della
malinconia.».
103
di incostanza221, senza riuscire a darsi risposte che non siano un nuovo
mascheramento attraverso l’arte, dove può attingere in maniera pura alla propria
visione e alla propria, immediata, verità. L’unico modo per riconciliarsi con se
stessa sembra essere quello di contraddire una parte di sé, ed è qui, in questa lotta
titanica consumata in silenzio, che io leggo nella Pozzi molto del forestiere della
vita pirandelliano, di quel tipo di eroe che è tale perché ha compreso il carattere
fittizio del meccanismo sociale e accetta il continuo fluire della vita, al quale
contempo, però, Antonia, pur avendo capito il giuoco delle parti, non può
prescindere, per via della contingenza storica, sociale, famigliare, in cui si trova
a vivere, dal darsi una forma accettabile da tutto questo contesto e si sente – con
Pozzi non può accedere, dunque, alla soluzione di Pirandello, ad una visione
lievemente divertito – sulla società che pure, nelle sue grette trappole, ha in odio.
«Già, perché tutto ciò che faccio, sento e dico, è condannato a parere a tutti
221
Fin dalle prime poesie emerge questo senso di inadeguatezza della sua persona, ad esempio
in Gelosie: «Mi son detta ch’egli è stato giusto: / ch’io non sono degna di niente: // io, accozzaglia
sommessa d’inquietudini. / Io, sonnolenza e febbre addizionate, / biascicato rosario di abitudini,
/ rimescolio di nostalgie sbavate. // […] Milano, 15 maggio 1929.», in POZZI, Parole, p. 74.
L’egli a cui si riferisce è Antonio Maria Cervi che aveva donato una fotografia del fratello
Annunzio, a un’altra persona – forse Lucia Bozzi –, anziché a lei: da qui la gelosia. Cfr. la nota
relativa alla poesia. Con Remo Cantoni, come spiegherò in seguito, era attivo un dibattito sul suo
presunto “disordine” mentale e morale, in chiave autoaccusatoria.
104
esagerato!»222:
«Ma più strano ancora m’è sembrato questo: che quando invece a un certo punto,
parlando, il suo sentimento s’è accostato – per così dire – alle lagrime, queste d’un tratto gli son
venute meno. Mentre la voce gli s’inteneriva e gli tremava, gli occhi, al contrario – quegli occhi
insanguati e disfatti poc’anzi dal pianto – gli sono diventati arsi e duri: feroci.
Quel ch’egli dice e i suoi occhi non possono dunque andar d’accordo.»224.
«Se rientrassi di là, nella sua stanza, e gli dicessi con gioja: “Signor Nuti, sa? Ci sono
le stelle! Lei certo se n’è dimenticato; ma ci sono le stelle!”, che avverrebbe? A quanti uomini,
presi nel gorgo d’una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe
bene pensare che c’è, sopra il soffitto, il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle.» 225.
ricordarsi che nel cielo ci sono le stelle come soluzione perenne alle tristezze
Pirandello, sia come romanziere (si pensi anche solo ai più famosi Il fu Mattia
Pascal e Uno, nessuno, centomila) che come drammaturgo (una su tutte la pièce
222
L. PIRANDELLO, Quaderni di Serafino…, p. 132. Cito dall’edizione della biblioteca Pozzi.
223
Ivi, p. 133.
224
Ivi, p. 153.
225
Ivi, p. 161.
226
Il passaggio dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nella sua risoluzione pacificatoria
dei drammi dell’uomo attraverso l’ammirazione estatica della natura, è molto simile a quello che
si trova in un frammento, probabilmente di lettera inviata a Tullio Gadenz nell’estate del 1938,
e che racconta di un’ascesa con la guida alpina Emilio Comici e una ragazza di Padova, alle tre
Cime di Lavaredo, sopra Misurina: «Lassù nei turbini bianco-azzurri del sogno, col corpo mi si
è rinforzata l’anima. […] C’era un silenzio infinito e pur denso di suoni. Dalla valle profonda di
Sesto, salivano rotti palpiti di campani, giù dalle gole, dai camini, rispondevano rarissime
pietruzze rimbalzanti sul ghiaione. E a me, così supina, pareva che l’enorme conca deserta fosse
pur piena di un’altra musica, una specie di ronzio gonfio e continuo, che sembrava partire da un
gigantesco organo sospeso fra cielo e terra, ed eco: guardando in alto, pensai che avverrebbe
delle nostre anime se quelle nuvole bianche che passano incessantemente lassù avessero ciascuna
un suono, una nota, un canto; più basso le nuvole lente e scure, chiaro argentino le nuvole
candide. Forse in quell’ora era il passo delle nuvole, era la voce che mi sonava dentro come una
sinfonia orchestrale. O forse erano le Tre Cime, là erette come una cattedrale gotica, sventrata
dal fulmine e spalancata a Dio, che lasciavano prorompere l’urlo delle loro preghiere di pietra.
E forse in tutto quel canto la nota più alta era tenuta dall’anima dell’uomo solo lassù, con la sua
vittoria e il suo sonno sotto il sole […] Se potessi sempre ricordarmi di quell’ora, la vita sarebbe
una vittoria continua […].». Si trova in POZZI - GADENZ, Epistolario…, pp. 155-156.
105
Enrico IV). Forse poche delle persone vicine alla poetessa conoscono questo suo
interesse verso il drammaturgo, che deve essere però stato molto importante se
si considera che tre degli otto volumi delle Maschere Nude le sono stati regalati
– tra l’altro in giorni significativi per lei come il suo onomastico o il suo
eminente psichiatra che alla Pozzi ha dedicato alcune pagine dei suoi studi:
«questa separazione, questa scissione, fra la vita interiore, fra le emozioni realmente
provate, e la vita esteriore, le emozioni intenzionalmente tenute nascoste fa ripensare (vorrei
ripeterlo) al mistero del dolore e ai segreti dell’anima, che vivono in ciascuno di noi e che non
vengono decifrati, non vengono interpretati, dagli altri; fa ripensare, ancora, a queste infinite
maschere nietzschiane che si sovrappongono ai nostri volti, al volto luminoso di Antonia Pozzi,
che le fotografie ci mostrano nel suo dolce sorriso e nella sua espressione meditativa e
malinconica. Ma noi desideriamo essere smascherati, essere riconosciuti, nella nostra autentica
dimensione psicologica e umana. In ogni caso, non si può non essere angosciati e stupefatti
dinanzi alle inquietudini e alla malinconia di Antonia Pozzi: dinanzi alle torturazioni interiori e
alle vertigini della morte volontaria che erano in lei, e che solo nella sua scrittura diaristica e
poetica si manifestavano nella loro radicale sincerità.».228
Come suggerisce Borgna, le affermazioni che Antonia fa nelle sue lettere, non
227
Si legga almeno questo commovente passo della Bozzi, scritto ad Antonia «verosimilmente
da Brescia, dove insegna presso un istituto di suore, con l’intento di verificare la propria
vocazione alla vita religiosa» nel giorno di S. Antonio del 1936: «Forse la sorgente più fonda
della nostra pace è la fede: pace che non è ozio o pigro ristagno della vita, ma equilibrio, saldezza
interiore, compenetrazione dell’ideale con la realtà, condizione unica e necessaria perché le
energie dell’anima non si disperdano vanamente, ma producano e segnino frutti concreti per il
potenziamento sempre maggiore di noi; fede che forse è più che amore, che è, dell’amore, la
realtà più piena. Per questa fede e sulle tracce di questa pace io sono qui ora, tu lo sai. Perché ho
udito la parola di Colui che disse, ai discepoli che non s’eran turbati per la sua morte: “Io vi do
la mia pace”. Si riveli anche a te, mia sorella, un segno cui tendere in dedizione ferma e sicura,
una realtà in cui credere e per cui operare, nella pace, qualcosa che, trascendendo le mobili
vibrazioni dell’anima, ti radichi con sé nella realtà, perché tu possa produrre frutti concreti di
vita.». In questo stesso giorno, due anni prima, la Bozzi aveva regalato alla Pozzi una copia del
primo volume delle Maschere nude di Pirandello. Due anni dopo questa lettera, il vol. IV. Le
citazioni delle lettere della Bozzi sono tratte da POZZI, Ti scrivo…, pp. 328-329.
228
BORGNA, Le intermittenze del cuore, p. 75.
106
dolore, del caotico – il dionisiaco nietzschiano – attraverso una compostezza
Antonia e che le è utile per mantenere un qualche tipo di contatto con l’altro da
sé. La maschera vorrebbe essere disvelata per accedere più facilmente ad una
relazione libera, vera, con l’altro, ma non può – seguendo ancora una volta
mittente.»230. Mascherandosi per tenere l’altro più vicino a sé, nelle lettere
e reale confronto fra la sua vera anima e quella dell’interlocutore. Come si deve
interpretare, dunque, sul piano della verità e dell’utilità per uno studio sincero
dell’evidenza di una ricerca costante della Pozzi – sia nel senso culturale del
229
VECCHIO, Perché la poesia…, p. 99.
230
Ibidem.
107
quell’emersione di una forma momentanea che sussurra mille significati
di essere disvelata, di essere sciolta dai nodi con cui la Pozzi cercava di legare le
anime dei suoi interlocutori nel momento della scrittura. Nodi creati per
di una possibile influenza di Pirandello sulla Pozzi, che la poetessa tentava, nello
Tentava di «aggrapparsi all’altro, cioè, per non permettere che la propria identità
Come considerare poi il non-detto, ciò che resta ai margini, escluso o velato dalla
sorta di protezione di quel sé più vero che in fondo lei credeva quasi impossibile
«Questo velame di non-detto può attingere a una volontà da parte dell’io di non rivelare
il profondo di sé – un sé che, nel momento in cui fosse rivelato, perderebbe forse quella sua
dimensione interiore, quel secretum non condivisibile né rivelabile se non a costo di svilirlo e di
perderlo, e di perdersi. Il non-detto può dunque costituire una sorta di reticolo protettivo che si
frappone tra il sé che scrive e, sensu lato, il mondo. Un sé che non va scalfito ma preservato, in
quanto parte “più vera” e autentica – e autenticante –, in un certo senso fondativa, senza la quale
231
Ivi, p. 100.
232
Ivi, pp. 100-101.
108
sarebbe lo smarrimento e la caduta.»233.
Questa volontà di mantenere il più possibile fedele la relazione con il più intimo
abbia su di lei, è una spinta fortissima nella ricerca esistenziale di Antonia, che
«La cura con cui Antonia Pozzi polisce le proprie parole, e a livello epistolare (anche
nella parziale magniloquenza delle lettere a Gadenz) e, su un piano tuttavia ideologicamente
diverso, a livello poetico, rivela quanto, nelle lettere, tale politura sia strumentale e voluta,
implicata, per lei, nel profondo della forma comunicativa epistolare; e quanto invece, nelle
poesie, essa si configuri quale acuminato esercizio attentivo, essenzialmente rivolto all’io che
scrive, e come spazio simbolico entro cui l’io può, senza lacci coercitivi e senza indossare
maschere incongrue, abbracciare la verità di se stesso.»234.
Antonia, o quanto meno tenere sempre presente che le parole subivano in quel
contesto una serie di macchinazioni e di filtri. Per quanto questo distacco critico
233
Ivi, p. 100.
234
Ivi, p. 103.
109
Senza considerare l’epistolario Gadenz-Pozzi non sarebbe forse emerso così
quanto la filosofia abbia costituito, sin dagli albori, uno strumento attraverso cui
Antonia tendeva a una sintesi legittimante fra il proprio modo di intuire la vita e
Ciò che vado indagando all’interno di questo capitolo, non è, quindi, solo
sistema di pensiero condiviso con altri scrittori, filosofi e amanti della montagna
Nella lettera dell’8 maggio 1934 a Tullio Gadenz, Antonia scrive, in merito alla
«Vi sono molte cose che amo nel suo libro, cose per me nuove, come Desolazione,
Eclisse, Fate, Nembi, Vespero e soprattutto Campane, – le campane della mia morte.»235.
Credo sia giusto riportare i testi delle liriche citate dalla poetessa, che mi aiutano
235
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 132. Le poesie di Gadenz sono tratte dal dattiloscritto
Viandanti: Desolazione, p. 18; Eclisse, p. 26; Fate, p. 29; Nembi, p. 37; Vespero, p. 43; Campane,
p. 69.
110
Desolazione Eclisse
Fate Nembi
Vespero Campane
111
Immensa; Con la musica dei loro mari;
Quello che credo aiuti maggiormente a capire il legame fra i due poeti è la
della vita quotidiana, condensata in una parola che indica distintamente una
una ricerca tesa all’elevazione del concreto tramite l’esposizione della sua più
significato ulteriore, più profondo. Il ruolo è così via via interpretato in primis
dalle campane, dal vento, dal canto degli uccelli, da elementi – naturali e non –
dotati di una propria capacità musicale: in Gadenz: «Mi seguivano / Coi loro
fanciullo.»237. Poi, anche ciò che non avrebbe una musicalità propria se non
quella in grado di vivere della sensibilità dei due poeti, assume una voce,
Ad esempio, Gadenz crea, tramite Gli astri / Con la musica dei loro mari di
236
Campane in GADENZ, Viandanti, p. 69.
237
Attendamento, in POZZI, Parole, p. 238.
112
diversi: lo scorrere degli astri in cielo (che di per sé non ha suono) è
accompagnato dalla musicalità del mare nel suo frangersi continuo. È lui il
demiurgo, è lui che connette attraverso il filtro lirico ciò che in realtà potrebbe
elementi celesti, per esempio le nuvole, potrebbero essere al posto degli astri e
voce a realtà che di per sé sarebbero mute – questo trascolorare delle cose in
delle cose, e, forse, in parte, di non poter essere compresa. Si legga la poesia
238
Si veda in questo senso lo studio di Dalla Torre in merito al lavorìo di Gadenz sulla lirica di
Viandanti del 1934 Nuvole, che diventa Mezzanotte in Vento sugli alberi del 1944 in GADENZ,
Infinitezze..., p. 130-131. Le nuvole della prima lirica, si trasformano proprio in astri, con un
movimento opposto a quello che ho cercato di suggerire per Campane. Riporto i versi di Nuvole,
in Viandanti, p. 48: «Salgon dall’oscuro / Recinto le nubi / Furtive / A baciare / La pallida / Luna
morente; // Le stelle / Ignude / Si celano / Nell’azzurro; // Ed i venti / Sulle cime / Degli alberi /
Senza / Respiro si fermano. //». Questi invece i versi di Mezzanotte: «Roghi di astri ardono /
solitari sui monti; / alla luce / di remotissimi mondi / rivolta è la luna. // Nel profondo / come
foglie i rintocchi / dei campanili si perdono / e i venti / sulle cime degli alberi / senza respiro si /
fermano.». Chiaramente il movimento trasformativo qui è ampio e porta con sé, nelle prime
strofe, concetti differenti. Ma è un indizio che nell’immaginazione del poeta un certo sentimento
del tempo notturno possa filtrare in modo ugualmente efficace da nuvole e astri, che ne sono
correlativi oggettivi.
113
lei sola, in alto, si tende
ad un muto colloquio col sole.»239.
sono sempre i suoni delle campane, reali, a ritrovare nella natura delle immagini
rassomiglianti, in questo caso delle immagini che traducano il loro ritmo fatto di
dalle ninfee sul lago della valle per significare il ritmo sonoro240. Si può quindi
239
POZZI, Parole, p. 161.
240
L’immagine delle ninfee, presente anche in Gadenz, ha una sua valenza nella poesia di fine
Ottocento (come nella pittura, una su tutte quella impressionista di Claude-Oscar Monet). Cito
dal saggio di Matteo Veronesi dedicato proprio a Gadenz La “lunga pazienza” di un poeta
mitteleuropeo, contenuto in GADENZ, Infinitezze…, p. 140: «“Abissi delle astrali ninfee / nel
golfo del crepuscolo”. Così, nella poesia Incantesimi (trascritta interamente dalla Pozzi, per
essere poi ridotta e modificata da [Gadenz]), con una metafora alata, fra simbolismo ed
ermetismo, [il poeta trentino] fondeva i vertici siderali con le profondità oscure della terra,
dell’origine, del declinare e adombrarsi che precede la notte. È il D’Annunzio di Canto novo,
che fa sorgere i versi “come da l’acqua nenufari in fiore”; o il Nénuphar blanc di Mallarmé, che
con il suo intangibile candore avvolge “un nulla fatto di sogni intatti, della felicità incompiuta e
del soffio trattenuti nel timore d’una apparizione”. Eppure, per Tullio ed Antonia il fiore della
poesia – quasi il segno stilizzato del pensiero, dell’espressione, della vocazione che è destino,
accettazione, scelta di vita e insieme voce, sillaba, parola, canto – non sfuma in dantesco, e
dannunziano, impalpabile “incognito indistinto”, ma è semmai esperienza vitale,
114
affermare che la tensione relazionale dei due poeti nei confronti dell’emersione
della musicalità e della connotazione poetica degli elementi sia quasi vicina
morte, vicine e sorelle le stelle, testimoni del fluire misterioso della vita fino al
suo perire242.
fenomenologicamente sentita nella concezione e nella creazione.». Ricordo che la poesia della
Pozzi è del 1931, per cui esente da influssi di Gadenz.
241
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 45.
242
Si confrontino, almeno per il tema delle stelle, le poesie della Pozzi, Sorelle a voi non dispiace
in POZZI, Parole, p. 136 «Sorelle, a voi non dispiace / ch’io segua anche stasera / la vostra via?
/ Così dolce è passare / senza parole / per le buie strade del mondo – / per le bianche strade dei
vostri pensieri – / così dolce è sentirsi / una piccola ombra / in riva alla luce – / così dolce serrarsi
/ contro il cuore il silenzio / come la vita più fonda / solo ascoltando le vostre anime andare – /
solo rubando / con gli occhi fissi / l’anima delle cose – / Sorelle, se a voi non dispiace – / io
seguirò ogni sera la vostra via / pensando ad un cielo notturno / per cui due bianche stelle
conducano / una stellina cieca / verso il grembo del mare. // Milano, 6 dicembre 1930», Notte e
alba sulla montagna, pp. 264-265: «Ascesa lenta / nel chiarore lunare, / mentre il sonno degli
uomini ed i lumi / delle strade deserte / stagnano nelle valli – // ascesa – per i prati / vestiti / di
seta bianca – / e gli alberi, / draghi neri / con occhi di luce / nelle paurose creste – // attonito
ruscello, il sentiero / per trecce di ghiaia conduce / alla sua fonte / sul volto / della montagna
dormiente, / alla fronte / dove crescono le più fini erbe, / arsi capelli / e dalle sigillate pupille /
un tremito / sulla vetta / nasce – // Or lenta una stella s’invola / e già rapida trae / a sé in fondo
al cielo lo stormo / delle sorelle: / muti sull’orma spenta / ricadono i battenti celesti / dell’alba –
/ Ora guance di lontani monti / fra le nebbie si volgono /nel risveglio, al primo / rossore – / Già
escono dai campanili le voci / delle nuove campane: / a groppa a groppa, / urtandosi, salgono –
/ gregge in cerca di sole – // 1 ottobre 1933», e Morte delle stelle p. 251: «Montagne – angeli
tristi / che nell’ora del crepuscolo / mute piangete / l’angelo delle stelle – scomparso / tra nuvole
oscure – // arcane fioriture / stanotte / nei bàratri nasceranno – // oh – sia / nei fiori dei monti /
il sepolcro / degli astri spenti – // 13 settembre 1933» con quelle di Gadenz contenute in
Viandanti, come Mistero, p. 28: «O stelle immortali, che uscite / Nei cieli, ogni sera, e alle vette
/ Dell’Universo salite; // O voi, che passare vedeste / Iddio abbagliante sul caos, / E giù
nell’abisso calare / Dei mondi, il sole; // Perché tanto buio s’addensa / Ora alla volta suprema? /
Perché il vostro sguardo trema / D’orrore, ogni notte, lassù?», Fate (il cui primo verso è Morivan
115
Un’eccezione in ambito italiano, secondo il critico Matteo Veronesi, questa
poesia di montagna che legava Gadenz alla Pozzi e, quindi, a tanti autori del
«Si può dire che l’Italia non abbia avuto – anche per ragioni di geografia letteraria –
una poesia della montagna quale quella del mondo germanico e mitteleuropeo, da Hölderlin (per
il quale le altezze e le nubi sono emblema di un limite conoscitivo da inseguire e sfiorare, senza
poterlo varcare, ma trascendendo i confini del sé) a Rilke, i cui monti, nelle Elegie Duinesi, sono
invece le estremità e le acutezze di uno spazio e di un tempo metafisici, assoluti, puri, cristallini
e tersi proprio come l’aria e l’acqua delle vette, da Nietzsche, che proprio lungo i sentieri
dell’Engadina – viatico verso l’esperienza del limite e del suo superamento – incontrò quell’altro
se stesso che è Zarathustra, per arrivare a Thomas Mann, che nella Montagna incantata vede le
altezze di roccia e di ghiaccio come spazio della sospensione esistenziale, del limbo interiore,
dell’esitante distanza del mondo. È se vogliamo emblematico – anche se certo non in senso
assoluto –, e figlio dell’astrazione e dell’artificio estetizzanti, il “blasfemo disgusto” di
d’Annunzio di fronte alla natura alpina e lacustre del paesaggio svizzero, e all’enfasi romantica
degli Idilli di Salomon Gessner, che proprio a quello scenario di ispiravano.
Diverso il caso di Tullio Gadenz, e della sua delicata e dolente interlocutrice Antonia
Pozzi: per i quali, peraltro, la montagna, le altezze, le guglie, le rupi, le voragini non sono affatto
indistinta hyle, materia selvaggia, informe, ingovernabile, e neppure spaesante abisso,
vertiginoso gorgo nel senso del sublime romantico; ma, semmai, specchio limpido dell’anima,
eco materiata del pensiero creatore, correlato oggettivo – quasi come nel Petrarca dell’ascesa del
Ventoso – di un percorso conoscitivo proteso oltre se stesso, di un itinerarium mentis che,
valicando ascensionalmente i limiti della contingenza, poteva culminare nella concezione e
nell’esperienza del Divino e dell’Essere così come del Vuoto e del Nulla.»243.
della Pozzi. A trasportarli nel fluire del verso è una costante tensione di assoluti:
nei cieli le stelle), Vespero, Plenilunio (p. 47, soprattutto l’ultima strofa: «Sul cancello /
Spalancato, / Fermo è come una visione / Il plenilunio mentre ardente / Passa il grande funerale
/ Delle stelle / Tra i cipressi d’occidente //» e, infine, Stelle, pp. 54-55: «Palpitan come cuori /
Gonfi d’azzurro / Ed eterno / Sangue, / Le stelle: che siano / I nostri morti lassù? // In lunghe fila
per l’alta / Notte camminano / Pellegrini celesti, / O in splendenti / Ghirlande d’argento /
Lievissimi danzano: // Voci / Già udite, e lontani / Canti d’amore / Si odono / Giungere /A volte
sul vento.». Quest’ultima poesia riporta, nella versione di un quaderno inedito dattiloscritto che
sembra essere una rielaborazione di Vento sugli alberi, e quindi dopo la morte della poetessa, la
dedica scritta a mano «Ad Antonia Pozzi».
243
Il saggio di Veronesi è contenuto, come già accennato nelle precedenti note, in GADENZ,
Infinitezze…; la citazione è tratta dalle pp. 135-136.
116
«Come Antonia, così anche Tullio Gadenz vedeva, nella montagna, nella tensione di
superamento, di ascesa/ascesi, che essa evocava, un riflesso di quella dialettica di Leben e Geist,
di Vita e Spirito, immediatezza dell’esperienza e riflessione intellettuale (come pure fra Mehr-
Leben e mehr-als-Leben, più-Vita e più-che-Vita, esistenza intensificata, resa più significativa e
più piena, e nello stesso tempo oltrepassata e trascesa, nelle forme dell’arte), che la Pozzi, allieva
della scuola fenomenologica, proiettava sugli autori letti e amati – si trattasse di Flaubert, di
Mann o di Rilke – come, con duplice reciproco riflesso, sul proprio stesso vissuto. La Vita,
levatasi al di sopra e al di là di se stessa, finiva per sfumare, coscientemente, nell’oltrevita,
nell’al-di-là-della-Vita, infine nella negazione, nell’Abisso, nel Vuoto, in un Nulla sidereo ed
eterno.»244.
disciolto nei versi è la forma naturale del suo più intimo sentire, per Gadenz
«L’amicizia di Antonia e Gadenz, nata sulla montagna e all’insegna della poesia, di esse
continuamente si alimenta: stelle e rocce, alberi e nuvole, nelle lettere e nelle poesie fanno
sempre da sfondo ai sentimenti e alle parole dei due corrispondenti, e se Gadenz fa più fatica a
creare il ritmo, nella prosa dimostra un’abilità metaforica e pittorica che rivelano la sua
straordinaria delicatezza d’animo; del resto, al primo incontro, proprio questo deve aver colpito
la sensibilissima Antonia con le antenne dello spirito sempre tese ad intuire e percepire […]»245.
244
Ivi, p. 138.
245
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 44. A mio parere la continua revisione dei propri versi da
parte di Gadenz, che di raccolta in raccolta cambia la divisione ritmica delle liriche, non
determinando – almeno apparentemente – uno slittamento sostanziale del contenuto, è una prova
di questa difficile operazione di condensazione poetica, paragonabile al sacrificio di se stessi
nell’atto di ascendere alle vette, spogliazione di invisibili dettagli che diventa pura ascesi. Si
legga in questo senso l’interessante saggio di Matteo Veronesi La “lunga pazienza” di un poeta
mitteleuropeo, contenuto in GADENZ, Infinitezze…, pp. 135-151. Per avere, invece, un riscontro
dell’incanto totale in cui Gadenz riesce ad immergere il lettore attraverso i suoi testi in prosa, si
leggano almeno le due relazioni d’ascensione alpina contenute in DALLA TORRE - GADENZ, A
voce sola…, pp. 93-102 Le Aquile e Il Cimone della Pala, pubblicate originariamente in
Brennero rispettivamente l’8 e il 21 gennaio 1931. Dall’incipit de Le Aquile cito il risveglio
sonoro del poeta-viandante-alpinista: «Dolce preludio di campane, nel silenzio notturno e dalle
vie dei sogni, eccoci sul sentiero di Val di Roda, nel giardino selvaggio della foresta. Alte le nubi
dormono ancora sulle soglie dei cieli; ma già le stelle s’illuminano del sorriso dell’alba, mentre
le fronde si dondolano ebbre nella freschezza della notte. Sul limitare della selva, le prime luci
risvegliano le miosotidi della malga; un soffio di gioia passa su tutti gli origlieri [cuscini]; il
canto dell’alba intessuto di gorgheggi, sale dagli abeti, i balconi celesti si riempiono di azzurro,
lontana lontana, l’Aurora varca le porte dell’infinito…». Ivi, p. 93.
117
Subito dopo la Dino rievoca come esempio di questa sensibilità del poeta
gennaio 1933 in cui risponde ad Antonia in merito alla visita della poetessa al
cimitero di guerra246:
«Cara Antonia,
la notte scorsa molte stelle devono esser morte di freddo in mezzo alle roccie [sic] –
poiché svegliandomi – ho trovato sul vetro della finestra un meraviglioso giardino di ghiaccio;
c’erano tanti minuscoli alberi con le fronde larghe e sottili come quelle dei salici; ma sopra tutta
quella foresta d’incantesimo c’era un abete con in vetta una piccola croce. Era passata forse la
sua mano durante la notte – vicino alla mia finestra?
Mi sono incuriosito e stasera sono salito a quel cimitero sotto il Cimon della Pala. La
sua crocetta non c’era più fra le sbarre: era caduta sulla neve. Ma io l’ho raccolta – ho varcata la
soglia – dopo tanti mesi – e mi sono arrampicato su quella croce alta e bianca nel mezzo del
camposanto. Ed ho messo il Suo ramoscello lassù: la Sua gentilezza per i morti meritava
quell’atto. Io ho visto in quell’istante che gli abeti si destavano e che i raggi di sole orlavano
d’oro quel grande monumento funerario che è il Cimone da lassù.».247
«L’immagine delle stelle che “devono essere morte di freddo in mezzo alle rocce”
rivela l’umanità del giovane poeta trentino e al tempo stesso l’innocente fantasia del fanciullo
che ama le fiabe e le inventa, trasformando i ghirigori del ghiaccio sui vetri in un “meraviglioso
giardino, una foresta d’incantesimo”, nella quale il desiderio dell’amica, di deporre una piccola
croce sulle tombe dei caduti, diviene realtà, perché in quella foresta spicca più in alto “un abete
con in vetta una piccola croce”.»248
Gadenz, come la Pozzi, crede nella purezza dei gesti e in una dimensione
da permetterle di trovare una sua realtà concreta. Porta infatti a compimento con
246
Lettera dell’11 gennaio 1933.
247
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 91.
248
Ivi, p. 44.
118
Ma – e qui sta il miracolo di questa amicizia che non è mai scesa nella totale,
assorbito dai concreti dubbi a-confessionali di Antonia, quelli che lei nemmeno
gli ha mai esplicitato. Subito però la certezza della fede – sussurrata da una
trasformare la luce di tramonto della vita della poetessa in luce d’aurora. Così
«Ma poi – scendendo in mezzo alle tombe – ho avuto l’impressione che anche la pace
dell’al di là sia una grande illusione. Se fosse vero – se tutti quei soldati dormissero soavemente
– non crede Lei che tutti i viventi si precipiterebbero verso la Morte? Le dico questo non per una
convinzione passeggera – ma perché io sento questo grande fiume funebre che abbraccia la terra
– e più ancora le nostre vite – come l’antico Oceano. Anzi talvolta essa mi prende – come un
alto mare di tenebre – e mi porta in mezzo a tempeste attraverso il futuro. Così io immagino l’al
di là: questa sarà forse la pace verso la quale corriamo con tanta fede.
Ma Lei non mi creda – io stesso non voglio crederci; e ritornando a S. Martino – quasi
per dirmi che non era vero – la foresta ha fatto riudire i canti dei suoi uccelli – anche se cadeva
la neve – ed io ho parlato con Lei di ben altre cose – mentre camminavo fra gli alberi. Vorrei
ripetere qui quel colloquio – e la luce di tramonto della sua vita – diventerebbe luce d’aurora –
ma il silenzio è forse più bello.». 250
Nell’identità delle Radici251 e nella differenza degli esiti: è in questo scarto del
249
«L’amicizia fra Antonia e Gadenz è, fin dall’inizio, un’amicizia a tutto tondo, fiduciosa e
confidente, senza tuttavia varcare mai i confini della riservatezza; Antonia, infatti, fa intuire
all’amico l’angoscia che la stringe da ogni parte, anzi gliene parla esplicitamente, ma non ne
rivela le cause, come, del resto, fa l’amico. In questa amicizia tutto è fonte di gioia, tutto dà una
sensazione di sicurezza, di dolcezza, di soavità.». Onorina Dino così condensa la natura della
relazione fra i due in ivi, p. 31.
250
Ivi, pp. 91-92.
251
Titolo di una poesia della Pozzi del 15 febbraio 1935, in POZZI, Parole, pp. 355-356: «Gronda
di neve disciolta / la casa. Trasale / l’anima al tonfo delle gocce fitte. // Così sfacendosi / dolorano
le cose. // Ma lontano, / oltre i vali del sole e gli insicuri riflessi, / oltre il trascolorare delle ore,
/ vive un esiguo mondo / d’erba e di terra. // Radici / profonde nel grembo di un monte / a
Primavera votate / si celano. // E conosco / io sola / il nome d’ogni fiore / che fiorirà, / la luce
ed il pezzo di zolla / in cui prima riappaia la tenera / esistenza delle foglie. // Radici / profonde
nel grembo di un monte / conservano un sepolto segreto / di origini – / e quello per cui mi riapro
/ stelo / di pallide certezze. //».
119
Fino all’ultimo, nel segno della Malinconia252 la poetessa porterà nel cuore le
«Tante immagini risorgono, con la dolcezza suasiva del sogno: rivivo una lontana sera,
l’assorto silenzio suo e mio nel vocìo confuso di tante persone ignote; rivedo le sue mani, nel
gesto rapido con cui mi donarono alcuni fra i suoi versi più belli – si rammenta? – “…ed esser
vorrei – di un grand’albero – in una scura – sera la più profonda – radice”. Come una radice
profonda, su dalla terra segreta dell’anima, risale fino ai miei occhi la luce pensosa dei Suoi
occhi.»253.
ovest, alle vette del Cervino. Nel luglio 1933254 la Pozzi si trova a Breil con
dell’incontro con la pace montana, così essenziale per lei in questo momento del
difficile distacco da Cervi. Un’armonia che Antonia assorbe con ogni fibra del
suo corpo e della sua anima come un balsamo benefico e che riesce a rielaborare
e rivivere in poesia solo nella distanza, dalle sue montagne di Pasturo. Tanta è la
fioriscono rompendo un periodo di silenzio della Musa di quasi tre mesi. Il canto
252
Malinconia è una poesia di Tullio Gadenz, pubblicata in O. DINO, Introduzione in POZZI -
GADENZ, Epistolario…, p. 69. Secondo Dalla Torre, si trattava in origine di un «foglietto
manoscritto di Gadenz, incollato da Antonia Pozzi in [M].», in GADENZ, Infinitezze…, p. 41.
Ecco il testo: «Quando io mi ricordo / D’esser ancor sulla terra / Subito al cuore s’afferra / La
malinconia, // E più non v’è donna / Che in dolce abbraccio chiudendomi / Possa destarmi alla
gioia // Ma esser vorrei / Di un grand’albero / In una oscura / Sera – la più profonda / Radice.
//».
253
Lettera a Gadenz dell’estate del 1938, scritta da Pasturo, in POZZI - GADENZ, Epistolario…,
p. 157.
254
Confrontando le date delle lettere, delle fotografie, si dovrebbe trattare della settimana 23-30.
255
Si tratta delle poesie Acqua alpina, Respiro, Mano ignota, Cervino, Attendamento, Notturno,
Distacco dalle montagne, tutte in POZZI, Parole, fra le pp. 230-241.
120
prende l’abbrivio dallo scrosciare lieto del torrente di Acqua alpina: «Gioia di
cantare come te, torrente; / gioia di ridere/ sentendo nella bocca i denti / bianchi
come il tuo greto; / gioia d’essere nata / soltanto in un mattino di sole / tra le
del Respiro257 della giovinezza perduta, ora cadenzato dal ritmo della dolce
a dire / che una stella / due stelle / sono nate / dal grembo del nevaio / ed un’altra
sprofonda / dove la roccia è nera – //»; poi è già il tempo delle consonanze degli
simboleggiano il riscatto alpino dell’uomo: «ed un lume va solo / sul ciglio del
ghiacciaio / più grande di una stella / più fioco – / forse la lampada di un pastore
sonno – / di là dal nero informe / stupore delle cose – // abbandono notturno / sul
masso / al limite della pineta –». Questa purezza intraducibile del tentativo
assoluto dell’uomo di mettersi in dialogo con una natura che – con la propria
è l’insegnamento più forte di quei giorni. Una lezione che ritroviamo nei versi
256
Ivi, p. 230. Porta in chiusura la dicitura «(Breil) – Pasturo, 12 agosto 1933».
257
La poesia, da cui sono tratte le successive citazioni, si trova in ivi, pp. 231-232. Riporta la
dicitura: «(Breil) – Pasturo, 13 agosto 1933»
121
di Cervino258 e nelle parole lette e rilette259 dell’alpinista e scrittore Guido Rey:
all’influenza dei suoi scritti e della sua esperienza di montagna sulla formazione
della Pozzi? Dalla nota su di lui presente in calce alla lettera scritta alla Gandini
258
Ivi, p. 237.
259
POZZI, Ti scrivo…, p. 177. Le parole lette e rilette dovrebbero essere quelle de Il monte
Cervino, libro di Rey edito da Hoepli nel 1926. Da questa lettera si apprende che anche la
Gandini doveva essere operativa dal punto di vista artistico, se non ci sono elementi sufficienti
che dimostrino uno scambio propriamente lirico-letterario fra le due amiche. La citazione in
esergo al paragrafo 1 «Ma non pensare più di finire…» sembrerebbe riferirsi a questo.
122
apprende:
delle ascensioni di Rey. Nella biblioteca della Pozzi, insieme al volume citato,
otto anni per la prima volta vede da vicino il Monviso, guidato da un vecchio
umile nel riconoscere i propri avi padroni della montagna; di celebrazione verso
uno zio come Quintino Sella261 che per primo conquistò il Monviso; di presagi
e dettagli simbolici intimi della relazione che il fanciullo avrebbe costruito con
del sogno e della favola, immaginata dalla pianura e quella per la prima volta
260
Ibidem.
261
Nato nel 1827 e morto nel 1884, il Sella si laurea in Ingegneria idraulica il 03 agosto 1947
presso l’Università di Torino. Nel 1852 viene nominato professore di Geometria applicata alle
Arti presso il Regio Istituto Tecnico di Torino (che diventerà l’attuale Politecnico). Competente
in mineralogia, venne nominato direttore del museo mineralogico dell’Istituto. Alla fine del 1853
è nominato professore di Matematica presso l’Università di Torino. Fu quindi valente scienziato
in questo ambito, oltre che Ministro delle Finanze negli anni della Destra Storica e fondatore del
CAI nel 1863.
123
in quella, poi, definitivamente, perdersi262. Soprattutto questo ultimo tratto è
richiamato anche nel capitolo quarto de Il monte Cervino, La prima volta che
vidi il Cervino, in cui Rey rievoca le prime gite in montagna, con la compagnia
di cugini che lo zio Sella allenava alle vette. Si tratta di tempi innocenti in cui
era ancora ignaro che avrebbe avuto il grande privilegio di scalare il Cervino:
«Ora che quel tempo è lontano, mi sembra che del primo desiderio dei monti fosse molta
parte il senso dell’emulazione. Allora io conosceva la montagna per averla veduta da lunge, da’
miei colli, o per aver guardato qualche stampa a colori, di quelle molto primitive che ci venivano
allora dalla Svizzera; mi ero fabbricato nella mente montagne immaginarie come quelle che i
bimbi costruiscono a Natale pel presepio. E, la prima volta che fui condotto entro la montagna
vera, provai, lo confesso, una specie di delusione.
Non riconoscevo le belle vette azzurre che avevo guardato da lontano; qui era un
mucchio di rovine opprimente, triste, massiccio. Non trovavo il paesaggio alpestre quale era
raffigurato nelle vignette romantiche, ove ogni scena è bene composta, con uno sfondo di
ghiacciai miti e tranquilli, inquadrati entro folte foreste di pini; un sentiero orlato di fiori che
serpeggia in fondo alla valle; qua e là un châlet lindo e pittoresco; la cascatella che scende sul
fianco elegante della montagna, e in mezzo al quadro il torrente d’argento che passa sotto il
ponticello di legno.
Non rinvenni allora quest’arcadia dell’Alpi. Le coste dei monti, brulle e pietrose, mi
parevano brutte; in luogo dei poetici casolari di legno incontrai misere macerie di sassi, covi
sudici ed oscuri, che, all’avvicinarli esalavano un acre odore di fumo e di letame; invece del
sentiero infiorato, una traccia irta di ciottoli e di macigni, troppo ripida, che affaticava i miei
piccoli polmoni, e in segreto pensavo che le montagne descritte ne’ libri o dipinte ne’ quadri
erano più belle di quelle vere. […]
Giunto in alto, sulle creste, là donde già si potevano scorgere le valli profonde ai nostri
piedi e si scoprivano i ghiacciai e le catene lontane e l’orizzonte infinito, allora capivo che egli 263
aveva ragione. Trovavo la montagna quale nessuno aveva mai dipinto, che nessun libro mi aveva
descritto, così maravigliosa e nuova come niuna storia di fate mi aveva mai fatto sognare. Provai
sensazioni che niuna cosa mi aveva dato prima: il piacere istintivo di elevarsi al di sopra della
bassura, la voluttà della grande fatica e del profondo riposo che la seguiva. Il pane che divoravo
lassù aveva un sapore che non avevo mai gustato. E scopersi la gioia nuovissima, inesplicabile,
di giungere al punto culminante, ove è la vetta, ove il monte ha cessato di salire e l’animo cessa
di desiderare: è una forma quasi perfetta di soddisfazione dell’istinto, quale forse la prova il
262
«Il giorno passato all’alpe della Coche dovette essere assai importante perché esso abbia
lasciato in me tanta traccia di ricordi; mi sembra oggi che io apprendessi in quelle poche ore più
cose che non in tutto il tempo prima passato. Non sono mai più ritornato lassù: ignoro se il
casolare ospitale esista ancora e se vi abiti un qualche mio lontano parente pastore; di quella
vetta ove, mezzo secolo addietro, ho tanto sofferto e goduto non so dirvi il nome; forse non ne
aveva alcuno, né saprei ritrovare la via; e quasi ho più caro che quei luoghi rimangano nella mia
memoria indefiniti, lontani, come veduti in un caro sogno della fanciullezza. Altri bimbi,
giungendovi, li troveranno intatti, quali a me apparvero allora e, come me, crederanno di avere
scoperto su questa terra un paradiso.». In G. REY, Il tempo che torna, CAI, Milano 2010, p. 171.
263
Lo zio, Quintino Sella, che gli aveva citato Dante: «Questa montagna è tale / Che sempre il
cominciar di sotto è grave / E quant’uom più va su, e men fa male». G. REY, Il monte Cervino,
Hoepli, Milano 2015, p. 164.
124
filosofo che ha conquistato alfine una verità nella quale la mente sua si appaga e riposa.»264.
Il tema dunque di un’ascesi che concilia il corpo con lo spirito, che sazia in modo
quasi perfetto desideri e appetiti, ristorando con il riposo di una gioia vera,
propria stessa natura umana: un credo semplice che la Pozzi dovette sentire
Graziella Bernabò:
«Il tema, che sarà sempre presente in Antonia, dell’“ascesa” [è un ] motivo insieme
realistico e simbolico, di un simbolismo però complesso, interpretabile sia in senso religioso, sia
come una forte affermazione di quella vitalità che il mondo esterno le negava, sia, soprattutto,
come profonda ricerca interiore al cospetto di una natura intatta.»265.
sport che si riprometteva più che la semplice esposizione di una prodezza fisica,
ma che ai più sembrava ancora solo una follia per eccentrici abbienti, si ebbe
proprio a cavallo del Novecento, per opera del Rey. Celebre è rimasta la sua
definizione – acquisita dal CAI che la stampò per anni su ogni tessera266 –: «Io
credetti, e credo, la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte,
264
Ivi, pp. 163-165.
265
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 89.
266
L’ente era impegnato in quegli anni a indorare di retorici intenti la grande passione per l’Alpe.
Per un confronto sulla scrittura di montagna, la sua retorica e l’intreccio con i valori storico-
sociali in evoluzione nel Novecento si veda l’articolo di Ermanno Filippi Guido Rey e “la lotta
con l’Alpe”, presente sul sito del comune di Bolzano, comune.bolzano.it.
267
La frase è la chiusa dell’introduzione ad un libro di grande successo di G. REY, Alpinismo
acrobatico, edito nel 1914 da Lattes.
125
Il complesso di questi elementi mi pare più che sufficiente a testimoniare il
fascino che la personalità di Rey può aver suscitato sull’animo della Pozzi. Ma
della vetta e nella fatica per limarne in versi alcune immagini, una radice
comune. Si tratta, infatti, della stessa lotta morale, della stessa volontà dilaniata
dallo sforzo del lavoro – alpinistico e/o poetico –, teso a raggiungere un’ideale
nobile ma concreto. In questo ascendere è come scrivere, ossia è segnare una via
artistica della vita, e tuttavia reiterabile, utile, educativa nella sua bellezza pura.
Il percorso tracciato sulla roccia resta visibile, con la sua grammatica di corde e
nuove voci che in esse sentono risuonare la propria anima. Tre poesie suggellano
268
POZZI, Parole, p. 238.
269
Ivi, p. 239.
270
Ivi, pp. 240-241.
126
lacerate. se nell’ora del distacco
Sul nostro sonno Limpido nasce la vostra chiesa m’accoglie
le stelle dal tuo labbro – il profilo con la sua bianchezza di sole
sciolte dai veli delle vette – nel buio – e abbraccia forte la mia
intrecceranno ghirlande malinconia
di fiamma e lentissime Muoiono le tue note col canto
danze.] come gocce assorbite dalla delle campane di
All'alba terra – ] mezzogiorno – ]
sarà tepido il risveglio,
dolce come l'accendersi Le nebbie sopra gli abissi Nella piccola piazza
di una lampada fioca: percorse dal vento una donna ridente
il canto del torrente sollevano il suono spento vende le prugne rosse e
sosterrà nel cielo – gialle]
fedele per la mia ardente
sopra il suo grembo (Breil, luglio 1933) – sete –
il silenzio fanciullo. Pasturo, 22 agosto 1933
Per noi, portati sul gradino di pietra
dagli artigli notturni della fontana
del vento, luccica la lama
giaceranno i messaggi delle di una piccozza –
vette]
alla soglia: l’acqua diaccia gela
leggerli sarà lavare il riso in bocca
nel puro azzurro a un fanciullo –
gli occhi le mani stampa lo stesso riso
il cuore – sulla mia bocca –
(Valtournanche, 30 luglio
1933) – Pasturo, 23 agosto
1933
lotta, utile lavoro, nobile arte, bella fede – c’è sicuramente il rapporto
diretta con Guido Rey, che incontra nell’estate del 1934, ormai anziano. Così
Antonia parla di lui in tre lettere inviate rispettivamente al padre, alla madre e a
Lucia Bozzi:
127
Breil, 24 luglio 1934271 Breil, 24 luglio 1934272 Pasturo, 28 agosto 1934273
Caro il mio papà, […]. Ieri Carissima mamma, […]. Il …Al Breil rimasi fino al 10
mi hanno condotta da Guido Breil ha però tante attrattive agosto: venti giorni molto
Rey e ne sono rimasta lo stesso: non ultima – anzi intensi, benché a volte tetri e
ammaliata. È un povero una delle più grandi – la minacciosi; ora li ricordo
vecchio malaticcio, ma ha presenza di Guido Rey, che come un miraggio lontano…
due occhi, due occhi color ho conosciuto ieri nella sua Nelle mattine serene salivo
pervinca come non ne ho meravigliosa casa valdostana da sola alla morena del
visti mai. Sta in una casa di e che è un tremulo, Fürggen, che è cosparsa di
legno e pietra, come una bellissimo vecchio, con due fiori meravigliosi; e lì restavo
grande baita valdostana, con occhi color pervinca quali per delle ore, nel sole
larghe vetrate sul Cervino. non ho mai, assolutamente violento. A 3000 metri, sotto
Parla piano di un’infinità di mai, visto al mondo. Si le immense pareti del
cose rare, del mondo di rimane incantati a guardarli, Cervino, sola come la prima
artisti, alpinisti e guide in cui come si guarderebbe il cielo anima sulla terra, portata
è vissuto. Non ci si stanca di sopra una montagna, avanti da quel vento che non
ascoltarlo e di guardarlo, resuscitato dopo anni di è neppur vento, che è come il
mentre racconta. Ci sono tempesta. Non so: occhi che tremito leggero del silenzio e
delle sue nipoti, con lui, sono di più di tutta una storia, che solo il fischio di una
amiche della Maria e della di tutta una vita; che fanno marmotta lacera o il cadere
Giulia [Giussani], che ci pensare alle fiabe e alla delle slavine. […] Quando
tengono tanta simpatica poesia. Sono tanto contenta, poi parlai della mia gioia
compagnia. perché la cara e della solitudine, qualcuno si
simpaticissima Elena Belotti stupì: chi mi capiva e mi
(nipote di G. R.) mi ha detto approvava, senza parlare, col
oggi che io sono molto solo cenno dei suoi magici
piaciuta allo zio, che si è occhi azzurri, era Guido Rey.
tanto divertito a sentire le mie Che occhi, Lucia! Color
storie del campeggio e tanti pervinca, cielo dopo la
altri discorsi: figurati! È un tempesta, fiaba: si pensa ai
vero piacere poterlo distrarre secoli di luce sepolti oltre le
e divertire un po’, perché è vette, oltre le nubi. Si resta
molto malato e nervoso: sono muti a guardarli, a berli, ci si
tanto contenta di esserci perde in un prato di
riuscita. E poi dice che io prodigiosa innocenza, in un
sono divertente, perché parlo fiume di silenzio. Oh, la sua
con le mani e con le bracca: è voce dolce di vecchio, nella
vero? sua casa di pietra e di legno!
Le sue mani pallide, scarne,
sul tavolo scuro di abete – o
levate nel saluto come a
benedire! Che bello, che
bello, Lucia, avergli parlato,
aver sentito che lui mi
capiva, ch’era contento
quando andavo a trovarlo!
Che gioia vedere il suo
fuoco, quella notte, su dal
rifugio…
271
POZZI, Ti scrivo…, pp. 201-202.
272
Ivi, pp. 204-205.
273
Ivi, pp. 211-212. Frammenti di lettera indirizzati alla Bozzi trascritti a mano da Roberto Pozzi.
128
Nella parte di lettera inviata a Lucia Bozzi che ho omesso per il confronto, sono
«Molto in alto fui soltanto due volte: in una giornata splendente sulle creste del Fürggen,
che è facile facile, ma in uno scenario incomparabile; e una orrenda giornata di nebbia e neve,
sulla Becca di Guen, che non è difficile, ma dove ci si prova abbastanza sulla roccia. Giornata
orrenda; ma siccome ero sola con Pellissier, la bravissima guida del Cervino, e dormimmo al
rifugio dei Jumeaux (per la strada ci eravamo colti dei legni di rododendri morti per accendere il
fuoco – Pellissier mi preparò la minestra, mentre io guardavo il tramonto e le valli lontane,
azzurre delle prime ombre, e pensavo come è bella, come è dolce la terra quando s’addormenta
–), credo che me ne ricorderò a lungo. Alla sera accesero dei gran fuochi, giù al Breil, ed anche
noi incendiammo, su di una roccia, un fascio di paglia e le scintille volavano giù nella
notte…»275.
Antonia immortala il ricordo di questa ascesa alla Becca di Guen nei versi di
potenza relazionale che la poetessa, in queste esperienze per lei così intense,
274
Traggo qualche notizia sul suo conto dal libro di DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna,
p. 65: «All’epoca Pellissier ha 53 anni (era nato nel 1881). Già nel 1907 (con la qualifica di
“portatore”) aveva partecipato alla famosa prima invernale del Cervino per la Cresta del Leone
con Mario Piacenza. Viene ingaggiato anche da Quintino Sella. […] Per molti anni è guida e
amico di Camillo Giussani, con cui trascorre mesi interi, nelle Alpi occidentali ma anche sulle
Dolomiti.». Nel proseguire, Dalla Torre cita Giussani, che nel suo libro Chiacchiere di un
alpinista, sottolinea le doti umane di Pellissier: «Nato e vissuto fra i monti, quel mio amico non
ebbe, e non ha, né consuetudini di vita né scuola di cultura sostanzialmente diverse da quella
della generalità de’ suoi compagni; ma come dall’amore per la montagna egli ha attinto un alto
senso di nobiltà nell’esercizio dell’arte sua, così nel contatto con gli alpinisti (e nomi celebri
illustrano il suo libretto di guida) ha saputo affinare in una sensibilità squisita le sue originarie
doti di cuore e ingegno.».
275
Ibidem.
276
Un certo sguardo non privo di allenamento nei confronti della ricerca di una potenza pittorica
da trasmettere attraverso la costruzione dell’immagine visiva – intesa in senso proprio e non solo
poetico-metaforico – era attribuibile anche all’identità fotografica di Rey. Credo che la sua
attenzione per certi dettagli della vita, della popolazione e dell’ambiente montano siano stati un
ulteriore ponte di collegamento con l’anima di Antonia Pozzi: per questo aspetto, si può fare
riferimento alla serie “Ricordo di Viù” ballo pubblico per la sagra annuale, presente sul sito
dell’Alinari. La montagna come oggetto d’attenzione fotografica – interesse suggerito anche
129
Rifugio277 La punta bianca278
Nebbie. E il tonfo dei sassi Siamo a circa 3200: la notte è calma e serena. E,
dentro i canali. Voci d’acqua appena fermi, sono cessate le nostre inquietudini sulla
giù dai nevai nella notte. via; ogni pensiero è rinviato al giorno seguente. Il
luogo ove ci siamo alloggiati è un corridoio verticale:
Tu stendi una coperta per me limitano lo sguardo a destra ed a sinistra mostruose
sul pagliericcio: pareti nere, terminate da due grandi linee che
con le tue mani dure sembrano scendere dal cielo e precipitare nel vuoto.
me l’avvolgi alle spalle, lievemente, Non vediamo altro che uno stretto triangolo di cielo
che non mi prenda stellato che finisce al basso nell’orizzonte lontano in
il freddo. una linea misteriosa, biancastra; sono i monti della
Valtournanche: e fra quella linea e noi una distanza
Io penso immensa, un vuoto profondo ed oscuro, che è la valle.
al grande mistero che vive E, a poco a poco, ci avvolge la calma infinita della
in te, oltre il tuo piano notte come ha avvolto le montagne tutto all’intorno. E
gesto; al senso questa calma è forse uno dei grandi segreti che l’anima
di questa nostra fratellanza umana del creato ci confida quando lo ascoltiamo in silenzio
senza parole, tra le immense rocce in questi suoi grandi templi che sono le montagne.
dei monti. Ma è difficile spiegare la poesia infinita di un alto
E forse ci sono più stelle bivacco: forse il fondo ingenuo e primitivo dell’anima
e segreti e insondabili vie nostra si sprigiona quassù, libero da ogni pensiero
terreno, ritorna semplice, e ritrova l’istinto antico
tra noi, nel silenzio, dell’uomo, la percezione chiara delle grandi bellezze,
la voluttà delle grandi lotte, e dei grandi riposi. E, nella
che in tutto il cielo disteso intima comunione con la severa ed alta natura, ci si
al di là della nebbia. rivela di quanta gioia purissima, non già di volgare
allegria, sarebbe piena la nostra vita, se sapessimo
Breil, 9 agosto 1934. ritrovare l’arte di appassionarci ancora delle cose
proprio grandi e belle.
concreta di vita, studia l’impatto che essa trasferisce sul piano dell’emozione,
dalla stessa attività del cugino, Vittorio Sella –, è però traslata dal Rey in un linguaggio estetico
ben codificato, vicino anch’esso ad un altro aspetto della sensibilità della Pozzi, quello nei
confronti dell’arte visiva pura. Rey, studente all’Accademia delle Belle Arti di Torino, è, infatti,
(come si apprende al sito della Fondazione Sella): «uno dei massimi esponenti della fotografia
pittorica italiana. Per ottenere ambienti artistici Guido Rey ricorreva alla costruzione di scenari
ispirati all’antichità classica e ai dipinti Olandesi del Seicento (Rembrandt, Vermeer, Hals).
Importanti sono anche le fotografie dei suoi viaggi – quello in Oriente costituisce l’oggetto della
sua prima mostra fotografica a Torino nel 1892 – e delle sue ascensioni in montagna: il Cervino
è per lui un obiettivo sia alpinistico, sia fotografico.».
277
POZZI, Parole, p. 318.
278
È il terzo movimento del racconto della conquista della Punta Bianca, dopo due fallimenti
descritti in I. Il Colle Tournanche e II. La Punta Maquignaz. La citazione di trova in REY, Il
tempo che torna, CAI, Milano 2010, p. 60. Si tratta di una copia anastatica del volume pubblicato
da Alfredo Formica editore nel 1929.
130
condensando il tutto in un ricordo intimo che a volte sfuma nella memoria
profondo rispetto e di cura dell’altro che sembra nascere senza motivo, anzi quasi
i cui soli riferimenti spaziali sono portati dai suoni che le fendono: dal
movimento sordo dei sassi dentro i canali, alle voci dell’acqua che scendono dai
nevai, nella notte. È bellissimo questo uso in apertura del plurale nebbie perché
l’apparenza del corpo: la guida, pur avendo mani dure, riesce ad avvolgere
configura quindi non solo come mero luogo fisico di approdo per ristorare sul
soprattutto come sede sicura per l’anima. L’io di Antonia entra in scena portando
grande mistero che vive in lui, al senso di una fratellanza umana che non ha
bisogno di parole, che diventa d’un tratto la cosa più ovvia nello scenario delle
131
immense rocce dei monti. Questa situazione non si darebbe altrove, il pericolo
di una giovane ragazza sola con un uomo maturo quasi sconosciuto in un luogo
condivisione della fatica umana è speranza di sopravvivenza, non c’è spazio per
altro che per segni di luce (stelle) e segreti da rispettare, per insondabili vie che
si allargano ai confini del silenzio, superando ciò che il cielo oltre la nebbia
potrebbe suggerire al pensiero. «Ci son più cose, Orazio, in cielo e in terra / di
ancora più concreto, incarnato, e aereo, spirituale. «E forse ci sono più stelle / e
segreti e insondabili vie / tra noi, nel silenzio, / che in tutto il cielo disteso / al di
spiegare molto poco di certi apparenti misteri, che invece si consumano tutti
279
«There are more things in heaven and earth, Horatio, / Than are dreamt of in your
philosophy». Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, Act I, Scene V, in W.
SHAKESPEARE, Amleto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011 (Oscar Mondadori, 129), p.
74. La traduzione in italiano è tratta da L. FONTANA, Shakespeare come vi piace, il Saggiatore,
Milano 2009, p. 217. La scelta di non riferire “your” del secondo verso ad Orazio – come si trova
in molte traduzioni – è stata così motivata dal traduttore Luca Fontana: «L’articolo “your” è
enfatico e dunque non riferito specificatamente ad Orazio.». La fonte è una lezione universitaria
del corso Strutture drammaturgiche per il teatro alla quale ho assistito nell’anno accademico
2012/2013 presso l’Università Iuav di Venezia.
132
nella relazione fra i desideri terreni – non sempre nobili – e un misto di
con la testa. Anche se per Antonia i segreti che tenta di disvelare non sono quelli
messa al bando della propria stessa continua ricerca di risposte nel mondo del
nella relazione genuina con la sua guida, coglie il vero mistero da indagare: il
silenzio, portatore di infiniti significati, che nasce fra due anime nel momento in
Nel gennaio del 1936 Antonia è sulla neve di Misurina con Lucia Bozzi. Il loro
280
L’alpinista «è un mito tra gli arrampicatori italiani. Nato a Trieste nel 1901, è il primogenito
di una famiglia modesta. Dopo le scuole medie, viene assunto come impiegato nei Magazzini
Generali del porto triestino. Si iscrive all’associazione sportiva XXX Ottobre, dove si esercita
nella ginnastica attrezzistica e poi nel gruppo speleologico. Nel 1922, frattanto, muore la sorella
Lucia, cui Emilio è legatissimo. L’amore per la montagna giunge piuttosto tardi, nel 1924,
proprio durante un’uscita speleologica; è una folgorazione e nel giro di qualche anno le montagne
colmeranno l’intero suo tempo libero. Con altri alpinisti del CAI di Trieste inventa la scuola di
alpinismo in Val Rosandra. Nel 1932 si licenzia dai Magazzini Generali, deciso a fare della guida
alpina il suo lavoro; tra il 1932 e il 1938 è a Misurina, e poi fino al 1940 a Selva di Val Gardena,
quando – lui, sempre prudente – morirà per un banale incidente facendo salire un’amica su una
semplice paretina di allenamento. Il carnet delle sue audaci “prime” è impressionante e, in quegli
133
tentare, malgrado l’alpinista non abbia pubblicato libri in vita (postumo, del
roccia – forse anche alla vita –, deve aver insegnato molto ad Antonia,
«Antonia riserva un posto del tutto particolare. A lui dedica due liriche nominatim, cosa
che è un unicum nella poesia della Pozzi. Nella prima delle due, A Emilio Comici, che risale
proprio a questi giorni (16 gennaio 1936) si nota quasi una sorta di immedesimazione nel
fortissimo scalatore, noto come “l’Angelo delle Dolomiti”. Non è certo un confronto tecnico, ma
il fascino della grande umanità e anche della concezione non tanto sportiva quanto interiore
dell’alpinismo.»282.
Come suggerisce l’autore del libro da cui ho tratto la citazione, Marco Dalla
sua origine cittadina (fu il primo tra i grandi arrampicatori italiani a non essere
nato nelle valli alpine) e infatti la poesia è tutta giocata su questo prescindere
anni di nazionalismo, il regime lo esalta a scopo propagandistico.» DALLA TORRE, Antonia Pozzi
e la montagna, p. 84.
281
Si confrontino ad esempio alcune poesie del 1937, prese in esame anche dalla Bernabò per
spiegare l’evoluzione post 1935 della scrittura di Antonia, ove «troviamo […] due filoni, che a
volte si intersecano altre volte rimangono indipendenti: uno realistico e sottilmente malinconico;
l’altro decisamente più energico, con tratti talora espressionistici talora surreali», in BERNABÒ,
Per troppa vita, p. 258. Si tratta di Viaggio al nord (in POZZI, Parole, p. 413), Morte di una
stagione (ivi, p. 430) e Nebbia (ivi, p. 433). La lettura di quest’ultima è utile anche per
confrontare il differente significato che questo elemento della natura prende, una volta ritrovato
in città, rispetto alla poesia Rifugio del 1934: «Se c’incontrassimo questa sera / pel viale oppresso
di nebbia / si asciugherebbero le pozzanghere / intorno al nostro scoglio caldo di terra: / e la mia
guancia sopra le tue vesti / sarebbe dolce salvezza della vita. / Ma fronti lisce di fanciulle / a me
rimproverano gli anni: un albero / solo ho compagno nella tenebra piovosa / e lumi lenti di carri
mi fanno temere, / temere e chiamare la morte. // 27 novembre 1937.».
282
Ivi, p. 85.
134
dalla propria città e dal suo mondo di affetti per restarsene inchiodato dal
tramonto allo strapiombo.»283. Ecco dunque il testo del 1936, A Emilio Comici,
Né la luna
disvelerà giardini, chiaro riso
di donne intorno ad un fanale,
o tepido
sciogliersi di capelli,
ma te solo
vedrà
alla tua fune
gelida avvolto –
ed il tuo duro cuore
tra le pallide guglie.
16 gennaio 1936
283
Ibidem. Mi sembra però di ritrovare l’intuizione del legame con la città già nelle parole di
Graziella Bernabò: «c’è una sorta di immedesimazione in quella sorta di titano che ha lasciato la
sua città, Trieste, e il suo mondo di affetti per restarsene “inchiodato” dal tramonto “allo
strapiombo”.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 250.
284
POZZI, Parole, pp. 402-403.
285
Ivi, p. 441.
135
Credo si debba fare attenzione ai toni e ai modi di questa “immedesimazione”
ammirato da una personalità della levatura di Dino Buzzati per la sua natura di
«intellettuale della montagna»286 –, Antonia va dunque via via scoprendo lati dal
grazie alla forza mediatrice dell’ascesa alla roccia che ristabilisce una
parti più vere di sé, intravede finalmente il senso di questa continua lotta. Nella
rispetto alla figura cantata dalla poetessa: il primo appunto nell’azione della
Trieste, infatti, non è Milano, e per quanto essere cittadini amanti della montagna
286
Così si esprime Buzzati su Comici, secondo quanto rilevato da DALLA TORRE, in Antonia
Pozzi e la montagna, pp. 84-85: «Le complicate e apparentemente sofisticate manovre – questo
era soprattutto meraviglioso – Comici le eseguiva con una eleganza, con una leggerezza e
armonia di movimenti da incantare. Lui stesso – era animo sensibilissimo, suonava bene il
pianoforte, lo si poteva definire un intellettuale della montagna – considerava l’arrampicamento
come una vera e propria arte. Tale, in ogni modo, egli la rese. Dopo averlo visto innalzarsi con
la levità di un grazioso insetto, su per gli strapiombi, tutti gli altri arrampicatori, anche bravissimi,
apparivano al confronto dei goffi e pesanti scimmioni.».
136
possa far sentire fratelli, i pensieri gioiosi, ricchi di luce e di vita del porto non
possono essere in alcun modo assimilati allo svelamento della periferia che la
Pozzi andava crudamente leggendo nel tessuto urbano a lei contemporaneo (si
veda almeno la poesia Periferia287, scritta tre giorni dopo, il 19 gennaio del
1936). L’abbandono di una città così piena di vita da parte di Comici è eroico:
Nella poesia del 1938 il rocciatore è ormai quasi fuso con la sua natura: i suoi
occhi ospitano laghi di stupore; l’anima è fatta limpida come l’acqua, specchio
uno spazio fisico (la stanza) che impossibilita la sua fusione panica con l’adorata
radice del suo comporre, del suo desiderare la parola. «E vivo della poesia come
che aveva colpito Antonia durante la notte passata con Pellissier al rifugio. Le
parole che lei ritrova nella natura per descrivere Comici, sono un dono e un
mezzo, introdotte infatti dalla dedica Per: omaggio a lui e al suo essere
287
POZZI, Parole, p. 406.
288
Cfr. lettera a Tullio Gadenz del 29 gennaio 1933 in POZZI, Ti scrivo…, p. 161.
137
Dono non trascurabile se si pensa alla concezione non tanto sportiva quando
della sua scrittura. Mettendo alla prova questo schema analizzando il rapporto
con l’ambiente che ricorre più assiduamente nei suoi testi, ossia la montagna,
autori che sono state via via indicate dai suoi più attenti lettori e critici, senza
ancora una volta dai suoi scritti (lettere, poesie, diari, saggi critici), ma anche dai
libri presenti nella parte della sua biblioteca che si è conservata a Pasturo.
Vorrei lasciare però alla Pozzi la battuta finale attraverso cui descrivere la
propria relazione con la montagna, ossia con una natura composita che sembra
289
Queste le parole di Comici in Alpinismo eroico: «Ho detto prima che Preuss e Dülfer erano
artisti, e lasciatemi aggiungere “artisti grandi”. Qualcuno obietterà, dicendo che per salire sula
roccia non occorre l’arte, ma soltanto il fegato. No! Saper ideare la via più logica ed elegante per
attingere una vetta disdegnando il versante più comodo e più facile, e percorrere questa via in
uno sforzo cosciente di tutti i nervi, di tutti i tendini, disperatamente tesi per vincere l’attrazione
del vuoto e il risucchio della vertigine, è una vera e qualche volta stupenda opera d’arte: vale a
dire il prodotto dello spirito e dell’estetica.», in DALLA TORRE, Antonia Pozzi e la montagna, p.
85 che a sua volta riprende da E. COMICI, Alpinismo eroico, Vivalda editori, Torino 1995, pp.
180-181.
138
partecipare di un moto perpetuo pur stando immobile nel posto assegnatole:
Nevai290
290
POZZI, Parole, p. 313. La poesia è scritta il 1° febbraio 1934.
139
Capitolo Secondo:
Gli anni della formazione liceale costituiscono per Antonia Pozzi un primo
Milano:
1
Frammento di una lettera inviata da Antonia Pozzi ad Antonio Maria Cervi il 16 giugno 1928,
ora in POZZI, Ti scrivo…, p. 89.
2
Ivi, p. 69. Lettera scritta dalla Pozzi alla nonna Nena il 16 settembre 1927.
140
Gandini, conosciute per caso alla biblioteca Braidense, e che lei, “stellina cieca” in cerca di luce
e verità, considera e ama come “sorelle” e come guide3. Soprattutto, il 1927 è l’anno dell’incontro
con il professore che al Manzoni insegna latino e greco: Antonio Maria Cervi. Cervi non è un
docente qualunque: incanta gli studenti per la passione con cui legge e traduce gli autori classici
e per la sua “cultura sterminata”; non solo ama la musica, ma sa anche suonare il violino.
Pretende molto dagli allievi, e tuttavia li ama e, ai più bravi e impegnati, regala libri importanti
per la loro formazione e la loro cultura; li sa tenere allegri, anche se prepara le versioni di latino
e greco in modo che ciascuno ne abbia una diversa e non possa copiare dagli altri. Talvolta
un’ombra di tristezza gli si stampa sul viso, improvvisamente, anche quando s’infiamma di
passione per ciò che legge o spiega. Un dolore acuto e incancellabile si nasconde dietro la sua
allegria: quello per la morte del fratello maggiore Annunzio, volontario nella Prima guerra
mondiale e caduto sul Grappa il 25 ottobre del 1918. Antonia, come tutti nella classe, è
affascinata dall’eccezionale insegnante e, mentre s’impegna al massimo negli studi, sente
nascere dentro di sé sentimenti di stima e affetto profondi, che non tarderanno ad assumere tutti
i caratteri dell’innamoramento.»4.
Cervi sarà insegnante di Antonia solo per un anno scolastico: nell’estate del 1928
chiede il trasferimento a Roma per stare più vicino alla famiglia d’origine. Il
«Ho un gran bisogno di calma e di raccoglimento: non so se la zia Luisa ti abbia detto
che dispiacerone mi sia capitato addosso, d’improvviso, qualche settimana fa. Non te lo vorrei
neppure raccontare, perché sono sicura che immantinente tu mi cominci a fare l’olio, e allora gli
occhiali ti si appannano e ti scivolano sul naso; ma sono ancora tanto triste e non ho altro sfogo
che raccontare il mio dolore a chi lo sa capire; che parlare di quello che è stato, di quello che
vorrà essere; che parlare un po’ del mio Maestro che mi hanno portato via! Pensa che una mattina
apro il giornale e, nella lista dei trasferimenti dei professori, il primo nome, dico il primo, che
mi salta all’occhio è quello del professor “Cervi Antonio Maria, da Milano a Roma”. È stato
atroce: non ho saputo che piangere, e piangere, e piangere per due giorni che sono finora i più
bui ch’io abbia avuti nella mia vita.
Ho imparato che cosa sia il dolore. Tu non immagini che cosa fosse lui per me. Io avevo
avuto la fortuna di incontrarlo nell’età inquieta in cui tutto il nostro essere sboccia e anela alla
vita, in cui ogni influenza esterna lascia nell’anima una traccia indelebile, in cui ci torturiamo
ricercando l’inizio della nostra vita e l’indirizzo del nostro cammino nel mondo.»5.
3
Cfr. la già citata poesia Sorelle a voi non dispiace…, in POZZI, Parole, p. 136.
4
Ivi, pp. 7-8.
5
POZZI, Ti scrivo…, pp. 78-79.
141
Bernabò e Onorina Dino, si intravedono già le basi del profondo innamoramento
«Egli era, o meglio, è, uno spirito come pochi, come nessuno se ne può trovare. Una
gran fiamma dietro una grata di nervi; un’anima purissima anelante a sempre maggior purezza,
destinata purtroppo a inaridirsi sola, in una sete inesauribile di sapere, di perfezione, di luce; uno
studioso dalla coltura sterminata, dalla memoria prodigiosa, dalla volontà ferrea che gli faceva
passare la vita nella penombra delle biblioteche, chino sulle più ardue pagine di filosofia; un
insegnante tutto ardore ed entusiasmo per la scuola, tutto affetto fraterno per gli scolari; un
povero figliolo che, a vent’anni, si è veduto morire sul Grappa il fratello maggiore, e poco dopo
il padre, e si è trovato sulle spalle la mamma e il fratellino; che vivacchia solo in pensione, che
porta anche con la neve il soprabito di primavera con le tasche rotte 6, e che pure era sempre
allegro con noi come un bambino e ci elettrizzava tutti con il suo fuoco inesauribile… Con la
parola e con l’esempio egli mi ha dato uno scopo e una fede; mi ha insegnato a guardare più in
alto e più lontano; mi ha additato la via per diventare più buona. Anche nel dolore di vedermi
tolta così bruscamente la sua guida immediata, ricorro per conforto ai suoi insegnamenti; so che
il dovere che mi resta è uno solo: studiare; e non tradire il suo consiglio; ed anelare sempre, con
tutta l’anima, a quella “luce” ch’egli mi ha insegnato a cercare.»7.
La differenza fra un professore come Cervi e «l’altro che dovrà vedere al posto
del latino, ma nella «virtù e [nel]la vita» che egli riusciva a trasmettere insieme
a questo insegnamento. Sin da questa lettera alla Nena è però chiaro che il
rapporto con Cervi non sarà destinato ad interrompersi a causa della lontananza,
attraverso uno scambio epistolare assiduo e intenso. «Si diedero del “lei” fino
alla fine del 1929, quando Antonia, con la sua giovanile esuberanza, riuscì a
6
Graziella Bernabò in Per troppa vita…, p. 68, lima i caratteri di povertà suggeriti da questa
rappresentazione di Antonia del professor Cervi: «È palese, in questo ritratto, la forte
idealizzazione del proprio insegnante da parte della giovane allieva, che, tra l’altro, forse per
destare interesse e pietà nella nonna verso di lui, ne esagera la povertà. Cervi non era certo ricco
come i Pozzi, ma viveva dignitosamente e, se portava un soprabito leggero anche d’inverno, lo
faceva verosimilmente perché non era per nulla freddoloso [come testimoniato dalla nipote di
lui, Romana Itala Romano].».
7
POZZI, Ti scrivo…, pp. 79-80.
142
coinvolgerlo in un rapporto d’amore fieramente avversato da suo padre»8. Inoltre
Antonia riceverà in dono dal professore molti libri, come era solito fare con i
Così la Pozzi, infine, riporta alla nonna, nella lettera del 21 agosto 1928, le parole
«“Mia buona sorellina, d’ora in poi se non Le dispiace, La chiamerò sempre così. Ormai,
ne sono sicuro, avrà ripreso vigorosamente lo studio per non tralasciarlo più: sarà questa la prova
più bella della sua serietà e del suo affetto che mi è tanto caro. Il mio aiuto fraterno non le verrà
mai meno. Dallo studio, con la tormentosa ansia del progredire, Le verrà tanta serenità e tanta
luce che non si pentirà mai di esservisi dedicata e di aver ripudiato le frivolezze delle Sue
coetanee…” Che cosa posso desiderare di più? Io so di non meritarmi tanto: ma farò in modo di
sapermelo meritare.».10
soffermarsi su alcuni aspetti del rapporto con Cervi, in primis sul ruolo che il
figura di Antonio Maria anche in anni distanti dalla fine del liceo, legato alla
relazione d’amore fra i due che Antonia a più riprese sublimerà in versi, sino alla
Remo Cantoni (autunno 1934). Una terza prospettiva attraverso la quale leggere
8
Ivi, p. 79.
9
Cfr. ibidem.
10
Ivi, p. 80.
11
È la piccola raccolta di dieci poesie composta nel 1933 per sublimare la fine della storia
d’amore con Cervi.
143
che riguarda i consigli di lettura del Cervi e l’attenzione che egli dedicò alla
Antonia.
volontà di apprendistato della Pozzi sui versi di Annunzio Cervi12. Poeta non
madre Costanza, nata Cabras, era figlia di un avvocato sassarese e, per parte
materna, discendeva dai Satta Puliga, ramo cadetto dei Savoia di Villa
Hermosa.»14.
«Con la Sardegna, lasciata a cinque anni, Annunzio conserva per tutta la vita un legame
profondo, viscerale. Nella prima delle sue lettere al poeta veronese Lionello Fiumi, inizio di un
affettuoso sodalizio letterario, lo ringrazia del dono della raccolta Pòlline infilando nella busta
una foglia d’alloro. “È un alloro per me sacro – gli spiega –: d’un ramo colto nella mia Sardegna
l’anno scorso”. All’isola Cervi riconduce, in molte occasioni, il proprio temperamento focoso e
sanguigno, i modi bruschi e talvolta spiazzanti. “Sono sardo e, convenevoli, non ne faccio, non
ne so fare – si giustifica con un altro caro corrispondente, Giuseppe Ravegnani –. Sono un sardo
12
Si leggano per un confronto e un approfondimento, l’introduzione all’Epistolario fra Gadenz
e la Pozzi scritta da Onorina Dino, e il capitolo IV di Per troppa vita che ho nel sangue, dedicato
alle prime esperienze poetiche di Antonia fra 1929 e il 1930, scritto dalla Bernabò. Nel corso del
capitolo farò riferimenti più precisi a questi studi.
13
Nell’introduzione a Le cadenze di un monello sardo a cura di Anna Chella si legge: «Antonio
Giovanni Cervi, originario di Civitella Alfedena in Abruzzo, aveva ricevuto il suo primo incarico
come professore di Lettere a Sassari, dove aveva sposato la giovanissima Costanza Cabras». In
A. CERVI, Le cadenze di un monello sardo, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2016,
p. 9.
14
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 69.
144
di vera razza: certi sentimenti non li dico”.»15
«La famiglia si era trasferita prima a Campobasso e poi a Napoli nel 1908, in
tratto dal nonno e mutato in Annunzio «in omaggio al venerato autore delle
grande critico Francesco Flora che lo ricorda così nella sua Storia della
la sua parentela con gli scrittori che si dissero crepuscolari e con quelli che si
Ungaretti, del quale procreava certe movenze. Ma la fine immatura (che egli
presentì in vari versi quando andò alla guerra) tolse alle lettere un ingegno assai
più ricco di quel che le pagine pubblicate rappresentino”. Andando alla guerra,
a 23 anni, Annunzio aveva già al proprio attivo una intensa attività pubblicista
[ad esempio per l’Eco della cultura, per la Vela Latina e per il Don Marzio] e
15
CERVI, Le cadenze…, p. 10.
16
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 69.
17
CERVI, Le cadenze…, p. 10.
18
Da un articolo apparso il 24 gennaio 2002 sulla versione web del quotidiano «La Nuova
Sardegna», sezione locale di Sassari, dal titolo: Annunzio Cervi, il sardo “monello” bombardiere
e scrittore di liriche. Alcune precisazioni su Il toro di Falaride: «A Napoli, il giovane Annunzio
tiene spesso conferenze e pubbliche letture. Nella primavera del ’14, nell’ambito delle iniziative
della rivista Eco della cultura, introduce l’esecuzione di quattro brani del Martirio di San
Sebastiano, l’opera di d’Annunzio musicata da Debussy, presentata in anteprima italiana dal
maestro Ranieri Mucci. L’immaginoso intervento di Cervi, letto in un’aula dell’Università di
Napoli mentre “i fratelli più piccoli ruzzavano in galleria”, sarà poi pubblicato nelle edizioni di
Vela latina con il titolo Il toro di Falaride.», in CERVI, Le cadenze…, p. 14. Dalla nota dedicata
all’opera inoltre si apprende che si tratta di: «un lungo racconto mitolgico: narra di Périllos,
145
«La figura di Annunzio Cervi resta legata soprattutto alla raccolta poetica Le cadenze
di un monello sardo. Nonostante il volume sia stato pensato e allestito mentre l’autore si trovava
in guerra, le Cadenze sono un libro ben congegnato, compatto e coerente. La limpida struttura
cronologica lo avvicina da una parte al diario, dall’altra al romanzo di formazione. I versi, scritti
tra il 1915 e il ’17, sono il racconto di una giovinezza scandita in due tempi. La raccolta non ha
sezioni né vi è traccia di partizioni interne, ma il punto di svolta si avverte in modo chiarissimo
e coincide, naturalmente, con la partenza per il fronte. Tutta la prima parte del libro – dal testo
di apertura Anticipo, fino a Notturno in gastronomia – appartiene al periodo e all’atmosfera di
Napoli. Se le poesie di guerra sono le più convincenti dal punto di vista stilistico, i versi
napoletani godono della freschezza di un vivace corpo a corpo tra il poeta e la sua città, percorsa
in irrequieti vagabondaggi, derisa nelle sue ipocrisie ed esplorata nei suoi vicoli e sobborghi, tra
panni stesi al sole, pollai, tram […]. Le Cadenze più antiche restituiscono gli ultimi mesi trascorsi
da Annunzio nella città partenopea, dalla settimana santa del 1915 alla partenza per il fronte
avvenuta alla fine dell’anno. Il libro si regge su un equilibrio quasi perfettamente simmetrico.
Diciassette sono i testi scritti a Napoli; sedici quelli inviati dal fronte: dodici poesie e quattro
prose liriche, che nelle sue lettere Cervi chiama “cartoline” o “centellini”, immaginando di farli
confluire nel progetto più ampio dell’NN 2701 [romanzo].»19.
per il fronte della Prima Guerra Mondiale nel mese di novembre 1915, ricevendo
«Nei ricordi dei commilitoni Luciano Nicastro e Antonio Greppi, egli appare un
compagno colto e frizzante, che recita a memoria i classici, cita Claudel e Bergson, si diverte
con i soprannomi roboanti, ma diventa di colpo serissimo durante le esercitazioni. In battaglia
Cervi dimostra un’audacia spericolata: riportò almeno due ferite gravi e si guadagnò tre medaglie
al valore, di cui andava orgoglioso, anche se con gli amici si schermiva nascondendosi dietro
l’ironica maschera del “monello”. Sognava di scrivere un romanzo intitolato NN 2701, la sigla
della sua baionetta. Di quello che, nelle lettere a Marone, chiama il suo “Schreibheft”
[quaderno]21 rimane solo qualche frammento.»22.
L’estate del 1915, prima di partire per il fronte, Annunzio era diventato un
scultore bovaro adolescente dalla straordinaria bravura, sfidato dal tiranno di Falaride a costruire
un mostruoso strumento di tortura. La vicenda dell’artefice, condannato dal tiranno a morire
dentro la sua stessa macchina (un toro bronzeo arroventato capace di trasformare i gemiti umani
in muggiti), è “il simbolo dello spasimo mistico nella sua essenza di esagerazione sensitiva”. Ad
essa Cervi paragona lo slancio mistico del Martirio di San Sebastiano che, a suo parere, non è
altro che un’esasperazione del tormento dei sensi, poiché per l’autore delle Laudi “la carne è
sopra ogni cosa, sia che goda come nelle Laus Vitae, sia che soffra”. Il toro di Falaride uscì in
tre puntate su Vela latina tra il giugno e il luglio del 1914 e fu poi ristampato, con la prefazione
di Fernando Russo, nelle Edizioni di Vela latina.», in ivi, p. 60.
19
CERVI, Le cadenze…, pp. 8-9.
20
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 69.
21
E quaderni si chiameranno quelli poetici di Antonia Pozzi.
22
CERVI, Le cadenze…, p. 8.
146
«filologo di letteratura latina medioevale»23, laureandosi con il linguista Michele
Kerbaker,
«Tra gli allievi di Kerbaker, Cervi si lega a Enrico Pappacena, l’“amico buono” di
Ordinotte senza parole, che, dopo la sua morte al fronte, sarà a lungo custode della sua memoria
e delle sue carte. Michele Kerbaker, che occupa la cattedra di Filologia medievale, schiude ad
Annunzio il mondo dei poemi vedici e della filosofia indiana. In questo universo culturale remoto
e affascinante, il giovanissimo poeta intravede un salutare antidoto alle pastoie e alle
mistificazioni in cui talvolta gli sembra intrappolata la letteratura a lui contemporanea. Alle
letture appassionate di D’Annunzio e di Pascoli, si affianca così l’interesse per Tagore, per i testi
sacri dell’induismo, per il poema epico Mahabharata, tradotto da Kerbaker in “ottave metalliche
e precise come un’acquaforte”. Nello studio di Kerbaker, all’ombra del ritratto di Vittorio Alfieri
e della Deposizione di Raffaello, mentre sullo sfondo si muove dolcemente la presenza luminosa
di donna Assunta, moglie del professore, Annunzio vive momenti importanti della sua
giovinezza, tutta infiammata di ardori patriottici e letterari.».24
muore nel settembre del 1914, provocando un grande dolore ad Annunzio. Dalle
parole di Francesco Flora e dal breve ritratto della relazione di Annunzio con il
vita culturale del primo Novecento non sembrano essere state gradite allo stesso
23
Cfr. lettera all’amico Lionello Fiumi del 15 ottobre 1915, in ivi, p. 155.
24
CERVI, Le cadenze…, pp. 10-11.
25
Cito dalla Bernabò che fornisce questo dettaglio in merito ad un possibile sogno di
reincarnazione di Annunzio Cervi condiviso dal fratello Antonio Maria e da Antonia Pozzi: «Dal
canto suo, [Antonio Maria] Cervi era un attento studioso delle religioni orientali e aveva
condiviso con il fratello Annunzio lo studio dell’antico pensiero indiano alla scuola napoletana
di Michele Kerbaker. Di questi argomenti, come ricorda Elvira Gandini, parlava anche a scuola;
inoltre testi relativi al buddismo e alla cultura indiana furono da lui regalati ad Antonia e sono
tuttora presenti nella biblioteca di Pasturo. Non è perciò escluso che nelle loro conversazioni
intervenisse anche qualche elemento connesso con un tipo di pensiero che contemplava forme di
reincarnazione.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p.136.
147
poeta e sarebbe un tradirne la memoria e la figura appiattirsi su di esse per trovare
ascoltare quanto il poeta dice di se stesso e del suo modo di vedere la cultura del
tempo; ne ha riportato alcuni stralci lo studioso Nicola D’Antuono nel suo saggio
«Cervi affermò anche, con violenza linguistica e sintattica, che Eco della cultura
intendeva spezzare il circuito perverso di una tradizione regressiva; perciò egli si dichiarava in
rivolta contro il dialettale, il provincialismo, la Piedigrotta, la panoramistica. La distruzione
barbarica barrèsiana28 e la violenza imperialistica kiplinghiana 29 si rendevano perciò
26
N. D’ANTUONO, L’Eco della cultura, la Diana e il futurismo, p. 166. L’articolo di D’Antuono
è il «testo della relazione letta al convegno Il futurismo a Napoli (Napoli, 26-28 novembre 1990),
organizzato dall'Istituto italiano per gli Studi filosofici e dall'Università degli Studi di Napoli
"Federico IT"». Si può trovare in «Forum Italicum: a journal of Italian studies», vol. 27, March-
September 1993, pp. 147-175, al sito http://journals.sagepub.com.
27
«A Napoli la sensazione di essere intrappolati in un universo letterario soffocante e ristretto è
particolarmente acuta, e profondo è il rancore verso la cultura stantia delle aule universitarie. È
una rabbia che, per molti intellettuali, troverà un tragico appagamento proprio nell’esperienza
della guerra. […] “Le trincee – proclamerà Enzo Palmieri nel ’17 su un[a] rivista d’avanguardia
napoletana – non sono soltanto contro gli austriaci, sono contro il passato per noi giovini.”»,
dall’introduzione di Anna Chella a CERVI, Le cadenze…, p. 16.
28
Maurice Barrès (1862-1923) fu scrittore e politico francese, promotore di idee nazionaliste che
passarono attivamente anche in Italia.
29
Joseph Rudyard Kipling (1865-1936) scrittore e poeta britannico, nato a Bombay. «Tra i più
noti autori di libri di avventura e per ragazzi, ha scritto poesie, romanzi e racconti – molti dei
quali di ambientazione indiana – in cui ha profuso talento narrativo e impegno politico-sociale.
Identificato come il cantore dell'imperialismo britannico, K. in realtà non si è limitato a esaltarne
gli ideali, ma li ha articolati in un ricchissimo immaginario, senza perdere di vista i lati più aspri
del dominio coloniale. Raggiunse la notorietà con le poesie Barrack-room ballads (1892);
seguirono i suoi capolavori: The jungle book (1894), The second jungle book (1895), Captains
courageous (1897) e Kim (1901). Nel 1907 gli è stato conferito il premio Nobel per la
letteratura.», fonte Enciclopedia Treccani on-line.
148
indispensabili. Solo cosi avrebbe potuto irrompere, sulla scena della vita artistica partenopea, la
“fresca giovinezza che non ha mai voluto sguazzugliare nella mediocrità.” Salutando Lacerba e
La rivista d'oggi (definite “sorelle combattive”), Cervi sottolineò inoltre che Eco della cultura
entrava “risolutamente in un secondo periodo della sua vita”, per imporre “non più l'innovazione
silenziosa, raccolta, incompresa quasi, ma l'audacia che dirompe e demolisce accanto alla tenacia
che rimpella e ricolma.” Il cambiamento di registro della rivista nei confronti dei precedenti
fascicoli era notevole, almeno nella teorizzazione. Iniziava un'avventurosa “battaglia” di alcuni
giovanissimi studenti universitari napoletani, sorretti e coadiuvati da un atteggiamento
aristocratico (e antidemocratico) e da una furia incendiaria (che in Cervi certamente risentiva del
Palazzeschi, ma era fortemente stimolata anche dalla leggenda indiana del Nanaganda30),
“contro la senilità famosa, verbosa, trempellante”. Le condizioni concrete offerte dalle
circostanze di uno spazio storico-sociale come quello partenopeo, con le sue incrinature dopo
l'euforia dissipatrice degli ultimi decenni e con i sintomi della finis, motivavano fortemente le
giovani generazioni. Ovviamente non tutti i redattori di Eco della cultura erano convinti della
radicalità delle posizioni di Cervi e della sua furia polemica, già evidenziata in alcuni articoli di
Vela latina e del don Marzio. Egli fu l'unico intellettuale della rivista ad essere infuriato anche
stilisticamente, utilizzando un lessico caotico e una sintassi scabra e durissima, particolarmente
verso i frequentatori del Gambrinus31 (Murolo, Bovio e C.ia32). Tra l'altro ridicolizzò la
dialettomania della vita quotidiana partenopea e le connesse mitologie, e spiegò che voleva
distruggere: “Non per fare del chiasso, miei cari ciofi e grulli, non per amore del bel gesto, non
per combattere i mulini a vento ma perché è necessario affermare che Napoli è tutto, tranne che
dialettale. Tutto, tranne che questa buffa combriccola di scimmie, che a somiglianza del Bandar-
Log kiplinghiano gridacchia a squarciagola canzoni prive di senso per attirare l'attenzione, si
gattiglia, si acciuffa, si abbaruffa disperatamente, a quando a quando.”» 33.
Quelle del Cervi sono considerazioni contro una vita culturale impostata su una
funziona per converso come furia caotica a colpire quella che diventerà
30
Le fonti che sono riuscita a reperire in merito si riferiscono al Nāgānanda e non al Nanaganda,
tradotto in italiano come La gioia dei serpenti a cura di Agata Sannino Pellegrini per le edizioni
Paideia di Brescia nel 1998. L’autore a cui si attribuisce questo dramma sanscrito in cinque atti
è Harṣavardana, re dal 606 al 648. La storia natta del sacrificio del protagonista Jimutavahana,
per salvare i Naga, un’antica razza di uomini-serpente.
31
Famoso cafè-chantant.
32
Cervi si riferisce ai rappresentanti di spicco di quella che sarà chiamata l’epoca d’oro della
canzone napoletana: Ernesto Murolo (1876-1939), poeta, drammaturgo e giornalista, e Libero
Bovio (1883-1942). Con “C.ia” indica una compagnia, ossia una serie di altri artisti dalla
sensibilità affine come presumibilmente il musicista Ernesto Tagliaferri, (1889-1937), il poeta,
drammaturgo e saggista Salvatore Di Giacomo (1860-1934) e altri personaggi che frequentavano
il Gambrinus, come la scrittrice e giornalista Matilde Serao (1856-1927).
33
Ivi, p. 148.
34
La ricezione del pensiero sulla musica sarà il tema che affronterà anche l’amico Augusto
149
napoletano, legati all’ambiente del Caffè Gambrinus e alla tradizione della
«Cervi sapeva pure di non porre nulla in alternativa alla distruzione dell'esistente, ma
era stato troppo attento lettore del barrèsiano Ennemi des lois per prefissarsi regole e codici;
gl'importava solo frantumare, disorganizzare, triturare. Diventava ovvia, pertanto, l'accusa
denigratoria che furore polemico e frenesia distruttiva derivassero a Cervi dall'essere “futurista.”
Ma egli, che aveva appreso la lezione di Bergson ed aveva assimilato così bene la monelleria
anarchica palazzeschiana (non avrebbe cominciato entro pochi mesi a scrivere le Cadenze d'un
monello sardo?), si divertiva di fronte agli avversari: “quando mi chiamano futurista, tocca a me
scompisciarmi dalle risa: perché oggi si è tanto saturi di kantismo, che si vuole, ad ogni costo,
ridurre la letteratura ad un casellario ed ogni rassomiglianza, sia pur lontana e incerta, è buona
per farvi ficcare in una delle buche già prestabilite!'. All'etichettatura di “futurista,” Cervi
rispondeva con sarcasmo: “Io non mi sono ancora aggarzonato con nessuno. Non sono nulla,
tranne che me stesso. E non ho niente di comune coi futuristi. E niente di comune coi
d'annunziani” esprimendosi con la sicurezza di colui che sull'argomento aveva idee ben
consolidate, se già l'anno precedente, in un saggio molto importante, aveva fornito una sua
valutazione del futurismo, con il quale dichiarava di essere in disaccordo. Aveva puntualizzato,
nel saggio dell'anno precedente, che “Il futurismo non è altro che un d'annunzianismo esagerato,
il quale ha per conseguenza talvolta un' esaltazione eroica, spesso un disquilibrio eroico dal quale
l'umorismo nasce naturalmente,” sottolineando una questione non certamente pacifica in quei
tempi: che D'Annunzio fosse· “maestro” del futurismo perché ne aveva anticipato i motivi: “Il
disprezzo della donna, l'esaltazione della guerra, la trasformazione delle nuove energie in nuovi
elementi di bellezza, l'odio per la saggezza, sono tutte conseguenze diretta dell'arte
d'annunziana.”»35.
Nel denso passaggio riportato, risalta l’affermazione quasi altera nella sua
umiltà: Non sono nulla tranne che me stesso. Il filo che lega dunque la Pozzi al
uno spirito poco accondiscendente nei confronti di ciò che viene pigramente
Guzzo, sempre dalle pagine dell’Eco della cultura, ove ricordo che era stato pubblicato l’articolo
Una geremiade. A proposito del frammento nietzscheano": Uber Musik und Wort, a.I, fasc.21-
22, 31 dicembre 1914, pp.227-229, che risulta essere una lettura di cui la Pozzi ha riportato ampi
stralci nelle sue Spigolature.
35
Ivi, p. 149.
150
per estrazione sociale. L’aspirazione alla scrittura e ad un’elevazione costante è
declinata però diversamente dai due poeti: se per Annunzio si tratta di «aggredire
le questioni della vita civile, in pieno, essendo persuaso che solo in tal modo
la Pozzi, si tratta e si tratterà, di trovare il modo di restare connessa alla più vera
se stessa pur volendo restituire la voce alle cose e delineare la fitta trama di
«“Essere sempre più ciò che sono: questa è la mia unica volontà”, sottolinea [Antonia]
in una pagina dei Monologhi di Schleiermacher, e, in margine, aggiunge una nota, siglata
Augusto Guzzo: “Noi vogliamo essere i padroni della nostra barca”; e nella pagina successiva,
alle parole dell’autore [Schl.]: “…Fino a che saprò conservare nella coscienza anche ciò che
all’esterno sarò costretto a interrompere” – aggiunge di sua mano “e sentire e benedire la
lontananza materiale come la più divina, indissolubile vicinanza spirituale” e sottolinea ancora
la continuazione dell’autore: “e saprò perseverare nel volere ciò che ancora non ho compiuto e
nel riferire tutto ciò che compio a ciò che io stesso volli, fino allora la mia volontà dominerà il
destino che potrà, in virtù della libertà, volgere al suo fine tutto ciò che il destino le apporta.”»37.
Annunzio Cervi, di cui Antonia copia questi versi: «Dove la rinunzia più duole,
là è più Dio: / quel che più ci distrugge più ci crea. [Restiamo bombardieri del
36
Ibidem.
37
POZZI, Diari, pp. 12-13. La Dino prosegue rilevando l’incertezza della datazione di questi
marginalia, e delle relative citazioni del Guzzo che sembrano materiale di studio e non di letture
personali, ipotizzando il 1929, anno seguente alla partenza di Cervi o il 1932 «quando il suo
sogno d’amore viene frantumato dalla volontà paterna, ma ella non ha ancora perduto la speranza
di poterlo realizzare», in ibidem.
38
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 37. Nell’estate del 1916, Annunzio Cervi era entrato a far
151
prefigurazione della rinuncia (alla quale effettivamente la poetessa dovrà
sul quaderno, ossia la copiatura della poesia Custodia di violino, di cui sottolinea
prezzo – // avresti dovuto cacciarle da un pezzo / Per non averlo già fatto te ne
dato che porta la data del suo compleanno, 6 agosto 1915, ed è dedicata ad uno
dei suoi amici più cari, Francesco Meriano40. Anche secondo Graziella Bernabò:
parte «come ufficiale di artiglieria, volontario[, d]el corpo ad alto rischio dei Bombardieri del
Re.», in Bernabò, Per troppa vita…, p. 69. Nel 1917 pubblica Restiamo bombardieri del Re:
parole militari, opuscolo stampato a Treviso dalla tipografia Zoppelli e dedicato all’amica
Eleonora Duse, con cui intrattenne un contatto epistolare. I due si erano conosciuti insieme a
Nicastro in una libreria della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, dove l’attrice si era
commossa ascoltando i due giovanissimi soldati discutere animatamente in merito a Claudel e
Villon e, avendoli abbracciati, diceva loro commossa: «Voi partirete oggi. Vincerete la guerra.
Salverete l’Italia. Sì, sì, voi, che siete giovani, sapete come si può salvar l’Italia. E ora ditemi il
vostro nome, qui, scrivetelo qui! Metteteci accanto l’indirizzo del reparto e, se potete, anche il
nome della località in cui vi mandano.». Cfr. CERVI, Le cadenze…, pp. 45-47.
39
POZZI - GADENZ, Epistolario…, p. 77. La citazione che Antonia riporta nel suo quaderno di
Spigolature è tratta dalla rivista Eco della cultura del 1915. È stata poi editata nel febbraio 1918
nel volume Le cadenze di un monello sardo dalla Libreria della Diana.
40
«A Francesco Meriano, anch’egli poeta, intellettuale, traduttore, Cervi confida il suo enorme
bisogno di comprensione e di “fraternità”, lo stesso che emerge in varie liriche delle Cadenze.
L’amicizia inizia nell’agosto del ‘15 con una lettera del Cervi e una passeggiata, al tramonto, nel
Parco Reale di Portici.», dall’introduzione di Anna Chella a CERVI, Le cadenze..., p. 22.
41
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 90.
152
Seguendo la categorizzazione della Bernabò, fornisco alcuni esempi delle
72; v.14, 27 e 57) del Cervi, si possono ritrovare già dalla prima poesia di
Antonia, Spazzolate di vento (v.9 le folate pazzerelle); gli spilli d’oro del sole e
i chiodetti delle stelle di Venerdì Santo44 (vv. 15-16) del Cervi, possono
rassomigliare alle due borchie di stelle del v.4 di Cencio della Pozzi; sempre in
creatività, della diversità e della più viva meditazione poetica. In Cervi si legga
42
CERVI, Le cadenze…, pp. 79-80.
43
Ivi, pp. 85-88.
44
Ivi, p. 81.
45
POZZI, Parole, p. 88.
46
CERVI, Le cadenze…, pp. 108-109.
153
riposo d’identità in ritorno […] ogni notte la filosofia dinamica d’una realtà / in
cronologia / e senza più ricordi e senza più riflessi // ogni notte esasperazione di
nella loro più stridente diversità». Per la Pozzi basti il numero – già rilevato come
il più alto – delle liriche dedicate a questa fase della giornata, a farne intuire
conferma che non si tratta di una posa letteraria ma di una relazione lirica
debolezza o molto intimi del poeta, riversati anche con un linguaggio ricercato:
cui il poeta cerca di associare ad un colore le impressioni del dolore e del mondo
allucinato che percepisce intorno a sé, fino alla calmante apparizione della
madre, con l’intento di cucirle insieme per appagare l’arlecchino del suo Io. La
stessa valenza positiva dell’ingresso materno è ripresa dalla Pozzi con note più
dolci in Febbre48. Altre tematiche di Cervi trattate in modo spudorato sin dal
corde più consone e personali, pur mantenendo una forte carica espressiva
47
CERVI, Le cadenze…, pp. 96-97.
48
POZZI, Parole, p. 90.
49
CERVI, Le cadenze…, p. 131.
50
Ivi, p. 135.
154
(penso a Canto della mia nudità51). Nelle prime liriche della Pozzi è presente poi
una concentrazione quasi scientifica sul dettaglio dell’istante o del luogo già dal
primo verso, come a voler fermare l’attimo esatto dell’epifania poetica, che
sembra essere desunto dalla scrittura vibrante del Cervi (v. 1 di Notturno in
nausea di febbre: «ribrezzo di febbre per tutto il mio corpo stasera» o di Tuffo52:
(Stamattina / sono rimasta tanto alla finestra), Muffe sotto vetro55 (A Napoli, su
straordinario del tempo, pur nella cadenza ordinaria del suo scorrere, è inscritto,
secondo Nicola D’Antuono, sin dal titolo, per volontà del Cervi:
«Il titolo Cadenze di un monello sardo annuncia la forma dell’opera. La nuova poetica
è visibilissima già dall’organizzazione formale del volume. Ogni cosa è ritmo, cadenza, intervalli
regolari; la realtà fluisce sul piano tecnico ed il ritmo è connesso al succedersi delle cose, al
tempo che scorre […]. La temporalità è nella forma diaristica del volume, nel tono di
confessione, nella sintassi iterativa, nella stessa forma di tipo biografico-narrativo, se l’incipit è
in Anticipo e l’explicit in Io:».62
51
POZZI, Parole, p. 102.
52
CERVI, Le cadenze…, 141.
53
POZZI, Parole, p. 43.
54
Ivi, p. 50.
55
Ivi, p. 52.
56
Ivi, p. 56.
57
Ivi, p. 58.
58
Ivi, pp. 60-61.
59
Ivi, p. 65.
60
Ivi, p. 67.
61
Ivi, p. 70.
62
CERVI, Le cadenze…, p. 64.
155
Cercando analogie stilistiche nei due poeti, si può concordare che la sintassi
iterativa (si confrontino in questo senso e con diversi intenti le poesie Il cielo in
me, Inezie, Esempi della Pozzi63 e Venerdì Santo, Ordinotte senza parole,
relazione Pozzi-Cervi, insieme al lavoro già rilevato sul lessico e sui temi. Sulla
Purtroppo, come è noto, la Pozzi non ebbe modo di organizzare l’intero corpus
delle sue poesie, di farne una selezione in vista di una possibile pubblicazione
seguendo un proprio filo meditativo che rendesse coerente la scelta dei testi
non volle – darsi forma poetica definitiva, pronta per gli sguardi dei lettori. È
indubbio però che la voce che emerge dai suoi quaderni sia stata scambiata per
raccolta ebbe sin dal 1939, mantenendola anche in seguito, malgrado gli
63
POZZI, Parole, pp. 288-290; 222-223; 160-161.
64
CERVI, Le cadenze…, pp. 81-84; pp. 92-95 e pp. 114-116.
65
Cfr. il capitolo che Matteo M. Vecchio dedica in merito alla lettura che Montale ed Eliot fanno
degli scritti pozziani in Eugenio Montale e Thomas S. Eliot lettori di Antonia Pozzi, quinto
capitolo di VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 105-111. In particolare secondo Montale: «Ci sono
due modi per capire questo libro: si può leggerlo come il diario di un’anima e si può leggerlo
come un libro di poesia.», in ivi, p. 208.
156
quotidiana con il vissuto che ha necessità di essere sublimato ed espresso
Bisogna sforzarsi di ricordare che, dunque, la scrittura della Pozzi non può che
sensi del lettore con l’illusione che il dato biografico sia tutto quanto è necessario
certi ricordi, lo strazio della periferia e il profumo della ricerca vera di sé nella
relazione con l’Altro, che non tengono conto dello sguardo di un lettore, almeno
non da ciò che è dato sapere. Questi temi compaiono ciclicamente nei versi di
operato da altri che non fossero le anime sorelle a cui faceva leggere i suoi versi.
In questo senso credo sia molto difficile, se non assurdo, giudicare il lavoro di
Antonia con gli occhi della normale critica letteraria, come se lei avesse cercato
dei lettori estranei al suo mondo, perché viceversa tutto di lei è stato come rubato
oggi più che mai abbiamo bisogno di una critica pozziana non è per darle una
si metta in luce il suo essere in divenire nella poesia. Vi è la necessità che la sua
157
ricerca sia davvero ascoltata, studiata e compresa come tentativo di innovazione
(letterarie e non) che hanno nutrito la volontà di Antonia di fare poesia per il
bisogno di liberarsi dal peso eccessivo della vita e della morte. Lo scopo della
sua poesia è nella lezione che dà in merito al valore del fare, a prescindere da
particolare, per chi ama la poesia, la sua lezione è in merito al valore del fare
poesia, intendendo la sua lotta come una resistenza culturale per dare un senso
per analogia, ma non per derivazione, le storie delle invenzioni poetiche e degli
sviluppi testuali dei due diversi ‘diari’, essendo consapevoli che il termine è
riduttivo e non declinabile allo stesso modo per i due poeti. Per Cervi inoltre, a
differenza di ciò che ho appena scritto per Antonia, si trattò sempre di un lavoro
da «filologo di formazione [che sorvegliò] con grande cura i propri testi»67 fino
66
Cfr. il saggio di S. RAIMONDI, “Dio maledica la primavera” Antonia Pozzi e l’inadeguatezza
delle parole, in AA. VV., …e di cantare…, pp. 159-177.
67
CERVI, Le cadenze…, p. 29.
158
alla pubblicazione e anche oltre. Cervi era poi teso a proporre una certa
dalla curatrice dell’edizione 2016 delle Cadenze, Anna Chella, una sorta di
soprattutto delle relazioni. Atteggiamento che molto ci può dire anche in merito
«L’io delle cadenze coincide spesso con la parte più intima e sofferente della personalità
di Cervi. Dietro il riso, gli sberleffi e i “capricci riderelli” si cela un profondo bisogno di amore,
comprensione, fraternità. Il poeta soffre della propria condizione di “ritardataria fanciulleria”
(Neniettina) e non nasconde i momenti in cui la maschera infantile va in pezzi: accade, per
esempio, di fronte allo sguardo dei bambini veri, che si accostano perplessi al “disperato monello
in volto d’uomo” (Interferenze d’autunno). Il poeta delle Cadenze è un amico silenzioso
(Ordinotte senza parole), abituato a “serotini ritorni da passeggiate senza compagnia”
(Interferenze d’autunno), che ama fuggire la folla e rifugiarsi sui tram diretti fuori città,
68
Ivi, pp. 31-32.
159
lasciandosi trasportare “verso un sobborgo in zitta pace” (Ottobrata in malinconia di sbagliato
destino). L’appassionato collezionista di parole bizzarre, il poeta dalle metafore immaginose e
iperboliche, desidera, nell’amicizia, la comprensione muta e immediata, il “silenzio che
presente”, la tacita “fraternità” di cui parla nelle lettere a Meriano. Forse – riflette in Sviluppo in
monotona rima, datata sulla Diana 7 ottobre 1915 – la vera amicizia è impossibile per il poeta
condannato alla parola e a un amore per tutti e per nessuno: “solitario in amore di tutti soltanto
ho dolore / per ogni strada in cui passo deriso / di sentirmi umiliato per questo mio viso / troppo
brutto a poterlo coniare in un soldo d’amore”. La raccolta illumina molti tratti della multiforme
personalità di Cervi – il coraggio, la delicatezza, il desiderio di fraternità, l’ingegno “riderello”
– lasciando in ombra forse soltanto gli accenti più eroici e superomistici della sua figura. Dal
volume restano escluse poesie come Il sonno dei cannoni latini o Gli artiglieri della gioia, che
pure sono contemporanee alle prime liriche del libro. A questi testi patriottici e altisonanti, pur
non avendo affatto mutato le proprie idee politiche e interventiste, Cervi rinuncia, lasciando la
raccolta completamente affidata allo sguardo e alla voce del “monello”.»69.
(o forse proprio a causa di quella, si pensi ai Rossori70 della Pozzi davanti allo
sguardo dei bambini di Pasturo e alla sua ricerca della pace e del silenzio, alle
sue fughe fuori città), ritengo che proprio lo spirito del ‘monello’ fu una funzione
letteraria molto importante per la Pozzi, poiché le diede la spinta per trovare la
propria voce poetica, proprio quando iniziava a capire che essa era espressione
Bernabò:
69
Ivi, pp. 37-38.
70
«[…] Ma davanti al cancello / del mio giardino / un grappolo di bimbi / attende il mio ritorno.
/ Per guardarmi, / per guardarmi bene da vicino, / per vedere com'è fatta questa cosa curiosa che
son io. / Me li trovo davanti all'improvviso, / che mi fissano, dritti, / senza scomporsi: / e di colpo
sento / che ho io di loro assai più vergogna / che non essi di me. / Vergogna del mio mazzo / di
bucaneve troppo semplici / che a loro paiono brutti, / vergogna del mio passo, / del mio corpo,
troppo pesanti, / che a me sembrano goffi... / Ed ecco, vorrei essere come loro, / piccina, povera,
oscura, / più vicina alla loro piccolezza, / e non aver da dire / la paroletta benevola / che suona
male, / non aver da sorridere / con le labbra dure / che si aprono male... / Mi rifugio dietro il
cancello / come dietro una porta impenetrabile. / Ma quando devo infilare / la chiave nella toppa
/ e chiudere / con armeggìo sgarbato, / mi sento morire, mi sento morire di vergogna / davanti ai
loro occhi tondi di passeri / che mi guardano di là dalle sbarre; / davanti alle loro animette / di
passeri liberi, avvezzi / ad entrare, ad uscire / dagli uscioni sgangherati / delle vecchie cascine,
senza smuovere mai / l'enorme catenaccio arrugginito... Pasturo, 6 aprile 1931», in POZZI,
Parole, pp. 157-159.
160
collegare ad esempio versi come questi [della Pozzi] di Bambinerie in tinta chiara: “Il cielo si
era chiuso indifferente / in un suo pastranello grigio chiaro, / spolverato di sbuffi freddolini”, che
ricordano alcuni accenni di Pomeriggio di Pasqua di Annunzio: “Nell’ombra improvvisa le
ventatine / ballano, in mezzo alla piazza, con sciarpe agili di polvere, / tre o quattro danze
serpentine.»71.
Antonio Maria Cervi e sembra fondere sensazioni ed emozioni dei due vivi – la
71
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 90.
72
Ho riportato per intero i versi della poesia Pomeriggio di Pasqua, di Annunzio Cervi, per
permettere più completi riscontri. Sono tratti da CERVI, Le cadenze…, pp. 85-88.
161
in uno stordimento blando e chiaro, il cavallo sonnecchia.]
che mi riconduceva lievemente
la mia rinata fanciullezza intatta. La piazza senza sole si è rattrappita.
162
Vespro di Pasqua: diffusa sazietà…
Puah!
e l’anima mi si slancia,
nella piazza, in gara di danza col vento,
e mi burlo, a scompisciamento,
di queste persone tutta pancia.
puro e sereno, come quello delle due o tre margheritine, in contrapposizione alle
violette, fiore del ricordo dal timbro mitico, greco, è tipica della funzione
snidate, che odorano già sottilmente di morte, e che vengono poi chiamate viole,
163
del pensiero73, si può ritrovare la radice del concetto legato alla simbologia di
«La viola del pensiero è anche chiamata violetta a tre colori o erba della SS. Trinità,
perché un’antica credenza scorgeva nella forma della sua corolla il triangolo divino. L’occhio
aperto era rappresentato dallo stimma e le scanalature intorno formavano i raggi. […] La
leggenda della viola del pensiero è quella di Io, figlia di Ismene e di Inaco, grande sacerdotessa
del tempio di Giunone. Io, che era come tutte le dee di una grande bellezza, turbò un giorno il
cuore di Giove e conobbe con lui l’amore. I loro convegni sulle prime furono tenuti nascosti, ma
poi Io fu tradita da una delle sue compagne e Giunone decise di vendicarsi. Giove, per evitare
l’ira di sua moglie mutò Io in una bianca giovenca. Questa, accovacciata nei prati stava
piangendo sul suo triste destino quando intorno a lei spuntarono dei fiorellini. Erano le viole del
pensiero che rivolgevano verso Io le loro piccole curiose persone rievocando i volti di coloro che
costei aveva amato nel suo soggiorno sulla terra. Le viole del pensiero erano dono di Cibele, dea
della terra, che aveva avuto pietà di Io. La viola del pensiero è sempre il simbolo del ricordo.»74.
offerti dalla terra con i quali omaggiare il defunto, – forse anche accogliendo
questa idea della trinità simbolica letta nel fiore, e quindi di un legame sacro e
successivamente però non sembra ritenere questi fiori adeguatamente vivi per
73
SALVY, Il linguaggio dei fiori, p 142.
74
Ivi, pp. 139-140.
75
Secondo Salvy, «il suo nome significa perla. Ha una grande corolla ed è il fiore oracolo per
eccellenza. Per conoscere la risposta della margherita, ognuno la coglie in mezzo ai prati, poi ad
uno ad uno ne sfoglia i petali. Sia buona o cattiva la risposta il fiore mutilato viene subito gettato
via. Vi ama appassionatamente o niente affatto? La margherita ve lo dirà. La margherita
semplice è il simbolo della preferenza. Margherita di Francia, figlia di Francesco I, fu scelta
come sposa fra tutte le principesse del suo tempo, dal principe Emanuele Filiberto; allo stesso
modo ella, tra tutti i fiori, predilesse sempre la margherita bianca.». Ivi, pp. 89-90. Le margherite
sono anche i fiori della poesia Alla serenità del crepuscolare Corazzini, come dirò più avanti.
Nel loro nome latino, Bellis perennis sono state cantate anche dal Pascoli dei Nuovi poemetti.
Secondo il Cattabiani: «La margherita che annuncia e simboleggia la primavera è stata chiamata
anche pratolina e primaverina. Poiché fiorisce all’inizio di questa stagione, che nel calendario di
molte città dell’Antico Regime segnava il rinnovamento dell’anno, molti pittori, dal Botticelli al
164
rappresentare il ricordo del suo legame più ebbro e selvaggio: quello con la terra
«il monello insofferente ad ogni ipocrisia, sottile fino all’eccesso nello scrutare
ritrovato legame della poetessa con una fanciullezza intatta. Antonia ripaga il
fratello con lo stesso spirito di attaccamento alla terra e infantile genuinità che
caratterizzava il giovane poeta sin dalla sua prima poesia, Anticipo: «C’è della
gente tanto idiota / da volersi far prendere sul serio: / io sono invece tanto serio
/ da volermi preso per un idiota. // Rimango, dopo tutto, sempre quello / che fui
promessa eterna acquisita per una fede ignota ai sensi. Inoltre, per Fulvio Papi,
«La purificazione del proprio desiderio, del modo profondo di essere se stessa,
è quanto Antonia desidera donare per amore al fine di essere al livello desiderato
Ghirlandaio a Gentile da Fabriano, la facevano figurare nei dipinti e negli affreschi che
ricordavano la nascita del Cristo e l’adorazione dei Magi, dove alludeva alla “primavera” della
Redenzione. D’altronde anche il suo pistillo solare, giallo oro, e i petali che trascolorano dal
bianco al rosa delle punte alludono al nuovo sole primaverile: il bianco simboleggia infatti il
biancore dell’alba che trascolora nel rosato della primissima aurora o della primavera,
annunciando la salita del sole sopra l’equatore celeste. In questa luce la cantò Pascoli», in
CATTABIANI, Florario…, pp. 572-573.
76
CERVI, Le cadenze…, p. 11.
77
Cfr. ivi, p. 60, nelle note, la spiegazione di questo termine alla n°10: «Pizzinni-bizzoni si
chiamano i monelli sardi: e l’espressione vale bimbetti-uccelli.»
78
Ivi, p. 13.
165
dall’amato.»79. Si dimostra ancora, quindi, che il metodo di lettura degli autori
letti e considerati modelli per la Pozzi è – come già nel precoce caso di Annunzio
«In molte poesie del 1929 Antonia Pozzi riprende dunque da Annunzio Cervi il lessico
ardito, aspro, quasi prosastico, l’assenza di punteggiatura, la giovanile e baldanzosa nervosità;
forse anche il gusto delle lineette utilizzate al di là del loro uso canonico, che era decisamente
presente nelle Cadenze di un monello sardo.
Ma, pur partendo, come è comprensibile per un’autrice alle prime armi, da un altrui
modello di poesia, raggiunge spesso esiti personali: è il caso, ad esempio, della bella immagine
ossimorica che conclude Giacere (bere / con le pupille larghe, / l’anima bianca della notte),
dove compaiono il gusto dell’antitesi luce-buio e il motivo della “bianchezza”, che con più ampi
significati torneranno nella sua poesia più matura.»80.
79
PAPI, L’infinita speranza..., p. 22.
80
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 90.
81
POZZI, Parole, p. 94.
166
perché il libro di filosofia l’ho smarrito.
La Bernabò non esplicita il testo di riferimento del Cervi82, ma gli influssi sono
aspro, quasi cinico di Antonia – ad esempio nel connotare le parole del parroco
molle, fatta di saliva e sorrisino; il riso della madre è velato, come un povero
riso in sordina che non può ritrovare la piena gioia del suono, della sua potenza).
Chiaramente il tono non è calibrato per colpire ulteriormente la donna nel suo
dolore, ma, anzi, per farlo risaltare in modo lucido, non ammettendo scuse o
82
Almeno per quanto riguarda il tema, potrebbe trattarsi della poesia Per la morte di un bambino,
in A. CERVI, Poesie scelte (1914-1917), con un saggio di L. Fiumi, Casa Editrice Ceschina,
Milano 1968, p. 65. Il tono è però dolce, con influssi meditativi leopardiani: «Anche tu morto
bambino. E io stupisco a guardarti. / Come tu che la lenta continua rinunzia ignorasti / hai saputo
d’un tratto, in un sol giorno, rinunziarti? // Tu, che il silenzio prima d’ogni parola hai saputo, /
troppo dovresti dirmi per quel che appena balbettavi. / Forse, a non dire tutto, al tutto più amasti
esser muto. // Ora più non saprai quello che ad esser fosti. / Compierti non sapesti che nella tua
incompiutezza, / e all’Infinito, in silenzio inesplicato, ti raccosti. // Bambino, ecco la bara a te
che non sei che una bara. / Per la tua essenza di Dio che in Dio non trovò concretezza / lampada,
d’esaurirsi in giubilo di luce ignara, // tu, che d’un tratto a non essere il tuo essere esauristi, /
come in tomba prenatale in bozzolo di corpo moristi. // 1915.».
83
Si pensi alla differenza di tono con cui la stessa espressione di una fede semplice entra nei
versi di un Pascoli in Sera festiva, anche se pur sempre per bocca di un bambino che dà corpo
alla voce poetica: «Tu pensi.... Oh! ricordo: la pieve... / quanti anni ora sono? una sera... / il
bimbo era freddo, di neve; / il bimbo era bianco, di cera: / allora sonò la campana / (perchè non
pareva lontana?) / din don dan, din don dan. // Sonavano a festa, come ora, / per l’angiolo; il
nuovo angioletto / nel cielo volava a quell’ora; / ma tu lo volevi al tuo petto, / con noi, nella
piccola zana: / gridavi; e lassù la campana... / din don dan, din don dan.», in G. PASCOLI, Myricae,
Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1943, pp. 24-25.
167
compatta dei versi ordinati in rima incrociata. A sottolineare questo smarrimento
donna: quella nelle risoluzioni razionali della filosofia a cui la poetessa era
spronata dallo studio; quella semplicistica e religiosa della madre che ha perso il
senza logica e senza pietà, non si può più andare in chiesa, non si può più
«Si tratta di un testo interessante da diversi punti di vista. Prima di tutto, l’argomento,
in sé ben triste, della morte di un bambino viene inquadrato in una composizione calibrata che
in qualche modo riesce a contenere l’impatto emozionale: benché i versi non abbiano tutti la
medesima lunghezza, la poesia è infatti risolta in cinque quartine a rigorosa rima incrociata.
Inoltre, i frequenti diminutivi di gusto crepuscolare sono volutamente stridenti con il tema,
decisamente drammatico, e adempiono a una funzione critica nei confronti di una religione in
quel momento vista solo come formale. Infine, il lessico è volutamente semplice, prosastico
(robetta molle, saliva, sorrisino), con una ripresa, insieme all’uso delle lineette, anche di certi
modi spicci dell’ultimo Annunzio Cervi, piegati però a significati del tutto personali. Fin dai
primi approcci liceali alla filosofia, materia che avrebbe molto seguito anche all’Università,
Antonia Pozzi faceva capire a chiare lettere che non le interessava un pensiero astratto, disgiunto
dalla vita; e lo dimostrava, lei diciassettenne, con una fermezza da adulta.»84.
Antonia si sforzò a più riprese, per tutta la vita, di darsi una fede certa – anche
84
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 91-92.
168
natura perché intuiva che vi erano numerosi altri linguaggi che avrebbero potuto
con più facilità portarla all’incontro, tanto desiderato, con l’altro-da-sé. Anche
per questo motivo, dagli anni dell’università in poi, pensò spesso di abbandonare
propria ricerca personale fu quindi ambiguo, o quanto meno visse fasi differenti
assimilatorio rispetto ai maestri e agli autori, al pensiero e alla fede del suo
«Più che la vocazione, la decisione di avere una propria vita poetica appartiene ai
diciassette anni di Antonia. Ha perfettamente ragione Giuseppe Sandrini quando scrive “[…] il
cuore dell’esperienza poetica di Parole non si capisce senza tenere ben d’occhio la sapienza
formale che Antonia Pozzi si foggia a partire dalla sua esperienza adolescenziale”. Dal punto di
vista psicologico, rubare un proprio tempo “personale” – come racconta Antonia – ai doveri
scolastici per scrivere poesie significa sottrarsi al comune uso del linguaggio che ne fanno (o ne
facevano) i ragazzi come in un teatro improvvisato e continuo di se stessi. Condurre il proprio
discorso nelle leggi formali del verso poetico vuol dire scegliere nella propria esperienza
un’abilità che si riconosce in una tradizione. A Dino Formaggio85 in una celebre lettera
85
Riprendo la nota che introduce Dino Formaggio al lettore di POZZI, Ti scrivo…, p. 272: «Dino
Formaggio (1914-2008), studente lavoratore prossimo alla laurea con Banfi con una tesi sul
concetto di “tecnica artistica”. Quello per lui fu l’ultimo, sfortunato, innamoramento di A.P.
Dopo la partecipazione attiva alla Resistenza, Formaggio si dedicò alla carriera universitaria,
senza mai rinunciare all’impegno politico e civile. Fondò in Italia l’“estetica fenomenologica”,
nell’intento di sottrarre la riflessione sull’arte a qualunque forma di idealismo, ponendo invece
l’accento sulle modalità concrete della creazione dell’opera e riavvicinando così l’arte alla vita.
169
dell’agosto del 1937, ormai nell’ambito problematico del “fare artistico”, Antonia dice di se
stessa: “Io ricordo di non essere mai stata spiritualmente così viva, di non avere mai prodotto
tanto come quando al liceo e più tardi dovevo strappare coi denti del dovere assillante i piccoli
ritagli di tempo che fossero miei, della mia anima.”. Sottrarre (immaginiamo questa scena in una
ragazza di diciassette anni) la parola alla fuggevolezza del discorso, poiché non esiste uno
scambio comunicativo diretto, significa fissare la parola stessa in una memoria che ne muta il
senso e lo rende esemplare in due direzioni: certamente nella sua disciplina formale ma anche
nella modalità solitaria e autoriflessiva del fare esperienza (ancora poesia e diario connessi tra
loro).»86.
risente dunque anche di una vena ribelle87, di una forza costruttiva del sé
indipendente dai luoghi comuni88. Osservando la sola parte di biblioteca che lei
teneva a Pasturo e che oggi si è conservata, diventa chiaro come questa passione
eclettica, onnivora, sia la riposta ad una spinta interiore molto forte, che nessuno
studio canonico, già risolto e inscritto nel seno di un percorso condiviso da una
Tra i suoi molti scritti si ricordano in particolare: Fenomenologia della tecnica artistica (1953),
L’idea di artisticità (1961), L’arte come idea e come esperienza (1973), La “morte dell’arte” e
l’Estetica (1983), Van Gogh in cammino (1986), I giorni dell’arte (1991), Problemi di estetica
(1991), Separatezza e dominio (1994), Filosofi dell’arte del Novecento (1996), Variazioni
sull’idea di artisticità (2000), Riflessioni strada facendo. Un cammino verso il sociale (2003).»
86
PAPI, L’infinita speranza..., pp. 64-65.
87
Faccio mia la precisazione di Tiziana Altea, contenuta nel suo saggio Il silenzio come “altra
voce” in Antonia Pozzi: «L’urgenza di autonomia e anticonformismo non si traducono, per la
Pozzi, in volontà di trasgressione in senso stretto, ma in una ricerca di autenticità con sé e con
gli altri, per cui ad esempio, si vorrebbe “[…] non aver da dire / la paroletta benevola / che suona
male, / non aver da sorridere / con le labbra dure / che si aprono male…” (Rossori).», in AA.
VV., …e di cantare…, p. 227.
88
Si veda anche la poesia Cadenza esasperata: «Rabbiosa e scema esasperazione / delle mie
unghie rosicchiate / e queste parole dannate / che graffiano la carta con furiosa ostinazione //
invece del compito che lunedì dovrei portare / rimaner qui a farneticare / a dondolarmi
sull’altalena del passato / idiotamente con torpore assonnato // stimolati certi sobbalzi di
inquietudine stizzosa / da ogni ora che scocca / ed una voglia sciocca / di affrettarmi in
melensaggine lacrimosa // l’incubo della lezione che avrò fra un quarto d’ora / l’oppressione di
questo giorno snocciolato ansiosamente / la visione di me stessa che mi percuote desolatamente
– // una bambina che bamboleggerà sempre – come ha fatto finora – // Milano, 13 aprile 1929»,
in POZZI, Parole, op. cit. p. 49.
170
della certezza già valida per le persone a lei care. Per questo Antonio Maria Cervi
– oltre che per il sentimento che ne derivò –, fu una figura fondamentale per
Antonia: poiché ella lo investì del ruolo di colonna e argine della sua vita, intesa
come anelito alla verità. Dal professore Antonia assorbì un intero modo di
esprimersi, un linguaggio, non solo per poter meglio comunicare con lui – e,
quindi, per quel sottile gioco di assimilazione epistolare verso le attese del
pura come quella di A.M. Cervi. Fulvio Papi ricostruisce così la verità di questo
rapporto:
«Su una questione di vita Antonia – come ho già ricordato – ha in buona parte ragione
quando scrive: “Antonello io ti prego di non negare […]. Le cose, ho imparato a guardarle con i
tuoi occhi”90. Mi pare sicuro che il mondo intellettuale e religioso di Cervi sia entrato in Antonia,
certamente non come ripetizione, ma come problema, immaginazione, e anche lessico. Almeno
sino al 1934»91.
La dialettica più pura che Antonia riesce a esprimere nella relazione con Cervi è
quella che gli espone nella lettera citata da Papi, quella dell’11-15 febbraio 1934,
l’ultima a noi nota e la più sofferta. Una dialettica sacra che era stata già
89
Cfr. il cap. IV Sulla scrittura epistolare di Antonia Pozzi, della raccolta di saggi di M.M.
Vecchio, in VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 95-103.
90
Cfr. la lettera che Antonia scrive a Cervi da Milano, datata 11-15 febbraio 1934 e contenuta in
POZZI, Ti scrivo…, pp. 186-190. La citazione è tratta da p. 187.
91
PAPI, L’infinita speranza..., p. 40.
92
POZZI, Parole, pp. 288-290.
171
Tu
eri il cielo in me,
che non parlavi
mai del mio volto, ma solo
quand’io parlavo di Dio
mi toccavi la fronte
con lievi dita e dicevi:
– Sei più bella così, quando pensi
le cose buone –
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi per la mia persona
ma per quel seme
di bene
che dormiva in me.
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi
per la mia vita
ma per l’altra vita
che poteva destarsi
in me.
Tu
eri il cielo in me
il gran sole che muta
in foglie trasparenti le zolle
172
essere una finestra che cammina,
aperta, col suo lembo
di azzurro che la colma.
Ancora voglio
che s’oda a stormo battere il mio cuore
in alto
come un nido di campane.
E che le cose oscure della terra
non abbiano potere
altro – su me,
che quello di martelli lievi
a scandere
sulla nudità cerula dell’anima
solo
il tuo nome.
11 novembre 1933
In questa poesia Antonia ricuce per un attimo la ferita aperta della sua anima: si
tutto quanto è più alto, puro e sacro. Nei passaggi di questa poesia il Tu è
immenso, prende lo spazio di un intero verso: diviene la potenza stessa del cielo
93
Questa personificazione divina di Cervi è espressa a chiare lettere nell’ultima missiva di
Antonia per il professore, quella dell’11-15 febbraio 1934, nella quale lei afferma l’eternità del
loro legame: «Quado io volevo baciarti con labbra impure, tu mi scostavi piano, mi dicevi: “Ti
fanno male i baci, oggi, Pupa”. Io credo, io so, che nessun uomo ha mai detto alla sua donna
delle parole così sante. Tu solo, Antonello, tu solo. Perché era Dio che parlava in te, che voleva
salvarmi attraverso di te. Tu non puoi distruggere te nella mia vita, perché tu sei stato la parola
di Dio in me, la promessa della mia redenzione. Non è vero che tu non mi creda. Tu sei in me
più di quel che io sia e sai tutto di me: vedi attraverso lo spazio e gli anni, oltre questo viso che
la gente crede di conoscere, oltre le tante false figure di me stessa che girano per le “strade” e
vanno nelle case degli uomini a ridere e a dire bugie: tu sei nel profondo di me, a colloquio con
l’unica vera me stessa, quella che è stata tua. Tu mi credi quando ti dico che per me tutto è come
prima, più di prima; che io non sono stata e non sarò mai d’altri che tua. Di più, di più: che la
mia anima, non soltanto il mio cuore, la mia mente, il mio indirizzo di pensieri e di vita, la mia
dignità umana, saranno per sempre quali tu li hai veduti e voluti.». In POZZI, Ti scrivo…, pp. 188-
189.
173
all’acquisizione di una forza interiore. Sembra davvero di assistere all’atto
che ama in modo totalmente trascendente anche rispetto alla professione di una
fede. Basta il seme di bene che dorme in lei, basta la possibilità di essere fertile
terreno per la nascita di una nuova vita: in questi versi Antonia crede
profondamente di essere amata come strumento donativo, come lei voleva essere
amata, ossia come una creatura creatrice, al di là della povera forma di se stessa.
Negli ultimi versi Antonia è addirittura la finestra, forse la stessa che aveva
descritto nella sua prima poesia, Spazzolate di vento, ossia è proprio lei che ora,
massimo avanti / che sia sera, l’immagine di un lembo di puro azzurro. Lei
stessa è simbolo di una speranza ai limiti della fede, sublimata nel colore del
cielo che la colma. E il suo cuore batte per l’emozione di questa trasformazione
del sé, è un alto rifugio sonoro, come un nido di campane. In questo momento le
cose oscure della terra non hanno altro potere che scandere sulla nudità cerula
della sua anima il suo nome, il nome di quel prodigioso tu. È chiaro che dietro a
muta / in foglie trasparenti le zolle. Vi è l’idea del tempo ciclico che torna, con
pazienza e vera forza di luce inesauribile, a compiere gli stessi gesti, a maturare
dal niente frammentario e scuro delle zolle di terra, la trasparenza aerea, quasi
174
vergine delle foglie94.
Tutto il male del mondo viene trasformato dalla capacità celeste di questo Tu, ed
anche le pietre, dure, pesanti, lanciate per fare del male, si trasformano in una
volatile beffa, in uccelli che sembrano usciti dai miracoli antichi a rimarcare la
della classicità, l’eleganza di una cultura, la leggerezza della pace interiore: solo
di vera unione della sua anima con quella dell’amato, in una lettera a Cervi del
«La cosa più vera, quella che io – non potrai negarlo – intravvedevo già dal maggio
1929, quando, per vincere la tua oscura riluttanza a parlarmi dei massimi problemi, invocavo la
fraternità che m’avevi promessa e t’imploravo di non venirle meno, la cosa più vera e più atroce
e non so se reparabile è questa: che noi ci siamo baciati tante volte e abbiamo creduto di parlarci
di cose sacre e abbiamo sognato di donarci interi, ma le nostre anime non si sono mai nemmeno
sfiorate. Fuorché in una sera. In una sera che non puoi aver dimenticata. A Londra, sotto i grandi
alberi, là dove ci pareva di essere soli sulla terra e tu non sentivi altro che amore per me e allora,
non so con quale ardore, io, io per la prima, io senza forse essere compresa, tentai di rompere la
barriera che ci separava e ti parlai del mio Dio, di quello che, in un’altra sera d’oro, sulle colline
94
«E tu, tu che cosa facesti, omaccio, della mia povera animula sgualcita e accartocciata come
una foglia vizza? La mia animula, me l’apristi piano, con le tue mani sante; la lisciasti, l’allargasti
fino ai confini delle cose più vaste, la distendesti tutta al sole, perché il sole la mondasse e ne
condensasse gli aromi. Ed io, io che avevo cominciato a guardarti solo per capriccio, solo, forse,
per dimenticare l’altro, io… oh! Piccolo: era la vita, sai, la vita nuova e vera, l’ignota luce tanto
invocata, che scendeva in me, da te, a ondate larghe…». Queste parole di Antonia sono tratte
dalla prima lettera in cui si esprime in termini intimi e affettuosi al Cervi, quella dell’11 gennaio
1930. Appare qui l’immagine dell’anima della poetessa come quella di una foglia vizza, spiegata
e aperta dalle mani sante del professore, finalmente portata alla luce. L’altro a cui Antonia si
riferisce è un cantante d’opera con il quale dice di aver avuto degli incontri nei tre anni precedenti
la conoscenza di Cervi, incontri dai quali lei fuggiva: «con un senso di amarezza e di disgusto»
per le proposte poco perbene che riceveva da quest’uomo. La lettera è contenuta in ivi, p. 96.
Cito solo la memoria dei versi montaliani di Ossi di seppia: «Spesso il male di vivere ho
incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il
cavallo stramazzato.», dove anche in questo contesto l’anima sofferente figura in forma di foglia
che si accartoccia su se stessa. In E. MONTALE, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1997, p. 35.
175
rosseggianti d’erica95, m’era balenato nel cuore. Io oggi non so più se tu allora raccogliesti le
mie parole; ma allora mi sembrò che veramente qualchecosa di duro si sciogliesse tra noi e te lo
dissi – ti rammenti? – e piangevo di dolcezza e tu non mi dicesti, come ora, che il piangere mi fa
brutta, ma così mi dicesti: “Stellina, sei più bella quando pensi delle cose come queste” e mi
baciasti la fronte…»96.
Queste parole arrivano a smentire uno scritto sgomento del professore, il quale
deve aver a sua volta ricevuto, in precedenza, una lettera per lui sconvolgente da
non datato:
«[…] Io non credo a quello che credi tu, lo sai. E una volta questa disparità mi pareva
un abisso terribile. Ma ora non più. Ora non ho più i miei diciassette anni: mi sento molto grigia
e quieta. Tutti i miei pensieri sono tranquilli. E sono certa della mia vita senza pensare a Dio. Mi
sembra che come molta gente vive senza intuizioni artistiche, così si può vivere senza intuizioni
religiose. Io non cerco Dio perché non sento il bisogno di cercarlo; perché credo che la mia vita
può essere moralissima anche se io faccio le cose per se stesse e non perché Dio lo vuole. Mi
sembra che il mio pensiero sia ritornato molto semplice, bambino quasi: ma dritto, sicuro,
calmissimo. Un giorno, se il dolore mi vorrà far pregare, sentirò anch’io il bisogno di Dio e forse
lo cercherò. O forse non lo cercherò. Non so. Io so che mai come ora io ho sentito la mia vita
nelle cose fuori di me: ed è un dissolversi soavissimo. Ti mando poche righe che ho scritto alcune
sere or sono: sono le più spontanee, le più vere ch’io abbia scritto mai.
In questa calma, vedi, io so ora capire ed ammirare più di prima la tua religiosità fervida.
E anche davanti al più sacro pensiero ch’io possa avere, davanti al pensiero di una nostra creatura,
io mi sento serena. Io saprò insegnarle col più grande amore, col più grande fervore, tutto ciò
che tu vorrai che la tua creatura sappia.
Quando sarà grande, sceglierà lei la sua strada. Perché io credo e l’ho provato su di me
che è più grave impaccio al pensiero il non aver niente dietro di sé che l’avere una fede. È più
facile ricostruire sulle rovine che costruire nel vuoto. Ecco, Antonello, ti ho detto le cose più
gravi, quelle che più mi rimordeva di averti taciuto […].»97
95
«La sera d’oro» a cui Antonia si riferisce è forse quella della poesia Fede, in POZZI, Parole,
pp. 168-169. Eccone i versi: «Come potresti, come potresti, creatura, / andartene da sola / per
questo prato che somiglia a una steppa / e cogliere l’erica / e contare le stelle / e non morire / se
fosse la tua patria vera / quella che t’è lontana? // Come potresti, come potresti, creatura, /
strappare a queste pietre / le stesse erbe che crescono / vicino alla tua casa / ed amarle / se questa
terra non fosse / quella stessa, portata / dai tuoi occhi pel mondo? // E come potresti donare / alle
cose una vita / se fosse nelle cose la tua patria / e non in te / la patria di ogni cosa? // Come
potresti tu, / creatura, creare / ad ogni istante il tuo mondo / e sognare d’una patria più vera / se
Dio in te non creasse / ad ogni istante il Suo mondo, / il suolo sacro, / la Patria? // Kingston, 25
agosto 1931.».
96
POZZI, Ti scrivo…, pp. 144-145.
97
Ivi, pp. 143-144.
176
È chiaro che il Dio di Antonia è il Dio di tutti i poeti, o meglio di tutti gli artisti,
«Gli artisti (poiché prenderò i poeti soltanto a titolo d’esempio, penso che non ci siano
le arti, ma l’Arte, detta con parole diverse), gli artisti sono il popolo più religioso del mondo:
hanno il loro Dio, la loro morale e se posso dire la loro mistica.
Il loro Dio: è essenzialmente il Dio sconosciuto di cui parla San Paolo e io dico che è
lo stesso. Lo chiamano con uno dei molteplici nomi che indicano la sua incorruttibile unità, lo
chiamano Bellezza, lui che è la perfezione di ciò che è bello e vivente. Arrivano a lui attraverso
una strada che si unisce ad altre strade, quella della Verità, quella dell’amore, quella della
conoscenza, poiché sono strade di una montagna e tutte si riuniscono sulla vetta. Come i cristiani
più religiosi conoscono il loro Dio maggiormente attraverso le insufficienze delle sue
manifestazioni che non per ciò che rivela di se stesso. […] Tutti i fenomeni religiosi si incontrano
presso gli artisti su un altro piano. Sono inquieti finché non trovano la rivelazione perfetta e
restano inquieti in eterno proprio perché non è attraverso l’arte che si possiede Dio, si vede
semplicemente dov’è.».
È nei versi della chiusura di Fede, a cui Antonia allude nella lettera del 1°marzo
1932, che troviamo le immagini del suo Dio. Ella sussurra chiaramente a se
straniante –: «Come potresti tu, / creatura, creare / ad ogni istante il tuo mondo /
e sognare d’una patria più vera / se Dio in te non creasse / ad ogni istante il Suo
banalità superficiali), sia come una dialettica amorosa, sia come una dialettica
98
Riprendo la citazione fatta da Onorina Dino in POZZI - GADENZ, Epistolario, pp. 40-41, che a
sua volta la trae da M. DELBRÊL, Abbagliata da Dio. Corrispondenza, 1910-1941, prefazione di
E. Bianchi, Gribaudi, Milano 2007, pp. 89-90.
177
nient’affatto passiva fra maestro e allieva. La Pozzi infatti rivendica a più riprese
la Verità della sua ricerca, essendo una verità esperita e accolta come
marzo 1932:
«Perché se è questo che tu mi rimproveri, Antonello, di non credere nel tuo Dio; e se
quel che tu dici camminare vuol dire entrare nella tua chiesa, tu capisci, vero, che sarebbe
disonesto verso la mia coscienza il fingermi un dovere che non comprendo e non sento. E allora
tu dici che sono stata insincera quando ti ho mandato le parole del Vangelo, quando ti ho scritto
che mi mettevo a ginocchi con te per pregare e che pregavo per il povero Annunzio? […]
Tu non ammetti che oggi si senta e si creda vera una cosa e che domani la si riconosca
falsa? Oppure pensi che, pur riconoscendo sbagliato uno dei nostri atti passati, questo atto ci
obblighi a credere anche oggi a ciò che ieri ce lo aveva ispirato? Ma come, ma come, ma come
hai potuto pensare che in quel momento non credessi a quel che scrivevo? Mi accusi di verbosità.
Ma dunque pensi che chi è verboso non creda alle proprie parole? Pensi che verbosità sia come
dire: qui ci sta bene un “giuro”, qui ci sta bene un “supplico”, qui ci sta bene “Dio”?
Ma come, come, come puoi pensare che io giuochi con le mie parole così?
Accusami d’impulsività: in questo sì, hai ragione, hai ragione.
Il mio torto massimo è proprio questo: di prendere per duraturo quello che è mutevole,
e di fermarlo in iscritto e di gettarmi in esso con passione e dopo poco riconoscerlo per quello
che è e rimediarlo, vedere il suolo fermo là dove non sono che nuvole.
E tu questo lo chiami insincerità, Antonello? Ma chi è impulsivo non può essere
insincero! Chi è impulsivo è anzi troppo sincero, perché non lascia nell’ombra il minimo dei suoi
moti d’animo, ma tutti li esterna con lo stesso accento di verità. E questo è un male, un male
grandissimo, lo so. Ma non è che noi si voglia ingannare gli altri; siamo anche noi degli ingannati,
in quanto crediamo ciecamente a tutto quello che sentiamo.»99.
poesia-realtà che è semplice come quel vissuto quotidiano che non si lascia
guardare nel vivere, ma tutto sorpassa e consuma nel suo essere genuinamente
una forza d’amore. Forse non sempre conduce alla Verità, come Antonia
99
POZZI, Ti scrivo…, pp. 145-146.
178
riconosce, ma sospinge con energia una ricerca momento per momento che
concreta il valore del tempo in un suo scorrere ingenuo, a-priori, senza necessità
forbice che credo si consumi la distanza fra la Pozzi e il suo professore: per l’una
c’è un’unica possibilità di vero che è l’eterno fluire di quello che lei sente e
riconosce come divino nella natura mutevole – e per questo curiosa, interessante
– delle cose; per l’altro c’è una verità assoluta che pre-comprende e informa una
volta per tutte la realtà, una Divinità che va studiata razionalmente e alimentata
dalla fede.
Cosa resta, dunque, del loro rapporto se non possono giurare sullo stesso Dio?
«Ma Nello, Nello, sentimi: non vedi come tutto ciò che è mutevole, falso, vano, passa
rapidamente, non vedi che pochi giorni, poche ore, a volte, bastano a far sbollire i miei capricci
inutili, a cancellare le mie fantasticherie stolte, e, per quello ch’è più profondo, non hai veduto
in questi anni quanti mutamenti sono avvenuti nella mia anima e quanti smarrimenti e quanti
ritrovamenti, e invece in un’unica cosa, sopra tutto, in fondo a tutto, immutabile: l’amore per te.
Tu non puoi dire, non puoi dire – te lo proibisco, perché non esisterebbe una cosa più
orrendamente falsa – non puoi dire che in questi cinque anni io abbia mai, per un istante solo,
mancato al giuramento che ti ho fatto, in nome del tuo povero Fratello, di volerti sempre
bene.»100.
sacro le anime dei due amanti, e credo che sulla santità di questo vincolo potesse
porre fede anche il Cervi, e forse fu effettivamente così, vista la totale dedizione
che egli ebbe verso la memoria di lei, anche dopo la sua tragica fine nel 1938, e
100
Ivi, p. 147. Si tratta sempre della lettera del 1° marzo 1932.
101
Sono commoventi le immagini con cui vengono ritratte le azioni del professore in seguito alla
morte di Antonia nella biografia della BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 140-143:
«Contrariamente a ciò che Antonia, a un certo punto, gli aveva chiesto di fare, e pur avendone
avuto più volte la possibilità, [Cervi] non volle mai legarsi a un’altra donna. La morte di lei ne
179
La prima poesia che Antonia dedica espressamente ad Antonio Maria, Offerta a
accentuò la preesistente tristezza e lo gettò in una grande angoscia, che però egli espresse soltanto
a poche persone fidate verso la fine della sua vita. Come ricorda la nipote Romana, tenne fino
alla morte la fotografia di Antonia giovinetta (qual era ai tempi del loro rapporto d’amore)
accanto ai ritratti dei genitori e del fratello Annunzio, nella stanza che era stata della madre: lì
Antonio Maria entrava ogni mattina per salutare i suoi cari. […] L’anno precedente alla morte
[avvenuta nel 1966], sentendosi ormai al tramonto della vita, piangendo consegnò a Elvira
Gandini, in una busta sulla quale c’era scritta la parola “silenziosamente”, le fotografie di
Antonia bambina, che gli erano state regalate da lei molti anni prima. Senza venire meno alla
sua abituale riservatezza, con quel pianto rivelò tuttavia in tutta la sua portata lo sgomento per
tutto ciò che era accaduto alla sua “piccola” e il rimpianto doloroso del passato. Quello stesso
anno, il 15 aprile 1965, Cervi, che si recava frequentemente al cimitero di Pasturo, condusse a
sé la nipote Romana, allora circa ventiseienne. Durante il viaggio in treno, nel tratto tra Milano
e Lecco, mostrò il desiderio di confidarle i suoi ricordi, dandole da leggere il libro di poesie di
Antonia edito da Mondadori e indicandogliene alcune in particolare. Come sempre, posò sulla
tomba di Antonia un fascio di garofani rossi (viene in mente il vivo fascio / di garofani rossi che
la poetessa diciassettenne avrebbe voluto deporre sulla tomba di Annunzio Cervi) e un biglietto
con la scritta “All’adorata Antonia / il suo Antonello”. La nipote, nel corso della visita al
cimitero, lo fotografò più volte di spalle e, in seguito, gli mandò le fotografie, temendo però una
sua reazione negativa. Invece egli mostrò di gradirle; anzi ne fece riprodurre una in diverse copie
da regalare alle persone che più erano state vicine ad Antonia. Dietro alla stampa fotografica,
Cervi appose quella stessa dedica in greco, tratta dal libro sesto dell’Antologia Palatina, che
spesso trascriveva sui biglietti per la tomba di Pasturo, alcuni dei quali ci sono pervenuti raccolti
dal domestico di Lina, il fedele Pierino Camesasca. Si trattava della conclusione di un
meraviglioso epitaffio d’amore del poeta Meleagro, qui riportata nella traduzione della Gandini:
“Ma io ti supplico in ginocchio, o Terra che tutto nutri, lei, che è tutto un pianto, dolcemente nel
tuo seno, o madre, avvolgi, nascondendola.”. L’anno seguente, nel mese di aprile, Cervi si era
recato a Milano per presenziare ad Azzate alla posa della lapide sulla tomba del defunto amico
Luigi Castiglioni. La nipote Romana ricorda che, essendosi infortunata, era costretta
all’immobilità e che l’11 aprile lo zio Antonio Maria le fece compagnia tutto il giorno con il suo
fare consueto, austero ma anche sensibile, paterno, e le disse: «Stellina, guarisci presto, così
andiamo a Pasturo dall’Antonia”. Romana non poté accompagnare lo zio, che peraltro visi era
già recato il 6 aprile, come risulta da un biglietto con tale data presente nell’Archivio Pozzi.
Cervi vi tornò da solo anche il 12 aprile. In tale occasione fu infatti trovato sulla tomba di Antonia
un altro fascio di garofani freschi verosimilmente lasciato dal professore. Il 13 aprile Cervi si
sentì male durante la visita alla tomba di Castiglioni e, appena rientrato a Milano, morì. Aveva
settantadue anni e mai era venuto meno al ricordo fedele di Antonia.».
102
POZZI, Parole, p. 54.
180
con trepido cuore a fior di mani,
un vivo fascio
di garofani rossi.
17 aprile 1929
Come viene spiegato nella nota relativa al titolo della poesia nell’edizione
Maria, morto [sul fronte del Grappa il 25 ottobre 1918] e sepolto al cimitero di
Poggioreale della Pietà a Napoli. Antonia Pozzi visitò la città con Cervi nel corso
Crepuscolo108. Offerta a una tomba è divisa in due periodi: il primo muove dal
gesto di Antonio Maria che mostra i cipressi, custodi del cimitero; il secondo è
stessa che depone dei garofani rossi su una tomba mai veduta (che si suppone
La poesia presenta una metrica mista, quasi Antonia volesse far rientrare tutte le
ottonario, seguito da un verso libero (che in fondo calca il senso eccedente del
103
Ibidem.
104
Ivi, p. 55.
105
Ivi, pp. 52-53.
106
Ivi, p. 43.
107
Ivi, p. 41.
108
Ivi, p. 42.
181
luogo mostrato da Cervi: «un po’ fuori della frana ruinosa di case»); si
cipressi / saettati attraverso l’azzurro, chiusi da uno dei due quinari dalla poesia
nero, ripresa nel v. 5 custodire prima di essere fermata nella rima del v. 6
/r/ al v. 2 fuori / frana / ruinosa dove compare anche la ripetizione di /f/. Tra il
sul fianco delle colline partenopee fino a rovinare dentro al mare; l’innalzarsi
solenne ed energico, quasi austero, dei cipressi che indicano compatti il cielo e
si fanno custodi dei morti (evocati dalla sineddoche marmi bianchi) è ben
Nel secondo periodo invece il lavoro sulle figure fonetiche si fa meno intenso
(segnalo solo la rima interna ai vv. 7-9, cucita da una consonanza al v. 8: pensato
/ veduta / sembrato) per lasciare spazio alle immagini finali, dense di emozione,
182
del trepido cuore che a fior di mani, depone finalmente sulla cara tomba un vivo
fascio / di garofani rossi. Questo fiore dalla simbologia ricca109, sarà presente
anche in altre poesie (come Sole d’ottobre110 che è analizzata nel precedente
morti eroici a lei cari, anche per il tramite di altri affetti, come lo stesso Annunzio
Cervi e «la povera Signora Anna»111 Kuliscioff112, citata nella penultima lettera
invita all’amico Paolo Treves prima della morte. E dopo la tragica scomparsa
della poetessa, sarà lo stesso Antonio Maria Cervi a portare i garofani rossi sulla
109
Cfr.: CATTABIANI, Florario…, pp. 563-564: «Secondo una leggenda rinascimentale il
garofano nacque da un capriccio di Diana: la dea cacciatrice, che si era innamorata di un pastore
ma non poteva unirsi a lui poiché era votata alla verginità, gli strappò gli occhi per impedirgli di
vedere le altre donne e li gettò sul terreno dove spuntarono due garofani bianchi. Non a caso in
francese garofano si dice proprio oeillet, occhiello. […] Il garofano […] ha genericamente
simboleggiato Fedeltà, Amore vivissimo, Eleganza. […] Nella seconda metà dell’Ottocento il
rosso divenne emblema dei socialisti e anche loro sinonimo, tant’è vero che Antonio Gramsci
avrebbe poi scritto: “Gli arresti si moltiplicavano e le guardie regie davano la caccia ai
garofani”.».
110
POZZI, Parole, op. cit. p. 272.
111
POZZI, Ti scrivo…, p. 309.
112
Si tratta della moglie di Filippo Turati, grande rivoluzionaria socialista e medico, di origine
russa, morta a Milano nel 1925. Durante il corteo funebre, dei fascisti ne attaccarono le carrozze.
Lo stesso Paolo Treves (1908-1958), che portava periodicamente dei fiori sulla sua tomba, fu
condotto in commissariato per questo gesto di pietà nei confronti di una persona che era a lui
cara, oltre che per la fede politica (il padre Claudio era infatti deputato socialista ed aveva
trasmesso la fede al figlio, il quale dal 1926 militava nel partito), anche per un sincero legame di
amicizia che la Kuliscioff, insieme a Turati, aveva avuto con la sua famiglia. Si confronti in
merito il capitolo Fiori bianchi e fiori rossi in PAPI, F., L’infinita speranza…, op. cit. pp. 181-
187, in cui si delinea nel rosso il colore dei fiori donati alla Kuliscioff da Treves e nel bianco
quelli portati alla tomba della «Signora» da Antonia in vece del Treves, nel giorno dei morti del
1938. L’assenza del giovane in questo giorno così solenne era dovuta alla sua origine ebrea,
ereditata dalla madre, Olga: negli anni dell’amicizia con Antonia, insieme al fratello Piero,
vissero alcuni momenti drammatici a causa del fascismo, sino alla fuga definitiva dall’Italia,
avvenuta dopo la promulgazione delle leggi razziali (settembre 1938) e prima della loro effettiva
applicazione (17 novembre 1938). Ricavo la data considerando che la lettera sconvolta che
Antonia invia a Paolo nell’apprendere la notizia della partenza della famiglia per l’Inghilterra è
del 23 ottobre 1938.
183
costituire «l’esperienza più importante, quella che nel tempo è destinata a durare
con effetti che nei vari testi non sono naturalmente sempre gli stessi.»113.
Papi offre una breve antologia di poesie in cui analizza l’evoluzione della Pozzi
nell’uso di questo metro, fra cui figurano, nella cornice temporale che qui
componimenti su cui vengono ipotizzati anche rimandi alla cultura classica della
positivi vengono quasi solo dal repertorio autobiografico mentre gli altri
“squillante a piena gola”122) non può prendere il posto della poesia. Il desiderio
113
PAPI, L’infinita…, p. 65.
114
POZZI, Parole, p. 76.
115
Ivi, p. 108.
116
Ivi, p. 115.
117
Ivi, p. 119.
118
Anche Graziella Bernabò si esprime in merito alla cultura classica di Antonia: «La poesia
diventò quasi naturalmente lo sbocco di quell’animo appassionato. Antonia non vi giunse
tuttavia impreparata, poiché vi approdò dopo un assiduo esercizio di traduzione dei poeti classici.
Roberto Pozzi in Vita di Antonia, ricordava, a questo proposito, alcune versioni poetiche di
Catullo e Orazio che andavano ben oltre le semplici versioni richieste dalla scuola e denotavano
una ricerca letteraria già personale.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 84. Nella nota relativa
a p. 95 (n°3), si precisa che la traduzione citata dal padre è di Orazio, Carmina, I-IX.
119
POZZI, Parole, p. 136. Della poesia il Papi parla in questi termini: «Quanto alla memoria di
poeti classici potrei forse aggiungere che il verso “Sorelle, se a voi non dispiace” della poesia di
Antonia del dicembre 1930 potrebbe ricordare, di Catullo, “Oramus, si forte non molestum est”
(Carmina, LV).», in PAPI, L’infinita…, p. 68.
120
POZZI, Parole, p. 137.
121
PAPI, L’infinita…, p. 66.
122
Segnalo che questa formula a piena gola ritorna in una cartolina che Annunzio stesso scrive
a Francesco Meriano il 18 dicembre 1915: «Cecco mio, stasera a te: sono più uomo stasera. Mi
hanno armato. NN 2701: il mio fucile. E la baionetta, di puntuto scatto. Monello, monello a
piena gola, stasera. NN 2701. Ad anima gonfia. E con un presentimento di brigante sardo.», in
CERVI, Le cadenze..., pp. 39. Non ho evidenze in merito alla conoscenza della Pozzi di questo
184
di dire, di rappresentare, sceglie parole risonanti di elevato senso comune.»123.
Sollievo Vita
(vv. 1-2 gonfio / di bianco; vv. 2-3 vela / assicurata) e poi si rompe nel seguire
l’immagine che solleva l’anima dall’angoscia (vv. 5-6 rondini / scatta; vv. 8-9
185
sangue / si scolora, sciogliendosi nell’allitterazione della /s/), in Vita esso è
forzato, costretto da un pensiero che vuole dimostrare una fede e non trasferire
enjambement nei vv. 1-2 agguantata / m’hai). Mi sembra chiaro che questo tipo
sera del dì di festa (il cui modello è già stato analizzato nel precedente capitolo
in relazione alla poesia Tempo); Ad Angelo Mai (vv. 106-115); Il sabato del
villaggio (vv. 39-42). Nessuna di queste liriche mi sembra possa aver influenzato
pregare. Tuttavia, oltre al metro, ciò che mi sembra possa avvicinare questa
sollievo o conforto in una fede o in un credo risolutivo a causa della sua natura.
124
G. LEOPARDI, Canti, con un saggio di C.A. Sainte-Beuve, Istituto Editoriale Italiano, Milano,
(Classici Italiani, Biblioteca diretta da Ferdinando Martini, Serie I, vol. XV). È presente anche il
vol. XVI, G. LEOPARDI, Prose, con uno studio di P. Giordani, oltre ad altri numerosissimi volumi
della stessa collana.
186
amato. Allo stesso modo, nella poesia di Leopardi, è frequente il tema della
solitudine esistenziale, dell’esclusione dal sogno di una vita adulta felice: questo
sera del dì di festa e de La vita solitaria. Ancora una volta, come in Filosofia,
l’unica possibilità che resta ad Antonia per esserci, è ricomporsi nei versi di una
poesia:
Anniversario
ad A.M.C.
struttura di un legame e di una vicinanza che non può in altro modo essere
187
espressa: oltre alle più evidenti anafore (vv. 5-8: È come se; vv. 6/7-10: né io
sapessi; vv. 12-14: sarebbe buona come quella; vv. 17-19-22: Io vorrei, per te,
Antonia che dall’ultima posizione del verso 22, estremo dono all’amato, deve
la mia vita) e infine, al penultimo verso della poesia (v. 25), regredire all’inizio,
lasciando il posto all’ultimo verso (26) al tuo pianto solo. Quest’ultimo sintagma
compare anche al quinto verso in posizione mediana, vicino ad altre due parole
che si trovano all’inizio e alla fine della poesia e che sono opposizioni riferite ai
fargli comprendere il proprio stato d’animo da parte della poetessa, infine sigilla
della poesia: preghiera (vv. 3-11); terra (vv. 12-17) e luce (vv. 14-19). Non
potendo l’anima di Antonia sciogliersi in una preghiera, che sarebbe buona come
quella terra e quella luce che hanno accolto Annunzio, la poetessa vorrebbe farsi
essa stessa terra e luce, elementi a lei così cari e famigliari da poter quasi rendere
realizzabile questo desiderio. Vi sono anche due passaggi di senso che legano, a
livello di aggettivi, l’atmosfera generale dei versi: molle (nel senso di umido, vv.
2-18) e bianco (vv. 8-15-20). I ciuffi d’erica125 molli di pioggia e rossi del sangue
125
Così nella poesia L’erica, dedicata a Lucia Bozzi e scritta a Pasturo il 26 agosto del 1929: «tu
offri l’erica livida dei morti / e il mio offuscato amore / lustra / lavato d’acido pianto.», in POZZI,
188
di Annunzio, evaporano nel pianto di Antonio Maria che la poetessa non sa
asciugare; per questo ella vorrebbe almeno essere la terra molle che attutisce
l’urto di una caduta che immagina essere il modo del morire di Cervi. Molle
di schianto di Antonio Maria, si trasfigura poi già in un tono più pacifico nelle
pupille lavate dalla luce nell’ultimo istante della vita di Annunzio, per approdare,
fascia gli occhi e il cuore, sempre per opera della luce. Tutto questo sforzo
relazionale io-tu intrecciato come una delicata corona funebre per celebrare
verbi condizionali subito smentiti dalla cruda realtà delle frasi avversative. Se si
vuole trovare Leopardi in questi versi, si deve considerare quelli finali, quando
tutta la realtà emerge nella sua lucida disillusione eppure resta definita da
aggettivi vaghi e perciò poeticissimi126, come vuota, silenzio, nulla, solo: «Io
vorrei, per te, dare la mia vita: / e tu lo sai. Ma la mia vita è vuota, / priva di Dio,
Parole, p. 110.
126
Poeticissime sono definite alcune parole e alcune lingue nello Zibaldone di Leopardi (p. 1534
Indice leopardiano). A partire dal 20 agosto 1821 il poeta ne stila un elenco e ne fornisce dotti
esempi. Il senso di questo aggettivo è legato al piacere dell’indefinito che ad esse è associato.
«Le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una sensazione piacevole
(se l’uomo non vi si avvezza troppo), perché destano un’idea senza limiti, e non possibile a
concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e
giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta.», in G. LEOPARDI, Teorica delle arti, lettere ec.
Parte pratica, storica ec., edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici
leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, prefazione di A. Prete, Donzelli Editore, Roma 2002, p.183.
189
ignara di silenzio. / La mia vita non può esserti nulla: / ed il tuo pianto è solo».
usare altre parole per sciogliere una vita ignara di silenzio, se non quelle di un
profondo ascolto.
leopardiano sulla Pozzi: quello legato alla profonda considerazione per l’età
ignoranza del reale nei suoi aspetti più crudi è da considerarsi condizione
rispetto alla sua effettiva conoscenza che invece limita e delude127. La rinata
127
Riporto alcuni frammenti dello Zibaldone in cui Leopardi parla della teoria del piacere e
dell’inclinazione dell’uomo all’infinito: «[165]Il sentimento della nullità di tutte le cose, la
insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non
comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale.
L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira
unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è
tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché ingenita o
congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere
infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione.
Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è
eterno, 2. né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta
che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere
non ha limiti per durata, perché, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo
non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perché sostanziale
in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura
porta con sé materialmente l’infinità, perché ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui
estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta
l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perché non si
può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. […] Veniamo alla inclinazione
dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà
immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non
sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà
immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E
stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non
esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che
non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la
190
fanciullezza intatta di Bambinerie in tinta chiara che si sprigiona nel dono puro
speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene,
2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni.
Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte
non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente, dell’amor del piacere che è una
conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione
necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti,
ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle
come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll’immensa varietà
[168]acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche
disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non
potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di
lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti
i piaceri a soddisfarlo.». La teoria è stata redatta fra il 12 e il 23 luglio 1820 e si trova alle pp.
165-183 di G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri: edizione fotografica dell'autografo con gli indici
e lo schedario, a cura di E. Peruzzi, Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1989, vol. I.
Da questa teoria si evince l’importanza delle immaginazioni fanciullesche delle pp. 514-515, in
ivi, vol. II: «Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. un racconto,
una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e
quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza
limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi anche
ogni concezione) di quell’età tien sempre all’infinito: e ci pasce e ci riempie l’anima
indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori,
o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura
ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all’infinito, o certo non sarà
così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il
piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo
[515]qual fosse la strada che prendeva l’immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con
quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all’idea ed al piacere
indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni
indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che
una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come
un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella
tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa
sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze.
Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli
oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o
riflesso della immagine antica. […] (16. Gen. 1821)».
128
POZZI, Parole, pp. 68-69.
129
G. LEOPARDI, Canti, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, pp. 381-384. La data
apposta sull’autografo napoletano è il 29 settembre 1829. D’ora in poi farò sempre riferimento
a questa edizione e non a quella posseduta dalla Pozzi.
191
Scampagnata Il sabato del villaggio
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
È come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave
Stagion lieta è cotesta.
192
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
Nella poesia di Leopardi, la Pozzi sottolinea i vv. 39-43: «Questo di sette è il più
l’ore, ed al travaglio usato / Ciascuno in suo pensier farà ritorno.». Credo che
Scampagnata proprio l’idea di questo domani adulto, ricco di solitudine, ove non
ci sarà più spazio per i pazzi strilli di spensieratezza che un laghetto quasi vero
in Antonia al contatto con i fiori recisi, rivedendo nel loro veloce destino di
morte, la fine dell’età fanciulla, della gaiezza. Com’è tipico di Antonia, con uno
qui del tema leopardiano del garzoncello scherzoso al quale il poeta non vuole
tra conoscenza e ignoranza in merito al godimento del piacere e alla felicità. Per
Antonia però non si tratta di un’osservazione della realtà del villaggio e quindi
già di per sé estranea e amena: si tratta della sua stessa vita, dei suoi amici che
cammino, forse quello stesso triste cammino che ha portato il suo fratello (molto
193
presumibilmente Annunzio), lontano130, alla morte. Rovesciata è anche la
prospettiva sul tema dei fiori: se per Leopardi sono il simbolo univoco della
spensieratezza, dell’età più bella, che si ricorda anche in vecchiaia con piacere
(la vecchierella che ornata di fiori soleva danzare con i compagni al dì di festa),
per Antonia i fiori sono ambivalenti, sono uno strumento che via via riflette il
suo stato d’animo: vederli recisi le fa cadere subito la gaiezza che era quasi
riescono più ad aggiustare questo sentimento triste, che pure è riconosciuto dalla
Pozzi come vano (e aggettivo più leopardianamente sentito non poteva essere
Sempre sul tema della fanciullezza gaia perché ignara della crudeltà della vita e
130
Così il Leopardi nel suo Zibaldone (P. 1789,1 degli Indici leopardiani) il 25 settembre 1821:
«Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e
indefinite, e non determinabili e confuse.», in LEOPARDI, Teorica delle arti…, p. 205.
131
POZZI, Parole, p. 77.
194
Innocenza132, Visione133:
Sventatezza
desiderio per la natura in parte resistente ai racconti del padre. È infatti ancora
un pugnetto di more da una siepe. Il Montello non è per lei solo il simbolo –
come per un intero popolo – dell’eroica resistenza italiana al nemico sul Piave134:
132
Ivi, p. 91.
133
Ivi, p. 95. «Ancora, per un anno, la scuola / a preservare la mia fanciullaggine cocciuta. / Poi,
la mia vita sola / in mare aperto – come una vela sperduta. // Carnisio, 9 luglio 1929».
134
Per comprendere fino in fondo la mentalità dell’epoca bisognerebbe anche ricordare che, data
l’eroica vittoria italiana riportata sul fiume, sul finire della Grande Guerra il Vate si sentì in
dovere di cambiare il genere grammaticale del corso d’acqua: dunque l'articolo per introdurlo
passò da la Piave a il Piave. D’Annunzio intendeva così celebrare la potenza maschia del fiume
che resistette al nemico e il Piave fu elevato a fiume sacro della Patria. Cfr. l’articolo di Paolo
Rumiz sulla versione on line del quotidiano «La Repubblica» intitolato Il Piave, l’eroe di
D’Annunzio, pubblicato il 21 agosto 2013. Per una delucidazione in merito al genere dei fiumi e
195
il luogo è rivissuto attraverso il filtro delle emozioni sventate assolutamente
personali della poetessa. Il ricordo di quelle giornate gloriose della Prima Guerra
Mondiale alle quali aveva partecipato anche il padre, si accosta alle emozioni
fondendosi con una natura che sentiva davvero sua, come dimostra il prurito alle
di Antonia che è ancora una bambina, / col trecciolino smilzo, e che è insita nel
comportamento che dà il titolo alla poesia, viene però interrotta per un breve
momento dall’immagine del sangue dei morti che nutre l’erba gelida e affilata
che le sfiora i polpacci. Non è possibile sapere se questa sia una memoria
aggiunta dalla meditazione della scrittura, ossia dai più coscienti diciassette anni
ogni caso questo contrasto dell’erba che dovrebbe essere un elemento solare,
vivo, ma che invece diventa – nell’ombra della conca dove si trova con il padre
più la fanciulla dal vissuto storico del padre. L’orrore della morte è vinto dal
196
Il tema della fanciullezza per Antonia assumerà in futuro anche un altro
del tema del bambino non nato, ossia del figlio che la Pozzi voleva avere da
Cervi per risarcirlo della morte del fratello Annunzio136. Un primo ambiguo
sente di aver oltrepassato, con la coscienza ormai adulta di un ebbro strazio che
ancora non può appartenere alla nudità pura d’un fanciullo. Il lessico utilizzato
crea una scia che taglia antiteticamente il panorama semantico della poesia e che
accade proprio nel contatto fra i due corpi: da una parte vi è il sole, la purezza
quando la brezza che ci sfiora è l’alito / di vite arcane riarse di purezza / ed il sole è un amore
che consuma / e, a mezza rupe, migrano le nubi / sopra le valli, rivelando a squarci, / con riflessi
di sogno, la pensosa / nudità della terra, allora bello / sopra un masso schiantarsi e luminosa, /
certa vita la morte, se non mente / chi dice che qui Dio non è lontano. //», in POZZI, Parole, p.
111.
136
Cfr. l’introduzione di Graziella Bernabò a POZZI, Parole, p. 18: «Sarà proprio questa figura
idealizzata di poeta e di eroe, già centrale in alcune ardenti poesie del 1929 (Offerta a una tomba,
Vita, Anniversario), a ispirarle in seguito il motivo ricorrente del “bimbo non nato”, legato al
sogno impossibile di far rivivere Annunzio, nel nome e nello spirito, in un figlio suo e di Antonio
Maria Cervi. Un’immagine molto fantasticata che, negli anni 1931-1933, comparirà con accenti
di cupa angoscia o di mesta religiosità (Domani, Scena unica, Unicità, Alba, Lume di luna, Santa
Maria in Cosmedin, Lamentazione, Voto, Gli occhi del sogno, Saresti stato, Maternità, Il bimbo
nel viale); successivamente invece, nel 1935, con una connotazione più pacata, diventando per
la Pozzi una sorta di prolungamento di sé in una dimensione di sogno (il “bambino addormentato
di Fiabe).»
197
della nudità, il non sapere; dall’altra vi è il brivido, dunque il freddo, il sentire
dare rifugio a qualcosa o qualcuno) nel sangue tutto ciò che l’universo del
bambino non può sapere. Vi è forse il desiderio di un altro tipo di nudità da parte
della poetessa, considerata però come una folle volontà di distruzione di se stessa
(l’ebbro strazio). Il verbo covare137 è semanticamente ricco: legato alla sede del
sangue rimanda all’ineluttabilità di una natura animalesca, che dona calore alla
coprendola con il proprio corpo. Questa idea è alimentata dal tema del segreto,
dell’attesa di qualcosa che nascerà, se nutrita della propria più intima fibra. Non
si può non pensare al desiderio di una gravidanza e del sogno di Antonia, forse
covare può essere legata all’idea della malattia, dei pensieri più tristi che non
questi pochi versi la Pozzi compone sinteticamente una vastità tale di significati
ricerca di vaghezza leopardiana: qualcosa del luogo ligure in cui è stata composta
la poesia deve essere filtrato in questi versi, forse la voce di un altro poeta, l’onda
137
Ricordo in Pascoli, del Gelsomino notturno, dedicato alle nozze di un amico, Gabriele
Briganti, i versi vissuti con drammatica ambivalenza, relativi al risveglio dopo la prima notte di
nozze, dove compare il verbo covare: «È l’alba si chiudono i petali / un poco gualciti; si cova, /
dentro l’urna molle e segreta / non so che felicità nuova. //», in PASCOLI, Canti di Castelvecchio,
Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1943, p. 118.
138
Con questo aggettivo intendo un sinonimo di travagliato che porti con sé l’idea di una
problematicità esistenziale radicata e radicale, diffusa e sconcertante, sentita e delineata a livello
culturale in tutta Europa, per la quale non sembra più esserci una soluzione, una via d’uscita
definitiva. L’inquietudine è alimentata anche dalla critica contingenza storico-politica e dai
risultati, a volte disumanizzanti, di una corsa verso la modernità e il progresso portata avanti nei
due secoli precedenti.
198
di un Montale139.
Sul tema del segreto, e della solitudine che ne deriva, poiché il desiderio di
avvinghiare / qualchecosa di vivo, che io senta / più piccolo di me, non può
mese di Innocenza:
139
Mi riferisco alla relazione che il poeta intesse con il mare, nella sezione Mediterraneo di Ossi
di seppia, edita nel 1925. Dalla – già ai tempi della Pozzi – molto famosa raccolta di Montale,
strappo almeno l’atmosfera di questi versi: «Antico, sono ubriacato dalla voce / ch’esce dalle tue
bocche quando si schiudono / come verdi campane e si ributtano / indietro e si disciolgono. / La
casa delle mie estati lontane / t’era accanto, lo sai, / là nel paese dove il sole cuoce / e annuvolano
l’aria le zanzare. / Come allora oggi in tua presenza impietro, / mare, ma non più degno / mi
credo del solenne ammonimento / del tuo respiro. Tu m’hai detto primo / che il piccino fermento
/ del mio cuore non era che un momento / del tuo; che mi era in fondo / la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso / e insieme fisso: / e svuotarmi così d’ogni lordura / come tu fai che sbatti
sulle sponde / tra sugheri alghe asterie / le inutili macerie del tuo abisso. //», in MONTALE, Tutte
le poesie, p. 54. Non è più possibile per il poeta, essere fanciullo, aderire con facilità all’esempio
del mare: essere un singolo che partecipa al tutto. Vi è nell’età adulta una stortura, un’alienazione
rispetto alla pura e giusta legge della natura, da affrontare con coraggio etico. Vi è un complicarsi
dell’esistenza che appartiene alla dinamica della scelta che la Pozzi inizia a presentire, senza
giungere, all’altezza del 1929, agli esiti del pensiero di Montale.
140
POZZI, Parole, p. 83.
199
Le due sensibilità verso il tema fanciullesco – quella leopardiana dell’età più
bella e quella pozziana che vi somma, senza abbandonarla, prima quella della
visione di se stessa come di una donna innocua pura come un fanciullo e poi
quella del bambino non nato, vagheggiato in sogno – si ritrovano in una poesia
Scritta a Carnisio e dunque lontana dalla latente sensualità marittima dei corpi
nella barca ristretta, la poesia sembra chiedere pietà al Cervi per i propri slanci
spaventa, se ti son vicina. / Tu mi fai buona e bianca come un bimbo / che dice
le preghiere e s’addormenta. //». Per arrivare al tema del bambino non nato, che
Presagio142, un biancore di stella cadente che passa nella tenebra nostra, ossia
141
Ivi, p. 93.
142
Ivi, p. 135.
143
Ivi, pp. 137-138.
200
e lenta muove intorno le braccia il lume delle grandi stelle
per farci più soli – nel cielo viola
che l’anima schiarisce
Cade l’ultima luce dentro la notte
sulle chiome dei tigli – come i tetri pini che albeggiano
in cielo le dita dei pioppi nel biancore della neve.
s’inanellano di stelle – Un alto sonno tiene la foresta
ed i monti
Qualcosa dal cielo discende e tutta la terra.
verso l’ombra che trema – Come una grazia cade
qualcosa passa dal cielo il silenzio.
nella tenebra nostra Ed io ti sento l’anima battere,
come un biancore – dietro il silenzio,
forse qualcosa che ancora come un filo vivo di acque
non è – dietro un velo di ghiaccio –
forse qualcuno che sarà e il cuore mi trema,
domani – come trema il viandante
forse una creatura quando il vento gli porta
del nostro pianto – attraverso la notte
l’eco d’un altro passo
Milano, 15 novembre 1930 che segue il suo cammino.
Fanciullo, fanciullo,
sopra il mio cammino,
che va per una landa senza ombre,
sono i tuoi puri occhi
due miracolose corolle
sbocciate a lavarmi lo sguardo.
Fanciullo, noi siamo
in quest’ora divina
due rondini che s’incrociano
nell’infinito cielo,
prima di mettersi in rotta
per spiagge remote.
E domani saremo
soli
col nostro cuore
verso il nostro destino.
Ma ancora, nel profondo, tremerà
il palpito lontano delle ali sorelle
e si convertirà
in nuova ansia di volo.
Gennaio 1931
permette la fusione delle ombre dalle quali può meglio risaltare il biancore
dell’ipotesi di una nuova vita, creata a risarcire il pianto degli amanti (segnalo
in questa poesia, con Papi, la memoria sonora del secondo verso «fra le dita
201
congiunte dei pioppi» che sembra arrivare da «le tremule foglie dei pioppi» de
quiete ad una sensibilità tutta moderna, intessuta della dinamica del sogno e
gennaio del 1931 Antonia ha iniziato da pochi mesi l’università e non è dato
sapere quanto delle lezioni di Borgese, dedicate nell’a.a. 1930/1931 a «una breve
dell’arte dello stesso Borgese e [ad] uno studio del Decadentismo francese»145,
possa essere già filtrato nella poesia di Antonia. Sicuramente però oltre ai
greca»148. Gli echi presenti in questa poesia sono densi. Segnalo almeno l’alto
144
PAPI, L’infinita…, p. 56. La poesia si trova in PASCOLI, Canti di Castelvecchio, pp. 141-142.
145
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 100.
146
«Plenilunio (34 V.): Le stelle intorno alla bella luna / celano il chiaro viso / quando, piena,
inonda del suo lume / tutta la terra… / argentea», in SAFFO, Saffo, traduzioni e note di Mario
Marzi, Neri Pozza Editore, Vicenza 1986, p. 26.
147
«La notte: Dormono i vertici dei monti e i baratri, / le balze e le forre, / e le creature della
terra bruna, / e le fiere che ai monti s’acquattano, e gli sciami, / e i cetacei nei fondi del mare
lucente. / Dormono le famiglie degli uccelli / fermo palpito d’ali.», in ALCMANE STESÍCORO
ÍBICO, Frammenti, traduzione di Filippo Maria Pontani, Giulio Einaudi Editore, Torino 1968
(Collezione di Poesia, 54), p. 33.
148
PAPI, L’infinita speranza…, p. 67.
149
Cfr. l’incipit del canto IV dell’Inferno: «Ruppemi l’alto sonno ne la testa / un greve truono,
si ch’io mi riscossi / come persona ch’è per forza desta; / e l’occhio riposato intorno mossi, /
dritto levato, e fiso riguardai / per conoscer lo loco dov’io fossi. / Vero è che ‘n su la proda mi
trovai / de la valle d’abisso dolorosa / ch’ntrono accoglie d’infiniti guai. / Oscura e profonda era
e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa.», in ALIGHIERI,
La Divina Commedia, pp. 57-58, vv. 1-12.
202
dell’Inferno dove, oltre ai bambini nati morti – gli infanti che secondo la dottrina
dei Padri della Chiesa, risiedevano effettivamente nel limbo – Dante incontra (e
non battezzati perché nati prima di Cristo, fra cui figurano ovviamente i quattro
grandi poeti della classicità Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Dante si trova
nella più profonda oscurità e cammina con Virgilio che gli fa da guida: anche il
Euridice trasfigurato poi nell’ansia del viandante che sente il passo di qualcuno
sconosciuto dietro al suo: malgrado la tensione, Antonia riesce a trovare una via
di resistenza ed è già oltre, in una landa senz’ombre dove giunge il domani, una
lega anche l’idea di una dolcezza musicale, di un ritmo che era caro allo stesso
vorrei proporre una lettura della poesia Amore di lontananza151, in parallelo con
150
Nelle Cadenze sono ben cinque le poesie dedicate, o impostate sul ritmo, del notturno:
Notturno in nausea di febbre, N. in metafisica, N. in gastronomia, N. in interdizione, N. in siesta.
151
POZZI, Parole, p. 63. Il titolo richiama alla memoria anche l’amore di lontananza (amor de
lonh) del trovatore francese di lingua occitana Jaufré Rudel, vissuto nel XII secolo, famoso per
aver composto canzoni (ad esempio, Lanquan li jorn son lonc en mai) per un’innamorata mai
vista – di cui però aveva sentito parlare molto bene dai pellegrini che venivano da Antiochia –
la contessa di Tripoli. La Pozzi dichiara nella poesia un amore nostalgico per il mare che aveva
visto una sola volta e che tentava di figurarsi in un’immaginazione che arrivava a piacerle più
del mare vero, ricalcando nella composizione il fine stesso dell’amore cortese medievale, ossia
203
L’infinito152:
Qui però la natura è partecipata nella sua essenzialità famigliare, che stempera e
un’appartenenza e un possesso totale di ciò che era nella casa della mamma in
la realtà a seconda dei propri bisogni grazie alla forza dell’immaginazione (la
striscia dei colli in lontananza che assume le forme del mare di cui Antonia
l’elevazione spirituale attraverso l’esercizio poetico e non per forza il possesso dell’oggetto
amato.
152
LEOPARDI, Canti, pp. 300-301.
153
«I suoi nonni materni possedevano grandi e lussuose ville nella pianura lombarda, a Carate
Urio sul lago di Como e alla Zelada di Bereguardo, in prossimità del Ticino. In quelle dimore
Antonia soggiornò spesso da bambina, prima che fossero alienate in seguito alla divisione
ereditaria dei beni del nonno, e di esse conservò sempre un ricordo molto vivo.», in BERNABÒ,
Per troppa vita…, p. 28.
204
conservava un’aspra nostalgia da innamorata). Non è più solo la cornice della
finestra a proporre ciò che deve essere visto, non è più solo il limite che dà la
vedere detta il ritmo dei versi, crea autonomamente il piacere. Non è quindi la
vista della vicina siepe e del più distante colle che limitava l’ampiezza
Pozzi è la fisica ricerca del suo sguardo che si getta lontano e trasforma
effettivamente ciò che vede, carezzandolo con amore tra le ciglia. Il canto
pozziano è tutto innestato sul senso dello sguardo che fonde con l’amore della
Ritornano comunque gli elementi della natura che erano in Leopardi, svolti dalla
Pozzi in una costruzione personalissima, stimolata dal quadro del ricordo: il colle
154
Ricordo che il tema della finestra era presente anche in Spazzolate di vento, sua prima poesia,
ed è stato rilevato anche ne Il cielo in me.
205
«Il gusto romantico dello sconfinamento è qui, [in Amore di lontananza], temperato
dalla dolcezza infantile del richiamo iniziale alla casa della madre e dal riferimento ai luoghi
precisi di una geografia lombarda sentita come familiare e rassicurante. I riferimenti, anche
metrici (quindici endecasillabi sciolti), all’Infinito del Leopardi non riescono ad annullare
l’impressione della domesticità iniziale, nella quale rientrano gli stessi colli, più graditi in
definitiva del “mare vero”, quasi a trattenerla in un mondo ancora circoscritto e protettivo. Quella
pianura la legava alla madre, alla nonna e ai suoi antenati; alla nonna materna scriveva infatti il
2 luglio 1938: “Tu mi rappresenti la mia pianura lombarda, malinconica forte e reale, coi rossi
tramonti sulle risaie, l’odore caldo di stalla e la terra nera e umida: la pianura che ho tanto poco
goduto eppure mi sento nel sangue e verso la quale mi porta la nostalgia […].»155.
paesaggio con cui Antonia entra in relazione156, la pianura, che è sì una funzione
a quello poetico, come si evince dal prosieguo della lettera del 02 luglio del 1938
L’idea del grande romanzo in prosa era nata già negli anni dell’università, e si
era consolidata durante la stesura della tesi con un primo Progetto per un
romanzo di cui sono rimasti «due capitoli poco riusciti […], poi accantonati, ma
155
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 28-29.
156
Altro rispetto a quello della montagna indagato nel precedente capitolo. Si confronti sempre
quanto sostiene la Bernabò: «La pianura lombarda e le montagne della Valsassina furono invece
[rispetto a Milano] per lei l’occasione di un profondo contatto con una natura che le restituiva
un senso di radicamento e di pace e assecondava una sua profonda ricerca di significati
esistenziali.», in ivi, p. 28.
157
POZZI, Ti scrivo…p. 293.
206
il senso che per lei aveva assunto la poesia in quel momento della vita.»158. La
prosa era vista da Antonia come una forma di allontanamento dai picchi e dalle
in merito ai suoi versi e dopo le discussioni avute con Remo Cantoni. Seguendo
«Ad Antonia Pozzi veniva rimproverato un certo disordine. Non un disordine delle
cose, non un disordine della persona, ma un disordine nella vita, un disordine nelle idee, forse
uno scarto, più che altro un certo dislivello; in lei si intravedeva, appunto, qualcosa di non
allineato. Proprio Remo Cantoni, parlando ad Antonia Pozzi di questo disordine, apre ai nostri
occhi uno squarcio chiarificatore. È uno squarcio chiarificatore, sì, ma va proprio nella direzione
opposta alla direzione che Cantoni intendeva. Dove Remo Cantoni vedeva una specie di
disordine, noi intravediamo più precisamente uno sbilanciamento, un squilibrio. […] La vita di
Antonia Pozzi scorre come su un doppio binario: da un lato ci sono la nonna, la madre, […], le
amiche Elvira e Lucia, Pasturo e la casa a cui tornare. Dall’altro ci sono il padre, il professore, il
maestro filosofo, i compagni di studi, gli amici, la città e la casa da “lasciare”. Da un lato ci sono
le lettere, i diari, le cartoline, i biglietti scritti in una lingua libera e vivente. Dall’altro ci sono gli
appunti di studio, le note per la tesi, la storia della letteratura e le sue regole, le convenzioni nelle
discipline, la tacita lingua dei libri. Da un lato, la natura e il libero fiorire. Dall’altro, le periferie
e la città con le sue leggi. Due linee separate, due lingue diverse. Una lingua per sognare e una
per adattarsi. Due lingue, due punti fermi da cui sporgersi e a cui appigliarsi nel disequilibrio.
Questo movimento fuori dall’equilibrio, questa zoppìa del linguaggio per eccesso o
sdoppiamento del verbo, fu forse vissuto da alcune persone vicine ad Antonia come un fastidio,
come la costante minaccia di una persona incerta nella sua postura, così sbilanciata da rischiare
la caduta. Questo movimento fuori dall’equilibrio fu probabilmente inteso come pericoloso per
l’ordine del discorso. Fu certamente inteso come qualcosa di simile a un mistero, un sogno, un
enigma.». 159.
Non sono completamente d’accordo sulla divisione così netta degli ambiti, in
particolare quelli legati alla lingua libera e vivente della scrittura delle lettere,
dei diari, delle poesie, delle cartoline e dei biglietti presi in blocco come pietra
di paragone contro la tacita lingua dei libri, poiché certa scrittura poetica poteva
158
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 194.
159
Si confronti la tesi di Ida Travi in I. TRAVI, Lingua poetica / lingua materna in Antonia Pozzi,
in AA. VV., … e di cantare…, pp. 281-288. La citazione è tratta da pp. 282-283.
207
fuorviante160; lo stesso vale per la scrittura epistolare di cui ho analizzato i sottili
rimandi e gli assestamenti via via regolati sulle attese del destinatario. Allo stesso
modo è emerso in che modo le fonti dei libri non fossero affatto tacite (si pensi
(riferendosi forse al manuale scolastico, alla lettura del libro per la preparazione
utilitaristica) e una lingua che appartiene al libero scavo delle parole che dicono
personale, a differenza di alcuni passaggi della scrittura della tesi dove la lingua
e gli esempi161, per forza di cose, andavano adattandosi alle attese del contesto e
160
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 156-157: «Dunque le varie “figure” [retoriche e non
solo] compaiono certamente nelle poesie di Antonia Pozzi; ma il cammino attraverso il quale
l’autrice vi giunge è strettamente legato alla fisicità dei luoghi e delle cose, e al proprio aderirvi
in modo emozionale. Questo infonde ai suoi versi un grande senso di concretezza e di
domesticità, facendo a volte dimenticare, per il fluire naturale delle immagini, la densità
dell’assunto poetico. Ciò ha generato in alcuni lettori, soprattutto della prima ora, l’idea di una
facilità della poesia di Antonia Pozzi; idea che si rivela falsa ad una considerazione più attenta
che consenta di illuminarne l’uso voluto e personale dei meccanismi stilistici. Come attestano,
all’interno dei diari e delle lettere, i riferimenti alle situazioni reali da cui sono scaturite le poesie,
e le varianti raccolte nell’ultima edizione garzantiana di Parole, Antonia sa lavorare di lima; ma
lavora a suo modo, senza tradire la vicinanza alle cose e al sentire del suo corpo e della sua anima
di donna generosamente aperta all’accoglienza integrale degli esseri umani e del mondo.».
161
Ad esempio riporto la nota di Matteo M. Vecchio in merito allo stigma della scrittura
femminile che era pensiero corrente nella cultura dell’epoca, alla quale la stessa Antonia
sembrava credere, come tesa alla conferma di un’autosvalutazione: «Nella propria dissertazione
di laurea Antonia Pozzi peraltro riporta questa affermazione flaubertiana: “(Le donne) scrivono
per soddisfare il proprio cuore, ma non per fascino dell’Arte” (ANTONIA POZZI, Flaubert negli
anni della sua formazione letteraria, p. 134, nt. 119); sempre FLAUBERT, in Madame Bovary, fa
208
del pensiero dominante. Antonia non poteva non essere cosciente delle proprie
maschere: i diversi elementi visti nella selezione dualistica della Travi – diciamo
venivano vissuti, sia – e forse soprattutto – nel momento in cui venivano riletti
o rivissuti nel pensiero e nella scrittura. Per questo credo che la Pozzi andasse
infine ricercando attraverso la poesia una forma della natura che avesse la
funzione di ago della bilancia fra differenti stimoli: la ritrovò costante solo nel
relazione stessa del suo corpo con l’ambiente, poi ritessuta in parole – vista come
solida opportunità di equilibrio fra opposti. Nel febbraio del 1935, quando chiese
conferma di sé, del suo essere, del suo sentire e del suo vedere la realtà attraverso
sostenere ad Emma che “[u]n uomo […] è libero; può esplorare le passioni e i paesi, superare gli
ostacoli, assaporare le gioie più remote. Ma una donna è sempre incatenata. Inerte e insieme
flessibile, ha contro di sé le debolezze della carne e i rigori della legge. La sua volontà, come il
velo del suo cappello trattenuto da un nastro, palpita a ogni vento, e c’è sempre qualche desiderio
a darle slancio, qualche convenzione a trattenerla” (GUSTAVE FLAUBERT, Madame Bovary,
traduzione di Maria Luisa Spaziani, in Opere, progetto editoriale e saggio introduttivo di
Giovanni Bogliolo, Milano, I Meridiani, Mondadori, 1997, I vol., pp. 605-606).». La nota si
trova in VECCHIO, Perché la poesia…, pp. 112-113.
162
«Antonia Pozzi riferì infatti piangendo a Elvira Gandini che Banfi nel riconsegnarle le poesie,
le disse: “Signorina, si calmi!”. Fulvio Papi, un noto filosofo banfiano di seconda generazione,
che frequentò a lungo Banfi e ne conobbe bene “la strategia colloquiale”, sempre attenta a non
offendere l’interlocutore, ma semmai ad allontanare diplomaticamente gli argomenti a lui non
graditi, suppone che egli abbia speso “poche parole convenzionali sulle poesie” e poi abbia detto:
“Adesso pensiamo alla tesi”; e che “l’invito alla calma” sia stato “molto indiretto, anche se
leggibile da una ragazza piena d’ingegno e umiliata”. Ed è plausibile, in effetti, che Antonia,
parlando con un’amica intima quel era Elvira, abbia calcato il tono, riferendo magari una frase
estrapolata dal contesto. In ogni caso, resta ferma la sostanza della netta disattenzione banfiana
alla sua poesia.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 205.
209
romanzo per meglio indirizzarsi, per meglio impostare l’esigenza di un lavoro
letterario morale163. «Vivere di sola pace e silenzio per poter coltivare la propria
primi tentativi del 1935, in una lettera inviata a Dino Formaggio il 28 agosto
boscoso del Ticino portano al segreto di una dolcezza marina più ricordata che
linguaggi diversi a contatto con lo spirito creativo, con il sentire e con gli
sfida costante all’ascesi e alla resistenza rispetto a una possibile deriva (emotiva,
163
Il lavoro letterario morale è inteso dalla Pozzi come il superamento della propria flessione
introspettivo-poetica, sulla quale ha avuto modo di meditare giudicandola negativamente rispetto
ai parametri razionalisti del mondo banfiano con cui è entrata in dialettica negli anni universitari,
e che ha avuto modo di ritrovare nello stesso “superamento” operato dal Flaubert durante la
ricerca della tesi. Si tratta della rinuncia «all’espansione della propria immediata personalità in
arte» per scoprire «la propria più vera personalità, salvata e convalidata in un mondo che non è
più rifugio per gli abbandoni lirici, ma cantiere per la fatica attiva.», in POZZI, Flaubert. La
formazione letteraria (1830-1856), con una premessa di A. Banfi, Libri Scheiwiller, Milano
2012, p. 280. Poco più avanti la Pozzi riporterà la seguente citazione di Flaubert: «“Io credo che
proprio in questo senso si debba cercare la moralità dell’Arte. Come la natura, essa sarà dunque
moralizzante per la sua elevazione virtuale e utile per il sublime”», in ivi, p. 281.
164
ALTEA, Il silenzio…, in AA. VV., …e di cantare…, p. 232.
210
gli strazi165, come scrive Antonia ad Elvira Gandini. La poetessa così ritorna,
ciclicamente, a confrontarsi con le cime, a trascrivere ciò che esse, nel silenzio,
le comunicano, facendo i conti con la verità emersa dal più profondo di se stessa:
«Antonia sale. Nell’ascesa c’è una continua doppia tensione: da un lato c’è la ricerca
d’Assoluto, una tendenza all’Uno, alla fusione amorosa, e dall’altro c’è l’andare oltre, il donarsi,
il continuo farsi in due nell’amore, come nell’evento di nascita. E nel farsi in due, si rischia ogni
volta lo sdoppiamento, la caduta, il precipizio, lo squilibrio dei rapporti, per salvarli» 166.
senso d’esistere nel sacrificio del corpo, che scopre la semplice comunione con
a volte con slancio e a volte con ripensamenti –, che Antonia tenterà per tutta la
presenti nella sua poesia, ma la profondità e lo statuto della relazione non sono
assimilabili a ciò che essa cerca, trovando, nella montagna. Ed è così che quando
essere coinvolta in un tale ‘tradimento’ della voce poetica. Fulvio Papi legge nel
«Ma è quasi ovvio osservare che al paesaggio marino scabro, secco, parlante, segno
della memoria, della nostalgia, delle pieghe emotive della vita, corrisponde, con una molto
minore spigolosa concettualità, l’ambiente montano di Antonia, più prossimo a se stessa, quasi
165
Cfr. la lettera dell’8 agosto 1933 contenuta in POZZI, Ti scrivo…, p. 178.
166
TRAVI, Lingua poetica / lingua materna…, in AA. VV., … e di cantare…, pp. 285.
211
un prolungamento dell’anima e del corpo più che una scenografia di un vivere “malato”.»167.
Vorrei tentare di approfondire ora alcuni altri influssi che sono stati ravvisati
«La produzione poetica di Antonia dell’anno 1929, cioè del periodo del suo
innamoramento ancora unilaterale per Antonio Maria Cervi, è, come si è visto, in gran parte
acerba, tra echi leopardiani, dannunziani e crepuscolari ed esperimenti più moderni mediati dalla
poesia del fratello dell’uomo amato; tuttavia, in queste liriche, si aprono alcuni spiragli che
lasciano trasparire la precocità della sua vocazione poetica e la potenzialità di una sua personale
vocazione artistica.
Dal 1930, anno in cui iniziò il suo vero e proprio rapporto con Cervi, restano in tutto tre
belle lettere a lui indirizzate e sette poesie invece un po’ troppo effusive. Antonia, in quel
periodo, era troppo tesa a vivere la sua storia d’amore per trovare la concentrazione necessaria
al superamento dell’immediatezza sentimentale. […]
Senza insistere su un discorso che sembrerebbe riprendere quello crociano, ormai
superato, della distinzione tra poesia e non poesia, è sufficiente rilevare il fatto che nelle prime
liriche di Antonia Pozzi, come in generale nella produzione letteraria di una persona molto
giovane, la retorica, i calchi e le zeppe sono spesso presenti; ma è anche vero che, come accade
quando ci si trova di fronte a un vero talento, qualcosa in esse già preannuncia il canto più maturo
e vibra di una grandezza propria.
Infatti, anche nella produzione del 1930, ci sono versi che si imprimono fortemente
nella mente e nel cuore di chi legge, come alcuni di Novembre, che pure contiene un calco
dannunziano (chissà dove – chissà dove), filtrato forse attraverso il Cervi di Notturno eroico;
qui, in mezzo a più banali echi crepuscolari, un’immagine si delinea pudica, delicata, a dipingere
qualcosa di più di un semplice stato d’animo e a farci presentire un destino.»168.
La Bernabò allude, quando parla di canto più maturo e di una grandezza propria
della Pozzi, ai versi della prima strofa di Novembre169, che riporto per intero:
167
PAPI, L’infinita…, p. 68.
168
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 92-94.
169
POZZI, Parole, p. 134.
212
Novembre Notturno eroico170
170
CERVI, Poesie scelte…, pp. 69-72. La poesia non venne inserita nella raccolta delle Cadenze,
ed è presentata nel volume curato da Fiumi sotto la sezione Il sonno dei cannoni latini.
213
nella rosea sera.
nella lunatìa
pallida chiarìa…
nella lunatìa
pallida chiarìa…
214
il bimbetto, nel suo sonno bianco,
ha poggiato il suo capino stanco,
ha serrato i suoi braccini forte:
1915
raccolta Alcyone del 1903, in particolare dal v. 94, che ivi suona «chi sa dove,
eroico, «chi sa dove, chi sa che». Sempre la Bernabò accenna anche a più banali
echi crepuscolari. Novembre riporta la data del 29 ottobre, quattro giorni dopo
l’anniversario della morte del ‘fratello’ d’elezione. Non si rilevano per il 1930
Pozzi tenti una connessione impostata su un livello differente. Dal novembre del
1929 al luglio del 1930 Antonia non scrive: ci lascia nel suo secondo anno da
in quei mesi Antonia era impegnata a concludere gli studi liceali, ma credo sia
giusto sottolineare questo aspetto silente e a volte carsico di quella che lei
171
Nelle lettere, soprattutto quelle inviate a Lucia Bozzi, emergono allusioni alla sua Musa, alla
prodigalità o all’assenza di versi: cfr. in POZZI, Ti scrivo…, la già citata lettera del 05 luglio 1929,
215
volta che crede raggiunta la meta del suo amore, Antonia sembra richiedere una
Dalle Lettere brevi si evince che oggi solo il silenzio può dire: Antonia, con il
nome datole da Cervi, ha energie sufficienti (l’acqua e il pane) per andare fino
ai confini del mondo. Deve essere accaduto qualcosa di straordinario fra Cervi e
pp. 92-93;
172
POZZI, Parole, p. 122.
173
Ivi, p. 123.
174
Cfr. ad esempio l’incipit della lettera dell’11 gennaio del 1930, ove Antonia per la prima volta
chiama Cervi Piccolo mio. Si è giunti, dunque, all’esplicitazione di questo amore. I termini
riprendono fortemente l’idea della contrapposizione fra le fantasticherie tormentose di Antonia,
fatte di rotte parole, e il silenzio del Cervi: «avrei voluto scriverti subito ieri; ma non ne fui
capace. La pura e dolcissima realtà che hai offerto alla mia giovinezza assetata d’amore fascia e
disperde le mie fantasticherie tormentose; la tua voce adorata versa il silenzio sulle mie rotte
216
una sua forma poetica solo – forse e in parte – nella poesia successiva, Vicenda
canto per arrivare all’anima dell’amato, cercando di sublimare nei versi l’essenza
indispensabile per il fluire stesso della vita. Alla fine della propria storia – della
propria vicenda d’acqua legata all’idea della cascata e dunque di una giovinezza
turbinosa che vuole interamente donarsi, sprezzante del pericolo di morte pur di
rocce dopo tanta caduta, ora vuole riposare dai soverchi balzi, nel vuoto e nel
silenzio che le fanno da culla. Riemerge quindi anche l’idea di una regressione e
concretarsi: una fanciullezza implicita dell’anima. I ruoli del vuoto e del silenzio,
pagano in attesa costante, data la sua voracità, di un’offerta di parole), alla fine
parole.». In POZZI, Ti scrivo…, pp. 95-96. Graziella Bernabò nell’introduzione alla raccolta di
poesie della Pozzi afferma: «Il 1930 si svolge per Antonia all’insegna di un nascente rapporto
d’amore, quindi di un’urgenza di vita che inibisce in buona parte la sua scrittura poetica.», in
POZZI, Parole, p. 19.
217
confronti di queste due parole che da oggi diventano la sua eco, il suo nuovo
modo di dirsi per riflesso in ciò che non è175. Questo ritrarsi nel silenzio, può
dalla propria vocazione poetica, un modo, quindi, che avviene in tempi molto
più antichi rispetto alla scelta della scrittura in prosa che vorrebbe, invece,
una relazione costante, radicale, con la sfera del silenzio, connaturata alla
scrittura poetica pozziana, e che è più simile al vacillare di una fiamma sul
ma mai spenta. Per la poetessa infatti restano affascinanti sin dall’inizio tutta una
serie di temi umili, ossia prosaici176, per i quali non varrebbe forse la pena di
scomodare la poesia e che sono stati cantati appunto da quei poeti detti
nel 1930 diventerà professore della Pozzi. In un articolo dal titolo Poesia
175
Come ho già accennato, Tiziana Altea ha dedicato un intero saggio al rapporto della Pozzi
con il silenzio: Il silenzio come “altra voce” in Antonia Pozzi, in AA. VV., …e di cantare…, pp.
217-249.
176
Ricordo che il termine prosaico ha proprio l’accezione opposta al termine poetico: si tratta di
ciò che per contrasto non riesce ad avere un’elevatezza tale da potersi dire poetico. Dalla voce
dell’enciclopedia Treccani on line: «prosaico: agg. [dal lat. tardo prosaicus] (pl. m. -ci). – 1.
letter. Che ha il tono, il carattere della prosa, detto come giudizio per lo più negativo con
riferimento a opere, componimenti, discorsi che dovrebbero avere uno stile elevato: versi p.;
locuzione, espressione p.; stile prosaico. 2. fig. Privo di poesia, di sentimento, di ideali, incapace
di trascendere gli aspetti materiali della vita, e quindi meschino, banale, volgare: discorsi p.; un
uomo p.; avere interessi p.; non essere così p.!; 3. ant. Prosastico: scritti p.; anche riferito a
scrittore in prosa.». Quest’accezione negativa nei confronti dell’aggettivo prosaico andrà
scemando in ambito letterario proprio grazie alla poesia dei crepuscolari e di tanta parte del
Novecento, oltre che per merito dei poeti che lo stesso Borgese individua, con Umberto Saba
capofila, come Poeti prosaici, in un articolo del 30 giugno 1911 apparso su Le cronache
letterarie de «La Stampa», n° 179, p. 3.
218
poesia di Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves, il critico
«Che cosa sia la poesia italiana dopo la gloriosa fioritura di Pascoli e di D'Annunzio
non è facile capire a chi non s'occupi di letteratura per professione. A interrogare i critici, che
distribuiscono ogni anno eque razioni di lodi fra cinquanta o sessanta volumi di versi, si direbbe
che Apollo musagete tenga fermo il suo carro di fuoco sullo zenith del nostro cielo. A interrogare
il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta.
Si spenge infatti, ma in un mite o lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso
un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non
dorme e non muore. In una morbida via soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi
sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettìi di una grandezza che verrà un giorno
alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell'alba.
Ma la grandezza passata – la meravigliosa giornata lirica che dal grigio e magro civismo
di Parini compì la sua parabola fino alla retorica e tragica sensualità dannunziana – è un fatto
compiuto, acquisito alla nostra conoscenza, palpitante nel nostro sentimento; mentre la
grandezza futura, alla quale abbiamo bisogno di credere per una fede quasi religiosa nel destino
della nostra cultura, è un enigma da lasciarsi ai profeti. Perciò è più facile e meno arbitrario
cogliere i segni di ciò che muore anzi che il preannunzio di ciò che nascerà, e li cogliamo con un
misto di pietà simpatica e di tenerezza accorata. Ecco tre giovani poeti crepuscolari – Marino
Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves — che sono indubbiamente fra i migliori
rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s'annoiano e
non hanno che un'emozione da cantare: la torpida e limacciosa malinconia di non aver nulla da
dire e da fare.
Vi sono, fra i tre, differenze notevoli di contenuto e di stile; ma son di quelle differenze
che fra una trentina d'anni dilegueranno sotto quella patina unitaria che il tempo sovrappone alle
opere di un'epoca medesima, quando quest'epoca non abbia messo fuori una personalità così
vigorosa da superare l'imperativo dell'ambiente. Noi, vicini, sappiamo facilmente discernere che
Moretti fu il più languido e delicato e Martini il più canoro ed impreciso, mentre Chiaves, come
individuo, è il più forte e quello che più consciamente adopera l'ironia. Ma i lontani vedranno
più facilmente, nei tre poeti nostri e negli altri molti loro coetanei, un'identica maniera di sentire
la vita e di trattar l'arte. Arcadia? secentismo? decadenza? futurismo? novecentismo, come io
stesso altra volta chiamai questo poetare sfiancato e invertebrato, senza capo né coda, cullato
passivamente da un ritmo monotono e da una rima narcotica, salvo che, invaso da un'improvvisa
fede nella sua missione vaticinatrice, non si metta a rotolare con una valanga di epiteti
amplificativi e di enumerazioni enfatiche? Sono tutte formule che implicano una condanna; e
l'importante non è né esaltare né condannare, ma capire.»177.
colmando con un’analisi sottile il vuoto percepito dai lettori dopo le parole di un
177
G.A. BORGESE, Poeti crepuscolari, in La Stampa, 1° settembre 1910, n. 242, p. 3, oggi
riprodotto on line in www.archiviolastampa.it.
219
Carducci, di un Pascoli, di un D’Annunzio, tutte volte ad alti ideali – se non
estetici.
«Chi ci ha regalato questa poesia del «triste far niente»? Pascoli col suo “fanciullino”, i
decadenti francesi con le loro corsie d'ospedali, d'Annunzio col suo Poema paradisiaco, le cui
reminiscenze traspaiono di tanto in tanto negli ultimi epigoni? Un po' tutti, un po' nessuno. In
senso stretto, non si può dire che i giovani poeti siano dannunziani o pascoliani: prendono il loro
magro bene dove lo trovano, e, poiché son giunti al levar delle mense, devono contentarsi delle
briciole. Che cosa cantare? La passione epica di Carducci per la patria e per la libertà? Passione
esaurita con Carducci; l'umanitarismo di Pascoli e l'imperialismo di d'Annunzio erano già
dilettantesimi. Ma Pascoli aveva la sua pia ed ingenua novità da cantare, il campo seminato,
l'infanzia tormentata; d'Annunzio aveva la sua leonina sensualità dionisiaca. Anche questo è
finito. Un nuovo ideale da cantare? I tempi sono incerti, e la poesia non elabora che ideali
concreti. Così alla poesia (alla santa poesia, come la chiama ancora il Martini) non resta che
idolatrar se stessa e di se stessa nutrirsi. Fantasticherie campate nel vuoto: povere di realismo e
non di lirismo.
Così per la forma. Che c’è da fare dopo le Odi barbare, dopo l’Otre, dopo la Morte del
cervo, dopo quella dozzina di liriche dannunziane, nelle quali la nostra lingua mostrò veramente
tutto il suo potere? Dovranno passare molti anni prima che quel' eco si spenga, o dovrà sorgere
un altro temperamento di quella forza. Frattanto, chi ha una piccola vena di cose sue da dire e
non ha voglia di emulare con le ali dell’anitra il volo di Pindaro, preferisce cantare con un fil di
voce. Qui subentrano gli insegnamenti di alcuni decadenti francesi e poi di Giulio Orsini e poi
di Guido Gozzano: una certa volontaria e studiata sciatteria; la sintassi prosaica, l’epiteto
diminutivo, la quartina pedestre, il verso ritmicamente insipido, simile, nel suo povero profumo,
a un fiorellino, a quattro petali. Contro la retorica dell’enfasi vien fuori la retorica – che qualche
volta è sincera, come tutte le retoriche, del resto – dell'ingenuità e della semplicità. E poiché non
han nulla da cantare, ma sentono un veritiero bisogno di cantare, s'attaccano alle quisquiglie, ai
fiori di carta ed alle cose buffe e malinconiche ch'erano di moda cinquanta o settant'anni fa. Si
sono anche rimessi a idealizzare la tubercolosi, la quale – in quanto tubercolosi poetica – pareva
ormai domata dal siero della gaia impostura stecchettiana. La ballata romantica s'intreccia con
la delicata e sospirosa elegia di Cosimo Giorgieri-Contri: l'atmosfera sa di incenso e di acido
fenico. Poiché il gran campo della nostra poesia fu mietuto con falci d'oro, essi indugiano sui
margini della via spigolando i residui del romanticismo e le scorie del classicismo e
contentandosi di capire in Pascoli la balbuzie, in d'Annunzio il Poema Paradisiaco.
Se Carducci offriva un bicchiere a Pio IX, essi cantano le suore; se d'Annunzio
vaticinava l'impero del mondo, essi si rifugiano nelle “rosse stazioni provinciali” o invocano la
“natìa porta Palazzo”; se i satanici fervevano di lussuria, essi esaltano l'ambigua castità della
carne sazia. Hanno un non so che di quegli adolescenti un po' precoci e un po’ grulli, intelligenti
e fiacchi, allampanati e sentimentali che a Firenze chiamano con parola di affettuoso dispregio
baccelloni. La loro poesia è la fodera della robusta ed impetuosa poesia che godemmo e
amammo. Pure è poesia. Hanno poca o nessuna smania di vanità, poca ambizione, molta delicata
intimità di sentimento. Chi vorrebbe negare la fine sensibilità di Moretti, la monellesca sveltezza
di Chiaves, la soffice musicalità di Martini? Bisogna prenderli così come sono e goderli nei limiti
del loro potere senza incrudelire contro manchevolezze, di cui, presi uno per uno, non hanno
tutta la colpa. La loro poesia è come l'amore di cui parla Martini, “simile a un'urna di cristallo,
cui protegga la sua fragilità”. È una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si
spenge. Non hanno tanta forza da soverchiare l'ultime risonanze delle grandi antiche voci, e il
220
crepuscolo li involge. Giacché non solo le colpe, anche le glorie dei padri pesano sui figli.»178
Il Borgese risolve dunque con l’esposizione dei temi (il disprezzo per se stessi;
l’amore per il passato e, dunque, l’attenzione per il mondo della scuola179 e della
giorno della domenica prima aspettato con bramosia e poi trascorso nella noia
del nulla; gli argomenti ricorrenti dei decadenti francesi180), con l’attenta analisi
dei versi (caratterizzati come i poeti da poca o nessuna smania di vanità, poca
Fantasticherie campate nel vuoto: povere di realismo e non di lirismo. […] Pure
178
Ibidem.
179
Scrive il Borgese in merito al Moretti in ivi: «Alla prima infanzia il poeta ripensa con
invincibile fissità, con una tenerezza fra commovente e scimunita, e, componendo quartine sul
sillabario, sulla maestra, sui nomi dei compagni allineati in ordine alfabetico, riesce a darci cose
di una futile ma inquietante e squisita delicatezza. Leggendo la Signora Lalla o il Sillabario, non
è possibile, pur mentre si respinge quell'ozioso fantasticare, comprimere un sorriso di affettuosa
simpatia: “Oh si! prendiamo la cartella scura, / il calamaio in forma di barchetta, / i pennini, la
gomma e la cannetta, / la storia sacra e il libro di lettura... […] // andiamo, andiamo! Il tema è
messo in bella! / Andiamo, andiamo! Il sunto è messo in buona! / Dio, com'è tardi! La campana
suona... / Fra poco suonerà la campanella… […] // Come son vani, come son diversi, / signora
Lalla, i miei compiti d'ora! / Dimmi, vuoi riguardarmeli tu ancora? / Sembra uno scherzo, ma
son tutti in versi...”». Il tema, con tutt’altra profondità d’esito, si può ritrovare nella già citata
Limiti della Pozzi, espressione turbata degli immensi apporti culturali universitari: «Tante volte
ripenso / alla mia cinghia di scuola / grigia, imbrattata, / che tutta me coi miei libri serrava / in
un unico nodo / sicuro – / Né c’era allora / questo trascendere ansante / questo sconfinamento
senza traccia / questo perdersi / che non è ancora morire – / Tante volte piango, pensando / alla
mia cinghia di scuola – // Milano, 16 aprile 1932», in POZZI, Parole, op.cit., p. 180.
180
Sempre il Borgese, nell’articolo del 1° settembre 1910, precisa: «Dai decadenti francesi è
passato al Moretti, al Marini ed ai loro colleghi questa fissazione delle suore di carità, delle
domeniche autunnali, dei canali di Bruggia (“per cacciare un poco l'uggia”), delle vecchie
signorine che lavorano al crochet, dei sonnacchiosi paesaggi provinciali.». Bruggia è il nome
antico per Bruges, cittadina belga.
221
un giovane poeta che, a circa vent’anni da queste righe, volesse intraprendere
attraversano la vocazione poetica della Pozzi nei primi anni, dubbi che – più che
dunque spiegata, in parte, l’origine del tono dimesso di molte poesie della Pozzi,
dimesso del poeta in Largo184. Antonia chiede in questi versi uno spazio – e forse
sua voce poetica che quasi la annulla come essere umano, assimilandola alle
cose:
181
Così si sfoga Antonia in una lettera a Cervi del 13 luglio 1929: «è terribile essere una donna,
ed avere diciassette anni. Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi», in POZZI, Ti
scrivo…, p. 91.
182
Rispettivamente alle pp. 44, 47-48, 52-53 di POZZI, Parole, op. cit.
183
Ivi, alle pp. 84, 97, 110.
184
Ivi, pp. 132-133.
185
Il titolo della poesia può essere a mio parere un’indicazione di lettura musicale per le note a
cui Antonia accenna attraverso la sua scrittura: meste, solenni, come di preghiera finale o di
requiem, per se stessa e per il suo ultimo, calmo, anelito alla luce.
222
Largo
Io entro soltanto
per avere un po’ di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlano le cose sorelle –
186
PAPI, L’infinita…, p. 56: «”Cosa di nessuno” richiama la povera cosa di una celebre poesia di
Gozzano, Un rimorso (“Rivedo la povera cosa”) e, più tardi, anche Quasimodo in Autunno:
“povera cosa caduta / che la terra raccoglie”». Nella biblioteca della Pozzi figurano
effettivamente entrambi gli autori. Di Guido Gozzano vi sono due volumi: I colloqui, Fratelli
Treves Editori, Milano 1922, segnato in vari punti; L’ultima traccia, raccolta di novelle edita
sempre dai Treves ma nel 1919 ove non appaiono particolari segni a margine o sottolineature
della Pozzi. Di Salvatore Quasimodo vi è Acqua e Terre, pubblicato a Firenze nel maggio 1930
per le Edizioni di Solaria, al quale accennerò nel prossimo capitolo.
Il volume de I colloqui è diviso in tre sezioni di cui solo due componimenti sembrano aver
223
rimorso187 di Gozzano o forse di Autunno188 di Quasimodo, ma sarei più
dalla poetessa, edito postumo nel 1922 a Napoli. Si tratta di Liriche. Raccolta
catturato l’attenzione di Antonia. La prima sezione, Il giovenile errore, non riporta segni; nella
seconda, Alle soglie, vi è un interesse per il quarto componimento, Cocotte, dove la Pozzi
sottolinea: «Il mio sogno è nutrito d’abbandono, / di rimpianto. Non amo che le rose / che non
colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state… Vedo la casa, ecco le rose
/ del bel giardino di vent’anni or sono!»; nella terza sezione, Il reduce sottolinea la chiusura
dell’ultimo componimento, I colloqui: «ma lasciava la pagina ribelle / per seppellir le rondini
insepolte, / per dare un’erba alle zampine delle // disperate cetonie capovolte…». Cfr. per
Cocotte, G. GOZZANO, I colloqui in Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1991,
p. 192; per I colloqui, ivi, p. 218. Citerò sempre da questa edizione.
187
«I. //O il tetro Palazzo Madama... / la sera... la folla che imbruna... / Rivedo la povera cosa, //
la povera cosa che m’ama: / la tanto simile ad una / piccola attrice famosa. // Ricordo. Sul labbro
contratto / la voce a pena s’udì: / "O Guido! Che cosa t’ho fatto / di male per farmi così?" // II.
// Sperando che fosse deserto / varcammo l’androne, ma sotto / le arcate sostavano coppie //
d’amanti... Fuggimmo all’aperto: / le cadde il bel manicotto // adorno di mammole doppie. // O
noto profumo disfatto / di mammole e di petit-gris... / "Ma Guido che cosa t’ho fatto / di male
per farmi così?". // III. // Il tempo che vince non vinca / la voce con che mi rimordi, / o bionda
povera cosa! // Nell’occhio azzurro pervinca, / nel piccolo corpo ricordi / la piccola attrice
famosa... // Alzò la veletta. S’udì / (o misera tanto nell’atto!) / ancora: "Che male t’ho fatto, / o
Guido, per farmi così?". // IV. // Varcammo di tra le rotaie / la Piazza Castello, nel viso / sferzati
dal gelo più vivo. // Passavano giovani gaie... / Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono
cattivo, // non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: "Che male t’ho fatto,
/ o Guido per farmi così?".». In ivi, pp. 127-128. Come si vede, il tema è molto lontano da Largo.
Lo sono meno, forse, nella loro placida umiltà (anche se generano per converso un senso di
straniante e affettuosa ironia), le buone cose di pessimo gusto del v.2 de L’amica di nonna
Speranza, sempre del Gozzano de I colloqui e quindi in ivi, p. 183.
188
«Autunno mansueto, io mi posseggo / e piego alle tue acque a bermi il cielo, / fuga soave
d’alberi e d’abissi. // Aspra pena del nascere / mi trova a te congiunto; / e in te mi schianto e
risano: // povera cosa caduta / che la terra raccoglie.», in S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla
poesia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996 p. 53.
189
Antonia inserisce, prima di questa raccolta, quattro quadrifogli, che si sono seccati fra le
pagine. Sottolinea due volte i primi due versi in Alla serenità: «Stelle! che gioia! Quanto cielo e
quanti / voli s’io chiuda gli occhi alla freschezza / di questa sera piena di dolcezza, / accolgo in
essi ancor tristi di pianti!», ora in S. CORAZZINI, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi,
Giulio Einaudi Editore, Torino 1968, p. 103. Questa memoria si fonderà forse – per la
composizione della poesia Stelle cadenti del 21 ottobre 1933 che suona, in riferimento agli astri,
224
prosa, Dal “piccolo libro inutile”190, Elegia, Libro della sera della domenica
(da cui sono tratte la maggior parte delle sottolineature e di cui ho già parlato),
In questa fase della poetica pozziana, e particolarmente in Largo, ritengo che sia
225
sorelle193 alle cose – a radicare profondamente l’attenzione della poetessa per la
fra due dita pure, // ostia che si spezzò prima d’avere / tocche le labbra del sacrificante, / ostia le
cui piccole parti infrante / non trovarono un cuore ove giacere.». In ivi, p. 70. I continui paragoni
non servono a dare uno statuto di senso all’immensità dell’amore provato da questo cuore e
costantemente disillusa: la sconfitta e la morte sono date proprio forse dal non aver potuto trovare
la rotta da dare alla vela.
193
Si veda la poesia Invito, dove l’anima è chiamata più volte e di per sé, sorella: «Anima pura
come un’alba pura, / anima triste per i suoi destini, / anima prigioniera nei confini / come una
bara nella sepoltura, // anima, dolce buona creatura, / rassegnata nei tristi occhi divini, / non più
rifioriranno i tuoi giardini / in questa vana primavera oscura. // Luce degli occhi, cuore del mio
cuore, / tenerezza, sorella nel dolore, / rondine affranta nel mio stesso cielo, // giglio fiorito a
pena su lo stelo / e morto, vieni, ho spasimato anch’io, / vieni, sorella, il tuo martirio è il mio.».
In ivi, p. 69. L’immagine delle anime sorelle nel dolore ritorna nel Sonetto dedicato a Suor Maria
Gesù, tratto da Le aureole del 1905: «Sorella, dolce riguardare il chiostro / che le vestite d’umiltà
rinchiude, / oggi che aprile giovinetto illude / soavemente ogni martirio nostro! // E caro m’è
pensar dov’io mi prostro / Gesù trafitto per le membra ignude / e ancor vorrei pellegrinare in
rude / saio e domar mie carni a più d’un rostro. // Vorrei morirmi di melanconia, / vedovo di un
desiderio, solo, / con l’altissimo sogno che mi tiene, // e le anime, sorelle in questa mia / doglia
infinita di levarmi a volo, / dissetare col sangue delle vene.», in ivi, p. 101. Questa poesia può
essere testimonianza anche del senso religioso di cui ho specificato i termini nella nota
precedente.
194
Del 7 luglio 1938 è il suo riferimento a La signorina Felicita ovvero la Felicità di Guido
Gozzano, inserito in una lettera scritta ad Alba Binda da Pasturo: «Perché fai la Signorina Felicita
così? Cosa parli di vecchie cinture, di zuccherini della zia Federica, di giovinezza tramontata?
Madre santa, a guardarti non ti si danno vent’anni e ti riempi di crepuscolerie… proprio tu, così
bionda, così solare, con quei dentoni bianchi che ridono. […] Ma non devi, assolutamente,
pensare che sei vecchia. Abbiamo la stessa età, pensa! E cerca di ricordare in quali abissi di
pessimismo e di debolezza mi son trovata io! Comunque vada “la solita storia” (oh, Alba, tu sai
che in cose di questo genere nessuno è in grado di dar consigli agli altri, e nessuno neanche li
chiede, i consigli!) cerca di conservare una tua serenità, ma non di reazione, non di
mortificazione, non da Signorina Felicita!». POZZI, Ti scrivo…, pp. 296-298. Il componimento
di Gozzano ritrae impietosamente un’innamorata di campagna, con paragoni veramente prosaici,
da cui però sembra essere genuinamente attratto: «Sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue
vesti quasi campagnole, / ma la tua faccia buona e casalinga, / ma i bei capelli di color di sole, /
attorti in minutissime trecciuole, / ti fanno un tipo di beltà fiamminga.... // E rivedo la tua bocca
vermiglia / così larga nel ridere e nel bere, / e il volto quadro, senza sopracciglia, / tutto sparso
d’efelidi leggiere / e gli occhi fermi, l’iridi sincere / azzurre d’un azzurro di stoviglia… // Tu
m’hai amato. Nei begli occhi fermi / rideva una blandizie femminina. / Tu civettavi con sottili
schermi, / tu volevi piacermi, Signorina: / e più d’ogni conquista cittadina / mi lusingò quel tuo
226
protettivo e come esternalizzato195, ma non credo sia il caso di Largo.
voler piacermi!», in GOZZANO, I colloqui in Tutte le poesie, pp. 170-171. L’ironia risalta
soprattutto se si paragonano – come lo stile allusivo del Gozzano porta talvolta a fare – questi
versi a quelli che un Leopardi dedica A Silvia o in generale ai suoi amori disattesi.
195
Cfr. l’ultima poesia de I colloqui, omonima, di cui la Pozzi sottolinea i versi finali, in
GOZZANO, I colloqui in Tutte le poesie, pp. 217-218. Gozzano, infine, soppesa e valuta il suo
lavoro poetico, strizzando l’occhio ai grandi della letteratura italiana e paragonando ad essi – fra
il deluso e l’orgoglioso – il lavoro dei suoi primi vent’anni, giungendo alla conclusione che forse
sarebbe meglio tacere: «I. // “I colloqui” ... Rifatto agile e sano / aduna i versi, rimaneggia, lima,
/ bilancia il manoscritto nella mano. // – Pochi giochi di sillaba e di rima: / questo rimane dell’età
fugace? / È tutta qui la giovinezza prima? // Meglio tacere, dileguare in pace / or che fiorito
ancora è il mio giardino, / or che non punta ancora invidia tace. // Meglio sostare a mezzo del
cammino, / or che il mondo alla mia Musa maldestra, / quasi a mima che canta il suo mattino, //
soccorrevole ancor porge la destra. // II. // Ma la mia Musa non sarà l’attrice / annosa che si
trucca e pargoleggia, / e la folla deride l’infelice; // giovine tacerà nella sua reggia, / come quella
Contessa Castiglione / bellissima, di cui si favoleggia. // Allo sfiorire della sua stagione, /
disparve al mondo, sigillò le porte / della dimora, e ne restò prigione. // Sola col Tempo, tra le
stoffe smorte, / attese gli anni, senz’amici, senza / specchi, celando al Popolo, alla Corte // l’onta
suprema della decadenza. // III. // L’immagine di me voglio che sia / sempre ventenne, come in
un ritratto; / amici miei, non mi vedrete in via, // curvo dagli anni, tremulo e disfatto! / Col mio
silenzio resterò l’amico / che vi fu caro, un poco mentecatto; // il fanciullo sarò tenero e antico /
che sospirava al raggio delle stelle, / che meditava Arturo e Federico, // ma lasciava la pagina
ribelle / per seppellir le rondini insepolte, / per dare un’erba alle zampine delle // disperate
cetonie capovolte…». È soprattutto nella chiusa del terzo movimento che si rivede Antonia, che,
pur meditando sulla grandezza delle cose, preferiva ancora di più ripristinare con gesti pietosi
nei confronti della natura, la tacita armonia delle cose. Anche il silenzio del poeta che si vuole
ritirare a venticinque anni per lasciare agli amici solo l’immagine dell’amico, il ricordo delle sue
fanciullerie da mentecatto, è assimilabile al linguaggio che Antonia usa per descrivere i suoi
versi e il suo atteggiamento ingenuo nei confronti del sogno della vita, che è poi sogno di poesia.
Cfr. ad esempio i vaneggiamenti importuni di Ultimo crepuscolo in POZZI, Parole, p. 92; il titolo
stesso della poesia Bambinerie in tinta chiara, in ivi, pp. 60-61; la visione di se stessa in Cadenza
esasperata: «una bambina che bamboleggerà sempre», in ivi, p. 49.
227
spesso - provo disgusto di me medesimo e voglia intensa di piangere. Può essere ridicolo, ma è
così dolce! E quando ho pianto, la lenta malattia delle lacrime mi penetra tutto, stilla sull'anima
mia, simile a rugiada malata sopra una corolla disfatta, e la grande, l'usata tristezza mi ha
nuovamente. La mia vita sarà senza dubbio di assai breve durata e me ne andrò, forse un giorno,
il giorno in cui un incidente fatuo, in apparenza, determinerà per sempre, la grande risoluzione.
Quanti suicidi avvengono per una frase udita passando vicino a due esseri ebri di gioia di vivere,
o scorgendo le porte illuminate di un teatro o leggendo un libro! Dove più ferve la vita, è la
Morte. E che cosa è la vita – Claudio Larcher mi perdoni – se non il perché della Morte! L'uomo
deve morire. Ora, per morire bisogna pur che viva. Ma tu scuoti la testa e il tuo occhio vivo e
buono vede ben altre imagini di gioia, la tua anima freme per un sogno puro e sano di vita e,
forse, ti senti in cuore una grande, un’immensa pietà, la pietà che può destare un malato
inguaribile, il tuo Sergio che ti abbraccia teneramente.».196
e alla sua poesia: si può dire che rispetto a questo scritto di Corazzini, si
amarezza io ricordo la morte, ma forse per una maggiore serenità che invade da
tempo i miei pensieri, che accomuna in una sola bellezza la luce del giorno e
all’amico Antonello Caprino: «[…] ho guardato l’ansito del faro, che anela
sempre al largo: mi sono detta che è sciocco voler restare nell’ombra quando
sappiamo che la luce è più in là. Io vincerò gli ostacoli […] studierò, studierò
tanto, per crearmi un pensiero e una fede. Oggi il cammino non mi fa paura
manifestarsi di un patetico mistero nel corpo delle cose (nelle quali fin dall’inizio
di questo scritto insisto nell’individuare anche gli elementi e gli ambienti della
196
La lettera è tratta dall’appendice alla tesi di Anna Galetti, Sergio Corazzini e il suo cenacolo
romano, pp. 115-116.
197
POZZI, Ti scrivo…, p. 103. Si tratta di un frammento di lettera ad Antonio Maria Cervi, datato
11 maggio 1931.
198
Ivi, p. 89. Frammento del 16 giugno 1929.
228
natura) siano la base che rende sorelle le anime dei due poeti. Riporto per intero
i due testi citati come fonte per Largo e che mi sembrano il miglior punto di
199
CORAZZINI, Poesie…, pp. 109-111.
200
Ivi, pp. 117-119.
201
«…Credo che siamo all'ombra». La citazione è tratta dall’opera teatrale I ciechi di Maurice
Polydore Marie Bernard Maeterlinck (1862-1949) poeta, drammaturgo e saggista belga,
vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1911.
202
«Le cose hanno il loro terribile “non possiamo”», Victor Hugo. La citazione latina è ripresa
da una lunga tradizione nella storia della Chiesa che la proclama in opposizione a chi tenti di
ledere il maggior potere dell’autorità divina. La prima volta fu pronunciata dagli apostoli Pietro
e Giovanni in risposta a chi chiedeva loro di non predicare il Vangelo subito dopo la morte di
Cristo: “noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato (Atti 4,20)”; nella
modernità, fu usata da Papa Pio VII per respingere la richiesta, perpetrata da Napoleone nel 1809,
di cedere i territori dello Stato Pontificio: “Non debemus, non possumus, non volumus” (non
dobbiamo, non possiamo, non vogliamo); poi fu di la volta di Papa Pio IX, che la usò per non
avviare un dialogo con il Regno d’Italia in merito alla questione romana.
229
terribilmente perfetta del Nulla. IV
Qualche volta le campane della
piccola parrocchia suonano a morto. Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
Tutto ciò sarebbe tristissimo per noi, E non domandarmi;
povere piccole cose sole, se egli fosse io non saprei dirti che parole così vane,
qui. Ma è lontano e le campane non Dio mio, così vane,
tarlano il silenzio per lui, povero caro. che mi verrebbe di piangere come se fossi per
Un tempo lo vedemmo e l'udimmo morire.]
piangere senza fine: volevamo Le mie lagrime avrebbero l’aria
consolarlo, allora, e mai ci sentimmo di sgranare un rosario di tristezza
così spaventosamente crocefisse. Oggi, davanti alla mia anima sette volte dolente
oh, oggi è un'altra cosa: dove piange? ma io non sarei un poeta;
perché piange? sarei, semplicemente, un dolce e pensoso
Allora lacrimò desolatamente fanciullo]
perché una sua piccola e bianca sorella cui avvenisse di pregare, così, come canta e come
non veniva, a sera, come per il passato, a dorme.]
farlo men solo... o più solo. Così egli le
diceva mentre l'abbracciava. E V
soggiungeva: «Noi ricordiamo e nulla
come il ricordo è simbolo di solitudine e Io mi comunico del silenzio, cotidianamente,
di morte». Rievocavano molte liete come di Gesù.]
fortune e molte tristi vicende, anche, ma E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
non troppo di queste si amareggiavano. poi che senza di essi io non avrei cercato e
Una sera il nostro amico attese trovato il Dio.]
inutilmente. Attese fino all'ora delle
prime rondini e delle ultime stelle... Oh, VI
egli ci voleva bene: qualche volta ci
parlava a lungo, come in sogno. In sogno Questa notte ho dormito con le mani in croce.
parlava. Avanti di dormire, accendeva un Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
piccolo lume giallo, sospeso al muro. dimenticato da tutti gli umani,
Forse aveva paura. È una così dolce povera tenera preda del primo venuto;
cosa, la paura, appunto perché è dei e desiderai di essere venduto,
fanciulli! di essere battuto
Noi non dormiamo; noi siamo le di essere costretto a digiunare
eterne ascoltatrici, noi siamo il silenzio per potermi mettere a piangere tutto solo,
che vede e che ascolta: il visibile disperatamente triste,
silenzio. in un angolo oscuro.
La casa dev'essere molto vasta.
Udiamo a tratti delle voci lontanissime e VII
che pensiamo non vengano dalla piccola
piazza. Oh, la finestra, se si spalancasse e Io amo la vita semplice delle cose.
facesse entrare un poco di sole, un poco Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
di vento! oh, nulla è simile al cuore per ogni cosa che se ne andava!
perduto come il sole che vuole entrare, e Ma tu non mi comprendi e sorridi.
tutti i giorni domanda e tutte le sere, E pensi che io sia malato.
triste e bianco, smuore di rinunzia. Un
convento, una chiesa, un lungo muro VIII
basso, interrotto da due piccole porte, la
cui soglia allora era sempre verde. La Oh, io sono, veramente malato!
neve restava intatta, davanti a quel muro, E muoio, un poco, ogni giorno.
un tempo interminabile. Il nostro amico Vedi: come le cose.
diceva che una porta chiusa è figurazione Non sono, dunque, un poeta:
di gran gioia. Noi siamo semplici, non io so che per esser detto: poeta, conviene
abbiamo mai comprese queste parole, viver ben altra vita!
sarà, forse, perché siamo così sole e così Io non so, Dio mio, che morire.
230
sconsolate, da tanti anni, in questa Amen.
camera chiusa!
Oh, gli occhi aperti
smisuratamente nell'ombra terribile, sono
così simili a noi! Sanno vedere ma non
possono vedere.
Per quanto ci disfaceremo nel buio
come le stelle dietro le nuvole? Per
quanto la nostra cecità apparente, ci
vieterà il sole, o, forse anche, un poco di
dolce luna?
Come tante piccole monache in
clausura, noi, povere cose, viviamo e
morremo. Pietà! Pietà!
Quante rughe ci solcano! Siamo
vecchie, oh così vecchie da temere la
fine improvvisa. E la polvere che noi
pensavamo cipria, ci seppellisce
cotidianamente come un becchino troppo
scrupoloso.
Come ci carezzavano le tende,
piene di vento a primavera! Ella doveva
carezzare così il nostro amico, doveva
farlo morire di spasimo, così. Ora,
anch'esse, come le vele di una decrepita
barca inservibile, chiusa nel vano di un
piccolo porto solitario e triste, pendono
flosce e vecchie: oggi una loro carezza ci
farebbe pensare alle mani di un
agonizzante.
Un passo. Una mano tenta la
chiave... oh, non spasimiamo: è un
bambino, è il solito bambino di tutti i
giorni, che passa lungo il corridoio per
andare chi sa dove; non spasimiamo, è
inutile.
in esse e crudelmente dando loro un epilogo, in forma di risposta: “se lui non
viene, significa che non siete di nessuno”. E così anche lei, priva del corpo del
suo amore che potrebbe farla vivere, diventa una cosa di nessuno, a cui non val
la pena chiedere quali siano i suoi desideri, né domandare quale sia la sua fede:
agli articolati ma non molto dialettici – nel senso della ricerca di connessione e
231
comunicazione con un-altro-da-sé inconoscibile – Colloqui di Gozzano203
203
L’intento di Gozzano infatti non è cercare il dialogo diretto con il lettore, e nemmeno esporre,
se non come spunto narrativo, dei dialoghi fra personaggi: questi ultimi infatti non canalizzano
l’attenzione in merito al senso poetico da attribuire al titolo della raccolta. La ragione del termine
colloqui è tutt’altra. In questa prospettiva si legga la nota critica ai testi dell’edizione Mondadori,
oltre all’introduzione di Marziano Guglielminetti, da cui si evince che il lavoro su I colloqui è
improntato ad un dialogo con i massimi modelli poetici della letteratura italiana e ad un
superamento sia degli stessi, che delle vicende quotidiane del Gozzano attraverso il filtro e il
canale della poesia: «Non per nulla Gozzano ha praticato largamente in questo periodo un
esercizio di catarsi del linguaggio poetico personale, che ha lasciato qualche eco in zone ben note
della sua opera: l’esercizio di raccogliere in quaderni ad uso personale versi di Dante, di Petrarca
e anche di moderni (Jammes, Rodenbach, ecc.), talora inserendovi qualche timida variazione in
proprio. Se si conosce la sua naturale tendenza ad esprimersi utilizzando punti d’appoggio
preesistenti e ben visibili, simile tecnica di accaparramento non può essere scambiata per un
modo antico e sorpassato di comporre. Poiché, occorre dirlo subito a scanso di equivoci, non è
certo della citazione più o meno illustre e nobilitante di cui Gozzano va in cerca durante questo
lavoro, ma piuttosto della soluzione linguistica che egli sente catturabile e inseribile nel proprio
sistema espressivo. Lo scopo, ha detto Montale, è da ricercarsi nella volontà di raggiungere
quell’“urto, o choc, di una materia psicologicamente povera, frusta, apparentemente adatta ai
soli toni minori, con una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé”.
L’operazione coinvolge specialmente I colloqui […]». Addentrandosi nell’analisi di quest’opera,
sempre il Guglielminetti riafferma come tesi quasi indiscutibile che: «dietro il disegno dei
Colloqui ci sta l’ambizione, più o meno segreta, di riportare a vita l’autoritratto di sé promosso
dalle Rime di Petrarca, dai Canti di Leopardi […]; tanto più che è cura di Gozzano condurre i
nomi di questi poeti alla memoria del lettore. Illuminante, in questo senso, è la prima sezione dei
Colloqui: fin dal titolo Il giovenile errore, che si pone volutamente sotto l’egida petrarchesca.
[…] E poiché, stando alla dichiarazione introduttiva, il protagonista non sarebbe affatto l’autore,
ma un suo “fratello muto”, “spettro ideale” di lui, abbiamo persino fornita la giustificazione del
perché questo “alter ego” del poeta assuma modi della tradizione lirica più illustre. Avendogli
Gozzano assegnato la voce e la vita dell’amante presto disilluso e progressivamente inariditosi
nel suo impulso erotico, Petrarca e Leopardi, che di questa tradizione sono gli esponenti più
prestigiosi, diventano necessari punti di riferimento. Ma civettare con la loro poesia, per
coglierne intere frasi, non comporta la rinuncia a motivare la propria scelta in senso provocatorio.
[…]; sicché l’ossequio verso i due capostipiti della poesia d’amore finisce per rivelarsi
abbastanza funzionale a quella ricerca dell’“urto, o dello choc” individuata da Montale.». In,
GOZZANO, Tutte le poesie, pp. XXII-XXIII e XXVI-XXVII. L’atteggiamento dialogico di
Gozzano è di ambivalenza, dunque, per confrontarsi e smarcarsi, per denunciare la sonnolenza
borghese e trovare una via letteraria alternativa, ma soprattutto per tamponare lo iato fra Arte e
Vita che tanto lederà ai poeti di quella generazione e alla stessa Pozzi. Si veda più avanti nelle
note critiche a I colloqui la specifica di Andrea Rocca: «Per circa tre anni (dall’estate 1907
all’autunno 1910) Gozzano attese alla composizione della raccolta “maggiore”. Tre anni quasi
ininterrottamente vissuti in terapeutico isolamento, e per ciò assoggettati alla dimensione
dell’Opera: come sembra avvertire […] la specificità della scrittura epistolare. Referto di un
produttivo egotismo […] le lettere alla Guglielminetti, al Vallini e al De Frenzi non si limitano
infatti a registrare le confessioni dell’“esule” sul lavoro poetico in cantiere […] ma permettono
altresì di cogliere il sorprendente processo di osmosi per effetto del quale ogni occasione
biografica vi è condotta a trascendere il piano del vissuto, istituendosi, oltre che come parola
avente corso nella realtà, quale momento di una dialettica autocomprensiva intesa a riscattare in
toto la convenzionalità dell’“evento”: quindi tendenzialmente a risolvere […] l’inautenticità
della Vita nella menzogna riflessa della Letteratura.», in ivi, pp. 660-661.
232
oppongono idealmente dei Soliloqui che in realtà cercano profondamente l’altro,
pur negandone in apparenza l’esistenza. Anzi è proprio per questo statuto del
morire (fosse anche solo quello dello scritto nero sul bianco della pagina).
La ricerca della Pozzi, le ripetizioni che chiedono di non chiedere – nella seconda
strofa di Largo – lo statuto della sua persona e dei suoi desideri, velano, lettura
dopo lettura del testo, l’ipotesi che in realtà la poetessa sia sfinita
è anche il voi (riferimento plurale raro per la Pozzi a cui è molto più funzionale
il tu) di chi forse le è intorno e non arriva a comprendere che in quello stesso
vuoto (o forse in un altro che in quello si specchia, più denso e più profondo)
vivono i suoi fantasmi inconoscibili, maschere dei corpi muti che condividono
che non hanno risposta e che dopo tanta speculazione si sublimano nella
concretezza della porta di una chiesa, che la illumina, le dà energia per l’azione.
Allora in quel momento mi è più facile credere alle sue richieste, al suo negarsi
nella pace appena empiricamente ritrovata, una pace che non ha parole di
preghiera se non quelle abbozzate per delineare il silenzio della tregua in cui
204
Si confronti la lontananza che vige ormai dal tono scanzonato (seppur per posa) di un Cervi
che in Venerdì Santo recita più volte: «Di quello che ho in me stesso, non me ne domandate: / a
che dirlo? Dopo tutto, non mi potreste capire. / Da queste mie risatine contentatevi di intuire /
quanto la vostra e la mia anima siano in fondo diversificate…», in CERVI, Le cadenze…, pp. 82
e 84.
233
parlano le cose sorelle. Adesso essere una cosa di nessuno non è più sinonimo
di perdita, d’ombra che si aggiunge all’ombra, con gli occhi rovesciati dalla
morte quasi per disperazione di una risposta alternativa: ora la morte sembra
essere scelta consapevole, destino condiviso nella pace delle cose che si lasciano
ripercorrere le parole di Gesù nel Vangelo: «Perché chi vorrà salvare la propria
vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.»205. Se
all’inizio della poesia l’essere cosa di nessuno faceva risentire dei toni elegiaci
del Corazzini, alla fine è la ritrovata pace nel Dio personale e misterioso della
di un risveglio dello spirito: un senso dell’essere cosa immersa nel cammino per
le vecchie vie del suo mondo, cantandolo. Anche la direzione di quegli occhi /
due coppe alzate / verso l’ultima luce – lascia presagire un differente movimento,
che seppure chiude il cerchio iniziale, sembra già intravedere nuove risposte
ricche di speranza. Quanto meno, la morte è una speranza: il momento della fine
è alluso come il tempo della liberazione, della cessazione delle richieste, delle
205
Mt. 16, 25. Riporto un frammento più completo del passo del Vangelo: «24 Allora Gesù disse
ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e
mi segua. 25 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita
per causa mia, la troverà. 26 Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero,
e poi perderà la propria anima? O che cosa l'uomo potrà dare in cambio della propria anima? 27
Poiché il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno
secondo le sue azioni. […]”». Antonia Pozzi cita queste parole nel terzo capitolo della sua tesi,
in merito alla svolta estetica definitiva del “suo” autore, Flaubert: «Ecco a che cosa lo porta
quella decisa, intransigente rinuncia all’espansione immediata della propria personalità in arte:
lo porta alla scoperta della propria vera personalità, salvata e convalidata in un mondo che non
è più rifugio per gli abbandoni lirici, ma cantiere per la fatica attiva. “Chi perderà l’anima sua
per me, la ritroverà”.», in POZZI, Flaubert. La formazione…, p. 280.
234
parole vane, dove è solo il silenzio a dettare il largo cantare delle cose sorelle.
Più avanti, verso la fine della parabola amorosa con Cervi, Antonia scriverà al
professore:
«Antonello, mio cuore, questo volevo dirti: che io rimango qui, vedi, dove tu mi lasci.
Noi non sappiamo le vie di Dio, Antonello.
E se Dio un giorno volesse, per impreviste strade, richiamarci l’una all’altro: ebbene,
Nello, io sarò ancora qui, dove mi hai lasciato: qui potrai ritrovarmi sempre; te lo giuro.
Ed anche questo volevo dirti: che se un giorno sentirai parlare di me e di qualchecosa
di mio ( se il Signore mi darà la mente e la forza di dar vita ai miei fantasmi), tu dovrai sapere e
sentire che tutto sarà nato per te, per amore di te, della tua scuola, della tua anima benedetta e
tutto sarà tuo, anche se non porterà, sulla prima pagina, il tuo nome.» 206.
Vi è ribadito dunque il ruolo e il potere del Signore nel mantenere ferma la mente
di Antonia nell’atto di dare un corpo, una forma poetica, ai suoi fantasmi. Il suo
stesso essere oggetto, una cosa di nessuno, diventa «piuttosto che un simbolo,
«[…] quando si considerino le possibilità di fondo, bisogna concludere che c’è maggior
apertura in Corazzini che in Gozzano e che manca pochissimo perché l’oggetto diventi, in
Corazzini, piuttosto che un simbolo, un riflesso significante ed occulto della nostra esistenza.
Nel crepuscolarismo di Corazzini c’è soprattutto una tale capacità di ritrovare e ristabilire il
silenzio interiore, senza civetterie e senza lenocini, che lo stesso silenzio, la stessa rinuncia alla
forma che sono caratteristici del primo Ungaretti, faranno pensare per analogia – non per
derivazione diretta – alla rinuncia di Corazzini.»208.
206
Lettera scritta da Milano, l’8 maggio 1933 alle ore 16, in POZZI, Ti scrivo…, p. 169.
207
L’affermazione si trova nella nota n° 2 scritta da Stefano Jacomuzzi, curatore della raccolta
di CORAZZINI, Poesie…, p. 29.
208
Ivi, pp. 29-30.
235
a questa nota del Baldacci alcune considerazioni personali proprio in merito allo
«Aggiungerò che la protesta di Corazzini: “Io non sono un poeta. / Io non sono che un
piccolo fanciullo che piange. /…/ io so che per esser detto: poeta, conviene / vivere ben altra
vita! / Io non so, Dio mio, che morire” ha ben poco da spartire con quelle apparentemente
analogiche di Gozzano (“…Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!”) o di Moretti
(“Aver qualche cosa da dire / nel mondo a se stessi, alla gente! / Che cosa? Io non so veramente
/ perché…non ho nulla da dire”; oppure: “Il poeta che si mostra / su un cavallo della giostra /
sembra il pagliaccio che egli è”), o di Palazzeschi con il notissimo “Son forse un poeta? / No
certo / … / Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia”; e neppure di Jammes (“Penser cela, est-
ce être poète? / Je ne sais pas. Qu’est-ce que je sais? / Est-ce que je vis? Est-ce que je réve?”): la
rinuncia di Corazzini assume, nei confronti, il valore di una denuncia più matura, di un’offerta
stoica di silenzio per una nuova dignità di vita e di parola ed è molto più vicina all’affermante
grido ungarettiano: “Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni”»209.
Corazzini che credo si intessa il percorso poetico della Pozzi, seppur per breve
tempo e per guardare poi oltralpe (ai decadenti francesi e non solo), dove lo
stesso poeta romano ha attinto alcuni temi e preso le mosse dai primi maestri. Il
1949) sono indicati dal critico come «la schiera dei poeti francesi della
209
Ivi, p. 30.
210
Ivi, p. 10.
211
Nato a Montevideo, in Uruguay, nel 1860 ma trasferitosi con la famiglia già nel 1866 in
Francia.
236
Édouard Dubus (1864-1895)212. E di questi maestri ne avrà sicura conoscenza la
«Caro, caro Tullio: bisogna proprio che Lei venga ancora. Vorrei – non so –
darLe qualchecosa che sostituisse Bruges – la Morte perduta: vorrei che lei
scrivesse tante e tante note nuove e che da ciascuna nascesse una nuova
tradotto in Italia nel 1907. Pietra miliare della via crucis dell’anima decadente,
«Le manifestazioni esterne della religiosità, attinte alla liturgia decadente fiamminga,
fissata soprattutto da Rodenbach in Bruges-la-Morte (i conventi, le suore, le beghine, le chiese,
le processioni, le cerimonie, gli oggetti del culto) sono un’ulteriore manifestazione della volontà
d’acquietamento nell’immobilità di un rituale ripetuto all’infinito ed insieme il tramite
convenzionale per evocare sensazioni spirituali raffinate, la cui morbosità oscilla dal livello
patologico di un duca Des Esseintes, al compiacimento estetizzante di Rodenbach, al
dilettantismo un po’ astratto di Corazzini.».215
212
Cfr. A. NOZZOLI - J. SOLDATESCHI, I crepuscolari, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1978, p.
8. Nel volume vi sono pagine dedicate esclusivamente a Sergio Corazzini, pp. 32-50.
213
Potrebbe anche trattarsi, data l’affine sensibilità di Gadenz alla tematica dell’opera del
Rodenbach (ossia il lamento per un amore lontano e perduto), di un tentativo di componimento
del giovane poeta, non riuscito, o smarrito nella sua versione manoscritta. Oppure potrebbe
trattarsi di una situazione reale – la conclusione definitiva di un amore – allusa attraverso un
riferimento letterario, per mantenere la riservatezza. Sta di fatto che quello che oggi appare un
mistero non del tutto decifrabile per il lettore contemporaneo rafforza l’idea che il riferimento
per i due fosse molto preciso, condiviso e intimo.
214
POZZI, Ti scrivo…, p. 182.
215
NOZZOLI - SOLDATESCHI, I crepuscolari, p. 9.
237
vedovo della giovane moglie Ofelia, si trasferisce nella cittadina di Bruges
poiché sembra meglio rispecchiare il suo spirito affranto dalla grave perdita:
«Nel libro prevale un’atmosfera di lutto soffocante e morbosa, tipica di una certa
letteratura decadente. Rimasto vedovo a quarant’anni, Hugues Viane sprofonda in un “autunno
precoce” nel quale si circonda degli oggetti e dei ricordi di lei, nel tentativo disperato di “eternare
il rimpianto”, e si aggira nel dedalo nebbioso delle strade di Bruges. Ben lungi dal rappresentare
solo lo scenario di sottofondo del romanzo, la città stessa è un “personaggio necessario”, avverte
l’autore, fatta di “quais, strade deserte, vecchie case, canali, beghinaggio, chiese…”» 216.
ritroviamo a collegare il Corazzini alla Pozzi. Una breve carrellata di versi basata
216
Recensione a cura di Alessandro Litta Modignani apparsa sulle pagine de «Il Foglio» on line
il 16 settembre 2016 in occasione della nuova edizione italiana di Fazi.
217
Ibidem.
238
proprio sull’analogia fra i due poeti basterà a rendere sicuro questo percorso. Per
Bozzi, ragazza orfana e veramente pia con cui la Pozzi compiva opere di carità
e che decise di avviarsi alla vita religiosa nel 1935219 («Tu che non hai per la tua
doglia viva / una madre serena che consoli, / un orto dolce con i girasoli / e il
canto di una limpida sorgiva, // tu che, accesa una lampada votiva, / pregavi per
i tuoi fratelli soli / e per la doglia di che tu ti duoli / la bocca non ad implorar
nella più volte citata Sorelle, a voi non dispiace…: «tu che mi sei tristissima
sorella, / batti alla porta del mio cuore vano, / lascia che io senta il tuo cuore
tremare // nel mio come una stella in una stella / per un cielo più novo e più
lontano / sovra il pianto degli uomini e del mare»220. Alla composta semplicità
che all’amica Lucia dedica alcune poesie dell’aprile 1929. Esse risentono di una
sole / io sono / una gemma pelosa / legata crudelmente con un filo di refe / perché
/ in un ebbro ciuffo di verde – / per gettare in radici sottili / il mio più acuto
218
CORAZZINI, Poesie…, p. 105.
219
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 214.
220
CORAZZINI, Poesie…, p. 105.
239
spasimo / ed immedesimarmi con la terra. // Milano, 19 aprile 1929»221. Ho in
mente una suggestione sull’uso di quel filo di refe, ossia la rilegatura in brossura
identificare nel bagno di luce la ricerca di elevazione culturale forse ancora più
poetica, inibita, come già sottolineato, dalla costrizione del tempo dedicato allo
studio. Altri due componimenti per la Bozzi rispecchiano una relazione ancora
topos della natura primaverile. Il fiore-Antonia che non può sbocciare, trova
dunque il suo valore letterario e insieme intimo, attraverso se stessa, nella veste
del dono all’amica descritta ne Le pratoline222: «Oggi t’ho colto cinque pratoline:
messe davanti alla tua mamma / e immagino che appena sarà buio / si
manine rosa di bambino, / giunte e protese con inconscio gesto / per l’usata
assunto come impegno quotidiano per la relazione, in cui il fiore stesso diventa
221
POZZI, Parole, p. 57.
222
Ivi, p. 58.
223
Ivi, p. 59.
240
Bozzi, del 23 aprile, è Un’altra sosta224, dove di rileva l’emotivamente intensa
con un gesto lento, / come se la mia mano accompagnasse / una lunga invisibile
gugliata. / Non sul tuo capo solo: su ogni fronte / che dolga di tormento e di
d'autunno / in una pozza che riflette il cielo.». L’animetta della Pozzi risulta alla
fine di quel mese di dediche, sbiadita nei Riscatti illeciti226 forniti dall’intimità
approdare a livello tematico alla morte e all’inutilità della vita del poeta: «Da un
stiracchia in singhiozzi, / per riscattare col dolore altrui / la sua inutile vita. //
all’amica si fanno già più aulici, pur mantenendo il tema corazziniano dell’anima
224
Ivi, p. 62.
225
Propriamente, la quantità di filo che si introduce ogni volta nell’ago per cucire, tagliandola
via da un rocchetto. In Cervi di Notturno in nausea di febbre: «ho un filo di nausea nella testa /
in una lunghissima agugliata / infilata / nella cruna delle due tempie // agugliata di nausea nera
// ribrezzo d’acciaio per tutto il mio corpo stasera // ago con agugliata di nausea agucchio / fra
brevi brandelli d’impressioni – / tutte colte in colore le sensazioni / ad imbastirle in multicolore
mucchio» e via così il termine torna in molte altre strofe. Cfr. CERVI, Le cadenze…, op. cit. pp.
96-97. Ricordo ancora che anche la Pozzi dedica una poesia alla Febbre, in POZZI, Parole, p. 90.
In entrambe le poesie compare la figura della madre consolatrice.
226
POZZI, Parole, p. 64.
227
Ivi, p. 113.
241
di stelle / e l’edera, con le sue palme protese, / a trattenere un luccicore mite. /
Nella mia casa che riscalda, / tu mi parli delle grandi cose / che nessun altro sa.
benedice, / dolce sorella, / nel nome del mio amore e della tua tristezza, / a te, /
ala bianca / della mia esistenza.». La poesia, scritta da Pasturo, luogo dell’anima
l’importanza simbolica che quel luogo ha per Antonia), non supera la relazione
con una poesia d’effetto, vibrato negli scrosci dell’acqua che riportano la
un certo D’Annunzio ed espresso dalla Pozzi con molta più evidenza in Fuga228.
accostare i versi – anche se già del febbraio 1931 e quindi leggermente eccentrici
228
Ivi, p. 105. Questi i versi di Fuga dedicati ad Antonio Maria Cervi: «Anima, andiamo. Non ti
sgomentare / di tanto freddo, e non guardare il lago, / s'esso ti fa pensare ad una piaga / livida e
brulicante. Sì, le nubi / gravano sopra i pini ad incupirli. / Ma noi ci porteremo ove l'intrico / dei
rami è tanto folto, che la pioggia / non giunge a inumidire il suolo: lieve, / tamburellando sulla
volta scura, / essa accompagnerà il nostro cammino. / E noi calpesteremo il molle strato / d'aghi
caduti e le ricciute macchie / di licheni e mirtilli; inciamperemo / nelle radici, disperate membra
/ brancicanti la terra; strettamente / ci addosseremo ai tronchi, per sostegno; / e fuggiremo. Con
la piena forza / della carne e del cuore, fuggiremo: / lungi da questo velenoso mondo / che mi
attira e respinge. E tu sarai, / nella pineta, a sera, l'ombra china / che custodisce: ed io per te
soltanto, / sopra la dolce strada senza meta, / un'anima aggrappata al proprio amore. // Madonna
di Campiglio, 11 agosto 1929». I versi sono molto vicini per musicalità e ambientazione a La
pioggia nel pineto di D’Annunzio, di cui riporto almeno la prima strofa: «Taci. Su le soglie / del
bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e
foglie / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. / Piove su le tamerici / salmastre ed arse,
/ piove su i pini / scagliosi ed irti, / piove su i mirti / divini, / su le ginestre fulgenti / di fiori
accolti, / su i ginepri folti / di coccole aulenti, / piove su i nostri vólti / silvani, / piove su le nostre
mani / ignude, / su i nostri vestimenti / leggieri, / su i freschi pensieri / che l’anima schiude /
novella, / su la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude, / o Ermione.», in G.
D’ANNUNZIO, Alcyone, a critica e cura di P. Gibellini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988,
pp. 79-80.
229
POZZI, Parole, p. 139.
242
cercano, nel conforto della sorella (molto probabilmente sempre la stessa
Bozzi)230, uno sfogo e un dialogo che possa liberare, almeno per lo spazio di
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca, Dopo tanti anni, ieri. Il viale breve
stanca, logora, scossa, dietro il vecchio cancello si distende
come il pilastro d’un cancello angusto come un tempo; però sotto la neve
al limitare d’un immenso cortile; non vi sono più fiori, e più non pende
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita alcun frutto dai rami; stanca e lieve
sia stato diga all’irruente fuga ne la triste fontana l'acqua scende...
d’una folla rinchiusa. Nel portico, due legiadrette Eve
Oh, le parole prigioniere un Don Giovanni sotto braccio prende.
che battono battono
furiosamente Sorridentesi sempre! O, se la pioggia
alla porta dell’anima vi renda gialle o brutte o, se di notte
e la porta dell’anima vi allieti il bacio buono delle stelle
che a palmo a palmo
spietatamente di fra l'edera verde de la loggia,
si chiude! o statuette moribonde e rotte,
Ed ogni giorno il varco si stringe o, della villa dolci sentinelle!
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
230
Ibidem. La Bernabò aggiunge anche: «Vedervi, come si è fatto, una sorta di congiunta
apostrofe alla poesia non mi pare persuasiva per i seguenti motivi: in quel periodo Lucia fu molto
vicina all’amica; le invocazioni di Antonia Pozzi alla poesia sono in genere dirette (si pensi, ad
esempio, a Preghiera alla poesia); come Leopardi, l’autrice predilige il vocativo concretamente
rivolto a una persona specifica, in nome anche di un suo senso molto affettivo, relazionale, del
fare poetico.», in BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 105.
231
CORAZZINI, Poesie…, p. 171.
243
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
invernale – ove aleggia quindi l’immagine di una vita congelata nella morte –
che separano i mondi, le stagioni, e, infine, i vivi dai morti, sono il simbolo di
questo compito di valicare la soglia e dice: «di qua dal cancello / serrata / contro
le sbarre / dalla mia profonda / pena d'esser viva / rimango / e solo è in pace /
fissità delle statue che pure continuano a sorridere nella buona e nella cattiva
sorte, malgrado il passare delle stagioni che portano loro anche un lento degrado.
All’altezza del 1931 dunque la Pozzi ha già trovato il suo modo fermo e
232
POZZI, Parole, p. 186.
233
Ibidem.
234
Il tema del cancello e del cimitero appare per esempio anche nella già citata La signorina
Felicita ovvero la Felicità di Gozzano, ma con un movimento talmente aulico da andare oltre la
lotta che per tutto il tempo della poesia il lettore si sente di dover affrontare fra credibile e
244
probabilmente anche dal contatto con la letteratura straniera. Questo passaggio
deve essere letto sempre alla luce della forte dinamica relazionale attraverso la
quale la Pozzi elabora i suoi versi, che non possono presentarsi mai, quando sono
veramente poetici, come campionatura sterile di parole già dette. Nel caso de La
porta che si chiude, è stata addirittura riscontrata una sovrapposizione fra l’afasia
poetica da cui era colpita, come a ondate di silenzio, la Musa della poetessa, e
«Nella sua stanchezza, l’io-poetante si identifica con un vecchio pilastro di uno stretto
cancello: il motivo del cancello era tipico dei crepuscolari, nonché del grande poeta ceco di
lingua tedesca Rainer Maria Rilke235, che l’autrice avrebbe studiato a fondo in seguito, ma al
quale forse si accostò già nel 1931, se non prima. L’immagine del cancello, comunque, assume
per lei un significato drammatico, diversamente dalla connotazione prevalentemente elegiaca
che essa aveva nei crepuscolari e nel primo Rilke, quello allora più noto in Italia. Nella poesia
incredibile in merito alle affermazioni del poeta: «Andai vagando nel silenzio amico, / triste e
perduto come un mendicante. / Mezzanotte scoccò, lenta, rombante / su quel dolce paese che non
dico. / La Luna sopra il campanile antico / pareva “un punto sopra un İ gigante”. // In molti mesti
e pochi sogni lieti, / solo pellegrinai col mio rimpianto / fra le siepi, le vigne, i castagneti / quasi
d’argento fatti nell’incanto; / e al cancello sostai del camposanto / come s’usa nei libri dei poeti.
// Voi che posate già sull’altra riva, / immuni dalla gioia, dallo strazio, / parlate, o morti, al
pellegrino sazio! / Giova guarire? Giova che si viva? / O meglio giova l’Ospite furtiva / che ci
affranca dal Tempo e dallo Spazio? // A lungo meditai, senza ritrarre / la tempia dalle sbarre.
Quasi a scherno / s’udiva il grido delle strigi alterno…/ La Luna, prigioniera fra le sbarre, /
imitava con le sue luci bizzarre / gli amanti che si baciano in eterno. // Bacio lunare, fra le nubi
chiare / come di moda settant’anni fa! / Ecco la Morte e la Felicità! / L’una m’incalza quando
l’altra appare; / quella m’esilia in terra d’oltremare, / questa promette il bene che sarà…», in
GOZZANO, I colloqui, in Tutte le poesie, pp. 179-180. Anche Palazzeschi nella sua prima raccolta
I cavalli bianchi (1905) dedica un pensiero poetico a Il cancello: «L’oscuro viale dai mille
cipressi / che porta al cancello del grande piazzale / è aperto a la gente. / Soltanto il cancello non
s’apre. / Va e viene la gente pel lungo viale / che il sole soltanto non lascia passare, / si sosta al
cancello che à cento colonne di ferro / la gente a guardare. / In una carretta ch’è piccolo letto /
due monache nere conducono attorno / pel grande piazzale, il Signore, / padrone del grande
castello. / Cent’anni à il Signore / padrone del grande castello! / Lo portano attorno due monache
nere, / attorno al castello ch’è in mezzo al piazzale. / Non ode non vede la gente / che al vano dei
ferri del grande cancello / sta ferma a guardare. / Va e viene la gente pel lungo viale / che il sole
soltanto non lascia passare, / si sosta al cancello che à cento colonne di ferro / la gente a guardare.
/ Ogn’anno a quel grande cancello / s’aggiunge una nuova colonna di ferro: / il posto d’un altro
a guardare.», in A. PALAZZESCHI, Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002, p.
8.
235
Cfr.: BERNABÒ, Per troppa vita..., p. 122: «Per il motivo dei cancelli in Rilke si vedano,
nell’edizione [Alpes, Milano 1929] delle Liriche, Giardino a notte (pp. 34-35) e Uno son dei
miseri tuoi figli (pp. 142-43).».
245
in questione il cancello è stato a lungo “diga” alla pressione di una folla 236, che è una folla di
parole, le quali inutilmente battono alla porta dell’anima per uscirne. Soltanto “l’ultimo giorno”
con un “urto tremendo” e un “urlo mortale” esse usciranno e “sarà la pace”, la pace, si presume,
della morte. Stilisticamente il contenuto è affidato all’uso, consueto in Antonia Pozzi,
dell’iterazione con variazioni (“come il pilastro”; “come un vecchio pilastro”; “Ed ogni giorno”;
“E l’ultimo giorno”). Un meccanismo che altrove risultava semplicistico e che invece qui è
funzionale a rendere l’estrema emozionalità dello stato d’animo e, in modo quasi onomatopeico,
il battito forsennato delle parole non dette. Alessandra Cenni ha giustamente parlato, a proposito
di questa poesia, di “mimesi del parto”. Giuseppe Strazzeri ha aggiunto che si tratta di un “parto
sì, ma di parole”, a “ulteriore riprova dell’ambivalenza che la dimensione creativa ha nella
Pozzi”, riferendosi al suo duplice desiderio di fecondità fisica e poetica.»237.
Secondo questa sintesi operata dalla Bernabò, La porta che si chiude aiuterebbe
maternità reale, e quella, curiosamente mutuata in gran parte dal padre e dallo
da quella vera e propria del sogno, della volontà di realizzazione di una meta che
236
Parola già usata dalla Pozzi in Largo per connotare il ciclo relazionale pieno-vuoto
relativamente ai suoi fantasmi e dunque ai suoi arcani pensieri poetici e forse anche personali e
malinconici.
237
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 105-106.
238
Ivi, p. 106.
239
Ibidem.
246
Il sogno dell’estremo giacere che compare In un cimitero di guerra diventa ad
Pozzi rispetto alle strozzature della vita di cui questo rapporto critico eros-logos
può essere solo un banale esempio. I riferimenti nei testi compaiono già nelle
in poesie dall’alto tenore espressivo come Canto selvaggio241 e Canto della mia
240
POZZI, Parole, p. 109 e 111.
241
Ivi, p. 98
242
Ivi, p. 102.
247
La morte è bella, è estetizzata, passa attraverso la carne fresca, giovane ed
diventa offerta selvaggia per il dio morente (di sapore quasi zarathustriano).
davvero del sogno che non sai se definire letterario o ultima speranza concreta
della poetessa, ossia quella che la morte fosse veramente dolce: «Questo non è
essere morti / questo è tornare / al paese, alla culla: / chiaro è il giorno / come il
sorriso di una madre / che aspettava. […] Le fiammelle dei ceri, naufragate /
nello splendore del mattino, dicono quel che sia / questo vanire / delle terrene
cose / – dolce –, / questo tornare degli umani, / per aerei ponti / di cielo, / per
candide creste di monti / sognati, / all’altra riva, ai prati / del sole. // 3 dicembre
soglie d’autunno / in un tramonto / muto // scopri l’onda del tempo / e la tua resa
/ segreta // come di ramo in ramo / leggero / un cadere di uccelli / cui le ali non
243
È esemplare del dualismo di Antonia che, fra la composizione di queste due poesie, essa
scriva il 18 luglio 1929 tre liriche dedicate ad Antonio Maria Cervi, in cui sembra quasi voler
lavare in una purezza estenuata il grido altero di questi due Canti. Le poesie sono Flora alpina,
Canto rassegnato (il cui aggettivo la dice lunga sull’antitesi in questione) e Vaneggiamenti e si
trovano in ivi, p. 99, 100 e 101.
244
Ivi, p. 327.
245
Ivi, p. 387.
246
CORAZZINI, Poesie…, pp. 148-149.
248
che si ritroveranno nei versi della Pozzi (il bosco, il battere alle porte senza
ricevere risposte, il grido, la ghirlanda nei capelli, le piccole mani pure, il sapere
solo una povera preghiera), senza dimenticare che sottolineerà nella sua copia
del libro, l’intera strofa finale. Per restare negli anni 1929-1930, si potrebbe
prendere la poesia Le mani sulle piaghe247 che rovescia l’angoscia del fanciullo
lasciato solo come un agnello sacrificale del Corazzini in una visione straziata
prossimo dalla sofferenza, dandosi un ruolo operativo nel silenzio e nella fede
per non essere colta dal dubbio di non sognare più dopo la morte dell’amato:
247
POZZI, Parole, pp. 120-121.
249
se la dividono i rovi, io farò lievi, un giorno, le mie mani
e la mia ghirlanda s’è mutata sopra di voi. E là dove il silenzio
in una corona di spine, è un'attesa di morte o di salvezza,
le mie piccole mani sanguinano il silenzio e la fede vestiranno
senza fine la mia esistenza nuda.
e l’anima è triste come Fratello, io farò lieve il mio respiro,
li occhi l'anima mia farò lieve e sicura
di un agnello che sia per morire. sopra il gran male umano:
dentro i labbri di tutte le ferite
E le fontane cantano io stagnerò il tuo sangue,
dietro le bianche porte. fra le ciglia di ognuno che si strazia
asciugherò il tuo pianto.
Ah! sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?
essere vissuto e riscritto solo dopo aver perso il suo statuto di sogno, come se si
trattasse di lasciare memoria della parte più vera della prima esperienza
seno di una comune sensibilità poetica, per chiudere la trattazione della relazione
vivere una vita piena proprio per il loro appartenere ad un mondo inesistente.
248
CORAZZINI, Poesie…, p. 146.
250
cantarvi una canzone, all’uncinetto
ché non udrebbe! Oh, fatemi con la lana bianca.
salire sul balcone!
— Mio grazioso amico, Dice anche “mamma” –
il balcone è di cartapesta, sì –
non ci sopporterebbe! se lo rovesci sopra il dorso.
Volete farmi morire
senza testa? Dammelo qui in braccio
— Oh, piccola regina, sciogliete per un pochino:
i lunghi capelli d’oro! ecco,
— Poeta! non vedete hai sentito
che i miei capelli sono come ha detto
di stoppa?
— Oh, perdonate! “mamma”?
— Perdono.
— Così? Questo è il mio bambino –
— Così...? vedi –
— Non mi dite una parola, il mio bambino
io morirò... finto.
— Come? per questa sola
ragione? 31 gennaio 1933
— Siete ironica... addio!
— Vi sembra?
— Oh, non avete rimpianti
per l’ultimo nostro convegno
nella foresta di cartone?
— Io non ricordo, mio
dolce amore... Ve ne andate...
Per sempre? Oh, come
vorrei piangere! Ma che posso farci
se il mio piccolo cuore
è di legno?
È interessante notare che comunque, questi esseri hanno una voce per dire
con la straziante parola mamma; la piccola regina può lamentare di non riuscire
prende corpo proprio nei materiali di cui è fatta la regina: una risposta
dell’esistenza povera come la stoppa e dura come il legno. Per la Pozzi invece il
251
folle conforto è tutto concentrato proprio nell’essenza di quella voce, morbida
sicuramente cara alla Pozzi e più volte citata, Alla serenità, ove si possono
ritrovare varie parole del primo biennio – e non solo di quello – di produzione
poetica pozziana:
252
entro il mio cuore, e vuoi tu che al fiorito
maggio spalanchi l’umili finestre
e odori il davanzale di ginestre
e canti ancora quello che infinito
253
In questo capitolo ho introdotto gli anni di formazione liceali di Antonia Pozzi
insistendo su alcune relazioni che ritengo centrali per lo sviluppo della sua
l’obiettivo della sua poesia – declinata, oltre che come modalità di dialogo con
e di elevazione per l’amato Antonio Maria, anche come intento di rottura rispetto
nascondano dietro l’esposizione della gioia) e quella di chi vive nella brutalità
dell’indifferenza, colui a cui basta aver la pancia piena nel giorno di festa per
Antonia che si sente chiamata a guardare sempre al largo, più in là. Nello spirito
254
Capitolo Terzo:
Gli anni universitari furono per Antonia Pozzi un banco di prova sotto molteplici
a raggiungere una sorta di forzoso equilibrio che non poté durare a lungo e che
portò alla definitiva disgregazione, negli anni post universitari, degli obiettivi e
disillusione e di sfiducia.
Vi è una spaccatura che corre lungo l’anno 1933 a chiudere un primo tentativo
fornire un sicuro passaggio sul crinale della solitudine è la scoperta del poeta
Tullio Gadenz, che dagli inizi del 1933 sembra costituire un rifugio poetico e
di confidare e mettere in salvo tanta parte di sé. Proprio nel 1933, l’anno più
1
POZZI, Ti scrivo…, p. 227. Da una lettera scritta a Vittorio Sereni il 13 agosto 1935 da Pasturo.
255
prolifico dal punto di vista della scrittura, la Pozzi medita un primo serio riscatto
della sua vita nella poesia. Sempre dal punto di vista relazionale, nell’ a.a
«Tra il 1934 e il 1938 frequentò attivamente il gruppo che faceva riferimento a[l prof.
A.] Banfi e divenne amica di alcuni dei suoi più brillanti allievi. I suoi amici più cari furono
Remo Cantoni, Vittorio Sereni, e, più tardi, Dino Formaggio; ma frequentò anche Gianluigi
Manzi, Enzo Paci, Alberto Mondadori, Ottavia e Clelia Abate, e altri. Praticamente si legò a tutta
l’intellighenzia milanese che non era ancorata all’idealismo, ma si apriva alla cultura europea
nel suo insieme, e che, anche politicamente, era più disponibile a scelte alternative a quella
fascista.».2
Questo universo banfiano costituirà per Antonia una grossa sfida, mettendola a
confronto con un modo di intendere il rapporto arte-vita che lascerà segni di crisi
sensibilità nei confronti del suo approccio alla scrittura. Ma soprattutto questa
emotivo profondo in Antonia e per i quali la poetessa mise in gioco davvero tutta
se stessa. Remo Cantoni e Dino Formaggio non furono solo due amori di
gioventù, ma due uomini che, con l’esempio del loro approccio alla vita, la
era stato abituale sino al 1934. In quel periodo conobbe poi anche il poeta
Vittorio Sereni, con il quale strinse una profonda e fraterna amicizia: fu uno dei
2
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 182.
256
apprezzarla. All’amico dedicò poche parole di commiato anche il giorno del
temporale prima accennata, gli influssi degli autori a cui Antonia si accostò non
degli scarti e degli abbandoni nel proprio rapporto con la scrittura, il fare poetico
di Antonia è intessuto di legami con certi autori e certe tematiche che non si
esauriscono nel momento del primo incontro – incontro che, fra l’altro, spesso è
pervenuto fino ad oggi, ossia dalla presenza di testi in una biblioteca parziale,
dai ricordi delle persone che la poetessa frequentava all’epoca3, dai corsi di studi
3
Cfr. ad esempio lo scritto di Alba Binda che ricorda l’amica A. Pozzi in relazione agli anni
universitari e alla frequenza dei corsi, in M.M. VECCHIO, Gli appunti universitari inediti di
Antonia Pozzi, in AA. VV., … e di cantare…, p. 343: «Furono anni intensi di studio, di scoperta
e di affermazione delle sue capacità intellettuali. Ordinata, precisa, esigente da sé, Antonia aveva
predisposto il suo piano studi dopo aver ascoltato per alcune settimane le conferenze
accademiche dei vari professori, commisurandole con le sue proprie tendenze ed aspirazioni; e
non derogò mai in seguito dallo schema che aveva stabilito. […] Ma due professori [soprattutto]
influirono nel suo inquadramento culturale: Luigi Castiglioni, preside di facoltà e docente di
latino e di greco, Antonio Banfi[,] docente di storia della filosofia e di estetica. Uno contribuì a
rinsaldare la sua logica, l’altro a raffinarne la sua sensibilità.».
4
Cfr. ivi, p. 341-342: «Il piano di studi scelto dalla Pozzi, in Filologia Moderna, prevede, al
primo anno di studio, la frequenza dei corsi di Lingua e Letteratura Latina e Greca e di Storia
della Filosofia o Filosofia (cioè Teoretica), con durata biennale (dilatata quindi anche al secondo
anno di corso), di Storia comparata delle lingue classiche e neolatine (anch’esso corso biennale,
che era possibile frequentare anche al terzo e al quarto anno), e di Lingua e Letteratura Italiana,
con durata triennale (estesa ai due anni di corso successivi al primo); di Geografia e di Letteratura
Inglese o Tedesca, con durata annuale. Al secondo anno, mentre proseguono i corsi di Letteratura
Latina, Greca e Italiana, di Storia comparata delle lingue classiche e neolatine e di Storia della
Filosofia o Filosofia, viene consigliata la frequenza dei corsi annuali di Estetica e di Storia
dell’Arte. A partire dal terzo anno, durata biennale ha il corso di Storia moderna, esteso dunque
al quarto anno, mentre annuali sono i corsi di Storia antica e di Storia del Risorgimento italiano.»
257
nel momento della stesura.
una prima iniziale digressione in merito al problema della relazione fra Antonia
vicino a sé i giovani con una serie di attività anche extra scolastiche sin dalla più
tenera età6. Professori come Martinetti infatti erano capaci di aprire le menti ad
5
Ivi, pp. 97-98.
6
Si pensi all’organizzazione (dettagliata per sesso e fascia d’età) della gioventù fino ai
diciott’anni nell’OPN (Opera Nazionale Balilla), e poi dai 18 ai 21 anni nei Fasci giovanili di
combattimento, nelle giovani fasciste a nei GUF (Gruppi Universitari Fascisti). Questi ultimi
arrivarono ad assorbire altre associazioni, dedite all’escursionismo in montagna, come la SUCAI
(Stazione Universitaria del CAI), frequentata dalla stessa Pozzi per il X attendamento sociale del
Breil nell’estate del 1933. Sul sito del CAI, nella sezione la nostra storia, si legge quanto segue:
«Nel 1927 ha inizio una trasformazione del CAI, dettata dagli eventi politici, che durerà [fino] a
tutto il 1943; il primo passo è il cambiamento del nome da Club Alpino Italiano a Centro
Alpinistico Italiano e l’inquadramento del CAI nel CONI [Comitato Olimpico Nazionale
258
un diverso approccio alla realtà. Malgrado il suo allontanamento:
«Le idee filosofiche di Martinetti erano ormai diffuse all’interno dell’Università Statale;
in particolare ne erano influenzate le lezioni di estetica di Giuseppe Antonio Borgese, che
Antonia seguì con grande passione nell’anno accademico 1930-31 insieme a Lucia Bozzi e ad
Elvira Gandini, la quale si stava laureando proprio con lui e la conduceva anche ai seminari del
giovedì. Come ricorda la Gandini, Antonia Pozzi maturò il suo interesse per l’estetica proprio
attraverso le lezioni di Borgese.
Molto di Martinetti era passato in lui. Per esempio, l’aspirazione a una conoscenza
derivante dal superamento dei dati frammentari in una unità tesa a restituire l’intima verità del
reale trovava una trasposizione, sul piano dell’estetica di Borgese, nella sua forte valorizzazione
dell’unità dell’opera d’arte, emergente dal caos della frammentarietà e della discontinuità.
Similmente l’idea, in fondo religiosa, anche se non confessionale, che Martinetti aveva della
filosofia, ritenendo che, con il riconoscere ad ogni persona in quanto soggetto spirituale un valore
di fine, essa inducesse ad accostarsi al fondamento divino della realtà, si rifletteva sul concetto,
centrale in Borgese, dell’artista come “grande artiere nel senso di essere l’architetto cosmico,
l’architetto di Dio”, quindi in un’idea religiosa dell’arte. Ma soprattutto interessante era il forte
legame che, sulla traccia di Martinetti, Borgese, stabiliva tra estetica e morale. Non a caso
Borgese, nelle lezioni dell’anno accademico 1930-31, come risulta dalle dispense che la stessa
Antonia Pozzi ebbe tra le mani, volle citare questa frase del proprio allievo Robertazzi: “È certo
che l’arte presuppone la moralità e la conoscenza. Dove non c’è già ricchezza di contenuto
spirituale non c’è neppure arte di sorta. Chi non ha nulla veduto, chi non ha mai agito, come può
essere artista?”
Tali concetti di Borgese, che avevano come sottofondo una polemica con Croce (il quale
troppo svincolava l’arte dalla vita), dovevano piacere molto ad Antonia, in quanto la
confermavano nella propria concezione alta della poesia, cui fino a quel momento aveva aderito,
in parte, istintivamente, in parte sulle tracce di una filosofia di tipo romantico. Alcune idee di
Borgese sarebbero poi confluite anche nella personale interpretazione che l’autrice avrebbe dato
in seguito al contrasto tra Geist (spirito, cultura, arte) e Leben (vita, esperienza), messo in
evidenza da quel Tonio Kröger di Thomas Mann che tanto coinvolse i giovani intellettuali
milanesi degli anni Trenta.»7.
Italiano], insieme alle federazioni sportive. In seguito a questa rivoluzione il Presidente generale
è nominato dal Governo; è confermato il milanese Eliseo Porro. Nel 1929 i soci del CAI Milano
sono oltre 6400. Il Presidente, dal 1926, è il Podestà di Milano, Ernesto Belloni. […]
Il periodo tra il 1929 e il 1930 determina per decisione governativa una riforma della struttura
del CAI; la Sede centrale è trasferita a Roma, cambia il Presidente generale (è nominato Augusto
Turati) e cambia anche il Presidente di Milano, che sarà Gianni Albertini, protagonista di
spedizioni artiche. Viene ordinato il ritorno dei membri del Club Alpino Accademico alle proprie
sezioni e l’abolizione della SUCAI, con travaso dei soci alpinisti universitari nel GUF (Gruppi
Universitari Fascisti), ma con tessera del CAI.». Fonte: www.caimilano.org
Del 2 gennaio del 1934 è il seguente frammento di lettera della poetessa scritta ai genitori da
Madonna di Campiglio, in cui si evince l’organizzazione imperiosa che il regime doveva avere
anche sull’andamento delle libere attività alpinistiche: «Allo Spinale andremo dopodomani: non
domani, perché ci sono le gare di discesa del GUF e vogliono che la pista sia sgombra prima
delle 11 di mattina, quindi ci toccherebbe fare una cammellata.», in POZZI, Ti scrivo…, p. 184.
7
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 98-99.
259
Antonia, in quanto filtrò nel pensiero di Borgese, che fu assolutamente centrale
«era famoso soprattutto per il suo romanzo Rubé, pubblicato nel 1921 e
sicuramente noto ad Antonia Pozzi, che aveva tutte le sue opere nella propria
prepotenze fasciste:
«Nell’anno accademico 1929-30 c’era stata una manifestazione fascista contro di lui:
durante uno dei seminari ristretti del giovedì un gruppo di energumeni era entrato in aula con il
manganello e aveva picchiato alcuni ragazzi presenti; Guido Piovene, uno degli alunni più vicini
a Borgese, ne aveva riportato una frattura nasale. Il professore era riuscito a uscirne incolume e
aveva sospeso per due mesi la sua attività, riprendendola successivamente (forse per l’intervento
a suo favore di Mussolini), finché nel 1931 si mise prudentemente a disposizione del Ministero
degli Esteri per insegnare Letteratura italiana in una università statunitense; avrebbe poi dato le
dimissioni nel 1934. Per evitare rischi fisici, dopo le lezioni, alcuni studenti lo riaccompagnavano
a casa; peraltro, la segreteria trasmetteva i nomi degli studenti di Borgese alla caserma di via
Mario Pagano, dove alcuni di essi, fra cui Elvira Gandini, furono sgarbatamente interrogati. Era
un momento di grande tensione per l’Università Statale, che, nell’intenzione del regime, doveva
essere completamente fascistizzata: il Preside della Facoltà di Lettere, Luigi Castiglioni, sebbene
non fosse intimamente fascista, era costretto ad indossare la camicia nera e le angherie contro gli
spiriti liberi si susseguivano, anche per la presenza, tra gli studenti, di spie che si prestavano a
denunciare ogni atteggiamento sospetto.»9.
In un momento che presentava non pochi rischi per chi non era disposto ad
8
Ivi, p. 99.
9
Ivi, pp. 99-100.
260
dello stesso Borghese) e un approfondimento sul Decadentismo francese.
avesse trovato nuova linfa nell’idea che certe intuizioni non risolte potessero
profondo e nell’intimo per arrivare, con un certo dolore (il travaglio del parto),
ad una sublimazione della vita nell’arte, a quella poesia come catarsi che in
amiche fedeli, Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, sono, dunque, anche i tormenti
«Nei primi mesi del 1931 (come dimostrano le date da lei stessa apposte sui libri della
sua biblioteca), andando ben oltre il programma d’esame, acquista opere di Rimbaud, dei
10
Ivi, pp. 100-101.
261
simbolisti belgi Verhaeren e Maeterlinck e, soprattutto, un’antologia di liriche rilkiane, che in
seguito leggerà con grande attenzione in tedesco alla scuola di Vincenzo Errante.»11
vena di inquietudine e turbamento che certi versi potevano suscitare nel suo
all’unione con Cervi e da tutti i problemi che sorsero nella relazione fra i due a
rapporti però, vorrei continuare a rilevare, come ho a tratti accennato anche nei
precedenti capitoli, che l’attenzione della Pozzi per la letteratura straniera si pone
ricezione della cultura estera era quanto meno controverso, a partire dallo studio
«Il rapporto tra regime fascista e lingue straniere appare per molti versi ambiguo e
controverso e tutt’altro che monolitico. Un libro recente (Valentina Russo, Le lingue estere.
Storia, linguistica e ideologia nell’Italia fascista. Prefazioni di Norbert Dittmar e Alberto
Manco, Aracne, Roma, 2013) getta nuova luce sul problema dello studio delle lingue straniere
in Italia e sulla fase in cui per la prima volta la società italiana vi si cimentò a livello di massa.
[…] La fonte primaria del libro sono Le lingue estere (dopo il 1945 Le lingue del mondo), una
rivista di divulgazione linguistica e più specificamente glottodidattica, pubblicata a Milano tra il
11
POZZI, Parole, p. 20. Dall’introduzione di Graziella Bernabò.
12
Per dare una visione completa del fenomeno, dovrò operare alcuni balzi temporali nella
cronologia pozziana, inserendo notizie che precedono la formazione universitaria e al contempo
spingendomi oltre i suoi esisti. Questa “ribellione cronologica” rispetto ai confini del capitolo è
necessaria per capire come l’approccio allo studio letterario pozziano degli anni ’30-‘38 sia in
qualche modo più o meno condizionato anche dalle contingenze storiche, portandone l’esito
pratico su sentieri inaspettati, non solo dal punto di vista intellettuale ma anche velatamente
politico.
13
Seguo il ragionamento in materia di avvicinamento allo studio delle lingue straniere in Italia
in epoca fascista del professore associato di Filologia e Linguistica Romanza dell’Università di
Catania Stefano Rapisarda, A proposito dello studio delle lingue straniere in epoca fascista,
reperibile in AA. VV., «Letteratura, alterità, dialogicità. Studi in onore di Antonio Pioletti», a
cura di Eliana Creazzo, Gaetano Lalomia, Andrea Manganaro, Le forme e la storia, n.s. VIII,
2015, 2, Rubettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2016, pp. 817-827.
262
1935 e il 1950, in grande formato illustrato e paginazione a giornale di 32 fogli: tipo doppiamente
raro in Italia, per la tematica glottodidattica e per l’intento divulgativo, ambito nel quale l’Italia
non ha mai avuto una grande tradizione. […]
La redazione della rivista Le lingue estere [ha sede a Milano], in uno stabile di via
Cesare Cantù, 2 nel quale, e non dev’essere casuale la coincidenza, si trova anche la sede italiana
dell’azienda, che oggi diremmo multinazionale, “Linguaphone”. Anzi, è assai probabile che la
rivista operi in stretta connessione, fors’anche in dipendenza, con quella società pionieristica,
ancora oggi colosso mondiale dell’insegnamento linguistico, fondata a Londra nel 1901, grazie
all’intuizione del fondatore, il traduttore russo-polacco Jacques Roston, di utilizzare a scopo
glottodidattico i nuovi ritrovati per la riproduzione del suono: dapprima i “rulli di Edison”,
successivamente i dischi piatti, cosiddetti “Berliners”, che intorno al 1930 favoriscono
ulteriormente la diffusione dei prodotti sonori e il loro uso casalingo.
È notorio che la linguistica, come l’archeologia e la filologia, è uno degli ambiti delle
scienze umane in cui più intensa può essere l’interazione con l’ideologia politica, e l’Italia
fascista, tra nazionalismo e autarchia, non è un ambiente favorevole alla diffusione delle “lingue
estere”. Sono ormai numerosi gli studi sul modo in cui il Fascismo tentò (senza riuscirvi) di
normare il modo di parlare e di scrivere degli Italiani rispetto alla marea montante degli
anglicismi e americanismi che già si imponevano con l’irresistibile potenza della “modernità”.
Va quanto meno richiamata la normativa protezionista varata a tutela della “purezza” della lingua
italiana: i decreti che prevedono il pagamento di un’imposta quadrupla per chi utilizzi un
foresterismo in un’insegna commerciale (d. 11.2.1923, n. 352) e che nel 1937 si impenna dal
quadruplo a 25 volte (d. 9.9.1937, n. 1937); la legge che proibiva uso di parole straniere nei nomi
dei locali di pubblico spettacolo (d. 5.12.1938, n. 2178) e di nomi stranieri per i neonati di
cittadinanza italiana (d. 9.7.1939, n. 1238); la legge che proibiva nomi stranieri nelle intestazioni
di attività commerciali, industriali e professionali (l. 23.12.1940, n. 2042). Una è ancora vigente,
per quanto ne so: quella che vieta l’introduzione di titoli cinematografici in lingua straniera e
impone un sottotitolo italiano. A questi decreti si sommano le norme, prescrizioni,
raccomandazioni del Ministero della Cultura Popolare in materia lessicale, tutte ridicolmente
fallimentari, come le taberne potorie, le code-di-gallo e le fette di pan tosto… Tra le centinaia
di neologismi fascisti, quelli arrivati all’italiano contemporaneo si contano sulle dita (autista,
regista, barista, tramezzino e pochi altri), a ricordarci che normare la lingua è come normare il
vento, la pioggia o lo spostamento dei continenti.
Problematico, dunque, legittimare una rivista di divulgazione glottodidattica, in un
siffatto clima. La chiave che la dirigenza della rivista si trova a utilizzare per aggirare il problema
politico-ideologico è quella della “utilità strumentale”. Studiare le “lingue estere” non per
riconoscimento e omaggio a una cultura straniera, ma perché può essere utile a scopi personali e
utilitari: trovare un buon lavoro, migliorare la propria posizione economica, fare carriera,
progredire socialmente; può costituire inoltre un vantaggio per la propaganda: l’italiano che
viaggia all’estero diventa, se possiede qualche capacità linguistica, un “faro di italianità”.
La rivista propaganda dei “miti di fondazione”. Mussolini sarebbe capace di comunicare
disinvoltamente in una pluralità di lingue. Nell’articolo del 1935 Mussolini dà l’esempio si
racconta che, nel corso di un incontro diplomatico con Lord e Lady Chamberlain, il Duce si
sarebbe dichiarato indifferente all’uso della lingua di conversazione, potendo egli esprimersi
fluidamente sia in inglese che in francese e in tedesco. L’episodio è ancora più significativo se,
secondo gli estensori della rivista, tale poliglossia sarebbe il frutto di un rapido apprendimento,
dato che, all’atto dell’assunzione del potere, Mussolini avrebbe dichiarato di non conoscere
l’inglese ma avrebbe pubblicamente e solennemente preso l’impegno di impararlo nel corso di
un anno. L’esempio di Mussolini ricorda che l’apprendimento delle lingue è un’“arma
potentissima per il vittorioso conseguimento [di] scopi pratici” e va a onta di quelli che
dichiarano indisponibilità di tempo come alibi per la procrastinazione […]. Ulteriore
corroborazione agli scopi della rivista viene dall’esempio di alcuni grandi Italiani, come Dante,
Leopardi, Carducci e D’Annunzio, che oltre alla “lingua materna” e a una lingua classica,
avrebbero conosciuto chi tre, chi quattro, chi cinque lingue moderne […], o come Baretti e
263
Ruffini, che non “ebbero vergogna’ (sic!) a studiare l’inglese.»14.
cultura popolare addirittura promuoverà per radio un ciclo di lezioni che riguarda
un decennio questa fase e riguarda ancora una volta la sua formazione scolastica.
frequentava il primo ginnasio inferiore. Con quella serie di atti normativi che
dicembre 1922 e il 31 dicembre 1923, l’assetto dello studio delle lingue straniere
segue:
14
Ivi, pp. 820-823.
15
Ivi, p. 823.
16
Ivi, p. 818.
264
«Chi prosegue gli studi elementari si iscrive al Ginnasio, di durata quinquennale,
suddiviso in corso inferiore (triennale) e corso superiore (biennale); qui una lingua straniera si
studia a partire dal secondo anno del corso inferiore, equivalente alla nostra II media (art.40), e
lo studio si prosegue per gli altri quattro anni, sino al Liceo. Nell’ambito dell’istruzione classica,
che “ha per fine di preparare alle università ed agli istituti superiori”, e dura 8 anni, 5 di Ginnasio
più 3 di liceo, la lingua straniera si studia solo al Ginnasio. La lingua straniera scompare al Liceo
(triennale), in favore di lettere italiane, latine e greche; filosofia, storia ed economia politica;
matematica e fisica; scienze naturali, chimica e geografia; storia dell’arte (art.42).»17.
Secondo Rapisarda, insomma, è vero che lo studio delle lingue straniere non
universitarie; nel contempo però non era nemmeno così fieramente avversato:
nazionalisti.
sua educazione in senso moderno. Si tratta certamente del francese, che anche la
madre sapeva parlare bene19, e che comunque aveva studiato con ottimi risultati
17
Ivi, p. 819.
18
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 45: «L’educazione di Antonia fu completata dallo studio
della musica, del disegno, della scultura e delle lingue straniere, nonché da una serie di attività
sportive, quali il tennis, il nuoto, l’equitazione, lo sci e l’alpinismo. Insomma, l’avvocato Pozzi
voleva il massimo per la figlia, per la quale intravedeva evidentemente un futuro di, almeno
parziale, emancipazione.».
19
Ivi, p. 54.
20
In quella lingua aveva addirittura ottenuto il massimo voto nella pagella del gennaio della sua
quarta ginnasio. Così alla Nena, il 22 gennaio 1926: «A scuola ci hanno dato le pagelle ed è
andata abbastanza bene: 7 in latino – 8 in italiano – 8 in greco – 9 in francese (!) – 7 in matematica
265
attraverso la frequentazione della Scala di Milano e dunque, ad esempio,
dall’ascolto di alcune opere liriche che dice di aver visto, come l’Hänsel e Gretel
potrebbe essere stata data ad Antonia l’opportunità di crearsi delle basi di lingua
Questo interesse per le lingue straniere, che dagli anni universitari vedrà un
progressivo ampliarsi della preferenza verso il tedesco, sarà mediato anche dalle
capacità traduttive derivate alla poetessa dallo studio delle lingue classiche. La
dell’intelligenza pratica della Pozzi: se si osserva l’entità dei libri presenti nella
sua biblioteca di Pasturo in lingua originale (in massima parte francesi e tedeschi,
alcuni in inglese), oltre a tenere conto dei lavori di traduzione alla quale si dedicò
in prima persona, non si può non rilevare che il suo approccio alle lingue
straniere andò ben al di là del dettame utilitaristico della visione di regime. Il suo
delle parole e per lo stile proprio degli autori che andava salvaguardato il più
– 8 in storia – 7 in geografia. Ho paura che nel prossimo bimestre calerò molto. Basta!!», in
POZZI, Ti scrivo…, p. 59.
21
Ivi, p. 60.
22
Ivi, p. 103, nota n° 111. Anche la madre Lina doveva averne delle basi, se nelle lettere inviate
a lei da Repton, Antonia inserisce una serie di termini inglesi. Cfr. ivi, pp. 103-105 e BERNABÒ,
Per troppa vita…, p. 54: «Lina Pozzi […] conosceva probabilmente anche l’inglese».
266
pregevole23 tesi, Flaubert: la formazione letteraria (1830-1856), Antonia Pozzi
presa di coscienza autoriale rispetto al potere eversivo del traduttore nel proporre
23
Cfr. il saggio di Liana Nissim “L’incessante tensione trattenuta”: il Flaubert di Antonia Pozzi,
in AA. VV., …e di cantare…, pp. 133-145. In particolare: «Dunque la tesi si pone davvero, per
l’epoca, come opera originale, lasciando quasi stupita l’incredula studentessa, [come scrive] al
suo professore Antonio Banfi, “mi sembra […] di star facendo un lavoro non fatto prima da
altri”.», in ivi, pp. 135-136 e «Accanto alla stupefacente conoscenza di tutta l’opera di Flaubert
e alla notevole capacità di concentrarne le idee e le immagini in un discorso suo proprio, Antonia
Pozzi dà anche prova di una conoscenza davvero approfondita e consapevole della letteratura e
della cultura francese che precede o che sta attorno all’opera di Flaubert, conoscenza della quale
[…] non abusa mai, ma che sa utilizzare per illustrare in modo convincente il clima culturale che
insieme spiega Flaubert e ne illumina la novità grandissima. Victor Hugo, Alexandre Dumas,
Chateaubriand, Balzac e tutto il romanticismo, Gautier, Baudelaire e la scuola parnassiana,
Shakespeare, Goethe e Cervantes, Walter Scott, Hoffmann e Poe, La Bruyère, Rabelais e
Montaigne…la gran pare degli autori che entrano in qualche modo nella storia spirituale di
Flaubert trovano la giusta collocazione del discorso critico di Antonia Pozzi, che sa ricostruire
con pennellate rapide e ferme, senza sbavature, la formazione di Flaubert e il clima di un’epoca.»,
in ivi, pp. 141-142. La tesi verrà pubblicata nel 1940.
24
G. FLAUBERT, Corrispondenza, a cura di G.B. Angioletti, 2 voll., Carabba, Lanciano 1931.
25
A. POZZI, Flaubert: la formazione letteraria (1830-1856), con una premessa di Antonio Banfi,
Libri Scheiwiller, Milano 2012, pp. 38-39.
267
da un regime totalitario, come nel caso del fascismo in Italia – di appartenenza26.
realtà a livello nazionale, era in qualche modo possibile agire una resistenza
politica e culturale. In questo senso proprio nel 1930, si aprì quello che fu
«Il decennio dal trenta al quaranta che passerà nella storia della nostra cultura come
quello delle traduzioni, non l’abbiamo fatto per ozio né Vittorini né Cecchi né altri. Esso è stato
un momento fatale e proprio nel suo apparente esotismo e ribellismo è pulsata l’unica vena vitale
della nostra recente cultura poetica. L’Italia era estraniata, imbarbarita, calcificata – bisognava
scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti primaverili d’Europa e del mondo. Niente
di strano se quest’opera di conquista dei testi non poteva essere fatta da burocrati o braccianti
letterari, ma ci vollero giovanili entusiasmi e compromissioni. Noi scoprimmo l’Italia – questo
il punto – cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in Francia, nella Spagna.»27.
Questo “decennio” si pose in contrasto ideale con la stretta che nei medesimi
anni il regime stava cercando di porre sulla circolazione libraria, dopo aver già
26
Cfr. per le idee sui rapporti fra la capacita eversiva della traduzione e la resistenza al fascismo
il libro di Valerio Ferme Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale sotto il
Fascismo, Longo Editore, Ravenna 2002, (L’interprete, 70), pp. 15-19.
27
C. PAVESE, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962, p. 247.
28
Riprendo l’incipit del primo capitolo del libro di Maurizio Cesari La censura nel periodo
fascista: «“…Oggi la stampa è ridotta a dire solo quello che il Governo e i suoi prefetti le
consentono, come durante la guerra. Anzi peggio: perché durante la guerra vigeva giustamente
la censura, ed il censore rendeva noti i criteri quasi sempre ovvii a cui il Ministro degli Interni si
ispirava. Adesso no: si è sequestrati a casaccio, non con criteri politici di interesse generale, ma
con criteri ispirati da considerazioni e necessità personali. I divieti più enormi vengono imposti.
Si perseguita più questo che quel giornale. Chi scrive ha il tormento di non sapere ciò che può
dire e non dire, fino a qual punto può spingersi nelle notizie e nelle critiche. Ed egli non ha
nemmeno la certezza che il sequestro sia la sola disgrazia in cui può incadere. No: come
c’insegnano i casi della Voce Repubblicana e del Caffè e la recente vicenda del maggior organo
di opposizione democratica, del Mondo, ai sequestri può far seguito la diffida che [prelude] alla
soppressione del giornale, sospensione o soppressione che, inflitta non dalla magistratura, ma
dal potere esecutivo, rappresenta non soltanto un’enormità giuridico-morale senza esempio, ma
anche una penalità che colpisce duramente i proprietari, i redattori, gli operai, il personale tutto
del giornale. Dove si vuole arrivare? A non far vivere più che la stampa ligia al Governo?...”.
Con questo stralcio di un discorso tenuto dal senatore Luigi Albertini al Senato il 07 maggio
1925, entriamo nella torbida atmosfera di quegli anni in cui il Governo Mussolini aveva
ingaggiato la sua battaglia per l’eliminazione sistematica di ogni stampa d’opposizione.», in M.
268
«Per quanto riguarda i libri, il Regime fascista si era interessato ad un loro controllo fin
dagli inizi degli anni trenta, ma in modo episodico, senza portare avanti una vera e propria
politica censoria, per cui erano in circolazione e si potevano leggere finanche nelle biblioteche
(controllate da commissioni dipendenti dal Ministero dell’Educazione nazionale) libri
antifascisti o romanzi della letteratura americana (tanto malvista dal Regime). In realtà il
Ministero dell’Interno controllava, tramite i prefetti, le letture degli italiani e lo stesso ministro
a volte era intervenuto per togliere dal commercio libri ritenuti chiaramente sovversivi o
“pericolosi”. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i criteri censori dei prefetti erano polizieschi
e completamente inadeguati per l’assoluta mancanza di cultura e di sensibilità, indispensabili per
esprimere un giudizio sui lavori letterari (specie se di un certo valore). Quando nacque il
Ministero per la stampa e la propaganda [26 giugno 1935; Ministro fino all’11 giugno 1936:
Galeazzo Ciano; sottosegretario e successivo ministro dall’11 giugno 1936: Edoardo (Dino)
Alfieri], il servizio di censura ai libri passò dal Ministero dell’Interno alla Direzione generale per
la stampa italiana, dove una speciale divisione cominciò ad analizzare tutti i libri italiani che
venivano messi in circolazione.
Molti libri furono vietati, altri rimandati agli editori ed autori con numerosi tagli; per
tutti ci sembra interessante sottolineare il caso del Garofano rosso di Vittorini che, pubblicato a
puntate in Solaria, ne determinò insieme con il racconto Le figlie del generale di E. Terracini, la
soppressione.»29.
dedicata alla letteratura straniera in quanto tale30: erano gli argomenti considerati
scabrosi o poco attenti a far emergere una visione virtuosa dell’Italia fascista ad
CESARI, La censura nel periodo fascista, Liguori Editore, Napoli 1978, (Le istituzioni culturali,
3), pp. 11-12.
29
Ivi, pp. 52-53.
30
Le informazioni delle prossime pagine riguardanti la relazione fra letteratura straniera e
fascismo sono rielaborate interamente dal saggio di Christopher Rundle Il ruolo/la (in)visibilità
del traduttore e dell'interprete nella storia. Importazione avvelenatrice: la traduzione e la
censura nell'Italia fascista, in AA. VV., «Il traduttore nuovo», Atti delle conferenze organizzate
da AITI Liguria nell'ambito delle manifestazioni Genova 2004, Capitale Europea della Cultura,
Associazione Italiana Traduttori e Interpreti, Numero speciale 2004/1-2, vol. LX, pp. 63-76.
31
«Dal clima culturale dell’epoca e dal modo in cui il regime censurava la stampa, era chiaro
che si dovevano evitare storie di suicidio, aborto, incesto, storie contenenti scene
“pornografiche” o critiche a Mussolini o al regime.», in ivi, p. 68.
269
lettera dai toni aspramente critici contro il dilagare di pessime traduzioni di
romanzi stranieri in italiano, e quindi contro le proposte che case editrici, “fin
troppo note”, facevano alle masse popolari pubblicando libri a basso costo in un
di più dalle altre lingue, ma le cui opere erano meno tradotte negli altri Paesi,
«Nel 1929 […] la pubblicazione dei primi Libri gialli della Mondadori inaugurò una
lunga stagione di successi con traduzioni di romanzi popolari in edizioni economiche a grandi
tirature e distribuiti anche con sistemi innovativi, come la vendita nelle edicole in forma di
dispensa. Va ricordato che un romanzo italiano medio poteva sperare di vendere 3000-5000
copie nell’arco di qualche anno mentre il primo romanzo giallo di Edgar Wallace vendette più
di 50,000 copie nei primi mesi. Oltre alla Mondadori, molte altre case editrici lanciarono serie
dedicate alla letteratura tradotta: Sperling & Kupfer lanciarono i Narratori nordici e una serie
intitolata Pandora; Bietti avviò una Biblioteca Russa, e Slavia pubblicò due serie intitolate Genio
russo and Genio slavo; La Modernissima iniziò una serie chiamata Scrittori di tutto il mondo che
sarebbe poi passata a Corbaccio e apparvero altre serie edite da Sansoni, UTET, Sonzogno,
Treves Treccani Tumminelli, Vallardi e Zanichelli.»
straniera33:
32
Ivi, p. 64.
33
Per spiegare questo disinteresse del regime Rundle scrive: «Innanzitutto un conflitto di
interessi tra due attori nel mercato librario non era necessariamente un problema per il regime;
270
«[La situazione sfociò] in uno scontro quasi sindacale tra gli autori da una parte che si
sentivano minacciati dai bestseller stranieri, e gli editori dall’altra, i cui legittimi interessi
commerciali venivano tacciati come anti-patriottici e la loro produzione veniva accusata di essere
di bassa lega e addirittura dannosa. Però, la campagna costrinse gli editori a riconoscere che le
traduzioni stavano diventando un “problema”. Nell’ aprile del 1934, durante l’Assemblea
Generale della Federazione degli Editori, il vice Presidente Antonio Vallardi affrontò la
questione con un’ammissione molto franca della difficoltà della situazione:
“Altro fenomeno che merita la nostra attenzione è quello delle traduzioni. L'Italia è il
paese che traduce di più come prova l'Index Translationum, in modo irrefutabile. […] È un bene
o un male che l'Italia sia la maggior tributaria della letteratura straniera?”
“[È un problema] che investe essenzialmente la letteratura amena, mentre nella scienza
e nell'arte, nelle discipline storiche come nelle giuridiche, nella filosofia e nella didattica l'Italia
è ormai quasi del tutto svincolata dalla sudditanza straniera.” […]
Qui Vallardi ammette l’imbarazzo politico degli editori usando termini molto forti. Per
quanto legittimi i loro interessi commerciali, per quanto il mercato continuasse a richiedere
questi prodotti, non si poteva negare la cattiva luce che i dati sulle traduzioni gettava su di loro,
dati che confermavano che l’Italia fosse la “maggior tributaria” della letteratura straniera, dati
che rivelavano l’Italia in un ruolo di “sudditanza” culturale, ideologicamente inaccettabile.» 34
Non essendo i libri sottoposti alla censura preventiva, ma subendo spesso atti di
aveva ormai stretto le maglie della censura in favore del vettore di un’autarchia
il fatto che l’editoria italiana si stesse modernizzando era un dato positivo e l’industrializzazione
dei sistemi di produzione e distribuzione, che avveniva anche grazie al successo delle traduzioni
dei romanzi popolari, rientrava in una visione fascista di produzione culturale. Fino a quando la
traduzione era vista come uno scambio culturale “sano”, cioè un scambio reciproco tra culture
alla pari, essa non poneva un problema per il regime. Fintanto che il regime non coltivava
progetti di espansione culturale attraverso le traduzioni dall’italiano, non si avvertiva alcuna
esigenza a porre dei limiti a questo mercato così proficuo. Ma quando, poi, sarebbe diventato
chiaro che nella realtà il fenomeno non rappresentava né uno scambio alla pari, né tanto meno
un’espansione, ma invece una eccessiva ricettività italiana, l’atteggiamento del regime sarebbe
cambiato.», in ivi, pp. 66-67.
34
Ivi, p. 66.
35
Ricordo inoltre che l’attenzione del regime, dal 1938 in poi, sarà catalizzata dal problema della
271
«In questo clima di nazionalismo esasperato e di “preoccupazioni” per gli effetti
potenzialmente dannosi di tutto quello che è straniero, esterno e implicitamente inferiore, non
sorprende che il regime cominciasse a guardare con più attenzione all’influsso costante di
traduzioni e che avvertisse una contraddizione tra l’ideale della cultura dominante fascista che
conquista il mondo da una parte, e la realtà della cultura Italiana dall’altra, che assorbe più
prodotti stranieri di qualunque altro paese al mondo. Il primo provvedimento che sono riuscito
a trovare che riguardi specificamente le traduzioni è del gennaio 1937. Si direbbe quindi che fino
a quella data le traduzioni sono state trattate come qualsiasi altra pubblicazione non-periodica,
senza una procedura formale specifica, e tanto meno una legislazione. Nel gennaio del 1937,
invece, l’MCP informa gli editori attraverso un circolare alle prefetture che devono informare il
ministero “preventivamente” ogni volta che decidono di tradurre un’opera straniera – non
chiedere il permesso di tradurre, ma semplicemente informare l’MCP. Questo non era un
provvedimento particolarmente serio ma era un primo segnale che l’MCP stesse cominciando ad
interessarsi in maniera diversa delle traduzioni, esigendo di conoscere quante erano le traduzioni
in programma e chi li avrebbe pubblicate. Poi, nel gennaio 1938, lo stesso mese in cui Marinetti
portò la sua mozione al Ministro Alfieri 36, l’MCP chiede agli editori una lista completa, da
inviare “con massima sollecitudine”, di tutte le opere straniere già pubblicate e quelle in progetto.
Questo era già un segnale più preoccupante per gli editori, e lo si vede anche dalla reazione di
Arnoldo Mondadori. Mondadori scrisse al ministero dicendo che la sua casa pubblicava poche
traduzioni e allegò una lista dove dichiarava di aver pubblicato 269 traduzioni dalla fondazione
della sua casa fino al 31 dicembre 1937 e annunciava 29 traduzioni per il 1938. In realtà aveva
pubblicato 707 traduzioni fino al 1937 e ne avrebbe pubblicato 91 nel 1938. Con un abile colpo
di mano toglie dal suo elenco tutte le opere che venivano stampate in forma di dispensa con la
giustificazione che queste avevano “vita effimera” e che quindi non meritavano di essere prese
in considerazione – il che è alquanto discutibile dato che si riferiva a due serie, i Libri gialli e i
Romanzi della palma, che includevano quasi la metà delle traduzioni da lui pubblicate. Colpisce
il modo in cui Mondadori manipolava i suoi dati in maniera così trasparente, ma colpisce anche
il fatto che l’MCP abbia accettato questo escamotage senza obbiettare – il che non fa che
confermare che nell’Italia fascista contava molto di più l’obbedienza apparente, l’essere
pubblicamente ligio al dovere, che non la realtà di quello che facevi.».37
razza anche a livello librario, fino alla nascita della “Commissione di bonifica del libro” ai danni
degli ebrei: «Tutta la produzione letteraria degli ebrei fu sottoposta ad un severo esame per
togliere dal commercio la maggior parte dei libri di autori ebrei; inoltre si stabilì che per le nuove
produzioni, specialmente se di religione, diritto, letteratura, arte, storia, scienze antropologiche,
si doveva esercitare un controllo assai più severo di quello normale, ed ispirato a netti principi
razzisti. Tale opera di revisione fu esercitata dalla “Commissione di bonifica del libro” di recente
creazione. Il 10 novembre 1938 furono approvate dal Consiglio dei ministri le leggi per la tutela
della razza in seguito alla deliberazione del Gran Consiglio del 06 ottobre. La censura allora fu
inesorabile per cui nel giro di due mesi furono soppresse tutte le pubblicazioni ebraiche. Si giunse
perfino alla compilazione di un elenco delle case editrici che dovevano modificare il nominativo
ebraico.», in CESARI, La censura…, p. 60. Nella relativa nota a p. 74 è riportato l’elenco dei
mutamenti: «Casa editrice Bemporad = Poliziano; Casa editrice Lattes = Editrice libraria italiana
S.A.; Casa editrice Treves = Soc. An. T.R.E.V.E.S.; Casa editrice Formiggini = Edizioni
dell’I.C.S.».
36
Marinetti colse l’occasione del rinnovato spirito autarchico-imperialista per presentare,
insieme al Sindacato degli Autori e Scrittori, una mozione all’allora Ministro del MinCulPop,
Dino Alfieri, mozione che fra le altre cose proponeva «una commissione ministeriale per il vaglio
delle traduzioni che doveva servire a “limitare l’invadenza delle opere straniere” e che doveva
imporre un sistema di reciprocità “specie per quanto riguarda la letteratura narrativa e la così
detta letteratura gialla” (specificazione che conferma come gli autori si sentivano minacciati in
particolare dal successo delle traduzioni in questo campo); e un albo dei traduttori che li avrebbe
portati sotto l’egida degli autori, condividendo i loro stessi interessi, e allontanandoli dagli editori
che li impiegavano.», in RUNDLE, Il ruolo…, p. 69.
37
Ivi, pp. 71-72.
272
È difficile riuscire a formulare con nettezza un giudizio circa la relazione
temporalmente nel loro culmine: si tratta del biennio 1937-1938. Negli anni post
che non si riconoscono nel conformismo culturale del regime, diventa il luogo
poesia. Vi collaborano, tra gli altri: Treccani, Del Bo, Lattuada, Sereni, De
In quegli ultimi anni della sua vita Antonia sembra aver trovato un sentiero per
la desiderata applicazione della cultura vasta e approfondita che sia era creata
nei dieci anni precedenti, a partire dalle appassionate traduzioni liceali, sino
38
Aldous Leonard Huxley (Godalming, 26 luglio 1894 – Los Angeles, 22 novembre 1963),
scrittore britannico conosciuto per l’immaginario distopico creato nel suo più famoso romanzo,
Brave New World, tradotto in Italia nel 1933 da Lorenzo Gigli per i tipi di Mondadori sotto il
titolo di Il mondo nuovo.
39
POZZI, Diari, p. 101. La citazione è tratta dalla nota n°23, curata da Onorina Dino.
40
Ivi, pp. 101-102.
273
fascista, come appunto Aldous Huxley, di cui la poetessa possedeva gran parte
pubblicato sino al 193841. Tutto questo fermento era forse dovuto anche alla sua
scrive in una lettera ad Alba Binda del 7 luglio 1938, riferendosi a Lampioon
küsst Mädchen und kleine Birken di Manfred Hausmann)45 (romanzo del 1928
41
Cfr. ivi, p. 102. Confrontando personalmente nella biblioteca pozziana, ho rilevato la presenza
dei seguenti titoli in italiano: A. HUXLEY, Due o tre Grazie (titolo originale del racconto: Two ot
Three Graces, 1926), traduzione di Alfredo Pitta, Monanni, Milano 1933; Giallo Cromo (titolo
originale del romanzo: Crome Yellow, 1921), trad. di Cesare Giardini, Monanni, Milano 1932;
Il sorriso della Gioconda (racconto, The Gioconda Smile, 1921), Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1933 (Medusa, 5); Dopo i fuochi d’artificio (After the fireworks, 1930), Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1937 (Medusa, 69). In francese sono presenti: Croisière d’Hiver en
Amérique Centrale, (Beyond the Mexique Bay, 1934; prima traduzione italiana Oltre la baia del
Messico, trad. di Daniela Del Sero, F. Muzzio, Padova 1994), Librairie Plon, Paris 1935; La paix
des profondeurs (Eyeless in Gaza, 1936), voll. I e II, Librairie Plon, Paris 1937; Contrepoint,
(Point counter Point, 1928), voll. I e II, Librairie Plon, Paris 1930 (firmato all’interno: «Antonia
Pozzi Letto a Pasturo, settembre 1937»); Les Meilleur Des Mondes (Brave New World, 1932),
Librairie Plon, Paris 1933. Solo due i libri in lingua originale (inglese): Music at night and other
essays, Tauchnitz Edition, Leipzig 1931 (Collection of British and American Authors, 5017);
Those Barren Leaves, Tauchnitz Edition, Leipzig 1928 (Collection of British and American
Authors, 4816).
42
«Io lavorerò, Flaubert m’insegni.», in POZZI, Diari, p. 47.
43
Ricordo il senso altamente morale di questa volontà di prassi ritrovandolo nelle stesse,
purtroppo frammentate, parole di Antonia: «…A volte mi sembra che l’unica possibilità di vita,
per me, stia lì; l’unica possibilità morale, intendo; perché sarebbe uno sforzo di volontà continuo,
lo sforzo più grande ch’io possa fare: vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vivere…
Ah, sogni, ancora sogni… chi mi dice se è sogno o dovere?...», in POZZI, Ti scrivo…, p. 180. Si
tratta del frammento di una lettera del 9 settembre 1933 trascritta a mano da Roberto Pozzi e
indirizzata a Paolo Treves
44
POZZI, Ti scrivo…, pp. 296. In quel libro Antonia ha fatto seccare numerose stelle alpine. Il
Roberto Pozzi scrisse sulla pagina iniziale del libro, a matita: «I fiori, contenuti fra le pagine, /
si furono posti dalla povera / Antonia si prega si conservarli / Il papà.».
45
Sull’argomento cfr. A. MORMINA, Una traduzione inedita di Antonia Pozzi: Lampioon di
Manfred Hausmann, in «Rivista di Letteratura Italiana», Pisa-Roma, XXVIII, 3 (sett.-dic. 2010),
pp. 75-112. Onorina Dino riporta una citazione parziale e inedita nell’introduzione che scrive a
POZZI, Diari, p. 15: «E intanto comincia a tradurre dal tedesco Lampioon […] dove il destino di
Lampioon è il suo, ma anche quello di tutti gli uomini: “…Noi siamo tutti in cammino, anche tu,
di’ quel che vuoi, anche tu. Ma molti di noi hanno una meta. Ogni giorno hanno una meta, una
274
ancora inedito in Italia il cui titolo suonerebbe Lampioon bacia ragazze e giovani
l’autore della Fontana (che, tra parentesi, non mi piace affatto, perché troppo
romanzo, che sarà – come nocciolo – la storia della mia nonna, cioè la storia
la posizione politica del padre, a cui lei era molto legata, il quale ricoprì la carica
di Podestà di Pasturo dal 1935 al 194249) di Antonia, anche solo nella scelta del
volta piccola, una volta grande, e si impongono delle privazioni e non guardano né a destra né a
sinistra finché non l’hanno raggiunta. E poi? Niente. Sì, hanno raggiunto la loro meta. E alla fine
si buttano giù e muoiono.»
46
Gabriella Rovagnati in “Parole-Worte”. Per far conoscere Antonia Pozzi al pubblico tedesco,
descrive così la relazione di Antonia con l’opera di Hausmann: «Faceva certamente parte del suo
desiderio di appropriarsi del tedesco anche il lavoro di versione di un romanzo di Manfred
Hausmann (1898-1986), che Antonia iniziò nell’estate del 1938, quando, dopo essere stata
operata d’appendicite, trascorse un periodo di convalescenza nella sua amata Pasturo.
Hausmann, che proprio nell’anno della morte di Rilke, nel 1926, si era trasferito con la famiglia
a Worpswede – il villaggio presso Brema che anche nella vita del poeta di Praga aveva significato
molto –, fu giornalista e scrittore assai prolifico, e al successo arrivò nel 1928 proprio con il
romanzo Lampioon […], che, per quanto mi risulta, non è mai stato tradotto in italiano. Come
mai Antonia Pozzi decise di tradurre proprio quel volume, è difficile stabilirlo. Probabilmente
qualcuno gliene aveva consigliato la lettura o forse quel libro, che porta il sottotitolo Abenteuer
eines Wanderers [Avventure di un vagabondo] le piaceva per le sue appassionate descrizioni di
paesaggi vissuti come spazi della libertà e della totale assenza di costrizione. Come mai Antonia
non abbia deciso di tradurre invece poesie, benché anche in questo caso siano possibili soltanto
illazioni, si deve forse al fatto che lei stessa aveva deciso di cimentarsi con la prosa.», in AA.
VV., …e di cantare…, p. 155.
47
Charles Langbridge Morgan (1894-1958), scrittore inglese. The fountain a cui accenna la
poetessa è del 1932. È presente nella sua biblioteca nell’edizione Mondadori (Medusa, 33) del
1937. Dello stesso autore e della stessa collana (Medusa, 91), si trova anche Nel bosco d’amore
(titolo originale Sparkenbroke, 1936), edito in traduzione italiana nel 1938.
48
POZZI, Ti scrivo…, pp. 296-297.
49
Cfr. La sezione del sito internet Il Grinzone intitolata Pasturo e la guerra che si apre così:
«Nel 1942 il podestà Pozzi si dimetteva dopo sette anni di attività. Passarono mesi prima che
venisse sostituito da Isaia Bonasio, con comunicazione del prefetto Rino Parenti in data 17 aprile
1943. Nel frattempo, nei primi mesi di quell’anno, era nato a Lecco un comitato di azione
275
romanzo da analizzare, Eyeless in Gaza (letto da lei nella versione francese).
Pubblicato nel 1936, inedito in lingua italiana fino all’edizione del 1950 di
Sansone, giudice-eroe dalla forza prodigiosa, viene imprigionato dai Filistei, che
L’analisi della Pozzi si concentra sul tema del sangue che lega il romanzo al suo
World, «colui che non accetta il Mondo Nuovo perché qui “nulla si paga
abbastanza caro”, colui che vuole Dio, vuole la poesia, il pericolo reale, la
Pozzi tradisce, nella tensione irrequieta del Selvaggio letta fra parentesi, la sua
l’azione:
«(e noi ancora, latini ed europei, con tutto il cristianesimo e il romanticismo che
portiamo nel sangue, come sentiamo di somigliargli!)»52.
scegliere la propria infelicità, fuori dai confini di una realtà in cui il futuro è già
antifascista, che comprendeva anche don Giovanni Ticozzi, nato a Pasturo nel 1897 e preside del
Liceo Classico.»
50
Tradotto da Paola Ojetti, nella collana Medusa, 250. La Pozzi lo leggerà nell’edizione francese
sopra menzionata, con il titolo La paix des profondeurs.
51
POZZI, Diari, p. 86.
52
Ibidem.
276
deciso. Con queste parole a mettere in risalto la scelta del Selvaggio, la Pozzi si
non sulla cronologia degli eventi ma sulla sovrapposizione di attimi di una «vita
di più dalla pudicizia fascista che il suicidio del migliore amico del protagonista
Basterebbero queste notazioni per affermare che il tracciato della Pozzi verso
traduzione che la Pozzi adotta nel suo intervento per diramare l’immaginario di
53
Ivi, pp. 86-87.
54
Ivi, p. 87.
55
Ivi, p. 88.
56
Ibidem.
277
Huxley, vorrei far emergere quanto della professionalità di Antonia nella
visione del mondo57 di regime, unitaria. Non per niente il romanzo del britannico
da cui la Pozzi parte per l’analisi di Eyeless in Gaza è uno scritto a più voci del
Contrappunto rifacendosi all’idea musicale di contrasto che questo titolo con più
facilità poteva evocare e che nella sua analisi rispondeva con più aderenza alla
«una posizione di estremo, delicatissimo equilibrio fra quella sua intelligenza da un lato,
vastamente comparativa e critica, tesa ad abbracciare ottave amplissime di realtà sovrapposte
(dalle note basse del mondo fisico a quelle eccelse e spiranti in silenzio delle sfere spirituali), e
la mordente nostalgia dell’umanità dall’altro.»59
Effettivamente il titolo dato da Huxley, Point counter point si riferisce alla forma
del libro, quasi un dibattito fra differenti storie che si intrecciano fra loro su un
57
Il termine tedesco usato è quello proprio della filosofia, Weltanschauung, come si vedrà più
avanti.
58
Rispetto al titolo tradotto in italiano nel 1933 da Silvio Spaventa Fillippi per Sonzogno e che
ancora oggi (per la casa editrice Adelphi 2011, trad. di Maria Grazia Bellone) è Punto contro
punto (forma che deriva dal latino medievale punctus contra punctum e che significa
letteralmente, “nota contro nota”). La scelta della Pozzi, più moderna e immediata nel suo legame
con la terminologia musicale, probabilmente è anche influenzata dal titolo della versione
francese che ha letto, Contrepoint.
59
POZZI, Eyeless in Gaza, in ID., Diari, p. 85.
60
Mi riferisco sempre ad un’eccentricità rispetto ai canoni di letteratura accettati dal regime.
278
«Un giornalista timido e inconcludente, certo soltanto di non amare più la donna con
cui vive; un pittore di fama mondiale, celebre anche per i suoi scandali privati; il direttore di una
rivista letteraria, meschino e ipocrita ma dotato di una sorprendente capacità di seduzione; una
giovane ereditiera vanesia, amorale e condannata all’eterna insoddisfazione: sono solo alcuni dei
personaggi che nella Londra degli anni Venti intrecciano le proprie vite – tra passione e infedeltà,
violenza politica e noia esistenziale, volontà di dominio e paura della morte – in questo superbo
“romanzo di idee” di Aldous Huxley. “Il carattere di ciascun personaggio dovrà emergere, per
quanto è possibile, dalle idee di cui è portavoce. Dato che le teorie sono la razionalizzazione di
sentimenti, istinti e stati d’animo, si tratta di una cosa fattibile”. La dichiarazione d’intenti,
affidata al taccuino di uno dei personaggi, è esplicita quanto la tecnica di composizione, ispirata
al contrappunto – come in Beethoven: “La maestosità che si alterna con la leggerezza ... La
commedia che di colpo accenna a prodigiose e tragiche solennità”. Tecnica che Huxley
padroneggia mirabilmente, combinando cinismo ed empatia, raziocinio e caricatura nella sua
spietata dissezione di comportamenti e moventi psicologici. Il risultato è una satira paradossale
che mantiene immutata la sua freschezza, così come immutati restano i conflitti, le paure e i
desideri umani.»61.
rispetto alla visione borghese della società contemporanea – genera per Antonia
l’idea di apertura da cui partire per l’analisi di Eyeless in Gaza, ossia l’immagine
nell’analisi dell’opera del 1936, la penna critica della Pozzi arriverà a rilevare
persona:
«Huxley si è ancora più a fondo curvato sul microscopio; e, per analogia con l’atomicità
dei corpi, l’atomicità dello spirito gli diventa attuale e urgente verità di vita. “È finita – scrive
Anthony – con la sua personalità nel vecchio senso della parola. Era riservato a Blake di
razionalizzare l’atomismo psicologico per farne un sistema filosofico. L’uomo secondo Blake
(e, dopo di lui, secondo Proust, secondo Lawrence) è semplicemente una serie di stati. Il bene e
il male non possono essere affermati che relativamente agli stati e non per quello che concerne
gl’individui, i quali, di fatto, non esistono se non come i luoghi dove si verificano gli stati. (Non
è questo – fra parentesi – il principio di una nuova specie di personalità? Quella dell’uomo totale,
non evirato, non selezionato, non canalizzato, per variar la metafora, lungo un qualunque e
particolare tubo di scarico che costituisce una Weltanschauung – dell’uomo, in una parola, che
è effettivamente ciò che può essere?)”. In questa concezione della personalità come aggregato di
stati atomici ha la sua spiegazione la tecnica ardita e nuova di Eyeless in Gaza. »62.
61
A. HUXLEY, Punto contro punto, Adelphi, Milano 2011, risvolto di copertina.
62
POZZI, Eyeless in Gaza, in ID., Diari, p.89.
279
Si deve supporre che, essendo Eyeless in Gaza inedito in Italia, la traduzione del
passo citato sia della Pozzi: la poetessa sceglie di portare la voce del protagonista
attraverso queste parole che annunciano una novità del pensiero e al contempo
singolarità che cerca via via la verità della propria risposta nell’esperienza
quotidiana, ho dato numerosi esempi nei capitoli precedenti: si tratta della sua
per la fluidità pirandelliana; della volontà di diventare sempre più se stessa che
umane a seconda di ciò che viene programmato dalla società, e non credo sia un
280
per il protagonista di percepirsi e narrarsi attraverso un filo cronologico e
narrazione spinge la Pozzi ad una considerazione sul tema arte-vita che non può
che avere risvolti molto interessanti e vicini alla sua stessa ricerca63: un tema
connesso con una percezione della morte vista come gesto reiterato per uscire
63
Cfr. ivi, p. 90: «Se già in Contrappunto e nel Mondo Nuovo la prosa narrativa si era spezzata,
dando luogo ad accavallamenti e a intrecci più fitti, ciò era stato per dare forma ad una
sovrapposizione di piani più che altro spaziali: qui invece sono di indole cronologica. Ma
badiamo: questa tecnica della rievocazione non ha nulla in comune con la lenta, tortuosa,
aggrovigliata esplorazione a ritroso del je proustiano. Quello snoda un suo esile e complesso
gomitolo luminoso per i corridoi della memoria: qui sono vere sciabolate crude di luce, come di
un faro che giri assiduo, segando e frugando a volta a volta gli angoli più remoti di un cielo
nitido. Non atmosfera di stanza chiusa, non creazione di un mondo d’arte, di conoscenza,
strettamente valido per se stesso, esiliato dal mondo reale; ma definizione precisa di gradi
progressivi di una conoscenza della realtà che, a un certo punto, per essere sempre più vasta e
profonda, non si contenta più, toccato il limite esterno dell’analisi e della disgregazione, della
sua capacità critica, ed ecco, mira a risalire verso la vita, per trovarvi la giustificazione di se
stessa.»
64
Cfr. ivi, p. 87: «Questo tema del sangue ci introduce direttamente nel mondo di Eyeless in
Gaza, di Sansone cieco al mulino con gli schiavi, che nella profondità delle sue tenebre coscienti
esplora il mistero della vita, giù fino all’analisi del suo sangue e di quello dei fratelli, giù fino al
disgregamento fisico e spirituale della personalità in atomi vitali indifferenziati e poi, da questo
smisurato mare sotterraneo, a capofitto, in uno slancio deliberato, di nuovo nella vita, nell’amore
della vita – anche se questa dura una notte sola e l’indomani sarà la morte, poiché certe
rivelazioni di completezza non si possono pagare altro che con la morte; (anzi, proprio nella
morte accettata e cercata in nome di quella vita riconosciuta concreta e assunta a idealità, sta la
resurrezione dal mondo dell’intellettualismo, apatico, il riscatto del pensiero nel gesto).».
281
esperienza, su un altro piano, per mezzo della meditazione, nel lampo dell’intuizione diretta…
“In quello stato di spirito contemplativo che serve per abbordare gli altri, in quello sforzo di
realizzare l’unità delle vite e dell’essere con l’intelletto e infine – intuitivamente – in un atto di
comprensione completa. Da un argomento all’altro, passo per passo, verso una consumazione
ove non sia più ragionamento alcuno, dove non ci sia più che l’esperienza, che la conoscenza
immediata, come quella di un colore, di un profumo, di un suono. Passo per passo verso
l’esperienza di non essere più interamente separato, ma di essere unito nel profondo con le altre
vite, col resto di ciò che è”. Unito in pace, nella pace oscura degli abissi, lontano dalle onde
mutevoli…
In queste profondità si conclude il dramma dell’autocoscienza, il pensiero si giustifica
sgorgando immediatamente in volontà d’azione.
L’equilibrio critico fragilissimo di Contrappunto si spezza. Ad Anthony che
domandava: “come si può essere simultaneamente senza passione e non indifferente, avere la
serenità di un vecchio e l’attività di un uomo giovane?” risponde dal profondo il sorriso
onnicosciente dell’Apollo di Veio.
La solitudine del Selvaggio percosso, la solitudine di Sansone cieco alla macina con gli
schiavi trovano qui finalmente lo sgorgo verso l’assurda, inaccettabile, e per questo
irrazionalmente accettata realtà della vita.»65
Inutile sottolineare quanto della Pozzi sia condensato in queste righe conclusive
del saggio, quanto del suo tentativo costante di tenere aperta la relazione con
che nel sentimento della sua cultura classica, nell’uso di quell’immagine del
sorriso onnicosciente dell’Apollo di Veio67 che non ha niente a che fare con
65
Ivi, pp. 93-94.
66
Citando da Eyeless in Gaza, traduce: «Forse noi siamo in realtà ciò che sembriamo essere nel
sonno. Innocenza e pace, – l’essenza dello spirito, tutto il resto non essendo altro che semplice
accidentalità», in ivi, p. 88.
67
Cfr. ivi, p. 85-86. L’Apollo di Veio compare all’inizio del saggio in relazione a Fanning
personaggio di Fuochi d’artificio, racconto che si trova in Dopo i fuochi d’artificio e altri
racconti pubblicato in traduzione da Mondadori nel 1936. «Di questa tensione fra chiarità
cosciente e penombra istintiva si intesseva anche il sorriso dell’Apollo di Veio, caro a Fanning
di Fuochi d’Artificio; il sorriso di un Dio che era il ritratto di Omero; di Omero, ma col sorriso
etrusco: di Omero che sorride alla triste, misteriosa, splendida assurdità del mondo.
“Disgraziatamente – concludeva Fanning – un uomo può sorridere e sorridere e non diventare
perciò Apollo”.»
282
l’esaltazione del littorio – che non posso fare a meno di rilevare lo stacco
In merito alla scelta di questo testo e di questo autore da parte della Pozzi,
Graziella Bernabò rileva una sostanziale identità fra la sensibilità della poetessa
riportando le parole della Bernabò, Anthony compie «una metamorfosi che [lo]
68
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 281-282.
283
impegno, di tenere una conferenza politica volta a denunciare un gruppo di tipo
certamente non vengono tutti chiariti da Antonia, che non può, in epoca fascista,
al regime quando scrive queste pagine, credo si possa affermare che la sua presa
di coscienza nei confronti di una realtà, personale e sociale, che stava diventando
In questo senso, per ribadire l’importanza del ritessere i fili sottili di queste
69
Ibidem.
70
D. FORMAGGIO, Una vita più che vita in Antonia Pozzi, in AA. VV., La vita irrimediabile. Un
itinerario tra esteticità, vita e arte, a cura di Gabriele Scaramuzza, Alinea Editrice, Firenze 1997,
p. 143.
284
Più avanti nel saggio dedicato all’amica, Una vita più che vita in Antonia Pozzi,
«Per comprendere [l’espressione artistica della Pozzi] è ancora necessario tentare l’altro
cammino, da coniugare con quello della interiorità psichica; che è quello, pur esso fortemente
accidentato, dei condizionamenti – dove nulla nasce dal nulla – dell’intorno storico e ambientale
dal quale e in mezzo al quale, l’arte e la poesia vengono a nascere e a compiersi. […] Si tratta di
sgrovigliare qualche filo di una matassa di eventi che, nell’oscuro avviarsi di quelli che altrove
avevo definiti “i terribili anni Trenta” teneva legati società e individui. La loro crescente violenza
in Europa venivamo noi allora considerando ad occhi bene aperti, ma in uno stato di inquietudine
crescente. Il graduale approssimarsi della seconda guerra mondiale filtrava ogni giorno di più
sotto la nostra pelle e condizionava gli incontri della vita universitaria e fuori, la vita dei corpi e
degli atteggiamenti culturali e sociali. Spingeva i gruppi di un diverso sentire esistenziale e
ideologico a serrarsi sempre più stretti o a dividersi sempre più decisamente, nelle strade come
nelle case. L’atmosfera era quella di un frequente rinchiudersi su se stessi, come di un
raggricciarsi raggelato degli entusiasmi e delle speranze, per il sopraggiungere improvviso di
venti glaciali, sotto il succedersi, l’una dopo l’altra, di funeste notizie.
Diverso era il rifrangersi in ciascuno di noi, a seconda della vita che avevamo alle spalle
e dei diversi stati di sensibilità e di visione del mondo, di cui, in quei momenti preliminari a dure
scelte, potevamo disporre. Altro per me, che venivo dalle officine meccaniche del proletariato
milanese, e altro per chi veniva da ambienti più ovattati e da grembi famigliari di ricchezza e di
cultura. Le divisioni interne profonde restavano e inconsciamente agivano nei rapporti
interpersonali»71.
Formaggio passa quindi in rassegna fatti storici cruciali, come il primo formarsi
quando Hitler dopo due anni di cancellierato annette la regione mineraria della
nota diaristica: «Mussolini ha detto che il 1935 è un anno cruciale. Direi proprio
71
Ivi, pp. 149-150.
72
Ivi, p. 150.
73
POZZI, Diari, p. 42.
285
nella sua vita, soprattutto a seguito dell’intenzione di esporre al giudizio di Banfi
la sua anima poetica, oltre alla progressiva perdita delle amiche più care a causa
delle loro scelte di vita (il matrimonio per Maria Giussani, il convento per Lucia
Bozzi), fino alla fatica del lavoro di tesi su Flaubert (discussa nel novembre di
quell’anno).
«Ma sempre nel 1935, nuovi allarmanti fuochi di guerra sorgono e investono il vivere,
il pensare, i rapporti interpersonali, il senso di destino di ciascuno di noi: l’allargarsi incendiario
della guerra civile spagnola, con la partecipazione di armi fasciste e naziste e di volontari
anarchici e social-comunisti, ulteriormente incideva sulla divisione degli animi nei gruppi e nelle
case. Due anni dopo, nell’aprile del 1937, l’aviazione tedesca sperimentava il primo
bombardamento a tappeto della sua aviazione su una popolazione civile; Guernica […] Ed
ancora, nel 1935, in Italia il paese veniva portato nei gorghi di una guerra coloniale con
l’invasione dell’Etiopia.
Noi non dormivamo e discutevamo tutto, con accanimento, fino all’esasperazione. Non
solo perché si avvicinava qualcosa che metteva in mezzo la pelle, ma perché, dentro e fuori
l’Università, sentivamo il profilarsi di ineludibili urgenze di scelte decisive di destino, tra
soffocazioni culturali di decisioni ideologiche e politiche, di duri scontri polemici. Si aggiunga
l’atmosfera dei presentimenti, che sempre più terrificanti ci penetravano, dell’avanzare
precipitoso e inarrestabile di una seconda, ormai sovrastante, guerra mondiale.»74
Sul finire del 1935 la voce della Pozzi si leva a sottolineare i risvolti inquietanti
Le donne75 Notturno76
74
FORMAGGIO, Una vita…, p. 151.
75
POZZI, Parole, p. 391.
76
Ivi, p. 393.
286
S’affacciano le donne Da sùbite fronde si leva
a tricolori abbracciate; l’uccello nerazzurro:
gridan coraggio
nel vento e cade
i loro biondi capelli. il remeggio del volo
gravemente
Poi, sul notturno monotono cuore.
occhi si chinano spenti.
18 dicembre 1935
Nella sera
guardan laggiù il primo morto
disteso sotto le stelle.
3 ottobre 1935
essere distillate certe note sofferte di queste poesie della Pozzi, dove la realtà
emerge nei suoi dettagli contraddittori, amplificata dallo sguardo lucido e dallo
«C’è quanto basta [nella descrizione storico-ambientale appena fatta] per poter capire,
ancora oggi, il quadro che ha fatto fa sfondo, ma uno sfondo penetrante e agente con tutti i suoi
veleni, a condizionare le nostre vite e le nostre opere in quell’infuocato e duro tempo di
maturazione delle nostre giovinezze, spingendole a scavare inconsciamente solchi di rigide
divisioni anche, a volte, nel cuore delle amicizie più profonde. […] Per cui anche nella stessa
vita universitaria delle Statale di Corso Roma, fuori e intorno, circolava un’aria di veleni e di
sospetti che aumentavano le diffidenze e la solitudine, facendo inclinare gli spiriti liberi verso
interne macerazioni segrete, col risultato di complicare non poco i rapporti esistenti tra di noi,
giovani che interrogavano dubbiosi il domani.
Sconvolgenti e drammatici dovevano diventare anni così turbinosi in chi già doveva
contenere a fatica la tensione esplosiva di interne contraddizioni e di acuti, pungenti contrasti tra
un proprio mondo di felici fortune e le crescenti miserie circostanti, più drammatiche nelle
periferie popolari, nei quartieri operai, nelle tristi stanze degli sfrattati, dove la sofferenza
quotidiana era di casa e sempre più tetro, doloroso e incerto, si faceva il domani.
Antonia personalmente andava a visitare e a beneficiare queste case di povera gente. Ne
parlava come del dovere di scontare la sua nascita in un ben protetto benessere. Ne fa fede la
poesia Via dei Cinquecento (del 27 febbraio 1938), una via, allora, dove nell’inferno di povertà
delle case operaie di una estrema banlieue milanese, si acuiva il contrasto di due diverse storie
ambientali e perfino di due diverse vite, anche se ora affratellate.»77
77
FORMAGGIO, Una vita…, pp. 152-153.
287
Effettivamente la poesia di Antonia, Via dei Cinquecento78 insieme alle altre
19 gennaio 1936
78
POZZI, Parole, p. 439.
79
Ivi, p. 406.
80
Ivi, p. 414.
81
Ivi, p. 436.
288
dei tuoi passi fangosi, cara vita, il petto delle mamme tisiche
che mi cammini a fianco, mi conduci e l’odore –
vicino a vecchi dai lunghi mantelli, odor di cenci, d’escrementi, di morti –
a ragazzi serpeggiante per tetri corridoi
veloci in groppa a opache biciclette,
a donne, sono una siepe che geme nel vento
che nello scialle si premono i seni – fra me e te.
antropologiche dei luoghi visitati nei viaggi, e con fondamentali verità apprese
82
Ivi, pp. 431-432.
83
Riporto la nota in ivi, p. 431: «La poesia contiene molteplici riferimenti: alle ghirlande di fiori
dipinte sulle barche dei pescatori dell’Adriatico; ai santi rappresentati sulle baite della Val
d’Ayas (molto fotografate dalla Pozzi nell’ottobre 1937); ai terribili annunci del “vecchio gobbo”
– il mendicante indovino che giungeva ogni anno a Pasturo per la fiera di settembre – in
riferimento alla fioritura del bambù su tutta la Terra – sogno infausto per i popoli orientali – e
alle guerre sino-giapponesi e di Spagna.»
289
di gialle margherite,
e le influenze degli autori amati dall’inizio del suo percorso poetico, in uno stile
carico di arcani significati, fra sé e il mondo. Ma, purtroppo, nessuno sforzo valse
peseranno ulteriormente sul suo animo già afflitto da troppe dure prove.
Nel suo messaggio d’addio ai genitori, scritto nel giorno del suicidio, comparirà
84
Si confronti anche la lettera che Antonia Pozzi spedisce al padre da Gmunden, in Austria, il
1° agosto del 1936, intrisa di preoccupazione in merito alla tensione politica fra Germania ed
Austria, piena di sconcerto in merito alle vicende spagnole (che causano il rimpatrio dei
Carandini, parenti dei Pozzi) e attenta nel tenere d’occhio la sanguinosa situazione in Etiopia. Si
vedano le note alla relativa lettera delle curatrici in POZZI, Ti scrivo…, pp. 250-253. Risulta
chiaro che è lo stesso Roberto Pozzi ad essere sinceramente preoccupato per il degenerare delle
290
oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite.»85.
In questo clima complessivo, che abbraccia l’arco degli anni Trenta e che
comprende quindi gli anni della formazione universitaria della Pozzi e i primi
contingenze storiche, ossia che fra i due quello politico fosse un argomento di discussione su cui,
almeno in parte, c’era una sensibilità comune. Lo dimostra anche una precedente lettera di
Antonia (Breil, 27 luglio 1934) ove chiede di conoscere il parere del padre circa l’uccisione del
cancelliere austriaco Dollfuss per mano di Hitler e, quindi, circa la successiva mobilitazione delle
forze italiane al Brennero per bloccare le mire espansionistiche di Hitler: «Meglio davvero
andare sulle creste, che restar giù, con le belle cose che succedono! Sono tanto ansiosa di sapere
quello che ne dici tu e che cosa si dice fuori. Qui aspettiamo sempre febbrilmente il giornale, il
quale arriva alle sei del pomeriggio: che agonia!», in ivi, p. 206. Il padre le risponderà con toni
accesi, «di vera e propria requisitoria contro Hitler» il 30 luglio 1934, e poi ancora il 04 agosto,
arrivando a definire Hitler «quella belva dal grugno d’idiota», in ivi, p. 325.
85
BERNABÒ, Per troppa vita..., p. 295.
291
soprattutto dopo il nodo della tesi su Flaubert (1934/’35), saranno fatte sempre
meno in una direzione intimistica e personale e sempre più in una direzione che
progetto della Pozzi dovrebbe essere sempre meno dedicato alla poesia e sempre
292
«7 febbraio 1926: Sono appena tornata dalla casa dei miei amici. Abbiamo
ragionato a lungo intorno a cose grandi, troppo grandi per noi, e abbiamo
detto del principio e della fine del mondo, dell’origine della materia; abbiamo
vagato con la mente nello spazio costellato di pianeti, abbiamo discusso sulla
vita dell’aldilà, abbiamo finito col rimanere assorti in uno stesso pensiero,
mentre le ombre della sera scendevano lente, avvolgendo tutto delle loro
brume misteriose. È strana l’impressione che provo io nel pensare alla vastità
della terra: spingo più che posso il mio sguardo al limite dell’orizzonte; mi
dico: è più grande – rivedo il panorama goduto dalla Madonnina del Duomo:
no, è più grande ancora – mi si riaffaccia la visione scintillante avuta sulle
cime della Grignetta: no, no, è più vasta. E allora tento, tento raffigurarmi una
distesa immensa, sconfinata, che s’incurva così, laggiù… E lo stesso provo
pensando all’eternità; sempre, ripeto a me stessa; sempre… sempre… Mi
scuoto con un brivido: sempre! Parola terribile, terribile come mai!»86
decadentismo europeo
soprattutto per la vastità delle letture che si sono succedute, spesso in lingua
poetessa che per me, digiuna di lingue estere che non siano inglese e spagnolo,
confini di questa influenza all’interno degli anni dedicati al primo incontro e allo
studio di poeti come Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Émile Verhaeren, Maurice
Maeterlinck e Georges Rodenbach, tutti presenti nella sua biblioteca con volumi
86
POZZI, Diari, pp. 28-29.
87
Paul Verlaine pubblicò il saggio Poeti maledetti (Poètes maudits) nel 1884, dedicando l’opera
ai poeti che frequentava personalmente, come Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé, Tristan
Corbièr. Dopo quattro anni il libro uscì rinnovato, arricchito dei nomi di Auguste Villiers de
L'Isle-Adam, Marceline Desbordes-Valmore. Fra di loro figurava anche un certo Pauvre Lelian,
in realtà pseudonimo dello stesso Verlaine.
293
variamente segnati88. Come ho già sottolineato, le relazioni letterarie di Antonia
sono di lunga durata e certi temi, oltre a certi processi stilistici e a certe influenze
che viene a congelare nelle maglie della malinconia e della disillusione tutti i
suoi più genuini slanci, per cui è normale che altrettanto ciclicamente certe
un profilo sintetico, ossia non approfondito sui singoli esponenti del simbolismo,
sensibilità decadente – in ogni sua intima fibra veggente89, ossia spinta dalla
88
Nella biblioteca di Pasturo ora conservata al Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e
Giulio Preti, si possono trovare i seguenti volumi, tutti variamente segnati e sottolineati, che
attestano approfondite letture: P. VERLAINE, Choix de poésies de Paul Verlaine, Eugène
Fasquelle Editeur, Paris 1929, (Bibliothèque Charpentier); É. VERHAEREN, Choix de poésies,
avec una preface d’Albert Heumann, Mercure de France, Paris 1931, il quale presenta anche la
firma in prima pagina di Antonia Pozzi e la data Milano, 9 gennaio 1932; dello stesso autore,
veramente amatissimo stando alle segnature del precedente volume, la Pozzi possiede anche dal
28 dicembre 1931 (libro firmato e così datato, in luogo Milano): ID., Les Heures du Soir precedes
de Les Heures claires, Les Heures d’après-midi, Mercure de France, Paris 1929; G. RODENBACH,
Le Carillonneur, Eugène Fasquelle Editeur, Paris 1923, (Bibliothèque Charpentier); A.
RIMBAUD, Poésies, Mercure de France, Paris 1929 (presenta la firma in copertina, sottolineata
in rosso e all’interno, con la data «giugno 1931» e il suo indirizzo di Milano: «via Mascheroni
23»). Del premio Nobel Maeterlinck sono presenti molti testi teatrali.
89
Sulla poetica del veggente cfr. A. RIMBAUD, Il poeta è un ladro di fuoco. Le lettere del
veggente, L’orma, Roma 2013. In particolare ricordo queste parole rivolte a Paul Demeny, nella
lettera del 15 maggio 1871: «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa
veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme
d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne
che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza
sovrumana, nella quale fra tutti diviene il grande infermo, il grande criminale, il grande
maledetto, – e il Sapiente supremo! – Perché egli giunge all’ignoto! Perché ha coltivato la sua
anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quando anche, smarrito, finisse
col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà comunque pur viste! Che crepi pure
294
volontà di vedere al di là di ciò che è dato vedere dai più – sia da rintracciarsi
già in un certo modo romantico di interrogarsi sulla realtà presente sin dalla
prima adolescenza della poetessa. Una necessità di risposte che non trova
all’estremo terribile delle antinomie assolute, del sempre e del mai. L’esergo di
295
inaccessibili – una consonanza ideale.
precedenti, come quella naturalista, non vi sono intenti esterni, o sociali, al fare
arte. Questo aspetto soggettivo del simbolismo non avrà un potere duraturo su
oggettività90.
La poetessa si esercita dunque verso una nuova direzione stilistica, proprio come
i simbolisti erano alla ricerca di forme nuove. A partire dal 1930/’31 infatti la
Pozzi compie una svolta netta in direzione di un’amplificata musicalità del verso,
90
Così fin dal primo capitolo della sua tesi Antonia prefigura gli esiti del percorso flaubertiano:
«Il poeta, specchio dell’infinito “voit le ciel à travers les astres et le bonheur dans l’immensité”
[“vede il cielo attraverso gli astri e la felicità nell’immenso”]: in basso, il mondo non è che una
vasta disarmonia la cui ultima nota è il nome di Satana, la cui unica creatura felice è la morte.
La parola in cui il poeta dovrebbe costringere il grande afflato è così insufficiente ch’egli
vorrebbe rinunciarvi e perdersi nell’infinita natura. “Oh! poésie, fille de Dieu, viens à moi! Mais
qu’as tu besoin d’un mot pour parler? Tu respires dans la nature, tu pleures dans l’homme, tu
chantes dans l’amour. Viens, car je ne ferai plus de vers, cela est trop petit. Je me perdrai dans
la course errante du monde… Comme le matelot, je m’abandonnerai au vaste océan du désepoir
et j’appellerai comme lui une mort lente à venir… Je n’ai ni femme qui m’aime, ni mère, ni
famille; le poète est orphelin. C’est un monde que lui même.” [“Oh! Poesia, figlia di Dio, vieni
a me! Ma hai bisogno di una parola per parlare? Tu respiri nella natura, tu piangi nell’uomo, tu
canti nell’amore. Vieni perché non farò più versi, son troppo piccoli. Mi perderò nelle
peregrinazioni del mondo… Come il marinaio, mi abbandonerò al vasto oceano di disperazione
e chiederò come lui una morte lenta a venire… Non ho moglie che mi ami, né madre, né famiglia,
il poeta è un orfano. È un mondo lui stesso…”]. “Io non ho né madre né fratelli” diceva il
Rivelatore del Regno di Dio e forse un’eco della frase evangelica colora di sé questa concezione
romantica del poeta come rivelatore di un mondo a cui egli attinge nell’intimo di se stesso e che
trasmette il reale. Poi, la concezione muterà: nel senso che il poeta non sarà più il cantore ispirato
da Dio, ma l’umile lavoratore umano, la cui missione non è quella di rilevare un mondo di verità
metafisiche, ma di scavare il solco per cui la verità immanente alle cose emerga attraverso il
Bello nell’opera d’arte. Quello che rimarrà, per Flaubert, e si farà da immagine vita, sarà la
grande solitudine dell’artista, il sacrificio di tutti gli affetti e interessi umani alla religione
dell’arte.», in POZZI, Flaubert…, pp. 92-93.
296
fanno sempre più lunghi. In questo senso, come influenza ideale, si possono
mostra di apprezzare proprio nelle sue parti ‘prescrittive’ nei confronti della
(che sono poi quelle ove il poeta dà consigli in merito alla musicalità, alla
Il faut aussi que tu n’ailles point È necessario poi che tu non scelga
Choisir tes mots sans quelque méprise: le tue parole senza qualche errore:
Rien de plus cher que la chanson grise nulla è più caro della canzone grigia
Où l’Indécis au Précis se joint. in cui l’incerto si unisca al preciso.
C’est des beaux yeux derrière des voiles, Sono occhi deliziosi dietro veli,
C’est le grand jour tremblant de midi, è la grande luce tremula del mezzogiorno,
C’est, par un ciel d’automne attiédi, è – in un cielo tiepido d’autunno –
Le bleu fouillis des claires étoiles! l’azzurro brulichio di chiare stelle!
Fuis du plus loin la Pointe assassine, Va più lontano possibile dall’assassina arguzia,
L’Esprit cruel et le Rire impur, dal crudele spirito e dall’impuro riso,
Qui font pleurer les yeux de l’Azur, che fanno piangere gli occhi dell’azzurro
Et tout cet ail de basse cuisine! e tutto quell’aglio di bassa cucina!
O qui dira les torts de la Rime? Oh, chi dirà i torti della rima?
Quel enfant sourd ou quel nègre fou Quale bambino sordo o negro pazzo
91
P-M. VERLAINE, Poesie, cura e traduzione di Renato Minore, testo francese a fronte, Newton
Compton Editori, Roma 1973IV (2004) (Grandi Tascabili Economici, 35), pp. 254-257.
297
Nous a forgé ce bijou d’un sou ci ha plasmato questo gioiello da un soldo,
Qui sonne creux et faux sous la lime? che sotto la lima suona vuoto e falso?
Que ton vers soit la bonne aventure Il tuo verso sia l’avventura buona
Eparse au vent crispé du matin sparsa al vento increspato del mattino
Qui va fleurant la menthe et le thym … che va sfiorando la menta e il timo…
Et tout le reste est littérature. E tutto il resto è letteratura.
Come ho sottolineato sin dall’inizio di questa tesi però, non esiste un’unica
direzione evolutiva nella poesia della Pozzi, che si sostanzia invece proprio di
più approcci, tecniche e temi a volte anche in aperto contrasto fra loro, o
compresenti. Nel ’31 infatti la poetessa traccia anche in scorci molto sintetici92
che riesce a farle immaginare la luna che vi si riflette come in uno specchio; in
92
E dunque idealmente in contrasto con quella linea di progressivo allungamento dei
componimenti che ho appena sottolineato.
93
POZZI, Parole, p. 153: «Batte la luna soavemente / di là dai vetri / sul mio vaso di primule: /
senza vederla la penso / come una grande primula anch’essa, / stupita, / sola, / nel prato azzurro
del cielo. // Milano, 1° aprile 1931»
94
Ivi, p. 167. Cfr. il cap. I per il testo integrale.
298
/ nell’oro»95; in Risveglio notturno96 è la mancanza di una presenza – quella di
Dio – esaltata dallo «scroscio pazzo / di pioggia nera / e dall’urlo del vento ai
epifanica fra sé e l’altro, fra sé e il mondo: «C’erano tutte le luci accese, / tutte
le porte aperte, / nella mia casa ricca, fredda / e noi due c’eravamo / a toccarci
per la prima volta / con mani cieche / e nel vuoto le nostre labbra / ignare, inerti,
Come avrà a confessarsi in una pagina di diario del 21 marzo 1935, che mi
Pozzi crea uno schema relazionale-simbolico che possa dare valore alla vita
95
Ibidem.
96
Ivi, p. 170.
97
Ibidem: «Riemersa da chissà che ombre, / a pena recuperi il senso / del tuo peso / del tuo calore
/ e la notte non ha, / per la tua fatica, / se non questo scroscio pazzo / di pioggia nera / e l’urlo
del vento ai vetri. / Dov’era Dio? // Milano, ottobre 1931».
98
Ivi, p. 173.
99
POZZI, Diari, p. 46.
299
In riva alla vita100
Con meccanismi iterativi, scegliendo con cura i rimandi delle parole fra loro,
quasi a comporre un dialogo fra personaggi (il canto gracile dei bambini, il
silenzio delle rondini assenti, il grido alto delle campane) Antonia descrive
100
POZZI, Parole, pp. 141-142.
300
un’epifania inaspettata nel movimento del ritorno sulla strada consueta, in un
un’ombra che come una mano velata pesa sulle palpebre. La percezione che ha
consuetudine che per suo stesso statuto è silente, deserta, insignificante: una via
segnata da un cielo d’oro, compatta nel suo rigore invernale, dalla quale però
sono assenti le stelle e i canti gioiosi delle rondini, sulla quale facilmente si
(vv. 17-18-20), per improvviso risveglio, per arcana meraviglia: ora su tutto il
portano sulla strada quel riflesso di luce stellare che altrimenti mancherebbe, ha
fatto balzare l’ombra: l’anima si spalanca poi al grido delle campane, come a
intuire una lettura stratificata della realtà che le pupille registrano con un balzo
così Antonia (per non calpestare le stelle filanti in mezzo alla via); i bambini
cantando il canto alto delle campane e Antonia trovando il suo doppio nel
301
silenzio del pensiero, filtrando la sua immagine nelle forme di un cespo di
giunchi, fermo in riva alla vita. La poetessa trema presso l’acqua in cammino,
osserva ai margini l’esistenza e non partecipa allo scorrere dell’acqua nel pieno
immagini.
La poesia si apre già con una parola che evoca la reiterazione: /Ritorno/ in
assonanza con /sotto/ del v.3. Il vuoto che incombe è sottolineato dai vv. 3-4 di
l’oppressione del vuoto del cielo ove si sta sotto (v. 3) e la gravità dell’ombra
relazione, come /una lunga/ (v. 6) e come /grava-velata/ (vv. 5-6) che aprono e
chiudono il pensiero prima dalla coordinazione /e/. I passi (v. 7) non sono
ripresa in consonanza dell’aggettivo che li denota nel loro abbandono: /lento/ (v.
7) con /tanto/ (v. 8) e con /silente/ (v. 10). L’allitterazione della /t/ fra i vv. 7-11
101
L’immagine della sua presenza ai margini di un corso d’acqua era già comparsa in Canto
rassegnato, poesia scritta a Pasturo il 18 luglio 1929, di cui riporto il frammento consonante:
«Arriveremo giù, fino a quel ponte / sorretto dallo scroscio del torrente: / là tu continuerai pel
tuo cammino. / Io resterò sul greto, fra i cespugli, / dove l’acqua non giunge, fra le pietre / chiare,
rotonde, immote, come dorsi / di una gregge accosciata.», in POZZI, Parole, p. 100.
302
riempie concretamente il ritmo, fino a /scattano/ del v. 11 che fa rima con
bambini (v. 11) da un buio andito (v. 12) agitando le braccia (v 13) l’ombra
sobbalza (v. 14). Nel verso 14 si ripropone l’ombra del v. 4. L’assonanza v. 14-
in anafora il tema della sosta, preparato dalla grande lentezza con cui si è giunti
fino a questo punto della poesia, sottolineato dalla dolce presenza dei bimbi alla
quale si aggiunge anche quella del canto: sostano i bimbi (v. 25) e sostano i
bimbi cantando (v. 31) alimentato dall’allitterazione della /c/ nei versi seguenti
(32: con gracile voce; 33: canto campane). La sosta nel suo significare una
dalla doppia assonanza che chiude la poetessa nella sua prigione: ferma-stasera,
riva-vita (v. 35). Gli ultimi versi vedono la coppia /c/ e /m/ creare la vibrazione
interna di un movimento che non può per sua natura compiersi. I giunchi, presi
303
dei miracoli arcani che fondono le epifanie in un messaggio che solo lo sguardo
del poeta può comprendere. Antonia infatti sembra fermarsi per attendere una
natura. La poetessa non può forse partecipare alla gioia della vita, ma può
Se ne In riva alla vita sono presenti i tanti elementi tipici dell’estetica decadente
valore puramente fonico e a-logico della parola. Antonia non si spingerà mai a
realtà che per il poeta rappresentano invece l’evidenza di piani e livelli che
comunicano fra loro e che solo attraverso la sensibilità del suo canto possono
aprire le porte della percezione, della verità – o quanto meno di una verità
ma già come preclusa, già come usurpata e battuta, tipica della visione
304
decadente. Da qui nasce la voce affranta da un’infinita malinconia che trova
conferma nell’aridità della vita proprio in questi anni di esautorazione del sogno
Grido102:
10 febbraio 1932.
testimonia il reiterarsi, in questi primi anni universitari, della presenza del vuoto
il suo essere totalmente inappropriata alla vita, non si può che lanciare un grido
povertà di appigli sani alla vita, che non ha fine. Antonia non possiede niente
riscatto, di felicità, di bellezza, nella loro vitalità non possono restare ferme con
102
Ivi, p. 175.
305
lei ad osservarsi. Questo lucido sentimento di angoscia e d’inappartenenza ad
uno ieri già vissuto e ad un domani talmente sognato che è come se facesse già
speranza di vita con Cervi. Questa profonda inquietudine precipita Antonia nel
punto più vicino alla sensibilità decadente, espressa però secondo un aggettivo
spiegato, in quanto è lo sfondo emotivo che a mio parere tiene insieme, da questi
Unheimliche non sarà difficile comprendere come i differenti autori dei quali ho
«Scrittore, magistrato, musicista, pittore […]. Personaggio poliedrico in tutti gli aspetti
della sua non lunga vita, Hoffmann sviluppò sin dai primi anni una straordinaria sensibilità che
fece nascere in lui l’amore per la musica e il disegno, ma che nel contempo gli permise di
penetrare la realtà e le sue incongruenze con rara immediatezza e disincantato atteggiamento
satirico. […] I suoi interdisciplinari interessi compresero, oltre alla musica e alla letteratura,
anche il disegno, la pittura, la critica musicale, la psicologia e fenomeni quali mesmerismo,
magnetismo e sonnambulismo. Questo enorme eclettismo si riflette appieno nella sua vivace
produzione letteraria. Filo conduttore è la “Erkenntnis der Duplizität”, la conoscenza della
duplicità: la realtà concepita come una tensione tra due sfere che si compenetrano l’una nell’altra.
Ne dà magistrale testimonianza nella fiaba Der goldne Topf (1813) [La pentola d’oro]. Nella
raccolta Die Serapionsbrüder [I confratelli di Serapione][…]. Hoffmann esprime a livello
teorico questa visione dualistica del mondo, indicando nella rottura con la vita quotidiana il punto
di partenza per una elevazione dell’esistenza nella sfera del fantastico, del sogno, della magia
della follia. La duplicità dell’essere è un problema sia ontologico, sia antropologico. La
descrizione di personaggi che incontrano il proprio sosia […] o con doppia personalità […] fanno
306
di Hoffmann un anticipatore della pirandelliana scissione della personalità. Il tema della
depersonalizzazione compare in un’infinita gamma di sfumature anche nella sua produzione
noir. La dimensione notturna diventa per Hoffmann la metafora di una realtà, la cui limpida
perscrutabilità decretata dalla luce della ragione si sgretola di fronte alla consapevolezza
dell’irrimediabile perdita di punti di riferimento certi. I suoi Nachtstüche (1816-17) [Racconti
notturni], tra cui il famoso Der Sandmann [L’uomo della sabbia] che Sigmund Freud usò per
descrivere il fenomeno del perturbante (Das Unheimliche, 1919), sono un viaggio negli abissi
dell’inconscio, che pone l’essere umano di fronte a realtà e forze misteriose, incontrollabili e
inquietanti.»103.
è molto vicina a quella della Pozzi. Tanti sono gli aspetti di Hoffmann che si
103
Biografia a cura di Sandro Moraldo per AA. VV., Enciclopedia Filosofica, Fondazione Centro
Studi Filosofici di Gallarate, vol. 6, Hau-Lam, Milano 2006, p. 5326.
104
Purtroppo non sono presenti volumi di E.T.A. Hoffmann nella biblioteca di Pasturo che
aiutino a verificare ulteriormente la potenza di quest’affinità elettiva. Pure la Pozzi doveva
conoscerlo in quanto accenna a lui nella sua tesi, tramite la lettura che il critico Wilhem Fischer
fa relativamente agli influssi letterari nel racconto di Flaubert La Peste à Florence: «Il Fischer
crede vedere in questa scelta di soggetti lugubri e terribili un influsso dei racconti di Hoffmann»,
in POZZI, Flaubert…, p. 69. Poco più avanti il nome dell’autore tedesco torna ancora, parlando
di altre opere della giovinezza di Flaubert: «In questo anno 1837 egli già cerca di mettersi in
quella posizione di scherno con due racconti fantastici, a ciascuno dei quali potrebbe essere
premessa la frase di La Bruyère che precede il primo dei due, Rêve d’Enfer: “C’est souvent avoir
une très fausse opinion de l’esprit d’autrui que de ne point le nourrir de fadaises” [“Accade
sovente di avere un’opinione tanto falsa dello spirito altrui da non nutrirlo che di sciocchezze”].
Hoffmann ha certo contribuito alla creazione di quest’uomo senz’anima e di questo demonio
senza corpo che si dibattono in un desiderio di annientamento, incapaci di completarsi come di
distruggersi, impegnati in una lotta disperata “qui devait finir entre eux, comme chez l’homme…
par le doute et l’ennui, C’etait deux principes inchoérents qui se combattaient en face; l’esprit
tomba d’épuisement de lassitude devant la patience du corps” [“che doveva finire tra loro come
per gli altri esseri umani… per dubbio e per noia. Erano due princìpi contraddittori che lottavano
faccia a faccia; lo spirito cadde esausto di stanchezza di fronte alla sofferenza del corpo”», in ivi,
p. 75. L’altro racconto di Flaubert a cui riferisce influssi di Hoffmann è Quidquid volueris.
307
perpetrato, almeno secondo la prospettiva del protagonista, grazie ai trucchi di
sospetta essere stato anche il suo omicida. Quest’uomo inquietante turba sin
fratelli a letto minacciando l’arrivo dell’uomo della sabbia, capace di cavare gli
suoi stessi figli. Spinto dalla curiosità il protagonista resta una sera sveglio e
terrore. Il dettaglio degli occhi vacui sarà ciò che inquieterà il ragazzo nel
riconoscere, molti anni dopo, che la sua innamorata è un automa senza vita.
si ripetono nella narrazione è ciò che riesce a generare pian piano il sentimento
che nella sua traduzione italiana – perturbante – non riesce ad avere la stessa
potenza semantica. Si tratta in ogni caso di una parola molto studiata in area
tedesca, poiché già nel 1906 Ernst Jentsch, psicologo tedesco, vi dedica un
ispirato proprio da questo racconto di Hoffmann, il cui tema sarà poi ripreso e
308
allargato da Freud nel saggio Il perturbante del 1919105. Qui lo psicoanalista
austriaco collaziona una serie di definizioni di heimlich e del suo contrario (dato
semantica fra quelli che dovrebbero essere due termini opposti. Heimlich è: 1.
ciò che appartiene alla casa; domestico: fidato ed intimo; del focolare; 2. Ma è
anche ciò che è nascosto, tenuto celato, in modo da non farlo sapere ad altri o da
non far sapere la ragione per cui lo si intende celare; sornione. Unheimlich
significa: disagevole, che suscita trepidante orrore; può in rari casi fornire da
dice unheimlich tutto ciò che dovrebbe restar… segreto, nascosto, e che è invece
affiorato.»106.
permette una presa di posizione definita e che lascia il soggetto ai margini della
Antonia durante gli anni universitari. La presa di coscienza che tutto quanto è
105
Riprendo infatti le mie considerazioni da S. FREUD, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la
letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 269-275. Il saggio prosegue
fino a p. 307.
106
Ivi, p. 275.
309
estremi, sia in realtà fuggevole, falso, concretamente impossibile da attuare. Con
lo stesso Cervi attraversa una fase iniziale di profonda familiarità nella relazione,
reciproco. Questa svolta di disillusione estrema nei confronti di una certa realtà
che non può conformarsi alle altezze del sogno e che per questo diventa
vita, e in conseguenza anche della poesia di Antonia Pozzi. Il suo sogno della
essere ritenuto certo, viene via via infranto dal contatto sempre più duro con la
realtà, dall’avversione del padre, dal distacco dello stesso Cervi. L’acciecarsi
che si prospetta per Antonia e che ella coglie lucidamente, tentando un’ultima
graduale: acquisterà forma attraverso le diverse sfumature del suo canto, fino al
superamento della dinamica del sogno per opera dell’incontro con (o meglio,
forse, del conseguente distacco da) Remo Cantoni e alla decisione di votarsi al
romanzo negli anni della più profonda frequentazione con Dino Formaggio. Ma
si tratta già degli anni seguenti al 1933, anni intrisi di una nuova serie di dolorose
310
dell’Art poétique per conseguire una composizione poetica musicale –
ripartendo dall’idea della ricerca pozziana del ritmo, ma tenendo presente anche
Negli anni ’30-’33 la poesia di Antonia vive di quel fenomeno carsico al quale
il suo amore per la poesia dedicandosi a letture importanti – nel ’31 e nel ’33 la
scrittura si riafferma come forza centrale, anche se con dinamiche diverse. Nel
quale la Pozzi riuscirà a far germogliare gli influssi di alcune letture, avvenute
anche in anni precedenti, e a far evolvere la natura del suo canto, liberandola
«Il 1931 e il 1932 furono per Antonia intensi e ricchi sia sul piano umano che su quello
intellettuale, ma anche difficili, perché l’opposizione familiare al rapporto con Antonio Maria
Cervi, che in qualche modo doveva essersi rivelata già nel 1930, esplose drammaticamente
nell’estate del 1931 [portando al viaggio in Inghilterra] e si esacerbò all’inizio del 1932. Anche
per questi anni mancano totalmente note diaristiche; restano invece numerose lettere, tra le quali
le più interessanti sono quelle inviate ad Antonio Maria Cervi, Lucia Bozzi ed Elvira Gandini.
Numerose sono poi le poesie, che testimoniano le sofferenze di Antonia legate al suo travagliato
rapporto d’amore. […]
Il tono complessivo dei versi del 1931 è più drammatico rispetto a quello delle poesie
precedenti, verosimilmente per il veto posto dai Pozzi al rapporto d’amore di Antonia con Cervi,
ma forse perché anche lo stesso Antonello, offeso dal loro atteggiamento ostile, e portato per
carattere alla rinuncia e al ripiegamento su se stesso, si dimostrava spesso nervoso e diffidente
con lei. In effetti, tra i due, era Antonia quella che più persisteva nell’idea di mantenere il legame,
nonostante l’opposizione dei familiari. La giovane donna si trovava a vivere dunque una
situazione estremamente conflittuale e resa difficile dall’amore che la legava tanto al padre
311
quanto ad Antonello, e, per di più, poco incoraggiata da quest’ultimo.
Entrambi gli uomini della sua vita, il padre e l’amato, rientravano in fondo in uno stesso
sistema rigidamente patriarcale (tipico dell’Italia dell’epoca) che voleva ricondurla a una sorta
di ordine: quello della figlia emancipata, ma ligia ai doveri del suo rango sociale, nel caso del
padre; quello della sposa-madre portatrice di valori tradizionali nel caso di Cervi, con l’aggiunta,
oltretutto, dell’idea di una maternità di Antonia che gli restituisse il fratello morto, Annunzio.
Va considerato che entrambi gli uomini avevano subito due gravi lutti: Roberto Pozzi quelli del
suicidio del padre e della sorella e Antonio Maria Cervi quelli della morte del padre e del fratello.
Forse, inconsciamente, essi desideravano dalla vita un risarcimento affettivo: l’avvocato Pozzi
trattenendo la figlia presso di sé, Cervi sognando con Antonia un nuovo piccolo Annunzio che
in qualche modo facesse rivivere il fratello: l’idea che potesse nascere una bambina non sfiorava
neppure i due innamorati. Comunque, sia il padre che Antonello, pur volendole sinceramente
bene, non le riconoscevano, in quanto sostanzialmente uomini all’antica, una vera autonomia, e
non le dimostravano quel tipo di amore che vuol dire riconoscimento dell’altro esclusivamente
per se stesso. Antonia andò incontro a una terribile crisi pur di non venire meno ai doveri verso
di loro e per cercare di conciliarli, con il risultato di scontentare entrambi e di esaurire le proprie
energie. In tale contesto, particolarmente ossessivo era diventato per lei il progetto di restituire
all’uomo amato il fratello morto: un’idea che, a un certo punto, andò oltre le stesse aspettative
di Cervi. Questo avvenne peraltro sia per un eccesso di generosità e di idealizzazione dell’amato
e delle sue esigenze psicologiche, sia per problemi personali della stessa Antonia, che,
nell’immagine di quel bambino, proiettava alcune parti interiori proprie che restavano irrisolte,
per vari motivi, nella vita reale.
In effetti, per essere comprese in tutta la loro complessità, le poesie del 1931 richiedono
una lettura che, pur partendo dagli elementi concreti e contingenti della difficile storia d’amore
dell’autrice con Cervi, non ne trascuri il significato più ampio di sofferta ricerca interiore. In
quest’ottica, si vedrà allora alternarsi nei versi, da una parte, un senso di perdita di energia e di
progressiva estraniazione dalla vita, dall’altra una diversa concentrazione di Antonia su di sé,
talvolta negativa nel suo sentirsi goffa e irrisolta, ma nello stesso tempo importante perché
tendeva a riportarla in qualche modo al centro di se stessa. Tralasciando Notturno invernale e
Fede, che peccano ampiamente di retorica, tutte le altre poesie del 1931 da La porta che si chiude
a Nostalgia ben rappresentano un’alternanza tra abbandono alla sconfitta e disperato sforzo di
ritrovare una consistenza e un senso dell’esistere.»107.
una lotta e da una sofferta ricerca interiore, nel tentativo di comporre emozioni
107
BERNABÒ, Per troppa…, pp. 101-103.
312
perturbante. Si tratta ad esempio di L’orma del vento, Esempi, Sogno dell’ultima
sera, Fede108. Mi concentrerò sulla prima in quanto le altre sono state già trattate
in differenti parti di questa tesi; inoltre L’orma del vento esemplifica al meglio
attraverso l’immagine tematica del vento, colto nel suo movimento, la sfumatura
ricomporre.
108
Rispettivamente alle pp. 143-144; 160-161; 163-164; 168-169 di POZZI, Parole.
313
Cade il folle vento: si perde
dietro le nebbie grigie il sereno.
L'anima sembra morire
senza più sogni.
In questa poesia si opera una vera e propria condensazione delle influenze che
ho rilevato sin qui, fra cui spiccano quelle di un certo romanticismo leopardiano
(Oh, tu non torni, / tu non puoi tornare! / Ben altra pena, / ben altro sangue /
le croci nere dell'edera, / una fioraia ha deposto i suoi fiori) dal quale è difficile
pensiero / che il grande ignoto miracolo, / il volto arcano / della mia attesa
filare un senso ulteriore del discorso poetico, vengono però dopo il grande
movimento costruttivo della prima strofa e la brusca rottura della seconda strofa
314
che urta e si spezza contro le grevi nubi, riproducendo un passaggio analogo –
alla vita, ossia rovesciando l’andamento iniziale della poesia e l’aspettativa del
lettore. Nel caso de L’orma del vento però l’attesa positiva creata stilisticamente
strofa Antonia espone la propria visione aperta e fiduciosa nel leggere il miracolo
della poesia dimostrano questo sforzo condotto nell’attesa del grande miracolo
salvifico) nelle strofe seguenti, a seguito della mancata epifania, del mancato
poetessa, che aveva costruito con le sue sole forze l’impianto della prima strofa,
uscire dalla malinconia ad esempi (anche letterari) già noti che sanno di sconfitta
freschezza gioiosa e sempre nuova del vento nella quale lei stessa si era ormai
riescono a sopperire all’assenza del tu. Il vento simbolista si frange, non regge
la carica emotiva e ha bisogno di una forte strutturazione interna per non suonare
315
Una breve analisi della composizione rafforzerà queste prime impressioni.
come l’eco di una voce che esca man mano fuori dalla scena di un teatro –
all’interno delle strofe seguenti. In primis c’è l’immagine della corsa che nella
sua forza si sdoppia sia in funzione del soggetto che dell’oggetto: il vento va
movimento reca con sé due diverse personificazioni del soggetto: il vento reca
nelle aeree braccia una tremante attesa di gemme; l’anima è in tensione con
tutto il suo essere, diventando quasi essa stessa una prodigiosa attesa. Lo
sdoppiamento prosegue attraverso l’immagine del ritorno, che a sua vola, come
un sasso gettato nello stagno, duplica altre onde. Tornano i passi a strade
abbandonate (v. 8); torna l’ansia di un tempo (v. 13): una prima coppia. Poi,
per un sole che ride / come in luoghi lontani, / per un'aria che odora / come in
emotiva –, la conclusione (vv. 16-19) di un ciclo di attesa che si era man mano
accumulata nei rimandi dei versi precedenti: oh, tu ancora mi attendi / in fondo
316
a questa via, / presso il vecchio cancello / mascherato d'edera nera!
L’ancora del v. 16 viene ripreso due volte nel v. 20 per caricare i gesti della
verso compare per la prima volta il verbo chiamare che tornerà nel v. 32 e poi
ancora due volte nel v. 38, sfumando nel significato dalla più dolce speranza alla
più estrema disperazione. Nelle tre strofe centrali intanto si consuma l’intera
disgregazione della speranza, come spazzata dal folle vento che ritorna dal v.1 al
in agonia senza più sogni. Anche queste due strofe, la seconda e la quarta, dove
situazione iniziale: se infatti era il vento ad andare incontro al sereno nel v.1,
lasciando all’anima il suo ignoto mistero, adesso nel v. 35 della quarta strofa è
l’anima ad essere accostata al sereno: il folle vento è caduto (e con esso anche il
mistero), lasciando il sereno perso dietro alle nebbie grigie (v. 34). Di questo
epilogo triste è l’anima a soffrirne: sembra morire / senza più sogni. La stessa
formula, sembra morire / senza respiro, era stata dedicata nella seconda strofa
alla reazione dell’aria, che aveva visto urtare e spezzarsi il vento contro un
109
Dietro a quel tu c’è la figura di Antonio Maria Cervi, che soleva chiamare giaggiolo la
poetessa. Cfr. anche lettera del 1° marzo 1932, in cui la Pozzi scrive della rottura di questo
incanto: «O forse semplicemente io non ti piaccio più come una volta, non sono più il tuo
giaggiolo, la tua primavera: mi trovi brutta e vecchia, come sono, come sono, in realtà, e la mia
voce sgarbata ti irrita, i miei occhi rossi ti fanno dispetto e ribrezzo…», in POZZI, Ti scrivo…, p.
148.
317
cumulo di grevi nubi (controcanto di v. 34). La reazione dell’aria (che era già
11) anticipa quella dell’anima, che aspetta la definitiva caduta del vento prima
Nella terza strofa, fra i due specchi offerti dalla natura e le relative reazioni delle
strofe due e quattro, si posiziona la presa di coscienza della poetessa, che apre
gli occhi sulla realtà di questo tu che non torna, rafforzato nella negazione
finanche della possibilità (non può tornare), e che si scontra con l’idea indefinita
miracoli.
A chiudere il componimento, una strofa che parte da un soggetto del tutto nuovo,
il cielo grigio di perla, ma che in realtà rovescia il senso di alcun simboli a cui
croce, (adatta per l’umile offerta della fioraia che vi depone i suoi fiori, come su
una tomba), sostituendo la maschera con cui si adombrava nel v.19; il chiama
chiama del v. 38 cade nel verso successivo in un vuoto enorme poiché non sente
rispondere il sorriso di stelle (v. 40). Per consolarsi allora la poetessa si dona
(sottolineando la miseria di questa soluzione: v. 44: per poche lire; v. 45: magro;
v. 47: basta il pensiero; v. 53: qualche pallido filo; v. 54: tenui), con un
nell’illusione che i fiori possano, con le loro bocche protese, con labbra di viola,
mimare la pienezza del grande ignoto miracolo, del volto arcano / della sua
318
attesa prodigiosa nell’atto di mordere qualche pallido filo di sole. L’anima, il
miracolo e l’attesa prodigiosa sono tutto quanto resta (a livello lessicale) della
prima strofa, insieme al cancello, all’edera e al chiama che reiterando cade nel
vuoto. I simboli che restano in mano alla Pozzi alla fine della poesia, sono
dunque quelli che nuovamente lei si crea, o che cerca di trattenere, ma filtrati dal
contatto con una realtà selezionata per rappresentare il suo più intimo sentimento
Malgrado tutta questo lavoro sulla struttura, la poesia è fresca e vive di una
anima e cosmo, fra segni che sembrano poter portare la poetessa alla
forte del vento che l’aveva ispirata: resta solo un’orma, un’idea sensibile del
numerosissime: farò l’analisi della prima strofa per darne un’idea. Ricordo che
l’uso di queste figure era già consolidato in Antonia e viene qui ulteriormente
Sin dal verso uno si ripete la dinamica dell’accumulo tramite coppie di parole in
319
nell’attribuzione di senso del verso e nella distribuzione delle vocali /o/ ed /e/.
/Corre/ e /folle/; /sereno/ e /vento/110. /Folle/ e in consonanza poi con /nelle/ del
collegati dall’assonanza rotonda della /o/, che riesce quasi a farsi interiezione
parole vicine ferma su di essere il senso, che è poi proprio quello della
precedere quella di /r/, che fra i versi 11 e 12 presenta anche la ripetizione /per/-
consonante con /Torna/ del v. 13 e ripreso da /ritorna/ del v. 15. Queste due
110
Segnalo che la coppia /sereno/-/vento/ è presente in una poesia di Quasimodo Sapore del
pane, (Acque e Terre, Edizioni di Solaria, Firenze 1930, p. 31) letta e segnata dalla Pozzi proprio
a partire da quel verso che li vede insieme: «Mai ti vinse notte così chiara / se t’apri al riso e par
che tutta tocchi / d’astri una scala / che già scese in sogno rotando / a pormi dietro nel tempo. //
Era Iddio allora timor di chiusa stanza / ove un morto posa, / e a centro motore d’ogni cosa: / del
sereno e del vento, del mare e della nube / una preghiera stava sapor del pane, / grazia d’ogni
sera e mattutina. // E quel gettarmi alla terra / quel gridare alto il nome del silenzio / Era dolcezza
di sentirmi vivo.». L’ultima strofa è sottolineata due volte dalla poetessa.
111
Nel testo di Rimbaud presente nella biblioteca pozziana la poetessa sottolinea proprio la
coppia /nt/ nel v. 1 della seconda strofa de Les Étrennes des Orphelins (Le strenne degli orfani):
«Or les petits enfants, sous le rideau flottant, / parlent bas comme in fait dans une nuit obscure.»,
in RIMBAUD, Poésies, p. 6.
320
ventilata con la parola mascherato si completa nell’eco della finta rima edera-
nera. Tra questi versi segnalo l’allitterazione della /c/ completata anche dal
ripresa della consonanza /ancora/, rivelando dunque un’allitterazione della /r/ fra
i vv. 18-21: mascherato, edera, nera, ancora ancora, prendi. I versi finali della
dell’allitterazione della /m/ contro cui la parola della ripresa /Urta/ nella seconda
strofa, è ancora più violenta: /mi/, /mani/, /me/, /mi chiami/. Anche il nome
scioglie l’essenza della poetessa nella visione dell’amato. Sempre in questi tre
/chiami/.
Attraverso l’analisi della poesia L’orma del vento appare dunque chiaro il lavoro
della poetessa che, pur non rinunciando all’espressione di una forte emotività
prima via di sublimazione della vita (dolorosa) nell’arte della parola attraverso
i legami con la natura e con le cose. Il loro esserci come correlativo oggettivo
intuizioni simboliste, per approdare ad una poetica degli oggetti che nella loro
321
possono profilare le altre sfumature che conducono all’evoluzione del ’33 e che
faranno prendere sempre più coscienza alla Pozzi del proprio destino di poeta
(Un destino, 13 febbraio 1935). A mediare questo passaggio sarà l’incontro con
Rainer Maria Rilke, poeta che moltissimi critici112 hanno accostato alla Pozzi e
112
Oltre a Graziella Bernabò (che fa ampi riferimenti a Rilke nel suo libro Per troppa vita che
ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia), Alessandra Cenni (di cui ho già citato il saggio
Antonia Pozzi: Orfeo o Euridice?, contenuto in POZZI, Lieve offerta…, pp. 7-14, in cui afferma
essere Rilke «il poeta più vicino» alla poetessa, e della quale è presente in chiusura dei Diari
pozziani il testo L’angelo disabitato ove rievoca questa vicinanza) e Onorina Dino (che
addirittura apre l’introduzione ai Diari pozziani con una citazione di Presagio di Rilke), hanno
dedicato studi alla relazione Rilke-Pozzi, Matteo M. Vecchio (peraltro scettico in merito ad
effettive ascendenze fra i due poeti, data l’impronta molto evidente della traduzione di Errante,
ossia di concezioni del traduttore non coincidenti con il gusto della Pozzi, come spiega in nota
n° 87 al cap. III Antonia Pozzi e il contesto universitario milanese del suo Perché la poesia ha
questo compito sublime. Antonia Pozzi. Otto studi, pp. 86-87) e Gabriella Rovagnati, della quale
riporto l’interessante ricostruzione in merito alla ricezione dell’autore di lingua tedesca
nell’ambiente milanese: «Presente, nei suoi versi è anche, benché non in citazioni così esplicite,
Rainer Maria Rilke, introdotto in Italia in traduzione negli anni Trenta dal suo maestro Vicenzo
Errante, ma del quale fin dagli anni Venti si aspettava la venuta a Milano. La germanista Lavinia
Mazzucchetti, infatti, che nel 1929 aveva rinunciato alla cattedra di Letteratura tedesca presso
l’Ateneo Milanese per divergenze con il regime (lasciando appunto il posto a Errante, meno
inflessibile nei confronti del fascismo), aveva suscitato l’interesse per il poeta praghese già
dall’inizio degli anni Venti con una serie di recensioni, mentre l’amica milanese di Rilke, Lella
(Aurelia) Gallarati Scotti, imparentata con la famiglia veneta dei Valmarana, aveva preparato il
terreno per una lettura pubblica del poeta presso il circolo letterario “Il Convegno”, dove aveva
parte attiva suo marito, l’italianista, studioso di Antonio Fogazzaro, Tommaso Gallarati Scotti,
che divideva con Rilke un’autentica venerazione per Eleonora Duse. Rilke, che come si sa dalla
corrispondenza con la signora, si era dichiarato disposto ad accettare l’invito, non era poi più
riuscito a realizzare questo progetto per motivi di salute. Certo, in quegli anni – Rilke morì nel
1926 – Antonia Pozzi sarebbe forse stata troppo giovane per rimanerne affascinata. Tuttavia a
Milano di Rilke si parlava, e molto, anche prima che Errante ne pubblicasse l’opera in traduzione;
milanese fu per altro anche la prima traduttrice italiana del poeta di Praga, Cecilia Braschi, amica
della Mazzucchetti, che già nel 1914 sottopose di persona a Rilke la propria versione italiana del
Cornet, purtroppo andata perduta. Non abbiamo certezza, ma non lo possiamo neppure
escludere, che i Pozzi avessero contatti con i duchi Gallarati Scotti, che abitavano nel loro
palazzo di Via Manzoni al numero 30, e che Antonia nomina una volta soltanto in una lettera.
Certo è che anche Rilke la influenzò molto, ed è probabile che di lui avesse sentito parlare non
solo da Errante, ma anche da Giuseppe Antonio Borgese, altro suo maestro affascinato dal
mondo tedescofono, che poi sarebbe diventato il genero di Thomas Mann, sposando in seconde
nozze l’ultima figlia dello scrittore, Elisabeth. Borgese, che prima di essere docente d’Estetica e
direttore della terza pagina del “Corriere della Sera” aveva svolto in Germania attività di
giornalista ed aveva frequentato con intensità Stefan Zweig, era stato, come quest’ultimo, un
ammiratore di Rilke della prima ora, ossia già dai primi anni del Novecento, quando il poeta non
era ancora “riserva degli snobs di mezz’Europa”, quando cioè lui, fatto in seguito oggetto di tanti
pettegolezzi per la via della sua tendenza a frequentare signore altolocate, si ammirava soltanto
l’“irripetibile musicalità o surrealtà linguistica”. Ed è questa melodia peculiare dei versi rilkiani,
animata da un intenso afflato metafisico, quello che affascinava anche la Pozzi, che lo lesse in
lingua originale, come dimostrano i volumi presenti nella sua biblioteca.», in ROVAGNATI,
“Parole-Worte”.., in AA. VV., ...e di cantare…, pp. 153-155.
322
che entra effettivamente nella sua formazione universitaria attraverso la lezione
precisa:
«Nella biblioteca di Antonia Pozzi di Pasturo è presente tuttora 114 il seguente volume:
Rainer Maria Rilke, Liriche, traduzione di Vincenzo Errante, Milano, Alpes, 1929. Elvira
Gandini pensa che esso sia stato acquistato da Antonia intorno al 1931. Forse, in occasione del
corso universitario di Errante, l’autrice riportò su quel medesimo libro i testi in tedesco del poeta
austriaco, integrandone a p. 162 uno tratto dal Libro della povertà e della morte riportato soltanto
parzialmente da Errante (Dà, Signore, ad ognuno la “sua” morte), sia con il testo tedesco che
con la traduzione del germanista, da lei forse reperita a p. 230 di un altro suo libro (Vincenzo
Errante, Rilke. Storia di un’anima e di una poesia, Milano, Alpes, 1930)115; la Pozzi peraltro ne
modificò alcune parole, rendendola più semplice e moderna.»116.
Rilke per illuminare come tante delle ‘svolte’ di questo poeta furono vissute e
messe in pratica dalla stessa Pozzi, in una direzione che mise la poesia in costante
«Rainer Maria Rilke, nato a Praga il 4 dicembre 1875, rimase per tutta la vita fedele alla
leggenda che la sua famiglia avesse origini nobili. Irrequieto, viaggiava spesso e cambiava
domicilio: ora era a Monaco, a Berlino, a Worpswede, ora a Parigi o a Muzot, in Svizzera. Nella
poesia Der Dichter (Il poeta) scrive: “Non ho né amata, né casa, / nessun posto dove vivere”. È
quasi uno sradicato, ma si abbandona all’illusione di discendere da una di quelle nobili famiglie
che devono crescita, durata e continuità della casata a un luogo fisso e ben preciso, col quale si
identificano totalmente, persino nel nome che portano. La madre nutriva velleità letterarie e
scriveva poesie di facile musicalità, mentre il padre era un semplice ispettore ferroviario. Sulla
113
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 121. La citazione è ripresa dalla nota n°12.
114
Non ho riscontrato la presenza del volume fra quelli trasferiti nell’archivio del Centro
Internazionale Insubrico di Varese.
115
Questo libro è un regalo di Lucia Bozzi e porta la dedica: «a Tugnin sempre cara e / buona
Lucia. / 13 febbraio 1934».
116
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 121-122.
323
scia della creduta origine nobiliare, scriverà nel 1899 la celebre Canzone d’amore e di morte
dell’alfiere Christoph Rilke117, opera in prosa dall’andamento lirico, che ci presenta un presunto
antenato del poeta mentre infuria la guerra contro i turchi. […]. Rilke ha sempre considerato Das
Stundenbuch (Il libro d’ore, 1905) il suo vero grande inizio, l’opera in cui tratteggia la precarietà
del possesso (“Dicono mio e lo chiamano possesso, / …dicono: la mia vita, la mia donna / il mio
cane, il mio bambino, e sanno esattamente / che tutto: vita, donna e cane e bambino / sono
configurazioni estranee”) e, per converso, rivaluta la positività dell’ascesi e la pienezza della
povertà francescana: “Ché la povertà è grande splendore che viene dall’intimo”. Povertà non
solo delle cose, ma anche dell’amore che tende al distacco, e quindi alla solitudine, rivelandosi
eros della lontananza e della nostalgia. Il poeta innanzitutto vuole la solitudine, convinto che la
rinuncia al legame dell’amore sia necessaria premessa per concentrarsi nella propria interiorità.
È una presa di posizione che, più o meno variata, durerà all’incirca fino al 1914.»118.
È evidente quali possano essere i primi tratti di interesse della Pozzi per questo
poeta che fa delle scelte di vita (oltre che di sguardo su di essa) per correggere
bisogno di nobiltà, di radici salde e di una famiglia con un passato proprio perché
non possiede tutto questo. Al contempo, dopo aver incontrato l’amore con
comprende che i beni incontrati sulla terra non sono duraturi, non possono
soddisfare l’infinita sete di possesso da cui è spinto l’uomo. Per questo abbraccia
interiorità. La Pozzi pur desiderando per certi versi l’opposto del poeta austriaco
117
Questo libro compare nella biblioteca pozziana nella versione tedesca Die Weise von Liebe
und Tod des Cornets Christoph Rilke, Insel, Leipzig 1934 (la data di stampa non è presente sul
volume, ma è molto probabile che coincida con quella dalla versione digitale presente sul sito
theeuropeanlibrary.org. In ogni caso il libro comparse in prima edizione nel 1912, stando alle
notizie della casa editrice (suhrkamp.de sotto la sezione Bücher – libri – cercando il titolo di
Rilke). Fu il volume con cui la casa editrice iniziò la collana “Biblioteca Insel” (Insel-Bücherei,
n° 1). Della stessa collana (di rara bellezza e cura editoriale) la Pozzi possiede molti libri, fra cui
un altro, il n° 406, dello stesso Rilke, Briefe an einen jungen Dichter (Lettere a un giovane poeta),
pubblicato dalla casa editrice il 7 gennaio 1929 (fonte suhrkamp.de).
118
Dalla nota biografica curata da Gio Batta Bucciol a R.M. RILKE, La gioia degli angeli,
Edizione speciale per il Corriere della Sera, Milano 2012 (Le raccolte del Corriere della Sera,
Un secolo di poesia, 10), pp. 224-226.
324
nella pratica – ossia, ad esempio, una povertà intesa anche come assenza del peso
più nascosto a partire dalla meditazione sulla solitudine delle cose – mai spedita,
«Cara mamma,
dagli orologi fermi capisco la tua assenza. E stamattina nel solito bicchiere bianco, c’era
uno spazzolino da denti solo. Il tuo te lo sei portato via. Ma non credere che, te lontana, io faccia
cose che a te dispiacciono. Il mio sogno più caro è destinato a oscillare nell’aria lungamente, ma
poi – certo – a dissolversi nel sereno, oltre le cose. Perché amiamo perdutamente soltanto ciò che
non avremo mai: e per me è la miseria, vecchi con lunghi mantelli fra ciminiere di fabbriche
lontane, carraie che conducono a una cava di sabbia, bambine col grembiule rosso riflesse
nell’acqua dei fossi. La strada vera va lungo il marciapiede, ha consuete parole, vetrine infiorate,
un “Punto giallo” fra gli specchi, e un mite desiderio di sicuri stipendi.
Cara mamma, augurami di soffrire ancora a lungo per amore di fantasia: a questo patto
la tua ragazza potrà non morire. Antonia»119
La relazione di Antonia Pozzi con le cose è intrinseca nella sua natura di poeta.
fra il 1933 e il 1934, quando la Pozzi supera in modo doloroso la delusione data
dalla conclusione del rapporto con Cervi e si lega all’idea di un nuovo amore
con Remo Cantoni, la poetessa trae la forza per seguire il sentiero della loro
l’avvio ad una più profonda riflessione sul proprio fare artistico, data dalla
119
POZZI, Ti scrivo…, p. 285. Nella nota relativa viene precisato: «Lettera non spedita, scritta
nell’ultimo dei tre quaderni di poesie di A.P., tra Luci libere, del 27 gennaio, e Pan, del 27
febbraio 1938.».
325
frequentazione delle lezioni di Antonio Banfi, avvenuta proprio in quell’a.a., a
sublimarsi per lui, arriva ad esaurirsi. La domanda implicita e lecita che aleggia
nei meandri delle tensioni pozziane di questi anni universitari sembra essere in
sintesi: “che fare, dunque, ora, della mia poesia? Quale indirizzo per lei nella
mia vita?”.
Anche per Rilke questo aggancio verso le cose in poesia avviene attraverso una
serie di relazioni, fra cui quella con il ‘mestiere’ di un altro grande artista, Rodin:
«Nel 1900 si stabilisce a Worpswede, presso Brema, dove abita una piccola colonia di
artisti, tra cui […] la scultrice Clara Westhoff, la futura sposa da cui avrà la figlia Ruth. Tramite
Clara, allieva di Rodin, nel 1902 entra in contatto con lo scultore francese e si reca a Parigi,
deciso a diventare poeta plastico. Rodin, che con la sua risoluta personalità irruppe nell’animo
umbratile e sensibile del poeta, insisteva sul concetto di “mestiere”, del lavoro assiduo, continuo
e paziente, proprio dell’artigiano. Musil dirà che la poesia di Rilke, in precedenza di porcellana,
stava diventando di marmo.
Il nuovo traguardo della poetica rilkiana è la plastica oggettività delle Neue Gedichte
(Nuove poesie, 1907-1908), in cui decanta la lezione di Cézanne e Baudelaire e crea il tipo della
“poesia-oggetto”, che non rappresenta sensazioni, ma oggetti, “cose scritte”. […]
Ma una poesia del 1914, che porta il significativo titolo di Wendung (Svolta), mette in
crisi un tal modo di osservare: l’oggetto non reclama la distanza o l’impassibilità, ma lo sguardo
dell’eros coinvolgente. “Ché al guardare, ecco, è posto un limite / e il mondo guardato / vuole
crescere nell’amore”. È il momento cruciale, Rilke è arrivato alla svolta che salda l’arte alla vita
e che lo porta alle Elegie Duinesi e ai Sonetti a Orfeo. […]
Le Elegie Duinesi, in cui convivono poesia filosofia e squarci discorsivi, fanno
intendere il lungo cammino percorso dal lontano debutto – sensitivo e impressionistico – fino a
questi tardi blocchi di versi vigorosi e aspri, dove il vedere e il dire oggettivo vengono
relativizzati a favore di un’arte che prende coscienza delle istanze ultime dell’uomo e del poeta.
La ricerca rilkiana dell’interpretazione della vita approda all’ultima fase, in cui vita e morte si
presentano come due aspetti di un’unica affermazione. Orfeo, il dio della metamorfosi e del
congedo, insegna all’uomo che, a dispetto della sua caducità, può innalzarsi ad attimi di estatico
appagamento nominando le cose e godendone esistenza e contatto: “Provate a dire ciò che
chiamate mela. / Questa dolcezza”… “Danzate il sapore del frutto assaggiato”.»120.
120
RILKE, La gioia…, pp. 226-228.
326
verso il quale confluiscono, dal 1933 al 1935, le energie del pensiero pozziano,
che osserva l’evolversi del rapporto arte-vita sia negli autori letti o affrontati per
motivazione che dia senso e valore al suo scrivere versi, tentando di trovarla in
ugualmente della vita e della morte perché non sono che due aspetti di una stessa
natura. In questo senso le cose, nella loro essenza muta, insegnano all’uomo il
brevemente per rendere chiaro il riferimento. Si tratta di citazioni dalla tesi che
Antonia discute nel novembre del 1935, e quindi frutto di un percorso che era
iniziato quanto meno l’anno precedente, se già in una lettera alla madre, scritta
dal Breil il 24 luglio del 1934, dichiara: «ritornerò tutta contenta e riposata, tutta
121
Cfr. ROVAGNATI, “Parole…”, in AA. VV., …e di cantare…, p. 153: «C’è quindi in lei sempre
più impellente con il passare degli anni, soprattutto dopo la “rinunzia” definitiva all’amore per
Antonio Maria Cervi e fino all’incontro con l’impegno sociale concreto di Dino Formaggio, il
desiderio di coniugare il proprio quotidiano con il mondo della poesia, cha ha senso solo se di
questo quotidiano si nutre e, a sua volta, gli restituisce senso nella forma sublimata dell’arte».
327
“arzuta e pettorilla”, pronta a prendermi a pugni con Flaubert.»122.
ripensamenti[, per] ventisei»123 anni. La Pozzi nel secondo capitolo della sua tesi
Sentimentale”) appunta:
«Le cose, dunque, l’esame ragionato della realtà, la disciplinata aderenza al concreto
avviano Jules [il protagonista dell’E.S.] alla guarigione dagli eccessi fantastico/sentimentali della
sua gioventù romantica. I successivi trapassi di questo progressivo intellettualizzarsi di tutte le
posizioni sono riassunti nettamente in poche righe: [“Dal suo personale dolore ha contemplato
tutti gli altri, e in tale spettacolo è tato abbastanza lungimirante da poterlo sempre vagliare; per
breve tempo l’arte lo ha abbagliato, così come viene il capogiro a quanti si trovano ad altezze
eccezionali, e ha chiuso gli occhi per non restare accecato; poi ciascuna linea ha ripreso il suo
posto, i piani si sono stabilizzati, sono risaltati i particolari, i vari accordi sono comparsi, si sono
allargati gli orizzonti, l’ordine ch’egli ha scoperto si è trasferito in lui, le sue forze si sono
ripartite, la sua intelligenza s’è equilibrata”]124.»125.
122
POZZI, Ti scrivo…, p. 205. La stesura in sé durò solo due mesi, come confessa in una lettera
del 28 agosto 1937 scritta a Dino Formaggio: «fino ai due mesi pazzeschi in cui riuscii a buttar
giù una tesi, in cui – forse – c’è tutto il meglio di me – la storia e il programma – forse – della
mia vita, o almeno di un aspetto della mia vita.», in POZZI, Ti scrivo…, op. cit., pp. 273-274. In
un altro scritto, contenuto in A. POZZI, Soltanto in sogno. Lettere e fotografie per Dino
Formaggio, a cura di G. Sandrini, alba pratalia, Verona 2011, p. 39, la Pozzi dà una versione
leggermente diversa (e lievemente denigratoria nei confronti del proprio lavoro) per spronare
Dino al lavoro assiduo: «Te la do io sulla testa la pigrizia! – Quel che mi dici sulla tesi mi
spaventa addirittura: ma figliolo, figliolo, ricordati (non “che dobbiamo morire”) ma che hai
soltanto poco più di due mesi e una tesi in filosofia non s’improvvisa in una notte, lo sai anche
tu! Ce ne ho messi più di tre anch’io, che avevo da sbrigarmela solo con della robetta letteraria!»
123
Dall’introduzione a cura di A. Cenni a POZZI, Flaubert…, p. 11.
124
In francese nel testo: «De sa douleur particulière il a contemplè toutes les autres, il a vu assez
loin dans ce spectacle pour le pouvoir regarder toujours; un moment l’art l’a ébloui, ainsi que la
tête tourne a ceu qui se trouvent à des hauteurs extraordinaires, et il a fermé les yeux pour n’en
être pas aveuglé; puis toutes les lignes ont repris leur place, les plans se sont venus, les horizons
se sont élargis, l’ordre qu’il a découvert a passé à lui, ses forces se sont réparties, son intelligence
s’est équilibrée.», ivi, p. 163. La traduzione che ho citato è riportata in nota n°1 alla stessa pagina.
125
Ibidem.
328
essa stessa per la Pozzi un ordine ch’ella ha scoperto e che si è trasferito in lei,
giacché la ricalca nell’analisi della sua stessa vita sognata attraverso la pagina
della ripresa della scrittura diaristica, dopo un vuoto di otto anni126. Si tratta della
tormentata data del 04 febbraio 1935, quella dell’incontro con il suo relatore,
«L’evasione dal reale nel fantastico è lecita solo quando venga scontata con la pena
attiva dell’espressione. Per questo, della mia vita sognata, resta moralmente valida solo “La vita
sognata”, quei dieci fogli che sono riuscita a buttare fuori da me.
Tortura è stata la mia maternità immaginaria, valida fino a che ci fu al mio fianco un
essere che condivideva questo anelito di salvazione di una vita in un’altra vita, valida finché fu
non illusione, ma speranza, e speranza di bene non soltanto per me; ma quando si riconobbe
illusione e divenne soltanto dolore mio, si isterilì, si schematizzò. Feci del mio dolore
un’astrazione, un’armatura su cui appoggiare, scaricare la responsabilità della mia vita. Da quel
momento il mio dolore non ebbe più ragione, più diritto di esistere. Compiuta la rinuncia, io
avrei dovuto ricominciare a vivere, non fare di quella una teoria per sostenere la negatività della
mia vita. Come se quella che era stata la mia vita morale, giustificasse la mia vita amorale della
giornata. Amorale perché subita, coscientemente subita come uno smembramento della
personalità, un lasciarsi andare, disperdersi fra le cose, le anime, i gesti irriflessi, senza un
nocciolo interno, una mano che raduni le fila, che sprema l’uva perché ne coli il mosto.»128.
Per chiarire questo parallelismo delle svolte e delle prese di coscienza del
inserisce a margine della progressione logica della tesi, e che sono fondamentali
per comprendere quanto di personale ella rivedesse nella figura del Flaubert, per
126
È molto probabile che Antonia avesse proseguito nella scrittura anche nel periodo 1927-1935,
ma che i fogli siano andati distrutti (forse per mano del padre). Così la Dino ne fornisce
ragguaglio: «Nel quaderno manoscritto a matita, qualche pagina manca, accuratamente tagliata
e incollata. Sulla copertina, sotto la dicitura in stampa “Quaderno di”, si legge: Diario intimo,
nella grafia del padre di Antonia Pozzi.», nota n°9 all’introduzione a POZZI, Diari, p. 21.
127
Ivi, p. 39.
128
Ivi, pp. 38-39.
329
«La mia giovinezza è passata. La malattia di nervi che m’è durata due anni ne è stata la
conclusione, a chiusura, il risultato logico. Per aver avuto quello che ho avuto, bisogna bene che
qualche fatto abbastanza tragico sia successo anteriormente nella scatola del mio cervello. Poi
tutto si è ristabilito ho visto chiaro nelle cose, e in me stesso, ciò che è più raro. […] Avevo tutto
compreso in me, separato, classificato, così che fin[o] allora non c’era stata epoca della mia
esistenza in cui mi fossi sentito più tranquillo.»129.
Questo punto di estrema chiarificazione è ciò che porta l’artista francese alla
necessità di uno sguardo preciso sulla realtà, che evoca quello della geometria e
della matematica130 (ed è curioso che Antonia, appassionandosi poi allo studio
della lingua tedesca ne parli proprio in questi termini alla sua amica Lucia
Bozzi)131; un autore che con grande lucidità non vedeva in sé la forza del genio
di un Goethe132, ma l’alacre attitudine al lavoro partita dallo studio sullo stile dei
‘secondi’ autori, magari anche molto diversi per sensibilità e per questo
«”Per me […] finché, di una frase data, non mi verrà separata la forma dal contenuto,
sosterrò che queste sono due parole vuote di senso. Non ci sono bei pensieri senza belle forme,
e viceversa. La Bellezza trasuda dalla forma nel mondo dell’arte, come nel nostro mondo ne
nasce la tentazione, l’amore. Così come non puoi estrarre da un corpo fisico le qualità che lo
costituiscono, ossia il colore, l’estensione, la solidità, senza ridurlo a una vuota astrazione, senza
distruggerlo, in una parola, così non toglierai la forma dall’Idea, poiché l’Idea non esiste che in
129
POZZI, Flaubert…, p. 163.
130
Cfr. ivi, p. 164, ove la Pozzi cita, per chiarificare il carattere di Jules: «Egualmente lontano
dallo scienziato che si limita all’osservazione d’un fatto quanto dal retore che pensa soltanto ad
abbellirlo, per lui esisteva un sentimento nelle cose stesse, e le passioni umane nel loro sviluppo
seguivano parabole matematiche.». Poi in nota la Pozzi riporta la confessione di Flaubert riferita
a questo passo: «La poesia è una cosa altrettanto precisa quanto la geometria.», in ibidem.
131
Cfr. POZZI, Ti scrivo…, p. 254, lettera del 24 agosto 1936: «E questa lingua tedesca, la più
splendente, più spietata costruzione razionale, geometrica che si vede sulla terra.».
132
«Nel ’52 Flaubert scriverà: “(I sommi scrittori) non hanno bisogno di fare dello stile…; sono
forti a dispetto di tutti gli errori e anzi a causa di essi. Ma noi, che siamo piccoli, valiamo soltanto
per la compiutezza dell’esecuzione… Azzardo qui un giudizio che non pronuncerei in nessun
luogo: che i grandissimi uomini scrivono spesso male, e tanto meglio per loro. Non è lì che
bisogna cercare l’arte della forma, ma nei secondi (Orazio, La Bruyère)…Come istruzione
tecnica, c’è più profitto da trarre dagli ingegni sapienti e abili”», in POZZI, Flaubert, p. 188.
330
virtù della sua forma.”»133.
«Su questa forma che, superato a poco a poco il distacco platonico dall’Idea, attrae
questa in sé, fino a divenire con lei espressione unica e immediata dello spirito, si concentra
dunque l’interesse supremo dell’artista.
A ogni sfumatura di pensiero dovrà corrispondere una sfumatura di parola: e il cogliere,
fra le tante, la sfumatura esatta, “le mot juste”, “le mot unique”, dando vita con questo al pensiero,
è il compito e l’attributo del vero poeta.»134.
E la conclusione del capitolo da parte della Pozzi lascia stupiti per quanto il
vissuto del Flaubert coincidesse in quel momento proprio con il suo, ossia fosse
«Nelle Correspondance di Flaubert leggiamo: “Non si arriva allo stile che con un
travaglio atroce, con una ostinazione fanatica e devota. […]”.
Così, viene concentrandosi davanti a Flaubert e radicandosi nella sua anima stessa, la
figura ideale dell’artista lavoratore, con le ore del suo vivere affaticato, con le sue ascetiche
ebbrezze d’immaginazione. […].
Ma questo personaggio di Jules, viaggiatore in un simbolico deserto, scalatore di
un’ideale piramide dall’alto della quale, nella raggiunta pace della contemplazione, insegue
immobile gli infiniti orizzonti […] rivela troppo palesemente una capitale diversità con quel
torturato e acerrimo aggressore di vette in cui Flaubert raffigurerà se stesso alla fine del 1853:
“Non è forse della vita d’artista, o piuttosto di un’opera d’Arte che si deve compiere, come di
una grande montagna da scalare? Duro viaggio, e che domanda una volontà accanita!...A ciascun
rialzo della strada, la cima ingigantisce, l’orizzonte si allontana, si va attraverso precipizi, le
voragini e gli scoraggiamenti… Qualche volta, tuttavia, un colpo di vento arriva dai cieli e svela
al vostro stupore prospettive innumerevoli, infinite, meravigliose!... Poi, la nebbia ricade e si
continua a tastoni, a tastoni, scorticandosi le unghie sulle rocce e piangendo nella solitudine. Non
importa! Moriamo nella neve, periamo nel bianco dolore del nostro desiderio, al murmure dei
torrenti dello Spirito e col viso rivolto verso il sole!” ».135.
133
Ivi, p. 191.
134
Ivi, p. 192.
135
Ivi, pp. 193-195.
331
sconfessate dal fatto stesso che ad esprimerle sia Jules, suo personaggio fittizio,
«Flaubert dovrà compiere dunque un lungo cammino prima di trovare la terra su cui
usare gli strumenti già approntati dalla sua coscienza critica.»136.
oltrepassamento della vita nell’arte in una vera e propria prassi nella poesia. Ne
parla emblematicamente già in una lettera a Remo Cantoni del 25 agosto 1935,
in cui il ruolo della prosa si profila come quello di una sorta di allenamento nel
contrasto rispetto alla sua natura e in vista del miglioramento dello stile, come il
Flaubert le insegna:
«…sono stanca di questa pace, di questa natura che ormai presente l’autunno e
s’intristisce ogni sera, sempre al suono delle stesse campane. Ho ricominciato a scrivere versi e
non vorrei; è un brutto segno, ed è troppo presto. Avevo bisogno di un più lungo silenzio per
combinare qualchecosa di buono. Anch’io dovrei andar via, vedere molta gente e molto mondo,
sola e responsabile di me. Vorrei imparare a scrivere in prosa, e con questo intendo tutto un
nuovo modo di vedere la vita, più sano e più concreto. Non è detto che poi non debba tornare
alla poesia, ma forse sarebbe una poesia più completa, non più soltanto un’evasione, ma una
comprensione. Questi però sono bei discorsi teorici: in pratica non ho né abbastanza ingegno né
abbastanza volontà, e resterò sempre a mezz’aria, con la mia irrequietezza e la mia
insoddisfazione. Uno strambo Tognin scombinato.»137.
136
Ivi, p. 196.
137
POZZI, Ti scrivo..., p. 232.
332
Ma la sua decisione di deviare l’esperienza della scrittura in una pratica come
quella della prosa che non le riesce congeniale138 (e i due esperimenti del marzo
di rifiuto che ella percepisce da parte del mondo nei suoi confronti, esperienza
febbraio 1935:
«Desiderare di donarsi non può non essere la suprema delle aspirazioni di una creatura;
ma volersi ad ogni costo donare quando del rifiuto delle cose si ha già coscienza, è uno sconfinare
illecito, un proiettarsi in gigantesche fantasie che non hanno più realtà di un’ombra nera sul
muro.»140.
Lo stesso Rilke aveva espresso questo sentimento nella fase delle Nuove poesie
(1907-1908) ne Il poeta141
138
Scelgo di adottare la prospettiva di Tiziana Altea che nel suo saggio Il silenzio come “altra
voce” in Antonia Pozzi giunge a queste conclusioni: «Se poi ella individua nella produzione
letteraria in prosa, più aderente ai multiformi aspetti del reale, la composizione del conflitto
Geist/Leben, accettando la svalutazione banfiana della poesia coeva e arrivando così – atroce
silenzio nel finale del suo Flaubert – all’imbavagliamento della propria vocazione visceralmente
lirica, pur sa già che quando ci si misura – colti da afasia poetica – con la prosa senza averne
nell’intimo la peculiare “nudità e sanità”, allora “il lirismo rientrato salta fuori a tutti i passi e
cambia il colore giusto delle cose”. Nella Pozzi non può tacere il poeta e il suo protendersi alla
prosa resta, di fatto, solo un’esigenza teorica», in AA. VV., …e di cantare…, pp. 224-225. In
merito a questa scelta della Pozzi mi sembra corretto, per completare il quadro nelle sue
sfumature, aggiungere anche la precisazione che Michela Beatrice Ferri desume da Onorina
Dino, nella nota n° 28 del suo saggio Antonia Pozzi e Enzo Paci lettori del “Tonio Kröger”, in
ivi, p. 276: «A proposito della risoluzione del conflitto arte-vita, Onorina Dino sostiene che “se
tenta il passaggio dalla poesia alla prosa, come testimoniano le lettere alla nonna dell’ultimo suo
anno di vita, non lo fa per un rifiuto della poesia quasi fosse evasione e non vita, ma solo perché
ha fede anche nella prosa, cui affida il ruolo di risolutrice delle ‘crisi di incompatibilità tra arte e
vita, sofferte dai vari Tonio Kröger, dagli ultimi poètes maudits’”, O. Dino, “Postfazione”, in A.
Pozzi, L’età delle parole è finita, a cura di A. Cenni e O. Dino, Archinto, Milano 1989, p. 126.»
139
Cfr. BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 194-197.
140
POZZI, Diari, p. 39.
141
R.M. RILKE, Liriche, traduzione di Vincenzo Errante, Alpes, Milano 1929, p. 188.
333
Che farò delle notti e de’ giorni?
amore per le cose è latente anche in moltissime liriche della Pozzi, sin dal 1929,
positiva, come le parole della Bernabò avevano già anticipato nella lunga
meccanismo di forte tensione e messa alla prova di se stessa che si avvia con il
vado ora trattando, a cavallo della prima svolta di dedizione totale verso la
pratica della poesia (1933) fino all’inizio del processo di trasfigurazione della
sua vocazione verso la prosa (1935) – cammino sul quale iniziò a meditare in
quello stesso 1935, con i brevi tentativi a cui ho accennato, e che poi intraprese
con piglio volontaristico negli ultimi due anni della sua vita, pur essendo
142
POZZI, Parole, p. 183.
143
Ivi, p. 269.
144
Ivi, p. 320.
145
Ivi, p. 345.
334
questo rapporto sofferente rispetto ad un mondo che sembra rifiutarla,
conciliare la sua voce con le tante altre voci di poeti amati, di anime sorelle. Poi
intenzioni poetiche della linea lombarda, di cui il suo amico Vittorio Sereni fu
il maggiore esponente.
335
Sfiducia Fuochi di S. Antonio
Tristezza di queste mie mani Fiamme nella sera del mio nome
troppo pesanti sento ardere in riva
per non aprire piaghe, a un mare oscuro –
troppo leggere e lungo i porti divampare roghi
per lasciare un'impronta – di vecchie cose,
d’alghe e di barche
tristezza di questa mia bocca naufragate.
che dice le stesse
parole tue E in me nulla che possa
– altre cose intendendo – esser arso,
e questo è il modo ma ogni ora di mia vita
della più disperata ancora – con il suo peso indistruttibile
lontananza. presente –
nel cuore spento della notte
16 ottobre 1933 mi segue.
17 gennaio 1935
146
RILKE, Liriche, p. 129.
336
di quest'anima mia – si effonderà,
balenando su tutte le cornici
che rinserrano, Dio, l'effigie tua.
«Dammi, Signore, anche il più tenue cenno, / poi che ti son vicino» è
solerte: «Ove t'asseti un desiderio – alcuno / non v'ha che rechi alle tue labbra il
sorso. / Io sempre origlio, invece, alle tue porte.». Nella Pozzi la preghiera si
trasforma affinché Dio discenda in lei, le ridia la stilla di vita del canto: «Signore,
per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di Te / ch'io riviva.». A legare le due
è stato un anno arido dal punto di vista poetico, oltre che personale, e la Pozzi
sente di aver bisogno di riottenere ciò che le è stato bevuto. Al tema dell’acqua
Tua sete, Signore147 della quale la Pozzi sottolinea il v. 2, «la tua sete mi insabbia
147
S. QUASIMODO, Acque e Terre, Edizioni di Solaria, Firenze 1930, pp. 55-57. Ecco la poesia:
«I. // Signore degli Ulivi, / la tua sete m’insabbia la gola / movendo al Golgota, / con i cipressi
che in cupo saio avvolti / lievemente salgono il pendio / come cenobiti che tornano al rifugio. //
E le giare di Cana prima del miracolo // gorgogliano versando l’acqua gelida / in ciotole d’argilla,
sempre cave / per le labbra ch’ardono spaccate. // E il tonfo, e l’eco in fondo alle cisterne / dei
ciottoli lanciati dai fanciulli / m’è ritmo d’angeli nell’ora di canicola. // Nemmeno mi si porta
alle paludi / per bere la torba ch’ulcera le prode, / per succhiare la melma che mi guarda / dal
concavo dei botri / cogli occhi dei molluschi; // o alla mia terra ch’ha nuvole di zagara: / pistilli
e stami chiusi in una fiala / bianca e carnosa che spacca nella notte / per profumare la bocca delle
vergini; / e per me le transenne delle viti / gonfie di grappoli gelati dalla panna; // e il succo dei
cedri e dei limoni / che cola dai torchi negli ingordi tini, / e la sansa delle scorze umide / ove i
337
la gola».
Segnalo che a questa altezza la Pozzi poteva aver già letto anche le poesie a tema
religioso del simbolista da lei più amato – e veramente simile a lei per le delicate
Verhaeren, più appartato nei toni rispetto agli altri simbolisti. La poetessa segna
nel suo volume Choix de Poèmies la sezione Les Moines (I monaci, 1886) e
quindi la poesia Rentrée Des Moines (Ritorno dei monaci), Soir religieux (Sera
religiosa), Croquis de cloitre (Schizzo del chiostro) e nella sezione Les Débâcles
(1887; il senso del termine è in uso anche nell’italiano; in ogni caso in senso
proprio significa “il disgelo”, mentre in senso figurato “le sconfitte gravi”, “le
disfatte”), l’emblematica – per la sua sofferta dicotomia fra corpo e spirito – Vers
e quindi vive della volontà di dare forma alla propria incompiutezza, alla propria
sovvertite, come per uno scherzo della natura. È ancora inserita nella poetica che
la Pozzi comunica a Gadenz, ossia quella della catarsi del dolore attraverso la
poesia e rientra dunque in una sorta di aderenza lirica alla biografia che tenta la
porci guazzano, su l’aia. // II. // Il cammino è bruciato e già la croce, / a gobbe e circoli di
gromma, / m’inchioda e penetra nell’anima. // E in te l’anima s’avvolge / come l’orza alle bitte.
// Mi spezzano ghignando. Anche sul basto / le rosette di rame infisse agli orli / si battono con
cura; / e la crusca e l’avena in dolce impasto / fonde la greppia perché la zampa nuda / cinga ad
òmega la tempera di ferro. // Ho sete, Signore, ed è già sera; / e l’arsura mi venne dal tuo pane /
che gonfia al lievito che anima le pietre.».
338
sublimazione. La poesia è molto sintetica e rivive della lettura intensa di un
Ungaretti che nel Sentimento del Tempo è in cerca di un nuovo equilibrio nel
verso e nelle cose, attento a sottolineare l’unione dei contrari che materializzano
il tempo nel suo farsi. Di Ungaretti la Pozzi possedeva, nella sua biblioteca di
Pasturo, sia L’Allegra (Giulio Preda Editore, Milano 1931), invero poco letta
(più di metà del libro ha le pagine ancora da tagliare) che il Sentimento del Tempo
(nella collana Poeti d’oggi, Editore Vallecchi, Firenze 1933-XI, con un saggio
di Alfredo Gargiulo) invece molto letta e segnata dalla poetessa. Questo diverso
approccio nei confronti delle due raccolte è forse rintracciabile nella natura a due
parole che essa stessa sottolinea nella notizia in apertura, legate ad una visione
Sentimento del Tempo che si comprende lo scopo della sua operazione, tesa alla
moderno, di una novità memore150. Questa svolta non poteva non essere
apprezzata dalla Pozzi, che si era esercitata sull’endecasillabo fin dalle prime
148
Cfr. la notizia in apertura a G. UNGARETTI, L’Allegria, Giulio Preda Editore, Milano 1931, di
cui riporto la parte sottolineata da Antonia: «Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha
altra ambizione, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero altre, se non quella di lasciare
la sua bella biografia. Le sue poesie rappresentano dunque i suoi tormenti formali, ma vorrebbe
si riconoscesse una buona volta che la forma lo tormenta solo perché la esige aderente alle
variazioni del suo animo»
149
Cfr. il saggio del poeta Difesa dell’endecasillabo, in: G. UNGARETTI, Vita d’un uomo. Saggi
e interventi, Mondadori, Milano 1974, pp. 154-157.
150
Cfr. A. SACCONE, L’“attuale” e l’“eterno”: Ungaretti lettore di Dante, «Revue des études
italiennes», XLVI, (Janvier-Juin 2003), 1-2, pp. 121-132.
339
poesie, e che stava cercando una musicalità che potesse far coincidere il suo
sublimante. Con le parole dello stesso Ungaretti, il nocciolo della questione della
forma da dare alla poesia, in quegli anni, era il seguente: «La difficoltà è di non
infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato, e insieme di non essere
l’interazione con l’altro, è composta su uno schema ben definito per tipologia di
versi, (in maggioranza quinari e settenari, con due decasillabi in apertura delle
poetessa si cura di inserire, a chiusura del componimento, due versi che proprio
151
Ivi, p. 121. La citazione che fa Saccone è ripresa da: G. UNGARETTI, Intervista con G.B.
Angioletti: La poesia italiana è viva o morta?, [1929], in SI, p. 191.
152
Ad esempio in San Martino del Carso, se si uniscono i vv. 9-10, seguendo il senso del
periodare, si forma un endecasillabo: «Ma nel cuore / nessuna croce manca», in G. UNGARETTI,
Vita di un uomo. 106 poesie (1914-1960), Mondadori, Milano 199214 (Oscar classici moderni,
51), p. 36.
340
in un’ideale ricongiungimento si potrebbe ridare almeno una fede formale ad un
Questa definitiva deflagrazione era stata preparata nella prima strofa, spezzando
capo allo stesso sentimento di inadeguatezza dei vv. 3-4, ma per opposti motivi
del tempo, segnate dalla stessa poetessa, Canto153 e La pieta154 che credo possano
a quello di Preghiera.
Canto
Rivedo
153
G. UNGARETTI, Sentimento del tempo, con un saggio di Alfredo Gargiulo, Editore Vallecchi,
Firenze 1933, pp. 161-162.
154
Ivi, pp. 129 – 136.
341
E la cavalla delle reni
In agonia caderti
Nelle mie braccia che cantavano,
E riportarti un sonno
Al colorito e a nuove morti.
E la crudele solitudine,
Che in sé ciascuno scopre, se ama,
Ora tomba infinita,
Da te mi divide per sempre.
In Canto, la Pozzi sottolinea il verso Ora tomba infinita; ricompaiono qui alcuni
elementi della sua Sfiducia, come la bocca lenta a cui va incontro il mare delle
poesia fosse presente nella memoria della Pozzi, o quanto meno che la poetessa
fatto stesso di amare qualcosa che è altro da sé. L’introduzione dello specchio
dell’immagine, sia essa ricordo o realtà, rendendo il corpo della persona, la sua
dell’uomo, sul rapporto con Dio e con la morte, nonché sulla contraddittorietà
della vita che per essere tale ha bisogno dello scontro ma anche dell’equilibrio
155
Da Sfiducia in POZZI, Parole, p. 269.
342
fra opposti –, è stata sottolineata dalla Pozzi nella seconda delle sue quattro parti,
II.
Malinconiosa carne
Dove una volta pullulò la gioia,
Occhi socchiusi del risveglio stanco,
Tu vedi, anima troppo matura,
Quel che sarò, caduto nella terra?
156
Leggendola emergeranno altri interessanti spunti con la poetica pozziana che potrebbero
essere ulteriormente indagati: «I. // Sono un uomo ferito. // E me ne vorrei andare / E finalmente
giungere, / Pietà, dove si ascolta / L'uomo che è solo con sé. // Non ho che superbia e bontà. // E
mi sento esiliato in mezzo agli uomini. // Ma per essi sto in pena. // Non sarei degno di tornare
in me? // Ho popolato di nomi il silenzio. // Ho fatto a pezzi cuore e mente / Per cadere in servitù
di parole? // Regno sopra fantasmi. // O foglie secche, / Anima portata qua e là... // No, odio il
vento e la sua voce / Di bestia immemorabile. // Dio, coloro che t'implorano / Non ti conoscono
più che di nome? // M'hai discacciato dalla vita. // Mi discaccerai dalla morte? // Forse l'uomo è
anche indegno di sperare. // Anche la fonte del rimorso è secca? // Il peccato che importa, / Se
alla purezza non conduce più. // La carne si ricorda appena / Che una volta fu forte. // È folle e
usata, l'anima. // Dio, guarda la nostra debolezza. // Vorremmo una certezza. // Di noi nemmeno
più ridi? // E compiangici dunque, crudeltà. // Non ne posso più di stare murato / Nel desiderio
senza amore. // Una traccia mostraci di giustizia. // La tua legge qual è? // Fulmina le mie povere
emozioni, / Liberami dall'inquietudine. / Sono stanco di urlare senza voce. // II. [cfr. citazione
nel testo] // III. // La luce che ci punge / È un filo sempre più sottile. // Più non abbagli tu, se non
uccidi? //Dammi questa gioia suprema. // IV. // L'uomo, monotono universo, / Crede allargarsi i
beni / E dalle sue mani febbrili / Non escono senza fine che limiti. // Attaccato sul vuoto / Al suo
filo di ragno, / Non teme e non seduce / Se non il proprio grido. // Ripara il logorio alzando
tombe, / E per pensarti, Eterno, /Non ha che le bestemmie.», in UNGARETTI, Vita di un…, pp.
113-116.
343
È parto della demenza più chiara.
che ci resta», inserito nel contesto della relazione fra i vivi e i morti. Il senso di
questa impossibile ricomposizione fra i due opposti dell’essere e del non essere,
frutto della morte in pasto ai vivi. Il dubbio è racchiuso in questa analisi che
svela il bisogno di una fede in cui riposare il pensiero, poiché se di tutto l’affanno
della vita, del peccato della carne, della follia dell’anima che sogna, non resta
che un’ombra simile alla morte – il ricordo di una vita lontana – quale sarebbe il
senso del destino dell’uomo? Credo che la Pozzi abbia meditato ancora più
profondamente il valore di queste parole, ossia intendendo che tutto ciò che resta
ai vivi non è altro che il sentimento della lontananza, la presenza della coscienza
della morte in vita, che condiziona tutto l’essere e vi getta un’ombra di distacco
Come nella prima Preghiera, anche in Preghiera alla poesia le parole della
Pozzi verranno ascoltate dal destino, inviandole una persona in grado di farle
rinascere il canto. Se nel 1933 fu l’incontro con Gadenz a far rifiorire il credo
344
della Pozzi, nel 1934 sarà invece l’innamoramento per Remo Cantoni e dunque
se nei versi del 1932 il vocativo era rivolto al Signore, nella seconda Preghiera
sembra essere più consapevole del nome da dare a quella parte di sé, a quella
voce profonda che per tanti anni ha costituito il suo alto paese ove era possibile
tessere il sogno di una vita non vissuta, tradotto nel più dolce di tutti i canti. In
questa poesia, come in Fede, Antonia sembra aver fatto sue le parole di
Epilogo157 di Rilke:
Epilogo
157
RILKE, Liriche, p. 47.
345
divino tanto cercato – e mai del tutto abbracciato nella sua forma confessionale
–, nella poesia e nella vocazione poetica stessa. Antonia riafferma così la visione
già adombrata nelle conseguenze di Fede, ossia che in realtà la differenza fra i
due termini “Dio” e “Poesia” sia solo nella forma della parola, ma non nella
che la sua creazione non poteva che essere un meccanismo attivato da un Dio
creatore interno a lei; in Preghiera alla poesia condensa Dio con sé e con la
poesia. In questi versi scritti nell’estate del 1934 Antonia però è in preda ad
natura: il prato d’oro, l’erba, la terra. Anche in questo caso in cui le metafore
volano verso l’alto e la fantasia collega facilmente la terra al cielo («quella terra
/ […] dove un mattino per la prima volta / vidi volar nel sereno l’allodola / e con
gli occhi cercai di salire»158), sono presenti, come all’ombra delle parole, dei
padrona della sua vocazione, e nota che alcuni suoi comportamenti vengono
puniti con il silenzio e il rifiuto della presenza da parte della poesia. Veramente
pagana, per la quale la poetessa è spinta alla fede dalla paura, e non dall’amore,
158
POZZI, Parole…, p. 320.
346
come e fosse imbrigliata in una ritualità sacrificale per tornare gradita alla
divinità. Al contempo però questa poesia è anche parte della stessa Antonia, è
voce profonda e appare a chi con occhi di pianto si cerca: ritorna l’idea del dolore
come catarsi attraverso la quale il poeta arriva alla meta del suo alto paese. Il
suggerimento della via del dolore come redenzione per il poeta potrebbe venire
nella pagina del 4 febbraio 1935 aveva spiegato come la sublimazione del suo
dolore attraverso l’arte fosse stata moralmente lecita solo nel momento in cui
banfiani, era al centro del dibattito arte-vita: il Tonio Kröger di Thomas Mann.
con il suo stesso modo di affrontare il rapporto fra Geist e Leben, ne spiegherò
159
QUASIMODO, Acque e Terre, p. 30.
347
grazie alla sintesi che tratteggia la Bernabò:
«Il rapporto tra Geis e Leben con tutti gli aloni evocati da tali termini tedeschi: spirito,
arte, anticonformismo il primo; vita, quotidianità, aderenza a comportamenti più normalmente
borghesi il secondo [rappresentava una] questione [che] era stata posta dal celebre Tonio Kröger
di Thomas Mann, sicuramente l’opera più letta, discussa e sofferta da Antonia e dai suoi
compagni, con particolare riferimento a Gianluigi Manzi, Vittorio Sereni ed Enzo Paci.
Pubblicato a Berlino nel 1903, il libro è una sorta di incrocio tra il racconto lungo e il
saggio. In una città tedesca, che da vari elementi risulta essere Lubecca (città natale dell’autore),
si svolge la problematica adolescenza di Tonio Kröger, figlio dell’austero e ricco console Kröger
e di una fantasiosa brasiliana. Indifferente agli impegni scolastici, allo sport e al ballo, Tonio
ama la poesia e il violino. Nelle amicizie è però portato a ricercare, anziché chi gli è simile, chi
gli si contrappone per l’aspetto fisico e per gli interessi. Bruno come la madre, preferisce le
ragazze e i ragazzi biondi e con gli occhi azzurri; sensibile, umbratile, malinconico, si lascia
incantare dalle persone solari e in definitiva superficiali, alle quali vorrebbe assomigliare, pur
disprezzandole in un certo senso nell’intimo. Concepisce così un forte sentimento, prima, per il
baldo compagno di scuola Hans Hansen, poi, per la bella Ingeborg Holm. Dopo la morte del
padre e la chiusura della ditta familiare, si trasferisce nella Germania meridionale, seguendo le
sue inclinazioni letterarie, e diventa un personaggio famoso. Nel corso di n colloquio con l’amica
pittrice Lisaveta Ivanovna esprime, con una certa sofferenza, l’idea che, per essere veri artisti,
per creare, si debba rinunciare a vivere una vita normale, cioè alla comune, sana e un po’ banale
vita degli altri; e aggiunge di essere stanco del privilegio doloroso della conoscenza, che lo ha
portato, per un senso di naturale diversità, a estraniarsi da quel mondo borghese da cui pure
proviene e che in fondo non ha mai cessato di amare. Sente cioè di aver pagato un prezzo troppo
alto all’esercizio dell’arte. La risposta di Lisaveta, che è una specie di alter ego di Tonio, è la
seguente: “Lei è un borgese che si è messo su una falsa strada, Tonio Kröger, – un borghese
smarrito”. In seguito Tonio parte per un viaggio verso il Nord e, dopo un soggiorno nella città
natale, si reca in una località balneare danese, dove spera di riposare in tranquillità. Qui un
mattino vede (o crede di vedere, ma poco importa, dato il significato simbolico della cosa) Hans
e Inge e, alla sera, li rivede ancora mentre ballano leggiadramente davanti a lui. Tornato nella
sua camera, sente rivivere in sé per gli amici le emozioni di un tempo e si lascia invadere dalla
nostalgia per quel misto di gioia e di sofferenza che essi, senza neppure immaginarlo, in passato
avevano provocato in lui. In seguito scriverà a Lisaveta questo passo esemplare, che risulta
interessante anche per Antonia Pozzi: “se c’è qualche cosa che è in grado di fare di un letterato
un poeta, questa cosa è l’amore borghese per l’umano, per il vivente e l’usuale”.»160
di Gianni Manzi, l’amico morto suicida che stava scrivendo la propria tesi
proprio sul conflitto fra Geist e Leben nell’autore tedesco161. La Pozzi confesserà
già nelle lettere dell’estate del 1935 a Remo Cantoni e a Vittorio Sereni, dopo il
160
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp. 224-225.
161
Ivi, p. 226. Cfr. lettera a Remo Cantoni del 19 giugno 1935: «Povero Manzi: senza saper
niente mi chiamava Tonia Kröger», in POZZI, Ti scrivo…, p. 218.
348
naufragio della possibilità di una storia d’amore con Cantoni di sentirsi «proprio
poetessa si esprimeva con lucidità in merito alle reali implicazioni del romanzo
e in particolare circa la sua lezione che Tonio Kröger poteva rappresentare per
«Essere Tonio Kröger sta bene: ma non devo dimenticare che T.K. non viveva, ma per
creare.
Non vivere e non creare sarebbe da impotenti, da minorati. La nostra vita deve essere
la creazione. Ci vuole un seguito a T.K., o per lo meno bisognerebbe vederne l’altra faccia: la
rivincita sulla vita, sul ritmo a tre tempi, dolce e volgare della vita. La rivincita ottenuta col
lavoro preciso, assiduo, vivificatore: con l’arte che dell’oggetto che fu vivo e che dovette morire
rifà una cosa vivente.
T.K. nella tempesta, quando il suo cuore batte all’unisono con le onde sconvolte, non
sa formulare nessun canto. Saprà cantare – sebbene T.M. non ce lo dica – solo da riva, quando
la tempesta sarà solo un ricordo ed egli la contemplerà oggettivata nella sua immaginazione.
Il contrasto tra geist e leben non va inteso nel senso che l’artista è colui che non arriva
alla vita, ma colui che va oltre la vita. Infatti, come potrebbe comprendere, veder chiaro,
riflettere su ciò che non ha vissuto? Io vorrei dire questo, in ogni modo: che la luminosa vita di
Hans e di Inge può essere materia all’arte di T.K. solo in quanto egli vive dolorosamente il
distacco da essa e la vede attraverso il suo rimpianto.
Ma non nel momento in cui il rimpianto gli duole potrà farne materia d’arte: bens^
quando anche questa vita del suo cuore gli starà davanti, come un oggetto. A Tonio Kröger
mancano le pagine della ricostruzione, della gioia creatrice, della fertilità operosa. Ma queste
T.M. non ce le voleva dare: egli ha voluto oggettivare in un racconto la sua pena di borghese
sborghesizzato, la sua bohème spirituale.
Ha voluto mostrare a costo di che sangue ci si fa chiamare poeti: e l’errore di chi crede
che si possa – cogliere una fogliolina sola dell’alloro dell’arte – “sans la payer de sa’ vie”.»163.
162
Ivi, p. 224. Lettera del 20 giugno 1935 a Vittorio Sereni. Il momento della tempesta nel
romanzo coincide con il distacco del protagonista dalla Germania verso la Danimarca, ossia
quando è in viaggio per mare.
163
POZZI, Diari, pp. 44-45.
349
ricevuti all’università, in direzione di una definitiva comprensione del sé in tutte
le fasi della sua evoluzione, per arrivare al rinnovo del desiderio verso le cose.
Conclude la Bernabò:
momento le è ancora troppo presente. Non esistono dunque per lei vecchie cose:
in lei tutto si conserva con il suo peso indistruttibile, condensando ogni ora della
separata da sé»165: ossia probabilmente cosciente che la vita non può essere
l’accumularsi di un vissuto nelle maglie del ricordo, della nostalgia, del dolore,
Come ho anticipato, la Pozzi aveva già tentato una prima svolta nel 1933,
164
BERNABÒ, Per troppa vita…, pp.228-229.
165
ALTEA, Il silenzio…, p. 230.
350
trasformare la propria solitudine dall’interno: in questo senso le cose, la realtà
e divino:
4 maggio 1933
166
POZZI, Parole, p. 215.
167
Ivi, pp. 235-236.
351
e non soltanto lo vedevi tu, lo specchiavi
nella tua gioia:
anch’io, senza vederlo, sentivo
quel riso mio
come un lume caldo
sul volto.
Poi fu la notte
e mi toccò esser fuori
nella bufera:
il lume del mio riso
morì.
Mi trovò l’alba
come una lampada spenta:
stupirono le cose
scoprendo
in mezzo a loro
il mio volto freddato.
Mi vollero donare
un volto nuovo.
20 agosto 1933
state le cose stesse che, scoprendo il volto freddato della poetessa, un volto senza
gioia (privo del riso che è luce di primavera), vollero donarle un volto nuovo. È
emblematico che la poetessa identifichi questa mancanza del suo corpo (che
creato apposta per fare luce alla notte: l’alba, la natura nel suo ciclico rinnovarsi,
352
la trova come una lampada spenta, una cosa senza vita.
Ma Antonia si sente come una vecchia affamata del volto noto e amato della
Vergine, dell’immagine che abitualmente prega nella sua chiesa, e non può
credere a questa mutazione, non può venerare qualcosa di così distante dalla sua
verità, ossia non può cedere al compromesso di trasformare la parte più giovane,
vitale, pura, di sé: guardandosi, il suo cuore vede una donna perduta in quella
maschera. Eppure le cose, nella loro offerta del molteplice, riusciranno a vincere,
ancora una volta dal di dentro, ossia lasciando che la poetessa trovi l’oggetto più
Barche168
168
Ivi, p. 258. Graziella Bernabò rinviene l’eco del noto Bateau ivre di A. Rimbaud: «È evidente
qui l’eco del Battello ebbro di Rimbaud, non tanto però della parte che esalta la straordinarietà
del viaggio del battello-poeta, quanto piuttosto della seconda parte, riguardante la stanchezza del
medesimo e la sua nostalgia di un ritorno al punto di partenza. Ma le analogie con Rimbaud
finiscono qui e, d’altra parte, i versi più originali e interessanti della poesia sono quelli in cui
l’autrice concentra la sua attenzione sul carico della nave.», in BERNABÒ, Per troppa…, p. 163.
Si possono accostare anche i versi di Presagio di RILKE, Liriche, p. 68, poesia già usata dalla
Dino per aprire l’introduzione ai Diari pozziani come metafora di un «travaglio di uno spirito
che si confessa a se stesso», in POZZI, Diari, p. 9. Riporto almeno i versi della poesia di Rilke,
tradotta da Errante: «Io sono come la piccola bandiera / tra i comignoli eretta, / cui circonda lo
spazio, remoto. // M’è presagio dei venti che vengono: / e tutti io li vivo, / già prima che, sotto,
le cose / abbian palpito e moto. // Ancora si schiudono piano / le porte; / ancor nelle gole / di tutti
i camini, è silenzio; / né tremano i vetri; / e la polvere è greve. // Io so già la tempesta; / e son
come un mare agitato. / E mi spalanco, e mi chiudo, / mi torco, mi getto, ricado; // e son tutto
solo / per entro l’immenso uragano.».
353
fin ch'è doppiata
laggiù
la punta –
ed oramai la barca
più
non si vede –
così tu sai –
non è vero –
quale è il tuo villaggio, la tua casa,
quando ti colga la pioggia
in un porto straniero –
e la notte.
25 settembre 1933
Chiaramente il ruolo della montagna sarà più volte centrale nel percorso di
riacquistata fiducia nelle cose, che è un sentirsi parte dei luoghi amati, un dolce
Ritorno serale169
ed il silenzio allarga,
impallidendo, le braccia –
trae nel suo manto le cose
e persuade
la quiete –
18 ottobre 1933
169
POZZI, Parole, p. 270.
354
Nel 1933 dunque Antonia impegna tutte le sue forze nel canto, non lascia
esaurire nessun dettaglio della vita nel silenzio, nemmeno il silenzio stesso che
quiete –. Anzi è proprio un rinnovato valore del dialogo con il silenzio che ricrea
Stasera, stasera,
quando i volti degli uomini
saran macchie d'ombra e non più –
quando le case
al sommo
sole vivranno di luce –
io troverò me stessa
nel vecchio mondo
e profondo
sarà l'abbraccio
delle cose con me.
Riconteremo i fili
che legano i miei occhi
agli occhi illuminati delle vie,
riconteremo i passi
per cui l'anima versa
la sua sete di strade
sopra la buia terra –
170
Ivi, pp. 282-283.
355
Forse le cose
perdoneranno ancora –
forse, facendo
delle gran braccia arco
su me,
pergolati di sogni stenderanno
domani sovra il mio
solitario meriggio.
3 novembre 1933
E alle Cose171 sarà dedicata l’emblematica poesia che sancisce la fede nella loro
legame fra la visione di Antonia – portata ancora nel 1933 a ricercare simbologie
dei mondi, ossia la storia umana nel suo rinascere e fallire continuo. Questo anno
chiuso con l’immersione totale della sua anima nel credo di immense magie
sognata, di cui riporto il sesto movimento, Saresti stato173, anche per dare
un’idea di quanto questo modo di fare poesia potesse essere distante dalle idee
171
Ivi, p. 293.
172
Ivi, p. 312.
173
Ivi, pp. 304-305. «Annunzio» ha un doppio significato di nome proprio (A. Cervi, il fratello
reincarnato nel figlio) e nome comune (messaggio di una nuova vita e di un sogno realizzato).
356
di Banfi e fosse in verità distante anche dalle linee più avanzate della stessa
poesia pozziana:
22 ottobre 1933
Il 1935, anno cruciale per i tanti motivi sin qui descritti, è rappresentativo a
357
livello di poesia soprattutto per i versi di Un destino che chiamano la poetessa
alla missione della fenice, al rinascere ogni giorno per dare vita al mondo intorno
a sé nella gioia del canto, pur nella difficoltà di seguire una pallida strada nella
notte e nel constatare che nessuna porta / s’apre alla [s]ua fatica. Torna anche
l’immagine del peso del volto, disagio vissuto probabilmente anche a causa
profondamente radicato e sentito da non poter essere più in alcun modo smentito,
una lettera molto più tarda a Dino Formaggio del 5 maggio 1938 – appannare,
Antonia ha sulle vite degli altri, assorte in un unico fuoco che le dilacera nella
cecità, senza che possano rendersi consapevoli, di altri sentieri, di altri percorsi.
Anime serene in vita ma forse dannate alla maniera di Dante, chiuse in un proprio
Un destino
Lumi e capanne
ai bivi
chiamarono i compagni.
174
Cfr. POZZI, Ti scrivo…, pp. 290-291: «Caro Dino, l’altro giorno hai detto che nelle fotografie
si vede la mia anima: e allora eccotele. Perché l’unico fratello della mia anima sei tu e tute le
cose che mi sono state più care le voglio lasciare in eredità a te, ora che la mia anima si avvia
per una strada dove le occorre appannarsi, mascherarsi, amputarsi. Qui troverai tante cose che
già conosci: dietro ciascuna ho scritto un titolo o delle parole con poco senso, che però tu capirai.
Conservale per mio ricordo, per ricordo del nostro incontro che è stato buono e bello e mi ha
dato tanta gioia anche in mezzo al dolore. Caro caro Dino, che tu almeno possa foggiare la tua
vita come io sognavo che diventasse la mia: tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù. In
ciascuna di queste immagini vedi ripetuto questo augurio questa certezza. Ti abbraccio.».
358
A te resta
questa che il vento ti disvela
pallida strada nella notte:
alla tua sete
la precipite acqua dei torrenti,
alla persona stanca
l’erba dei pascoli che si rinnova
nello spazio di un sonno.
Ma sul lento
tuo andar di fiume che non trova foce,
l’argenteo lume di infinite
vite – delle libere stelle
ora trema:
e se nessuna porta
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti
ora accetti
d’esser poeta.
13 febbraio 1935
La difficoltà di questo rapporto antinomico fra sé e sé oltre che fra sé e gli altri,
Al tuo monte
che il vento esilia
dietro siepi di gemme chiuse
risali in sogno:
vinci a strappi il tuo peso tra le pietre.
E nasci
vena bianca nell'attimo d'azzurro,
nudo canto proteso
oltre le nubi
175
POZZI, Parole, p. 367.
359
mute.
Acqua di stagno
ti spaventa – ora – la voce
ridestata del vento,
lento ti beve
il sole
tra le canne sconvolte.
3 maggio 1935
La poesia rovescia costantemente gli appigli che erano noti e rassicuranti: gli
stessi elementi della natura che un tempo sapevano dirle parole di conforto oggi
Antonia e le cose sta proprio in questa loro estrema duttilità, nel servirle come
non nel contenuto, nella loro forma poetica riescono a dare vita alla relazione
con la poesia stessa, si fanno specchio di quella Sorgente che – se un tempo tutta
176
Cfr. la poesia Preghiera in ivi, p. 183: «Ma tutta l’acqua mi fu bevuta».
177
Ivi, p. 370.
360
Al largo,
a sbocchi d’irreali monti
fuggiva il lago,
onde verdi e grigie
su scale ritraendosi
di pietra.
l’importanza della relazione con Vittorio Sereni e in quale senso si possa parlare
poetico:
178
I quali, nell’immagine finale – simbolica e allo stesso tempo concreta – delle azalee, risuonano
in un altro ricordo, più equilibrato nel dosare sentimento nostalgico e istinto alla gioia: quello
del poeta Vittorio Sereni. Si tratta di Azalee nella pioggia: «Maturità scoppiante dei colori, / fu
vostra la grazia dell’aria / nel lume di primavera. Ora si turba / lo splendido fervore. // Ma se il
lago riaccenna al sereno / tra i canti d’una gita / sul mondo scampato ai temporali / le più bianche
s’illudono d’eterno. // Villa Carlotta – maggio 1937», in V. SERENI, Frontiera (1935-1940),
Edizioni di «Corrente», Milano 1941, p. 36.
179
BERNABÒ, Per troppa vita…, p. 127.
180
Ivi, p. 144. Si cfr. l’indicazione data dalla Bernabò in ibidem: «(cfr. Luciano Anceschi, Linea
Lombarda. Sei poeti, Varese, Editrice Magenta, 1952).».
361
Come ebbe a confessare la stessa Pozzi in una lettera a Vittorio Sereni del 16
«Mio caro Vittorio, ti ringrazio con tutto il cuore della tua buona lettera. Forse, da un
mese a questa parte, è stata l’unica gioia vera; mi è parso di ritrovarti di colpo e ho risentito tutto
quello che è ancora la tua amicizia per me, come quel giorno, sulle scale di casa mia, mentre
l’Alba era di sopra e non capiva niente, e io piangevo per le tue poesie – meglio: per quel che mi
facevano sentire le tue poesie in confronto dell’irrimediabile esteriorità di tutti gli altri miei
rapporti – ti ricordi? […] Mi ricordo di un discorso che mi facesti in treno, quella famosa
domenica dell’inutile gita a Monate: il tuo tormento era proprio questo, il senso di non saper
vivere, di aver nelle vene un sangue fittizio e degli arabeschi davanti agli occhi invece che delle
creature reali. Sono contenta, tanto tanto contenta di quello che mi scrivi ora. Soprattutto perché
è una gioia immensa sentire che al mondo ci sono ancora degli esseri – come te – capaci di
freschezza, di fiducia, di rinascita. Guai – io credo – anche per la poesia, se questa facoltà di
valicare di quando in quando il distacco, di riaffondare e perdersi nella vita venisse a mancare!
Cristallizzarsi in una posizione unica è rinunciare per sempre alla spinta, al moto: questo nasce
solo dall’oscillìo fra due poli contrari. Anche il fuoco non nasce da un sasso solo, ma da due
sassi percossi insieme. E quindi è un bene se per un po’ di tempo dimentichi di aver scritto
poesie: quelle che scriverai domani avranno in sé tutta la forza della vita a cui ti abbandoni
oggi»182
Due quindi gli elementi su cui mi vorrei soffermare: il carattere di rilevanza dato
al silenzio poetico in funzione della vita, a sua volta vissuta per tornare con più
meccanismo dicotomico volto all’unità da parte della stessa Pozzi, ma che ella
di una separatezza dalla verità della vita, sia attraverso il proprio stesso corpo
181
POZZI, Ti scrivo…, p. 228. Si tratta probabilmente di una domenica di aprile, stando ad alcuni
documenti fotografici in cui si riconoscono la Binda, Remo Cantoni e il fratello Ralph, Vittorio
Sereni, Antonia e Lina Pozzi. Cfr. ivi, pp. 228-229.
182
Ivi, pp. 228-229.
362
(«aver nelle vene un sangue fittizio»)183, sia attraverso la paura di non
confrontarsi mai con una realtà reale, con i corpi e le anime reali degli altri
(«degli arabeschi davanti agli occhi invece che delle creature reali»)184.
In questo senso vorrei accostare con la levità dell’impressione due poesie della
Convegno Le mani
29 maggio 1935
Questa capacità congiunta dei due poeti di andare oltre la presenza delle cose
della vita, è frutto di una ricerca meditata sul senso del fare arte, dello scrivere
versi, dell’essere poeta – nata con la frequentazione di Banfi187 - che non potrà
che portarli entrambi, su due binari paralleli, verso un’attenzione per tutto ciò
183
Ibidem.
184
Ibidem.
185
POZZI, Parole, p. 381.
186
SERENI, Frontiera (1935-1940), p. 14.
187
Anche Vittorio Sereni si laureerà con il professore, nel ’36, scrivendo una tesi su Guido
Gozzano, del quale ho analizzato in precedenza il rapporto – non comune nel panorama della
poesia coeva di inizio Novecento – con le cose. Per la notizia cfr.: A. POZZI - V. SERENI, La
giovinezza che non trova scampo. Poesie e lettere degli anni Trenta, a cura di A. Cenni, Libri
Scheiwiller, Milano 1995, p. 110.
363
che nella sua liminalità conferma la centralità della realtà nella verifica del
proprio sentire: ed ecco che nascono le poesie dedicate alla Periferia negli ultimi
anni di vita di Antonia; ed ecco che il giovane Vittorio Sereni trova le parole per
Compleanno
Un altro ponte
sotto il passo m’incurvi
ove a bandiere e culmini di case
è sospeso il tuo fiato,
città grave.
Ancora nel sonno
canti di uccelli sento
lontanissimi unirsi
e del pallido verde
mi rinnovi il tempo,
d’una donna agli sguardi serena
mi ritorni memoria,
amara estate.
Ma dove t’apri
e tra l’erba orme di carri
e piazze e strade in polvere spaési
senso d’acque mi spiri
e di ridenti vetri una calma.
Maturità di foglie, arco di lago
altro evo mi spieghi lucente,
in una strada senza vento inoltri
la giovinezza che non trova scampo.
Certo a legare i due giovani poeti non è solo la volontà di oltrepassare sé nell’arte
188
Verso tratto dalla poesia Compleanno, riportata immediatamente in seguito. La lirica si trova
in SERENI, Frontiera, pp. 18-19.
364
identità poetica189. Si confrontino Suburbio190 del poeta austriaco e Viaggio al
Ripudia
questo sangue il suo sole e le stagioni
infuriando
così sotterra, nella magica notte.
189
Cfr. la nota di Vecchio in merito al rapporto fra Rilke e alcuni banfiani, in VECCHIO, Gli
appunti…, pp. 356-357. In particolare riporto: «Si consideri inoltre, in relazione a Rilke, quanto
Sereni rivela a F. Camon (cit. in F. Camon, Il mestiere di poeta, Garzanti, Milano 1982, p. 124)
o scrive, polemicamente, a G. Vigorelli (“sono io che vado in cerca degli oggetti, non sono gli
oggetti che cadono e si raccolgono spontaneamente in me (Rilke, Rilke)”, lettera del 20
novembre 1940, e quanto L. Lenzini annota sull’immagine sereniana del treno e della ferrovia,
in Inverno a Luino, avvertendovi ascendenze rilkiane (V. Sereni, Il grande amico. Poesie (1935-
1981), introduzione di G. Lonardi, commento di L. Lenzini, Rizzoli, Milano 1990, p. 195).», in
ivi, p. 356.
190
RILKE, Liriche, p. 32.
191
POZZI, Parole, p. 413.
365
anche quelle altrettanto sfumate della Canzone lombarda192 di Sereni, il quale
– Digradante a cerchi
in libertà di prati, città,
a primavera. –
Ed è in alcuni versi di Sereni, nello strano presagio del tragico evento della morte
di Antonia che si anima in Diana193 e al contempo nel denso ricordo che egli
ritrovare posto la Pozzi, fra le cose e le parole, tutte intessute di una tensione fra
Diana 3 dicembre
192
SERENI, Frontiera, pp. 16-17.
193
Ivi, pp. 24-25. Anche in POZZI - SERENI, La giovinezza…, pp. 44-45. Sul foglio manoscritto
che Antonia aveva di questa poesia, ella diede il suo ultimo saluto all’amico: «addio / Vittorio, /
caro – mio caro / fratello / ti ricorderai / di me / insieme con / Manzi».
194
Ivi, p. 43. Anche in SERENI, Frontiera, p. 23.
366
di te come tu non sai
Anche l’ora verrà della frescura degli echi delle cacce che ti sfiorano.
col vento che si leva sulle darsene
dei Navigli e il cielo Pace forse è davvero la tua
che per le rive s’allontana. e gli occhi che noi richiudemmo
per sempre ora riaperti
Torni anche tu, Diana, stupiscono
tra i tavoli schierati all’aperto che ancora per noi
e la gente intenta alle bevande tu muoia un poco ogni anno
sotto la luna distante? in questo giorno.
367
CONCLUSIONE
La poesia della Pozzi si concreta di una serie di relazioni con le cose, mai
quanto esse riescono a riflettere il suo stato d’animo, il suo pensiero, o il suo
desiderio del momento. Se questo tratto della scrittura della poetessa porta ad un
immediati: l’accento grave sull’importanza del lavoro artistico che verrà posto
dall’incontro con l’etica banfiana (1933), era già molto presente anche nei primi
Il rapporto più intenso e duraturo con la realtà che la poetessa riesce a vivere è
368
autori, come Guido Rey e Carlo Felice Wolff non fanno che nutrire queste
trentino Tullio Gadenz nel quale la Pozzi sente rispecchiarsi la forza e il credo
liceo classico Manzoni di Milano, con il suo professore di latino e greco, Antonio
Maria Cervi – e, quindi, dalla tragica parabola del fratello poeta, Annunzio
rispondere in modo del tutto personale alle proprie pressanti domande in merito
369
negativamente le istanze del sogno in cui ha fatto vivere la sua poesia (e parte
intesa come un fare arte per andare oltre la vita. Consapevole criticamente della
attraverso le cose, la poetessa non riuscirà però a strozzare nella pratica la forza
della lirica, ben radicata in lei, e quindi a compiere il passaggio dalla poesia alla
idealmente alla poetica che più tardi verrà definita “linea lombarda” e della quale
romanzo incentrato sul problema – per un artista, nato borghese – della relazione
Dopo gli anni universitari, la Pozzi mantenne il contatto con l’universo banfiano,
Scrisse così alcuni saggi critici su Aldous Huxley e si impegnò nella traduzione
straniera, così controverso negli anni del fascismo, è un altro volto della presa di
370
più diversi fronti, ma soprattutto culturale e umana – svelato dal magistero
banfiano.
Il carattere di resistenza della poetessa, che per tutta la vita ha dovuto lottare fra
l’analisi dei testi di Antonia Pozzi. Esistono certamente dei temi individuabili
nella poesia pozziana, ma non sono questi a muovere le direzioni della sua
umanità ritrovata nelle cose più umili, la realtà dura della periferia, la morte e il
nascere – come il bambino che non le è mai nato –, possono rappresentare alcuni
conversione costante e quotidiana del suo essere persona, donna e poeta in fieri
in un atto linguistico autentico, istituito hic et nunc con la realtà che la circonda.
Ciò che muove Antonia sono gli incontri, le occasioni mancate, i sogni infranti,
il suo tentativo di crescere eticamente come una vera donna e un vero poeta,
371
La sua poesia è un ascolto poetico e puro dell’istante, vero perché sofferto e poi
donato, che rende il tema già superato nella concretezza scavata delle parole: il
titolo che è stato dato alla sua raccolta focalizza la nostra attenzione proprio su
questo aspetto. L’unico rifugio per Antonia sono le parole, nella loro concreta
forza di cose si confonde con la vita, la cui analisi in definitiva non risulta mai
Ed è questo l’augurio e il monito che oggi, nel tempo della nostra crisi, traggo
per riaffermare sempre, nel loro spazio di unicità, il valore delle parole come atti
in potenza.
372
BIBLIOGRAFIA
- AA. VV., …e di cantare non può più finire… Antonia Pozzi (1912-1938),
Milano 1972.
- G. BERNABÒ, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua
373
- A. CATTABIANI, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante,
Trento 2008.
374
- S. FREUD, Saggi sull’arte, Bollati Boringhieri
- G. LEOPARDI, Teorica delle arti, lettere ec. Parte pratica, storica ec.,
Firenze 1978.
2002.
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- F. PAPI, L'infinita speranza di un ritorno. Sentieri di Antonia Pozzi,
1943.
p. 247.
376
- A. POZZI - T. GADENZ, Epistolario (1933 – 1938), a cura di O. Dino,
- R.M. RILKE, Elegie duinesi, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2007.
della Sera», Milano 2012 (Le raccolte del «Corriere della Sera», Un
(Bibliothèque Charpentier).
Vicenza 1986.
Milano 1953.
377
- V. SERENI, Frontiera (1935-1940), Edizioni di «Corrente», Milano 1941.
Bologna 1987.
378
FONTI WEB
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alinari.it
caimilano.org
comune.bolzano.it
etimo.it
fondazionesellaonlus.org
ilfoglio.it
ilregnodeifanes.it
ladinia.org
lanuovasaredegna.it
lastampa.it
repubblica.it
treccani.it
vogliadifrancia.it
379
INDICE ESSENZIALE DEI NOMI
Alighieri Dante 44n, 114n, 124n, 202, 231n, 262, 257, 338n.
Banfi Antonio 39n, 43, 43n, 44, 44n, 45, 45n, 58n, 59n, 98, 98n, 99n, 168n,
208n, 209n, 255, 256n, 257, 266n, 282, 284, 309, 332n, 325, 328, 346, 348, 349,
Borgese Giuseppe Antonio 100, 100n, 201, 217, 217n, 218n, 220, 220n, 257,
Bozzi Lucia 8n, 31, 31n, 34, 41n, 72n, 75, 98n, 103n, 105, 105n, 127, 127n,
128, 133, 139, 187n, 206, 214n, 238, 239, 240, 242, 242n, 258, 260, 285, 310,
322n, 329.
Cantoni Remo 36n, 39, 39n, 40n, 45, 48n, 54n, 57, 58, 58n, 59n, 62n, 94n, 98n,
103n, 142, 206, 254, 255, 309, 324, 331, 344, 347, 347n, 348, 355, 361n.
Cervi Annunzio 95, 103n, 115, 140, 142, 143, 144, 144n, 145, 146, 146n, 150,
150n, 151, 157, 158, 160, 160n, 164, 165, 167, 177, 178, 179n, 180, 182, 183,
183n, 185, 187, 188, 193, 196, 196n, 202, 253, 303, 311, 337, 355n, 356.
Cervi Antonio Maria 25, 25n, 27n, 40n, 56n, 94n, 95, 103n, 139, 139n, 140,
142, 143, 146n, 151, 156, 160, 170, 176, 179, 179n, 180, 182, 185, 188, 196n,
198, 211, 227n, 241n, 245, 247n, 253, 254, 279, 304, 310, 311, 316n, 326n.
380
Corazzini Sergio 66, 66n, 67, 68, 163n, 223, 223n, 224, 224n, 226, 227, 227n,
228, 228n, 231, 233, 234, 234n, 235, 236, 236n, 237, 238, 238n, 240, 242n, 243,
D’Annunzio Gabriele 114n, 115, 144, 144n, 146, 149, 194n, 214, 218, 219, 221,
Flaubert Gustave 43n, 45, 116, 207n, 208n, 209n, 233n, 265, 265n, 266, 266n,
273, 273n, 282, 285, 290, 295, 295n, 306n, 326, 327, 327n, 328, 329, 329n, 330,
Formaggio Dino 168, 168n, 209, 255, 283, 286, 309, 326n, 327n, 357.
Gadenz Tullio 27, 27n, 28, 69, 74, 74n, 75, 75n, 76, 76n, 77, 77n, 78, 78n, 79,
79n, 80, 80n, 81, 82, 83, 83n, 84, 84n, 85, 85n, 86, 87, 88, 88n, 89, 89n, 90, 97,
97n, 98, 99, 99n, 101, 101n, 108, 109, 110, 110n, 111, 112, 112n, 113, 114, 114n,
115, 115n, 116, 116n, 117, 117n, 118, 118n, 150, 236, 236n, 254, 260, 337, 343.
Gandini Elvira 29n, 31, 31n, 34, 69, 120, 121, 121n, 122, 139, 142, 146n, 179n,
Gozzano Guido 219, 222n, 223, 223n, 225, 225n, 226n, 231, 231n, 234, 235,
Huxley Aldous 272, 272n, 273n, 274, 275, 276, 277, 278, 278n, 279, 281, 282.
381
Leopardi Giacomo 64, 64n, 65, 65n, 66, 185, 185n, 186, 188, 188n, 189, 189n,
192, 193, 193, 196, 197, 199, 202, 203, 203n, 204, 205, 211, 253, 262, 303, 313,
315.
Maeterlinck Maurice Polydore Marie Bernard 228, 228n, 235, 260, 292, 293n.
Pirandello Luigi 97, 97n, 98, 98n, 104, 104n, 105, 105n, 107, 109.
Quasimodo Salvatore 222n, 223, 223n, 319n, 336, 336n, 346, 346n.
Rey Guido 69, 110, 121, 121n, 122, 123, 123n, 124n, 125, 125n, 127, 129, 129n.
Rilke Rainer Maria 42n, 100, 102, 115, 116, 224, 244, 244n, 274n, 321, 321n,
322, 323, 323n, 324, 325, 325n, 326, 332, 332n, 335, 335n, 336, 344, 344n, 352n,
363, 364n.
Sereni Vittorio 42n, 48n, 58, 58n, 59n, 225, 254n, 272, 334, 347, 348n, 360,
360n, 361, 361n, 362, 362n, 363, 363n, 364n, 365, 365n.
Ungaretti Giuseppe 143, 144, 151, 158, 234, 235, 253, 338, 338n, 339, 339n,
382
Wolff Carlo Felice 23, 23n, 24n, 26n, 45, 47, 47n, 48n, 49, 49n, 52, 52n, 53n,
383
INDICE DELLE RIVISTE
«Lacerba» 148
«Eco della Cultura (L’)» 93, 95n, 144n, 147, 147n, 148, 151n
384
«Traduttore nuovo (Il)» 268n
385
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio di cuore tutta la mia famiglia per il sostegno di questi mesi di ricerca
scrittura.
A mio padre, Saturnino, che ha letto tutto in anteprima con passione e a cui
auguro di lasciarsi stupire da molte altre parole; a Matteo, che con i suoi consigli
netti e i suoi gesti d’amore, mi ha aiutato a uscire dai vicoli ciechi e a restare
nella luce; a mia madre Luisa che con il suo com-patire mi ha fatto prendere
A mia sorella Valentina, perché vuole esserci e c’è, anche ad oceani di distanza,
A Dario e Lella, che con la loro amorevole e assidua presenza mi hanno accolta
A Irene, perché vederti crescere nell’amore delle parole è la gioia più grande per
un’anima sorella.
A nonna Pinuccia che dice: “Dopo di questa basta, neh, ti riposi?” E che voleva
386
guardi da lassù e ti sento nella carne azzurra del cielo come nella stanchezza
Ringrazio tutti gli amici e i conoscenti che venendo a sapere della strana storia
della mia seconda laurea hanno reagito con grande entusiasmo e ammirazione:
ripartire con il sorriso utopico di chi vuole sempre donare di più. Grazie a
A suor Cry che ha posto tanti semi di bene in me, e a tutti i magnifici professori
che non ho speranza di eguagliare e che ho incontrato nel mio cammino e sono
con me nel mio voler essere migliore: la maestra Lorena, Suor Emanuela, la
Ringrazio il mio relatore, Enrico Elli, per la lettura estiva della tesi, in un tempo
costretto ma intenso, e per aver colto il senso della mia ricerca, aiutandomi a
sollecito nel soddisfare ogni richiesta con lo slancio di chi prende veramente a
387
Ringrazio il Prof. Minazzi e la Prof.ssa Lazzari del Centro Internazionale
coincidenze con le mie ricerche nei testi in un clima di fraternità di intenti alti e
Braidense per il senso di mistero e profondità che scaturisce dalla sua bellezza.
Milano.
Ringrazio tutto ciò che ho sofferto e abbandonato, con amore, per poter essere
qui.
388