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I marrani

La parola marrano inizia a circolare nel tardo Medioevo in Spagna. La sua etimologia viene
fatta risalire al termine arabo muharram, “cosa vietata”, usato per riferirsi al maiale, animale
la cui carne era proibita per precetto religioso ai musulmani e agli ebrei.
Inizialmente gli spagnoli impiegarono “marrano” nell’accezione negativa di “porco” per
riferirsi ai fedeli che scelsero di convertirsi al cristianesimo o più spesso furono obbligati a
farlo, in maniera più o meno violenta e coercitiva, per sottrarsi alla morte o all’esilio.
Questo termine indicava un’offesa altamente ingiuriosa e, nel corso del Quattrocento,
gradualmente iniziò a essere riservato ai soli ebrei.
Questo vocabolo entrò anche nella lingua italiana, subendo un ulteriore scivolamento
semantico. Da Niccolò Machiavelli, infatti, fu utilizzato nel Principe in un’accezione neutra
per indicare i convertiti che, alla fine, non sono né ebrei né cristiani. Dagli italiani il marrano
era inteso come il traditore, il bugiardo, lo spergiuro proprio in quanto “figura ambigua dal
punto di vista religioso”.
La storia del termine marrano testimonia il modo in cui l’antisemitismo pone le sue radici in
tempi molto remoti. Nel corso degli anni si è assistito all’acuirsi di questo fenomeno fino ad
oggi, in cui, nonostante vi siano stati alcuni miglioramenti, esso rappresenta ancora una
piaga sociale molto diffusa. Le Istituzioni moderne, tuttavia, si sono schierate prendendo una
netta posizione volta all’estirpazione dell’antisemitismo e del razzismo.
L’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riconosce il diritto di non
subire alcuna forma di discriminazione, tra cui quella fondata sulla razza, l’origine etnica o
sociale, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura.
L’Unione europea e i suoi Stati membri sono tenuti per legge a fare tutto ciò che è in loro
potere per contrastare efficacemente l’antisemitismo e per tutelare la dignità del popolo
ebraico.
È incoraggiante constatare come molti ebrei ritengano che il loro governo applichi misure
sufficienti per soddisfare le esigenze di protezione delle loro comunità. Tuttavia, il fatto
stesso che siano necessarie speciali misure di sicurezza, per esempio intorno alle
sinagoghe, alle scuole e ai centri comunitari ebraici, in maniera più o meno permanente per
garantire la sicurezza delle comunità ebraiche, indica un malessere sociale persistente e
profondo.
Gli ebrei in tutta la UE, infatti, continuano a sperimentare episodi di antisemitismo sotto
forma di vandalismo, insulti, minacce, aggressioni e persino omicidi. È impossibile esprimere
numericamente quanto corrosive possano essere tali realtà quotidiane. Ciononostante una
statistica allarmante invia un messaggio chiaro: negli ultimi cinque anni, in 12 Stati membri
dell'UE in cui gli ebrei vivono da secoli, più di un terzo dei cittadini dichiara di avere preso in
considerazione l’idea di emigrare per il fatto di non sentirsi più al sicuro in quanto ebreo.
I dati e i risultati dell’indagine della FRA (Agenzia dell'Unione europea per i diritti
fondamentali) affrontano questa lacuna presentando informazioni sulle esperienze di
antisemitismo di persone nella UE che si identificano come ebree. Prendendo in
considerazione 12 Stati membri della UE, l’indagine ha interessato quasi 16 500 persone. Le
loro testimonianze fanno riflettere, sottolineando che l’antisemitismo rimane pervasivo in
tutta la UE e, per molti aspetti, si è normalizzato in modo inquietante.
I risultati dell’indagine suggeriscono che l’antisemitismo pervade la sfera pubblica,
riproducendo e perpetuando stereotipi negativi sugli ebrei. Un confronto tra le indagini del
2012 e del 2018 mostra che tra gli intervistati è in aumento la percezione che l’antisemitismo
sia un problema sempre più grave nel proprio paese di residenza. Complessivamente, nove
intervistati su dieci (89 %) nell’indagine 2018 ritengono che l’antisemitismo sia aumentato
nel loro paese nei cinque anni precedenti l’indagine. Tra le dichiarazioni antisemite più
comuni, che si ripetono periodicamente, vi sono: «gli israeliani si comportano come nazisti
nei confronti dei palestinesi» (51 %), «gli ebrei hanno troppo potere» (43 %) e «gli ebrei
sfruttano la vittimizzazione dell’Olocausto per i propri scopi» (35 %). Gli intervistati si
imbattono più spesso in tali affermazioni online (80 %), quindi su media diversi da Internet
(56 %) e in occasione di eventi politici (48 %).
I risultati dell’indagine del 2018 mostrano che otto intervistati su dieci (79 %) che hanno
subito molestie antisemite nei cinque anni precedenti l’indagine non hanno denunciato il
grave fatto alla polizia o ad altre organizzazioni. Le principali motivazioni addotte per la
mancata denuncia degli episodi sono la sensazione che nulla sarebbe cambiato in seguito
alla denuncia (48 %), il fatto di non considerare l’episodio abbastanza grave da essere
denunciato (43 %) o il fatto che la denuncia comporterebbe un eccessivo disagio o
causerebbe troppi problemi. In questo contesto, è incoraggiante che il Parlamento europeo
abbia adottato nel giugno 2017 una risoluzione sulla lotta all’antisemitismo, che invita a
intensificare gli sforzi a livello locale, nazionale ed europeo. Ciò fa seguito a una serie di
iniziative della Commissione europea a livello europeo e mondiale. Tra queste la nomina,
nel dicembre 2015, di un coordinatore per la lotta contro l’antisemitismo; l’istituzione, nel
2016, di un gruppo ad alto livello della UE sulla lotta contro il razzismo, la xenofobia e altre
forme di intolleranza, che ha prodotto orientamenti politici per migliorare le risposte ai reati e
ai discorsi di incitamento all’odio, compresi i reati e i discorsi antisemiti, e nel maggio 2016
l’accordo con le società informatiche su un codice di condotta per contrastare i discorsi di
odio illegali online.
È fondamentale comprendere che ripetuti episodi di antisemitismo limitano gravemente il
godimento dei diritti fondamentali delle persone, compresa la tutela della dignità umana, il
diritto al rispetto della vita privata e familiare, o la libertà di pensiero, coscienza e religione.
Dall’osservazione dei dati e della realtà circostante, è possibile comprendere che la lotta
contro le discriminazioni risulta ancora aperta nonostante anni di battaglie e sangue versato.
Anche la scienza ha dato il suo contributo per contrastare il razzismo riuscendo a smentire
le credenze infondate che ritengono la specie umana divisa in “razze” a tal punto da poter
distinguere e ordinare le diverse popolazioni del mondo.
Prendendo in esame i risultati degli studi compiuti nel 1970 del genetista Richard Lewontin,
poi dell’italiano Luigi Luca Cavalli-Sforza e poi di una serie di tributi più recenti di Guido
Barbujani, è possibile dimostrare che il concetto di razza umana non ha alcuna base
scientifica. Se si considerano singoli caratteri, o singoli geni, infatti, essi sono sempre
presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, per
la frequenza dei singoli geni, tutte le popolazioni umane si sovrappongono. Nessun gene
può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Tutte discendono da
una medesima tribù vissuta in Africa circa 150.000 anni fa e diffusasi nei restanti quattro
continenti a partire da 100.000 anni fa. Qualsiasi accenno di divergenza tra popolazioni
diverse sarebbe stato presto interrotto, perché in questi cento millenni tutte le popolazioni
umane sono state in contatto tra di loro. Non c’è stata la possibilità di formare razze diverse.
C’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui. Nessuno di noi porta i medesimi
geni di un altro uomo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione
delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie
sapiens. Le differenze vistose che pure ravvisiamo tra le diverse popolazioni, per esempio il
colore della pelle, sono marginali. Effetto di lungo periodo dell’adattamento al clima e,
probabilmente, della selezione sessuale.
Inizialmente, però, si pensava che queste diversità visibili a occhio nudo fossero dovute alla
presenza di geni, cioè a quei pezzetti di DNA che sono responsabili delle caratteristiche
ereditarie, differenti nelle diverse “razze”. All'inizio degli anni ’70 del Novecento diversi
ricercatori, fra cui il genetista Richard Lewontin, decisero di studiare il DNA di 7 “razze”: i
caucasici (gli abitanti affacciati sul Mediterraneo, comprendendo anche i cittadini del Nord
Europa); gli africani sub-sahariani (tutta l’Africa ad esclusione degli abitanti del nord Africa); i
mongolidi (Asia orientale); le popolazioni del Sud-est asiatico; gli aborigeni australiani; le
popolazioni dell’Oceania (oceanici); i nativi delle Americhe (amerindi). I risultati di questi
studi dimostrarono che all'interno del loro DNA le persone appartenenti a “razze” diverse
sono molto simili tra loro, e ciò a causa delle frequenti migrazioni che nel corso dei millenni
hanno determinato continui “rimescolamenti” dei geni. Le differenze del colore della pelle,
degli occhi e dei capelli, pur essendo le prime caratteristiche che l’occhio umano nota e
utilizza per catalogare gli individui, sono dunque poco importanti rispetto al DNA, che è il
vero responsabile della struttura e dello sviluppo degli esseri umani. In questo modo, l’idea
di diversità razziale su base genetica veniva meno. Il concetto di razza è ancora
comunemente utilizzato in relazione alle altre specie animali, come ad esempio le razze
canine, per indicare diversi sottogruppi distinguibili all’interno della stessa specie.
Riferendosi alla specie umana, si preferisce parlare di popolazioni o di etnie, intendendo con
il termine popolazioni gruppi di individui che occupano un’area geografica precisa e con il
termine più gergale etnie gruppi di persone con lingua, tradizioni, cultura, religione, stili di
vita comuni e con antenati che, almeno alle origini, abitavano in uno stesso territorio.
Sebbene le motivazioni scientifiche di cui si dispone forniscono informazioni verificate e
inequivocabili, la strada per il raggiungimento di una società esente dal razzismo è ancora
lunga poichè l’idea che la specie umana sia divisa risulta difficile da sradicare dalle nostre
menti. Al fine di raggiungere questo obiettivo, infatti, è necessario un lungo percorso
educativo che deve essere favorito dai governi e deve rivolgersi soprattutto alle nuove
generazioni affinché dispongano di informazioni certe e veritiere. La politica, la sanità, la
società e la scienza dovrebbero interrogarsi maggiormente e mettere in atto efficienti misure
volte all'abbattimento di barriere razziali, la cui esistenza è incompatibile con gli ideali di ogni
società umana. Solamente attraverso un cambiamento radicale di mentalità e l’adozione di
politiche che favoriscano la pace, l’inclusione e la reciproca conoscenza potrà verificarsi un
reale progresso.

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