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Marcella Danon (Milano, 1959), psicologa, formatrice e giornalista, insegna Ecopsicologia all’Università della Valle D’Aosta.

Ha completato la sua
formazione in California, con Fritjof Capra e Joanna Macy. Ha fondato e dirige, dal 2004, la scuola di ecopsicologia Ecopsiché. Rappresenta l’Italia
nell’ambito della International Ecopsychology Society (IES). Per sette anni è stata la direttrice di LifeGate Radio e del suo portale. È autrice di
numerosi libri, tra i quali Stop allo stress (Apogeo Urra, 2012), Il Tao del disordinato (Feltrinelli, 2016), Il potere del riposo (Feltrinelli, 2017) e
Clorofillati. Ritornare alla Natura e rigenerarsi (Feltrinelli, 2019).
ISBN 978-88-5523-087-2

Copertina: art director Giacomo Callo


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Redazione, impaginazione e grafica di copertina: Studio grafico Aboca M useum, Sansepolcro (AR)

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Sansepolcro (AR)
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SOMMARIO

Premessa

Introduzione
Alla ricerca di una nuova visione

Parte Prima
Le idee

Capitolo 1
Crisi planetaria, occasione di crescita

Capitolo 2
La psicologia incontra l’ecologia

Capitolo 3
Il limite tra l’io e il mondo

Capitolo 4
L’ecologia incontra la psicologia

Capitolo 5
Siamo tutti terrestri!

Capitolo 6
Il potere del femminile

Parte Seconda
Le idee in azione

Capitolo 7
Verso una psicologia del noi

Capitolo 8
Il ruolo dell’ecopsicologia

Capitolo 9
Ecopsicologia per la crescita personale

Capitolo 10
Ecopsicologia per la coscienza ambientale

Capitolo 11
Ecopsicologia per la cittadinanza terrestre

Capitolo 12
Amiamo la Terra perché siamo la Terra

Appendici

Bibliografia
A mio papà Maurizio Danon,
che mi ha insegnato ad amare
la vita e la Terra
ECOPSICOLOGIA
Premessa

Ecopsicologia: una disciplina nuova, dal significato, solo per alcuni, intuitivo, nata dall’incontro tra due diverse scienze, una attiva nei confronti del
mondo esterno e l’altra di quello interno, l’ecologia e la psicologia. Sorte entrambe alla fine dell’Ottocento, scoprono di poter collaborare e aiutarsi
reciprocamente a realizzare ognuna i propri obiettivi: far stare meglio il mondo, far stare meglio le persone. Scoprono che c’è una correlazione tra
gli atteggiamenti che coltiviamo sul piano psicologico e quelli che mettiamo in atto su quello ambientale e, viceversa, che un contatto diretto con la
natura facilita l’apertura a una relazione più profonda con noi stessi e con gli altri. Le implicazioni e le applicazioni sono innumerevoli e riguardano
diversi ambiti professionali: tutti quelli in cui entrano in campo la qualità delle relazioni, la capacità di operare in sinergia, la crescita personale, la
valorizzazione della diversità, la resilienza, l’ampliamento del senso di identità personale verso un senso di cittadinanza terreste, il recupero del
senso di connessione con la rete della vita.
La prima edizione di questo libro è uscita nel 2006. In questi quindici anni, l’Italia si è collocata all’avanguardia, in Europa, nella diffusione e
applicazione di questa nuova disciplina nata in California all’inizio degli anni novanta e che ha visto nella Gran Bretagna il suo naturale territorio di
espansione ed espressione. Oggi, l’ecopsicologia viene insegnata all’Università della Valle d’Aosta e ha suscitato l’interesse dei principali media
italiani, ma non solo: sono state realizzate decine di progetti, istituzionali e privati, basati sui suoi principi, ed è stata creata la prima scuola italiana
di Ecopsicologia – Ecopsiché, di cui sono fondatrice – dove arrivano studenti da tutto il mondo. Professionisti nel campo della psicologia,
dell’ecologia, dell’educazione, dell’escursionismo, ma anche ingegneri, artisti, architetti, genitori che vogliono prepararsi a far crescere i propri
figli con un maggior senso di connessione con la natura, imprenditori pronti a impegnarsi per la sostenibilità, rappresentanti di associazioni
ambientaliste si sono avvicinati, in questi anni, all’ecopsicologia.
C’è un senso di urgenza, in questa parola, che accomuna persone diverse ma unite tutte da un profondo amore per la natura e da un desiderio di
compartecipazione – anche nella sofferenza – a quanto succede intorno a noi: “La natura parla attraverso i più sensibili”, dice Sarah Conn,
ecopsicologa e psicologa clinica di Cambridge.1 Il bisogno emergente è infatti quello di contribuire, ognuno come può, nel suo ambito, per ritrovare
tutti un sano e saldo procedere verso il futuro, affondando le radici nella nostra più ampia identità, grande quanto il Pianeta intero.
Il primo obiettivo con cui è nata l’ecopsicologia è stato quello di renderci consapevoli dell’importanza del contatto diretto con l’ambiente
naturale per il nostro benessere fisico e psicologico. Ha preso il testimone dalla psicologia ambientale e tradotto le considerazioni emerse da quegli
studi in pratiche applicabili in ambito educativo, formativo e terapeutico.
Quasi subito, ha scoperto una sua vocazione più complessa, attingendo ai principi dell’ecologia per mettere in luce strategie evolutive più
funzionali – collaborative e non competitive – e la sua applicazione si è estesa ad ambiti organizzativi e sociali, con l’elaborazione di pratiche per la
promozione di relazioni di qualità nei gruppi e per la creazione di comunità resilienti.
Ma la mission dell’ecopsicologia si rivela, oggi, ancora più audace e radicale: facilitare un vero e proprio cambio di visione del mondo, da una
ristretta visione antropocentrica, quindi, che ci vede costantemente in contrapposizione con l’ambiente, a una più ampia visione ecocentrica, che
riconosce l’essere umano come parte integrante del processo evolutivo della vita sulla Terra.
È così che oggi – dopo averla applicata, insegnata e diffusa in vent’anni di lavoro – presento l’ecopsicologia. Nei quindici anni trascorsi tra la
prima e la seconda edizione aggiornata di questo libro, c’è stata un’evoluzione significativa sia sul piano della coscienza ambientale sia su quello
della diffusione dell’ecopsicologia. Il cambiamento più prezioso ed evidente è la crescita esponenziale di una rete internazionale di ecopsicologi ed
ecotuner, operatori formati in ecopsicologia. La International Ecopsychology Society (IES), nata proprio nel 2006, oggi ha rappresentanti in 21
nazioni e nei 5 continenti. Periodicamente ci incontriamo online e ai convegni per scambiare esperienze, riflessioni e progetti, per meglio
promuovere, ognuno nel proprio paese, questa nuova disciplina e le sue applicazioni. Le opportunità di applicazione sono innumerevoli e saranno
sempre più richieste: percorsi di crescita personale, sportelli di ascolto per l’ecoansia – in Finlandia è un servizio offerto dalla sanità nazionale –
progetti educativi (dagli asili nido fino alle superiori), escursionismo e turismo esperienziale, sostegno per l’attivismo civico e ambientale locale,
formazione e team building, consulenza per progetti urbanistici e architettonici, elaborazione di strategie comunicative e motivazionali per la
promozione di comportamenti ecosostenibili, consolidamento di pratiche di vita e di lavoro in co-creazione (ecovillaggi, co-housing, permacultura).
Sento molto, da psicologa e da rappresentante italiana della IES, la responsabilità di accompagnare e incentivare attività educative e di crescita
personale in un’ottica più ampia, che includa anche l’ambiente come elemento integrante della nostra identità. Mi propongo di risvegliare quel senso
di fratellanza e sorellanza nei confronti di tutto ciò che ci circonda: persone, piante, animali, conchiglie, batteri, funghi, protozoi, nuvole, corpi
d’acqua e correnti d’aria, magma fuso e roccia solida. Mi piacerebbe che smettessimo di sentirci in lotta contro tutto e tutti per ritrovare, invece,
quel senso di calda compartecipazione alla meraviglia e alla bellezza della vita, per uscire da quello che Theodore Roszak, considerato il padre
dell’ecopsicologia, definisce “un vicolo cieco dell’evoluzione”, ossia il nostro attuale sistema impostato su sfruttamento, spreco, conflitto e valori
materialistici che così tanta infelicità produce e diffonde.
Siamo molto giovani, come specie, e ancora più lo è l’attuale stile di vita, che non è affatto detto sia il migliore possibile. C’è molto che
possiamo imparare dalle culture native che hanno vissuto e che ancora vivono su questa Terra. Ecco, per esempio, le competenze ritenute
indispensabili per vivere bene nell’ambito della civiltà andina, punti che sono alla base dell’insegnamento dell’ecopsicologia nella scuola Koru del
collega cileno, il dottor Claudio Pereira Salazar: saper mangiare, saper danzare, saper dormire, saper lavorare, saper bere, saper meditare, saper
pensare, saper amare e essere amati, saper ascoltare, saper parlare, saper sognare, saper camminare, saper dare e sapere ricevere.
Quello che abbiamo imparato, con le buone o con le cattive, nella situazione di emergenza dovuta al Covid-19, in cui ci siamo tutti trovati
all’inizio del 2020 (mentre finisco di scrivere questa nuova prefazione), è che sono proprio queste le cose essenziali per la qualità della nostra vita.
Abbiamo avuto modo di mettere a fuoco l’importanza di privilegi prima dati per scontati: la vicinanza con i nostri cari, il contatto fisico, le relazioni
umane, la libertà di movimento, il cibo sano, il contatto con la natura, l’espressione della creatività, il fare delle cose insieme, l’aiutare chi è in
difficoltà, la salute e la gioia. Il resto è un di più, non essenziale.
Ecopsicologia. Come sviluppare una nuova consapevolezza ecologica è, prima di tutto, una riflessione filosofica: raccoglie idee e punti di vista
di diversa provenienza che contribuiscono a co-creare una nuova visione, coerente e stimolante. È anche un manuale per cominciare a sperimentare,
nella propria attività personale e professionale, atteggiamenti e pratiche che facilitano una relazione più profonda con la natura e un più ampio senso
di appartenenza al pianeta Terra. Ed è un invito al risveglio interiore, per riconnetterci con ciò che siamo individualmente, per fare amicizia con noi
stessi, per estendere alla nostra interiorità la nuova consapevolezza ecologica. Il primo atto concreto e rivoluzionario che tutti possiamo fare è
diventare consapevoli di quanto potere abbiamo in mano – sia singolarmente, sia come umanità – nel disegnare il futuro del mondo.
Questo è ciò che si propone l’ecopsicologia al suo livello più alto: farci riflettere su cosa vuol dire essere umani, con mente e cuore aperti, in
questo “glorioso, lussureggiante, animato pianeta” che abbiamo la fortuna di abitare e la responsabilità di far fiorire.
1 Thodore Roszak, “Where psyche meets Gaia”, in Ecopsychology, Sierra Club, 1995, p.13.
Introduzione

ALLA RICERCA DI UNA NUOVA VISIONE

“Oggi più che mai abbiamo urgente bisogno di scoprire sistemi pratici per reimpostare consapevolmente il nostro rapporto con la natura vivente. Per ammettere che la natura è viva
dobbiamo rivoluzionare il modo in cui viviamo. E non c’è tempo da perdere.”
Rupert Sheldrake, La rinascita della natura

Fare amicizia con se stessi per aprirsi al mondo


C’è bisogno di una nuova idea. Nuove leggi, nuovi accordi internazionali, nuove tecnologie: quelli verranno dopo. Ora, solo una nuova idea può
aiutarci ad affrontare la crisi che si presenta a tutta l’umanità con la crescente emergenza ambientale.
Questa attuale non è una situazione che può essere affrontata sul piano quantitativo, contabilizzando le emissioni di anidride carbonica che
possiamo permetterci all’anno, la foresta che possiamo tagliare senza turbare troppo l’equilibrio planetario, le specie animali che dobbiamo
proteggere per evitarne l’estinzione. Questa volta è sul piano qualitativo che dobbiamo dare una risposta. C’è una questione esistenziale sottostante
tutti i ragionamenti scientifici attuali sulla questione ecologica, una questione che non può più essere messa da parte: chi è l’essere umano e quale è
la sua collocazione nel mondo? Chi siamo noi, ognuno di noi, quale è lo scopo di questa esperienza che chiamiamo vita e quale è il rapporto che ci
lega ai nostri compagni di viaggio non umani?
È su questo piano che possiamo e dobbiamo intervenire rapidamente se vogliamo trovare soluzioni nuove in grado di riorganizzare il nostro
“essere e agire” sulla Terra con basi di sostenibilità. Dobbiamo cambiare l’idea che abbiamo, profondamente radicata, dell’uomo come padrone del
mondo e come unico essere degno di dignità e considerazione; dobbiamo aprirci a una visione più vasta di collettività vivente a cui l’essere umano
partecipa come membro. Le abilità conquistate dalla nostra specie non devono diventare occasione di sopraffazione, possono invece esprimersi
come responsabilità nei confronti del resto della sfera animata e inanimata nel cui ambito si svolge la vita.
La situazione a cui stiamo andando incontro è tale che non potremo risolverla solo con soluzioni provenienti dall’alto, ma richiederà la
compartecipazione di molti: dei più sensibili tra noi, per cominciare. È necessario affacciarsi a una diversa concezione di sé, a una nuova visione
del mondo, in cui noi esseri umani siamo parte integrante. Questa nuova consapevolezza attiva la disponibilità a dare, ognuno a modo suo, un
contributo determinante alla creazione di nuove modalità di interazione tra l’umanità e il pianeta Terra. Forti dell’esperienza del nostro prezioso
passato e con lo sguardo volto verso un futuro ancora da inventare, possiamo disegnare stili di vita, capaci di soddisfare in profondità sì le necessità
materiali, ma anche quelle esistenziali e spirituali degli individui, nel rispetto e nella collaborazione con le altre forme di vita che, insieme a noi,
fanno parte di questo Universo e, per cominciare, di questa Terra.
Il processo è già in atto, attivato dal malessere crescente sempre più diffuso nel mondo cosiddetto moderno; attivato da quel latente mal d’anima
che non ha la sua origine in problematiche psicologiche o di sopravvivenza, ma che sorge in risposta alla perdita di connessione prima di tutto con il
resto del mondo. Tutto ciò che ci circonda è vissuto come “altro da noi”: persone, oggetti, animali, paesaggi, il pianeta stesso nel suo insieme. Quel
caldo e avvolgente senso di appartenenza che ha caratterizzato il rapporto dell’uomo col mondo per migliaia e migliaia di anni si è gravemente
sfaldato negli ultimi due secoli e negli ultimi decenni ancora di più. Oggi l’individuo è solo di fronte al resto del creato.
Ma la sofferenza esistenziale più forte è causata da un’altra disconnessione, quella da se stessi. Oggi siamo in molti a soffrire di alienazione dalla
totalità del nostro stesso essere. Non siamo capaci di ascoltare i segnali del corpo e di prenderci buona cura di lui; non ci permettiamo di esprimere
le nostre emozioni e spesso non sappiamo neppure riconoscerle; non distinguiamo più tra quello che vogliamo veramente e quello che siamo stati
indotti a desiderare; non padroneggiamo i nostri pensieri; non sappiamo bene chi siamo e, men che meno, chi potremmo diventare. Perdendo la
capacità di dialogare interiormente con noi stessi ci chiudiamo automaticamente anche nei confronti di tutto ciò che ci circonda, perdiamo la capacità
di vedere e di sentire quello che c’è oltre il presunto limite del nostro io, perdiamo il contatto con gli altri, con la natura, con l’universo intero e la
dimensione spirituale. La perdita di connessione con se stessi è strettamente correlata alla perdita di connessione col resto del mondo. La crisi
ecologica è anche una crisi psicologica.
Per rompere questo isolamento, rientrare nel cerchio della vita e ricollegarci alla totalità del nostro essere e al resto del mondo, le vie sono tante.
Una di queste ci accompagna a fare amicizia con noi stessi per ritrovare un rapporto autentico col mondo: affinare le capacità di ascolto permette di
cogliere la presenza e la voce del proprio sentire e prepara il terreno a riconoscere anche quello altrui.
Il percorso è semplice, ma potente: dialogare col corpo, riconoscendone esigenze e messaggi; sentire il cuore, calibrando i flussi di emozioni e
sentimenti; usare la mente in modo attivo e creativo, distinguendo tra i pensieri da scartare e quelli da coltivare; fare attenzione alle proprie capacità,
valorizzandole e attingendo ai sogni e agli ideali dimenticati.
Queste diventano tappe di un percorso di crescita personale che porta dolcemente le persone a ricucire una rete di relazioni col proprio
complesso mondo interiore, sanando alla radice ogni malessere esistenziale.

Ritrovare la connessione con la Terra e con l’infinito


Diventando capaci di ascoltare, incontrare, rispettare e valorizzare se stessi si acquisisce una predisposizione diversa anche nei confronti degli altri,
ci si apre all’incontro e a un dialogo più autentico con livelli di esistenza sempre più ampi. In questo percorso verso una più completa e realizzata
umanità, la natura diventa una tappa fondamentale, ponte tra finito e infinito, tra quotidiano e universale, tra materiale e spirituale.
Oggi siamo abituati a pensare al mondo naturale come allo sfondo dipinto di uno scenario in cui soltanto noi umani abbiamo il ruolo di
protagonisti, ma nell’inconscio collettivo dell’umanità e nella nostra stessa memoria genetica, è chiaro il ruolo della natura come principio più vasto
che ci genera, accoglie e fa crescere.
Adamo è stato creato da un pugno di terra e il mito di Madre Terra permea quasi tutte le culture dell’umanità. L’ambiente naturale è la nostra
“casa”, la nostra origine. Ritrovando il contatto con la totalità di noi stessi, anche con il corpo, la nostra parte più solida e tangibile, cominciamo a
ridare dignità e importanza anche alla componente materiale dell’esistenza e riaffiora la sensibilità nei confronti del ruolo che la Terra, la forza
vitale della natura, ha nella nostra vita. E quando ritroviamo la nostra connessione con la Terra, recuperiamo la sensibilità a quei legami atavici che
fanno del nostro stesso corpo un riassunto dell’evoluzione della vita, ci ridestiamo dall’illusione di essere soli, abbandonati a noi stessi, separati dal
tutto, perché la natura stessa insegna che – come ci dicono i Lakota Sioux – mitakuye oyasin, tutto è correlato. La natura diventa maestra di vita,
antidoto all’egotismo, all’alienazione da sé e dal mondo, diventa la casa a cui fare ritorno ogni qual volta abbiamo bisogno di entrare più
profondamente in contatto con noi stessi, di ricaricarci, di riconoscerci parte di qualcosa di più grande di noi.
Quando ci apriamo all’incontro e al dialogo anche con gli altri, con la ricchezza e la varietà del mondo esterno, creiamo le condizioni ottimali per
aprirci a una visione ancora più vasta di noi stessi e della vita e per oltrepassare i confini della consapevolezza ordinaria. La nostra visione del
mondo è incentrata tutta su un punto di vista soggettivo e limitato della realtà, i nostri sensi hanno una percezione solo parziale di ciò che esiste e la
nostra mente distorce questa percezione già limitata con l’abitudine e le convenzioni date dalla cultura di appartenenza. La crescita personale, col
suo allenamento all’ascolto, alla presenza, all’attenzione, al libero pensiero, crea le condizioni per cogliere percezioni e intuizioni che, senza
l’allenamento necessario, andrebbero perse nel frastuono e agitazione della vita quotidiana.
Una tappa, nella crescita di ogni singolo individuo, è il risveglio spirituale, un’apertura a una percezione più vasta di sé e della vita. E, questo,
non come punto di arrivo, bensì di partenza verso un nuovo cammino, che riporta a concentrarsi e a operare nella vita quotidiana, sul “qui e ora”,
con una consapevolezza nuova.
La natura, ancora una volta, è un importante momento di passaggio in questo processo: una volta “risvegliati”, aperti alla percezione delle
interconnessioni tra noi e il mondo, sviluppiamo necessariamente un atteggiamento di cura amorevole nei confronti del mondo naturale che ci
circonda. Animali, piante, ecosistemi, diventano estensioni del nostro stesso essere – del nostro “essere umani” – e come tali vengono avvicinati,
accuditi, coinvolti, con rispetto e buon senso. L’impegno ambientalista acquista così una chiave nuova in cui per amore, e non per senso del dovere,
si impara a impegnarsi per una gestione migliore delle risorse e per uno sviluppo sostenibile.
Sentire la connessione con la natura fa crescere la motivazione a prendersi cura di lei con più attenzione e, viceversa, occuparsi della natura
sviluppa questo senso di connessione. L’esperienza spirituale, intesa come ampliamento della consapevolezza oltre i confini di una percezione
egocentrica della realtà, non limita i suoi effetti a una differente attenzione alla natura, ma si riflette in ogni campo dell’esistenza, a partire da questo
nuovo punto di vista che permette all’individuo di sentirsi parte di un progetto più grande risvegliando il desiderio di offrire un suo contributo al
progetto, alla vita. Viene così favorita una maggiore sensibilità sociale, un maggiore impegno nella vita della comunità, un’applicazione di principi
etici nel sociale e nel mondo del lavoro, una maggiore maturità nella gestione delle dinamiche interpersonali, un rapporto più sereno e armonioso
con gli altri e con se stessi.

Ecopsicologia in azione
Arriviamo così all’ecopsicologia, nata dall’incontro tra ecologia e psicologia. Partendo da queste considerazioni, l’ecopsicologia promuove la
crescita personale e la finalizza al raggiungimento di una maggiore consapevolezza individuale, per permettere ai singoli esseri umani di diventare
persone realizzate e quindi cittadini del pianeta Terra più liberi, più creativi, più responsabili. Confluiscono in questo movimento, che nasce come
filosofia per diventare in seguito anche terapia, professionisti nel campo della professione di aiuto, insegnanti, educatori, singole persone sensibili
che operano in campo ambientale e ambientalista, attivisti nella difesa dei diritti umani e animali, e terrestri consapevoli in cammino.
Alla base della ricerca e delle applicazioni vi è la metafora che accomuna mondo interiore e ambiente esterno, rivelando i parallelismi tra la
concezione del mondo coltivata e la tipologia di realtà effettivamente realizzata, tra gli aspetti della personalità trascurati e quelli ambientali
penalizzati, tra ciò che facciamo a noi stessi e ciò che facciamo agli altri e al mondo circostante.
Ritrovare l’attenzione, il rispetto e l’amore per la natura vuol dire così, prima di tutto, ridare senso, integrità e direzione alla propria vita. Due
punti strettamente interconnessi che possono essere di arrivo o di partenza e che delineano il campo di azione dell’ecopsicologia, lungo un percorso
transdisciplinare che coinvolge psicologia, ecologia, filosofia, geografia, antropologia e molto altro. Gli strumenti di lavoro spaziano tra pratiche
psicologiche per la crescita personale, counseling, coaching, mindfulness, attività creative, escursionismo, educazione ambientale e anche rituali
sciamanici rivisitati.
L’ecopsicologia diventa una “psicologia del noi”, capace di stimolare una visione globale, a diversi livelli, e di elaborare strategie di interazione
che portino verso il dialogo e la collaborazione. Le sue applicazioni sono molteplici, di cui le più immediate sono: arricchimento della relazione di
aiuto – counseling, psicologia, psicoterapia – con nuovi spunti di riflessione, nuovi setting e nuove metodologie; massiccia reintegrazione del
contatto diretto con la natura nel percorso scolastico e nella riorganizzazione anche architettonica dei luoghi adibiti all’educazione, procedendo in
collaborazione con il biophilic design; elaborazione di nuove modalità di coinvolgimento per promuovere sensibilità ecologica nelle attività dei
parchi; nuovi stili di lavoro nelle organizzazioni; strategie di comunicazione di massa dell’attivismo ambientalista volte al risveglio del senso di
appartenenza più che al catastrofismo; e giochi di animazione in ambiti comunitari e ricreazionali per spargere ad ampio raggio i semi di un risveglio
a quella che il sociologo Edgar Morin chiama identità terrestre e papa Francesco, cittadinanza ecologica.
La forza rinnovatrice dell’ecopsicologia coinvolge anche l’ambito epistemologico, e propone una visione del mondo non più antropocentrica, ma
ecocentrica: capace di includere insieme all’essere umano tutto il creato, coerentemente con il cambiamento di paradigma in atto in campo
scientifico, verso una visione sistemica della realtà.
È una giovane scienza, in rapido consolidamento e strutturazione, che si mette in gioco per offrire un contributo concreto in questo particolare
frangente storico in cui emergenza ambientale ed emergenza psicologica si rivelano strettamente connesse: il lavoro su ognuno di questi due fronti si
rivela funzionale alla risoluzione di quanto avviene sull’altro. Siamo ancora all’inizio del lungo lavoro necessario per affrontare l’emergenza attuale
sul piano ambientale. Il processo di risanamento dello strappo avvenuto nel corso degli ultimi due secoli, ma soprattutto degli ultimi decenni,
richiede logiche completamente nuove e la partecipazione di ogni singolo individuo. A partire da una diversa scala di valori diventa possibile
affrontare con leggerezza ed entusiasmo ogni necessario cambiamento: cambiare abitudini dannose per noi stessi e per il mondo, distinguere tra
superfluo ed essenziale, usare al meglio tecnologia in ottica sostenibile e per il bene comune, inventare diversi stili di vita e ricreare la rete di
relazioni di qualità, relazioni ecologiche, indispensabile al nostro benessere psicologico. Il primo passo è la messa a fuoco di una visione di noi
stessi e del mondo congruenti con quanto di più bello si sta scoprendo sull’essere umano e sulla natura della realtà, che possa servire per affrontare
creativamente ed efficacemente la sfida che i tempi pongono. L’ecopsicologia nasce per affrontare questa sfida.
Parte Prima
LE IDEE
Capitolo 1

CRISI PLANETARIA, OCCASIONE DI CRESCITA

“Ogni crisi conduce a un arricchimento. Una civiltà non deve mai diventare una catena. Perciò il mio pessimismo sull’immediato futuro sfocia in un ottimismo profondo. La forza delle
circostanze costringe l’uomo a inventare soluzioni nuove.”
René Dubos

L’uomo alla ricerca di sé


“Dove sei?”, chiede Dio ad Abramo; “Chiediti: ‘chi sono io?’”, insegna l’Advaita Vedanta; “Conosci te stesso”, ricorda Socrate dal frontone del
tempio di Delfi. Un invito antico che accompagna l’essere umano nel suo percorso evolutivo. Un invito a riformulare, ogni volta, il senso del proprio
esistere in termini nuovi, aderenti al sentire, all’essere e al divenire, di ogni tempo.
Indescrivibile e inafferrabile per definizione, l’idea che ci facciamo di noi stessi e della vita, è fortemente condizionata dal contesto culturale in
cui nasciamo e ogni epoca ci propone la sua interpretazione. Ma per quanto bella, complessa e affascinante sia la storia che ci racconta “chi siamo”,
non possiamo realmente risvegliarci alla nostra natura più autentica sino a quando non ci poniamo in prima persona la domanda, senza più
accontentarci di risposte date a priori. È questo il senso dell’invito dei saggi e degli illuminati di tutti i tempi.
Le immagini di essere umano proposte di volta in volta nell’arco della storia ci raccontano molto della mentalità di ogni epoca; può essere utile,
prima di partire nella propria ricerca personale, notare la stretta correlazione che si crea in ogni tempo tra cultura dominante e visione dell’essere
umano. Come appare, nella storia a noi conosciuta, la concezione dell’uomo? Oscillando tra diverse polarità: da protagonista in un contesto ricco di
significati, a spettatore di un intreccio casuale di eventi; da pupillo di potenze più grandi, a nullità abbandonata a se stessa nel vuoto palcoscenico
dell’Universo; da entità intrinsecamente libera, a pupazzo deterministicamente vincolato. Diverse combinazioni di questi elementi, con diversi gradi
di intensità, sono presenti nelle visioni di tutti i tempi.
Nell’antichità l’uomo vive immerso nella natura e se ne sente parte. Il suo riferimento è la Grande Madre, rappresentazione archetipica della
Terra in tutte le culture tradizionali.
Nel Neolitico, almeno per quanto riguarda le regioni dell’Europa sud-orientale, la società è prevalentemente matriarcale e la donna ha un ruolo
anche nella gestione della vita politica e religiosa. La figura predominante, nell’arte di quell’epoca, è femminile: rappresentazioni della Dea Madre,
secondo l’archeologa Marija Gimbutas. Una civiltà senza armi da guerra, senza fortificazioni attorno agli insediamenti, con abitazioni poco diverse
tra loro, che fanno pensare una società senza grandi differenze sociali, e con un’intensa attività artistica e commerciale.1 Una società definita
gilanica, dalla sociologa Riane Eisler (dal greco gyné, donna e lyein, non vincolata, libera), per definire un modello sociologico di mutua
collaborazione, contrapposto a uno di sopraffazione.2
Nel V millennio a.C. arrivano in Europa, da est, da oltre il Caucaso, diverse ondate di tribù che padroneggiano l’arte di addomesticare i cavalli e
portano con loro una società di stampo patriarcale e una cultura guerriera. Questi flussi migratori si susseguono fino al I millennio a.C. e impongono
un nuovo sistema sociale, linguistico e religioso ai gruppi indigeni, cambiando radicalmente il volto del vecchio continente. Ultimi baluardi della
precedente e più antica cultura, nell’Europa del sud, sono le isole più difficili da conquistare a cavallo: Creta, Malta e la Sardegna.
Al Pantheon femminile subentra una schiera di divinità maschili, al più antico matriarcato e alla società gilanica subentra il patriarcato e
comincia ad affermarsi una cultura caratterizzata da autoritarismo e violenza, un potere imposto con la forza e con la paura, come leggiamo sui libri
di storia. Interessante notare che proprio dall’incontro tra queste due diverse civiltà si consolida, nell’Europa nord-occidentale, quella che oggi
chiamiamo cultura celtica. In questa, che possiamo considerare una delle principali culture native europee, le due impostazioni si fondono, creando
una cultura sì guerriera, ma in cui rimane vivo il focus su arte, musica e sacralità della natura, e in cui la donna mantiene, accanto all’uomo, il suo
potere e ha accesso a ruoli di comando, arte medica e sacerdozio.
In tutta la storia del mondo antico, pur nel susseguirsi di tutte queste profonde trasformazioni, nessuno mette in discussione il profondo legame
dell’essere umano con la Terra. Anche quando dei e dee sono sostituiti da un dio unico, a tinte maschili, il principio femminile è ancora saldamente
al suo fianco: Maria è madre non solo del figlio di Dio, ma anche “Madre dei viventi” e “Madre della Salvezza”, come viene definita al tempo dei
padri della Chiesa. Culti mariani fioriscono e sopravvivono, racchiudendo in sé una lunga eredità di divinità femminili e legate alla Terra,
dall’egiziana Osiride alla sumera Inanna, dalla greca Hera alla celtica Dea, che hanno lasciato traccia profonda nella memoria dell’umanità.
Arrivati al nostro Rinascimento, quando la nostra specie si appropria di una maggiore consapevolezza del proprio potere di azione sul mondo, il
rapporto con il resto della creazione è ancora vivo. L’essere umano è al centro del mondo terreno e diventa elemento attivo nella storia, nell’arte,
nella scienza, ma ancora si considera parte integrante dell’universo.
È uno dei momenti della storia occidentale recente in cui l’umanità è stata massimamente valorizzata e in cui si ricrea un dichiarato equilibrio tra
il maschile e il femminile: “finalmente, per ben intendere la vita sociale dei circoli più elevati del Rinascimento, è da sapere che la donna in essi fu
considerata pari all’uomo”.3
Viene accolta e dichiarata l’istanza della libertà dell’essere umano, libero anche di andare oltre i diktat della filosofia aristotelica, gli “ipse
dixit”4 del passato.
L’immagine dell’essere umano ideale emergente è quella dell’uomo universale, incarnato per esempio da Leonardo da Vinci, genio e artista di
incomparabile valore, e anche primo scienziato in senso moderno, “per cui la Natura nel suo complesso era un’entità viva. Egli considerava gli
schemi e i processi del microcosmo simili a quelli del macrocosmo”.5
L’umanesimo platonico e del Rinascimento riconosce infatti anche nella materia inerte un palpito del divino: “Nessuno è divino che non sia
umano, nessuno è umanissimo che non sia divino”6 dice Marsilio Ficino, a cui fa eco Pico della Mirandola definendo l’uomo “un grande miracolo”,
in quanto dotato di una natura non predeterminata in modo assoluto, libero di essere l’artefice di se medesimo.7 E, sulla stessa onda il pensiero di un
altro filosofo italiano, Gerolamo Cardano definisce l’uomo “armonicamente connesso in un tutto”, nel suo De rerum varietate, riprendendo concetti,
secondo alcuni, ispirati ai manoscritti di Leonardo.
In un certo senso, ci si avvicina alla visione filosofica indiana che riconosce una identità tra la più profonda natura umana e il divino,8 ma la
direzione presa è completamente diversa: l’uomo si sente sì, parte del creato, ma comincia a servirsi degli strumenti a sua disposizione per
affermare sul mondo la sua supremazia e comincia a usare la natura per i suoi fini.
In una manciata di decenni, poco più di due secoli, l’essere umano è ormai homo faber9 e mano a mano che acquista maggiore fiducia in se stesso
e nelle sue capacità, il pensiero viene eletto a facoltà principe dell’essere, riemerge prepotentemente l’archetipo maschile dell’identità umana, si
afferma il predominio del logos.
Con la riforma protestante del XVI secolo viene soppresso il culto della Santa Madre e ha inizio la desacralizzazione del mondo naturale.10
Entriamo nell’era del razionalismo e meccanicismo ufficializzata da René Descartes con il cogito ergo sum e la divisione della realtà in due parti
diverse, spirito e materia – res cogitans e res extensa – e, nell’essere umano, anima e corpo. E pensare che questa scelta, determinante in tutta la
storia del pensiero successivo, forse era stata dettata semplicemente dal desiderio di delimitare il suo campo di ricerca per non rischiare di
incorrere nell’ira della Chiesa, come era successo solo pochi anni prima, nel 1632, a Galileo Galilei.
Come conseguenza di questa scissione e netta predilezione per la componente razionale e spirituale dell’umanità, rispetto a quella fisica ed
emotiva, ecco che cambia anche il rapporto con il resto della creazione. L’essere umano non è più parte integrante del tutto, ma si trova in bilico tra
due dimensioni, un’immacolata natura divina, da una parte, e una torbida natura istintiva, legata a un corpo colpevole di peccato primigenio,
dall’altra.
“L’uomo si trova in posizione intermedia tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo”, sintetizza Blaise Pascal, cercando di indorare la
pillola, ma il terreno è ormai pronto per un progressivo ridimensionamento dell’essere umano.
Nel pensiero di Thomas Hobbes, fortemente influenzato dalle vicende storiche e politiche dell’Inghilterra del suo tempo, ecco che diventiamo
animale-macchina, asservito alle stesse leggi che governano la materia corpuscolare. “La condizione dell’uomo è una condizione di guerra di
ciascuno contro ogni altro”, pensa e scrive Hobbes, segnando un punto importante a sfavore della natura umana; il suo Homo homini lupus, “ogni
uomo è lupo per il suo simile”, rimarrà profondamente impresso nell’inconscio collettivo della cultura occidentale.
Qualche voce antagonista grida nel deserto. Spinoza, che identifica Dio con gli uomini, la Terra, i monti, i mari, il cielo, gli animali, l’universo
intero; Rousseau che invita al ritorno alla natura e afferma inascoltato che l’uomo è naturalmente buono ed è la società a corromperlo.
Dopo la Rivoluzione industriale, iniziano a diffondersi il razionalismo, in Francia, l’empirismo, in Inghilterra, il materialismo, in Germania.
L’essere umano è diventato homo economicus,11 consumatore e predatore; tutto preso da un delirio di onnipotenza, si allontana sempre più da una
collocazione nell’ambito del contesto naturale. La scienza diventa il linguaggio comune per la cultura, il nuovo fattore di unità della società
occidentale, più forte addirittura della religione.
Si levano altre voci e gridano ancora più forte. Karl Marx, colpito dagli sconvolgimenti prodotti sull’uomo e sulla società da queste nuove
modalità produttive, vede con lucidità i limiti del positivismo e lo critica con veemenza; Friedrich Nietzsche, con i suoi scritti provocatori si fa
portavoce dell’inquietudine e della crisi morale di tutta un’epoca, ma la visione materialistica e utilitaristica permangono dominanti.
In questo clima nasce la psicologia.
Dopo un distacco sempre più netto dalle matrici teologiche e filosofiche della ricerca interiore, la psicologia viene insignita dello status di
scienza e come tale si accinge a sezionare e analizzare la natura umana, con lo stesso atteggiamento con cui lo scibile viene esplorato al microscopio
dalla cultura contemporanea. Il determinismo biologico prende il sopravvento sulla riflessione esistenziale e tutta la dinamica personale e sociale
delle vicende umane viene ricondotta a meccanismi fisiologici.
Apparentemente in controtendenza, Sigmund Freud inaugura alla fine dell’Ottocento una psicologia del profondo, permettendo alla psicologia di
riappropriarsi di spazi che esulano dal terreno di ricerca della biologia e ridando dignità all’esistenza di una componente non materiale nell’essere
umano. Ma il modello dominante, per Freud stesso, che era prima di tutto un medico, rimane quello meccanicistico; basandosi sulle leggi della
conservazione dell’energia, elabora una visione dell’inconscio paragonabile a quella di una caldaia a energia compressa, che reclama sbocchi
manifesti senza i quali si creano situazioni di nevrosi e malattia.
Siamo ormai alla metà del Novecento, il mondo occidentale è disastrato da due guerre e deluso in ogni possibile romantica visione dell’essere
umano. Con un approccio pragmatico fino all’estremo, c’è chi afferma che la coscienza non esiste e che la natura umana è determinata solo da eventi
e circostanze esterne. Nel tentativo di costruire una psicologia sul modello delle scienze naturali, John Broadus Watson, fondatore del
comportamentismo, circoscrive il campo della ricerca all’osservazione del comportamento animale e umano rifiutando ogni forma di introspezione,
che per sua natura sfugge alla verifica oggettiva.
Dopo aver così toccato il fondo – giacché nessuno psicologo avrebbe mai affermato di non possedere in prima persona una coscienza – la ricerca
sulla natura umana si prepara a ripartire, correggendo il tiro.

Dall’utilitarismo a una cultura della dignità umana


Un allarme sui pericoli di disumanizzazione che incombono sulla cultura europea del XX secolo vengono lanciati da più parti: Jung, Huxley,
Husserl, per citarne solo alcuni. Con lo sviluppo esponenziale della tecnologia e della scienza dopo gli anni cinquanta, la concezione meccanicistica
e deterministica dell’essere umano si afferma ancora di più, trasformando e condizionando profondamente la società contemporanea. Il consumismo
allarga le sue basi, l’individuo diventa funzionale a un sistema produttivo che segue logiche che ben poco hanno a che vedere con i valori e i ritmi
umani. La quantità diventa più importante della qualità, le cose più delle relazioni, l’ottimizzazione del tempo più della cura per lo spazio,
l’apparire più dell’essere.
È il trionfo delle grandi dimensioni, della grande distribuzione, dei grandi guadagni, che inghiottono e annientano la dimensione artigianale,
locale, tradizionale, a misura d’uomo. È il fine che giustifica i mezzi, è il progresso reso diktat, è il sistema che pur di vendere fa leva su alcuni
aspetti elementari della natura umana – istinto sessuale, possesso, appartenenza, emulazione – e su quelli più distorti, come l’illusione di poter
sostituire affetto e soddisfazione con beni materiali. È il potere economico che assume proporzioni che sfuggono al controllo di un singolo individuo,
dando forma a holding di potere caratterizzate non più da una presenza, ma da un’assenza. E non è più un re, un dittatore o un capo, a opprimere le
masse, ma un sistema ormai anonimo a cui i suoi stessi vassalli sono sottomessi.
Se all’essere umano viene tolta la dignità di soggetto, perché stupirsi che diventi “cosa” anche l’ambiente, con le molteplici forme di vita che ne
fanno parte? Quando non c’è più il contatto con quanto di più autentico e umano c’è in ognuno, l’individuo diventa burattino, oggetto, risorsa; e,
come tale, finisce col considerare merce tutto ciò che lo circonda: relazioni, persone, natura, bellezza.
Questa immagine svilita dell’uomo, affermatasi nel secolo scorso, si riflette ancora oggi in ciò che vediamo attorno a noi e, soprattutto, leggiamo
sui giornali. Eppure non è questa la realtà, o almeno non è l’unica. Al di là delle apparenze, nessuno ha veramente abdicato alla propria umanità e
nelle piccole cose della vita quotidiana, a volte anche in quelle un po’ più grandi, molte cose belle succedono, molti esempi di generosità, cura,
dedizione, rispetto, sembrano confermare che l’essere umano non è poi tutto da buttare via. Ma i valori… non fanno vendere, le buone azioni e le
belle notizie non fanno audience. La spinta a focalizzare il nostro lato peggiore si sta rivelando funzionale a una fruizione consumistica della realtà,
in cui il singolo individuo finisce col sentirsi solo, in lotta contro tutti, e può consolarsi comprandosi abiti firmati o auto alla moda. L’uomo, isolato
dagli altri e dal resto della realtà, perde il contatto con i valori della vita, non ama più la vita, da cui si sente escluso, e agisce, inconsapevolmente,
contro la vita stessa che gli ha negato il suo abbraccio avvolgente. Questo sottile meccanismo psicologico – lo stesso che agisce nella personalità
schizoide – è quello che, alle sue più estreme conseguenze, rende possibili guerre, genocidi, devastazione dell’ambiente. Tale è la potenza, nello
sviluppo di una cultura e di una intera società, dell’idea che l’uomo ha di sé.
Non c’è bisogno, quindi, di cambiare l’essere umano, bisogna solo cambiare la visione che ha di sé e del suo rapporto con il mondo che lo
circonda. Per contrastare il paradigma utilitaristico diventa sempre più urgente ridare solide basi a una cultura della dignità umana, a una concezione
dell’uomo che ne riconosca anche le altezze e non solo le miserie, che focalizzi l’attenzione sulla promozione della salute e non solo sulla cura della
patologia, che promuova i valori più autentici e allarghi la visione del concetto di “io”, per includervi anche gli altri, l’umanità, la natura, il pianeta
intero. I semi per questo cambiamento sono già stati gettati.
Verso un nuovo umanesimo
Tornando al quadro storico delle concezioni dell’uomo, a metà del Novecento due sono le forze della psicologia, assuntasi di fatto l’onere e l’onore
di definire la natura umana: il comportamentismo da una parte, che insiste sulla condizionabilità dell’individuo da parte dell’ambiente esterno, e
dall’altra la psicoanalisi, più attenta alla sofferenza psicologica e più attrezzata per affrontarla, ma pur sempre deterministica nella sua
focalizzazione sulla gestione dell’energia sessuale come elemento principale nello sviluppo del carattere.
Nel fermento culturale generatosi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, emerge una nuova visione che recupera l’alleanza della psicologia
con la filosofia. Negli anni cinquanta Abraham Maslow, insoddisfatto dalla povertà e ristrettezza della dominante concezione dell’uomo, innesca un
processo di rivalutazione della natura umana e di profonda fiducia nelle capacità del singolo individuo di oltrepassare i limiti imposti dai
condizionamenti, ponendo le basi per quella che prenderà il nome di psicologia umanistica, detta anche “terza forza della psicologia”.
Controcorrente rispetto alle visioni deterministiche – che vedono lo sviluppo di ogni singolo essere umano dipendere ora da eventi esterni, ora
dal proprio passato – la psicologia umanistica si fa interprete del bisogno di riaprirsi a una percezione più aperta e completa della natura umana in
cui dare nuovamente spazio alla dignità e libertà individuale. Le motivazioni all’azione, in questa visione, non sono più riconducibili a premi e
punizioni o alle pulsioni sottostanti, ma sono promosse da aspetti connaturati alla natura umana: tendenza all’autoconoscenza e al superamento dei
propri limiti, azione creativa, capacità di instaurare relazioni di qualità con gli altri e, soprattutto, autorealizzazione.
Questa psicologia attinge a piene mani dalla filosofia esistenzialista e dalla fenomenologia per ridare un ruolo di primo piano all’essere umano e
al suo senso di responsabilità personale e di impegno nell’azione. L’essere umano non può più essere studiato indipendentemente dal suo essere nel
mondo: persona e mondo sono un tutt’uno.
Da una parte, comincia a risanarsi la frattura che ci aveva allontanati dal resto del nostro ambiente e, dall’altra, si spalancano davanti a noi le
implicazioni esaltanti… e angoscianti al tempo stesso, della ritrovata libertà: “L’uomo porta in sé un numero quasi infinito di possibilità di scoprire
il mondo” dice lo psichiatra svizzero Medard Boss, esponente della psicologia esistenziale che si sviluppa in Europa in quegli stessi anni. “Egli, ed
egli soltanto, è responsabile della realizzazione del massimo numero di tali possibilità. Quando accetta questa responsabilità, esercita la sua libertà.
L’uomo è libero di essere ciò che vuole essere.”12
Il campo di osservazione e di studio dell’essere umano si amplia dal comportamento alla qualità delle relazioni, dal resoconto del passato alla
progettazione del futuro, dal patrimonio genetico ai talenti inespressi, dal riflesso condizionato alla spinta creativa, dal determinismo alla libertà di
scelta, dall’enfasi sugli istinti a quella sulla dimensione etica, dallo studio dell’uomo malato a quello dell’uomo sano, dalla terapia alla formazione.
Tra i principali esponenti di questa corrente troviamo il fondatore Abraham Maslow, noto per i suoi studi sulla motivazione; Rollo May, attento
all’essere e al suo divenire; Viktor Frankl, che ha sottolineato l’importanza di dare un senso alla propria vita; Carl Rogers, dalla visione dell’essere
umano così ottimistica, basata su libertà e responsabilità; Roberto Assagioli, che tanta attenzione ha dato alla componente spirituale dell’individuo;
Fritz Perls, con la sua fiducia nella capacità di autoregolazione degli esseri umani, e tanti altri.
Torna in auge la coscienza, non perché trova una sua collocazione anatomica – da sempre cercata invano – ma perché statisticamente riscontrata.
Il metodo di ricerca scientifica adottato da Maslow non è più quello deduttivo della matematica, che ipotizza a priori una legge generale e ne cerca
conferma nella realtà, ma è quello induttivo della fisica, che studia una casistica reale e da quelle osservazioni deduce una legge generale. Grazie a
un accurato lavoro di raccolta di questionari, test e interviste a persone che hanno sviluppato le loro potenzialità ad alti livelli, che sono soddisfatte
e realizzate nei più diversi ambiti della vita quotidiana, Maslow mette in luce una comunanza di aspetti e valori: percezione della realtà più chiara
ed efficace, maggiore disponibilità all’esperienza, accresciuta integrazione, globalità e unitarietà nella persona, maggiore spontaneità ed
espressività; efficacia, vivacità, identità personale salda, autonomia, predisposizione all’obiettività e alla disidentificazione, recupero e attivazione
della creatività, abilità nel fondere concretezza e astrazione, struttura democratica del carattere, capacità di amare. Questi aspetti vengono
riconosciuti e considerati come caratteristiche potenziali insite nella natura umana.
La psicologia – e sarà questa la psicologia del futuro – comincia a emanciparsi dal suo ruolo di valletta della medicina, delegata a occuparsi di
problemi non organici di salute, e acquista una nuova direzione di ricerca spostando l’attenzione dalle componenti malate dell’individuo a quelle
sane. Il focus della psicologia non è più solo riportare all’equilibrio e al benessere persone affette da seri disturbi di origine psicologica, ma
innalzare il livello mediamente nevrotico di quella che viene definita e accettata come normalità. Sono sempre di più i professionisti nel mondo
della psicologia e della relazione di aiuto, che si danno obiettivi di crescita: rendere le persone più forti e felici, più resilienti e consapevoli,
accompagnandole verso una capacità di vivere con maggior soddisfazione e pienezza i propri talenti, le relazioni, le piccole e grandi incombenze
della vita quotidiana, la creazione del proprio posto nel mondo e la ricerca di un senso nella vita.

Assumere l’identità corporea


Una tappa fondamentale nel processo di riumanizzazione dell’essere umano è quella del recupero della dimensione corporea. La psicologia amplia i
confini del suo campo di ricerca dall’impalpabile coscienza di esistere alla concreta percezione non solo di “avere”, ma di “essere” un corpo.
La teoria freudiana delle pulsioni è già stato un primo passo verso il riconoscimento di una interazione tra il livello psichico e quello fisico, ma è
solo con un allievo di Freud, Wilhelm Reich – affrancatosi successivamente dal maestro – che si arriva a una percezione unitaria dell’organismo, a
una visione dell’essere umano che supera il dualismo mente-corpo, a una psicologia che studia le relazioni tra struttura corporea e atteggiamenti di
natura emozionale.
Quanto avviene in uno dei diversi livelli dell’essere – mentale, emotivo o fisico – si ripercuote immediatamente anche sull’altro ed è possibile
aiutare le persone a recuperare vitalità ed equilibrio solo attraverso una visione d’insieme. Su queste basi nasce la bioenergetica, poi portata avanti
da Alexander Lowen, allievo di Reich, e si aggiunge ufficialmente un elemento assolutamente nuovo alla psicoterapia: l’attenzione al corpo e il
lavoro sul corpo.13
Nei più recenti studi di psicosomatica, con applicazione in psicologia e in medicina, e di teoria della comunicazione, con applicazione in campo
non solo terapeutico ma anche formativo e aziendale, il corpo è ora al centro dell’attenzione, considerato espressione di una più profonda realtà
interiore, specchio di emozioni e pensieri, sia consapevoli sia reconditi.
È un salto di qualità, in una cultura ancora fortemente condizionata dalla divisione esercitata da Cartesio tra anima e corpo e, prima ancora, dalla
concezione espressa da Platone, nel dialogo del Fedone: “Il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le
malattie quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere… risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella
sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime”.14
Riappropriarsi della capacità di sentire il proprio corpo come parte di sé, non più “somaro dell’anima”, ma rappresentazione fisica, visibile e
tangibile dell’essere interiore, è un segno concreto di crescita, di capacità di espansione dei limiti del proprio io da una visione più angusta a una
più estesa. Feuerbach, discepolo di Hegel, iniziatore del cosiddetto “umanesimo naturalistico” descrive bene il cambiamento avvenuto: “La vecchia
filosofia aveva come proprio punto di partenza la massima seguente: io sono un essere astratto, un essere esclusivamente pensante, e il corpo non
appartiene al mio essere. La nuova, invece, incomincia con quest’altra massima: io sono un essere reale, sensibile, e il corpo appartiene al mio
essere, proprio nel senso che il corpo nella sua totalità è il mio stesso io, il mio stesso essere”.15 È l’inizio di un percorso verso una ulteriore
espansione di questi limiti dell’io, che può solo partire dalla completa accettazione tra tutto ciò che siamo. Il corpo diventa l’anello di congiunzione
tra noi e il mondo.
Assumere l’identità corporea vuol dire riconoscersi parte di un mondo che viene improvvisamente scoperto molto più simile a sé di quanto
potesse fare una più limitata identificazione con la sola componente mentale dell’essere. Nel passare da “corpo oggetto” a “corpo soggetto”, la
nostra componente più fisica diventa anche maestra, si rivela sintesi di tutta la storia della vita che ci ha preceduto su questo pianeta. Si rivelano
interessanti parallelismi tra ontogenesi, l’insieme dei processi di sviluppo di un singolo organismo, e filogenesi, il processo evolutivo degli
organismi vegetali e animali dalla loro comparsa sulla Terra a oggi: il neonato ha inizialmente una tipologia di movimento laterale, come quella dei
pesci, poi acquisisce la capacità di coordinare arti inferiori e superiori, come gli anfibi e i rettili, successivamente impara a gattonare, come i
mammiferi, e poi si alza finalmente in piedi, come i primati.
Ecco che la natura umana si rivela sempre più complessa, con una stretta parentela con ogni altra forma di vita sulla Terra – i più recenti studi sul
genoma umano non hanno fatto che confermarlo – e un forte sviluppo delle dimensioni incorporee. Oltre a sensorialità, fisicità, istinto e pulsioni, la
natura umana sviluppa anche una sfera di emozioni, peraltro condivise con gli animali più evoluti, si realizza in ambito mentale, e si avvia verso una
nuova tappa evolutiva: la consapevolezza. Come non perdersi, in una tale molteplicità di stimoli, bisogni e linguaggi che si esprimono all’interno di
ognuno di noi?
Il più grande problema dell’essere umano, secondo Arthur Koestler,16 risiede proprio nella mancanza di coordinamento tra i suoi principali
livelli di percezione e di espressione: corpo, emozione e mente. Solo sviluppando una lucida presenza interiore – suggerisce il filosofo – l’individuo
può cercare di favorire l’armonia tra i diversi livelli di coscienza: si tratta di farsi interprete dei diversi linguaggi – sensazioni, immagini, pensieri –
con cui si esprimono i diversi aspetti del nostro essere e di assumere la responsabilità di armonizzarli tra loro. Consapevolmente.

Il baricentro interiore
La coscienza di sé diventa il punto di incontro di questa molteplicità interiore. La principale caratteristica della concezione emergente dell’essere
umano, con la terza forza della psicologia, è proprio la presenza in ogni singolo individuo di un nucleo più autentico, immateriale, che ne esprime
l’essenza. Questa essenza è coscienza allo stato puro.
Questo nucleo diventa il baricentro interiore da cui è possibile, per ognuno, osservare quanto avviene fuori di sé e, contemporaneamente, quanto
avviene dentro di sé. “È l’unica parte di noi che rimane sempre uguale a se stessa” dice lo psicosintetista Piero Ferrucci. “È uno stato di nudità
psichica in cui ci siamo tolti tutti gli abiti: pensieri, sentimenti, immagini, sensazioni fisiche e rimane soltanto il puro essere”.17
Di solito questa coscienza prende spontaneamente la forma di tutto ciò con cui viene a contatto, come uno specchio, ma con la pratica – ed è
questo l’obiettivo di ogni tecnica di meditazione – è possibile staccare la nostra coscienza dai contenuti con cui si identifica e permetterle di
concepirsi priva di ogni contenuto. Una paziente di Ferrucci così esprime l’esperienza del baricentro interiore: “Quando dico ‘io sono’, so che ‘io
sono’ prima di pensare, di sentire, di agire. Sono cosciente di essere pura possibilità”.18
A seconda delle tradizioni filosofiche, religiose o psicologiche, questo baricentro assume nomi diversi: osservatore interno, testimone, nocchiero,
centro di autocoscienza, adulto, io, sé, direttore d’orchestra.
È il centro unificatore da cui l’individuo consapevole può regolare e coordinare tutti gli altri elementi e funzioni della psiche: istinti, sensazioni,
emozioni, immagini, pensieri. È quel punto virtuale al centro del proprio essere da cui è possibile sviluppare quella lucida presenza interiore a cui si
riferiva Arthur Koestler, indicandola come l’unica soluzione alla disintegrazione e scoordinamento tra i diversi aspetti dell’essere umano.
A partire dall’esperienza del proprio centro, l’individuo può sviluppare la padronanza su molti degli automatismi che ne condizionano la vita.
L’influenza di elementi esterni – familiari, educativi, sociali – non viene negata, ma viene considerata meno deterministica di quanto non fosse solo
pochi decenni prima, quando il comportamentismo credeva di aver trovato “la ricetta” per forgiare le persone.
All’individuo viene lasciato un margine di azione più aperto da cui poter dare una risposta nuova agli eventi, non più dettata dall’esterno, ma
dall’interno, dalla sua stessa volontà; non più visto in balia degli eventi o del passato, ha sempre e comunque la possibilità di prendere in mano le
redini della propria vita e di dare risposte nuove a ogni situazione, coerentemente con le necessità contingenti.
È una vera e propria rivoluzione copernicana che ribalta la visione dell’universo intero. L’uomo torna al centro, al centro di se stesso prima di
tutto, punto di partenza da cui guardarsi intorno per scegliere la propria direzione, per affermare un proprio progetto di vita. Ogni singolo essere
umano viene riconosciuto nella sua originalità, gli viene attribuita una natura interiore preesistente ai condizionamenti esterni, ma che attraverso di
questi si esprime e si forgia, viene considerato portatore di una sua unicità – come una ghianda, usando un concetto caro a James Hillman – che
chiede di essere riconosciuta e che è già presente prima ancora di essere vissuta.19
L’attenzione della psicologia si sposta dal passato al futuro, dalle presunte cause che hanno determinato la specifica situazione di ognuno alla
scelta del senso da dare agli eventi, conformemente alla meta verso la quale ci si vuole dirigere. La teleologia – il tendere verso – sostituisce una
causalità che nega la libertà dell’individuo. Il primato del pensiero, considerato somma attività, peculiare dell’essere umano, viene messo in
discussione: pur se utilissimo nella vita quotidiana, non è necessariamente il più indicato, da solo, a fare da guida nella comprensione e nella
gestione dell’esistenza. Dal cogito ergo sum si passa al sum ergo cogito, “sono, dunque – tra le altre cose – penso”. La coscienza ritrova una
dignitosa collocazione nella psicologia contemporanea e il primato torna all’essere, alla consapevolezza di essere vivi e a tutti gli interrogativi che
questo implica.
La coscienza diventa il baricentro interiore da cui ogni singolo individuo può intraprendere il viaggio alla ricerca della sua natura più autentica;
la vita diventa un’occasione di incontro, dialogo, arricchimento e autorealizzazione, per poter lasciare un segno concreto del proprio passaggio sulla
Terra, in conformità ai valori più sentiti. È questo il nostro attuale traguardo evolutivo.

La rivoluzione silenziosa
Non è solo nella psicologia e nella cultura umanistica che si annuncia una trasformazione del modo di concepire l’esperienza umana, ma anche nella
medicina, nella biologia e nella stessa epistemologia – da epistemé, in greco antico, “conoscenza certa” – che studia i presupposti su cui si basa ogni
altra scienza e che si occupa del modo di conoscere e sperimentare il mondo.
Le conclusioni a cui questa particolare branca della filosofia contemporanea sta giungendo sono sorprendenti per il modo comune di pensare, ma
coincidono con la visione del mondo di una cultura con la quale probabilmente non avremmo mai pensato di poter avere qualcosa da spartire: la
cultura sciamanica.
Quali queste conclusioni? Che la realtà non esiste. Esiste l’idea che ci facciamo della realtà. E tutto il nostro stile di vita, la qualità stessa della
nostra vita, dipenderanno dall’idea che ci facciamo di noi stessi e del mondo: “Il primo compito dell’insegnante è far capire che il mondo che
pensiamo di vedere è solo un’immagine, una descrizione del mondo”.20
Gregory Bateson, filosofo, antropologo, psichiatra, naturalista e poeta – uno dei pilastri della Scuola di Palo Alto e del contemporaneo
cambiamento di paradigma – sostiene che la psicologia umanistica è ancora fin troppo materialistica, in quanto si applica alla visione di un mondo
materiale di oggetti fisici che obbediscono alle leggi di forza e dell’energia,21 mentre è proprio l’oggettivabilità del mondo che conosciamo, che va
contestata. Attraverso lo studio del modo in cui individui e gruppi di individui conoscono le cose e pensano di conoscerle, l’epistemologia conferma
l’intuizione antica di mistici e sciamani sul fatto che il modo in cui recepiamo il mondo dipende molto di più da una nostra predisposizione interiore
che da una oggettiva realtà esteriore. Già Epitteto, filosofo greco del I secolo, affermava: “Siamo preoccupati dall’opinione che abbiamo delle cose
più che dalle cose stesse” e, ne Il fuoco dal profondo, Castaneda spiega il pensiero del suo maestro, un indio yaqui: “La prima verità sulla
consapevolezza è che il mondo che ci circonda non è in realtà come noi pensiamo. Noi pensiamo che sia un mondo di oggetti e invece non lo è”.
L’epistemologia studia in dettaglio il processo della conoscenza del mondo partendo dagli studi della psicologia della Gestalt sulla percezione,
evidenziando l’importanza delle distinzioni operate nella decodifica della realtà e della punteggiatura con cui vengono ordinate tra loro le diverse
sequenze percepite. Sembra solo un complicato ragionamento filosofico, ma le ripercussioni nella vita quotidiana sono immediata e facilmente
individuabili. Un impiegato inglese sulla strada di ritorno verso casa nella campagna dello Yorkshire vede da lontano una massa grigia di cui non
comprende la natura; solo quando si trova a distanza ormai molto ravvicinata riconosce che si tratta di un elefante. L’inammissibilità della presenza
di questo animale – che si è poi rivelato essere scappato da un circo – sul margine di quella strada, non ha consentito al cervello dell’osservatore di
riconoscerlo subito in quanto tale.
Gli studi sulla percezione non fanno che confermare questa priorità dell’aspettativa rispetto alla effettiva conformazione dell’oggetto o
dell’evento osservato. Quello che ci aspettiamo di vedere ci influenza al punto tale da organizzare in quella direzione gli impulsi ottici ricevuti dal
cervello, e non solo quelli. L’idea preconcetta che abbiamo della realtà è più forte, nel determinare la nostra esperienza, dell’esperienza stessa. È il
meccanismo alla base di quelle che ormai sono comunemente riconosciute come le “profezie autorealizzantesi”. È il meccanismo sul quale lavora la
psicologia cognitivista, consapevole dell’effetto potente delle credenze patogene che finiscono col condizionare l’intera esistenza a prescindere dai
messaggi positivi che l’esperienza eventualmente fornisce.
Ma cosa è quello che chiamiamo realtà e cosa vuol dire “reale”, allora?
Come minimo diventa indispensabile prendere in considerazione due ordini di realtà: il mondo esterno, la realtà oggettiva; e il mondo interiore,
la realtà soggettiva. Sempre Bateson afferma: “Penso che tutto sommato sia più salutare credere che l’universo fisico sia illusorio e che la mente sia
reale, anziché credere che la mente sia un illusione e l’universo fisico una realtà. Ma naturalmente, nel complesso, nessuno dei due atteggiamenti è
giusto. Ma credere nella realtà della mente è già qualche cosa di meglio che credere nella realtà dell’universo fisico”.22 In sintesi, ancora con parole
di Bateson, “la punta della sonda è sempre nel cuore dell’osservatore”.23
Quali sono le implicazioni di questo ragionamento? Sono molteplici, saranno di fatto il tema dell’intero libro. Diventa chiaro che il mondo
interiore ha la stessa importanza del mondo esteriore; anche superiore, suggerisce l’epistemologo. Questo vuol dire che la concezione che l’uomo ha
di sé condiziona fortemente il suo atteggiamento nei confronti della vita e il suo operato. Ma vuol dire anche che l’individuo può avere un ruolo
attivo nei confronti della realtà materiale, quella in cui opera quotidianamente, attraverso una maggior attenzione alla sua interiorità. Ogni
cambiamento sulla realtà oggettiva può essere prima seminato nel “mondo delle idee”, all’interno di ognuno di noi. La capacità di focalizzarsi su un
baricentro interiore diventa così un esercizio indispensabile per poter osservare contemporaneamente dentro e fuori di sé, per poter cogliere
contemporaneamente la visione cosiddetta oggettiva e quella soggettiva delle cose, entrambe ingredienti di ciò che chiamiamo realtà.
Libertà diventa così, partendo da questi presupposti in cui filosofia e psicologia nuovamente si incontrano, prima di tutto, libertà di pensiero,
espressione e azione, libertà da pregiudizi, condizionamenti inutili, sensi di colpa ingiustificati e dipendenza. Nella misura in cui acquisiamo
dimestichezza con il nostro “spazio interno” – fatto di emozioni, pensieri, fantasie, ricordi, desideri – impariamo a scegliere e a decidere come agire
in ogni circostanza; prendiamo coscienza che il nostro comportamento innesca a sua volta una catena di reazioni e contro-reazioni; acquisiamo una
maggiore capacità di plasmare in maniera creativa elementi ed eventi della vita.
Dalla libertà nasce la creatività e, con essa, si attiva l’immaginazione per elaborare proposte nuove ed efficaci. Se impariamo a guardarci
“dentro” e “attorno” con attenzione e apertura, possiamo attivare la capacità di cogliere la realtà non solo per quello che si suppone sia, ma anche
per quello che potrebbe diventare.
Libertà e creatività si accompagnano poi indissolubilmente alla capacità di assumerci la responsabilità delle nostre scelte, allo sviluppo della
consapevolezza che gran parte del nostro destino viene anche costruito momento per momento da ciascuno di noi, con il nostro modo di pensare e
quindi di agire, con l’atteggiamento nei confronti degli altri e delle diverse situazioni, con il modo di comunicare e di presentarci.
Interdipendenza e responsabilità individuale sono i due cardini di questa rivoluzione silenziosa. La prima, predispone con maggior apertura
all’incontro e al dialogo con gli altri e con l’ambiente circostante; la seconda, attribuisce un ruolo molto importante all’essere umano e al singolo
individuo, riconoscendogli un potenziale ruolo attivo nell’ideazione del mondo e nel conseguente modellamento di questo.
Sono queste le basi per un nuovo umanesimo che vuole rispondere a un’esigenza sempre più sentita. La visione attuale dell’essere umano, che
ancora impera e impregna lo stile di vita contemporaneo e molta della comunicazione mediatica e pubblicità, è arida, meccanicistica e utilitaristica.
Il malessere che ne deriva – frustrazione, depressione, mancanza di valori – degenera sempre più spesso in una serie di comportamenti di ben bassa
natura, che ben lungi di essere la prova della “cattiva natura dell’uomo” sono invece solo l’effetto di una “cattiva concezione dell’uomo”.
A partire da una diversa visione dell’essere umano si può innescare tutta una serie di cambiamenti che, se all’inizio riguardano solo i singoli
individui, a poco a poco si riflettono sulle relazioni interpersonali, sull’organizzazione del lavoro, sulla qualità dell’educazione, sulla gestione della
società, su scelte politiche ed economiche e su strategie ambientali.
La psicologia parte lavorando con l’individuo ma arriva a coinvolgere nel suo lavoro – impostato su nuove basi – il pianeta intero e in questo suo
impegno incontra un’altra scienza che le viene incontro seguendo un percorso inverso: l’ecologia. Pur lavorando una sul particolare e l’altra sul
generale, una sull’individuo e l’altra sull’ambiente, queste due scienze insieme hanno molto da dirsi e da darsi per raggiungere entrambe lo stesso
obiettivo: garantire un futuro all’essere umano e alla Terra. Le basi per una reale sostenibilità si consolidano qui, in questo incontro tra psicologia ed
ecologia.

1 Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, Venexia Editrice, Roma, 2008.


2 Riane Eisler, Il calice e la spada, Forum edizioni, Udine, 2011.
3 J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel, 1860, trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, 1968, pp. 361-362.
4 Ipse dixit, letteralmente significa “l’ha detto lui”. Di fatto, l’epressione viene per lo più intesa e usata nel senso che, essendo stato detto da una persona famosa e autorevole, non si può discutere.
5 Fritjof Capra, La scienza universale, Rizzoli, Milano, 2007, p. 24.
6 Glauco Capone, “Sul rapporto tra utopia e escatologia”, in Utopia e distopia, a cura di Artemio Enzo Baldini, Edizioni Dedalo, p. 291.
7 Pico della Mirandola, Orazione sulla dignità dell’essere umano - Oratio de hominis dignitate, 1486.
8 L’Advaita Vedanta, uno dei principali filoni filosofici della tradizione induista, afferma l’identità tra l’essenza individuale, il Sé o Ātman, e la realtà assoluta, Brahman.
9 Joel de Rosnay, scienziato e filosofo contemporaneo, consulente de La cité de la science et de l’industrie, a Parigi. Intervista alla RAI del 6 settembre 1995.
10 Rupert Sheldrake, La rinascita della natura, Corbaccio, Milano, 1993.
11 Joel de Rosnay, cit.
12 Lindzey, Hall, Thompson, Psicologia, Zanichelli, Bologna, 1990, p. 345.
13 Alexander Lowen, “Considerazioni sull’analisi bioenergetica”, Anima e Corpo – Rivista di Psicologia Somatica, n. 1, maggio 1995.
14 Platone. Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, fr. 128d-130e.
15 Principi della filosofia dell’avvenire - Ludwig Andreas Feuerbach, a cura di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1979.
16 Arthur Koestler, Le cheval dans la locomotive, Calmann-Lévy, Paris, 1967.
17 Piero Ferrucci, Crescere, Astrolabio, Roma, 1981.
18 Ibidem.
19 James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997.
20 Bradford P. Keeney, L’estetica del cambiamento, Astrolabio, Roma, 1985.
21 Ibidem.
22 Bateson G., Rieber B., “Mind and body: A dialogue”, in R. Roeber (a cura di), Body and Mind, Academic Press, New York, 1980, pp. 250-251. Citato in Keeney B.P., L’estetica del cambiamento,
Astrolabio, Roma, 1985, p. 76.
23 Gregory Bateson, Mente e Natura, Adelphi, Milano, 1984, p. 121.
Capitolo 2

LA PSICOLOGIA INCONTRA L’ECOLOGIA

“Qualcuno ha chiesto di vedere l’anima? Guarda la tua stessa forma e il suo contenuto, guarda le persone, gli elementi, le bestie, gli alberi, i ruscelli gorgoglianti, la roccia, la sabbia”.
Walt Whitman, Foglie d’erba

Un cappello per la psicologia verde


La psicologia, scienza giovane in Occidente, si è sempre concentrata sull’aspetto più strettamente soggettivo del nostro essere, sull’ambiente interno,
sulla dimensione individuale. Solo da poco ha intravisto e preso in considerazione gli impalpabili confini oltre i quali il singolo individuo attinge a
sorgenti comuni e si scopre inestricabilmente connesso alle radici della vita.
L’ecologia, del resto, anche lei scienza giovane, si è sempre occupata dell’ambiente esterno senza prendere a fondo in considerazione l’essere
umano come parte integrante e condizionante dell’ambiente, senza riconoscere che anche le dinamiche psicologiche possono agire, indirettamente,
sull’ecosistema.
Così, giungendo da due estremi opposti, entrambe sulla spinta di un’emergenza, di una crisi nei rispettivi ambiti di interesse, queste due scienze si
sono incontrate per cercare ognuna nell’altra una risposta alle proprie necessità, per unire le forze verso un obiettivo comune.
La psicologia ha bisogno di svegliarsi, di riconoscere di non poter più studiare e curare l’uomo separatamente dal pianeta; ha bisogno di
cominciare a fare i conti anche con la realtà esterna, con i disastri su grande scala che sta subendo il pianeta. Per poter comprendere meglio
l’individuo e il suo disagio, non può più limitare i propri ambiti di osservazione e lavoro solo alla dimensione intrapsichica e a quella relazionale,
ma deve ampliare il proprio campo d’indagine e d’azione anche a quello ambientale. La psicologia non può più ignorare le connessioni tra
malessere psicologico e disequilibrio ambientale, tra malattie dell’anima e malattie del mondo.
Il bisogno dell’ecologia, invece, è quello di riconoscere il ruolo e l’importanza dell’uomo all’interno dell’equilibrio ambientale. Può imparare a
conoscerlo meglio per capire come coinvolgerlo e motivarlo verso un atteggiamento di maggior amore e cura nei confronti della sua stessa dimora,
della sua stessa sorgente di vita. Spesso la strategia ambientalista pecca per mancanza di psicologia e attua campagne di sensibilizzazione improntate
da colpevolizzazione e catastrofismo, senza capire che così facendo si attivano meccanismi di difesa che producono l’effetto opposto: le persone
distolgono l’attenzione dai problemi che creano un’ansia per loro difficile da gestire.
Il riconoscimento della profonda connessione tra la natura umana e il più vasto regno della natura è stato il punto d’incontro tra psicologia ed
ecologia ed è diventato il punto di partenza per la nascita di un approccio nuovo nello sviluppo di entrambe.
La consapevolezza di quanto sia importante la natura nell’equilibrio psichico e spirituale dell’individuo è antica quanto il mondo ma, nell’ambito
scientifico contemporaneo, questo riconoscimento è recente. A partire dagli anni settanta, molti singoli insegnanti, terapeuti, operatori sociali, medici
e filosofi, già perseguono una linea di pensiero e di lavoro che abbina i due fronti, eco e psico. Accanto alla giovanissima psicologia ambientale,
che comincia con il focalizzarsi su come l’ambiente influenzi la persona, nascono nuovi approcci via via sempre più aperti: psicologia verde,
psicoecologia, terapia verde, terapia globale, ecologia transpersonale, ecoterapia… per citarne solo alcuni. Negli anni novanta questo abbinamento
tra la dimensione ambientale e quella psicologica, con approccio non solo teorico ma soprattutto operativo, acquisisce un nome e una direzione ben
definita: il termine “ecopsicologia” viene scelto proprio per non disperdere in mille rivoli ricerche e pratiche, sempre più diffuse, rivolte in questa
direzione.
L’ecopsicologia nasce nel 1989, nell’ambito di un gruppo di studio all’Università di Berkeley che si incontra per discutere del contributo che la
psicologia può dare a una diversa gestione della contemporanea crisi ecologica. Il gruppo nasce attorno alla figura di Robert Greenway, giornalista e
scrittore, già da tempo impegnato nella ricerca di un dialogo tra le due dimensioni, psicologica ed ecologica. Entra a far parte del gruppo,
contribuendo alla riflessione e alla sistematizzazione di quanto emerso dal lavoro, anche Theodore Roszak, storico della cultura e docente
universitario della California State University, East Bay, vicino a Berkeley. Nel 1992 Roszak pubblica The voice of the Earth, il primo testo
ufficiale sull’ecopsicologia, a cui fa seguito nel 1995 la raccolta di saggi Ecopsychology, che presenta l’ecopsicologia al grande pubblico. Nel
1996, Fritjof Capra cita l’ecopsicologia nel suo libro La rete della vita, tradotto in italiano nel 1997, ed è questo il lancio mondiale. In Italia si
parla per la prima volta di ecopsicologia nel luglio 1999, al convegno internazionale “L’uomo e il paesaggio”.24
“Ecology needs psychology and psychology needs ecology”, è stato fin dall’inizio il motto dell’ecopsicologia: “L’ecologia ha bisogno della
psicologia e la psicologia ha bisogno dell’ecologia”. Il movimento, perché è così che viene inizialmente considerato negli USA, unisce la sensibilità
dei terapisti, la conoscenza degli ecologi, l’esperienza e l’etica degli ambientalisti, per una programmazione di tipo educativo più efficace, per un
approccio terapeutico in grado di ridefinire il concetto di salute in un contesto che include anche l’ambiente e per una politica ambientalista più
efficace, con solide basi filosofiche.
L’impronta data da Roszak con il suo primo libro non chiude la nuova scienza in un ambito strettamente definito ma, al contrario, ne tratteggia le
caratteristiche in modo da aprire al massimo le possibilità di sviluppo e di applicazione, caratterizzando l’ecopsicologia sempre di più non come
una terapia, ma come un modo di fare terapia; non come una filosofia, ma come una visione della vita; non come un preciso insieme di tecniche, ma
come la capacità di mettere l’anima nel proprio lavoro e di volgere l’attenzione anche all’anima del mondo. “L’ecopsicologia invita la pratica
psicoterapica a espandere la sua attenzione oltre al paesaggio interiore” sintetizza Sarah Conn, psicologa clinica di Cambridge “per esplorare e
promuovere lo sviluppo della comunità, il contatto con la Terra e con i luoghi, l’identità ecologica. Ci invita a sentire la Terra che parla attraverso il
nostro dolore e disagio e ad ascoltare noi stessi come se stessimo ascoltando un messaggio dall’universo”.
Sette sono attualmente le principali direzioni di ricerca e di applicazione in cui si sviluppa l’ecopsicologia.

Terapia
La spinta iniziale nasce nell’ambito psicoterapeutico per cominciare ad affrontare il disagio sociale e individuale correlandolo anche al quadro di
emergenza ambientale e all’evidente sradicamento dalla natura. I primi a cogliere l’invito sono quei professionisti nel campo che, in prima persona,
già possiedono una spiccata sensibilità in campo ambientale, naturalista e ambientalista, che cominciano a inserire spunti di riflessione ed esercizi
che fanno riferimento alla natura e alla situazione contingente. Il paesaggio naturale diventa anche un possibile nuovo setting terapeutico e la
wilderness – natura incontaminata – un’opportunità di riscoperta e valorizzazione degli aspetti più profondi e vitali di sé. L’incontro con colori,
spazi, ritmi, suoni diversi favoriscono il rilassamento della mente e il contatto con le emozioni, oltre a offrire una preziosa opportunità di scarica di
tensione e stress. Anche quando non è a portata di mano, l’ambiente naturale diventa una eccellente metafora per esplorare il mondo interiore,
altrettanto vasto e sconfinato di un pianeta con i suoi abissi e le sue altezze.
Crescita personale
L’ecopsicologia considera la crescita personale il percorso più efficace per favorire lo sviluppo di una maggiore consapevolezza ambientale. Nella
misura in cui una persona impara a relazionarsi in modo autentico con se stessa, aprendosi alla molteplicità, contraddittorietà e ricchezza del proprio
essere, si innesca un processo che la porterà a sviluppare le stesse modalità relazionali anche in dimensioni più ampie. Il percorso di crescita
personale interessa e coinvolge ogni singolo individuo, non solo chi è in terapia; si sviluppa in una progressione di diverse tappe – attenzione,
ascolto, rispetto, presenza, empatia, dialogo e sinergia – che favoriscono la relazione con i diversi aspetti di sé, con gli altri, con gli elementi della
natura, quelle che, nella Scuola di Ecopsicologia italiana, vengono chiamate “relazioni ecologiche”. Non ci sono limiti all’utilizzo di tecniche e
modalità già esistenti, purché puntino verso un ampliamento di visione di sé e della vita, per includere nel proprio concetto di “io” anche l’umanità,
la natura, il pianeta intero. Si lavora sulla dimensione “ego” per valorizzarla e poi oltrepassarne i confini: dobbiamo prima diventare un ego, un ego
consapevole, per poter entrare in modo attivo e responsabile nella dimensione “eco”.

Educazione
La stessa esigenza di reintegrare l’esperienza della natura nella propria visione del mondo è sentita anche da insegnanti, formatori, educatori
ambientali che manifestano il bisogno di ampliare il campo dell’insegnamento dell’ecologia e dell’educazione ambientale da una sfera soltanto
cognitiva a una esperienziale. Uscite sul territorio e contatto in prima persona con l’ambiente diventano percorsi privilegiati per coltivare e
mantenere viva la spontanea tendenza dei bambini ad aprirsi con meraviglia, con gioia e con curiosità all’incontro con i mille particolari
sorprendenti del mondo.
L’elemento caratteristico dell’ecopsicologia in campo educativo è quello di focalizzare l’attenzione soprattutto sull’aspetto emotivo, per
risvegliare quella sensibilità intorpidita dagli stimoli troppo mentali della vita moderna e per riconoscere l’emozione di un incontro autentico con
una pianta, un animale, un luogo. È quello che oggi si chiama “ecologia affettiva”,25 che punta a risvegliare l’innata biofilia. I giovani vengono
accompagnati in un percorso di superamento della visione dell’ambiente come dimensione ostile o come deposito di risorse da sfruttare, per
ritrovare la capacità di farsi toccare interiormente dalla bellezza delle molteplici forme in divenire. Questo risveglia il senso di compartecipazione
al processo della vita in evoluzione e aiuta a consolidare una visione del mondo di cui non essere né vittime, né oppressori, ma parte integrante.

Vita organizzativa e comunitaria


La ricerca e la sperimentazione è comunque viva e attiva nell’esplorazione di pratiche da portare in eventi comunitari ad ampio raggio per
risvegliare attenzione e sensibilità anche in un pubblico non ancora sensibilizzato alle tematiche ambientali. Le applicazioni sono nei parchi, nelle
feste popolari, ma anche in convegni scientifici e in ambiti organizzativi. In particolare, per quanto riguarda la vita lavorativa in azienda,
cooperativa, associazione, l’ecopsicologia porta i concetti della biodiversità, delle relazioni ecologiche e dell’interdipendenza trasformandoli in
strumenti concreti ed efficaci per il team building, la gestione dei conflitti, l’ottimizzazione delle risorse e dei talenti presenti in un gruppo di lavoro.
In particolare, vengono sottolineati gli studi della psicologia ambientale e tutte le più recenti ricerche sul potere rigenerante del verde, per
sollecitare la presenza di piante, finestre e immagini di natura anche negli ambienti lavorativi e per far realizzare, ogni qualvolta possibile, giardini e
aree verdi in cui i lavoratori possano andare a rigenerare l’attenzione nell’arco della giornata lavorativa.

Ambientalismo
In ambito ambientalista, l’ecopsicologia amplia gli obiettivi che si propone in educazione cercando di raggiungere anche un pubblico adulto, spesso
ormai disilluso e sordo agli allarmi sempre più incalzanti, per dare voce al sentire inespresso della gente rispetto alle problematiche ambientali
incalzanti, per valorizzare un legame archetipico con la natura e un sapere ancora presente in molte comunità, per risvegliare nuove riflessioni, per
stimolare l’elaborazione di nuove strategie nell’impegno verso il Pianeta, per ridare forza, colore e direzione all’impegno ambientalista spesso
arenatosi nella burocrazia o nel senso di impotenza. Lester R. Brown, il fondatore del World Watch Institute, che pubblica ogni anno un resoconto
dello stato del Pianeta,26 scrive: “Abbiamo sovraccaricato le persone di ansietà e sensi di colpa ma questo, oggi, non è più efficace”.
L’ambientalismo è alla ricerca di nuove strategie per sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica, per farle uscire da uno stato di apatia e
disanimo nei confronti del degrado ambientale.
L’obiettivo è quindi, attraverso uno studio più approfondito della psicologia umana, fare leva sul coinvolgimento più che sul senso di colpa,
sull’amore più che sulla giustizia, sul potere di ogni singolo individuo come alternativa al catastrofismo. L’ecopsicologia si pone come aiuto per
l’elaborazione di eventi e strategie di comunicazione che puntino in questa direzione.

Antropologia
Questo è uno dei filoni, per il momento, essenzialmente di ricerca. Studia le corrispondenze esistenti in diverse culture, passate e presenti, tra
atteggiamento nei confronti della natura e tipo di ordinamento sociale, notando che in quasi tutte le culture native – nativi americani, indios
dell’Amazzonia, aborigeni australiani, inuit, san – in cui è ancora vivo il rispetto e il senso di appartenenza con la Terra, esiste un grande rispetto per
la figura della donna, per gli anziani e soprattutto per i bambini, allevati a stretto contatto con i genitori e gli adulti. Culture ancora regolate da una
saggezza preziosa che è andata perduta per la cosiddetta modernità. In questa ricerca si inserisce anche lo studio e la rielaborazione di quella che è
stata l’antichissima figura dello sciamano, tramite tra cielo e Terra, interprete, per la sua comunità, dell’inscindibile legame tra dimensione terrestre
e celeste, materiale e spirituale.
Altra ricerca molto attuale nell’ambito dell’antropologia è quella che indaga sulle possibili origini dell’“alienazione patogena tra la coscienza
dell’essere umano e la biosfera”,27 secondo la diagnosi che lo psicoterapeuta Ralph Metzner fa alla società contemporanea moderna, chiedendosi in
quale momento della storia dell’umanità si è venuto a creare questo disturbo, se con l’addomesticamento degli animali, con il consolidarsi
dell’agricoltura, o in seguito a qualche catastrofe ecologica di immensa portata.

Mindfulness
Uno degli aspetti che caratterizza l’ecopsicologia, rispetto ad altre discipline nell’ambito della psicologia, è la relazione col mondo, animato e
inanimato, con l’ambiente che ci circonda. L’ambiente naturale è punto di partenza e di arrivo, diventa lo scenario in cui meglio si può apprendere ad
ampliare la propria visione “oltre i confini del conosciuto”. Laddove mindfulness è presenza consapevole a se stessi, in ecopsicologia si parla di
green mindfulness: l’ampliamento dei confini della propria identità individuale verso il senso di compartecipazione al mondo e, in particolare, del
mondo naturale di cui siamo parte. È una consapevolezza che implica la capacità di risvegliare e allenare il margine di libertà e di responsabilità
che abbiamo nei confronti delle nostre azioni e relazioni e quindi del nostro modo di interagire col mondo, calibrando scelte e comportamenti in
base ai nostri valori e obiettivi, coerentemente col contesto. La green mindfulness è una consapevolezza che trascende l’interesse personale per
aprirsi a una visione sistemica capace di riconoscere le interconnessioni tra sé e il mondo. Daniel Goleman la chiama intelligenza ecologica,
definendo la cura per l’ambiente “non un movimento o un’ideologia, ma il nostro prossimo gradino evolutivo”.28 Ed è questo che l’ecopsicologia
promuove.
Svegliare la psicologia
“Sono preoccupato per la psicologia” scrive James Hillman. “Non voglio che sia inghiottita nelle sue caverne dell’interiorità, che si perda nelle sue
labirintiche esplorazioni, nelle minuzie dei ricordi, dei sentimenti, dei linguaggi. [Mi rivolgo] ai miei colleghi per impedire che il nostro campo si
restringa sino a diventare solo una specializzazione… Bisogna uscire dall’isolamento, dall’autoreclusione… nutrire idee nuove. Oggi queste idee ci
raggiungono dal mondo, dalla psiche ecologica, dall’anima del mondo per la quale l’anima umana è afflitta… Perché è proprio nell’anima del
mondo che l’anima dell’uomo ha avuto sempre la sua dimora”.29
Hillman non è l’unico a nutrire questa preoccupazione. Moltissimi sono gli operatori nel campo della psicologia e della relazione di aiuto che si
sono riconosciuti nell’invito di Roszak, che hanno deciso di unificare gli sforzi e condividere riflessioni ed esperienze in grado di allargare il campo
di osservazione, da una parte, e riformulare il concetto di identità e di inconscio in termini più vasti, dall’altra.
Molti sono ormai i grossi danni ambientali di cui siamo tutti testimoni, non più solo attraverso i media, ma anche personalmente: deforestazione,
riduzione della biodiversità, effetto serra, violenti fenomeni meteorologici, inquinamento, piogge acide, contaminazioni del terreno con rifiuti tossici
o uranio impoverito, usato nelle purtroppo continue guerre.
Ormai queste informazioni, anche quando non sembrano riguardarci direttamente e ci lasciano indifferenti, rappresentano di fatto una minaccia al
nostro istinto di sopravvivenza, e come tale sono percepite a livello subconscio. Sono come un ronzio di sottofondo che si traduce facilmente in una
sensazione di angoscia che ben poco ha a che fare con i nostri conflitti irrisolti con la mamma o il papà e che, per essere affrontata opportunamente,
va prima identificata e compresa.
Possiamo attivarci per superare uno stato di disagio e malessere solo quando comprendiamo, prima di tutto, dove ci fa male. La letteratura
dell’ecopsicologia è costellata di casi di persone afflitte da depressione che solo dopo una lunga ricerca interiore hanno toccato con mano che la
fonte principale del loro “mal d’anima” era proprio lo stato di instabilità e insicurezza instillato dal più che giustificato allarme ambientale. E i più
colpiti sono proprio gli adolescenti.
La sofferenza psichica causata dal degrado ambientale non è solo legata al timore del futuro, quella che oggi viene definita ecoansia, è anche un
vero e proprio senso di lutto dettato da un istintivo senso di amore e compartecipazione con ciò che vive attorno a noi. Siamo abituati a parlare di
lutto solo in relazione alla morte di un essere umano vicino, ma anche i morti sconosciuti delle guerre, degli attentati e delle catastrofi naturali ci
toccano in profondità, anche la scomparsa di 74 specie vegetali e animali30 al giorno – tre all’ora! – ci impoveriscono direttamente, e ci fanno
soffrire un senso di perdita. Così come ogni petroliera che rovescia in mare il suo nero liquore, portando a fondo con sé decine, centinaia di migliaia
di pesci, uccelli, anfibi, piccoli e grandi mammiferi che vivono sulle coste.
Chi ha avuto occasione di conoscere qualcuno che è andato in Galizia ad aiutare, nel 2002, dopo lo spargimento sulle coste spagnole di oltre
4.000 tonnellate di greggio, avrà sicuramente saputo dell’incommensurabile senso di sofferenza interiore che hanno condiviso tutte quelle persone
alla vista dello scempio perpetrato.
Una sensazione, questa, che in misura forse meno intensa è nota a tutti i più sensibili tra noi alla vista di boschi che bruciano, di incendio doloso o
dovuto a cambiamenti climatici, di scarichi inquinanti nelle acque dei ruscelli, dei fiumi o nei cieli, di prati cementificati, alberi tagliati, animali
uccisi da pratiche di caccia illegali, o costretti a condizioni di vita inimmaginabili negli allevamenti intensivi e nei viaggi massacranti verso i
macelli.
Quando la natura sta male, stiamo male anche noi. La psicologia sta cominciando adesso a riconoscere e a studiare la correlazione tra alienazione
dall’ambiente naturale e malessere psichico, perché è proprio negli studi di counselor, psicologi e psicoterapeuti che approdano, con sempre
maggiore frequenza, angoscia, dolore, rabbia e senso di impotenza generati non più da conflittualità interiori irrisolte, ma da un espressione di
spontanea e, di fatto, “sana” preoccupazione rispetto a quanto sta accadendo al mondo in cui viviamo.
Ed è proprio in quei paesi in cui viene a mancare sempre di più il contatto con la natura e nelle grandi concentrazioni urbane – rivelano gli studi
di psicologia ambientale – che si registra un aumento dei casi di depressione e di instabilità psichica.31
Terrence O’Connor, ecopsicologa statunitense, lancia in modo molto esplicito un allarme ai suoi colleghi per impostare il lavoro e la terapia
tenendo conto anche di quanto sta succedendo sul piano ambientale. Poco prima della Seconda guerra mondiale – racconta – una giovane donna di
Berlino era andata in terapia perché oppressa dall’ansia per la contingenza storico-politica in cui si trovava. Dopo due anni ha concluso la terapia
perfettamente guarita da tutte quelle problematiche psicologiche connesse al suo stato ansioso. Sei mesi dopo è stata deportata, in quanto ebrea, in un
campo di concentramento. “Aiutando le persone ad adattarsi a una società distruttiva – si chiede la O’ Connor – non stiamo facendo più male che
bene? Aiutiamo i parenti a crescere i figli, le coppie ad avere relazioni più armoniose mentre fuori di noi l’aria diventa irrespirabile e gli oceani
tossici. Stiamo affrontando una crisi globale di proporzioni maggiori di quelle dell’avvento dello stalinismo e del nazismo, e il contributo che
terapia e terapeuta possono dare in questa crisi è grande”.32

Curare noi stessi per curare la Terra


Che contributo può dare la psicologia o il singolo professionista nell’ambito del suo studio e della sua attività a un problema di così vasta portata
come quello ambientale? Che cosa hanno a che fare equilibrio psicologico e tasso di inquinamento dell’aria o qualità delle relazioni interpersonali
con l’etica delle proprie azioni? E ancora, cosa hanno in comune le problematiche legate a un conflitto irrisolto con una figura genitoriale e la
mancanza di sensibilità nei confronti degli altri esseri viventi? La risposta è la stessa per tutte queste domande: “Molto più di quanto sembri!”.
Quando la psicologia si occupa di qualità delle relazioni, mette sempre in evidenza che esiste una stretta correlazione tra come ci comportiamo
con noi stessi e come ci comportiamo con gli altri. Quello che in noi stessi accettiamo e gratifichiamo, ci viene facile accettarlo anche negli altri;
quello che non amiamo di noi, e reprimiamo o nascondiamo, desta in noi turbamento, malessere o irritazione quando lo vediamo espresso da altri.
È il ben noto meccanismo di difesa chiamato “proiezione”, per cui si vede in qualcun altro quanto di sé non si è ancora pronti o disposti ad
accettare. È una delle cause prime di ogni discriminazione verso i diversi – che si tratti di colore della pelle, religione, preferenze sessuali o idee
politiche – o verso coloro, per esempio, che non hanno problemi nell’esternare emozioni e desideri che magari noi coltiviamo in segreto, a volte
senza neppure esserne consapevoli. La signora per bene di una società dalla rigida moralità, considererà riprovevole la ragazza che bacia ai giardini
pubblici un ragazzo, perché questo è quello che le è sempre stato insegnato che “non si fa” e lei stessa ha dovuto reprimere ogni piacere sensuale,
prima ancora che sessuale, e quindi prova fastidio nel vedere qualcuno che non si pone lo stesso ferreo limite. Alla stessa scena, una donna che vive
più serenamente la sua sensualità reagirà con un sorriso; quello che lei si è permessa di far vivere in sé diventa la sua normalità, è accettato come
tale anche negli altri.
Esiste uno strettissimo rapporto tra la qualità delle relazioni che instauriamo con noi stessi e quelle che instauriamo con gli altri. Chi è rigido con
se stesso lo diventa anche con gli altri, chi è disonesto dà per scontato che anche gli altri lo siano, chi si apprezza trova sempre qualcosa da
apprezzare anche negli altri. La stessa regola vale anche per il comportamento nei confronti del mondo esterno e si rivela una chiave di lettura che ci
permette di capire come una cultura così improntata sul mentale abbia creato ambienti squadrati e artificiali in cui vivere e perso la capacità di
sentirsi a proprio agio negli ambienti naturali. E, viceversa, ci spiega perché sia sempre più difficile per le persone mettersi in contatto con i propri
aspetti più vitali, fisici, emotivi e anche intuitivi.
Nella misura in cui neghiamo in noi l’istintualità, i messaggi del corpo, i variopinti brividi delle emozioni, gli impalpabili tocchi delle intuizioni,
anche la wilderness, la natura selvatica, i suoi messaggi e la multiforme presenza del mondo naturale ci sono stranieri e ostili; e nella misura in cui
cresciamo lontani dalla natura, ci diventa sempre più difficile contattare quegli aspetti di noi che risuonerebbero con maggior naturalezza in un
habitat più vitale di quello urbanizzato.
Il punto focale, nella pratica ecopsicologica, è proprio l’evidenza di questa reciprocità di rapporto che permette di impegnarsi per un ambiente
più salubre ed equilibrato proprio a partire da un riequilibrio dell’ecosistema psicologico degli individui. Non è l’unica delle strategie necessarie
per risolvere i problemi attuali del nostro pianeta, ma ne rappresenta un aspetto rilevante, che oggi è più necessario che mai prendere in
considerazione.

Psicopatologia del rapporto uomo-natura


“Il fatto che siano milioni le persone che hanno lo stesso tipo di patologia non le rende per questo sane”, scrive Erich Fromm, facendoci riflettere sul
fatto che per quanto diffuso, questo tipo di atteggiamento di chiusura e insensibilità nei confronti della natura, che sfocia in sfruttamento e distruzione,
è tutt’altro che normale. Da dove viene, allora, questo distorto rapporto con l’ambiente che ci circonda, questa concezione del mondo non umano
così ostile ed estraneo da averci portato, come civiltà, ai paesaggi devastati dalle ruspe e dal cemento, alla vivisezione, agli allevamenti di massa,
alla deforestazione, all’inquinamento delle stesse acqua e aria di cui abbiamo bisogno per sopravvivere?
È da poco che si sta risvegliando, nell’ambito della professione psicoterapeutica, tale questione. La crescente follia di questo cosiddetto sviluppo
non era stata riconosciuta, al punto che nel DSM4 non esistono voci collegate a un insano rapporto con la natura, all’incapacità di provare empatia
per il mondo non umano, all’isolamento cronico a cui si è condannati in una visione del mondo antropocentrica, e alla compulsione consumistica,
come aggiunge la psicologa clinica Sarah Conn. Il tentativo di dare una risposta a questo quesito è tuttora uno dei dibattiti più vivi nell’ambito
ecopsicologico.
Se consideriamo la società industriale e capitalistica nel suo insieme, quali sono i sintomi più diffusi di questo rapporto freddo e utilitaristico nei
confronti della natura? La mancanza di rispetto, il non riconoscere a luoghi, piante, animali, la dignità e il diritto a esistere al di fuori di una logica di
sfruttamento economico, la rimozione sistematica, nella vita quotidiana e nell’ambiente urbano in particolare, di ogni elemento proveniente
dall’ambiente naturale, la negazione di ogni dipendenza dai ritmi e dai cicli della natura. “Siamo diventati autistici in relazione al mondo naturale”
dice Thomas Berry, teologo ed ecologo “come quei bambini che sembrano non percepire, non vedere, non sentire la presenza della madre, noi siamo
diventati ciechi alla presenza psichica del pianeta vivente, sordi alle sue voci e alle sue storie, che nutrivano invece i nostri antenati dell’era
preindustriale”.33
“L’intera cultura occidentale è dissociata dal substrato ecologico” dice Roszak. “Abbiamo perso il contatto con la nostra umanità essenziale”,
ribadisce Chellis Glendinning, psicoterapeuta che già nel 1994 ha sottolineato le analogie tra la dipendenza da tecnologia, così diffusa attualmente, e
altre forme di dipendenza, per esempio da alcool, fumo e droga.34
“É come se fossimo tutti vittime di una amnesia collettiva, che ci ha fatto perdere la capacità di entrare in empatia con la vita non umana e di
rispettare il mistero, ci ha tolto ogni umiltà nelle relazioni con l’infinita complessità del mondo naturale”, commenta Ralph Metzner, uno dei teorici
della psicologia verde. Di solito è un trauma che causa le amnesie, forse una catastrofe su scala planetaria avvenuta ventimila anni fa, ipotizza lo
psicoanalista Immanuel Velokowsky, un evento tale da far rinnegare ogni pretesa sicurezza e tranquillità nei confronti del pianeta sul quale viviamo e
dell’ambiente naturale. L’essere umano non ha sempre vissuto con questo atteggiamento nei confronti della natura, innumerevoli sono gli esempi di
popolazioni native che testimoniano, tuttora, una grande collaborazione e senso di compartecipazione con la natura. Non è dunque impossibile
instaurare un “modo altro” di relazionarsi con la natura.
Paul Shepard, filosofo ambientalista, nel chiedersi la ragione di questa rottura, con un rapporto più idilliaco con l’ambiente, individua il punto di
svolta nella diffusione dell’addomesticamento, quando da rispetto e partecipazione si passa a un rapporto con la natura di distacco, gestione,
controllo e, infine, dominio. E la competizione comincia a sostituire la collaborazione a tutti i livelli, anche tra individui.
Senza andare a cercare troppo lontano, uno dei concetti alla base della psicodinamica offre una chiave interessante per la comprensione di quanto
sta avvenendo su scala sociale. Cosa succede al bimbo che, in una relazione con la madre percepita come insoddisfacente, ne nega la figura,
decidendo, più o meno inconsapevolmente, di ignorarla? Per sopravvivere, psicologicamente, consolida un atteggiamento autarchico per cui nega
ogni necessità di affetto, calore e sostegno. Cresce menomato della capacità sia di dare, sia di ricevere, quanto ha negato di desiderare per non
soffrirne la mancanza. I famosi esperimenti di Bowlby sull’attaccamento dimostrano che quando non c’è totale fiducia nella figura materna, nel
bambino avviene una rimozione del bisogno che si esprime con un comportamento evitante e, crescendo, si trasforma in una incapacità di impegnarsi
emotivamente. La perdita di connessione con la madre può portare a un disagio psichico profondo, alla perdita di connessione con gli altri e anche
con se stessi. Perdendo il contatto con la madre, perdiamo il dialogo con la nostra origine, con la nostra natura più autentica, con il nostro Sé
profondo.
C’è un legame molto stretto tra le malattie dell’anima e le malattie del mondo, e la nostra società soffre dello stesso tipo di patologia di cui
soffrono gli individui che sono cresciuti negando la figura della madre. Il bisogno di sentirsi parte è un bisogno connaturato con la natura umana e la
mancanza di un legame emotivo tra gli esseri umani e Madre Terra è attualmente causa di una crisi psicologica, spirituale ed ecologica.
Non è una novità, in psicologia, che quando i bisogni di base non sono soddisfatti – tutto quanto promuove il senso di sicurezza, accettazione,
affetto e autostima – vengono compensati con sostituti fittizi: eccesso di cibo, droga, potere sugli altri, sesso compulsivo, possesso materiale,
passione smodata per le macchine, sempre pronte a obbedire a un nostro ordine. Siamo una società schizoide che ha negato Madre Terra? E che ha
quindi perso la capacità di sentirne la calda e coinvolgente presenza, portandoci a calpestarla e violentarla, apparentemente ignari che la sua
sofferenza decreta anche la nostra? Siamo forse una società in cui manca amore, fiore, frutto e, a sua volta, seme di un rapporto armonico con tutto
ciò che ci circonda?
Non sarebbe una scoperta innovativa, ma pur giungendo a una conclusione così scontata, l’intero ragionamento offre una traccia concreta su cui
lavorare per ritrovare il contatto perso tanto tempo fa. Diventa possibile l’elaborazione di strategie per riacquistare gradualmente e dolcemente
contatto con le nostre esigenze più profonde, per ampliare via via il contesto in cui queste si possono esprimere e soddisfare, sino a includere
l’esperienza di una comunicazione calda e vitale con porzioni sempre più ampie del mondo di cui facciamo parte.

L’inconscio ecologico
L’ecopsicologia allarga ulteriormente il suo campo di interesse e d’azione a un territorio meno conosciuto e condiviso, quello della psicologia
transpersonale, andando a sfidare uno dei capisaldi della psicologia: il concetto di io. La domanda è semplice, quasi ingenua, come potrebbe porla
un bambino: “Dove è il limite dell’io? Dove finisco io e dove inizia il mondo?”.
La risposta che viene più spontanea è quella più a portata di mano: “Ai confini del mio corpo, naturalmente”. Ma persino Freud è andato oltre
questo limite, riconoscendo come parte integrante dell’identità anche l’inconscio, serbatoio immenso di immagini, ricordi, desideri, pulsioni, non
facilmente localizzabile spazialmente. E se l’inconscio può ancora essere concepito come racchiuso entro la pelle di ognuno, non può più esserlo
l’inconscio collettivo messo in luce da Jung, che abbraccia nel tempo e nello spazio miti, simboli e archetipi condivisi da tutta l’umanità, che
emergono e si rivelano nei sogni e nell’arte.
In psicologia transpersonale il senso di identità si allarga ulteriormente, includendo sfere più vaste di realtà condivisa. L’incontro più autentico
con l’altro, che si sperimenta per esempio con l’innamoramento, già allarga in modo improvviso il limite di ciò che di solito si chiama “io”, ma il
percorso può proseguire con un progressivo allargamento di identità, sino a riconoscersi parte di una comunità, di una nazione, dell’umanità,
dell’intero pianeta. Il percorso continua ancora e, ampliando il proprio senso di identità a tutto l’universo, si raggiunge quello che la mistica
orientale chiama coscienza cosmica. Pur essendo, questa, una meta potenzialmente raggiungibile da ognuno di noi – e in questo consiste la novità
dell’approccio transpersonale – qui ci fermiamo a prendere in esame lo stadio “pianeta Terra”, l’ampliamento del proprio senso di identità sino al
punto in cui si diventa capaci di riconoscersi parte dell’intero pianeta.
Uno degli obiettivi dell’ecopsicologia è di risvegliare quello che Roszak chiama l’inconscio ecologico, rifacendosi ad Arne Naess, il padre
dell’ecologia profonda, ma anche a Groddeck, che aveva chiamato Es le profondità dell’inconscio condivise con la vita stessa, “la forza ignota e
incontrollabile da cui veniamo vissuti”. Qui risiedono le radici più profonde della natura umana, così profonde che coinvolgono le origini della vita
sulla Terra, e ridefiniscono completamente i limiti dell’identità personale. Così Roszak lo definisce: “L’inconscio ecologico, al suo livello più
profondo, racchiude l’intera intelligenza ecologica di tutte le specie, la fonte da cui è scaturita la cultura, come riflesso consapevole di una
emergente mente della natura. La sopravvivenza della vita e di tutte le specie non sarebbe stata possibile senza un tale sistema di saggezza
autoregolantesi. Era lì per guidare questo sviluppo attraverso tentativi ed errori, selezione ed estinzione, così come era lì nell’istante del big bang
per condensare i primi lampi di radiazione in materia solida. È questo l’Es a cui l’ego si deve collegare se vogliamo diventare una specie sana
capace di grandi avventure evolutive”.35
Nelle sue linee guida per lo sviluppo dell’ecopsicologia, Roszak insiste molto su questo concetto. L’inconscio ecologico è il nucleo della mente
ed è solo la sua repressione che sta rendendo possibile l’attuale follia insita nello sviluppo della civiltà industriale. Così come il compito di ogni
terapia è quella di curare l’alienazione dell’individuo nelle sue relazioni interpersonali, riportando alla coscienza materiale rimosso nell’inconscio
personale, così l’ecopsicologia cura l’alienazione tra individuo e ambiente naturale risvegliando il senso di reciprocità connaturato all’inconscio
ecologico. Si sviluppa così un senso di responsabilità etica nei confronti del pianeta, riflesso di quella nei confronti delle altre persone, che può
essere applicato in ambito sociale e politico.
Se la Terra è il nostro inconscio, allora gli esseri umani sono a loro volta la coscienza della Terra, afferma Miriam Mc Gillis, suora domenicana
che porta avanti in ambito ecclesiastico, nel New Jersey, un dibattito sulle correlazioni esistenti tra la perdita di connessione con la natura e quella
con la dimensione spirituale: “L’individuo per cui la Terra diventa un essere spiritualmente consapevole, si risveglia a una più alta consapevolezza,
diventa più cosciente di sé e capace di autodeterminarsi. Nell’umano la Terra comincia a riflettere su se stessa. Nella nostra più profonda
definizione noi umani siamo la Terra. Conscia”.36
Ecco che l’antica socratica esortazione “Uomo conosci te stesso” e l’invito ripetuto da tanti maestri passati e presenti, acquista così una
dimensione nuova. C’è molto da conoscere di sé, cioè, “c’è più sé da conoscere di quanto la nostra storia personale riveli”, scherza Roszak. La vita
umana individuale improvvisamente si trova proiettata in una dimensione universale, non solo nello spazio ma anche nel tempo, e la necessità di
provvedere alla salute ambientale non diventa più soltanto una questione di correttezza o di valori etici, ma di responsabilità esistenziale,
autocoscienza e sopravvivenza.

Occuparsi del Pianeta, occuparsi di sé


“Ai suoi livelli più profondi, la psiche è legata alla Terra”,37 è il messaggio forte di Theodore Roszak. L’ecopsicologia sostiene che esiste
“un’interazione sinergica tra benessere planetario e personale”38 e che non potremo mai avere un vero benessere su un pianeta malato. L’impegno per
la salute individuale passa necessariamente attraverso l’impegno per la salute, a tutti i livelli, del nostro pianeta. “Tutto ciò che accade alla Terra,
accade ai figli e alle figlie della Terra.” Rafforza il concetto, la saggezza dei nativi americani. “L’uomo non tesse la trama della vita; in essa egli è
soltanto un filo. Qualsiasi cosa fa alla trama, l’uomo la fa a se stesso”.39
Il momento in cui i limiti dell’identità umana vengono ampliati sino ai limiti della Terra, ci sentiamo chiamati in causa in modo diverso, in modo
nuovo: il pianeta sta male, l’ecosistema è in crisi, lo sfruttamento delle risorse è squilibrato… dobbiamo fare qualcosa, perché è di noi che si tratta!
Questa è la forza più grande dell’ecopsicologia, far emergere la consapevolezza che, tra noi e il Pianeta, c’è la stessa relazione che c’è tra una
foglia e l’albero di cui fa parte, tra un’onda e l’oceano sulla cui superficie corre, tra una cellula e il corpo intero a cui appartiene. Dobbiamo
svegliarci e farlo rapidamente. Dobbiamo aprire gli occhi su un nuovo, prima impensabile, livello di identità che ci vede parte integrante del mondo
in cui viviamo, che ci vede tutt’uno con questo mondo. È una rivoluzione copernicana, è un punto di vista ardito, ma molti sono gli spunti e gli indizi
che sembrano confermare questo nuovo orizzonte, questa ipotesi, forse l’unica in grado di risvegliare un impegno concreto ed efficace nei confronti
della Terra.
C’è tanto buon lavoro per tutti. C’è lavoro da fare per creare le condizioni che permettano alle persone di risvegliarsi a se stesse e di manifestare
e far crescere quanto di meglio scoprono di essere, per far fiorire talenti e orientarli verso obiettivi costruttivi e utili anche alla comunità. C’è tanto
lavoro anche nella particolare contingenza in cui stiamo vivendo, con la problematica ambientale così attuale e pressante.
Gli scienziati ci hanno abbondantemente avvisato che quando verrà fatto, o non verrà fatto, nella prossima manciata di anni, sarà decisivo per
l’ecosistema terrestre. Ci sono trasformazioni che avvengono gradualmente ma altre, superata una soglia critica, sono repentine e irreparabili.
Ormai, sappiamo tutti di avere una spada di Damocle appesa sopra la nostra testa e conosciamo l’elenco delle questioni in sospeso: eccessiva
produzione di anidride carbonica, taglio delle foreste, riscaldamento globale, smaltimento dei rifiuti tossici e utilizzo di pesticidi e concimi chimici,
crescente pressione demografica nelle aree urbane, inquinamento industriale, per non parlare della manipolazione genetica, le cui conseguenze
ancora non sono state valutate a fondo…
Cosa possiamo fare, come singoli, di fronte a processi così grandi e così fuori dalla portata e dal controllo individuale? Molto. O, almeno, molto
più di quanto comunemente si pensi. Possiamo cominciare con l’interessarci di più a quanto sta succedendo, prima di tutto, per sentirci coinvolti e
partecipi. Possiamo contribuire al cambiamento di rotta necessario, nella gestione della nostra attività sul Pianeta, con piccoli gesti della vita
quotidiana. Rappresentiamo gocce nel mare, è vero, ma il mare è fatto di innumerevoli gocce: raccolta differenziata dei rifiuti, risparmio di acqua,
elettricità, benzina e qualsiasi altra risorsa, aiuto ai propri simili meno privilegiati, consumo consapevole e intelligente – privilegiando prodotti
locali, sani, etici – monitoraggio della propria impronta ecologica individuale e familiare, per poi arrivare ad azioni ancora più incisive, scelte
politiche locali mirate, pressione sui governi per l’attuazione di strategie più ecosostenibili. Ma per molti, ancora – giustamente – non basta.
Impegnandoci di più, possiamo sostenere movimenti e associazioni che operano concretamente in strategie di protezione ambientale, possiamo
dare un contributo economico a realtà che esercitano questa azione per noi, se non è la nostra vocazione quella di solcare i mari con la Rainbow
warrior, organizzare flash mob – eventi in luoghi pubblici organizzati a sorpresa – o parlare ai più giovani. Possiamo aderire a progetti umanitari e
offrire il nostro tempo e opera in un volontariato impegnato.
Se abbiamo modo di essere coinvolti in processi decisionali a più alto livello – politica, gestione aziendale, comunicazione – possiamo far
sentire la nostra voce e direzionare scelte in direzioni più sostenibili, più etiche, più ecologiche.
Se abbiamo modo di lavorare nella ricerca, nella sperimentazione, nella produzione, possiamo insistere in direzioni volte all’elaborazione di
strategie alternative nella ricerca di nuove fonti energetiche, modalità non inquinanti di smaltimento dei rifiuti, riciclo, gestione del territorio.
Le possibilità sono tantissime. Per chi sta cominciando a svegliarsi e desidera “fare qualcosa” c’è un livello d’azione nuovo, e ancora poco
diffuso, che si sta aprendo: occuparsi prima di tutto dei propri equilibri ecologici interni. Cosa vuol dire? Che il contributo più grande, immediato e
potente, che possiamo dare nel qui e ora, tutti noi – senza eccezione – è quello di impegnarci in prima persona a rispettare, con noi stessi e con gli
altri, quei valori di reciprocità, rispetto, collaborazione, gratitudine, bellezza, che vorremmo alla base di un buon rapporto con l’ambiente.
Troppe rivoluzioni sono state fatte sulla base di grandi belle idee che, nella pratica, non erano capaci di superare l’abisso tra il dire e il fare.
Occorrono valori chiari, valori capaci di radicarsi e di esplicarsi nei piccoli gesti della vita quotidiana, nelle interazioni con le persone che
abbiamo più vicino, nelle scelte che effettuiamo non solo nelle grandi, ma anche nelle piccole cose. Questo è il contributo più efficace e concreto
che possiamo dare perché si tradurrà a sua volta in azioni e realizzazioni concrete, rispettose dell’individualità e della vita.
L’ecopsicologia lavora molto sulla crescita personale, con l’obiettivo di innescare così un processo di trasformazione che parte dai singoli
individui e influenza anche gli eventi su scala planetaria. L’impegno per curare la Terra e l’impegno per curare noi stessi diventano così due facce
della stessa medaglia, due processi che possono e devono essere attivati contemporaneamente.
L’ecopsicologia non trascura l’azione, anzi, sostiene tutte quelle iniziative che agiscono su scala locale e che quindi consentono di coltivare
relazioni di qualità e di nutrire l’individuo e la collettività. L’ecopsicologia non si professa anti-industriale ma post-industriale,40 ha una grande
fiducia nella tecnologia e nelle sue possibilità di aiutarci a risolvere i problemi attuali della sostenibilità; a condizione, naturalmente, di essere usata
con intelligenza e consapevolezza.
Chi lavora nella relazione di aiuto, e condivide sensibilità e attenzione alla problematiche ambientali del nostro pianeta si trova ad avere una
posizione privilegiata per favorire il processo di crescita personale e risvegliare una maggiore consapevolezza nei confronti delle problematiche
globali. Allo stesso tempo, proprio riportando l’attenzione verso piani di realtà più vasti, può aiutare le persone a relativizzare le proprie
problematiche personali.
Sono questi i due poli tra i quali si esplica la particolarità dell’approccio ecopsicologico: l’attenzione si focalizza sia sulla contingenza storico-
culturale in cui ci troviamo, sul piano macro, sia sulla necessità di una maturazione a livello personale, sociale e umano, sul piano micro. C’è un
salto di qualità che i tempi richiedono: diventare terrestri consapevoli, cittadini attivi del pianeta Terra.

24 Organizzato da Nives Riva e Marcella Danon, in collaborazione con il Comune di Riomaggiore.


25 Il primo “Laboratorio di ecologia affettiva” in Europa nasce nel 2012 all’Università della Valle d’Aosta, ideato dall’ecologo Giuseppe Barbiero, autore di Ecologia affettiva, Mondadori, 2017.
26 State of the World, Edizioni Ambiente, Milano.
27 Ralph Metzner, “The psychopathology of Human-Nature relationship”, in Ecopsychology, Sierra Club, 1995.
28 Daniel Goleman, Intelligenza ecologica, Rizzoli, Milano, 2009.
29 James Hillmann, Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo, 2002, p. 52.
30 Secondo alcune stime riportate dal biologo Edward Wilson dell’Università di Harvard; da Lo stato del mondo: tutto esaurito di Gianfranco Bologna. Introduzione all’edizione italiana di State of the
World 1999 di Lester R. Brown ed altri (Worldwatch Institute), Edizioni Ambiente, Milano.
31 Una tra le innumerevoli fonti su questo tema: Gregory N. Bratman et al., “Nature and mental health: An ecosystem service perspective”, Science Advances, Vol. 5, no. 7, 24 July 2019.
32 Terrence O’Connor, “Therapy for a Dying Planet”, in Theodore Roszak, Mary Gomes, Allen Kanner, Ecopsychology, Sierra Club books, 1995, p. 150.
33 Thomas Berry, “The Ecozoic era” Eleventh annual E.F. Schumacher Lectures, 1991. Citato in Metzner, Gren Psychology, 1999, p. 88.
34 Chellis Glendinning, My name is Chellis and I’m in Recovery from Western Civilization, Shambala publications, Boston, 1994.
35 Theodore Roszak, The Voice of the Earth – An Exploration of Ecopsychology, Phanes Press, MI, 1992, pp. 304-305.
36 Miriam Theresa Mc Gillis, “The fate of the Earth”, in The soul of Nature, Michael Tobias and Georgianne Cowan, Continuum, New York, 1994.
37 Theodore Roszak, Mary Gomes, Allen Kanner, Ecopsychology, Sierra Club Books, 1995, p. 5.
38 Theodore Roszak, The Voice of the Earth – An Exploration of Ecopsychology, Phanes Press, MI, 1992, p. 321. Vedi ottavo principio dell’ecopsicologia, nell’Appendice.
39 È la nota risposta del capo indiano Sealth (Capo Seattle, nella sua dizione anglicizzata), nel 1854, al presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce che si offriva di acquistare una parte del territorio
indiano.
40 Settimo principio dell’ecopsicologia. Vedi Appendici.
Capitolo 3

IL LIMITE TRA L’IO E IL MONDO

“Se non io, chi per me. Se non ora, quando? E, se solo per me, chi sono io?”
Rabbi Hillel

La psicologia apre le porte alla spiritualità


La situazione planetaria contingente, sull’orlo di una crisi ambientale prima ancora che economica o politica, lancia di fatto una sfida evolutiva, per
la nostra stessa sopravvivenza: per poter riconoscere e mettere in atto la nostra responsabilità nei confronti del mondo, dobbiamo prima diventare
consapevoli della nostra più profonda natura, dobbiamo ampliare i limiti di quello che siamo soliti chiamare “io”.
Il processo di crescita personale implica non soltanto un ampliamento dei punti di vista sulla realtà esterna, per acquisirne una conoscenza
sempre più ampia e ricca di sfaccettature, ma anche sulla realtà interna, allargando l’idea e la percezione che si ha di se stessi, includendo ombre e
luci del proprio mondo interiore.
Siamo tutti “molto più” di quanto pensiamo di essere. La nostra psiche ha una sua storia, prima di tutto, e porta i segni della sua evoluzione così
come anche il corpo fisico ancora reca tracce di passati stadi evolutivi. Quando cominciamo a farci attenzione, noteremo la presenza, in noi, di tutto
un bagaglio di istinti e automatismi che si addicevano meglio alla vita nelle caverne che a quella contemporanea.
L’inconscio, nella storia della psicologia contemporanea, si allarga sempre di più. Oltre alle pulsioni e ai contenuti rimossi o dimenticati,
sottolineati da Freud, diventa – con Jung – il depositario della memoria esperienziale di tutta l’umanità. E poi si espande verso l’alto, per includere i
valori e le aspirazioni più belle di cui è capace la natura umana: la dimensione noetica di Frankl, il supercosciente di Assagioli, la dimensione
transpersonale di Maslow e Ken Wilber. Si espande ancora in tutte le direzioni e, come Es,41 abbraccia i processi psichici relativi alle attività
organiche e coinvolge la vita stessa, con tutte le sue leggi. Diventa infine, in una terminologia più recente, inconscio ecologico – di cui parlano
l’ecologia profonda e l’ecopsicologia – la consapevolezza della profonda unità che ci lega al resto del Creato.
La crescita personale diventa così un’apertura sul mondo interiore in tutte le sue direzioni: verso il basso, orizzontale e verso l’alto. Se
l’esplorazione dell’inconscio è una prassi ormai conosciuta e accettata quando va in profondità, verso il bagaglio istintuale e il ricordo rimosso del
passato, oppure abbracciando miti e simboli di altre culture, già l’invito all’esplorazione delle sue altezze è per molti una novità. Così come lo è
l’invito a riconoscere nel mondo esterno una componente fondamentale di sé. La psicologia transpersonale nasce prima dell’ecopsicologia,
cominciamo quindi a vedere più da vicino questo filone di pensiero.
Una pietra miliare verso il consolidamento di un nuovo umanesimo è data dai successivi sviluppi della psicologia che, con il contributo di
ricercatori sensibili alla sfera dei valori, aspirazioni e aneliti più alti della natura umana, hanno aperto le porte allo studio di queste dimensioni. “Si
può e si deve costituire una psicologia dell’alto, che sia insieme scientifica e spirituale. Soltanto in questo modo si potrà giungere a conoscere
l’animo umano in tutti i suoi aspetti”,42 dice Roberto Assagioli, tra i padri di questa nuova corrente, la psicologia transpersonale.
Come suggerisce il termine stesso, il transpersonale è quel campo che oltrepassa i limiti della dimensione personale. Va oltre le preoccupazioni e
gli obiettivi della personalità, per includere ambiti meno frequentati della coscienza: sogno, trance, esperienza religiosa, esperienza mistica, anelito
spirituale. Transpersonale è quella dimensione, solitamente chiamata spirituale, considerata prerogativa di santi, eroi e persone particolarmente
predisposte, che ora viene riconosciuta come parte integrante della natura dell’essere umano, potenzialità insita in ogni singolo individuo.
È la prima volta che la spiritualità diventa oggetto di studio e di attenzione da parte della psicologia. Non più sublimazione dell’istinto sessuale,
come era stata considerata da Freud, né oppio dei popoli, secondo la definizione di Marx, né monopolio delle religioni, ma come dimensione
connaturata all’essere umano.
La negazione di questa nostra componente spontanea è nociva all’equilibrio della personalità. Viktor Frankl, definendo le problematiche
psicologiche contemporanee, parla di “repressione del sublime” e Jung, nelle sue memorie, parla del malessere a cui vanno incontro tutte quelle
persone che non si aprono a una percezione più ampia di sé e della vita: “Ho visto persone diventare nevrotiche per essersi appagate di risposte
inadeguate o sbagliate ai problemi della vita. Cercano la posizione, il matrimonio, la reputazione, il successo esteriore o il denaro e rimangono
infelici e nevrotiche anche quando hanno ottenuto ciò che cercavano. Persone del genere sono di solito confinate in un orizzonte spirituale troppo
angusto. La loro vita non ha un contenuto sufficiente, non ha significato. Se riescono ad acquistare una personalità più ampia, generalmente la loro
nevrosi scompare”.43
La psicologia transpersonale allarga immensamente il campo di attenzione sull’essere umano e permette di dare alla dimensione spirituale una
collocazione più accessibile nell’ambito della vita quotidiana. Ne facciamo l’esperienza più spesso di quanto non si pensi, ma la sua traccia delicata
si perde nel frastuono degli altri stimoli. Il risveglio spirituale diventa il risveglio della natura umana, un percorso di progressivo allargamento della
coscienza, di apertura all’identificazione con porzioni sempre più vaste di realtà.
Una grande apertura culturale ha preso l’avvio dall’incontro tra culture diverse, tra Oriente e Occidente. Ci stiamo accorgendo che l’immagine
che abbiamo, ognuno di noi, coltivato o imparato di Dio non è l’unica: al di là delle diversità di rituale e contesto culturale, quando dell’alto
parliamo e all’alto ci rivolgiamo, diciamo tutti sostanzialmente la stessa cosa.
Il sublime, represso nella cultura contemporanea, sta reclamando il suo spazio traboccando dai contenitori tracciati dalle religioni tradizionali. Si
sta diffondendo un atteggiamento nuovo nei confronti della spiritualità, vissuta non più come ritualità esteriore, legata a una religione o a un’altra, ma
come evento interiore che connette con una dimensione superiore sempre a disposizione di chiunque la cerchi, senta e riconosca.
La spinta emergente è proprio verso il re-ligere, “riconnettere”. Molti trovano più congeniale esprimere questa spinta nell’ambito più noto, nella
religione in cui sono cresciuti; altri si sentono più attratti da diverse ritualità e linguaggi, con cui descrivere e celebrare il divino. L’importante, in
questa più ampia scelta, è fare la dovuta attenzione per evitare ogni cammino che divide invece che unire, che allontana dagli altri invece che
avvicinare, che impone un’autorità esterna invece di far crescere l’autonomia individuale.
Nella misura in cui diventerà chiaro a tutti – e c’è ancora molto lavoro da fare per arrivare a questa consapevolezza – che “la cima della
montagna è una” e innumerevoli sono le strade per salirvi, non esisteranno più conflitti e guerre di religione, ma solo occasioni di scambio e
condivisione sulle reciproche esperienze e convinzioni. Tra i nativi americani – racconta Ed McGaa Eagle Man, un avvocato Sioux Oglala dei nostri
giorni – le percezione e concezione del Grande Mistero è molto personale ed è oggetto di rispettosa condivisione. A nessuno verrebbe mai in mente
di contraddire la visione dell’altro, perché è evidente che si tratta di un evento privato e il parlarne insieme è vissuto come dono e arricchimento
reciproco.44
Oltre i confini
La psicologia non si sostituisce certo alla religione. Semplicemente, occupandosi dell’uomo e del suo mondo interiore, si è imbattuta
nell’osservazione e nello studio di dimensioni dell’io che esulano da quella che viene chiamata consapevolezza ordinaria. “In realtà, giorno per
giorno noi viviamo ben oltre i confini della nostra coscienza” scrive Jung “la vita dell’inconscio procede con noi senza che ne siamo consapevoli.
Quanto più domina la ragione critica, tanto più la vita si impoverisce; ma quanto più dell’inconscio e del mito siamo capaci di portare alla
coscienza, tanto più rendiamo completa la nostra vita”.45 L’inconscio è molto di più della cantina in cui sono rimaste le cose che non abbiamo voluto
riconoscere, è tutto ciò che di noi non sappiamo: include demoni, tanto quanto angeli, racconta del passato e ha in sé i semi del futuro, è il territorio
oltre le colonne d’Ercole, oltre quello che crediamo di essere.
Dalla psicologia del profondo in poi, l’invito a fare luce sull’inconscio si è fatto più incalzante. Ha cominciato a essere necessario allenare
l’individuo a osservarsi, ascoltarsi, non lasciarsi trascinare passivamente nell’azione, ma coltivare quella frazione di secondo di presenza a se
stesso da cui poter “agire” invece che “reagire” agli stimoli. Un allenamento a quella che oggi viene chiamata centratura, consapevolezza,
mindfulness.
A partire dal suo baricentro interiore, l’essere umano può abbracciare porzioni sempre più vaste di realtà interiore e allargare gli orizzonti della
realtà esteriore. Ken Wilber, uno dei più noti rappresentanti della psicologia transpersonale contemporanea, descrive le diverse tappe di questo
percorso, di ricerca e realizzazione interiore, definendo i diversi livelli di identità esistenti.46
Il punto di partenza – il “livello della persona” come lo definisce Wilber – è uno stato di coscienza in cui si ha solo una percezione parziale di sé,
legata a una immagine costituitasi nel tempo e “adottata” come autoimmagine. Persona, in latino, vuol dire infatti maschera: l’individuo si identifica
solitamente con gli aspetti della sua psiche che gli piacciono di più, o che si è abituato a frequentare e a manifestare. Ma c’è un vasto mondo
interiore ancora da scoprire. Ci sono pensieri, emozioni, sentimenti, aspetti di personalità ancora sconosciuti: il cosiddetto “lato ombra”, che non è
un lato oscuro, ma semplicemente un lato su cui non è ancora stata fatta luce.
Questo è lo stadio in cui si trova la maggior parte delle persone, soprattutto se non hanno mai intrapreso un percorso di seria introspezione. Le
ripercussioni di questa limitata consapevolezza, sulla qualità della vita quotidiana, sono molteplici. Prima tra tutte, la difficoltà di rapporto
interpersonale, reso confuso e complicato dalle inevitabili proiezioni che entrano in gioco: tutto quanto di noi stessi non riconosciamo e non
accettiamo, infatti – nel bene e nel male – abbiamo la tendenza a vederlo riflesso negli altri. Fino a quando attuiamo proiezioni sulle persone che ci
circondano, non potremo avere con esse un rapporto autentico e appagante, perché non sapremo vederle per ciò che sono realmente. Dobbiamo
prima riconoscere che cosa, di nostro, stiamo rispecchiando in loro, per distinguere finalmente tra fantasia e realtà ed entrare davvero in relazione
autentica.
Il passo successivo, è la conquista di un atteggiamento di attenzione e accettazione completa di ciò che si è: il “livello dell’ego”, nella
terminologia di Wilber. Si diventa capaci di ritirare le proiezioni e ogni forte emozione nei confronti di un’altra persona ed è, prima di tutto,
opportunità di crescita interiore, di arricchimento della conoscenza di sé. Il piacere di essere se stessi, in tutte le molteplici sfumature e inevitabili
contraddizioni, diventa più forte del bisogno di conformarsi all’aspettativa altrui. Il rapporto con gli altri diventa più fluido, più facile, più autentico.
Il percorso di espansione della consapevolezza personale può ora espandersi al di là del limite impalpabile della dimensione psichica e include
finalmente la fisicità: il corpo diventa espressione di ciò che chiamiamo “io”. Includere il corpo nella propria autoimmagine è una conquista
tutt’altro che scontata, è un passo concreto nel ritrovare l’unitarietà del sentire, fondamentale nella cultura attuale, caratterizzata da una scissione
mente-corpo. Riconoscere che, non soltanto “ho un corpo”, ma “sono – anche – un corpo” è un primo passo concreto nel farsi carico della
responsabilità sugli effetti degli atteggiamenti interiori anche sulla dimensione materiale: la salute fisica è strettamente connessa all’equilibrio
psicologico e viceversa. La medicina contemporanea, attraverso gli studi sulle interazioni tra sistema nervoso, endocrinologico e immunitario, lo sta
ormai confermando.
Quando la linea di confine si espande oltre i limiti epidermici dell’organismo, oltre “l’ego incapsulato nella pelle”,47 si entra in quella che in
psicologia viene definita dimensione transpersonale. Include potenzialità sopite in ogni essere umano: alti valori, ricerca del senso della vita, sfera
etica o noetica, impulso verso la trascendenza e crescita spirituale, percezioni extrasensoriali, capacità di sperimentare stati non ordinari di
coscienza. Questo è il campo di ricerca e di azione della psicologia transpersonale, chiamata “quarta forza della psicologia”, che prende in
considerazione quanto non approfondito dalle precedenti psicologie, più incentrate sullo sviluppo personale dell’individuo, sui suoi ruoli sociali e
sullo stato di coscienza ordinaria. Vengono finalmente riconosciute e studiate esperienze come meditazione, estasi, altruismo, amore, compassione,
illuminazione, compartecipazione mistica, fenomeni psichici paranormali, trance, sogni lucidi, riti di altre culture e altre psicologie – in
collaborazione con l’etnopsichiatria – e potere della preghiera e dell’intenzione.
Wilber così descrive i campi d’azione di diverse forze della psicologia,48 ognuna attiva a un diverso livello.
• La psicoanalisi lavora per far crescere le persone dal livello di persona a quello di ego, da una percezione parziale della propria vita psichica a
una visione più completa; accompagna nel processo di recupero di parti di sé perse o dimenticate e favorisce il consolidamento di un’armonica
funzionalità psichica.
• La psicologia umanistica continua il percorso, accompagnando l’individuo dal livello di ego a quello di organismo; include un lavoro sul corpo e
una valorizzazione delle potenzialità di libertà, creatività e responsabilità.
• La psicologia transpersonale oltrepassa il confine della fisicità ed esplora l’impalpabile dimensione legata a valori, aneliti, spinte idealistiche e
tensione verso l’Assoluto; pone l’individuo in relazione con un senso dell’esistenza più alto, aiutandolo a trovare una collocazione per i suoi
talenti e capacità anche al servizio degli altri.
L’espansione della propria identità, di ciò che è sentito essere “io”, può oltrepassare il confine della dimensione individuale personale, per
abbracciare porzioni sempre più vaste di realtà. L’amore, il senso di appartenenza e il desiderio di sentirsi utili può espandersi oltre la sfera umana
e includere tutto quanto ci circonda, l’intero pianeta. È qui che si colloca l’ecopsicologia, come un ulteriore ampliamento del campo di ricerca della
psicologia transpersonale, come una esplorazione di quel livello di coscienza che la filosofia naturale medioevale chiamava dell’unus mundus,
riprendendo la visione dell’ermetismo egiziano. Nell’Asclepius – uno degli antichi testi raccolti nel Corpus Hermeticum – si parla di una
sympatheia universale che lega misteriosamente tutti gli elementi del cosmo inteso come un tutto unico in cui l’uomo stesso è inserito profondamente
e armonicamente. All’uomo viene riconosciuto un ruolo intermedio tra gli dei e il mondo e gli viene affidato il compito di “occuparsi della Terra”.
Huxley nella sua Filosofia perenne49 mostra come diverse tradizioni e maestri, sia orientali sia occidentali, sostengono tutti la stessa cosa, che il
mondo fenomenico della materia e della coscienza individuale sono solo la punta dell’iceberg di una realtà ben più vasta di quanto possiamo
immaginare. L’espansione di coscienza del singolo individuo, potenzialmente, può quindi proseguire ancora oltre, sino ad arrivare a includere
l’intero universo. Annidato nei meandri più profondi del nostro essere – scrive Wilber – si trova un sé transpersonale, un sé che trascende la nostra
individualità e ci collega a un mondo al di là del tempo e dello spazio convenzionali.50 Connettersi con questo livello di coscienza è quello che le
filosofie orientali chiamano risveglio, illuminazione, coscienza cosmica, samadhi, satori. Questo, un giorno, sarà il punto di partenza di una
cosmopsicologia ancora da inventare, che aiuterà l’essere umano a riorganizzare tutta la sua vita quotidiana in base alla consapevolezza di essere
parte non più soltanto di un pianeta ma di un immenso universo.

Il sentimento oceanico
Se il limite tra l’io e il mondo, ai livelli più sottili, si estende sino a coinvolgere anche le stelle e gli oceani, dove finisco io e dove inizia il resto del
mondo? E, sostanzialmente, “chi sono io?”. Cercare la risposta con la mente, dicono i maestri zen, è come cercare di sollevarsi tirandosi per i lacci
delle scarpe, perché quello “che siamo” è oltre la mente e non sarà col pensiero che potremo comprenderlo e abbracciarlo.
Risposte soddisfacenti arrivano, a volte inaspettatamente, proprio in quei momenti in cui la mente razionale è distratta o silenziosa. Arrivano con
l’estro creativo, nel linguaggio della poesia, dell’immagine, del movimento o della musica; arrivano nello stato di ebbrezza, nel sogno, nel trasporto
religioso o anche in quello d’amore, arrivano nella contemplazione della natura. Davanti a un cielo stellato, a un mare in burrasca, a una foresta
sterminata, è facile provare una profonda commozione e sentire una profonda compartecipazione con tutto ciò che esiste. Momenti di repentina
apertura spirituale, in cui si è toccati dall’incanto del sublime: un’esperienza alla portata di tutti, molto più diffusa di quanto non si creda, ma di cui
non si parla al bar con gli amici.
Sono esperienze spesso brevi, improvvise e toccanti; Maslow le definisce “esperienze delle vette” paragonandole a viaggi in elicottero sulla
cima della montagna. Per sua natura, è un viaggio di breve durata e si conclude necessariamente con un ritorno a valle; ma lascia una forte nostalgia
per i più vasti spazi intravisti e nutre la voglia di intraprendere, con le proprie forze, la scalata della montagna. “Sentimento oceanico” è la
definizione poetica che ne dà Romain Rolland, premio Nobel per la letteratura nel 1915. Di questo tipo di esperienze interiori, inspiegabili in
termini psicologici ai suoi tempi, ne parla a lungo con Freud, nella corrispondenza che intrattiene verso gli anni trenta, sostenendo che l’individuo
sperimenta anche stati di coscienza che oltrepassano i limiti di quella ordinaria.
La natura è spesso teatro di esperienze delle vette. Natura e spiritualità sono associate e non solo perché per millenni l’uomo ha cercato e trovato
Dio nella natura, ma perché negli spazi aperti, lontano dalle distrazioni dell’attività umana, qualche cosa nel profondo dell’animo umano sembra
risuonare e risvegliarsi. Si dissolve, momentaneamente, quella che i buddisti chiamano “l’illusione di essere un io separato dal resto”. Bellezza,
perfezione, intrinseca saggezza, sono tutti elementi della natura che ci parlano, ci lasciano senza fiato, ci suggeriscono verità che afferriamo per
qualche istante… e si dissolvono poco dopo, come nebbia al sole, lasciando però un piacevole ricordo, una sensazione di pienezza che, pur se
appena assaporata, non verrà mai dimenticata. Chi prova queste forti esperienze, alla natura torna con maggior frequenza e cambia radicalmente il
suo atteggiamento nei confronti della vita stessa.
È stato così per Henry David Thoreau, uno dei grandi padri del trascendentalismo americano, che ha vissuto per alcuni anni in completa
solitudine in un capanno immerso nella natura, costruito con le sue mani, per “cogliere il fiore del momento presente”. Teorico della disobbedienza
civile e della resistenza passiva, Thoreau è il sostenitore di una concezione della vita come unicum, come rete di reciproche relazioni. Walden o la
vita nei boschi è la sua opera più famosa e amata dai pacifisti di ogni tendenza, dagli alfieri dell’ecologia e della non violenza.
E anche per John Muir, a cui si deve la creazione dei primi parchi nazionali, fondatore e primo presidente del Sierra Club di San Francisco, oggi
tra le più attive istituzioni americane per la conservazione della natura e la difesa dell’ambiente. Nel suo diario si legge: “Quanta forza in questa
bellezza! Colmo d’ammirazione, sarei pronto ad abbandonare tutto per lei. Grato, infinito lavoro mi sarebbe allora decifrare le forze che ne hanno
forgiato i lineamenti, le rocce, le piante, gli animali, l’avvicendarsi glorioso delle stagioni”.51
E per Arne Naess, il padre dell’ecologia profonda, che alternava periodi di attività nei grandi centri culturali a periodi di ritiro, in compagnia
della moglie, in una capanna su un’isola montuosa della Norvegia, con sempre davanti a sé l’immensità del cielo, della montagna e del mare. “Mi
sento libero quando sono in montagna. La montagna è benevola, è lì da 100 milioni di anni, è saggia”,52 spiegava.
E per Gary Snyder, poeta della beat generation che ha sviluppato una sua poetica della wilderness in cui si incontrano e fondono ecologia
profonda, cultura nativa americana e buddismo zen. Il suo messaggio più recente è vivere come parte della delicata relazione che unisce tutte le cose
viventi e non: “Ciascun essere vivente è un vortice nel grande flusso delle cose, una turbolenza superficiale, un ‘canto’. Sotto altri aspetti anche la
Terra e il pianeta stesso sono entità viventi”.53
E per tanti altri che attraverso la natura hanno sentito e sentono il richiamo di qualche cosa di inestimabilmente vero e importante.
Sono maestri di contatto con la natura i nativi americani: “La prima pace è quella che si manifesta nell’anima degli uomini quando prendono
coscienza dei legami che li uniscono all’universo e a tutti i suoi poteri”,54 e ancora “Va’ e vivi con gli alberi e gli uccelli e le bestie e i pesci e
impara a rispettarli come tuoi fratelli”.55
E lo sono i maestri zen giapponesi, per cui la vita stessa era poesia e l’ascesi spirituale era ricercata nel lasciarsi compenetrare dalla natura e
diventare tutt’uno con essa. “Impara dai pini. Impara dai bambù”, ha lasciato detto Matsuo Basho. La sua era una ricerca dell’esperienza diretta
uomo-natura, in uno stile di scrittura che descriveva l’essenza di un’impressione: “Nel vecchio stagno / una rana si tuffa. / Il rumore dell’acqua”.56
“Dopo l’esperienza della conoscenza di sé, la contemplazione delle creature è la prima nell’ordine di questo cammino spirituale a favorire la
conoscenza di Dio”,57 ha detto Giovanni della Croce, mistico spagnolo di grande sensibilità e intuizione, che aveva instaurato un suo dialogo
personale con Dio.
Il Buddha consigliava ai suoi discepoli di frequentare gli ambienti naturali per dedicarsi alla meditazione58 e non basterebbe un’intera
enciclopedia per riportare frasi, esperienze e testimonianza dello stretto legame riscontrabile tra natura e spiritualità, a cui vanno sicuramente
aggiunte anche le proprie esperienze personali.
“È necessario promuovere un nuovo ambientalismo dello spirito”,59 scrive Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti, sintetizzando l’invito a
ricollegare l’essere umano alle sue radici e alle sue vette.

Guardare verso l’alto


L’essere umano non è né buono né cattivo, “è” quello che crede o decide di essere, oppure quello che gli altri gli dicono che è. Tale è il potere
creativo della mente. Per questo è importante spostare l’attenzione anche su aneliti, aspirazioni, intuizioni, emozioni e valori che sono sempre stati lì,
ma che l’intensa attività della vita quotidiana e l’attenzione sempre volta all’esterno, rendono difficile cogliere. L’incontro e il contatto con la natura
possono avere un ruolo importante in questo allargamento di orizzonti interiori!
Procedere verso un nuovo umanesimo, vuol dire ridisegnare l’immagine che l’essere umano ha di sé, in modo da metterlo in condizione di
manifestarsi al meglio. Se homo sapiens si riterrà un bruto egoista, tale sarà il risultato che otterrà; se si riterrà un essere di luce, capace di mettere
le sue capacità al servizio della collettività e della vita, tale sarà, più facilmente, il risultato. “Vedi, con gli esseri umani c’è il problema che se
pensiamo a loro come se fossero pezzi di legno, finiscono col somigliare a dei pezzi di legno. Se li pensiamo come mascalzoni, tenderanno alla
mascalzonaggine, presidenti inclusi. Se li pensiamo come artisti… e così via” scrive Bateson.60
Gli esempi non mancano. I padri pellegrini della Mayflower si consideravano investiti di una missione divina e con questo atteggiamento
interiore hanno realizzato obiettivi altrimenti impensabili. Gli indiani Pueblo ritenevano di essere i figli del Padre Sole, responsabili del suo
sorgere; questa convinzione ha conferito alla loro vita una prospettiva e uno scopo tali da consentire loro di esprimere interamente la propria
personalità e di vivere una vita piena, da persone complete.61
Ormai non è più una novità, in psicologia, che la propria autoimmagine diventa motore e modello nel processo di autorealizzazione: quando
scopriamo in noi i semi di qualità non ancora sviluppate, possiamo farle fiorire. Questo, senza confondere “ciò che si vorrebbe essere” con “ciò che
si potrebbe diventare”; occorre avere già sperimentato, anche solo per pochi istanti, le qualità che si vogliono sviluppare. Se si procede passando
per la pratica, toccando con mano piccoli risultati concreti, anche l’autoimmagine cambia. È in quest’ottica che l’ecopsicologia offre molte
opportunità: crea situazioni in cui è possibile l’ascolto interiore e il contatto con quelle parti di sé che la vita quotidiana non offre molte occasioni di
incontrare. Ascolto, dialogo, meditazione, in tutte le sue diverse varianti, e contemplazione, sono tutti esercizi che, in modo anche giocoso e
conviviale, permettono di allargare i confini dell’autoconoscenza.
La sfida attuale, per ognuno di noi, è quella di alzare lo sguardo e vedere anche gli aspetti più alti di sé, non solo in quelli più materiali ed
egoistici. “Siamo cittadini di due mondi”, dice Roberto Assagioli, e nei due mondi dobbiamo imparare a vivere, coi “piedi ben saldi per terra e la
testa alta verso il cielo”, con la nostra abitazione a valle e la possibilità di salire in vetta ogni volta che sentiamo il bisogno di calma e ispirazione,
di energia e chiarezza.
I due mondi sono la dimensione materiale e quella spirituale, quella esteriore e quella interiore, la dimensione del corpo e quella della psiche, la
percezione del finito e quella dell’infinito, ma anche la dimensione individuale e quella collettiva, quella egoistica e quella altruistica, tutte polarità
di un’unica realtà. Essere “cittadini di due mondi” vuol dire vivere la realtà quotidiana con tutti i suoi impegni, con la consapevolezza della
contemporanea esistenza di un altro livello della stessa realtà, vuol dire vivere la contingenza mantenendo viva la capacità di rivolgere lo sguardo
verso l’alto.
La spiritualità non è più concepita come un’ascesa verso alti spazi lontani e distaccati dalla dimensione terrena, ma come un moto inverso,
dall’alto verso il basso, come una spiritualizzazione della materia, una sacralizzazione della vita quotidiana. Un moto non di trascendenza, ma di
inscendenza, usando un neologismo di Thomas Berry:62 intraprendere un percorso spirituale non vuole dire rinnegare la dimensione materiale, ma
impegnarsi affinché questa dimensione ‘finita’ risplenda sempre più di luce e bellezza.
La meta dell’autorealizzazione transpersonale diventa quella di inserirsi creativamente e funzionalmente nell’ambito della vita quotidiana, di
impegnarsi attivamente per una realtà di cui ormai abbiamo profondamente capito di essere parte. Chi si risveglia spiritualmente, oggi, non è più
chiamato a fare l’eremita ma può – anzi, deve – diventare uomo o donna d’azione, e inserirsi funzionalmente nell’ambito della vita quotidiana, con
creatività e coraggio. L’impegno concreto diventa il terreno in cui si mette alla prova la propria fede, qualsiasi essa sia, la propria visione spirituale,
la rivelazione che al di là di ogni apparenza siamo tutti Uno. Si tratta di portare nella realtà materiale i valori che scoprono in sé guardando verso
l’alto: verità, bellezza, efficienza, eccellenza, giustizia, ordine, giocosità, serenità e gioia. Sono quelli che Maslow ha definito “valori instintuoidi”,
connaturati alla natura umana63 e che si manifestano spontaneamente ogni volta che l’individuo, a di là delle sue vicende personali, consolida un
atteggiamento di gratitudine, rispetto e amore verso di sé e verso gli altri.

Che cosa vuole la vita da me?


Siamo all’inizio di un lungo ma affascinante percorso, stiamo cercando di capire chi siamo e quale è il nostro posto in questo immenso evento che è
la creazione; cominciamo a intravedere che, per trovare una risposta, dobbiamo prendere in considerazione anche il mondo che ci circonda. Che
cosa potrebbe capire di sé una cellula del fegato se non riconoscesse di far parte di un organo specifico che, insieme ad altri organi completamente
diversi dal suo, compongono un’unità ancora più grande?
Nella propria crescita personale, arriva un momento in cui la domanda che caratterizza la prima fase del percorso, “che cosa voglio dalla vita”,
cambia connotazione, si capovolge e diventa “che cosa la vita vuole da me?”. Spesso scopriremo che quello che voglio – se ho veramente saputo
contattare la mia natura più autentica – e quello che la vita vuole che io diventi, sono la stessa cosa. La vita vuole che ognuno di noi sviluppi e
attualizzi le capacità e i talenti di cui – attraverso il bagaglio genetico, il contesto in cui siamo nati e cresciuti, le esperienze che abbiamo vissuto –
ci ha dotati. La vita, Dio, l’Assoluto… è solo una questione di termini, ognuno scelga quello che gli suona meglio.
Hillman, allievo di Jung, in tutti i suoi scritti esprime la sensazione, che “esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al
mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione
che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine innata, i cui contorni va
riempiendo con la propria biografia”.64
Lo scopo della vita diventa vivere bene. Vivere bene diventa fiorire appieno nella propria natura individuale e trovare il proprio posto nel
mondo. Risvegliarsi spiritualmente comincia a voler dire qualche cosa di nuovo, qualche cosa di concreto e tangibile, che non è più staccato
dall’esistenza ordinaria, ma che le conferisce una qualifica straordinaria. Il dentro e il fuori si compenetrano, annullando ogni distanza, e aprono le
porte a qualche cosa di nuovo, inaspettato, paradossale… e incredibilmente attraente.
Una diversa attenzione si risveglia. Quello che sino a poco prima era consueto, banale, scontato, improvvisamente si ammanta di unicità, risveglia
interrogativi mai formulati, alimenta una curiosità sfrenata verso quelle grandi domande che solo i bambini hanno il coraggio di porsi. E il mondo
stesso si rivela sotto una luce nuova.
Da queste considerazioni, da queste esperienze, soprattutto, comincia a diffondersi un nuovo pensiero, una nuova direzione di ricerca: la
psicologia presta attenzione all’ipotesi che, per conoscere davvero bene l’essere umano, bisogna cominciare a prendere in considerazione – tanto
per cominciare – l’organismo più grande di cui ognuno di noi fa necessariamente parte: il pianeta Terra.

41 Questa è la definizione che ne ha dato Freud, mutuando il concetto da Georg Groddeck, medico e psicoanalista tedesco, che usava questo termine riferendosi agli istinti primari, alle forze da cui “noi
veniamo vissuti”.
42 Roberto Assagioli, Psicosintesi - Armonia della vita, Mediterranee, 1986, p. 32.
43 Memorie, sogni e riflessioni di C.G.Jung, a cura di Aniela Jaffé, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 167.
44 Ed McGaa Eagle Man, La spiritualità della madre terra, Il punto d’incontro, Vicenza, 2000.
45 Memorie, sogni e riflessioni di C.G.Jung, a cura di Aniela Jaffé, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 338.
46 Ken Wilber, Oltre i confini, Cittadella, Assisi, 1985.
47 Espressione creata dallo scrittore e filosofo statunitense Alan Watts per definire l’ordinaria percezione di sé, identificata con le percezioni ricevute attraverso i nostri limitati organi sensoriali.
48 Sono qui citate: la seconda forze della psicologia, psicologia del profondo; la terza, psicologia umanistica; e la quarta, psicologia transpersonale. La prima è la psicologia comportamentista.
49 Aldous Huxley, Filosofia perenne, Adelphi, Milano, 1995.
50 Ken Wilber, cit., p. 139.
51 John Muir, La mia prima estate sulla Sierra, Vivalda, Torino, 1995, p. 5.
52 Stefano Fusi, “Ecologia profonda: l’ecologia dello spirito”, 23 gennaio 2007, www.ariannaeditrice.it.
53 Gary Snyder, Nel mondo poroso, Mimesis, Milano, 2013, p. 42.
54 Joyce Sequichie Hifler, Diario pellerossa: L’eredità spirituale degli Indiani d’America, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1998, p. 5.
55 Dichiarazione di un membro della nazione irochese.
56 Matsuo Basho, Basho’s Narrow Road: Spring and Autumn Passages, Stone Bridge, Berkeley, 1996, p. 7.
57 La saggezza dei mistici spagnoli, a cura di Norbert von Prellwitz, Guanda, Parma, 1990.
58 Martine Batchelor, Kerry Brown, Ecologia buddhista, Neri Pozza, Vicenza 2000.
59 Al Gore, La Terra in bilico, Bompiani, Milano, 2008, p. 332.
60 Gregory Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano, 1989, p. 108.
61 Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, Mondadori, Milano, 1967.
62 Bill Plotkin, “Inscendence - The key of the great work of our time”, in Ervin Laszlo, Allan Combs, Thomas Berry Dreamer of the Earth, Inner Traditions, Toronto, 2011, pp. 42-69.
63 Abraham Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio, Roma, 1971, p. 190.
64 James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, p. 18.
Capitolo 4

L’ECOLOGIA INCONTRA LA PSICOLOGIA

“La consapevolezza ecologica al livello più profondo, è una consapevolezza intuitiva dell’unità di tutta la vita […] tale consapevolezza può chiamarsi anche consapevolezza spirituale.
[…] La spiritualità o lo spirito umano, potrebbero essere definiti come il modo di coscienza in cui ci sentiamo connessi al cosmo come alla totalità.”
Fritjof Capra, Verso una nuova saggezza

Dall’analisi alla sintesi


La cultura contemporanea dominante in Occidente, ancora sotto l’influsso enciclopedico illuminista, ha accumulato una quantità incredibile di
conoscenze e informazioni sempre più approfondite in tutti i campi. La materia è stata scomposta e analizzata sin nei suoi più piccoli fondamenti
conoscibili: delle forme viventi conosciamo i meccanismi fisiologici, la composizione cellulare, chimica, atomica, anche subatomica. Abbiamo dato
un nome a ogni pianta, a ogni insetto, a un’infinità di stelle e galassie lontane; conosciamo la composizione delle terre e delle rocce, studiamo i
principi vitali degli alimenti, abbiamo riempito pagine e pagine di enciclopedie. Ma, dopo aver accumulato così tanti dati sulla realtà e sul suo
funzionamento, sembriamo saperne ancora meno di prima e ci accorgiamo che la modalità consueta di pensiero – analitica e lineare – non è in grado
di dare riposte soddisfacenti per la comprensione del mondo e della vita. “Ogni cosa vien da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa e ogni cosa
torna in ogni cosa perché ciò ch’è nelli elementi, è fatto da essi elementi”,65 ha scritto Leonardo da Vinci, ripreso con una affermazione ancora più
esplicita da Blaise Pascal: “Se tutte queste cose sono causate e causanti, aiutate e adiuvanti, in modo mediato e immediato, e se tutte si intrattengono
grazie a un legame naturale e insensibile che collega le più lontane e le più diverse, ritengo impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto,
così conoscere il tutto senza conoscere singolarmente le parti”.66 Questo atteggiamento di attenzione su due livelli di conoscenza, uno lineare e uno
circolare, non è andato del tutto perso e riemerge come indispensabile per proseguire in una corretta indagine del mondo.
In un sempre maggior numero di ambiti del campo scientifico contemporaneo si palesa l’esigenza di mettere in correlazione tra loro tutte le
informazioni acquisite, e si comincia ad affermare una modalità di ragionamento che prende in considerazione campi d’azione e non singoli fattori,
processi e non eventi, relazioni e non oggetti, collegando tra loro elementi apparentemente separati e mettendone in luce le reciproche
interconnessioni. Questa modalità, opposta e complementare a quella analitica e lineare, viene detta approccio sistemico.
Fino a pochi anni fa, potevamo accontentarci di una visione frammentaria dell’esistenza, senza bisogno di guardare oltre i confini del nostro
“territorio”, soddisfatti nell’identificarci con una specifica cultura o nazione di appartenenza, specialisti nel nostro campo di interesse, senza
preoccuparci di quanto detto o fatto in campi contigui. Oggi scopriamo che la realtà è molto più complessa di quanto era possibile immaginare anche
solo poche decine di anni fa e solo a partire da una rinnovata visione d’insieme possiamo accedere a un superiore livello di comprensione del nostro
mondo.
“La complessità è ovunque. Dalla ditta in cui lavoriamo al clima terrestre. Da un batterio all’economia mondiale. Dal bosco di castagno dietro
casa alla cultura di un popolo. Noi stessi siamo sistemi complessi, lo sono i nostri organi, le nostre cellule, il nostro cervello. Ci portiamo addosso
per tutta la vita, racchiuso nella scatola cranica, il sistema più complesso e meraviglioso che si conosca: il cervello umano”.67
L’approccio sistemico si rivela così una nuova, indispensabile, chiave di lettura della realtà e si diffonde in tutte le discipline, dalla psicoanalisi
alla biologia, dalla sociologia all’economia, dalla medicina al management, grazie anche all’ausilio dei computer, strumenti in grado di studiare ed
elaborare l’enorme quantità di informazioni relativi alla complessità.
Da questo nuovo punto di vista è stato possibile mettere in luce la peculiarità degli organismi viventi, rispetto alle macchine. La concezione
meccanicistica non sbagliava del tutto, considerando gli organismi viventi delle macchine, perché sono composti entrambi da parti e apparati che
hanno un funzionamento meccanico. Ma quello che era sfuggito a una analisi solo lineare, è la sostanziale diversità nell’organizzazione: la macchina
viene costruita, mentre l’essere vivente cresce. L’attività di una macchina è determinata dalla sua struttura, l’organismo è invece determinato dai
processi e ha un alto grado di flessibilità e plasticità interna che gli consente di adattarsi a circostanze nuove: è autoregolantesi.
Quando una macchina si guasta, di solito è possibile identificare una singola causa del guasto. L’organismo vivente, invece, è in grado di
continuare a funzionare malgrado la presenza del guasto, attuando delle compensazioni. Quando compare un fattore dissonante, l’organismo crea
degli aggiustamenti per riequilibrarsi, originando però così tutta una serie di piccoli squilibri che causano a loro volta altri squilibri. Per
riarmonizzare un sistema non si potrà più quindi intervenire solo su un singolo fattore, ma si dovranno prenderli in considerazione insieme, nel loro
reciproco concatenarsi e intervenire di conseguenza. Un organismo vivente è autorganizzantesi, è in grado di adattarsi, entro certo margini,
all’ambiente esterno.
Le implicazioni di questo nuovo punto di vista superano ogni aspettativa, perché quelle che si sono rivelate essere le caratteristiche degli
organismi viventi, si rivelano valide anche per diverse categorie di realtà – famiglia, società, azienda, ecosistema – facendo sorgere nuove modalità
di indagine e di gestione di questi sistemi.
In psicologia, una delle prime applicazioni e già negli anni cinquanta nasce la scuola sistemico-relazionale che per comprendere e curare disturbi
di singole persone prende in esame l’ambiente in cui sono inserite. Il sistema familiare è spesso quello determinante, in cui l’individuo cresce
assumendo ruoli specifici, inviando e ricevendo messaggi, comportandosi in un determinato modo, secondo le regole di quel particolare tipo di
sistema. Ogni comportamento acquista un suo significato solo se analizzato all’interno del contesto in cui si manifesta e ogni comportamento
problematico non diventa più solo espressione di un disagio personale, ma riflette una disarmonia a livello di sistema. Agendo adeguatamente sulle
dinamiche familiari, diventa possibile modificare il sintomo stesso e porre le basi per un nuovo equilibrio.
In medicina, il concetto di interconnessione si sta diffondendo ed è la stessa logica del corpo a portare in questa direzione. Se qualcuno si fa male
al piede sinistro, per esempio, comincia a camminare appoggiandosi sul destro; così facendo, flette la schiena per poter mantenere l’equilibrio, le
spalle perdono l’allineamento e le costole esercitano una maggior pressione sul fegato. È utile rivolgersi a uno specialista del fegato, che mai si
sognerebbe di preoccuparsi del piede sinistro?
I limiti di un eccessivo specialismo, per cui ogni medico studia e cura solo un singolo organo o sistema, stanno diventando sempre più evidenti, e
il processo di rinnovamento è ormai avviato. Molte ulcere cominciano a essere trattate prendendo in considerazione lo stile di vita del paziente, e
molte cistiti recidive vengono finalmente collegate a vissuti emotivi inespressi o a una sbagliata alimentazione. Un allargamento di orizzonti è in atto
e sempre di più si cerca di focalizzare l’attenzione sul malato più che sulla malattia, sulla persona nel suo insieme. Vengono prese in considerazione
le reciproche influenze tra lo stato emotivo, mentale, fisico e spirituale, dove la salute viene intesa come risultato di una armonica interazione tra
questi livelli.
Il percorso da fare è ancora lungo, ma l’integrazione tra approcci medici occidentali e orientali – tradizionalmente olistici – sta dando risultati
incoraggianti e sta trovando consensi crescenti tra il pubblico e tra esponenti della stessa classe medica.
In ambito sociale, educativo e manageriale, l’approccio sistemico introduce nuove modalità di relazione e nuove competenze necessarie nel
lavoro. Elasticità, flessibilità, interazione, collaborazione, comunicazione, diventano concetti che rinnovano non solo il modo ma anche l’ambito del
lavoro, creando servizi nuovi, per l’integrazione sociale, la gestione della multiculturalità, una diversa organizzazione dell’insegnamento, la
risoluzione dei problemi, la previsione di sviluppo, la gestione dell’innovazione, l’orientamento della ricerca, e molto altro. Introduce anche nuovi
metodi di lavoro, e la creazione di équipe interdisciplinari diventa metodo. La comprensione di sistemi complessi può avvenire, infatti, solamente
grazie alla collaborazione di esperti in tutti i campi coinvolti: insieme, possono fornire punti di vista, considerazioni, soluzioni, di qualità maggiore.
Una delle scienze pioniere, nell’applicazione di una visione sistemica al suo campo d’interesse, è proprio l’ecologia. Lo studio dei diversi
ambienti naturali, ha dovuto necessariamente prendere in considerazione, tutti insieme, società vegetali, comunità animali, microrganismi, substrato
geologico e condizioni atmosferiche. L’ecologia ha colto subito che solo dallo studio dell’interazione tra questi fattori si possono comprendere i
principi organizzativi attraverso i quali si sostiene la rete della vita.

Verso una scienza delle relazioni


La parola ecologia viene coniata nel 1866 dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel suo libro Morfologia generale degli organismi, in cui la definisce
“scienza delle relazioni dell’organismo con l’ambiente” e “scienza dei rapporti fra gli esseri viventi”. In una successiva lezione, all’università di
Jena, la presenta come “quel corpo di conoscenze che riguardano l’economia della natura, […] lo studio di tutte quelle complesse interrelazioni”.68
Nella sua visione, tutti gli organismi viventi sulla Terra sono come una sorta di grande famiglia, accomunata nella necessità di sopravvivere usando
le stesse risorse naturali.
Inizialmente l’ecologia era solo una branca della biologia, ma si è poi sviluppata come disciplina autonoma, situata tra biologia, geografia,
sociologia, e in continua interazione con altri campi di sapere. Se, ai suoi inizi, era ancora impregnata dello spirito analitico di fine Ottocento, si è
trasformata ben presto in una “scienza delle relazioni”, trovando nell’approccio sistemico il suo metodo di lavoro ottimale.
La biologia, tradizionalmente, studia la vita nei suoi diversi livelli di organizzazione. In ordine crescente di complessità questi sono: molecole,
cellule, tessuti, organi, organismi, popolazioni, comunità/ecosistemi, biomi, biosfera.
L’ecologia si occupa degli ultimi quattro, dei sistemi viventi a più alto livello di integrazione: le popolazioni, insiemi di organismi della stessa
specie occupanti un determinato territorio della nostra terra; le comunità, insiemi strutturati di popolazioni; gli ecosistemi (comunità ecologiche
corredate dall’ambiente fisico-chimico che le ospita), i biomi, gli ecosistemi maggiormente estesi sulla Terra, classificati a seconda della
vegetazione dominante e caratterizzati dall’adattamento degli organismi a specifiche condizioni ambientali; e la biosfera, l’insieme di tutti gli
ecosistemi della Terra. Dovendo studiare le interazioni degli organismi anche con l’ambiente inorganico, l’ecologia integra l’apporto della biologia
con quello di discipline quali la fisica e la chimica.69
Popolazioni, catene alimentari, piramidi ecologiche, bilanci energetici, sono tutti concetti che l’ecologia usa per cogliere e descrivere la
complessità nell’ambito degli ecosistemi, in cui è evidente che è l’interazione l’unica possibile chiave di lettura. La registrazione di fluttuazioni
cicliche nel numero di volpi di una determinata regione della Scozia, per esempio, rimane senza spiegazione se non viene correlata a un’altra linea
di fluttuazione, esattamente simmetrica, nella popolazione delle lepri selvatiche di quella stessa zona. Quante più volpi ci sono, tanto meno lepri
rimangono, fino al punto in cui le volpi non trovano più da mangiare e diminuiscono, permettendo così un rinnovarsi della popolazione delle lepri e
un conseguente nuovo aumento delle volpi.
Ogni ecosistema trova un suo delicato equilibrio che può venire turbato e, più o meno irreversibilmente, modificato da fattori esterni. L’aumento
delle zanzare in molte campagne può essere ricondotto alla scomparsa delle aquile, antagoniste naturali dei serpenti che si nutrono di piccoli anfibi,
che a loro volta tengono sotto controllo il numero di larve di zanzara, di cui si cibano. Meno rapaci, più rettili; più rettili, meno rane e,
conseguentemente, più zanzare. Ma l’aumento delle zanzare può essere ricondotto anche alla diminuzione dei pipistrelli, dovuta al degrado delle
foreste, al taglio dei vecchi alberi, all’uso indiscriminato di pesticidi, all’eliminazione delle siepi, alla riduzione delle zone umide e delle vecchie
case, con tettoie adatte alla loro nidificazione. E pensare che un piccolo pipistrello, come quelli che volano sotto ai lampioni delle nostre città, da
solo, in una notte, mangia fino a 5.000 zanzare.
Un fattore di declino e di estinzione di molte specie – il 20% delle estinzioni di uccelli e mammiferi – è l’introduzione in un territorio di specie
originarie di altre aree geografiche, che entrano in competizione con quelle autoctone, che si rivelano predatrici senza antagonisti nel nuovo ambiente
o che diffondono nuovi parassiti e malattie. Inoltre molte specie arbitrariamente introdotte in un nuovo ecosistema possono arrecare danni notevoli
sia alla vegetazione naturale, sia alle coltivazioni.
Due casi emblematici sono quello della vongola verace orientale, che ha portato in molte zone – per esempio nel delta del Po – alla scomparsa
della specie locale, e quello dello scoiattolo grigio di importazione nordamericana, che sta soppiantando nei boschi italiani lo scoiattolo rosso
europeo.70 Gli esempi sono innumerevoli, in Australia l’introduzione di gatti, topi e conigli ha portato all’estinzione di alcune specie di marsupiali;
il giacinto d’acqua, originario dell’Amazzonia, provoca gravi problemi nei laghi africani dove impedisce l’ossigenazione delle acque; la cozza
zebrata, originaria dai Balcani agli Urali, nei Grandi laghi del Nord America intasa i moli e le condutture d’acqua e nel lago di Como sta diventando
un problema; e, ancora in Italia, la robinia, originaria degli Stati Uniti, con la sua presenza tende a soppiantare le specie autoctone collinari.
Anche l’essere umano può contribuire alla creazione di ecosistemi. Le oasi nel Sahara occidentale da secoli forniscono ricchezza ai loro abitanti
grazie alla sapiente integrazione di palme da dattero, sotto alle quali crescono alberi da frutto, alla cui ombra vengono coltivati gli orti e, in
proporzione adeguata, vengono mantenute greggi di pecore e capre. Con l’introduzione dei pesticidi e dei concimi chimici, negli anni settanta, questo
equilibrio si è rotto rendendo impossibile la convivenza creatasi nei secoli tra coltura e allevamento. A distanza di trent’anni da questo
cambiamento, in Algeria è iniziato il recupero delle modalità tradizionali di gestione delle oasi.71
Quello che succede da una parte, condiziona e influenza quello che succederà da un’altra. Il diboscamento sulle pendici del monte Toc è stato un
fattore determinante nella tragica frana del Vajont; le conseguenze dell’incuria di una centrale nucleare alle porte della Siberia ha fatto sentire la sua
nefasta influenza fin sugli orti della Brianza; il taglio delle mangrovie sulle coste dell’oceano Indiano ha eliminato l’unica possibile barriera
difensiva dagli tsunami. Del resto, “il battito delle ali di una farfalla in Brasile, a seguito di una catena di eventi, può provocare una tromba d’aria in
Texas”, ha provocatoriamente affermato il fisico Edward Lorenz alla conferenza annuale della American Association for the Advancement of
Science, nel 1979; questo riguarda la Teoria del Caos, applicabile ai sistemi estremamente complessi, ma esprime bene il concetto di
interdipendenza, che accomuna tutti gli elementi di questo nostro pianeta.
Lo studio delle relazioni nell’ambito di un sistema è ancora giovane, ma le implicazioni filosofiche della visione sistemica e globale sono
molteplici e arrivano a ribaltare la concezione che abbiamo di noi stessi e del nostro rapporto con il mondo in cui viviamo.

L’essere umano è parte della vita


Oggi le interconnessioni, a tutti i livelli, non possono più essere ignorate: fattori biologici, sociali, economici, tecnologici, psicologici, si rivelano
strettamente collegati e interdipendenti; diventa necessaria una prospettiva ecologica applicata all’insieme della realtà, non solo allo studio degli
ecosistemi.
Chi, meglio di altri, ha colto questa necessità e si è impegnato a comprendere e interpretare il vivente è Gregory Bateson, figura poliedrica che
imposta tutta la sua ricerca, scientifica ed esistenziale, non più sullo studio dei mattoni costitutivi della realtà, ma sulla “struttura che connette”,72 la
rete dei principi di organizzazione di tutti i fenomeni. La realtà può solo essere studiata nel suo insieme, l’assunto di base è ormai acquisito; ma
Bateson, da epistemologo, fa un passo in più e afferma che tra uomo e natura esiste un legame ancora più profondo: struttura della natura e struttura
della mente sono l’una il riflesso dell’altra. La mente è la parte costituente della realtà materiale, di conseguenza queste due dimensioni vanno
studiate e comprese insieme. Tra le implicazioni di questa prospettiva, sta il riconoscimento che i disastri ecologici da noi causati nella modernità,
più che da cattive intenzioni, dipendono da una cattiva epistemologia, ovvero da un modo di pensare “non ecologico” a noi stessi e al mondo.73
Bateson conia l’espressione “ecologia della mente”, chiarendo che la qualità del rapporto che costruiamo col mondo ha le sue premesse nella
concezione che abbiamo di noi stessi e del mondo che coltiviamo ed esprimiamo, prima di tutto sul piano mentale; una questione che ben pochi di
noi affrontano consapevolmente, afferma Bateson.
“Che cosa pensiamo che sia un uomo? Che cosa vuol dire essere umani? Che cosa sono questi altri sistemi con cui entriamo in contatto e quali
relazioni li legano?”74 Bateson invita a una riflessione, sottolinea l’importanza di cercare risposte che ci permettano di gestire la nostra civiltà in
armonia con il mondo di cui siamo parte, con funzionamento, le necessità e le logiche dei sistemi viventi.
E le logiche delle “cose viventi”, non sono sempre quelle lineari, non sono sempre quelle dei ragionamenti scientifici. Qui Bateson sorprende e
affascina: “Che cos’è un uomo, che può conoscere i sistemi viventi e agire su di essi, e che cosa sono questi sistemi, che possono essere conosciuti?
Le risposte a questo duplice enigma devono essere costruite intrecciando insieme la matematica, la storia naturale, l’estetica e anche la gioia di
vivere e di amare”.75 La logica, da sola, non ci aiuta a comprendere la struttura della mente; sono sicuramente più adatte l’arte e la poesia, che si
servono di mezzi espressivi quali la metafora e la narrazione di storie, che si riferiscono sempre a relazioni. Perché sono le relazioni l’essenza del
mondo vivente, e la mente diventa testimone del suo essere viva nel momento in cui cerca di cogliere queste relazioni.
Avviene così il passaggio da una biosfera priva di mente a una biosfera che germina nel processo mentale e attraverso di esso. Tra organismo e
ambiente esiste un continuum e il conoscere di ciascuno di noi diventa “una piccola parte di un più ampio conoscere integrato che tiene unita l’intera
biosfera o creazione”.76
L’uomo non è al di fuori di quanto ha la pretesa di studiare, ma è parte della stessa rete di interrelazioni di cui si fa, allo stesso tempo,
osservatore e fattore condizionante. È così che la psicologia si trova sempre più indistricabilmente connessa con l’ecologia.

La noosfera
In quegli ambiti dell’ecologia più inclini a considerare l’essere umano come parte integrante dell’ecosistema, sta emergendo un nuovo concetto, che
include la sfera del pensiero tra i sistemi del pianeta Terra rilevanti per la vita. Mano a mano che cresce la popolazione, che l’umanità si organizza
in reti complesse, che la comunicazione favorisce il diffondersi delle idee, nella mappatura dei sistemi della Terra si comincia a tenere conto di
questo nuovo livello. Vediamoli, da quello più denso a quello più sottile.
Biosfera: la parte esterna della Terra. È quel sottilissimo strato che va dal profondo degli oceani alla cima della montagna più alta – poco più di
una ventina di chilometri di spessore, su un raggio di 6.371 chilometri – su cui la vita si manifesta e sviluppa. Include litosfera, la componente
rocciosa della Terra, e idrosfera, l’insieme delle acque dolci e salate, che coprono i quattro quinti della superficie terrestre.
Troposfera: la parte dell’atmosfera più vicina alla superficie terrestre. Comprende circa il 75% della massa dell’atmosfera e si estende fino a 16
chilometri di altezza all’equatore e non più di 10 ai poli. È in questo sottilissimo strato che risiede l’aria che respiriamo.
Stratosfera: la parte dell’atmosfera al di sopra delle nubi. Compresa tra i 15 e i 50 chilometri da terra, ha una densità dell’aria molto bassa in cui
nubi e pioggia sono rare e per questo è percorsa dagli aerei d’alta quota. Tra i 20 e i 30 chilometri di altitudine è localizzata la famosa fascia
dell’ozono che assorbe le radiazioni ultraviolette dannose per la vita.
Noosfera: la sfera della mente. Dal greco nous, mente superiore, è intesa come l’insieme dei pensieri, delle convinzioni, delle idee, degli ideali e
dei valori dell’umanità. Un campo attivo che si rivela essere, attualmente, uno degli elementi principali sulla bilancia dell’equilibrio ecologico.
Il termine noosfera è stato coniato dallo scienziato russo Vladimir I. Vernadskij, a cui si deve l’intuizione che animali, vegetali e atmosfera –
attraverso i grandi cicli del carbonio, dell’idrogeno, dell’azoto e dell’ossigeno – formano un immenso unico sistema. Le sue ricerche sulla biosfera
come “essere vivente” hanno offerto interessanti spunti a molti tra cui il padre gesuita Teilhard de Chardin, il matematico e filosofo della religione
Édouard Le Roy – che hanno fatto uso anch’essi del concetto di noosfera – lo scienziato inglese James Lovelock e la biologa americana Lynn
Margulis, autori della teoria che, come vedremo più avanti, considera il pianeta Terra un organismo autoregolantesi.
Al di là della novità del termine, che nasce in ambito scientifico, il concetto sottostante non è poi così nuovo. Non è forse stato Platone il primo a
sostenere che è nel mondo delle idee che ha origine la configurazione del mondo? E quando Jung e Hillmann parlano di archetipi non intendono forse
affermare che principi immateriali possono determinare il concretizzarsi della forma, come il sistema assiale di un cristallo che determina la
struttura cristallina nella soluzione madre? Michael Conforti, analista junghiano e pioniere nel campo delle interconnessioni tra materia e psiche,
collega i modelli psichici degli archetipi alle leggi della natura, considerandoli come campi informativi che danno forma alla materia. Il biologo
inglese Rupert Sheldrake chiama campi morfogenetici la memoria collettiva di ogni specie, un corpus informazioni ai quali il cervello può
accedere… come una banca dati in cloud, diremmo oggi.
In ambito teosofico, lo stesso concetto è noto come “forma pensiero”, sottolineando che l’individuo ha un ruolo sia passivo che attivo nei
confronti di questi campi o archetipi: ne subisce l’influenza, ma li può a sua volta modificare attraverso la qualità dei propri pensieri e del proprio
operato. Tesi sostenuta, in altri termini, dal biologo evolutivo Brian Goodwin che considera il campo archetipico non più esterno, ma contenuto
all’interno dell’organismo stesso. E Ken Wilber puntualizza, riassumendo queste considerazioni, che è la biosfera a essere un elemento essenziale
della noosfera, non viceversa. Distruggendo la noosfera, la biosfera continuerebbe a sopravvivere tranquillamente; ma, se distruggiamo la biosfera,
anche le menti umane verrebbero distrutte.77
Alcuni non si fermano al fascino di questo nuovo concetto ma vogliono verificarlo nei fatti e cominciano a studiarlo più a fondo. Alla Princeton
University, negli Stati Uniti, negli anni settanta, si avvia un Progetto Noosfera, volto a verificare se esistono dei possibili collegamenti tra eventi e
stati della coscienza. Dal 1998, il progetto si amplia, prende il nome di Global Consciousness Project, e diventa una ricerca internazionale e
multidisciplinare, che coinvolge scienziati e ingegneri.78 Vengono raccolti dati da cinquanta località sparse per il mondo; tutti gli eventi significativi,
da incidenti a terremoti, dalle fasi lunari alle cerimonie religiose. da finali di calcio a grandi concerti, vengono segnati e inseriti in un gigantesco
database, per verificare se, quando la coscienza umana diventa coerente in una determinata direzione e con numeri significativi, il comportamento
dei sistemi casuali può cambiare.
Sempre negli anni settanta comincia la registrazione di dati relativi a una minore incidenza di criminalità nelle città statunitensi in cui la
percentuale di praticanti di meditazione (in quel caso si tratta di meditazione trascendentale), supera l’1%. Questa corrispondenza, nota col nome di
“Effetto Maharishi”, viene ulteriormente messa alla prova nel 1983 portando 7.000 meditanti nella città di Fairfield, nello Iowa, per tre settimane e
registrando un ancor più netta diminuzione del numero di crimini e di incidenti.79 Del resto nel Medioevo vi erano monasteri di clausura in cui i
religiosi pregavano per l’esito positivo dei conflitti armati in corso. Il potere della preghiera è noto da sempre, soprattutto come affermazione, come
incanalamento di una intenzione, prefigurazione di una aspettativa, creazione di un campo armonico di risonanza. Il pensiero direzionato crea
miracoli, cambia il piano mentale e si ripercuote sulla realtà fisica.
Torniamo così alla noosfera, al fatto che cambiando il modo di pensare si influisce direttamente sulla realtà. Le menti degli esseri umani nel loro
insieme, con tutto ciò che credono, pensano, sentono, innescano effetti concreti, che ci sia o meno consapevolezza di questo. La gente diventa così
fattore dell’ecosistema non solo per quello che fa, ma anche per i pensieri che genera che, a loro volta, diventano motore per quello che farà. Le
persone, insieme e singolarmente, diventano sempre più importanti nelle questioni che riguardano la gestione del Pianeta, e cominciano a prenderne
coscienza. Possiamo cambiare le cose e le cambiamo: la noosfera comincia a risvegliarsi e ad attivarsi.

Nasce il movimento ambientalista


Il 1962 viene da molti considerata come la data di nascita ufficiale della coscienza ambientale: la biologa Rachel Carson, con il libro-denuncia
Primavera silenziosa, rivela all’opinione pubblica la gravità situazione dal punto di vista ecologico: “Gli uccellini non cantano più nelle nostre
campagne”, scrive descrivendo una delle conseguenze più evidenti dell’uso e abuso dei pesticidi, del DDT in particolare. Nell’introduzione
all’edizione italiana,80 Al Gore, già vicepresidente degli Stati Uniti, scrive: “Primavera silenziosa gettò i semi di un nuovo attivismo che è venuto
crescendo in una delle più grandi forze popolari di tutti i tempi. Quando Rachel Carson morì, nella primavera del 1964, stava diventando ormai
chiaro che la sua voce non si sarebbe mai ridotta al silenzio. Aveva aperto gli occhi non solo alla nostra nazione, ma al mondo. La pubblicazione di
Primavera silenziosa può giustamente essere vista come l’inizio del moderno movimento ambientalista”. Dopo la pubblicazione dell’opera, infatti,
il DDT è stato vietato e si sono avviati, in molti paesi, provvedimenti legislativi in materia di tutela ambientale.
Non è per romanticismo, fanatismo o noia esistenziale, che tante persone, associazioni e movimenti sono nati negli ultimi quarant’anni, per
raccogliere e divulgare dati riguardo lo stato di salute del Pianeta, per studiare proposte di sviluppo ecosostenibile, per protestare o lottare contro
abusi e violenze nei confronti dell’ambiente, che poi immancabilmente si ripercuotono sulla qualità della nostra stessa vita e salute.
La problematica ambientale ha fatto subito presa sulle persone più sensibili e attente, quelle in grado di cogliere una realtà fondamentale: il fatto
che la nostra sopravvivenza su questo pianeta è legata alla sopravvivenza della natura. Oggi, questo è ormai un discorso scontato, ma l’opinione
pubblica, fino a poco tempo fa, era ancora inebriata dall’illusione del progresso e di una scienza che prometteva di risolvere ogni problema,
ipotizzando addirittura la possibilità di colonizzare altri pianeti, come se la dipendenza da fattori terrestri fosse solo una noiosa formalità a cui
potere ovviare.
Un primo passo a livello internazionale è stato fatto nel 1948 con la creazione, nell’ambito delle Nazioni Unite, dell’Unione Internazionale per la
Conservazione della Natura (IUCN). In Italia, nasce, nel 1955, Italia Nostra per cominciare a salvaguardare un ambiente sempre più minacciato
dalla crescente industrializzazione e nel 1959 Pro Natura Italica, erede di un precedente Movimento Italiano Protezione della Natura, nato nel 1948
in Valle d’Aosta. Dagli anni sessanta è invece l’inquinamento la principale fonte di preoccupazione; il WWF nasce nel 1961 e si diffonde
rapidamente nel mondo, nel 1966 arriva in Italia affiancandosi a un movimento ricco e variegato di piccoli gruppi spontanei, animati da una grande
volontà di cambiamento e dal desiderio di un maggior rispetto della natura.
Questo diventa lo spirito che anima tutti gli anni settanta, in cui la questione ambientale diventa il cuore di un più vasto progetto di trasformazione
della società e un grande numero di persone comincia a preoccuparsi e si attiva in prima persona: il 22 aprile 1970 viene organizzato negli Stati
Uniti l’Earth Day, la Giornata della Terra, e manifestazioni analoghe si svolgono in tutto il mondo. Greenpeace viene fondata nel 1971, sull’onda
della protesta contro gli esperimenti nucleari.
Nel 1972 a Stoccolma si tiene la prima “Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente” e contemporaneamente vengono organizzate delle
manifestazioni con ampia e sentita partecipazione anche da parte di molti esponenti del pensiero e della ricerca scientifica. Il primo partito verde
della storia nasce in Australia, nel 1972, in Europa il primo viene fondato in Gran Bretagna, nel 1973. Ma l’entrata in politica non giova al
movimento ambientalista, che viene privato dei suoi capi carismatici, resi quasi inoffensivi una volta inseriti nell’organizzazione politica
istituzionale, e nel corso dei dieci anni successivi perde gran parte dell’originale carica di contestazione e di opposizione e il suo ruolo di coscienza
critica e coscienza civile.
Nel 1980, sotto la presidenza di Carter, viene pubblicato il rapporto al presidente degli USA Global 2000, che evidenzia la situazione gravissima
del Pianeta e la necessità di cominciare subito a porre rimedio. Ma Carter perde le elezioni ed è il World Watch Institute che continua il lavoro di
aggiornamento sulla situazione planetaria con la pubblicazione annuale di State of the World, che diventa rapidamente un punto di riferimento in tutto
il mondo, tradotto in trenta lingue.81 Nel 1987 la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, nell’ambito dell’ONU, pubblica Our Common
Future, noto anche come Rapporto Brundtland, in cui per la prima volta si comincia a parlare a gran voce di sviluppo sostenibile, pur se
l’ambiguità tra i termini di “crescita” e “sviluppo” non permette di prendere alcuna presa di posizione decisiva.
Una tappa importante nel coinvolgimento internazionale e istituzionale è la realizzazione della Conferenza internazionale su ambiente e sviluppo
di Rio De Janeiro nel 1992, in cui viene presentato Caring for the Earth. A strategy for Sustainable Living,82 un documento che prende finalmente
una posizione chiara: “se vogliamo proteggere la terra e giungere a una qualità della vita migliore per tutti abbiamo bisogno di valori, economie e
società ben diverse da quelle che prevalgono oggi”83 e in cui viene sottoscritta da 180 paesi l’Agenda 21, che contiene le direttive per il XXI secolo
relative ad ambiente, sviluppo economico e rapporti sociali.
Si susseguono, successivamente, incontri internazionali a ritmo incalzante, con un focus sempre più marcato sui rischi e le conseguenze del
cambiamento climatico, processo reso più rapido e incisivo dall’alto livello di CO2 nell’atmosfera terreste prodotto dall’attuale stile di vita
altamente urbanizzato ed energivoro.
A partire dallo storico “Vertice sul clima” a Kyoto nel 1997, ogni anno in un paese diverso vengono organizzate le Conferenza sul clima, come da
Convezione Onu sulle problematiche legate al cambiamento climatico, le cosiddette COP, con confronto con serie sempre nuove di numeri, ricerche
e previsioni… tutt’altro che confortanti. Ma il sistema economico è poco ricettivo alle minacce e ai rischi incombenti e nonostante tanti buoni
propositi espressi, fino alla COP di Davos nel 2020, nessun accordo globale è stato ancora raggiunto e molti degli accordi precedenti sono stati
disattesi: nonostante il clima sia ormai diventato un tema di discussione centrale, di fatto nulla è cambiato e le emissioni di CO2 non sono in via di
riduzione.
Un margine di speranza più alto è nei confronti di un altro importante evento internazionale, l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle
Nazioni Unite,84 sottoscritto nel settembre 2015, con un “programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità” che vuole traghettare i
principi dell’educazione allo sviluppo sostenibile sul fronte delle azioni concrete sul territorio.
Il termine ecologia ha ormai acquisito un nuovo significato: da studio dell’ambiente è sinonimo di studio delle problematiche ambientali,
espressione di una particolare attenzione agli equilibri naturali e alla salvaguardia degli stessi. Ma diventa anche un termine a tal punto abusato dal
sistema mediatico che – tra una lavanderia ecologica e una pizza ecologica – finisce con lo svuotarsi di significato. “In pochi anni tutta la valenza
rivoluzionaria del valore-ambiente è stata perfettamente inglobata dal valore-mercato […], questa nostra società mediatica, strutturata per formare
consumatori (e consenso) in batteria, con un sapiente e veloce operazione sociale e politica, ha ridotto l’ambiente da valore fondamentale a sé stante
e alternativo, a semplice e innocua patina con cui rafforzare i valori dell’economia di mercato”, scrive nel 1997 Gianfranco Amendola, uno dei
padri del movimento ecologista italiano.85
Ma qualcosa sta cambiando. Laddove le istituzioni non danno segnali concreti, iniziano a farsi sentire movimenti spontanei di protesta e
opposizione, che sull’onda dell’emozione e dello sdegno per l’immensità dei problemi, più descritti che affrontati, rappresenta la faccia opposta e
complementare dell’ambientalismo istituzionale. Nel 1999 sorge il movimento spontaneo del “popolo di Seattle”, che catalizza malessere e protesta
anche su altri piani, in cui associazioni e singoli individui, anche eterogenei, si riconoscono nel sentire profondo che c’è qualcosa di sbagliato in
come la globalizzazione sta cambiando non solo l’ambiente ma anche lo stile di vita; prende il nome di movimento no-global ma non è ancora
capace di coordinare e convogliare in azioni concrete e costruttive la protesta. Oggi, emergono nuove realtà, tra le più recenti: Extinction rebellion
e Fridays for Future. Il primo è un movimento, già presente in trentatré paesi, fondato nel maggio 2018 da Roger Hallam e Gail Bradbrook, due
ricercatori universitari inglesi, che mette in campo eventi pacifici di protesta e chiede interventi urgenti per arrestare la crisi climatica, fermare la
perdita di biodiversità e minimizzare il rischio di estinzione umana e il collasso ecologico. Tre mesi dopo, una giovane attivista svedese, Greta
Thunberg, dopo un discorso tenuto alla conferenza sul clima in Polonia, sale alla ribalta sul piano internazionale e consolida attorno a sé la protesta
giovanile, dando avvio a scioperi mondiale per il clima in tutto il mondo. “Sappiamo benissimo chi sono i ladri del nostro futuro e chi i loro
complici. Non gli permetteremo di continuare ad estrarre gas, petrolio e carbone, alterando il clima globale e mettendo in pericoli enormi porzioni
dell’umanità. Evidentemente non hanno figli da guardare in faccia quando tornano a casa la sera”, si legge in un comunicato pubblicato da Fridays
for Future Italia.86

Ecologia superficiale, ecologia profonda


Per comprendere meglio la situazione di stallo in cui si trova attualmente la questione ambientale, vale la pena fare un passo indietro, negli anni in
cui il dibattito era più acceso e diverse linee d’azione si erano già chiaramente delineate.
Dieci anni dopo la pubblicazione di Primavera silenziosa, una voce si differenzia dal coro riportando l’attenzione ai limiti di un’ecologia
concepita solo in termini di riduzione dell’impatto ambientale o di salvaguardia di alcuni spazi incontaminati, per far presente che è invece
necessario in rinnovamento più drastico, al livello del pensiero, che è necessario ribaltare il proprio atteggiamento non solo di fronte alla natura, ma
di fronte alla vita stessa. Questa idea prende forma nel 1972, alla Conferenza sulla Ricerca del Futuro del Terzo Mondo, Third World Future
Research Conference, a Bucarest, nel discorso di Arne Naess, filosofo norvegese, e già dall’anno successivo, dal 1973, comincia a diffondersi nel
mondo col nome di Ecologia profonda.
Sono anni di intensa attività in campo ambientalista: proprio nel 1972 il rapporto “I limiti dello sviluppo”, commissionato dal gruppo di filosofi,
scienziati e imprenditori del Club di Roma al MIT, il Massachusetts Institute of Technology, mette in guardia sui pericoli dell’inquinamento,
dell’esplosione demografica, dell’esaurimento delle risorse, e ha una grande risonanza nell’opinione pubblica. Ovunque studiosi e ricercatori
discutono sulla questione ambientale e si diffondono movimenti di opinione contro lo sviluppo sconsiderato guidati da economisti e sociologi come
l’austriaco Ivan Illich, il francese Serge Latouche e i tedeschi Ernst F. Schumacher e Wolfgang Sachs.
Tornando all’ecologia profonda, Arne Naess, oltre che docente di etica e logica, è uno scalatore, appassionato di montagna e di natura; segue fin
dall’inizio il nascere e diffondersi di tutte queste azioni politiche e sociali in campo ecologico e sottolinea una distinzione tra due forme di
ambientalismo, non necessariamente incompatibili tra loro: “il movimento ecologista superficiale”, attivo in singole iniziative e manifestazioni,
senza però mettere in discussione i principi su cui è basata la società e la visione della vita contemporanea; e l’altro “il vasto movimento
dell’ecologia profonda”, long-range deep ecology movement, come lui stesso lo definisce, basato su una visione olistica della realtà in cui l’uomo è
considerato una parte del tutto. È un movimento basato su una visione ecocentrica invece che antropocentrica, secondo cui la natura va protetta di per
sé, per il suo valore in sé, indipendente dalla sua utilità strumentale. È un movimento volto a ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto
dell’uomo nella natura e nel mondo.
Coerentemente col mutamento di paradigma già in atto nei diversi ambiti della scienza e col pensiero già visto di Bateson e Capra, l’ecologia
profonda non vede il mondo come una serie di oggetti separati, ma come una rete di fenomeni che sono fondamentalmente interconnessi e
interdipendenti; riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi e considera gli esseri umani semplicemente come “uno dei fili nella trama
della vita”. Invita a una consapevolezza intuitiva dell’unità e dell’interdipendenza della vita e rispetta ogni forma di vita, umana e non umana come
dotata di valore intrinseco e non finalizzato soltanto agli obiettivi umani i agli obiettivi produttivi.
L’amore per la natura, nel pensiero di Naess, nulla toglie all’importanza dell’essere umano e all’amore per l’umanità, come spiega in una
intervista del 1976, lo stesso hanno in cui pubblica Økology, samfunn og livsstil, in Italia Ecosofia: “Abbiamo una responsabilità cosmica, un ruolo
cosmico da svolgere, e cioè quello di non disturbare le condizioni di vita di questo pianeta, o quantomeno, di non disturbarle oltre il necessario, il
che significa che dobbiamo proteggere la ricchezza e la diversità della vita. Dobbiamo pensare alla vita come a una vita che ha un suo valore
intrinseco. In secondo luogo abbiamo l’opportunità e la possibilità di combinare il nostro amore per la natura con il nostro amore per gli esseri
umani. Uno dei miei slogan è che dobbiamo estendere il nostro amore ai non umani e questo vuol dire approfondire un po’ il nostro amore per gli
esseri umani”.87
Arnae Ness è anche profondamente influenzato dal friluftsliv norvegese – l’amore per la vita all’aperto – dalla non-violenza ghandiana, dal
buddismo Mahayana e da Spinoza, che vede la natura come parte della Sostanza divina. Nella sua riflessione arriva a formulare una concezione
spirituale della vita, in cui la coscienza si amplia sino a provare un senso di appartenenza con tutto ciò che esiste. L’autorealizzazione per gli uomini
– dice – può essere raggiunta in una grande varietà di modi ed egli sprona gli altri a sviluppare le proprie ecosofie basate sulle proprie visioni
supreme. Il suo metodo è quello di allargare la propria identificazione verso un senso più ampio. Tutti gli esseri umani hanno questa capacità insita
nella propria natura, tutti abbiamo la capacità di metterci in relazione con un senso del sé che trascende l’ego, estendendo il nostro senso di
identificazione oltre il solito punto focale di quello che chiamiamo “io” e andando verso una sfera più ampia di interrelazioni. Procedendo in questa
direzione, sviluppando questa empatia relazionale con l’ambiente, la consapevolezza dell’appartenenza di tutti gli esseri viventi al mondo naturale,
si arriva a comprendere che nell’arrecare danno alla natura, in realtà danneggiamo noi stessi. La conclusione di Arnae Ness è radicale: bisogna
interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura. Ogni essere vivente, ogni singolo aspetto dell’ambiente
sono nodi in un sistema globale di interconnesioni.88
Altri pensatori e attivisti, come lui – Gorge Sessions, Bill Devall, Gary Snyder, Thomas Berry – hanno posto la questione ambientale in questi
termini, criticando gli assunti base della gestione tecnologica e scientifica dell’habitat, risvegliando le coscienze dal conformismo sociale e politico
contemporaneo e stimolando nuove direzioni di pensiero, di ricerca e di applicazione: “La crisi di condizioni sulla Terra potrebbe aiutarci a
scegliere una nuova strada con nuovi criteri di progresso, di efficienza e di azione razionale. […] La crisi ambientale potrebbe resuscitare un nuovo
rinascimento: nuove forme sociali di convivenza insieme con un alto livello di progresso tecnico ed economico, meno invasivo e culturalmente
integrato, e un’esperienza di vita meno limitata”.89
Di fatto, non c’è bisogno di fare nulla di nuovo, basta riattualizzare qualcosa di molto antico: la comprensione della saggezza della Terra e degli
equilibri relazionali nell’ecosistema, la consapevolezza dei rapporti di interazione che caratterizzano la vita, la percezione della realtà in termini
non più solo mentali e razionali, ma anche affettivi e intuitivi, riconoscendo e cogliendo i profondi legami che ci accomunano al mondo di cui siamo
parte. Non è solo una scelta sul piano cognitivo, quella che può farci cambiare il nostro modo di relazionarci con la natura, ma il fatto di sentire di
essere parte della natura. Una volta vissuta questa esperienza, avremo chiaro quello che vogliamo e nulla potrà distarci dal nostro obiettivo. Questo,
il messaggio di Dolores LaChapelle, alpinista, ambientalista e leader del movimento dell’ecologia profonda.

65 Codice Atlantico, folio 1067, in Fritjof Capra, La Scienza Universale, Rizzoli, Milano, 2007, p. 240.
66 Blaise Pascal, Pensieri, Città Nuova, Roma, 2003, p. 160.
67 Alberto Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 7.
68 Marco Boscolo, “Ernst Haeckel e l’invenzione dell’ecologia”, Micron - Ecologia, Scienza, Conoscenza, n. 41, dicembre 2018.
69 Marino Gatto, Renato Casagrandi, Dispense del corso di Ecologia, Politecnico di Milano, 2003-2004.
70 Carlo Ferrari, Lucio Gambi, Un Po di terra: guida all’ambiente della bassa pianura padana e alla sua storia, Diabasis, Parma, 2000, p. 249.
71 Terra Madre, 22 ottobre 2004, Torino. “Tavola rotonda sui sistemi agricoli indigeni”.
72 Gregory Bateson, Mente e Natura, Adelphi, Milano 1984, p. 21.
73 Marco Deriu, “Signore che cos’è l’uomo?” la domanda del salmista, l’enigma della sfinge e il pensiero di Gregory Bateson, Centro Studi Sereno Regis, Torino, 2000.
74 Gregory Bateson, Mary Catherine Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano, 1989.
75 Ibidem, pp. 272-273.
76 Gregory Bateson, cit., 1984.
77 Ken Wilber, Una teoria del tutto: Una visione integrale per la politica, l’economia, la scienza e la spiritualità, Crisalide, 2015.
78 noosphere.princeton.edu
79 Robert K. Wallace, Fisiologia della coscienza, Tecniche Nuove, Milano, 1998.
80 Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1962.
81 State of the World, edito dal World Watch Institute, pubblicato in Italia da Edizioni Ambiente.
82 Prendersi cura della terra. Strategie per un vivere sostenibile, a cura di Gianfranco Bologna e Paolo Lombardi, WWF Italia, 1991.
83 Gianfranco Bologna, Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro, Edizioni Ambiente, Milano, 2005.
84 Marcella Danon, Clorofillati – Ritornare alla Natura e rigenerarsi, Feltrinelli, Milano, 2019, p. 48.
85 Federico Battistutta, “Le radici profonde. L’ecologia prima dell’ecologia”, in La conversione ecologica, Casa editrice Vicolo del pavone, Piacenza, 1999.
86 Elisabetta Scuri, “I giovani di Fridays for Future Milano. Ogni promessa che fate al Pianeta è debito”, Lifegate, 28 maggio 2019.
87 “Addio ad Arne Næss: l’intervista al padre dell’ecosofia”, di Simone Bedetti, ecologiaprofonda.com
88 Stefano Fusi, “A partire dall’amore per la vita”, in Namns n. 42, 01/1995, pp. 48-51.
89 Arne Naess, Ecosofia, Red edizioni, Como, 1994, p. 27.
Capitolo 5

SIAMO TUTTI TERRESTRI!

“Poiché tutti gli organismi discendono da un antenato comune, è corretto affermare che la biosfera nel suo complesso iniziò a pensare quando nacque l’umanità. Se le altre forme di vita
sono il corpo, noi siamo la mente. Pertanto il nostro posto nella natura, considerato da una prospettiva etica, è riflettere sulla creazione e proteggere il pianeta vivente”.
Edward O. Wilson, Biofilia

Allargare i confini dell’identità


Quando per la prima volta abbiamo visto la Terra dallo spazio, quando i primi astronauti hanno condiviso con il mondo la loro emozione, è stato
posto il seme di un salto di qualità per la coscienza umana: “Laggiù, in basso c’è la Terra, un pianeta bianco-azzurro bellissimo, splendente, la nostra
patria umana. Dalla luna lo tengo tutto sul palmo della mano. E da questa prospettiva non ci sono bianchi o neri, divisioni tra est e ovest, comunisti e
capitalisti, nord e sud. Formiamo tutti un’unica Terra. Dobbiamo imparare ad amare questo pianeta di cui siamo tutti una piccola parte”.90 Sono le
parole dell’astronauta John W. Young dall’Apollo 16, nell’aprile del 1972.
A questo messaggio fa eco l’affermazione del padre gesuita Teilhard de Chardin, scritta nel 1933: “L’era delle nazioni è già passata. Si tratta ora
per noi, se non vogliamo perire, di scuotere gli antichi pregiudizi e di costruire la Terra”.91
“Ciascuno di noi ha la propria genealogia e la propria carta d’identità terrestre. Ciascuno di noi viene dalla Terra, è della Terra, è sulla Terra.
Apparteniamo alla Terra che ci appartiene”,92 ripete nel 1993 Edgar Morin, il sociologo contemporaneo francese che in Terra-Patria descrive i
processi in atto che ci stanno portando verso quella che chiama “era planetaria”.
Lo stesso concetto, espresso non solo in termini filosofici, ma con un forte invito alla proattività, arriva nel 2015 da papa Francesco. La sua
enciclica Laudato si’. Sulla cura della casa comune è un gigantesco passo in avanti – realizzato, non a caso, da un gigante – per lo sviluppo di
intelligenza ecologica, coscienza planetaria, impegno collettivo per il consolidarsi di una evoluzione dell’umanità verso una cittadinanza terreste,
verso una “cittadinanza ecologica”, come la definisce l’autore.93
Leonardo Boff, teologo della liberazione brasiliano, parla dell’emergente civiltà planetaria, riprendendo il concetto di noosfera e caldeggiando la
nascita di una coscienza civile a livello terrestre, giacché si sta risvegliando la consapevolezza che formiamo, come umanità, una grande famiglia.
“Vista la complessità sempre crescente dei mezzi di comunicazione, la creazione di interdipendenze sempre più strette, la coscienza
dell’unificazione dell’umanità e l’acceleratissima mondializzazione – Boff si chiede – non staremo forse oggi creando le condizioni per un nuovo
livello di umanizzazione? Per la nascita di un sistema nervoso complesso, per un cervello globale?”94
Il concetto di “cervello globale” era stato usato dal fisico statunitense Peter Russell ancora in era pre-internet, nel 1983, per descrivere il
concetto secondo il quale la Terra sta diventando cosciente di se stessa attraverso l’essere umano, grazie all’infittirsi della rete di comunicazione e
informazione.95
Un forte sostegno a tutte queste visioni così propositive rispetto alla stretta interazione esistente tra uomo e sfera terrestre arriva proprio da uno
scienziato, il fisico e chimico inglese James Lovelock, che alla fine degli anni settanta pubblica i risultati di una sua lunga ricerca col nome di
“Ipotesi Gaia”: “Tale visione ha fatto sorgere l’ipotesi, il modello, nel quale la sostanza vivente della Terra, l’aria, gli oceani e le superfici emerse
formano un sistema complesso, che può essere visto come un singolo organismo avente la capacità di mantenere nel nostro pianeta le condizioni
adatte alla vita”.96 L’ipotesi che riconosce al Pianeta lo status di organismo vivente autoregolantesi, nell’arco di pochi anni viene chiamata Teoria;
solleva forti obiezioni da una parte e grandi entusiasmi dall’altra, e genera un interessante dibattito nel mondo accademico, sia scientifico che
filosofico, senza essere ancora universalmente né accettata, né confutata.
Nell’epilogo di Gaia – Nuove idee sull’ecologia, in cui per la prima volta presenta la sua tesi, Lovelock abbandona per un momento il linguaggio
più prettamente scientifico per lasciarsi andare a qualche riflessione personale insieme ai suoi lettori: “Se noi siamo una parte di Gaia diventa
interessante chiederci: ‘In quale misura la nostra intelligenza collettiva è pure una parte di Gaia? Costituiamo noi come specie un sistema nervoso
gaiano e un cervello che può consciamente anticipare i mutamenti ambientali?’ Che ci piaccia o no, abbiamo già cominciato a funzionare in questo
modo”.97 Prima di vedere in dettaglio quali sono i parametri e quale è il percorso che Lovelock compie per formulare la sua Ipotesi Gaia e prima di
approfondire il pensiero degli altri autori che hanno chiamato in causa l’intero pianeta, una domanda sorge spontanea: quanto sappiamo del mondo in
cui viviamo? Da dove viene la Terra, com’è fatta la Terra.
Chi è la Terra?

Breve biografia della Terra


Marco Aurelio immaginava di guardare le vicende umane, inclusa la propria, da un posto fra le nuvole, nel contesto dell’intero panorama del mondo:
questo gli ridava il senso delle giuste proporzioni.98 Se fossimo più consapevoli della nostra collocazione nel contesto spazio-temporale della Terra,
probabilmente anche noi potremmo trarne giovamento, ridimensionando molte delle problematiche che ci affliggono e riconsiderando l’entità della
nostra importanza personale.
La storia della Terra inizia quasi 5 miliardi di anni fa, con l’esplosione della stella che fornisce il materiale da cui trae origine la nuvola di gas e
polvere cosmica che ha portato alla formazione del sistema solare. Occupa una posizione unica, né troppo vicina né troppo lontana dal sole, in cui
beneficia di condizioni che hanno reso possibile l’origine della vita e la sua evoluzione. Nei 4.560 milioni di anni della sua storia un insieme unico
di eventi e processi l’ha trasformata in quello che mi piace chiamare il “Pianeta verde-azzurro”.
La Terra deve le sue peculiari caratteristiche alla costante interazione dinamica tra due grandi fonti energetiche: una è l’energia solare, che
raggiunge l’atmosfera del pianeta, ne riscalda la superficie, controlla i fenomeni meteorologici e il sistema idrologico, determina il processo di
erosione e il trasporto dei sedimenti; l’altra è il nucleo stesso della Terra, che provoca la fusione lenta delle rocce solide del mantello, lo strato
sottostante la crosta, generando un continuo movimento, base dell’attività tettonica, del cambiamento di dimensioni e distribuzione dei bacini
oceanici, delle masse continentali delle isole e di importanti elementi del paesaggio. Quello che caratterizza l’ambiente che è venuto a crearsi sul
nostro pianeta, differenziandolo dall’ambiente lunare, sono la presenza dell’atmosfera e le abbondanti riserve d’acqua. L’atmosfera svolge una
funzione protettiva, consente alle acque di superficie di mantenersi allo stato liquido e impedisce alla maggior parte dei raggi ultravioletti di
raggiungere la superficie terrestre, due condizioni indispensabili allo sviluppo di condizioni idonee alla vita così come la conosciamo noi.99
La storia del nostro pianeta è caratterizzata da un intenso dinamismo e da una continua trasformazione. Cataclismi, terremoti e bombardamento di
corpi celesti si sono susseguiti nel primo miliardo di anni di vita, e la Luna stessa è stata generata durante questa fase, in seguito a una collisione con
un corpo planetario di notevoli dimensioni. Una volta raggiunta una relativa stabilità strutturale, l’atmosfera e gli oceani hanno ancora cambiato
diverse volte composizione col passare di milioni di anni; le piattaforme continentali si sono spostate sulla superficie terrestre – un processo tuttora
in atto – si sono susseguite epoche glaciali e altre più calde; ci sono stati altri violenti impatti con meteoriti esterni che hanno modificato, a volte
drasticamente, non solo la conformazione, ma anche lo sviluppo della vita emergente, causando estinzioni anche del 90% delle forme vegetali e
animali già esistenti, come avvenne alla fine del Paleozoico, 260 milioni di anni fa.
Le primissime tracce di vita, all’inizio semplicemente molecole organiche, risalgono ad almeno 3,7 miliardi di anni fa. Il processo che ha portato
allo sviluppo dei primi organismi viventi è abbastanza chiaro, la questione che rimane invece in sospeso è “da dove viene la vita”, perché la
composizione della materia vivente sembra essere vicina a quella delle stelle, dove predominano composti a base di silicio, ossigeno, calcio, sodio
e ferro. Infine vi è la scoperta recente di alcuni composti organici complessi all’interno di nubi galattiche, nebulose, code di comete, che hanno fatto
riesumare la vecchia teoria della panspermia di Fred Hoyle e dell’astrofisico indiano Chandra Wickramasinghe, che la vita si sia formata fra le
stelle invece che sulla Terra.100
Continuando la nostra storia, amminoacidi, proteine e acidi nucleici (DNA e RNA) sono i primi “ingredienti” della vita, ma le prime molecole
organiche hanno bisogno di ancora quasi mezzo miliardo di anni prima di evolversi in batteri, in organismi cellulari veri e propri; e allo stato attuale
delle nostre conoscenze per noi è più difficile comprendere questo passaggio dalle prime forme molecolari al batterio, che non dal batterio
all’uomo.
I batteri hanno riempito il pianeta quando la Terra aveva poco più di un miliardo di anni di vita e lo hanno dominato nei successivi due miliardi di
anni; hanno modificato profondamente l’atmosfera, proliferando dappertutto: nell’acqua, in superficie, nell’aria, sotto terra. Essi rappresentano
probabilmente l’anello più importante nella storia della nostra vita.101
Furono i batteri, e in particolare gli antenati degli attuali cianobatteri o batteri verdeazzurri (noti come alghe verdeazzurre), i primi a mettere in
atto il processo della fotosintesi, destinato, letteralmente, a cambiare la faccia della Terra. La fotosintesi consente agli organismi pluricellulari più
complessi di sfruttare l’energia solare per trasformare semplici sostanze inorganiche, come l’anidride carbonica e l’acqua, in sostanze organiche
ricche di energia. Praticamente questi microrganismi, invece che cercare il cibo, trovano la maniera di fabbricarselo da soli: un meccanismo
ingegnoso che ha radicalmente cambiato la composizione dell’atmosfera terrestre, facendo apparire per la prima volta l’ossigeno libero, che cambia
drasticamente direzione allo sviluppo della vita sulla Terra.
Passano altri due miliardi di anni, le terre emerse nel frattempo si stabilizzano, i batteri in grado di effettuare la fotosintesi si evolvono in
organismi cellulari più grandi e più complessi e la concentrazione di ossigeno negli oceani e nell’atmosfera aumentata e favorisce la formazione
dello strato di ozono, che riduce la componente dannosa delle radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole.
Se l’ossigeno è stato visto inizialmente, dalle prime forme di vita, come un avvelenamento, ora vi sono organismi che scoprono come sfruttare
questa nuova risorsa per produrre energia: la vita scopre la respirazione, più efficace della sola fotosintesi, e si innesca quel salto di qualità che
permette la nascita di organismi pluricellulari.
A partire da questo momento l’evoluzione della vita subisce una brusca accelerazione e si trovano numerose tracce di vita pluricellulare già a
partire da 620 milioni di anni fa. Le ere geologiche si susseguono, la vita è inizialmente nei mari, e a partire da 350 milioni di anni fa inizia il
fatidico passaggio dalle acque alla terraferma, un evento che per importanza può essere paragonato alla conquista della Luna. Felci, licopodi ed
equiseti sono le prime piante che colonizzano la superficie. L’equiseto, o coda cavallina, che ancora è facile vedere in campagna sulle rive dei
ruscelli o nei terreni umidi, è oggi una miniatura dei grandi alberi che formavano le rigogliose foreste del carbonifero, da cui hanno avuto origine gli
attuali depositi di carbone e i giacimenti di petrolio. I primi animali continentali sono stati invece artropodi – che includono la classe dei ragni, dei
granchi e degli insetti – e pesci nelle acque dolci. Fanno la loro apparizione anfibi e rettili e, nel corso dei successivi milioni di anni, la vita si
diversifica in forme via via più elaborate: uccelli, dinosauri – che nel Triassico e Giurassico dominano il pianeta – e i primi mammiferi.
Cambiamenti climatici, orogenesi, attività tettonica e collisioni con corpi celesti, come è già stato precedentemente anticipato, non risparmiano la
giovane vita sulla Terra e diverse volte nell’arco di questo mezzo miliardo di anni, le forme di vita esistenti sono minacciate e decimate da eventi
interni ed esterni.
Dopo l’estinzione dei dinosauri, 60 milioni di anni fa, inizia una nuova era, il Cenozoico o “della vita recente”, in cui la strada è spianata per
l’ascesa dei mammiferi. Un’era caratterizzata dalla diversificazione dei moderni pesci, dalla diffusione delle piante da fiori e degli insetti
impollinatori, dalla conquista degli spazi aerei da parte degli uccelli, dalla moltiplicazione delle forme dei mammiferi e dei marsupiali, dalla
nascita dei primati.
Quando arriviamo a 15 milioni di anni fa, anche se i continenti hanno più o meno la disposizione che conosciamo oggi, le placche continentali
sono ancora in movimento ed è da questi grandi spostamenti e convergenze, per non dire collisioni, che hanno origine le principali catene montuose
della nostra geografia contemporanea: le Ande, le Montagne rocciose, le Alpi e la catena dell’Himalaya.
Lo scenario attuale inizia a prendere forma e nel cuore dell’Africa fanno apparizione in quest’epoca le prime grandi scimmie antropomorfe, da
cui la paleontologia fa discendere i gorilla, gli scimpanzé e l’uomo. Uno degli attributi fondamentali della specie umana, la deambulazione bipede, si
manifesta con maggior chiarezza 4 milioni di anni fa, con gli australopitecini. Ma è con l’apparizione dei primi utensili in pietra, 2 milioni di anni fa,
che fa la sua comparsa l’Homo abilis, la cui massa cerebrale è già notevolmente aumentata rispetto a quella delle scimmie antropomorfe. “Il genere
Homo, caratterizzato dall’intenzionalità di costruire o modificare oggetti, progressivamente si differenzia e si specializza sempre di più per
camminare lunghe distanze: le ossa del bacino diventano più strette, le gambe più lunghe delle braccia, i peli più piccoli, sottili e chiari,
permettendo una migliore e più efficiente dispersione del calore attraverso la sudorazione”.102 Si susseguono molte altre specie, tra cui le più note
sono Homo ergaster e dall’Homo erectus, dotate di corporatura più robusta, più ampia mobilità e ingegnosità. Gli ergaster sono i primi ominidi a
utilizzare il fuoco, gli erectus i primi a migrare oltre il territorio africano.
L’evoluzione continua e dopo Homo heilderbergensis fa la sua apparizione il più noto Homo neanderthalensis, Uomo della valle di Neander, con
una capacità cranica addirittura superiore a quella dell’uomo moderno.103 I neanderthaliani vivono in Europa e in Asia tra i 200.000 e i 40.000 anni
fa, massicci e muscolosi, ben adattati ai climi freddi europei.
L’Homo sapiens fa la sua comparsa in Africa 150.000 anni or sono e da lì migra attraverso la penisola araba, sino a diffondersi nelle diverse
regioni euroasiatiche. Più gracile, ma più intelligente del neanderthaliano, migliora le tecniche di manipolazione di utensili e materiali, produce
incisioni di natura simbolica, sviluppa pensiero e linguaggio. Le due specie convivono a lungo su uno stesso territorio ma alla fine, 30.000 anni fa, il
neanderthaliano si estingue. Le teorie riguardo questa scomparsa sono svariate:104 ibridazione, rimpiazzamento, genocidio, condizioni climatiche
sempre più rigide o, semplicemente, non aver elaborato sufficienti strategie di sopravvivenza. Il Pianeta rimane in eredità all’Homo sapiens. Di
questa specie, in quanto Homo sapiens sapiens, siamo i discendenti diretti, e siamo molto giovani, sulla Terra, rispetto a chi ci ha preceduto.

Collocarsi nel tempo e nello spazio


Questo è ciò che raccontiamo di noi stessi e del mondo in cui viviamo, è quello che della nostra storia sappiamo attualmente, consapevoli che molti
sono i tasselli mancanti per una più completa visione delle cose. L’intero processo è stato ricostruito, e in parte semplicemente dedotto, a partire da
frammenti di informazioni reperiti attraverso lo studio dei fossili, la datazione al carbonio, la geomorfologia e altre scienze. Questa storia è un
mosaico interamente ricostruito a partire da pochi gruppi di tessere sparse. Anche con questo limite, mantiene intatta la sua grandiosità, racconta
delle migliaia di generazioni di Homo sapiens sapiens che ci hanno preceduto e di quanto è lungo il percorso che ci ha portato agli anni in cui
viviamo attualmente sulla Terra.
Se proviamo a riassumere tutta la storia del Pianeta in 24 ore, possiamo renderci conto di quanto è immensamente lungo il periodo che precede la
nostra storia contemporanea sulla Terra. La vita unicellulare appare verso le 3 del mattino, quella pluricellulare poco prima delle 21 e i primi
vertebrati alle 22.50. Alle 23.30 si estinguono i dinosauri, dieci minuti dopo inizia l’era dei mammiferi così come li conosciamo oggi. Alle 23.58 si
sollevano le catene delle Alpi e dell’Himalaya, i primi antenati degli esseri umani calcano la Terra un minuto e mezzo dopo e l’Homo sapiens fa la
sua apparizione pochi secondi prima di mezzanotte. Gli ultimi 5.000 anni di storia documentata occupano 4 millesimi di secondo.
Non siamo piccoli soltanto nel tempo, ma anche nello spazio. Il pianeta Terra non è che uno dei pianeti del sistema solare, un minuscolo
granellino alla periferia della Via Lattea, a sua volta una tra i 100 miliardi di galassie, presenti nell’universo osservabile. Il numero stimato di
galassie esistenti è almeno dieci volte tanto e ognuna di queste include centinaia di miliardi di stelle. Ogni stella, a sua volta, può essere circondata
da pianeti e satelliti, moltiplicando sino all’inverosimile il numero di corpi celesti che condividono lo stesso universo di cui facciamo parte: ci sono
più stelle in cielo che granelli di sabbia sulla Terra!
L’universo è in espansione. Secondo le teorie attualmente accreditate è ancora sotto l’effetto del big bang iniziale. Per poter concepire gli
immensi spazi in cui si colloca la nostra casa è stata necessaria una nuova unità di misura, l’anno luce, equivalente alla distanza percorsa in un anno
dalla luce, quanto di più veloce esiste. La luce percorre 300.000 chilometri al secondo, copre la distanza Terra-Luna in poco più di un secondo;
percorre più di due milioni e mezzo di chilometri in un giorno e quasi un miliardo di chilometri in un anno.
La stella a noi più vicina, Proxima Centauri, dista poco più di 4 anni luce, la galassia più vicina, il Cane Maggiore, ne dista 25.000. La Via Lattea
ha un diametro di 100.000 anni luce, e l’universo interno è attualmente stimato di un’ampiezza di oltre i 26 miliardi anni luce. L’universo ha,
presumibilmente, tra i 13 e i 15 miliardi di anni, ed è a partire da questo dato che ne è stata stimata la dimensione.
Sono dati da capogiro, che mandano fuori scala ogni considerazione in termini di spazio e di tempo terrestre. Ma soffermarci ogni tanto su questi
dati ci aiuta ad acquisire una maggiore consapevolezza del contesto di cui siamo parte e a lasciare sempre aperto uno spazio alle domande “chi
siamo”, “da dove veniamo” e “dove andiamo?”, mantenendo viva la curiosità necessaria per esplorare la varietà delle diverse possibili risposte.

L’evoluzione continua
Proprio da queste riflessioni, il teologo gesuita francese Teilhard de Chardin – già citato a proposito della noosfera – elabora una sua teoria
evolutiva, della vita e dell’universo intero. Teilhard de Chardin è anche paleontologo e geologo, partecipa a varie spedizioni, soprattutto in Cina;
contribuisce alla scoperta dell’uomo di Pechino ed è considerato il fondatore della moderna paleontologia cinese. Quello che lo studioso mette in
evidenza è che l’evoluzione, presa come visione d’insieme, è caratterizzata da un movimento verso forme di sempre maggiore complessità: la
biosfera si evolve come un’unica entità complessa.
Per quanto riguarda la storia dell’evoluzione della vita sulla Terra, De Chardin si sofferma sulla constatazione che la trasformazione morfologica
degli esseri pare essersi rallentata proprio quando il pensiero fa la sua comparsa. Potrebbe essere solo una coincidenza, ma sommata al fatto che
“l’unica direzione costante seguita dall’evoluzione biologica è stata quella del più grande cervello”, si chiede De Chardin, il motore dell’evoluzione
non potrebbe essere proprio il bisogno di conoscere?105
“Noi siamo l’assoluto che gioca a conoscere se stesso” è la visione dell’antica filosofia indiana, che risponde alle grandi domande dell’uomo
sulle sue origini e sullo scopo della sua vita con il “Gioco della Lila”, un mito indiano che propone la visione della coscienza umana come scintilla
della stessa energia che pervade l’universo intero, che assume connotazione materiale al solo scopo di conoscere e assaporare la sua stessa opera.
Non sappiamo se il padre gesuita avesse studiato l’Advaita Vedanta, uno dei testi più antichi della tradizione indiana, che esprime questa
concezione, ma la sua visione vi si avvicina molto.
Teilhard de Chardin continua il suo ragionamento ipotizzando che l’evoluzione adesso continua non più sul piano della forma, ma della coscienza.
L’essere umano è l’espressione attuale di questa recente conquista della vita ed è investito da una grande responsabilità e a lui – a noi – spetta il
compito di continuare il processo evolutivo: “I nostri padri si consideravano come interamente contenuti nei limiti dei loro anni terrestri e del loro
corpo. Noi abbiamo fatto esplodere queste dimensioni ristrette e queste pretese. Umiliati e ingranditi dalle nostre scoperte, noi ci accorgiamo, a
poco a poco, di essere avvolti in prolungamenti immensi; e, come risvegliati da un sogno, ci rendiamo conto che la nostra regalità sta nel servire,
quali atomi intelligenti, l’opera in corso nell’universo”.106
Certo che questa funzione richiede la collaborazione dell’uomo che è “capace del meglio e del peggio”. Quale direzione sceglieremo di seguire
ora che siamo consapevoli della nostra libertà e della nostra responsabilità? Questa è la sfida che attende le generazioni future, afferma De Chardin.

Il nostro è un pianeta intelligente


Un ponte tra scienza e fede è stato gettato e all’uomo viene attribuito un onere e un onore quale mai aveva ricevuto nell’ambito della cultura
contemporanea.
Poche decine di anni dopo è uno scienziato a gettare un ponte simile che, pur partendo da osservazioni e presupposti diversi, giunge a confermare
– con altri termini – alcune delle intuizioni del gesuita francese.
James Lovelock è un ricercatore inglese indipendente, la sua formazione spazia dalla chimica alla medicina, dalla fisica alla cibernetica, è
specializzato in gascromatografia – il rilevamento e lo studio della composizione di atmosfere – ed è stato più volte consulente della NASA per
studi relativi all’identificazione di eventuali forme di vita sugli altri pianeti del sistema solare.
Usando inizialmente la Terra solo come punto di riferimento, Lovelock sposta la sua attenzione proprio sull’osservazione di ciò che avviene sul
nostro Pianeta: i viaggi nello spazio non soltanto hanno presentato la Terra in un’altra prospettiva, ma hanno fornito anche le informazioni
sull’atmosfera e sulla superficie terrestre, che hanno dato una nuova visione delle interazioni tra la parte vivente e quella inorganica del Pianeta.
Tale visione ha fatto sorgere l’ipotesi, il modello, nel quale la sostanza vivente della Terra, l’acqua, gli oceani e le superfici emerse formano un
sistema complesso, che può essere visto come un singolo organismo avente la capacità di mantenere nel nostro pianeta le condizioni adatte alla
vita.107
Così Lovelock descrive quella che chiamerà “Ipotesi Gaia” nella prima pagina della prefazione di Gaia: A New Look at Life on Earth pubblicato
nel 1979 dalla Oxford University Press, destinata a innescare una valanga di interrogativi in ambito accademico e un considerevole entusiasmo in
ambito ambientalista. “Ipotesi Gaia” sostiene che “il clima e l’ambiente superficiale della Terra sono regolati dalle piante, dagli animali e dai
microrganismi che vivono su di essa; e che, nel suo insieme, il Pianeta si comporta non come una sfera inanimata di rocce e terreno, sostenuta dai
processi accidentali e automatici della geologia, come da lungo tempo affermato dalla scienze della Terra tradizionali, ma piuttosto come un
sovraorganismo biologico – un corpo planetario – in grado di autoregolarsi”.108
La teoria è stata elaborata insieme alla microbiologa statunitense Lynn Margulis ed è stata proprio la collaborazione tra chi studia la Terra e chi
studia la vita che ha permesso di cogliere connessioni e coincidenze prima ignorate: i biologi che studiavano gli insetti nel terreno, per esempio, da
tempo avevano notato le loro emissioni di metano, ma non vi avevano dato alcun peso; i geografi e gli aeronomi, che studiano la fisica e la chimica
dell’alta atmosfera, avevano sì notato la presenza del metano ad alte quote, ma non sapevano nulla degli insetti. Lovelock dimostra che esiste una
stretta relazione tra la microflora anaerobica dei fanghi mefitici dei fondali marini, laghi e stagni e il metano presente allo stato libero negli strati più
alti dell’atmosfera; quando la quantità di metano in circolazione è molto alta, a causa di eruzioni vulcaniche, per esempio, la quantità dei batteri in
fondo al mare che lo producono… diminuisce, per riprendere a crescere quando il valore del metano torna ai suoi livelli costanti. È proprio questo
il fulcro della teoria, la scoperta di un complesso sistema di meccanismi correttivi e compensativi, simili a quelli del corpo di un animale che si
regola per compensare i mutamenti di temperatura, pressione o composizione dell’ambiente che lo circonda. Questo è stato l’indispensabile
contributo di una biologa nell’elaborazione di questa visione, l’individuazione di processi chimici che non seguono un andamento lineare – come
quelli osservati su pianeti privi di vita del sistema solare – ma omeostatico, tendente cioè a conservare l’equilibrio raggiunto nelle condizioni
ottimali per la vita. “L’intera gamma della materia vivente sulla Terra, dalle balene ai virus e dalle querce alle alghe, poteva essere considerata
come costituente di una singola entità vivente, capace di manipolare l’atmosfera per le proprie capacità globali e dotata di facoltà e poteri superiori
di molto a quello dei suoi singoli costituenti”.109
Lovelock spiega passo per passo gli studi, le ricerche, le osservazioni che hanno evidenziato e comprovato le diverse interazioni tra atmosfera e
biosfera e che lo hanno portato ad affermare che Gaia, se esiste in quanto entità individuale, è indubbiamente intelligente. Ed è a questo punto che si
apre un nuovo capitolo nella storia del rapporto tra noi e la Terra, perché l’essere umano è una specie animale attualmente dominante nel complesso
del sistema vivente e in qualche modo è sicuramente coinvolto: “Ipotesi Gaia implica che lo stato stazionario del nostro pianeta include l’uomo
come parte di un’entità molto democratica o come suo partner”, magari proprio per salvare la Terra da una nuova possibile collisione con un corpo
celeste proveniente dallo spazio, disastro oggi prevedibile e scongiurabile con la tecnologia attuabile.
“L’ipotesi Gaia è per coloro che amano camminare o semplicemente stare a guardare e pensare ai fatti della Terra e della vita su di essa, nonché
meditare sulle conseguenze della nostra presenza qui. È un’alternativa alla visione pessimistica, che considera la natura come una forza primitiva da
soggiogare e da conquistare. È anche un’alternativa a quell’altrettanto deprimente immagine di un pianeta, il nostro, visto come demente nave
spaziale, viaggiante per sempre, senza guida e senza scopo, in un’orbita interna intorno al sole”,110 spiega nell’introduzione.
Lovelock è soprattutto un gentiluomo di campagna, amante della quiete e della bellezza, che ha ereditato dal padre, appassionato giardiniere, la
consapevolezza del valore e della funzione di ogni singola creatura. Il suo libro si conclude con uno spirito di grande apertura e possibilità e apre le
porte all’ecopsicologia: “può darsi che noi si sia stati programmati anche a riconoscere istintivamente il nostro ruolo ottimale in relazione ad altre
forme di vita intorno a noi”.111

Il risveglio della mente globale


James Lovelock voleva stimolare non solo il mondo scientifico, ma anche i non addetti ai lavori, per questo ha scritto un libro accessibile a tutti,
lasciando ai suoi colleghi e sostenitori di redigere testi più complessi e specialistici da dare alle stampe. E l’effetto è stato sicuramente più
travolgente di quanto avesse mai potuto immaginare.
Molti si sono sentiti toccati in profondità dal ragionamento e dalla rivelazione del chimico e della sua collega biologa e hanno fatto della teoria
un vessillo delle sfumature più varie di pensiero, dall’ambito scientifico a quello spirituale, da quello più romantico new age a quello più nostalgico
del culto della Dea.
Più di una volta Lovelock ha affermato di essersi anche sentito strumentalizzato, ma se voleva smuovere le acque stagnanti di una ormai vecchia
concezione meccanicistica del pianeta su cui viviamo, ebbene, vi è riuscito.
Tre anni dopo la divulgazione di Ipotesi Gaia, nel 1982, un altro libero pensatore fa sentire la sua voce: lo statunitense Peter Russell, fisico,
matematico, affascinato dai misteri della mente umana, ricercatore tanto nel campo della psicologia sperimentale quanto in quello della meditazione.
Russell prende spunto proprio da Ipotesi Gaia e ne approfondisce le implicazioni più prettamente filosofiche, quelle che Lovelock aveva tracciato
rapidamente come considerazioni personali nella conclusione del suo libro, quando si era chiesto se l’uomo non poteva essere paragonato al sistema
nervoso dell’immenso organismo gaiano.
Il risveglio della mente globale, frutto di queste riflessioni, pone l’attenzione sullo sviluppo in atto nella comunicazione e nei sistemi informatici
che stanno creando una rete planetaria in grado di connettere tra loro individui e parti diverse del mondo, un processo paragonabile alla creazione di
un cervello globale embrionale. Nella prefazione della seconda edizione nel 1994, che sarebbe stata tradotta in italiano nel 2000,112 Russell
sottolinea con meraviglia che quello che nel primo testo era una supposizione, è ormai diventata realtà affermata: il mondo è connesso come mai era
stato possibile prima. Internet, la televisione via satellite, telefoni, cellulari, fax sono le fibre nervose della rete globale, nella terminologia di
Russell, e si stanno sviluppando sempre più rapidamente.
Come risultato di questa comunicazione sempre più diffusa, le persone diventano più consapevoli di problematiche prima relegate in uffici di
competenza e l’informazione circola anche al di fuori dei canali convenzionali. Ha permesso, per cominciare, agli studenti barricati nelle università
durante la rivolta di piazza Tienanmen di scambiarsi informazioni via fax e di raccontare al mondo intero la situazione dal loro punto di vista; agli
indios dell’Amazzonia Tupi Guranì di comunicare in tempo reale quello che succede nel cuore della loro foresta; al mondo intero di seguire col fiato
sospeso il crollo delle torri gemelle o le conseguenze del maremoto nel sud-est asiatico, alla fine del 2004.
Con l’incalzare degli eventi e delle informazioni, si diffonde una maggiore consapevolezza, soprattutto negli ultimi trent’anni, anche delle
problematiche ambientali connesse al nostro moderno stile di vita. Effetto serra, inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, dissesto
idrogeologico, siccità e incendi da una parte con piogge torrenziali e alluvioni dall’altra, sono solo gli effetti più eclatanti di un disequilibrio ormai
manifesto sul piano ambientale. La consapevolezza mobilita opinione pubblica, istituzioni e imprenditoria, sempre più propensa a uno sviluppo
sostenibile. Russell sostiene che “la mente globale sta prendendo coscienza del proprio corpo”, ma quello che già viene fatto in campo politico,
economico, ambientalista, ancora non è sufficiente: “I cambiamenti necessari vanno molto più in profondità” scrive. “Per poter sviluppare
un’attitudine di cura verso il mondo, dobbiamo produrre un nuovo modello di noi stessi, un nuovo senso di chi siamo e cosa vogliamo veramente.
Dobbiamo andare al di là della percezione limitata che vede soddisfazione soltanto nelle gioie che possono derivare dal mondo che ci circonda.
Dobbiamo arrivare a valutare il nostro sviluppo interiore quanto, se non più, di quello materiale. In altre parole, abbiamo bisogno di un
cambiamento di attitudine, un cambiamento di cuore”.113
Russell si scaglia contro l’atteggiamento oggi dominante incentrato sull’idea di un benessere materiale come obiettivo primario, come presunta
fonte di felicità. Un malinteso che ci porta a consumare risorse di cui non necessitiamo, a trattare altre persone come fossero elementi di
un’equazione, a scaricare i nostri rifiuti dove non si vedono e a maltrattare e abusare dei nostri stessi corpi. Indica un nuovo orizzonte da
conquistare, quello del benessere interiore, di una facoltà di pensiero sempre più libera, creativa, flessibile, in modo da poter rispondere ai
cambiamenti con presenza di spirito, piuttosto che attraverso gli schemi del passato. Quando avremo conquistato una maggiore stabilità interiore e
serenità, conclude, “troveremo forse il coraggio di esprimere i nostri valori più profondi e usare la tecnologia per creare il mondo che vogliamo
veramente. Forse allora il cervello globale potrà sviluppare un cuore globale”.114
Marilyn Ferguson – editrice e direttrice del “Brain Mind Bulletin”, la testata più diffusa per le ricerche sul cervello e la coscienza – nella sua
introduzione al libro di Russell sottolinea le implicazioni pratiche dell’intero messaggio: “Ognuno di noi neuroni può fare qualche passo verso un
equilibrio mentale collettivo. Possiamo, ad esempio, impegnarci a preservare le risorse fisiche nelle nostre singole vite. Possiamo scoprire nuovi
metodi di rinnovamento personale. Possiamo provare a eleggere e sostenere leader che sembrino rispettare l’interdipendenza di tutti i popoli.
Possiamo essere quei leader. Possiamo perfino andare al di là della semplice sopravvivenza. Possiamo approfondire il senso di ciò che
significhiamo usando l’immaginazione. Possiamo vedere noi stessi come parte di un insieme più grande, un’umanità emergente nella primavera di
una nuova consapevolezza”.115
Verso una coscienza planetaria
Quello che la Ferguson chiama “nuova consapevolezza”, Leonardo Boff chiama coscienza planetaria. Se Ipotesi Gaia e La mente globale sono stati
scritti da scienziati-filosofi, Nuova era, la civiltà planetaria, scritto nel 1994 e pubblicato in Italia nello stesso anno, è scritto da un poeta-filosofo,
da un uomo di fede, che ha seguito molto da vicino l’evoluzione del pensiero degli ultimi anni e il cambiamento di paradigma – cioè della struttura
teoretica dominante – e coglie istintivamente, in quanto vede attorno a sé e in quanto sente puntualizzato anche da altri, il segno di un grande
cambiamento emergente, di una grande sfida che l’essere umano deve affrontare.
Leonardo Boff è uno dei padri fondatori della teologia della liberazione, corrente di pensiero cattolica sviluppatasi in America Latina, che tende
a porre in evidenza i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano. Molto critico nei confronti dell’establishment, con
qualsiasi bandiera si presenti, non esita a definire “fondamentaliste” alcune prese di posizione della Chiesa e a muovere accuse contro la
manipolazione delle Sacre Scritture a uso e consumo di quella che lui definisce una ideologia totalitaria. Dichiarazioni, queste, che lo portano, nel
1992, dopo diversi processi ecclesiastici, a dover lasciare l’ordine francescano di cui fa inizialmente parte.
È una delle voci seguite con più attenzione dai movimenti sociali brasiliani e internazionali, da tutti coloro che credono che “un altro mondo è
possibile”. “Siamo condannati alla pace” ha detto all’ultimo Social Forum tenutosi a Porto Alegre nel gennaio del 2005 “non c’è altra soluzione di
fronte al meccanismo di violenza che può distruggere l’umanità e il pianeta”. La sua voce tonante si scaglia contro ogni tipo di fondamentalismo,
anche quello politico, ovunque sia, che esprime sempre lo stesso assolutismo in cui i “diversi” e le “altre verità” non hanno spazio; e anche contro il
fondamentalismo della scienza e della tecnica, che si manifesta nella violenza contro la natura e nella mancanza di rispetto dei più fondamentali
diritti degli altri esseri viventi e anche della stessa bioetica.
Il suo è un punto di vista inusuale per il mondo accademico, parla dal Brasile, parla da un paese del cosiddetto terzo mondo, dal punto di vista
degli oppressi, dei poveri, dei dimenticati – è anche una delle figure di riferimento per il movimento dei “senza terra” – nel più sincero spirito
francescano. I suoi discorsi risvegliano l’attenzione e la consapevolezza su una visione della situazione attuale e delle possibili prospettive
considerando il mondo nel suo insieme, senza trascurare nessuno: “Noi viviamo in una società mondiale in cui facciamo le differenze, dividendo in
due l’umanità”, ha dichiarato a Porto Alegre, criticando l’atteggiamento delle potenze occidentali nei confronti dei paesi più poveri.
A Boff, nell’analisi che fa già nel 1994, non sfugge la peculiarità del processo in atto, della mondializzazione che si sta realizzando mediante il
commercio, la politica, la strategia militare, la tecnologia, le comunicazioni, la spiritualità. Parla di Gaia, di un nuovo tipo di coscienza a livello
planetario, di un cervello centrale in cui le menti umane – sempre più coscienti – funzionano come i neuroni del sistema Terra. Non dimentica il
sacro e il mistero e si chiede quale può diventare la funzione delle religioni in questa realtà emergente, ma soprattutto si chiede quale è la
responsabilità del singolo nel fare la sua rivoluzione interiore per potersi mettere al passo della grande marcia, rimanendo al suo posto, ma
rapportandosi al tutto; l’essere umano “deve essere ciò che la linea dell’evoluzione lo ha destinato a essere, un essere co-creatore, co-pilota della
natura, mai al di sopra di essa e sempre con essa, perché è parte integrante della Terra, un essere etico che si fa corresponsabile del suo mondo”.116
Traspare un profondo ottimismo dall’analisi storica e sociale di Leonardo Boff sulla società e dalle prospettive che addita come possibili, anzi
emergenti. Parte dalla constatazione di una profonda crisi della modernità e anche dell’attuale postmodernità. La modernità è stata caratterizzata dal
fallimento sia del socialismo che del capitalismo di risolvere i problemi a livello mondiale, creando un mondo in cui c’è più povertà e violenza
generalizzata, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri: il sogno di sviluppo ha provocato il sottosviluppo della maggior parte dei paesi del mondo.117
La modernità ha portato a un ridimensionamento dell’essere umano, visto solo come essere di bisogni e non di relazioni, ha portato a un
soffocamento della femminilità, intesa come dimensione dell’interiorità, del rispetto per la vita e per il mistero del mondo, che tutti – uomini e donne
– dobbiamo sviluppare; ha portato alla mancanza di rispetto per l’alterità e la natura.
La postmodernità, termine coniato alla fine degli anni sessanta e ancora attuale per quanto riguarda la definizione dei tempi che stiamo vivendo, è
caratterizzata dal rifiuto di tutte le utopie e da una valorizzazione dell’individuo e della sua soggettività. Ma questo solo in teoria, sottolinea il
filosofo, perché in pratica ha eliminato ogni forma di valore e di riferimento, si è aperta a ogni possibile compromesso nel nome della salvaguardia
della pluralità, creando un contesto in cui tutto è solo oggetto di sensazione e emozione, tutto ha ugualmente valore e non c’è alcun riferimento se non
la coscienza del singolo individuo. La postmodernità, con le sue contraddizioni, che da una parte esasperano i difetti della modernità e dall’altra
aprono le porte a un riscatto del valore dell’individuo, è vista da Boff come momento di crisi e di rottura tra qualche cosa di vecchio e qualche cosa
di nuovo che non è ancora sorto.118
È una crisi esistenziale vera e propria quella che l’umanità si trova a dover affrontare attualmente, non c’è nulla a cui aggrapparsi fuori e non c’è
ancora qualcosa a cui aggrapparsi dentro, non c’è ancora la diffusa consapevolezza di una sfera etica, o noetica come la chiama Viktor Frankl, o
spirituale come la chiama Boff, tale da rappresentare quel minimo comune denominatore a partire dal quale l’individuo è posto davanti alle sue
responsabilità di fronte a se stesso e agli altri per quello che è comune e umano. “La spiritualità e l’etica, divenute dimensioni della soggettività, e
non più monopolio delle religioni e delle forme di controllo dei costumi sociali, possono svolgere la funzione di matrici generatrici di un nuovo
paradigma di civilizzazione, oggi di dimensioni planetarie”:119 questo è il messaggio del teologo della liberazione, che salva il suo anelito religioso
dandogli una veste laica, in un certo senso, accessibile a tutti perché include tutti.
Per superare la crisi dobbiamo elaborare un nuovo sogno e dare corpo a un nuovo senso della vita, in altri termini, “ricreare l’orizzonte utopico”,
coltivare una nuova speranza. La speranza di cui parla Boff parte dalla gente, dalla capacità delle persone di riconoscersi tutti – uno per uno – parte
dell’umanità, di una unica grande famiglia, e di sviluppare così una coscienza civile a livello terrestre, una civiltà planetaria. “La Terra non deve
necessariamente essere una valle di lacrime. Essa può trasformarsi in un focolare comune, dove c’è fuoco e olio per tutti alla stessa tavola,
usufruendo della convivialità umana e della bontà di tutte le cose.”120

Terra Patria
Quello che il filosofo afferma con cuore, passione e idealismo, il sociologo conferma con pacata sicurezza, quella di chi opera nel mondo
accademico e sa che può permettersi di far intravedere nuovi orizzonti con più facilità.
Per Edgar Morin – una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea francese e internazionale – l’era planetaria inizia già nella
seconda metà del Cinquecento: da una parte, con la scoperta dell’America, che rivela inequivocabilmente alla cultura contemporanea la sfericità del
mondo e, dall’altra, con le dichiarazioni di Copernico sulla centralità del sole e sul nostro ruolo subordinato nel sistema solare. È qui che la Terra
assume ufficialmente, nella coscienza umana, la sua dignità di pianeta. È in quegli stessi anni che l’Europa scopre l’esistenza di altre grandi civiltà,
quella indiana e quella cinese, con una storia molto più lunga di quella di qualsiasi impero fino allora conosciuto e con una profondità culturale
anche superiore a quella della civiltà greco-romana. La Terra non è più al centro del cosmo e l’Europa non è più al centro del mondo – scrive Morin
– ma una tale rivoluzione richiederà tempo prima di iscriversi nelle menti umane.121
Seguendo gli intrecci storici di questi ultimi cinquecento anni, vanno tutti nella direzione di una progressiva mondializzazione, con la diffusione e
distribuzione su tutto il pianeta di persone, oggetti, prodotti agricoli, culture, arti e idee; ma il motore principale di questo articolarsi di scambi sono
i conflitti armati, le violenze della colonizzazione, le guerre mondiali, con una umanità ancora “totalmente ignorante e incosciente dell’identità
terrestre e cosmica che porta in sé”.122 Edgar Morin chiama “l’età del ferro dell’era planetaria” l’epoca in cui stiamo vivendo attualmente.
Questa mondializzazione oggi è sempre più evidente. Nel 1968, Marshall McLuhan, sociologo canadese, conia il termine “villaggio globale” per
definire il cambiamento delle dinamiche comunicative planetarie, sempre più simili a quelle di un villaggio, dopo la relativizzazione delle distanze
date dall’avvento del satellite. Molteplici sono gli elementi che, nel bene e nel male, stanno contribuendo già dalla fine del XX secolo a rafforzare la
nascente consapevolezza che siamo tutti parte di un unico pianeta, e con una stessa comunanza di destino, precisa Morin: dalla persistenza di una
minaccia nucleare globale alla formazione di una coscienza ecologica planetaria, dall’entrata nel panorama economico e politico internazionale da
parte dei paesi del cosiddetto terzo mondo alla diffusione di culture prima localizzate, dalla formazione di un folklore planetario – a livello
musicale, letterario, cinematografico – al coinvolgimento emotivo e immediato indotto dalla televisione e dai mezzi di comunicazione, di tutto quanto
avviene sul Pianeta; non ultimo, il fatto di aver visto la Terra dall’esterno, una percezione che i primi astronauti non hanno avuto solo per sé, ma per
tutta l’umanità.
A tutto questo, si aggiunge sicuramente Internet che, con la sua crescita esponenziale, è oggi uno dei principali fattori che creano reti di
interconnessioni, che a loro volta facilitano l’operatività, il coinvolgimento e il contributo di ogni singolo individuo nell’ambito di una unica, più
grande realtà.
Quando Morin parla di consolidarsi di una cittadinanza terrestre, dell’emergente consapevolezza di essere tutti “cittadini di uno stesso pianeta”,
sa molto bene che uno dei rischi della mondializzazione e della globalizzazione è proprio quello della tendenza verso un’uniformità culturale, poco
rispettosa della ricchissima varietà con cui si esprime l’essere umano. Il suo discorso si contrappone fortemente a questa tendenza, per sottolineare
quanto una modalità di azione e di pensiero planetaria debba esplicarsi nel pieno rispetto della molteplicità culturale: dobbiamo ritrovare l’identità
dell’uomo – scrive – “non in una omogeneizzazione che ‘buldozerebbe’ le culture, ma, al contrario, attraverso il pieno riconoscimento e il pieno
sbocciare delle diversità culturali”.123
L’impegno necessario è, su diversi fronti, una riorganizzazione e riumanizzazione del sistema economico mondiale, un contenimento
dell’esplosione demografica, un’attenta gestione della crisi ecologica, la ridefinizione del concetto di sviluppo, l’addomesticamento di quello che
chiama tecno-scienza, considerandola “motore dell’agonia planetaria”. Questo su larga scala; per quanto riguarda l’individuo, sottolinea
l’importanza di passare da uno sviluppo astratto e generico, a uno sviluppo umano. Invita a riconsiderare le finalità della vita, a ritrovare il legame
col passato e la prospettiva di un futuro, a ridare significato alla politica e alla democrazia. Non ultimo, propone una riforma del pensiero, per
“restaurare la razionalità contro la razionalizzazione”, per imparare a cogliere l’interdisciplinarietà del reale e acquisire così gli strumenti per
leggere il linguaggio del sistema planetario. “La Terra non è la somma di un pianeta fisico con la biosfera e con l’umanità. La Terra è una totalità
complessa fisica/biologica/antropologica, in cui la vita è un’emergenza della storia della Terra e l’uomo è un’emergenza della storia della vita
terrestre.”124
Il suo appello è lo stesso di Boff, e i loro scritti sono stati pubblicati nello stesso anno. “Ciascuno di noi viene dalla Terra, è della Terra, è sulla
Terra”, conclude. Dobbiamo assumere la cittadinanza terrestre, la nostra comunità di destino: “Il compito è immenso e incerto. Non ci possiamo
sottrarre né alla disperazione, né alla speranza. La missione e la dimissione sono ugualmente impossibili. Ci dobbiamo armare di una ardente
pazienza: siamo alla vigilia non della lotta finale, ma della lotta iniziale”.125

Laudato si’
Più recente, e non meno potente, l’attesa “enciclica ecologica” offerta al mondo da papa Francesco, presentata ufficialmente il 18 giugno del 2015.
Un testo chiaro e coraggioso, con la giusta dose di critica e preoccupazione, combinate con la fiducia nel risveglio delle coscienze e con un invito
urgente a rinnovare il dialogo sul “modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta”. Un gigantesco passo in avanti nello sviluppo di una maggiore
intelligenza ecologica, di una coscienza planetaria, di un maggior impegno collettivo verso il consolidarsi di una evoluzione della “cittadinanza
ecologica”.
Laudato si’. Sulla cura della casa comune diffonde con fiducia e speranza nel mondo quasi duecento pagine, ricche di note e di riferimenti
bibliografici, divise in sei densi capitoli:
1. Quello che sta accadendo alla nostra casa, in cui papa Francesco esplora “gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e
della cultura dello scarto sulla vita delle persone”, denunciando il fatto che “la crescita degli ultimi due secoli non ha significato in tutti i suoi aspetti
un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita”.
2. Il Vangelo della creazione, che esplicita la tremenda responsabilità dell’essere umano nei confronti della vita, sottolineando l’intimo legame tra
tutte le creature: l’ambiente è un bene collettivo, è patrimonio di tutta l’umanità e ne abbiamo tutti la responsabilità.
3. La radice umana della crisi ecologica, che va dritto al cuore della questione: ”L’umanità è entrata in una nuova era in cui la potenza della
tecnologia ci pone di fronte a un bivio”. Pur riconoscendo i grandi meriti del progresso “l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della
potenza” e “a questo si aggiungono le dinamiche dei media e del mondo digitale, che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di
una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità”. “L’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata
da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza.”
4. Un’ecologia integrale è quella auspicata. Un’ecologia che “comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali”. “È fondamentale cercare
soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere
la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura”. Come sottolinea papa Francesco: “Tutto è
connesso” e la natura non è “qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne
siamo compenetrati”.
5. In “Alcune linee di orientamento e di azione”, il testo riepiloga tutto quanto è già stato fatto a livello di summit internazionali e di attivismo
ambientalista, con un focus marcato sull’attenzione alla questione sociale, legata all’attualità. Il messaggio è forte e diretto: “L’interdipendenza ci
obbliga a pensare a un solo mondo, a un progetto comune”, “Affinché sorgano nuovi modelli di progresso abbiamo bisogno di cambiare il modello
di sviluppo globale”.
6. Sul tema educazione e spiritualità ecologica, l’invito è all’azione, focalizzandosi su quanto ogni singolo individuo può fare, riformulando, per
cominciare, la visione stessa di sé e del mondo.
Per quanto il discorso già appaia molto ricco, innumerevoli altri temi sono stati toccati dall’enciclica: i cambiamenti climatici, la questione
dell’acqua, la biodiversità, il principio del bene comune, la giustizia tra le generazioni, il sistema di governance degli oceani, la giustizia sociale,
l’autosufficienza locale come modello economico, la ricerca di nuovi stili di vita, il dialogo e la trasparenza nei processi decisionali, politica ed
economia per la pienezza umana, religioni in dialogo con le scienze, educare all’alleanza tra l’umanità e l’ambiente, la preghiera per la nostra Terra.
“Prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro
condiviso da tutti.” “La situazione attuale del mondo provoca un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo
collettivo.” “Eppure, non tutto è perduto, perché gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a
scegliere il bene e rigenerarsi, al di là di qualsiasi condizionamento psicologico e sociale che venga loro imposto” e in questo sottolinea proprio la
visione umanistica alla base della pratica dell’ecopsicologia.
“Ci troviamo davanti a una sfida educativa” conclude papa Francesco, sottolineando l’importanza di agire e investire negli ambiti educativi. San
Francesco viene suggerito come modello di “sana relazione col Creato” che si traduca, allo stesso tempo, in una “conversione ecologica” della
persona.
È un manifesto, uno squillo di tromba per il risveglio delle coscienze, un invito “a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso”,
nuovi modi di intendere il nostro stesso essere e divenire nel mondo. È un evento storico, epico, è un testo che deve entrare in tutte le case, in tutte le
scuole.
Il messaggio è squisitamente intriso degli stessi obiettivi dell’ecopsicologia: “La cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte
urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe
essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza
di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico”. E ancora, con un enunciato che riassume il presupposto di base della pratica
ecopsicologicamente orientata, come approfondiremo tra poco: “Tutta la natura, oltre a manifestare Dio, è luogo della sua presenza. (…) La scoperta
di questa presenza stimola in noi lo sviluppo delle virtù ecologiche”.

Dalla crescita personale alla coscienza ambientale


L’invito è chiaro, è potente, è impellente. L’elemento chiave nell’evoluzione della vita su questo pianeta Terra, in questo momento della storia, è
l’essere umano. Che accettiamo o meno le visioni di questi scienziati e filosofi, è davanti agli occhi di tutti la crescita esponenziale della società
umana; non solo per quanto riguarda la popolazione, ma anche la capacità di manipolare la materia e l’energia, sino ai limiti già toccati a Hiroshima
e Nagasaki. L’umanità è giovane ancora, siamo bambini con in mano giocattoli molto pericolosi – immagine banale, ma efficace – e diventa molto
urgente acquisire la consapevolezza delle conseguenze del nostre azioni, come singoli e come società.
Proviamo, anche solo per gioco, a pensare davvero all’intera umanità come un unico immenso sistema ancora inconsapevole di non essere frutto
del caso, ma di essere parte integrante del processo della vita in evoluzione: vita stessa, fattasi occhi, orecchi, naso e dita per vedere, toccare,
sentire, assaggiare l’intera creazione. Non c’è bisogno di crederci davvero, basta farlo come esercizio ginnico del pensiero, come un’occasione per
vedere le cose da un diverso punto di vista, quello che Castaneda chiama “fermare il mondo”, la capacità dello sciamano di non soffermarsi su una
visione standardizzata e convenzionale della realtà, ma di confrontarsi con altre visioni possibili. Proviamo a uscire per un attimo dai binari consueti
e consolidati di tutto ciò che crediamo di noi stessi e del mondo. Vale la pena, anche solo come spunto di riflessione.
Cosa sappiamo, in fondo, della realtà delle cose per non prendere in considerazione anche ipotesi diverse da una nascita casuale di una specie
che prende il sopravvento sulle altre e afferma la sua supremazia sino ai limiti dell’autodistruzione? Come e quanto cambierebbe la qualità della
nostra vita se sapessimo di essere parte di un immenso gioco, con l’unico obiettivo reale di “assaporare” il creato in tutte le sue diverse sfumature?
Le ipotesi di De Chardin, Lovelock, Russell, Boff, non si fermano a una fruizione passiva e contemplativa del grande gioco della vita, propria di
alcune mistiche orientali, ma includono anche un elemento in più, che invita alla partecipazione attiva. Non a caso la mentalità occidentale è
caratterizzata proprio da quest’ansia di dover andare oltre, verso qualche cosa di sempre nuovo, di sempre “altro”; oltre le colonne d’Ercole, come
Ulisse. L’elemento in più è quello dell’evoluzione, della partecipazione consapevole, che non chiede più soltanto di ammirare e di giocare ma anche
di partecipare e di impegnarsi. Forse l’umanità ha vissuto una sua lunga infanzia, più o meno felice, e ora è pronta a entrare nella società e
prepararsi a dare il suo contributo alla comunità. La comunità è la vita, nel nostro “qui e ora” è il pianeta Terra.
È il momento di svegliarci. Questo invito risuona in tutto il mondo, in culture e ambiti diversi, da quello filosofico a quello scientifico, da quello
religioso a quello psicologico. Persone e ambienti che magari non sono mai venuti a contatto tra loro condividono una stessa sensibilità rispetto a
quanto è importante realizzare e realizzare ora per poter affrontare con successo gli immensi problemi sociali, economici e ambientali che si
prospettano a un pianeta di, tra poco, 10 miliardi di abitanti. Se continuiamo a questo ritmo – questo ormai è scritto dappertutto, anche sui rotocalchi
che, tra un pettegolezzo e l’altro, riportano le affermazioni più scioccanti dei summit internazionali sulle problematiche mondiali – andiamo verso un
collasso. Siamo a rischio di mancanza di energia, di mancanza di spazio, di mancanza di acqua, di mancanza di cibo, di mancanza d’aria. E questa è
logica, non allarmismo. “Svegliarci”, allora, che cosa vuol dire?
Forse per ognuno vuol dire qualche cosa di diverso, ma l’obiettivo è comune per tutti.
Per il filosofo, vuol dire acquisire una nuova visione del mondo, divulgando i risultati più all’avanguardia nel campo epistemologico che
dimostrano quanto la percezione del mondo esterno dipenda esclusivamente dall’immagine interiore che ci facciamo della realtà.
Per lo scienziato, vuole dire mettere a punto modelli di sviluppo sostenibili, compatibili con le risorse effettivamente presenti.
Per il religioso, al di là delle differenze esistenti tra le singole fedi, indirizzare la gente verso un’esperienza più autentica dei valori, focalizzando
l’attenzione sulla solidarietà, sul rispetto, sull’amore, sul divino inteso come dimensione di incontro e non di scontro, sulla compassione, nel senso
letterale di “patire con”, di provare empatia e senso di inclusione, e non in quello distorto di “provare pena”.
Per lo psicologo, vuol dire aiutare l’individuo ad acquisire una maggiore consapevolezza in relazione al suo piccolo operato nella vita
quotidiana, guidarlo in un percorso di maggiore autoconoscenza e quindi verso una sua autorealizzazione, fargli conoscere i meccanismi che guidano
il suo mondo interiore e insegnargli a canalizzare o trasformare le emozioni e i pensieri. Vuol dire aiutarlo ad agire invece che a reagire, a
sviluppare flessibilità di pensiero e capacità di mettere in discussione ogni idea preconcetta, rafforzare la fiducia in se stesso per permettergli di
aprirsi con fiducia agli altri.
Cosa ha a che fare un lavoro di crescita personale con le problematiche su scala mondiale che affliggono l’umanità? Molto. Perché l’umanità è
fatta di singoli individui, che compiono quotidianamente singole azioni e singole scelte che a loro volta interagiscono con quelle effettuate da altri e
danno come sommatoria finale il mondo che ci si apre davanti agli occhi ogni volta che guardiamo la televisione. Il mondo, in realtà, è molto
migliore di quanto sembra guardando i telegiornali, perché avvengono anche un’infinità di “belle cose” che non fanno notizia e non trovano posto nei
messaggi dati dai media. Ma il mondo è fatto di individui; un organismo è composto da cellule. Lo psicologo lavora con le singole cellule per
sintonizzarle su uno stato di maggior salute psichica, non più definita in termini di adattamento, al limite con la normosi,126 ma di piena realizzazione
delle proprie capacità individuali e umane, in modo di poter mettere le proprie competenze, la propria unicità, al servizio della comunità, al servizio
della visione del mondo proposta dai filosofi, dell’impegno richiesto dagli scienziati e in sintonia con l’invito fatto da ogni religione.
L’ecopsicologo allarga ulteriormente il discorso, usando l’ambiente naturale come punto di partenza e punto di arrivo di un percorso di crescita
personale. Punto di partenza, perché il lavoro nella natura e con la natura predispone la persona a un rapporto più profondo con se stessa: la
allontana per qualche istante dai luoghi e dai ritmi nei quali si esplica normalmente la vita quotidiana, per offrire l’occasione di ritrovare la capacità
di spalancare gli occhi – occhi nuovi – non solo sul mondo, ma anche su di sé.
Si innesca un processo che allarga i confini della propria identità. La allarga verso l’interno, permettendo di scoprire le ricche e molteplici
sfumature della propria natura individuale; e la allarga verso l’esterno, sino a far riconoscere questa stessa ricchezza e varietà anche nelle altre
persone, negli altri esseri viventi, animati e inanimati. Il contatto con la natura, con la predisposizione all’apertura e alla presenza, facilita la
percezione di quel senso di unitarietà col creato che caratterizza l’esperienza, il messaggio di tutti i grandi mistici.
L’impegno per la propria crescita personale diventa così il contributo più concreto e più immediato che ognuno di noi può dare allo sviluppo
della coscienza ambientale. Non si arriva più all’impegno ecologico per senso di colpa né per ansia apocalittica, ma per autentico senso di
compartecipazione.
Possiamo dire che l’ecopsicologia parla al san Francesco che c’è in ognuno di noi, e invita a provare in prima persona l’emozione di sentire
fratello fuoco e sorella acqua, di sentire il mondo come vivo. “Il vento è il mio respiro, l’universo è il mio corpo, il sole è il mio occhio, mari e
monti sono parte di me. Giorno e notte sono il respiro del cielo, bassa e alta marea sono il respiro della Terra. Il respiro dell’uomo è il fluire
dell’aria, dentro e fuori: e tutto questo sono io”,127 scrive Yuko Seki, maestro zen.
L’ecopsicologia, in un certo senso, non inventa nulla di nuovo, raccoglie e riunisce e collega tra loro pensieri e messaggi che fanno parte di
culture, popoli, filosofi, naturalisti e poeti di ieri e di oggi, di Oriente e di Occidente. Coglie i bisogni attuali, dal punto di vista oggettivo e da quello
soggettivo, promuove lo sviluppo di un nuovo atteggiamento nei confronti dell’ambiente e di comportamenti più ecosostenibili. Allo stesso tempo,
invita a dare un senso più vasto alla propria vita, una volta compreso che il mito del benessere materiale non porta la felicità promessa.
L’ecopsicologia collega tra loro malessere dell’ambiente e malessere dell’individuo, pone i semi di concrete strategie di intervento sulla realtà
esterna a partire da un lavoro certosino sulle singole persone e sui gruppi: il risveglio individuale diventa uno dei fattori fondamentali per la
sopravvivenza e lo sviluppo della vita sulla Terra in questo preciso momento storico: “Dobbiamo aprire l’anima all’amore per questo glorioso,
lussureggiante, animato pianeta”,128 usando le mitiche parole di Dave Foreman, il fondatore di Earth First!.

90 Leonardo Boff, cit., 1994, p. 50.


91 Ubaldo Staico, Il pensiero politico di Teilhard de Chardin e la critica della democrazia, Giuffrè, Milano, 1976, p. 22.
92 Edgar Morin, Anne Brigitte Kern, Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano, 1994 p. 187.
93 Marcella Danon, Clorofillati – Ritornare alla Natura e rigenerarsi, cit., p. 24.
94 Leonardo Boff, Nuova era, la civiltà planetaria, Cittadella editrice, Assisi, 1994.
95 Peter Russell, Il risveglio della Mente Globale, Apogeo, Milano, 2000.
96 James Lovelock, Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, p. 8.
97 Ibidem.
98 Piero Ferrucci, Esperienze delle vette, Astrolabio, Roma, 1989.
99 AA.VV., Terra, Mondadori Electa, Milano, 2004.
100 Antonio Vecchia, Storie di scienza, Edizioni della laguna, Gorizia, 1999.
101 Piero Angela, Nel cosmo alla ricerca della vita, Milano, 1991.
102 Giuseppe Barbiero, Ecologia affettiva, Mondadori, Milano, 2017, p. 77.
103 Ibidem.
104 Yuval Noah Harari, Sapiens - Da animali a Dei, Bompiani, Milano, 2019.
105 Giancarlo Vigorelli, Il Gesuita proibito: vita e opere di Teilhard de Chardin, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 33.
106 Teilhard de Chardin, L’avenir de l’homme, Éditions du Seuil, Parigi, 1959, p. 32.
107 James Lovelock, Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1981.
108 Lawrence E. Joseph, Gaia, Geo, Milano, 1991, p. 15.
109 James Lovelock, cit., 1981, p. 22.
110 Ibidem, p. 25.
111 Ibidem, p. 169.
112 Peter Russell, Il risveglio della mente globale - Dalla società dell’informazione all’era della coscienza, Urra, Milano, 2000.
113 Ibidem, p. 10.
114 Ibidem, p. 15.
115 Ibidem, p. 3.
116 Leonardo Boff, Nuova era – La civiltà planetaria, Cittadella, Assisi, 1994, pp. 34-35.
117 Leonardo Boff, La voce dell’arcobaleno, per un’etica planetaria e una spiritualità ecologica, Cittadella, Assisi, 2002.
118 Ibidem.
119 Ibidem, p. 27.
120 Ibidem, p. 53.
121 Edgar Morin, Terra Patria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
122 Ibidem, p. 49.
123 Ibidem, p. 52.
124 Ibidem, p. 55.
125 Ibidem, p. 194.
126 Il filosofo francese Jean-Yves Leloup definisce normosi la “patologia della normalità”, il disagio emotivo che colpisce chi tende ad assoggettarsi a regole, stereotipi, pregiudizi, abitudini di pensiero,
dogmi conformi al pensare comune o alla norma di una società.
127 Yuko Sekii, Rüdiger Müller, Cammino verso la totalità, Cittadella, Assisi, 1990.
128 Theodore Roszak, “Where Psyche meets Gaia”, in Ecopsychology, Sierra Club, San Francisco, 1995, p. 3.
Capitolo 6

IL POTERE DEL FEMMINILE

“Nelle mie preghiere, prima di qualsiasi divinità, invoco Gaia, profetessa primordiale … la grande madre dell’Antica Grecia”.
Eschilo

Ritrovare Madre Terra


È solo da poco più di qualche secolo che guardiamo il mondo come a una palla inerte che rotola nello spazio, ai nostri corpi come macchine e alle
ricchezze naturali come risorse economiche. Una visione arida, che lascia le nostre anime insoddisfatte. Il senso di vuoto ha sostituito il senso di
compartecipazione e abbiamo perso la consapevolezza della profonda unità col resto del mondo che ha caratterizzato il sentire di uomini e donne
nelle migliaia e migliaia di anni che hanno preceduto questi nostri tempi.
Oggi scienza e filosofia ci stanno riavvicinando alla Terra, e si stanno creando le condizioni per recuperare consapevolmente quel legame col
mondo circostante che era innato ai tempi in cui la Terra veniva chiamata “madre”.
Non è la stessa cosa, rivolgersi alla Terra come substrato geologico di natura calcarea o granitica, per esempio, o rivolgersi a lei come madre.
Quello che si muove a livello di immaginario, di emozioni, di predisposizione interiore è completamente differente. Non sarebbe mai stata possibile
uno sfruttamento così intenso e insensibile delle risorse naturali se la nostra cultura fosse stata ancora intrisa del rispetto archetipicamente dovuto
alla Grande Madre.
Una delle culture più vicine nel tempo che si fanno portavoce di una tradizione di millenario rispetto per la natura intesa come sacra e fonte di
vita, è quella dei nativi americani. Smohalla, capo dei Wanapum giustificava così, poco più di un centinaio di anni fa, il rifiuto del suo popolo di
dedicarsi alle stesse attività intraprese dai bianchi: “Dovrei forse prendere un coltello e squarciare il seno di mia madre? Allora quando muoio lei
non mi consentirà di riposare nel suo grembo. Mi chiedi di scavare per trovare pietre! Devo scavare dunque sotto la pelle per portarle via le ossa?
Allora quando muoio non posso tornare nel suo corpo per rinascere un’altra volte. Mi chiedi di tagliare l’erba, seccarla e vendere il fieno, per
essere ricco come gli uomini bianchi! Ma potrei osare tagliare i capelli di mia madre?”.129
Non sorprende che sia stata la figura della madre la prima divinità nelle culture tradizionali di tutto il mondo e il matriarcato ha probabilmente
caratterizzato tutta la prima infanzia dell’umanità, in ere in cui il mistero della vita era correlato alla figura femminile.
Il culto della Dea Madre è molto antico, i reperti più antichi che permettono di risalire alla sua celebrazione risalgono a ventimila anni fa. Ne
sono testimoni le famose Veneri, tra cui la più nota è quella di Willendorf, dal corpo tondeggiante, con grossi seni, una vulva molto accentuata,
atteggiamento rigido, braccia piegate o assenti e gambe rappresentate schematicamente, per accentuare la prerogativa femminile della procreazione.
Un culto che si ripropone con forme simili per migliaia di anni e in culture anche geograficamente lontane tra loro sino a trasformarsi nelle
diverse divinità femminili di cui sono costellate le culture delle civiltà antiche della storia conosciuta: Nut l’egizia del cielo; Iside, sua figlia, la
grande maga, dea madre e regina; Astarte la fenicia dea della luna, Jorth, la divinità scandinava progenitrice di Thor; Nerthus, la dea madre dei
popoli germani; Inanna, dea sumera della fertilità e dell’amore, come l’assirobabilonese Ishtar e la latina Selene; Durga, la generosa e
misericordiosa sposa di Shiva, di cui la terribile Kali è una emanazione; e, ancora nella tradizione indiana, Lakshmi, dea della bellezza,
dell’abbondanza e Sarasvati della saggezza; Morrigan la dea celtica dalla lunga spada; Amaterasu, dea del Sole nella tradizione shintoista; Brigid, la
dea celtica del fuoco, dell’ispirazione, fertilità e della guarigione; Tara, la verde dea tibetana invocata per avere protezione; Gea, o Gaia, la greca
dea della Terra, Hera la dea della fertilità, Demetra, dea delle messi, Cerere per i latini e, tra le più attuali, Maria, la Madonna, che racchiude in sé
qualità e caratteristiche di tutte le figure che l’hanno preceduta.
Pur con nomi e volti diversi, il femminile è sempre stato associato alla fertilità, all’amore, a tutto quanto concerne la protezione della vita, anche
con la guerra se necessario, giacché non mancano immagini di dee guerriere, disposte a combattere pur di difendere ciò che amano e proteggono. È
stato associato alla luna, al cui ciclo la donna è legata; alla Terra, in quanto fonte di vita; e anche alla morte, perché è la terra che accoglie e rigenera
in sé la vita.
Le dee al femminile quanto sono più antiche tanto sono più potenti, mentre negli ultimi duemila anni hanno dovuto accontentarsi di ruoli sempre
più marginali nel pantheon ufficiale di molte religioni e, in particolare, nella tradizione occidentale improntata da ebraismo, cattolicesimo,
protestantesimo e islamismo, in cui l’immagine prevalente è quella del Dio Padre. Ma nell’immaginario collettivo, e possiamo anche dire
nell’inconscio collettivo, il ruolo della divinità femminile è ancora preponderante, come dimostra il culto della Madonna che è più diffuso e radicato
di quanto sembri e che ripropone le tematiche molto antiche dell’ancestrale culto della Dea Madre.

Donna e natura
In uno studio storico approfondito svolto da Carolyn Merchant, storica della scienza all’Università della California a Berkeley, viene messo in
risalto un parallelismo esistente, nell’ambito delle diverse culture e dei diversi periodi storici della cultura occidentale, tra l’atteggiamento della
società nei confronti della natura e quello nei confronti della donna.
La terra è sempre stata madre, così come il cielo è stato considerato padre: natura donna e cultura uomo, archetipicamente parlando. Ogni
qualvolta era in auge una civiltà in cui le donne erano rispettate e valorizzate, vi era anche un rapporto corrispondente nei confronti della natura. Si
può fare l’esempio dell’antica Grecia, del Rinascimento, dei nativi americani. Quando invece prende il sopravvento un atteggiamento maschilista,
che nega il valore della cultura femminile e l’importanza delle facoltà che le sono più congeniali – l’espressione del sentimento, l’intuizione, la
ricerca della sintesi, la spiritualità – contemporaneamente viene assunto nei confronti dell’ambiente naturale un comportamento aggressivo,
utilitaristico, di sfruttamento senza remore.130
Quando il filosofo inglese Francis Bacon, considerato uno dei padri della scienza contemporanea empirica e analitica, scriveva di quale doveva
essere il rapporto dello scienziato con l’ambiente, diceva che la natura dove “essere braccata, costretta a servire e resa schiava”. Essa doveva
essere “messa in catene per poterle estorcere con la tortura i suoi segreti”. Sir Francis Bacon, tra l’altro ministro della giustizia del re Giacomo I,
non a caso usa una terminologia brutale, proprio quella a cui è abituato nei frequenti processi che si trova a condurre. Siamo agli inizi del Seicento,
nel pieno della caccia alle streghe.131
Se, fino ad allora, l’obiettivo della scienza era stato la ricerca della saggezza e la comprensione dei ritmi e delle leggi della natura, da
quest’epoca, in Occidente c’è un radicale cambiamento e, sia per la natura che per la donna, inizia un’era di sfruttamento.
Il grande movimento di liberazione della donna degli anni settanta arriva presto alla conclusione che, per risolvere alla radice la questione
femminile, è necessario modificare lo stesso pensiero su cui si basa la civiltà contemporanea, un pensiero fortemente improntato dalla
predisposizione alla lotta, dal desiderio di conquista, dal dominio: dall’archetipo maschile. Si delinea così un gruppo di lavoro che approfondisce i
parallelismi tra la situazione della donna e quella della natura e che porta avanti contemporaneamente, su due fonti, una battaglia verso una maggiore
consapevolezza: l’ecofemminismo. Il dito viene puntato verso un eccessivo androcentrismo dell’organizzazione sociale, in cui si è persa una
modalità più femminile di atteggiamento nei confronti della vita, con la sua connessione ai processi vitali essenziali e con la sua consapevolezza
ecologica profonda.
La donna è più legata alla terra e alla comprensione dei suoi ritmi e dei suoi cicli, essendo anch’essa progenitrice, il suo corpo le insegna a
comprendere e accompagnare i processi della natura e questo la rende naturalmente orientata all’accoglienza. Per millenni, come gli studi sui miti
prepatriarcali hanno rivelato,132 il femminile è stato l’archetipo dominante dell’esistenza umana e la donna è diventata depositaria di conoscenze
legate all’arte della guarigione e della connessione con il divino, sciamana e sacerdotessa. In alcune tradizioni contemporanee si ritrovano ancora i
segni della consapevolezza dello stretto legame esistente tra il femminile e il mistero dell’esistenza, per esempio quando viene celebrato il
raggiungimento della maturità sessuale di una ragazza, l’inizio del mestruo, momento culminante nell’adolescenza che sancisce il risveglio del corpo
alla sintonia con i cicli della vita. Una volta era un evento atteso e festeggiato, carico di significato, ma oggi è spesso considerato poco più di una
scocciatura a cui ovviare con tutte le comodità che il mercato offre. Nulla più sa la donna di oggi del suo potere, del suo legame con le forze della
vita, della sua energia creativa e della sua forza intrinseca che attinge a quella della terra. Oggi ci raccontano le streghe come megere che ballano di
notte nei boschi o solcano i cieli sulle scope, ma quello che è stato annientato – dopo il Medioevo – non sono state vecchie signore vestite di nero,
ma la consapevolezza della donna del suo potere, della sua saggezza intuitiva e della sua intrinseca vitalità.
Il “risveglio del femminile” non è un processo che riguarda solo le donne, ma anche, e soprattutto, gli uomini. Ogni individuo, uomo o donna che
sia, ha in sé una componente archetipicamente maschile, legata alla razionalità, all’esteriorità, alla capacità analitica, alla percezione dualistica; e
ognuno ha in sé una componente archetipicamente femminile, legata alla sensibilità, all’interiorità, alla capacità di amare incondizionatamente, alla
percezione sintetica e unitaria della realtà, al desiderio di unificare, di riunire. Anche gli uomini sono stati vittime di una stereotipizzazione dei sessi
e per secoli è stato loro negato il diritto di sentire ed esprimere emozioni, di manifestare sensibilità, di fare ricorso all’intuizione, di utilizzare
strategie più collaborative che competitive. Se la liberazione della donna dai luoghi comuni che la riguardano è già cominciata negli ultimi
trent’anni, adesso sono gli uomini che possono e devono liberarsi recuperando, ognuno, il diritto di esprimere e manifestare liberamente nella sua
autenticità la sua propria complessa natura individuale.

I due poli dell’essere


La vita stessa, così come si esprime in questo Pianeta, si esprime in termini di polarità rappresentati dagli archetipi maschile e femminile: giorno e
notte, luce e ombra, energia e materia, pieno e vuoto, polo positivo e polo negativo, yin e yang.
Il disequilibrio venuto a crearsi a livello sociale e a livello individuale tra queste due polarità, si manifesta anche in altri ambiti. Gran parte della
cultura occidentale moderna è basata su una percezione razionale della realtà, privilegiando una modalità di conoscenza analitica, organizzativa e
sistematica. La mente razionale si basa sui dati forniti dai cinque sensi, sulle categorie causa/effetto e spazio/tempo, sulle nozioni apprese nel corso
dell’esperienza, sulla memoria, sulla percezione distaccata e “oggettiva” della realtà.
La nostra civiltà ha ucciso le fate, ha spogliato il mondo della sua aura magica, l’ha reso impersonale, inanimato, “utilizzabile”. E lo stesso è
stato fatto all’individuo, negandogli il valore del sogno, dell’intuizione e del dialogo col mondo. Perché c’è molto in noi – e nella vita – che di
logico ha ben poco e non è per questo meno importante o meno degno di attenzione; e non è neppure “illogico”: esistono altri tipi di logiche che la
ragione può non cogliere, ma che sono espressione semplicemente di un diverso tipo di intelligenza, sintetica invece che analitica, improvvisa
invece che legata a una consequenzialità temporale, simbolica invece che verbale, sistemica invece che lineare. È la facoltà analogica, quella più
coltivata dai poeti e dagli artisti, dagli inventori e dai cantastorie.
Il logico è legato alla parola, si esprime con il ragionamento, descrive la dimensione esteriore, si esprime nelle attività della mano destra,
rappresenta simbolicamente la componente maschile dell’esistenza, quella legata all’azione, alla riflessione, alla forza, alla volontà. L’analogico è
legato all’immagine, si esprime nei sogni, descrive la dimensione interiore, si esprime nelle attività della mano sinistra, rappresenta simbolicamente
la componente femminile dell’esistenza, legata alla contemplazione, all’intuizione, all’emozione, all’amore. Sono aspetti presenti in ognuno di noi, al
di là del nostro essere uomo o donna.
I valori, la storia, il pensiero, la vita degli ultimi due millenni, soprattutto in Occidente, sono stati fortemente improntati, nel bene e nel male,
dalla focalizzazione su questa polarità, da questa forza maschile dell’esistenza, che ha favorito lo sviluppo della scienza, la conoscenza delle leggi
che regolano la dimensione fisica, il progresso materiale, la progressiva indipendenza dell’uomo nei confronti della natura, ma ha anche avuto come
controparte guerre e distruzioni. Per ritrovare un equilibrio esterno, visibile sul piano materiale della vita di tutti i giorni, dobbiamo cercare di
ristabilirlo prima a livello individuale all’interno di ognuno di noi, ricreando un equilibrio tra le facoltà logiche e quelle analogiche, tra le facoltà
dirette dall’emisfero sinistro del cervello, legate alla parola e all’analisi, e quelle dirette dall’emisfero destro, legate all’immagine e alla sintesi.
Superando la conflittualità tra gli opposti, si aprono le porte all’altissimo potenziale di collaborazione e interazione che vi può essere in un incontro
costruttivo tra le diverse polarità.
Le esigenze attuali di stabilire un rapporto più approfondito con la propria interiorità, con la dimensione spirituale, con “Madre Natura”, sono
tutti segni del risveglio del femminile, la polarità sinora più trascurata e repressa, sia interiormente che esteriormente, che può integrare e
completare quanto è già stato sviluppato sino a oggi.
Recuperare l’aspetto femminile dell’esistenza, vuol dire ridare spazio anche ai valori legati alla vita, all’amore, alla collaborazione, alla
bellezza, alla capacità di riconoscersi parte di un insieme più vasto, per controbilanciare e ridimensionare i valori dettati dall’ossessione maschile
per il dominio, il controllo e la separatività. A partire da questo contributo nasce un nuovo tipo di impegno sia sociale che politico, nel senso più
ampio del termine, che tende a unificare non più a dividere, che diffonde ideali di pace e non più di guerra, che ricerca creativamente nuove
modalità di convivenza con gli altri e con l’ambiente, che si dedica allo studio e alla ricerca di tutto quanto può essere “utile alla vita”.

Diventare interi
Come recuperare questo equilibrio? Ancora una volta l’individuo gioca un ruolo fondamentale, perché armonizzando se stesso favorisce un
cambiamento su più grande scala. Quanti di noi si permettono di sognare, sia a occhi aperti che a occhi chiusi, ricordando i sogni e magari
raccontandoli ai familiari e ai colleghi al mattino? Quanti lasciano spazio ai sentimenti ed esprimono adeguatamente le loro emozioni? Quanti ancora
volano con l’immaginazione senza rinchiudersi solo negli angusti confini delle cose serie?
Eppure possiamo salvare il mondo proprio a partire da queste cose, imparando dai bambini a trasformare un tavolo in un castello, affidandoci ai
sussurri dell’intuizione, giocando con le possibili interpretazioni del reale, ascoltando e raccontando più fiabe, riconoscendo i paradossi come una
buona definizione dell’esistenza, liberandoci dalle catene delle certezze, danzando la nostra gioia, danzando anche la tristezza o la rabbia, invece di
rovesciarla addosso al primo malcapitato. Ritrovando in noi le diverse polarità dell’essere, poniamo le basi per una cultura dell’intero e non della
parte, ridiventando interi recuperiamo il nostro posto nel mondo senza dividerlo – in buoni e cattivi, spirito e materia, anima e corpo –
riabbracciamo il mondo nella sua interezza, nelle sue due polarità.
La creatività, l’arte, la musica, la poesia hanno sempre aiutato l’essere umano in questo processo di risveglio alla totalità di se stesso proprio
perché attivano la polarità analogica, quella femminile, relativizzando certezze e insegnando a percepire il mondo in diversi modi, dando spazio
all’interiorità, mettendo l’accento su ciò che unisce più che su ciò che separa, coltivando la leggerezza, coltivando ogni qualità e il suo opposto,
senza negare la dimensione imponderabile della realtà – quella che i nativi americani chiamano il Grande Mistero – senza mai avere la pretesa di
avere tutto capito e tutto sotto controllo.
Non a caso Bateson attribuisce grande importanza all’arte, alla poesia, al mito e alla narrazione per spiegare il mondo, perché l’emisfero destro,
la facoltà analogica, coglie della realtà qualche cosa di altrettanto importante di quello che colgono, con l’emisfero sinistro, la ragione e la scienza:
“Non ho bisogno di pazienti schizofrenici o di famiglie infelici per dotare il mio pensiero di radici empiriche. Posso usare l’arte, la poesia o i
delfini o la cultura della Nuova Guinea o di Manhattan, o anche i miei sogni o l’anatomia comparata delle piante da fiore”, scrive in Una sacra
unità.133 Non possiamo capire davvero la vita se la guardiamo solo con la metà di noi stessi!
Per diventare interi dobbiamo recuperare la consapevolezza e la funzionalità del nostro emisfero destro del cervello, dobbiamo sviluppare la
creatività, nel senso più ampio del termine. “La parola creare ha a che vedere col fare” racconta in una intervista Betty Danon, artista e poetessa
visuale. “É far nascere dal nulla qualcosa che prima non c’era. É inventare, tradurre in azione, in materiale visibile, udibile, tangibile qualcosa che
prima era solo una forma mentale, un’idea. Creare quindi vuol dire dare una forma oggettiva, comunicabile a ciò che all’inizio si presenta
interiormente come soggettivo e intraducibile. Non è facile da definire, la creatività non è una singola facoltà dell’uomo, ma il sapiente
coordinamento di una vostra gamma di facoltà che gli permetta di collegare il mondo interiore con quello esteriore, la veglia col sogno, l’oggetto col
simbolo, il conscio con l’inconscio, il logico con l’analogico. La creatività non è necessariamente legata alla produzione di opere d’arte; anche la
vita quotidiana ci offre infinite occasioni di fare delle cose che prima non c’erano. Si può essere creativi nel vestire, nell’arredare la casa, nel
cucinare, nel dirigere un’azienda, nel fare regali, nell’organizzare un viaggio, una festa. É la capacità di produrre idee, di trovare soluzioni con
logiche nuove e di mettere in rapporto contenuti mentali molto diversi e lontani tra loro”.134
La creatività insegna a guardare la realtà con occhi sempre nuovi, apre a diverse letture possibili, allarga gli orizzonti della mente, rende meno
rigide le categorie con le quali ci si affaccia al mondo, risveglia l’individuo alle sue responsabilità, al potere che ha nei confronti di se stesso, prima
di tutto, ma anche nei confronti della sua percezione e della sua azione, quindi del mondo. E per essere creativi, per trasformare contenuti in forme,
idee in realizzazioni, per dare vita a qualche cosa di nuovo, occorre fare uso di entrambi gli emisferi, sinistro e destro, polarità maschile e polarità
femminile. Del resto è solo da questo incontro che nascono tutte le cose su questa nostra Terra. Anche i bambini.

Sessualità, il linguaggio della vita


Parlare di vita, di natura, di ecologia e, a maggior ragione, di ecopsicologia, vuol dire anche parlare di sessualità, di quella forza che è alla base di
tutta la creazione, che regola il gioco di attrazione e repulsione delle polarità: tra cariche elettriche, tra il nucleo e l’elettrone, tra atomi, tra
molecole, tra sostanze chimiche. Gioco che, nella vita, si traduce nella danza tra penetrante e ricettivo, centripeto e centrifugo, maschio e femmina,
tra l’uomo e la donna.
Nei misteri eleusini, nei rituali dionisiaci, nella tradizione celtica, nella religione indiana, nel buddismo tantrico, per citare solo alcuni ambiti, la
sessualità è considerata sacra. È vissuta e celebrata in quanto unione tra le due forze creatrici dell’universo, e quindi come momento di incontro con
il divino, di unio mystica. L’incontro d’amore diventa una meditazione, il sesso viene elevato da istinto animale a pratica spirituale. L’uomo e la
donna onorano nel partner la forza creatrice complementare e l’unione fisica diventa un momento di ricreazione dell’unità originaria.
Ogni qualvolta una religione o una ideologia hanno voluto limitare l’autonomia e l’autorealizzazione dei singoli individui, impedendo di accedere
autonomamente all’esperienza del divino – oltre che a un corretto e armonico dispiegarsi delle energie – la sessualità è stata condannata e repressa.
Lo spiega molto bene Wilhelm Reich in La rivoluzione sessuale,135 in cui non punta il dito soltanto sulle tre religioni giudaico-cristiane, ma anche
sulla rivoluzione russa e altre esperienze di tipo settario. La repressione sessuale rende gli individui più facilmente manipolabili e plagiabili –
sostiene – mentre la libera espressione dell’energia sessuale ha un ruolo fondamentale per la salute psichica dell’individuo e per la sua capacità di
diventare una persona responsabile, critica, creativa e indipendente.
La negazione della sessualità va di pari passo con la negazione dell’istinto, del corpo, della femminilità, della percezione analogica del mondo,
della natura e delle forze della Terra, di Madre Terra, dei valori legati alla vita. L’estremo opposto non è certo quell’ostentata diffusione di immagini
provocanti che troviamo oggi sulle copertine dei giornali, sui cartelloni pubblicitari e sugli schermi televisivi a tutte le ore della giornata, perché
relegare la sessualità solo a capriccio dell’istinto non permette di riconoscere il gioco di energie in atto e di onorarne la più profonda natura, quella
dell’incontro tra due principi universali, alla base della vita stessa.
Questo non vuol dire che il sesso, adesso, deve essere trasformato in una funzione religiosa, ma che va intriso delle stesse qualità di ascolto,
rispetto e reciprocità che caratterizzano ogni relazione dialogica, autentica, matura. In un’ottica ecopsicologica, il sesso diventa prima di tutto
occasione di incontro e comunicazione tra due persone, celebrazione dell’istinto e della passione in quanto componenti delle forze della vita da
vivere e godere appieno, possibile percorso iniziatico verso uno stato di coscienza di estatica compartecipazione con il tutto. Diventa anche una
funzione biologica e psichica tra le altre, da gestire coerentemente con i propri bisogni e le possibilità oggettive, senza svilirne l’importanza, ma
anche senza ingigantirla oltremodo. Si vive bene con una sessualità espressa e realizzata, si vive bene anche con una sessualità altrimenti canalizzata,
meglio se per scelta che per mancanza di scelta.
Quanta infelicità, quanti conflitti tra uomo e donna potrebbero essere evitati con una vera educazione sessuale; non certo quella che racconta la
storiella degli spermatozoi che incontrano l’ovulo, o la fisiologia del glande e delle tube di Falloppio e altri termini che, togliendo ogni poeticità al
corpo maschile e femminile, credono di risolvere il problema dell’educazione. Quello di cui c’è bisogno è dialogo, confronto su ciò che si sente e si
vive in prima persona; parlarne apertamente consente così a ogni individuo di prendere coscienza delle sue peculiari esigenze, di scegliere quindi
tempi, modi e atteggiamenti a ognuno più congeniali, il tutto in una cornice di fondamentale rispetto reciproco e in una incomparabile occasione per
scoprire ogni volta qualche cosa di nuovo di sé e del partner.
Così come esercitare una attività creativa rende più flessibili, aperti, ricettivi ed equilibrati nella distribuzione ed espressione delle proprie
energie, vivere bene la propria sessualità – nella sua espressione o nella sua trasformazione – rafforza il legame con la polarità terrestre
dell’esistenza, relativizza problematiche cervellotiche, crea un legame di compartecipazione con tutti gli esseri, avvicina ai valori della vita, rende
più soddisfatti, più tolleranti e più gioiosi.

Geografia sacra
L’attenzione al corpo e alle sue energie porta a una diversa sensibilità e considerazione nei confronti del corpo della Terra. “La nostra incapacità di
sentire e rispondere consciamente alle energia planetarie non è un segno di progresso, ma triste cronaca del nostro recente distacco dalla vita
stessa”136 scrive Vicki Noble, ricercatrice nel campo delle culture matriarcali. Quando la Terra era sentita come viva era maggiore anche la
consapevolezza della presenza di diversi punti e correnti di energia che ne percorrono la superficie, paragonabili ai chakra e meridiani e che
l’agopuntura ha rilevato sul corpo umano.
In Gran Bretagna sono state messe in luce quelle che erano considerate ley lines, linee di forza che si estendono nella campagna inglese
collegando tra loro castelli, pozzi, santuari, grandi pietre, creando tracciati indipendenti dalla struttura geomorfologica. Questi percorsi, oggi
dimenticati, vengono ricostruiti grazie all’archeoastronomia, la scienza che studia le conoscenze di astronomia delle popolazioni antiche e le relative
connessioni con la vita sociale e religiosa del periodo. Gran parte di questi, noti anche come “linee sincroniche”, porta a strutture megalitiche di
origine neolitica e collega tra loro anche santuari e cattedrali, edificati in tempi in cui non erano ancora andate perdute le conoscenze relative ai
canali in cui scorre l’energia della Terra.
Linee e tracciati simili sono conosciuti con nomi diversi in altri continenti, come le “linee del drago” di cui parla il Feng Shui, antica disciplina
cinese che legge e interpreta il paesaggio, le forme delle costruzioni e gli spazi interni agli edifici, allo scopo di ricercare le collocazioni più
favorevoli per le costruzioni e l’attività dell’uomo. I “draghi” corrispondono a caratteristiche morfologiche naturali di diversa natura: vi sono draghi
“favorevoli”, “aggressivi”, “dormienti”, “malati”. Le catene montuose tra Cina e Tibet, per esempio, sono sempre state considerate “draghi
pericolosi” che dovevano essere controllate. La Grande Muraglia è una tipica opera di Feng Shui, volta a respingere possibili invasioni e a
proteggersi dalle energie provenienti dal Nord, direzione di difficile controllo.137
Una analoga capacità di considerazione e lettura del paesaggio in termini molto diversi da quelli analitici occidentali, è quella degli aborigeni
australiani che in un viaggio rituale – walkabout – che i nativi realizzano almeno una volta nella loro vita ricalcando le antiche Vie dei Canti, visibili
soltanto ai loro occhi, ripetendo le parole e i suoni con cui gli antenati facevano esistere il mondo, cantandolo. Ogni roccia, ogni sorgente, un punto
d’acqua, una macchia di eucalipti, rappresenta un elemento concreto in un dramma sacro. In pratica, il continente australiano si può leggere come una
partitura musicale. “L’uomo che va in walkabout canta le strofe del suo antenato senza cambiare né una parola né una nota, così facendo ricrea il
Creato.”138
Anche per i Dogon, un antico piccolo popolo al confine tra il Mali e il Burkina Faso, la visione della vita e la stessa topografia del villaggio è
fortemente influenzata dal mito e da una concezione vivente della Terra e del cosmo, considerandosi essi discendenti dalla stella Sirio. La cultura
dogon fu studiata per la prima volta dall’etnologo Marcel Griaule nel 1948. In Dio d’acqua egli raccontò l’iniziazione ricevuta dal vecchio saggio
Ogotemmeli. I villaggi dogon sono orientati nord-sud e la loro pianta rappresenta simbolicamente il corpo umano, riproducendo la figura di un uomo
sdraiato. La testa è il togu-nà, la “casa della parola”, dove si riuniscono gli anziani per le decisioni più importanti. Il torace è rappresentato dalle
case di terra cruda e dai granai. Le mani sono rappresentate dalle case delle donne durante il mestruo, ai due estremi del villaggio. La pietra usata
per macinare rappresenta l’organo genitale femminile, l’altare a forma fallica l’organo maschile. Il mondo è considerato un grande insieme,
all’interno del quale convivono in armonia il mondo delle cose, il mondo animale e il mondo degli uomini.139 L’uomo non è il padrone assoluto del
creato, ma un elemento che, come gli altri, ne fa parte.
Ogni luogo è ben più di ciò che appare agli occhi disincantati di noi occidentali. I nativi americani considerano la natura come una Bibbia
vivente; qualcosa da cui è possibile imparare molto, perché se Madre Terra è stata creata dal Grande Spirito è naturale che racchiuda in sé molte
rivelazioni da cogliere.140 Alce Nero offre all’uomo bianco una chiave per capire in che modo la cultura Lakota – parte della nazione Sioux –
considera il collegamento tra la vita e la società umana e la Terra: “Avete osservato che tutto ciò che un Indiano fa è in un circolo, e questo perché il
Potere del Mondo sempre lavora in circoli, e tutto cerca di essere rotondo. Nei tempi andati, quando eravamo un popolo forte e felice, tutto il nostro
potere ci veniva dal cerchio sacro della nazione, e finché quel cerchio non fu spezzato, il popolo fiorì. (…) Tutto ciò che il Potere del Mondo fa, lo
fa in un circolo. Il cielo è rotondo, e ho sentito dire che la Terra è rotonda come una palla, e che così sono le stelle. Il vento, quando è più potente,
gira in turbini. Gli uccelli fanno i loro nidi circolari, perché la loro religione è la stessa nostra. Il sole sorge e tramonta sempre in circolo. La luna fa
lo stesso, e tutte e due sono rotondi. Perfino le stagioni sono un grande circolo, nel loro mutamento, e sempre ritornano al punto di prima. La vita
dell’uomo è un circolo, dall’infanzia all’infanzia, e lo stesso accade con ogni cosa dove un potere si muove. Le nostre tende erano rotonde, come i
nidi degli uccelli, e inoltre erano sempre disposte in circolo, il cerchio della nazione, un nido di molti nidi, dove Wakan Tanka voleva che noi
covassimo i nostri piccoli”.141
Anche Wovoca, chiamato “il messia dei Paiute”, racconta la sua lettura del mondo: “Ci sono delle linee che nella Creazione collegano ogni cosa
con ogni altra cosa. Lungo queste linee scorre il Potere. Queste linee riempiono il mondo. Alcune vi sono state date dalla vostra cultura, sono le
istruzioni della vostra nazione. Altre vi sono state date da visioni e sogni nei quali avete costruito i vostri legami con la Creazione. E voi potete
anche tagliare alcuni di questi legami, a vostro danno: l’orso non è più vostro parente, questa pietra non ha più il potere di guarire. Se si uccide
qualcosa o qualcuno per scopi inutili per la Creazione, senza preghiera e senza rispetto, è come se una linea ad alta tensione venisse tagliata. Voi
siete collegati a queste linee con la testa, il cuore, le mani. Più queste linee sono solide e numerose, più solidamente siete attaccati a tutto l’universo
e meglio la vita scorre in voi. È la ragione per la quale la ricerca di visioni e la vita alla Maniera Sacra esigono una vera e dura coerenza di vita,
perché si deve vivere in maniera da non dover rompere queste linee che ci aiutano a restare nel sentiero dove scorre il Potere”.142
Questa è la geografia sacra, parte della cultura sciamanica e tradizionale di popoli di tutti i tempi e di tutto il mondo, che ancora cerca – e trova –
collegamenti tra cattedrali, santuari e luoghi sacri, giacché le religioni attuali spesso hanno calcato vie tracciate da predecessori che avevano le
conoscenze necessarie per identificare i luoghi più idonei all’elevazione dello spirito.
Quella tra l’uomo e il paesaggio è una storia antica; c’è un legame profondo che unisce l’uomo alla natura, e non è solo per romanticismo che si
levano sempre più frequenti appelli per la tutela ambientale e per un maggior rispetto per il Pianeta. La consapevolezza della complessa interazione
tra interiorità ed esteriorità è radicata nel più profondo del nostro essere.

Un altro giro di spirale


L’ecopsicologia prende in considerazione anche l’aspetto meno conosciuto della vita: la morte. Nascita e morte sono due fasi del ciclo della vita.
Anche se l’abitudine è quella di considerare la morte come antagonista della vita, ne è semplicemente il lato oscuro, quello di cui non sappiamo
niente, quello a cui la nostra coscienza ordinaria non accede, quello che la scienza non ha mai potuto mai studiare e misurare. “Immaginiamo di
seguire con lo sguardo dalla finestra un nostro caro che esce di casa. Fino a un certo punto il nostro occhio lo accompagna; oltre la svolta al primo
angolo di casa non lo vediamo più. Ma questo non vuol dire che ‘non ci sia’ più”. Bernardino del Boca, ricercatore spirituale pioniere in Italia nella
divulgazione della spiritualità orientale, spiegava nella sua conferenze degli anni settanta, un concetto assolutamente nuovo per la nostra mentalità
moderna, quello che la morte è un diverso stato dell’essere, non percepibile e non comprensibile dal nostro punto di vista, ma reale su altri piani di
coscienza.
Un concetto, questo, presente in ogni religione. Che sia il paradiso terrestre della tradizione cristiana – con la variante di purgatorio e inferno –
che sia l’abbraccio delle Uri degli islamici, il monte Meru degli indiani, il nirvana buddista, le grandi praterie dei nativi americani, non c’è grande
religione o cultura che non abbia preso in considerazione una sua visione di un al di là in cui c’è qualcos’altro.
La morte non è solo la fine di quello che conosciamo, è anche l’inizio di qualche cosa che non conosciamo o, per alcuni, che non ricordiamo,
magari dopo il tocco di un angelo sopra il nostro labbro superiore, che dà origine alla caratteristica fossetta,143 che alcune tradizioni considerano
come il segno di una amnesia voluta “dall’alto”.
Le iscrizioni che accompagnavano i sarcofagi egizi nelle piramidi sono oggi conosciuti come Libro dei Morti, ma il loro vero nome era Libro
dell’uscire alla luce. “Io venni dallo splendore e torno allo splendore”, detta ai suoi allievi il maestro di zen Hoshin pochi istanti prima di morire.
La morte diventa così quello che succede oltre la soglia di questa esistenza, è l’espirazione prima di una nuova inspirazione, il tempo che passa tra
diversi momenti di materializzazione, tra un ciclo di lezioni e un altro – per coloro che considerano questo un “pianeta scuola” – tra un giro di
spirale e un altro. E non c’è bisogno di credere alla reincarnazione per affermarlo. La prima regola della termodinamica dice che nulla si crea e
nulla si distrugge; la materia e le cellule che oggi compongono il nostro corpo domani saranno qualche cosa d’altro, carbonio, idrogeno, ossigeno,
calcio, fosforo, azoto… e forse un giorno saranno parte di un altro organismo vivente. Quello che noi siamo non finisce qui.
Sì, certo, quello che noi siamo come corpo. E quello che noi siamo “oltre al corpo”? Si torna a un’antica diatriba tra filosofie: la coscienza
esiste, non esiste, cosa è mai? Il comportamentismo aveva provato a negarne l’esistenza, ma la proposta non ha avuto largo seguito. La psicologia
umanistico-esistenziale, sull’onda del pensiero di Jung, l’ha definita quel nucleo individuale più autentico con cui ognuno di noi già nasce: la
ghianda di Hillmann, il Sé Superiore di Roberto Assagioli – che si esprime attraverso il direttore d’orchestra – il testimone del buddismo, l’anima
del cristianesimo, il corpo causale dei teosofi… non mancano i termini per definire quella parte di noi che riassume in sé quanto c’è di più
essenziale, pur non essendo riconducibile ad alcun organo fisicamente riscontrabile. Pur nella diversità di terminologia e dei “dettagli” molti
riconoscono che c’è qualche cosa di più sottile in noi che sopravvive dopo la morte. Non si sa come fa, non si sa dove va, ma la nostra esistenza non
finisce qui, forse non finisce mai; come non finisce per ogni singolo atomo di questo universo, in perenne transizione da un’avventura all’altra,
oscillando tra stato onirico e veglia, tra pura coscienza ed esistenza materiale, tra l’essere onda e l’essere particella. La danza della vita, in tutte le
sue circonvoluzioni, l’universo che gioca a conoscere se stesso.
La morte è così parte della vita. Ma la morte è uno dei più grandi tabù nella nostra società. Non ne parliamo, non ne sappiamo nulla, non ce ne
occupiamo né ci preoccupa, in totale sintonia con tutto l’atteggiamento schizofrenico con cui viviamo la vita quotidiana moderna, rimuovendo la
metà dell’esistenza, l’analogico, il femminile, l’affettivo, l’onirico, l’intuitivo, il trascendente, il misterioso e, naturalmente, la morte.
Non a caso le divinità femminili presiedevano agli aspetti della vita legati alla fertilità, alla nascita, alla crescita e all’abbondanza, ma anche alla
morte. Ed è nello stesso abbraccio di Madre Terra che ogni essere viene nuovamente accolto alla conclusione della sua esistenza – e spesso con una
implicita promessa di rinascita – è abbastanza normale, quindi, che il femminile sia associato anche a questa fase del ciclo della vita.
Perché l’ecopsicologia si occupa della morte? Perché l’ecopsicologia si occupa della vita. Perché la comprensione della totalità dei processi
coinvolti nell’esistenza è indispensabile per comprendere chi siamo e, soprattutto, cosa siamo qui a fare. “La morte è il migliore maestro”, dice lo
zen. “Pensa alla morte tre volte al giorno, ma non una di più”, insegna la Cabala ebraica. Fare i conti con l’inevitabilità della morte ci aiuta a
valorizzare la vita secondo parametri più autentici, ridimensiona le questioni futili che ci affliggono e ci fa riflettere su quelle invece per noi più
importanti, che non vorremmo lasciare irrisolte in caso di una improvvisa dipartita da questa dimensione; ci obbliga a questionarci su quanto
vogliamo e possiamo realizzare, verificando che sia veramente importante, che ci faccia sentire orgogliosi del nostro contributo. Del resto chi mai
può sapere quale sarà il suo momento di lasciare il corpo e di “volare in cielo”, come si suol dire?
Una parabola zen racconta di un uomo inseguito da una tigre che si trovava sul limitare di uno strapiombo. In fondo al dirupo un’altra tigre lo
guardava bramoso. Comincia a scendere con cautela, ma scivola e all’ultimo momento si aggrappa a un ramoscello sporgente. Due topolini, uno
bianco e uno nero, ne stanno rosicchiando la base. Appeso nel vuoto, vede accanto a sé, sul fianco della montagna, una fragola selvatica. La prende
tra le dita e la mette in bocca… Come era dolce!144
Così dovremmo vivere la nostra vita, con l’intensità che dedichiamo a un istante che potrebbe anche essere l’ultimo. La saggezza di tutti i tempi
dice questa stessa cosa e l’ecopsicologia accoglie in pieno il messaggio e lo fa proprio per favorire una comprensione di sé, del mondo e della vita
che tenga conto anche dell’inconoscibile e che trasformi l’incertezza di fronte a questo ignoto che ci attende in uno stimolo in più per vivere il tempo
che ci è dato – in questa contingenza, con questa forma e con questi strumenti – con pienezza, autenticità, impegno e consapevolezza.

129 Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.


130 Carolyn Merchant, La morte della natura. Le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica, Garzanti, Milano, 1987.
131 Fritjof Capra, Verso una nuova saggezza, Feltrinelli, Milano, 1988.
132 Charlene Spretnak, Lost Goddesses of Early Greece, Beacon Press, Boston, 1981. Vicki Noble, Il risveglio della Dea, Tea, Milano, 1998.
133 Gregory Bateson, Una sacra unità, Adelphi, Milano, 1997, p. 244.
134 Betty Danon - Arte come vita, vita come arte, a cura di Marcella Danon, Inventare il mondo, 2005, pp. 18-20.
135 Wilhelm Reich, La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, Milano 1963.
136 Vicki Noble, Il risveglio della Dea, cit.
137 Appunti da una conferenza di Mauro Bertamé, “Che cos’è il Feng Shui”.
138 Maurizio Torretti, “Il tempo del sogno”, 11 marzo 2004, www.lifegate.it.
139 Marcel Griaule, Dio d’acqua, Milano, Bompiani, 1968.
140 Ed Mc Gaa Eagle Man, La spiritualità della Madre Terra, Edizioni Il punto d’Incontro, Vicenza, 2000.
141 John G. Neihardt, Alce Nero parla, Adelphi, Milano, 1968, p. 197.
142 Wovoka, Il messaggio rivoluzionario dei Nativi americani, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1979.
143 Un’immagine, questa, di cui sono debitrice a mio nonno Raphael.
144 101 Storie Zen, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi, Milano, 1973.
Parte Seconda
LE IDEE IN AZIONE
Capitolo 7

VERSO UNA PSICOLOGIA DEL NOI

“Che la Terra sia una comunità è un concetto basilare dell’Ecologia. Ma che la Terra debba essere amata e rispettata è una conquista dell’Etica […]. È tempo di creare un’Etica che si
occupi del rapporto tra l’uomo e la Terra, che allarghi confini della comunità a suoli, acque, piante, animali.”
Aldo Leopold, Almanacco di un mondo semplice

Qualità delle relazioni, qualità della vita


La sfida, ora, è quella di tradurre questa emergente visione dell’essere umano e del mondo in una pratica capace di indirizzare il singolo individuo,
la società e il Pianeta stesso, verso una direzione sostenibile. Un obiettivo, questo, che può essere perseguito solo prendendo in considerazione le
strette interrelazioni che, a tutti i livelli, caratterizzano la vita in tutte le sue forme. Le relazioni sono la chiave, “le relazioni sono l’essenza del
mondo vivente” sottolinea ancora una volta Gregory Bateson, riassumendo in poche parole il nuovo punto di vista sulla realtà a partire dal quale
ripensare il nostro essere individui, il nostro essere con gli altri, il nostro essere nel mondo e col mondo.
Nessuno vive isolato da un contesto sociale e relazionale e la psicologia, nel suo evolversi, offre una crescente attenzione a come l’individuo si
forgia nell’ambito di una rete di interazioni non solo nella realtà esterna, con persone e situazioni, ma anche di quella interna, tra diversi aspetti di
sé, diverse pulsioni, tensioni, desideri, aneliti, funzioni psichiche.
Il mondo interiore si rivela all’introspezione vasto e complesso, con ben specifiche dinamiche relazionali in corso tra le singole parti. Ben presto
si scopre che esiste un parallelismo tra la qualità delle relazioni interne e la qualità delle relazioni esterne: chi ha fiducia in se stesso ha fiducia
negli altri, chi è intransigente con se stesso lo è anche con gli altri, chi teme l’ignoto è prima di tutto delle sue parti sconosciute che ha paura.
Come nasce l’idea che abbiamo di noi stessi? Si costruisce sulla base di input ricevuti dall’esterno – affermazioni sul nostro conto,
comportamenti altrui nei nostri confronti, circostanze più o meno fortuite – o dipende da come noi ci sentiamo di essere, da come ci poniamo di
fronte agli altri, da come agiamo di fronte alle circostanze? Nasce da fuori o nasce da dentro?
Entrambe le ipotesi sono vere, ma la realtà soggettiva ha una influenza maggiore di quella esterna oggettiva: in fin dei conti, quello che crediamo
di essere ci condiziona di più di quello che siamo davvero.
Il grande apporto della psicologia umanistica è quello di riconoscere che l’influenza mondo esterno/mondo interno è operativa in entrambe le
direzioni: l’ambiente esterno influenza e condiziona l’individuo, come era già stato ampiamente messo in luce dal comportamentismo, ma anche
l’individuo ha a sua disposizione un ampio margine entro il quale è lui a influenzare l’ambiente esterno con il proprio atteggiamento e
comportamento. È su questo “ampio margine” che si può intervenire.
In un percorso di crescita personale e di educazione alla relazione, le linee guida vengono fornite da una importante considerazione: la qualità
delle relazioni coltivate con se stessi – con i diversi, molteplici, contraddittori aspetti di se stessi – è determinante nei confronti delle relazioni
coltivate con gli altri. Esiste, cioè, una stretta corrispondenza tra come ci atteggiamo nei confronti di noi stessi e come ci rivolgiamo agli altri. Molta
della disarmonia nei rapporti interpersonali è conseguenza diretta di una disarmonia interiore di cui non abbiamo mai imparato a occuparci.
Ecco, quindi, che per sanare una situazione conflittuale che ci coinvolge sul piano relazionale possiamo cominciare con il porre più attenzione
alla nostra vita interiore, avviando una “missione di pace” che riporti dialogo e rispetto reciproco prima di tutto tra le diverse componenti della
nostra personalità. Ogni conflitto affrontato e risolto dentro di sé offre una chiave per affrontare e risolvere anche gli stessi conflitti nelle relazioni
con gli altri.
Questo lavoro di armonizzazione interiore, per favorire una migliore qualità di relazioni sul piano esteriore, diventa strumento concreto per
ridurre i livelli di conflittualità anche nei diversi contesti in ambito sociale e per favorire una comunicazione e interazione più autentica e
costruttiva.
L’ecopsicologia si inserisce su questa base teorica ed esperienziale e prosegue nella stessa direzione, allargando ulteriormente il campo d’azione.
Tutto il patrimonio esperienziale raccolto in più di trent’anni dalla psicologia per quanto riguarda le dinamiche sul piano relazionale e le
implicazioni di tali dinamiche, viene esteso a uno scenario ancora più vasto che prende in considerazione la qualità di rapporti che viene creata e
coltivata nei confronti dell’ambiente naturale, del mondo intero e della vita.
L’interazione si rivela ancora più complessa: l’atteggiamento e la considerazione che ho di me stesso, e la qualità di rapporti che ho con me
stesso, determina la qualità di rapporti che ho con gli altri e con il mondo che mi circonda; d’altra parte, l’atteggiamento e la considerazione che ho
della vita e del mondo che mi circonda – anche della natura – quindi la qualità di rapporti che ho con il mondo esterno, influenza i rapporti che ho
con gli altri e con me stesso.
In una realtà a tal punto intessuta di relazioni, non potremmo affermare che la qualità della vita dipende proprio dalla qualità delle relazioni? Sì.
Sì perché non siamo soli. Viviamo immersi nella biosfera. La nostra esistenza biologica dipende da una serie di interazioni e interscambi dal
micro al macro, dal piano cellulare a quello dell’impatto ambientale della nostra presenza sulla Terra. La nostra esistenza sociale presuppone
scambi e interazioni, a tutti i livelli. Siamo il frutto dell’unione, comunque sia avvenuta, di una donna e di un uomo, siamo stati aiutati a venire al
mondo, siamo stati nutriti e protetti, altrimenti non saremmo qui ora; la nostra educazione è il risultato dell’interazione con insegnanti e compagni di
studio diversi; ogni esperienza importante nella nostra vita è legata a una relazione, che si tratti di un’amicizia, di un amore o di una collaborazione;
per sopravvivere facciamo ricorso a cibi coltivati, raccolti o preparati da altri, a utensili e oggetti costruiti, trasportati e messi a nostra disposizione
da una lunga catena di produttori, distributori e venditori; facciamo parte di una società con cui interagiamo continuamente e viviamo in un contesto
di relazioni umane in cui, come sottolinea Watzlawick nel primo assioma della comunicazione, “non si può non comunicare”, dato che si comunica
anche attraverso il comportamento, la postura, la mimica, il linguaggio non verbale, la non risposta, il silenzio.
Siamo immersi in un oceano di relazioni. La relazione è l’essenza stessa del nostro esserci, è solo rapportandosi con gli altri che l’individuo si
conosce, riconosce e manifesta. E se questa è la realtà umana, il dialogo si rivela un elemento fondamentale. Il dialogo è quello che contraddistingue
una relazione di qualità, è il principio alla base di ogni processo della vita, a tutti i suoi livelli.
Nell’esame delle diverse possibili relazioni, il filosofo Martin Buber fornisce una chiave di lettura basata proprio sull’autenticità, sulla presenza
e sul dialogo. Sono “relazioni Io-Tu”, quando c’è una relazione aperta all’incontro, in cui c’è presenza a se stessi e all’altro, in cui non c’è giudizio
ma disponibilità al dialogo. Sono “relazioni Io-Esso”, quando tra le due parti in gioco c’è una relazione impersonale, superficiale, strumentale,
legata a un ruolo, a una convenzione o a una proiezione.
Queste due categorie, paragonabili alle categorie dell’essere e dell’avere definite da Fromm, non si limitano a definire le relazioni tra individui,
ma anche con altri esseri viventi e con mondo inanimato; una implica una visione del mondo come presenza, con cui c’è coinvolgimento: possiamo
avere una relazione Io-Tu anche con un gatto, con un fiore e con un bosco. L’altra, una visione del mondo, e dell’altro, come oggetto, nei cui confronti
è sentita la separazione.
Una relazione di qualità diventa così una relazione che favorisce l’inclusione, un anelito che si rivela importante da soddisfare. “È la
partecipazione alla realtà che fa l’Io reale; ed esso è tanto più reale quanto più completa è la partecipazione”,145 conferma Buber.
Parlare di relazione in questi termini di autenticità, presenza e compartecipazione presuppone una precisa visione dell’essere umano che include
il concetto di consapevolezza, di un centro di autocoscienza, baricentro interiore, in grado di contrapporsi agli automatismi e alle sovrastrutture da
condizionamenti esterni. Coltivare la presenza a se stessi, prima di tutto, diventa punto di partenza per coltivare la presenza all’altro.

Ognuno di noi è una folla


La nostra stessa natura individuale è molteplice, è frutto di relazioni interne tra energie psichiche di natura e intensità diversa, tra esigenze diverse,
che si esprimono in linguaggi diversi, che perseguono ognuna finalità diverse. “Non siamo tutti d’un pezzo, ma siamo una folla”, sostiene Roberto
Assagioli, e questa considerazione è evidente a chiunque abbia cominciato a rivolgere l’attenzione verso il proprio complesso e turbolento mondo
interiore. Basta un minimo di attenzione interna per accorgersi di quanto contrastanti e spesso contraddittorie siano le voci che animano il nostro
dialogo interiore. Come orientarsi? Quale di queste voci è quella che ci rappresenta più integralmente? Quale di queste voci dobbiamo seguire in un
momento di conflitto interiore o di confusione?
“Tutte e nessuna” è l’enigmatica risposta di una psicologia che, introducendo il concetto di centro di autocoscienza, offre un appiglio concreto per
districarsi in questa folla. “Tutte”, perché tutte hanno qualche cosa da dire, tutte sono portavoce di qualche cosa che fa parte, o è entrato a far parte,
di noi: un sentire, una speranza, un desiderio, oppure un preconcetto, un condizionamento, un luogo comune ormai acquisito. “Nessuna”, perché
ognuna di loro esprime soltanto un particolare e limitato punto di vista sulla questione che stiamo affrontando e solo da un punto di vista imparziale e
superpartes potremo decidere, volta per volta, quali di queste voci seguire in quel particolare caso o quali accordi stipulare con esse, in modo da
rispondere in modo adeguato, maturo, responsabile, alla situazione. Questo è il baricentro interiore. Il “direttore d’orchestra”, lo chiama la
psicosintesi, quel punto virtuale al centro del nostro essere da cui possiamo essere presenti a tutto quanto avviene dentro e fuori di noi. Il “Signore, o
la Signora, del pianeta Io”, viene chiamato alla Scuola italiana di ecopsicologia.146 Un punto solido, saldo, stabile, come un faro in mezzo al mare,
da cui possiamo osservare e sentire il “qui e ora” e da cui possiamo intervenire non più in base a un modello vecchio, consolidatosi nel tempo, ma
in base a riflessioni e considerazioni che avvengono nell’istante presente, adatte alle circostanze. È l’“Adulto” dell’analisi transazionale, l’“Io qui e
ora” della psicologia della Gestalt, è la presenza dello zen, il baricentro della psicosintesi è quello spazio interiore che si scopre e si consolida
nella relazione autentica.
Una relazione Io-Esso può venire letta così come una relazione tra le parti, tra le sfaccettature del diamante, se scegliamo questa immagine per
rappresentare la molteplicità del mondo interiore. È il cliente che si rivolge all’impiegato di banca, ognuno ben saldo nel suo ruolo; è il pedone che
apostrofa l’automobilista che lo sfiora sulle strisce pedonali; è l’automobilista irritato per la calma ostentata dal pedone nell’attraversarle. Ma tutti
noi non siamo solo clienti, tanto quanto non siamo solo impiegati di banca e tutti noi siamo sia pedone che automobilista, e siamo comunque molto
più di questo.
Una relazione Io-Tu è una relazione tra persone intere che non si vedono più solo come ruolo, come parte, come sfaccettatura, ma come esseri a
tutto tondo, ognuno con la sua dignità e complessità, con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue contraddizioni, con la sua alterità da rispettare ed
eventualmente da conoscere. È l’amico che alla domanda “come va?” non risponde più in modo stereotipato, ma improvvisamente racconta qualche
cosa di sé che lo riguarda profondamente, è lo sconosciuto col quale riusciamo inaspettatamente ad aprirci, è quello che si chiama “incontro umano”
e avviene più facilmente nelle emergenze, in tempi di guerra, di catastrofi naturali, in ospedale – quando la vita ci avvicina ai valori più veri –
oppure che si crea con un confessore, terapeuta, counselor, amico del cuore. È un incontro in cui non è più l’apparenza, la classe sociale, l’abito,
l’appartenenza a una determinata squadra o religione che contano, ma è la disponibilità a porsi con tutto ciò che si è e ad accettare e incontrare
l’altro con tutto ciò che egli è, senza pregiudizi, senza aspettative, con disponibilità e apertura. Questa è una relazione di qualità, una relazione
autentica, che chiameremo relazione ecologica, perché segue una logica che favorisce la sinergia.

Come si crea una relazione ecologica


Non siamo obbligati a impostare con tutti relazioni in cui apriamo il cuore e le viscere e ci riveliamo per ciò che siamo, nelle nostre forze e
debolezze, luci e ombre, gioie e sofferenze. Ci sono situazioni in cui questo non è possibile, non è necessario, o non è neppure auspicabile. Porsi
soltanto come ruolo, senza tenere conto della sensibilità altrui, può essere in alcuni casi una utile protezione, ma può diventare un grosso limite nella
propria vita relazionale quando diventa la norma, perché preclude quella qualità di relazioni che favorisce il senso di pienezza e realizzazione nella
vita.
Tutti viviamo relazioni relazioni ecologiche. Tutti abbiamo sperimentato la differenza tra un incontro stereotipato e un incontro autentico. A volte
è stato anche solo un sorriso tra sconosciuti che si incrociano in una strada solitaria o in una strada molto affollata. Ma se la vita ancora non ci ha
posto in condizioni di vivere relazioni autentiche abbastanza spesso, o abbastanza consapevolmente, non è mai troppo tardi per imparare a creare le
condizioni che le rendono possibili. Un’abilità da poter poi utilizzare a piacimento.
Le tappe attraverso le quali si realizza un incontro autentico e arricchente in tutte le possibili diverse situazioni della vita – che si tratti di
relazionarsi con le diverse parti di sé, con un’altra persona o con un intero paesaggio – e in cui si instaura una relazione di qualità sono queste:
attenzione, ascolto, rispetto, presenza, empatia, dialogo, sinergia.

Attenzione
Il primo passo, per entrare in relazione, è notare l’alterità di fronte a sé; che può essere persona, animale, pianta, situazione o paesaggio. La chiave è
mettere da parte qualsiasi idea preconcetta del soggetto con cui ci si sta per relazionare e… guardarlo. È il “ti vedo” con cui si salutano i membri
della tribù del film di Avatar. È il non accontentarsi dell’idea che ci si è fatti a priori, ma fare attenzione a come ci appare, in questo istante,
l’interlocutore.

Ascolto
L’ascolto, quello vero, può avvenire quando la mente è silenziosa e sinceramente curiosa; quando non è distratta dal prima o dal dopo, quando non è
impegnata nel commento interno o nel cercare un varco per imporsi nella conversazione. L’ascolto è la naturale conseguenza dell’attenzione. È un
atteggiamento che accoglie e conforta senza bisogno di parole, che dà all’interlocutore il piacere di sentirsi accettato, considerato e degno. È una
delle qualità più apprezzate e preziose nei rapporti interpersonali.

Rispetto
Nell’ascolto attento si entra in intimità con l’altro, si colgono non solo pensieri e opinioni, ma anche stati d’animo, emozioni, sentimenti, raccontati
dalle parole o rivelati dalla postura, dall’espressione, dalla gestualità. Quando il giudizio si intromette, si rompe la magia della relazione. Il rispetto
è l’atteggiamento da coltivare per approfondire l’incontro con l’altro. Rispetto inteso come trattenersi dall’etichettare ogni parola o affermazione
dell’interlocutore secondo categorie chiuse, ma rendersi disponibili a capire cosa intende davvero esprimere, cercare di capire il suo punto di vista
anche quando è diverso dal proprio.

Presenza
Un incontro si svolge sempre nel presente ed è sul presente che bisogna essere sintonizzati. Senza lasciarsi fuorviare da pregiudizi, né farsi distrarre
da obiettivi successivi. La presenza all’altro si coltiva partendo dall’attenzione a se stessi, per non fare confusione tra il proprio vissuto e quello che
ci viene raccontato. Quando concentriamo la nostra attenzione su qualche cosa o qualcuno, ci focalizziamo sul nostro baricentro interiore e
sviluppiamo uno stato di coscienza vigile sintonizzato sul presente, capace allo stesso tempo di guardare dentro e di guardare fuori, tenendo ben
distinti i due diversi livelli.

Empatia
Quando le basi per l’incontro sono state create, quando l’altro è stato accolto e compreso nella sua unicità, allora anche la dimensione emotiva può
entrare nella relazione è può non più solo “capire” l’altro, ma anche “sentire” come sente lui. Si crea una risonanza su un piano diverso da quello
mentale e razionale. Questa risonanza si chiama empatia. Implica una buona capacità di presenza a se stessi per riconoscere che si è stati toccati
emotivamente e permettersi di assaporare il dono di questo tocco, senza però farsi travolgere dall’emozione al punto da perdere il contatto con
l’altra persona.

Dialogo
A questo punto la conversazione è tra due persone intere che si parlano in quanto esseri umani di pari dignità, non in quanto ruoli o stereotipi. Quello
che passa è tanto: vengono condivisi sentire, pensare, sognare. L’incontro coinvolge entrambi, lascia un senso di compiutezza, di realizzazione, di
nutrimento. Non è un’interazione da cui solo uno dei due deve uscire vincente, è una relazione sullo stesso piano che permette uno scambio autentico
finalizzato all’incontro e non alla sopraffazione. Una fase cruciale nella risoluzione non solo dei conflitti interpersonali, ma anche internazionali.

Sinergia
Ora ci sono tutte le condizioni per passare all’azione, per instaurare una relazione autentica, costruttiva e di qualità. Che si tratti di un incontro
fortuito o della relazione con il partner, il percorso è questo e queste sono le tappe che portano a creare i presupposti per una buona amicizia, per
una collaborazione proficua sul lavoro, per un rapporto bello tra genitori e figli, per una relazione d’amore profonda, per la risoluzione di conflitti,
per la gestione di questioni politiche e sociali, per il risanamento di odi etnici, per un intervento sull’ambiente nel rispetto dei suoi ritmi e cicli.

L’arte della relazione ai diversi livelli dell’esistenza


Il processo che porta al dialogo, allo scambio e quindi alla comunicazione ecologica ed efficace, è lo stesso quando si tratta di interagire con
un’altra persona, quando dobbiamo trovare un accordo tra due diversi aspetti di noi stessi e quando vogliamo ritrovare un contatto più profondo col
mondo di cui siamo parte.
Esercitarci in uno di questi livelli ci insegna a sviluppare relazioni di qualità anche negli altri.
L’ecopsicologia tiene sempre presenti i parallelismi esistenti tra come ci relazioniamo con noi stessi, e come il nostro comportamento riflette la
stessa qualità di relazione anche verso l’esterno. Una osservazione, questa, su cui da decenni sta lavorando già la psicologia, ma a cui
l’ecopsicologia ha aggiunto anche la dimensione planetaria, relativa ad ambiente naturale, al Pianeta nel suo insieme e alla vita, scoprendo che la
qualità di relazioni che instauriamo con noi stessi finisce con riflettersi su tutti i livelli.
L’invito a esercitarsi nel migliorare la qualità delle proprie relazioni, può partire da uno qualsiasi di questi livelli ed estendersi a poco a poco
anche agli altri. Vediamo quali sono le tappe principali con cui questo processo di apertura e dialogo può avvenire in ogni campo.

Dimensione intrapsichica: il rapporto con se stessi


• Sviluppo di un centro di consapevolezza
Il primo passo è la scoperta del centro: baricentro, testimone, osservatore interno, direttore d’orchestra, Signore/Signora del pianeta Io. La scoperta
di quel punto virtuale da cui siamo in grado di osservare quanto avviene dentro di noi, prima di tutto: ciò che sentiamo a livello fisico, le emozioni
che proviamo, i pensieri che ci passano per la mente. È il punto di partenza di ogni percorso di crescita personale e anche di ogni via di ricerca
spirituale. L’obiettivo principale della mindfulness è proprio quello di sviluppare questo senso di vigile attenzione interna.

• Contatto con corpo, emozioni e mente


Il percorso prosegue con una particolare attenzione ai tre diversi linguaggi con cui si esprimono corpo, emozioni e mente. Tre parti di noi che hanno
esigenze, ritmi e potenzialità diverse, che dipendono addirittura da tre diverse parti del cervello – cervello rettile, mesencefalo e corteccia cerebrale
– e che tendono ad assumere ognuna la supremazia a scapito delle altre. Ci sono infatti persone dominate da istinti e necessità corporee, altre in cui
sono le emozioni a prendere spesso il sopravvento e altre in cui è la mente a dettare legge, spesso senza curarsi delle necessità di corpo o emozioni.

• Consapevolezza della molteplicità interiore


Una volta allenata l’attenzione interna, si diventerà abbastanza attenti da notare la presenza di tante diverse voci nel proprio mondo interiore. Una
vuole una cosa, l’altra vuole l’esatto contrario, una è forte e spavalda, l’altra è timida e insicura. Non c’è fine alle sfaccettature di personalità che
compongono “la folla” di cui siamo fatti. La maggior parte delle nostre energie nella vita quotidiana e nello svolgersi stesso della nostra esistenza, si
perde in conflitti interiori tra chi, in noi, vuole bianco e chi vuole nero, tra chi è più prepotente e si impone e chi è più delicato, rimane in disparte e
ne soffre. Non è per cattiveria che questo avviene, solo per mancanza di coordinamento. Una volta risvegliato il nostro centro, da cui notiamo la
situazione di squilibrio, allora possiamo anche intervenire – proprio come un direttore d’orchestra – facendo parlare tra loro queste diverse parti,
permettendo a ognuna di far presente il suo punto di vista e le sue necessità sino a poter elaborare delle strategie che lascino a tutte il diritto di
esprimersi e di manifestarsi nella vita quotidiana.

• Dialogo tra le parti


La pratica fondamentale nella creazione di un buon rapporto con se stessi segue le stesse tappe e procedure del dialogo tra due persone: attenzione,
ascolto, rispetto e presenza, per cominciare. E non importa se stiamo “parlando” con un pensiero fisso che ci tormenta, con un’emozione che
reputiamo troppo invadente o con un mal di pancia. Possiamo dare un nomignolo al nostro interlocutore virtuale, se questo ci facilita il processo,
l’importante è entrare nel gioco, prendere sul serio l’interazione. La sedia bollente in Gestalt o il dialogo con le sedie in psicosintesi sono tecniche
classiche per instaurare una relazione con i diversi aspetti del proprio mondo interiore. Se non si è pratici con la loro applicazione, si può instaurare
un dialogo per iscritto, permettendo, a ogni parte con cui si desidera intavolare una trattativa, di manifestare le sue rimostranze, il suo punto di vista.
Meglio cominciare a lavorare con solo due interlocutori alla volta. Seguendo le tappe delle relazioni ecologiche, si potrà procedere anche al
dialogo, si potrà entrare in empatia con quanto viene espresso e si potrà così, a poco a poco, riorganizzare il proprio mondo interiore in modo più
democratico e collaborativo. La riorganizzazione avviene spontaneamente: il fatto stesso di aver potuto esprimere parti di sé, solitamente ignorate, e
di averle riconosciute e ascoltate, si traduce in sollievo, soddisfazione e trasformazione.

• Attenzione alla dimensione noetica


Abbiamo parlato di corpo, emozioni e mente, ma noi non siamo solo questo. Ci sono aspetti ancora più sottili nel nostro essere, voci delicate che
non sentiamo, nel frastuono di un’orchestra scordata, ma che cominciano a farsi sentire quando la pratica di ascolto interno si consolida. Sono i
nostri valori, ideali, aspirazioni, sogni nel cassetto, e anche senso di compartecipazione con il creato, tensione altruistica, anelito verso l’assoluto.
Tutti aspetti che hanno bisogno di rivelarsi e di manifestarsi così come ogni altro aspetto di noi: la dimensione noetica o spirituale, è connaturata alla
natura umana. Negarla o reprimerla porta agli stessi sintomi di depressione o malessere esistenziale a cui si va incontro negando istinti vitali quali
sessualità, aggressività o desiderio di autorealizzazione. Questa è una rivelazione relativamente recente in psicologia, che ha aperto nuove strade
proprio alla cura della depressione, causata spesso da crisi di crescita non comprese.

• Ricerca del progetto di vita


Quando ci siamo messi in cammino per conoscere meglio chi siamo, abbiamo cominciato a riconoscere e accordare tutti gli strumenti della nostra
orchestra, sorge spontaneo il desiderio di chiedersi “quale musica potrò suonare?”. Uscendo dalla metafora dell’orchestra, la domanda impegnativa
è “quale è il mio progetto di vita?”. Come a tutte le grandi domande filosofiche, non importa tanto trovare la risposta, quanto mettersi alla sua
ricerca. Avere sempre presente questa domanda vuol dire non solo cercare il senso della propria vita ma predisporsi a darlo in prima persona:
“quale senso voglio dare alla mia vita?”. E allora, spontaneamente, tutta la folla di cui siamo fatti potrà convogliare le sue energie verso un obiettivo
più grande, superando conflitti e inimicizie e contribuendo a un progetto comune.

Dimensione interpersonale: il rapporto con gli altri


• Riconoscimento delle proiezioni
La psiche, nella sua complessità, mira a rivelarsi a tutti i costi. Quando non riconosciamo o accettiamo una parte di noi, finiamo col vederla riflessa
in qualcun altro. È il ben noto meccanismo di proiezione, messo in luce dalla psicoanalisi classica come uno dei modi con cui la psiche si protegge
da una verità sgradita. Questo meccanismo è il principale responsabile delle relazioni distorte e conflittuali tra le persone, perché di fatto ognuno
non vede l’altro per quello che è, ma per quello che gli proietta addosso. È proprio questa la relazione Io-Esso a cui fa riferimento Martin Buber.
Quando si intraprende un percorso di crescita personale, questo rispecchiamento diventa prezioso alleato, perché quando ci si rende conto che la
reazione emotiva nei confronti di un’altra persona – che si tratti di fastidio o di ammirazione – è spropositata rispetto alla causa scatenante, scatta il
campanello di allarme che permette di riconoscere che c’è una proiezione in atto e che c’è l’opportunità di conoscere qualche cosa di più su sé.

• Ritiro di una proiezione


Nella misura in cui ci predisponiamo a dialogare con l’immagine che abbiamo della persona in questione, ci accorgiamo che di fatto stiamo vedendo
in lei qualche cosa di nostro. Può anche corrispondere a una caratteristica che fa effettivamente parte dell’altro, ma l’intensità emotiva che abbiamo
messo in campo non è destinata all’altra persona nel suo insieme, ma solo a quella singola sfaccettatura. Quando ci riappropriamo del contenuto
extra da noi messo in gioco, ecco che l’altra persona riacquista la sua multidimensionalità e non è più vista soltanto come uno stereotipo di questo o
quell’altro aspetto. Tra dimensione intrapsichica e interpersonale c’è una precisa corrispondenza. Nella misura in cui io imparo a conoscere e
accettare un aspetto prima poco conosciuto apprezzato o tollerato di me stesso, sono meno disturbato quando incontro qualcuno che esprime
chiaramente quella caratteristica; divento capace di vedere l’altro per ciò che è e non per ciò che io credo che sia. Ed è proprio questo che favorisce
l’incontro autentico e il dialogo.

• Gestione dei conflitti


Quando due persone entrano in conflitto, spesso entrano in uno spazio virtuale in cui la realtà occupa un posto limitato. Alla base della disarmonia ci
sono mancanza di ascolto, rigidità di punto di vista, incapacità di dialogo e uso massiccio di proiezioni, da una parte e dall’altra. Per poter
concentrare le energie sugli aspetti reali del conflitto, bisogna prima sgombrare il campo da tutto ciò che non c’entra con la situazione reale in
questione. Come procedere? I metodi sono tanti.
Uno consiste nel seguire il procedimento indicato precedentemente, alleggerendo da proiezioni estranee il carico emotivo di ognuna delle due
parti in causa. Un altro metodo, da svolgere insieme, questa volta, consiste nell’intraprendere la discussione con l’aiuto di un facilitatore. Una delle
parti esprimerà il suo punto di vista e l’interlocutore dovrà ripetere i concetti espressi dal primo, sino a quanto questi si riterrà correttamente
compreso. A questo punto sarà il turno del secondo di esprimere il proprio punto di vista, e anche questa volta l’interlocutore dovrà riassumere i
termini della questione così come esposti dal secondo, e così via. Questo metodo elimina i possibili fraintendimenti dati dal linguaggio. La questione
procede lentamente, ma a ogni tappa si è sicuri che quanto viene detto è correttamente compreso da entrambe le parti. Si crea una situazione di
attenzione e di ascolto, i primi passi per migliorare la relazione attraverso le tappe successive, che richiederanno comunque impegno e tempo:
rispetto, empatia, dialogo e sinergia, ovverosia la gestione concreta del contendere, alla ricerca di soluzioni che possano lasciare soddisfatte
entrambe le parti.

• Collaborazione
Non è vero che l’uomo è di natura egoista e aggressivo. Lo diventa quando sente il bisogno di difendersi. La tendenza alla collaborazione, al mettere
le proprie risorse e capacità al servizio del gruppo e della comunità, è connaturato in noi. Ma anche la collaborazione ha le sue regole, che vanno
rispettate se si vuole favorire l’incontro e l’interazione di diverse energie verso un unico obiettivo. Le tappe sono sempre le stesse. Il dialogo deve
essere costante, l’apertura autentica e autentico il rispetto reciproco. La coesione e l’affiatamento all’interno di una équipe di lavoro possono essere
coltivati creando le condizioni che permettono la conoscenza vicendevole non più solo come membri del gruppo, ma anche come persone, a tutto
tondo. Gli antichi sovrani, prima di discutere su questioni di vitale importanza, si incontravano a tavola, proprio per incontrarsi con gli interlocutori
prima come esseri umani e, solo dopo, come rappresentanti di campi avversi.
Nelle strutture all’avanguardia vengono creati momenti formativi a cui partecipano tutti i membri di un progetto. In una iniziativa realizzata in un
grande ospedale di Rio de Janeiro, per esempio, sono stati fatti intervenire dai più umili inservienti fino ai chirurghi più prestigiosi e tutti insieme
sono stati coinvolti in un lavoro di conoscenza reciproca. Una perdita di tempo? Solo agli occhi più inesperti. L’energia che si sprigiona nelle
persone quando si sentono riconosciute e rispettate come esseri umani, e non più solo identificate con il ruolo, è enorme. Ed è di questa energia che
c’è bisogno adesso.
Dimensione planetaria: il rapporto con il mondo e con la vita
• Recupero e sviluppo delle potenzialità percettive
La vista è il senso che adoperiamo di più per farci un’idea del mondo che ci circonda, ma molti sono i messaggi che possono essere colti solo con
gli altri sensi; la percezione della nostra realtà sarà sempre ristretta se non coinvolge anche gli altri canali sensoriali. Se in un ambiente naturale
coltiviamo l’abitudine a sintonizzare la nostra attenzione anche sull’ascolto di suoni, profumi, sensazioni tattili e sapori – sì, anche assaggiando
qualche elemento naturale – notiamo che i confini del nostro mondo si allargano e possiamo cominciare a comprendere qualche cosa di più del
mondo che ci circonda.

• Riconoscimento di un mondo sconosciuto


Abbiamo visto come l’ostacolo principale a una relazione autentica con un altro essere umano sia il pregiudizio, l’idea preconcetta che impedisce di
aprirsi a una visione costantemente rinnovata o rinnovabile dell’interlocutore. Lo stesso vale anche quando entriamo in un bosco, prato o giardino.
Siamo limitati dall’idea di trovarci in un ambito inanimato, fatto di cose, di risorse o, nel migliore dei casi, di roboanti nomi latini; non pensiamo di
essere in un luogo brulicante di vita, di avere davanti a noi una miriade di interlocutori sconosciuti a cui non ci siamo mai interessati e di cui non
sappiamo niente. L’atteggiamento più diffuso nei confronti dell’ambiente naturale è proprio quello di Io-Esso, mentre l’invito, qui, è quello di
provare ad atteggiarsi con una predisposizione all’incontro Io-Tu.

• Apertura al dialogo con “creature altre”


Le tradizioni popolari occidentali parlano di fate, gnomi, elfi e folletti come invisibili abitanti degli ambienti naturali, quelle orientali parlano dei
Deva, gli spiriti di natura responsabili di interi ecosistemi, gli antichi Romani avevano coniato il temine di genius loci per descrivere le
caratteristiche energetiche di un singolo luogo, lo “spirito del posto”. È soltanto da poco che abbiamo perso la consapevolezza di avere degli
interlocutori veri e propri a cui rivolgerci quando entriamo in natura. Non è così strano pensare di instaurare un dialogo con un elemento della
natura, con una pietra, un ruscello, un porcospino, un albero o un’intera vallata. Non sappiamo chi è che risponderà davvero, se sarà il frutto della
nostra immaginazione o se davvero sapremo cogliere con l’intuizione qualche cosa che proviene da fuori di noi, ma non è importante. Perché
stabilendo un dialogo con un elemento naturale, pur nel silenzio della propria mente, ci offriremo contemporaneamente la possibilità di conoscere
qualche cosa di più di noi stessi – come se avessimo fatto un test proiettivo o con le macchie di Rorschach – e di sorprenderci a guardare gli
elementi della natura in modo nuovo.

• Apertura al dialogo con l’inconscio


Quando cominciamo a parlare con la natura, quando scopriamo che abbiamo a disposizione questa possibilità, si spalancano le porte a tutta quella
parte sommersa del nostro essere con cui abbiamo la stessa scarsa dimestichezza che abbiamo con l’ambiente naturale. In fondo, così come ci siamo
accorti di sapere molto poco del mondo naturale in cui viviamo, non è che anche di noi stessi sappiamo altrettanto poco? Dove andiamo di notte, nel
sonno, per esempio? Da dove vengono le immagini che popolano i nostri sogni e cosa ci vogliono dire? Non ci sono risposte a queste domande o,
almeno, non ci sono qui risposte. Ma l’importante è tenere aperta la domanda, non dare mai nulla per scontato. La natura diventa anche metafora che
favorisce il contatto e l’esplorazione della nostra interiorità: abissi sottomarini, pianure, foreste, paludi, deserti, caverne e vette immacolate,
possono tutte essere viste come rappresentazioni delle nostre profondità e delle nostre altezze.

• Riconoscimento di altri stati di coscienza


Quando cominciamo a prendere in considerazione che c’è molto di noi e del mondo che non sappiamo, ci apriamo all’esplorazione della realtà con
uno spirito aperto e con i sensi più all’erta. Quando entriamo in natura in silenzio, centrati e presenti, entriamo in uno stato di coscienza di maggior
fluidità, sensibilità. È quello che in ecopsicologia si chiama green mindfulness, in cui all’intenzione di focalizzarsi sull’istante presente, si aggiunge
il forte potere del contatto con la natura che spontaneamente induce a uno stato di coscienza più riflessivo e intuitivo. I confini tra noi e il mondo si
fanno più labili, per rivelare un forte senso di compartecipazione e di familiarità in cui ci scopriamo profondamente sostenuti, accolti, riconosciuti e
abbracciati, ci sentiamo profondamente a casa. E in un certo senso lo siamo, perché abbiamo dimenticato che è la natura la nostra casa.

• Ampliamento dei confini dell’identità


Quando abbiamo la grazia di vivere dei momenti di espansione di consapevolezza come questi – ed è un’esperienza molto più comune di quanto
sembri, che può durare anche solo pochi secondi – guardiamo con occhi diversi la nostra stessa identità. I confini di ciò che siamo abituati a
chiamare il nostro “io” diventano troppo angusti per racchiudere quanto abbiamo sentito di essere e cominciamo a prendere in considerazione una
visione più vasta: “dove finisco io e dove inizia il resto del mondo?”. Anche questa è una domanda il cui valore è proprio nell’invito nel cercare,
più che nel trovare.
L’ecopsicologia lancia una provocazione: la natura è il nostro inconscio. È uno spunto di riflessione, un invito ad allenarsi a una visione di sé
molto più vasta di quella a cui siamo normalmente abituati, una visione sicuramente utile ai fini della mobilitazione delle energie per la salvaguardia
del Pianeta.

• Sviluppo di un senso di riverenza per la vita


È indubbio che chiunque viva momenti di comunione con la natura ne riporta un indelebile senso di gioioso rispetto e di riverenza, una rinnovata
sensibilità alla bellezza di forme, ritmi, processi e interazioni. Un’esperienza che porta sia a voler comunicare la profondità del coinvolgimento
provato, sia a proteggere l’ambiente naturale dalle azioni sconsiderate di chi ha ancora non ha avuto l’opportunità di “sentire” – perché proprio di
sentire si tratta – quanto viva, bella, preziosa e inestricabilmente parte di noi essa sia.

• Ricerca sui valori


Il mondo che ci circonda, quello interno e quello esterno, si sta rivelando più vasto di quanto pensavamo e sentivamo prima di intraprendere il
nostro percorso di crescita. La nostra vita si arricchisce di emozioni e sensazioni, scorgiamo orizzonti prima ignorati. Questo cambia molte cose,
modifica le nostre priorità, aggiorna la nostra scala di valori. Non abbiamo molte occasioni di riflessione attiva sui valori che guidano il nostro
agire nella vita quotidiana, ma possiamo cominciare a chiedercelo e a notare quali sono, adesso, le nostre priorità, se e come sono cambiate.

• Esercizio dell’arte, in tutte le sue forme


La parola è la conquista più recente dell’essere, insieme al pensiero razionale; ma quando vogliamo esprimere emozioni, esperienze, intuizioni e
percezioni profonde occorre un altro linguaggio, in grado di coinvolgere la totalità del nostro apparato percettivo. È questa la funzione dell’arte, che
attraverso colori, forme, le parole stesse, gesti, suoni e musiche, esprime un’esperienza interiore con l’obiettivo, più o meno consapevole, di farla
risuonare anche in altri. L’espressione artistica, o semplicemente creativa, offre a tutti – e proprio a tutti, non solo agli artisti di professione – la
possibilità di esprimere in linguaggi “altri” quanto è stato sentito in stati di coscienza “altri” e rafforza la flessibilità percettiva necessaria per
passare dalla visione del mondo consueta, con i suoi confini conosciuti, a una visione più vasta, in cui è ancora tutto da scoprire.
• Impegno concreto nei confronti della vita
Qualcuno non si accontenterà di scrivere poesie, di cantare, scolpire o danzare le proprie emozioni a stretto contatto con la natura, qualcuno vorrà
fare di più e comincerà a guardarsi attorno per scoprire quale contributo potrà dare a sua volta. Un contributo che nascerà dal sincero desiderio di
fare qualche cosa per gli altri, per l’ambiente, per il Pianeta, per il cortile sporco sotto casa, per il gatto abbandonato alla discarica, per le balene in
estinzione, per il bambino straniero emarginato in classe, per le foreste in agonia, per la plastica da buttare nel bidone giusto, per il consumo di
carne da ridurre e molto altro. Ognuno di noi può fare qualche cosa di concreto per il mondo in cui viviamo, niente è troppo piccolo da non essere
degno di nota e niente è troppo grande da non valere il tentativo. Siamo in tanti, e quando ognuno comincerà a fare davvero qualche cosa…

Per una coscienza planetaria


Il lavoro di crescita personale avviene in ognuno di questi tre livelli: intrapsichico, interpersonale e planetario.
Le diverse scuole di psicologia esistenti si concentrano ognuna su una di queste direzioni in particolare – psicologia del profondo, Gestalt e
psicologia transpersonale, per esempio – ma tutte arrivano poi ad abbracciare e coinvolgere necessariamente anche le altre, perché non può esserci
vera realizzazione umana senza coinvolgere la totalità delle manifestazioni della nostra presenza sulla Terra, senza includere nella nostra visione
dell’essere umano i tre diversi livelli: profondità, quotidianità e trascendenza; inconscio inferiore, medio e superiore, in psicosintesi; mondo di
sotto, mondo di mezzo e mondo di sopra, nella terminologia sciamanica.
Il lavoro di esplorazione e di crescita personale a ognuno di questi tre livelli apre la strada a una crescita anche negli altri due. L’essenza del
percorso di crescita personale è proprio questo processo di creare relazioni e di allargare l’area in cui spaziare a partire dal proprio baricentro
interiore. Più vasta è la consapevolezza della ricchezza e complessità dei mondi che ci circondano, più ampie saranno le possibilità di scelta che ci
si offriranno davanti ogni volta.
La messa in atto degli spunti pratici per la realizzazione di relazioni di qualità qui proposti per questi tre livelli, pur nella loro semplicità, è di
grande efficacia. È l’inizio di un percorso che favorisce lo sviluppo di valori e atteggiamenti fondamentali che permettono all’individuo di interagire
più consapevolmente e, perché no, anche più gioiosamente con la vita e che pongono le basi per una visione più vasta di sé, del mondo e del proprio
posto nel mondo. Lavorando sulla nostra interiorità scopriamo la libertà, lavorando sulla relazione con gli altri diventiamo consapevoli della nostra
responsabilità, acquisendo dimestichezza con i nostri sogni, aspirazioni, valori e con la possibilità di far crescere potenzialità e vocazioni
impariamo a far uso della nostra creatività.

Libertà
Si parla tanto di libertà ma non sempre si comprende che cosa sia esattamente e che cosa implichi. Al centro di tanti dibattiti teologici e dibattiti
politici – per discutere se l’uomo ha o non ha il libero arbitrio o per contrapporsi a chi dall’esterno la impedisce – la libertà approda alla psicologia
in termini molto più concreti, come una qualità interiore che permette di individuare e superare antichi condizionamenti non più funzionali a una vita
soddisfacente; è libertà di pensiero, di espressione e di azione, libertà da pregiudizi, da condizionamenti inutili, da sensi di colpa ingiustificati e
dalla dipendenza.
La libertà di cui si parla in psicologia, non è necessariamente la libertà materiale da qualche cosa – un limite, un handicap, un legame, tutte cose
da cui non sempre è possibile liberarsi – ma è una libertà di atteggiamento attiva e propositiva, è una “libertà di” sempre possibile, in ogni
situazione: di fare o non fare, dire o non dire, agire in un modo o nell’altro. La libertà è facoltà con cui ci appropriamo di quel margine
dell’esistenza che spetta a noi disegnare e dirigere. Certo, non potremo mai avere in mano del tutto le redini della nostra vita, il nostro viaggio
dipenderà anche dal cavallo e dalla carrozza con cui viaggiamo, dallo stato delle strade e dalle condizioni del tempo, dalla presenza di ostacoli o di
alleati sul nostro cammino, ma pur con tutti questi limiti, siamo noi a decidere come e dove guidare la nostra vita. Come rammenta Seneca “Non
esiste vento favorevole, se il marinaio non sa dove andare”.

Responsabilità
Dopo essere diventati consapevoli della nostra fondamentale libertà ci troviamo a dovere riconoscere che gran parte del nostro destino viene
costruito momento per momento da ciascuno di noi, con il nostro modo di pensare e di agire, con l’atteggiamento con cui ci poniamo nei confronti
degli altri e delle diverse situazioni, con il nostro modo di comunicare e di presentarci. È una conquista pesante e difficile. L’angoscia esistenziale di
cui parlano Sartre e gli altri esistenzialisti fa proprio riferimento a questa difficile scoperta, che riduce considerevolmente il margine entro cui è
possibile dare ad altri, o ad altro, la colpa dei nostri insuccessi.
Ma è proprio la presa di coscienza di questa nostra responsabilità che rappresenta un segno di maturità nell’individuo. Mentre prima di un
percorso di crescita tutta l’attenzione può essere ancora focalizzata solo su di sé, la responsabilità allarga il campo di osservazione e include
l’alterità nelle proprie considerazioni e riflessioni; implica la disponibilità a non invadere la libertà altrui e a rispettare con gli altri gli stessi diritti
che si considerano fondamentali per sé. È la qualità dell’essere umano che esce dalla fase adolescenziale dell’umanità e si affaccia all’età matura. È
la qualità dell’essere umano consapevole della sua forza e delle sue potenzialità che decide di usarle nel rispetto della collettività.

Creatività
È la libertà in azione. È la capacità di oltrepassare una visione consueta della realtà e coglierla anche per quello che potrebbe diventare, è la
capacità di intravedere un nuovo modo di agire, che si tratti di un motivo originale con cui decorare una maglietta, di una prelibatezza culinaria
realizzata con pochi resti in frigorifero, dell’idea per un regalo fuori dal comune, di una soluzione inusuale per tenere insieme i pezzi di un
lampadario rotto, di un’organizzazione del proprio lavoro tale da lasciare il tempo anche al proprio hobby preferito, all’elaborazione di una
strategia per far vendere più pesce secco affumicato alla propria azienda o per risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale. È la
capacità di trasformare da potenza in atto progetti, idee, aspirazioni e sogni.
A tutti i livelli, la creatività nasce da un pensiero libero di passeggiare oltre i confini, non limitato da pregiudizi e stereotipi, e quindi aperto a
incontrare, conoscere, dialogare e poi costruire, realizzare, creare, come dice il termine stesso, creare qualche cosa di nuovo dove prima non c’era.
Lo sviluppo e l’applicazione di questi tre valori implicano un’apertura all’inesauribile processo di conoscenza di sé, un’apertura agli altri, al
mondo circostante e un’apertura a una realtà più vasta. La sintesi di queste tre spinte si esprime con il risveglio del senso non solo di rispetto, ma
anche di compartecipazione con il mondo circostante e quindi con il desiderio di mettere forza e potenzialità, libertà e creatività, al “servizio della
vita”, usando un’espressione cara ad Albert Schweitzer, teologo, musicista di fama mondiale, medico nella foresta africana, premio Nobel per la
pace. O al servizio della collettività, del pianeta Terra, in uno dei molteplici campi in cui c’è più bisogno di aiuto, di collaborazione e in cui proprio
le potenzialità di ognuno di noi possono essere più utili.
A nessuno viene chiesto di essere qualche cosa di diverso da ciò che è, per accondiscendere la volontà di un organismo superiore; a tutti viene,
invece, chiesto di essere proprio ciò che si è, meglio ancora, di essere ciò che si può diventare, per trovare il proprio unico e insostituibile
contributo alla vita, che poi è il nostro pianeta, che poi siamo noi, ancora una volta. Questa è coscienza planetaria, consapevolezza del mondo,
consapevolezza di essere parte del pianeta Terra, consapevolezza in azione.
145 Martin Buber, Il principio dialogico, Comunità, Milano, 1962, p. 58.
146 Per favorire il processo di autoconoscenza e il fluire del dialogo interiore, nell’ambito della formazione in ecopsicologia, viene proposta la metafora del “pianeta Io”, come rappresentazione della
complessità e vastità del proprio mondo interiore. Si crea così una mappa grazie alla quale è possibile entrare in dialogo con i diversi aspetti del paesaggio del pianeta Io o con i singoli abitanti,
rafforzando la presenza, l’autorevolezza e il potere della volontà, del baricentro interiore. Il modello prende il nome di EcoCentering ed è alla base delle pratiche di ecopsicologia applicata in ambito
relazione d’aiuto, terapia, educazione, e coaching.
Capitolo 8

IL RUOLO DELL’ECOPSICOLOGIA

“Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode.”
Papa Francesco, Laudato si’

La psicologia si sveglia
La nostra società soffre della perdita di connessione con le proprie radici, con la propria natura più profonda. Il senso di appartenenza alla vita è
ancestrale nell’essere umano147 e la mancanza di un legame sensoriale ed emotivo con la Terra, con il mondo naturale, è oggi causa di una crisi
psicologica, spirituale ed ecologica.
Attualmente, come civiltà cosiddetta moderna, ci stiamo comportando con la stessa insensibilità di un folle che prende il proprio piede a
martellate. Viene da chiedersi: “Non sente dolore?”. Certo che sente dolore, ma non ha ancora capito che il piede è parte di sé e che quella
sensazione proviene proprio dal suo corpo ed è una conseguenza del suo operato.
Anche noi “sentiamo dolore”, in questo momento di storia dell’umanità. Forse non proprio tutti noi come singoli individui, ma attorno a noi il
malessere cresce e non possiamo non accorgercene. Le richieste di aiuto che arrivano agli psicoterapeuti stanno cambiando e stanno aumentando,
sono sempre più esistenziali, filosofiche, spirituali. La gente sta sempre più male e capisce sempre meno il perché.
Sarah Conn, psicologa clinica di Cambridge, nota ecopsicologa, al convegno “Psicologia come se tutta la Terra fosse importante”, tenutosi
all’Università di Harvard nel 1990, conclude il suo intervento affermando: “Il mondo è malato, ha bisogno di cure, sta parlando attraverso di noi, e
parla più forte attraverso i più sensibili tra noi”. Nella stessa occasione Walter Christie, capo del dipartimento di psichiatria del Maine Medical
Center, sempre negli Stati Uniti, aggiunge: “L’illusione della separatività che creiamo per poter articolare le parole ‘io sono’ è una parte del nostro
problema nel mondo moderno. Siamo sempre stati parte dei grandi sistemi del globo più di quanto il nostro ego timoroso può tollerare di conoscere.
Preservare la natura è preservare la matrice attraverso la quale possiamo sperimentare la nostra anima e l’anima del pianeta Terra”.148
“Il benessere personale, il benessere della Terra e una comprensione della personalità umana ben radicata nelle sue origini terrestri, sono
correlate. È importante che tutte le persone che operano nella cura, insegnamento, professioni di aiuto, comprendano le profonde implicazioni tra
salute e malattia personale con l’integrità o la distruzione della biosfera nel suo insieme”,149 scrive Howard Clinebell, psicoterapeuta pastorale ed
ecopsicologo americano. L’invito è chiaro; dopo aver girato tra psicologi e psicoterapeuti di Stati Uniti e Inghilterra, dal 2000 in poi ha cominciato a
diffondersi anche al di fuori dai paesi di cultura anglosassone. L’invito è molto esplicito e risponde alla necessità di svegliare la psicologia: “Non
possiamo concentrarci solo su benessere e salute personale ignorando la causa sociale di molte delle malattie del mondo moderno”.
L’ecopsicologia nasce in ambito psicologico a partire da una riflessione ben precisa: se il nostro io si espande al punto tale da includere il mondo
naturale, un comportamento che tende alla distruzione di questo mondo non potrà che essere percepito come autodistruttivo; se capisco che il piede è
parte di me, non lo prendo più a martellate.
Sentire la connessione con la natura può far crescere la motivazione a prendersi cura di lei con più attenzione; e, del resto, occuparsi della natura
mette in condizioni di sentire una più forte connessione anche con i diversi livelli delle dimensioni interiori, quello profondo e quello alto. Il
risultato è quindi duplice e rende questo lavoro utile, a tutti gli effetti, in campo psicologico, sia dal un punto di vista terapeutico che educativo: “se
arriva in tempo di chiama educazione, se arriva in ritardo si chiama terapia”.150
L’ecopsicologia promuove, così, la crescita personale come strumento concreto di salvaguardia dell’ambiente. La ricerca dell’identità, ai suoi
livelli più profondi, arriva a esplorare le origini terrestri; l’esercizio dell’ascolto prende in considerazione le risonanze più sottili col mondo
naturale; la spinta a sviluppare la qualità delle relazioni insegna a instaurare un dialogo anche col mondo circostante; la pratica dell’empatia facilita
la riconnessione con la Terra; il superamento di una limitata visione della realtà apre a una percezione nuova dell’ambiente naturale, prima sentito
come anonimo e inanimato; la focalizzazione della consapevolezza sul centro, sul baricentro interiore, sulla presenza al “qui e ora”, porta con sé
immense potenzialità individuali. A sua volta, la maturazione che avviene attraverso il processo di crescita personale, risveglia una maggior
attenzione e responsabilità nei confronti della collettività.
Ecco una sintesi proposta da Philip Sutton Chard, ecopsicologo del Minnesota, autore di un manuale pratico di ecopsicologia applicata alla
psicoterapia,151 in cui descrive il processo in atto nel rapporto uomo natura e l’inversione di rotta necessaria per superare la crisi attuale.

ALIENAZIONE ANTIDOTO

non sono io sono io

osservazione dall’esterno coinvolgimento

etichettatura esperienza

bisogno di controllo rispetto e gratitudine

Io-Esso Io-Tu

Quando sapremo davvero chi siamo, quando ci renderemo conto dei legami che davvero ci legano al pianeta sul quale viviamo, quando capiremo
che “noi siamo la Terra”, allora avremo la carica giusta per correre a riparare quanto è stato fatto e per intavolare nuove strategie di gestione della
società e di interazione con l’ambiente. Questa è la motivazione alla base dell’ecopsicologia, questa è la spinta che sta portando lo stesso discorso
anche al di fuori di un ambito strettamente terapeutico, per diventare spunto di riflessione, materia di insegnamento, ispirazione per esercitazioni e
attività pratiche anche in ambito educativo, formativo e culturale, coinvolgendo professionisti e terrestri consapevoli di tutte le età.

Ecologia affettiva
Lo studio delle relazioni insieme affettive e cognitive che gli esseri umani instaurano con il mondo, vivente e non vivente, sta diventando un campo
di studio e d’azione sempre più importante. Creando il primo Laboratorio di Ecologia affettiva all’Università della Valle d’Aosta, nel 2012, il
biologo ed ecologo Giuseppe Barbiero accetta la sfida di tradurre in pratica l’affermazione di Stephen Jay Gould, paleontologo dell’Università di
Harvard: “Non è possibile vincere la battaglia per salvare le specie viventi e l’ambiente senza stabilire un forte legame emotivo con la natura,
perché non lotteremo per salvare ciò che non amiamo”.
L’ecologia affettiva si pone un obiettivo preciso: risvegliare la biofilia, “l’innata tendenza a concentrare l’attenzione sulle forme di vita e su tutto
ciò che le ricorda”, seguendo la direzione indicata dal sociobiologo Edward Wilson che, a sua volta, ha colto lo spunto dato da Erich Fromm,
psicologo e sociologo, che ha utilizzato per primo il termine biofilia, per indicare un orientamento all’amore per la vita.
Ecologia affettiva e ecopsicologia viaggiano su binari paralleli, con innumerevoli punti di incontro e di collaborazione. La prima si è concentrata
sul compito delicatissimo di creare percorsi e occasioni per favorire il dischiudersi delle anime dei bambini, piccole creature, oggi, forgiatori del
mondo, domani. Con i progetti attivi all’Università della Valle d’Aosta, Barbiero ha contribuito a formare una nuova generazione di maestre, che
sono quelle che lavoreranno per il XXII secolo, a progettare e costruire i luoghi in cui i bambini possano costruire i loro legami affettivi con la
natura. “Se vogliamo andare alla radice dei problemi ambientali che minacciano il pianeta, dobbiamo intervenire sulle nuove generazioni al
momento giusto, quando i bambini sono disponibili a conoscere il mondo nel loro modo vivido”.152

Ecopsicologia come professione


L’ecopsicologia è – usando una definizione cara a Roszak – un cappello che unisce, da una parte, psicologi e terapisti attenti al malessere
individuale in crescita nei contesti urbani, dall’altra, operatori sul versante ambientale, che notano quanto l’attività che conducono all’aperto abbia
un impatto forte anche sul piano psicologico. Problema e soluzione si incontrano e collaborano.
La mission è la stessa: sanare la disconnessione che è avvenuta tra essere umano e natura, al fine di restaurare equilibri armonici sul piano
personale, sociale e ambientale. L’ecopsicologia prende il testimone dalla psicologia ambientale, che ha ampiamente dimostrato la connessione tra
qualità dell’ambiente e qualità di vita personale, per creare attività pratiche da applicare nei diversi contesti. L’obiettivo è quello di far ritrovare un
proprio benessere grazie alla natura e, allo stesso tempo, risvegliare una coscienza ambientale proprio a partire da un lavoro di crescita personale
per ritrovare le proprie radici.
Progettare, organizzare e condurre questo tipo di attività è stato chiamato Ecotuning, letteralmente, “ecosintonizzazione”. Il termine è nato nel
2006, all’interno della International Ecopsychology Society-IES, per definire l’attività di professionisti qualificati nell’ecopsicologia applicata, che
possono anche non essere necessariamente psicologi.
L’ecotuner è un facilitatore della riconnessione con la natura. Accompagna a riacquisire fiducia e dimestichezza con quello che è stato, per decine
e decine di migliaia di anni, il nostro ambiente di vita, con attività che coinvolgono allo stesso tempo il piano esterno e quello interno. Un ecotuner si
pone, prima di tutto, come allenatore di relazioni di qualità, di “relazioni ecologiche” con se stessi, con le altre persone e con l’ambiente.
Questo apre nuove opportunità di specializzazione in diversi ambiti professionali. Guide escursionistiche, educatori ambientali, operatori
turistici, possono ancora meglio valorizzare il proprio operato presentandolo in una cornice più ampia e sottolineandone l’efficacia profonda anche
sul piano del benessere fisico, emotivo e mentale. Formatori, educatori, operatori del benessere e della relazione di aiuto, possono svolgere con
maggiore efficacia ed entusiasmo la propria attività lavorativa includendo la natura nella propria offerta professionale: direttamente, con setting
all’aperto, e indirettamente, come metafora.
Le attività e le pratiche dell’ecopsicologia, quando diventano attività dichiaratamente terapeutica e si propongono obiettivi di azione psicologica
profonda e di guarigione, prendono il nome di ecoterapia, o ecopsicoterapia. Possono essere condotte, naturalmente, solo da professionisti già
abilitati in questo campo, psicologi e psicoterapeuti che, quando opportunamente formati anche in ecopsicologia, possono scegliere di definirsi
ecopsicologi. In questo ambito più strettamente terapeutico si sta aprendo un altro filone di lavoro prima poco considerato in ambito psicologico:
quello del lutto da disastro ecologico e dell’apprensione, fino anche all’ansia, per i cambiamenti climatici in arrivo. In Italia è una consapevolezza
recente quella dell’esistenza di questo tipo di disagio, che rientra nel campo di studio della climate psychology, a sua volta parte della psicologia
ambientale. Si apre un nuovo grande spazio d’azione per l’ecopsicologia, che contribuisce sia alla prevenzione, sia alla gestione/trasformazione
della sintomatologia ansiogena, facendosi promotrice di un paradigma diverso, in cui l’essere umano non è contrapposto alla natura ma ne è parte
integrante. Accompagnando gli interlocutori a riconnettersi con le proprie risorse interiori e a innalzare l’autostima, si ottiene l’effetto di direzionare
le emozioni generate dagli eventi esterni, temuti o subiti, in azioni concrete nella propria quotidianità. La combinazione di rafforzamento del senso di
appartenenza alla Terra e di riconoscimento del proprio potere personale, diventa molto efficace nel trasformare la sintomatologia ansiogena, ancor
più quando il percorso viene svolto in gruppo. In alcuni paesi europei, come in Finlandia e in Svezia, vengono organizzati i Climate Café, per offrire
opportunità di sfogo, dialogo e scambio, su questi temi, con la facilitazione di figure professionale opportunamente preparata sul tema.
Ci sono anche professionalità specifiche che possono trarre grande giovamento da una integrazione delle proprie pratiche di base con quelle
dell’ecopsicologia. Sono tutte quelle professioni legate a crescita personale, valorizzazione dei talenti, raggiungimento di obiettivi, espressione
della propria unicità, senso più alto alla vita: psicologia del benessere, counseling e coaching. Nel 2016 è nato in Italia un filone di green coaching,
in cui l’ecopsicologia è la base dell’approccio e della pratica, con una formazione professionale riconosciuta dalla britannica Association for
Coaching.
Tutte queste professioni possono essere arricchite dall’incontro con l’ecopsicologia in tanti modi: sviluppando e promuovendo un occhio attento
alle implicazioni sistemiche, ambientali, del proprio operato; con l’invito a trarre sostegno e ispirazione, nella propria quotidianità, dal contatto
diretto con la natura; con un setting direttamente all’aperto; con una accompagnamento verso una percezione di sé più ampia e una maggior
consapevolezza dell’interconnessione con l’ambiente circostante; con un’attivazione di competenze e di azioni concrete nella pratica quotidiana.
La sensibilità di ogni singolo professionista si esprime con pratiche, spunti di riflessione ed esercizi personalizzati, alla persona e al contesto. Le
professioni legate all’ecopsicologia, in tutti questi diversi ambiti, sono caratterizzate non solo da sapere e saper fare, ma soprattutto da saper essere
e saper divenire. I presupposti necessari sono gli stessi richiesti per essere un buon operatore nella relazione di aiuto, a qualsiasi livello: buona
consapevolezza di sé a livello fisico, emotivo e mentale; autostima ed equilibrio; fiducia nelle potenzialità di crescita dell’individuo; solida etica
personale.
Per potersi avvicinare all’ecopsicologia e operare con efficacia, diventano fondamentali anche: amore e sensibilità nei confronti dell’ambiente
naturale e degli animali; rispetto e accettazione delle diversità con cui si esprime l’umanità; senso di giustizia sociale e impegno contro il
pregiudizio su tutti i fronti; apertura nei confronti della propria e altrui spiritualità, indipendentemente dai simboli o credi con cui si esprime.
Per diventare un buon professionista nell’ambito dell’ecopsicologia applicata, ci si mette in gioco completamente. Esperienze e competenze
pregresse, passioni e talenti da ottimizzare, entrano appieno in questa nuova figura dell’ecotuner, facilitatore della relazione con la natura. Attività ed
esercitazioni anche molto semplici diventano incredibilmente efficaci quando sostenute da un atteggiamento di entusiasmo, comunicatività e
intenzione mirata. Il segreto risiede nella capacità di creare, come un diapason, un campo di risonanza attorno a sé, per cui gli interlocutori si
sintonizzano con lo stesso atteggiamento aperto alla meraviglia e all’esperienza messo in campo dall’ecotuner, in prima persona.

Ecopsicologia nella crescita personale


Come, in pratica, l’operatore nel campo delle relazioni di aiuto – sempre rimanendo ognuno negli ambiti della sua specifica professione – può
introdurre l’elemento “eco” nel suo consueto modus operandi? Pur essendo innumerevoli i possibili modi e in un continuo processo di creazione,
adattamento e sperimentazione, è possibile delineare alcune prassi di riferimento che possono a loro volta servire da spunto o da base per ogni
singolo professionista.
Natura come metafora
Il mondo interiore può venire descritto in termini di paesaggi, habitat, immagini tratte dai diversi ambienti naturali, che diventano così metafore del
proprio sentire e sentirsi.
Le applicazioni di questa idea sono molteplici, dall’usare foto di natura come esercizi di rispecchiamento, al semplice stimolare l’associazione
con un elemento della natura ogni volta che si vuole indurre l’interlocutore a parlare di stati interiori.
Come quando si chiede di raccontare un sogno, narrare una storia, o si invita a definire una situazione interiore in termini di immagini,
l’introspezione diventa più facile perché, così facendo, si attiva quella parte del cervello che usa un linguaggio analogico. L’esplorazione, allora,
attinge più in profondità, superando le barriere poste dalla censura consueta e rivelando, con linguaggio simbolico, più di quanto non avrebbe
permesso il consueto linguaggio logico-razionale. Un altro beneficio non indifferente nell’uso di immagini e simboli per parlare e far parlare di sé è
che si favorisce così un processo di disidentificazione. Se parlo di un fiume, una nuvola o un animale in cui mi riconosco, posso raccontarmi con un
maggior distacco, vedendomi dall’esterno, e quindi posso avere una visione più completa e variegata della mia esperienza di quanto avrei se stessi
parlando direttamente di me.

Ecologia dell’ambiente interno


L’ormai acquisita consapevolezza dell’interconnessione e reciproca interazione tra i diversi elementi dell’ambiente naturale, materia di studio
dell’ecologia, può essere di aiuto nel cogliere le molteplici interazioni che avvengono nel nostro mondo interiore tra le diverse funzioni psichiche in
gioco. Sensazioni, emozioni, pensieri, immagini e comportamenti si influenzano reciprocamente concretizzandosi in atteggiamenti, azioni e scelte.
Apprendere i meccanismi attraverso i quali avviene il processo – per esempio come un’immagine può generare uno stato d’animo, che a sua volta
si traduce in una qualità di pensieri che spinge a una determinata azione – permette di assumere un ruolo più attivo nel disegnare la propria
esistenza.153

Appartenenza e valori
“A cosa senti di appartenere” è una domanda fondamentale in un percorso di crescita personale volto a conoscere se stessi e ad ampliare i presunti
limiti del proprio essere. L’importante non è tanto ricevere una risposta, quanto stimolare la domanda, spingendo la persona a riflettere su uno dei
tanti aspetti della vita su cui non ci vengono mai offerte abbastanza opportunità per mettere a fuoco come la pensiamo davvero.
Lo stesso discorso vale per i valori. È molto utile inserire nell’ambito del percorso educativo o terapeutico dei momenti di esplorazione e
riflessione sulla propria scala di valori. Parlando di questo, il professionista può anche proporre riflessioni sul mondo naturale, facendo esplorare il
sentire nei confronti del mondo animale, vegetale, minerale. Uno spunto, questo, con immense possibilità di personalizzazione.

Spunti di ricerca e riflessione


Nell’ottica di ampliare i confini e di risvegliare attenzione e sensibilità a modi altri di essere e di vivere, può essere a volte utile inserire tra i
compiti da dare al cliente una ricerca tipo quelle che si facevano a scuola, oggi molto facilitate dall’esistenza di Internet. Una ricerca sull’animale
preferito o, al contrario, sull’animale più detestato, per esempio. Per arricchirsi, indirettamente, delle virtù di un animale sentito affine, nel primo
caso, o per prendere contatto più reale con qualche cosa che spesso viene temuto o aborrito senza ragioni profonde, ma solo per mancanza di
conoscenza, come di fatto avviene per molte cose, persone o esperienze.

Ambiente naturale come setting


Quando la situazione consente un utilizzo diretto, anche sporadico, dell’ambiente naturale da parte del facilitatore della relazione con la natura, la
gamma di possibilità si amplia notevolmente. Un utilizzo diretto può voler dire fare una seduta fisicamente in un parco, prato, giardino o comunque
al di fuori del ristretto spazio racchiuso tra quattro mura. E questo può apportare una maggiore facilità di apertura a chi si sente già predisposto a un
incontro con l’ambiente naturale e può rappresentare una stimolante provocazione per chi invece è ancora molto rinchiuso in se stesso e si deve
confrontarsi con un setting non più raccolto e protetto come quello usuale.
Va comunque tenuto presente che nel contatto con l’ambiente vengono riattivate le energie vitali, lo sguardo diventa libero di spaziare e può
attingere a orizzonti più ampi anche interiormente, l’elettricità statica si scarica e molto del nervosismo di base connaturato alla permanenza in spazi
chiusi può dissolversi, respirare a pieni polmoni ricarica fisicamente e tutto predispone a un contatto più autentico con la realtà, esterna e interna.

Natura come “casa”


Un utilizzo diretto dell’ambiente naturale può anche voler dire dare dei compiti ai propri clienti, invitandoli ad andare nel proprio tempo libero in un
ambiente naturale di caratteristiche concordate insieme – più o meno selvatico, a seconda dei casi – con un obiettivo preciso. Uno di questi, può
essere l’invito a cercarsi un luogo in natura in cui ci si senta a proprio agio e in quell’ambito a cercare uno specifico posto in cui ci si senta proprio
bene, sicuri, protetti, a casa. Un tipo di esercizio che permette di consolidare il senso di appartenenza e di radicamento e pone le basi per una
pratica, che potrà poi essere ampiamente usata anche autonomamente dal cliente quando avrà bisogno di centratura e ricarica.

Natura incontaminata e dimensione istintuale


Spunto di riflessione da utilizzare sia in studio che con eventuali esercizi da svolgere sul campo, è quello del parallelismo tra natura incontaminata,
selvaggia e incontrollata e gli aspetti corrispondenti della nostra psiche. Donne che corrono con i lupi, di Clarissa Pinkola Estés, è un classico che
ha risvegliato l’attenzione del grande pubblico sulle analogie esistenti tra questi due aspetti, uno nella natura esterna e l’altro in quella interna, in cui
è evidente quanto siano correlate la repressione attuata nei confronti della natura più istintuale della donna e quella nei confronti dell’ambiente
naturale allo stato selvatico. Maschi selvatici, di Claudio Risé, ha riproposto la stessa riflessione al maschile, giacché neppure il sesso forte è
immune dalla repressione dell’aspetto più vitale della propria natura. Esistono parallelismi tra come ci atteggiamo nei confronti del nostro universo
istintuale e l’atteggiamento che abbiamo nei confronti di ambienti meno coltivati e potati regolarmente? Quando cominciamo a fare amicizia con
questi ambienti naturali, possiamo scoprire che anche irruenza, energia, imprevedibilità e travolgimento, occupano un posto dignitoso nella vita. C’è
un grande lavoro che può essere fatto su questo punto.

Natura incontaminata e dimensione spirituale


Curiosamente, ma non è una sorpresa per chi opera con le linee guida dell’ecopsicologia, la natura incontaminata fa risuonare in noi tanto la parte
istintuale, il colore rosso nell’arcobaleno delle frequenze della nostra esperienza – il primo chakra, nella tradizione indiana – quanto la parte
spirituale, il viola – il settimo chakra – il senso di compartecipazione con il tutto. La natura ha un forte potere evocativo.
Vasti spazi, profondi silenzi, cime maestose, inducono in noi uno stato di coscienza aperto al trascendente, ma anche il mare in burrasca,
l’eruzione di un vulcano, il turbinare di una cascata, possono risvegliare in noi forti emozioni, esperienze catartiche, e allargare, a volte anche solo
per pochi magici istanti, il limite della nostra identità facendoci sentire di essere anche noi mare, vulcano, cascata e universo intero.

Altri “compiti a casa”


Il fatto di poter dare dei compiti da realizzare nel tempo libero ai nostri interlocutori permette di praticare l’ecopsicologia anche senza avere
necessariamente uno studio immerso nel verde. Quello che è richiesto, piuttosto, è di aver provato, senza eccezioni, in prima persona tutti gli esercizi
e i compiti che si affidano di volta in volta. Questi sono solo degli esempi di compiti a casa e la lista potrà allungarsi con le idee personali di ogni
ecotuner. Ogni compito va inserito in un contesto ben preciso, nell’ambito del percorso educativo o terapeutico.

• Inserire nel programma quotidiano almeno 30 minuti nell’ambiente naturale; basta un’aiuola in un parco
• stare in silenzio nella natura e ascoltare
• sdraiarsi sull’erba e notare la sensazione di contatto del corpo con il terreno
• creare insieme un rituale da realizzare in natura per sancire un inizio, un momento di transizione, la fine di un ciclo, ecc.
• mettere a fuoco un obiettivo da realizzare in ambiente naturale e raggiungerlo
• dialogare con un elemento del paesaggio
• abbracciare un albero
• camminare a piedi nudi sull’erba
• cercare un contatto più diretto con ognuno dei quattro elementi
• raccogliere materiali naturali, sentiti come particolarmente significativi, da portare in seduta o nel gruppo
• creare in casa un angolo dedicato alla natura, con foto, pietre, piante e altro
• prendersi cura di un giardino, di un orto o anche semplicemente di piante in casa
• occuparsi di un animale
• impegnarsi in qualche causa legata a problemi ambientali o sociali del quartiere in cui si vive.

Tutte queste pratiche hanno in comune la spinta verso un ampliamento dell’idea che si ha di se stessi, una pratica dell’ascolto e dell’empatia, una
presa di coscienza della propria libertà e creatività, un esercizio della volontà e, soprattutto, una ridefinizione del contesto del problema personale
affacciandosi a visioni più ampie che portano a poter abbracciare con il proprio sentire anche il mondo naturale.
Il lavoro dell’ecotuner, ecopsicologo, ecocounselor o green coach può essere svolto su due fronti, personale e collettivo, lavorando con i singoli
individui e/o con i gruppi. Alcuni professionisti si sentono più portati a lavorare nell’intimità della relazione a due, altri preferiscono giocarsi nel
gruppo e utilizzare le potenzialità di questa modalità di lavoro.
Lavorando sul piano individuale si ha più tempo di approfondire le specifiche dinamiche e di entrare in dettaglio sul vissuto personale di ognuno,
lavorando in gruppo tutti possono arricchirsi dell’esperienza condivisa e scoprire che pur nell’unicità individuale, in quanto a forze e debolezze
specifiche, siamo tutti molto più simili gli uni agli altri di quanto potremmo altrimenti immaginare.
Il lavoro su uno dei due piani non è più importante dell’altro. Il lavoro individuale porterà consapevolezze che si rifletteranno necessariamente
anche sul collettivo; il lavoro svolto in gruppo, invece, avrà effetti positivi anche su ogni singolo individuo. Sia pazienti che terapeuti, sia clienti che
operatori, devono quindi essere consapevoli delle diverse caratteristiche di questi due piani di lavoro e devono scegliere quello più adatto a sé in
ogni diverso momento del loro percorso personale e professionale.

Ecopsicologia nell’educazione
Professionalmente parlando, l’ecopsicologia trova applicazione anche in tanti ambiti diversi da quelli più direttamente legati all’ambito psicologico
e terapeutico. Il suo secondo filone principale di applicazione è proprio quello in ambito educativo, inteso in senso ampio, includendo quello
scolastico, l’aggiornamento degli insegnanti, la formazione in azienda, l’educazione ambientale, l’animazione in parchi e riserve naturali o in località
di vacanza, la preparazione professionale di direttori e operatori di comunità – come comunità alloggio, asili per anziani, centri accoglienza,
ospedali, orfanotrofi e case circondariali – la sensibilizzazione di uomini politici, il sostegno degli attivisti nei movimenti ambientalisti che hanno
bisogno di rivitalizzare il loro operato e scoprire nuove strategie d’azione per toccare anche il cuore della gente.
Partendo dall’ambito più classico, dell’educazione dei bambini e della scuola, c’è veramente tanto che può e deve essere fatto. Gli studi della
psicologia ambientale hanno dimostrato che meno natura hanno i bambini a disposizione e maggiori probabilità ci sono che sviluppino disagi di tipo
sociale, fisico e psicologico: difficoltà a relazionarsi, obesità, difficoltà di concentrazione, stress, ansia, paure immotivate, depressione. Questo
complesso dei sintomi è stato definito dall’educatore statunitense Richard Louv “sindrome da deficit di natura”, un termine ormai adottato in molti
ambiti per definire i rischi di una educazione avulsa dal contesto naturale.154
Al Terzo Congresso Mondiale di Educazione Ambientale (WEEC) tenutosi a Torino nel 2005, insegnanti ed educatori ambientali di tutto il mondo
hanno lamentato che, attualmente, l’educazione ambientale è vissuta come qualcosa di episodico, una semplice materia tra le altre, mentre proprio
per la sua natura multidisciplinare può e deve diventare il punto di partenza per una vera e propria educazione alle relazioni. Fritjof Capra in
persona, ospite d’eccezione al congresso, ha parlato di questi possibili sviluppi dell’educazione ambientale, a partire dall’esperienza di alcune
scuole negli Stati Uniti. “L’ecologia” ha ribadito “è la scienza delle relazioni. Gli ecosistemi sono comunità che vivono insieme e interagiscono. Per
comprendere le relazioni e le interrelazioni bisogna conoscere la biologia, la chimica organica e inorganica, la termodinamica. È impossibile
integrare tante discipline in una scuola in cui gli insegnanti non si parlano tra loro. Prima di tutto, per insegnare la scienza delle relazioni, occorre
che ci siano relazioni tra insegnanti, coi ragazzi, con le famiglie. Si tratta di creare a scuola comunità di relazioni con feedback, cooperazione,
network, tutti concetti dell’ecologia che possono essere applicati alle comunità”. Il vero obiettivo dell’educazione ambientale deve diventare quello
di creare le basi per una società sostenibile. E, in questi ultimi vent’anni, iniziative in questo senso, stanno cominciando a diffondersi.

Scuola
Nell’invitare ad affrontare l’insegnamento della natura non solo dal punto di vista cognitivo ma anche affettivo, estetico e sensoriale, diventa
necessario un rinnovamento dell’intero sistema scolastico, dei programmi, dell’organizzazione delle attività didattiche, degli edifici stessi in cui
avviene l’apprendimento.
Prima ancora di preoccuparsi di stimolare nei bambini l’interesse, il rispetto e l’amore per la natura, vale la pena cercare di mantenere viva
l’innata biofilia, quella spinta connaturata verso il mondo naturale, verso gli animali, le piante, gli stagni, i formicai, gli arcobaleni, i ruscelli, le
genghe argillose e quindi chiedersi come portare nelle scuole un’educazione viva che preveda esperienza, contatto diretto, entusiasmo.
La collocazione spesso urbana delle scuole ha bisogno di programmi di educazione ambientale che si svolgano direttamente in parchi e riserve
naturali, condotti da operatori aperti a modalità esperienziali di gestione dell’educazione ambientale. Prima ancora di uscire nei boschi e in
campagna, la scuola può dare un forte contributo esperienziale alla coscienza ambientale del bambino attraverso una delle attività più antiche e meno
normalmente associate alla scuola: la realizzazione di un orto.
Oggi si parla di “ecoalfabetizzazione” per descrivere il complesso processo necessario per acquisire quell’insieme di sensibilità, attenzione,
interesse, amore, conoscenza e competenza che è necessario per avvicinarsi davvero all’ambiente, e una delle attività più complete che può fornire
anche nella scuola questo insieme di abilità è proprio la pratica dell’orticoltura, a scuola. Fritjof Capra è fondatore, insieme a Zenobia Barlow, del
Center for Ecoliteracy di Berkeley, e conduce dal 1995 programmi in tutti gli Stati Uniti che introducono la cura dell’orto nel programma scolastico
delle scuole elementari. I risultati sono sorprendenti. I bambini che progettano e coltivano l’orto, naturalmente con l’aiuto degli insegnanti,
sviluppano un senso di appartenenza e responsabilità nei confronti del loro pezzetto di terra e mangiano a scuola con piacere le loro insalate e
verdure oltre ogni aspettativa e aumentano il livello di collaborazione all’interno della comunità stessa, che si fa carico della protezione dell’orto e
della sua cura durante i periodi di vacanza. Coltivare l’orto diventa una attività didattica completa, offre l’opportunità di imparare a conoscere i
cicli alimentari, i cicli di semina, coltivazione, raccolta, compostaggio e riciclaggio, i cicli ambientali più ampi in cui il sistema orto è inserito,
quello dell’acqua e delle stagioni. “Attraverso la creazione dell’orto ci rendiamo conto di come noi stessi siamo parte della rete della vita”155 e nel
corso del tempo l’esperienza dell’ecologia nella natura ci dà un senso di appartenenza a un luogo.
Diventiamo consapevoli di quanto siamo incorporati in un ecosistema, in un paesaggio con una determinata flora e fauna, in un determinato
sistema sociale e in una determinata cultura, commenta Fritjof Capra, sottolineando come la sopravvivenza dell’umanità dipenderà dalla capacità di
comprendere i principi ecologici e di vivere in base a essi.
E anche quando la possibilità di fare l’orto non fosse possibile, si può valorizzare la creatività e l’iniziativa dell’insegnante per permettergli di
inventare attività di condivisione di esperienze, coinvolgimento in aula di qualche animale da compagnia, valorizzazione di esperienze più vicine
alla natura di parenti più anziani degli studenti o di allievi di origine straniera, che magari vengono da società in cui il rapporto con la Terra e la
natura è più vivo che da noi, interazione con altre materie di studio o di altri insegnanti, nel caso di scuole medie e superiori. L’importante, nel
progettare queste e altre attività, è ricordarsi di coinvolgere gli allievi anche emotivamente e cinesteticamente – cioè attraverso il movimento e tutti e
cinque i sensi – utilizzando giochi, attività teatrale, filmati, racconti e tutto quanto può contribuire a mantenere viva e stimolare la spontanea
disponibilità alla meraviglia dei più giovani. In Italia, il grande tema degli orti didattici è portato avanti dall’Associazione Pia Pera Orti di pace,156
seguendo la traccia segnata da Pia Pera, scrittrice, che dopo la pubblicazione del suo L’orto di un perdigiorno, nel 2003, ha fondato il movimento
Orti di pace e ispirato innumerevoli progetti di orti nelle scuole.

Parchi e riserve naturali


L’ambiente ottimale in cui praticare educazione ambientale è là dove la natura si manifesta più liberamente, senza troppe sovrastrutture e
antropizzazioni, là dove il bambino o ragazzo potrà sperimentare emozioni e sensazioni che la sua vita consueta – sempre più focalizzata tra quattro
mura, sullo schermo della tv o del computer – non gli offre abitualmente.
Ci sono famiglie che trascorrono il tempo libero in campagna, in montagna, fanno escursioni a piedi e in bicicletta in cui non mancano le
occasioni di avvicinare di persona una mucca, una capra o di scoprire che la generica categoria degli uccelli è composta da miriadi di singole
specie ognuna con colori, forme, voci e abitudini diverse. Ci sono ragazzi che frequentano gli scout, parrocchie o movimenti giovanili che prevedono
un più o meno intenso contatto con la natura. Ma ci sono anche bambini e ragazzi che se la scuola, il Comune o la Regione, non organizzano attività
di educazione ambientale, potrebbero ancora aspettare molto per sperimentare un contatto più intimo e personalizzato con l’ambiente naturale. Per
questo, sorgono e crescono i programmi di educazione ambientale nei parchi e nelle riserve naturali e anche in cooperative sociali dedicate a questi
temi.
L’ostacolo più grande al successo di tali programmi è l’ancor diffuso pregiudizio che educazione ambientale sia far conoscere il fiorellino o
l’animaletto, sciorinando nomi scientifici o complicati ragionamenti su catene alimentari, ecosistemi, biosfera, che poco riescono a coinvolgere un
bimbo o un ragazzino. La parola “educazione” è ancora vittima di quello stesso malinteso che prevale nella scuola, quello di prendere in
considerazione soltanto la sfera cognitiva. La nuova scienza dell’educazione ha già dimostrato che per favorire l’apprendimento è necessario
coinvolgere la persona nella sua totalità: “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se opero comprendo”, diceva Piaget già un secolo fa, e questo vuol
dire trasformare radicalmente il proprio modo di concepire e di organizzare l’apprendimento.
Il campo dell’ecopsicologia applicata all’educazione è proprio quello di insegnare in modo maieutico, creativo, interattivo, esperienziale,
coinvolgente, entusiasmante, almeno per quanto riguarda l’educazione ambientale, laddove non vigono rigidi programmi scolastici, e il gioco e la
risata possono essere la principale via di accesso all’apprendimento.
Quello che l’educazione ambientale deve fare è creare le condizioni in cui sia possibile per i bambini instaurare una relazione diretta con
l’ambiente, in cui non siano spettatori, ma partecipi, in cui si crei quella stessa relazione Io-Tu che abbiamo visto essere così importante
nell’economia della crescita personale dell’individuo.
Allenamento alla percezione sensoriale, percorsi bendati – per valorizzare tutti e cinque i sensi – esplorazione delle diverse forme di alberi,
foglie e fiori, prima di ogni eventuale categorizzazione, escursioni notturne, giochi di interazione per comprendere le dinamiche tra le diverse
componenti di un ecosistema, giochi di ruolo in cui si impersonificano gli animali, sono solo alcune possibili idee.157 Queste sono alcune delle
attività che vengono svolte, per esempio, nei programmi organizzati presso la sede del Parco regionale di Montevecchia e della Valle del Curone, e
della Cooperativa Liberi Sogni, entrambi in provincia di Lecco, in cui molta importanza viene data, in piena sintonia con i principi
dell’ecopsicologia, alla circolarità conoscitiva tra natura e individuo, all’incontro, cioè, con la natura non dall’esterno, come osservatore, ma
dall’interno, come parte integrante del sistema stesso.158 Ed è proprio questo il vero obiettivo dell’educazione ambientale, risvegliare la
consapevolezza di essere parte del mondo.

Strutture ricreative e turistiche


L’educazione ambientale non è un’attività che riguarda soltanto i bambini e i giovani e non è una attività specialistica da delegare a formatori
specializzati. È parte del processo stesso dell’educazione nella quale possono venire coinvolti a tempo pieno i genitori. È in famiglia, spesso, che si
acquisiscono i primi imprinting in relazione alla natura e può essere la famiglia l’ambito ideale in cui genitori e figli, insieme, esplorano questa
dimensione offrendosi reciprocamente un contributo: in termini di conoscenze e informazioni quello dell’adulto, in termini di curiosità e di
entusiasmo quello dei più giovani. L’incontro con l’ambiente può diventare a sua volta una piattaforma per un incontro tra genitori e figli,
un’occasione per fare qualche cosa insieme su un piano più paritario, perché davanti all’immensità di un cielo stellato, di una cima svettante, di una
foresta che si estende a vista d’occhio, quel mezzo metro o quei pochi anni di differenza tra padre e figlio perdono di significato.
Questa considerazione apre le porte a un nuovo tipo di attività in ambito turistico e ricreativo, il turismo esperienziale, in cui la presenza di
animatori appositamente preparati a condurre attività di tipo ludico-educativo nell’ambiente naturale, permette alla famiglia unita di scoprire nuovi
terreni e nuovi linguaggi da vivere con i propri figli.

Azienda
L’attività lavorativa in azienda è, per definizione, quasi sempre circoscritta a spazi delimitati da quattro mura, in cui la gerarchizzazione dei ruoli, i
ritmi incalzanti, la prevalenza di relazioni interpersonali di tipo Io-Esso, l’inquinamento elettromagnetico dato da apparecchiature elettroniche e un
grande uso di materiali di rivestimento e arredamento sintetici, creano un cocktail che si traduce inevitabilmente in un clima di tensione che
letteralmente assorbe e annulla gran parte delle energie degli individui: tensione fisica per la mancanza di movimento, l’aria viziata e l’elettricità
statica accumulata; tensione emotiva per la mancanza di ascolto e di espressione creativa; tensione mentale per un tipo di lavoro spesso legato ai
ritmi di macchine e computer.
La situazione può migliorare molto con nuove strategie di gestione delle persone (senza più chiamarle “risorse”; di questo c’è fior fiore di
formatori e psicologi aziendali che se ne occupa) ma può essere fatto anche di più. Con il contributo dell’ecopsicologia, in azienda si può agire su
tre fronti.
Uno riguarda più l’ambiente fisico, l’ufficio, l’organizzazione degli spazi, in cui – secondo i criteri di base della bioedilizia e del biophilic
design – grande beneficio può essere tratto dalla presenza di spazi verdi interni, piante, giochi d’acqua e dalla creazione di un punto di sosta all’aria
aperta, in cui poter smaltire momenti di tensione e trovare più facilmente la tranquillità. Il contatto diretto con ambienti naturali facilità e accelera il
processo di rigenerazione dell’attenzione, come dimostrato negli anni ottanta dalla psicologia ambientale,159 diventa quindi direttamente funzionale
all’attività lavorativa.
Un altro fronte riguarda più direttamente la formazione, possibilmente con attività outdoor, fuori dall’azienda stessa: alpinismo, rafting,
canyoning, trekking, survival e orienteering come supporti alla formazione aziendale sono ormai stati scoperti e valorizzati da più di una decina di
anni. Con il survival un’équipe di lavoro affronta insieme quello che per un adolescente potrebbe essere un bel campeggio avventuroso e che per un
adulto vuol dire doversi improvvisamente confrontare con scalate di alberi, attraversamenti di fiumi su corde sospese, montaggi di tende sotto la
pioggia e altre attività a tal punto diverse da quelle della routine quotidiana da mettere le persone in condizioni di scoprirsi e di conoscersi non più
come ruoli ma proprio come persone intere. L’orienteering è meno estremo e coinvolge i membri di uno stesso gruppo di lavoro in una specie di
caccia al tesoro in cui bisogna saper leggere la carta topografica – si impara facilmente – per poter raggiungere di volta in volta il punto esatto
segnato sul percorso da completare.
Non è solo l’originalità delle attività che garantisce il successo di questo inusuale tipo di formazione aziendale e non è solo l’elemento gioco e
competizione che rafforza lo spirito di gruppo, è anche l’elemento natura che riporta le persone a una visione più ancestrale ed essenziale di sé. La
marca della giacca e la firma sulla cravatta non sono più elementi discriminanti e il senso di riconnessione si traduce in rilassamento, scarica di
tensioni e ricarica energetica anche quando non c’è la consapevolezza del processo in corso.
Il terzo fronte è quello della creazione e consolidamento di reti di relazioni ecologiche nell’ambito dell’ecosistema azienda – team building,
tribe building – con una formazione all’attenzione, ascolto, rispetto ed empatia, come presupposti per una maggiore fluidità di comunicazione sul
posto di lavoro.
L’effetto è ancora più efficace quando c’è una combinazione di questi diversi fronti e le attività in natura sono arricchite da opportunità di
scambio e dialogo, opportunamente facilitate, tra i membri del gruppo.

Comunità
L’importanza del verde nella progettazione e gestione di spazi adibiti alla collettività è un’altra delle sensibilità che l’ecopsicologia si propone di
sostenere e diffondere. Negli USA un medico del lavoro, Howard Frumkin, docente di salute ambientale presso l’Atlanta University, si batte per
dimostrare l’importanza che il contatto con la natura ha non solo per il benessere psicologico, ma anche per la salute fisica. Cita gli studi che
dimostrano come i degenti che dalla finestra della loro stanza d’ospedale possono guardare verso un giardino o uno spazio verde guariscono più in
fretta; diffonde la testimonianza di pazienti di ospedali psichiatrici e persone in cura per la disintossicazione da dipendenze che hanno tratto grande
beneficio dal contatto con la natura; ricorda che le persone che hanno un animale in casa statisticamente corrono un minore rischio di infarto.
I vantaggi non sono solo per i malati; anche le scuole e le residenze per anziani possono diventare luoghi più gradevoli e piacevolmente
frequentabili con l’inserimento di spazi verdi, per gli stessi motivi già visti in ambito aziendale, per il fatto che essere a lungo costretti in un unico
spazio chiuso rende necessario più che mai un’occasione di sfogo, di scarica e ricarica a contatto con la Terra e l’elemento vegetale. E nelle
carceri? Quanta tensione cresce a dismisura non potendo ritrovare una connessione con la dimensione naturale, proprio laddove la disarmonia
dovrebbe venire in qualche modo corretta?
“Più che di ricerche scientifiche su nuovi farmaci” dice Frumkin in un’intervista160 “abbiamo bisogno di stimolare le persone a coltivare un
giardino e invitare architetti e urbanisti a progettare nuovi quartieri e spazi abitativi in cui il verde sia sempre in qualche modo presente.”
Nell’aprile 2019, un convegno internazionale ad Atene, “Urban Forests for Public Health”, ha raccolto professionisti di tutto il mondo dal campo
dell’urbanistica, educazione, psicologia e medicina per condividere le innumerevoli ricerche e anche iniziative in atto per rinverdire le città e
portare le persone nella natura. Ha partecipato, con un poster, anche una delegazione della International Ecopsychology Society.

Comuni, Province e Regioni


Queste idee stanno filtrando, a poco a poco, nella consapevolezza della gente. Passano attraverso la sensibilità di chi alla natura è rimasto vicino,
senza arrendersi alla smania consumista, e di chi di modernità si è ormai già ubriacato e sente la necessità di ritrovare altri valori. Le istituzioni
sono fatte da persone e quando ci sono persone che questa sensibilità ce l’hanno, anche a livello comunale, provinciale e regionale molto può venir
fatto per salvaguardare luoghi, mestieri e tradizioni che sono ancora in grado di riavvicinare l’individuo alla Terra e alle sue radici.
Anche questo è campo dell’ecopsicologia. Già in molti Comuni d’Italia, su iniziative personali di associazioni, gruppi e a volte anche
semplicemente singoli individui, sono nati programmi che valorizzano vecchie culture e sostengono la protezione del territorio, soprattutto nei
territori delle Comunità montane e in quelle aree considerate disagiate fino a poche decine di anni fa e che ora stanno avendo successo proprio per
essere rimaste “come una volta”, come le Langhe, le Cinque Terre, la valle di Saint Barthélemy in Valle d’Aosta, la valle del Carpina in Umbria e
tanti altri piccoli gioiellini del paesaggio italiano che rinascono a nuova vita grazie a questo ritrovata attenzione nei confronti della bellezza naturale
e della tradizione culturale. La civiltà contadina ritrova così la sua dignità di curatrice dell’ambiente e cerca di riappropriarsi di un ruolo che le è
stato strappato dalla industrializzazione del lavoro della terra, per ritrovare il suo tradizionale senso dell’armonia e dell’equilibrio. E c’è chi
sostiene oggi, giustamente, che il lavoro del contadino preserva e abbellisce il paesaggio e come tale va riconosciuto e sostenuto dalle autorità
territoriali.
Molti comuni si stanno risvegliando alla valorizzazione delle proprie tradizioni e del proprio territorio. Il convegno “L’uomo e il paesaggio”, il
primo in Italia in cui si è parlato di ecopsicologia, è stato organizzato nel 1999 a Riomaggiore, in provincia di La Spezia, col sostegno del Comune e
in questi ultimi anni sono sempre di più i Comuni che hanno reso le difese del loro territorio, rifiutandosi di abbandonare piccoli paesi e
trasformandoli in mete di ecoturismo, come il piccolissimo paesino di Bergolo, in provincia di Alba, strategicamente situato sull’antica via del sale
e ora sede di un ostello, di una piscina in mezzo al verde e di una serie di bungalow di legno, meta di un turismo familiare e culturale, nazionale e
internazionale.
Il Comune di Travacò Siccomario, incuneato là dove si incontrano il Ticino e il Po – che prende il nome da sicut maris, “come il mare”,
appellativo che gli antichi Romani gli avevano dato a causa delle frequenti inondazioni – è stato tra i primi a predisporre, ormai diversi anni fa, una
serie di incontri con i cittadini insieme al filosofo ambientale Luciano Valle, al fine di poterli coinvolgere nella difesa del territorio e della sua
cultura tradizionale, che diventa anche una difesa di valori umani e ambientali.
I Comuni di Valgreghentino, Airuno e Colle Brianza, in provincia di Lecco, hanno sostenuto cooperative locali e il progetto Libera Università del
Bosco, per la riqualificazione di un castagneto, il coinvolgimento di anziani del luogo, la valorizzazione di antichi mestieri, la realizzazione campi
estivi per giovani e per famiglie, l’organizzazione di eventi comunitari stagionali e, dulcis in fundo, la creazione di quattro sentieri tematici, tra cui
uno ispirato all’ecopsicologia, dal nome Clorofillati!, con cartellonistica ed esercizi di presenza e attenzione, per meglio godersi la relazione con il
bosco.161
Quando la volontà individuale c’è, molto può essere fatto anche e, soprattutto, in ambito istituzionale, anche semplicemente comunale; anzi, è
proprio quello comunale che ha da trarre il maggior vantaggio da una valorizzazione concreta e fruibile del territorio. Anche nei confronti di queste
realtà l’ecopsicologia si pone come fonte di ispirazione, consulenza, sostegno e stimolo.

Movimenti ambientalisti
Quando il movimento ambientalista è nato non c’è stato bisogno di fare grandi ricerche sociologiche, è nato sull’onda dell’emozione, sullo scalpore
suscitato dalle prime preoccupanti relazioni concrete sullo stato di salute del Pianeta, sul timore sincero per il futuro, sul risveglio dall’illusione di
risorse infinite e rifiuti autoriciclantisi. È stato un movimento di massa, prima di essere un movimento politico, un’onda spontanea e trasversale,
culturalmente e politicamente, di persone più sensibili alle problematiche ambientali.
Sono passati cinquant’anni dal primo risveglio diffuso di una coscienza ecologica, e i passi fatti sono indubbiamente molti, e le strategie di
divulgazione e di coinvolgimento del pubblico non possono essere più le stesse di mezzo secolo fa. Fino ad oggi le persone, per quanto riguarda
l’equilibrio ambientale, si sono sentite inermi di fronte a meccanismi troppo più grandi di loro e questo ha creato un rifiuto nei confronti di
informazioni e messaggi che non fanno altro che accrescere disagio e senso di impotenza. Non è più questo, infatti, il canale di sensibilizzazione
adatto a un pubblico così saturo di catastrofismo da preferire l’atteggiamento dello struzzo, che affonda la testa nella sabbia per non vedere il
pericolo.
La crisi dell’ambientalismo contemporaneo non riguarda soltanto la capacità di sensibilizzare gli animi della gente, ma è una crisi di identità del
movimento stesso e degli attivisti in prima persona. Gli anni delle grandi azioni spettacolari, come quelle inscenate da Greenpeace sulle baleniere e
sulle piattaforme petrolifere sono passati; lo slogan “pensare globalmente e agire localmente”, parola d’ordine dopo il famoso meeting mondiale di
Rio de Janeiro, è entrato in conflitto con la lotta alla globalizzazione; dal lottare “per” si è passati a un più facile lottare “contro”; le motivazioni
scientifiche dell’impegno ambientalista sono state progressivamente screditate, etichettate come illusorie aspirazioni neobucoliche e addirittura ci
sono stati scrittori, come Michael Crichton col suo romanzo Stato di paura, nel 2004, che hanno cavalcato l’onda denigratoria delle preoccupazioni
relative al clima, forti del successo che si ottiene ridicolizzando ciò che più si teme.
Non ultimo, secondo la riflessione dello scienziato e giornalista Pietro Greco il coinvolgimento in politica delle teste più brillanti
dell’ambientalismo, negli anni settanta, ha ottenuto il duplice effetto di renderle pressoché inefficaci sul piano concreto e ha lasciato il movimento
senza la direzione carismatica di cui aveva bisogno.
La questione ora è: come ridare forza e chiarezza al movimento ambientalista affinché sappia a sua volta risvegliare gli animi, fare intravedere
nuove possibilità, additare la luce oltre il tunnel?
Oggi c’è una rinascita dello spirito attivista e ambientalista e stanno nascendo nuovi movimenti che coinvolgono i giovani, nuovi mezzi di
comunicazione, nuove strategie di diffusione di idee, come flash mob e video. Sta rinascendo la speranza.
L’ecopsicologia ha molto da dare, per portare avanti il discorso in modo nuovo. Queste le sue proposte: crescita personale come alternativa a un
vacuo ideologismo; aggiornamento scientifico e filosofico per comprendere in profondità il concetto di interrelazione e tutte le sue passibili
implicazioni; attenzione verso le nuove tecnologie ecosostenibili per nutrire la propria utopia di alternative concrete; recupero del concetto di
visione globale senza confonderla con gli aspetti più deleteri della globalizzazione e senza nulla negare alla dignità e individualità della realtà
locale; sostegno di tutto quanto è concreto e porta beneficio, per piccolo che sia, alla collettività; riapertura del dibattito sui valori, con l’obiettivo
di incontrarsi e non di dividersi in schieramenti.
Da questo punto di vista è a-politica, ma quando di tratta di agire, l’ecopsicologia è politica, nel senso originario del termine, da polis, città,
cittadinanza, impegno sociale. Ma, per avere forza, l’impegno ambientalista del singolo individuo deve essere depurato da proiezioni e pulsioni
aggressive di tipo personalistico, un obiettivo che può essere raggiunto solo con un percorso di crescita personale, con lo sviluppo di una sincera
disposizione all’introspezione per non confondere la rabbia contro gli industriali con una rabbia mai affrontata nei confronti, per esempio, del padre.
“Quando si insiste sulla propria tesi come se ne dipendesse la vita” spiega Rollo May, psicoterapeuta esistenziale “si può stare certi che, dietro
quell’accalorarsi, c’è ben altro dell’oggettivo interesse per la verità.”
Il movimento ambientalista per toccare l’anima della gente deve ritrovare la sua anima e deve “fare anima”, nel senso che James Hillman dà a
questa espressione di operare con l’anima e per l’anima, consapevoli dell’ampio margine con cui ognuno può operare su di sé e con gli altri per
creare e far crescere la realtà che si vuole. L’ecopsicologia applicata all’ambientalismo è rivoluzionaria. Non più una “rivoluzione contro”, ma una
“rivoluzione per”, per diventare terrestri consapevoli, per far fiorire questo bel pianeta, per imparare a gioire e far gioire di quanto offre la vita.
“Ciò che l’essere umano è capace di amare soltanto per dovere o esortazione morale è, sfortunatamente, molto limitato” scrive l’ecopsicologa
Molly Young Brown. “L’uso intensivo di messaggi moralistici nell’ambito delle campagne ambientaliste ha dato alla gente la falsa impressione che
le sia richiesto di sacrificarsi, di dimostrarsi più coinvolta, più responsabile, più etica… ma le qualità richieste per la cura ambientale emergono
spontaneamente, una volta che la consapevolezza individuale si allarga al punto di sentire la protezione della natura come la protezione della propria
identità più autentica.”162

Ecopsicologia come vocazione


Molti hanno già chiaro tutto questo. Ci sono persone in cui questi discorsi risuonano in profondità, persone che si avvicinano all’ecopsicologia
dicendosi “questo è quello che ho sempre sentito e pensato e mi fa piacere sapere che non sono sola, che non sono solo”. Non c’è bisogno di essere
psicologi, insegnanti e attivi ambientalisti per avvicinarsi all’ecopsicologia, per approfondirne il pensiero e le tecniche e per atteggiarsi, nel proprio
piccolo, in un modo più aperto nei confronti del mondo circostante, coltivando comportamenti e scelte che vadano in sintonia con una visione di sé
non più separati e contrapposti al mondo naturale, ma inseriti nel tutto, come una nota in una sintonia.
Del resto, questo atteggiamento è quello che dovrebbe essere per noi la normalità, e che per qualche ragione è andato in qualche modo perduto.
Entriamo ancora più in profondità nel concetto di biofilia, che descrive il rapporto emotivo che ci lega alle altre forme di vita: “Insito nella natura
umana” spiega Edward Wilson “c’è un amore per la natura e un senso di connessione con l’ambiente, un bisogno della vicinanza di altri esseri
viventi che ha le sue radici nel nostro patrimonio genetico. I nostri antenati hanno vissuto per milioni di anni mantenendo uno stretto contatto con la
natura che li circondava, e rispettandone i ritmi; non è pensabile che poche migliaia di anni – in termini evolutivi, un periodo di tempo brevissimo –
siano bastati a fare piazza pulita di un’esperienza tanto radicata”.163
L’ecopsicologia non chiede di credere, chiede di ascoltare, chiede di ritrovare una sensibilità che è già connaturata alla nostra natura umana.
Chiede di avere fiducia in se stessi, nella vita, in Dio – se è questo il termine con cui si è abituati a rivolgersi al Grande Mistero – o nel pianeta di
cui siamo parte, che da più di 4 miliardi di anni sta lavorando assiduamente per far crescere la vita in forme sempre più belle, complesse ed
elaborate.
James Lovelock, Arne Naess e altri scienziati ci mettono in guardia dall’abusare della pazienza della Terra, perché potremmo essere noi la specie
che non sopravvive agli eventuali cambiamenti che stiamo apportando all’ecosistema planetario; ma altri, come Teilhard de Chardin o Peter Russell,
per esempio, insistono sul fatto che noi siamo l’avanguardia dell’autocoscienza terrestre, non siamo semplicemente una specie tra le tante che può
sopravvivere o no all’inversione dei poli, a una nuova glaciazione o a una diversa composizione dell’atmosfera; siamo le propaggini più giovani,
più recenti di un immenso organismo non ancora cosciente di sé, o il sistema nervoso di un pianeta intelligente, per usare un’immagine tratta da una
riflessione di Lovelock stesso. È una visione che non lascia possibilità di esclusione, che non prevede “arimortis” – quello che i bambini gridano nel
mezzo di un gioco d’azione quando vogliono uscirne – è una visione che può solo puntare a risvegliare le persone il più rapidamente possibile alla
loro natura più vera, per non remare più contro, per non prendersi più il piede a martellate, per non rinchiudersi più nell’illusione del “non mi
riguarda”.
Chi, per conquista o per vocazione, è già rivolto verso questo consapevole coinvolgimento, con entusiasmo ma anche responsabilità, grazie
all’ecopsicologia può trovare spunti, strumenti, idee e contatti per tradurre in azione il suo sentire attraverso piccolo o grandi gesti, negli spazi più
vicini o più lontani a sé, coinvolgendosi in prima persona o sostenendo chi altrove va e fa qualche cosa di concreto. Sentire questo coinvolgimento
con il mondo circostante, patire la sofferenza per tutto quanto attorno a noi succede di brutto e di triste – che riguardi quanto avviene tra esseri
umani, il rapporto tra esseri umani e animali o quello tra esseri umani e ambiente naturale – non può essere subìto in silenzio senza neppure un
tentativo di controbilanciare in qualche modo ciò che la propria sensibilità identifica come ingiusto o anche semplicemente brutto. Stare zitti e
inermi senza agire, fa male a sé prima di tutto, e al pianeta in seconda battuta, che non si avvale del beneficio che potrebbe venire dall’azione
concreta di qualcuno che ha invece un atteggiamento di coinvolgimento ed empatia nei confronti del mondo. Da qui l’invito a trovare ognuno il suo
modo di attivarsi nel nome di ciò in cui crede. Questo presuppone che ci si sia presi, ognuno, il tempo di riflettere sui propri valori, e questo è
proprio uno dei punti cardine nel processo di crescita personale. Impegnarsi in modo attivo – in un’ottica ecopsicologica – vuol dire anche depurare
le proprie rivendicazioni ideologiche da questioni personali irrisolte, vuol dire non caricare emotivamente l’azione nei confronti di qualcuno di
specifico di tutta l’emozione accumulata nei confronti della sua categoria o di torti subiti in prima persona; vuol dire sapere sempre vedere la
persona con le sue motivazioni, i suoi punti di vista e le sue idee, per quanto possano non corrispondere con le proprie. Attenzione, ascolto, rispetto,
empatia e dialogo rimangono le armi vincenti per i “terrestri consapevoli” o gli “ecoalleati”, come si può definire chi aderisce a tutto quanto
l’ecopsicologia sostiene, pur non potendo o non volendo mettersi l’etichetta di “ecotuner”, formato in ecopsicologia, o di “ecopsicologo”, qualifica
solo per chi psicologo lo è già. I terrestri consapevoli si pongono nei confronti delle problematiche contemporanee con atteggiamento attivo,
cercando ognuno il suo modo di contribuire, nella comunità locale o in quella internazionale, attivandosi per cercare, conoscere, interagire e agire.
“Cosa” fare l’ecopsicologia non lo precisa, insiste sul “come”; poi ognuno fa la sua parte, con la migliore delle intenzioni.
L’ecopsicologia diventa così ben più di una semplice scuola in ambito psicologico, di un filone tra i tanti, diventa una vera e propria
preparazione alla “cittadinanza terrestre”, così come ne parla il sociologo francese Edgar Morin, o alla “coscienza planetaria”, usando le parole del
filosofo e teologo brasiliano Leonardo Boff, all’“ecocittadinanza”, termine che inizia ad apparire sempre più spesso nei nuovi progetti della
Comunità Europea o cittadinanza ecologica, nella sintesi coniata da papa Francesco. L’ecopsicologia diventa una preparazione di base che trova
applicazione in ambiti ben più vasti da quello strettamente terapeutico per includere – come di fatto già avviene – quello educativo, formativo e
sociale.
I valori che si stanno rivelando i più adatti per sensibilizzare la gente verso problematiche che esulano dal benessere strettamente individuale,
verso orizzonti che includano anche gli altri e il mondo, diventano non solo quelli della compassione ma anche della compartecipazione, non solo
della responsabilità, ma anche del potere dell’impegno personale, non solo della sostenibilità, ma anche della bellezza. Oggi educazione ambientale
vuol dire occuparsi di dignità umana e di giustizia sociale. Si avvicina il momento in cui non avremo bisogno di parlare di “ecopsicologia” o
“educazione ambientale”, ma perché saranno ormai “la psicologia” e “l’educazione” una volta che si sarà diffusa la coscienza che siamo tutti
collegati, che possiamo pensare a un benessere personale solo nell’ambito di quello collettivo e che il motore più potente per dirigerci in questa
direzione è quello dell’amore per la vita.

147 “Un tempo l’uomo non aveva tanto la coscienza della sua appartenenza alla specie umana, quanto piuttosto il sentimento di una partecipazione cosmobiologica alla vita”, M. Eliade, Miti, sogni e
misteri, Rusconi.
148 Theodore Roszak, cit., 1995, p. 12.
149 Howard Clinebell, Ecotheraphy, Fortress Press, Minneapolis, 1996.
150 Affermazione, nell’ambito di una conferenza, della psicosintetista statunitense Viviane King.
151 Philip Sutton Chard, The Healing Earth, North Word Press, Minnetonka (MN), 1994.
152 Giuseppe Barbiero, Rita Berto, Introduzione alla Biofilia – La relazione con la natura, tra genetica e psicologia, Carocci, Roma, 2016, p. 12.
153 Le dieci leggi psicologiche della psicosintesi descrivono in modo dettagliato le diverse possibili interazioni tra le funzioni psichiche, fondamentali nel processo dell’atto di volontà. Vedi Roberto
Assagioli, Atto di volontà, Astrolabio.
154 Marcella Danon, Clorofillati – Ritornare alla Natura e rigenerarsi, Feltrinelli, Milano, 2019, pp. 18-19.
155 Fritjof Capra, Ecoalfabeto, Edizioni Stampa Alternativa, 2005, p. 23.
156 www.ortidipace.org.
157 Un manuale pratico eccezionale di giochi per bambini in natura è Joseph Bharat Cornell, Vivere la natura, Ananda edizioni, Assisi, 2015.
158 Elena Iori, “Il rapporto tra Uomo e Natura: l’educazione ecologica in prospettiva ecopsicologica”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Psicologia, Corso di Laurea in Scienze e Tecniche
Psicologiche. Anno accademico 2004/2005.
159 Marcella Danon, Clorofillati – Ritornare alla Natura e rigenerarsi, cit., p. 42.
160 “La natura fa bene a corpo e anima”, www.lifegate.it.
161 Il progetto è stato creato, coordinato e realizzato dalla Cooperativa Sociale Liberi Sogni di Calolziocorte (Lc). Informazioni sugli itinerari: www.liberisogni.org.
162 Molly Young Brown, Ecopsicologia, ecologia profonda e alfabetizzazione ecologica, in “Il counselor”, volume 2, numero 1, giugno 2005.
163 Edward Wilson, The diversity of Life, W.W. Norton & Company, New York, 1999.
Capitolo 9

ECOPSICOLOGIA PER LA CRESCITA PERSONALE

“… nella consapevolezza che la perdita delle riserve naturali sulla Terra va di pari passo con la perdita delle riserve naturali all’interno di noi. E che le crisi esterne, di varia natura,
rimandano alle crisi interne, e viceversa”.
Felix Guattari, Le tre ecologie

La nostra natura individuale è tanto ricca, variegata, complessa e multiforme quanto quella di un intero pianeta. Di noi stessi conosciamo poco. Le
strade più battute, le città più grandi, i luoghi più frequentati e più pubblicizzati. Forse anche qualche parco e, occasionalmente, la cima di una
montagna. Conosciamo una parte, ma siamo un intero, un mondo intero.
Con la stessa curiosità, disponibilità e determinazione con la quale ci accingeremmo a esplorare un pianeta a noi ancora sconosciuto possiamo
metterci alla scoperta del nostro mondo interiore. “La vera avventura è quella dentro di noi”, aveva rivelato in un’intervista l’esploratore Walter
Bonatti.
Possiamo procedere con una mappa o possiamo procedere senza, lasciandoci guidare dall’esperienza, mettendo poi insieme i pezzi per conto
nostro. Possiamo notare come, ogni volta che allarghiamo i confini dell’esplorazione interiore, diventa sempre più difficile tracciare i limiti di quel
territorio che chiamiamo “io”. Una volta che ci predisponiamo ad affrontare in prima persona la ricerca, senza accontentarci di modelli
preconfezionati, la meraviglia del vivere si spalanca davanti a noi.
Questo non è ancora un percorso organico, e forse non lo sarà mai se vuole rispettare la varietà individuale dei tempi e dei modi con cui aprirsi
alla ricerca di sé. Questi sono spunti di lavoro che rimandano a loro volta ad altri campi più approfonditi di ricerca e di lavoro, a tecniche di
meditazione, a scuole di psicologia, a tradizioni sciamaniche, a vie di ricerca più o meno conosciute e codificate. La direzione è una, le strade sono
tante. Chi mai può arrogarsi il diritto di dire quale è quella giusta e quale no? Ognuno deve sviluppare intuizione e malizia quanto basta per non
lasciarsi irretire e per non delegare a maestri, o presunti tali, la responsabilità del proprio percorso. Maestri ce ne sono, anche di veri, tanti. Un vero
maestro non vi tratterrà mai sulla sua strada, vi accompagnerà per un pezzo sino a quando sentirà che quella strada va bene per voi, sino a quando
anche voi sentirete che quella strada è giusta. Un vero maestro saprà risvegliare il vostro maestro interiore e vi aiuterà così a fare a meno di un
sostegno esterno e a diventare voi stessi la vostra strada.
Questi sono solo strumenti sparsi di lavoro, esercizi da assaggiare e provare in prima persona. Spesso pratiche semplici, in grado di rafforzare
sensibilità, attenzione, volontà; tutte qualità già presenti in ognuno di noi, da riscoprire e riattivare verso l’obiettivo forse più importante, quello di
capire chi siamo e quale è il peculiare contributo che possiamo dare alla vita, al mondo di cui facciamo parte.
Gli esercizi presentati in questi tre capitoli presentano in realtà una unica successione: possono essere svolti e ripresi anche singolarmente e in
ordine sparso, ma costituiscono, insieme, un percorso di progressivo allargamento di percezione e consapevolezza.
Questo primo gruppo consiste in esercizi che utilizzano prevalentemente l’autoascolto, la riflessione e l’immaginazione e possono essere svolti
anche nell’ambito di uno spazio chiuso, senza necessariamente, per il momento, un contatto diretto con l’ambiente naturale.

Ascoltare dentro per sentire fuori


Cerchiamo un posto tranquillo, in casa o all’aperto, in cui possiamo chiudere gli occhi per almeno una decina di minuti ed esercitarci all’ascolto
interiore, alla centratura, a quello che oggi viene definito mindfulness. L’intero esercizio può essere svolto in un tempo che varia dalla mezz’ora ai
pochi minuti. Se inizialmente è meglio svolgerlo in un ambito relativamente tranquillo, dobbiamo diventare progressivamente capaci di attuarlo
anche in ambienti via via più caotici e rumorosi, sino a poterlo fare anche a occhi aperti, ad esempio facendo la fila al supermercato o alla posta.
Portiamo la nostra attenzione, inizialmente, al respiro. Semplicemente notando come respiriamo. Con quale ritmo, con quale profondità. Non c’è
nessun traguardo particolare da raggiungere, semplicemente notiamo come si svolge nel nostro organismo una funzione vitale che ci accompagna dal
primo all’ultimo momento della nostra vita su questa Terra. Accompagniamo, con gli occhi della mente, l’aria che entra, la cassa toracica che si
espande, eventualmente anche l’addome che si solleva, e poi notiamo come, nell’espirazione, l’addome si abbassa, la cassa toracica si contrae, e il
flusso d’aria esce, più tiepido di quando è entrata.
Quando ci sembra di avere esplorato a sufficienza il nostro respiro, ampliamo il nostro campo di attenzione all’intero corpo. E ci chiediamo
“come sta il mio corpo”. Notiamo la diversa sensazione tra le parti esposte all’aria e quelle coperte dai vestiti; tra le parti appoggiate alla sedia o al
terreno e quelle no, notiamo se ci sono particolari tensioni e contrazioni. In particolare esploriamo le spalle, il collo, i piccoli muscoli attorno agli
occhi, controlliamo che la lingua si stacchi dal palato. Notiamo dove sentiamo più freddo e dove più caldo. Chiediamoci se ci sono particolari
messaggi da specifiche parti del corpo, per esempio, se sentiamo il bisogno di bere o mangiare, di andare in bagno, di distenderci o di uscire e fare
un po’ di moto. Semplicemente ascoltiamo, accogliendo ogni sensazione e messaggio.
Quando sentiamo di essere entrati in comunicazione con il nostro corpo, chiediamoci di che umore siamo. Cominciamo a esplorare il nostro stato
emotivo. Ancora una volta non c’è un risultato da raggiungere, ma c’è soltanto da riconoscere quale è effettivamente, in questo preciso momento, il
nostro stato d’animo. Notiamo se siamo tranquilli e sereni, o se c’è qualche preoccupazione o ansia, latente nel sottofondo. Non rifiutiamo niente,
non giudichiamo, non forziamo né rifuggiamo nulla. Semplicemente osserviamo come stiamo davvero in questo preciso momento, accettando e
accogliendo qualsiasi risultato emerga dalla nostra indagine.
E ora osserviamo la mente e notiamo se è tranquilla e silenziosa o agitata e percorsa da innumerevoli pensieri in tutte le direzioni. Anche qui
senza forzare, chiediamoci quali sono questi pensieri, notiamo se riguardano il passato o il futuro, e lasciamoli proseguire sul loro cammino, senza
seguirli, senza fissarli, senza dare loro particolare attenzione. Li lasciamo scorrere via, come foglie secche portate via dalla corrente di un ruscello,
non ci lasciamo distrarre da loro.
Ora siamo pronti per andare ancora più in profondità, verso il centro del nostro essere, verso quella parte di noi che ha ascoltato il respiro, il
corpo, le emozioni, i pensieri, verso quel punto solido, stabile e saldo al centro del nostro essere da cui abbiamo una visuale completa su tutto
quanto accade dentro e fuori di noi. È il nostro centro, il nostro rifugio segreto in cui ricaricarci e riposarci ogni volta che ne sentiamo il bisogno. Il
punto di noi da cui scaturisce la consapevolezza stessa di esistere, il punto in cui possiamo ripeterci interiormente “Io sono io”, in cui siamo presenti
all’istante presente.
Rimaniamo qualche istante in questo stato di coscienza, sino a quando ci fa piacere, assaporando il senso di centralità, stabilità, solidità, e poi
riprendiamo gradualmente contatto con i pensieri, le emozioni, il corpo. Facciamo qualche profondo respiro e riapriamo gli occhi.164
Meditare per ampliare l’orizzonte interno
Che la tecnica meditativa prescelta inviti a focalizzare l’attenzione sul respiro, su un mantra – “suono sacro”, in sanscrito – su una posizione, su un
brano di scrittura religiosa o filosofica, su un simbolo o su un’immagine, l’obiettivo è sempre lo stesso: staccare l’attenzione dal mondo esterno e
volgerla all’interno, permettendo al cervello di sintonizzarsi su una frequenza d’onda più lenta e più ricettiva. Per far tacere almeno per pochi minuti
quella che gli orientali chiamano la scimmia impazzita, la mente, e per aprirsi alla vita interiore, alle sue voci, riflessioni, intuizioni, ombre e luci.
Per l’occidentale medio, totalmente impreparato all’esperienza della sua interiorità, la meditazione è un’attività preziosa e complementare
all’attività frenetica della dimensione del pensiero e dell’azione. È un percorso di progressivo allenamento allo stare in silenzio e, ancor più,
semplicemente allo “stare”. È la creazione di uno spazio virtuale, eppure reale, all’interno del proprio essere in cui potersi soffermare o osservare
la realtà attorno e dentro di sé con minore coinvolgimento emotivo, in cui poter trovare ascolto e accoglienza, in cui potersi ricaricare rapidamente
di energia, in cui sperimentare il proprio centro, il baricentro, interiore.
Ci sono meditazioni che prevedono la durata di un’ora, altre di mezz’ora o venti minuti. Ogni tecnica ha il suo percorso e il suo modo, ma – se
non si riesce a fare di meglio – anche cinque minuti al giorno possono essere sufficienti per esercitarsi allo sviluppo di un punto di osservazione
diverso sulla realtà. I benefici per la vita quotidiana sono innumerevoli, non mancano certo gli studi che lo comprovano. Manca forse la
consapevolezza che, ben lungi dall’essere soltanto una pratica religiosa o mistica, la meditazione deve e può diventare parte della nostra routine e
igiene mentale quotidiana, come spazzolarsi i capelli o lavarsi i denti.
Le pratiche di meditazione sono tante, non è certo possibile illustrarle tutte in poche righe. La documentazione ormai abbonda e così anche le
opportunità, in città grandi e piccole, di sperimentare in prima persona diversi percorsi pratici. L’esercizio precedente, di centratura, può essere
utilizzato come una introduzione alla meditazione, basta prolungare il quinto stadio, la focalizzazione sul proprio centro, per un tempo maggiore,
cinque, dieci o quindici minuti. Se ci si accorge di essersi lasciati distrarre dai pensieri, basta dolcemente riportare l’attenzione al respiro e da lì
tornare al centro e mantenere quello stato di attenzione rilassata ma vigile verso l’interno. Questa è una delle tecniche più facilmente accessibili alla
nostra esperienza di occidentali, ed è uno degli strumenti più utili ed efficaci per la crescita personale.

Il dialogo tra corpo, emozioni e mente


Corpo, emozioni e mente fanno riferimento a tre parti diverse del cervello, a tre sistemi dell’organismo che hanno ognuno il suo modo di sentire e di
esprimersi, ognuno le sue esigenze e le sue potenzialità. Quando diventiamo più pratici nell’ascolto interno, quando sappiamo fare un po’ più di
silenzio dentro di noi, possiamo imparare a cogliere voci e messaggi provenienti da singole componenti del nostro essere che prima potevano
rimanere facilmente inascoltate.
Il corpo parla e, se non lo ascoltiamo, il corpo grida. Quante malattie sono solo il drastico tentativo di richiamare l’attenzione su esigenze fisiche
disattese: bisogno di riposo o, al contrario, di movimento; bisogno di aria pulita o di cibi più leggeri, di abiti meno stretti o di ritmi più tranquilli.
Ascoltare cosa ci dice il corpo è un’arte che si può esercitare facilmente. Nel silenzio interiore della meditazione – qualsiasi essa sia – diventa
possibile. Il nostro corpo sa cosa vuole, di cosa ha bisogno per svolgere al meglio le sue funzioni, sa sempre cosa ha bisogno di mangiare in ogni
particolare momento, cosa ha bisogno di fare o di non fare. È nostra responsabilità metterci in comunicazione con le sue esigenze e mediarle
sapientemente con quelle di altre parti.
Anche le emozioni parlano. Sussurrano in alcuni di noi, strepitano in altri. Anche le emozioni vanno riconosciute, prima di tutto; vanno accettate –
non c’è scelta comunque – e vanno ascoltate, prima ancora di essere gestite, cioè espresse, trasformate o sublimate. Reprimerle non è mai una
soluzione salubre. Cosa vuol dire ascoltare le emozioni? Vuol dire riconoscere e onorare la sensibilità di cui si fanno portavoce, vuol dire
riconoscere che ci raccontano qualcosa della nostra verità di questo istante particolare, vuol dire che finché le neghiamo – per sgradevoli o eccitanti
che siano – stiamo negando una parte di noi stessi, ci stiamo facendo un torto, ci stiamo mancando di rispetto. Questo non vuol dire doverle sempre
seguire o abbandonarcisi senza riserve, ma vuol dire permettersi di ascoltare ciò che dicono e darsi il tempo di assaporarle – per amaro o dolce che
ne sia il sapore – perché è l’unico modo di dissolverle, di lasciarle fluire, di non farle stagnare: l’acqua stagnante non è mai salubre.
E la mente? Anche la mente parla, fin troppo, questo lo sappiamo. Di solito siamo così presi dal suo parlare e dalla nostra identificazione con le
sue funzioni – Cogito ergo sum – che non ci soffermiamo a osservare i pensieri e a notare cosa stiamo pensando.
Proprio perché questa è la dimensione più chiacchierina che è importante un buon monitoraggio, per non essere fruitori passivi di pensieri indotti
dall’esterno – televisione, amici, luoghi comuni – ma per essere creatori attivi dei nostri pensieri, capaci di decidere quali coltivare e quali scartare
perché non porterebbero nulla di utile.
La mente, comunque, ha ritmi ed esigenze diversi dal corpo, che deve sostenerci, e dell’emozione che rispecchia la nostra sensibilità. La mente è
coinvolta con il fare, il realizzare e tende a perseguire i suoi obiettivi senza prendere in considerazione esigenze fisiche o emotive, che peraltro lei
non comprende perché si esprimono con altri linguaggi.
Chi deve farsi garante che le sue esigenze e i suoi ritmi non calpestino quelli di altri aspetti di noi? Quella parte di noi che abbiamo imparato a
riconoscere e a focalizzare con gli esercizi di ascolto interno e di meditazione, quella parte capace di osservarsi interiormente, di ascoltare le
diverse voci e, come un buon direttore d’orchestra, di distribuire compiti tempi e spazi adeguati alle necessità e alle capacità di ogni parte, affinché
nessuna di queste venga trascurata o prevaricata e finisca col danneggiare l’intera persona, il pianeta Io.
Tra corpo, emozione e mente nasce così una fitta contrattazione, un do ut des che serve a garantire un’equa distribuzione di energie e risorse nel
nome di un benessere ed equilibrio della persona intera e non solo di una parte, perché noi siamo persone intere che ci piaccia o no, fatte anche di
corpo e di emozioni e se non teniamo conto delle esigenze di queste parti nostre finiamo con l’ammalarci, fisicamente o psichicamente. Una buona
lezione di ecologia questa; e non è che per il pianeta Terra le cose siano tanto diverse.

Riconoscere i quattro elementi


L’organismo umano è già di per sé metafora perfetta per comprendere l’organismo planetario. La complessa e perfetta interazione tra organi e sistemi
che rende possibili i processi vitali del nostro corpo, ricalca le strategie e i meccanismi con cui il pianeta Terra mantiene la sua omeostasi attraverso
dinamiche che coinvolgono elementi diversi della biosfera, geosfera e atmosfera, interdipendenti tra loro. Ecologia e fisiologia potrebbero – e
dovrebbero – essere studiate insieme a scuola, seguendo un approccio simile, come ne dimostra la possibilità Lovelock nel suo Manuale di
medicina planetaria: “Gli ecosistemi sono gli organi del sistema Gaia. In un certo senso corrispondono ai nostri organi: il fegato, il sangue, la pelle,
e i polmoni. Ognuno di essi possiede una parziale indipendenza, vitale per il sistema, ma non è in grado di esistere se non come parte di quel
sistema”.165 L’osservazione della natura, se viene effettuata con occhio attento e sensibile da un ricercatore in campo psicologico, rivela anche forti
similitudini con la struttura e le dinamiche della sfera psichica umana e offre interessanti spunti di riflessione e lavoro. I parallelismi sono così
evidenti che fanno ormai parte di una tradizione orale di cui non si sente il bisogno di conoscere esattamente l’origine.
Il corpo viene analogicamente paragonato alla Terra; è la componente più solida, visibile, tangibile del nostro essere qui sulla Terra; è la base
della vita nella materia.
L’emozione è accostata all’acqua; fluida, scorrevole, mutevole. Come l’acqua può assumere diverse forme, solida, liquida, gassosa; come l’acqua
è portatrice di vita, ma può essere pericolosa quando è troppa o quando è stata a lungo trattenuta e si libera senza possibilità di controllo.
L’aria è la dimensione mentale; i pensieri sono inafferrabili come il vento, e come il vento diffondono nel mondo semi di idee. Quando l’aria si
muove troppo velocemente e viene incanalata da altre condizioni geografiche – meteorologiche o topografiche – può diventare trascinante e
distruttiva. Così, anche il pensiero non è facile da controllare e da fermare.
E il fuoco? Il fuoco, tradizionalmente, è la dimensione spirituale, è la verità profonda sulla nostra natura e sulla natura della vita; è una ricerca
che può scaldare e confortare ma che può anche bruciare se viene intrapresa senza un’opportuna preparazione e protezione, come sottolineano
tradizioni mistiche di tutti i tempi. Nella tradizione cabalista non si potevano iniziare gli studi prima di 40 anni e ogni apprendistato sciamanico –
serio – è lungo e faticoso e prevede una vera e propria iniziazione, per non perdere il senno affacciandosi a una visione della realtà assolutamente al
di fuori da quella degli schemi tradizionali. Il fuoco, dunque, in una certa misura tiene viva la consapevolezza di una nostra natura altra, più vasta di
quella che percepiamo qui con i nostri sensi. Ma finché siamo qui, sulla Terra, la nostra attenzione va focalizzata sull’essere qui sulla Terra, ecco
perché tutte queste precauzioni sull’uso del fuoco, metaforicamente parlando, che nella vita non può mancare, ma neppure prendere il sopravvento.
Dopo questa divagazione, lo scopo di questo esercizio è semplicemente quello di riflettere sul rapporto che si ha con i quattro elementi della
natura – terra, acqua, aria, fuoco – mente, emozione e spirito – paragonandolo al rapporto che si ha con ognuno dei quattro livelli di sé – corpo,
emozione, mente, spirito – e notando se sussistono corrispondenze.

Che rapporto ho con la Terra, quanta e quale risonanza ha in me questo particolare elemento? Che rapporto ho con il mio corpo, come lo
vivo?

Che rapporto ho con l’acqua, quanta e quale risonanza ha in me questo particolare elemento? Che rapporto ho con le mie emozioni, come le
vivo?

Che rapporto ho con l’aria e il vento, quanta e quale risonanza ha in me questo particolare elemento? Che rapporto ho con la mia mente,
come la vivo?

Che rapporto ho con il fuoco, quanta e quale risonanza ha in me questo particolare elemento? Che rapporto ho con il mio anelito verso il
trascendente, come lo vivo?

Non è un test e non è detto che le corrispondenze debbano esserci, è la riflessione che è importante, è il primo tentativo di costruire un ponte per
leggere insieme il nostro mondo interno e quello esterno.
Per questo, e per tutti gli altri esercizi, è consigliabile tenere un quaderno, un diario, in cui annotare tutte le risposte a domande ed esercizi, con la
data corrispondente. Rivisti a distanza di tempo, questi appunti ci racconteranno molto più di quanto forse riusciremo a cogliere sul momento.

Contemplazione, la via del non-fare


Siamo abituati a reagire a ogni diversa situazione facendo sempre qualcosa. L’agire nel mondo è una delle prerogative più decantate dell’essere
umano, quella che ci ha portato dalle caverne ai grattacieli, dalla raccolta di semi e radici alla capacità di trasformare deserti in frutteti. E va
benissimo così. Ma la vita è regolata da ritmi, in cui a una fase attiva corrisponde sempre anche una fase ricettiva, opposta e complementare,
altrettanto utile, anzi indispensabile. Al giorno succede la notte, all’estate l’inverno, alla luce il buio, al movimento il riposo, all’azione la
contemplazione.
La contemplazione è l’atteggiamento interiore con cui Eraclito si era seduto sul limitare del fiume aprendosi alla famosa rivelazione del panta
rei, tutto scorre. È l’atteggiamento dell’artista che cerca l’ispirazione, del filosofo che oltrepassa i limiti del consueto, dell’amante che rimira
l’amata. È una stasi sul piano esterno che apre a una percezione più ampia della realtà, che apre alla consapevolezza che la realtà è molto di più di
quella vista e sentita, a sua volta limitata dalle possibilità dei nostri sensi e dalle categorie con cui la nostra cultura ci ha insegnato a decodificare e
classificare il mondo. È anche una stasi sul piano interno, è uno stato in cui la mente tace. “Mi siedo, respiro profondamente e sento esattamente dove
sono”, suggerisce in una intervista Arne Naess.
La contemplazione è uno stato ricettivo, di quiete esteriore e di silenzio interiore, in cui lo stato d’animo prevalente è la meraviglia, la capacità di
guardare il mondo con occhi sempre nuovi come se lo si vedesse per la prima volta. Porta con sé la capacità di sentire gratitudine, per tutti gli
innumerevoli piccoli e grandi miracoli della vita quotidiana che in uno stato di coscienza ordinario vengono ormai dati per scontati. Contemplazione
è aprirsi alla vita e alla sua meraviglia, capaci di coglierne la bellezza e di riconoscere il dono di cui siamo beneficiari ogni istante. Contemplazione
è affacciarsi al mondo da finestre più ampie di quelle del piccolo io ordinario in cui ci è stato insegnato a rinchiuderci. Contemplazione è una porta
verso il divino, direbbero i mistici antichi, è una porta verso il contatto con la dimensione dei valori, ideali, aneliti e intuizioni, traduce la
contemporanea psicologia transpersonale.
La natura è la palestra ideale per la contemplazione e al nostro sguardo miope, abituato a concentrarsi su dettagli quotidiani a portata di mano,
offre innumerevoli opportunità per approfondire l’osservazione: seguire, con mente sgombra, il movimento di un insetto su una pietra, abbandonarsi
al gioco dell’acqua in un piccolo ruscello, guardare l’orizzonte dalla cima di una montagna o l’immensità del cielo stellato in una notte limpida le
occasioni che il mondo naturale offre per una pausa contemplativa sono innumerevoli. Pochi minuti o diverse ore di seguito non importa, va bene
quello che si potrà fare e a cui ci si vorrà dedicare, ogni volta di nuovo. Il gioco di luci e ombre dei gerani sul davanzale, il fondersi in un unico
canto dei suoni in una foresta tropicale al tramonto, tanto quanto il canto degli uccelli in una periferia urbana, andranno altrettanto bene, perché è
imparando a cogliere le piccole cose che possiamo poi imparare ad apprezzare anche quelle grandi, e viceversa.
Sono innumerevoli i possibili percorsi personali che possono essere disegnati per portare verso una maggiore apertura nei confronti del mondo
esterno/interno; l’importante è provare e iniziare, ognuno a suo ritmo, a sviluppare questa capacità ricettiva e riflessiva, così importante per
manifestare appieno la nostra umanità.

Ecologia della psiche


L’esercizio dell’ascolto interno rafforza l’attenzione e le sensibilità nei confronti del mondo esterno e, viceversa, l’abitudine a cogliere sfumature e
atmosfere nel mondo esterno – nel paesaggio, nelle situazioni, negli altri – rende capaci di riconoscere più facilmente la ricchezza e la complessità
della propria natura interiore, della propria psiche.
Non a caso si parla di “natura” anche per il mondo interiore, perché nessuna metafora rende meglio l’idea di ciò che vive in noi quanto quella del
paesaggio. È un complesso guazzabuglio di sensazioni, emozioni e pensieri quello che caratterizza il nostro mondo interiore, che molti di noi non
hanno mai imparato a conoscere, semplicemente perché nella società contemporanea non esistono situazioni predisposte per insegnarci a farlo sin da
bambini. La capacità di autoascolto, attenzione interiore, dialogo interno, capacità di disidentificazione dal transitorio e identificazione con
l’essenziale, sono capacità che ognuno acquisisce più o meno casualmente da solo – chi più, chi meno – ma che possono invece essere stimolate ed
esercitate, come elemento base del percorso di crescita personale.
L’ecologia offre spunti concreti e immediati che possono essere usati a questo scopo. Come la qualità di un habitat dipende da un delicato e
complesso equilibrio dinamico tra i diversi elementi del paesaggio, di natura geologica, biologica, atmosferica ed energetica – suolo, flora, fauna,
meteorologia – così anche il nostro mondo psichico è composto da elementi di diversa natura e consistenza – impulsi, desideri, sensazioni, emozioni,
pensieri, immagini, intuizioni, aspirazioni, valori – e ognuno di noi è caratterizzato da diverse combinazioni di questi elementi, che danno forma alla
nostra unicità, proprio come i diversi ambienti sulla Terra nascono da diverse combinazioni degli stessi elementi di base.
Ognuno di noi è quindi un pianeta, simile a tutti gli altri nei suoi elementi di base, unico nella particolare combinazione degli stessi. Non solo,
questo pianeta interiore – chiamiamolo pianeta Io – è caratterizzato da una diversa geografia che include una molteplicità di habitat diversi, proprio
come il pianeta Terra.
Fanno parte del nostro mondo interiore vaste praterie dalle terre coltivabili, boschi più o meno impenetrabili, paludi insidiose, vette inesplorate,
abissi con antichi segreti e tesori, città industriose, villaggi isolati, giardini coltivati e wilderness sconfinate.
Come nei giochi di simulazione al computer, in cui il giocatore deve regolare i parametri di sviluppo di una città, di una nazione o di un intero
mondo, per trovare e mantenere l’equilibrio necessario allo svolgersi e al prosperare della vita, anche nella quotidianità ci viene chiesto di essere in
prima persona i custodi del nostro equilibrio.
Ma per poterlo fare adeguatamente, per poter quindi sviluppare un atteggiamento ecologico nei confronti del nostro mondo interiore e impostare
la nostra vita secondo principi sostenibili per il nostro ecosistema interno, dobbiamo prima imparare a conoscere chi siamo e come è fatto il nostro
mondo interiore.
La metafora geografica – che costruisce una cartografia della psiche usando una terminologia presa a prestito dall’ecologia – può diventare uno
dei modi per raggiungere questo obiettivo comune a vie di ricerca di tutti i tempi e di tutte le tradizioni.
È un lavoro lungo, non è un semplice esercizio questo, è lo spunto per una serie di esercizi che vanno composti e calibrati diversamente a seconda
del pubblico – bambini, adolescenti, adulti – del tempo a disposizione e dell’obiettivo che ci si pone. Può diventare un gioco fatto a scuola,
un’attività formativa abbinata ad attività creativa, quale disegno o danza, o un lavoro sistematico da compilare a poco a poco nell’ambito di un
percorso apposito, con la possibilità di essere seguiti individualmente e di condividere il proprio lavoro in un gruppo.
Come? Il “come” può prendere molte diverse forme.

L’atlante del pianeta Io


Questo esercizio prevede l’applicazione di diverse attività creative quali il movimento e il disegno, che offrono un mezzo di espressione adeguato al
linguaggio del corpo e delle emozioni. È da considerarsi una base da arricchire, intrecciare, modificare in base all’esperienza e alla creatività di
ogni singolo operatore.

Definire insieme i diversi tipi di habitat esistenti sulla Terra o, in generale, su un pianeta (habitat naturali e creati dall’opera dell’uomo: boschi,
foreste tropicali, montagne, pianure, deserti, stagni, laghi, mari, oceani, caverne, villaggi, città, dighe, discariche, centrali elettriche).
Esprimere un commento a ogni singola voce: scrivere il proprio atteggiamento e/o gradimento nei confronti di ognuno dei singoli habitat.
Realizzare per ognuno di questi habitat un disegno, che farà parte di una scheda dell’atlante che verrà composto a lavoro ultimato.
Abbinare a ogni disegno e commento dei singoli habitat un ricordo, uno stato d’animo, un’emozione, una sensazione particolari.
A lavoro ultimato chiedersi se ci si sente rappresentati nella propria interezza o se ci sono aspetti di sé che sono rimasti non rappresentati. Nel
qual caso, cercare un habitat corrispondente (anche se non è nella lista originaria) e creare una scheda corrispondente (quando possibile, disegno
incluso).
Raccogliere tutte le schede in un unico atlante e compilare un testo di presentazione del pianeta nel suo insieme citando i suoi diversi paesaggi.

L’obiettivo di questo lavoro è quello di volgere l’attenzione verso l’interno e di esercitare la capacità di disidentificazione necessaria a
riconoscere in sé atteggiamenti, sensazioni, emozioni. L’esercizio va condotto nella massima libertà e giocosità possibile. Punto d’arrivo importante
è la stesura del testo finale di presentazione del pianeta Io, che rappresenta una occasione per parlare di sé riconoscendo e valorizzando molte
caratteristiche personali.
Anche se si presterebbe facilmente a tale uso, l’esercizio non va inteso in chiave interpretativa, ma come esercitazione di interiorizzazione
dell’attenzione e di autoconoscenza, da leggere in chiave dinamica come eventuale punto di partenza per l’elaborazione di strategie concrete per il
corretto funzionamento e benessere del proprio ecosistema interiore.

Natura selvatica e natura coltivata


Una riflessione interessante che si può fare per avvicinarsi a una più ampia comprensione di se stessi è quella guidata dall’osservazione delle
diverse modalità con cui si manifesta un ambiente naturale al suo stato selvatico e al suo stato coltivato. Per esempio una foresta vergine e un
giardino, nei suoi diversi stadi di interazione con la mano e la volontà dell’uomo, sino ai casi estremi dei giardini alla francese o dei bonsai
giapponesi.
Anche questo è solo uno spunto a partire dal quale creare esercizi.
Discutere delle diverse sensazioni che si provano davanti alla natura selvaggia (ad alcuni ispira passione ed entusiasmo, ad altri timore o
repulsione) rispetto a quella coltivata (che alcuni apprezzano e altri trovano sgradevole), vuol dire parlare di sé, dell’eros e del logos. Vuol dire
confrontarsi con la propria componente più istintuale – nei suoi diversi aspetti che oscillano dalla gioia di vivere a una potenziale distruttività – e
con quella più modellata dall’educazione, alla ricerca di un equilibrio ottimale, nel pianeta Io, tra spontaneità e modellamento, che non è solo
repressione, è anche apprendimento e quindi affinamento di capacità, di abilità, di potenzialità.
Anche qui non c’è una meta da raggiungere, un risultato a cui dover arrivare o portare il proprio pubblico, c’è l’invito alla riflessione: “La fauna
selvaggia e le donne selvagge sono specie a rischio” scrive Clarissa Pinkola Estés166 e Claudio Risé sottotitola il suo libro Ritrovare la forza
dell’istinto rimosso dalle buone maniere.167
Senza voler essere, quindi, un invito a mettere da parte tutta l’educazione ricevuta per far vivere il selvaggio che c’è in noi, questa riflessione ed
eventualmente queste letture, vogliono fare da guida nel recuperare una più ampia consapevolezza della nostra natura umana e individuale che
include anche aspetti antichi, profondi e ancestrali che vanno riconosciuti e in qualche modo onorati ed espressi nella nostra vita quotidiana.
Scopriamo così quale forza e vitalità può giungere dal reintegrare nel proprio quotidiano la dimensione selvatica, quella interiore, ritrovando e
valorizzando il proprio istinto, e quella esteriore recuperando la capacità di apprezzare e frequentare la wilderness.

Parallelismi d’identità
Chi lavora nell’ambito della psicologia e della crescita personale sa quanto sia più facile parlare di sé attraverso immagini e simboli, per cui
inventando una storia, per esempio, si dà voce – quasi senza accorgersene – a un vissuto interiore. E lo stesso avviene con i giochi di
rispecchiamento, in cui in un’immagine ognuno vede riflesso qualche cosa che fa parte di sé, più che dell’immagine stessa. Questo gioco funziona
secondo lo stesso principio e permette di cogliere alcune brillanti intuizioni su di sé.
Le domande possono essere presentate su un foglio prestampato, scritte alla lavagna o semplicemente dettate. Ogni risposta va dettagliata con le
motivazioni che hanno portato a quella scelta.
Come ultima cosa, può essere proposto di fare un disegno, ispirato a una o a tutte le voci.

Quale stagione mi rappresenta meglio e perché?


Quale mese?
Quale momento del giorno?
Quale animale?
Quale aspetto del paesaggio?
Quale condizione meteorologica?
Quale di questi mi rappresenta di più?

Se il lavoro è stato proposto a un gruppo, segue un giro di condivisione. La condivisione è sempre un momento importante nei lavori di gruppo. È
importante che siano chiare alcune regole di base di comunicazione: non si interrompe chi parla, non si giudica, non si interpreta e ognuno si assume
la responsabilità del proprio sentire. Non è un’occasione per far vedere quanto si è bravi e neppure che si è fatto bene il compito, è un momento per
esternare una riflessione su di sé che prima è avvenuta solo interiormente, per vedersi da un diverso punto di vista e per cogliere così aspetti che
prima erano sfuggiti. Occasionalmente, gli altri possono fare da specchio riportando la loro lettura del disegno piuttosto che del vissuto esposto, non
come interpretazione, ma come espressione del proprio vissuto e riflessione personale, che può offrire spunti di riflessione in più a chi sta
condividendo.168

Diventare natura
La visualizzazione è uno strumento potente di lavoro su noi stessi. Ciò che vediamo con gli occhi della mente ha su di noi un effetto simile – dal
punto di vista fisico, ma soprattutto emotivo – di quello che vediamo e viviamo realmente. Possiamo così abituarci a coltivare spazi interiori di
silenzio, bellezza e armonia per ritrovare queste stesse sensazioni anche nella vita quotidiana.
Ecco una visualizzazione guidata in cui la natura fa da maestra, ispirandosi a questo, possono essere costruiti innumerevoli altri esercizi di
identificazione con diversi aspetti del mondo naturale.
Ritagliati un momento della giornata in cui puoi rilassarti senza essere disturbato.
Mettiti comodo in una stanza in penombra, con una musica tranquilla di sottofondo. Chiudi gli occhi e ascolta.
Incomincia a respirare molto lentamente e profondamente e porta l’attenzione al tuo corpo, senti i vestiti che toccano la pelle e la sensazione di
calore che il contatto ti procura, senti l’appoggio del corpo in contatto con lo schienale e percepisci i tuoi muscoli che a ogni respiro sono sempre
più rilassati.
Ascolta il suono del respiro che entra dalle narici e segui con l’immaginazione, il cammino fino ai polmoni, visualizza le piccole bollicine
dell’aria cariche di ossigeno di colore azzurro, che entrano nel tuo corpo purificandolo. In questo stato di profondo rilassamento, immagina di essere
un seme coperto dalla terra, protetto dal suo caldo e umido abbraccio da cui ricavi il tuo nutrimento, poi, piano, piano, cresci e diventa una
pianticella, esci allo scoperto e senti il calore dei raggi del sole sui tuoi ramoscelli.
E mentre le tue radici affondano nella terra calda e umida, cresci ancora e distendi i tuoi rami come lunghe braccia, e il vento soffia tra le tue
foglie. Arriva la pioggia che ti bagna e senti scendere le gocce d’acqua sul tuo tronco e sulle tue foglie, e poi arrivare alle tue radici e nutrire la tua
linfa vitale.
Poi di nuovo il sole, che riscalda la tua pelle, asciuga le foglie della tua chioma, che adesso brilla sotto i suoi raggi. Intorno a te ascolti il canto
degli uccelli che hanno nidificato tra i tuoi rami e vedi lo scorrere della notte, e poi l’alba di un nuovo giorno, poi la primavera e l’estate, l’autunno
e infine l’inverno, e senti il freddo della neve caduta sulla tua chioma e sui tuoi rami.
Poi di nuovo la primavera, e al tuo fianco vedi spuntare una piccola pianticella, ed è la vita che ritorna e si perpetua, infinitamente per opera tua e
del vento, dell’acqua e del sole. Quella piccola pianta è frutto del tuo seme, accolto da Madre Terra, curato e protetto con amore. Dopo, lentamente,
riapri gli occhi e ritorni alla realtà cosciente, rilassato e sereno.169

164 Centratura elaborata a partire dall’esercizio di disidentificazione a autoidentificazione di Roberto Assagioli, da Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, Astrolabio, Roma, 1973.
165 James Lovelock, Manuale di medicina Planetaria, Zanichelli, Bologna, 1992.
166 Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano, 1993.
167 Claudio Risé, Il maschio selvatico, Red edizioni, Como, 1998.
168 Esercizio tratto e rielaborato da The Healing Earth, di Philip Sutton Chard.
169 Esercizio tratto – per gentile concessione dell’autore – da Il Tao della comunicazione, di Paolo Basco.
Capitolo 10

ECOPSICOLOGIA PER LA COSCIENZA AMBIENTALE

“Solamente l’andar da soli, nel silenzio, senza bagaglio, permette davvero di entrare nella natura selvaggia.
Tutti gli altri viaggi non sono altro che polvere, hotel, bagagli e chiacchiere.”
John Muir

La crescita personale con la natura segue due moti opposti e complementari. È vero che attraverso la natura possiamo conoscere meglio noi stessi,
ma è anche vero che solo se ci esercitiamo a fare un po’ di silenzio dentro di noi possiamo volgere davvero la nostra attenzione verso l’esterno.
Quindi imparando ad aprirci all’esterno impariamo a esercitare quelle qualità di ascolto, empatia, rispetto e dialogo che saranno poi così utili
nell’incontro con gli altri e, ancora una volta, nel rapporto con noi stessi. La natura diventa ancora maestra e ci rivela che del mondo in cui viviamo,
spesso, conosciamo ben poco.
In un sondaggio fatto tra adolescenti è stato visto che i ragazzi sanno nominare dieci marchi commerciali di successo con maggiore facilità di
altrettante specie di animali selvatici o alberi diffusi nei paraggi delle loro case. Nelle uscite fuori porta, quando non sono accompagnate da una
adeguata preparazione data dalla famiglia, dalla scuola, da programmi scoutistici o da sensibilità personale, la natura diventa spesso solo un
sottofondo, un palcoscenico in cui si consumano le stesse attività e dinamiche che normalmente si svolgono tra quattro mura: un pic-nic, una partita a
calcio, una chiacchierata, una telefonata. La cultura dell’incontro e del dialogo con la natura, nella nostra società urbanizzata, è andata persa e va
ricostruita persona per persona, per far ritrovare il senso del proprio “essere insieme a”, per porre le basi di una coscienza ambientale non imposta,
ma sentita.
L’ecopsicologia si pone l’obiettivo di rinsaldare quel legame emotivo e spirituale che esiste tra ogni essere umano e l’ambiente naturale, che
attualmente è dimenticato e poco coltivato. L’ecopsicologia propone esercizi ed atteggiamenti che allargano il campo d’azione dell’educazione
ambientale da un ambito solo didattico e culturale, a uno esperienziale – come sta già sta avvenendo – e a uno anche emotivo. “Non dobbiamo dare
solo conoscenza teorica, ma generare un senso di responsabilità. Quindi è necessario creare una connessione emotiva tra bambini e natura; attraverso
il contatto possono amare la natura e allora diventano cittadini responsabili.”170 Baba Dioum, ingegnere forestale senegalese, così esprime lo stesso
concetto: “Alla fine, non conserveremo altro che quello che amiamo, e non ameremo altro che le cose che comprendiamo, e non comprenderemo
altro che le cose che amiamo imparato a conoscere”.
Come cominciare? Charles Cook, animatore ambientale da più di vent’anni e presidente di Wild Earth Adventures, negli Stati Uniti, a chi non ha
dimestichezza alcuna con l’ambiente naturale, suggerisce di cominciare a ridurre le distanze psicologiche prima ancora di intraprendere una uscita
sul campo. La preparazione può consistere in un approccio cognitivo, quello dominante nella cultura contemporanea, quindi cominciando a leggere,
studiare, visitare giardini botanici, acquari, musei di scienza naturale, oppure guardando film o ascoltando CD di suoni naturali o musiche costruite
con i suoni della natura. Un primo passo è quello di interessarsi proprio a flora e fauna del luogo in cui si vive, senza disprezzare il fatto di sedersi
per terra per osservare più da vicino anche gli abitanti più piccoli del proprio giardino o parco più vicino. Ma questo non è che l’inizio, perché
l’invito di Cook è esplicito: “Uscite! Non importa quale siano le condizioni meteorologiche. Non lasciate che il brutto tempo diventi un ostacolo,
vestitevi in maniera adeguata e uscite!”.171
Il lavoro da fare, comunque, è anche con chi all’aperto magari ci va di frequente, ma non ha mai avuto l’occasione di creare un rapporto Io-Tu con
l’ambiente naturale e vuole sviluppare questa maggiore sensibilità.
Questi esercizi si propongono come aiuto in questo percorso di riavvicinamento a tutto tondo con la natura. Si svolgono all’aperto e vanno
opportunamente inseriti in un contesto ed eventualmente adattati alle circostanze. Come per ogni tipo di esercizio in qualsivoglia ambito, si consiglia
a chi vuole proporli ad altri o a un gruppo, di sperimentarli precedentemente in prima persona.

Camminata green mindfulness


Prima di intraprendere una passeggiata in cui si vuole aprirsi a una più ampia percezione dell’ambiente, è possibile fare una breve centratura prima
di iniziare e mantenere lungo il percorso lo stato di attenzione vigile raggiunto. È sufficiente fermarsi un attimo, prima di cominciare a camminare e,
a occhi chiusi, ripercorrere gli eventi delle ultime ore, a ritroso, sino a recuperare una completa attenzione all’istante presente. L’attenzione andrà
poi focalizzata su tutti gli stimoli sensoriali esterni percepiti a occhi chiusi – suoni, profumi, temperatura dell’aria – e poi su quelli interni: messaggi
del corpo, stato d’animo, pensieri, eventualmente seguendo lo schema descritto nel capitolo precedente.172
Questa preparazione acutizza enormemente l’attenzione e permette, una volta riaperti gli occhi, di intraprendere la passeggiata con un
atteggiamento di grande presenza e ricettività. L’andatura subisce spontaneamente un rallentamento e lo spostamento diventa così anche più
silenzioso. L’attenzione è diretta alle diverse percezioni date dai sensi e ogni qualvolta ci si accorge che il cicaleccio della mente ha ripreso, si può
riportare dolcemente l’attenzione all’esterno. Ci si guarda intorno come se si vedesse il paesaggio circostante per la prima volta e, probabilmente,
dando tutta quell’attenzione ai particolari, sarà davvero una prima volta!
Quanto tempo? Fino a quando l’esperienza sarà gradevole. Dieci, venti minuti al minimo, se possibile. Non c’è un massimo. I maestri zen si
propongono di sviluppare questo atteggiamento in ogni singolo istante dell’esistenza, non ci sono quindi controindicazioni.

Risonanze
Gli spazi aperti hanno sul nostro apparato sensoriale un impatto ben diverso dagli spazi chiusi in cui oggi passiamo la maggior parte del nostro
tempo. Con l’orizzonte davanti e le nuvole in cielo, il nostro sguardo spazia nelle distanze immense e si nutre di mille colori, con una netta
prevalenza di verde e di azzurro. I suoni sono più vari e delicati di quelli a cui ci abitua il traffico cittadino o una dipendenza da musica ad alto
volume, e così anche gli odori e i sapori, se mai volessimo prenderci la briga – e perché no? – di assaggiare erbe e fiori, anche solo per la curiosità
di sapere che sapore hanno. Le sensazioni tattili, se ci permettiamo di accarezzare cortecce, rocce, foglie e piccoli o grandi animali, sono altrettanto
varie e a volte sorprendenti.
Tutti questi stimoli diversi attivano, anche a livello neuronale, parti diverse del cervello, predisponendoci in modo diverso nei confronti
dell’esperienza stessa e del nostro sentire. Non a caso si dice che una passeggiata schiarisce le idee. In cromoterapia il verde e l’azzurro – colori
centrali nella banda cromatica della luce visibile – hanno proprietà rilassanti e il tempo passato in un bosco ha tutte le proprietà di un bagno di luce
verde tonificante.
Il primo incontro con la natura è quindi sensoriale e l’invito è quello di guardarsi intorno non con l’obiettivo di dare un nome, un genere e una
famiglia ad alberi fiori o insetti, ma è quello di giocare con i sensi e l’immaginazione. Si tratta di spaziare con lo sguardo e con attenzione su tutti gli
stimoli offerti, identificando ciò da cui ci si sente più attratti e incuriositi: suoni, forme, colori, texture, profumi o sapori. L’unica domanda è: “Come
risuona in me, questo?”, che effetto mi fanno un’ombra, un tronco ricoperto di muschio, un ruscello, il canto di un uccello di cui non so il nome, la
processione di tanti animaletti piccoli e buffi sullo stelo di una pianta?
È un gioco di osservazione e di risonanze, è un invito all’attenzione senza il vincolo di rinchiudere ogni osservazione in un nome latino o giù di lì,
ma sentendosi liberi di giocare con quanto si vede, si sente, si prova. È un invito a guardare la natura non solo con gli occhi della mente, ma anche
con quelli del cuore e della fantasia.

Percorso sensoriale
Per risvegliare l’attenzione verso l’ambiente naturale non c’è nulla di meglio che potenziare quei sensi che normalmente vengono messi in secondo
piano nella vita quotidiana moderna: udito, tatto, odorato e gusto. Questo esercizio va svolto come minimo in due ed è adatto a un lavoro di gruppo.
Si tratta di intraprendere una passeggiata a coppie su un sentiero abbastanza piano in cui uno dei due partecipanti è bendato e l’altro funge da
guida, garante della sicurezza e della qualità sensoriale del percorso. Il compito della guida è quello di far avvicinare il compagno a fiori profumati,
tronchi dalla superficie particolarmente interessante, pareti di muschio morbido, sassi, corsi d’acqua e così via, rendendogli stimolante il percorso
e, allo stesso tempo, proteggendolo da possibili ostacoli.
Il tutto avviene senza parlare e con un contatto minimo: dandosi la mano, oppure semplicemente tenendo le estremità di un unico bastoncino,
oppure con la sola vicinanza, se c’è la sicurezza necessaria. Dopo dieci minuti di percorso, si invertono i ruoli.
La condivisione finale, al termine del percorso per entrambi i partecipanti, potrà vertere su due aspetti diversi: da una parte la qualità e
l’ampiezza delle percezione sensoriale, una volta che la vista viene messa momentaneamente da parte, e dall’altra l’effetto che fa sia affidarsi alla
guida di un’altra persona, sia avere la responsabilità di guidare qualcuno.

La finestra sul prato


Una volta saziati e affinati i sensi sui vasti spazi, è fondamentale focalizzarsi su dimensioni più piccole, così piccole che spesso vengono trascurate e
ignorate, come se non contenessero meraviglie tali da destare la curiosità e l’interesse anche del più apatico degli osservatori. Dopo un momento di
centratura, che aiuti a rallentare il corso dei pensieri e predisponga a una attività di tipo più contemplativo, delimitare con l’aiuto di quattro
bastoncini un’area di approssimativamente 20 × 20 centimetri in un prato e predisporsi all’osservazione in una posizione comoda.
Si porranno gli occhi forse per la prima volta sul mondo degli insetti e di tutte quelle piccole cose che strisciano, saltano, zampettano, volano in
un’area di 20 centimetri. Eppure gli insetti, in quanto a originalità, bellezza, agilità e a volte anche combattività non hanno nulla da invidiare a tigri,
leoni e altri animali orgogliosamente – e crudelmente – esibiti in circhi o zoo. Non a caso i film di fantascienza e i cartoni animati attingono a piene
mani dalla fisionomia degli insetti per disegnare e concepire i protagonisti delle loro avventure. Vale la pena mettere da parte i pregiudizi
sull’insignificanza di quei piccoli esseri – che, peraltro, sono spesso elementi fondamentali per un corretto funzionamento dell’ecosistema – e
predisporsi all’avventura di una osservazione ravvicinata con la stessa attenzione e aspettativa con cui ci si predisporrebbe a osservare animali
selvatici più grandi nel loro ambiente.

Grillo in mongolfiera
L’esercizio precedente è una preparazione per uscire dai limiti di una percezione ordinaria del mondo circostante. Don Juan insegnava a Castaneda a
dare un significato e un nome alle sagome che vedeva formarsi tra le nuvole e a guardare un paesaggio roccioso come se le ombre fossero cavità e le
cavità semplici ombre. Quale l’obiettivo, quale l’importanza di una simile tipologia di esercizi?
É quello di scuotere la fissità con cui percepiamo il mondo circostante, di allenare a una maggiore flessibilità nell’interpretazione del reale senza
farsi ingabbiare dall’abitudine, vedendo le cose solo in un modo e sempre nello stesso. Lo sciamano sa molto bene che la realtà non è che
un’illusione e che siamo noi che diamo consistenza alla realtà in base alla percezione che ne abbiamo e alla lettura che di tale percezione diamo.
L’ecotuner e l’ecopsicologo riprendono gli esercizi dell’anziano maestro yaqui e li ripropongono con la stessa finalità: allargare gli orizzonti
percettivi sul reale.
Anche qui, dopo una adeguata preparazione che predisponga all’attivazione di entrambi gli emisferi del cervello, come la centratura, l’invito è
quello di trovare un punto del paesaggio circostante da cui ci sentiamo attratti: una pietra particolare, una cavità in un tronco, un rigagnolo, un
cumulo di sassolini, il folto di un cespuglio, un tallo di licheni; un piccolo ambiente ben definito davanti al quale ci predisponiamo in osservazione
come se noi avessimo le dimensioni di un grillo o di una formica e stessimo studiando dall’alto la zona per farci un’idea del paesaggio. Ogni
pietruzza diventa un macigno, ogni ago di pino un tronco immenso, ogni piega del suolo una catena montuosa, ogni insetto un dinosauro, ogni ciuffo
d’erba una foresta.
L’importante non è eseguire l’esercizio alla lettera, ma sperimentare questa ginnastica della mente. Cambiare il punto di vista, cambiare il
presupposto da cui si osserva, apre a immense scoperte e arricchisce la propria flessibilità percettiva, fornisce cioè la capacità di trascendere i
limiti di una lettura convenzionale della realtà per aprirsi a punti di vista prima ignorati: una componente importante della resilienza.

Il ciclo della vita


Cosa distingue la materia animata da quella inanimata? Quale segreto racchiude in sé un seme e cosa lo distingue da un ciottolo di vetro delle stesse
dimensioni e colore? Non è solo con gli occhi che possiamo e dobbiamo avvicinarci al mondo naturale, ma anche con un senso in più, capace di
cogliere ciò che c’è anche se non si vede. È una sensibilità che sfocia nella sensitività quella che possiamo sviluppare per comprendere meglio il
mondo di cui facciamo parte.
Proviamo proprio con un seme. Predisponiamoci all’osservazione attenta, notandone prima di tutto le caratteristiche fisiche: la forma, le
dimensioni, il colore, la consistenza, la texture, il peso. Continuiamo l’osservazione includendo la riflessione su ciò che il seme racchiude in sé,
sulla possibilità che ha di germogliare e dare vita a una pianta; aiutiamoci con l’immaginazione a visualizzare ciò che diventerà, con il contributo
delle forze della terra e le forze del cielo, la materia umida e l’energia luminosa. Nel fare questo esercizio, concentriamoci sulla sensazione che
proviamo davanti a questo seme che racchiude in sé la promessa di qualche cosa che ancora non è visibile, ma che pure è parte integrante di quanto
stiamo osservando; notiamo come si manifesta la percezione che ciò che abbiamo davanti a noi non è semplicemente un corpo inanimato, ma un
essere vivente in divenire.
Ripetiamo l’osservazione con un germoglio, focalizzando anche qui l’attenzione prima sull’aspetto esteriore e poi sulla qualità di presenza
specifica di quell’essere nella fase propulsiva del suo ciclo vitale. Facendo attenzione, anche questa volta, alla risonanza emotiva che si genera
dentro di noi.
Terza tappa di questo esercizio è l’osservazione di una pianta, una piccola pianta di prato, al suo completo sviluppo e al massimo della vitalità ed
espressione. Anche qui, aiutandoci con la riflessione e l’immaginazione, prima ammiriamo la sua pienezza e il suo rigoglio, i suoi fiori e i suoi frutti.
E poi, portiamo l’attenzione al fatto che tra non molto inizierà anche per lei un processo di trasformazione. Appassirà, si ripiegherà su se stessa e
infine si decomporrà nella terra. Ma, pur destinata alla scomparsa, questa pianta lascia dietro di sé dei semi che perpetueranno lo stesso ciclo di
vita. Anche nel guardare una pianta adulta posso imparare e vedere qualche cosa che c’è ma non si vede con gli occhi.
L’ultima tappa di questa pratica è l’osservazione di materiale organico in decomposizione: tronchi sfatti nel sottobosco, foglie ormai prossime
alla macerazione, un cumulo di composto. Anche qui, dopo l’osservazione di ciò che si vede, vale la pena soffermarsi sulla risonanza emotiva e
sulla qualità di presenza di quanto si osserva per assaporare la diversa sfumatura dell’energia vitale in queste due diverse fasi opposte e
complementari; nascita e morte sono come due facce di una unica medaglia, due fasi diverse nel processo della vita. L’immaginazione, infatti,
permette di andare oltre a quanto si vede e la riflessione ricorda che proprio da quella materia informe prenderà avvio una nuova vita.

Alter ego naturale


Attraverso l’immagine e il simbolo si riesce sempre a cogliere e a raccontare di sé molto più di quanto si riesce a fare a freddo, in un discorso
logicamente concatenato. Se siamo in un momento di scarsa presenza a noi stessi e vogliamo riattivare un dialogo autentico con quanto stiamo
effettivamente provando, oppure stiamo conducendo un’esperienza di gruppo e vogliamo offrire alle persone una singolare occasione di presentarsi
all’inizio del lavoro, o di salutarsi alla sua conclusione, questo esercizio può fornire uno spunto di lavoro interessante.
L’indicazione è quella di prendersi un tempo per vagare senza meta nel paesaggio – parco, giardino, prato, bosco – lasciandosi chiamare e
dirigendosi verso quelle direzioni o punti che si sentono come maggiormente attraenti. Si dovrà poi notare verso quale elemento del paesaggio
circostante ci si sente più in sintonia oppure con cui si è più portati a identificarsi in quel momento. Se si tratta di qualche cosa di piccolo e di
facilmente trasportabile lo si porterà con sé, se è qualche cosa di grande o di più astratto – una nuvola, una montagna, un albero – basterà prendere
qualche cosa che lo rappresenti simbolicamente. A questo punto si parlerà di sé facendo parlare l’oggetto raccolto oppure riflettendo su tutti i
possibili collegamenti tra sé e quanto scelto, su tutte le possibili associazioni che collegano quell’oggetto alla nostra vita o situazione personale.
Nelle condivisioni a due, in caso di lavoro in gruppo, vale sempre la regola che quando uno parla, l’altro funge solo da testimone, non interrompe,
non interpreta, non giudica. Solo dopo la condivisione di entrambi, relativamente al proprio vissuto, ci si potrà offrire reciprocamente ulteriori
spunti di riflessione o di osservazione relativi a quanto espresso.

Incontro con l’albero


È sorprendente quanto poco siamo abituati a camminare in un ambiente naturale con la consapevolezza che stiamo procedendo in un luogo vivo,
abitato da mille creature diverse da noi, ma non per questo meno vive, degne di attenzione e rispetto. Entrare in un bosco, o in un parco, con questa
predisposizione mentale cambia completamente il modo di percepire l’ambiente circostante. Proviamo con gli alberi, gli interlocutori più facili da
raggiungere. Proponiamoci di guardare gli alberi come esseri viventi, di cui conosciamo ben poco, peraltro, e guardiamoli come se li vedessimo per
la prima volta nella nostra vita. Usiamo la mente e la riflessione per chiederci come deve essere vivere tutta la propria esistenza sempre ancorati a
uno stesso posto, chiediamoci come deve essere per loro il duplice impegno di affondare le radici nella terra e di innalzare i rami verso il cielo,
chiediamoci come deve essere albergare nidi di volatili, tane di roditori, invasioni di insetti. Ma abbandoniamo, poi, questo approccio solo mentale
e avviciniamoci a un albero che, più di altri, ci chiama. Avviciniamoci con la discrezione e la riverenza dovuta a un essere diverso da noi di cui
sappiamo poco e che decide di condividere con noi un momento del suo tempo. Avviciniamoci ed entriamo in relazione con l’albero.
Come? Ognuno di noi può trovare il suo modo. Attraverso il tatto, appoggiando le mani o la schiena sul tronco, attraverso la contemplazione delle
forme e dei colori, con le parole, entrando in dialogo diretto, sussurrato, cantato o gridato, o semplicemente pensato, con l’intenzione dell’incontro e
l’apertura a ciò che emerge. I modi per mettersi in relazione con il mondo vegetale sono molto personali, vanno scoperti, praticati e affinati.
Questo è un esercizio completo di per sé. Alcuni hanno già questa abitudine, acquisita spontaneamente, ma per altri potrà essere una vera e
propria rivelazione. In un momento successivo potrà essere aggiunto uno spunto ulteriore, quello di ascoltare l’albero, prima di tutto, cercando di
sintonizzarsi su un suo impalpabile sentire. Poi sarà possibile chiedere all’albero che cosa ci offre, e infine che cosa ci chiede.
Non ha senso, in questa occasione, perdere tempo a disquisire se stiamo sempre parlando con proiezioni fatte da noi stessi o se veramente
abbiamo toccato con la nostra sensibilità un essere altro da noi. In una certa misura, e in proporzioni variabili, entrambe le verità coesistono, ma al
fine di una pratica di ecopsicologia non è rilevante tracciare il confine. Ascolto e rispetto rimangono le qualità fondamentali da sviluppare, sia nei
confronti di sé che nei confronti degli altri.
È utile, in questo come in altri esercizi di questo tipo, tenere un diario in cui annotare, senza dimenticare la data, riflessioni e dialoghi con la
natura.

Il luogo di potere
Entrare in modo più consapevole nella natura vuol dire fare attenzione contemporaneamente a quanto avviene fuori e quanto avviene dentro di noi.
Vuol dire essere presenti a come ci sentiamo nelle diverse tappe del nostro tragitto e saper riconoscere quei punti nei quali ci stiamo meglio e ci
possiamo ricaricare di energia e in quali, invece, non ci fa bene sostare a lungo. Ricaricarsi di energia non vuole necessariamente dire mettere in
circolazione adrenalina, ma vuol dire raggiungere più facilmente uno stato di maggior centralità e lucidità. È ancora Don Juan che chiarisce questo
concetto nell’insegnamento offerto a Castaneda: il sitio, il luogo di potere, non è quello in cui ti senti più energetico, ma quello da cui non ti vuoi più
muovere, perché stai bene lì. La voglia di muoversi è spesso solo un tentativo del corpo di spostarsi altrove.173 Cercare il proprio luogo di potere
vuol dire esercitarsi a cogliere quei punti del paesaggio che ci sono più benefici di altri e che possiamo usare come rifugi, santuari o semplicemente
luoghi di riposo o meditazione.
Se parlare con gli alberi può destare in qualcuno perplessità e un sorrisetto malizioso, la ricerca del luogo di potere trova le sue basi nella
geobiologia, che studia l’interazione tra organismi viventi e natura del terreno: radioattività naturale, faglie geologiche, falda acquifera, campo
magnetico. Esistono punti in cui la combinazione di questi diversi elementi è favorevole al rilassamento e alla ricarica, mentre altri inducono alla
disarmonia e accentuano il malessere. L’essere umano ha potenzialmente la sensibilità necessaria per fungere egli stesso da antenna e rilevare la
qualità energetica di un singolo luogo, ma se questa sensibilità non viene opportunamente esercitata, si manifesta solo nelle persone più sensibili,
come i rabdomanti, che sanno istintivamente rilevare un corso d’acqua forse proprio a partire dalle deformazioni che questo imprime al campo
elettromagnetico di una zona.
Aprirsi alla consapevolezza che il paesaggio è molto più di quanto gli occhi soltanto ci rivelano, come abbiamo già visto, è parte integrante di un
percorso di ecopsicologia, è una preparazione a una visione del mondo più vasta e anche più scientifica, dato che è proprio la scienza con tutti i suoi
progressi che ci sta aprendo alla consapevolezza dell’esistenza di energie invisibili all’occhio umano ma non per questo meno attive. Basta pensare
all’elettricità, ai raggi X, alle onde radio, ai messaggi telefonici via etere… oggi non si può più dire che se qualche cosa non si vede non esiste.
Spiriti di natura
Che dire allora di fate, gnomi, elfi e folletti? Di quelle misteriose, inafferrabili presenze che tradizioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi vedono
animare la natura e partecipare alle sue manifestazioni? Esistono davvero? Il tema è affascinante e merita sicuramente una riflessione personale o
una discussione e condivisione in gruppo, anche solo per condividere idee e sensazioni riguardo un tema che, finché l’essere umano ha vissuto a
stretto contatto con la natura, ha colpito la sua fantasia.
Il piccolo popolo – nella leggenda – è figlio della Terra, tale e quale a noi, ma vive in una dimensione nascosta, più sottile, invisibile ai sensi. Si
narra che quando Eva stava lavando i suoi figli al fiume, Dio arrivò da lei inaspettatamente chiedendole di vederli. Vergognandosi di mostrare quelli
che ancora non aveva lavato, Eva non li presentò tutti, e quelli che tenne nascosti in quella occasione rimasero sempre nascosti agli occhi degli altri.
L’immaginario collettivo di tutta l’umanità si è sbizzarrito nel dare originale forma, carattere, abbigliamento, usanze a una folta schiera di
spiritelli, genietti, eteree fatine, ammalianti nereidi, saggi coboldi, che hanno ovunque accompagnato la vita dell’uomo nelle diverse fasi del suo
lavoro con la terra, incarnando timori e speranze, propri di quei tempi e di quelle culture. Attraverso queste figure, di fatto, è stato sancito un patto di
amicizia e di silenziosa alleanza con questo regno nascosto dai cui capricci dipendeva il successo di un raccolto o la conservazione del formaggio,
dalla cui presenza l’uomo si è sentito rassicurato in un mondo che a quei tempi sarebbe stato troppo vasto e spaventoso. Birbanti e dispettosi in
alcune tradizioni, benefici e dispensatori di gaiezza e benessere in altre, magici e misteriosi in alcune occasioni, capricciosi e prepotenti in altre.
Comunque vengano visti, sono la personificazione di una percezione che abbraccia il mondo accogliendone anche quegli aspetti che l’occhio e la
ragione non riescono a spiegare e catalogare.
Chiedere se esistono sarebbe come chiedere se i protagonisti delle tragedie greche esistono davvero. Come negarlo, dal momento che non
rappresentano altro che impulsi ed emozioni che fanno parte della natura umana così come il piccolo popolo rappresenta forze ed energie della
natura a cui ogni diversa cultura ha dato un nome e un aspetto diverso?
Fate, gnomi, elfi e folletti diventano così il pretesto per un incontro e un dialogo con la natura, diventano simbolo di una disponibilità ad aprire il
cuore, oltre che la mente, a una visione più ampia della realtà, che non esclude la sfera onirica, immaginativa e anche magica e poetica della realtà.
Cosa, questo, ha a che fare con l’ecopsicologia? “Comunicare davvero con gli angeli e le fate richiede un approccio globale alla vita, sia la
nostra sia quella altrui” scrive Dorothy Maclean,174 una delle fondatrici della mitica Findhorn, una comunità sorta sessant’anni fa che ha trasformato
una spiaggia sassosa nel nord della Scozia in un rigoglioso giardino, grazie alla collaborazione con gli spiriti di natura. Accettare l’esistenza del
piccolo popolo vuol dire prendere in considerazione l’idea che le forze vitali attive nella natura, responsabili di tutti i processi relativi alla vita
delle piante, delle rocce, delle acque e dell’aria, abbiano una loro dignità di “essere altro” e siano parte di un pianeta intelligente in cui l’ultimo
nato, l’essere umano, sta cominciando a chiedersi soltanto ora quale può essere il suo ruolo.

170 Fritjof Capra, intervento al WEEC, Terzo congresso mondiale dell’educazione ambientale, Torino, 2-6 ottobre 2005.
171 Charles Cook, Awakening to nature. Renewing your life by connecting with the natural world, Contemporary Books, New York, 2001.
172 Ascoltare dentro per sentire fuori.
173 Carlos Castaneda, A scuola dallo stregone, Astrolabio, Roma, 1970, p. 29.
174 Dorothy Maclean, Spiriti di natura, Mediterranee, Roma, 1996.
Capitolo 11

ECOPSICOLOGIA PER LA CITTADINANZA TERRESTRE

“L’andare in natura, lo stupirsi dinanzi ad essa non è solo evadere dalla realtà artefatta delle città. È anche riconoscere la più vasta complessità del creato, è scorgere il labile filo che
lega il nostro personale destino a quello del mondo, è insomma una ricerca di senso, un lento procedere verso e dentro noi stessi”.
Francesco Bevilacqua, Elogio dello stupore

La crescita personale prepara il terreno per la nascita di una coscienza ambientale, allarga orizzonti, sensibilità, percezioni e consapevolezza. Ma
l’obiettivo dell’ecopsicologia non si ferma qui, perché quello di cui c’è davvero bisogno è un modo completamente nuovo di concepire noi stessi, in
cui superiamo quella spaccatura profonda che sembra separarci dal mondo e riconosciamo davvero di esserne parte. La cittadinanza terrestre è un
concetto ancora nuovo, che riassume quanto visto insieme sinora in tutte queste pagine, e che si propone come obiettivo in tutti gli ambiti, dal
terapeutico all’educativo, dal politico al sociale, dal professionale al personale.
“Un essere umano è parte dell’intero che chiamiamo Universo, una parte limitata nel tempo e nello spazio. Ha esperienza di sé, dei suoi pensieri e
sentimenti, come se fosse separato dal resto, una sorta di illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione è per noi come una prigione, che ci
limita ai nostri desideri personali e all’affetto per poche persone che ci sono vicine. Il nostro compito deve essere liberarci da questa prigione,
ampliando la nostra cerchia di compassione per includere ogni creatura vivente e l’intera natura nella sua bellezza”, è una famosa definizione di
Albert Einstein.
Come sviluppare questo senso di compartecipazione con il mondo è un campo ancora tutto da inventare e da costruire, in cui l’ecopsicologia si
propone come aiuto, all’inizio del cammino, sino al momento in cui tutta la psicologia sarà “eco” e sarà pienamente coinvolta nel ridisegnare in
un’ottica completamente nuova la concezione del rapporto tra uomo e ambiente.
Il lavoro pratico da fare e da proporre in questa fase è quello di allargare ulteriormente i confini, di stimolare a livello mentale ed emotivo la
risonanza con l’ambiente e con gli esseri viventi, animali e umani, nel suo insieme. Si tratta di porre le basi per un diverso punto di vista sulla realtà,
in cui non si è più soli, non si sarà mai più soli. Si tratta di risvegliare il piacere di chiedersi dove e come il nostro contributo personale potrà essere
più utile e necessario, di dare un senso alla vita sempre e comunque, non per il dovere di farlo, ma per il piacere di esserne una nota che lascia un
segno nella più vasta sinfonia.
È una grande crescita interiore quella che accompagna l’apertura a una coscienza planetaria e potrebbe essere proprio questa la prossima tappa
evolutiva dell’essere umano, concepito non più come estraneo o padrone del pianeta, ma come espressione più dinamica e versatile della vita stessa.
“Dio dorme nelle pietre, respira nelle piante, sogna negli animali e si sveglia nell’uomo”, ci viene detto dalla tradizione nativa americana, il cui
contributo culturale diventa più prezioso che mai, giacché essa è intrisa di reverente rispetto nei confronti dell’intero creato a cui l’ecopsicologia
aggiunge poco di nuovo.

Il genius loci
Anche in culture più vicine alla nostra, spazialmente anche se non temporalmente, troviamo dei riferimenti che è interessante riprendere e
considerare. Gli antichi Romani, durante il loro viaggio e, soprattutto, all’atto di creare nuovi insediamenti, si rivolgevano al genius loci, allo
spirito del luogo, per accattivarsene il favore, garantendogli a loro volta il rispetto. Un concetto, questo, che in altri termini non è del tutto
sconosciuto a tutti coloro che hanno l’abitudine e la passione di frequentare la montagna per esempio e che sanno che la montagna ha un suo
carattere, un suo umore volubile e va avvicinata chiedendo l’autorizzazione a calcarne i fianchi. In altre culture, a noi più lontane, l’abitudine di
chiedere il permesso prima di fare un bagno in un ruscello, di tagliare un albero o di cogliere bacche e radici di cui nutrirsi, è più radicata, e
sottintende proprio l’atteggiamento di profondo rispetto che ha caratterizzato nel passato la nostra relazione con la natura.
Durante una passeggiata, quando stiamo per entrare in un ambiente naturale ben caratterizzato – un bosco, un’alpe, un prato o anche
semplicemente un giardino – prima di entrare distrattamente, come di solito tutti facciamo, proviamo a fermarci un attimo e a cercare il contatto con
quell’ambiente nel suo insieme. Mentalmente, chiediamo il permesso di entrare, garantiamo di non avere cattive intenzioni e chiediamo protezione
sui nostri passi.
Basta qualche minuto di raccoglimento per cambiare completamente l’atteggiamento con cui si intraprende la passeggiata. Non si è più estranei in
un luogo estraneo, si è ospiti in un regno altro, degno di tutta quella stessa considerazione che daremmo a chi ci apre le porte di casa sua per una
visita.
È una deformazione, quella nostra, di credere di poter impunemente irrompere ovunque senza il minimo riguardo; cambiare atteggiamento è prima
di tutto una questione di buona educazione. Così come si impara a comportarsi bene in una casa altrui e a non appropriarsi di oggetti che non ci
appartengono senza prima chiederlo – cosa che molti cittadini non hanno ancora imparato quando attraversano un borgo di montagna, per esempio –
allo stesso modo si impara a entrare in natura in modo più educato e consapevole. È un inizio.

Forze della Terra, forze del cielo


Ci siamo mai soffermati a pensare che a ogni nostra inspirazione immettiamo in noi qualche cosa del mondo esterno e a ogni espirazione c’è qualche
cosa di noi che si effonde nel mondo? Il respiro è quel filo che ci tiene legati alla vita, dal primo all’ultimo momento della nostra esistenza, ed è quel
filo che ci tiene collegati a tutto ciò che ci circonda. A ogni ciclo, inspirazione ed espirazione, confermiamo l’accordo con il mondo, onoriamo la
nostra appartenenza. Se decidiamo di farci caso, possiamo accorgerci che è un momento magico in cui l’attenzione si dilata su dimensioni molto
vaste e in cui si possono intuire altre visioni del mondo.
Quando ci troveremo in un luogo naturale di nostro gradimento, in posizione eretta, con i piedi saldamente appoggiati al suolo, magari proprio
prima di intraprendere una passeggiata, proviamo a respirare consapevolmente qualche minuto, portando tutta l’attenzione soltanto al flusso
dell’aria, dentro e fuori di noi. In un secondo momento, associamo all’inspirazione l’idea di inalare l’aria attraverso i piedi, direttamente dalla terra,
ed espiriamo sempre attraverso i piedi, come se restituissimo alla Terra il nostro respiro. Consolidiamo interiormente l’immagine di ricevere
energia dalla Terra e di poter affidare alla Terra quanto lasciamo andare.
E proseguiamo così per diversi minuti, due, cinque, dieci, sino a quando sentiremo molto forte il legame tra i piedi e il suolo, tra noi e la Terra. E
a ogni passo, quando decideremo di iniziare la nostra camminata, notiamo come è dalla Terra che traiamo energia.
In una diversa occasione ripetiamo lo stesso esercizio focalizzando invece l’attenzione sul cielo, inspirando direttamente dall’alto ed espirando –
nell’immaginazione – verso l’alto. Sentiamo di caricarci a ogni respiro di energia proveniente dall’alto e di potere, all’alto, affidare ogni residuo. E,
nella camminata, la consapevolezza sarà questa volta sul rapporto con il cielo.
Notiamo le diverse sensazioni che accompagnano i due diversi esercizi, notiamo il diverso effetto che ci fa. È molto personale il vissuto con una
maggior attenzione sull’una o l’altra polarità e non ha altro significato che esercitarci a richiamare con la volontà ora una sensazione, ora l’altra, a
seconda di quello che avremo di volta in volta bisogno.
Esistono energie terrestri ed energie celesti, con nomi e ruoli diversi – Madre Terra e padre cielo, yin e yang – molti fanno riferimento a queste
due polarità. Rudolf Steiner ha addirittura basato l’agricoltura biodinamica sulla sapiente canalizzazione e miscelazione di queste due grandi e
diverse fonti di energia.
Una variante di questo esercizio è proposta da Martin Gray, antropologo specializzato nello studio di luoghi sacri per le diverse culture
dell’umanità, e può essere effettuata anche tranquillamente a casa propria in una posizione classica di meditazione, seduti su una sedia o a gambe
incrociate. Quelli che propone sono tre diversi esercizi da combinare a piacere.
Una meditazione sulle energie terrestri, in cui si immagina, a ogni inspirazione, di lasciarsi compenetrare da energie della Terra, che entrano dalla
base della colonna vertebrale – dal primo chakra – e a ogni espirazione le si indirizza verso l’alto, immaginando di farle uscire dalla sommità della
testa, dal settimo chakra.
Una meditazione sulle energie celesti, un esercizio complementare, in cui si immagina, a ogni inspirazione, di lasciarsi riempire il cuore da
energie del cielo, che entrano dalla sommità della testa – dal settimo chakra – e a ogni espirazione le si indirizza verso il basso, immaginando di
farle uscire dalla base della colonna vertebrale, dal primo chakra.
E una terza meditazione che unisce le due precedenti, in cui nell’inspirazione si accolgono nel proprio cuore sia le energie della Terra che del
cielo, e nell’inspirazione le si irradiano dal cuore in tutte le direzioni.

La ricerca dell’animale guida


Gli animali sono sulla Terra da più tempo di noi, e per centinaia di generazioni, che hanno preceduto questi nostri tempi, sono stati considerati anche
messaggeri e portavoce degli dei, basti pensare alle divinità dell’antico Egitto, mezzi uomini e mezzi animali, che abbiamo tutti studiato a scuola.
Tra i nativi americani gli animali sono compagni di esistenza e maestri di vita, e a ogni uccisione animale, per il nutrimento o la difesa, segue sempre
una cerimonia di ringraziamento o di purificazione. “All’inizio del Tutto saggezza e conoscenza erano con gli animali; Tirawa, l’Uno il Superiore,
non parlava direttamente all’uomo. Mandò alcuni animali ad annunciargli che lui si manifestava attraverso gli animali, e che per mezzo di loro, e
attraverso le stelle, il sole e la luna, l’uomo avrebbe potuto imparare” ha detto capo Letakots, della tribù dei Pawnee.175
Abbiamo dimenticato molto, nella nostra cultura contemporanea, del ruolo e del valore degli animali per la vita dell’uomo; per secoli e secoli
sono stati gli animali la principale fonte di forza lavoro, di locomozione e anche di nutrimento per l’umanità. Oggi per alcuni sono solo una curiosità
o un capriccio, nella migliore delle ipotesi, perché per altri sono freddamente una risorsa economica, da carne, da latte, da pelliccia, da cuoio e
mille altre cose. Abbiamo dimenticato, quando non abbiamo la fortuna di avere un amico animale che ce lo ricorda, che sono “creature altre”, parte
anch’esse di questo insieme che chiamiamo Terra, che chiamiamo vita.
Nelle tradizioni sciamaniche di tutto il mondo, che condividono molte caratteristiche essenziali al di là della collocazione geografica, l’individuo
è visto e considerato in relazione con gli altri e con tutto il creato. Lo sciamano ha una visione olistica della realtà, conosce il linguaggio delle cose,
legge il mondo come fosse un libro, nelle forme delle nubi, nel disporsi di sassolini colorati nel cavo della mano, nelle visceri di piccoli animali
sacrificati, nel percorso tracciato dal volo degli uccelli. L’“animale guida” o “animale di potere”, in queste tradizioni, è una rappresentazione
simbolica dell’energia personale di un individuo, che si rivela nelle caratteristiche proprie di un animale piuttosto che un altro. Quando qualcuno ha
perso il filo della sua vita o si è ammalato e manca dell’energia necessaria per ritrovare la guarigione, lo sciamano lo accompagna alla ricerca
dell’animale guida con una visualizzazione guidata, potremmo dire in termini occidentali, o un viaggio nel “mondo di sotto”, usando la sua
terminologia. “Ciò che vedi a occhi chiusi è ciò che conta veramente”, ha lasciato detto Cervo Zoppo, sciamano Sioux, quasi un’anticipazione delle
più recenti tecniche usate nel campo della psicologia che riconoscono e sfruttano anche il potere della suggestione e della visualizzazione per
ritrovare il proprio equilibrio.
“Lo sciamanismo non è una pratica magico-religiosa primitiva, ma una metodologia a carattere trans-culturale che si avvale di facoltà umane
universali e può quindi essere valida e rilevante anche per l’uomo moderno” spiega l’antropologa Lorenza Menegoni. “Le tecniche sciamaniche per
viaggiare nella realtà non-ordinaria sono estremamente efficaci, il loro uso non richiede particolari abilità, ma solamente la capacità di concentrarsi
sulle proprie immagini interiori. Il viaggio sciamanico è un mezzo per esplorare dimensioni sconosciute della realtà e della psiche, uno strumento di
potenziamento personale e di autoguarigione”.176
Un viaggio sciamanico si svolge secondo un preciso rituale, che prevede una guida che accompagni il viaggio col suono del tamburo e la
possibilità di condividere col gruppo, alla fine dell’esperienza, le immagini apparse e il significato che, personalmente, si attribuisce loro. Questa
tecnica antica lascia comunque un valido suggerimento anche a chi non ha sciamani a portata di mano e il suggerimento è quello di ricercare e
ritrovare in sé un’immagine significativa proveniente dal mondo animale. Può essere una visualizzazione autoguidata, in cui ci si predispone
all’incontro con la propria guida, in attesa al limitare di una pianura o sulla cima di una montagna. Un esercizio da fare in uno stato di centratura e
meditazione per attingere più in profondità all’inconscio personale e collettivo, per lasciar emergere una figura animale che potrà essere di aiuto e
sostegno in quella peculiare circostanza. L’incontro nella visualizzazione può avvenire nei modi più disparati, guardando l’animale da lontano,
accarezzandolo, giocandoci e soprattutto parlandogli, chiedendo e ascoltando. Una relazione simbolica che può iniziare da una meditazione, da un
sogno o anche semplicemente da una preferenza innata per quel particolare animale; e che può continuare in diversi modi, dall’approfondimento dei
suoi usi e costumi, alla lettura di miti e leggende in cui è protagonista, alla redazione di un diario in cui ci si rivolge all’animale guida per ricevere
consiglio e si prende nota delle sue risposte. A volte, alla nostra intuizione, è più facile far passare il suo messaggio attraverso immagini e simboli.

Animali compagni, animali maestri


Molti non hanno certo dovuto aspettare che la scienza confermasse il potenziale contributo che il contatto con un cane o un gatto può dare al
benessere psicologico per scoprire quale e quanto beneficio si può trarre dalla vicinanza con gli animali. Ma la nascita ufficiale della cosiddetta pet
therapy ha comunque una data precisa, il 1953, quando un bimbo autistico viene portato per errore un’ora prima del dovuto nello studio dello
psichiatra Boris Levinson, mentre lui stava scrivendo in compagnia del suo cane. Lo psichiatra si era dimenticato della presenza del cane, ma il
bambino subito comincia ad accarezzarlo e a parlare, facendo domande sull’animale. Così nasce la relazione e il cane viene nominato all’istante co-
terapeuta.
Il beneficio dato dal lavoro terapeutico con gli animali – cani, atti, cavalli, conigli, cerbiatti, pesci, delfini, scimmie, pappagalli – è dato da una
molteplicità di fattori:
• possibilità di creare una relazione di immediatezza, spontaneità, fiducia incondizionata e assenza di giudizio, che permette a molti di superare
timori e senso di inadeguatezza
• assunzione di responsabilità
• stimolo e gratificazione dell’affettività
• senso di sicurezza e di rilassamento dato dalla sola presenza dell’animale (si abbassa la pressione arteriosa, il battito cardiaco tende a
regolarizzarsi)
• occasione di gioco e allegria
• antidoto alla solitudine e all’isolamento sociale
• stimolo della motricità
• stimolo a livello cognitivo.
Il cane, o qualsiasi altro animale che venga scelto per raggiungere uno di questi obiettivi, non va confuso né con una pillola del benessere né con
un giocattolo. Il beneficio maggiore che nasce dal rapporto con un animale è dato proprio dalla palestra esistenziale che la relazione offre. Oggi non
si tende più a usare il termine pet therapy, ma si preferisce parlare di terapie assistite con l’animale (AAT), attività assistite con l’animale (AAA) e
attività di educazione (AAE), rivolte prevalentemente alle scuole. In tutte questa attività, come spiegano Debra Buttram e Marcello Galimberti,
dell’Associazione Italiana Uso Cani d’Assistenza, è essenziale la qualità della relazione che si instaura con l’animale che deve essere improntata da
rispetto e attenzione alle sue esigenze, ai suoi ritmi e al suo linguaggio come prima cosa.
Gli animali diventano così facilitatori della relazione, maestri pazienti di un’arte da esercitare poi anche con le altre persone. “Creature altre” li
chiama Silvia Amodio, fotografa, documentarista e ricercatrice in ambito zooantropologico, raccogliendo così il sentire di tutti coloro che con gli
animali hanno già sviluppato un particolare senso di empatia e comunicazione e hanno già riconosciuto che “sono creature dotate anch’esse di anima,
di spirito e di una ben precisa individualità e identità”.177 Sono i piccoli grandi maestri che ci risvegliano a una coscienza più vasta di quello che è
davvero il mondo e la vita. Basta guardarli negli occhi per capirlo.

Counseling con Gaia


Più in profondità del nostro inconscio personale c’è un inconscio collettivo, più in profondità dell’inconscio collettivo c’è un inconscio ecologico,
che include il mondo intero e ci racconta di noi attraverso i suoi elementi, i suoi segni, gli esseri stessi che ne fanno parte. Il mondo esterno non ci è
estraneo, migliaia di fili invisibili e concatenazioni di causa/effetto ci legano e collegano a tutto quanto ci circonda, ma sembriamo aver perso quella
capacità di ascoltare il mondo per cogliere i segnali di armonia o disarmonia che accompagnano ogni nostro agire. Jung per primo, tra gli studiosi
occidentali, seguito poi da Mircea Eliade, si è avvicinato ad atteggiamenti e rituali del mondo antico alla ricerca di una chiave di lettura per
comprenderli e non per archiviarli come primitivi. È così che si è soffermato sulla sincronicità come linguaggio per dialogare col mondo. La stessa
sincronicità a cui hanno fatto, e fanno, riferimento coloro che usano l’I Ching, libro di saggezza cinese che, attraverso la combinazione di trigrammi
rappresentanti diverse forze ed elementi della natura, offre spunti per comprendere meglio la situazione in cui ci si trova in un dato momento della
propria vita.
Senza bisogno di usare carte, oracoli o altri strumenti per leggere la realtà al posto nostro, quando abbiamo un problema al quale cerchiamo
soluzione, possiamo ricorrere a un metodo antico e collaudato, di andare in natura a cercare consiglio. I nativi americani avevano istituzionalizzato e
ritualizzato la pratica della vision quest, la ricerca della visione, per cui, quando avevano bisogno di risolvere problemi per loro importanti,
partivano senza meta nella natura aperti a ricevere consiglio e ispirazione durante questo loro vagabondare in solitudine, lontano da insediamenti
abitati.
Certo, una passeggiata è una versione molto semplificata di questa tradizione, ma non per questo meno efficace. Quando stiamo sempre nello
stesso posto, seguendo ritmi abituali, abbiamo una visione delle cose limitata dalla consuetudine. Se vogliamo attingere a punti di vista o soluzioni
nuove, dobbiamo rinnovare anche l’ambito in cui ci troviamo. Lasciare la routine per una giornata e passarla all’aperto ci predispone a vedere le
cose in modo diverso, ci lascia tutto il tempo e la libertà necessari per riflettere su ciò che abbiamo a cuore senza essere distratti da altri doveri e ci
permette di affidare alla Terra ogni nostra pena. Se abbiamo già dimestichezza con l’entrare in relazione con la natura, ecco che ci diventa più facile
creare la situazione in cui sentirci accolti e protetti e in cui aprirci a risposte e suggerimenti dalla profondità di noi stessi. La natura svolge il ruolo
di un counselor, ascolta e non giudica. E, come il counselor, a volte risponde, con suoni, odori, movimenti, immagini, segnali. Da quello che ci dirà,
sceglieremo quello che vorremo vedere e capire, saremo quindi sempre noi – ed è così anche quando interpretiamo un esagramma de l’I Ching – che
decideremo quale lettura dare e quindi quale suggerimento trarre dal segnale ricevuto. Non importa capire se la risposta è stata trovata in noi o è
venuta dall’esterno, purché possa poi essere – opportunamente vagliata – utile e saggia per la questione aperta.

Visita dal futuro


Questo è un esercizio tratto dal percorso The work that reconnects, il lavoro che riconnette, di Joanna Macy,178 attiva da più di cinquant’anni nel
condurre gruppi di autocoscienza impegnati sul fronte ambientale, in tutto il mondo. È un lavoro potente ed emotivamente coinvolgente, utile per
amalgamare un gruppo in ambito ambientalista, e non solo. Questo esercizio va preparato e vissuto come un rituale, con uno stato d’animo adatto a un
grande evento.
Si formano due cerchi concentrici di sedie rivolte l’una verso l’altra, in modo che ogni persona seduta sul cerchio interno abbia di fronte a sé
un’altra persona seduta sul cerchio interno abbastanza vicina da toccarsi quasi le ginocchia. Se le persone fossero dispari parteciperà anche il
conduttore, occupando una delle sedie interne.
Quello che si farà insieme – e questo il conduttore lo spiegherà al gruppo – è un viaggio con la macchina del tempo: dei visitatori verranno dal
futuro, quelli seduti sulle sedie del cerchio interno, e faranno delle domande ai terrestri di quest’epoca, i partecipanti seduti nel cerchio esterno. Nel
futuro da cui vengono (cento o duecento anni) i problemi ecologici sono stati ormai affrontati e risolti ed è stato trovato il modo di condurre
sostenibilmente la gestione delle risorse ambientali. La visita ha uno scopo assolutamente documentaristico, per comprendere come era la situazione
ai nostri tempi e quale era il sentire della gente.
Ci saranno diverse domande che il conduttore esprimerà a voce alta, una alla volta, e alla quale ogni terrestre odierno dovrà rispondere al
terrestre del futuro, seduto di fronte a lui. Chi viene dal futuro semplicemente ascolta.
Il conduttore legge la domanda e lascia un tempo per la risposta, tra i cinque e i dieci minuti. Allo scadere del tempo, chi è seduto nel cerchio
esterno si sposta di un posto alla sua destra, cambiando così interlocutore. Il conduttore legge la domanda successiva e così per quattro volte.
Queste le domande provenienti dai terrestri del futuro, che il conduttore leggerà chiaramente a ogni passaggio, aggiungendo un pizzico di
teatralità:

1. Ci hanno detto dei tempi terribili in cui avete vissuto, guerre e conflitti, fame e povertà, ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri, veleni
nelle acque, nell’aria e nel suolo, specie viventi in rapida estinzione. È difficile crederci. Era proprio così? Raccontami.

2. Come era per te vivere in questa situazione? Quale era il tuo sentire?

3. Abbiamo canzoni e leggende che raccontano dell’impegno che tu e altri come te hanno avuto nei confronti del pianeta Terra per favorire il
cambiamento che è poi avvenuto. Raccontami, come è cominciato? Ti devi essere sentito solo e confuso, a volte, soprattutto all’inizio. Quali sono
stati i primi passi che hai intrapreso?
4. So che questo non è stato che l’inizio del tuo impegno e delle azioni che hai intrapreso a nome della Terra, ma dimmi, dove hai trovato la forza e
la gioia per continuare a lavorare così duramente nonostante gli ostacoli e gli scoraggiamenti?

Dopo la risposta alla quarta domanda, senza altri spostamenti, è il turno dei terrestri provenienti dal futuro di esprimere cosa è stato per loro
sentir raccontare tutte queste testimonianze e cosa provano in quel momento.
Dopodiché si passa a una condivisione di entrambe le parti, nel gruppo riunito.

Costruire storie
Nella lunghissima storia che ha preceduto l’epoca in cui viviamo, prima che esistesse la scrittura e prima che i testi scritti fossero facilmente
accessibili a tutti, era all’arte della narrazione che l’essere umano affidava ricordi e speranze, intessendo storia e fantasia, mito e realtà. Raccontare
storie, ancora oggi, ha un suo valore e utilità, perché offre alla mente razionale l’opportunità di eclissarsi per qualche momento lasciando spazio
all’analogia, al mito, al pensiero laterale.
Paola Santagostino, psicoterapeuta specializzata in medicina psicosomatica, usa la fiaba per far raccontare al paziente la sua situazione. Entrando
nello spazio magico della narrazione il paziente finisce con l’allentare le difese e raccontare attraverso immagini simboliche il suo vissuto interiore.
Là dove la storia si blocca, è bloccata la persona anche nella vita reale, ma cercando vie d’uscita nella fiaba si attinge insieme, paziente e terapeuta,
a un bagaglio di soluzioni possibili molto più vasto di quello che sarebbe emerso semplicemente ragionandoci sopra.
Andrea Bocconi, psicosintetista specializzato nella scrittura creativa, suggerisce l’uso della fiaba anche nella supervisione tra colleghi terapeuti,
in cui qualcuno traduce un suo caso in fiaba e lo propone agli altri, invitandoli a risolverlo, sul piano della narrazione fiabesca. Ne emergono spunti
sorprendentemente interessanti.
Quale è l’utilità della creazione di storie in un processo di crescita verso orizzonti di consapevolezza più ampi? L’allenamento a prendere in
considerazione due ordini di realtà, ossia la realtà cosiddetta oggettiva, in cui un evento avviene solo in un modo, e quella soggettiva, in cui un
evento può essere descritto da tanti diversi punti di vista ed è l’interlocutore a dover scegliere il senso da dargli e quindi come raccontare la storia.
Nel raccontare una storia, la nostra storia, noi inventiamo un mondo; nel raccontare la nostra storia, noi ci inventiamo ogni volta di nuovo,
scegliendo cosa mettere in primo e in secondo piano, cosa amplificare, cosa minimizzare, senza nulla togliere, senza nulla aggiungere. Scegliamo che
senso dare a ogni singolo evento e al filo conduttore che li unisce, alla nostra vita. La realtà non è monolitica e oggettiva, ha bisogno del nostro
contributo per assumere spessore e consistenza, e attraverso la narrazione possiamo chiarirci le idee, affermare valori e scoprire direzioni prima
nascoste da troppa riflessione razionale. Riprendere a giocare e danzare con la nostra esistenza, guardandola ogni giorno con occhi nuovi,
raccontandola di nuovo ogni giorno con parole, colori e suoni diversi è quello che ci permette di mettere in pratica la nostra libertà, creatività e
responsabilità, mantenendoci sempre aperti al nostro dialogo col mondo.
Ogni evento, difficoltà, possono essere tradotti in storia e narrati, assumendo così una dimensione mitica condivisa, e alleggeriscono il fardello
del narratore permettendogli di disidentificarsi almeno per qualche istante dalla sua visione della realtà, di prendersi un po’ meno sul serio, e di
ripartire per una seconda narrazione, composta più consapevolmente. Roberto Assagioli faceva scrivere e riscrivere ai suoi allievi la loro
autobiografia, non per fissarsi su un’immagine di sé, ma proprio per liberarsi del passato e aprirsi sempre a qualche nuova chiave di lettura. Andrea
Bocconi, suo allievo, oggi propone l’esercizio di immaginare di avere 85 anni e di scrivere una lettera a qualcuno a cui si vuole raccontare ciò che
si è fatto nel corso di tutta la propria esistenza. Ne emerge il senso che, in questo momento, si dà alla propria vita.

Land art: tre talismani


La creatività è una funzione importante da sviluppare per elaborare le strategie necessarie al mondo del futuro, in tutte le sue forme. Esiste un filone
artistico, la land art, che usa gli elementi della natura come materia prima, creando oggetti, sculture, camminamenti di legno, foglie, rami, radici e
pietre, spesso lasciati sul posto affinché la natura stessa si riprenda, a tempo debito, quanto le appartiene. La land art propone un concetto nuovo di
arte in cui non è l’artista in primo piano e neppure la sua opera, ma la ricerca di dialogo e comunicazione con la natura che acquisisce una valenza di
richiamo dell’attenzione sull’ambiente naturale e sull’importanza di salvaguardarlo, tale è l’impegno di quasi tutti gli artisti coinvolti in questo filone
artistico. Guardare le immagini delle spirali di pietra di Richard Long, i tracciati di foglie, sassi e piume di Andy Goldsworthy, le delicate
composizioni di foglie, rami e petali di Nils-Udo forniscono uno stimolo inestimabile alla fantasia e alla creatività, che possono indurre un gruppo di
persone a improvvisarsi land artists, scoprendo il desiderio e la capacità di comporre oggetti o interventi significativi con materiali della natura e
nella natura.
Questa è una proposta seminariale, da presentare quando ci sono diversi giorni a disposizione e ognuno sarà libero di entrare in contatto
individualmente con l’ambiente, con i tempi e i ritmi a sé più congeniali. L’invito è quello di creare tre oggetti, tre talismani possono essere definiti,
con elementi della natura e altri elementi biodegradabili. Uno rappresenterà ciò che si vuole trasformare e verrà bruciato in una cerimonia
appositamente creata alla fine dell’evento; uno è un dono da lasciare al genius loci, da lasciare sul territorio; e un terzo sarà da riportare a casa,
come ricordo e ancoraggio dell’esperienza vissuta.
La materia prima con cui ognuno realizzerà le sue opere va scelta e raccolta liberamente nel corso dei giorni, durante le attività insieme o nei
momenti liberi. Nel giorno predisposto al lavoro artistico insieme, ci si disporrà attorno a un tavolo su cui saranno stati messi a disposizione del
gruppo materiali e strumenti di lavoro: pastelli, tempere, colla, carta, forbici, rafia, spago, filo, taglierine, pennelli. Dopo l’imbarazzo iniziale, di
solito l’attività si avvia con entusiasmo, creando una insolita atmosfera di lavoro collettivo in cui ognuno lavora alla sua opera traendo e offrendo
spunto e ispirazione anche agli altri. Le possibili variazioni sia sulla modalità di condurre che di finalizzare il lavoro, sono innumerevoli.

Rituali di guarigione
L’ecopsicologia invita psicologi, counselor, educatori e animatori alla creatività. Invita ad attingere alle proprie passioni, alle pratiche vissute o
inventate in prima persona come base da cui creare, modificare e arricchire gli esercizi da presentare a colleghi, pazienti, clienti e allievi. La tecnica
più efficace, se riportata meccanicamente, non avrà lo stesso effetto dell’esercizio apparentemente più insignificante condotto invece con passione e
convinzione. Il risultato di ogni attività dipende prima di tutto dall’energia con la quale viene preparata e proposta. Si apre a questo punto un grande
capitolo di possibili esercizi: la creazione di rituali.
I rituali sono un insieme di gesti e movimenti diversi da quelli quotidiani, spesso inseriti in coreografie arricchite da stimoli sensoriali di tipo
musicale, olfattivo e visivo, che hanno l’obiettivo di fornire una cornice e di espressione a momenti di particolare rilevanza dal punto di vista
personale. I rituali accompagnano i momenti più importanti nella vita quotidiana, la nascita, il raggiungimento della maturità, il matrimonio, la morte,
ma quando non vengono ravvivati nella forma e ricaricati nel contenuto rischiano di diventare solo formule vuote senza più alcun potere evocativo,
senza essere più coinvolgenti emotivamente. La società contemporanea è piuttosto povera di rituali capaci di toccare in profondità, ma il processo in
sé non ha perso nulla del suo potere, semplicemente non viene più utilizzato consapevolmente.
Il rituale, il gesto, la cerimonia arrivano là dove non arrivano la ragione e il pensiero: creano un rapporto con “l’altra metà della vita”, quella che
non si vede e non si tocca, ma si sente e si sogna; trasportano in un tempo “altro” permettendo di entrare in contatto con la parte più interiore,
profonda, archetipica della natura umana e risvegliano il senso del sacro. Il rito riesce nel suo intento utilizzando tutto ciò che tocca la percezione
sensoriale: architetture e paramenti, gesti e profumi, cibi e bevande, canti e musiche, cibi e colori. Il corpo è sempre il protagonista, come nello
yoga, nel tai chi e nella danza, che è forse lo strumento per eccellenza per entrare in contatto con un diverso stato di coscienza.179
Un rituale può essere costruito per sancire un inizio o una fine, l’apertura di un nuovo ciclo o la chiusura di uno vecchio, può rappresentare
l’affermazione di una decisione, l’ufficializzazione di una promessa, può essere un ringraziamento, una richiesta di aiuto e protezione. Può essere
creato dal conduttore del gruppo e proposto, può essere creato dal singolo individuo o dal gruppo nel suo insieme. Le combinazioni sono molteplici,
e le fonti a cui attingere per ispirazione, ognuno nell’ambito delle tradizioni con le quali sente maggior affinità, sono tante. I rituali possono avere
elementi religiosi o possono essere costruiti su basi laiche, il valore non è assoluto, ma relativo a chi lo crea e a chi lo pratica. Quando è ben
riuscita, quando è sentita e coinvolgente, la rappresentazione esteriore diventa rappresentazione interiore, diventa ancoraggio potente per una
maggior consapevolezza e da esperienza privata si trasforma in una realtà condivisa da tutti.
Philip Sutton Chard racconta di rituali creati insieme ai suoi pazienti attraverso i quali, nella natura, essi hanno potuto trovare qualche cosa di sé
che avevano perduto o porre il seme per qualche cosa di nuovo, chiudere dinamiche mai concluse e aprirne di nuove.
Una donna che non aveva superato il trauma della morte del marito avvenuta diversi anni prima, è stata invitata a costruire un rituale di
restituzione alla Terra di quanto di lui ancora le fosse rimasto, in modo che l’immagine che aveva del marito potesse rientrare simbolicamente nel
cerchio della vita e rigenerarsi, trasformandosi in qualche cosa d’altro.
Un manager che faceva fatica a superare i suoi timori nell’avviarsi verso un cambiamento professionale ha scelto di attraversare un lago a nuoto
di notte, per provare a se stesso che poteva affrontare l’ignoto.
Una giovane donna che non riusciva a concepire il figlio tanto desiderato è stata invitata a costruire nel bosco un rituale di riconciliazione con la
Terra e con le sue forze creative.
Occorre sensibilità, prima ancora che fantasia, occorre saper coinvolgere la sfera analogica e combinare tra loro i linguaggi del corpo, delle
emozioni e della mente, occorre avere vissuto in prima persona esperienze rituali coinvolgenti per poter poi creare eventi ricchi di contenuto e
sempre nuovi nella forma.

175 Citazione da un seminario di Mario Lorenzetti, tratta da Joseph Campbell, The way of the animal powers, Alfred van der Marck, New York, 1983.
176 www.studisciamanici.it
177 ANIMA LI tà, CD con testi e foto di Silvia Amodio.
178 Joanna Macy, Molly Young Brown, Coming back to life, New Society Publishers, 1998.
179 Piero Ferrucci, Esperienze delle Vette, Astrolabio, Roma, 1989.
Capitolo 12

AMIAMO LA TERRA PERCHÉ SIAMO LA TERRA

“Il compito più importante oggi è imparare a pensare in una nuova maniera.”
Gregory Bateson

Gaia, ieri e oggi. Quella che oggi chiamiamo coscienza ambientale, una volta era parte integrante della coscienza dell’essere umano. Senza che
nessuno ce lo dovesse ricordare, sapevamo di essere parte del mondo e del cosmo e il nostro rapporto con la Terra era intriso di gratitudine e
rispetto, da una parte, e di timore dall’altra. La Terra era madre buona, fonte di nutrimento, di piacere, di vita, ed era madre cattiva, spaventosa nella
sua ira e nella furia dei suoi elementi; era un essere dotato di vita propria, una divinità, e come tale è stata per millenni celebrata dal rito e dal mito.
Nel processo di emancipazione dai limiti imposti dalla dipendenza dai suoi ritmi, dai suoi favori e dai suoi capricci, come umanità abbiamo
attraversato una fase di ribellione e rifiuto nei confronti della madre – sia di quella cattiva che di quella buona – per misurare le nostre forze da soli
nell’esistenza, dimostrando di poter fare a meno di lei. Non è un po’ quello che succede ogni volta di nuovo a un adolescente, quando deve provare a
se stesso di essere ormai grande e per farlo deve recidere il legame di dipendenza dai genitori? E poi, cosa succede avviandosi verso l’età adulta,
quando il processo si svolge nel migliore dei modi? Che il rapporto con il genitore viene ritrovato, non più all’insegna della dipendenza, ma della
parità, si trasforma in un rapporto di interazione tra adulti, all’insegna del rispetto reciproco e della collaborazione. Avendo dimostrato a se stesso e
al mondo il suo valore, il ragazzo ormai uomo non ha più bisogno di rifiutare e maltrattare il genitore per affermarsi ma può ritrovarlo come persona,
non più come ruolo, e come tale avviare una relazione collaborativa, su piano paritario. Questo potrebbe essere il punto in cui, come umanità, ci
troviamo nei confronti della Terra.180
È stata un’adolescenza molto difficile la nostra, che ci ha portato a perdere in molte occasioni qualsiasi tipo di sensibilità e sentimento nei
confronti di colei che per millenni è stata nostra madre, che ci ha portato a maltrattarla, mutilarla, scavarne le viscere, tormentarla con esplosioni,
violentarla, uccidere e torturare le sue creature, fratelli maggiori in realtà, presenti da più tempo in questo mondo, ma rinnegati dalla nostra
incapacità di sentire il mondo animale e ogni altra forma di vita come parte della stessa famiglia.
Rimuovendo dal nostro immaginario la Terra, la madre, in questa ansia di crescere e di emanciparci, abbiamo perso molto di più. Abbiamo
messo da parte – e questo lo si nota in tutte quelle culture allontanatesi dalla Terra – il femminile, l’amore per la vita connaturato nella donna, la
saggezza dell’anziano, l’entusiasmo del bambino. E questo in ogni singolo individuo, uomo e donna. Tutto quanto è stato assosciato alla polarità del
femminile, è stato messo in secondo piano: emozione, sentimento, intuizione, creatività, accoglienza, inclusione, condivisione, focalizzazione sul
presente, sul vivere bene, sul vivere per il piacere di essere vivi, sulla “qualità”. Il femminile è la polarità terrestre dell’esistenza, quella che si fa
carico del mettere al mondo i figli, che ne conosce e ne paga il prezzo. Non sono mai state le donne a foraggiare le guerre, ben consapevoli del
valore di ogni vita.
Il maschile è la polarità celeste, anche questa in ogni singolo individuo, uomo o donna che sia: è azione, pensiero, conquista, crescita, potenza,
potere, “quantità”. Tutte belle, bellissime qualità dell’essere umano, che hanno però bisogno della polarità opposta e complementare per non
allontanarsi troppo da ciò che siamo davvero: “cittadini di due mondi”, cielo e Terra. Non solo l’uno, non solo l’altro.
Per il nostro bene, per il bene della Terra, dobbiamo fare il passo necessario per uscire dall’adolescenza, ormai celebrata e vissuta, e fare un
ulteriore passo in avanti, verso quella nostra unità interiore che sola ci porterà alla maturità. Ritrovare e armonizzare in noi stessi entrambe le
polarità dell’essere, diventa punto di partenza per diventare “grandi” e interi e per poterci mettere a disposizione della famiglia di cui facciamo
parte, l’intera creazione. Con tutta l’energia, l’intraprendenza, la maturità e la saggezza ora necessaria. E ce n’è tanto bisogno.
La vita ha bisogno che diventiamo adulti, la Terra ha bisogno di noi, ci chiama e ci reclama perché il gioco si sta spingendo troppo oltre e non
riuscirà più a reggere i nostri soprusi senza reagire violentemente, senza rischiare di compromettere quegli equilibri coltivati per tempi così lunghi,
per noi, ma che sono in realtà precari e difficili da mantenere. È ora di crescere, di diventare grandi, di farci carico delle nostre responsabilità. È
vero, siamo gli ultimi arrivati su questo bel pianeta, ma il nostro arrivo è stato preceduto da presagi e aspettative. Il cielo ha donato ai suoi figli più
giovani qualità nuove, ma non lo ha fatto perché distrugga la Terra ma, al contrario, perché la protegga e la faccia ancora più bella, come un figlio
può fare, al culmine della maturità, con la propria madre, per la propria famiglia.
La questione è ben al di là dei termini filosofici in cui viene posta attualmente, in una diatriba tra polarità apparentemente inconciliabili:
antropocentrismo o ecocentrismo? L’uomo al centro o la natura al centro? Il pianeta e le risorse naturali poste sotto il dominio dell’essere umano,
che ne può disporre a suo piacimento, o il pianeta come eden violato da una specie invadente che si sta rivelando parassita? Nessuna di queste due
polarità è utile in questo frangente. Nessun adolescente si reinserirebbe nel modo giusto a casa sua se i genitori ne accettassero ogni capriccio
piegando la testa, ma neppure se lo considerassero soltanto un mangiapane a tradimento.
La nuova idea emergente di cui l’ecopsicologia si fa portavoce è una terza via: non per magnanimità e neppure per opportunismo dobbiamo
cambiare il nostro atteggiamento nei confronti del nostro agire sulla Terra, ma per consapevolezza di chi siamo veramente, per autocoscienza spinta
oltre i limiti consueti. “Amiamo la Terra perché siamo la Terra”, è questo il messaggio, è questo l’invito.
Noi siamo la Terra che diventa cosciente di sé, noi siamo i figli della Terra attraverso i quali l’intero Pianeta può trovare nuove strade, nuove
soluzioni, nuovi equilibri, a condizione che la relazione venga condotta con maturità e rispetto.
È l’unica via, non abbiamo altra scelta. Il World Watch Institute pubblica ogni anno una relazione sullo stato della Terra.181 Ogni due anni un
summit internazionale ha tra i suoi principali temi di discussione le problematiche ambientali, ma anche senza avere davanti a sé tabulati aggiornati
con tutti i dati relativi all’ambiente, non è difficile capire che stiamo raggiungendo livelli critici in molti campi, qualità dell’aria, dell’acqua,
sfruttamento del suolo, biodiversità. Il 2020 era stato definito dalla comunità scientifica, dieci anni fa, come il “punto di non ritorno”, ma ci siamo
persi per strada l’avviso che, se non verranno prese entro tale data decisioni drastiche che regolamentano le attività umane, trovando una sintonia
con le esigenze dell’ecosistema terrestre, potremmo incorrere in stravolgimenti ambientali non più controllabili, dalle conseguenze imprevedibili.182
Se qualche cosa non cambia – e drasticamente – nel nostro modo di gestire la nostra vita sul Pianeta, poco importa che la nostra visione del
mondo sia antropocentrica o ecocentrica, perché non saremo più qui a raccontarcelo. E, senza l’essere umano, il pianeta Terra non sarà più lo stesso,
sarà un’altra cosa che altri chiameranno, forse, con altri nomi e vedranno con altri occhi, ma non sarà più il nostro. Il pianeta Terra, così come lo
conosciamo noi, può esistere solo con la nostra presenza, il verde e azzurro non è una proprietà oggettiva, sono i nostri occhi a essere configurati in
modo da percepire i colori e questi colori, suoni, profumi, sensazioni, emozioni che si destano in noi guardando una foresta, un tramonto, il gioco
delle nuvole, la corsa di due scoiattoli, la luna che sorge rossa dietro le montagne. Tutte queste sono percezioni che fanno parte della natura umana.
Cosa ne sappiamo di come razze aliene potranno percepire questo pianeta? Non rimane, quindi neppure la soddisfazione di pensare che una volta
estinto l’uomo, la Terra continua tranquilla la sua vita. No, non è così, noi “siamo la Terra” e dobbiamo impegnarci in questa battaglia, in questa
sfida evolutiva non solo per noi, per la sopravvivenza dell’essere umano come specie su questo Pianeta, ma per tutto il Pianeta, così come lo
conosciamo e come può diventare, se la sfida dei tempi viene colta e affrontata con abilità e saggezza.
La chiave per un salto di qualità a livello planetario
La situazione è tale che non possiamo permetterci di stare ad aspettare che la soluzione ai problemi ecologici del nostro tempo venga dall’alto, che
venga proposta o imposta dai governi; c’è qualche cosa che dobbiamo cominciare a fare affinché la soluzione si manifesti a partire dal basso, da
ogni singolo individuo del pianeta, da ognuno di noi in prima persona.
C’è qualche cosa che ognuno di noi può fare? È questo l’interrogativo inquieto spesso inespresso, ma sempre più spesso esplicitato, da
movimenti giovanili, da iniziative di singoli scienziati o attivisti, sparsi, per fortuna, in tutto il mondo. Non c’è niente di peggio, in situazioni di crisi
come quella che si profila all’orizzonte, del sentirsi impotenti.
Sì, qualche cosa che possiamo fare c’è: svegliarci a una più ampia visione del mondo, della vita e di noi stessi. Possiamo prendere spunto dal
disagio interiore, quando comincia a farsi più diffuso e insistente – a partire da problemi personali o dal malessere esistenziale dato dalla situazione
planetaria contingente – per intraprendere quello che attualmente, in ambito psicologico, si chiama un percorso di crescita personale. Occuparci di
noi è il primo passo per occuparsi bene del Pianeta. La crescita personale, l’autoconoscenza e l’autorealizzazione sono l’antidoto per l’ecoansia,
perché risveglia il senso di efficacia personale e invita a direzionare il proprio potere in iniziative concrete, piccole o grandi che siano, che
permettono di ricreare, quando si attivano insieme ad altri, il senso di appartenenza, solidarietà, azione congiunta con finalità condivisa: un balsamo
per la nostra società attuale frazionata e spaventata.
Crescere vuol dire anche rendersi disponibili a mettere in gioco tutto quanto su di sé, sul mondo e sulla vita come abbiamo sempre pensato, per
aprirsi a una possibile riformulazione di tutto ciò che finora è stato dato per scontato. Vuol dire allargare gli orizzonti e riappropriarsi in prima
persona del potere di leggere e di scrivere la realtà a partire da scelte consapevoli, formulate nel qui e ora, secondo i valori sentiti come più
importanti. Vuol dire riappropriarsi del potere personale, nei confronti della propria esistenza, prima di tutto, e del mondo circostante subito dopo.
Quando parliamo di crescita, pensiamo sempre al bambino e all’adolescente, come se una volta raggiunta l’età adulta il processo evolutivo della
nostra vita avesse raggiunto una sua stabilità. Invece il processo di crescita dell’individuo non ha mai fine, perché una volta raggiunta la maturità a
livello fisico, come abbiamo già visto, è su un piano interiore che c’è ancora uno spazio illimitato per proseguire il cammino.
Crescere vuol dire avvicinarsi sempre di più a ciò che si è veramente, ottimizzando capacità e potenzialità, riconoscendo e attenuando limiti,
superando condizionamenti ormai inutili e imparando a interagire in modo costruttivo con gli altri. È un processo che non implica un apprendimento
quantitativo, non ci sono materie da imparare o esami da superare. Si tratta di un apprendimento qualitativo: è la capacità di riconoscere e integrare i
diversi aspetti della propria personalità, decidendo liberamente cosa coltivare di sé e in quale direzione dirigersi.
Il processo di crescita personale è più lento e meno spontaneo di quello della crescita fisica, che avviene anche se non ce ne preoccupiamo. La
crescita personale implica un atto di volontà, bisogna desiderarlo, ha bisogno di tempo e attenzione. E può rivelarsi un’attività appassionante, come
per Michelangelo quando toglieva dalla pietra quello che non gli serviva, per lasciar emergere la forma che gli stava a cuore.
Non siamo abituati a pensare che sia importante dedicare del tempo a se stessi e alla coltivazione dei propri talenti o alla dissoluzione dei
conflitti interiori, eppure, parafrasando il noto versetto del Vangelo, è solo imparando ad amare noi stessi che potremo aprirci all’amore per gli altri.
“Ama il prossimo tuo come te stesso” è quanto sta già tristemente accadendo: la gente si ama poco, si conosce poco, non ha gli strumenti per
accettare e integrare tutti i diversi aspetti di sé, soprattutto quelli più riottosi, ombrosi, sofferenti e dunque turbolenti. Questo “non amore” si riflette
immediatamente nella qualità del rapporto con gli altri: la mancanza di contatto autentico con quanto di più vivo, autentico e selvatico c’è in noi, si
riflette anche in un atteggiamento di rifiuto, fuga o addirittura ostilità nei confronti della natura.
Lo sviluppo di una maggiore consapevolezza individuale si rivela, così, funzionale all’evoluzione stessa dell’essere umano. Quando impariamo a
diventare più attenti, empatici e rispettosi nei confronti dei diversi aspetti della nostra molteplicità, impariamo anche a riconoscere, accettare e
apprezzare, la diversità altrui e la molteplicità della realtà. Occuparsi di sé non è più egoismo, ma diventa esercizio di convivenza armonica e guida
all’azione efficace.
Jamie Sams, scrittrice e artista contemporanea, discendente dei Cherokee Seneca, nel descrivere le tappe del sentiero di iniziazione, della sua
tradizione di origine, racconta: “Ogni essere umano è responsabile sia della sua luce che della sua ombra e senza riconoscere entrambi i lati non
possiamo guarire. (…) Il fine delle iniziazioni della vita non è quello di divenire padroni di rigide regole di perfezione. Il fine è quello di divenire
impeccabilmente consapevoli di tutti i nostri pensieri, sentimenti e azioni per poter conquistare l’armonia e l’unità con tutto ciò che sperimentiamo
nella vita. Abbracciare tutte le sensazioni e tutti i pensieri vuol dire accogliere il bene e il male, la luce e l’ombra. In questo processo di integrazione
scopriamo il valore del nostro libero arbitrio e il potere della scelta personale; possiamo scegliere di dare autorità al negativo o al positivo”.183
Autocoscienza non vuol dire solo equilibrio, maturità e responsabilità, vuol dire anche impegno, come gli studi di Maslow sulle personalità
autorealizzate hanno evidenziato. Il risveglio della responsabilizzazione nei confronti del proprio operato, del senso di compartecipazione con la
realtà di cui si fa parte, della propria libertà di prendere in mano le redini della propria vita, stanno diventando molto di più di una semplice scelta
terapeutica o filosofica, stanno diventando indispensabili alla sopravvivenza stessa della specie umana e dell’ecosistema terrestre così come lo
conosciamo.

I valori da risvegliare e sviluppare


L’impegno che ci aspetta è dunque quello di ampliare i confini: possiamo partire dalla conoscenza di noi stessi per arrivare a conoscere il mondo, o
possiamo partire dalla conoscenza del mondo, per scoprire noi stessi. E in questo percorso, svolto in una direzione o nell’altra, impariamo a
incontrarci anche con gli altri. Crescita personale e coscienza ambientale sono concetti strettamente correlati e poggiano su ben precisi presupposti
che ampliano i confini di visioni del mondo più ristrette e limitanti per aprire gli occhi verso una visione della vita gioiosa, attiva e ricca di senso:

• unicità e valore del singolo individuo


• esistenza di una natura interiore individuale da riconoscere e valorizzare
• fondamentale libertà dell’essere umano, anche nella scelta del livello etico al quale adeguare le sue azioni
• capacità di riconoscere i condizionamenti accumulati nel corso dell’esistenza e di distinguere tra quelli ancora utili e quelli inutili o dannosi
• capacità di riconoscere l’impatto e le conseguenze delle proprie parole e azioni
• dimensione etica connaturata, con potenziale spinta altruistica e senso di compartecipazione alla Creazione
• possibilità e, anzi, necessità di apertura alla dimensione spirituale con il più ampio rispetto verso i cammini esistenti
• riconoscimento e applicazione dei tre valori fondamentali di libertà, creatività e responsabilità
• desiderio di sentirsi utile e di mettere la propria unicità al servizio della Vita.

Oltre a questi principi propri della psicologia umanistica ed esistenziale, l’ecopsicologia fa riferimento ad altri presupposto basati su una nuova
visione dell’essere umano in grado di includere l’ambiente come parte di sé e su un paradigma di pensiero sistemico:

• il mondo in cui viviamo è vivo


• la nostra stessa vita è un evento in cui c’è molto da scoprire
• siamo parte integrante del mondo in cui viviamo
• ai suoi livelli più profondi, la nostra psiche è legata alla Terra
• la natura è il nostro inconscio
• esiste un rapporto tra salute della Terra e salute psicologica
• siamo parte di un sistema complesso il cui la vita è frutto di un delicato equilibrio tra biosfera, geosfera e atmosfera
• l’insieme delle nostre credenze, opinioni, desideri e aspettative – noosfera – hanno oggi un peso concreto sugli equilibri dell’ecosistema terrestre
• siamo il più versatile degli esseri viventi che popolano il pianeta Terra ma questo non deve tradursi necessariamente in un potere su tutti gli altri
esseri, ma piuttosto in responsabilità nei loro confronti
• non possiamo occuparci di benessere individuale senza fare i conti con le dimensioni più vaste in cui siamo interconnessi
• il nostro sviluppo sul Pianeta deve tenere conto degli equilibri indispensabili alla vita dell’intero sistema
• la scienza e la tecnologia contemporanee hanno già gli strumenti necessari per ridisegnare l’impatto ambientale della civiltà in termini più
ecosostenibili, ora occorre la volontà politica
• l’opinione pubblica ha un forte impatto, abbiamo il potere di far sentire e far valere ciò che pensiamo e ciò che vogliamo
• la distruzione di ambienti naturali, specie animali e vegetali, di micro e macro ecosistemi ci sminuisce come individui e come umanità
• siamo una specie gregaria, ci realizziamo solo nell’incontro e nell’interazione con gli altri
• i cambiamenti necessari alla creazione di nuovi equilibri tra noi e l’ambiente naturale non sono soltanto di ordine pratico ed esteriori, ma sono
prima di tutto psicologici e interiori
• nella misura in cui ci risvegliamo a una diversa percezione della realtà, inneschiamo un meccanismo di cambiamento: quando cambiamo noi stessi
iniziamo a cambiare il mondo.

Tutte queste belle idee vogliono ribaltare l’idea che abbiamo di noi stessi come separati dal mondo di cui siamo parte e risvegliarci a una
percezione diversa. “La consapevolezza ecologica sorgerà solo quando combineremo la nostra conoscenza razionale con un’intuizione del carattere
non lineare del nostro ambiente”,184 scrive Fritjof Capra in Il punto di svolta. Solo così, a partire dalla consapevolezza della nostra profonda
interconnessione con ogni aspetto del reale, potremo dare vita ad atteggiamenti e comportamenti che possano tradursi in azioni, iniziative e strategie
concrete.

Dalla teoria alla pratica


L’ecopsicologia non è sola nel portare avanti queste idee. È affiancata da movimenti ambientalisti, umanitari, ecofemministi, per la giustizia sociale,
per i diritti civili, per i diritti degli animali, per il consumo consapevole, per lo sviluppo sostenibile, per le energie rinnovabili, per l’agricoltura
biologica e la permacultura, per la difesa dei popoli nativi, per la semplicità volontaria, per la creazione di ecovillaggi, per l’integrazione
multiculturale, per il sostegno alle donne maltrattate, per emancipazione dei paesi del terzo mondo, per le iniziative ecologiche di quartiere, per la
difesa del verde urbano, per il riciclaggio della carta nella propria scuola. L’impegno, a qualsiasi livello, è la spontanea evoluzione di questa
crescita verso una più ampia visione del mondo e di sé, e c’è tanto lavoro appassionante per tutti!
Il primo effetto di una crescita personale è quello di far pensare con la propria testa, di portare ad assumere un atteggiamento più critico nei
confronti dell’informazione e della pubblicità, facendo più domande, cercando di capire – in ogni situazione, locale o globale – come stanno
veramente le cose, e non solo come sembrano; il secondo è di non abbandonarsi alla passività e al senso di impotenza, per piccolo che sia, un nostro
contributo lo possiamo sempre dare: una lettera o una email di protesta, un gesto di solidarietà, un aiuto economico o anche solo semplicemente un
sorriso di sostegno. Ma insieme a tutto questo, e oltre tutto questo, quando cambiamo davvero il nostro modo di pensare e di sentire, questo è già un
contributo concreto e potente.
L’insieme delle menti, la noosfera, per quanto possa sembrare solo un originale concetto filosofico, si rivela un campo sempre più influente negli
equilibri del mondo. Quello che pensiamo non va perso, il pensiero è solo una forma più diluita della materia, non abbiamo ancora le
apparecchiature adatte per misurarlo, pesarlo e classificarlo, ma è l’esperienza stessa che ci dimostra che ha un suo peso e spessore, perché si
trasforma in azione, atteggiamento, comportamento. Quando dieci, cento, mille persone cominciano a pensare in un modo nuovo, e quindi a
comportarsi in modo diverso, questa nuova qualità di presenza e interazione col mondo crea una massa critica che permette al nuovo di affermarsi su
scala più vasta.
È quella da anni conosciuta come la legge della centesima scimmia e che oggi viene chiamata teoria dei campi morfogenetici di Sheldrake. Su
un’isola di un arcipelago, una giovane scimmia scopre che lavando le patate nell’acqua di mare, oltre a pulirsi dalla terra, si insaporiscono. Alcune
compagne della scimmia, per imitazione, acquisiscono rapidamente lo stesso comportamento; quelle più anziane sono ancora restie a cambiare
abitudini, ma a partire dalle più giovani questo nuovo modo di fare viene adottato da un numero sempre crescente di primati. Arriva un momento in
cui il numero delle scimmie che lavano le patate nel mare – solo simbolicamente si usa dire che questo numero è cento – è tale per cui il
comportamento viene considerato utile e funzionale alla sopravvivenza della specie e si diffonde tra tutte le scimmie non solo dell’isola e anche di
tutto l’arcipelago.
Dati simili sono stati registrati – tra gli anni trenta e gli anni cinquanta del Novecento – in Gran Bretagna, a Southampton, in una di quelle regioni
di campagna in cui il lattaio passa al mattino per lasciare la bottiglia del latte fresco. Una cinciallegra scopre che può forare col becco il coperchio
di cartone e bere la panna del latte nella parte superiore della bottiglia. Il fenomeno si ripete nelle vicinanze, con frequenza crescente. A un certo
punto, in tutta la Gran Bretagna le cinciallegre forano il coperchio delle bottiglie, al punto che le centrali del latte modificano l’imballaggio. Lo
stesso fenomeno si verifica in Svezia, Danimarca e Olanda in quegli stessi anni.185 Questa e molte altre osservazioni sono quelle riportate dal
biochimico Rupert Sheldrake, che riattualizza la teoria degli anni venti dei campi morfogenetici, definendoli come dei modelli ideali di tutti gli
organismi possibili che contengono una sorta di memoria collettiva a cui ogni membro della specie attinge e a cui a propria volta contribuisce. Se un
numero sufficientemente alto di persone consolida una diversa visione di sé e del mondo, questa finisce col diffondersi e col riflettersi
concretamente nel mondo attraverso scelte e azioni.
Attenzione, ascolto, rispetto, presenza, empatia, dialogo e sinergia, sono le tappe che portano a una diversa qualità di relazione. Nella misura in
cui cresce il numero di persone che coltivano una modalità più matura di relazionarsi, a tutti i livelli, il mondo cambia. Quello che Sheldrake,
indirettamente, afferma è che non c’è bisogno che cambi tutto il mondo, basta che ne cambi una parte; raggiunto un certo numero di persone, se il
cambiamento si rivela positivo, cambieranno tutti. In questo senso, il contributo più concreto che possiamo cominciare a dare per l’equilibrio
ecologico del nostro pianeta, è quello di aprirci a una nuova visione dell’uomo come parte del mondo e cominciare a tutelare l’equilibrio ecologico
del nostro ecosistema interno. “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, dice Gandhi.

Reinventare il mondo
In ventum in latino significa “mettere vento, portare spirito”. “Reinventare il mondo” diventa rileggere il mondo come un tutt’uno, materia e spirito.
E non solo, diventa comprendere il nostro ruolo in questo tutt’uno, conoscere chi siamo, individui unici e irripetibili, e riconoscere l’essere umano
come esponente di punta del processo evolutivo, ancora in corso. L’invito è a un cambiamento radicale nel nostro modo di concepire la nostra
esistenza, per vivere la vita come la creazione di un’opera d’arte, oscillando tra la libertà di veleggiare verso orizzonti sempre nuovi e la
dipendenza da legami profondi e antichi con qualche cosa di molto più grande di noi. Contenuto e forma, maschile e femminile, cielo e Terra, due
polarità in gioco e – nel mezzo – quel punto virtuale al centro di noi stessi, baricentro interiore, punto di partenza, punto d’arrivo, in cui ci sentiamo
vivi, in cui siamo e basta. Forse, l’esperienza più importante.
Mary Catherine Bateson, figlia di Margaret Mead e Gregory Bateson, descrive la vita come arte dell’improvvisazione e della sintesi creativa, “in
cui ciascuno di noi combina ciò che è familiare e ciò che è sconosciuto in risposta a situazioni nuove, seguendo una grammatica di fondo e
un’estetica in divenire”.186 “Reinventare il mondo” diventa così anche l’invito a diventare consapevoli del grande potenziale creativo e realizzativo
con cui possiamo essere co-creatori della nostra vita e anche degli ambienti di cui siamo parte, nelle piccole e grandi cose. Perché, in realtà, siamo
coscienza senza limiti che gioca a credere di avere limiti per meglio assaporarne le forme, i sapori e le energie.
L’ecopsicologia è ancora all’inizio di un lungo cammino. Tutto ciò di cui abbiamo parlato sinora sono idee, pensieri, un po’ di filosofia e qualche
consiglio pratico. Il grosso lavoro spetta a chi ha letto sin qui questo saggio e ha sentito qualche cosa risuonare in sé, a chi trarrà spunto da questo
discorso per apportare cambiamenti concreti – non importa se piccoli o grandi – nel suo sentire, nel suo relazionarsi, nel suo agire.
Se la Terra, in quanto organismo vivente, si sta risvegliando a un livello di coscienza più alto, coinvolgendo inevitabilmente anche gli esseri
umani, il processo è ormai inarrestabile, come la primavera dopo un lungo inverno; è solo questione di tempo. A chi coglie i segnali del
cambiamento necessario e della trasformazione interiore in atto, viene chiesto di collaborare, di facilitare gli eventi, di mettere la sua creatività al
servizio della vita e di avere fiducia nel processo.
L’ecopsicologia non è solo una disciplina pratica e neppure soltanto una filosofia, è più di tutto questo: è una direzione. Nel rispetto del libero
arbitrio, siamo liberi di scegliere se vogliamo partecipare o contrastare il salto di qualità del Pianeta, in questo giro di danza. L’essere umano
distrugge e si distrugge solo perché pensa in termini di separazione, si crede solo, isolato; ora possiamo scegliere se vogliamo collaborare alla
diffusione di un modo diverso di pensare il pianeta e un modo nuovo di agire nel mondo o se preferiamo rimanere ancorati all’idea di essere solo un
piccolo io in lotta per la sopravvivenza, solo contro tutto il resto.
In questa nuova visione dell’essere umano e della vita c’è posto e gioia per tutti. Quando cominciamo a cogliere il senso dell’unità con tutte le
cose e ci apriamo all’idea di leggere nella natura la nostra identità più profonda, riconosciamo che è da una matrice unica che tutto si manifesta.
Diventa evidente che occuparci dell’ambiente, occuparci degli altri, vuol dire sempre occuparci di noi. E allora cambiamo. E allora tutto cambia.

180 Marcella Danon, “From Ego to Eco”: The Contribution of Ecopsychology to the Current Environmental Crisis Management, Visions for Sustainability, Università di Torino, 2019.
181 State of the World, edito da World Watch Institute, pubblicato in Italia da Edizioni Ambiente.
182 Marco Roveda, Perché ce la faremo, Ponte alle Grazie, Milano, 2003.
183 Jamie Sams, Danzare il sogno, Edizioni Il punto d’incontro, Vicenza, 2000, pp. 127-128.
184 Fritjof Capra, cit., 1984, p. 38.
185 Rupert Sheldrake, La rinascita della natura, Corbaccio, Milano, 1993.
186 Mary Bateson, Comporre una vita, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 13.
Appendici
Ecopsicologia nel mondo

Associazioni internazionali di ecopsicologia


International Ecopsychology Society (IES). Associazione professionale degli operatori dell’ecopsicologia (ecotuner, ecopsicologi,
ecopsicoterapeuti, ecocounselor, green coach) in 21 nazioni e 5 continenti, nel 2020. ies.bio

The International Community for Ecopsychology (ICE). Una comunità informale, internazionale e interdisciplinare per affrontare e discutere
questioni dal punto di vista dell’ecopsicologia. Forum, eventi, indirizzi e link sul tema. www.ecopsychology.org

Le IES Schools nel mondo


La formazione in ecopsicologia in tutte queste scuole è chiamata IES Training ed è basata su un modello comune con gli stessi contenuti
fondamentali, personalizzati in base all’approccio specifico di ogni sede. La qualifica professionale rilasciata è quella di ecotuner, facilitatore della
relazione con la natura, e permette di iscriversi al Registro Internazionale degli ecotuner (IRoE).

Ecopsiché, Scuola di Ecopsicologia, Italia. La scuola è stata fondata in provincia di Lecco nel 2004 ed è diretta dalla psicologa Marcella Danon.
Il focus è sulla crescita personale e sull’educazione, con particolare attenzione alle professioni legate alla relazione di aiuto, al coaching e
all’ambiente. www.ecopsicologia.it

Hellenic Ecopsychology Society, Grecia. Fondata nel 2007, a Creta, dalla psicologa-psicoterapeuta Kleio Apostolaki, per accompagnare ad
approfondire il rapporto con la natura e integrarlo in modo creativo nella vita e nel lavoro. Nel 2018 è diventata Hellenic Ecopsychology Society,
Mental and Integrative Health. www.ecopsychology.gr

Centro de Ecopsicologia, Uruguay. Scuola fondata nel 2007 a Punta del Este. É la prima IES School in America Latina, diretta dalla
psicoterapeuta Teresita Domínguez, con focus su progetti di ecopsicoterapia, ecofemminismo ed ecofemminilità, ecopsicologia e tradizioni
ancestrali. ecopsicologia.com.uy

Escuela Ecopsicología España, Spagna. Fondata nel 2012 in Sierra de Gredos (Avila) dagli psicologi Luz Dominguez ed Enrique Repiso, oggi ha
sede anche ad Alicante, diretta da Belén Martin Serrano. La scuola ha un taglio ecopsicoterapeutico e di crescita personale con impegno sul piano
ambientale e sociale. ecopsicologia.es

Centro de Ecopsicologia, Argentina. Fondato nel 2015 dallo psicologo Ezequiel Álvarez Vega per favorire la riconnessione armonica con il
Kosmos, la Natura, con l’altro e con se stessi. Unisce il pensiero umanistico-transpersonale con un lavoro integrato sul corpo e le grandi saggezze di
tutti i tempi. www.ecopsicologiargentina.com

Koru Transformación, Instituto de Ecopsicología, Cile e Colombia. Promuove l’arte della facilitazione basata sul modello Koru per la
progettazione di esperienze trasformative. La scuola è stata creata nel 2015 ed è diretta dagli psicologi Marian Rios e Claudio Antonio Pereira.
korutransformacion.com

Instituto Brasileiro de Ecopsicologia, Brasile. Fondata nel 2016 dallo psicologo clinico Marco Aurélio Bilibio Carvalho, a Brasilia, promuove
una visione integrata della natura e della natura interiore, da applicare in varie professioni, tra cui la psicoterapia e l’educazione ambientale.
ecopsicologiabrasil.com

Naturaleza Humana, Messico. Centro di consulenza aziendale, coaching ed educazione ambientale, fondato nel 2007 a Città del Messico, e diretto
dalla psicologa Flor Roura Morales. www.naturaleza-humana.com.mx

Forest Ecotherapy, USA. Fondata nel 2019 in California da Julianne Skai Arbor, terapista forestale, arboricoltrice e artista, il programma integra
l’ecopsicologia con abilità di leadership, alfabetizzazione ambientale, consapevolezza multisensoriale e creazione di rituali in natura.
www.forestecotherapy.com

Altre realtà nel mondo dell’ecopsicologia


La Factoria, Oristano. Cooperativa fondata dalla pedagogista Silvia Mongili e da Giampaolo Meloni per promuovere l’ecopsicologia applicata a
campagne di informazione, formazione e sensibilizzazione con focus sul benessere individuale, sociale e ambientale. Sede sarda di Ecopsiché.
www.lafactoria.it

Kalipè Ecopsicologia Sicilia, Catania. Associazione per la promozione di attività ed escursioni in natura con approccio ecopsicologicamente
orientato e per la diffusione dell’ecopsicologia, la presidente è la psicoterapeuta Carmela Di Carlo. Sede siciliana di Ecopsiché.
www.facebook.com/ecopsicologiasicilia/

Università della Valle d’Aosta, il primo ateneo italiano in cui si insegna ecopsicologia. Giuseppe Barbiero, biologo ed ecologo, è titolare insieme
alla psicologa Marcella Danon dell’insegnamento di ecopsicologia, per gli studenti del corso di studi di Scienze e Tecniche Psicologiche.
www.univda.it

Ecopsychology, UK. Comunità britannica dell’ecopsicologia che raccoglie professionisti e persone consapevoli che il cambiamento necessario
sul piano sociale e ambientale richiede anche un cambiamento di coscienza. www.ecopsychology.org.uk

Schumacher College, UK. Centro Internazionale di studi ecologici nel Devon. Sua Santità il Dalai Lama ne è sostenitore e i più grandi nomi nel
mondo dell’ecologia e della psicologia contemporanea vi tengono dei corsi. www.schumachercollege.org.uk

EarthWise Education, Belgio. Centro diretto dalla psicologa Ann Sterckx, per la promozione di attività in natura e dell’ecopsicologia. Fornisce
competenze innovative nel sostegno di singoli, gruppi e organizzazioni, per creare un tessuto sociale ed ecologico che contribuisca a un mondo
sostenibile. earthwise.education
Ecopsychology Institute, Ungheria. Centro fondato dalla psicologa Zselyke Molnos per promuovere consapevolezza, benessere e relazioni sane
con il mondo più che umano e per realizzare progetti e interventi per un cambio di paradigma a livello individuale e collettivo. ecopsychology.hu

Alma Gaia, Portogallo. Centro della psicoterapeuta e psicologa della salute Claudia Rodrigues. Psicoterapia in natura, all’aperto e al chiuso,
relazione di aiuto, sessioni di focusing e seminari “al ritmo del pulsare della Terra”. www.facebook.com/almagaia.psicoterapia.natureza

School of Ecopsychology, Sud Africa. La prima scuola in Africa, creata nel 2020 e diretta da Andrea Marais-Potgieter, PhD in psicologia con
specializzazione in ecopsicologia. Opera con focus su etica ambientale e diritti animali. www.ecoschool.africa

Gatherings, USA. Il giornale della comunità internazionale di ecopsicologia. Articoli, notizie, eventi. Ha un archivio dei numeri precedenti, divisi
per argomento, con articoli interessanti sui diversi temi e aspetti dell’ecologia. www.ecopsychology.org/gatherings/

Naropa University, USA. Master universitario in Ecopsicologia dell’università a ispirazione buddista, a Boulder, Colorado. Diretto da Tina
Fields, rappresentante USA della International Ecopsychology Society. www.naropa.edu.

The work that reconnects, USA. Il sito di Joanna Macy, ecofilosofa californiana, attiva da sessant’anni nella diffusione di programmi su pace,
giustizia e coscienza ambientale. “Il lavoro che riconnette” è il nome del percorso che lei conduce in diversi paesi del mondo. www.joannamacy.net

Center for Ecoliteracy, USA. Centro per l’educazione a una vita sostenibile, fondato da Fritjof Capra e Zenobia Barlow a Berkeley. Offre
formazione e consulenza per l’introduzione a scuola di programmi didattici ed esperienziali. www.ecoliteracy.org

Healing Nature, USA. Il sito dello psicoterapeuta Philip Sutton Chard con l’archivio dei suoi articoli sull’integrazione di pratiche ambientate in
natura e processo terapeutico. www.philipchard.com

Project NatureConnect. Programma fondato e diretto dall’ecopsicologo Michael J. Cohen, nello stato di Washington, per promuovere educazione,
consulenza, cura con la natura e progetti rivolti al benessere locale e globale. www.ecopsych.com

Pardes Ecopsicologia, Brasile. Centro di crescita personale con un polo terapeutico e uno formativo, diretto dalla psicoterapeuta Ana Claudia
Alleotti. Pardês, “frutteto” in ebraico, è il simbolo del giardino interno: nutriti dalla Terra e dal cosmo, produciamo fiori, frutti e semi con ciò che
siamo. pardesecopsicologia.com.br

Nature Calling, Australia. Progetto di Geoffrey Berry, filosofo, counselor e arteterapista, per promuovere ecopsicologia, ecoterapia ed
ecospiritualità. Entrando in contatto con l’aspetto mitologico della psiche, si scoprono i simboli che ci ricollegano alla saggezza che si trova nelle
nostre profondità. www.naturecalling.org

The Gaia Foundation, Australia. Rete internazionale di gruppi e individui che condividono informazioni e impegno relativi a una vita più
sostenibile sul pianeta Terra. I tre obiettivi principali sono: crescita personale, impegno nella propria comunità e nei confronti della Terra.
www.gaiafoundation.org

E molti altri. L’ecopsicologia è in espansione.

Gli otto principi dell’ecopsicologia di Theodore Roszak

Nel suo primo libro sull’incontro e collaborazione tra ecologia e psicologia The Voice of the Earth: An Exploration of Ecopsychology, Theodore
Roszak, storico della cultura e docente universitario della California State University di Hayward, formula alcuni principi generali che possano
guidare sia ambientalisti che terapeuti nel progetto comune di definire una relazione sana tra noi e il mondo. Il suo obiettivo è quello di fornire degli
spunti per imparare ad ascoltare in profondità e sentire l’anima del mondo che parla attraverso l’anima individuale.

1. Il nucleo della mente è l’inconscio ecologico. Per l’ecopsicologia, la repressione dell’inconscio ecologico è la radice profonda della follia
collusiva insita nella società industriale; ritrovare l’accesso all’inconscio ecologico vuol dire ritrovare la strada per la salute.

2. Il contenuto dell’inconscio ecologico rappresenta, in una certa mistura, la registrazione vivente dell’evoluzione cosmica, a partire dalle condizioni
più distanti nella storia del tempo. Gli studi contemporanei sulla l’ordinata complessità della natura ci raccontano che la vita e la mente emergono
da questa evoluzione come sistema naturale culminante all’interno del dispiegarsi di quella sequenza di sistemi fisici, biologici, mentali e culturali
che chiamiamo universo. L’ecopsicologia fa riferimento diretto alle conclusioni della più moderna cosmologia per tradurle in esperienze reali.

3. Così come l’obiettivo di precedenti terapie è stato quello di recuperare il materiale represso nell’inconscio personale, così l’obiettivo
dell’ecopsicologia è quello di recuperare il senso di appartenenza e di reciprocità nei confronti dell’ambiente che ha sede nell’inconscio
ecologico. Altre terapie cercano di curare l’alienazione tra persona e persona, persona e famiglia, persona e società. L’ecopsicologia si propone
di curare l’alienazione di base tra persona e ambiente naturale.

4. Per l’ecopsicologia, così come per altre terapie, lo stadio cruciale nello sviluppo è l’infanzia. L’inconscio ecologico si rivela, ed è ogni volta un
dono, nello sguardo incantato sul mondo che hanno i neonati. L’ecopsicologia cerca di recuperare l’innata qualità animistica dell’esperienza del
bambino in adulti funzionalmente sani. Per fare questo si rivolge a diverse fonti, tra cui le tecniche di guarigione delle popolazioni native, il
misticismo naturale espresso nelle religioni e nell’arte, l’esperienza della natura incontaminata e selvaggia, le intuizioni dell’ecologia profonda.
Li adatta alla finalità di creare un ego ecologico.

5. Un ego ecologico sviluppa ed esprime un senso di responsabilità etica nei confronti del pianeta che viene sperimentato con la stessa intensità
della responsabilità etica nei confronti delle altre persone.

6. Tra i progetti terapeutici più significativi per l’ecopsicologia c’è la riconsiderazione di alcuni tratti compulsivi della mascolinità che permeano le
nostre strutture di potere politico e ci spingono a dominare la natura come se fosse un regno alieno e privo di diritti. A questo proposito
l’ecopsicologia condivide alcune (non tutte) delle intuizioni dell’ecofemminismo e della spiritualità femminile che si propongono di demistificare
gli stereotipi sessuali.

7. Tutto ciò che contribuisce alla creazione di forme di convivenza su piccola scala e al potenziamento dell’individuo nutre l’ego ecologico. Tutto
ciò che punta alla realizzazione di strutture dominanti su larga scala e alla soppressione dell’individualità indebolisce l’ego ecologico.
L’ecopsicologia, quindi, solleva la questione della salubrità del nostro gigantesco sistema culturale urbano-industriale, che sia di stampo
capitalistico o collettivistico. Ma lo fa senza rifiutare necessariamente il genio tecnologico della nostra specie o alcuni dei miglioramenti di
condizioni di vita che la civiltà industriale ha permesso di realizzare. L’ecopsicologia è post-industriale, non anti-industriale nel suo orientamento
sociale.

8. L’ecopsicologia sostiene che esiste una sinergia tra benessere planetario e benessere individuale. Il termine “sinergia” è scelto deliberatamente
per la sua tradizionale connotazione teologica, facendo riferimento all’insegnamento che l’umano e il divino sono collegati e cooperano nella
ricerca della salvezza. La traduzione e attualizzazione di questo concetto, in termini ecologici, potrebbe essere: i bisogni del pianeta sono i
bisogni delle persone, i diritti delle persone sono i diritti del pianeta.

“The work that reconnects” di Joanna Macy

I presupposti teorici del “Lavoro che riconnette”, un ciclo di seminari che l’ecofilosofa Joanna Macy conduce da cinquant’anni nel mondo, sono
riportati qui di seguito. I riferimenti ideologici di questo percorso sono il buddismo, la teoria generale dei sistemi e l’ecologia profonda. Joanna
Macy è una voce autorevole nel campo dell’attivismo a favore di pace, giustizia e difesa dell’ambiente, negli Stati Uniti e in ambito internazionale.

Questo mondo, in cui siamo nati e in cui si svolge la nostra vita, è vivo. Non è la nostra dispensa né lo scarico in cui riversare i nostri rifiuti, è
il nostro corpo più grande. L’intelligenza che ci ha fatto evolvere a partire dalla polvere di stelle e ci ha messo in relazione con ogni altro essere è
anche sufficiente per curare la nostra comunità terrestre, a condizione che ci sintonizziamo su questo obiettivo.

La nostra più vera natura è immensamente più antica e include molto di più dell’io separato a cui si fa riferimento nella nostra cultura
attuale. Siamo parte integrante del mondo in cui viviamo tanto quanto i fiumi e gli alberi, intessuti nello stesso intricato flusso di materia/energia e
mente. Avendoci permesso di evolvere sino a una consapevolezza autoriflessiva, il mondo può ora conoscere se stesso attraverso di noi, può
contemplare la sua stessa maestà, raccontare la sua storia e lenire le sue stesse sofferenze.

La nostra esperienza di dolore per il mondo ha origine nell’interconnessione con tutti gli esseri, da cui ci viene anche il potere di agire in sua
difesa. Quando neghiamo o reprimiamo il nostro dolore per il mondo o lo consideriamo come una patologia personale, rinunciamo al nostro potere
di prendere parte al processo di guarigione del nostro mondo. Questa apatia non è irreversibile. La nostra capacità di rispondere alla nostra e altrui
sofferenza – cioè l’essere in relazione autentica con se stessi, gli altri e la vita – può essere sbloccata.

Lo sblocco avviene quando il dolore non è riconosciuto non solo intellettualmente, ma è sperimentato emotivamente. Le informazioni
cognitive che abbiamo a proposito della crisi che stiamo affrontando, o anche rispetto alla nostra risposta psicologica ad esse, non bastano.
Possiamo liberarci dalla paura e dal dolore solo permettendoci di sperimentare queste emozioni. Solo allora possiamo scoprire la loro natura fluida
e dinamica. Solo allora esse potranno rivelare, a un livello più viscerale, la nostra reciproca appartenenza alla rete della vita.

Quando ci riconnettiamo con la vita, con la disponibilità a reggere il nostro dolore, la mente recupera la sua chiarezza innata. Non solo
sperimentiamo la nostra interconnessione con la comunità della Terra, ma sorge in noi il desiderio di affrontare l’esperienza della vita con un nuovo
paradigma di pensiero. I concetti che sottolineano l’interazione si rivelano evidenti e si impara molto di nuovo quando il sistema individuale si
riorganizza e si radica in un’idea di identità più vasta.

L’esperienza di riconnessione con la Terra fa emergere il desiderio di agire in suo favore. Nella misura in le capacità di autoguarigione della
Terra si esprimono attraverso di noi, ci sentiamo chiamati a partecipare alla grande svolta (great turning). Affinché queste capacità possano operare
concretamente devono ricevere la nostra fiducia e attivazione. I passi in questo processo possono anche essere piccoli, ma devono implicare un
qualche sforzo per oltrepassare i limiti dell’interesse personale e dell’abitudine. Il coraggio è un grande maestro e promotore di gioia.187

187 Traduzione da Joanna Macy, Molly Young Brown, Coming back to life, cit.
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