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NUOVI CORTILI

CAPITOLO I – LA CRISI DEI LEGAMI SOCIALI


1.1 Gli indicatori di solitudine
1.1.1. Italiani, gente sola?
Le rilevazioni e le previsioni demografiche realizzate dall’Istituto Nazionale di Statistica attraggono
l’attenzione dei media su alcune grandi questioni, in primis sul crollo della natalità, con il rapporto
nascite\decessi già da molti anni negativo. Un elemento che emerge dai dati sull’evoluzione della
popolazione, forse ancor più rilevante ma meno attenzionato dai mezzi di comunicazione, è la
progressiva e veloce diffusione della condizione di solitudine e di ridotta relazionalità in cui vivono
gli italiani, sia sul piano quantitativo che qualitativo. Impressione ad esempio che nel ventennio
compreso tra il 1994-1995 e il 2014-2015 il numero delle famiglie unipersonali (persone che vivono
da sole) sia aumentato di quasi il 50%: in pratica quasi ⅓ delle famiglie italiane oggi è composta da
una sola persona. Un altro aspetto da considerare è il calo del numero di famiglie con cinque o più
membri, scese in vent’anni dall’8,4 al 5,4%. Si tratta delle cosiddette famiglie numerose composte,
ad esempio, da due genitori o tre o più figli. Ebbene, ve ne sono soltanto una ogni venti nuclei
familiari. Nelle altre diciannove famiglie troviamo, invece, un esercito di adulti senza figli, di figli
unici o di bambini e ragazzi con ‘’solo’’ un fratello o una sorella. Il che, rapportato alle reti personali,
significa meno cugini e nipoti e, replicato nel tempo e nelle generazioni, meno zii, prozii e pronipoti
su cui poter contare. Un ultimo dato, connesso all’instabilità delle relazioni di coppia, è quello del
numero di famiglie mono-genitoriali con figli, pari al 21,5% del totale delle famiglie con figli. In
pratica ogni quattro\cinque famiglie che hanno figli a carico, ve n’è una in cui il ‘’peso educativo’’ è
portato soltanto dalla madre o soltanto dal padre.

1.1.2. Solidali ma affaticati


Il buon senso porterebbe a ritenere che, se le reti tra consanguinei si vanno indebolendo, le
persone siano maggiormente attive nel tessere relazioni di fiducia e di aiuto reciproco con coloro
che incontrano nel sentiero della vita: vicini, amici, colleghi. Un primo elemento da richiamare è
quello inerente le reti di solidarietà inter-familiare, indicando con questo termine le relazioni di
mutuo sostegno tra persone appartenenti a differenti circuiti familiari-parentali. A descriverlo sono
quattro indagini sugli stili di vita familiari condotte dall’ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica) negli
anni 1983, 1998, 2003 e 2009. Da queste rilevazioni scaturiscono due indicazioni molto
significative. La prima è che dal 1983 al 2009 si registra un aumento complessivo degli aiuti
informali tra famiglie, per un totale di 3,29 miliardi di ore annue nel 2009, contro i 2,84 miliardi di
ore del 1983. L’altra indicazione, di segno opposto, è che dal 1983 al 2009 il numero di nuclei
familiari che ha ricevuto aiuti dall’esterno, si è ridotto di circa un terzo. Inflessione ancora più
evidente se si restringe l’analisi alle famiglie con persone anziane (quelle aiutate da persone
esterne alla famiglia, scendono nel periodo 1983-2009 dal 35,5 al 26,3%). Com’è possibile che
all’aumento delle ore di aiuto informale non corrisponde un incremento del numero dei beneficiari
che, anzi, diminuiscono? I rapporti ISTAT, indagando sulle cause di questa riduzione, evidenziano
che essa è dovuta in gran parte all’aumento del fabbisogno di aiuto, da attribuire a tre importanti
cambiamenti: il significativo incremento della percentuale di popolazione anziana e molto-anziana,
che causa ancor più intensamente la crescita delle esigenze di cura della fascia ultraottantenne;
l’ampliamento dell’inserimento lavorativo delle donne, che determina l’incremento del bisogno di
aiuti nella cura dei figli; la già richiamata riduzione del numero dei componenti delle famiglie,
causata dall’indebolimento delle forme di sostegno assicurate dalle reti familiari e parentali. Le reti
di aiuto informale, dunque, non reggono il passo della dilatazione dei bisogni di cura.
Informazioni utili sono offerta dal CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia di Milano). In
particolare i rapporti degli anni 2009, 2011 e 2013 indagano sul cosiddetto capitale sociale
familiare, cioè sulla capacità delle famiglie di vivere e diffondere fiducia e sostegno, sia tra i propri
membri che nei confronti di persone esterne. I rapporti del CISF individuano in particolare tre
indicatori sociali familiari:

A cura di Alessia Ferraro


1. L’indice di capitale sociale bonding, relativo alla frequenza degli aiuti che le persone hanno
ricevuto dai familiari con cui convivono e al tasso di fiducia nel fatto che, in caso di necessità, tali
aiuti saranno ulteriormente assicurati;
2. L’indice di capitale sociale bridging, relativo alla frequenza degli aiuti ricevuti da persone
esterne alla famiglia (amici, conoscenti, colleghi) e alla fiducia nel loro sostegno in caso di
difficoltà;
3. L’indice di impegno civico, inerente le informazioni sulla partecipazione a riunioni e
appuntamenti di gruppo per discutere di problematiche del quartiere o del contesto locale, sulla
donazione di liberalità in denaro per fini di beneficenza e di solidarietà sociale.
Analizzando l’evoluzione degli indici nel quinquennio 2009-2013 emerge che l’indicatore bonding
evidenza la forte presenza di valori alti; sul fronte dell’aiuto informale verso l’esterno, emerge
addirittura un forte incremento e infine si presenta in leggera crescita l’indicatore inerente
l’impegno civico.

1.1.3. Insoddisfazione relazionale, sfiducia e calo della partecipazione


Un altro gruppo di indicatori è quello inerente la ‘’qualità percepita’’ dalle persone nelle relazioni
‘’calde’’. A tal riguardo l’ISTAT evidenza un esiguo (poco) ‘’grado di soddisfazione’’ delle persone
per i rapporti con parenti, amici e colleghi, che sarebbero di elevata qualità solo per il 22,5% delle
persone di 16 anni e più. Si tratta di un dato che colloca l’Italia al penultimo posto della classifica
europea, con circa 17 punti percentuali in meno rispetto alla media e molto lontano da Irlanda,
Austria, Regno Unito e Danimarca, dove la quota di persone che si dichiarano ‘’molto soddisfatte’’
supera il 56%.
Il fronte delle relazioni amicali è analizzato anche in merito agli aspetti quantitativi. In un confronto
tra i dati del 2001 e quelli del 2016 emerge che le reti amicali sono stabili sul piano della diffusione.
La quota di coloro che dichiarano di avere ed incontrare gli amici non evidenzia variazioni
significative e si aggira tra il 92% e il 93% della popolazione. Si va invece riducendo l’intensità
della frequentazione amicale. Difatti scende il numero di coloro che incontrano gli amici tutti i giorni
o più di una volta a settimana e sale il numero delle persone che li incontrano una volta a
settimana, qualche volta al mese o qualche volta l’anno.
Un altro elemento utile sulla qualità delle relazioni ci è offerto da alcune serie storiche elaborate
dall’ISTAT sul tema della fiducia. In questo periodo le persone pensano che ‘’la gran parte della
gente sia degna di fiducia’’ diminuiscono di circa il 10% (quota già elevatissima), mentre quelle che
ritengono che ‘’bisogna stare molto attenti’’ aumentano del 75,8% del 2010 al 78,1% del 2016.
Significativo anche che l’80.6% degli Italiani ritenga che, qualora uno sconosciuto trovasse il loro
portafogli, vi sarebbero poche o nulle probabilità di restituzione. Si tratta, evidentemente, di livelli di
fiducia bassissimi.
Un ultimo gruppo di informazioni che può darci un’idea del tenero delle relazioni tra le persone, è
quello relativo alle varie forme di partecipazione alla vita sociale. Dal 1993 al 2015 emerge un
segno positivo dell’attività gratuita svolta in associazioni di volontariato. Pressoché stabile si
presenta la presenza alle riunioni in associazioni ecologiche, per i diritti civili, per la pace e di altro
tipo. In leggero calo, invece, la partecipazione ad associazioni professionali, di categoria e ad
organizzazioni sindacali (calo da attribuire in particolare alla riduzione della partecipazione
maschile). In evidente riduzione la partecipazione ad attività connesse alla pratica religiosa, con la
riduzione di circa un quarto delle presenze settimanali nei luoghi di culto e l’aumento di un terzo di
coloro che non vi si recano mai. Infine v’è il dato della partecipazione ad organizzazioni politiche: ci
si informa maggiormente sui temi connessi alla politica ma si partecipa poco e sempre meno, con
un livello di presenze ridotto di un terzo sia in merito ai comizi che ai cortei.
Tutto ciò presenta una fotografia del Paese caratterizzata da:
1. Una rarefazione progressiva delle relazioni intra-familiari;
2. Un sistema di relazioni informali e di partecipazione associativa che cresce ma che riesce solo
parzialmente a tenere testa all’aumento dei bisogni sociali;
3. Un calo delle forme di partecipazione classiche (sindacato, partiti..);

A cura di Alessia Ferraro


4. Il diffondersi di un sentimento di sfiducia generalizzata tra persone.
Si tratta di un quadro che mostra punti critici che alimentano un diffuso vissuto di solitudine e
vulnerabilità. Comprendere le dinamiche distorte e cogliere i punti da valorizzare richiedere che
l’analisi sia approfondita e, soprattutto, ben territorializzata (riletta in chiave locale).

1.2 La difficoltà dell’essere con


1.2.1. Meglio soli? Il tranello della serendipità
Del progressivo senso di solitudine, mille voci si sono fatte interpreti; Papa Francesco il 25
novembre 2014 a Strasburgo, al cospetto del Consiglio d’Europa, nel voler raccogliere tutte queste
voci ha sottolineato che: ‘’Una delle malattie più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi
è privo di legami. La si vede particolarmente negli anziani, spesso abbandonati al loro destino,
come pure nei giovani privi di punti di riferimento e di opportunità per il futuro; la si vede nei
numerosi poveri che popolano le nostre città; la si vede negli occhi smarriti dei migranti che sono
venuti qui in cerca di un futuro migliore’’.
In teoria tutti gli esseri umani vorrebbero essere accolti, accogliersi, accogliere e condividere:
comune è solo il desiderio di conseguirli e ancora più la frustrazione di non averli conseguiti.
Nonostante i contatti inter-umani vadano progressivamente crescendo non aumentano le reti di
relazione delle persone, sempre più attanagliate da una ‘’affollata solitudine’’. Assistiamo ad un
processo di progressivo isolamento e di rarefazione delle relazioni che porta le persone a ripiegarsi
su sé stesse. C’è una sorta di deriva autoreferenziale, espressione della convinzione di poter
bastare a sé stessi, di potersi costruire da soli, di poter essere self-made. Si tratta di una dinamica
culturale che si insinua sia nella vita delle singole persone che in quella dell’intera collettività.
In una società dove ‘’quello che conta è l’efficienza, la produttività, l’immagine, la ricerca ossessiva
dello stare bene le persone tendono a concentrarsi su di sé: non gli interessano gli altri, non gli
possono interessare quando il punto centrale è la propria individualità’’. Questi processi erodono
progressivamente le relazioni tra le persone, determinando un dilagante senso di incertezza e di
sfiducia nei confronti di coloro che ci circondano. Difronte a questa analisi molti cadono nella
tentazione di ritenere che tali dinamiche riguardino gli altri. Occorre allora riflettere con attenzione
sulla propria quotidianità. Altri, esclamano dicendo che, in ogni caso, a star da soli non si fa nulla di
male o che ‘’è meglio essere soli che male accompagnati’’. L’altro ‘’deve essere tenuto a bada,
gestito a debita distanza perché solo evitando il contatto è possibile rimanere noi stessi’’. Non a
caso Bauman parla di ‘’società del sospetto’’, per indicare la sfiducia preventiva che sempre più
va diffondendosi. Il rischio, forse, è che di questo passo ogni compagnia possa divenire cattiva,
attivando una spirale di progressivo e inesorabile isolamento, di cui ciascuno rischia di essere sia
fautore che vittima.
È utile evidenziare che il mito del self-made va evolvendo nella direzione di un continuo ri-self-
made. La tendenza cioè non è semplicemente costruirsi da soli, ma anche a ri-costruirsi a
piacimento, ogni volta che lo si desidera, senza alcun vincolo con il passato, con sé stessi o con gli
altri, senza alcuna responsabilità. Una parola, non ancora molto diffusa, che ben descrive questa
tendenza culturale è ‘’serendipità’’. Tale termine indica uno stile esistenziale centrato sull’essere
aperti alle novità, a consumare nuove avventure ed esperienze, evitando di vincolarsi nel già dato.
Tradotto in termini relazionali significa non impegnarsi con alcuna persona, non legarsi né
vincolarsi, al fine di non perdere la libertà di sfruttare le nuove relazioni che man mano si
presentano. In un interessante libro sulla generatività (di Mauro Magatti e Chiara Giaccardi) si
evidenzia come una libertà così fortemente autocentrata esprima un prolungamento di una
modalità relazionale e affettiva tipicamente adolescenziale.
In questo scenario, il mondo sociale diventa un grande ‘’paese dei balocchi’’, colorato e più o meno
accattivante, che non porta da nessuna parte, perché stare con le persone senza sceglierle,
annulla il valore di ogni incontro finendo con l’essere assai superficiale e virtuale.
Oggi assistiamo a persone schiave del bisogno di soddisfazione immediata; tutto diviene consumo
che spinge a trattare sé stessi e gli altri come oggetti. Il rischio è insomma una grave alterazione
del rapporto con gli altri e con sé stessi, intrappolati in quello che Umberto Galimberti chiama

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analfabetismo emotivo. Una sorta di disumanizzazione inconsapevolmente scelta. Il filosofo e
psicanalista argentino Miguel Benasayag osserva: ‘’Paradossalmente la nostra società è riuscita a
foggiare un ideale di libertà che assomiglia alla vita dello schiavo e cioè di colui che non ha legami,
che non ha un posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero invece è
colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive’’.
Nell’antichità, la mancanza di legami era la condizione degli schiavi, ai quali era impedita la
possibilità di assumere delle relazioni stabili. L’avere una famiglia e dei vincoli rappresentava
invece la ricchezza degli uomini liberi. Oggi lo scenario è completamente invertito.

1.2.2. La crisi dei legami


Cos’è il legame? Come nasce? Come cresce? Perché è in crisi? È sempre buono o può anche
essere cattivo?
Nel vocabolario Treccani la parola ‘’legame’’ indica ‘’qualsiasi cosa con cui si lega o che tiene
legato’’. In senso figurativo significa ‘’vincolo morale o sentimentale: il legame di amicizia, il legame
di parentela, di sangue, avere un legame sentimentale. Più genericamente, qualsiasi rapporto
d’obbligo che limita la libertà d’agire e disporre di sé’’. Il legame, pur nascendo anch’esso da un
contatto interiore ed affettivo, indica lo svilupparsi di una dimensione normativa, tale da produrre
degli obblighi sociali. Assai chiara la definizione generale di legame proposta da Gian Paolo
Terravecchia: ‘’Una forma di obbligazione che un agente sociale ha nei confronti di un altro agente
sociale col quale è in relazione’’. Il legame sociale è dunque quell’insieme di obblighi che una
persona sente di dover assumere quando è in relazione con un’altra persona.
Uno degli esempi più evidenti della crisi dei legami è il fenomeno della crescente crisi coniugale e
della più generale ‘’de-matrimonializzazione’’ che sta sempre più caratterizzando i tempi d’oggi.
Sempre più critica è la rarefazione dei legami intra-familiari, con gravi ricadute relazionali, specie
se consideriamo che le famiglie rappresentano il ‘’principale luogo’’ in cui i soggetti sono educati
alle relazioni.
Il vissuto, a volte drammatico, delle persone è di vivere affianco ai propri cari con la percezione di
essere reciprocamente lontani e isolati. È qui che si parla di solitudine di coppia, di solitudine dei
figli, non solo per indicare l’isolamento delle coppie e dei ragazzi, dovuto alla riduzione dei rapporti
con parenti e vicini, ma anche l’isolamento nelle coppie e nelle famiglie, cioè la percezione di
essere soli, nonostante si viva nella medesima abitazione. Sono evidenti i segni di una progressiva
desertificazione degli spazi di dialogo, di condivisione, di tempo libero insieme dovuti sia
all’accelerazione dei ritmi della vita, sia alla diffusione di quella cultura del non legame.
Il sociologo statunitense Michael Walzer, riprende il tema dell’instabilità coniugale e lo affianca ad
altre tre grandi mobilità che stanno caratterizzando la crisi dei legami:
1. La mobilità geografica che, con il frequente cambio di residenza delle persone nel corso della
loro vita, riduce l’importanza dei sentimenti con le persone che ci vivono accanto, trasformando i
contesti locali in semplici ubicazioni;
2. La mobilità sociale, con la dispersione geografica dei figli rispetto alla residenza dei padri, che
rende molto più insicura la tenuta delle relazioni intergenerazionali;
3. La mobilità politica, con un rapido declino della fedeltà verso partiti, movimenti, capi,
organizzazioni civiche, segno di una liquefazione delle relazioni basate sulla comunanza di ideali.

1.2.3 Solitudine e insicurezza


Come molti autori evidenziano, dopo la grave crisi del legame sociale che ha attraversato tutta la
modernità, nell’odierna epoca post-moderna l’attenzione sul legame sociale sta acquisendo nuovo
vigore. Graziano Lingua, professore di Filosofia Teoretica presso l’Università di Torino, segnala
che ‘’Smarrita la fede ingenua nelle possibilità della tecnologia, l’uomo contemporaneo appare
dolorosamente conscio che gli stessi poteri che gli permettono di creare nuovi stili di vita recano
con sé il potenziale dell’autodistruzione’’. Graziano Lingua evidenzia come la figura disgregante
dell’homo individualis, abbia perso elementi importanti del vivere umano come, ad esempio, il
senso di appartenenza e quello dell’identità condivisa. Di questo rigetto delle responsabilità e dei
legami parla anche Bauman citando una riflessione di Richard Rorty il quale ‘’afferma che dopo
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aver capitalizzato individualmente sulle battaglie collettive e di solidarietà dei loro genitori, i figli
(benestanti) si stabilirono in lussuosi sobborghi e decisero di ‘’issare il ponte levatoio’’. Di fatto
queste persone conquistarono la loro singola promozione sociale grazie all’assicurazione
comunitaria contro le disgrazie individuali stipulata dai loro genitori’’. Possiamo così ben
comprendere le radici della cosiddetta sindrome del ‘’Nimby’’ (‘’non nel mio giardino’’) o dei più
neutri ‘’Lulu’’ (‘’usi localmente indesiderati del territorio’’).
L’inimicizia e l’indifferenza generalizzate sono frutto e causa di una diffusa ‘’mancanza di
sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma che il mondo di oggi è sempre meno in
grado di offrirci e che resta assente; anzi la nostra insicurezza aumenta di giorno in giorno e
attanaglia tutti noi’’.
Occorre ora convenire sulla diffusa e profonda difficoltà dei contemporanei a superare il muro di
solitudine che li separa gli uni dagli altri. L’uomo si scopre pressoché obbligato ad essere libero e
completamente abbandonato a sé stesso. Il che genera un quadro confuso e allarmante. Ben
vengano gli appelli di Bauman e di vari altri autori a ricordarci che, non è bene che l’uomo sia solo.
Certo è che il trend principale contemporaneo pende verso un eccesso di libertà ed una
rarefazione delle relazioni. Eppure, non è facile comprendere che in un contesto atomizzato solo
pochi avranno le risorse per fronteggiare i propri bisogni. Questa condizione non fa che alimentare
a dismisura una diffusa sensazione di insicurezza, la quale, come segnalava efficacemente John
Dewey è ‘’figlia legittima e adottiva della mancanza di mezzi’’.
Tutto ciò espone gli individui ad un accresciuto grado di ansietà e a una paura fondamentale, che
è quella dell’inadeguatezza, al timore di essere incapaci di mantenere di fronte a sé stessi e agli
altri l’immagine di un soggetto vincente e flessibile. Questo aumento del senso di sicurezza
produce, specie nei contesti urbani, un ‘’dubbio corrosivo’’ sull’oggi e, soprattutto, sul domani e
spinge gli individui a ripiegarsi su sé stessi e ad isolarsi dietro cortine di sospetto ed indifferenza.
Preziosa un’affermazione di Pierpaolo Donati: ‘’Il problema che ciascuno di noi deve affrontare sta
nel fatto che le relazioni sono invisibili, sono immateriali, sono beni intangibili.’’ Per capire che cosa
ciò significa, possiamo fare un paragone con l’aria. Anche l’aria è invisibile, è intangibile. Tuttavia,
noi senza aria non vivremmo; le relazioni sono la stessa cosa. Noi non possiamo vivere senza le
relazioni. Le relazioni sono un po’ come l’aria, non le vediamo e in genere le percepiamo solo in
negativo, quando diventano un disturbo, una fonte di disagi, conflitti e irritazioni del nostro Io.

1.2.4 Verso l’homo reciprocus?


In questo scenario di rarefazione relazione è automatico che si attivi una sorta di ‘’nostalgia’’. Non
mancano, da più parti, inviti a ritornare al passato, a ritrovare il gusto perduto delle relazioni. Inviti
che spingono alcuni a segnalare l’importanza del rispetto dell’individualità e quello che alcuni
chiamano il ‘’diritto alla distanza’’ interpersonale e che intende la libertà come ‘’la possibilità
dell’isolamento, senza obblighi connessi al bisogno di denaro, o al bisogno gregario, o all’amore, o
alla gloria o alla curiosità’’. Helmut Plessner ci allerta sui rischi di una visione sentimentalistica che
non si rassegna ad abbandonare la speranza che un giorno si possa giocare a carte scoperte e
che regnino sulla terra la trasparenza, la sincerità e la fratellanza. Il rischio è che un eccesso di
vicinanza contragga o annulli il diritto delle persone al riconoscimento e al rispetto della loro
individualità e al rispetto di una certa distanza interpersonale.
Alcuni propongono di compiere dei passi in avanti cercando il giusto equilibrio tra la libertà
individuale e i legami interpersonali. Consideriamo lo spunto offerto da Elena Pulcini: la prospettiva
di un cammino verso una ripresa dei legami ruota intorno alla logica del dono reciproco (homo
reciprocus) e alla possibilità che le persone tornino (o imparino) a fidarsi gli uni degli altri. Di
reciprocità e fiducia s’avverte un gran bisogno. Tuttavia, la presenza di un’esigenza, non indica di
per sé che vi siano le condizioni per poterla soddisfare. Occorre a questo punto chiedersi quali
siano le condizioni per stimolare e valorizzare la propensione umana al dono-cooperazione,
diffondendo fiducia e favorendo una fioritura relazionale. Così come diventa necessario
domandarsi chi sarebbero gli stimolatori, i promotori di tale ripresa relazionale. Le istituzioni?
L’associazionismo? E a chi andrebbe rivolto l’invito? A coloro che hanno qualcosa in comune? O

A cura di Alessia Ferraro


che vivono nel medesimo territorio? O che per motivi vari condividono i medesimi spazi? E infine
occorre interrogarsi sulla natura delle relazioni: siamo sicuri che siano sempre qualcosa di buono,
dotate di pregi e virtù? E perché, se buone, si vanno perdendo?

CAPITOLO III – LO SVILUPPO RELAZIONALE DEI CONTESTI DI PROSSIMITÀ


3.1 Definizione dell’oggetto di lavoro
L’oggetto a cui dobbiamo dedicarci è la metodologia del lavoro sociale di sviluppo relazionale dei
contesti di prossimità.
3.1.1 I contesti di prossimità
Il primo elemento da chiarire è che ci riferiamo a percorsi ed azioni che si rivolgono a persone che
condividono i medesimi spazi fisici. Nel far questo non ricorriamo al concetto di comunità. Si tratta
di un costrutto affascinante ed evocativo caratterizzato da una grande attualità e utilità. Tuttavia
esso si presenta talmente incerto da renderne assai rischioso e confusivo l’utilizzo, in quanto se da
un lato offre varie opportunità dall’altro non è scevro da pericolose trappole, al punto che alcuni
autori la inseriscono tra le parole bandite. Si preferisce utilizzare la dicitura ‘’contesti di prossimità’’
per indicare, appunto, lo spazio fisico-relazionale di cui interessa trattare. Ci poniamo, dunque, in
un orizzonte che localizza i nostri discorsi in quei contesti geografico-territoriali caratterizzati da
una frequentazione vis à vis tra le persone. Terri Mannarini, offre una definizione di territorio che
aiuta ad inquadrare bene il concetto di ‘’contesto di prossimità’’: ‘’Spazio geografico antropizzato,
un’area naturale nella quale un gruppo sociale ha espresso e realizzato un proprio progetto. Il
territorio si configura, dunque, come prodotto sociale, storico, costruitosi nel tempo attraverso
l’interazione, o la co-evoluzione, di ambiente e insediamento umano, natura e cultura’’.
Parliamo di quei luoghi dove le persone fanno esperienza di prossimità intesa in senso fisico, cioè
si incontrano, e che per questo motivo offrono occasioni di connessione emotiva e di concrete
espressioni di sostegno reciproca. Contesti nei quali, per effetto stesso della prossimità fisica, una
parte dei bisogni delle persone può trovare risposte comuni e una parte delle risorse può essere
condivisa. Contesti verso i quali si assiste ad una rinnovata attenzione, da Giddens definita come
processo di re-embedding, orientato ‘’alla riappropriazione e alla ridefinizione di relazioni sociali e
alle condizioni locali di spazio e tempo’’, caratterizzati da interazioni di mera compresenza, che
non determinano automaticamente condivisione e benessere relazionale.
Ci riferiamo ai contesti la cui frequentazione si basa sulla collocazione abitativa: il condominio, il
vicinato, il quartiere, il comune. Ci riferiamo anche alle scuole dell’infanzia e primarie e alle
parrocchie, la cui ‘’utenza’’ è in gran parte proveniente dalla medesima zona abitativa. L’attenzione
va anche a quelle ulteriori realtà che, pur raccogliendo persone residenti in posti diversificati, le
riuniscono in un determinato luogo con una frequenza tale da creare un ulteriore contesto di
prossimità: le scuole secondarie, le università, i luoghi di lavoro caratterizzati dalla presenza
costante dei medesimi operatori. Qui le persone, pur abitando in posti differenti, si ritrovano
quotidianamente, sviluppando frequentazioni anche più assidue di quelle rinvenibili nei luoghi di
residenza. A metà strada tra queste due tipologie vi sono infine i gruppi di self-help, una parte delle
associazioni ed altre realtà che radunano fisicamente, con una certa assiduità, le persone sulla
base di una comunanza di interessi, valori, ideali, bisogni. Consideriamo ‘’contesti di prossimità’’
quelli che sono organizzati su base territoriale o che, pur raccogliendo persone provenienti da
zone diverse, le riuniscono con una elevata frequenza.
Non è impossibile che, nel nostro mondo globalizzato e digitalizzato, si sviluppino anche reticoli
relazioni a-territoriali, capaci di attivare dinamiche di appartenenza. Ovviamente le dinamiche
relazionali assumono caratteristiche molto diverse a seconda della presenza o meno di una
condizione di vicinanza fisica. Non è difficile concordare sul fatto che all’interno di un preciso
territorio siano più probabilmente rinvenibili agenzie e soggetti disponibili (o addirittura deputati) ad
un impegno specifico e continuativo nel lavoro di sostegno al benessere relazionale delle persone.
Si pensi all’interesse che un sindaco, un servizio sociale territoriale, i parroci, i direttori d’ospedale,

A cura di Alessia Ferraro


i comandanti di caserma, possono avere nel diffondere benessere relazionale nel proprio territorio
di competenza.

3.1.2 Lo sviluppo relazionale


Ricorre alla dicitura dello sviluppo relazionale per utilizzare in modo complementare due diversi
significati. Innanzitutto intendiamo lavorare a ‘’sviluppare le relazioni presenti nel contesto di
prossimità’’. Attivare quindi un processo di connessione tra le persone che abitano e\o
frequentano il contesto. Puntiamo a questo mediante l’aumento del numero di interazioni che
ciascun membro ha con gli altri, favorendo quindi l’attivazione di nuove relazioni, contribuendo ad
ampliare la percentuale di coloro che si conoscono rispetto a quella di coloro che non si
conoscono. Miriamo, inoltre, a favorire la ‘’reticolazione relazionale’’ lavorando anche al
miglioramento delle connessioni già attive, sia stimolandone una maggiore intensificazione (in
termini di frequenza e significatività) sia accompagnandone l’evoluzione qualitativa, affrontando e
risolvendo eventuali conflitti approfondendo i livelli di fiducia e stima.
L’altro fonte sul quale si intende lavorare è quello volto a ‘’sviluppare il contesto di prossimità
attraverso le relazioni’’. Ci si riferisce in questo caso non solo all’effetto indiretto che lo sviluppo
delle relazioni arreca al benessere complessivo del contesto, ma anche alla possibilità che
l’approccio relazionale possa essere direttamente utilizzato per favorire lo sviluppo di ogni aspetto
del contesto di prossimità.

3.1.3 Il target: popolazione e soggetti formali


Un altro elemento fondamentale è il target. Si tratta di un aspetto che non va dato per implicito e
scontato, perché rappresenta il crocevia tra gli obiettivi perseguiti e la metodologia che si intende
mettere in campo. La sua definizione incide fortemente sulla tipologia di azioni da realizzare,
sull’entità e la natura delle risorse da investire. È convinzione comune che, nel definire il target di
un intervento, sia utile distinguere tra i beneficiari del percorso (coloro il cui benessere desideriamo
custodire e ampliare) e gli altri destinatari del percorso (cioè l’insieme più ampio di coloro che
vengono raggiunti dalle azioni messe in campo). Tale distinzione si presenta piuttosto utile perché
ci aiuta ad esplicitare che il nostro target comprende non solo la popolazione che risiede e\o
frequenta il contesto considerato (che sono i beneficiari dell’intervento) ma anche i soggetti formali
(istituzioni, soggetti economico-commerciali, enti non profit) che vi operano.
In merito alla popolazione beneficiaria del nostro lavoro, entrando ulteriormente nello specifico, è
opportuno distinguere tre macro-fasce d’azione:
1. Interventi rivolti a tutti i frequentatori del contesto, senza distinzioni di sorta, finalizzati a
promuovere direttamente una crescita del benessere relazionale generale;
2. Interventi rivolti a singole fasce di membri, omogenee per difficoltà (persone con problemi di
depressione, immigrati con esigenza di mediazione e integrazione culturale, persone disabili), per
interessi (persone appassionate allo sport, all’arte), per valori (persone che praticano una
confessione religiosa), per fase di vita (giovani, genitori in attesa di un nuovo figlio), bisogni
(bisogno di accompagnamento dei figli a scuola, bisogno quotidiano di fare la spesa);
3. Interventi rivolti a singoli soggetti, famiglie o gruppi con situazioni di disagio conclamato. Si tratta
di situazioni seguite da uno o più servizi socio-sanitari, caratterizzate da elevati livelli di
problematicità e da gravi carenze personali, materiali e sociali.
I percorsi realizzabili con le prime due macro-fasce hanno caratteristiche preventivo-promozionali.
Quelli inerenti la terza macro-fascia intrecciano l’azione di prevenzione e promozione con quella di
riparazione.
Non molto lontane da questa tripartizione sono le due tipologie di intervento schematizzate da Alan
Twelvetrees: un approccio generalista, sganciato dalla necessità di erogare una determinata
prestazione e quindi esclusivamente centrato sul coinvolgimento delle persone ed aperto a
qualsiasi tematica (gioco, lavoro, tempo libero), e a qualsiasi gruppo di interlocutori (anziani,
donne, disabili); un approccio specialistico, che mira ad intrecciare l’attività di coinvolgimento
delle persone con l’organizzazione di una specifica prestazione.

A cura di Alessia Ferraro


3.1.4 La centratura metodologia
Un ulteriore elemento da precisare è la centratura metodologica della riflessione. Premesso che lo
sviluppo di relazioni interpersonali di norma avviene in modo informale, spontaneo (spesso
istintivo), ci interessa elencare ed esplicitare quali sono ‘’i passi’’ da compiere allorquando
intendiamo attivare intenzionalmente (quindi premeditatamente, razionalmente) un lavoro di
tessitura di nuove relazioni o di approfondimento di quelli già esistenti. Nel Vocabolario Etimologico
della Lingua Italiana troviamo descritto il significato della parola metodo: ‘’Modo ordinato e
conforme a certi principi di governarsi nell’operare; modo di operare per ottenere uno scopo’’.
Il metodo dunque ha lo scopo di evitare l’improvvisazione. Non esclude l’ingegno o la creatività che
si proceda alla rinfusa, in preda alle varie evenienze e privi di una bussola. Il metodo deve essere
riconoscibile e esplicitabile, cioè chiaro, evidente, individuabili, descrivibile e, in quanto tale, anche
migliorabile, revisionabile. Ogni metodo, per collocarsi in modo adeguato, ha necessità di reggersi
su un modello teorico, cioè su un robusto e coerente impianto di conoscenze. Non su di una base
astratta, bensì teorico-pratica ‘’che orienta l’operatività, uno schema mentale, una struttura
cognitiva, uno strumento per osservare la realtà’’.

3.1.5 Il lavoro sociale


Il lavoro sociale per alcuni potrebbe significare il ‘’lavoro sociale dagli assistenti sociali’’.
Sicuramente il servizio sociale professionale svolge un ruolo determinante nel lavoro sociale. Altri
potrebbero ampliarlo alle altre tipologie di operatori professionali impegnati nel fronteggiare
problemi sociali e nel favorirne il superamento, in modo diretto (psicologi, pedagogisti, sociologi)
ed indiretto (insegnanti, medici di base). Altri ancora potrebbero estendere il concetto al lavoro
svolto da tutte le professioni in quegli ambiti nei quali è in gioco l’interazione tra gli esseri umani e
la società, e quindi sia coloro che studiano queste dimensioni (gli economisti, i politologi) che
coloro che le praticano (i politici, gli operatori pastorali). Un ulteriore ampliamento potrebbe, infine,
estendere il concetto alle azioni svolte da ogni persona che si impegna intenzionalmente nel porre
in essere azioni volte ad incidere sulle relazioni tra gli esseri umani e tra questi e il contesto in cui
si trovano. Ciascuna di queste ipotesi ha una sua ragionevolezza ma questa estrema apertura
rischia di lasciare eccessivamente indefinito il quesito iniziale e cioè ‘’cosa intendiamo per lavoro
sociale’’. Un’operazione utile può essere quella di definire l’oggetto di tale lavoro partendo
dall’aggettivo ‘’sociale’’. Etimologicamente il termine ‘’sociale’’ indicherebbe una forma di
interazione tra le persone caratterizzata da una certa densità. Nel linguaggio odierno il termine ha
assunto varie sfumature e significati: ‘’che ha attinenza con la vita dell’uomo in quanto partecipe di
una comunità’’; ‘’che riguarda l’ambiente in cui si vive, le persone con cui si è in contatto’’; ‘’tutto
ciò che concerne la vita, le relazioni, i problemi di una determinata società e dei suoi componenti’’.
In sintesi, possiamo dire che il lavoro sociale è lo svolgimento intenzionale di azioni volte ad
intervenire sulle relazioni tra le persone e tra queste e il loro ambiente. Emerge con evidenza
la complessità di tale lavoro, soprattutto se consideriamo la dinamicità, pluralità e interattività della
realtà sociale.
Per indicare quali sono le caratteristiche del lavoro sociale ci viene in aiuto la ricognizione
compiuta da Franca Ferrario nella ricerca delle ‘’parole chiave’’ che qualificano tale lavoro. Tra
queste: la relazione considerata sia come strumento di attivazione e riattivazione di iniziative e
percorsi che come prodotto; la collocazione all’interno di contesti organizzativi sistemici; la
funzione di cerniera tra bisogni della comunità e istruzioni, tra risorse del territorio e problemi, in
situazioni di squilibrio tra bisogni e disponibilità. Un’ultima breve specificazione sul concetto di
‘’lavoro sociale’’ può essere tratta dalla differenza tra la ‘’cura sociale’’ e la ‘’cura sanitaria’’. Il
lavoro sociale, in sintesi, è un modo di guardare i fenomeni sociali senza il ‘’filtro della patologia’’
delle persone. L’operatore sociale ha il dovere di lavorare sulle relazioni tra le persone e tra queste
e il loro ambiente.

3.1.6 Lavoro di prossimità, lavoro di comunità, lavoro di rete


Riassumendo, l’oggetto del nostro interesse è la metodologia del lavoro sociale di sviluppo

A cura di Alessia Ferraro


relazionale dei contesti di prossimità. Più sinteticamente indicata con la dicitura ‘’lavoro di
prossimità’’. Molte delle indicazioni metodologiche che prenderemo a riferimento sono tratte da
ambiti disciplinari (e da autori) che ricorrono, tra l’altro in modo diversificato, all’uso di tale
costrutto. Pensiamo al cosiddetto servizio sociale di comunità; alla psicologia di comunità che
sviluppa la riflessione sulle interazioni tra persona e ambiente. Un’altra fonte dalla quale trarremo
vari spunti sono i manuali di metodologia del lavoro di rete. Si tratta di approcci che propongono di
‘’aiutare l’utenza (singola e\o associata) a riconoscere, utilizzare, valorizzare le reti presenti, o
latenti, nel contesto di vita e nell’ambiente di riferimento, che costituiscono, o potrebbero costituire,
il tessuto relazionale che permetta di fronteggiare le problematiche dell’utente’’. Tali approcci
evidenziano che le cause del malessere sociale sono dovute a disfunzioni delle reti di relazioni
delle persone, siano esse reti primarie (cioè quelle caratterizzate da rapporti informali e vis à vis,
come i familiari, i parenti, gli amici) o reti secondarie (cioè i rapporti formali con le istituzioni, le
organizzazioni non profit). Le proposte che vengono messe in campo per fronteggiare i problemi
mirano dunque all’attivazione e al consolidamento di tali reti.

3.1.7 I tessitori di relazioni


Chi lavora alla tessitura relazionale? Innanzitutto gli operatori che con una specifica competenza
ed un preciso mandato si dedicano direttamente al lavoro di tessitura relazionale nei contesti di
prossimità. Indichiamo costoro con la dicitura ‘’tessitori formali professionali’’ o anche con la più
breve ‘’operatori di prossimità’’. Ci rivolgiamo anche agli ulteriori operatori attivi nei diversi
soggetti istituzionali, profit e non profit del territorio, che nello svolgimento delle loro attività
ordinarie attivano intenzionalmente un’attenzione relazionale verso i propri utenti\clienti e verso i
propri colleghi\partner. Li indichiamo con la dicitura ‘’tessitori formali ordinari’’ o anche ‘’operatori
prossimi’’. Ci si rivolge, ancora, alle persone che abitano e\o frequentano i contesti di prossimità,
dotate di una naturale propensione relazionale e che, nel loro quotidiano rapportarsi con gli altri,
possono intenzionalmente attivare cammini di reticolazione relazionale. Li indichiamo con la
dicitura ‘’tessitori informali’’ o anche ‘’natural aggregator’’.

3.2 Linee di azione del lavoro di prossimità


È utile indicare alcune linee metodologiche intorno alle quali ruota il lavoro di prossimità. Si tratta di
principi operativi che di volta in volta andranno tradotti nel qui ed ora dell’azione concreta. Non
dunque delle piste operative ma, piuttosto, delle linee di riflessione sull’operatività.

3.2.1 Azioni di attivazione e azioni di organizzazione


Una prima distinzione utile tra due macro-ambiti d’azione è quella che differenzia:
- Azioni finalizzate ed attivare e far crescere la disponibilità e la capacità relazionale e
solidale della popolazione, sensibilizzando le persone e i gruppi, stimolandone la concreta
attivazione;
- Azioni finalizzate ad organizzare le disponibilità emerse, al fine di custodirne e valorizzarne la
presenza e moltiplicarne gli effetti positivi, strutturando il sistema relazionale, raccordando le varie
attivazioni, promuovendo sinergie e interazioni.
Alcuni autori definiscono queste due macro-tipologie rispettivamente ‘’sviluppo di comunità’’ e
‘’organizzazione di comunità’’. Si tratta di diciture non recepite universalmente ma che sono utili
per pianificare, programmare, monitorare il nostro lavoro. Ed anche se vi sono azioni che incidono
sia sul livello dello sviluppo che su quello dell’organizzazione, è tuttavia utile costudire l’attenzione
a comprendere di volta in volta a cosa si stia lavorando, per procedere consapevolmente nel
percorso e per monitorare i punti di forza e di debolezza, che potrebbero concernere l’una o l’altra
dimensione.

3.2.2 Azioni dirette e indirette


Un’altra utile articolazione è quella che differenzia:
- Le azioni che perseguono in modo diretto l’evoluzione delle relazioni di prossimità e quindi
quelle che mirano esplicitamente a stimolare una maggiore disponibilità e capacità delle persone e

A cura di Alessia Ferraro


dei gruppi a connettersi reciprocamente, ad infittire le interazioni e le reti di relazioni tra persone e
tra enti, a favorire il rafforzamento delle varie forme di sostegno sociale;
- Le azioni che operano in modo indiretto sulla crescita delle relazioni di prossimità, per lo più
rientranti nelle attività di analisi e ricerca sul contesto e sulle organizzazioni che lo compongono.
Queste attività agiscono, seppur indirettamente, sulla crescita del sistema di relazioni, tanto più
quanto maggiormente sono svolte in modo partecipativo, cioè con una intesa collaborazione tra
l’operatore che compie il lavoro di analisi e ricerca e le persone del contesto.

3.2.3 Elencazione oggettuale delle principali linee di azione


Elenchiamo le linee di azione più frequentemente indicate nei vari manuali seguendo un criterio
oggettuale, provando a spiegare ‘’in che cosa consiste l’azione’’:
- Azioni di comprensione, consistenti in attività di rilevazione di informazioni quantitative e
qualitative inerenti vari aspetti del contesto di prossimità considerato e del reticolo relazionale
presente, di analisi delle variabili e delle eventuali connessioni sia in termini strutturali (quali sono
le variabili rilevate e come si connettono tra loro), che dinamici (come evolve il quadro e la
connessione delle variabili), che funzionali (quali funzioni sono svolte da tali variabili e dalle loro
connessioni), di valutazione complessiva di quanto emerso esprimendo giudizi sullo status quo, sui
punti di forza e di debolezza che lo caratterizzano e sulle prospettive di evoluzione future.
In questo macro-ambito inseriamo: le azioni di analisi e valutazione del senso di appartenenza e
del senso di comunità; le azioni di analisi e valutazione di bisogni e risorse del contesto; l’analisi
organizzativa multifunzionale.
- Azioni di reticolazione relazionale, consistenti in attività di linking interpersonale, cioè di messa
in contatto tra persone, di approfondimento e ampliamento dei contatti già attivi, di superamento di
eventuali difficoltà di connessione. Si tratta di percorsi che attengono innanzitutto le reti primarie
(cioè quelle inerenti le relazioni face to face). Essi riguardano anche i rapporti tra reti secondarie
(istituzioni, enti profit e non profit) e tra queste e le reti primarie: reticolazione nelle reti primarie,
consistenti in percorsi di condivisione, percorsi di costruzione sociale della fiducia, percorsi di
negoziazione dei conflitti e sviluppo di percorsi gruppali; reticolazione nelle reti secondarie, con
particolare riguardo ai percorsi di team building e network building.
- Azioni di capacitazione, volte al rafforzamento qualitativo e quantitativo delle risorse
psicosociali delle persone e dei gruppi, mediante azioni di capacitazione ed empowerment,
partecipazione sociale, pratiche attive di solidarietà relazionale, formazione iniziale e permanente,
attivazione di strategie di comunicazione.
- Azioni di organizzazione, finalizzate alla concreta messa in campo di programmi e percorsi di
sostegno, alla definizione di ruoli, al coordinamento di attività volte in particolare al miglioramento
degli stili di leadership ed alla cura del clima e cultura organizzativa.
Talune linee di azione possono essere ‘’multi-effetto’’.

3.2.4 Setting, pianificazione e organizzazione


Alcuni manuali di psicologia di comunità affrontano il tema dei criteri operativi generali ricorrendo al
concetto di setting, indicante lo scenario e le regole del gioco. Si tratta della cornice in cui l’azione
si va a collocare. L’intento di questo inquadramento è quello di identificare e definire alcuni
elementi fissi. È utile sottolineare che il lavoro di prossimità va adeguatamente pianificato e
organizzato. Così Lavanco e Novara sintetizzano questo aspetto:
Dal punto di vista applicativo ci chiediamo come, con chi e con quali mezzi vada avviato un
programma. Operativamente i programmi si articolano in due fasi. La pianificazione che richiede
un esame delle condizioni esistenti, la rilevazione di bisogni, una diagnosi critica dei punti di forza
e dei punti di debolezza sui quali intervenire. La fase di organizzazione è quella che, mediante la
scelta di strumenti ad hoc, si prefigge il raggiungimento degli scopi del piano di sviluppo.
Occorrono dunque un ‘’piano’’ e un ‘’programma esecutivo’’. Il primo più completo e lungimirante
possibile; il secondo adeguatamente concreto e dettagliato.

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3.3 Fattibilità del lavoro di tessitura relazione
3.3.1 Si possono tessere i legami?
È possibile realizzare un percorso intenzionale, e metodologicamente orientato, di tessitura di
legami tra le persone che vivono o frequentano un determinato contesto? Da un lato la fattibilità
morale, se cioè sia lecito modificare intenzionalmente un determinato contesto sociale o se si
rischia, piuttosto, di profanare una realtà che, al di là delle maggiori o minori criticità, porta con sé
ed in sé tutta una storia di persone, valori, credenze che chiede a chi la incontra e attraversa di
rispettarne la naturale evoluzione, senza inserirvi elementi alteranti. Dall’altro lato v’è il quesito
inerente la fattibilità pratica del percorso, se cioè sia realistico di poter svolgere un’azione che
punta a modificare concretamente il reticolo relazionale presente in un certo contesto o se, pur
armati di buone intenzioni, non si rischi di compiere un’opera inefficace o non governabile.
Occorre tenere presente che il tema della fattibilità pratica va esplorato non solo in termini generali
ma anche verificando quale sia di volta in volta la concreta fattibilità. C’è dunque un ulteriore
domanda, inerente la fattibilità operativa specifica. Occorre chiedersi, se qui ed ora vi siano le
concrete condizioni umane ed ambientali per realizzare il cambiamento desiderato.

3.3.2 Fattibilità morale del lavoro di tessitura relazionale


Il primo aspetto, inerente la fattibilità morale, chiama in gioco una dimensione etico-antropologica,
inerente la definizione di ciò che è bene e ciò che non lo è. Inoltre, ha fortemente a che fare con il
tema della libertà poiché propone un’intensificazione relazionale a persone che non sappiamo se
la desiderino o meno. Per ‘’bene comune’’ bisogna intendere l’insieme di quelle condizioni della
vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria
perfezione e che la persona non può trovare compimento solo in sé stessa, a prescindere cioè dal
suo essere ‘’con’’ e ‘’per’’ gli altri. Questa definizione sintetizza in modo chiaro le ragioni morali del
proponimento positivo di rafforzare la dimensione relazionale, mentre, per converso, il disinteresse
verso un contesto sociale segnato dall’assenza dell’essere-con sarebbe da giustificare
negativamente.

3.3.3 Fattibilità pratica del lavoro di tessitura relazionale


In merito alla fattibilità pratica occorre rilevare che gran parte della riflessione scientifica sul tema
muove nella direzione di dare una risposta affermativa. Risposta però non generica né superficiale,
mirante a puntualizzare i cardini di tale percorso. Sergio Tramma, parlando di ‘’lavoro di comunità’’,
così sintetizza le ragioni di coloro che si esprimono in maniera affermativa: ‘’I problemi economici
posti dal divario tra i bisogni individuali e collettivi di natura previdenziale, sanitaria, assistenziale
non potranno mai essere soddisfatti né dallo Stato, né dal mercato, ma solo da una terza via; tutte
le dimensioni conflittuali potranno essere sottoposte a negoziazioni risolutive; si ripone fiducia nel
lungo e difficile lavoro di promozione. Dunque la comunità è fattibile e necessaria, si tratta ‘’solo’’ di
trovare il modo adatto a far sì che la domanda latente si trasformi in moto collettivo. La questione
sarebbe squisitamente di metodo’’.
I sostenitori della risposta negativa, nell’obiettare alla possibilità di tessere intenzionalmente reticoli
relazionali, motivano tale posizione sottolineando che il ‘’qualcosa in comune’’ che fonda tali
relazioni non può essere creato intenzionalmente, perché si tratta di un qualcosa che esula dalla
sfera delle intenzioni, sia per coloro che le vivono, sia per coloro che ne sono estranei. Tra i
perplessi troviamo la voce di Bauman che, riferendosi al contrastato concetto di comunità, afferma
che: ‘’La comprensione di stampo comunitario non ha bisogno di essere cercata, e tantomeno di
essere costruita o conquistata: quella comprensione ‘’esiste già’’, e ci permette di capirci
reciprocamente ‘’al volo’’. Essa precede ogni sorta di accordo o disaccordo. Non è il traguardo,
bensì il punto di partenza di ogni forma di aggregazione ed è grazie a tale comprensione che gli
abitanti della comunità restano essenzialmente uniti a dispetto dei tanti fattori di disgregazione’’.
A queste obiezioni alcuni rispondono che la comunità ha in sé gli ingredienti che permettono la
messa in campo di atti comunitari intenzionali. Anche se quanto affermato da Bauman e dai suoi
antagonisti non si riferisce a qualunque tipo di relazioni di prossimità ma solo a quelle

A cura di Alessia Ferraro


‘’comunitarie’’, il dibattito appena accennato ci offre elementi di riflessione importanti. A nostro
avviso è pienamente condivisibile l’ipotesi del potenziale da far emergere. Ce ne danno conferma i
tanti segnali di relazionalità diffusi nei solchi della vita quotidiana. Segnali di relazionalità ce ne
sono anche in sovrabbondanza, tutti espressione di quella innata capacità di interazione calda
presente nella gran parte delle persone. Chiarito che la materia prima c’è, occorre rispondere alla
domanda se siano o meno sviluppabili attraverso un’azione intenzionale. Le relazioni e i legami tra
le persone non possono essere create dal nulla. Quel che occorre è valorizzare, sostenere,
accompagnare, la crescita di quanto già c’è. Viene in mente il significato del termine educare che
viene dal latino e-ducere, cioè tirar fuori. Evidentemente si può tirare fuori solo qualcosa che è già
presente.

3.3.4 Fattibilità specifica del lavoro di tessitura relazionale


Per quanto attiene al quesito sulla fattibilità specifica della tessitura relazionale, le ricerche sul
campo evidenziano una grave difficoltà di successo di progetti e programmi di tessitura
relazionale. Questo potrebbe però dipendere da problemi esterni, cioè attribuibili alla mancanza
delle condizioni di contesto, o all’insufficienza delle energie messe in campo, o potrebbero essere
mal posti gli interventi, cioè non adeguatamente tarati sulle peculiarità di quello specifico contesto
locale.
Ben più adeguato il filone della valutazione qualitativa, intenta a comprendere l’evolversi delle
dinamiche, mediante l’utilizzo di una lente soggettiva, che dà importanza alla percezione delle
persone coinvolte.
Tornando alla fattibilità pratica, viene proposta una posizione radicale, sostenendo che nessun
contesto è talmente deprivato da rendere impossibile un cammino relazionale. Questo giudizio è
portato avanti non soltanto perché si è animati da una grande fiducia nella innata capacità
relazionale dell’essere umano ma anche perché confortati dalla teoria generale dei sistemi e dalle
sue applicazioni in campo psicologico, secondo le quali uno dei principi che regolano i sistemi
sociali è quello dell’equifinalità, cioè la possibilità di giungere a certi risultati anche partendo da
condizioni diverse. Occorre però che tale cammino sia fortemente adeguato alle caratteristiche di
quel contesto in termini di quantità\qualità sia delle energie messe in campo che dei
metodi\modalità di realizzazione adottati. Occorre tenere presente che quanto si è compreso fino
ad ora delle relazioni e delle modalità per accompagnare lo sviluppo, è solo una parte di quanto
concretamente e profondamente avviene. Come pure occorre considerare che, quand’anche
avessimo compreso tutte le leggi generali che regolano le dinamiche relazionali, sarebbe sempre
minoritaria e insufficiente la nostra capacità di applicarle alla singola situazione specifica, unica nel
suo genere. I progetti non sono predefiniti, ma si strutturano durante il processo di messa a fuoco
dei problemi e dei reali interessi della gente: i cambiamenti tecnici seguono l’evoluzione sociale e
non viceversa. Si tratterà dunque di un continuo work in progress, con un finale chiaro (la crescita
dei legami interpersonali) ma con un percorso che andrà definendosi man mano, sia perché la
situazione concreta diverrà nuova ad ogni passo, sia a motivo della libertà delle persone coinvolte,
le quali per motivi da noi non prevedibili e non sempre comprensibili potranno decidere di
assumere atteggiamenti anti-relazionali, nonostante tutte le condizioni favorenti messe in campo.
In questa direzione muove quel filone della psicologia di comunità che vede il lavoro di Community
Development come un processo di assisting, cioè di accompagnamento al cammino di cui le
persone sono protagoniste. Si tratta di un approccio che mette al centro non l’entità o il numero
degli interventi realizzati ma la maturazione di una mentalità partecipativa. Infatti, nel momento in
cui la comunità acquista consapevolezza di sé e dei suoi bisogni, trova forza e potere per
realizzare con successo i progetti del suo sviluppo, senza dipendere da agenzie esterne.
Occorre insomma concludere che l’essenza del lavoro di reticolazione relazione è quella di aiutare
le relazioni tra le persone ad andare dove vogliono. Sappiamo però che, con i giusti ingredienti, si
tratterà di una direzione ‘’buona’’ e quindi meritevole di sostegno. Occorre anche rilevare che, tra
un approccio completamente democratico e uno rigidamente direttivo, nella pratica si riscontra la
presenza di modalità intermedie. Vengono in aiuto, su questo fronte, gli autori che hanno

A cura di Alessia Ferraro


sviluppato la cosiddetta retorica dell’incertezza. ‘’Il lavoro sociale si muove su terreni di confine e
può essere definito come la professione dell’incertezza. Gli operatori sociali devono essere in
grado di argomentare in relazione all’incertezza inscritta nella valutazione. Essi si trovano in bilico
tra l’impresa di governare tale incertezza o di farsene sopraffare rischiando di divenire insicuri o, al
contrario, eccessivamente sicuri e dogmatici’’.
Le sottolineature della Fargion fanno in particolare riferimento ad un approccio inclusivo alla
conoscenza, e si richiamano ai lavori di Donald Schon, promotore del bisogno che i professionisti
sviluppino pratiche riflessive, attente a coniugare lo sguardo sulla superficialità delle singole
situazioni con il rispetto della metodologia professionale di intervento. A tal riguardo Franca
Ferrario propone di optare per uno stile flessibile, che sappia coniugare metodologia e
individualizzazione dei percorsi. Un’analogia assai efficace per approfondire ulteriormente il
discorso è quella offerta da Lia Sanicola nei suoi lavori sugli atteggiamenti di rete. ‘’La possibilità di
realizzare l’intervento di rete poggia su alcuni atteggiamenti di base dell’operatore: il
decentramento del problema cioè la capacità di decentrarsi rispetto ai problemi per concentrarsi
sulla vita della rete con un interesse più per le relazioni e le dinamiche di rete che per le cause
delle difficoltà; la non direttività del contenuto cioè orientando la vita delle rete in modo non
direttivo e sarà invece direttivo nella forma -> il metodo di intervento e la formazione acquisita lo
porteranno ad essere fermo nella proposta di lavorare con la rete, di sostenere le persone nel
mettere in movimento la rete; l’apertura all’esistenziale cioè saper riconoscere e valorizzare ciò
che accade rispetto a ciò che si progetta e si programma; la libertà dell’esito cioè il realismo che
consente di capire che quel che potrà accadere non è nelle proprie mani, è un avvenimento’’.
Questo approccio coniuga dunque la consapevolezza dell’assoluta non-predefinibilità del percorso
con l’esigenza di fondare il lavoro su un’approfondita competenza professionale. In sintesi,
occorrerà saper mettere in campo una metodologia praticamente corretta e teoricamente fondata
ma, al contempo, saper seguire il fluire delle situazioni così come si evolveranno, senza farsene
sopraffare ma anche senza pretendere di sopraffarle.

3.3.5 Livelli di obbligazione iniziale dei percorsi


Fabio Folgheraiter, in un testo in cui presenta la prospettiva di rete del lavoro sociale, si interroga
sul grado di intenzionalità e di formalizzazione che può caratterizzare tali percorsi relazionali ed in
particolare le funzioni di ‘’guida’’ svolte dagli operatori. Nel fare questo suggerisce di individuare il
giusto approccio a seconda del tipo di rete di relazioni con la quale si ha a che fare ed in
particolare in base al ‘’livello di obbligazione iniziale’’ percepito dalle persone che ne fanno parte. A
tal riguardo Folgheraiter distingue tra reti di aiuto e reti per lo sviluppo di iniziative
comunitarie. Le prime sono ‘’ad alto livello di obbligazione iniziale’’, cioè vengono poste in essere
per garantire risposte e funzioni necessarie a precise persone con situazioni molto compromesse
sul piano sociale e con pesanti profili di disagio individuale e familiare: anziani non autosufficienti,
persone con gravi disabilità fisiche o psichiche. Di fronte a costoro le risposte vanno date in modo
obbligatorio e come tali sono percepite sia da coloro con cui sono in relazione sia dai servizi
territoriali, ‘’al punto che se tali funzioni non venissero assicurate, sarebbe persino legittimo
mandare a monte la metodologia di rete e svolgere il lavoro che va fatto in altri modi, ad esempio
facendo prendere in carico gli utenti da strutture residenziali’’.
La seconda tipologia di reti, quelle per lo sviluppo di iniziative comunitarie, è invece ‘’a basso livello
di obbligazione iniziale’’. Sono cioè poste in essere non per dare risposte immediate a cogenti a
specifiche persone, ma per promuovere la crescita generale del benessere collettivo. Folgheraiter
precisa che queste azioni, ‘’per quanto importante o meritorie, potrebbero anche non esserci eventi
che se ci sono è bene, ma, se non ci sono, letteralmente non muore nessuno’’. Sono iniziative
rivolte ai cittadini, prima ancora che agli utenti, connesse al campo della community action, cioè ai
percorsi di coscientizzazione, di emancipazione, di crescita del senso di comunità e della
solidarietà dei cittadini tra di loro. Queste azioni possono produrre significativi innalzamenti del
grado di benessere della collettività e sortire preziosi effetti di prevenzione delle situazioni di
disagio. Tuttavia l’attivazione richiedere un lavoro di stimolo che accompagni le persone ad una

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progressiva presa di consapevolezza e ad una intenzionale e volontaria assunzione di
responsabilità. Nel mezzo tra questi due estremi si collocano le iniziative volontarie che puntano a
fornire risposte a determinare categorie di bisogno, con livelli di obbligazione iniziale maggiori della
community action ma minori nel rapporto diretto con una precisa persona in difficoltà. Folgheraiter
indica che a seconda del livello di obbligazione va modulato anche il grado di strutturazione
dell’intervento (cioè di predeterminazione di obiettivi, azioni, ruoli) che per le community action
dovrà essere molto basso e, all’estremo opposto, per le reti di aiuto dovrà caratterizzarsi con
significativi livelli di formalizzazione o, addirittura, di istituzionalizzazione.

3.3.6 Le opportunità offerte dalla crisi


Il discorso sulla fattibilità ci porta ad una breve riflessione sul significato che attribuiamo alle
difficoltà, alle situazioni stressanti e critiche. È sentire comune il desiderio di una strada in discesa,
priva di ostacoli e imprevisti. Ma, allorquando questi sopraggiungono, occorre star bene attenti a
non attribuirgli immediatamente un significato totalmente negativo. A ben vedere le situazioni di
crisi, con la loro capacità di attivare e di modificare la rete sociale, possono rappresentare una
importante occasione di crescita. Il messaggio è chiaro, le difficoltà possono essere un’opportunità.
Quando le situazioni si modificano andiamo in allarme, ci allertiamo, perché al modificarsi dei punti
di riferimento temiamo il peggio. Ma questo non significa che il peggio debba necessariamente
arrivare. Piuttosto occorre comprendere come favorire il sopraggiungere del meglio, di situazioni
foriere di un maggiore benessere. È interesse al tal proposito la riflessione che Domenico Cravero,
ricercatore pedagogico, fa in merito alla crisi delle relazioni familiari e sociali: ‘’Questa crisi è anche
una straordinaria occasione per fare un passo evolutivo fondamentale nell’ominizzazione, cioè per
operare una svolta verso una società dal volto più umano’’. La crisi, secondo Cravero, diviene
preziosa opportunità che può contribuire al cammino di umanizzazione dell’essere umano.

3.3.7 Relazioni slow e società del breve termine


Richard Sennett, professore di sociologia, è uno degli autori contemporanei che maggiormente ha
approfondito il tema del breve termine che la società di oggi sembra auto-imporsi in modo sempre
più soffocante. Riflettendo sull’inconciliabilità tra i tempi veloci e brevi della vita lavorativa post-
moderna e i tempi lenti e lunghi della vita relazionale, si domanda: ‘’Com’è possibile mantenere
degli obiettivi di lungo termine in una società a breve termine? Come può un essere umano
sviluppare un’auto-narrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di
episodi e di frammenti?’’. In questa cornice il rischio per chi intende accompagnare i processi di
reticolazione relazionale è quello di applicare standard organizzativo-temporali sintonizzati più con
la fretta del breve termine che con il graduale e non lineare evolversi dei rapporti interpersonali.
Come opportunamente sottolinea Sergio Tramma, la crescita relazionale del contesto di prossimità
‘’è un processo slow che ha bisogno di tempo per strutturarsi ed essere percepita e praticata’’.

3.4 Verso quale meta?


3.4.1 Nuovi cortili
La crisi delle relazioni interpersonali e i rischi connessi alla dimensione collettiva potrebbero
dissuaderci dall’intento di operare in vista di una intensificazione dei reticoli relazionali presenti nei
contesti di prossimità. In particolare, le dinamiche oppressive e violente che possono innescarsi
nei sistemi relazionali più coesi, con il connesso rischio di indebolire la libertà e la dignità delle
persone, pongono questioni di non facile soluzione. Tuttavia rinunciare non prospetta di certo
scenari migliori.
Un recupero dell’idea di bene comune e un forte senso dei valori della cittadinanza sono di
importanza vitale poiché la possibilità di mantenere un sistema di vita democratico dipende dalla
presenza di cittadini che si considerino responsabili del livello qualitativo della loro vita sociale.
Una delle strade per camminare in questa direzione è proprio quella di tessere relazioni tra le
persone. Occorre avere ben chiaro però che in quest’opera di distinzione tra ciò che occorre
contrastare e ciò che è bene promuovere, siamo chiamati a compiere delle scelte di valore. Ci
assumiamo qui la responsabilità di compiere tali scelte, descrivendone il contenuto e le motivazioni

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(e rimandando ad altre sedi un compiuto approfondimento).
Si desidera perseguire lo sviluppo di nuovi cortili, cioè di contesti di prossimità caratterizzati
da legami liberi, liberati e liberanti. Parliamo di ‘’cortili’’ per evocare uno dei più antichi contesti
relazionali, propri del vicinato popolare, noti a tutti anche se oggi vissuti da pochi, che ha
caratterizzato per secoli le relazioni di prossimità. Desideriamo però che siano ‘’nuovi’’, che
rappresentino una versione migliorata di quelli passati, scevra dai germi dell’oppressione e della
chiusura. ‘’Nuovi cortili’’ (ma anche nuovi vincoli, nuove piazzette e nuove strade, nuovi quartieri,
nuove scuole, nuove parrocchie) per ridirci che il bisogno di relazione e quello di autonomia
nascono entrambi con noi stessi e che nessuna vita potrebbe mai dispiegarsi se fosse totalmente
isolata o totalmente invasa. Come indicato in un sito dedicato al tema dei nuovi cortili: ‘’Un tempo
le relazioni di buon vicinato creavano premesse importanti affinché vi fosse intorno a ciascuna
famiglia una rete di relazioni allargate significative, non sempre necessariamente caratterizzate dal
vincolo di sangue (una sorta di parentela sociale). Così, una mamma in difficoltà, un papà con dei
problemi, un bambino lasciato solo a giocare per tante ore nel cortile e i cui genitori rincasavano
tardi, trovava più frequentemente una ‘’zia’’ pronta a vederlo, incontrarlo nei suoi bisogni,
rispondere alle sue primarie esigenze, soprattutto quelle affettive. Insomma, c’erano spazi meno
strutturati e istruiti, ma grembi caldi e accoglienti pronti a svolgere la loro funzione di contenimento
e di promozione di beni semplici, ma preziosi e per lo più interiori’’. L’intento è di favorire un
intreccio di relazione intenso al punto da permetterci di parlare di parentela sociale, nel quale siano
possibili quei circuiti di fiducia e d’aiuto reciproco tipici delle reti familiari potendo però, a differenza
dei rapporti consanguinei, scegliere consapevolmente e liberamente come, con chi e, soprattutto
che tipo di legami interesse. I concetti nuovi cortili e di parentela sociale intendono rafforzare
proprio la possibilità offerta alle persone di avere questo tipo di ‘’centro stabile’’.

3.4.2 Legami liberi


Nuovi cortili caratterizzati innanzitutto da legami liberi cioè connessi ad un’ida di vicinanza non più
o non solo legata alla ‘’necessità’’ bensì ad un valore da perseguire, come qualità relazionale,
come possibilità di scelta. Legami sociali considerati e praticati come opportunità e risorse, anziché
come vincoli e costrizioni. Scelte libere e non azioni dovute, né per costrizione né per debito.
Paradossalmente, affermano Lavanco e Novara, diciamo che è libero l’uomo che decide di
appartenere. Su questo ci viene in soccorso il concetto del dono come lo presenta Godbout:
Prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare
o ricreare il legame sociale tra le persone. Legami liberi, dunque, ma incentrati sul dono, capaci di
assumere l’impegno della lealtà e non inclini a facili interruzioni egoistiche. Relazioni e dinamiche
di dono di cui va custodita la reciprocità, garante della libertà e della genuinità del dono stesso. La
dinamica che scatta è quella di sentirsi sminuiti, svalorizzati per il fatto che l’altro, con il suo aiuto,
evidenzia la nostra inadeguatezza, provocando una ferita narcisistica. Non a caso Maria Rita
Parsi, psicologa e scrittrice italiana, delineando il decalogo del buon benefattore, sottolinea che
generoso non soltanto è chi dona ma chi accetta di ricevere e si mostra riconoscente, perché in tal
modo attiva un meccanismo di reciprocità che sgancia il dono dal rischio di andare in cortocircuito.
Nel dialogo con coloro che intendiamo aiutare, occorre quindi insistere non solo sul ‘’cosa serve a
loro’’ ma anche sul ‘’cosa loro possono donare a noi’’. Non, ovviamente, per una sorta di egoistico
scambio, bensì per approdare ad uno spazio di vera vicinanza e di familiarità. Un metro da
utilizzare potrebbe quindi essere quello di donare solo se l’altro è messo nella condizione di poter
restituire, cioè solo se mettiamo in conto un percorso che attivi anche le sue risorse e i nostri
bisogni. Occorre la disponibilità a condividere, a dare e ricevere. Occorre vivere il dono come
spazio che genera legami di fiducia interessato a creare relazioni.

3.4.3 Legami liberati


Nuovi cortili basati inoltre su legami liberali dalla dicotomia tra vicinanza e libertà, tra il diritto alla
distanza e il diritto alla relazione, tra il bisogno del proprio spazio e il bisogno di spazi condivisi.
Michael Novak sottolinea quanto una comunità autentica si distingue da una comunità falsa perché
rispetta le persone libere. Non si tratta quindi di rinunciare al desiderio di vicinanza, né di
A cura di Alessia Ferraro
accontentarsi di quel senso di apparente appartenenza prodotto dal consumo di oggetti, stili e
simboli omologanti esaltati dalla comunicazione di massa. Ma neanche di mirare al ritorno a forme
arcaiche. Etzioni spiega l’esaltazione eccessiva dell’individualismo come risposta reattiva alle
afflizioni causate dai sistemi autoritari. Egli definisce ‘’liberalismo comunitario’’ quella versione del
liberalismo individuale che non diviene iper-individualista ma che fa propria l’importanza del
principio di fraternità e ne assicura l’effettiva tutela e promozione, al pari della libertà e
dell’uguaglianza. L’auspicio è che oggi sia possibile superare la distanza tra la tesi autoritaria,
carica di doveri e povera di diritti, e l’antitesi individualista, centrata sulla difesa di diritti senza
doveri.
Nel superamento di queste dualità ci sono d’aiuto alcuni filoni della psicologia di comunità. In
particolare l’approccio della teoria del campo di Kurt Levin permette di superare la sterile dicotomia
tra la dimensione collettiva e quella individuale. Le relazioni interpersonali nei contesti di prossimità
vanno piuttosto intese come sistema sociale complesso, caratterizzato sia da movimenti
aggreganti che da dinamiche disgreganti, di cui non si possono giudicare a priori, in modo positivo,
gli effetti dei primi né, negativamente gli effetti sei secondi. Assai prezioso anche il contributo che
giunge dai modelli di rete, che ci invitano ad accettare i contesti di prossimità come luogo del bene
ma anche come luogo del male e ad accorgersi che questi due aspetti raramente si elidono.
Positività e negatività, capacità di dare aiuto od ostacolare, sono compresenti, possono convivere,
possono a loro volta essere accettati, assunti e portati con dignità ed essere oggetto di lavoro.
Tutto questo richiede, ovviamente, lo sviluppo di stili interpersonali capaci di cogliere la ricchezza
della diversità e di accettare il valore delle differenze. Etzioni segnalando quanto gli obiettivi di
protezione delle libertà individuali progrediscano solo se progredisce la qualità delle relazioni tra le
persone. Egli, infatti, segnala che coloro che si preoccupano di proteggere le libertà individuali
dalla minaccia dello Stato, ignorano o trattano con sufficienza gli interessi comuni, senza rendersi
conto che quando le relazioni si disgregano, l’integrità psicologia degli individui è in pericolo e si
apre un vuoto che porta lo Stato ad espandere le sue prerogative e il suo potere; al contrario,
quando le relazioni e i legami sono adeguatamente sviluppati, si può esser certi che il cittadino
progredisce. Dunque gli obiettivi liberali e quelli comunitari, possono trovare spazi di convergenza,
che rinforzano gli uni e gli altri.

3.4.4 Legami liberanti


Nuovi cortili caratterizzati, infine, da legami liberanti, capaci cioè di mettere in discussione i diritti
senza doveri, sprigionando le energie positive della relazionalità e della soggettività umana, dando
espressione al carattere originario, fondamentale, della socialità, rinviando all’esistenza di
un’intersoggettività innata primaria. Liberanti nel senso della capacità di diventare concreta forma
di mutuo aiuto e di attenzione, di essere fattore di capacitazione e di empowerment per tutti, a
partire dalle persone più deboli, innestati in cammini che siano tanto di condivisione informale e nel
basso quanto di denuncia dal basso.
Importante, dunque, tanto la capacità di essere radicati nei luoghi e nelle storie del nostro
particolare contesto di prossimità, sia sviluppare un’attenzione generale a tutti gli uomini,
assicurando una costante apertura al mondo e ai bisogni di coloro che, pur essendo più lontani,
appartengono all’unica razza umana.

A cura di Alessia Ferraro


CAPITOLO 4

PROMUOVERE CONSAPEVOLEZZA

4.1 LA CONSAPEVOLEZZA DELL’ESSERE CON

Per svolgere un buon lavoro di prossimità si comincia dalla realizzazione delle azioni di comprensione, cioè attività di
rilevazione, di analisi e di valutazione delle informazioni inerenti il contesto di prossimità in cui si intende operare.
Charleston Handy evidenzia quanto il comprendere sia <<to put choice in place of chance>> cioè “mettere la scelta
in luogo del caso”.

Alcuni autori come Pierantoni, Albanesi e Villani sottolineano Chi conoscere gli ambienti di vita significa individuare
strutture, risorse e attività che si svolgono in un contesto Socialmente rilevante e cogliere i segnali relativi ai bisogni
dei soggetti che vivono in quel contesto. Le azioni di comprensione vengono classificate tra le STRATEGIE INDIRETTE,
cioè quelle che contribuiscono allo sviluppo del contesto pur non puntandovi in modo esplicitamente finalizzato.
Quindi si tratta di raggiungere una consapevolezza, e in particolare della consapevolezza dell’essere con. Si tratta di
un lavoro di “analisi collettiva” dei bisogni e delle risorse del contesto di prossimità in cui il primo passo non è “fare”
ma “capire” e soprattutto “capire insieme”. Tra i vari costrutti che ci permettono di indagare la consapevolezza
dell’essere con particolare rilievo hanno

❖ il senso di comunità
❖ Il senso di appartenenza
❖ il senso del bene comune

4.1.1 SENSO DI COMUNITÀ

Per spiegare il senso di comunità si parte dalla distinzione proposta da Martini e torti tra

Per spiegare il senso di comunità si parte dalla distinzione proposta da Martini e Torti tra:

1. sentirsi comunità = dimensione soggettiva legata alle relazioni fiduciarie presenti nella comunità e al senso
di appartenenza vissuto dai membri
2. essere comunità: dimensione oggettiva, inerente le forme di interdipendenza.

Già Weber, per quanto riguarda questa distinzione, nel definire le relazioni comunitarie precisa che esse sussistono e
che quindi si può parlare di comunità sei membri “praticano” e “sentono” tale relazione. Quindi si tratta di una
dimensione il cui sviluppo è determinato dalle dinamiche interpersonali che si sviluppano nella comunità. Ma parlare
di senso di comunità non significa solo parlare delle relazioni in essa presenti ma anche parlare degli elementi che
emergono dal contesto/comunità. Lavando e Novara evidenziano i due processi di maggiore e minore sviluppo del
senso di comunità:

• la DISTINTIVITÀ = cioè quella possibilità di percepire una comunità in rapporto alle sue caratteristiche
• L’ IDENTIFICAZIONE = rimanda al senso di affiliazione e al riconoscimento di se stessi all’interno di una storia

Miretta Prezza definisce il senso di comunità “la certezza soggettiva che i membri hanno di appartenere e di essere
importanti per il gruppo è una FIDUCIA (tasso di fiducia) della possibilità di soddisfare i propri bisogni essendo
insieme”.

A cura di Mena Di Gennaro


Inoltre identifica quattro dimensioni che costituiscono il senso di comunità:

1- INTEGRAZIONE E SODDISFAZIONE DEI BISOGNI = cioè la convinzione che in caso di necessità la comunità si
attiverebbe nel dare il sostegno necessario

2- CONNESSIONE EMOTIVA CONDIVISA = quella connessione/relazione affettiva ed emotiva che fa sentire


empaticamente uniti tutti i membri della comunità

3- INFLUENZA reciproca tra la comunità e i suoi membri

4- SENSO DI APPARTENENZA = cioè il sentirsi parte, una componente della comunità.

Per misurare il senso di comunità ci sono varie scale e strumenti (esempio questionario).

Ovviamente ci sono anche aspetti negativi da considerare relativi al senso di comunità: come il senso di comunità
latente proposto da Lavanco e Novara; Abbe Brodsky parla di un asse dotato di un versante positivo (caratterizzato
da tutto quello che abbiamo detto del senso di comunità) e un versante negativo connotato da conflitti e disarmonia

4.1.2 SENSO DI APPARTENENZA

Lavanco e Novara descrivo il senso di appartenenza, che influenza molto la percezione dell’essere con proprio
perché è dato dalla consapevolezza di far parte di un qualcosa di ampio dove siamo reciprocamente in relazione con
gli altri, come:

➢ MEMBERSHIP = “essere membro di”, rappresentazione mentale di identificare il gruppo di appartenenza


come opportunità per soddisfare i propri bisogni
➢ GROUPSHIP = “essere gruppo”, cioè soggetto nuovo, con bisogni sovraindividuali

Inoltre, Lavanco e Novara, indicano anche quali sono gli ingredienti che formano il senso di appartenenza:

1. CONFINI = che distinguono tra coloro che sono “dentro” (ingroup) e coloro che sono “fuori” (outgroup) e che
quindi favoriscono una percezione di sicurezza
2. SISTEMA DI SIMBOLI = insieme di usi, costumi, valori e riti che favoriscono il consolidamento del senso di
condivisione tra i membri
3. IMPEGNO PERSONALE = dei singoli membri ad appartenere, attraverso un effettivo coinvolgimento sia
materiale che emotivo

Il senso di appartenenza può essere connesso a quello stato mentale che Wilfried Ruprecht Bion definiva
MENTALITà DI GRUPPO , ovvero espressione del volere del gruppo alla quale l’individuo contribuisce in modo
inconscio e che lo mette a disagio ogni volta che pensa o si comporta in modo differente.

4.1.3 SENSO DEL BENE COMUNE

Altro elemento che contribuisce alla consapevolezza dell’essere con è il senso di bene comune intendendo con ciò
quella convinzione etico-valoriale e di percezione cognitiva ed emotiva su ciò che è bene per tutti e ciascuno che,

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laddove sia condivisa tra le persone di un certo contesto di prossimità,contribuisce al consolidamento del sistema di
simboli (paragrafo precedente).

Sergio Tramma ci spiega che << c’è stata una profonda riformulazione della pratica e della percezione del bene
comune. Prima poteva anche non avere bisogno di diventare un atto di coscienza ed essere soggetto a negoziazioni
poiché dato e certificato dalla storia e dalla cultura, in seguito il bene comune è diventato meno immediatamente
evidente

4.2 ANALISI DEI BISOGNI E DELLE PERSONE

4.2.1 IL PROFILO DEL CONTESTO E LA RICOGNIZIONE SOCIALE

Descritto il tema della consapevolezza dell’essere con bisogna comprendere come attivarsi per favorirne la crescita.
Si può pensare alla realizzazione di un lavoro di “analisi collettiva” Dei bisogni e delle risorse del contesto di
prossimità. Perché il primo passo non è “fare” ma capire e soprattutto “capire insieme” altrimenti si rischia di fare a
vuoto oppure di fare male. Quindi si deve fare una riflessione partecipata sulla situazione relazionale del contesto di
prossimità. Si tratta di un percorso che coinvolga attivamente quanti più membri possibili del contesto di prossimità
e per approfondire gli elementi che caratterizzano le relazioni e il contesto.

L’insieme di questi elementi conoscitivi viene denominato PROFILO DI COMUNITÀ.

Definizione di Lavanco e Novara: il profilo di comunità consiste nella lettura del contesto, una mappatura della
comunità e dei suoi bisogni. L’analisi dei bisogni si lega alla possibilità di aumentarne la consapevolezza nei membri
della comunità, così da progettare in modo partecipato il cambiamento.

Altri autori inseriscono il lavoro di comprensione del lavoro di “ricognizione sociale” che include tre aree di azioni:

1. CONOSCENZA DELLA COMUNITÀ = conoscenza dei suoi problemi, delle sue risorse e delle sue potenzialità
2. mobilitazione e attivazione dei soggetti della comunità e coordinamento dei loro rapporti
3. marketing sociale e la comunicazione.

Altri ricorrono al concetto di “analisi di comunità” inteso come processo che ne descrive le caratteristiche
dell’interno avviando un cambiamento su ciò che i membri della comunità ritengono prioritario.

Infine ci sono coloro che parlano di MAPPING per indicare l’azione che mira a lavorare sul rapporto tra

1. MAPPE NATURALI = concentrate sulla conoscenza immediata


2. MAPPE CULTURALI = basate sulla conoscenza esplicita i cui strumenti fondamentali sono la razionalità e la
costruzione simbolica

Il MAPPING, attraverso l’interazione di queste due forme di conoscenza di contesti, punta a costruire una
conoscenza partecipata dei luoghi e della società favorendo il passaggio dalle mappe naturali a quelle culturali,
contribuendo così ad accrescere la consapevolezza il senso di identità

4.2.2 QUALE APPROCCIO NELL’ANALISI DI CONTESTO?

A cura di Mena Di Gennaro


Come svolgere le analisi? Martini e Sequi dicono che “il primo problema che si pone è quello del rapporto fra
soggetto che conosce e oggetto conosciuto perché noi conosciamo ciò che i nostri strumenti di lettura ci permettono
di conoscere e la nostra conoscenza, quindi, è sempre relativa. La conoscenza che noi abbiamo di qualsiasi fatto,
fenomeno, evento è comunque marcata dalla “cultura“, quindi di conseguenza non ci può essere conoscenza al di
fuori di un contesto culturale di riferimento e non vi è possibilità di lettura al di fuori di un’interazione”

Martini e Sequi sottolineano che per ridurre il rischio di analisi distorsive occorre che la conoscenza del contesto
avvenga <<dal di dentro, adottando lo strumento dell’osservazione partecipata e che a leggere il contesto non è
l’operatore ma il contesto stesso>>.

Per Donata Francescato si tratta di mettere in campo un lavoro di <<ricerca partecipata, dove partecipata si intende
non solo la partecipazione dell’operatore alla vita comune ma anche la partecipazione attiva della comunità al
processo di conoscenza e progettazione degli interventi ad essa destinati.>>

4.2.3 COSA APPROFONDIRE?

Uno degli schemi più utilizzati per l’analisi dei contesti di prossimità (elementi da approfondire per sviluppare un
adeguato profilo del contesto) è quello sviluppato da Martini e Sequi che hanno proposto un sistema di rilevazione
oggettivo-soggettivo che distingue sette aree di indagine:

1- PROFILO TERRITORIALE = relativo alle caratteristiche strutturali (confini, risorse, clima ecc...) e semistrutturali
(cioè costruite dall’uomo, come sistema di comunicazione e quello di circolazione, le reti idriche e fognarie ecc...)

2- PROFILO DEMOGRAFICO = Che riguarda il numero e la densità della popolazione, l’andamento del bilancio
nascite-morti e emigrazioni-immigrazione, la composizione per età, sesso, livello di istruzione…

3- PROFILO ECONOMICO = Relativo ai livelli reddituali totali e pro-capite, ai settori produttivi, Al bilancio occupati-
disoccupati-inoccupati-pensionati, all’eventuale incidenza di pendolarismo, al lavoro nero, sfruttamento minorile…

4- PROFILO DEI SERVIZI = Scuole, servizi sociali e sanitari, servizi culturali e di socializzazione…

5- PROFILO ISTITUZIONALE = apparato politico-amministrativo territoriale, organi di sicurezza, organi


giurisdizionali, istituzioni religiose…

6- PROFILO PSICOLOGICO = inerente le reti relazionali e di sostegno, le dinamiche gruppale, i bisogni e le


aspettative della popolazione, il senso di comunità…

7- PROFILO CULTURALE-ANTROPOLOGICO = relativo ai riferimenti culturali, valoriali, religiosi, storici, folkloristici,


artistici…

A queste 7 aree di analisi dei contesti, Donata Francescato aggiunge un’ottava dimensione cioè

8- PROFILO DEL FUTURO = intendendo con tale dicitura l’area relativa alle aspettative positive (gli auspici) o
negative (i timori) che le persone hanno nei confronti di ciò che avverrà. Quest’area la ruota essenzialmente intorno
a tre domande-stimolo: come sarà secondo lei tra 10 anni questa città? Cosa temi maggiormente per il futuro di
questa città? Cosa desidera maggiormente per il futuro di questa città?

A cura di Mena Di Gennaro


Altra angolatura da esplorare riguarda la sfera Psico-emotiva è la “qualità ambientale percepita”, inerente le
rappresentazioni e le valutazioni soggettive della popolazione che vive un determinato contesto

4.2.4 TECNICHE E STRIMENTI DI RILEVAZIONE

Ora bisogna analizzare con quali precise tecniche e strumenti la rilevazione viene realizzata. Donato Francescato ci
dice che <<di solito i profili di comunità sono stati indagati su richiesta di gruppi ambientalisti, servizi sociosanitari e
altri enti. In ognuno di questi casi veniva formato un gruppo di ricerca interdisciplinare composto da rappresentanti
diversi della comunità che esprimono la varietà degli attori sociali e comprendono sempre esponenti dei gruppi
ritenuti più marginali o meno visibili. Tale gruppo ha lo scopo di svolgere un’analisi preliminare, cioè gli si chiede di
utilizzare la tecnica del “brainstorming”per elencare i punti deboli e punti di forza della loro cittadina del loro
quartiere. gli elenchi ottenuti vengono poi classificati di otto profili: ad esempio “degrado ambientale“ viene
inquadrato come criticità del profilo territoriale, “presenza di buone scuole“ rappresenta un punto di forza del
profilo dei servizi ecc...>>.

Questo approccio è volto ad individuare le aree-problema prioritarie sulle quali porre maggiore attenzione e le
risorse sulle quali si può contare.

Alessandro Fort Sony, invece, presenta i “CIRCLI DI STUDIO” ovvero un piccolo gruppo di persone (8-10) che si
riuniscono per apprendere dibattere e approfondire una tematica. La partecipazione è aperta a tutti e questi circoli
di studio rappresentano un percorso di attivazione partecipativa, che alcuni definiscono “demand oriented” cioè
<<la domanda precede l’offerta>>, essendo cittadini stessi a decidere di parteciparvi e a scegliere il tema di studio.

Lavanco e Novara, per quanto riguarda gli strumenti di rilevazione, dicono che le informazioni oggettive (I
cosiddetti profili hard) sono da rilevare mediante il ricorso agli indicatori sociali quantitativi, mentre i dati soggettivi
(i cosiddetti profili soft, inerenti opinioni, rappresentazioni, percezioni) possono essere studiati ricorrendo a
“tecniche proiettive di gruppo”, volte a far emergere elementi emotivi e inconsci, e a “tecniche animative di
comunità”, miranti ad esplorare i vissuti e gli atteggiamenti delle persone verso il contesto. (Esempio tecnica
animativa = fotografare il quartiere, disegnare il quartiere proprio perché sono gli stessi membri della comunità che
in essa risiedono che, con un click o con un disegno, sono invitati a ritrarne/disegnare i luoghi più rappresentativi per
poi discutere degli aspetti negativi e positivi e delle emozioni che suscita)

Altre modalità di rilevazione (di analisi del contesto) sono:

➢ SCENEGGIATO DI QUARTIERE = una sorta di cortometraggio sul contesto auto-costruito da coloro che ne
fanno parte
➢ PLANNING FOR REAL = (pianificazione per davvero) consiste nella realizzazione di un lavoro di confronto sui
problemi e sui punti di forza del territorio a partire dalla realizzazione di un plastico tridimensionale del
territorio come “base“ per veicolare i confronti
➢ BLOCK ENVIRONMENT INVENTORY = (blocco inventario ambiente) finalizzato ad analizzare il profilo di
unisolato.

Una volta raccolti i vari dati ed informazioni che compongono il profilo del contesto sarà importante concentrare
l’attenzione su quegli elementi positivi e negativi che “attraversano“ i vari profili. Lavanco e Novara sottolineano che
<<l’analisi dovrà mettere in luce i vincoli e le opportunità trasversale a tutti gli otto profili e da questi prendere le

A cura di Mena Di Gennaro


mosse per organizzare un programma di intervento>>. Quindi l’attenzione è concentrata sul “non perdersi nei
dettagli” e basarsi sulle informazioni che permettono un’operatività.

Una modalità particolarmente preziosa e assai diffusa per compiere una valutazione complessiva e trarne le
opportune conseguenze operative è quella resa possibile dalla cosiddetta MATRICE SWOT ideata da Albert
Humphrey. È uno strumento di pianificazione strategica, inerente la definizione progettuale di medio-lungo periodo,
utilizzato per valutare in modo distinto, ma allo stesso tempo anche in modo complessivo, l’ambiente interno (punti
di forza e di debolezza) e l’ambiente esterno (opportunità e minacce, vincoli) di una determinata realtà.

Si tratta non di distinguere gli elementi utili da quelli negativi, ma gli elementi interni ed esterni alla realtà (il
contesto di prossimità). Esterni non significa “ininfluenti sul percorso” (quindi quei dati superflui che non ci
interessano), ma “fuori da nostro campo di azione” cioè quei fattori che possono condizionare positivamente o
negativamente il nostro lavoro ma che non possiamo modificare; ma individuarli consente di mettere in campo
strategie di valorizzazione (degli elementi positivi cioè le opportunità) e di fronteggiamento o evitamento (degli
elementi negativi cioè minacce e vincoli).

Esempio ——— contesto caratterizzato da piovosità estiva molto elevata, si potranno programmare attività di
socializzazione all’aperto solo se si fronteggerà il problema (dotandosi si tendoni, ombrelli, impermeabili) o se lo si
eviterà (organizzando attività di socializzazione al coperto). Invece se la zona fosse meno piovosa e piena di boschi e
prati, pur non avendo determinato noi tale condizione positiva, bisogna valorizzarle organizzando passeggiate,
campeggi o altro che possa contribuire alla socializzazione delle persone.

Inoltre ci si deve impegnare ad individuare i punti di forza e capire come custodirli, potenziarli e valorizzarli e ad
individuare i punti di debolezza e capire come risolverli, o almeno ridimensionarli

4.2.5 FOCUS TRASVERSALI NELL’ANALISI DEL CONTESTO

Proposti da Martini e Sequi:

1. ANALISI DEL BENESSERE DEL CONTESTO DI PROSSIMITÀ = consiste in un focus che punta a esplorare e valutare
il benessere delle persone, approfondendo tre specifiche dimensioni:
• benessere soggettivo: componente cognitiva del benessere, che consiste nel giudizio di soddisfazione verso
la vita, e la componente affettiva, relativa alle emozioni positive e negative abbinate a tale livello di
soddisfazione
• benessere psicologico: riguardante aspetti come l’autonomia, la crescita personale, le relazioni positive con
gli altri ecc...
• benessere sociale: che riguarda le interazioni con gli altri membri del contesto e con le istituzioni.

Per misurare e valutare tali variabili, Zani e Cicognani propongono per il benessere soggettivo varie scale di SELF-
REPORT (cioè informazioni rilasciate dai membri del contesto esprimendo accordo o disaccordo su lista di
affermazioni); scale di SELF-EFFICACY, di LOCUS OF CONTROL, quelle riguardanti la rilevazione di autostima, ansia,
depressione per il benessere psicologico; per benessere sociale si fa riferimento alla misurazione del sostegno sociale
e del senso di comunità.

A cura di Mena Di Gennaro


2. ANALISI DEL GRADO DI SOSTEGNO SOCIALE = indicatore che permette di evidenziare la concretezza (fecondità)
dei legami interpersonali. Si tratta di un aspetto della prossimità che ha un’area oggettiva, cioè il SOSTEGNO
SOCIALE RICEVUTO effettivamente dalle persone (strumento di misurazione è l’inventario di 40 items messo a
punto da Barrera per valutare la frequenza dei comportamenti supporti o ricevuto dalla persona nelle
precedenti 4 settimane), e da una soggettiva, cioè il SOSTEGNO SOCIALE PERCEPITO (strumento di misurazione
è il SOCIAL SUPORT QUESTIONAIRE che tratta quesiti che mirano ad esplorare il vissuto, i sentimenti, i giudizi
interiori che le persone hanno nei confronti dei loro parenti, familiari, conoscenti)
3. ANALISI DEL CAPITALE SOCIALE =(presente dei contesto di prossimità) cioè la forza e la qualità delle relazioni,
delle norme e della fiducia, <<che possono migliorare l’efficienza della società nel suo insieme, nella misura in
cui facilitano l’azione coordinata degli individui>>
4. ANALISI DELLA PERCEZIONE DEI BISOGNI COMUNI = che rappresenta il primo passo per l’attivazione dei membri
del contesto di prossimità
5. ANALISI DELLE COMPETENZE PSICO-SOCIALI DEL CONTESTO DI PROSSIMITÀ = riguarda la consapevolezza che i
membri del contesto hanno dei propri bisogni e riguarda anche la capacità di attivare risorse adeguate e
soddisfarli.

4.2.6 LA RICERCA-AZIONE

Lo psicologo tedesco KURT LEWIN introduce l’approccio metodologico della RICERCA-AZIONE. Si tratta di una
modalità di lavoro che propone un modo di conoscere nelle relazioni e attraverso le relazioni che considera gli attori
(cioè i membri del contesto di prossimità) chi sono i proprietari di una conoscenza pratica che infatti situata nel
corpo sociale. Il ruolo della ricerca-azione è di renderla esplicita non in modo lineare ma basato su un flusso
mutevole e partecipato di rilevazioni, acquisizioni, comprensioni.

Particolarmente utile al lavoro di prossimità è la RICERCA-AZIONE ESISTENZIALE INTEGRALE che si basa su:

1. COMPLESSITÀ = in particolare il giusto apprezzamento della complessità del reale, stando attenti ad ogni
tentazione di decostruire la realtà perché si rischia di separare ciò che è legato (disgiunzione) e di unificare ciò
che è diverso (riduzione), mentre la realtà è una totalità dinamica e indissociabile
2. ASCOLTO SENSIBILE = cioè impegno ad ascoltare/vedere con empatia coloro che osservano e si confrontano per
comprendere dall’interno gli atteggiamenti, i comportamenti, il sistema di idee ecc
3. CAMBIAMENTO = quindi si deve procedere verso un sistema di valori, prassi e situazioni che dovrebbe essere
migliore di quello vigente, superando problemi e disagi e attuando desideri e benessere
4. NEGOZIAZIONE-VALUTAZIONE-AUTORIZZAZIONE = cioè l’impegno ad accompagnare le persone in un crescente
lavoro di mediazione tra diverse posizioni (negoziazione), di discussione dei valori e dei sensi (valutazione), di
acquisizione della capacità di essere autori di se stessi (autorizzazione) puntando a produrre non conoscenza
“sulla gente” ma “con la gente”, mirando a far fare alle persone esperienze di riflessione e accompagnandole a
prendere coscienza dei problemi e delle risorse appropriandosi degli strumenti per agire
5. PROCESSO = (in contrapposizione alla nozione di “procedura”) caratterizzato da una successine di passi ma
aperto al cambiamento e alla valutazione, svincolato dalle regole formali e predefinite

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4.2.7 ESPLORAZIONE DI RETE E ANALISI ORGANIZZATIVA

Due aspetti inerenti i percorsi di conoscenza e consapevolezza:

ESPLORAZIONE DI RETE = è la parte iniziale del trittico “esplorazione-ipotesi-mobilitazione” proposto dai fautori del
lavoro sociale di rete. L’esplorazione di rete consiste nell’atto di “introdursi in un ambiente dato, ma non noto, per
cercare di conoscerlo, rappresentarlo e descriverlo

ANALISI ORGANIZZATIVA = è finalizzata ad esplorare gli aspetti organizzativi del contesto di prossimità,
approfondendone in particolare le dimensioni strutturali, funzionali, psicodinamiche e psicoambientali

A cura di Mena Di Gennaro


Capitolo 5: reticolare le relazioni.

Affinché si sviluppino adeguati livelli di connessione emotiva, è necessario che l'agente abbia opportunità di
incontrarsi interagire in modo costruttivo.

Un antico e noto proverbio dice “chi ben comincia, è a metà dell'opera”. Ebbene, vale la pena concentrare
l’attenzione innanzitutto su quelle realtà che la dimensione relazionale già la praticano. Indicando i territori
locali come potenziali reti di reti e che in esso è presente compattezza, con rarefazioni ed addensamenti,
Martini e Sequi (riferendosi a questi addensamenti) parlano di comunità nella comunità locale, di sotto-
comunità o comunità di settore, riferendosi alla famiglia, al condominio, alla scuola, alla parrocchia, alle
associazioni.

Famiglia: “famiglia” è una delle parole d'uso comune che etimologicamente indica i membri della casa
uniti per legame di sangue. Nella Costituzione italiana la famiglia è definita come società naturale fondata
sul matrimonio. Questa formulazione comprende tutte le coppie unite in matrimonio, con o senza figli, e i
nuclei monogenitoriali con figli. Sociologicamente sempre più si parla di famiglie, riconducendo sotto
questo termine anche le ulteriori informazioni affettive: le convivenze , le ragazze madri o ragazzi padri, le
famiglie ricostruite. Una prima indicazione sul ruolo delle famiglie ce la offre l'Ottavo Rapporto CISF sulla
famiglia in Italia. Lo studio dimostra che la famiglia è il capitale sociale primario della società perché è dalla
famiglia che nascono la fiducia, lo spirito di collaborazione e la reciprocità verso gli altri. Ma non tutte le
esperienze familiari portano a percepire queste dinamiche queste potenzialità. Alla base della riflessione
sul ruolo della famiglia come generatrice di capitale sociale c'è l'idea di famiglia che si trova ad essere
crocevia tra due categorie da ridefinire: pubblico e privato; dal privato all’individualismo, dal pubblico allo
statalismo. Se si concorda che il concetto di persona è fondato sulla relazione, la contrapposizione tra
pubblico e privato si supera perché la famiglia è luogo di crescita personale, interpersonale e sociale.

Condominio: le assemblee condominiali si stagliano come uno degli esempi più evidenti dell’incapacità
delle persone di relazionarsi e di intendersi su questioni anche di minima entità. Pur avendo ben presente
questo, Martini e Sequi ci invitano invece a non perdere di vista il potenziale relazionale di questi contesti di
prossimità. Loro indicano varie ipotesi di lavoro:

o impegno attivo dell'amministratore condominiale, spesso attestato su funzioni burocratiche o


amministrative ma che potrebbe svolgere il suo servizio facendosi in parte carico dei problemi
relazionali e sociali presenti nel condominio e cercando di risolvere eventuali conflitti tra i
condomini;
o sala condominiale, che può divenire luogo di molte attività;
o spazio aperto comune;
o riunioni di condominio, spesso problematiche e litigiose, possono divenire utile occasioni di
condivisione;
o i condomini stessi possono rappresentare una preziosa risorsa per accudire un anziano per alcune
ore, per fare la spesa, per guardare i bambini o per momenti di festa.

A sostegno di tale ipotesi si potrebbe ad esempio mettere in conto la realizzazione di iniziative locali di
formazione per gli amministratori condominiali sui temi del lavoro di prossimità, della mediazione e della
negoziazione dei conflitti; si potrebbero ipotizzare tornei di quartiere, momenti di festa comune.

A cura di Ilenia Schiavottiello


Scuola: la scuola in Italia rappresenta un importantissimo bacino di incontro e di relazione con quasi 8
milioni di studenti, più di 700.000 insegnanti e circa 9000 istituti scolastici che si articolano in oltre 40.000
sedi. È a tutti evidente che la scuola svolge un ruolo importante nella vita di bambini e ragazzi, non solo per
la sua funzione di facilitare l’apprendimento di nozioni e concetti, ma anche per le relazioni sociali che si
stabiliscono al suo interno. Inoltre è a scuola che i ragazzi trascorrono gran parte della loro giornata. I
cambiamenti che attraversano la società chiedono alla scuola il superamento di una cultura tradizionale,
per passare una prospettiva che la consideri come un sistema sociale complesso inserito nel contesto più
ampio della comunità. Martini e Sequi evidenziano che spesso ci si riferisce alla scuola con l'espressione
comunità educante, anche se l'attenzione è posta più sulla dimensione educativa che su quella
comunitaria. Essi precisano che nella scuola si trasferiscono alle nuove generazioni non solo nozioni e
capacità, ma soprattutto modelli culturali, valori, norme e modalità relazionali. Per Martini e Sequi, dunque,
contesto scolastico e contesto territoriale sono in strettissima interazione, in quanto l'uno contribuisce alla
permanenza e al rinnovamento dell’altro. La presenza di alcuni bambini che non si adattano alla struttura
scolastica rappresenta un problema ma, nello stesso tempo, è anche un'occasione per cambiare. Martini e
Sequi segnalano il bisogno che la scuola divenga scuola di democrazia a partire ad esempio dalle modalità
con cui vengono assunte le decisioni in classe. Queste dinamiche possono sortire negli studenti effetti di
educazione alla partecipazione. Al contrario, sottrarre agli alunni la responsabilità della decisione ha come
conseguenza la trasmissione dei modelli autoritari in cui ha luogo una separazione fra attivo e passivo e in
cui sono bandite autonomia e responsabilità.

Un'altra importante evoluzione nel mondo della scuola e quello che riguarda il sostegno agli alunni in
difficoltà, considerando tre filoni:

• alunni con problemi di disabilità o con disturbi specifici dell'apprendimento (dislessia, disgrafia e
disortografia);
• minori stranieri;
• dispersione scolastica.

In merito a quest'ultimo punto molto si discute su quali siano le migliori strategie da porre per prevenire e
contrastare il fenomeno dell'abbandono scolastico. Il primo grande ambito di intervento e quello della
prevenzione. Occorre aver presente che:

➢ chi è un'azione di prevenzione diviene tanto più efficace quanto più è continuativa nel tempo;
➢ è importante scommettere sulla scuola come luogo non solo della formazione ma anche della
socializzazione;
➢ serve un forte lavoro di coordinamento e integrazione tra i diversi soggetti;
➢ bisogna mettere in campo percorsi partecipativi nei quali i ragazzi a rischio e le loro famiglie siano
coinvolti.

All'interno di questo scenario e possibile indicare alcune linee di intervento ritenute efficaci:

o il sostegno laboratoriale, sia come accompagnamento nello studio pomeridiano che come attività
ludico-ricreative;
o l'attività di orientamento e ri-motivazione, volta ad aiutare i ragazzi a prendere sul serio la grande
possibilità della vita;

A cura di Ilenia Schiavottiello


o il tutoraggio personalizzato, che affianca ai ragazzi una figura adulta capace di motivarli ed
orientarli;
o il sostegno alla genitorialità, accompagnando le famiglie nel difficile compito educativo;
o la formazione degli insegnanti , al fine di aumentare le competenze necessarie a fronteggiare la
complessità del fenomeno;
o contrasto alla dispersione conclamata, attivando le cosiddette “scuole della seconda opportunità”
di alternanza scuola-lavoro.

Particolarmente importante può inoltre essere un lavoro volto a migliorare il clima scolastico. A tal riguardo
possono essere utili:

❖ i percorsi di partecipazione attiva alla vita scolastica mediante laboratori all'interno della scuola;
❖ i percorsi di accompagnamento dei genitori a partecipare alla governance scolastica;
❖ i laboratori di empowerment relazionale e solidale nella classe, volti a migliorare i rapporti alunno-
alunno, alunno-insegnante, insegnante-famiglia.

Riguardo il potenziamento della relazione tra i genitori di alunni frequentanti la stessa classe sono molto
interessanti i percorsi sulla loro genitorialità, sperimentati con buoni esiti in varie scuole del Sud Italia. Ecco
una breve presentazione:

box 1.
ideati e promossi dalla Federazione Progetto Famiglia, i percorsi sulla pro-genitorialità sono iniziative che
mirano a favorire l'individuazione di famiglie disponibili ad incamminarsi in esperienze di solidarietà con
altre famiglie. Privilegiate sono le scuole elementari e le scuole medie inferiori. Il percorso mira a
promuovere la nascita di forme di mutuo-aiuto tra i genitori. Non di rado tra i genitori della medesima
classe si sviluppano spontaneamente forme di amicizia e di solidarietà, ma queste dinamiche non si
innescano sempre oppure riguardano solo alcuni genitori. Il percorso parte con il proporre ai
rappresentanti di classe la partecipazione a due incontri di confronto in cui vengono illustrate le finalità e le
modalità di svolgimento del percorso. Si procede con la realizzazione delle attività, che nella gran parte dei
casi consistono nella realizzazione di 5 incontri tra i genitori della stessa classe, moderati da un
psicopedagogista, durante i quali vengono affrontati alcuni temi educativi. Elemento importante è il luogo
di svolgimento degli incontri e cioè non la scuola, bensì l'abitazione dei genitori stessi, possibilmente
svolgendo ogni incontro in una diversa casa. Quando è possibile , viene svolto con i figli un laboratorio
curato da un educatore che propone loro di lavorare sui medesimi argomenti sui quali sono impegnati i
genitori. I livelli relazionali tra i genitori partecipanti risultano cresciuti ed evolvono spontaneamente in
maggiori forme di mutuo-aiuto.

Parrocchia: in Italia sono circa 26.000 con una popolazione media che oscilla tra i 1500 e i 3.000 abitanti,
anche se il dato medio nasconde una situazione con parrocchie rurali composte da poche centinaia di
persone e parrocchie urbane nelle quali la media sale intorno ai 10.000 abitanti. Martini e Sequi segnalano
che le parrocchie sono caratterizzate da alcuni elementi comuni che le rendono a tutti gli effetti delle
comunità:

• i confini sia geografici che di distinzione tra persone impegnate in parrocchia, persone che
frequentano le celebrazioni domenicali, persone non praticanti;
• un luogo comune (il complesso parrocchiale);

A cura di Ilenia Schiavottiello


• un sistema simbolico, dato dalla condivisione dei valori religiosi, dalla simbologia edilizia della
chiesa del campanile, dalla liturgia delle celebrazioni e del calendario, dalle feste parrocchiali;
• la presenza di una funzione di governo e controllo, espletata dal parroco ed alcuni suoi stretti
collaboratori;
• l'influenza sia della parrocchia sui membri che viceversa;
• la possibilità di partecipare, il legame spirituale ed emotivo che lega le persone, l'integrazione dei
bisogni.

Martini e Sequi evidenziano alcuni aspetti della vita parrocchiale che possono contribuire allo sviluppo
relazionale della parrocchia stessa, come: insegnare il catechismo, leggere durante una cerimonia, cantare
nel coro, eccetera. Tutto ciò rappresenta uno spazio per la crescita del senso dell'essere con. La parrocchia
è infine vista anche come un centro di aggregazione, infatti nelle sale parrocchiali si svolgono numerose
attività che vedono coinvolte tutte le fasce d'età.

Associazionismo: il mondo dell'associazionismo In Italia è normato da alcuni articoli del Codice civile ed
alcune leggi di settore. Vi sono poi ulteriori normative regionali che aggiungono al quadro altri elementi,
come ad esempio la legge della Regione Lombardia sulle associazioni familiari. L’associazionismo si
presenta molto eterogeneo e magmatico; in esso sono presenti realtà assai diverse tra loro sul piano dei
fini, della composizione, dell'organizzazione, delle dimensioni, delle modalità operative. Alcune associazioni
sono orientate alla solidarietà e più di frequente sono impegnate su tematiche specifiche quali la cultura, le
attività ricreative, i diritti sociali. Tutte queste tematiche sono connesse alla possibilità di contribuire al
cammino di crescita del sistema di relazioni: alcune associazioni hanno grandi dimensioni con sedi in diversi
contesti territoriali, altre sono locali e di piccole dimensioni; alcune svolgono servizi specifici, altre
esprimono chiari cammini di radicamento locale; alcune partecipano a coordinamenti tematici, regionali o
nazionali, altre a reti territoriali con altre associazioni. Anche in questo caso, così come le parrocchie, le
iniziative relazionali messe in campo potranno consistere nel sostegno e nella valorizzazione di quanto le
associazioni già fanno e nel loro coinvolgimento in percorsi diretti con altre agenzie territoriali.

Comunità immigrate: Il fenomeno dell'immigrazione ha visto nel nostro Paese un incremento


significativo del numero degli arrivi, consistente in circa 5 milioni di persone. Le nazionalità più presenti
sono quella rumena, albanese, marocchina, cinese e ucraina. Gran parte degli immigrati mantengono stretti
contatti con i propri connazionali, con i quali sono attivi circuiti di condivisione oltre che flussi di mutuo
aiuto. Le comunità degli extracomunitari sono diverse l'una dall'altra per la cultura, la strategia di
inserimento, la struttura sociale interna, la leadership, i ruoli, etc. Diversi sono anche i progetti migratori:
chi è in Italia solo di passaggio, chi vi giunge con un progetto di lavoro, chi arriva come famiglia.

Mondo del lavoro: Rappresenta per una parte importante della popolazione adulta uno dei contesti nei
quali vengono vissute alcune delle più intense relazioni di prossimità, in senso sia positivo che negativo.
Operare in questi ambiti può offrire spazi di promozione del benessere personale e collettivo. Francescato e
Tomai indicano tre distinti ambiti di intervento:

o Strategie di empowerment centrate sui singoli o su gruppi lavorativi per aumentare le loro
conoscenze e competenze tramite attività di formazione-intervento;
o strategie di empowerment centrate sui mutamenti organizzativi;
o strategie di empowerment di rete tra individui, organizzazioni, forze sociali e istituzioni del
territorio.

A cura di Ilenia Schiavottiello


Poi si propone per ciascun ambito alcune ipotesi d'azione. In merito alle strategie centrate sui singoli e sui
gruppi vi sono innanzitutto gli interventi finalizzati a ridurre lo svantaggio culturale dei lavoratori
appartenenti ai livelli più bassi dell'organizzazione. Le strategie che intervengono sul organizzazione si
caratterizzano per le azioni che puntano a favorire la partecipazione dei lavoratori e il loro coinvolgimento
indecisioni.

Proseguiamo il nostro discorso allargando il tema della “tessitura delle relazioni”. L'obiettivo è di favorire
un intreccio di legami che permette di configurare una sorta di “rete di parentele sociale”, nella quale siano
possibili fiducia e aiuti reciproci fino a dar forma a quelli che abbiamo chiamato Nuovi Cortili (spazi di
responsabilità e di quotidianità condivisa, protesa verso il benessere proprio e degli altri).

Nel corso degli anni è stato possibile riflettere su come e quali possano essere i canali per favorire una
rinnovata tessitura relazionale. È l'esperienza di debolezza e di bisogno ad innescare la tensione verso
l'altro. Evocativo è l’attivare luoghi di senso che rendono possibile una rinnovata condivisione dei bisogni
ma non necessariamente luoghi fisici, ma anche percorsi che favoriscano la costruzione di risposte comuni
alle esigenze, difficoltà e problematiche della vita quotidiana. Ci interessa insomma favorire aiuto reciproco
a partire dal confronto sui propri vissuti fino ad arrivare alle forme del mutuo sostegno nelle esigenze
pratiche (come l’andare e venire dei figli da scuola e dalla palestra, la gestione di piccole emergenze
personali e familiari, etc.). Tuttavia occorre rilevare che nell’odierna cultura condividere con gli altri i propri
problemi, cioè chiedere aiuto e dichiararsi bisognosi, non è affatto semplice.

È come se per il solo fatto di ricevere aiuti, le nostre qualità personali subissero una limitazione, la nostra
persona divenisse meno valida, inadeguata. Di analogo orientamento le considerazioni proposte da Fabrizia
Ferrari che, coordinatrice di un servizio di accoglienza per madri e bambini di Milano, non solo segnala il
problema ma indica anche la soluzione, cioè quella della simmetria della relazione la quale, applicata al
tema dell’aiuto nelle difficoltà, chiarisce il significato profondo dei termini condivisione da noi più volte
utilizzato. Condivisione infatti è una dinamica intrisa di reciprocità nella quale l'uno e di aiuto nell'altro e
viceversa. Chi ha bisogno comprende meglio le necessità degli altri, riesce ad immedesimarsi meglio. Una
prima indicazione operativa per il lavoro di prossimità è che, volendo iniziare dai contesti dove vi sono già
in atto processi di vicinanza e reciproca mutualità, sarà opportuno partire da quelli meno agiati, i quali
saranno probabilmente assai più ricchi di relazioni. Il che non significa che siano contesti privi di
problematiche; anzi, violenza, sopruso e illibertà sono facilmente presenti nei luoghi più miseri.

Un’altra considerazione utile può essere quella della condivisione delle gioie, cioè del proporre momenti di
festa e di convivialità, tali da favorire l’incontro e la vicinanza emotiva. Si tratta di una modalità di facile
realizzazione che favorisce gradualmente lo sviluppo di una certa confidenza, fino ad attivare la
connessione emotiva condivisa e quindi ad innescare la condivisione dei bisogni. Bisogna impegnarsi
insieme a favore di terzi o del bene comune, cioè di condividere le competenze per il perseguimento di un
obiettivo di solidarietà o di pubblica utilità e bisogna innescare relazioni a partire dalla condivisione delle
passioni e degli interessi, come l’arte, la cultura, la natura, lo sport, la cucina, etc.

Il primo ingrediente per avviare in modo efficace innesco di nuove relazioni e infatti la presenza di persone
facilitatrici di relazione (natural aggregator). Si tratta di persone che, dotate di una buona capacità
relazionale, sono chiamate ad impegnarsi nel lavoro di reticolazione relazionale, cioè a fare in modo che
ciascuna persona coinvolta in una certa attività man mano conosca tutte le altre. A tal fine i facilitatori-
aggregatori coglieranno ogni occasione utile e ne creeranno di apposite. Ad esempio, si soffermeranno per

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primi a socializzare con i nuovi arrivati e favoriranno poi qualche scambio di battute con gli altri, avendo
attenzione a valorizzare alcuni aspetti positivi o interessanti del lavoro e della vita personale e familiare di
nuovi. All’indomani delle attività avranno cura di inviare un messaggio o fare una breve telefonata
approfittando di qualche motivo pratico o semplicemente per segnalare la gioia dell’avvenuta conoscenza.
Approfondita la relazione avranno poi cura di reticolarla con gli altri, ad esempio proponendo una
passeggiata o un momento che veda coinvolti loro stessi, i “nuovi” e qualche altra persona. Con questa
attenzione la rete relazionale si infetterà, fino ad integrare pienamente i “nuovi” nel sistema di relazioni
preesistente ho fino a fare nascere una nuova e coesa rete punto un primo gruppo di attività e quello che
possiamo definire genitori insieme. Si tratta di iniziative che partono dall' assunto che la genitorialità è una
condizione che genera un bisogno diffuso che può tenere insieme le persone. I genitori, specie di madri, si
trovano nella condizione di doversi relazionare con alcune realtà del territorio e con i genitori dei compagni
di classe, di palestra o di catechismo dei loro figli. Come abbiamo già detto, è esperienza diffusa che queste
frequentazioni suscitino nuove amicizie. Tuttavia ciò avviene in modo parziale e le relazioni rimangono su
livelli superficiali; molti genitori non riescono a causa le più disparati motivi a valorizzare queste occasioni di
socializzazione.

• Un'attività che sortisce ottimi effetti è quella della realizzazione di incontri di confronto sul ruolo
educativo, rivolti ai genitori della stessa classe scolastica.
• Un'altra utile iniziativa è quella che mira ad organizzare il mutuo-aiuto tra genitori
nell’accompagnamento dei figli a scuola o nel baby parking mattutino, al fine di permettere a
coloro che devono andare a lavoro la mattina presto di lasciare i propri figli in custodia ad altri
genitori disponibili ad accompagnarli a scuola.
• Un'altra ipotesi simile è quella di organizzare l’alternanza dei genitori nella presenza accanto ai figli
durante lo svolgimento dei compiti scolastici pomeridiani.
• Ulteriori iniziative di vicinanza e mutualità tra genitori sono quelle che consistono nell’organizzare
attività educative condivise, come laboratori di movimento, teatrali, gastronomici o momenti
ricreativi come tornei, cacce al tesoro, giochi di gruppo.
• Citiamo, ad esempio, quanto organizzato nella parrocchia San Luigi Gonzaga di Pesaro, dove hanno
deciso di attivare l'iniziativa delle domeniche dell’invito a pranzo, finalizzata a favorire il
consolidamento dei rapporti tra i genitori di bambini e ragazzi partecipanti alla medesima attività
parrocchiale e consistente nel predisporre un elenco di famiglie disponibili periodicamente ad
ospitare a casa altre famiglie per il pranzo.
• Realizzata in alcune parrocchie è la promozione della pratica della Peregrinatio Mariae, cioè la
recita del Rosario nelle case, accompagnati dalla presenza di una statua o di un'immagine della
Vergine Maria.
• Domenica delle gite familiari che abbinano le famiglie in piccoli gruppi affinché trascorressero
insieme una piccola passeggiata “fuori porta” e le serate della cena in parrocchia che coinvolgono a
piccoli gruppi le famiglie del quartiere per trascorrere insieme una serata in una delle sale
parrocchiali, cucinando insieme o portando ognuno qualcosa da casa.
• Un ultima iniziativa è stata quella di attivare un laboratorio di cucina e salute durante il quale le
partecipanti, con l'aiuto di un dietologo, si sono confrontate sull'alimentazione dei propri figli e
hanno insegnato le une alle altre le proprie “ricette speciali”, con tanto di dimostrazione.

A cura di Ilenia Schiavottiello


Allargando il discorso ad altre fasce d'età, in alcuni territori sono state attivate interessanti iniziative che
raccogliamo sotto il nome di nonni e nipoti insieme, ad esempio quella attivata in Basilicata dove in una
delle parrocchie del territorio alcuni anziani del quartiere sono stati accompagnati presso la sede
dell'oratorio parrocchiale dove hanno collaborato ad alcune attività per i bambini e soprattutto con i
bambini, ad esempio insegnando loro a fare i biscotti o la pizza, a ricamare, etc. In altre esperienze
analoghe anche i bambini sono stati coinvolti in talune attività per e con gli anziani, leggendo loro alcune
pagine di un quotidiano o insegnando l’utilizzo di internet. Interessanti sono i progetti che propongono la
formula delle nonne aiuto-maestre come quello di Mazara del Vallo che ha coinvolto, tutte le mattine dalle
9:00 alle 11:00, un gruppo di anziane in attività di affiancamento alle insegnanti della scuola dell'infanzia. Il
progetto ha permesso agli anziani di essere utili, ha offerto agli insegnanti un concreto aiuto nella gestione
delle attività di classe e ha permesso inoltre ai bambini di sperimentare la ricchezza della relazione e di
beneficiare di maggiori attenzioni. Sono state coinvolte alcune “nonne sole” nel confezionamento degli abiti
di scena per uno spettacolo teatrale organizzato da un gruppo di persone del territorio; lavoro di taglio e
cucito si è svolto in una sala comune, insieme ad altre persone. In questo modo è stata sconfitta la
solitudine.

Alcune iniziative che possono contribuire alla tessitura di relazioni possono essere:

o l'organizzazione di una festa di strada o di quartiere o qualche altra iniziativa aperta a tutti i
residenti. Importante non è tanto il “cosa” si organizza ma il farlo insieme.
o Iniziative di benvenuto che possono essere attivate quando una persona o una famiglia viene a
vivere nel quartiere. Spesso il trasferimento è dettato da motivi lavorativi e porta le persone ad
insediarsi i luoghi in cui non conoscono nessuno. Una semplice ma efficace forma di attenzione che
si può avere verso costoro è quella di dargli il benvenuto andando a bussare alla loro porta,
portando loro un piccolo dono.
o Il benvenuto ai nuovi nati; una nuova nascita per una famiglia è sempre un evento complesso nel
quale la gioia della genitorialità si confronta con il fronteggiamento di numerose incombenze
pratiche. Spesso le coppie si trovano da sole ad affrontare mille imprevisti. Ci si può dunque
impegnare ad andare a casa di queste coppie, recando gli auguri e qualche piccolo dono che
simbolicamente esprima la vicinanza per il felice evento, dando informazioni per i servizi della
prima infanzia attivi sul territorio ed altre indicazioni utili.
o Percorsi che permettono di condividere con altre persone le proprie passioni e competenze. È il
caso delle iniziative che coinvolgono la popolazione locale nella cura degli spazi urbani: dalla
sistemazione delle aiuole e dei giardinetti, all’abbellimento dei punti di ritrovo o di passeggio, dall’
allestimento di spazi, alla tinteggiatura e manutenzione degli arredi urbani. Ovviamente prima
occorrerà accordarsi con l'amministrazione comunale.
o Reti dei Messaggero parrocchiali o dei referenti di via con le quali le parrocchie si sono impegnate
ad avvicinarsi al territorio, impegnando alcune persone a fare da filo di comunicazione tra la gente
del quartiere e la parrocchia.
o Coppie angelo, cioè famiglie con prolungata esperienza coniugale e genitoriale che affiancano una
neo-famiglia per accompagnare, con suggerimenti e piccoli aiuti pratici, la preparazione al
matrimonio i primi anni di vita familiare.
o La banca del tempo; può essere un ottimo veicolo di tessitura relazionale, anche se occorre tener
presente che la sua attivazione e gestione richiede un certo impegno organizzativo.

A cura di Ilenia Schiavottiello


Ci sarebbero altre mille iniziative ma ciò che conta non è tanto l'aspetto organizzativo dei singoli progetti
ma l’aver ben chiaro l’approccio con cui procedono e il fine relazionale verso cui si muovono. Il rischio è
infatti quello di organizzare iniziative apparentemente relazionali la cui realizzazione non determina alcuna
ricaduta relazionale positiva. Un'attenzione generale, dunque, ricade in quelli che sono gli atteggiamenti
della vita quotidiana di ciascuno, come suggerisce il video “boomerang della gentilezza” nel quale,
accompagnati dalla canzone One day, si mostra come piccoli gesti di gentilezza spontanea rallegrano la vita
del donatore e suscitano nel beneficiario altrettanta disponibilità al dono. Il video termina suggerendo di
praticare la gentilezza perché tiene a galla il cuore. Geniale iniziativa in cui persone comuni offrono
abbracci gratuiti ai passanti affinché possano continuare il cammino meno soli. È bene chiarire che tutto
questo spesso non richiede il possesso di particolari competenze sociali e psico pedagogiche, infatti molte
delle iniziative elencate non comportano neanche il coinvolgimento di esperti. Questo non significa però
che non occorre organizzarsi, anzi è necessaria una progettualità che si traduca in un programma chiaro e
condiviso. Fermo restando che siamo abituati solo a relazioni che si innescano spontaneamente e che non
si può diventare amici su comando, occorre dire che nella maggior parte dei casi le relazioni e le amicizie si
attivano in presenza di un contesto favorente. Ed è questo contesto l’oggetto del nostro impegno. Le tante
diverse attività realizzabili mirano ad innescare relazioni, a far accadere incontri, non ordinando che ciò
avvenga bensì creandone l’opportunità. All’interno delle varie attività gli incontri sono veri, i confronti, le
condivisioni e gli scambi sono autentici. Il resto, cioè lo sviluppo di una effettiva relazione interpersonale,
resta affidata alla libertà dei singoli e si sviluppa in modi naturali. Certo, non tutti coloro che si incontrano a
scuola, ufficio o parrocchia divengono tra loro amici. Ma questa parzialità è l’espressione di libertà senza la
quale non si potrebbe neanche parlare di amicizia. Per un’altra parte, invece, è il segno dell’assenza di
percorsi favorenti.

Un aspetto fortemente connesso alla tessitura delle relazioni interpersonali e alla crescita del benessere
comune è quello della fiducia. La fiducia non può essere creata artificiosamente, è un elemento che nasce
spontaneo nel rapporto tra le persone ma dobbiamo attivare una serie di azioni di cornice e di contesto che
ne favoriscano la nascita e nei custodiscono la permanenza. Alcuni sociologi hanno sviluppato un insieme di
indicazioni che vanno sotto il nome di costruzione sociale della fiducia; in particolare sono tre ingredienti
che vengono indicati come necessari per favorire lo sviluppo di intensi reti fiduciarie:

1. La familiarità, cioè la vicinanza culturale, ambientale e sociale tra le persone che può essere
favorita stimolando spazi di reciproca conoscenza intorno ai valori comuni;
2. la visibilità, che spinge ad avere fiducia quando l'altro è trasparente alle sue attività, intenzioni,
modalità;
3. autenticità, cioè la verità di ciò che si dice, la non manipolazione della comunicazione.

La fiducia si espande soprattutto quando i legami tra le persone diventano duraturi. L'orizzonte verso il
quale camminare è lo sviluppo di un reticolo fiduciario tale da innescare la fiducia generalizzata, cioè
quella rivolta anche verso gli sconosciuti, e la fiducia sistemica, cioè quella avvertita verso la collettività
generale, risultato di una lunghissima serie di esperienze nelle quali i conflitti sono stati rielaborati. Tutto
questo a che fare con il quotidiano: l’amorevolezza con cui tanti genitori accompagnano la crescita dei figli,
l'onestà di tanti lavoratori, il buon funzionamento di alcuni servizi, lo sviluppo del volontariato, etc.

Le relazioni interpersonali e collettive non sono sempre segnate da dinamiche positive e di solidarietà
reciproca. Non di rado esse sono il terreno nel quale si sviluppano sentimenti di avversione ed esperienze di
delusioni, al punto che abbiamo parlato di legami negativi. Nei confronti di queste dinamiche distruttive

A cura di Ilenia Schiavottiello


occorre innanzitutto un sano realismo che ci invita ad accettare che contesti di prossimità siano luogo del
bene ma anche luogo del male . Positività e negatività, capacità di dare aiuto ostacolare, sono compresenti.
Occorre tuttavia anche dire che i conflitti, se affrontati in chiave evolutiva (cioè come spinta al
cambiamento), possono divenire una grande opportunità di crescita per il reticolo relazionale. Essi dunque
non vanno censurati né negati ma occorre piuttosto incamminarsi in un lavoro di mediazione e
negoziazione.

Negoziazione = processo mediante il quale a partire da posizioni diverse e contrapposte si tenta di costruire
terreni condivisi e visioni comuni. A tal proposito è utile richiamare quanto proposto da Fisher, Ury e Patton
i quali hanno molto approfondito questo tema. Così ne parla Silvia Fargion nel testo della metodologia del
servizio sociale:

o “gli autori identificano tre stili di negoziazione


- dura: definisce un contesto di contrapposizione, prefigura un'unica soluzione del problema, si
avvale di tecniche di intimidazione e si fonda sulla sfiducia tra partecipanti
- morbida: si basa sulla creazione di un ambiente vivibile, su una ricerca di compromessi tra le
parti
- negoziazione sui principi: propone una ridefinizione della situazione. Il punto è quello di
separare i problemi delle persone e di mettere inizialmente da parte la produzione di soluzioni.
Questo modello è stato definito creativo e l'obiettivo è quello di raggiungere una soluzione che
cosa soddisfare tutti.”

L’invito della negoziazione fondata sui principi è quello di non dare per scontate le premesse che portano
ciascuno ad assumere una certa posizione. Lo scopo di questo approccio è quello di deporre le armi e di
chiarire tali premesse, favorendo un avvicinamento emotivo tra le persone e un avvicinamento tra le
posizioni, che potranno divenire sempre meno diverse e contrapposte fino ad arrivare alla cosiddetta
“fusione di orizzonti”. Questa dinamica è descrivibile non solo come soluzione a somma zero (tipica delle
negoziazioni dure, che esitano nella presenza di un vincitore ed un perdente) ma ad una con somma diversa
da zero (perché laddove le posizioni si fonderanno, si approderà ad una con due vincitori e nessun
perdente). Come suggerito da Thomas Gordon l'applicazione del metodo senza perdenti richiederà che
l'operatore di prossimità favorisca la reciproca comprensione tra le persone invitandoli a manifestare le
proprie preoccupazioni, muri e bisogni manifestandoli con messaggi in prima persona ed evitando di cadere
in accuse o giudizi. Sarà inoltre importante adoperarsi nella valutazione delle varie soluzioni possibili,
individuando le ipotesi e comparandole al fine di giungere alla scelta di quella che favorisce la maggiore
soddisfazione comune.

Capitolo 6: favorire l’aggregazione.

Gruppo = il termine, derivante dalla lingua celta e germanica “crup” cioè stringere insieme, ammassare e
dal tedesco “kropt”, cioè nodo, indica una realtà relazionale Caratterizzata da coesione, interazione e
cambiamento. Più in dettaglio si distinguono

A cura di Ilenia Schiavottiello


• gruppi primari (famiglia, amici, piccoli gruppi ideologici), ridotto numero di membri e reticolazione
totale (Cioè ogni membro e relazioni con gli altri)
• gruppi secondari caratterizzati da legami connessi al perseguimento di uno scopo.

A volte i membri dei contesti di prossimità fanno parte te di gruppi secondari tipo quelli culturali, di
volontariato, spirituali. In tali casi è importante coinvolgere man mano tutto il gruppo nel percorso di
crescita relazionale. Quando un gruppo è unito e coeso è molto più efficace, il noi è sempre più ricco
dell’insieme dei singoli componenti. Quando le persone non fanno parte di alcun gruppo secondario si
potrà favorirne la divisione ad una realtà già esistente oppure si potrà avere la nascita di un gruppo nuovo.
In questo caso l'impegno dell'operatore di prossimità consisterà innanzitutto nel favorire l'aggregazione di
alcune persone disponibili. Per fare questo non basterà riunirle periodicamente ma occorrerà anche
aiutarle ad attivarsi insieme. La condizione necessaria per avviare un gruppo è che le persone siano
disponibili ad un esperienza di partecipazione sociale e intenzionato a farlo con gli altri, altrimenti
l'operatore non potrà fare nulla. Mentre a volte la nascita di un gruppo avviene con difficoltà, in altri invece
è una semplice conseguenza. Man mano che il percorso evolverà attraverso varie fasi (come l'analisi dei
bisogni, stimolazione della condivisione, obiettivi da perseguire, valutazione delle possibilità d'azione,
predisposizione di un piano d'azione con ruoli e compiti , etc.) il gruppo maturerà una consistenza fino a
determinare nei membri la consapevolezza di farne parte. In questo contesto l'operatore di prossimità
dovrà prestare attenzione alla comprensione dei bisogni di ogni singolo membro avendo in mente che in
ogni persona sono presenti esigenze varie. Egli favorirà in ciascun partecipante la maturazione di
un’adeguata apertura agli altri, basata sul riconoscimento del valore altrui e sulla convinzione che ogni cosa
che una persona fa o pensa ha un motivo. Poi dovrà saper aspettare evitando di incorrere nell’errore di
accelerare poiché questo creerebbe una relazione di dipendenza, anziché di collaborazione, tra lui e il
gruppo. Nei casi eccezionali in cui emerga una totale incapacità dei membri, allora l'operatore potrà
attivarsi sostituendosi loro per il tempo minimo necessario ad innescare il processo, poi dopo dovrà
rientrare nel suo ruolo.

Nella prima fase di vita del gruppo l'operatore di prossimità svolge una funzione di guida. Dovrà dedicare
impegno nel curare la qualità dei momenti di incontro del gruppo svolgendo a tal fine ruoli flessibili.
Quando le persone coinvolte nel gruppo hanno già rapporti tra loro, possono innescarsi dinamiche critiche
poiché costoro potrebbero tendere a replicare forme adeguate di dialogo. Occorre che l'operatore di
prossimità sostenga le conversazioni evitando alterazioni ed orientandole verso gli obiettivi dell’incontro.
L'operatore potrà intervenire, fare domande oppure osservazioni ed è possibile che servono diversi incontri
prima che le persone si concentrano davvero sul bisogno da affrontare e sugli obiettivi.

▪ Una delle attenzioni che l'operatore dovrà avere è quella di favorire la “rottura del ghiaccio” tra
coloro che non si conoscevano, stando attento ad evitare che si creino situazioni di indifferenza e di
imbarazzo. Un ottimo aiuto sarà offerto dalla condivisione della gioia, cioè dalla previsione di piccoli
spazi informali (come prendere un caffè) che ammorbidiscano la parte dell’incontro.
▪ Un'altra attenzione dell'operatore sarà quella di organizzare gli argomenti di discussione optando
per temi sui quali ognuno possa contribuire e dire la propria. Nel guidare gli incontri l'operatore
dovrebbe avere ben chiari gli obiettivi che intende perseguire, pur restando aperto ad eventuali
modifiche.
▪ Un'attenzione particolare dovrà essere posta nell’affrontare i conflitti e i sentimenti, adottando
strategie di negoziazione che puntino ad affrontare le difficoltà in chiave evolutiva.

A cura di Ilenia Schiavottiello


La vita dei gruppi evolve con ritmi mai lineari, frutto dell’intreccio delle vicende che coinvolgono il gruppo
stesso. Alcuni sono governabili in modo più o meno funzionale, altri vanno fronteggiati sapendo di non
incidere sulle dinamiche esterne ma modellando il cammino del gruppo. Sarà responsabilità dell’operatore
di prossimità e dei membri accompagnare tale percorso, valorizzando le opportunità e impegnandosi ad
affrontare le difficoltà come occasioni di crescita.

Le fasi tipiche del ciclo di vita di un gruppo secondario, che hanno al centro del proprio impegno la
realizzazione di attività rivolte all’esterno, (es. gruppi di volontariato) sono

1. Il punto di start: è il momento in cui nasce il gruppo. Si tratta di una fase evidente nei gruppi
spontanei caratterizzata da un piccolo numero di membri, da un’elevata densità relazionale poiché
tutti si conoscono bene, da un’intesa progettuale sul cosa si vuole realizzare e perché, da una
ridotta densità operativa, connessa al fatto che il gruppo alla nascita ha poche attività concrete. Il
punto di start si colloca in alto a sinistra del grafico.
2. La fase di avvio e sviluppo iniziale: riguarda il periodo di sviluppo iniziale del gruppo; può avere
durata variabile compresa in genere tra alcuni mesi e un anno. Si tratta di una fase caratterizzata
dall’aumento dell’entusiasmo e dell’enfasi iniziale, connessa alla gioia di vedere concretizzarsi le
azioni che si erano ipotizzate. È una fase dove non ammette forme di avvilimento o rinunce. Qui il
gruppo si incontra con frequenza elevata; aumenta la densità operativa, il numero dei componenti,
l’intesa-progettuale, la densità relazionale. Dal punto di vista grafico questa fase è rappresentata
dal punto che avanza verso l’alto e verso destra.
3. La fase di plateau: il gruppo giunge a questa fase (letteralmente “altopiano”), cioè ad un punto nel
quale all’aumento delle attività e della numerosità del gruppo non corrisponde un incremento della
densità relazionale e dell’intesa progettuale, che restano più o meno stabili. È un periodo che può
durare da alcuni mesi a qualche anno. È una fase in cui si riduce il numero degli incontri del gruppo
e più frequentemente ci si ritrova in sottogruppi anche in base alla suddivisione dei ruoli e dei
compiti per lo svolgimento delle attività. Sul piano cartesiano il punto si muove in orizzontale verso
destra.
4. La fase di indebolimento: andando ad ampliare le attività o il numero dei componenti possono
iniziare ad emergere alcuni segnali di indebolimento. L’elevato numero di componenti impedisce
una conoscenza reciproca, il che fa nascere un senso di estraneità. Proseguendo, gran parte dei
membri inizia a trovarsi nella condizione di non conoscere gran parte dei componenti, riducendosi
la quota di coloro con i quali si ha un rapporto di confidenza. Ciò determina una crescente difficoltà
del gruppo a coinvolgere i nuovi membri nel reticolo relazionale; molti restano ai margini. Nel
frattempo, nella maggior parte dei gruppi avviene che alcuni dei fondatori vengono meno e in parte
sono sostituiti da persone altrettanto intime. Gli stessi incontri, inizialmente presenti, iniziano a
divenire meno numerosi e a perdere la capacità di consolidare le relazioni vista la presenza di
persone estranee le une alle altre. Inoltre, il ridotto numero delle riunioni, impedisce un confronto
adeguato perché l'aumento delle complessità moltiplica la quantità di elementi da valutare e porta
a dei sottogruppi. Tutto questo non solo contribuisce al venir meno di alcuni membri vecchi e
nuovi, ma anche all’insorgere di una serie di problemi operativi e sempre più spesso queste azioni
restano incompiute. Inizia cioè ad esserci aria di crisi, il che porta al disorientamento. Il nostro
punto continua a muoversi verso il lato destro del grafico ma poi inizia a scendere. Per fronteggiare
la crisi, il gruppo a seconda delle soluzioni adottate transita in una delle tre seguenti fasi:

A cura di Ilenia Schiavottiello


5. La fase di sfaldamento: Spesso la reazione alla fase di indebolimento è quella di intensificare la
ricerca di nuovi membri, ma la soluzione di questo tipo non ha possibilità di sortire gli effetti
desiderati poiché amplifica le cause dell'indebolimento. Si ripropongono così in modo unificato sia
la frammentazione relazionale che la confessione progettuale. Il gruppo giunge e, spesso, supera la
soglia di sfaldamento, andando incontro ad una progressiva frammentazione. Il punto nel grafico,
spostandosi verso destra, raggiunge il margine inferiore del grafico.
6. La fase sabbatica: in altri casi invece i responsabili del gruppo si rendono conto dello sfaldamento e
comprendono che non è possibile continuare a coinvolgere nuove persone. A tale situazione
inaugurano un tempo sabbatico, di forte rallentamento o addirittura di blocco della crescita, al fine
di permettere un recupero qualitativo relazionale e progettuale. È una sorta di “periodo di
recupero di energie” che può sortire importanti effetti benefici. Lo stop sabbatico fa bene ma non
può essere una condizione permanente; può essere riattivato periodicamente ma occorre
comprendere se vi sono altre modalità che permettono di evitare lo sfaldamento senza
interrompere il cammino del gruppo.
7. La fase di empowerment: essa consiste nella messa in campo di alcune precise strategie ed azioni
volte a rinforzare questi aspetti, si tratta cioè di presidiare attraverso attenzione consapevoli ciò
che all'inizio cresceva in modo spontaneo. La comprensione di questa necessità non è scontata e si
continua ad attendere la ripresa di condizioni che chiedono specifiche risposte. Esempi:
l'inserimento nel calendario di alcuni incontri dedicati all’approfondimento della conoscenza
reciproca con la presenza di un supervisore, la realizzazione di momenti di condivisione, lo scambio
di visite di cortesia tra i membri del gruppo, la suddivisione di un gruppo numeroso in due o più
sottogruppi, etc. Sul fronte riflessivo-progettuale sono utili: la calendarizzazione di periodici
confronti sul cosa- come- perché dell'attività gruppale, la realizzazione di cicli di formazione e di
aggiornamento, le visite di conoscenza con altre realtà analoghe, la partecipazione di alcuni
membri del gruppo a percorsi esterni di approfondimento tematico e di confronti tipo convegni e
corsi, etc.

Nei gruppi che fin dalla loro nascita mettono in atto specifiche strategie di rafforzamento relazionale e
riflessivo-progettuale e che ricorrono a qualche periodo sabbatico, la fase di indebolimento può anche non
aggiungere e non si giungerà alla soglia di sfaldamento. Quando questo avviene, manifesta una
consapevolezza, da parte di chi guida il gruppo, dell'importanza di tale dimensioni e del rischio che si
correrebbe nel tralasciarle. Sotto questo aspetto l’empowerment relazionale va inteso come un lavoro
costante che accompagna tutta la vita del gruppo.

Nella realtà vi sono anche formazioni gruppali miste, che hanno sia obiettivi esterni che di mutualità
interna. L’analisi delle singoli fasi si limita a considerare la combinazione di quattro indicatori:

o La coesione o densità relazionale tra i membri, cioè il grado di intimità, di sintonia emotiva, di
reticolazione;
o L’intesa progettuale, cioè il grado di sintonia inerente le finalità e gli obiettivi del gruppo, le priorità
d’azione, lo stile operativo, le modalità di interazione con l’esterno;
o La densità operativa, cioè la quantità e la complessità delle azioni messe in campo, la loro
distribuzione sui territori, l’onerosità globale del carico;
o La dimensione del gruppo, cioè il numero dei componenti, la loro dispersione geografica, il grado di
eterogeneità o di omogeneità (età, interessi, professione, etc.).

A cura di Ilenia Schiavottiello


Questi 4 indicatori sono disposti lungo un asse cartesiano, precisamente

➢ sull’asse verticale la densità relazionale e l’intesa progettuale


➢ sull’asse orizzontale la densità operativa e la dimensione del gruppo

La vita di un gruppo necessita, dunque, di attenzioni costanti. A tal proposito evidenziamo la necessità di
tenere fluidi i confini del gruppo. La partecipazione di diverse persone si esprime con livelli di intensità vari,
soggetti ad evolvere nel tempo. Occorre allora pensare al gruppo come una realtà costituita da tre fasce:

o un nucleo centrale, composto da persone maggiormente presenti che assumono la leadership;


o una seconda fascia, composta da coloro che partecipano frequentemente le attività pur senza
assumere ruoli di particolare responsabilità;
o una terza fascia, che raccoglie le persone che prendono parte in modo saltuario alle attività.

Con il passare del tempo alcune persone possono transitare verso le fasce più interne e altre possono
spostarsi verso l'esterno poiché vivono fasi di rallentamento. Alcuni di questi dopo un periodo di tempo
intensificano nuovamente l'impegno, mentre altre restano ai margini. Quindi è importante che il gruppo si
impegni a tenere fluidi i confini, nel senso che deve permettere di variare l'intensità della partecipazione
senza che nessuno si senta escluso o sovraccaricato.

Alla riflessione sui confini è connesso quella sulla modulazione del ritmo del percorso gruppale. Quando il
gruppo ha un ritmo sostenuto si presenta vitale ma occorre evitare i carichi eccessivi, per evitare
l’affaticamento e il rischio di abbandono. Ugualmente bisogna evitare di assumere ritmi troppo bassi che
genererebbero nel gruppo debolezza e stanchezza. Occorrerà invece impegnarsi in una continua
modulazione, cercando di individuare il ritmo giusto in quel dato momento.

L'area di capacitazione solidale: le dinamiche di gruppo permettono di sostenere un'intensa


partecipazione delle persone alle interazioni sociali. La capacità dei gruppi di coinvolgere le persone in
percorsi di partecipazione sociale rappresenta una delle principali condizioni, affinché tali gruppi abbiano
vita duratura. Il tema può essere approfondito ricorrendo al modello dell’area di capacitazione solidale. Si
tratta di un modello relativo alle pratiche attive di solidarietà ma estendibile al generale discorso sulla
partecipazione, che analizza la capacità di un contesto di favorire o meno l'attivazione delle persone.
L'analisi effettuata prende in considerazione la consapevolezza, la condivisione e la responsabilità intesa
come il concreto impegno a realizzare azioni utili. Il modello, collegando queste tre dimensioni sui tre
vertici di un triangolo, rappresentano un piano caratterizzato da quattro diverse aree:

a) area della solidarietà impossibile, con elevato grado di responsabilità e consapevolezza ma priva di
condivisione tra le persone. Si tratta di una zona fredda nella quale le persone, pur consapevoli del
come e del perché essere solitari, non vi riescono perché schiacciate dai propri problemi che
affrontano in solitudine
b) area della non solidarietà, in cui alla condivisione e alla consapevolezza non corrisponde
un’adeguata responsabilità e cioè non vi è un concreto impegno solidare a favore degli altri. Vi sono
quei meccanismi di indifferenza tra le persone
c) area della solidarietà inconsapevole, con buoni livelli di responsabilità e di condivisione ma privi di
un'adeguata consapevolezza da attribuire alla mancanza di un percorso di riflessione, formazione e
di approfondimento delle modalità dell’agire. I rischi qui sono vari, dalla realizzazione di azioni
superficiali, alla trasformazione in organismi spesso appiattiti sul mercato

A cura di Ilenia Schiavottiello


d) area della solidarietà possibile consapevole, detta anche area di capacitazione solidale. In essa le
tre dimensioni sono ben presenti e questo consente alla solidarietà di svilupparsi. È bene
evidenziare che qui accade che le difficoltà dei singoli membri, che dovessero eventualmente
sopraggiungere, li spingono a non sganciarsi dal gruppo bensì a stringersi ancora più agli altri
perché in quest’area si è innanzitutto solidale tra i membri.

(CONSAPEVOLEZZA)

(AREA DELLA SOLIDARIETA’ IMPOSSIBILE) (AREA DELLA NON SOLIDARIETA’)

Area della “solidarietà


possibile e
consapevole”

(area di capacitazione
solidale)

(RESPONSABILITA’) (AREA DELLA (CONDIVISIONE)

SOLIDARIETA’ INCONSAPEVOLE)

I gruppi di self-help: In questi gruppi, detti anche di auto- aiuto, i membri mentre riflettono su una data
questione, si aiutano reciprocamente. Il primo a parlare di auto- aiuto è stato un filosofo russo all'inizio
degli anni 70 del secolo XIX. Egli vedeva in questi gruppi l'espressione di una tendenza dell'essere umano
alla cooperazione e alla mutualità. Queste mutualità erano rinvenibili già dall'antica Roma, dove gruppi
religiosi sviluppavano forme di reciproco aiuto, dedite ad assicurare ai defunti esequie dignitose e sostegno

A cura di Ilenia Schiavottiello


alle loro famiglie. Nel corso della storia le finalità si ampliarono comprendendo anche il sostegno
economico, i vitalizi per la anzianità, etc. Nel primo 800 si assiste ad una fioritura di forme mutuali, sorte
prima in Europa Occidentale e poi diffusesi anche altrove. Di rilevanza sono le esperienze britanniche:

o le Trade Unions, sorte ad opera di lavoratori specializzati al fine di tutelare le proprie prerogative
professionali, minacciate dallo sviluppo del sistema industriale, prima con funzioni assistenziali e
poi diffusasi a livello nazionale con scopi sindacali.
o Le Friendly Societies, diffusesi successivamente in Gran Bretagna, consistenti in gruppi auto – aiuto
costituiti di persone interessate a condividere forme di reciprocità a fini assicurativi, pensionistici,
di gestione del risparmio, etc.

Il self-help contemporaneo vede la sua nascita nel 1935 con la Fondazione dell'Associazione “Alcolisti
Anonimi”, nata dall' incontro di un agente di borsa di Wall Street ed un medico chirurgo di Akron, entrambi
alcolisti, i quali si resero conto che condividendo le loro esperienze e aiutandosi a vicenda riuscivano a
mantenersi lontani dall’alcol. Oggi testimonia che l'auto-aiuto è un vero e proprio metodo di cambiamento
personale che può contribuire al benessere e all’empowerment degli individui. Le caratteristiche comuni
dei gruppi di self-help sono:

• la condivisione del problema, il racconto della propria storia e il confronto con altre situazioni
simili. Permette di attivare il doppio canale della destrutturazione del problema e della
ricostruzione del senso di sé
• l'apprendimento connesso all’esperienza e alla messa in atto di modalità di azioni fissate nel
gruppo ma sperimentato anche fuori dal gruppo in confronto con altri pari. Si fonda sulla
convinzione che coloro che si confrontano con certe sfide nella vita diventano esperti di esperienza
e sviluppano saperi per affrontare situazioni simili
• la reciprocità degli aiuti (sostegno reciproco) che consente l'identificazione con il problema
consentendo ad ogni membro di essere allo stesso tempo fruitore e fornitore di aiuto. Si pone alla
base della cosiddetta cura dell’aiutatore, secondo la quale chi offre sostegno agli altri riceve a sua
volta aiuto

Dunque, come evidenzia Mara Tognetti Bordogna, l'azione dei gruppi di self-help offre risposte non solo
alla parte emergente dei problemi (cioè ai sintomi) ma approfondisce il legame con gli individui e giunge
alle cause personali dei problemi; determina quindi i cambiamenti al di là del problema immediato.

PAROLE CHIAVE: gruppo, gruppo di self-help

Capitolo 7: capacitare, potenziare, coinvolgere.

Capacitazione: libertà sostanziale di un soggetto all'interno del sistema. Questo concetto è da connettere al
cambiamento del significato della povertà, sempre meno indicativa della carenza di mezzi. Si tratta di un
costrutto che richiama il corrispondente italiano “rendere capace”, cioè rendere abile ad una cosa, idoneo,
esperto. Carlo Dondolo lo definisce un processo di apprendimento in cui si sviluppano competenze.
Dunque, un'azione che mira a rafforzare le capacità che i soggetti hanno per fronteggiare problemi e
difficoltà. Le attività di conoscenza e comprensione e di reticolazione razionale e gruppale sortiscono un
effetto di capacitazione, sia perché la presenza dell'operatore di prossimità produce dei cambiamenti, sia

A cura di Ilenia Schiavottiello


perché sono membri coinvolti nel lavoro di analisi e valutazione della propria condizione. Questo determina
ipotesi di lavoro, disponibilità, accordi, mutamenti e reticolazioni.

Un concetto connesso alla capacitazione è quello di empowerment, cioè “potenziamento” o anche


“rendere capaci”.

• Lavanco lo indica come il processo mediante il quale gli individui aumentano le possibilità di
esercitare un controllo attivo sulla propria esistenza, sviluppando abilità che permettono loro di
fare una lettura critica della realtà sociale e stimolando l'elaborazione di strategie per il
raggiungimento di obiettivi.
• Folgheraiter lo definisce un processo che dal punto di vista di chi lo esperisce significa “sentire di
avere potere” o “sentire di essere in grado di fare”. Dal punto di vista di chi lo facilita significa un
atteggiamento capace di accrescere le probabilità che le persone si sentano in grado di fare. Il
termine deriva dall’ambiente statunitense degli anni ‘50- ‘60 del secolo scorso, dove venne
introdotto per indicare alcuni movimenti per la tutela dei diritti e il riconoscimento
dell'uguaglianza.
• Il termine empowerment in ambito psico-sociale è stato introdotto per indicare l'aumento della
possibilità delle persone di esercitare un controllo sulla propria vita e di dare risposte ai propri
bisogni. Lavanco e Novara propongono di distinguere una variante psicologica dell’empowerment,
che consiste nel senso di padronanza e controllo che il soggetto sperimenta, è una variante
oggettivo- ambientale che attiene alle risorse che si trovano in ambiente.
• Claudia Piccardo dice che l’empowerment può riguardare sia un oggetto a rischio sia un oggetto
che del rischio corso porta le ferite.
• Marc Zimmermann distingue tre diversi livelli di analisi: degli individui (empowerment psicologico),
delle organizzazioni (empowerment organizzativo), della comunità (empowerment socio politico).

Bisogna accompagnare le persone, i gruppi e le organizzazioni da una condizione di incapacità apprese ad


una di speranza appresa. Si tratta della stessa sottolineatura, posta in chiave prima negativa e poi positiva,
relativa alla dinamica dell'apprendimento psicosociale.

Allargando il discorso viene alla mente il libro “Messaggio per un'aquila che si crede un pollo”, pubblicato
da Anthony de Mello all'inizio degli anni ‘90. L’aquila ha appreso di non essere capace di volare, cioè ha
vissuto esperienze che l'hanno fatto sperimentare l'incapacità di controllare una situazione di volo. In tali
casi convincersi delle proprie incapacità attese è automatico. Per rompere questa cappa, occorrerà aiutare
il nostro aquilotto a vedere e sperimentare le sue risorse. Così occorrerà lavorare sulla rimozione dei fattori
esterni che impediscono l'attivazione delle persone in un processo in cui la tensione dovrà spostarsi dalle
carenze agli ostacoli. Per quanto riguarda i livelli di power raggiunti dalle singole persone, occorre rilevare
l'esistenza di caratteristiche della personalità. In particolar modo va esplorato il cosiddetto locus of control,
cioè l'attribuzione di causalità che una persona fa dei risultati raggiunti ritenendoli frutto della propria
attivazione o causati da fattori altri. Un altro elemento utile è quello dell'autoefficacia, in particolare
rispetto alla probabilità di raggiungere gli obiettivi fissati (cosiddetta aspettativa di risultato) e alla
probabilità di attivarsi in modo adeguato (aspettativa di competenza).

STRATEGIE DI CAPACITAZIONE E DI EMPOWERMENT: Marc Zimmerman, argomentando la ripartizione dei


livelli di empowerment (individuale, di organizzazione, di comunità), indica per ciascun livello il processo di
empowering e i risultati di empowered.

A cura di Ilenia Schiavottiello


Livello di analisi Processo (empowering) Risultato (empowered)

Apprendere competenze Senso di controllo (sviluppo


decisionali del locus of control interno)
degli individui
(psicologico) Gestire le risorse Consapevolezza delle criticità

Lavorare con gli altri Comportamento


partecipativo/collaborativo

Partecipare alle decisioni Competizione efficace


nell’acquisizione delle risorse
delle
organizzazioni
Condividere le responsabilità Messa in rete con altre
(organizzativo)
organizzazioni

Condividere la leadership Influenza nelle politiche

Accedere alle risorse Coalizione organizzativa

della comunità Aprire le strutture di governo Leadership plurale


(socio-politico)
Tollerare la diversità Capacità di partecipazione dei
residenti

Gli interventi proposti per il livello individuale muovono nella direzione di accompagnare le persone a
maturare un approccio alla vita più attivo e si concentrano su tre assi: le competenze, l'autostima, la
creatività. Tali azioni possono rivolgersi a target ristretto di persone svantaggiate, quindi mettendo in
campo dinamiche di tipo riparativo, oppure aprirsi ad una platea di soggetti assumendo una valenza di tipo
preventivo- promozionale. I processi di empowering sono quasi tutti di tipo relazionale: il lavorare con gli
altri (per le empowerment individuale), il condividere decisioni e responsabilità (organizzazioni), lo
sviluppare coalizioni e connessioni con tutti (livello di azione socio politico). Dunque emerge una positiva
escalation simmetrica, nella quale l’empowerment psicologico di ciascuna persona è sostenuto dallo
sviluppo di legami con gli altri. Tutto questo determina il distanziamento da condizioni di incapacità appresa
e accompagna ciascuno verso un orizzonte di competenza definito da alcuni come comunità competente.
Secondo Zimmerman si può evidenziare inoltre che i processi proposti per il livello delle organizzazioni e
per quello della comunità declinano il tema relazionale con chiavi inerenti la leadership, il sistema di
responsabilità, etc. È utile infine chiamare le cosiddette tecniche di auto-cambiamento le quali se non
utilizzate, possono contribuire al percorso di capacitazione delle persone. Sono tecniche attuate dalla
persona che beneficia. Uno strumento utile è quello del Personal Learning Audit, consistente in un
questionario che consente a persone di qualunque età di analizzare i propri atteggiamenti nei confronti

A cura di Ilenia Schiavottiello


dell’apprendimento di nuove competenze e capacità, stimolando la motivazione al miglioramento e
all’accrescimento del proprio impegno. Tra quelle maggiormente praticate vi sono le tecniche affettive, che
puntano sulla gestione delle emozioni negative, le tecniche cognitive che lavorano sulla rielaborazione
delle difficoltà e delle possibili soluzioni, le tecniche comportamentali che mirano a favorire l'acquisizione
dei modi di fare adattivi.

LA PARTECIPAZIONE SOCIALE:

Un tema conseguente alle riflessioni sulla capacitazione e sull’empowerment è quello della partecipazione,
cioè dell'attivazione delle persone alla costruzione dei processi collettivi, alla promozione del bene comune,
al governo della polis. Si tratta di una dimensione rilevante che rappresenta uno dei principali aspetti del
lavoro di prossimità. Nei contesti post-moderni quello che emerge è un processo di fuga dalla
partecipazione e di ritiro nel privato. Molti popoli ritengono che il tempo vada dedicato al lavoro, alla
famiglia, alla salute e agli interessi personali. L’allontanamento dalla società trova accelerazione in quel
sentimento di inadeguatezza che le persone avvertono nei confronti della res pubblica, dovuto a mancanze
di esperienze. Occorre rilanciare la partecipazione, che non si esplica solo nell’andare a votare o nel seguire
i fatti di cronaca politica, ma anche nell’impegnarsi in prima persona nel perseguimento di uno scopo
sociale. Occorre chiedersi in quale modo sia possibile favorire una sana attivazione della gente: uno spunto
ce lo offre l'idea che la partecipazione si apprenda praticandola; occorrerà dunque stimolare le persone alla
realizzazione di alcune esperienze positive. A tal riguardo una soluzione è quella di favorire esperienze
associate e non solitarie in modo che i primi passi appaiano alla portata delle persone.

Una delle forme per innescare i processi di capacitazione e partecipazione attiva delle persone al contesto
comune è quella di coinvolgerli nella fase di analisi di ideazione del percorso, riconoscendo loro una
competenza connessa ai loro profili professionali e all’essere esperti di esperienza. Tale forma di
coinvolgimento può essere riassunta con il concetto di progettazione sociale partecipata . Essa consiste in
un lavoro che coinvolge tutti i membri di un gruppo nella definizione dell’azione comune che si intende
portare avanti. Essa si sviluppa nelle seguenti fasi:

1. ideazione = fase in cui emerge l'ipotesi di realizzare il progetto


2. attivazione = definizione delle “regole del gioco”, dei “principali giocatori” e degli “strumenti di
gioco”, approfondendo il problema che si vuole fronteggiare
3. progettazione = elaborazione dettagliata del testo progettuale, riportante la definizione e l'analisi
del problema, l'identificazione degli obiettivi, la modalità di intervento e le attività previste
4. realizzazione = attuazione concreta di quanto programmato
5. valutazione

La progettazione sociale valorizza il ruolo dell’esperto e lo coinvolge in modo più articolato perché è
costretto a comunicare le proprie idee e a sollecitare un contributo da parte dei propri interlocutori.

o Una forma particolare di progettazione è quella che si innesca quando i rappresentanti scelgono di
ricorrere alle pratiche di sostegno, cioè di incontro con i cittadini per ricevere loro aiuto per la
raccolta di informazione, di richieste e pareri.
o Altro esempio di progettazione è quello proposto dal modello dell'action planning che consente alla
comunità locale di predisporre programmi facendo sì che i partecipanti locali contribuiscano sul
contenuto e sulla struttura del programma. Questo approccio permette la creazione di visioni
condivise sullo sviluppo della comunità, azioni finalizzate alla rimozione di elementi che ostacolano

A cura di Ilenia Schiavottiello


tale sviluppo, il miglioramento dell’integrazione tra i diversi gruppi, il miglioramento delle
condizioni ambientali, etc.

ABBASSAMENTO DELLA SOGLIA DI ACCESSO ALLA PARTECIPAZIONE:

Come già detto, per accompagnare l’avvio di un ciclo di partecipazione sociale, occorre far fare alle persone
alcune esperienze di stimolo, delle brevi tappe iniziali, che confermino la percezioni di capacità, rinforzino
la disponibilità e l’impegno. Tornando all’aquila di De Mello, occorre aiutarla a fare alcuni “primi voli”.
Saranno voli protetti, accompagnati ma brevi, semplici e pur sempre veri, reali che confermeranno al
votatile di non essere un “pollo” e che stimoleranno il desiderio di proseguire, di volare più in alto. Per far
questo occorre abbassare la soglia di accesso alla partecipazione con lo scopo di favorire l'attivazione del
maggior numero possibile di persone, proponendo loro di vivere piccole esperienze iniziali. Questo non
impedisce di proporre in seguito più intensi percorsi, ma all'inizio occorre andarci piano.

Un primo elemento da evidenziare è l'importanza di formulare proposte di prima attivazione che


comportino un livello di disponibilità coincidente con la dotazione di risorse presenti nella media della
popolazione. Per favorire l'individuazione e l'attuazione di adeguate strategie di abbassamento della soglia,
può essere utile distinguere dimensioni come la disponibilità pratica, la motivazione personale e la capacità.
L'abbassamento della soglia iniziale della disponibilità pratica chiede di realizzare iniziative che tengano
presente l'importanza di contenere gli oneri organizzativi e di tempo necessari per partecipare. Se il tempo
oggi è scarso, lo e ancor di più il tempo libero. Alle persone che vengono coinvolte per la prima volta sarà
bene proporre attività che si svolgono in zone vicine al luogo in cui queste vivono o lavorano, in fasce orarie
e giorni compatibili con gli impegni di lavoro, di ridotta frequenza partendo con impegno mensile e
restringendo l'impegno ad un particolare periodo dell'anno. Poi è importante contenere o azzerare gli oneri
economici che la partecipazione comporta. Nel coinvolgere le persone in un percorso di partecipazione sarà
importante tener presente la grande varietà di motivazioni personali che possono favorire o frenare
l'attivazione delle persone. Alcuni, ad esempio, avranno motivazioni intrinseche verso la partecipazione,
cioè si attivano perché la ritengono una cosa giusta in sé di valore e importante; altri avranno motivazioni
estrinseche, cioè da interessi differenti. Occorrerà comunque aprire la partecipazione a tutti. Sarà
opportuno accompagnare le persone in un percorso di maturazione delle loro premesse motivazionali e
occorrerà considerare con attenzione il tipo di attivazione da proporre:

o attività di breve durata che non richiedono impegni di lungo periodo; quella più soft è l'esperienza
una tantum, alla quale sarà possibile partecipare anche solo una volta.
o attività di gruppo alle quali la persona partecipa insieme agli altri non svolgendo quindi un ruolo
indispensabile, il che le permette di sentirsi libera.
o attività di affiancamento, utili per partecipazioni che comportano attività complesse.

Uno degli aspetti da considerare è quello della verifica di compatibilità tra il percorso di partecipazione e il
corredo di capacità (abilità, competenze, esperienze) che dispone la persona. In quest’ottica abbassare la
soglia, non significa proporre attività semplici, ma attività che valorizzino i punti di forza della persona. Ciò
permetterà a ciascuno di fare esperienze positive e in questo caso si tratta di personalizzazione della
soglia. A tal riguardo è bene considerare due diverse aree di competenza:

➢ l'area delle capacità specifiche, relative allo svolgimento di compiti particolari come aiutare nello
studio un ragazzo in rischio di bocciatura scolastica, richiede che la persona sia in possesso di buone
competenze nelle materie

A cura di Ilenia Schiavottiello


➢ l'area delle capacità generali, quelle che non richiedono particolari doti ma hanno a che fare con il
buon senso comune

ABITARE SOCIALE E INTRECCIO TRA PARTECIPAZIONE E IMPEGNI PERSONALI:

l’abitare sociale è inteso come la possibilità d’intendere un modo attivo del cittadino di risiedere nella
propria zona di residenza. C’è il rischio che la partecipazione sia percepita come percorso alla portata solo
di persone benestanti. Se intendiamo stimolare percorsi di partecipazione diffusa occorrerà calarli negli
spazi di ogni giorno, intrecciandoli con gli impegni, le passioni e i problemi delle persone. Facciamo alcuni
esempi:

o attività intrecciabili con le responsabilità familiari = l’organizzazione di attività di animazione per


bambini e ragazzi nelle quali sia possibile coinvolgere anche i loro figli; sostegno scolastico
pomeridiano di bambini in difficoltà nelle ore in cui le famiglie volontarie aiutano i figli nel fare i
compiti; impegno del tempo dedicato al fare la spesa al supermercato per un anziano; etc.
o attività intrecciabili con i propri impegnati lavorativi = il gestore di un asilo nido potrà seguire un
bambino per alcune ore diurne portandolo con sé all’asilo oppure un taxista potrebbe portare con
sé un anziano o un disabile permettendo loro di andare in giro.
o Attività intrecciabili con gli interessi personali = portare con sé allo stadio una persona bisognosa
di compagnia.

Il bisogno di partecipazione: è utile evidenziare che la partecipazione delle persone non esprime solo un
potenziale impegno ma anche ad un loro profondo bisogno. Possiamo affermare che partecipare fa bene,
sia come fonte di capacità apprese e quindi di maggiore benessere personale sia perché essa contribuisce a
contrastare le passioni tristi, tipiche dell'adolescenza ma che interessano anche altre fasce della
popolazione. In questa linea in un testo, Carlo Maria Martini sottolineava che le pratiche di partecipazione
e di solidarietà attiva reggono nel tempo solo nella misura in cui sono sostenute da un adeguato spazio di
gioia. La condivisione delle gioie, come abbiamo visto, è una delle strade per entrare in una relazione
sempre più profonda; ecco che gite, compleanni, feste e giochi non sono semplicemente azioni di svago
bensì assumono il valore di spazi di prossimità e di capacitazione.

PRATICHE ATTIVE DI SOLIDARIETA’ RELAZIONALE: una forma importante di partecipazione sociale è quella
che si esprime nell’attivazione di pratiche attive di solidarietà sociale (volontariato). Intendiamo qui riferirci
a quella porzione di pratiche solidali che mettono al centro del proprio operato l'offerta di relazioni di
vicinanza e le attività di assistenza materiale. Concentriamo la nostra attenzione sul sostegno informale,
cioè su quelle pratiche di solidarietà che vengono attivati spontaneamente dalle persone quando si trovano
di fronte a determinati bisogni. Si affiancano degli operatori istituzionali e del terzo settore, realizzando
forme di aiuto popolare rivolto a quei bambini, famiglie, anziani, etc. che vivono situazioni di disagio
sociale. Si tratta di pratiche definite relazionali per indicare che consistono nell’offrire spazi di conoscenza,
frequentazione e amicizia a persone che per vari motivi ne sono rimaste prive. È un importante campo di
partecipazione. Di disponibilità ve ne sono sicuramente più di una, eppure accade raramente che si
traducono in concreta attivazione con la conseguenza che una parte di anziani bisognosi restano sprovvisti
di queste forme di accompagnamento. C'è un problema di innesco, cioè i potenziali accompagnatori non si
propongono per mancanza di confidenza, perché temono di essere invadenti o anche perché non sono a
conoscenza del desiderio dell’anziano di essere accompagnato. Per facilitare la cosa ci si potrebbe attivare
proponendola e organizzandola.

A cura di Ilenia Schiavottiello


ASCOLTO E SOSTEGNO DIFFUSO:

in un contesto in cui facilmente si pensa al sistema di welfare e di protezione sociale come a un qualcosa di
esclusiva competenza di servizi professionali, parlare di ascolto rimanda all'immagine degli sportelli di
ascolto socio-sanitari, dove si recano coloro che hanno un bisogno. Sono questi contesti di ascolto formale,
intendendo con ciò che l'ascoltatore svolge una funzione sulla base di un ruolo e di una apposita
organizzazione in determinati orari e con specifiche modalità. Una tipologia di ascolto meno tecnico ma
comunque formale, è quello attivato dalle Caritas diocesane e parrocchiali. In questi casi gli operatori sono
soprattutto volontari senza competenze specialistiche, preparati a questo ruolo dalle Caritas stesse
attraverso percorsi di formazione. Anche in questo caso però l’ascolto si svolge in una struttura in
determinati orari e secondo particolari procedure. Oggi è necessario che il sistema dell’ascolto formale sia
integrato da un ascolto diffuso ed informale, intendendo con ciò riferirci all’ascolto operato
spontaneamente. Si tratta di una dimensione assai preziosa perché esprime la capacità delle persone di un
contesto di prossimità di essere attente agli altri membri, è espressione dell'attenzione all'altro, ai suoi
vissuti e le sue difficoltà. Questa modalità risponde maggiormente il bisogno di ascolto generale che hanno
le persone. È noto infatti che una parte dei bisognosi non si recano ai centri di ascolto né a quelli delle
Caritas o altri. I motivi sono vari: non ci vanno per un senso di riservatezza, si sentono a disagio nel
raccontare le proprie difficoltà persone sconosciute, non hanno fiducia, hanno impedimenti come orari di
lavoro o assenza di mezzi di trasporto. All’opposto vi sono le situazioni di persone che tendono aggirare
servizi e centri di ascolto nel tentativo di ottenere maggiori aiuti. L'ascolto informale, realizzato da persone
cioè del vicinato, da colleghi, conoscenti, potrebbe superare l'una e l'altra difficoltà, ascoltando senza
umiliare. Non si intende però affermare l’inutilità dei centri di ascolto formale ma piuttosto il bisogno di
integrarli. All'ascolto informale segue che una parte delle risposte possa avvenire

o in modo diffuso e informale: le risposte qui sono relative a quelle situazioni nelle quali, avendo a
che fare con bisogni che non richiedono risposte specialistiche o molto complesse, possono essere
affrontati direttamente dalle persone come conseguenza spontanea ed immediata all’ascolto. Ad
esempio il bisogno di un momento di dialogo, di un accompagnamento in qualche luogo, etc.
o in modo formale e strutturata: se ascoltando i bisogni, dovesse emergere la necessità di dare
risposte più articolate, sarebbe opportuno accompagnare le persone ad un punto di ascolto
formale affinché si proceda con il valutare una eventuale presa in carico più articolata.

Cosa orienta le intenzioni, la volontà, i desideri, le decisioni verso il bene comune? Certamente la tessitura
relazionale e fiduciaria contribuisce gradualmente. L'esperienza mostra che, accanto a questi percorsi
graduali, la disponibilità delle persone a mettersi in gioco può essere stimolata da alcuni incontri “speciali”.
Si tratta di incontri che “cambiano il cuore e la vita” delle persone orientandola verso il bene. Questi
incontri “potenti”, sono riassumibili in due categorie:

➢ incontri con gli indifesi, ovvero coloro che soffrono gravissime condizioni di solitudine e non hanno
nessuna possibilità di porvi rimedio: bambini privi dell'affetto dei genitori, disabili privi di amici,
anziani non-autosufficienti abbandonati, rifugiati che fuggono dalla guerra, etc. L'incontro con
costoro, se significativo, cambia la vita perché il contatto con la sofferenza interpella quella
solidarietà che ciascun essere umano ha dentro di sé.
➢ Incontro con i testimoni, cioè coloro che hanno compiuto scelte importanti, di dedizione totale alla
cura degli indifesi e alla costruzione del bene comune. Persone che hanno deciso di donarsi
completamente agli altri rischiando e rimettendoci in prima persona. Pochi restano indifferenti di

A cura di Ilenia Schiavottiello


fronte ai volontari, ai missionari e alle altre persone che lasciano tutto e partono per terre lontane.
I testimoni del quartiere sono poi i vicini di casa, i quali la scelta della relazione e del bene comune
l'hanno già compiuta.

Non di rado la vita quotidiana scorre così veloce che anche in quei quartieri nei quali gli indifesi e i
testimoni ve ne sono molti, gran parte della gente residente non li incontra se non ci si organizza. Le
modalità da adottare possono essere diverse. Accanto alle classiche ed efficaci testimonianze, consistenti
nell’invitare alcuni testimoni a prendere parola in occasioni di pubblico raduno, assai utile può essere la
valorizzazione di quelli che la Caritas italiana chiama i luoghi segno, cioè le case d'accoglienza, i centri diurni
ed ulteriori luoghi. L'invito a trascorrere una giornata in questi luoghi può offrire alle persone del quartiere
un’occasione di incontro ravvicinato. L'efficacia dell’incontro con gli indifesi e con i testimoni è alla base del
successo di due ulteriori modalità di “sensibilizzazione alla solidarietà”:

• Appelli = consistono nella diffusione (tramite canali di comunicazione mediatica come giornali,
televisioni, radio, siti web) di richieste di aiuto nelle quali vengono presentate alcune situazioni di
bisogno invitando gli ascoltatori a rendersi disponibili a dare una mano. Gli appelli mettono le
persone a contatto con gli indifesi e questo attiva maggiori risposte.
• Passaparola = si ispira al filone dell’incontro con i testimoni. Intendiamo infatti l'impegno di coloro
che praticano forme di solidarietà attiva a parlarne con i loro vicini, colleghi, parenti e amici
invitandoli a mettersi in gioco. Il passaparola rientra nelle cosiddette strategie di marketing
conversazionale, finalizzate a far aumentare il numero e il volume delle conversazioni inerenti un
certo prodotto o servizio. Ma nel caso della solidarietà sociale il passaparola non è riducibile solo ad
una tecnica per aumentare la notorietà di qualcosa. Come ben evidenziato da Pasquale Addesso la
diffusione della carità non è pianificabile ma il metodo è quello dei testimoni, cioè famiglie che
trasmettono il desiderio di accogliere. L'efficacia del passaparola è da attribuire al fatto che
l'apertura alla solidarietà chiede alle persone un percorso di maturazione non accrescibile tramite
la semplice informazione generale ma di una testimonianza vera, ricca, da farsi conoscere dal cuore
delle persone. La disponibilità si attiva quando le famiglie vedono altre famiglie fare solidarietà,
quando le scoprono impegnate nella cura dei figli non propri. La diffusione della disponibilità ad
impegnarsi in pratiche di solidarietà richiede dunque una trasmissione diretta, da persona a
persona, un contatto ravvicinato. Richiede una relazione tra chi già vive l'esperienza e il
destinatario dell'invito.

IL CAMMINO FORMATIVO:

La formazione è una delle attività di capacitazione più diffuse oggi e offre a coloro che vi partecipano la
possibilità di apprendere e crescere in termini di conoscenze, capacità, atteggiamenti. Può concentrarsi
sulla trasmissione di informazioni o anche mediante l'attivazione di una riflessione sull’esperienza. Il
riferimento scientifico dei diversi modelli ed approcci oggi attivi, trae origine dalla gioia dei training group
elaborata da Kurt Lewin per aumentare nei partecipanti la consapevolezza di se stessi, delle relazioni
interpersonali e delle dinamiche di gruppo. La parola training rimanda all'idea dell'addestramento,
dell'allenamento, del tirocinio, cioè ad una serie di approcci formativi non soltanto teorici. Fin dalla
formazione in aula occorrerà adottare modalità interattive, che coinvolgano i partecipanti valorizzandone le
esperienze. Occorre cioè attuare modalità efficaci di formazione che intrecciano momenti frontali, di
gruppo e riflessioni su casi concreti. La formazione ovviamente non sarà soltanto iniziale ma occorrerà
mettere in campo un programma permanente, che accompagna il percorso delle persone.

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STRATEGIE DI ACCOMPAGNAMENTO:

è evidente a tutti la capacità persuasiva degli strumenti di comunicazione di massa. La facilità con la quale
viene raggiunto un numero elevatissimo di persone, la capacità della comunicazione audio-visiva, stimolare
emozioni e pensieri, rende i mass media uno strumento potentissimo che può contribuire all’evoluzione del
contesto di prossimità. Le forme a cui ricorrere possono essere sia quelle delle cosiddette “pubblicità
progresso” con il lancio di messaggi espliciti di informazione su determinati temi, sia di tipo implicito
inserendo i contenuti nella trama di film, fiction, etc. L’azione dei media non è sempre efficace,
specialmente per quanto riguarda la determinazione di scelte non facili e il cambiamento di comportamenti
complessi. Non esiste messaggio che influenzi se non è supportato dall’ambiente circostante. L’azione dei
media è un tassello utile ma non sufficiente per attrarre risorse umane e per informare la comunità dei
cambiamenti avviati.

(DALLE SLIDE DEL PROF):

Patti di collaborazione ordinari: (…) interventi di cura di modesta entità (…); (…) pulizia, imbiancatura,
piccola manutenzione ordinaria, giardinaggio, allestimento, attività culturali e formative,…

Patti di collaborazione complessa: riguardano spazi e beni comuni che hanno caratteristiche di valore
storico, culturale o che, in aggiunta o in alternativa, hanno dimensioni e valore economico significativo, su
cui i cittadini propongono di realizzare interventi di cura o rigenerazione che comportano attività complesse
volte al recupero, alla trasformazione e alla gestione continuata nel tempo per lo svolgimento di attività di
interesse generale.

PAROLE CHIAVI: partecipazione, patti di collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione.

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Capitolo 8: organizzare l’azione sociale.

Per le singole organizzazioni il primo passo da compiere è quello della conoscenza e della comprensione. Un
primo aspetto da considerare è che molti contesti di prossimità non sono riducibili ad un unico soggetto,
bensì si compongono di numerose diverse entità organizzate. In tali casi non sarà possibile compiere un
solo percorso di analisi organizzativa ma occorrerà dedicarsi alla conoscenza di ciascuna realtà. Come
Lavanco e Novara spiegano, è possibile indicare tre diverse scuole: quella relazionale, naturale e sistemica e
quindi compiere analisi organizzative classiche, delle relazioni umane e per sistemi. I principali elementi
distintivi delle tre scuole sono:

1. L’approccio razionale che consiste nell’esplicitazione degli obiettivi dell'organizzazione e nella


formalizzazione della sua struttura e delle relazioni interne

2. L’approccio naturale che riconosce l'influenza delle strutture informali sull’efficienza


dell'organizzazione, ossia norme e comportamenti non previsti e collega la qualità alla capacità
dell'organizzazione di soddisfare i bisogni

3. L’approccio sistemico in cui l'organizzazione è definita come sistema aperto in un rapporto di


interscambio con l'ambiente esterno capace di mutare nel tempo

Francescato, Tomei e Ghirelli intendendo valorizzare ciascuna delle tre scuole sopra elencate, hanno
proposto l'adozione di uno schema da loro denominato analisi organizzativa multidimensionale. Tale
schema propone di esplorare l'organizzazione attraverso quattro diverse dimensioni:

o la dimensione strategico - strutturale, consistente in una sorta di analisi storica della struttura, in
particolare dell'evoluzione degli obiettivi, dei bilanci del patrimonio, delle sedi e dell'assetto
giuridico. Si tratta di una dimensione che punta a comprendere la quantità e la qualità delle
prestazioni, la distribuzione di ricchezza e di potere che vengono dal territorio dove l’ente è
impegnato

o la dimensione funzionale, che punta la tensione sulle funzioni che devono essere espletate per il
perseguimento degli obiettivi. Approfondisce tre sistemi: il sistema di controllo di gestione, relativo
alla pianificazione dell'attività operativa; il sistema operativo, relativo alla produzione del servizio
dando attenzione all’acquisizione, trasformazione e collocazione delle risorse dei mezzi finanziari e
delle conoscenze; il sistema informativo, relativo ai dati sui risultati raggiunti e alle attività di
acquisizione, archiviazione, elaborazione e trasmissione a chi gestisce il sistema di controllo

o la dimensione psicodinamica, che sposta l'attenzione dagli aspetti razionali a quelli relativi ai vissuti
delle persone. Allo scopo di permettere il riconoscimento e l’elaborazione dei conflitti latenti, al
fine di farli evolvere verso il miglioramento e la crescita individuale e dell'organizzazione
o la dimensione psico ambientale, che concentra l'attenzione sulle reti di relazioni interpersonali e le
relative dinamiche.

POTERE E CLIMA ORGANIZZATIVO:

“Essere una guida responsabile favorendo la partecipazione”, frase che fa da sottotitolo alla traduzione
italiana del libro Leadern Effectiveness Training (tradotto con leader efficaci), pubblicato da Thomas
Gordon. Il sottotitolo del libro coniuga il principio della partecipazione con quello della responsabilità del
leader. Nel testo richiamiamo: l'invito a considerare che avere il ruolo di leader non basta per essere un

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leader efficace, lo stimolo ad usare ogni giorno le proprie competenze di ascolto, il suggerimento ad
utilizzare il metodo “senza perdenti” e a trasformare i conflitti in cooperazione.

Leader non significa semplicemente capo; da una ricerca sono emerse ben 8 differenti tipologie di
leadership che nell’ordine d’importanza sono risultate:

1. lo stratega

2. impegnato sui compiti

3. il comandante

4. il creatore di gruppi

5. il creativo

6. il competente
7. il coinvolto

8. il passionale

Johnson ha proposto l'analisi etimologica della parola leader: “la parola inglese lead ha più di mille anni, la
sua radice anglosassone laedare significa guidare delle persone lungo un viaggio influendo sulla
destinazione e sulla direzione che il gruppo deve prendere. Il termine leadership comparve nel 1800. Un
leader è una persona che può influire sugli altri così che questi siano più efficienti nei lavorare per il
raggiungimento di un obiettivo comune e riescano a mantenere efficaci relazioni di lavoro.”

Emergono così tre elementi significativi. Si parla infatti di:

o capacità di influenza sociale, quindi della messa in atto di uno stile e di singoli comportamenti che
orientano le persone in un verso piuttosto che in un altro

o obiettivi comuni, proponendo quindi una connotazione del leader non ripiegata sui propri
personali interessi ma attenta a quelli di tutti, che egli condivide

o team, cioè squadra, persone che lavorano insieme per raggiungere gli obiettivi. Il capitano guida la
squadra, ma è tutta la squadra che gioca. È la forza del collettivo la vera risorsa vincente.

Gli stili di leadership sono modalità generali adottate dal leader durante il suo operato, le quali influiscono
sul raggiungimento degli obiettivi; lo stile migliore dipende dalla situazione. Alcuni leader sono:

➢ autocratici: impartiscono ordini e determinano l'azione senza coinvolgere i membri del gruppo
nella decisione. Alcuni autori li definiscono autoritari o direttivi

➢ democratici: definiscono le azioni attraverso discussioni e decisioni di gruppo, aiutando i membri


ad interagire. Alcuni autori li definiscono autorevoli o partecipativi

➢ permissivi: non partecipano ai processi di decisione. Alcuni autori li definiscono lassisti

➢ battistrada: è il primo a buttarsi nella mischia, risolve i problemi, dà e chiede il massimo dai
membri del gruppo. Gli altri sono selezionati in base all’efficienza e alla sintonia con il suo stile

➢ coach: sono concentrati sul potenziamento dei propri collaboratori, di cui ispirano l’impegno e la
dedizione. Svolgono un costante ruolo di motivatori della squadra

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➢ visionari: indicano la meta verso la quale tendere, ispirando fiducia nei collaboratori e diffondendo
una visione comune. Lasciano ai collaboratori un’ampia libertà d’azione. Sono bravi ad “attirare
talenti”.

A fronte di questo quadro è scontato ritenere che un buon leader sia quello democratico - autorevole-
partecipativo e non gli altri. Lavanco e Novara propongono una tripartizione parzialmente differente:

▪ modello autoritativo- verticistico, crea rapporti subalterni tra un leader che detta compiti e
squadre di esecutori che si occupano di portarli a termine

▪ modello funzionale- piramidale con diversi livelli di azioni ricoperti da fasce di persone con ruoli
paralleli

▪ modello democratico- circolante, quello in cui il leader stimola la creazione di una rete di rapporti
tra tutti i partecipanti. L'obiettivo è il potenziamento di tutte le risorse umane.

La tripartizione mira ad evidenziare che nessun stile di leadership è in assoluto il migliore ma che va
considerato in base alla situazione, cioè agli obiettivi, tempi, risorse disponibili. Il modello verticistico infatti
si presenta efficiente nella guida dei gruppi in situazioni di tempi ridotti, con scadenze imminenti. Il modello
funzionale- piramidale propone una struttura a matrice dove emerge la gerarchia decisionale ma una parte
delle funzioni di guida è legata a dei capisquadra. In questo aumenta la complessità del processo
decisionale e operativo con un allargamento dei tempi e con maggiore attenzione alla valorizzazione e
vissuti delle persone. Il modello democratico- circolante è caratterizzato da una forte incertezza dei tempi
e anche dall' emersione dal basso di obiettivi inizialmente non contemplati.

Williams e Hierck propongono una lista delle caratteristiche assunte da un gruppo guidato da un leader
democratico- circolante: la condivisione del ruolo di guida tra più persone, valorizzazione delle persone,
realizzazione di lavori e prodotti collettivi, avere discussioni aperte, assunzione di decisioni comuni. Questa
analisi ci porta a riflettere sulla connessione tra lo stile adottato dal leader e le caratteristiche assunte dal
gruppo che guida. Uno degli elementi ai quali leader deve prestare attenzione è quella del clima
organizzativo. Si tratta di un concetto che può essere inteso in senso soggettivo, riferendoci alla percezione
che le persone hanno dell'organizzazione e che influenza i vissuti e comportamenti. Ad esempio la
percezione di un buon clima collaborativo induce le persone ad essere aperte allo scambio con gli altri. Il
clima organizzativo può essere inteso anche in senso oggettivo, riferendosi cioè a quei comportamenti
favoriti o contrastati dall’organizzazione. Questo aspetto può essere denominato anche cultura
organizzativa, cioè il sistema di valori, credenze, abitudini che orientano i comportamenti dei membri. Sia il
clima che la cultura sono il frutto di varie scelte, accadimenti, problemi e successi. A volte queste liste
vengono esplicate in una sorta di manifesto. Quando l’esplicitazione è frutto di una riflessione partecipata
dal basso, essa contribuisce all’approfondimento del senso di comunità percepita dalle persone. Una sintesi
efficace degli elementi che caratterizzano il buon clima e una positiva cultura organizzativa è proposta da
Johnson e Johnson con l’acronimo F. U. N . C. T. I. O. N. I. N. G.:

o Facts: i fatti le idee e le informazioni vengono condivise e spiegate

o Understand: i fatti e i ragionamenti degli altri vengono compresi ripetendone con parole proprie
quanto si è compreso

o Note: attenzione ad annotare in modo chiaro quali sono le direttive secondo le quali il gruppo deve
procedere

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o Conflicts: si superano i conflitti interpersonali

o Tension: l'umorismo accompagna il lavoro allentando tensione e stress

o Integrate: i contributi di ciascuno vengono valorizzati ed integrati nelle direttive d'azione

o Offer: si offre sostegno e approvazione

o Note (2): si prende nota dei bisogni degli altri membri del gruppo

o Invite: si invita ciascuno a partecipare

o Note (3): si prende nota della comprensione e conoscenza degli altri

o Give: ciascuno contribuisce a dare energia al gruppo

Vi è mai capitato di sviluppare un clima organizzativo sul lavoro?

Come si superano i conflitti a lavoro? Acquisendo una visione non giudicante della realtà e passando dalla
conferma egoica a quella animica (Parlare Pace, Rosenberg).

Capitolo 10: lo sviluppo relazionale nei servizi territoriali.

La crescita del benessere di un contesto territoriale è al centro dell'azione di gran parte degli enti che vi
operano. Per dare efficacia all’insieme degli interventi, è necessario un adeguato raccordo tra tali diversi
enti. La necessità di lavorare in rete con gli altri enti attivi sul territorio è evidenziata nelle normative che
regolano vari settori della vita locale. Un'indicazione è presente nella Legge Quadro n 328 del 2000 che
indica il bisogno di attivare sistemi integrati di servizi e interventi. Per assicurare una piena tutela dei diritti
sociali e favorire la crescita del benessere, occorre collaborare con tutti coloro che svolgono un ruolo
significativo nei territori e coinvolgerli in una messa in opera del sistema. Queste ed altre indicazioni
normative hanno portato ad accordi di programma, protocolli, convenzioni etc. che hanno sancito le
modalità di lavoro di tali reti. Occorre tuttavia rilevare che a questa enorme produzione di accordi formali
non corrisponde un altrettanto vasta attivazione di sinergie reali. L’ostacolo al funzionamento delle reti
sarebbe il loro essere state calate dall'alto, senza un coinvolgimento attivo delle persone. Bisogna tener
presente la dimensione psicodinamica delle organizzazioni segnalata da Francescato, Tomai e Ghirelli che
evidenzia la presenza nei gruppi di vissuti e dinamiche interpersonali, spesso conflittuali, che addirittura
bloccano la realizzazione del percorso. La strada per superare questo è dare attenzione alla dimensione
psicologica e relazionale, favorendo il riconoscimento dei conflitti ed attivandosi in un percorso di
elaborazione che li traduca in occasione di crescita evolutiva. Che la collaborazione di reti funzioni poco, è
emerso in occasione della Conferenza Nazionale per l'Infanzia e l'Adolescenza promossa dal Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali e tenutesi a Bari nel 2014, Dove si sottolinea ho la necessità di superare ogni
inutile scollamento tra servizi sociali, sanitari e educativi.

Lavorare insieme non è semplicemente stare intorno ad un tavolo con persone che hanno formazioni
diverse. Nell’accompagnare un gruppo di lavoro composto da più persone occorrerà fare attenzione

1. alle relazioni funzionali

2. alle relazioni interpersonali

A cura di Ilenia Schiavottiello


Senza le prime il gruppo non sarebbe capace di attivarsi; mancando le seconde verrebbe a mancare il
gruppo. Vi è innanzitutto una dimensione informale, fatta di confidenza, comprensione, fiducia, affetti. Se
non la si richiama all’attenzione, si genereranno facilmente difficoltà. La collaborazione tra “colleghi”
richiede l'instaurarsi di un sottofondo di amicizia inter-personale. Numerose esperienze e ricerche
mostrano che tra operatori si collabora bene non solo se sono definiti i ruoli e compiti ma anche se tra tali
operatori vi sono relazioni personali di buona qualità. La soluzione è: “si collabora bene se ci si vuole bene e
se ci si sente voluti bene, se si comprende l'altro e se ci si sente compresi dall'altro”. Lia Sanicola in un testo
indica due pre-condizioni per un buon lavoro di rete:

1. la presenza di un bisogno comune

2. la propensione delle persone verso il bene comune


Senza il primo mancherebbe quel modo vitale che intreccia le traiettorie delle persone; senza la
propensione verso il bene comune, l'intreccio potrebbe divenire una faida tra egoismi confliggenti.

Sanicola suggerisce anche di mettere in campo un’adeguata cura delle relazioni. La rete relazionale tra gli
operatori va facilitata, consolidata e diffusa. Uno dei primi passi da fare è quello di procedere alla
esplicitazione delle connessioni relazionali positive, disegnando la mappa della rete informale, capace di
evidenziare le connessioni amicali e le coalizioni esistenti tra gli operatori. I metodi sono vari, ad esempio
quello dell'analisi organizzativa multi dimensionale che permette di evidenziare le connessioni
interpersonali. I manuali sul lavoro di rete suggeriscono vari strumenti come: la carta di Todd, la carta di
Rousseau, la tavola del supporto, etc. Accanto all’azione di analisi e mappatura dei reticoli informali,
occorrerà mettere in campo percorsi volti a favorirne la crescita . Tali azioni sono definibili con la dicitura
Team Building. Quando in un percorso di rete tra enti si giunge a comprendere l'importanza di rafforzare
l'integrazione relazionale tra le persone, spesso ci si orienta erroneamente nell’attivazione di forme di
intensificazione generale. L'ampliamento delle relazioni richiede tempo dedicato e non può essere
intensificato in modo generico. L'esito difatti sarebbe quello di sovraccaricare inutilmente il sistema con
l'effetto di determinare uno sfiancamento relazionale. Ciò che invece può essere opportuno mettere in
campo sono le azioni di intensificazione relazionale mirata ad esempio individuando nella rete i puls taker,
cioè le persone maggiormente vicine a tutte le altre. Un'altra indicazione è quella di rinunciare alla
strutturazione di organigrammi formali, al fine di valorizzare le reti emergenti, sostenendo la capacità di
auto-organizzazione nelle reti informali e attribuendogli specifici compiti.

Annamaria Campanini ci ricorda che per progettare una rete tra servizi, può essere utile collegarsi alle
esperienze di scambio già in essere, a quelle reti naturali non programmate e non governate da un entità
superiore che collegano tra loro operatori e servizi. Si tratta di favorire la nascita e il consolidamento di reti
informali tra operatori, che parte dalla ricerca definisce comunità di pratica, intendendo quegli insiemi di
persone, congiunte da vincoli di relazione informali, che condividono una certa pratica comune. A tal fine
sarà opportuno organizzare incontri periodici di formazione, momenti di convivialità, confronti con reti
analoghe di altri territori, etc. Sarà importante anche individuare reti informali già esistenti e valorizzarne il
ruolo.

Un'altra indicazione è quella di investigare le singole specifiche relazioni per mettere in campo interventi
mirati per favorire il miglioramento di ciascuna connessione relazionale . Alcuni testi propongono liste di
ingredienti di un buon team. Una di queste indica:

o il coinvolgimento di tutti i membri

A cura di Ilenia Schiavottiello


o la spinta che ciascun membro esercita sugli altri
o una buona interattività caratterizzata da accettazione delle differenze, clima costruttivo,
dimostrazione di interesse e accoglimento delle opinioni degli altri

o la condivisione unanime delle scelte


o senso di responsabilità dei singoli membri

o sostegno al ruolo e all'immagine degli altri membri

Fabio Folgheraiter nel libretto “Sorella crisi” suggerisce di incamminarsi con i colleghi su un sentiero che
coinvolga tutti, ognuno con le sue storie e con i suoi bisogni, aprendosi alla possibilità che ciascuno possa
essere risorsa per l'altro. L'invito è ad essere aperti, intrecciando la competenza professionale con una
necessaria disponibilità relazionale e incamminandosi sulla strada della corresponsabilità, cioè del
rispondere e dell’agire insieme in una traiettoria di condivisione. Un'attenzione particolare viene data ai
flussi di comunicazione interna che, se ben condotti, facilitano il senso di appartenenza e favoriscono il
consenso di tutti sulle decisioni man mano prese; riducono le incomprensioni e aumentano il livello di
apprezzamento reciproco.

Considerata la complessità degli interventi sociali e dei percorsi di crescita, occorrerà optare per lo sviluppo
di sistemi di comunicazione policentrica e pluridirezionale. Dunque al centro della qualità del lavoro di una
squadra gli operatori si pone la presenza di buoni livelli relazionali. Intrecciandoli con i necessari livelli di
competenza ed impegno professionale, possiamo avere la seguente funzione T=f (P x R), dove

➢ T è la qualità del lavoro svolto dal team

➢ P la professionalità dei singoli operatori


➢ R la relazione informale presente tra gli operatori

Provando a collocare questa funzione su un sistema cartesiano, che riporti sull'asse delle ascisse (x) il grado
di qualità professionale e su quello delle ordinate (y) il grado di qualità relazionale, otteniamo lo schema
riportato di seguito

A cura di Ilenia Schiavottiello


Area di “Volontarismo” Area del Good Team

(rete coesa ma poco competente) (rete coesa e competente)

Risultanti parzialmente efficaci ed Risultati altamente efficaci ed efficienti

efficienti

x: asse della professionalità

“No Welfare Area” Area dell’Esperto Solitario


(rete e competenze assenti) (competenze presenti ma isolate

Risultati gravemente inefficaci per la mancanza di rete)

ed inefficienti Risultati parzialmente efficaci ed efficienti


y: asse della relazione

Nel piano cartesiano si evidenziano dunque quattro diverse aree:

1) “No Welfare Area” (III quadrante), caratterizzata da scarsi livelli di relazione, di professionalità e
impegno, in cui la rete è inesistente e il lavoro sociale si mostra inefficace ed inefficiente.

2) “Area dell'Esperto Solitario” (II quadrante) e Area del Volontarismo (IV quadrante) nelle quali, per
motivi diversi, si raggiungono livelli di parziale efficacia ed efficienza della rete.
3) “Area del Good Team” (I quadrante), ovvero della buona squadra, caratterizzata da elevanti
standard relazionali e professionali in cui la qualità del lavoro sociale svolto raggiunge significativi
livelli di efficacia ed efficienza.

Il modello dell'agire sussidiario è sviluppato da Pierpaolo Donati, il quale amplia la definizione classica di
sussidiarietà interrogandosi sui criteri di regolazione dei rapporti tra enti. Donati propone la seguente
definizione di sussidiarietà: “l'espressione della norma di reciprocità che un soggetto autonomo esercita per
la capacitazione (empowerment) di un altro soggetto autonomo”. Al centro vi sono dunque due soggetti
autonomi l'uno dall'altro ma che scelgono di utilizzare le proprie energie per rafforzare quelle dell’altro.
Questo modello proposto da Donati invita a considerare, facendo un esempio pratico, che nel rapporto tra
il servizio sociale territoriale e un'istituzione scolastica occorre che il primo aiuti l'altra ad essere migliore e
che viceversa la scuola sostenga il servizio sociale nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Ben poco potrebbe
realizzare il servizio sociale di un paese, privo di buone istituzioni scolastiche. C'è bisogno che operatori,
dirigenti e policy maker imparino a cogliere la coincidenza di una parte degli obiettivi delle diverse
istituzioni e dei diversi enti, atteso che tutti lavorino a supporto della stessa realtà locale. Questo
chiederebbe l'elaborazione di un piano di intervento generale, pensato e attuato con la partecipazione di
tutti gli enti svolgendo ciascuno il suo ruolo.

A cura di Ilenia Schiavottiello


Azzardiamo ora la proposta di parlare di una necessaria amicizia inter-istituzionale. “Legame di vicendevole
e disinteressata disponibilità” è il significato che si limita alla dimensione esteriore del termine. Al di fuori di
questa cornice non vi è collaborazione in rete che possa produrre risultati realmente duraturi. Insomma
ricorriamo intenzionalmente a termini provocatori per dare maggiore forza al ad un concetto, ovvero la
reciprocità tra gli enti. Lo strumento per tenere insieme aspetti relazionali ed organizzativi sarà la
sottoscrizione di strumenti formali, come accordi e protocolli, che precisino le finalità comuni e gli assetti
organizzativi e modalità di integrazione istituzionale, professionale ed economica.

Bisogna ora interrogarsi su quali siano i percorsi che meglio possono contribuire allo sviluppo di modalità di
funzionamento relazionali. Uno stimolo di grande utilità ci viene offerto dalle istituzioni di Karl Edward
Weick e ripresi da Stefano Zan, sull'analisi dei legami organizzativi. Se ne parla nel forum online di
confronto tra operatori sociali:

o “riferendosi ai servizi socio-sanitari ed educativi alcuni autori parlano di sistemi a legame debole
per indicare lo scarso collegamento tra le diverse parti del sistema. Non c'è relazione forte e certa
tra input e risultato. Il grado di prevedibilità che caratterizza i legami forti è tipico, ad esempio,
della fabbrica dove un operaio ha un effetto certo su alcune operazioni in una catena di montaggio.
In ambito socio-sanitario abbiamo, invece, legami deboli perché il comportamento di un operatore
può comportare risultati diversi in persone diverse e addirittura risultati diversi nelle stesse
persone”.
Qui il termine relazione e legame non indica il rapporto tra due persone o tra due enti ma vengono indicati
come sinonimo di connessione operativa, in quanto come abbiamo visto sopra sono deboli. C'è da chiedersi
quindi come sia possibile, in questi ambiti, condurre l'azione di governo, perseguire obiettivi di gruppo, etc.
Secondo Weick e Zan il tipo di leadership esistente in organizzazioni a legami deboli deve essere diverso da
quello in organizzazioni a legami forti. Insomma, il processo in ambito educativo e socio-sanitario può
essere condotto solo se si lavora ad una sintonizzazione interiore tra i vari operatori. Tutto questo si può
sintetizzare con “più condivisione e meno accordi”.

Lia Sanicola nel suo testo sull'intervento di rete indica la necessità di:

➢ individuare un oggetto comune che si colloca nell’intersezione dei campi di intervento di diversi
enti
➢ procedere all’individuazione degli enti avendo attenzione che non siano solo immanenti nella
realtà sociale, ma lo siano in modo radicato e che ciascuno abbia le condizioni per partecipare agli
obiettivi della rete

➢ passare al coinvolgimento degli enti differenziando le responsabilità in base al profilo di cui


ciascuno è portatore

➢ identificare uno o più nodi di base a cui ancorare la rete, cioè persone disponibili e capaci di tenere
in piedi il reticolo relazionale e organizzativo
➢ impegnarsi a offrire vantaggi a tutti per favorire il concreto intreccio di percorsi dei vari enti

➢ tradurre in azioni concrete l'esistenza della rete per evitare forme apparenti di connessione ,
limitate a discorsi e dibattiti

➢ mantenere il tutto con una struttura leggera in modo che sia sostenibile nel tempo senza
comportare investimenti troppo onerosi

A cura di Ilenia Schiavottiello


Si possono ora individuare quattro livelli nella strutturazione di una rete secondaria:

• livello operativo, cioè le connessioni relazionali ed azione tra gli operatori dei diversi enti coinvolti
nella rete

• livello progettuale, relativo all’attivazione di una partnership tra diversi enti, inerente alcuni
obiettivi comuni perseguiti tramite iniziative

• livello organizzativo, connesso all’attivazione di accordi stabili inerenti l'attivazione e la gestione di


strutture comuni d'azione

• livello istituzionale, connesso all’attivazione di strutture “dure” dell'assetto dei servizi

Quest’analisi ci permette di evidenziare che occorre che tutti e quattro i livelli di strutturazione siano
presenti ed attivi. Una rete solo operativa avrebbe i caratteri della parzialità se non sostenuta da livelli di
strutturazione superiori. All'inverso una rete strutturata solo sul piano istituzionale e organizzativo
resterebbe inattiva e vuota.

LA RELAZIONE TRA SERVIZI E POPOLAZIONE: È utile proporre una classificazione dei servizi elaborata da
Fabio Folgheraiter in base al livello di relazionalità:

▪ Livello 1. Servizi relazionali impersonali o simil-robotici erogati da una persona ad un'altra senza che
la qualità della connessione umana tra i due conti qualcosa nel determinare la qualità del servizio o
del bene erogato. Esempio: un medico del pronto soccorso misura la pressione ad un paziente semi
svenuto

▪ livello 2. Servizi relazionali strumentali in cui la relazione serve per erogare la prestazione tecnica
specifica come nel caso dell'assistente sociale che deve esercitare un controllo su un genitore che
tratta male i figli
▪ livello 3. Servizi relazionali in assenza in cui la relazione e il servizio in sé senza che sia funzionale
all’erogazione di una prestazione. Esempio: coloro che assistono una persona disabile

▪ livello 4. Servizi relazionali generativi in cui le relazioni producono beni comuni, come gruppi di
auto mutuo aiuto in cui le persone e i diversi ruoli si relazionano per un bene comune

▪ livello 5. Servizi meta-relazionali o supervisionali consistenti nell’osservare e guidare relazioni


generative tipiche del lavoro di rete

▪ livello 6. Servizi relazionali come organizzazioni aperte alle relazioni societarie deputati al supporto
del lavoro di rete dei propri professionisti

▪ livello 7. Servizi relazionali politico-sistemici, cioè strutture di governance democratica


rappresentativa delle varie istanze locali

È bene tener presente che le interazioni tra operatori formali e persone si iscrivono in un ambito
relazionale diverso da quello dei rapporti informali che le persone sperimentano nella quotidianità dei
rapporti familiari o amicali. Per capire la dinamica, ci aiutano due citazioni:

➢ la prima è tratta da un saggio di pedagogia sociale in cui si evidenzia che le istituzioni vincolano,
conformano e assimilano i soggetti; li omologano e li tutelano ma non come soggetti singoli.

A cura di Ilenia Schiavottiello


➢ La seconda e di Tolstoj, si tratta di un’immagine applicata ad un contesto storico diverso e quindi
non ai nostri tempi. Si evidenzia la presenza di un “meccanismo di spersonalizzazione delle
relazioni” che scatta automaticamente quando gli individui sono incaricati dello svolgimento di una
funzione istituzionale. È come se la sensibilità e l'etica personale perdessero tono, lasciando campo
libero alle istanze burocratiche e meccaniche. Quella di Tolstoj anche se è una raffigurazione
relativa ad un’epoca storica diversa dalla nostra, tracce di questa alterata dinamica relazionale sono
rinvenibili anche oggi. Ce ne dà conferma, ad esempio, l'immagine negativa che gran parte della
popolazione ha nei confronti della figura dell'assistente sociale, vista più come ladra di bambini che
come datrice di sostegno e attenzioni. Questo diffuso sentore popolare non può essere ignorato; è
un difetto di comunicazione che impedisce di far comprendere al cittadino la valenza e le finalità
del servizio sociale. Oltre i singoli episodi disfunzionali occorre interrogarsi sul tipo di
comunicazione e sul tipo di relazione che gli assistenti sociali instaurano con i loro utenti:

o In merito alla comunicazione occorrerebbe approfondire il tema del marketing dei servizi
inteso come strategia comunicativa capace di diffondere valori e promuovere benessere
alla comunità;
o in merito alla relazione occorre interrogarsi sul grado effettivo di vicinanza sociale e di
prossimità tangibile messa in atto dai servizi.
Il sociologo Piero Fantozzi, parlando di accoglienza, pone in evidenza il tema della responsabilità della
promozione delle reti indicando che essa riguardi sia la vita e le relazioni di comunità sia le istituzioni e i
servizi pubblici, con una differenza: se nella vita comunitaria la responsabilità si vive entro il confine
dell'appartenenza e nei legami di vicinanza, nella realtà dello Stato essa dovrebbe essere esercitata nei
confronti di tutti. In questi percorsi un ruolo determinante possono svolgerlo gli operatori prossimi, cioè
quelle figure che lavorano all'interno del tessuto locale svolgendo un ruolo formale ed entrando in contatto
con la gente; parliamo di medici di famiglia, insegnanti, catechisti, etc. Da soli potranno fare ben poco e
quindi l'invito è di attivare micro-reti locali di operatori. Il ruolo delle istituzioni diviene di ulteriore sostegno
alla partecipazione popolare quando si ha a che fare con situazioni di disagio sociale. Bisogna infatti tener
presente che l'aiuto informale nei processi di aiuto che riguardano in particolar modo le famiglie in
difficoltà, ha senso solo qualora vada ad integrarsi, ma non a sostituire, il lavoro dei servizi istituzionali.
Occorre cioè puntare sull'integrazione tra intervento formale e informale.

Capitolo 11: lavoro relazionale e disagio sociale.

Nel vocabolario Treccani, troviamo la seguente definizione di disagio: “mancanza di agi, senso di pena e di
molestie provato per l'incapacità di adattarsi a un ambiente, a una situazione”.

Provando a riformulare il concetto con altre parole, il disagio può essere definito come qualcosa di negativo
che emerge quando mancano i fattori di benessere. Dunque, il disagio non si configura come difficoltà in
quanto tale, ma come difficoltà irrisolta; non per questo ad ogni difficoltà corrisponde un disagio. Le
difficoltà possono avere maggiore o minore entità. Alcune forme di difficoltà hanno

• una genesi interna alla persona (pensiamo ad una patologia degenerativa)

• altre nascono in seno alle relazioni primarie (difficoltà di ordine psicologico connessa alla qualità
delle relazioni familiari)

A cura di Ilenia Schiavottiello


• altre sono il frutto di difficoltà vissute da persone assai prossime i cui effetti si riverberano anche
sugli altri (la morte prematura o la perdita del lavoro di un genitore causano difficoltà sui figli).

• altre difficoltà derivano dal contesto.

Ciò che rende una difficoltà disagevole è l'insufficienza delle risorse per fronteggiarla. In situazioni diverse,
una piccola difficoltà priva di risposte può recare disagi maggiori di una grande difficoltà bilanciata
dall'attivazione di risorse e supporti. Questa riflessione diviene significativa se la intrecciamo con l'analisi
etimologica della parola “disagio” propostaci dal Dizionario di Servizio Sociale nell’edizione curata da
Annamaria Campanini (vedi pagina 3 de “gli assistenti sociali non rubano più i bambini?”). Questa
definizione non parla della presenza o dell’assenza di problemi. Essere disagiati, significa essere lontani,
soli, isolati dagli altri. Contro, ciò che produce benessere sarebbe lo stare insieme. Intrecciando tali
significati etimologici con quelli del linguaggio comune, possiamo trarre che la capacità delle persone di
permanere in situazioni di benessere o il loro scivolamento verso situazioni di disagio è da imputare alla
sufficienza o insufficienza della loro rete relazionale nel dare risposte alle difficoltà che man mano che si
presentano.

Pierpaolo Donati, nell’introdurre il testo di Fabio Folgheraiter sulla prospettiva di rete nel lavoro sociale,
precisa che il disagio, il quale emerge nella vita di una singola persona o di un singolo gruppo di persone, è
l’espressione di un problema più profondo della rete relazionale in cui questi sono inseriti. Di conseguenza,
un intervento di sostegno che concentrasse l’attenzione solo sulle difficoltà vissute dal singolo
assomiglierebbe ad una di quelle cure sintomatologiche che pur rispondendo alla contingenza immediata di
un’emergenza sanitaria, non procedono con una vera azione terapeutica, cioè che non vanno a colpire le
cause del malanno. Si correrebbe il rischio di cadere nel paradosso denunciato da Tonino Bello in
riferimento a chi affronta i problemi senza porsi nella logica di rimuovere le cause che li determinano.
Lavorare sui problemi della rete relazionale permette, invece, di andare alla radice del disagio. Lia Sanicola
precisa che la relazione interpersonale connota i problemi e le soluzioni, e che il disagio non esiste in se
stesso. Per fronteggiare il problema specifico dell’individuo occorrerà lavorare per risolvere le
contraddizioni della rete, cercando di migliorare le relazioni. Occorre cioè partire dalla domanda di aiuto,
per porre poi al centro dell’attenzione il cambiamento nei rapporti tra persone, come modalità per
affrontare il bisogno. Donati sottolinea quanto all’approccio relazionale non solo permetta di individuare i
problemi ma anche le soluzioni. L'operatore si colloca come una sorta di simulatore di risposte altrui, cioè
interviene sulla rete affinché questa agisca sul problema. Lo stimolo a non concentrare l'attenzione solo sui
problemi e sulle responsabilità dei singoli viene confermato dal filone di riflessione cosiddetto anti-
oppressivo, che propone un'analisi delle cause di contesto che determinano il disagio delle persone. Vanno
in questa direzione, ad esempio, gli interventi di Antonio Mazzi, promotore della Fondazione Exodus e
attivo nel campo del recupero delle persone con problemi di dipendenza.

A cura di Ilenia Schiavottiello


La lettura relazionale del disagio e delle relative soluzioni spinge a spostare l'asse dell'intervento dal lavoro
sulla singola persona e quello sulla sua rete di relazioni. La Campanini chiede di passare dall'individuale al
collettivo e dal riparativo alla promozionale, ritenendo che in questo cambio di approccio si collochi la
capacità degli operatori sociali di cogliere le opportunità offerte dalla trasformazione della società,
fronteggiandone le criticità.

Approcci ai problemi sociali:

Approccio collettivo ai problemi

Lavoro sociale di

prossimità

Approccio riparativo Approccio preventivo/

promozionale

Lavoro sociale sul caso

Approccio individuale ai problemi

Come si può notare, nella figura abbiamo collocato nel primo quadrante (in alto a destra) il lavoro sociale di
prossimità, connotato da un approccio di tipo collettivo e preventivo/promozionale, e nel terzo quadrante
(in basso a sinistra) il lavoro sociale sui singoli casi, con caratteristiche di tipo riparativo e approccio ai
problemi di tipo individuale. Con questo grafico quello che si vuole evidenziare è l'importanza di una
strategia di lavoro capace di andare oltre la gestione delle crisi, per realizzare percorsi che siano in grado di
prevenire il disagio e promuovere risorse positive delle reti relazionali. Per chiarirci è bene esplorare
brevemente i concetti di prevenzione e di promozione.

Per quanto riguarda la prevenzione, il vocabolario Treccani la definisce come “l'adozione di una serie di
provvedimenti per cautelarsi da un male futuro e quindi l'azione o il complesso di azioni intesa raggiungere
questo scopo. Genericamente, ogni attività diretta a impedire pericoli e mali sociali di varia natura.” Il
Glossario di promozione della Salute dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), nel definire la
prevenzione, “non comprende solo misure finalizzate a prevenire le insorgenza di malattie ma riguarda
anche misure volte ad arrestare l'evoluzione di una malattia già insorta e a ridurne le conseguenze.” In
particolare l’OMS indica tre diverse forme di prevenzione:

1. prevenzione primaria: evita l’insorgenza di una malattia;

2. prevenzione secondaria: attraverso un lavoro di diagnosi precoce e terapie, mira a fermare o a


ritardare lo sviluppo di malattie esistenti;

A cura di Ilenia Schiavottiello


3. prevenzione terziaria: relativa ad un lavoro di riabilitazione per favorire la ripresa del pieno stato di
benessere.

Lavanco e Novara propongono un’ulteriore classificazione delle forme di prevenzione basata sulla
distinzione dei destinatari dell’azione.

Essi individuano:

➢ una prevenzione a livello della comunità allargata, in cui gli individui ricevono l'intervento. Si pensi
alle campagne contro il fumo;

➢ una prevenzione centrata sulle fasi di vita, cioè rivolta gruppi di persone che attraversano periodi di
vita difficili in cui si è esposti a fattori di stress. Si pensi all’intervento sugli adolescenti, studenti,
anziani;

➢ una prevenzione rivolta a soggetti ad alto rischio. Si pensi agli individui sopravvissuti a catastrofi,
che hanno subito interventi chirurgici.

Nell'ambito della prevenzione primaria essi inoltre distinguono tra gli interventi che mirano a ridurre
l'impatto degli agenti ambientali negativi, contenendo i fattori dannosi (prevenzione primaria proattiva) e
gli interventi che puntano a rafforzare le capacità degli individui di fronteggiare le situazioni di difficoltà in
modo efficace (prevenzione primaria reattiva).

Nel Glossario dell'OMS troviamo un’ulteriore sottolineatura, infatti si precisa che la prevenzione è diretta
ad individui e popolazioni che presentano fattori di rischio riconoscibili, mentre la promozione si rivolge
all'intera popolazione per accompagnare lo sviluppo del benessere generale. Nell'ambito del disagio sociale
la promozione del benessere richiama un approccio all'utente centrato sulle sue risorse. Nell’intervento
sociale l'attenzione finisce con il concentrarsi sui bisogni e i problemi dell'utente, correndo il rischio di
ridurlo alle sue difficoltà. Per questo si rischia di perpetuare il ciclo dell’incapacità appresa (capitolo
sull’empowerment).

Secondo Claude Brodeur la promozione del benessere delle persone è tanto più efficace quanto più essi
possono affrontare i problemi condividendone la soluzione con gli altri ed agendo in autonomia.
All'estremo opposto la condizione di massimo malessere, per gli, è caratterizzata da una gestione solitaria
dei problemi da parte delle persone senza alcun coinvolgimento della loro rete primaria e dalla dipendenza
dalle risposte erogate dalla rete secondaria. Secondo l'intervento di rete sviluppato da Brodeur, un
adeguato lavoro di promozione del benessere delle persone deve essere centrato sulla costruzione di
percorsi relazionali che permettono il raggiungimento di una piena autonomia. Questo contributo rende
necessaria una riflessione sul volontariato, in quanto questa è una realtà che si trova in una posizione
intermedia tra le reti primarie e secondarie. Da un lato ci sono i cosiddetti natural helper, persone del
vicinato che si attivano spontaneamente offrendo sostegno a chi si trova in difficoltà e poi ci sono i piccoli
gruppi locali di volontariato, aggregazioni spontanee di persone che si coinvolgono i rapporti face to face
con i portatori di bisogni. Dall'altro lato ci sono forme più strutturate del volontariato, caratterizzate da
elevati livelli di organizzazione e divisione funzionale, che attivano nei confronti dei beneficiari relazioni
formali. Riprendendo le riflessioni di Brodeur, occorrerà tener presente che il primo gruppo di volontari è
chiamato a partecipare direttamente alla condivisione con i portatori di bisogni e con gli altri membri della
rete primaria, mentre il secondo gruppo, per la natura formale e secondaria, accompagnerà i beneficiari in
modo che diventano autonomi da loro.

A cura di Ilenia Schiavottiello


L’INTERVENTO SOCIALE DI RETE: Claude Brodeur evidenzia la necessità di accompagnare le persone e lo
sviluppo delle reti attraverso un percorso articolato in due diverse fasi:

1) esplorazione delle reti: lavoro che si attiva a partire dal momento in cui giunge all’operatore la
domanda di intervento. Essa si sostanzia nel lavoro di analisi delle reti primarie ancorate al reticolo
relazionale che l'utente ha in seno alla sua famiglia, al vicinato, agli amici, nel contesto lavorativo o
un altro ambiente frequentato. Di ciascuna rete occorrerà esplorare la struttura, realizzando una
sorta di “foto” che ritragga

o L’ampiezza, cioè il numero e l'elenco delle persone che la compongono

o la densità, cioè la presenza o meno di relazioni trasversali tra le persone

o il grado di vicinanza fisica e affettiva

o la frequenza delle interazioni


Occorrerà poi esplorare le funzioni di supporto, cioè materiale, informativo, affettivo, etc., e quelle
di controllo, presenza o assenza di regole, grado di flessibilità, etc. Infine andrà fatto una sorta di
“cortometraggio” che evidenzi la presenza e la direzione di eventuali movimenti dall'isolamento
dell'individuo alla condivisione di rete. L'operatore dovrà effettuare poi l'esplorazione delle reti
secondarie con il quale il soggetto potrebbe avere rapporti: anche qui esplorerà la struttura, le
funzioni di supporto e di controllo, ma evidenziando i movimenti dalla dipendenza all’autonomia.
L'operatore deve realizzare colloqui personali, incontri a piccoli gruppi, riunioni. Questo lavoro lo
porterà a formulare un’ipotesi di rete, cioè una rappresentazione sintetica di quanto compreso.

2) Mobilitazione delle reti (sia delle reti primarie che di quelle secondarie): azioni di valorizzazione
della positività esistente, supporto alla circolazione delle informazioni, alleanza con chi manifesta
un desiderio di condivisione e accompagnamento delle persone al superamento di resistenze a
condividere, orientamento verso soluzioni possibili. Gli obiettivi perseguiti con la rete primarie
saranno di riattivare i legami esistenti, supportare le persone di sostegno (cosiddetti care giver) e
favorire una distribuzione più ampia di responsabilità, coinvolgere eventuali aiutanti presenti,
stimolare l'attivazione dell'utente affinché anche egli diventa aiutante di altri, promuovere la
partecipazione ad un gruppo di mutuo-aiuto.

Fabio Folgheraiter propone un'ampia descrizione del lavoro di guida relazionale delle reti. L'azione che
svolge un operatore che entra in contatto con una persona portatrice di problemi, viene denominata
lavoro in rete e il lavoro sovraordinato nei confronti della rete intesa complessivamente prende il nome di
lavoro di rete o anche guida di rete. La funzione di guida si sostanzia in particolare nell’accompagnare la
rete ad attivarsi e favorendo il riorientamento dei processi. Si parte quindi dal presupposto che, di fronte a
un problema, i membri della rete tendano spontaneamente ad attivarsi ma che questo, nelle reti
disfunzionali, avvenga in modo scoordinato ampliando il disagio che si vorrebbe superare. Il ruolo di guida
si concentra sul favorire il direzionamento di quanto già sta avvenendo e per fare questo non effettuerà
azioni di contrasto, evitando interventi volti alla riparazione dei problemi. Si impegnerà piuttosto a svolgere
un lavoro di retro-informazione, cioè di dialogo con i membri della rete offrendo loro una riformulazione di
fatti, sentimenti e vissuti. Folgheraiter precisa che per svolgere questo ruolo l'operatore sociale deve aver
presente una generica direzione, comprensiva di azioni possibili che la rete dovrà scegliere e realizzare
anche grazie all’operatore ma senza forzature. Folgheraiter precisa che il lavoro di guida è un lavoro che
agisce consapevolmente sulle reti di relazioni e l'operatore punta a impegnarsi in particolare nello sviluppo

A cura di Ilenia Schiavottiello


della rete, favorendo il coinvolgimento di altri soggetti. Sul piano pratico l'operatore lavora all’ampliamento
della rete mediante azioni di networking, favorendo la nascita e il consolidamento di connessioni con altre
persone individuate dalla rete stessa o suggerite dall’operatore. Egli promuove inoltre la realizzazione di
riunioni di tutta la rete o di sue parti finalizzate ad analizzare i problemi concreti e individuare le possibili
soluzioni; questo prende il nome di network session.

ESPERIENZE DI VALORIZZAZIONE DELLE RETI PRIMARIE: Le family group conference (in italiano riunioni di
famiglia) sono un modello di intervento partecipativo nato in Nuova Zelanda negli anni ‘80, per le pratiche
di sostegno a famiglie con difficoltà di protezione e cura dei propri figli. Esso mira al coinvolgimento della
famiglia allargata del nucleo in difficoltà. L'idea di fondo è basata sulla capacità della famiglia di attivare
risposte adeguate di fronte alle difficoltà. Gli obiettivi perseguiti da questo modello sono: il contribuire alla
protezione e al benessere dei minorenni e degli altri membri, favorire l’empowerment e la partecipazione
della famiglia, favorire l'elaborazione di progetti di intervento, sostenere l'integrazione tra la famiglia e i
servizi competenti. Il metodo prevede la presenza di almeno tre diversi ruoli:

• il servizio sociale committente, responsabile del caso

• il facilitatore, che coinvolge le persone e modera l’incontro

• il portavoce, che ha il compito di assicurare l’ascolto e la partecipazione attiva dei minorenni


In Italia il modello è stato introdotto da Francesca Maci , docente di metodologia del servizio sociale
all'università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel testo base vengono riepilogate le fasi del processo di
intervento:

➢ l'attivazione: il servizio sociale valuta l'opportunità di ricorrere alla family group conference e
interpella i genitori in difficoltà e il facilitatore il portavoce;

➢ la preparazione: il facilitatore incontra la famiglia e traccia una mappa della rete familiare, poi
incontra ed invita ciascuna delle persone nella riunione e organizza l'appuntamento con luogo e
orario;

➢ la realizzazione: riunione di famiglia in cui servizi sociali presentano ai convenuti le criticità che
occorre fronteggiare e ci si confronta per il problema. Una seconda parte riservata invece alla
famiglia, in cui gli operatori “escono” affinché siano i convenuti a formulare l'ipotesi di intervento.
L'ultimo momento è quello in cui la famiglia presenta agli operatori quanto si è ipotizzato di
realizzare e il servizio approva il progetto oppure chiede eventuali modifiche;

➢ monitoraggio e verifica dell'attuazione del progetto concordato.


Nel contesto italiano diversi sono i progetti attivati per sperimentare il modello. Maci ha riepilogato le
principali esperienze in corso: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, Marche. Si tratta
in genere di esperienze di durata compresa tra uno e tre anni, promosse da servizi istituzionali e da enti di
terzo settore, nell'ambito della tutela minorile, dispersione scolastica.

Una delle esperienze relative alla realizzazione di percorsi che favoriscono forme di mutuo-aiuto tra
famiglie in difficoltà, è quella realizzata dalla provincia di Parma mediante l'attivazione di un gruppo tra
genitori con figli allontanati dai servizi istituzionali e accolti presso famiglie affidatarie. L'obiettivo di questo
percorso è stato quello di consentire, attraverso lo scambio con altre famiglie nella loro stessa condizione,
di accedere a tutto il “non ho detto” riguardo alla loro situazione di genitori. Il percorso si è concluso in 6
incontri, di cui 4 offrivano l'occasione di visitare la loro situazione di genitori di minorenni in affido, dando

A cura di Ilenia Schiavottiello


loro la possibilità di esprimersi riguardo al ruolo del genitore lontano, alla possibilità di essere genitori
ancora, ai momenti del rientro periodico a casa. Altri 2 incontri si basavano su tematiche che riguardavano
l'esperienza di tutti i genitori: i figli che crescono, le domande dei figli, i bisogni che cambiano. Per l’incontro
era stata scelta una piccola abitazione con giardino ed era prevista la presenza di un educatore per lavorare
con i minori, nel caso in cui i genitori avessero voluto la necessità di arrivare all'incontro con i figli.
L'esperienza di Parma ha dimostrato sia la bontà di tali percorsi che il gradimento da parte delle persone
coinvolte, tant'è che alla fine del lavoro il gruppo delle famiglie ha richiesto di poter continuare. Tutto
questo evidenzia che ogni persona e famiglia ha bisogno di sentirsi valorizzata, di non sentirsi esclusa, di
sentirsi presa in considerazione e di essere riconosciuta come una risorsa.

CRISI DEL WELFARE E LAVORO DI PROSSIMITA’: Come evidenziato da Zilianti e Rovai “il tramonto delle
società industriali ha creato una frattura fra stato, famiglie e singoli cittadini”, determinando un’incapacità
di produzione e di benessere da parte del servizio e l’impennata quantitativa e qualitativa di bisogni sociali
della popolazione. Sergio Tramma sintetizza in tre processi le traiettorie della crisi:

1. crescenti difficoltà del mercato del lavoro con disequilibrio quantitativo tra la quota di popolazione
occupata e la quota dei non occupati, la crisi del sistema pensionistico retributivo;

2. crescita dei bisogni connessi all’allargamento della fascia di popolazione anziana;

3. aumento dei costi di assistenza sanitaria connessi ai progressi scientifici e tecnologici, che rendono
le cure più valide ma anche più costose.

Questi elementi accompagnano la crisi del welfare da oltre trent'anni. In questo tempo si è assistito alla
“morte” del welfare state per l'incapacità di far fronte ai vari bisogni e disagi. Successivamente si è tentato
il passaggio verso un regime stabile tra settore di volontario settore pubblico, da alcuni definito welfare
mix. Nel panorama italiano si è generata una situazione a macchia di leopardo, con alcune zone di
eccellenza in cui, nonostante la crisi, la risposta ai bisogni sociali raggiunge standard ragguardevoli, ed
ampie zone desertiche, prive di forme di protezione sociale.

Capitolo 12: gli strumenti del lavoro relazionale.

STRUMENTI DIALOGICI

Lo strumento principale del lavoro di rete sono i momenti di dialogo tra l’operatore e i componenti della
rete stessa, poiché la conversazione rappresenta il luogo privilegiato nel quale l’interazione si manifesta
nelle sue componenti di inter-soggettività e di costruzionismo. Distinguiamo:

• il colloquio: primo strumento professionale dell’operatore di prossimità. I colloqui possono essere


richiesti spontaneamente dalle persone della rete, stimolati da altre persone, attivati d’iniziativa
dell’operatore o frutto di prescrizioni esterne. Il colloquio può svolgersi in modo libero, semi-
strutturato o strutturato. Alla base del colloquio è importante che vi sia sempre una centratura di
tipo psico-sociale, volta a svolgere con la persona una relazione empatica finalizzata alla
comprensione condivisa della situazione. Nello svolgere il colloquio si avrà cura di mettere la
persona a proprio agio, assicurare che ci sia un luogo accogliente e gradevole, custodire la
riservatezza e avere un atteggiamento empatico da parte dell’operatore.

• L’empatia: “la capacità di mettersi nei panni dell’altro”, va corredata di alcuni ingredienti:

A cura di Ilenia Schiavottiello


➢ Il riconoscimento del punto di vista dell’altro e del fatto che rappresenta la sua verità;

➢ L’astensione dal giudicare (cosa non facile);

➢ Sentire le emozioni presenti nell’altro e comunicarglielo.

Molto eloquente il modo in cui l’empatia viene presentata da Brené Brown, professoressa
dell’Università di Houston, in Texas. Brown dice che il dialogo con le persone richiede la capacità e
la disponibilità di stare con loro. Diversamente, la relazione sarebbe segnata dall’indifferenza per il
loro vissuto o, peggio, da un giudizio colpevolizzante e dalla pretesa di potergli impartire delle
lezioni di vita. Invita a stare in guardia dal parlare troppo presto di futuro, dal momento che
difficilmente la persona sarà subito in grado di immaginare per sé un futuro privo dal problema. In
queste situazioni si corre il rischio di perdere per strada la persona.

• I responsi: chiamati così da Thomas Gordon. Si tratta di:

➢ Apri-porta, da mettere in campo all’inizio di un dialogo per manifestare all’altro la


disponibilità ad ascoltarlo;

➢ L’ascolto passivo, cioè la disponibilità di tacere e ascoltare, mostrando interesse;

➢ I responsi di riconoscimento, cioè piccoli segnali come il contatto oculare, il fare cenni di
assenso con il capo, etc.;

➢ L’ascolto attivo, consistente in brevi feedback con i quali l’ascoltatore ripete a parole sue
quanto sta comprendendo della comunicazione dell’altro, trasmettendogli un senso di
accettazione di quanto sta dicendo.

• Feedback di riformulazione: Folgheraiter argomenta ampiamente quanto nel lavoro sociale


l’assunzione di atteggiamenti direttivi da parte dell’operatore abbia un effetto distruzione
sull’empowerment delle persone. Egli suggerisce l’adozione di modalità relazionali, centrate sul
ricorso allo strumento della riformulazione, restituendo alla persona una rilettura di quanto si sta
ascoltando e osservando. Folgheraiter distingue tra:

➢ feedback di rinforzo, volti a sostenere i punti di forza della persona;

➢ feedback di stimolo, finalizzate a favorire ulteriori sviluppi.

Non sono contemplati i feedback di contrasto, che manifesterebbero l'intento di cambiare


dall'esterno la persona. Folgheraiter indica tre livelli di riformulazione:

➢ sul piano dei fatti, relativo alla riformulazione del contenuto stimolando eventuali
accorgimenti per migliorare la situazione. Ad esempio dire: “suo marito non le è d'aiuto” in
risposta ad una donna che sta parlando della difficoltà di gestire da sola la famiglia;

➢ sul piano dei sentimenti. Ad esempio dire: “è demoralizzata per come vanno le cose in
famiglia”;

➢ sul piano dei vissuti auto-affettiva. Ad esempio dire: “e demoralizzata perché sente che non
ce la fa più”.

Il secondo e il terzo livello puntano alle dimensioni psichiche.

A cura di Ilenia Schiavottiello


Il problem solving: modalità non direttiva che, tramite alcune tappe, attiva un processo metacognitivo che
permetterà ai partecipanti di crescere insieme nella conoscenza del problema e nell'adozione di soluzioni
condivise. Processo in cui l'operatore non fornirà soluzioni ma si concentrerà nel lavoro di rinforzo di
quanto di buono andrà maturando e di stimolo a non saltare i passaggi. Le varie tappe sono:

1. definizione del problema: l'operatore guida il gruppo a formulare il problema inteso come
“problema della rete” e non come problema di qualcuno in particolare. La domanda stimolo può
essere: che cosa dobbiamo affrontare insieme?

2. Brainstorming: l'operatore guida il gruppo a farsi venire in mente ogni tipo di idea, anche bizzarra,
che possa rappresentare una soluzione al problema. La domanda stimolo può essere: quali nostre
azioni risolverebbero il problema?

3. valutazione delle alternative: l'operatore guida il gruppo nel ponderare i pro e contro delle varie
soluzioni prospettate. La domanda stimolo può essere: quali vantaggi e svantaggi vediamo apparire
dalle diverse soluzioni?

4. decisione della soluzione da adottare: l'operatore guida il gruppo a decidere unanimemente o a


maggioranza qual è la soluzione più adatta. La domanda stimolo può essere: quale soluzione tra
tutte quelle esaminate va meglio per noi?

5. attuazione della decisione: l'operatore guida il gruppo a mettere in atto la soluzione concordata. La
domanda stimolo può essere: è chiaro cosa deve fare ciascuno di noi? Stiamo tutti facendo quanto
concordato?

6. verifica dell'esito: l'operatore guida il gruppo a valutare la congruità della nuova situazione a cui si
è giunti. La domanda stimolo può essere: abbiamo raggiunto quanto sperato?

GRIGLIE DI RACCOLTE E CATALOGAZIONE DELLE INFORMAZIONI

Accanto alle tecniche e agli strumenti dialogici di cui abbiamo parlato sopra, il lavoro di rete ricorre
all'utilizzo di ulteriori elementi che favoriscono l'attività di identificazione, analisi e valutazione del reticolo
relazionale di cui la persona fa parte. gran parte di questi strumenti possiamo riassumerli in tre categorie:

• griglie di raccolta e catalogazione: schemi amatrice che permettono di approfondire vari aspetti
della rete; sono cioè tabelle composte da più righe e più colonne. Le più diffuse elencano i
componenti della rete attribuendo a ciascuno di loro una riga o una colonna ed inserendo poi nelle
varie caselle le informazioni richieste dalle aree di analisi corrispondenti a ciascuna delle colonne o
delle righe. Un esempio di griglia è la Tavola del supporto, presentata da Lia Sanicola.

Tipo di supporto Famiglia Parenti Amici …

Padre madre … Zia … … …

Aiuto quotidiano
materiale/domestico
(cose, denaro, servizi)

Aiuto nell’emergenza

A cura di Ilenia Schiavottiello


Supporto emotivo

Supporto normativo

Consiglio

Ospitalità

Socializzazione, svago

La griglia permette di analizzare le funzioni di sostegno svolte dalla rete. La Tavola colloca nelle
colonne i vari membri (uno alla volta o raggruppati per tipologie, tipo famiglia, parenti, amici,
colleghi, …) e sulle righe le varie forme di sostegno che una rete può erogare (aiuto materiale
quotidiano, supporto emotivo, aiuto materiale nelle emergenze, …). Le caselle relative alla colonna
di ciascuna persona vengono poi segnate o meno con una x, a seconda della presente o assente
erogazione di ogni forma di sostegno. Una volta compilata la Tavola, sarà possibile osservare se la
funzione di supporto è concentrata solo su alcune persone o alcune tipologie di persone, etc. La
Tavola, inoltre, suggerisce di inserire alla fine il grado di soddisfazione di ogni persona di cui si sta
analizzando la rete.

• Carte di rappresentazione grafica: ce ne sono di vari tipi e permettono di tradurre le informazioni


raccolte sulla rete evidenziandone vari aspetti. Possono essere utilizzate sia durante lo svolgimento
di una riunione raffigurando su un piano i vari elementi che emergono dal confronto, sia come
strumenti di riflessione permettendo uno sguardo d'insieme che favorisce l'analisi della situazione.
Possono essere utilizzate anche come strumenti di verifica quando si effettua la rappresentazione
più volte nel corso del tempo, potendo così coglierne i movimenti in atto. Uno degli strumenti
grafici più diffusi è la Carta di David Todd:

FAMIGLIA/PARENTELA

COLLEGHI DI LAVORO O DI SCUOLA

VICINI DI CASA EGO

AMICI OPERATORI SOCIALI

Nel cerchio piccolo centrale è inserita la dicitura “EGO”, indicante la persona di cui si vuole studiare
il reticolo relazionale. L'esercizio si svolge indicando per ciascun settore (amici, vicini di casa, etc.) i
nominativi delle persone con le quali vi è una relazione. Nel farlo si evidenzierà l'intensità di tali
relazioni mettendo più vicini ad EGO coloro che hanno con lui una relazione più significativa e più

A cura di Ilenia Schiavottiello


lontani coloro che l'hanno meno. Una volta inseriti tutti i nomi delle persone con cui si ha una
relazione, occorrerà collegare con una linea tutti coloro che si conoscono. Ora sarà possibile
analizzarla e giungere a conclusioni, ad esempio se ci sono molte persone o poche, se vi sono
settori privi di relazioni o con una forte prevalenza, se vi sono molte o poche linee tra le persone
(evidenziando così se si tratta di una rete densa, cioè coesa, o evanescente, laddove ci fosse scarsità
di relazioni), eccetera.

Un'altra tipologia di rappresentazione grafica è quella proposta da Rousseau all'inizio degli anni ‘80
in Canada. Essa consiste nell’utilizzo di alcuni simboli grafici, ciascuna indicante una qualità,
evidenziando la tipologia di membro (familiare, amico, etc.) e lo stato della relazione (normale,
forte, conflittuale, …). La Carta di Rousseau può essere elaborata dopo la Carta di Todd. Questo
permetterà di mantenere le informazioni offerte da quest’ultima in termini di vicinanza/lontananza
affettiva da EGO e al contempo di aggiungere ulteriori informazioni sulla qualità del legame.

• indicatori di analisi matematica: contribuiscono ad esprimere un giudizio approfondito sullo stato


della rete, permettendo un confronto con gli stadi precedenti e evidenziandone le eventuali
evoluzioni. Giancarlo Oriani, in un testo, presenta alcuni di questi indicatori:

➢ indicatore di densità, dato dal rapporto tra il numero di legami presenti e il numero
massimo di legami che potrebbero essere presenti. La formula per calcolare questo
indicatore è L /N (N -1), dove L è il numero dei legami attivi e N il numero dei membri. La
densità ci dice qual è il tasso di relazioni tra le persone della rete, ma non ci dice se si tratti
di relazioni forti, normali, deboli o discontinue. Allora diviene utile calcolare l'indicatore di
coesione della rete, cioè la media del percorso più breve tra ogni paio di membri.

➢ Indice di centralità locale, che misura il numero di connessioni che ciascuna persona ha
con gli altri membri della rete.

➢ closeness, che misura il grado di vicinanza di ciascuna persona alle altre.

➢ betweenness, che misura la presenza o meno di legami tra i contatti diretti della persona.

ALTRI STRUMENTI:

o diario di bordo, strumento finalizzato all’annotazione dettagliata delle varie informazioni e


osservazioni che emergono man mano. È una sorta di “bella copia” degli appunti dell'operatore, in
cui viene annotato quanto emerge da incontri, colloqui e riunioni.

o Osservazione partecipante, che richiede a chi la conduce di passare un periodo di tempo


prolungato a stretto contatto con il fenomeno prescelto in modo da giungere a una comprensione
profonda delle diverse specificità che lo caratterizzano.

o Gruppo di mutuo-supporto tra operatori, in cui più operatori di prossimità si incontrano


periodicamente per condividere esperienze, problemi e soluzioni.

A cura di Ilenia Schiavottiello


o Gruppo di supervisione, che è deputato anch'esso al mutuo confronto tra operatori ma guidato
dalla presenza di un esperto esterno che accompagna il percorso. Possono rivolgere la loro
attenzione all’intervento o al vissuto psico-emotivo dei partecipanti, dove offrono una relazione di
aiuto, rafforzandone il benessere personale.

Capitolo 13: tessitori formali.

Tutti coloro che operano nel contesto con un ruolo formale (cioè a tutti gli operatori del contesto) li
indichiamo con la dicitura “operatori prossimi”, cioè quegli operatori che hanno ruoli variegati, ma che
svolgono le loro funzioni con un particolare approccio, che li rende tessitori di legami e promotori di
relazioni.

❖ Gli operatori di prossimità rappresentano un soggetto specializzato che fa del lavoro di prossimità
il principale ambito del proprio agire. Spesso svolgono una funzione di ricerca, coinvolgimento,
formazione, attivazione, accompagnamento, … in coordinamento con i secondi.

❖ Gli operatori prossimi sono coloro che “fanno altro”, ma lo fanno “in modo relazionale”.
Nell’accompagnare il ruolo di questi operatori un’attenzione importante sarà quella di stimolare un
approccio strategico al rapporto con l’utenza, invitandoli ad essere sempre più “stimolatori di
soluzioni relazioni”. Loro compito non sarà tanto quello di risolvere i problemi, ma il compito è
quello di fornire stimoli ed eliminare gli ostacoli. Con il sostegno dell’operatore di prossimità:

➢ Il medico di famiglia “prossimale” potrà man mano accompagnare i suoi pazienti ad


impegnarsi per migliorare i tassi di salute del quartiere;

➢ L’insegnante “prossimale” potrà stimolare il mutuo aiuto tra genitori e tra alunni nel gestire
insieme alcuni aspetti del percorso formativo;

➢ Parroci e catechisti “prossimi” potranno sostenere il coinvolgimento dei genitori nella


realizzazione del catechismo.

Indicazioni offertoci dalla psicologia di comunità: un buon operatore di prossimità deve possedere
un’adeguata area di competenza specifica (un buon “saper fare”) fondata su una solida area di studio (un
buon “sapere”) e integrata con un adeguato “saper essere” propulsore di cambiamento e attivatore di
risorse.

Indicazioni offertoci da Lavanco e Novara: l’operatore di prossimità è una persona competente e formata
allo svolgimento di questo ruolo, capace di maneggiarne le varie tecniche. Egli deve inoltre avere alcune
caratteristiche che attengono alla dimensione dell’essere.

Indicazioni offertoci da Folgheraiter: l’operatore di prossimità è una persona che “ha il senso e il gusto della
propria relazione con gli altri che opera nello spirito della rete, cercando sempre di interagire con altri
membri a lui vicini. Il primo ingrediente, dunque, è personale, cioè si tratta di una persona che ha una
naturale predisposizione per la relazione con gli altri. Il suo agire dovrà partire dalla profonda convinzione
dell’importanza e della necessità del gioco di squadra.

Gli aspetti nei quali Lia Sanicola sintetizza l’approccio e lo stile che devono caratterizzare l’azione
dell’operatore di prossimità sono:

A cura di Ilenia Schiavottiello


➢ Definitività del legame: la convinzione che anche i rapporti di durata limitata hanno un valore che
dura per sempre. Questa è l’unica dimensione che rende legittima un’esperienza di condivisione tra
le persone;

➢ Disponibilità: intesa come intima propensione a mettersi in gioco nella relazione con gli altri
(disponibilità interiore) e come attenzione alle condizioni operative che l’operatore mette in campo
per far sì che la disponibilità interiore possa avere ricadute anche esterne (attività di piazza, di
parrocchia, mezzi di trasporto,…);

➢ Valorizzazione del positivo: atteggiamento di fondo dell’operatore che è convinto che la realtà,
anche se contiene problemi, drammi o dolori, contiene sempre una positività. Forse solo chi vive
questa convinzione, può cogliere ed evidenziare questo. L’atteggiamento non si fonda
sull’ottimismo ma sulla ragione;

➢ Competenze personali necessarie per aiutare le persone a lavorare insieme.

TESSITORI INFORMALI: I NATURAL AGGREGATOR

I natural aggregator sono persone che hanno per natura, storia personale, indole o per carattere una
marcata propensione relazionale. Persone che con spontaneità tessono e favoriscono relazioni “calde” con i
vicini di casa, i colleghi, etc. Con una metafora, potremmo dire che i tessitori formali sono come fornai, cioè
che svolgono un ruolo di preparare il pane comune, impastando la farina (intrecciando le relazione tra
persone), accendendo il forno (attivando contesti capacitanti), ecc. I tessitori informali sono invece il lievito,
persone del quartiere che fanno crescere il sistema relazionale di cui esse stesse fanno parte. I fornai
lavorano il pane “da fuori”, pur mettendo pienamente le mani in pasta. Vi lavorano senza diventare
anch’essi pane, restando sul secondo livello e favorendo cioè l’autonomizzazione della rete primaria da
loro. Il lievito invece lavora “da dentro”, diventando anch’esso pane.

il lavoro svolto dal collegamento campano per l'accoglienza e la solidarietà familiare:

▪ mappatura delle persone già note agli operatori formali: gli operatori di prossimità che gli
operatori prossimi nel corso delle loro attività nel territorio avranno avuto modo di incontrare e
conoscere persone dotate di attitudini relazionali. Ognuno ha una “lista personale” dei natural
aggregator. Si tratta spesso di sensazioni, mentre altre volte gli operatori hanno una conoscenza
approfondita di tale persone, dovute a collaborazioni. Dunque il primo passo è quello di lavorare
per fare una “mappa comune”, che integri le “liste” dei singoli operatori permettendo un confronto
tra loro in merito alla valutazione di razionalità dei presunti aggregator.

▪ Mappatura delle persone attive in ambiti visibili di tessitura: spesso accade che i natural
aggregator si trovano già coinvolti in alcuni ruoli, tipo rappresentante di classe, volontario di
un'associazione, animatore parrocchiale, etc. Sarà opportuno attivare percorsi di incontro con tali
persone.

▪ Mappatura delle persone che si attivano in occasione di iniziative di tipo relazionale: mettere in
campo attività di incontro, confronto e socializzazione organizzandole con modalità che rendono
“individuabili” le persone che hanno una più spiccata indole relazionale. Esempio: tornei e giochi
con squadre pluri-familiari, incontri domestici di formazione, etc.

In alcuni casi gli aggregator si trovano la guida di gruppi informali di persone e qui potrà essere opportuno
offrire alcuni supporti alla vita di gruppo con attività di monitoraggio e supervisione periodica del loro

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percorso, con qualche momento di formazione, etc. Questo potrà creare la possibilità di mettere in campo
un lavoro di fondazione della partecipazione, cioè non solo lavorare per favorire l’aggregarsi delle risorse
umane, ma anche adottare strategie di intervento volte a formare ogni soggetto come soggetto attivo,
capace di attivare forme di partecipazione per gli altri e non solo per sé. In questi casi potrà essere possibile
realizzare degli incontri tra i vari natural aggregator del territorio, per affrontare alcuni temi connessi ai
percorsi di crescita relazionale attivati e per approfondire ancora di più gli aspetti fondanti del loro ruolo.
Riunire periodicamente gli aggregatori contribuirà a favorirne la reciproca conoscenza e il confronto,
attivando e stimolando coordinamento, sinergie e raccordi pratici.

A cura di Ilenia Schiavottiello

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