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Ernest Gellner

Nazioni
e nazionalismo
Prefazione di Gian Enrico Rusconi

Editori Riuniti
III edizione: aprile 1997
Titolo originale: Nations and nationalism
Traduzione di Maria Lucioni
© Copyright by Ernest Gellner, 1983
Basi! Blackwell Ltd., England, 1983
© Copyright Editori Riuniti, 1985
via Tomacelli, 146 - 00186 Roma
Grafica: Luciano Vagaggini
ISBN 88-359-4219-5
Indice

1x Prefazione

Nazioni e nazionalismo

I. Definizioni
Stato e nazione, p. 5 - La nazione, p. 8
II JI. La cultura nella società agricola
Potere e cultura nella società-Stato agro-letterata, p. 12 - La cultura, p. 14
- Lo Stato nella società agricola, p. 16 - Le varietà dei governanti nelle
società agricole, p. 18.
)~ III. La società industriale
La società in perenne crescita, p. 28 - Genetica sociale, p. 34 - L'età della
cultura superiore universale, p. 40.
-l'i IV. La transizione a un'età di nazionalismo
Una nota sulla debolezza del nazionalismo, p. 50 - Culture spontanee e
culture da giardino, p. 57.
<,I V. Che cos'è una nazione?
Il cammino del vero nazionalismo non è mai stato facile, p. 66.
7l VI. Entropia sociale e uguaglianza nella società industriale
Ostacoli all'entropia, p. 74 - Scissure e barriere, p. 84 - Diversità di focaliz-
zazione, p. 86.
101 VII. Una tipologia del nazionalismo
Le varietà dell'esperienza nazionalista, p. 111 - Il nazionalismo della dispe-
ra, p. 115.
125 VIII. Il futuro del nazionalismo
Cultura industriale: una o molte?, p. 130.
139 IX. Nazionalismo e ideologia
Chi è per Norimberga?, p. 147 - Una nazione, uno Stato, p. 151
155 X. Conclusione
Quello che non si dice, p. 155 - Sommario, p. 157

163 Bibliografia
165 Indice dei nomi
Prefazione

«Non abbiamo piu bisogno né del mito della nazione né di quel-


lo della classe.» Cosi Ernest Gellner concludeva la sua ultima impor-
I ante raccolta di scritti (Encounters with nationalism, 1994 1), prima
della sua improvvisa scomparsa. Una frase netta - quasi un testamento
spirituale - che esprime bene la direzione del suo lavoro scientifico e il
s110 stile. Avrebbe potuto siglare quella affermazione con un perento-
rio «questa è la verità!» - come spesso gli capitava di fare.
Che noi non abbiamo piu bisogno di miti nazionali o di classe, è
I 11or di dubbio. Ma siamo sicuri che di «nazione» si possa parlare sol-
1anto in termini di mito e/o di nazionalismi? Gellner, pur con qualche
precisazione, non esita a rispondere che, storicamente parlando, non
e' è nazione senza nazionalismo. Ma - di rimando ci chiediamo - che
cosa si deve intendere esattamente con nazionalismo?
Sono questi gli interrogativi attorno a cui ruota la riflessione del
nostro autore e che danno rilevanza al suo contributo. Ma sono inter-
rogativi che rimangono aperti anche dopo la lettura di questo suo
libro.
Nazioni e nazionalismo, ora ripubblicato dopo la prima edizione
italiana del 1985, rimane di gran lunga il lavoro piu noto di Gellner.
Nel corso dei dibattiti di questi anni, le sue tesi hanno ricevuto confer-
me e consensi, si sono sviluppate e articolate meglio, ma hanno
mostrato anche punti deboli insuperabili.

'Blackwell, Oxford U.K and Cambridge Mass. 1994. Il testo raccoglie 14 saggi
quasi tutti dei primi anni '90. L'ultimo saggio «An Alternative Vision» è apparso in ita-
liano in una versione parzialmente modificata e preceduta da altre considerazioni con
il titolo «Il mito della nazione e quello delle classi» in Storia d'Europa, Einaudi, Torino
I993, voi. I, pp. 638-94.

IX
La nazione non si è dissolta insieme con i nazionalismi di cui
sarebbe il prodotto - come afferma Gellner - ma pone quesiti di tipo
nuovo. La critica gellneriana al nazionalismo, lungi dall'avere quella
definitività che le attribuisce l'autore, semplicemente sgombra il
campo ad una riflessione rinnovata sulla nazione oggi.

Per formazione e per indirizzo di studio Gellner era un perso-


naggio singolare nel mondo accademico anglosassone. Prima titolare
di una cattedra di filosofia alla London School of Economics, poi
antropologo sociale a Cambridge. Studioso delle società maghrebine e
delle strutture sociali e religiose islamiche, ma contemporaneamente
analista del linguaggio e studioso della psicanalisi. È con questo appa-
rato concettuale che affronta i temi dello Stato, delle strutture produt-
tive delle diverse società storiche e la nascita delle nazioni moderne.
Questo approccio antropologico, strutturale o «materialistico» - come
dice l'autore - distingue la sua analisi da molta storiografia politica
sulla nazione e sul nazionalismo, in particolare da quella che lavora
sostanzialmente con i paradigmi della nazione civico-politica vs. nazio-
ne etno-culturale.
Ma Gellner oltre che analista del nazionalismo, ne è anche un
nemico sul piano dei valori. Da qui il pathos di molti suoi argomenti.
Senza dimenticare il suo stile di pensiero e di espressione, che ha fatto
parlare di lui come di un «razionalista intransigente», di un realista
ostile a tutte «le mascherate relativiste» postmoderniste, multicultura-
liste, decostruttiviste2 •
Ma anche qui siano dinanzi ad una singolare combinazione di
rigore e di rigidità.

'Dal suo ultimo saggio «La mascarade relativiste», pubblicato su Commentaire,


75, 1996, pp. 544-50, traggo alcuni passaggi che mi paiono molto significativi: «Il rela-
tivismo della conoscenza è una assurdità, il relativismo morale una tragedia. Non si
può comprendere la condizione umana se si ignora o si rifiuta la sua totale trasforma-
zione con la vittoria della rivoluzione scientifica [. .. ]. Non si capisce nicntt· della nostra
comune condizione sociale se non si parte dal fatto indiscmihik· dw 1111a conoscenza
autentica della natura è possibile, reale e ha trasformato total11w111t· i rift·ri1111.:nti di
base delle società umane. Fare come se la rivoluziont· st·it·111ifirn dl'I XVII Sl'rnlo e le
sul' applicazioni nell'ultima fase della rivoluzionl' ind11s1rii1I,·, l11111(i dall'uvl'r 1r,1sforma-
to il mondo, non che variazioni J.1 una c11h11ra all'ali rn i· M'll1Plin·11u·111r 1111a posa irre-
sponsahik. Lo steso vale per la 'costrnziom· sociull' ,kll,1 n·,111,t' , 1... ,).,,.,. ,·ssl'n· com-
pk·1ata ,·on b m,tr1a.i1111<· 11,1t11ral,· d,·/1,1 1rnl<'/,1. ( :i ,111111 d,·1 11111111 ,111,, , .1p.1, i1,1 delle
soci,·1,1 di ('OSITIIÌI'(' i loro propri 1111111<li l' q11r,1i li111i1i ,·,1111111 ..-pl111,111 li 1u1•,1r11 1111ovo
1'"1,·n· di ,·11111rollo ,·i lia .lato 11g11;d111,·111<· il "·11•,11 ,lo·l 1(111.J.,, 111 ""' ,,1, •,•.1 •,1.111111 con-
11.,1la1i .. lp. ">'>Ili.

\
Nuzioni e nazionalismo inizia con una affermazione, esplicita e
ili >I >an:ntcmente esauriente, che spesso viene citata pars pro toto rispar-
111ia11do al lettore la fatica di leggersi l'intero libro. «Il nazionalismo -
h·ggiamo - è anzitutto un principio politico che sostiene che l'unità
11azio11ale e l'unità politica dovrebbero essere perfettamenente coinci-
1lt-111i.»
Facciamo attenzione: l'interesse di Gellner è per il nazionalismo
intl·so come principio politico-culturale che pretende di far coincidere
1111i1ù «nazionale» ( qui non ulteriormente definita, ma di fatto sinoni-
1110 di «etnica») e unità «politica». Nella frase successiva l'autore spe-
, il irn e distingue il principio nazionalista in «sentimento» e «movi-
1111·1110» nazionalista. Si tratta dunque di un comportamento che ha
di1rn:nsioni pratiche politiche e teorico-culturali («Il nazionalismo è
1111:1 teoria della legittimità politica che esige che i confini etnici non
siano violati da quelli politici»).
Lo scrupolo scientifico con cui l'autore cerca di delimitare sin
dalla prima pagina il proprio oggetto di studio - il nazionalismo - lo
porta a riconoscere che esso contiene e dipende da due termini non
a11cora definiti: Stato e nazione. Del primo Gellner dà una definizione
wl'hcrianamente realistica: lo Stato è una istituzione impegnata a far
v;ilcrc l'ordine. Il discorso sulla nazione invece è piu complesso: oscilla
t rn l'idea che nazione sia sinonimo di cultura o di etnia ( ma non nel
sl'nso di un Anthony Smith che vedremo piu avanti) oppure che sia
1111a mera «contingenza», come e piu dello Stato. «Lo Stato è certa-
111cnte emerso senza l'aiuto della nazione. Alcune nazioni sono certa-
111cnte emerse senza la benedizione dei propri Stati. È materia di
discussione se l'idea normativa di nazione, nel suo senso moderno,
non abbia presupposto l'esistenza prioritaria dello Stata3».
Alla fine di questo tentativo definitorio la nazione appare come
«una categoria di persone» che si riconoscono in qualche modo «asso-
ciate», non importa in base a quali criteri purché questi siano discrimi-
nanti rispetto ad altri.
Per uscire dalle incertezze di questa definizione di nazione - cul-
turale e volontaristica - Gellner ritiene che in definitiva ciò che conta
è «quello che la cultura fa». In altre parole, che cosa sia la nazione lo
determina concretamente solo il nazionalismo.
Se la nazione può essere definita soltanto in termini di volontà
e/o di cultura, una piu precisa determinazione o concretizzazione di
questi concetti dipende dal movimento per la nazione, dal nazionali-

'Nazioni e nazionalismo, ed. it. 1985, p.9. L'edizione originale inglese è del 1983.

Xl
smo. «Le nazioni non sono iscritte nella natura delle cose, non costi-
tuiscono una versione politica della dottrina delle specie naturali.
Quel che esiste dawero sono le culture, spesso raggruppate in maniera
indefinibile. Ed esistono anche di solito ma non sempre unità politiche
umane di tutte le forme e dimensioni.» 4 È dunque a partire dalla poli-
tica che la cultura assume la forma-nazione. In questo senso «è il
nazionalismo che genera le nazioni, e non l'inverso».

Occorre precisare che questa operazione di «invenzione della


nazione» non è vista e seguita dall'autore con l'occhio dell'antropolo-
go che osserva dall'esterno con distacco, per cosi dire. No. Come dice-
vamo, Gellner è anche l'awersario e lo smascheratore del nazionali-
smo come illusione e autoillusione collettiva. «L'illusione e la autoillu-
sione di fondo creata consiste in questo: il nazionalismo è sostanzial-
mente l'imposizione generale di una cultura superiore a una società in
cui in precedenza culture inferiori dominavano la vita della maggio-
ranza, e in alcuni casi della totalità, della popolazione. Significa la dif-
fusione generalizzata di una lingua, mediata dalla scuola e controllata
a livello accademico, codificata per le esigenze di comunicazioni tec-
nologiche e burocratiche ragionevolmente precise. Esso è il consolida-
mento di una società impersonale, anonima, con individui atomizzati
reciprocamente sostituibili, tenuta insieme soprattutto da una cultura
comune di questo tipo, in luogo di una precedente complessa struttu-
ra di gruppi locali, sostenuta da culture popolari che si riproducono
localmente, ciascuna con caratteristiche proprie, ad opera dei micro-
gruppi stessi. Questo è ciò che realmente awiene. Ma è l'esatto oppo-
sto di quel che il nazionalismo afferma e di quel che i nazionalisti fer-
ventemente credono.» 5

Facciamo una prima considerazione. Ciò che Gellner descrive


come nazionalismo sullo sfondo del contrasto tipico-ideale tra la
«società agricola» e la «società industriale», altri studiosi lo presente-
rebbero come processo di modernizzazione e di industrializzazione
che diventa massificazione, atomizzazione e omologazione culturale
nella fase piu avanzata: il nazionalismo ne è una componente interna.
In particolare esso è un processo culturale e politico che attiva quel-
l'insieme di indicatori etno-culturali latenti ma specifici per i quali vale
il termine di «nazione». Certamente non esiste ontologicamente una

'Ibidem p. 56.
'Ibidem pp. 65-6.

XII
11azione (checché dicano taluni nazionalisti) ma essa non è neppure
111 ia pura invenzione.
Il «nazionalismo» gellneriano invece assurge a fenomeno-guida
ill'll 'insieme di tutti i processi elencati sopra, unificati sotto il segno
della intenzionalità politica culminante nel «mito della nazione».
Il lettore può intuire come sia difficile trovare una convergenza
I ra questi due modi radicalmente diversi di concepire nazione e nazio-
1l:11 ismo. Ci troviamo davanti ad un classico esempio di incompatibilità
1 li paradigmi. Tanto piu quando un autore come Gellner è fermamen-
lt· convinto che il suo metodo coglie un processo oggettivo e «vero»,
clic sfugge a chi è accecato dal nazionalismo.

Lo schema appena descritto si ritrova nel saggio «Il mito della


11azione e quello delle classi» del 1993, in termini ancora piu semplifi-
niti e astratti (in senso tipico-ideale). In particolare gli indicatori della
«società industriale avanzata» assomigliano sempre piu a quelli della
società post-industriale informatizzata e automatizzata contempora-
nea. Non è un dettaglio secondario: in questa ottica infatti il «naziona-
lismo» si configura «non piu al termine della transizione tra i due tipi
di società (agraria e industriale), ma in qualche punto intermedio della
I ransizione stessa».
Insomma, in questa nuova prospettiva il nazionalismo sembra
storicizzarsi come momento di una modernità che in qualche modo si
t.· conclusa senza che le nazioni da esso create spariscono. Questa
nuova prospettiva non falsifica la tesi gellneriana di fondo?
Si badi: questo modo di argomentare è mio, non è di Gellner. Il
suo ragionamento è assai piu complicato e contorto. A mio parere
l'autore (nel saggio del 1993) sollecita oltre misura il proprio schema
analitico per tenere conto di fenomeni che non quadrano piu con il
suo schema di partenza.
Gellner sente il bisogno di «approfondire» la sua teoria e intro-
duce cinque stadi per caratterizzare il passaggio da un mondo di
«imperi non etnici e microunità ad un mondo di Stati nazionali omo-
genei»6. In realtà il suo discorso è tutto sbilanciato sulla nascita e affer-
mazione del nazionalismo nel XIX e XX secolo, e ancora di piu sulla
fase piu acuta del nazionalimo continentale europeo tra il 1918 e il
1945.
Vediamo da vicino questo «approfondimento» della teoria. Il
primo punto che dovrebbe descrivere «la condizione di partenza»

"Il mito della nazione e quello delle classi, cit. pp. 6.52-75.

XIII
connotata dall'assenza di un qualsiasi legame tra etnicità e legittimità
politica, contiene in realtà una serie di giudizi generici sulla condizio-
ne politica dell'Europa alla vigilia della rivoluzione francese. Lo stesso
autore ammette che tale condizione non risponde al «solido tipo idea-
le di società agricola che abbiamo descritto».
Francamente non capisco il senso di questa mancata spiegazione
della fase cruciale della formazione degli Stati europei nel XVII e XVIII
secolo, che si conclude con l'affermazione che «nel 1815, all'inizio del
mondo moderno, le nazioni - indipendentemente dal fatto che esistes-
sero o meno (e nel complesso non esistevano ancora) - non erano
ancora prese in considerazione nella definizione delle nuove frontiere.
Ma la situazione era tale per cui il mondo sarebbe stato presto dispo-
sto ad ascoltare coloro che di li a breve avrebbero predicato che le
unità politicamente legittime erano solo quelle basate sulla nazione,
poco importa quale essa fosse>/.
Come si vede, ancora una volta ciò che conta per Gellner è il
momento e il modo in cui si impongono «i predicatori della nazione».
Non si chiede quale nation fosse quella creata dall'ancien régime che i
rivoluzionari francesi trovano bell'e pronta facendone addirittura la
fonte della loro legittimità politica. Non si chiede se la Kulturnation
dei tedeschi (un concettò che per certi aspetti poteva valere anche per
l'Italia preunitaria) avesse una sua realtà a prescindere dal suo
uso/abuso nazionalistico. Tutto questo sembra irrilevante al nostro
autore che si concentra sulle modalità «aggressive» ideologiche e poli-
tiche del nazionalismo. A queste modalità sono dedicati tutti gli stadi
restanti: l'irredentismo nazionalista, il nazionalismo irredentista trion-
fante e autodistruttivo, la sua fase sterminatrice Nacht und Nebel e da
ultimo l'attenuazione della virulenza nazionalista nelle nazioni sature
del dopoguerra.

Non ho nulla da dire sull'efficacia descrittiva di queste fasi. Ma


in queste generalizzazioni del nazionalismo non troviamo l'esperienza
del nazionalismo «liberale» inglese o quello «repubblicano» francese.
Certo, anche qui ci sono stati vigorosi, persino brutali processi di sco-
larizzazione coatta e di omologazione culturale. Ma per una ricostru-
zione storica «scientifica» del nazionalismo europeo sono irrilevanti le
differenze tra la nazionalizzazione delle masse del Terza repubblica
francese e quella dell'Impero guglielmino, che coprono il periodo
maturo e aggressivo dell'industrialismo europeo?

'Ibidem p. 656.

XIV
Mi viene il sospetto che lo Stato nazionale/nazionalistico messo a
I11nm da Gellner sia in realtà soltanto quello totalitario o comunque
q11l·llo programmato a diventarlo. In qualche passaggio della sua anali-
~1 Sl'mbra che ogni Stato nazionale sia virtualmente totalitario. Se è
rnsi, Cellner sbaglia. Anche l'idea che il genocidio o l'etnocidio siano
1111 prodotto tipico dell'irredentismo nazionalistico «industrializzato»
111111 risponde a verità. Purtroppo lo sterminio del nemico etnico
I rnmunque definito) non è una prerogativa della modernità industria-
li-, ,111che se le tecniche e le dimensioni del suo operare sono inegua-
1•.li:1tc.

Lo stesso Gellner intuisce le debolezze del suo modello, in parti-


rnlare nel passaggio dall'industrialismo classico a quello che lui chia-
111;1 lllaturo (e altri qualificherebbero già come post-industralismo) nel
q11.1k «il lavoro cessa di essere fisico e diventa semantico» e dovrebbe
l'sprimcre, secondo la teoria, il massimo del nazionalismo. Invece non
1· cosi. «Perché mai - si chiede allora - il nazionalismo dovrebbe atte-

nuarsi quando la semantizzazione del lavoro diventa generalizzata e


I•l'l'ché dovrebbe essere al culmine quando il processo di standardizza-
1.i1111c ~ agli inizi? La risposta risiede nella diffusione ineguale dell'in-
d11st rializzazione, che concentra le ineguaglianze e le tensioni nelle
pri1111: fasi, nel momento di avvio del lavoro semantico.»8
( ;ellner dunque ritiene che siano le differenze e le ineguaglianze
dl'i vari stadi dell'industrialismo a spiegare i gradi diversi del naziona-
lislllo. In realtà le «diverse fasce temporali» da lui introdotte per inte-
grnrl' e perfezionare il suo modello generale, contengono di soppiatto
indicatori che sono di altra natura.
Per cominciare, le fasce non sono semplicemente temporali ma
1·111ogcografiche e geopolitiche: la qualità e l'evoluzione degli Stati-
nazione europei muta passando dalla costa atlantica (dove la centraliz-
1.:1'1.ionc dei grandi Stati dinastici ha dovuto fare i conti solo con i con-
I adi11i e «l'etnografia è stata irrilevante per la costruzione della nazio-
lll'») all'area europea continentale e poi a quella orientale dove la
dimensione etnica è decisiva e complessa. È solo in queste ultime aree
l' i11 una fascia di tempo circoscritta che fa la sua apparizione il nazio-
nalismo sterminatore, mentre nelle altre aree geopolitiche occidentali
il 11azionalismo si mantiene in strutture piu o meno liberali.
Ma Gellner non sembra interessato a sottolineare questa dimen-
~i1111t· politica.

·· lhiJcm p. 667.

xv
Detto ciò, è innegabile che il suo modello serve a capire molto di
quello che sta accadendo nell'Europa orientale e nella ex-Unione
sovietica: in particolare la violenza dei neo-nazionalismi e la giustifica-
zione delle «pulizie etniche» per far coincidere nelle nuove nazioni i
confini etnici con i confini politici. Su questo punto non c'è nulla da
aggiungere. Ma - di nuovo - l'insieme di questi processi si spiega sol-
tanto con il ricorso alle variabili o alle fasi dell'industrialismo? La vo-
lontà dichiarata di questi regimi neo-nazionali di introdurre comun-
que sistemi democratici è un nuovo inganno, una nuova illusione/au-
toillusione nazionalistica? O la comparsa di «etnodemocrazie» - per
quanto sospette - segnala un'evoluzione che non sta piu dentro agli
schemi di Gellner?
La sua tesi - condivisibile - che le nazioni sono «una forma parti-
colare di correlazione di cultura e di sistema politico in determinate
circostanze economiche» avrebbe potuto offrirgli una base adeguata
per una tipologia storica e politica molto articolata. Invece Gellner usa
la sua tesi semplicemente per ribadire che le nazioni non «esistono
davvero». La sua preoccupazione continua ad essere la negazione di
ogni «ontologia della nazione», che è tipica dell'ideologia nazionalista,
anziché la ricerca della specificità della formazione delle nazioni e
della natura non meramente repressiva dei loro vincoli.

Questo complesso di problemi emerge anche nel confronto di


Gellner con Miroslav Hroch9, la cui «visione» sarebbe «alternativa»
alla propria. Il valore di questa visione starebbe «non nella valorizza-
zione tipicamente centro-europea del contributo dell'etnografia alla
costruzione della nazione, ma nel modo in cui la storia generale della
trasformazione del sistema socio-economico europeo è posta in rela-
zione con l'emergere del nazionalismo. Dall'indagine di tale ambito
emerge uno dei problemi piu persistenti e profondi di questo campo:
sono le nazioni o le classi i veri e principali attori della storia?» 10 •
Inutile dire che, impostato cosi il problema, la risposta non può
essere che negativa: né le nazioni né le classi, intese come entità a sé
stanti, tnuovono la storia. Ma che cosa intende esattamente Gellner
con classi? Nell'età industriale - dice - le classi sono «gli strati che
non conoscono il loro posto», mentre le classi preindustriali «sapeva-
no qual' era il loro posto». Poi precisa: «le rivoluzioni nazionali si sono

9
Studioso ceco autore di Socia! Prenindi!ÙJ11.1 u( N,1/in11,1I J<,·11i/lal in Europe,
Cambridge 1985.
"'Ibidem p.684.

XVI
v1·1itirnll' in qud casi in cui le differenze di classe e quelle culturali si
-111111 sovrapposte[. .. ]. Vale a dire: i movimenti nazionali furono effica-
l'I 1111111 quando erano sostenuti dalla rivalità di classe. Vale a dire: le
, l11ssi sl'llza l'etnicità sono cieche, ma le etnicità senza la classe sono
h11poll'llli. Né le classi né le nazioni creano da sole mutamenti struttu-
111 Ii. Solo la loro fusione determina tali mutamenti, nelle condizioni
, rrnll' dall'industrialismo» 11 •
< :011f'csso di non capire il senso di questa simmetria tra classe e
1111zil1lll' (salvo che nel rifiuto della loro ontologizzazione). Non c'è
d11l ,I ,io che il nazionalismo storico abbia usato le rivalità di classe per
1111porsi, ma non è chiaro che cosa vuol dire che «le classi senza etni-
, ·1111 sono cieche».
Nel contesto di questa problematica prende corpo un'altra obie-
zi111H': ( ;cIJner ha completamente ignorato l'opl?osizione politica dei
111ovi111cnti di classe di sinistra al nazionalismo. E un aspetto cosi tra-
Nrnrahilc? Semplicemente perché è fallita? L'esistenza di nazionalismi
d,·111onatici, il patriottismo dei movimenti di liberazione nazionale
111111 ro i regimi fascisti sono da considerare soltanto come varianti del
1111zionalismo? Non si tratta di riabilitare ingenuamente le qualità
rl irn-politiche del patriottismo (buono) rispetto al nazionalismo (catti-
vo). Ma alla luce delle pagine dedicate agli aspetti degenerativi del
11azionalismo, mi sembra un po' troppo riduttiva e «antropologistica»
la distinzione fatta da Gellner tra patriottismo e nazionalismo. Il
primo infatti è considerato semplicemente il fattore di tenuta e perpe-
111azione del gruppo umano, mentre il «nazionalismo è una specie
I 1111 a particolare di patriottismo, una specie che diventa pervasiva e
dominante solo in certe condizioni sociali, che di fatto prevalgono nel
mondo moderno e da nessun'altra parte» 12 •

[l nesso tra etnia e nazione e la loro piu precisa determinazione è


motivo di discussione e di critica delle posizioni di Gellner nello stesso
amhiente scientifico anglosassone da cui esce. Ricordo qui solo due
posizioni. Una, considerata dallo stesso Gellner come «opposta» alla
propria, è quella di Anthony D. Smith. Gli assunti di partenza di que-
st'ultimo sono in effetti incompatibili con quelli gellneriani: l'etnia è
una sorta di «nucleo» originario della nazione, depositario dei miti,
delle memorie e dei simboli che creano positivamente l'identità collet-
1iva. Altrettanto positivo è considerato il permanere del valore di rife-

"Ibidem pp. 686-7.


"Nazioni e nazionalismo cit.p. 156.

XVII
rimento alla nazione. Contro ogni impostazione «materialistica»,
Smith scrive che «la 'costruzione della nazione' non consiste semplice-
mente nello stabilire le istituzioni appropriate o nel generare una com-
plessa struttura di classe attorno ad una infrastruttura di comunicazio-
ni. La creazione di nazioni è una attività culturale ricorrente che deve
essere rinnovata periodicamente. Essa comporta incessanti reinterpre-
tazioni, riscoperte e ricostruzioni; ogni generazione deve riplasmare le
istituzioni e i sistemi di stratificazione nazionale alla luce dei miti,
memorie, valori e simboli del passato 1'». Visto in questa prospettiva il
nazionalismo è una impresa culturale positiva, non una mitologia
ingannevole.
Un' obiezione di tipo diverso proviene da un altro studioso ingle-
se, David Miller, che contesta la tesi gellneriana della «coincidenza tra
confini etnici e confini politici» quale requisito di una nazione e quindi
del suo potenziale aggressivo (allinendosi di fatto inconsciamente con
gli stessi assunti nazionalistici). Se si rifiuta l'assunto della nazione
come di una comunità etnicamente omogenea e si riconosce l'esistenza
di nazioni multi-etniche (afferma Miller), viene meno quella inferenza14 •
Gli studiosi che nel mondo anglosassone declinano positivamen-
te nazione e nazionalismo con i valori della etnia, non si atteggiano a
conservatori neo-tradizionalisti o ad apologeti delle etnie o piccole
nazioni. Al contrario percepiscono la distruttività dell'etnicismo sel-
vaggio rispetto alle acquisizioni delle nazioni storiche che pure hanno
toccano il limite delle loro prestazioni civilizzatrici. Anthony Smith
parla di «nazionalismo oltre le nazioni» o «pan-nazionalismo» quale
correttivo della forza disgregante delle singole etnie o vetero-nazioni
lasciate a loro stesse. Qui nazionalismo sta per capacità «di forgiare
comuni miti, simboli, valori e memorie di una comune eredità. Solo in
questo modo un pan-nazionalismo può create un nuovo tipo di iden-
tità collettiva che sovrasta ma non abolisce le singole nazioni» 15 •
A mio parere, la proposta di superare le dimensioni vetero-nazio-
nali in una super o pan-nazione europea è generosa ma semplicistica;
l'idea di ripercorrere per l'Europa la stessa strategia «mitopoietica»

"Anthony D. Smith, Le origini etniche delle nazioni (1986), ed. it. il Mulino,
Bologna 1992, p.442.
"«Naturalmente in un senso puramente ipotetico ogni gruppo etnico può essere
considerato come una "nazione potenziale", nella misura in cui possiamo individuare
le circostanze che lo portano ad avere aspirazioni nazionali. Ma noi dobbiamo interes-
sarci a ciò che è probabile che avvenga, non ciò che potrcbhc cwntualmcntc anche
accadere" cosi Davi<l Millcr, On Nationalily, Clarcndon l'rcss, ( lxford 1995, p.21.
"Anthony D. Smith, National Jdenlily, l'l'llg11in, l.ondn11 I</'l I, p.172.

XVIII
l'l'I" Il' Vl'll'ro-11azioni europee è suggestiva ma molto astratta.
1111111111111
,' I''.11tnp;1 11011 L' 1111a «nazione» <li tipo tradizionale e non rappresenta
111·p111m· «1111 popolo»: l'Unione europea non è uno Stato nel senso
I 111di1.in11:1h· 1 kl ll'rmine_ La cittadinanza europea crea una condizione
lq,11el1·, srn·ialt- l' politica di partenza per la costruzione dell'Europa
pulilìrn d1l' 11011 ha precedenti storici 11•• Essa rappresenta una sfida non
110111 di i11gq~m·ria istituzionale ma anche <li teoria politica che deve
1111.!1111· al di lit dei modi in cui si sono pensate e costruite le nazioni
111111 id w Sl'llZa andare contro di esse.
I II q11l'sl a ottica la messa in guardia di Gellner contro ogni
u1111111., poli1ico mantiene il suo valore: l'Europa non può nascere da
11,·11"1111:1 11pcrazione mitopoietica di stampo vetero-nazionale. Ma il
vi11rnl11 di 1111a cittadinanza basata sul riconoscimento di una storia
, 111111111l· rnndivisa (questa è per chi scrive la definizione minimale
1li•ll11 nazione democratica) può e deve avere anche una proiezione
l'llllljll'a.
Gian Enrico Rusconi

"' Su questa problematica si veda il cap.«Cittadinanza europea e "popolo" euro-


peo» del mio libro Patria e repubblica, il Mulino, Bologna 1997.

XIX
Ringraziamenti

La scrittura di questo libro ha beneficiato enormemente del-


l'niuto materiale e morale di mia moglie Susan e della mia segreta-
rin Gay Woolven, mentre la penultima stesura s'è avvalsa delle
1ncziose critiche di mio figlio David. Le persone che nel corso
degli anni mi hanno fornito idee e informazioni, in accordo o
in contrasto con le mie, sono cosf numerose che sarebbe impossi-
bile elencarle tutte; comunque il mio debito, consapevole e no,
<leve essere enorme. È però inutile dire che io soltanto sono re-
Nponsabile delle tesi sostenute in queste pagine.
E.G.
Tusenbach - Fra molti anni, voi dite, la vita sulla terra sarà bella,
meravigliosa. e vero. Ma per partecipare a questa vita fin da ora, per quanto
di lontano, bisogna prepararvisi, bisogna lavorare ...
Certo, bisogna lavorare. Senza dubbio state pensando: « Questo tedesco
diventa sentimentale». Ma io, parola d'onore, sono russo, e di tedesco non
so nemmeno una parola. Mio padre è ortodosso ...
Antòn Cechov, Le tre sorelle

Politika u nas byla vsak spise méne smelejsi formou kultury. (La no-
stra politica, tuttavia, era piuttosto una forma meno audace di cultura.)
J.Sladecek, Osmasedesaty ('68), Index,
Koln, 1980, diffuso prima a Praga come samizdat.

La nostra nazionalità è come il nostro rapporto con le donne: troppo


avviluppato nella nostra natura morale perché lo si possa onorevolmente
cambiare, e troppo accidentale perché valga la pena di cambiarlo.
George Santayana
I. Definizioni

Il nazionalismo è anzitutto un principio politico che sostiene


<"hc l'unità nazionale e l'unità politica dovrebbero essere perfetta-
mente coincidenti.
Il nazionalismo come sentimento, o come movimento, può
l'ssere meglio definito nei termini di questo principio. Il sentimen-
to nazionalista è il senso di collera suscitato dalla violazione di
questo principio, o il senso di soddisfazione suscitato dal suo appa-
gamento. Un movimento nazionalista è un movimento animato
da un sentimento di questo tipo.
C'è una varietà di modi in cui il principio nazionalista può
essere violato. I confini politici di un determinato Stato possono
non includere tutti i componenti della stessa nazione; o possono
includerli tutti ma includere anche alcuni stranieri; o può non
verificarsi contemporaneamente né il primo né il secondo caso,
cioè i confini politici possono non incorporare tutti i nazionali
e pur tuttavia includere alcuni non-nazionali. O ancora, una nazio-
ne può esistere, senza avere in sé stranieri, in una molteplicità
di Stati, si che nessun singolo Stato possa vantarsi di essere lo
Stato nazionale.
Ma c'è una forma particolare di violazione del principio nazio-
nalista cui il sentimento nazionalista è particolarmente sensibile:
se i governanti dell'unità politica appartengono a una nazione di-
versa da quella della maggioranza dei governati, questo per i nazio-
nalisti rappresenta un'infrazione assolutamente intollerabile della
legittimità politica. Il che può verificarsi sia attraverso l'incorpora-
zione del territorio nazionale in un impero piu vasto, sia attraverso
il dominio locale di un gruppo straniero.
Insomma, il nazionalismo è una teoria di legittimità politica
che esige che i confini etnici non siano violati da quelli politici
e, in particolare, che i confini etnici all'interno di un determinato
Stato - eventualità già formalmente esclusa dal principio nella
sua formulazione generale - non separino i detentori del potere
dal resto dei cittadini.
Il principio nazionalista può essere proclamato in uno spirito
etico « universalistico ». Ci potrebbero essere, e talvolta ci sono
stati, dei nazionalisti in astratto che, al di sopra di qualsiasi impul-
so in favore della loro particolare nazionalità, sono andati genero-
samente predicando la dottrina in favore di tutte le nazioni in
egual modo: ogni nazione ha diritto a una propria dimora politica,
ogni nazione deve astenersi dall'includere nel proprio recinto i
non-nazionali. Non c'è nessuna contraddizione formale nel procla-
mare un simile nazionalismo non-egoistico. Come dottrina può
essere sostenuta da alcuni buoni argomenti, quali l'opportuno de~
siderio di rispettare le diversità culturali, di mantenere un sistema
politico internazionale pluralistico e di allentare le tensioni interne
negli Stati.
Di fatto, però, il nazionalismo molto spesso non è stato cosf
mite e ragionevole, né cosf razionalmente simmetrico. Forse, come
credeva Immanuel Kant, la parzialità, la tendenza a fare eccezioni
a beneficio di se stessi e della propria causa, è la principale debo-
lezza dell'uomo da cui discendono tutte le altre; forse, questa ten-
denza contagia il sentimento nazionalista come qualsiasi altro, ali-
mentando quel che gli italiani ai tempi di Mussolini, chiamavano
il « sacro egoismo » 1 dei nazionalisti. Può anche darsi che l'effi-
cacia politica del sentimento nazionale verrebbe eccessivamente in-
debolita se i nazionalisti dimostrassero per i torti fatti dalla loro
nazione la stessa acuta sensibilità che dimostrano per quelli da
essa subfti.
Ma, al di là di queste considerazioni ce ne sono altre, legate
alla specifica natura del mondo in cui ci capita di vivere, che si
oppongono a un nazionalismo generalmente imparziale, prudente
e• ragionevole. Per dirla con parole piu semplici: sulla terra c'è
un grandissimo numero di nazioni potenziali. Il nostro pianeta
ha altresf spazio per un certo numero di unità politiche autonome
o indipendenti. Secondo calcoli ragionevoli, il numero delle prime,
le nazioni potenziali, è probabilmente assai, ma assai maggiore
1 In italiano nel testo.
dì quello degli eventuali Stati in grado di sopravvivere. Se questo
111}:omento o calcolo è giusto, non è possibile soddisfare tutti
l 11azionalismi, per lo meno contemporaneamente. E il soddisfaci-
111r11to di alcuni implica la frustrazione di altri. Questo argomento
t 1dteriormente e incommensurabilmente r-afforzato dal fatto che
1111111 issime delle potenziali nazioni del mondo vivono, o sono vissu-
tr Iìno a poco tempo fa, non in unità territoriali compatte, ma
11u·scolate con altre in strutture assai complesse. Ne consegue che,
ii, simili casi, una unità politica territoriale può diventare etnica-
11w11te omogenea soltanto se uccide, espelle o assimila tutti i non-
11:1zìonali. E la non disponibilità di questi ultimi a subire un siffat-
111 destino può rendere diffidle ~'attuazione pacifica del principio
1111zionalista.
Naturalmente queste definizioni, come la maggior parte delle
dl'fìnizioni, vanno applicate con buon senso. Il principio nazionali-
i'ila, cosi come l'abbiamo definito, non viene violato dalla presenza
dì piccoli gruppi di residenti stranieri, o anche dalla presenza occa-
"i1111ale di qualche straniero, diciamo, nel gruppo dirigente naziona-
li·. Quanti residenti stranieri o quànti membri stranieri della classe
dirigente ci debbano essere prima che il principio sia effettivamen-
11· violato non è possibile dirlo con esattezza. Non c'è una cifra
pl'rccntuale inviolabile, sotto la quale lo straniero può essere beni-
gnamente tollerato, e sopra la quale egli diventa inaccettabile e
Li sua vita e la sua sicurezza sono in pericolo. Senza dubbio questa
,·ìfra varia con le circostanze. L'impossibilità di fornire una cifra
precisa e generalmente valida non diminuisce, tuttavia, l'utilità
dl'lla definizione.

Stato e nazione
La nostra definizione di nazionalismo dipende da due termini
ancora non ben definiti: lo Stato e la nazione.
La discussione sullo Stato può cominciare dalla celebre defini-
zione che di esso dava Max Weber, quale ente che all'interno
della società possiede il monopolio della violenza legittima. L'idea
alla base di tale definizione è semplice e allettante: in società
hcn ordinate, come sono quelle in cui la maggior parte di noi
vive o aspira a vivere, la violenza privata o settoriale è illegittima.
11 conflitto di per sé non è illegittimo, ma non può essere equamen-
te risolto con la violenza privata o settoriale. La violenza può

5
essere applicata soltanto dall'autorità politica centrale, e da coloro
cui essa delega tale diritto. Tra le varie sanzioni intese al mante-
nimento dell'ordine, quella estrema - la forza - può essere
applicata soltanto da un ente speciale all'interno della società, -1,1n
ente chiaramente identificato, centralizzato e sotto rigoroso con-
trollo. Questo ente o gruppo di enti è Io Stato.
L'idea racchiusa in questa definizione, anche se corrisponde
abbastanza bene alle intuizioni morali di molti appartenenti alle
società moderne, anzi, probabilmente, della grande maggioranza,
non è del tutto esauriente. Ci sono « Stati - o, almeno, istituzioni
che siamo generalmente propensi a chiamare con tale nome -
che non possiedono il monopolio della violenza legittima nell'am-
bito del territorio che controllano. Uno Stato feudale non necessa-
riamente si oppone alle guerre private tra i suoi feudatari, purché
essi adempiano anche i loro obblighi verso il sovrano; o ancora,
uno Stato che conti tra i suoi sudditi popolazioni tribali non neces-
sariamente si oppone all'istituzione della faida, fintanto che coloro
che vi indulgono evitano di coinvolgere sulla pubblica via o nella
piazza del mercato le persone che non c'entrano. Lo Stato iracheno,
sotto il protettorato britannico dopo la prima guerra mondiale,
tollerava le incursioni tribali, purché i predoni si presentassero
debitamente al piu vicino posto di polizia prima e dopo la spedi-
zione, lasciando una regolare denuncia della strage e del relativo
bottino. Per farla breve, ci sono Stati che non hanno né la volontà
né i mezzi di imporre il loro monopolio della violenza legittima
e che, tuttavia, vengono, sotto molti aspetti, riconosciuti come
"Stati" ».
Il principio fondamentale di Weber sembra, comunque, vali-
do oggi, per quanto stranamente etnocentrico possa essere come
definizione generale, con il suo tacito assunto dello Stato occiden-
tale centralizzato. Lo Stato costituisce una espressione importante
e altamente distintiva della divisione sociale del lavoro. Laddove
non c'è divisione del lavoro, non si può neppur cominciare a parla-
re di Stato. Ma per fare uno Stato non basta una specializzazione
qualsiasi: lo Stato è la specializzazione e la concentrazione che
mira al mantenimento dell'ordine. Lo '<< Stato » è quella istituzione,
o serie di istituzioni, impegnata a far valere l'ordine {anche se
poi può essere impegnata in altre cose). Lo Stato esiste laddove
enti specializzati nell'imporre l'ordine, quali le forze di polizia
e i tribunali, sono separati dal resto della vita sociale. Essi sono
lo Stato.

6
Non tutte le società sono dotate di uno Stato. Ne consegue
Immediatamente che il problema del nazionalismo non sorge per
•odctà senza Stato. Se non c'è Stato, è ovvio che non ci si può
d1icdcre se i suoi confini coincidano o meno con quelli delle nazio-
ni. Se non ci sono governanti, non essendoci Stato, non si può
d1icdere se essi appartengano alla stessa nazione dei governati.
()1111ndo non esistono né Stato né governanti, non si può protestare
pt'I' il loro mancato adeguamento alle esigenze del principio del
1111zionalismo. Si può forse deplorare la mancanza dello Stato, ma
questa è tutt'altra questione. In genere i nazionalisti hanno inveito
rnntro la distribuzione del potere politico e la natura dei confini
politici, ma raramente, se non mai, hanno avuto occasione di deplo-
rnre l'assenza di potere e di confini insieme. Le circostanze in
l'lli il nazionalismo è generalmente insorto non sono state di solito
1111clle in cui lo Stato stesso, come tale, mancava, o quando la
111m realtà era seriamente in dubbio. Lo Stato era fin troppo visto-
Nnmente presente. A suscitare irritazione erano i suoi confini e/o
In distribuzione del potere, e probabilmente di altri vantaggi, al
Nuo interno.
. Questo è di per sé altamente significativo. Non solo la nostra
ildinizione di nazionalismo dipende da una precedente presunta
1lt-finizione di Stato: ma sembra anche un fatto che il nazionalismo
c-merge soltanto in un contesto in cui l'esistenza dello Stato sia
~ià in larga misura data per scontata. L'esistenza di unità politica-
mente centralizzate, e di un clima morale-politico in cui tali unità
1·cntralizzate sono date per scontate e per conformi alla norma,
è.· una condizione necessaria, anche se non assolutamente sufficien-
te, per l'esistenza del nazionalismo.
A titolo di anticipazione, riteniamo opportuno fare alcune
osservazioni storiche generali sullo Stato. L'umanità è passata at-
traverso tre fasi fondamentali della sua storia: la pre-agricola, la
agricola e la industriale. Gruppi di cacciatori e raccoglitori erano,
e sono, troppo piccoli per permettere quel tipo di divisione politica
del lavoro che costituisce lo Stato; di conseguenza, per costoro,
il problema d~llo Stato, di una istituzione stabile intesa a far
valere l'ordine, in realtà non si pone neppure. Per converso, la
maggior parte, se non la totalità, delle società agricole ha avuto
uno Stato. Di questi Stati, alcuni erano forti e altri deboli, alcuni
dispotici e altri rispettosi delle leggi, e si presentavano sotto una
grande varietà di forme. La fase agricola della storia umana è
il periodo durante il quale, per cos{ dire, l'esistenza stessa dello
7
Stato è una scelta. Inoltre la forma dello Stato è altamente varia-
bile. Durante la fase pre-agricola, dei cacciatori e raccoglitori, non
c'era nessuna scelta da fare.
Per converso, nell'età industriale, cioè post-agricola, una volta
ancora non c'è scelta; ma qui la presenza, e non l'assenza, dello
Stato è inevitabile. Parafuasando Hegel diremo che una volta
lo Stato non lo aveva nessuno, poi lo ebbero alcuni e alla fine
tutti . .La forma che assume rimane, naturalmente, ancora variabile.
Ci sono alcune scuole di pensiero sociale - l'anarchismo, il marxi-
smo - le quali sostengono che anche, o specialmente, in un ordina-
mento industriale lo Stato è superfluo, almeno in condizioni favo-
revoli o in condizioni che andranno realizzandosi col maturare
dei tempi. Ci sono valide ed ovvie ragioni per avere dei dubbi
in proposito; le società industriali sono enormemente grandi e
dipendono per il tenore di vita a cui si sono abituate (o a cui
desiderano ardentemente di abituarsi) da un sistema di division~
generale del lavoro e di cooperazione assai complesso. Parte di
questa cooperazione potrebbe essere, in condizioni favorevoli,
spontanea e senza bisogno di sanzioni stabilite a livello centrale.
L'idea che le cose possano costantemente funzionare in questo
modo, che possano conservarsi tali senza alcuna imposizione o
controllo, mette a dura prova la credulità di ciascuno.
Il problema del nazionalismo non insorge, dunque, quando
non c'è lo Stato. Non ne consegue che il problema del nazionalismo
insorga per tutti gli Stati senza distinzione. Anzi, insorge solo
per alcuni Stati. Resta da vedere quali si trovano effettivamente
di fronte a questo problema.

La nazione

La definizione di nazione presenta difficoltà ancora maggiori


di quelle che accompagnano la definizione di Stato. Sebbene l'uo-
mo moderno tenda a dare per scontato lo Stato centralizzato (e,
piu specificamente, lo Stato nazionale centralizzato), egli è, tutta-
via, capace, con uno sforzo relativamente piccolo, di vederne la
contingenza, e di immaginare una situazione sociale in cui lo Stato
sia assente. Inoltre, dispone delle nozioni necessarie a visualizzare
lo « stato di natura». L'antropologo può spiegargli che la tribu
non è necessariamente uno Stato su piccola scala, e che esistono
lonuc Ji organizzazione tribale cui lo Stato rimane assolutamente
r•trnnco. Viceversa, l'idea di un uomo senza nazione sembra im-
pmrc uno sforzo troppo grande all'immaginazione dell'uomo mo-
.Irmo. Chamisso, un emigré francese in Germania durante il perio-
tlo napoleonico, scrisse un significativo romanzo proto-kafkiano
1111 1111 uomo che aveva perso la sua ombra: sebbene parte dell'effi-
rnria Ji questo romanzo s'imperni indubbiamente sull'intenzionale
11111higuità della parabola, è difficile non sospettare che, per lo
•ni11ore, l'Uomo senza Ombra fosse l'Uomo senza Nazione. Quan-
1111 i suoi seguaci e conoscenti scoprirono la singolare anomalia

di Peter Schlemihl, l'uomo senza ombra, cominciarono a sfuggirlo


dirrn·nticando le sue doti di un tempo. Un uomo senza nazione
11fid:1 le categorie universalmente riconosciute e provoca ri-
pugnanza.
L'idea di Chamisso - se proprio questo era il messaggio
di!' intendeva trasmettere - era abbastanza valida, ma lo era
1111!0 per un determinato tipo di condizione umana, non per la
n111dizione umana in quanto tale in ogni tempo e luogo. L'uomo
1 ll'vc avere una nazionalità come deve avere un naso e due orecchi;
1111:1 deficienza in uno qualunque di questi particolari non è incon-
n·pihile, e di tanto in tanto si verifica, ma solo in conseguenza di
q11:1lche sciagura, ed è essa stessa una specie di sciagura. Tutto
,•i;, sembra ovvio, anche se, ahimè, non è vero. Ma che sia finito
1wr sembrare tanto ovviamente vero è certo un aspetto, o forse
il nocciolo stesso, del problema del nazionalismo. Avere una nazio-
111· non è un attributo intrinseco dell'uomo, ma oggi è arrivato
ud apparire tale.
Di fatto, le nazioni, come gli Stati, sono una contingenza,
11011 una necessità universale. Né le nazioni né gli Stati sono esistiti
in tutti i tempi e in tutte le circostanze. E inoltre, nazioni e
Stati non sono la stessa contingenza. Il nazionalismo sostiene che
nazione e Stato sono fatti l'una per l'altro; che l'una senza l'altro
1·:1ppresenta qualcosa di incompleto e crea una tragedia. Ma prima
rhc si potesse stabilire questo connubio, l'una e l'altro hanno
dovuto emergere, e il loro emergere è stato indipendente e contin-
gt•nte. Lo Stato è certamente emerso senza l'aiuto della nazione.
Alcune nazioni sono certamente emerse senza la benedizione dei
propri Stati. È materia di discussione se l'idea normativa di nazio-
ne, nel suo senso moderno, non abbia presupposto l'esistenza prio-
ritaria dello Stato.
Che cos'è dunque questa idea contingente di nazione che,

9
però, nella nostra epoca pare essere universale e normativa? La
discussione di due definizioni provvisorie e improvvisate aiuterà
a individuare con esattezza questo elusivo concetto.
1. Due uomini sono della stessa nazione se e soltanto se
condividono la stessa cultura, dove cultura significa a sua voltai
un sistema di idee, di segni, di associazioni e di modi di comporta-'
mento e di comunicazione.
2. Due uomini sono della stessa nazione se e soltanto se
si riconoscono reciprocamente appartenenti alla stessa nazione. In
altri termini, « È l'uomo che fa le nazioni»; le nazioni sono i manu-
fatti delle convinzioni, delle lealtà, delle solidarietà degli uomini.
Una semplice categoria di persone (gli occupanti, diciamo, di uno
stesso territorio, coloro che parlano la stessa lingua, ecc.) diventa
una nazione se e quando i membri della categoria riconoscono
compatti alcuni reciproci diritti e doveri in virtu della comune
appartenenza ad essa. È il loro vicendevole riconoscimento come
consociati di questo tipo ciò che li trasforma in una nazione, e
non altri attributi comuni, quali che siano, che distinguono questa
categoria da coloro che non ne sono membri.
Ciascuna di queste definizioni provvisorie, la culturale e la
volontaristica, possiede alcuni meriti. Ciascuna mette in luce un
elemento che è di reale importanza per la comprensione del nazio-
nalismo. Ma nessuna delle due è adeguata. Il concetto di cultura,
presupposto dalla prima definizione, in senso antropologico piu
che normativo, è purtroppo difficile da definire in tutti i suoi
dettagli e tutt'altro che soddisfacente. È forse meglio affrontare
il nostro problema usando tale termine senza tentare di spingersi
troppo avanti nella sua definizione formale e guardando a quello
che la cultura fa.
II. La cultura nella società agricola

Uno dei fenomeni che si verifica nell'età agricola della storia


111111111.1è paragonabile per importanza all'emergere dello Stato stes-
•11: l'emergere dell'alfabetismo e di una classe o ceto specializzato
,Il pnsone colte, di una « intellighenzia ». Non tutte le società
11wirnlc conobbero l'alfabetizzazione: parafrasando una volta an-
1'11111 I Icgel diremo che da principio nessuno sapeva leggere, poi
b11pararnno alcuni e alla fine tutti. Questo sembra essere, comun-
'l11<', lo schem~ secondo cui il processo di alfabetizzazione si svilup-
p11 i11 concomitanza con le tre grandi età dell'uomo. Nell'età di
111rzzo o agricola soltanto alcuni sanno leggere. Alcune società
r11j,1giungono l'alfabetizzazione, ma al loro interno sempre alcuni,
" 11111i tutti, sanno effettivamente leggere.
I.a parola scritta sembra entrare nella storia con il contabile
" rnn l'esattore delle tasse: i primi usi del segno scritto sembrano
•prsso essere legati alla necessità di tenere registri. Tuttavia, una
voli a affermatasi, la parola seritta acquisisce altri usi giuridici,
n,111 rattuali, amministrativi. Dio stesso mette per iscritto il suo
pullo con l'umanità e le sue norme di comportamento nella creazio-
11r. Teologia, legislazione, liti, amministrazione, terapia: tutto que-
11111 genera una classe di specialisti « letterati », in alleanza o piu
111wsso in competizione con taumaturgi « illetterati », a se stanti.
0
Nrllc società agricole lo svituppo dell'alfabetizzazione provoca un
111ofondo divario tra le grandi e le piccole tradizioni (o culti).
I .e· dottrine e le forme di organizzazione dell'intellighenzia nelle
H' ;111di culture letterate sono assai variabili, e la profondità del
divario tra le grandi e le piccole tradizioni può variare e di molto.
l'msono variare anche i rapporti tra l'intellighenzia e lo Stato;

11
può variare la sua organizzazione interna: l'intellighenzia può esse-
re centralizzata o libera, ereditaria o, al contrario, costituire una
corporazione aperta, ecc.
L'alfabetismo, la creazione di una scrittura ragionevolmente
permanente e standardizzata, che comporta in effetti la possibilità
di accumuhre e centralizzare un patrimonio di conoscenze che è
opera della classe colta, e la centralizzazione politica che è lo Stato,
non procedono necessariamente di perfetto accordo. Stato e intelli-
ghenzia sono spesso rivali, talvolta si invadono a vicenda, ma piu
spesso i Rossi e i Neri, gli specialisti della violenza e della fede,
sono rivali che operano ciascuno nel proprio ambito e i loro terri-
tori spesso non coincidono.

Potere e cultura nella società-Stato agro-letterata

Queste due forme fondamentali e peculiari della divisione


del lavoro - la centralizzazione del potere e la centralizzazione
della conoscenza/cultura - hanno per la struttura tipica della
società4Stato agro-letterata profonde e particolari implicazioni, eh~
sono meglio rilevabili se considerate insieme. Possiamo schema-
tizzarle come segue:
gruppi stratificati, segregati oriz-
zontalmente, di classe dirigente: mi-i
litari, amministratori, intellettuali e
talvolta commercianti.

comunità di produttori agricoli iso-


late lateralmente.

Fig. 1 - Forma generale della struttura sociale delle società agricole.

12
Nella tipjca società-Stato agro-letterata, la classe dirigente rap-
pl'esenta una piccola minoranza della popolazione, rigorosamente
st·parata dalla grande maggioranza dei produttori agricoli diretti,
i contadini. Generalmente parlando, la sua ideologia accentua piu
rhe minimizzare l'ineguaglianza delle classi e il grado di separazione
del ceto dirigente. Quest'ultimo può essere, a sua volta, suddiviso
in una serie di strati piu ·specializzati: i militari, i preti, gli intellet-
111ali, gli amministratori, i borghesi. Alcuni di questi strati (per
esempio il clero cristiano) possono non essere ereditari e trovarsi
rinnovati ad ogni generazione, sebbene il reclutamento sia stretta-
mente predeterminato dagli altri strati ereditari. Ma il punto piu
importante è questo: sia nel ceto dirigente nel suo complesso sia
nei vari strati che lo compongono è accentuata piu la differenziazio-
1w culturale che l'omogeneità. Piu i vari strati si differenziano
in ogni genere di atteggiamento, meno frizioni e ambiguità ci saran-
1111 tra loro. L'intero sistema favorisce linee orizzontali di divisione
rnlturale, e può persino inventarle e rafforzarle qualora manchino.
Differenze genetiche e culturali sono attribuite a quelli che di
fatto erano semplicemente strati differenziati dalle loro .funzioni,
11 I fine di rinvigorire la differenziazione e di renderla permanente
e autorevole. Per esempio, nella Tunisia degli inizi del XIX secolo
la classe dirigente si considerava turca, anche se ignorava completa-
mente la lingua omonima, e di fatto era di ascendenza assai mista
e· rafforzata da reclute dal basso.
Sotto la minoranza orizzontalmente stratificata al vertice, c'è
1111 altro mondo, quello delle piccole comunità, lateralmente separa-
lt\ dei membri della società privi di qualsiasi specializzazione.
()11i, di nuovo, la differenziazione culturale è molto marcata, anche
Sl' per ragioni del tutto diverse. Le piccole comunità contadine
vivono generalmente una vita tutta proiettata al loro interno e
sono legate a determinate località da esigenze economiche se non
da imposizioni politiche. Anche se la popolazione di una data
l'cgione proviene inizialmente da una stessa base linguistica, -
il che molto spesso non accade, - una specie di impulso culturale
genera differenze dialettali e d'altro tipo. Nessuno, o almeno quasi
nessuno, ha interesse a promuovere a questo livello una qualche
omogeneità culturale. Lo Stato si preoccupa solo di esigere le
lasse, di mantenere la pace, e non molto di piu, né ha alcun
interesse a favorire comunicazioni laterali tra le sue comunità sog-
1•.ette.
L'intellighenzia, è vero, può avere qualche interesse a far

13
valere certe norme culturali comuni. Alcuni intellettuali guardano
con sprezzo e indifferenza le usanze popolari, mentre altri, mirando
al monopolio del sacro, della salvazione e simili, combattono e
denigrano con forza la cultura popolare e i suoi taumaturghi, indi-
pendenti da qualsiasi scuola, che proliferano tra il popolo. Ma,
nelle condizioni generali prevalenti nelle società-Stato agro-lettera-
te, è quasi escluso che possano ottenere un vero successo. Tali
società non posseggono semplicemente i mezzi per tentare una
alfabetizzazione quasi universale e per incorporare le grandi masse
della popolazione in una cultura superiore, realizzando cosi gli
ideali della intellighenzia. Ciò che l'intellighenzia può tutt'al piu
ottenere è di assicurarsi che i suoi ideali vengano interiorizzati
come norme valide ma inattuabili, che vengano rispettati o anche
riveriti, e magari trasformati in aspirazioni nei periodici scoppi
di entusiasmo; ma in tempi normali essi sono onorati piu nella
trasgressione che nell'osservanza.
Ma l'elemento centrale, piu importante da sottolineare a pro-
posito della società-Stato agro-letterata è forse questo: in essa quasi
tutto si oppone alla definizione delle unità politiche in termini
di confini culturali.
In altre parole, se il nazionalismo fosse stato inventato nel
periodo in questione, le sue prospettive di essere universalmente
accettato sarebbero state davvero limitate. Potremmo anche dire
cosi: dei due potenziali partner, cultura e potere, destinati l'un
l'altro secondo la teoria nazionalista, nessuno dei due ha molta
inclinazione per l'altro nelle condizioni prevalenti nell'età agricola.
Esaminiamoli, ora, uno per volta.

La cultura

Agli strati superiori della società agro-letterata appare chiara-


mente proficuo accentuare, acuire ed evidenziare i tratti diacritici,
differenziali e monopolizzabili dei gruppi privilegiati. La tendenza
delle lingue liturgiche a distinguersi dal vernacolo è molto forte:
come se l'alfabetizzazione da sola non bastasse a creare una barrie-
ra tra i colti e gli incolti, come se fosse necessario approfondire
il fossato che li separa non soltanto affidando la lingua ad una
scrittura inaccessibile, ma rendendola addirittura incomprensibile
quando è parlata.

14
La creazione di steccati culturali orizzontali, oltre che ben
11n-etta perché favorisce gli interessi dei ,privilegiati e dei detentori
del potere, è anche realizzabile, e senza troppa fatica. Grazie alla
rl·lativa stabilità delle società agro-letterate, è possibile stabilire
Ir.1 la popolazione nette divisioni di stato, di casta o di gruppo
<· mantenerle senza creare intollerabili frizioni. Anzi, esteriorizzan-
clo le ineguaglianze, rendendole assolute e accettate, si contribuisce
11 farle piu forti e gradite dotandole inoltre di un alone di inevitabi-
li1.ì, persistenza e naturalezza. Ciò che è scritto nella natura delle
rnsc ed è per¼nne, non può essere personalmente, individualmente
1.ffcnsivo, né ,psichicamente intollerabile.
Al contrario, in una società intrinsecamente mobile e instabi-
ll·, il mantenimento di questi steccati, che separano livelli ineguali,
~- intollerabile e arduo. Contro di essi lavorano le poderose correnti
dl'lla mobilità. Diversamente da quanto il marxismo ha indotto
molti a pensare, è la società pre-industriale che coltiva le differen-
ziazioni orizzontali nell'ambito delle società, mentre la società in-
d11striale rafforza le linee divisorie tra nazioni piuttosto che quelle
Ira classi.
Lo stesso discorso vale, sia pur in forma diversa, per i gradini
pi(r bassi della scala sociale. Anche qui, l'interesse per le differen-
ziazioni orizzontali, spesso esigue ma localmente importanti, può
t·sscre intenso. Ma anche se il gruppo locale è all'interno piu o
111eno omogeneo, è assai improbabile che colleghi la sua peculiare
nrltura a qualsiasi tipo di principio politico, che pensi in termini
di una legittimità politica definita in maniera consona alla cultura
locale. Per una varietà di ovvie ragioni, un simile modo di pensare
,. , in queste condizioni, del tutto innaturale e sembrerebbe vera-
lnL·nte assurdo ai diretti interessati, qualora gli venisse spiegato.
I .a cultura locale è quasi invisibile. La comunità chiusa in se stessa
ll'nde a comunicare in termini il cui significato può essere identifi-
rnto soltanto nel contesto, a differenza dello scolasticismo degli
scribi relativamente indipendente da ogni dato contesto. Ma il
vernacolo del villaggio (o un sistema di abbreviazioni o un « codi-
n: ristretto ») non ha pretese politiche o normative; proprio il
rnntrario. Il massimo che può fare è indicare l'identità del villaggio
i l'origine o di chiunque apra la bocca sulla piazza del mercato

locale.
Insomma, se le culture proliferano in questo mondo, le sue
mndizioni generalmente non incoraggiano quel che si potrebbe
1liiamare l'imperialismo culturale, i tentativi di questa o quella

1.5
cultura di dominare e di espandersi finò a coprire una unità politi-
ca. La cultura tende ad esser contraddistinta sia orizzontalmente
(da caste sociali), sia verticalmente, come mezzo per definire co-
munità locali assai piccole. I fattori che determinano i confini
politici sono totalmente diversi da quelli che determinano i confini
culturali. I ceti colti hanno talvolta cercato di estendere la zona
di cultura, o piuttosto della fede che in suo nome hanno codificato;
e gli Stati talvolta indulgono in crociate, in aggressioni sostenute
dalla fede. Ma queste non sono le condizioni normali, diffuse
della società agricola.
È importante aggiungere che le culture in un mondo del
genere proliferano in una maniera quanto mai complessa; in parec-
chi casi è tutt'altro che chiaro come un determinato individuo
possa essere attribuito al suo « ambiente culturale ». Un contadino
dell'Himalaya, per esempio, può prestar orecchio a preti, monaci,
santoni di diverse religioni in diversi contesti e in diversi periodi
dell'anno; la sua casta, il suo clan, la sua lingua possono legarlo
a diverse unità. Coloro che parlano una data lingua tribale p9sso-
no, per esempio, non essere considerati membri di quella tribu,
se sono della casta occupazionale sbagliata. Lo stile di vita, l'occu-
pazione, la lingua, le pratiche rituali possono non essere tra loro
conformi. La sopravvivenza politica ed economica di una famiglia
può dipendere proprio dall'abile manipolazione e dal mantenimen-
to di queste ambiguità, dal tenere aperte scelte e connessioni varie.
I suoi membri non hanno magari il minimo interesse, o gusto,
per una autocaratterizzazione categorica e chiara quale oggigiorno
accompagna la presunta appartenenza ad una nazione che aspira
all'omogeneità interna e all'autonomia esterna. In un ambiente
tradizionale l'ideale di una singola identità culturale prevalente
non ha senso. I contadini delle colline nepalesi hanno spesso lega-
mi con una varietà di rituali religiosi e pensano in termini di
casta, clan o villaggio (ma non di nazione) a seconda delle circo-
stanze. Non ha molta importanza che l'omogeneità sia o meno
predicata. Non troverebbe comunque grande risonanza.

Lo Stato nella società agricola

In queste circostanze le culture hanno ben pochi incentivi,


o anche occasioni, per aspirare a quel tipo di omogeneità monocroma

16
l' di espansione e supremazia politica per cui, successivamente,
con il sopraggiungere dell'età del nazionalismo, finiscono per bat-
tersi. Ma come appaiono le cose dal punto di vista dello Stato
e-, in termini piu generali, dell'unità politica?
Le unità politiche nell'età agricola variano enormemente sia
nel tipo che nelle dimensioni. Tuttavia, generalmente parlando,
si possono dividere in due specie, o forse in due poli: comunità
locali che si autogovernano e vasti imperi. Da un lato, ci sono
le città~Stato, le suddivisioni tribali, le comuni contadine e cosi
via, che gestiscono i propri affari, con una proporzione di parteci-
pazione politica abbastanza alta (,per parafrasare l'utile espressione
di S. Andreski) e con una ineguagHanza soltanto modesta. Dall'al-
i ro, ci sono vasti territori controllati da un'unica concentrazione
di forze. Naturalmente, un'altra tipica forma politica è quella che
fonde questi due principi: un'autorità dominante centrale coesiste
rnn unità locali semiautonome.
Il problema che qui ci interessa è vedere se, nel nostro mon-
do, che contiene questi due tipi di unità, ci sono forze che favori-
scano quella fusione di cultura e Stato che è l'essenza del nazionali-
smo. La risposta deve essere No. Per il loro funzionamento le
rnmunità locali dipendono in buona misura da un contatto faccia
n faccia e non possono ampliare radicalmente le loro dimensioni
senza trasformarsi fino a diventare del tutto irriconoscibili. Queste
rnmunità, che sono tessere di un mosaico, di rado esauriscono,
dunque, la cultura di cui sono parte; possono avere il loro accento
r i loro costumi locali, ma questi tendono ad essere solo varianti
di una cultura piu vasta e intercomunicante che abbraccia molte
nitre comunità analoghe. Le città.Stato, per esempio, raramente
hanno una lingua loro propria. Senza dubbio gli antichi greci erano
da questo •punto di vista abbastanza tipici. Pur possedendo una
vigorosa consapevolezza della propria comune cultura e del contra-
sto tra questa cultura e quella di tutti i barbari (con, incidental-
mente, un grado di differenziazione culturale orizzontale tra gli
rllcni piuttosto basso), questo senso di unità aveva scarsa espres-
sione politica, anche a livello di aspirazioni, per non parlare dei
risultati concreti. Ma quando fu creato uno Stato panellenico sotto
la guida dei macedoni, esso si trasformò rapidamente in un impero
d1c trascendeva di gran lunga i limiti dell'ellenismo. Nell'antica
l ; rccia, per quanto sciovinisti a loro modo fossero i greci, uno
•dogan equivalente a « Ein Reich, ein Volk, ein Fiihrer » pare
non sia mai esistito.

17
Le varietà dei governanti nelle società agricole

La società-Stato agro-letterata è un tipo di società che è esisti-


ta per circa cinque millenni e che, nonostante la varietà delle
sue forme, ha in comune alcuni tratti fondamentali. La grande
maggioranza dei suoi cittadini è composta di produttori agricoli
che vivono in comunità, tutte proiettate al loro interno. Essi sono
dominati da una minoranza i cui principali attributi distintivi sono
l'esercizio della violenza, il mantenimento dell'ordine e il controllo
della saggezza ufficiale della società, che viene alla fine affidata
a un documento scritto. Questa classe dirigente di guerrieri-e-scribi
può comodamente rientrare in una generica tipologia secondo la
seguente serie di opposti:

1. centralizzata deoontrata
2. castrati staMorui
3. chiusa aipeNn
4. fusa speciaJizzrata

1. Sia la classe dei militari che quella dei « chierici», ossia


degli intellettuali, può essere centralizzata o decentrata. La Chiesa
medievale è uno splendido esempio di classe intellettuale centra-
lizzata che domina il clima morale di una civiltà. Gli ulama del-
l'Islam ottennero lo stesso risultato, ma con un'assenza quasi totale
di organizzazione centralizzata o di gerarchia interna. Essi erano,
in teoria, una classe aperta. I bramini erano, oltre che intellettuali,
un gruppo parentale chiuso; la burocrazia cinese comprendeva
scribi e amministratori insieme.
2. ,Dal punto di vista dello Stato centrale, il pericolo maggiore,
come ben aveva visto Platone tanti secoli fa, è l'acquisizione,
o il mantenimento, da parte dei suoi funzionari, militari o intellet-
tuali, di legami con particolari gruppi di consanguinei, i cui inte-
ressi potrebbero deviare i funzionari stessi dalla rigorosa via del
dovere, e nel contempo fornir loro un sostegno che finirebbe
per dotarli, all'occasione, di eccessivo potere.
Le strategie per contrastare questo diffuso pericolo variano
nei dettagli, ma si possono genericamente caratterizzare col termine
di castrazione. L'idea è di rompere i vincoli parentali privando
il futuro guerriero/burocrate/chierico sia di ascendenza sia di
18
discendenza, o di entrambe le cose. Le tecniche usate comprende-
vano l'impiego di eunuchi, fisicamente incapaci di avere discenden-
ti; di preti la cui posizione di privilegio aveva come inevitabile
condizione il celibato, che impediva il riconoscimento di prole;
di stranieri, che si poteva presumere avessero parenti ad un'adegua-
1a distanza; o di elementi di gruppi in qualche modo privi o esclusi
da certi diritti, i quali sarebbero stati rovinati se respinti dallo
Stato come datore di lavoro. Un'altra tecnica era l'impiego di
« schiavi», uomini che, pur essendo di fatto potenti e privilegiati,
tuttavia, « appartenendo» allo Stato, tecnicamente non avevano
altri vincoli legittimi; le loro funzioni e i loro beni potevano essere
assorbiti dallo Stato in qualsiasi momento senza neppure la finzio-
ne del diritto a un debito processo, eliminando cosi ogni sorta
di possibile rivendicazione da parte di qualche gruppo locale o
di parenti del funzionario destituito.
Molto spesso venivano ingaggiati eunuchi nel senso piu com-
pleto del termine 1 • I preti costretti al celibato erano, naturalmen-
te, i piu numerosi nei paesi cristiani. Dopo il declino del califfato
la burocrazia militare composta di schiavi occupava un posto im-
portante negli Stati islamici. Gli stranieri erano spesso numerosi
tra le guardie di palazzo e negli uffici finanziari degli imperi.
La castrazione non era tuttavia un sistema universalmente
usato. La burocrazia cinese veniva reclutata tra la piccola nobiltà
di provincia; e la classe dei feudatari europei riusd rapidamente
a far prevalere il principio dell'eredità su quello dell'assegnazione
ili terre per servizi resi. Al fine di distinguerli per contrasto dai
castrati, possiamo chiamare stalloni quei membri delle élites diri-
genti cui era formalmente concesso di riprodursi socialmente e
di mantenere i posti che occupavano per i loro rampolli.
3. Le classi dei militari, dei burocrati e degli intellettuali
offrono dei vantaggi, aperte o chiuse che siano. Il clero europeo
e la burocrazia cinese erano classi tecnicamente aperte, come del
resto gli ulama musulmani, pur essendo il loro personale reclutato
prevalentemente da uno strato sociale limitato. Nell'induismo i
preti e i governanti-guerrieri sono classi chiuse e separate, e la
loro reciproca impenetrabilità (teorica) è forse essenziale per il
f1mzionamento del sistema. Sono dunque classi chiuse e nel con-
tempo non-fuse, distinte. Nell'Islam (salvo che nei periodi dei
1 K. Hopkins, Conquerors and slaves, Cambridge, 1978, cap. 4.

19
mamelucchi e dei giannizzeri) né i guerrieri né gli scribi sono
evirati.
4. Infine, la classe dirigente può o fondere le funzioni dei
militari e dell'intellighenzia (e forse di altri) oppure separarle
!!Ccuratamente creando gruppi specializzati. Formalmente, l'indui-
smo le separava. Il feudalesimo europeo qualche volta le fuse
negli ordini militari.
Sarebbe interessante seguire nei dettagli storici concreti le
varie combinazioni possibili che nascono dalla scelta di queste
alternative. Tuttavia, ai nostri fini attuali quel che importa è qual-
cosa che tutte le varianti tendono ad avere in comune. I detentori
del potere sono presi in una sorta di campo di tensione tra comuni-
tà locali, che sono su scala sub-nazionale, e uno st,ato o casta
orizzontale, che è piu che nazionale. Essi sono fedeli a un ceto che
è interessato a differenziarsi dai ceti inferiori assai piu che a diffon-
dere tra questi ultimi 1-a propria cultura, e che molto spesso estende
i propri confini oltre i limiti della società4Stato locale dimostran-
dosi trans·politico e in competizione con lo Stato. Soltanto di riado
(come nel caso della burocrazia cinese) questo ceto coincide con
lo Stato (e in tal caso rivela un certo tipo di nazionalismo).
L'unico ceto che si può dire possegga una politica culturale
è quello intellettuale. Talvolta, come nel caso dei bramini, la sua
linea tende in effetti a creare una complementarità e una mutua
interdipendenza tra se stesso e gli altri ordini. Esso cerca di raffor-
zare la propria posizione per rendersi indispensabile e i ruoli com-
plementari che attribuisce a sé e agli uomini comuni, agli incolti,
lungi dal favorire la propria universalizzazione, formalmente la
impediscono. Nonostante questo ceto tenda a stabilire una autorit~
monopolistica sulle norme rituali, non desidera vedersi emulato.
Desidera ben poco anche la forma piu sincera di adulazione, l'imita-
zione, sebbene sia esso stesso a provocarla.
Altrove, come nell'Islam, l'intellighenzia di tanto in tanto
si assume compiti missionari da svolgere tra i fratelli piu deboli,
di solito recidivi, della stessa fede, con adeguata serietà. Non c'è
nell'Islam nessuna norma che stabilisca che alcuni devono pregare,
a.Itri combattere e altri ancora lavorare, e che questi tre stati non
debbano osare ciascuno di sconfinare nel campo dell'altro. Stando
agli effettivi precetti della fede, ognuno può fare tutte e tre queste
cose se ne ha le doti e l'energia. (Questo latente egualitarismo
è molto importante perché l'Islam possa felicemente adattarsi

20
al mondo moderno.) Non c'è nessun ostacolo formale o teologico
n una politica culturale missionaria ad oltranza. A livello pratico
ç'è ancora un problema: se tutti sistematicamente si dedicano agli
studi giuridico-teologici, chi baderà alle pecore, alle capre, ai cam-
melli? In alcune parti del Sahara ci sono intere tribu indicate,
da un patto intertribale, come il Popolo della Bibbia. Ciò significa,
in pratica, soltanto che il personale religioso è di solito reclutato
tra questi gruppi. Non significa che tutti diventino in effetti specia-
1isti religiosi. Gran parte di essi continueranno a lavorare e a
rnmbattere. Le.uniche comunità, in cui una parte davvero rilevante
di maschi adulti si dedicava allo studio della Legge, erano alcune
comunità ebraiche dell'Europa orientale. Ma si trattava di un caso
l'stremo, particolare, e comunque queste comunità erano in effetti
st1b-comunità in una società piu vasta e complessa.
Per ragioni molto profonde, potenti e insuperabili, dunque,
il ceto intellettuale nelle società agro-letterate non può veramente
dominare e assorbire l'intera società. Talvolta .sono le sue norme
:1 proibirlo, talaltra sono gli ostacoli esterni che lo rendono impos-
sibile; ma quest'ultima evenienza costituisce, in ogni caso, un effet-
tivo e sufficiente impedimento, anche se le norme fossero sempre
favorevoli a questa aspirazione.
Nella società agricola sarebbe solo un vano sogno cercar di
imporre a tutti i livelli sociali una intellighenzia universalizzata
e una cultura resa omogenea, sulla base di una scrittura e di norme
rentrali. Anche se un simile programma fosse contenuto in alcune
dottrine teologiche, non può essere, e non è, attuato. È semplice-
mente fuori di ogni possibilità. Mancano le risorse necessarie.
Ma che cosa accadrebbe se un giorno l'intellighenzia si univer-
salizzasse, se si estendesse a tutta la società, non attraverso propri
si orzi, non ad opera di qualche eroica o miracolosa jihad, ma
di una forza molto piu efficace, profondamente r,adicata nella
s, ,detà, attraverso una radicale trasformazione dell'intera natura
della divisione del lavoro e dei processi conoscitivi e produttivi?
I .a risposta a tale quesito, e la specificazione della natura di tale
I rasformazione, risulteranno cruciali per la comprensione del na-
zionalismo.
Si noti che nell'età agricola solo alcune élites in alcune società
nano sistematicamente castrate attraverso l'una o l'altra delle
lccniche piu sopra descritte. E anche dove ciò avveniva, sarebbe
stato difficile, come prevedeva Plaitone, imporre questa pratica
all'infinito. I custodi, siano mamelucchi o giannizzeri, burocrati

21
o titolari di prebende, diventano corrotti, acqu1S1scono interessi
e vincoli e continuità, o si lasciano sedurre dal perseguimento
di onori e ricchezze e dalla tentazione di perpetuarsi. L'uomo
della società agricola sembra esser fatto di un metallo corruttibile.
Il suo successore, l'uomo della società industriale, sembra
esser fatto di un metallo piu puro, anche se non totalmente puro.
Che cosa accadrebbe se accidentalmente si affermasse un ordine
sociale in cui l'intellighenzia diventasse alla fine universale, in
cui il saper leggere e scrivere non fosse piu una specialità ma
la condizione prima di ogni altra specialità, e in cui praticamente
tutte le professioni cessassero di essere ereditarie? Che cosa acca-
drebbe se la castrazione diventasse nel contempo quasi universale
ed effettiva, se ognuno di noi fosse un mamelucco de robe, che
mette i doveri della sua professione al di sopra dei vincoli di
parentela? In un'epoca di intellighenzia universalizzata e di domi-
nio di mamelucchi, il rapporto tm cultura e Stato cambierebbe
radicalmente. La cultura superiore pervaderebbe l'intera società,
la definirebbe e avrebbe bisogno dello Stato per sostenersi. Qu,e-
sto è il segreto del nazionalismo.
III. La società industriale

Le origini della società industriale continuano ad essere ogget-


1o di dotte discussioni. E credo che sarà probabilmente cosi per
sempre. Una trasformazione enormemente complessa è avvenuta
in una società molto grande, diversificata e intricata, e l'avveni-
mento rimane veramente unico: nessuna industrializzazione imita-
I iva può essere tratta come un fenomeno dello stesso tipo dell'in-
dustrializzazione originale, per il semplice fatto che le altre erano
soltanto imitazioni, compiute alla luce dell'ormai consolidata no-
zione che la cosa si poteva fare ed aveva notevoli, manifesti vantag-
gi (anche se l'ideale emulato era stato, naturalmente, interpretato
in maniere diverse d'ogni genere). Non è dunque possibile ripetere
l'avvenimento originale, frutto dell'attività di uomini che non si
rendevano conto di quello che andavano facendo; una mancata
rnnsapevolezza che è l'essenza stessa dell'avvenimento. Non possia-
mo farlo per una serie di ragioni stringenti: il puro fatto della
ripetizione lo rende diverso dalla versione originale; è escluso,
rnmunque, che si possano riprodurre tutte le circostanze che ac-
compagnarono la nascita dell'Europa occidentale moderna; ed
l'sperimenti su una simile scala, per il gusto di stabilire un punto
teorico, sono difficilmente concepibili dal punto di vista morale.
In ogni caso, per ordinare i fili causali di un processo tanto compli-
cato, avremmo bisogno di ricreare non una ma tante situazioni,
che sono assolutamente al di fuori della nostra portata.
Ma se non possiamo stabilire realmente l'eziologia dell'indu-
strialismo, possiamo sperare almeno di fare qualche progresso nel
proporre modelli del funzionamento generale della società indu-
striale. Di fatto, il vero merito e l'importanza del celebre saggio
di Max Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo,

23
mi sembra stiano non tanto nell'affascinante ma astratta ed inutile
ipotesi sulla genesi dello spirito capitalistico quanto nelle riflessio-
ni dell'autore sui tratti distintivi generali del nuovo ordine sociale.
Sebbene lo spostamento d'interesse (del tutto salutare) dalle origi-
ni del capitalismo a quelle dell'industrialismo sia, in realtà, avvenu-
to soltanto dopo Weber, e come conseguenza dell'emergere di
società industriali non-capitalistiche, questa riformulazione del pro-
blema cruciale è già implicita nell'attenzione di Weber per la buro-
crazia, e insieme nel suo interesse per lo spirito imprenditoriale.
Se una burocrazia centralizzata esemplifica il nuovo Geist né piu
né meno dell'uomo d'affari razionale, allora è chiaro che dobbiamo
occuparci dell'industrialismo piu che del capitalismo come tale.
Nell'analisi weberiana, e penso in qualsiasi plausibile analisi
del nuovo spirito, la nozione di razionalità deve essere centrale
e decisiva. Lo stesso Weber non era troppo abile nel dare defini-
zioni coerenti ed adeguate, e particolarmente in questo caso, anche
se è possibile distillare dai contesti dell'uso che egli fa di questa
nozione di razionalità che cosa volesse realmente dire, e concludere
che questa nozione fondamentale è decisiva per l'argomento in
questione. Guarda caso, la stessa nozione di razionalità è esplorata,
con ineguagliata profondità filosofica, dai due maggiori filosofi
del XVIII secolo, David Hume e Immanuel Kant: entrambi, nella
appassionata illusione di essere impegnati, sempre e ovunque a
studiare l'intelletto umano come tale, an sich, stavano di fatto
illustrando con grande acutezza la logica generale del nuovo spirito
il cui emergere caratterizzò la loro epoca. Quel che questi due
pensatori avevano in comune era per lo meno altrettanto impor-
tante di quel che li separava.
Due elementi sono vistosamente presenti nella nozione we-
beriana di razionalità. Uno è la coerenza, l'analoga maniera di
trattare casi analoghi, la regolarità, quel che potremmo chiamare
l'anima stessa o l'onore del buon burocrate. L'altro è l'efficienza,
la fredda razionale selezione dei migliori mezzi disponibili per
dati fini, chiaramente formulati e isolati; in altri termini, lo spirito
dell'imprenditore ideale. Metodo e efficienza possono essere consi-
derati gli elementi imprenditoriali e burocratici dello spirito di
razionalità globale.
Personalmente non credo che questi due elementi siano dav-
vero indipendenti l'uno dall'altro. La nozione di efficienza in rap-
porto a mezzi-fini implica che chi agisce scelga sempre la stessa
identica soluzione per -un dato problema, senza riguardo per consi-

24
dcrazioni « non pertinenti»; ne consegue come immediato corolla-
rio la necessità burocratica di simmetria nella maniera di trattare
problemi analoghi. L'imperativo della simmetria non implica con
nltrettanta immediatezza il corollario dell'efficienza (e anzi, dire-
mo, come fatto empirico, che i burocrati, anche o specialmente
q11clli onesti e coscienziosi, non sempre sono particolarmente effi-
cienti, come lo stesso Weber notava); tuttavia, il soddisfacimento
costante e non-superficiale della necessità di metodo implicherà
l'uso di un linguaggio neutro e generale per la specificazione sia
dei fini che del fatto, dell'ambiente in cui i fini verranno perseguiti.
Tale linguaggio soltanto, con la sua chiara specificazione di fini
t· mezzi, permetterà, in definitiva, di caratterizzare le azioni in
maniera da garantire che i fini chiaramente identificati vengano
raggiunti coi mezzi scelti per la loro efficacia ottimale, e per niente
ultro.
Quel che sta alla base dei due elementi dello spirito razionale
di cui Weber ha chiara coscienza (metodo e efficienza) è qualcosa
di piu profondo, esplorato con cura da Hume e da Kant nella
fl'lice illusione di star indagando sull'intelletto umano in generale:
t·, cioè, una comune misura del fatto, un valore corrente, un corso
concettuale universale, per cosi dire, ai fini della caratterizzazione
~cnerale delle cose; è l'esprit d'analyse, vigorosamente predicato
e specificato già da Cartesio. Ciascuno di questi elementi è presup-
posto dalla razionalità, nel senso che qui ci interessa, come il
segreto dello spirito moderno. Per corso concettuale unico o comu-
ne intendo che tutti i fatti sono collocati in un unico .spazio logico
continuo, che i discorsi che li riferiscono si possono riunire e
in generale collegare l'un l'altro, cosi che per principio un unico
linguaggio descrive il mondo ed è intimamente unitario; o, sul
wrsante negativo, intendo dire che non ci sono fatti o campi
isolati, privilegiati speciali, protetti da contaminazione o contrad-
dizione da parte di altri, e attivi in spazi logici loro propri indipen-
denti e isolati. Proprio questo era, naturahnente, il tratto piu
t·datante delle concezioni pre-razionali e pre-moderne: la coesi-
stenza al loro interno di molteplici sottomondi, non adeguatamente
11niti, ma gerarchicamente collegati, e l'esistenza di fatti speciali
privilegiati, considerati sacri e al di sopra di ogni normale giudizio.
In un ordine sociale tradizionale, i linguaggi della caccia,
della mietitura, dei vari rituali, della sala consiliare, della cucina
o dell'harem, formano tutti sistemi autonomi: congiungere espres-
sioni tratte da questi disparati campi, cercarne le incoerenze, tenta-

25
re di unificarle tutte, sarebbe un solecismo sociale o peggio, magari
una bestemmia o un atto d'empietà, e il tentativo stesso risultereb-
be incomprensibile. Al contrario, nella nostra società si parte dal-
l'assunto che tutti gli usi allusivi della lingua rimandino in defini-
tiva a un unico mondo coerente, e si possano ridurre a un idioma
unitario; e che sia legittimo collegarli l'un l'altro. « Semplicemente
connettere » è un ideale intelligibile e accettabile. Le filosofie mo-
derne della conoscenza sono spesso la nostra espressione e codifi-
cazione di questa idea, e una aspirazione che a sua volta non
è un capriccio filosofico, ma ha profonde radici sociali.
L'operazione di rendere i fatti uniformi e omogenei non può
essere compiuta fino in fondo se non è accompagnata da quel
che possiamo chiamare la separazione di tutti i separabili, l'esprit
d' analyse, la suddivisione, sia pur a livello mentale, di tutti i com-
plessi nelle loro parti costitutive e il rifiuto di accettare aggregazio-
ni concettuali in blocco. È proprio costringendo insieme le cose
che si perpetuano le concezioni tradizionali e i pregiudizi in esse
insiti; ed è insistendo nel valutare le cose separatamente che ci
liberiamo di questo fardello. Queste aggregazioni in blocco, e gli
spazi concettuali discontinui, sono gli equivalenti, nella sfera delle
idee, delle strutture e dei raggruppamenti s~iali stabili a livello
degli uomini. Parimenti, l'unificato e lo standardizzato, per cosi
dire il mondo metrico dei fatti come concepito nella filosofia di
Hume e di Kant, corrispondono alle collettività cli uomini uniformi
e anonime della società di massa. Nella presente trattazione, quel
che ci interessa sono gli uomini e i loro raggruppamenti piu che
le idee; ma l'unificazione delle loro idee in un sistema unitario
e continuo è con~ssa con il loro raggrupparsi in comunità interna-
mente fluide e culturalmente continue.
La società industriale è l'unica società che vive e conta su
una forte e perenne crescita, su un continuo e atteso miglioramen-
to. Non a caso è stata la prima società ad inventare il concetto
e l'ideale di progresso, di miglioramento costante. Il suo metodo
preferito di controllo sociale è un Danegeld universale, che tacita
l'aggressione sociale con benefici materiali; la sua maggiore debo-
lezza è l'incapacità di sopravvivere a qualsiasi temporanea riduzio-
ne dei fondi di corruzione sociale, e di resistere alla perdita di
legittimità che la investe se la cornucopia si blocca e il suo flusso
s'indebolisce. In passato molte società hanno di tanto in tanto
scoperto innovazioni e migliorato la loro sorte, e talvolta può
anche esser vero che i miglioramenti sono arrivati non come singole

26
spie ma a battaglioni. Ma il miglioramento non era mai perenne,
né ci si aspettava che lo fosse. Ad un certo punto qualcosa di
speciale era dovuto accadere per suscitare una speranza tanto inso-
lita e grandiosa.
E veramente qualcosa di insolito, di unico, era accaduto. La
rnncezione del mondo come entità omogenea, soggetta a leggi indi-
scriminate e sistematiche, e aperta ad interminabili esplorazioni,
offriva infinite possibilità di nuove combinazioni di mezzi senza
le speranze e i limiti fissi di prima: nessuna possibilità sarebbe
stata preclusa, e alla fine nulla se non l'evidenza avrebbe deciso
rnme stavano le cose, e come potevano essere combinate per ga-
rantire gli effetti voluti. Si trattava di una visione totalmente nuo-
va. I vecchi mondi erano, da un lato, uno per uno singolarmente,
1in cosmo: determinato, gerarchico, teso a un fine; e dall'altro, era-
no non del tutto unificati, composti di sottomondi, ciascuno con
1ina logica e idiomi propri, non riconducibili nell'ambito di un
unico ordine globale. Il nuovo mondo era, da un lato, moralmente
inerte, e dall'altro, unitario.
La filosofia di Hume è una delle piu importanti codificazioni
di questa visione. La sua parte piu nota è la trattazione humiana
della causalità, che deriva di fatto dalla concezione globale e dalle
sue principali intuizioni. In sostanza di questo si tratta: nella
natura stessa delle cose nulla è intrinsecamente connesso a qual-
cos'altro. Le effettive connessioni di questo mondo si possono
stabilire soltanto: primo, separando nel pensiero tutto ciò che può
essere pensato separatamente, di modo che possiamo isolare, per
rnsi dire, gli elementi puri; e, quindi, vedendo che cosa, sulla
base dell'esperienza, •si dà il caso che sia effettivamente congiunto
:1 che cosa.
Il mondo è proprio fatto cosi? Il nostro lo è. Questa è la
condizione preliminare, il prezzo di un mondo di scoperte senza
fine. L'indagine non deve essere costretta dalle affinità naturali e
dalle connessioni deHe cose, costruita entro questa o quella visio-
ne o modo di vita. E, naturalmente, il resoconto che Hume ci
offre della causalità non è semplicemente un ammirevole sommario
del panorama di fondo cui l'eterno ricercatore, libero da pastoie
d'ogni genere, si trova dinanzi; è anche un resoconto del compor-
tamento del suo corrispondente in campo economico, dell'impren-
ditore moderno. Per il mercante o il manifatturiere dell'età della
r.1gione la fusione di lavoro, tecnica, materiali e forme non è affat-
to indicata dalla tradizione, legata a un ritmo e a un ordine socia-

27
le; il suo progresso, e insieme lo sviluppo dell'economia di cui
egli è parte, s'impernia ancora una volta sulla sua libera scelta
di qualunque mezzo, alla luce dell'evidenza e di niente altro, serva
ad alcuni obiettivi precisi, quale, ad esempio, la massimizzazione
del profitto. (Il suo predecessore, anzi il suo contemporaneo feuda-
le ancora in vita, si troverebbe in serie difficoltà a dover scegliere
un unico, isolabile criterio di successo. Il profitto sarebbe per lui
confuso con una quantità di altre inseparabili considerazioni, quale,
poniamo, il mantenimento del proprio posto nella comunità. Adam
Smith vide molto chiaramente la differenza tra il borghese di
Glasgow e, diciamo, un Cameron di Lochiel. La teoria humiana
della causalità ratifica le intuizioni del primo.)
Questa visione di una società che è diventata dipendente dal-
la crescita conoscitiva ed economica insieme (le due essendo, è ov-
vio, reciprocamente legate) ci riguarda da vicino nel presente con-
testo perché 5famo anzitutto interessati alle conseguenze di una so-
cietà in perenne crescita, in perenne progresso. Ma le conseguenze
di tale crescita continua presentano eclatanti paralleli con la visio-
ne del mondo che ne è stata la condizione.

La società in perenne crescita

Se la crescita conoscitiva presuppone che nessun elemento sia


indissolubilmente legato a priori ad un altro e che tutto sia aperto
al ripensamento, allora la crescita produttiva ed economica esige
esattamente la stessa cosa per le attività umane e quindi per i ruoli
umani. I ruoli diventano opzionali e strumentali. La vecchia sta-
bilità della struttura sociale dei ruoli è semplicemente incompatibi-
le con la crescita e l'innovazione. Innovazione significa fare cose
nuove, i cui limiti non possono essere gli stessi di quelli delle atti-
vità che sostituiscono. Senza dubbio gran parte delle società può
far fronte ad una occasionale modifica nella definizione dei lavori
e delle strutture corporative, proprio come una squadra di calcio
può sperimentalmente cambiare la propria formazione, pur mante-
nendo la continuità. Qualche cambiamento non costituisce un pro-
gresso. Ma che cosa succede quando tali cambiamenti sono continui
e costanti, quando la loro persistenza proprio a livello occupaziona-
le diventa il solo tratto permanente di un ordine sociale?
Rispòndere a questa domanda significa risolvere la parte prin-
cipale del problema del nazionalismo. Il nazionalismo è radicato

28
nella divisione del lavoro di un certo tipo, che prevede cambia-
menti cumulativi, complessi e persistenti.
L'alta produttività, come Adam Smith tanto insisteva a dire,
impone una divisione del lavoro complessa e accurata. La produtti-
vità in continua crescita esige che la divisione del lavoro sia non
soltanto complessa ma anche in perenne, e spesso rapida, cresci-
,.~. Questa continua e rapida crescita sia del sistema dei ruoli che
d~i posti di lavoro al suo interno ha certe immediate e decisive
conseguenze. Gli uomini che vivono in una siffatta società non
possono in generale rincantucciarsi in un posto per tutta la vita,
e di rado possono farlo, diciamo, per piu generazioni. Raramente
(per questo e per altri motivi) il posto si tramanda di padre in
figlio. Adam Smith rilevava la precarietà delle fortune borghesi,
anche se erroneamente attribuiva stabilità di condizione sociale
ai popoli dediti alla pastorizia, prendendo i loro miti genealogici
per realtà.
L'immediata conseguenza di questo nuovo tipo di mobilità è
un certo genere di egualitarismo. La società moderna non è mobile
perché è egualitaria, ma egualitaria perché mobile. Inoltre, deve
essere mobile, lo voglia o no, perché ciò le è imposto dalla neces-
sità di soddisfare la sua terribile e travolgente sete di crescita
economica.
Una società destinata a giocare perennemente al gioco delle
sedie non può erigere grosse barriere di rango, di casta o di stato
tra le varie file di sedie che possiede. Questo ostacolerebbe la mo-
bilità e, dato il bisogno di mobilità, si creerebbero tensioni intol-
lerabili. Gli uomini possono tollerare le ineguaglianze se sono sta-
bili e santificate dalla tradizione. Ma in una società freneticamente
mobile, la tradizione non ha il tempo di santificare nulla. Una pie-
tra che rotola non può farsi un'aura, e una popolazione mobile non
permette che nessun'aura si crei intorno alle sue stratificazioni. Stra-
tificazioni e ineguaglianze esistono, e talvolta in forma estrema; so-
no, tuttavia, silenziose e discrete, attenuate da una certa gradua-
lità nelle distinzioni di ricchezza e di rango, da una mancanza di
distanze sociali e da una convergenza di stili di vita; da una specie
di qualità probabilistica o statistica delle differenze (l'esatto oppo-
sto delle differenze tipiche della società agricola che sono rigide,
assolute, simili a un baratro) e, illusione o realtà, dalla mobilità
sociale.
Questa illusione è essenziale, e non può durare senza almeno
una certa dose di realtà. Quanta realtà ci sia in tale apparenza di

29
mobilità verso l'alto e yerso il basso è un dato variabile e oggetto
di erudite controversie, ma non ci può essere ragionevole dubbio
che una buona dose df realtà ci sia: quando il sistema stesso dei
ruoli è tanto mutevole, ·coloro che nel suo ambito occupano dei po-
sti non possono essere legati, come pretendono certi sociologi di
sinistra, a un sistema di stratificazione rigido. Paragonata a quella
agricola, questa società è mobile e egualitaria.
Ma c'è piu di tutto questo nell'egualitarismo e nella mobilità
generati dall'economia specificamente industriale, tesa alla cresci-
ta. Nella nuova divisione del lavoro ci sono ancora altre car-atteri-
stiche piu sottili che possiamo forse meglio individuare conside-
rando le differenze tra la divisione del lavoro nella società indu-
striale e quella di una società agricola sviluppata, particolarmente
complessa. L'ovvia differenza tra le due è che una è piu mobile
e l'altra piu stabile. Di fatto, la società agricola si impone, in gene-
rale, di essere stabile, la industriale di essere mobile; anzi, una
pretende di essere piu stabile di quanto la realtà sociale permetta,
mentre l'altra vanta spesso piu mobilità di quanto le sue costrizioni
reali permettano, nella pretesa di soddisfare il suo ideale eguali-
tario. Anche se entrambi i sistemi tendono a esagerare i loro tratti
fondamentali, tuttavia dimostrano assai chiaramente di possede-
re il tratto che vantano come proprio, quando messi a contrasto
l'uno con l'altro: il primo è rigido, il secondo mobile. Ma se que-
sto è l'ovvio contrasto, quali sono i tratti piu sottili che lo accom-
pagnano?
Confrontiamo nei particolari la divisione del lavoro in una
società agricola altamente sviluppata e quella di una società indu-
striale media. Ogni tipo di funzione, oggigiorno per esempio, por-
ta con sé un tipo preciso di specialista. I meccanici di automobili
diventano specializzati in riferimento alle marche di auto di cui
curano l'assistenza tecnica. La società industriale avrà una popola-
zione maggiore e, probabilmente, secondo il criterio di conteggio
piu naturale, avrà anche un numero maggiore di lavori diversi. In
questo senso la divisione del lavoro nella società industriale è sta-
ta spinta molto piu avanti.
Ma, secondo altri criteri, può darsi che una società agricola
pienamente sviluppata abbia una divisione del lavoro piu comples-
sa. Nel suo ambito le specializzazioni sono piu distanti l'una dal-
!' altra di qui,nto non lo siano le specializzazioni piu numerose di
una società industriale, che tendono ad avere quel che potremmo
semplicemente chiamare una reciproca affinità di stile. Alcune delle

30
specializzazioni di una società agricola matura possono essere estre-
me: il frutto di un'intera vita, lunga e tutta dedita ad un adde-
stramento che è magari cominciato in giovane età e che ha richie-
sto la rinuncia quasi completa di altri interessi. I risultati della
produzione artigianale in queste società sono ad alta intensità di
lavoro e di specializzazione, e spesso raggiungono livelli di diffi-
coltà e ·di perfezione neppur 'lontanamente eguagliati dai prodotti
delle società industriali, le cui arti manuali e decorative, la gastro-
nomia, gli utensili e gli ornamenti sono di un livello piuttosto sca-
dente.
Pur essendo arido e sterile, il complesso patrimonio d'eru-
dizione e di rituali di cui gli scolastici della società agricola hanno
padronanza è spesso tale da sfidare i limiti stessi della mente uma-
na. In breve, sebbene i contadini, che formano la grande maggio-
ranza della società agricola siano piu o meno reciprocamente inter-
cambiabili quando si tratta dello svolgimento dei compiti sociali
normalmente loro affidati, gli specialisti, che in tali società rappre-
sentano un'importante minoranza, sono in larga misura comple-
mentari l'uno all'altro; ciascuno, o ciascun gruppo, di essi, è di-
pendente dagli altri e, fedele fino alla fine alla propria specializza-
zione, del tutto incapace di autosufficienza.
È curioso che, per contrasto, nella società industriale, nono-
stante il maggior numero di specializzazioni, la distanza tra gli spe-
cialisti sia di gran lunga minore. I loro segreti sono assai piu vici-
ni alla reciproca comprensibilità, i loro manuali hanno linguaggi
che si sovrappongono in misura molto maggiore, e il riaddestra-
mento, pur talvolta difficile, non è in generale un compito da far
paura.
A parte dunque la presenza di mobilità in un caso e di stabi-
lità nell'altro, c'è una sottile ma profonda ed importante differen-
za qualitativa nella divisione del lavoro stesso. Durkheim sbagliava
quando in effetti classificava le civiltà pre-industriali avanzate e la
società industriale sotto l'unico titolo di « solidarietà organica», e
tralasciava di introdurre adeguatamente una ulteriore differenza
nella categoria piu vasta della solidarietà organica o della divisio-
ne complementare del lavoro. La differenza è questa: la maggior
parte dell'istruzione nella società industriale è istruzione generale,
non specificamente connessa con l'attività professionale altamente
specializzata dell'individuo in questione, e precedente ad essa. Sot-
to diversi aspetti la società industriale può essere la società piu
altamente specializzata che mai sia esistita; ma il suo sistema edu-

31
cativo è indiscutibilmente il meno specializzato. Il piu universal-
mente standardizzato che sia mai esistito. Lo stesso tipo di adde-
stramento o di istruzione è dato a. tutti o alla maggioranza dei
bambini e degli adolescenti fino a un'età straordinariamente tarda.
Le scuole di specializzazione hanno prestigio solo alla fine del pro-
cesso educativo,. se costituiscono una specie di completamento di
una lunga istruzione precedente non-specializzata. Le scuole di spe-
cializzazione aperte alla prematura frequenza dei giovani hanno un
prestigio in negativo.
Si tratta di un paradosso o forse di una di quelle illogiche so-
pravvivenze di un'epoca precedente? In questi termini la pensano
coloro che ravvisano nell'istruzione superiore elementi « classisti»
o snobistici. Ma anche se alcuni dei fronzoli e delle ricercatezze che
accompagnano l'istruzione superiore appaiono incongruenze e so-
pravvivenze, il fatto principale - la diffusione e l'importanza del-
l'istruzione generale, non specializzata - è strettamente congiunto
alla società industriale altamente specializzata non come un para-
dosso, ma come qualcosa di appropriato e necessario insieme. Il
tipo di specializzazione presente nella società industriale poggia
esattamente su un comune fondamento di istruzione standardizzata
e non-specializzata.
Un esercito moderno sottopone le sue reclute ad un comune
addestramento generale, nel corso del quale devono acquisire e inte-
riorizzare il linguaggio fondamentale, il rituale e le tecniche comuni
all'esercito nel suo complesso; e solo successivamente alle reclute
viene impartito un addestramento piu specifico. Si presume o si
spera che ogni recluta debitamente addestrata possa essere riadde-
strata per passare da una specialità all'altra senza eccessiva perdita
di tempo, ad eccezione di un numero relativamente piccolo di ele-
menti di altissima specializzazione. Una società moderna è, a que~
sto riguardo, simile ad un esercito moderno, soltanto in termini piu
accentuati. Essa impartisce a tutte le sue reclute un addestramento
prolungato e abbastanza completo, insistendo su alcuni comuni re-
quisiti: leggere scrivere e far di conto, attitudini al lavoro e al vive-
re sociale, familiarità con i fondamentali compiti tecnici e sociali.
Per la grande maggioranza della popolazione le capacità specifiche
che la vita lavorativa richiede sono sovrapposte all'addestramento
di base, sia direttamente sul campo sia come parte di un addestra-
mento supplementare piu o meno prolungato; l'assunto è che
chiunque abbia completato l'addestramento generale comune a tut-
ta la popolazione possa venir riaddestrato per la maggioranza degli

32
altri lavori senza troppa difficoltà. Genericamente parlando, le ulte-
riori capacità richieste consistono di alcune tecniche che si posso-
no apprendere abbastanza in fretta, piu l'« esperienza», cioè una
specie di familiarità con un dato ambiente, il suo personale e il
s110 modo di funzionare. Per ottenere tutto questo ci vuole un po'
di tempo, e talvolta il supporto di un po' di mistica, ma in generale
non si tratta di granché. C'è anche una minoranza di specialisti veri
e propri, persone la cui capacità effettiva di occupare il posto che
occupano dipende in realtà da un ulteriore e prolungato addestra-
mento, e che non sono facilmente, se pure, sostituibili con chiun-
4ue non abbia la loro stessa specifica preparazione e il loro talento.
L'ideale dell'istruzione universale e del diritto allo studio è una
voce ben nota nel pantheon dei valori moderni. Ne parlano con
rispetto statisti e politici, ed esso occupa un posto d'onore in di-
chiarazioni dei diritti, costituzioni, programmi di partito, ecc. Fin
qui, nulla di straordinario. La stessa cosa vale per il governo rap-
presentativo e responsabile, per le libere elezioni, l'indipendenza
Jella magistratura, la libertà di stampa e d'associazione e simili.
Molti o gran parte di questi ammirevoli valori sono spesso e siste-
maticamente ignorati in molte parti del mondo senza che nessuno
batta ciglio. Assai spesso basta proclamare solennemente questi
prindpi per sentirsi al sicuro. Un gran numero di costituzioni che
garantiscono libere elezioni e libertà di parola non sono piu indi-
cative della società che pretendono di rappresentare di quanto sia
indicativo del tempo il semplice<< buon giorno» detto da un uomo.
E tutti lo sappiamo bene. Ciò che è curioso, e molto significativo,
del principio dell'istruzione universale e garantita dal centro è che
si tratta di un ideale piu onorato nell'osservanza che nella trasgres-
sione. Caso, questo, praticamente unico tra gli ideali moderni, e
perciò meritevole di una spiegazione. Il professor Ronald Dote
ha energicamente criticato la tendenza, in particolare tra le società
in via di sviluppo, a sopravvalutare i meriti del « pezzo di carta»
formale, che senza dubbio ha effetti negativi 1• Ma mi domando se
egli abbia compreso appieno le profonde radici sociali di quel che
condanna come la« malattia del diploma». Viviamo in un mondo
dove non possiamo piu rispettare l'intima, informale trasmissione
delle capacità, perché le strutture sociali entro cui tale trasmissio-
ne poteva avvenire vanno disgregandosi. L'unico tipo di conoscen-
1 .R. Dore, The Diploma Disease, London, 1976. Per un approccio alle im-
plicazioni sociali dell'alfabetizzazione. nel periodo iniziale, vedi Literacy in tradi-
tional societies, a cura di J. Goody.

.3.3
za che possiamo dunque rispettare è quella autenticata da centri
del sapere ragionevolmente imparziali, che rilasciano certificati in
base ad esami seri, condotti con imparzialità. Di conseguenza sia-
mo destinati a soffrire della « malattia del diploma ».
Tutto ciò lascia pensare che il tipo d'istruzione descritto -
universale, standardizzato e generale - giochi realmente un ruolo
essenziale nel funzionamento di una società moderna, e non sia
semplicemente un sintomo del suo amore per i bei discorsi o una
forma di autopropaganda. Ed è veramente cosi. Per capire che cosa
sia tale ruolo dobbiamo, per mutuare da Marx un'espressione (usan-
dola forse non nel senso in cui la usò lui), considerare non soltanto
il modo di produzione della società moderna, ma soprattutto il suo
modo di riproduzione.

Genetica sociale

La riproduzione degli individui e dei gruppi sociali può esse-


re effettuata sia in base al principio dell'uno-a-uno, ossia diretta-
mente sul campo, oppure attraverso quello che si può chiamare il
metodo centralizzato. Ci sono, naturalmente, molte e composite
maniere intermedie di condurre quest'operazione, che però ci pro-
poniamo di studiare in seguito, quando avremo trattato le due pri-
me possibilità estreme, per cosi dire polari.
Il metodo dell'uno-a-uno, è praticato quando una famiglia,
una unità parentale, un segmento tribale o una analoga unità
piuttosto piccola prende i singoli bambini nati al suo interno e,
inserendoli nella vita comunitaria e obbligandoli a condividerla,
usando inoltre alcuni sistemi piu specifici come l'addestramento, gli
esercizi, le massime, i rites de passage e cosi via, li trasforma alla
fine in adulti ragionevolmente simili a quelli della generazione pre-
cedente; e in questo modo la società e la sua cultura si perpe-
tuano.
Il metodo centralizzato di riprodurre è quello in cui il meto-
do locale è significativamente integrato (o in casi estremi, del tut-
to sostituito) da un ente educativo che è separato dalla comunità
locale e che si assume il compito di istruire i giovani esseri umani
in questione per rimandarli alla fine indietro in una società piu va-
sta dove svolgeranno le loro funzioni, quando il processo educativo
sarà completato. Una versione estrema di questo sistema acquisi
un alto grado di perfezione e di efficienza nell'impero ottomano,

34
quando al tempo dei dervisci e dei giannizzeri, i ragazzi, sia otte-
nuti come ostaggi dalle popolazioni conquistate sia comprati come
schiavi, erano sistematicamente addestrati alla guerra e ai lavori
amministrativi, e idealmente svezzati e separati dalle loro fami-
glie e comunità d'origine. Una versione meno totale di questo siste-
ma era, ed è ancor,a in parte, praticata in Gran Bretagna dalle
classi elevate che mandano i figli in collegio fin dalla tenera età.
'Varianti di questo sistema si trovano di tanto in tanto in società
agricole pre-letterate e relativamente semplici.
Le società composte di sub-comunità si possono dividere in
quelle in cui tali sub-comunità possono, se necessario, riprodursi
senza aiuto dal resto della società, e quelle in cui la complementa-
rietà e l'interdipendenza sono tali che non permettono questa auto-
sufficienza. Generalmente parlando, i segmenti e le comunità rura-
li della società agricola si possono riprodurre indipendentemente.
Il concetto antropologico di società segmentata contiene esattamen-
te questa idea: il « segmento » è semplicemente una variante piu
piccola della società piu vasta di cui è parte e può fare su scala
minore tutto quel che fa l'unità maggiore.
Inoltre, bisogna distinguere fra autosufficienza educativa e
autosufficienza economica, quanto alla capacità di autoriprodursi.
I ceti dirigenti di una società agricola dipendono, naturalmente,
da un surplus tratto dal resto della società, ma possono essere
autosufficienti dal punto di vista educativo. Vari altri tipi cli non-
autosufficienza possono anche esser generati dalle norme sociali,
come quelle, per esempio, che rendono le comunità dipendenti da-
gli specialisti esterni dei riti, o dall'afflusso di spose dall'esterno.
Qui noi ci occupiamo della capacità educativa e non di quella eco-
nomica ai fini dell'autoriproduzione del gruppo. Ci sono numero-
se forme complesse, miste e intermedie di autoriproduzione del
gruppo. Quando i signori feudali mandavano i figli alle Corti loca-
li, un po' come tirocinanti un po' come ostaggi, quando i mastri
accettavano apprendisti che non erano loro figli, e cosi via, siamo
ovviamente in presenza di tali sistemi misti.
In termini generali diremo che la situazione nella società agri-
cola sembra essere questa: la grande maggioranza della popolazio-
ne appartiene ad unità che si autoriproducono, in quanto educano
la prole sul campo, cioè impegnandosi direttamente- all'interno dei
loro ritmi normali di vita e considerando questo compito come par-
te integrante del mestiere di vivere, senza affidarsi a nessun genere
di specialista dell'educazione. Una minoranza della popolazione

35
riceve un,istruzione specializzata. La società conterrà uno o pili
gruppi di educatori a tempo pieno, che si riproducono assumendo
apprendisti e, contemporaneamente, svolgono certe mansioni per il
resto della comunità: rituali, terapeutiche, consultive, amministra-
tive, ecc. Sarà bene distinguere tra l'istruzione sulla base dell'uno-
a-uno all'interno della comunità, che chiameremo acculturazione, e
la eso-istruzione (per analogia con la esogamia), che richiede capa-
cità esterne alla comunità e che chiameremo istruzione vera e pro-
pria.
Nella società agricola letterata c'è un gruppo molto importan-
te, l'intellighenzia, quelli che non solo sanno leggere e scrivere
ma insegnano a leggere e scrivere, e che costituiscono una delle
classi di specialisti in quella società. Possono o meno formare una
corporazione o essere inseriti in una organizzazione. Poiché, parlan-
do in termini generali, la scrittura trascende presto l'uso puramen-
te tecnico che consiste nel tenere i registri, e acquista un peso teo-
logico e morale, i letterati, o l'intellighenzia, diventano quasi inva-
riabilmente assai piu di semplici grafotecnici. Non è soltanto lo
scrivere che conta, ma quel che si scrive e, in una società agricola,
il rapporto tra sacro e profano, nel campo dello scrivere, è senza
dubbio decisamente in favore del primo. Chi scrive e chi legge,
dunque, costituisce un gruppo di specialisti, anzi qualcosa piu di
specialisti; essi sono sia una parte della società 1sia, a loro dire, la
voce dell'intera società. La loro 5pecializzazione dice qualcosa, qual-
cosa di speciale, piu forse di quella degli intagliatori del legno e di
altri disegnatori, e molto piu di quella dei calderai.
Gli specialisti sono spesso temuti e disprezzati in questo
tipo di società. L'intellighenzia può essere giudicata in modo ambi-
valente, ma in generale la sua condizione è piuttosto elevata. I suoi
membri sono sia una parte della società insieme ad altre sia, comè
sopra menzionato, la voce della totalità (cosi pretendono di esse-
re). Si trovano in effetti in una situazione intrinsecamente parados-
sale. I logici possiedono, nel loro armamentario di significativi e,
dicono, profondi, enigmi, il Problema del barbiere: in un viUaggio
tutti gli uomini si possono dividere in quelli che si radono da soli
e quelli che si fanno radere dal barbiere. Ma lui, il barbiere? È uno
che si rade da solo o che si fa radere dal barbiere? Lasciamo sotto
questa forma il problema ai logici. Ma i letterati si trovano un po'
nella situazione del barbiere. Essi riproducono la propria corpora-
zione addestrando i principianti, ma impartiscono anche delle no-
zioni ossia forniscono servizi al resto della società. Si radono o non

36
si radono da soli? Tutto ciò gli crea intorno tensione e problemi,
che non sono soltanto logici e che non sono facilmente risolvibili.
Alla fine la società moderna ha risolto questo enigma trasfor-
mando ciascuno in un letterato, un intellettuale, trasformando que-
sta ·classe potenzialmente universale in una cfo.sse effettivamente
universale, garantendo che tutti senza eccezione godano del suo in-
segnamento, che la eso-istruzione diventi norma universale e che
nessuno, culturalmente parlando, si rada da solo. Quella moderna
è una società in cui nessuna sub-comunità, al di sotto delle dimen°
sioni di una sub-comunità· capace di mantenere un sistema educa-
tivo indipendente, può piu riprodursi. La riproduzione di individui
pienamente socializzati diventa essa stessa parte della divisione
del lavoro e non è piu effettuata da sub-comunità per proprio
conto.
Tali sono le società moderne sviluppate. Ma perché devono
essere cosi? Quale destino le spinge in questa direzione? Perché,
per ·ripetere una ,precedente domanda, questo ideale soltanto, cioè
quello dell'alfabetizzazione e dell'istruzione universale, è preso con
tanta insolita e atipica serietà?
Parte della risposta l'abbiamo già data quando parlavamo del-
la pressione che la mobilità occupazionale esercita su una divisio-
ne del lavoro instabile, in rapido mutamento. Una società con un
sistema politico, e in sostanza con una cosmologia e un ordine mo-
rale, interamente basati, in definitiva, sulla crescita economica, sul
Danegeld universale dell'incremento e sulla speranza di un perenne
aumento di bisogni soddisfatti, con una legittimità imperniata sul-
la sua capacità di alimentare e soddisfare questa speranza, una tale
società è necessariamente impegnata a far fronte al bisogno di in-
novazioni, e quindi alle esigenze di una struttura occupazionale in
mutamento. Ne consegue che sicuramente da una generazione al-
l'altra, e molto spesso nell'arco stesso di una vita, gli uomini deb-
bono essere pronti ad assumersi la responsabilità di nuovi compiti.
Donde, in parte, l'importanza dell'istruzione generale e del fatto
che quel poco d'addestramento specifico che richiede la maggior
parte dei lavori, non è poi gran cosa e, inoltre, è contenuto in ma-
nuali accessibili a tutti coloro che posseggono l'istruzione generale
della società. (Se quel poco di specializzazione non ammonta a gran-
ché, la parte essenziale dell'istruzione generale comune viene for-
nita ad un livello piuttosto alto, forse non se paragonato alle vette
intellettuali della società agricola, ma senz'altro se confrontato con
la preparazione media prevalente in precedenza.)

37
Ma non è soltanto la mobilità e il riaddestramento che gene-
rano questo imperativo. È anche il contenuto della maggior parte
delle attività professionali. Il lavoro, nella società industriale, non
è questione di movimento fisico. Il paradigma del lavoro non è
piu arare, mietere, battere il grano. Il lavoro, in sostanza, non
è piu la manipolazione di cose, ma di informazioni. In generale
comporta uno scambio di comunicazioni con altre persone, o l'azio-
namento dei comandi di una macchina. Il numero di lavoratori im-
pegnato sul fronte piu ingrato della natura, che deve applicare di-
rettamente la forza fisica umana agli oggetti naturali, è in costante
diminuzione. La maggioranza dei lavori, se proprio non compor-
tano di fatto un rapporto con gli altri, comportano il controllo di
bottoni, interruttori, leve che devono essere capite e che si possono
spiegare, ancora una volta, con un linguaggio standard comprensi-
bile a tutti i nuovi arrivati.
Per la prima volta nella storia umana comunicazioni esplicite
e ragionevolmente precise diventano importanti e d'impiego gene-
rale e diffuso. Nelle comunità locali chiuse del mondo agricolo o
tribale, quando si trattava di comunicare il contesto, il tono, il ge-
sto, la personalità e la situazione erano tutto. La comunicazione,
cosf com'era, avveniva senza il beneficio di una formulazione pre-
cisa, per la quale i locali non avevano né gusto né propensione. La
chiarezza e le sottili distinzioni della formulazione precisa, legata a
date norme, erano lasciate a giuristi, teologi, specialisti di rituali, e
facevano parte dei loro segreti. Tra gli intimi di una comunità chiu-
sa, la chiarezza sarebbe stata una pedanteria, qualcosa di oltraggio-
so, comunque di scarsamente immaginabile o comprensibile.
Il linguaggio umano è stato probabilmente usato per innume-
revoli generazioni in queste comunità intime, chiuse, legate a un
dato contesto, mentre è stato usato da scolastici e giuristi, e da
ogni genere di puritani concettuali al di sopra di qualsiasi contesto,
soltanto per un numero di generazioni assai limitato. È un fatto
quanto mai enigmatico che una istituzione, cioè il linguaggio uma-
no, abbia avuto questa potenziale disponibilità ad essere usato co-
me un « codice elaborato », per dirla con Basil Bernstein, come uno
strumento formale, abbastanza libero da ogni contesto, se si con-
sidera che s'era sviluppato in un ambiente che non richiedeva affat-
to uno sviluppo del genere e che non lo aveva certo volutamente
favorito, se mai si era manifestato. Questo enigma fa il paio con i
problemi posti, diciamo, dall'esistenza di capacità (quelle matema-
tiche, ad esempio) che quasi per l'intero periodo dell'esistenza del-

38
I' t1manità non avevano avuto nessuna precisa utilità nella lotta per
la sopravvivenza, e che quindi non potevano essere state prodotte
in modo diretto per selezione naturale. L'esistenza del linguaggio
aJatto a quest'uso formale, libero da ogni contesto è un enigma
che ci incuriosisce; ma è anche chiaramente un fatto. Questa poten-
zialità, quale che sia la sua origine e spiegazione, c'era. Alla fine
è emerso un tipo di società ~ che ora sta diventando globale -
nella quale questa potenzialità si realizza completamente, e entro
la quale diventa un dato indispensabile e dominante.
Per rias~umere questo argomento: è emersa una società basa-
ta su una poderosa tecnologia e sulla speranza di una crescita con-
tinua che richiede sia una divisione mobile del lavoro sia una capa-
cità di comunicazione tra estranei costante, frequente e precisa, che
si fondi sulla compartecipazione a un patrimonio d'informazioni
esplicite, trasmesse in un linguaggio standard e nella scrittura, se
necessario. Per una quantità di motivi convergenti, questa società
deve essere completamente eso-educativa: ciascun individuo è istrui-
to da specialisti, non solo dal proprio gruppo locale, se davvero ne
ha uno. I suoi segmenti e le sue unità - e questa società è in ogni
caso vasta, fluida e, in confronto alle società agricole tradizionali,
molto povera di strutture interne - semplicemente non posseggo-
no la capacità o le risorse per riprodurre il proprio personale. Il
livello di istruzione e di competenza tecnica - in un ambiente
standardizzato un valore concettuale corrente che è indispensabile
ai membri di questa società, se devono essere adeguatamente impie-
gati e godere di piena ed effettiva cittadinanza - è cosi elevato
che semplicemente non può essere fornito dalle unità familiari o lo-
cali, cosi com'esse sono. Può essere fornito soltanto da qualcosa
che rassomigli a un moderno sistema educativo « nazionale », una
piramide alla cui base ci sono le scuole primarie con un personale
di insegnanti usciti dalle scuole secondarie, a loro volta con un per-
sonale uscito dalle università, rette, queste ultime, dal prodotto di
scuole di specializzazione d'alto livello. Tale piramide fornisce la
misura delle dimensioni minime per una unità politica vitale. Le
unità non possono essere piu piccole di cosi. Esistono anche delle
costrizioni che impediscono loro di essere troppo vaste, in varie
circostanze; ma questa è tutt'altra questione.
Il fatto che le sotto-unità che costituiscono la società non
siano piu in grado di autoriprodursi, che la eso-educazione centra-
lizzata sia la norma obbligatoria, che tale educazione integri (se
non proprio sostituisca del tutto) l'acculturazione localizzata, è di

39
estrema importanza per la sociologia politica del mondo moderno;
e le sue implicazioni, fatto abbastanza strano, raramente sono state
capite o apprezzate o anche esaminate. Alla base dell'ordine socia-
le moderno non sta il boia, ma il professore. Non la ghigliottina,
ma {giusta denominazione) il doctorat d'état è lo strumento prin-
cipale e il simbolo del potere dello Stato. Il monopolio dell'istru-
zione legittima è adesso piu importante, piu decisivo, del monopo-
lio della violenza legittima. Se si capisce questo, allora si possono
anche capire l'imperativo del nazionalismo e le sue radici che sono
non nella natura umana come tale, ma in un certo tipo di ordine
sociale ora generalizzato.
Contrariamente a quanto crede l'uomo della strada, ma con
lui anche lo studioso, il nazionalismo non ha nessuna profonda ra-
dice nella psiche umana. Si può tranquillamente credere che la psi-
che dell'uomo sia rimasta immutata attraverso i molti e molti mil-
lenni dell'esistenza della razza umana, e che non sia diventata
né meglio né peggio durante l'età relativamente breve e assai recen-
te del nazionalismo. Non si può invocare un substrato generale per
spiegare un fenomeno specifico. Il substrato genera molte possibi-
lità in superficie. Il nazionalismo; l'organizzazione di gruppi di
uomini in grandi unità culturalmente omogenee, con un'educazione
centralizzata, è solo una di queste possibilità, e per giunta molto
rara. Quel che è determinante per dare una spiegazione vera del
nazionalismo è identificare le sue radici specifiche. Queste radici
specifiche soltanto permettono di spiegarlo adeguatamente. Dopo-
diché, fattori specifici si possono sovrapporre a un substrato uma-
no comune e universale.
Le radici del nazionalismo nelle peculiari esigenze strutturali
della società industriale sono molto profonde. Questo movimento
non è il frutto né di una aberrazione ideologica né di eccessi emo-
tivi. Anche se coloro che vi partecipano generalmente, anzi quasi
senza eccezione, non capiscono che cosa stanno facendo, il movi-
mento è tuttaviia la manifestazione esterna di un profondo aggiu-
stamento nei rapporti tra società-Stato e cultura che è del tutto ine-
vitabile.

L'età della cultura superiore universale

Ricapitoliamo i tratti generali piu importanti della società


industriale. Tra i requisiti essenziali per il suo funzionamento fi-

40
gurano l'a'lfabetizzazione universale e un alto livello di prepara-
zione aritmetica, tecnica e generale. I componenti della società
industriale devono essere, e sono, mobili, pronti a passare da
una attività all'altra, e possedere quella preparazione generale che
li mette in grado di seguire i manuali e le istruzioni di un'occu-
pazione o di un'attività nuova. Nel corso del loro lavoro devono
comuni~are costantemente con numerosi altri uomini, con i quali
spesso rlon hanno avuto precedenti contatti; la comunicazione con
costoro deve, dunque, essere esplicita piu che affidarsi al conte-
sto. Essi devono saper comunicare anche attraverso messaggi scrit-
ti, di per sé chiari, impersonali, del tipo burocratico. Ne consegue
che queste comunicazioni vanno espresse in un linguaggio, parlato
e scritto, comune e standardizzato. Il sistema educativo che ga-
rantisce questo risultato diventa esteso e indispensabile, ma nel
contempo non possiede piu il monopolio dell'accesso alla parola
scritta: la sua clientela coincide con la società in generale, e la so-
stituibilità di individui con altri all'interno del sistema vale per la
macchina educativa almeno quanto per qualunque altro segmento
della società, e forse di piu. Alcuni grandi maestri e ricercatori
possono essere insostituibili, ma il maestro e il professore medio
si possono sostituire attingendo fuori del ceto insegnante con mol-
ta facilità e spesso poca, o punta, perdita.
Quali sono le implicazioni di tutto questo per la società e
i suoi membri? Le possibilità d'impiego, la dignità, la sicurezza e
il rispetto di sé degli individui, in linea di principio e per la
maggioranza degli uomini, s'imperniano oggi sullg loro istruzione;
i limiti della cultura entro cui sono stati educati sono anche i limi-
ti del mondo entro cui possono, moralmente e professionalmente,
vivere. L'istruzione di un uomo è di gran lunga il suo piu prezioso
investimento e, in effetti, gli conferisce la sua identità. L'uomo
moderno non è leale ,a un monarca, a un paese o a una fede,
checché ne dica, ma a una cultura. Ed egli è, genericamente parlan-
do, cas~rato. La condizione di mamelucco è diventata universale.
Nessun importante vincolo lo lega al gruppo familiare; né la fami-
glia si frappone fra lui e la sua vasta, anonima comunità cul-
turale.
La prova che solo la cultura trasmessa attraverso la scuola, e
non quella trasmessa dalla propria gente, rende l'uomo della so-
cietà industriale utilizzabile e gli conferisce dignità e rispetto di
sé è il fatto che assolutamente nulla può fare altrettanto per lui,
e soprattutto in eguale misura. Sarebbe assurdo sostenere che, nel-

41
la società moderna, ascendenza, ricchezza o relazioni sociali non
siano importanti e che a volte non siano anche fonte di orgoglio
per chi ne beneficia; ciononostante, i vantaggi che ne possono deri-
vare sono spesso giustificati da chi li gode e visti, nel migliore
dei casi, in maniera ambivalente. È interessante chiedersi se la dif-
fusa etica del lavoro non abbia contribuito a creare questo stato
di cose o se, al contrario, non ne sia essa stessa un riflesso. Fan-
nulloni e rentiers continuano, naturalmente, ad esistere, ma non si
fanno molto notare, il che è di per •sé piuttosto significativo. È im-
portante che privilegi e parassitismo, nella forma in cui sopravvi-
vono oggigiorno siano comunque discreti e tendano a restare nel-
1'ombra piuttosto che mettersi in mostra; e c'è bisogno che inter-
vengano a scoprirli zelanti ricercatori, impegnati a smascherare l'ine-
guaglianza che si cela sotto la superficie.
Non era cosi in passato, quando il privilegiato ozioso era fie-
ro e sfacciato, come lo è ancora in alcune società agricole soprav-
vissute o in società che continuano a sostenere l'etica di una vita
pre-industriale. Fatto abbastanza singolare, la nozione di « consu-
mo vistoso» fu coniata da un cittadino fedele al lavoro di una
società dedita al lavoro, Thorstein Veblen, scandalizzato da qu~I
che egli giudicava le sopravvivenze di un'età predatoria e pre-in-
dustriale. La superficie egualitaria, tutta per lavoro-e-carriera, del-
la società industriale è altrettanto significativa delle sue recondite
profondità inegualitarie. La vita, dopo tutto, è in gran parte vis-
suta in superficie, anche se importanti decisioni vengono talvolta
prese giu nel profondo.
La classe degli insegnanti è oggi, in un senso, piu importan-
te, - è indispensabile, - e in un altro, molto meno, avendo per-
so il monopolio dell'accesso alla saggezza culturale racchiusa nei te-
sti. In una società in cui ognuno è castrato dall'identificazione con
la propria collocazione professionale e con la propria specialità, e
quasi nessuno deriva molta, o qualche, sicurezza e sostegno da
eventuali legami famiHari, per importanti che siano, la intellighenzia
dell'insegnamento non possiede piu nessun accesso privilegiato al-
le pubbliche cariche. Quando tutti sono mamelucchi, nessuna clas-
se particolare di mamelucchi predomina nella burocrazia. Alla fine
la burocrazia può reclutare tra la popolazione in generale, senza
bisogno di temere l'arrivo di una schiera di cugini come indesidera-
te appendici di ciascun nuovo assunto.
La eso-socializzazione, l'istruzione vera e propria è ora prati-
camente norma universale. Gli uomini acquisiscono ;le capacità e

42
sensibilità che li rendono accettabili ai loro concittadini, che li ren-
dono idonei a coprire determinati incarichi nella società, e che li
fanno essere « quello che sono », lasciandosi affidare dalla fami-
glia (oggi di solito, naturalmente, la famiglia nucleare). agli ingra-
naggi della macchina educativa che sola è in grado di fornire l'am-
pia gamma di conoscenze che costituiscono, come è d'obbligo, la
base culturale com~ne. Questa infrastruttura è vasta, indispensa-
bile e costosa. Il suo mantenimento pare sia al di sopra delle pos-
sibilità finanziarie anche delle piu ricche e grandi organizzazioni
all'interno della società, come le grandi compagnie industriali. Que-
ste ultime forniscono spesso al loro personale alloggi, attrezzature
sportive e circoli ricreativi, ecc.; ma non forniscono, tranne che in
circostanze particolari e marginali, i servizi scolastici. (Possono
finanziare piani per l'istruzione, ma questa è un'altra questione.)
L'uomo che appartiene ad un'organizzazione lavora e si svaga con
la sua organizzazione, ma i suoi figli continuano ad andare alle
scuole statali o indipendenti.
Da una parte, dunque, questa infrastruttura educativa è trop-
po vasta e costosa per qualsiasi organizzazione che non sia la piu
grande di tutte, lo Stato. Ma, nel contempo, anche se solo lo Sta-
to può sopportare un simile peso, solo lo Stato è anche abbastanza
forte da controllare un'istituzione cosi importante e decisiva. La
cultura non è piu semplicemente l'ornamento, la conferma e la
legittimazione di un ordine sociale che un tempo era sostenuto an-
che da costrizioni piu dure e coercitive; la cultura è oggi il mezzo
comune necessario, la linfa vitale o forse piuttosto l'atmosfera
comune indispensabile entro la quale, soltanto, i membri della
società possono respirare e sopravvivere, e produrre. Per una data
società deve essere il mezzo in cui tutti respirano, parlano e pro-
ducono, deve essere, dunque, 1a stessa cultura. Inoltre, oggi deve
essere una cultura grande o superiore (letterata, alimentata dal-
l'istruzione), non può piu essere una semplice tradizione, o una
piccola cultura illetterata, diversificata, legata a costumi locali.
Ma qualche organismo deve pur garantire che tale cultura
letterata e unificata venga effettivamente prodotta, e che il ipro-
dotto educativo stesso non sia scadente e al di sotto di un dato
livello. E questo può farlo solo lo Stato e, anche nei paesi in cui
parti importanti della macchina educativa sono nelle mani di pri-
vati o di organizzazioni religiose, lo Stato assume il controllo del-
la qualità in quella che è la prima delle industrie, la manifattura
di esseri umani utilizzabili e vitali. Quello Stato-ombra che risale

43
all'epoca in cui gli Stati europei erano non solo frammentati ma
socialmente deboli - la Chiesa centralizzata-·- condusse un'aspra
lotta per il controllo dell'educazione, ma fu una lotta che alla fine
si sarebbe rivelata inutile, a meno che la Chiesa non l'avesse com-
battuta in favore di una cultura superiore globale, e quindi indi-
rettamente in favore di un nuovo Stato nazionalista.
C'era un'epoca in cui l'educazione era un'industria artigiana-
le, quando gli uomini potevano essere fatti da un clan o da un vil-
laggio. Quest'epoca è ormai passata, e per sempre. (Nel campo
dell'educazione, il piccolo, oggi, può essere bello solo se dipende
velatamente dal grande.) La eso-socializzazione, la produzione e ri-
produzione degli uomini fuori della loro chiusa comunità locale
è oggi la norma, e deve essere cosi. L'imperativo della eso-socializ-
zazione è la chiave principale del perché oggi Stato e cultura de-
vono essere collegati, mentre in passato il loro legame era tenue,
fortuito, variabile, vago e spesso minimo. Ora è inevitabile. Que~
sto è quel che è il nazionalismo, e perché v~viamo in un'età di
nazionalismo.

44
IV. La trqnsizione a un'età di nazionalismo

I passi piu importanti nella discussione sono stati ormai fatti.


L'umanità è irreversibilmente impegnata sulla via della società in-
dustriale, di una società, quindi, il cui sistema produttivo si basa
su un patrimonio cumulativo di scienza e tecnologia. Soltanto un
patrimonio del genere può mantenere l'attuale e previsto numero
di abitanti del pianeta e garantirgli in prospettiva quel tipo di
tenore di vita che l'uomo oggi ritiene ovvio, o aspira a ritenere
ovvio. La società agricola non è piu una scelta, perché restau-
rarla significherebbe semplicemente condannare la maggioranza
dell'umanità a morir di fame, per non parlare della tremenda
e inaccettabile povertà cui sarebbe destinata la minoranza di so-
pravvissuti. Non c'è dunque nessun motivo pratico di esaminare
le attrattive e gli orrori che accompagnerebbero, a livello sia po-
litico sia culturale, l'età agricola, per il semplice fatto che un suo
ritorno è del tutto fuori discussione. Non conosciamo adeguata-
mente tutte le scelte che si offrono alla società industriale, e
forse non le conosceremo mai; ma conosciamo alcune delle sue
conseguenze essenziali. Una è il tipo di omogeneità culturale di
cui il nazionalismo ha bisogno, e che faremmo bene ad accettare
di buon grado. Non è che il nazionalismo, come vuole Elie Ke-
dourie 1, imponga l'omogeneità; è piuttosto che una omogeneità
imposta da un imperativo inevitabile, oggettivo, affiora alla fine
sotto forma di nazionalismo.
Gran parte dell'umanità entra nell'età industriale attraverso
l'età agricola. (La sparuta minoranza che ci entra direttamente
dalla condizione pre-agricola non ha alcun peso, e quindi quel

1 E. Kedourie, Nationalism, London, 1960.

45
che stiamo dicendo vale anche per essa.) L'organizzazione sociale
della società agricola, tuttavia, non è affatto favorevole al prin-
cipio nazionalista, alla convergenza di unità culturali e politiche,
alla omogeneità e al tipo di cultura trasmessa-dalla-scuola che pre-
dominano all'interno di ciascuna unità politica. Al contrario, essa
genera, come nell'Europa medieva1e, unità politiche che sono sia
piu piccole sia assai piu grandi di quanto indicherebbero le linee di
demarcazione culturali; solo qualche rara volta ha prodotto, per
caso, uno Stato dinastico che corrispondeva piu o meno a una
data cultura e a una data lingua, come accadde infine sulle coste
atlantiche dell'Europa. (Tale corrispondenza non è mai stata molto
rigorosa. La cultura nella società agricola è molto piu pluralistica
dei suoi imperi, e in generale molto piu vasta delle piccole unità
sociali che ne sono parte.)
Stando cosi le cose, l'età di transizione all'industrialismo
doveva, secondo il nostro modello, essere anche un'età di na-
zionalismo, un periodo di turbolento riassetto, in cui sia i confini
politici che quelli culturali, o entrambi, venivano modificati in
modo da soddisfare il nuovo imperativo nazionalista che ora, per
la prima volta, si faceva sentire. Poiché chi governa non cede
volentieri pezzi di territorio (e ogni mutamento di confini crea
necessariamente qualcuno che perde), poiché cambiare la propria
cultura è spesso un'esperienza molto dolorosa, e inoltre poiché ci
sono culture rivali in lotta per la conquista delle anime degli uo-
mini, proprio come ci sono centri rivali di potere politico in lotta
per· corrompere uomini e accaparrarsi territori, ne consegue, sulla
base del nostro modello, che questo periodo di transizione non
poteva che essere violento e irto di conflitti. E i fatti storici reali
confermano queste previsioni.
Non sarebbe tuttavia corretto procedere individuando sem-
plicemente quali furono per la società agricola le conseguenze del-
1'attuazione pratica dell'imperativo nazionalista. La società indu-
striale non è arrivata sulla scena per volontà di Dio. Essa stessa
è stata il frutto di eventi che si sono sviluppati all'interno di una
particolare società agricola, e questi eventi non sono stati privi
di una loro turbolenza. Quando l'industrialismo conquistò il re-
sto del mondo, né questa colonizzazione globale né l'abbandono
del potere da parte di coloro che avevano avuto successo sul-
l'onda della supremazia industriale, ma che alla fine ne persero
il monopolio, furono eventi pacifici. Tutto questo vuol dire che
nella storia reale gli effetti del nazionalismo tendono a confon-

46
dersi con le altre conseguenze dell'industrialismo. Sebbene il na-
zionalismo sia veramente un effetto della organizzazione della
società industriale, non è però l'unico effetto dell'imposizione di
questa nuova forma sociale, e quindi è necessario districarlo da
tutti gli altri.
Il problema è illustrato dall'affascinante rapporto tra Rifor-
ma protestante e nazionalismo. L'insistenza della Riforma sulla
alfabetizzazione e sullo scritturalismo, il suo violento assalto con-
tro un clero monopolistico (o, come vide chiaramente Weber, la
sua battaglia per l'universalizzazione piu che per l'abolizione del
clero), il suo individualismo e i suoi legami con le popolazioni
urbane in movimento, tutto questo rende la Riforma una specie
di araldo di caratteristiche e atteggiamenti sociali che, secondo il
nostro modello, producono l'età nazionalista. Il ruolo del prote-
stantesimo nel favorire la nascita del mondo industriale offre
materia di discussione assai vasta e complessa; noi qui non ri-
teniamo di dovervi fare piu di un frettoloso accenno. Ma in al-
cune parti del globo dove sia l'industrialismo che il nazionalismo
arrfvarono piu tardi e sotto un impatto esterno, l'intero rapporto
tra atteggiamenti di tipo protestante e nazionalismo dovrebbe es-
sere adeguatamente esplorato.
Questo rapporto è forse piu vistoso che altrove nell'Islam.
La storia culturale del mondo arabo e di molti altri paesi musul-
mani nel corso degli ultimi cent'anni è in larga misura la storia
del progresso e della vittoria del Riformismo, una specie di pro-
testantesimo islamico con un forte accento sullo scritturalismo e
soprattutto una costante ostilità contro la mediazione spirituale,
contro i mediatori locali tra l'uomo e Dio (e in pratica tra i di-
versi gruppi di uomini), che erano diventati tanto importanti
nell'Islam pre-moderno. La storia di questo movimento e quella
del moderno nazionalismo arabo (e non) difficilmente possono
essere separate l'una dall'altra. L'Islam ha sempre avuto un'intima
propensione, o potenzialità, per questa versione « riformata » della
fede, ed era stato indotto a staccarsene, probabilmente, dall'esi-
genza sociale che gruppi rurali autonomi sentivano di quella pre-
senza personalizzata, incarnata, della santità che è di un valore
inestimabile ai fini della mediazione locale. Nelle circostanze mo-
derne la sua capacità di essere una fede piu astratta, che presiede
una comunità anonima di credenti eguali, può riaffermarsi di
nuovo.
Ma anche le religioni che si potrebbe pensare abbiano avuto

47
scarso potenziale intrinseco per tale interpretazione « protestan-
te », potevano nondimeno esser spinte in quella direzione durante
l'età in cui gli impulsi verso l'industrialismo e il nazionalismo fa-
cevano sentire il loro impatto. Teoricamente parlando, nessuno
si aspetterebbe che lo scintoismo abbia una qualche rassomiglian-
za, diciamo, con il non-conformismo inglese. Tuttavia, durante
la spinta alla modernizzazione in Giappone, lo scintoismo si ri-
velò sobrio, ordinato, come se avesse in sé elementi quaccheri
(che evidentemente si possono trovare o imporre dovunque se si
prova con -sufficiente energia), che furono accentuati a scapito di
qualsiasi elemento estatico e di qualsiasi indebita familiarità per-
sonale con il sacro 2 • Se l'antica Grecia fosse sopravvissuta fin
dentro l'età moderna i culti dionisiaci avrebbero potuto assumere
una veste piu sobria, man mano che l'Ellade s'inoltrava, pur con
cautela, lungo la strada dello sviluppo.
A parte i legami tra etica protestante ed etica nazionalista,
ci sono le conseguenze dirette dell'industrializzazione stessa. Ab-
bi-amo già esaminato le conseguenze gener-ali e diffuse di un or-
dine industriale consolidato, in connessione con il nostro modello
generale che collega la divisione industriale del lavoro con la
realizzazione del principio nazionalista. Ma alcune conseguenze
specifiche della prima industrializzazione che in generale non resi-
stono al tempo hanno tuttavia un importante ruolo da giocare.
La prima industrializzazione significa esplosione demografica, ra-
pida urbanizzazione, migrazione di manodopera ed anche pene-
trazione economica e politica di un'economia globale e di una
organizzazione politica centralizzata in comunità precedentemente
piu o meno chiuse in se stesse. Significa che almeno il sistema
babelico relativamente stabile e isolato delle comunità agricole
tradizionali, ciascuna chiusa in se stessa, tenute separate lateral-
mente dalla geografia e divise da enormi distanze sociali verso
l'alto, è sostituito da un tipo nuovo di Babele, con nuovi confini
culturali che non sono stabili ma in continuo e vistoso movi-
mento, e che raramente sono santificati da un qualche tipo di
consuetudine.
C'è anche un legame tra il nazionalismo e i processi del co-
lonialismo, dell'imperialismo e della decolonizzazione. L'emergere
della società industriale nell'Europa occidentale ha come conse-
guenza la virtuale conquista del mondo intero da parte delle po-
2 Comunicazione personale di Ronald Dore.

48
tenze europee e talvolta di popolazioni di coloni europei. In
realtà tutta l'Africa, l'America e l'Oceania, nonché gran parte
dell'Asia, finirono sotto il dominio europeo; e quelle parti del-
l'Asia che sfuggirono a questo destino subirono spesso una forte
influenza indiretta. Questa conquista globale, nella misura in cui
si può parlare di conquista, fu piuttosto insolita. Normalmente, il
predominio politico è il premio a una vocazione e a un impegno
militari. A perseguirlo sono le società dedite alla guerra o per-
ché, diciamolo, la loro forma tribale di vita include automatica-
mente l'addestramento militare, o perché posseggono un ceto mi-
litare dominante dedito alla guerra, o ancora per ragioni analo-
ghe. Inoltre, l'attività di conquista è ardua e assorbe larga parte
delle energie del gruppo conquistatore.
Nessuna di queste ipotesi vale per la conquista europea del
mondo, che fu, in ultima analisi, intrapresa e portata a termine
da nazioni sempre piu interessate all'industria e al commercio,
e non da una macchina militaristica né da una moltitudine tem-
poraneamente coesa di membri di tribu. Da questo processo di
conquista le nazioni coinvolte non furono assorbite totalmente.
La tesi, avanzata per gli inglesi, che essi avrebbero conquistato
il loro impero in uno stato di distrazione può essere in qualche
misura generalizzata. (Gli inglesi, cosa assai lodevole, persero
l'impero con un'analoga mancanza d'attenzione.) Quando l'Europa
era impegnata a conquistare e a dominare il mondo, aveva, nel
complesso, molte altre cose piu pressanti di cui occuparsi a casa
sua. Non fece neanche alle nazioni conquistate il complimento
di mostrarsi particolarmente interessata alla conquista. A parte
alcuni atipici periodi di vanaglorioso e esaltato imperialismo, e
tralasciando la prima conquista dell'America latina, che era ispi-
rata dalla rapacità non-commerciale del buon tempo andato, la
situazione era proprio quella cui abbiamo accennato. La conquista
non era stata progettata e fu il frutto della superiorità tecnolo-
gica ed economica, e non di una vocazione militare.
Con il diffondersi di questa potenza economica e tecnolo-
gica, l'equilibrio del potere cambiò, e tra il 1905 e il 1960 il
predominio pluralistico dell'Europa andò perduto o fu volontaria-
mente abbandonato. Una volta ancora, non si possono ignorare
le circostanze specifiche in cui ciò avvenne; anche se il nucleo o
l'essenza del nazionalismo discende dalle premesse generali, astrat-
tamente formulabili, che abbiamo esposte all'inizio, le forme spe-

49
cifiche dei fenomeni nazionalisti sono ovviamente influenzate da
queste circostanze.

Una nota sulla debolezza del nazionalismo

È consuetudine rilevare la forza del nazionalismo. È un gros-


so errore, sia pur facilmente comprensibile, giacché, ogni qual
volta il nazionalismo ha attecchito, la sua tendenza è stata di
prevalere senza fatica su altre ideologie moderne.
La chiave per capire il nazionalismo è, tuttavia, la sua de-
bolezza certo non meno della sua forza. A fornire l'indizio cru-
ciale a Sherlock Holmes fu il cane che tralasciò di abbaiare. Il
numero dei potenziali nazionalismi, che, per cosi dire, tralascia-
rono di abbaiare è di gran lunga maggiore di quello dei nazio-
nalismi che abbaiarono, anche se questi ultimi hanno assorbito
tutta la nostra attenzione.
Abbiamo già insistito sulla natura dormiente di questo pre-
sunto potente mostro durante l'età pre-industriale. Ma anche nel-
l'età del nazionalismo c'è un senso piu importante in cui il na-
zionalismo rimane incredibilmente debole. Il nazionalismo è stato
visto, in effetti, come lo strenuo tentativo di far coincidere cul-
tura e Stato, di dare alla cultura un suo tetto politico e niente
piu di tanto. La cultura è un concetto vago che è stato lasciato
deliberatamente tale. Ma un criterio, almeno provvisoriamente
accettabile, per giudicare della cultura potrebbe essere la lingua,
una pietra di paragone almeno sufficiente, se non necessaria. Am-
mettiamo per un momento che una differenza di lingua comporti
una differenza di cultura (sebbene non necessariamente il eone
trario).
Ciò ammesso, almeno temporaneamente, ne discendono al-
cune conseguenze. Ho sentito dire che il numero delle lingue sulla
terra si aggirerebbe sulle 8.000. Tale cifra può senza dubbio es-
sere aumentata se si contano i dialetti, uno ad uno. Se accettiamo
l'argomento «precedente», la cosa diventa legittima: se un qual-
che tipo di differenza che in alcuni luoghi definisce un naziona-
lismo può generare un « potenziale nazionalismo » in qualsiasi al-
tro luogo si trovi un'analoga differenza, allora il numero dei po-
tenziali nazionalismi aumenta enormemente. Per esempio, di fatto,
le diverse lingue slave, teutoniche e romanze non sono spesso piu
<listanti tra loro di quanto non lo siano i semplici dialetti all'in-

50
terno di quelle che altrove sono convenzionalmente considerate
lingue unitarie. Le lingue ,slave, meHiamo, sono probabilmente piu
vicine l'una all'altra di quanto non lo siano le varie forme collo-
quiali di arabo, che pure viene visto come un'unica lingua.
L'argomento « precedente » può anche generare potenziali
nazionalismi per analogia, invocando fattori che non siano la lin-
gua. Per esempio è fuori discussione che esista il nazionalismo
scozzese. (E ciò potrebbe essere sostenuto per contraddire il mio
modello.) Esso ignora la lingua (che condannerebbe alcuni scoz-
zesi al nazionalismo irlandese, e il resto al nazionalismo inglese),
invocando invece un'esperienza storica comune. Ma se si accet-
tasse che tali ulteriori legami contino (fintantoché non contrad-
dicono il requisito del mio modello, che cioè possano fungere da
base per uno Stato/ cultura mobile al suo interno e in definitiva
omogeneo, con una macchina educativa che serva quella cultura
sotto il controllo di quello Stato), allora il numero dei potenziali
nazionalismi crescerebbe ancora.
Accontentiamoci, comunque, della cifra di 8.000, datami una
volta da un linguista come numero approssimativo di lingue, ba-
sato su quel che indubbiamente era un concetto arbitrario di lin-
gua unica. 11 numero degli Stati nel mondo si aggira sull'ordine
dei 200. A questa cifra si potrebbero aggiungere tutti i naziona-
lismi irredentisti, che non hanno ancora raggiunto una loro or-
ganizzazione statale (e che forse non la raggiungeranno mai), ma
che lottano in questa direzione e, dunque, hanno una aspirazione
legittima ad essere annoverati tra i nazionalismi effettivi, e non
puramente potenziali. D'altra parte, si devono anche sottrarre
tutti quegli Stati che sono nati senza il beneficio della benedi-
zione e del sostegno nazionalisti e che non soddisfano i criteri
nazionalisti della legittimità politica, anzi li contraddicono; per
esempio tutti i vari mini-Stati che costellano il globo come so-
pravvivenza di un'età pre-nazionalista e talvolta come risultato
di concessioni ad anomalie geografiche o a compromessi politici.
Una volta sottratti tutti questi tipi di Stato, la cifra che ne ri-
sulterà sarebbe ancora, presumibilmente, non troppo sopra i 200.
Ma, per essere generosi, fingiamo di avere sulla terra quattro
volte il numero dei nazionalismi ragionevolmente effettivi, in altre
parole supponiamone 800. Credo che questa cifra sia notevol-
mente superiore a quella che i fatti giustificherebbero, ma la-
sciamo correre.
Questo calcolo approssimativo ci dà ancora un solo nazio-

51
nalismo effettivo su dieci potenziali! E questa incredibile propor-
zione, deprimente, penso, per qualsiasi entusiastico pan-naziona-
lista, se tale persona esiste, potrebbe essere accresciuta cli molto
se l'argomento « precedente » fosse applicato appieno per deter-
minare il numero dei nazionalismi potenziali, e se i criteri di am-
missione alla classe dei nazionalismi effettivi diventassero davvero
molto rigorosi.
Che cosa dobbiamo concludere da tutto ciò? Dobbiamo con-
cludere che per ogni singolo nazionalismo che finora ha alzato
la sua orrenda testa, nove altri attendono di prendere il volo?
Che tutto quel lanciar di bombe, quei massacri, quel forzato mi-
grare di popolazioni, e peggio, che hanno finora assediato l'uma-
nità, devono ripetersi per altre dieci volte?
Non credo. Per ogni nazionalismo effettivo, ci sono n na-
zionalismi potenziali, gruppi definiti o da una comune cultura
ereditata dal mondo agricolo o da altri legami (in base al prin-
cipio del « precedente ») che potrebbero sperare di stabilirsi come
comunità industriale omogenea, ma che però non si sognano nep-
pure di battersi per questo, che non si curano di attuare il loro
potenziale nazionalismo, che non ci provano neppure.
Sen1bra dunque che la spinta a fare della reciproca sostitui-
bilità culturale la base dello Stato non è, dopo tutto, cosf potente.
I membri di alcuni gruppi la sentono effettivamente, ma quelli
della maggioranza dei gruppi, con analoghi diritti, evidentemen-
te no.
Per spiegare questo fatto, dobbiamo ritornare all'accusa lan-
ciata contro il nazionalismo: che esso insiste ad imporre l'omoge-
neità alle popolazioni che hanno avuto la sfortuna di cadere sotto
il dominio di governi posseduti dall'ideologia nazionalista. L'as-
sunto alla base di quest'accusa è che i governi tradizionali, non
contagiati dall'ideologia, come i turchi ottomani, avevano mante-
nuto la pace e spremuto denaro con le tasse, ma per contro ave-
vano tollerato la diversità di fede e di cultura dei loro governati,
oppure s'erano mostrati del tutto indifferenti al problema. I loro
successori terroristi, invece, sembrano incapaci di starsene in
pace finché non abbi-ano imposto il principio di cuius regio, eius
lingua. lBssi non esigono semplicemente un sutip1us fiscale o ob-
bedienza; mirano con bramosia all'anima linguistica e culturale
dei loro sottoposti.
Questa accusa deve essere rovesciata nel suo contesto: non
è il nazionalismo che impone una omogeneità dietro l'impulso cli

52
un ostinato Machtbedurfnis 3 culturale, ma è l'oggettivo bisogno di
omogeneità che si riflette nel nazionalismo. Se è vero che un mo-
derno Stato industriale non può funzionare senza una popolazione
mobile, alfabetizzata, culturalmente standardizzata e intercambia-
bile, come siamo venuti sostenendo, allora è naturale che le popo-
lazioni· semiaffamate, analfabete, risucchiate dai loro ghetti cultu-
rali della società agricola d'un tempo per essere gettate nel cro-
giolo di squallide bidonville urbane anelino di essere incorporate
in qualcuna di quelle comunità culturali che già possiede, o sem-
bra possa acquisire, uno Stato proprio, con la successiva promessa
di una piena cittadinanza culturale, di accesso alle scuole primarie,
di lavoro, e simili. Spesso queste popolazioni erranti, sradicate e
alienate possono vacillare tra diverse scelte, e fermarsi provviso-
riamente in questo o quel rifugio culturale transitorio e tem-
poraneo.
Ma ci sono delle scelte che esse eviteranno di fare. Esite-
ranno a cercar di inserirsi in quelle comunità culturali che sen-
tono che le respingeranno con disprezzo; o meglio, in quelle. in
cui pensano che continueranno ad essere respinte con disprezzo.
I nuovi venuti poveri sono, naturalmente, quasi sempre trattati
con disprezzo. Il problema è se essi continueranno ad essere di-
sprezzati e se lo stesso destino toccherà ai loro figli. Il che di-
pende dalla capacità di questi nuovi venuti, quindi del ceto meno
privilegiato, di spogliarsi dei tratti che li contraddistinguono,
che formano l'identità loro e della loro prole: le consuetudini ·re-
ligioso-culturali, geneticamente trasmesse e profondamente radi-
cate, risultano impossibili o comunque assai difficili da lasciar
cadere.
È improbabile che le vittime alienate del primo industria-
lismo si lascino tentare da comunità culturali molto piccole,
- una lingua parlata da un paio di villaggi offre spesso scarse
prospettive, - molto sparse o prive di qualsiasi tradizione cul-
turale o di individui che abbiano delle capacità specifiche, ecc.
Esse vogliono comunità culturali che siano vaste, e/o abbiano
una buona base storica, o intellettuali capaci di propagare la cul-
tura in questione. È impossibile individuare un singolo requisito
(o una serie di requisiti) che garantisca il successo come cataliz-
zatore nazionalista della cultura che lo possiede (o li possiede),
oppure, ,al contrario, che ne produca sicuramente il fallimento.
Dimensioni, storicità, territorio mgionevolmente compatto, una
3 Bisogno cli potenza.

5}
classe intellettuale energica e capace: tutti questi ·reqms1t1 sa-
ranno ovviamente di aiuto, ma nessuno, singolarmente, è neces-
sario, ed è dubbio che in questi termini si possa fare una pre-
visione generalizzata sicura. Che il principio del nazionalismo di-
venterà operante può essere previsto; quali gruppi con esattezza
emergeranno come suoi portatori può esser solo vagamente indi-
cato, perché dipende da troppe contingenze storiche.
Il nazionalismo è di per sé destinato a vincere, ma non ogni
pardcolare nazionalismo. Sappiamo che culture ragionevolmente
omogenee, ciascuna con una propria dimora politica, un proprio
sistema politico, stanno diventando la norma e ottenendo buoni
risultati pratici, ·salvo poche eccezioni. Ma non possiamo preve-
dere con esattezza quali culture, con quale dimora politica, saran-
no benedette dal successo. Al contrario, i semplici calcoli testè
fatti, relativi al numero di culture o di potenziali nazionalismi
nonché aUo spazio disponibile per Stati nazionali veri e propri,
dimostrano chiaramente che la maggioranza dei potenziali nazio-
nalismi o non ce la faranno a realizzarsi o, piu comunemente, si
asterranno persino dal tentar di trovare espressione politica.
Ed è proprio questo che noi rileviamo. Gran parte delle cul-
ture e dei potenziali gruppi nazionali entrano nell'età del nazio-
nalismo senza neppure il minimo sforzo di trarne per sé bene-
ficio. I gruppi che nei termini dell'argomento « precedente » po-
trebbero tentar di divent-are nazioni, che potrebbero definirsi tali
in base a quel tipo di criterio che in qualche altro posto definisce
di fatto una reale ed effettiva nazione, sono una legione. Eppure
i piu vanno tranquillamente incontro al proprio destino, vedono
sparire lentamente la propria cultura (se non se stessi come in-
dividui), che si dissolve in quella piu vasta di qualche nuovo
Stato nazionale. Molte culture sono spinte nella pattumiera della
storia dalla civiltà industriale senza opporre la minima resistenza.
La particolarità lingui-stica degli Highlands scozzesi all'interno della
Scozia è, naturalmente, di gran lunga piu importante della par-
ticolarità culturale della Scozia all'interno del Regno Unito; ma
non esiste nessun nazionalismo degli Highlands. Lo stesso vale
per i berberi del Marocco. Le differenze culturali e dialettali al-
1'interno della Germania o dell'Italia sono altrettanto grandi di
quelle tra le lingue teutoniche o romanze riconosciute. I russi del
sud si differenziano culturalmente dai russi del nord, ma, al con-
trario degli ucraini, non traducono questa differenza in un senti-
mento nazionale.

54
Tutto questo sta forse a dimostrare che, in definitiva, il na-
zionalismo non è poi cosf importante? O anche che è un manu-
fatto ideologico, l'invenzione di zelanti pensatori, che ha miste-
riosamente conquistato nazioni misteriosamente suscettibili? Nien-
te affatto. Una simile conclusione equivarrebbe quasi, paradossal-
mente, a una tacita, obliqua accettazione della piu illusoria pre-
tesa dell'ideologo nazionalista: che, cioè, le « nazioni » sono li,
in attesa soltanto di essere « risvegliate » {una immagine e una
espressione che tanto piacciono ai nazionalisti) dal loro deplo-
revole sonno ad opera del « risvegliatore » nazionalista. Si po-
trebbe dedurre dall'incapacità delle nazioni piu potenziali a mai
« riosvegliarsi », dalla mancanza di entusiasmi profondi in attesa del
risveglio, che, dopo tutto, il nazionalismo non fosse importante.
Tale deduzione ammette l'ontologia sociale delle «nazioni», sol-
tanto riconoscendo, non senza sorpresa forse, che alcune di esse
mancano della vitalità e del vigore necessari ad adempiere quel
destino cui la storia le aveva designate.
Ma il nazionalismo non è il risveglio di una vecchi[! forza
latente addormentata, anche se è proprio cosi che si presenta.
È in realtà la conseguenza di una nuova forma di organizzazione
sociale, basata su culture superiori dipendenti dall'educazione e
profondamente interiorizzate, protette ciascuna dal proprio Stato.
Il nazionalismo usa alcune delle culture pre-esistenti, in generale
trasformandole nel processo, ma non può evidentemente usarle
tutte. Ce ne sono troppe. Uno Stato moderno vitale, che sostenga
una cultura superiore, non può cadere al di sotto di determinate
dimensioni minime (a meno che non viva, in effetti, da parassita
dei suoi vicini), e c'è spazio solo per un limitato numero di si-
mili Stati su questa terra.
L'alta proporzione di ostinate dormienti, che non intendono
alzarsi e brillare e che rifiutano di essere svegliate, ci permette di
prenderci una rivincita sul nazionalismo « visto da se stesso ». Il
nazionalismo si vede come un ordinamento naturale e universale
della vita politica dell'umanità, oscurato soltanto da una lunga,
persistente e misteriosa sonnolenza. Quando Hegel esprimeva que-
sto concetto: « Certi popoli [nazioni], prima di attingere questa
loro intrinseca finalità [Stato], possono aver vissuto lungamente
senza organizzazione statale ... » 4, continuava ·immediat,a:mente af-
fermando che questo periodo pre-statale era in realtà « preisto-
4 G.\V.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e
C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1947, v. I, p. 165-166.

55
ria » [sic]: sembrerebbe dunque, secondo questa vlSlone, che la
storia reale di una nazione cominci soltanto quando essa acqui-
sisce uno Stato suo proprio. Se evochiamo le nazioni « belle ad-
dormentate», che non possiedono uno Stato né sentono il biso-
gno di possederlo, contro la dottrina nazionalista, tacitamente ac-
cettiamo la sua metafisica sociale che vede le nazioni come i mat-
toni di cui è costruita l'umanità. I critici del nazionalismo che
denunciano il movimento politico ma tacitamente accettano l'esi-
stenza delle nazioni, non fanno abbastanza. Le nazioni come ma-
niera naturale, indicata da Dio, di classificare gli uomini, come de-
stino politico intrinseco anche se di ,là da venire, sono un mito; il
nazionalismo, che talvolta prende le culture pre-esistenti e le tra-
sforma in nazioni, talvolta inventa queste culture e spesso le an-
nulla: questa è una realtà, nel bene o nel male, e in genere una
realtà inevitabile. Coloro che sono gli agenti storici del nazionali-
smo non sanno quel che fanno, ma questa è un'altra questione.
Ma noi non dobbiamo accettare il mito. Le nazioni non sono
iscritte nella na~ura delle cose, non costituiscono una •versione poli-
tica della dottrina delle specie naturali. Né gli Stati nazionali era-
no l'ultimo manifesto destino dei· gruppi culturali o etnici. Quel
che esiste davvero sono le culture, spesso raggruppate in maniera
indefinibile, che si stemperano l'una nell'altra, che si sovrappongo-
no, che si intersecano. Ed esistono anche, di solito ma non sempre,
unità politiche di tutte le forme e dimensioni. In passato le due
cose in genere non convergevano. E in molti casi c'erano buoni
motivi perché non riuscissero a convergere. I governanti fissavano
la loro identità differenziandole verso il basso, e le micro-comu-
nità governate si differenziavano lateralmente dai loro vicini rag-
gruppati in unità analoghe.
Ma il nazionalismo non è il risveglio e l'affermazione di miti-
che unità che si vogliono date e naturali. Al contrario, è la cristal-
lizzazione di nuove unità, adeguate alle condizioni prevalenti, anche
se chiaramente esse usano come loro materia prima le eredità sto-
riche, culturali e altre del mondo pre-nazionalista. Questa forza -
la spinta verso nuove unità costruite sui principi corrispondenti alla
nuova divisione del lavoro - essa si che è potente, anche se non
è l'unica forza nel mondo moderno, né nel complesso irresistibile.
Nella piu parte dei casi tale forza prevale, e soprattutto, determina
la norma per la legittimità delle unità politiche nel mondo moder-
no: la maggioranza delle quali deve soddisfare gli imperativi del
nazionalismo, che siam venuti delineando. Essa stabilisce il modello

56
comune, anche se può non prevalere in maniera totale e univer-
sale, e alcuni casi devianti riescono a sconfiggere la norma.
L'ambiguità del quesito - il nazionalismo è forte o no? -
nasce da questo: il nazionalismo si vede e si presenta come l'affer-
mazion<? di ogni singola « nazionalità »; e queste presunte entità
si suppone che siano li, proprio come il monte Everest, da lungo
tempo, da prima dell'età del nazionalismo. Di conseguenza, secon-
do i suoi propri termini, il nazionalismo è incredibilmente debole.
La maggioranza delle potenziali nazioni, le latenti comunità diffe-
renziabili che potrebbero pretendere di essere nazioni in base a cri-
teri analoghi a quelli che altrove hanno permesso ad altre di realiz-
zare questo loro presunto diritto, trascurano nell'insieme persino
di avanzare questo diritto, e tanto meno di cercar di imporlo e farlo
accettare. Se, invece, si interpreta il nazionalismo nella maniera
che io ritengo corretta, e che in ·realtà contraddice e offende l'im-
magine che il nazionalismo dà di se stesso, allora dobbiamo con-
cludere che esso è una forza potente, anche se non unica ed irre-
sistibile.

Culture spontanee e culture da giardino

Una maniera di affrontare il problema centrale è questa. Le


culture, come le piante, si possono dividere in realtà selvatiche e
varietà coltivate. Quelle selvatiche si producono e riproducono
spontaneamente come parte della vita dell'uomo. Nessuna comu-
nità manca di qualche sistema comune di comunicazione e di
norme, e sistemi spontanei di questo tipo (in altre parole, cultu-
re) si riproducono di generazione in generazione senza un delibe-
rato disegno, senza controllo, sorveglianza o speciale nutrimento.
Le culture coltivate o da giardino sono differenti, anche se
si sono sviluppate in definitiva dalle varietà selvatiche. Esse pos-
siedono una complessità e una ricchezza il piu delle volte soste-
nute da alfabetizzazione diffusa e da personale specializzato, e
morirebbero se private del loro particolare nutrimento sotto for-
ma di istituzioni educative specializzate con un personale ragione-
volmente numeroso, a tempo pieno e assiduo. Durante l'età agri-
cola della storia umana le culture superiori o le grandi tradizioni si
manifestarono, diventarono importanti e, in un senso, ma in un
senso soltanto, dominanti. Sebbene non arrivassero nel comples-
so a imporsi alla totalità o anche alla maggioranza della popolazio-

57
ne, tuttavia riuscirono in generale a farsi valere come autorevoli,
anche se, e forse proprio perché, erano inaccessibili e misteriose.
Talvolta contribuivano a rafforzare lo Stato centralizzato, talaltra
erano con esso in competizione. Giunsero persino a rappresentare
lo Stato quando quest'ultimo risultava indebolito o addirittura di-
sintegrato nel corso di tempi calamitosi o di periodi bui. Una Chie-
sa o un sistema rituale erano in grado di sostituire l'ombra di un
potere fantasma o tramontato. Ma le culture superiori general-
mente non definivano i limiti di una unità politica, e ci sono
buone ragioni perché, in un'età agricola, non potessero farlo.
Nell'età industriale le cose cambiano completamente. Le cul-
ture superiori diventano dominanti in un senso nuovo. Le vecchie
dottrine ad esse associate perdono d'autorità, ma il linguaggio e
lo stile di comunicazione colti che ciascuna portava con sé diven-
tano realmente autorevoli e normativi, e, soprattutto, si diffondono
dovunque nella società. In altre parole, tutti praticamente diven-
tano istruiti, sanno leggere e scrivere e comunicano attraverso un
codice elaborato, con frasi esplicite e abbastanza « grammaticali »
(basate su regole), e non con versi e cenni legati a un contesto.
Ma la cultura superiore, diventata da poco universale tra la
popolazione, ha ora assoluto bisogno di un supporto, di un puntel-
lo politico. Nell'età agricola talvolta lo ebbe e ne trasse beneficio,
ma talaltra poté fare a meno della protezione politica e qui sta,
in effetti, uno dei suoi punti di forza. Nei secoli bui, quando
l'anarchia prevaleva e la pace del re non era piu mantenuta, i mo-
nasteri buddisti o cristiani, le confraternite dervisce e le comunità
braminiche poterono sopravvivere e in certa misura tener viva la
cultura superiore senza il beneficio o la protezione della spada.
Adesso che il compito della cultura superiore è assai piu
grande ed oneroso, non può fare a meno di una infrastruttura poli-
tica. Come dice un personaggio di J.H. Cha-se in Niente orchidee
per Miss Blandish ogni ragazza dovrebbe avere un marito, che le
sia preferibilmente congeniale; ed ogni cultura superiore ha ora
bisogno di uno Stato, che preferibilmente le sia congeniale. Non
tutte le culture spontanee possono trasformarsi in cultura supe-
riore, e quelle senza una seria prospettiva di diventarlo tendono
tranquillamente a ritirarsi senza un cenno di resistenza; esse non
generano nazionalismo. Quelle che ritengono di avere buone possi-
bilità - o, se preferiamo evitare espressioni antropomorfiche in
materia di cultura, quelle i cui portatori umani accreditano loro
buone prospettive - si contendono a vicenda le popolazioni .di-

58
sponibili o lo spazio-Stato disponibile. Ne nasce un tipo di con-
flitto etnico o nazionalista. Quando esistenti linee di demarcazio-
ne politica e alcune culture superiori, vecchie o cristallizzate, non
riescono ad armonizzarsi, nasce un altro tipo di conflitto squisi-
tamente caratteristico dell'età del nazionalismo.
Per descrivere la nuova situazione disponiamo di un'altra
analogia oltre a quella botanica testè accennata. L'uomo della so-
cietà agricola è paragonabile a una specie naturale che può so-
pravvivere neWambiente naturale. L'uomo della società industriale
è invece paragonabile a una specie artificialmente prodotta o alle-
vata, che non può respirare adeguatamente nell'atmosfera natu-
rale, ma può solo effettivamente funzionare e sopravvivere in
un'aria o liquido, artificialmente mantenuti e appositamente mi-
scelati. Di conseguenza egli vive in unità costruite e limitate con
particolari criteri, una sorta di gigantesco acquario o camera di
respirazione. Ma queste camere bisogna edificarle e provvedere alla
loro manutenzione. La manutenzione dell'aria o del liquido che dà
la vita e permette la vita entro ciascuno di questi enormi ricetta-
coli non è un'operazione automatica. Richiede un impianto specia-
lizzato, che si chiama sistema di comunicazione e di educazione na-
zionale; e l'unico ente in grado di tenerlo veramente in ordine e
di proteggerlo è lo Stato.
In teoria non sarebbe impossibile avere un unico simile gigan-
tesco acquario educativo-culturale per l'intero globo, sostenuto da
una unica autorità politica e da un unico sistema educativo. Con
l'andar del tempo può anche darsi che quest'idea si realizzi. Ma per
il momento, e per buone ragioni che ancora dobbiamo vedere, la
norma universale è una serie di camere di respirazione o acqua-
ri discontinui, ciascuno con un liquido o un'atmosfera particola-
ri, non completamente intercambiabili. Certamente presentano dei
tratti comuni. La formula del liquido degli acquari della società
industriale avanzata è abbastanza simile nel tipo, anche se ricca di
caratteristiche proprie, - quasi un marchio di fabbrica, - relati-
vamente superficiali ma deliberatamente enfatizzate.
Questo nuovo pluralismo, che esamineremo piu avanti, ha le
sue buone ed ovvie ragioni. L'età industriale ha ereditato sia le
unità politiche sia le culture, superiori e inferiori, dell'età prece-
dente. Non c'era motivo perché dovessero fondersi all'improvviso
in un tutto unico, e c'erano buoni motivi perché non dovessero:
l'industrialismo, in altre parole il tipo di produzione o di divisio-
ne del lavoro che rende imperative queste gigantesche camere di

59
respirazione omogenee, non arrivò né simultaneamente in tutte le
parti del mondo; né nella stessa maniera. I diversi tempi d'arrivo
dell'industrialismo divisero l'umanità in gruppi rivali, ed in misura
sensibile. Le differenze di tali tempi d'arrivo nelle varie comunità
si fecero acute laddove poterono utilizzare alcune differenze di na-
tul'a genetica, cultuvale e simili, lasciate dal mondo agricolo. La data
dello « sviluppo » costituisce un cruciale segno diacritico di natu-
ra politica, se può appropriarsi di qualche differenza culturale ere-
ditata dall'età agricola e usarla come suo simbolo.
Il processo di industrializzazione avvenne in fasi successive e
in condizioni differenti; e generò varie nuove rivalità, con nuovi
guadagni e nuove perdite da fare e da evitare. Profeti e commen-
tatori dell'età industriale, di sinistra e di destra, predissero piu
volte l'internazionalismo: ma fini per passare l'esatto suo opposto:
l'età del nazionalismo.
V. Che cos'è una nazione?

Siamo ora finalmente in grado di tentare un qualche tipo


di risposta plausibile a questa domanda. C'erano agli inizi due
candidati particolarmente promettenti per la costruzione di una teo-
ria della nazionalità: la volontà e la cultura. Ovviamente ciascuno
di essi è importante e pertinente; ma, altrettanto ovviamente, né
l'uno né l'altro sono affatto sufficienti. E val la pena di vederne il
perché.
Senza dubbio la volontà o il consenso costituiscono un fattore
importante nella formazione della maggioranza dei gruppi, grandi
e piccoli. L'umanità è sempre stfclta organizzata in gruppi, di forme e
dimensioni di tutti i tipi, talvolta nettamente definiti talaltra vaghi,
talvolta collocati in un posto preciso talaltra con tendenza a sovrap-
porsi e a intrecciarsi. La varietà di queste possibilità, e dei prin-
cipi in base ai quali questi gruppi vennero reclutati e si manten-
nero, è infinita. Ma due agenti o catalizzatori generali della forma-
zione e del mantenimento dei gruppi sono ovviamente cruciali:
la volontà, l'adesione volontaria e l'identificazione, la lealtà, la soli-
darietà da un lato; e dall'altro, la paura, la coercizione, l'obbligo.
Queste due possibilità costituiscono i poli estremi di una specie
di spettro. Alcune comunità si possono basare esclusivamente, o
prevalentemente, sull'uno o sull'altro, ma in genere sono rare. I
gruppi piu duraturi si basano su un misto di lealtà e identificazio-
ne (su una adesione voluta) e di incentivi estranei, positivi o ne-
gativi, su speranze e paure.
Se definiamo le nazioni come gruppi che vogliono durare co-
me comunità 1, la rete-definizione che abbiamo gettato in mare ci
I E. Renan, Qu'est-ce qu'une Nation?, ripubblicato in Ernest Renan et l'AJ-
lemagne, testi raccolti e commentati da. E. Bure, New York, 1945.

61
frutterà una pescata di gran lunga troppo ricca. La retata che do-
vremo trascinar fuori dall'acqua includerà sicuramente le comunità
che potremo facilmente riconoscere come nazioni effettive e coese:
queste nazioni genuine vogliono davvero essere tali e la loro esi-
stenza può davvero costituire una sorta di plebiscito di autoriaffer-
mazione continuo, informale. ~fa (purtroppo per questa definizio-
ne) la stessa cosa vale per molti altri circoli, complotti, bande,
squadre, partiti, per non parlare delle numerose comunità e asso-
ciazioni dell'età pre-industriale che raccolsero i loro aderenti e si
definirono senza bisogno del principio nazionalista e anzi a suo
dispetto. L1 volontà, il consenso, l'identificazione non sono mai
state assenti dalla scena umana, anche se spesso si sono accompa-
gnate (e continuano a farlo) a calcolo, paura, interesse. (È una
questione stimolante e controversa se la pura e semplice inerzia,
il peròurare di aggregati e combinazioni, siano da considerare taci-
to consenso o quakos'altro.)
La tacita autoidentificazione ha operato in favore di ogni
tipo <li raggruppamenti, piu grandi o piu piccoli delle nazioni, che
si intersecavano o si definivano orizzontalmente, o in altro modo.
Insomma, ammesso pure che la volontà sia la base di una nazione
(per parafrasare una definizione idealista dello Stato), ess·a è la
base di talmente tanti altri aggregati che non è ragionevolmente
possibile definire la nazione in questa maniera. Questa definizione
sembra allettante solo perché nell'età del nazionalismo moderno le
unità nazionali sono la forma favorita, preferita di identificazione
e di adesione voluta, perché gli altri tipi di raggruppamento sono
oggi assai facilmente dimenticati. Coloro che accettano aprioristi-
camente i taciti assunti del nazionalismo, erroneamente li attribui-
scono anche all'umanità in generale, in ogni epoca. Ma una defini-
zione legata agli assunti e alle condizioni di un'epoca (che di per sé
è pur sempre una esagerazione), non può essere adeguatamente uti-
lizzata per aiutare a spiegare l'emergere di quell'epoca.
Qualsiasi definizione di nazione in termini di cultura comu-
ne è un'altra rete che frutta una pescata di gran lunga troppo ricca.
La storia umana è, e continuerà ad essere, abbondantemente dotata
di differenziazioni culturali. I confini culturali sono talvolta netti
talaltra confusi; i modelli sono talvolta chiari e semplici talaltra
tortuosi e complessi. Per tutte le ragioni su cui abbiamo tanto in-
sistito, questa ricchezza di differenziazioni, normalmente o gene-
ralmente, non converge e in effetti non può convergere, né entro
i confini di unità politiche (le giurisdizioni di governi effettivi) né

62
entro quelli di unità benedette dai sacramenti democratici del con-
senso e della volontà. Il mondo agricolo non poteva per sua natura
essere cosi semplice. Il mondo industriale tende a diventarlo, o al-
meno ad avvicinarsi a tale semplicità; ma questa è un'altra que-
stione, e ci sono oggi dei fattori speciali che giustificano tale ten-
denza.
Il consolidamento di culture superiori universalmente diffuse
(sistemi di comunicazioni standardizzati, basati su meccanismi edu-
cativi d'ogni livello), un processo· che ·stia :rapidamente ,acquistan-
do velocità in tutto il mondo, ha fatto sembrare a tutti coloro trop-
po profondamente immersi nei nostri assunti contemporanei, che
la nazionalità possa essere definibile in termini di cultura comune.
Oggi gli individui possono vivere soltanto in unità definite da
una cultura comune, mobili e fluide al loro interno. Il vero plurali-
smo culturale cessa di essere vitale nelle condizioni attuali. Ma un
pizzico di coscienza storica o di sottigliezza sociologica dovrebbe
dissipare l'illusione che sia sempre stato cosi. Nel passato le società
culturalmente pluralistiche hanno spesso funzionato bene: talmen-
te bene che, di fatto, la pluralità culturale venne talvolta inventata
laddove in precedenza mancava.
Se, per tali ragioni stringenti, queste due vie apparentemente
promettenti verso la definizione della nazionalità non sono percor-
ribili, ne esiste forse un'altra?
Il grande, ma valido, paradosso è questo: è l'età del nazio-
nalismo che definisce le nazioni e non l'inverso, come potrebbe sem-
brare piu logico. Ciò non significa che l' « età del nazionalismo »
sia una mera somma di risveglio e autoaffermazione di questa,
quella o di quell'altra nazione. Piuttosto, quando le condizioni so-
ciali generali favoriscono culture superiori standardizzate, omoge-
nee, sostenute centralmente, che si estendono a intere popolazioni
e non soltanto a minoranze, si viene allora a creare una situazione
in cui le culture unificate, garantite dai meccanismi educativi e ben
definite, costituiscono quasi l'unico tipo di unità con cui gli uomi-
ni si identificano volentieri, e spesso con entusiasmo. Le culture
appaiono ora come le naturali depositarie della legittimità politi-
ca. Soltanto in questo momento diventa chiaro che ogni violenza
sui loro confini da parte delle unità politiche costituisce uno scan-
dalo.
In queste condizioni, sebbene in queste condizioni soltanto, le
nazioni possono veramente essere definite in termini sia di volontà
sia di cultura, e veramente si può parlare di convergen7.a dell'una

63
e dell'altra con le unità politiche. In queste condizioni gli uomi-
ni esprimono la volontà di essere politicamente uniti con quelli,
e con quelli soltanto, che condividono la loro cultura. Gli Stati
esprimono allora la volontà di estendere i propri confini fino ai
limiti delle proprie culture, e di proteggere e imporre le proprie
culture fin là dove arriva il loro potere. La fusione di volontà, cul-
tura e Stato diventa la norma, e una norma non facilmente o fre-
quentemente trasgredita. (Una volta era quasi universalmente tra-
sgredita, e impunemente, e passava inosservata senza che nessuno
ne discutesse.) Queste condizioni non definiscono la situazione
umana in quanto tale, ma semplicemente la sua variante indu-
striale.
t È il nazionalismo che genera le nazioni, e non l'inverso. Sen-
za dubbio, il nazionalismo usa le pre-esistenti proliferazioni di cul-
ture o di ricchezza culturale, che sono un retaggio storico, anche se
le usa in maniera molto selettiva, e il piu delle volte le trasforma
radicalmente. Le lingue morte possono esser fatte rivivere, le tra-
dizioni si possono inventare, fittizie purezze primigenie ripristina-
re. Ma questo aspetto culturalmente creativo, fantasioso, decisa-
mente inventivo dell'entusiasmo nazionalista non dovrebbe permet-
tere a nessuno di concludere, erroneamente, che il nazionalismo è
un'invenzione ideologica, artificiosa e contingente, che avrebbe po-
tuto non realizzarsi se soltanto quei maledetti ficcanaso di pensato-
ri europei, invece di lasciarlo perdere, non lo avessero reinventato,
non lo avessero iniettato nella circolazione sanguigna di comunità
politiche altrimenti vitali. « Stracci e toppe » culturali usati dal na-
zionalismo sono spesso arbitrarie invenzioni storiche. Qualsiasi
straccio o toppa sarebbe servito lo stesso. Non ne consegue però
che il principio del n-aziona1ismo, a differeiwa delle diverse forme
che s'è casualmente scelto per le sue incarnazioni, sia di per sé mi-
nimamente contingente e accidentale.
Niente potrebbe essere piu lontano dalla verità di una simile
supposizione. Il nazionalismo non è quel che sembra, e soprattutto
non è quel che sembra a se stesso .. Le culture che pretende di difen-
dere e di rianimare sono spesso invenzioni sue, o sono modificate
al punto da risultar irriconoscibili. Nondimeno il principio nazio-
nalista in quanto tale; da non confondere con ciascuna delle sue
specifiche forme e con le singole assurdità che va magari predican-
do, ha radici molto, molto profonde nelle nostre comuni condizio-
ni attuali, non è affatto contingente e non sarà facile respingerlo.
Durkheim ha insegnato che nei culti religiosi la società venera

64
la propria immagine camuffata. In un'età nazionalista le società
venerano se stesse in maniera aperta e sfacciata sdegnando il ca-
muffamento. A Norimberga, la Germania nazista non adorò se
stessa fingendo di adorare Dio o anche Wotan; adorò apertamente
se stessa. In una forma piu moderata ma non per questo meno si-
gnificativa, i teologi modernisti illuminati non credono, o per lo
meno non ne sono interessati, in quelle dottrine della loro fede
che tanto avevano significato per i loro predecessori. Con una spe-
cie di ridicolo autofunzionalismo essi le considerano valide semplice-
mente come strumenti rituali e concettuali che servono a una tra-
dizione sociale per confermare i suoi valori, la sua continuità e so-
lidarietà. Questi teologi cercano sistematicamente di adombrare
o di minimizzare la differenza tra una simile « fede » tacitamente
riduzionista e quella cosa ben reale che l'aveva preceduta e che
aveva giocato una parte cruciale agli inizi della storia d'Europa,
una parte che non avrebbe mai potuto essere giocata dalle correnti
versioni diluite, annacquate all'inverosimile.
Ma il fatto che l'autoadorazione sociale, virulenta e violenta
oppure moderata e evasiva, sia ora una autoadorazione collettiva,
apertamente riconosciuta, piuttosto che un modo di venerare coper-
tamente la società come l'immagine di Dio, secondo la tesi durkhei-
miana, non significa che lo stile corrente sia comunque piu veri-
tiero di quello dell'età cui Durkheim si riferiva. Può darsi che la
comunità non venga piu vista attraverso il prisma del divino, ma
il nazionalismo ha le proprie amnesie e selezioni che, anche quan-
do sono forse rigorosamente laiche, possono essere profondamente
distorte e ingannevoli. ·
L'illusione e la autoillusione di fondo creata dal nazionalismo
consiste in questo: il nazionalismo è, sostanzialmente, l'imposizione
generale di una cultura superiore a una società in cui in preceden-
za culture inferiori dominavano la vita della maggioranza, e in
alcuni casi della totalità, della popolazione. Significa la diffusione
generalizzata di una lingua, mediata dalla scuola e controllata a livel-
lo accademico, codificata per le esigenze di comunicazioni tecnolo-
giche e burocratiche ragionevolmente precise. Esso. è il consolida-
mento di una ,società impersonale, anonima, con individui atomizza-
ti reciprocamente sostituibili, tenuta insieme soprattutto da una
cultura comune di questo tipo, in luogo di una precedente com-
plessa struttura di gruppi locali, sostenuta da culture popolari che
si riproducono localmente, ciascuna con caratteristiche proprie, ad
opera dei micro-gruppi stessi. Questo è ciò che realmente avviene.

65
Ma questo è l'esatto opposto di quel che il nazionalismo af-
ferma e di quel che i nazionalisti ferventemente credono. Il nazio-
nalismo opera in genere le sue conquiste in nome di una cultura
popolare che sarebbe esistita in passato. Il suo simbolismo è tratto
dalla sana, arcaica, vigorosa vita dei contadini, del Volk, del narod.
C'è un qualche elemento di verità nella presentazione che il nazio-
nalismo fa di sé, quando il narod o il Volk è governato da funzio-
nari di un'altra cultura, di una cultura estranea, alla cui oppressio-
ne bisogna opporsi prima con una rinascita e una riaffermazione
culturali e, infine, con una guerra di liberazione nazionale. Se il
nazionalismo prospera, elimina la cultura superiore estranea, ma
non la sostituisce poi con l'umile cultura locale di un tempo; ravvi-
va, o inventa, una cultura locale superiore sua propria (letterata,
trasmessa da intellettuali specializzati), anche se indubbiamente si
tratta di una cultura che ha alcuni legami con precedenti dialetti e
consuetudini popolari locali. Ma effettivamente presenti all'Opera
di Budapest erano le grandi dame che venivano in città con indos-
so costumi contadini, o presunti tali. Oggi, in Unione Sovietica, i
consumatori di dischi « etnici » non sono quel che resta di una
popolazione rurale dal punto di vista etnico, ma la popolazione re-
centemente urbanizzata, che vive in appartamenti, è colta e multi-
lingue 2, ed ama ostentare i suoi sentimenti, le sue radici, reali o
immaginarie, e che si abbandonerà indubbiamente a quel tanto di
atteggiamento nazionalista che la situazione politica può permet-
terle.
Un'autoillusione sociologica, una visione delta realtà attraverso
il prisma dell'illusione, persiste dunque ancora, ma non è la stes-
sa che veniva analizzata da Durkheim. La società non venera piu
se stessa attraverso simboli religiosi; una cultura superiore moderna,
efficiente, motorizzata, celebra se stessa con canti e danze, che mu-
tua (stilizzandoli nel processo) da una cultura popolare che inge
nuamente si crede di perpetuare, difendere e riaffermare.

Il cammino del vero nazionalismo non è mai stato facile

Il copione classico dell'evoluzione di un nazionalismo - e


avremo motivo di ritornare su questo tipo di copione - segue

2 Ju. V. Bromlej e al., Sovremennye etniceskie processy v SSSR (Processi


etnici contemporanei in Urss), Mosca, 1975.

66
press'a poco questo schema. I ruritani erano una popolazione con-
tadina che parlava un gruppo di dialetti correlati e piu o meno
reciprocamente intelligibili e abitava una serie di sacche disconti-
nue, ma non molto nettamente separate, all'interno delle terre del-
l'Impero di Megalomania. La lingua ruritana, o meglio i dialetti
che si poteva dire la componessero, non era realmente parlata da
nessun altro oltre questi contadini. L'aristocrazia e i funzionari par-
lavano la lingua della corte megalomaniana, che si dà il caso appar-
tenesse a un gruppo linguistico diverso da quello da cui derivavano
i dialetti ruri tani.
La maggioranza, ma non tutti, i contadini ruritani appartene-
vano a una Chiesa la cui liturgia derivava da un altro gruppo lin-
guistico ancora, e molti dei sacerdoti, specialmente quelli piu in
alto nella gerarchia, parlavano una lingua che era una versione
dialettale moderna della lingua liturgica di questo credo, e che era
anche molto lontana da quella ruritana. I piccoli commercianti del-
le cittadine che servivano la campagna ruritana provenivano da u;i
gruppo etnico e da una religione ancora diversi, che i contadini
ruritani detestavano cordialmente.
In passato i ruritani avevano avuto molte traversie, tutte regi-
strate in maniera bella e commovente nelle loro canzoni-lamento
(coscienziosamente raccolte dai maestri di scuola di campagna alla
fine del XIX secolo e diventate famose tra il pubblico musicale di
tutto il mondo grazie alle composizioni del grande compositore na-
zionale L.). La miseranda oppressione dei contadini ruritani provo-
cò, nel XVIII secolo, la resistenza partigiana guidata dal celebre
brigante sociale ruritano K., le cui gesta pare vivano ancora nella
memoria popolare, per non parlare dei molti romanzi e di due film,
uno dei quali prodotto dall'artista nazionale Z., sot<to i piu alti
auspici, subito dopo la proclamazione della Repubblica popolare
socialista di Ruritania.
L'onestà ci costringe a precisare che il brigante sociale fu cat-
turato dai suoi compatrioti e che il tribunale che lo condannò a
dolorosa morte aveva come presidente un altro compatriota. Inol-
tre, non appena la Ruritania ebbe raggiunto l'indipendenza, fu fat-
ta passare tra i ministeri dell'interno, della giustizia e dell'istruzio-
ne una circolare che considerava se non fosse ora piu politico cele-
brare le unità di difesa contadine che si erano opposte al brigante
sociale e alle sue bande invece del detto brigante sociale stesso, al
fine di non incoraggiare l'ostilità verso la polizia.
Un'accurata analisi delle canzoni popolari cosi amorosamente

67
raccolte nel XIX secolo, e ora incorporate nel repertorio della gio-
ventu ruritana, delle sue organizzazioni campeggistiche e sporti 0

ve, non rivela molte testimonianze di serio malcontento da parte


dei contadini per· la loro situazione culturale e linguistica, mentre
erano invece afflitti da altri, piu terreni problemi. Al contrario, la
consapevolezza del pluralismo linguistico presente nei versi delle
canzoni è ironica, scherzosa, bonaria e si esprime, parzialmente, in
giochi di parole bilingui, talvolta di dubbio gusto. Va anche ricor-
dato che una delle piu commoventi di queste canzoni - l'ho spes-
so cantata anch'io la sera vicino al fuoco nel campeggio dov'ero
mandato per le vacanze estive - onorava la fine di un pastorello
che, mentre pascolava tre vitelli nel campo di trifoglio del signo-
,rotto locale, vicino ai boschi, fu sorpreso da un gruppo di brigan-
ti sociali che gli chiesero di consegnargli il mantello. Con un misto
di temeraria follia e di mancanza di coscienza politica il pastorello
si rifiutò e venne ucciso. Non so se queste canzoni siano state ade-
guatamente riscritte da quando la Ruritania è diventata socialista.
Comunque, per tornare al mio tema principale: anche •se le canzo-
ni contengono spesso lamentele per la condizione dei contadini, non
suscitano mai il problema del nazionalismo culturale.
Il che doveva ancora avvenire, e presumibilmente postdata
la composizione delle dette canzoni. Nel XIX secolo ci fu un forte
e repentino incremento demografico che fu accompagnato dal rapi-
do processo di industrializzazione di certe altre regioni dell'Impe-
ro di Megalomania, ma non della Ruritania. I contadini ruritani
furono costretti a cercar lavoro nelle zone piu industrializzate del
paese, e alcuni lo trovarono ma alle condizioni spaventose preva-
lenti in quell'epoca. Come campagnoli che parlavano una lingua ra-
ramente scritta o insegnata, ebbero una vita molto dura nei bassi-
fondi urbani dove s'erano trasferiti. Contemporaneamente alcuni
giovani ruritani destinati alla carriera ecclesiastica, che conosceva-
no sia la lingua liturgica che quella di corte, subirono l'influenza
delle nuove idee liberali nel corso della loro istruzione secondaria,
e passarono alle università laiche finendo non come sacerdoti ma
come giornalisti, insegnanti, professori. Ricevettero l'incoraggia-
mento di alcuni etnografi, musicologi e storici forestieri, non-ru-
ritani, che erano venuti a esplorare la Ruritania. Le continue mi-
grazioni di manodopera, la crescente espansione dell'istruzione ele-
mentare e della leva militare fornirono a questi « risvegliatori »
ruritani un audience sempre piu vasto.
Naturalmente nulla impediva ai ruritani, se lo desideravano

68
(e molti lo desideravano) di lasciarsi assimilare nella lingua domi-
nante dell'Impero di Megalomania. Nessun tratto di tipo genetico,
nessuna profonda consuetudine religiosa differenziava un ruritano
colto da un analogo cittadino di Megalomania. Di fatto, molti di-
ventarono assimilati e non si curarono neppure di cambiare il pro-
prio nome; l'elenco telefonico della vecchia capitale di Megaloma-
nia (ora Repubblica federale di Megalomania) è pieno di nomi ruri-
tani, anche se spesso ridicolmente scritti alla maniel1a megalomania-
na e adattati alla relativa fonetica. L'importante è che dopo un dif•
ficile e penoso avvio nella prima generazione, le prospettive di vita
dei figli della manodopera ruritana emigrata non erano tanto catti-
ve, e, forse, erano perlomeno altrettanto buone (data la loro volon-
tà di lavorare sodo) di quelle dei loro concittadini megalomaniani
non-ruritani. Questa nuova generazione fini dunque per condivi-
dere il crescente benessere e il generale imborghesimento della re-
gione. Dunque, nei limiti delle prospettive di vita individuali,
non c'era forse nessun bisogno di un virulento nazionalismo ruri-
tano.
Ma, invece, qualcosa del genere fini veramente per manife-
starsi. Secondo me, sarebbe del tutto sbagliato attribuire ai parte-
cipanti al movimento un calcolo cosciente. Soggettivamente, non è
escluso che essi avessero i motivi e i sentimenti che sono molto
vigorosamente espressi nella letteratura del risveglio nazionale. De-
ploravano lo squallore e }',abbandono delle loro valli native, pur
vedendo anche le rustiche virtu che in esse si potevano trovare;
deploravano la discriminazione cui i loro connazionali erano sog-
getti e l'alienazione dalla cultura nativa cui erano condannati nei
sobborghi proletari delle città industriali. Essi predicavano contro
questi mali e trovavano ascolto almeno ,presso molti dei loro con-
cittadini. Quando la situazione politica internazionale giocò in suo
favore, il modo in cui la Ruritania ottenne finalmente l'indipenden-
za è ora parte della documentazione storica e non c'è bisogno qui
di ritornarvi sopra.
Non c'è bisogno, lo ripetiamo, di pensare a nessun cosciente
calcolo d'interesse a lungo termine da parte di nessuno. Gli intel-
lettuali nazionalisti erano pieni d'entusiasmo e di generoso ardore
per la causa dei connazionali. Quando si mettevano i costumi popo-
lari e andavano su per le colline, componendo poesie nelle radure
dei boschi, essi non sognavano anche di diventare un giorno poten-
ti burocrati, ambasciatori e ministri. Parimenti, i contadini e gli
operai che erano riusciti a raggiungere con le loro idee provavano

69
risentimento per la propria condizione, ma non fantasticavano di
piani di sviluppo industriali che avrebbero portato un giorno un'ac-
ciaieria (del tutto inutile, come si dimostrò piu tardi) nel cuore
stesso delle valli ruritane, rovinando completamente una vasta
area circostante di terre coltivabili e di pascoli. Sarebbe veramen-
te sbagliato cercar di ridurre questi sentimenti a calcoli di vantaggi
materiali o di mobilità sociale. Non si può svilire, come talvolta
alcuni oggi fanno, il sentimento nazionale a calcolo di prospettive
di promozione sociale. Si tratta di un'interpretazione sbagliata. Nei
tempi andati non aveva senso chiedersi se i contadini amassero la
loro cultura: essi la prendevano come un fatto naturale, al pari
dell'aria che respiravano, e non avevano precisa coscienza di nes-
suna delle due cose. Ma quando le migrazioni di manodopera e· gli
impieghi burocratici diventarono i tratti di maggior rilievo nel loro
orizzonte sociale, essi impararono presto la differenza tra l'~ver
a che fare con un connazionale, uno che capisce e simpatizza con
la loro cultura, e uno che invece le è ostile. Questa esperienza mol-
to concreta insegnò loro ad essere consapevoli della propria cultura,
ad amarla (o, anche, a desiderare di liberarsene) senza nessun co-
sciente calcolo di vantaggi e prospettive di mobilità sociale. Nelle
comunità stabili ed autosufficienti la cultura è spesso del tutto
invisibile, ma quando capita che la mobilità e la comunicazione li-
bera da ogni contesto diventino l'essenza della vita sociale, la cul-
tura nella quale uno ha imparato a comunicare diventa il nucleo
stesso della sua identità.
Se ci fosse stato dunque un simile calcolo (che non c'era), in
molti casi (anche se non in tutti) sarebbe stato un calcolo saggio.
Di fatto, data la per lo meno relativa scarsità di intellettuali ruri-
tani, quei ruritani che avevano un'istruzione superiore si assicuraro-
no nella Ruritania indipendente posti assai migliori di quelli che
avrebbero potuto sperar di avere nella Grande Megalomania, dove
avrebbero dovuto competere con gruppi etnici di piu elevata pre-
parazione scolastica. Quanto ai contadini e agli operai, essi non
heneficiarono immediatamente del nuovo assetto; ma la definizio-
ne dei confini politici della Ruritania etnica, di recente riconosciu-
ta, significò infine l'incoraggiamento e la protezione di industrie
nell'area; il che fini per diminuire in maniera drastica la necessità
di emigrazioni di manodopera.
Per riassumere il significato di quel che siamo venuti dicen-
do: durante il primo periodo di industrializzazione coloro che en-
trano nel nuovo ordine provenendo da culture e gruppi linguistici

70
che sono molto lontani da quelli del centro piu avanzato, subisco-
no condizioni assai sfavorevoli, ancora piu sfavorevoli di quelle
di altri nuovi proletari economicamente deboli che però hanno il
vantaggio di condividere la cultura dei ceti dirigenti, economici e
politici. Ma la distanza linguistico-culturale e il fatto di differen-
ziarsi dagli altri, che sono di tanto ostacolo per gli individui, pos-
sono rivelarsi e spesso in definitiva si rivelano un vero e proprio
vantaggio per l'intera collettività, o potenziale collettività, di que-
ste vittime del mondo che va emergendo. Tale condizione le mette
in grado di concepire ed esprimere il proprio risentimento e scon-
tento in termini comprensibili. I ruritani avevano in precedenza
pensato e sentito in termini di unità familiari e di villaggio, al mas-
simo di valle, e forse talvolta in termini di religione. Ma ora, get-
tati nel crogiolo del primo sviluppo industriale, non avevano piu
né valle né villaggio: e qualche volta neppure famiglia. Ma c'erano
altri individui sfruttati e impoveriti, e molti di essi parlavano dia-
letti simili e comprensibili, mentre la maggioranza dei benestanti
parlava un linguaggio del tutto estraneo; e cosi, all'interno di que-
sto contrasto, con qualche incoraggiamento da parte di quelli che
erano giornalisti e insegnanti, è nato il nuovo concetto di nazione
ruritana. E non fu un'illusione: il raggiungimento di alcuni degli
obiettivi del nascente movimento nazionale ruritano portò vera-
mente riparo ai mali che avevano contribuito a generarlo. Forse
questi mali isarebbero stati comunque riparati; ma, in questa forma
nazionale, tale risanamento portò con sé una cultura superiore nuo-
va e il suo Stato-custode.
Questo è uno dei due importanti principi di fissione che
determinano l'emergere di nuove unità, quando il mondo indu-
striale con le sue camere di respirazione culturali isolate si presen-
ta sulla scena della storia. Potremmo chiamarlo il principio delle
barriere alla comunicazione, barriere basate su precedenti culture
pre-industrfali. Esso agisce con particolare forza durante il primo
periodo dell'industrializzazione. L'altro principio, altrettanto im-
portante, potremmo chiamarlo degli inibitori dell'entropia socia-
le; e questo principio merita una trattazione particolare.

71
VI. Entropia sociale e uguaglianza nella società industriale

La trans1Z1one dalla società agricola alla società industriale


presenta un certo carattere di entropia, equivale, cioè, a un muta-
mento da un modello preciso a una casualità sistematica. La socie-
tà agricola con le sue specializzazioni relativamente stabili, i suoi
costanti raggruppamenti di rango, professione, parentela e regione,
ha una struttura sociale chiaramente definita. I suoi elementi sono
ordinati e non distribuiti a caso. Le sue sub-culture accentuano e
rafforzano queste differenziazioni culturali e, ,pur provocando o sot-
tolineando differenze al suo interno, non ostacolano affatto il fun-
zionamento della società in generale. Anzi, proprio il contrario.
Ben lungi dal trovare oltraggiose queste differenziazioni, la società
agricola sostiene che la loro espressione e il loro riconoscimento
sono confacenti e appropriati. Il rispetto per esse è l'essenza stessa
delle norme che la regolano. ·
La società industriale è diversa. Le sue unità operative e ter-
ritoriali sono ad hoc: la loro componente umana è fluida, ha un
grado notevole di avvicendamento e in genere non impegna né
coinvolge le lealtà e l'identità dei singoli. Insomma, le vecchie
strutture si dissolvono e sono sostituite in gran parte da una tota-
lità fluida e intrinsecamente casuale, entro cui non c'è molto (cer-
tamente a paragone della precedente società agricola) che faccia
pensare a genuine sub-strutture. C'è molto poco nel senso di una
qualsiasi organizzazione, effettiva e vincolante, che si collochi a
qualsiasi livello tra l'individuo e la comunità come un tutto unico.
Questa totale e basilare comunità politica acquista dunque un'im-
portanza del tutto nuova e veramente considerevole, essendo colle-
gata (come di rado accadeva in passato) sia con lo Stato sia con
i confini culturali. La nazione è ora d'importanza suprema, grazie

73
sia alla erosione dei sottogruppi sia all'accresciuto peso di una cul-
tura comune, basata sull'istruzione universale. Lo Stato, inevitabil-
mente, si trova a dover provvedere al mantenimento e al controllo
di una sovrastruttura sociale enorme (il cui costo si avvicina alla
metà del reddito totale della società). Il sistema educativo diventa
una parte cruciale delb macchina dello Stato e il mantenimento del
mezzo ìinguistico/ culturale diventa ora il ruolo centrale dell'edu-
cazione. I cittadini possono respirare concettualmente e operare
soltanto entro questo mezzo, che ha la stessa ampiezza del territo-
rio dello Stato e del suo apparato culturale e educativo, e che ha
bisogno di essere protetto e sostenuto con affettuosa sollecitudine.
Il ruolo della cultura non è piu quello di accentuare e rendere
visibili le differenziazioni strutturali all'interno della società (an-
che se alcune persistono e se, può darsi, nuove ne emergano);
al contrario, quando, talvolta, le differenze culturali si collegano
con le differenze di status sociale e le rafforzano, il fatto è denun-
ciato come una vergogna per la società in questione e come un in-
dice di parzfole fallimento del suo sistema educativo. Il compito
che è affidato a questo sistema è di creare membri della società to-
tale che siano degni, leali, competenti, in grado di occupare i posti
che essa offre senza subire il soffocante condizionamento di lealtà
settoriali a sottogruppi all'interno della comunità totale stessa. E
se qualche parte del sistema educativo, per difetto o per subdolo
disegno, produce in effetti differenze culturali interne e quindi per-
mette o incoraggia discriminazioni, questo è considerato uno scan-
dalo.

Ostacoli alt' entropia

Tutto questo è soltanto una riformulazione della nostra teoria


generale delle basi del nazionalismo, del nuovo ruolo della cultura
in società mobi!i, istruite, anonime. Ma sottolineando il bisogno di
una mobilità entropica, in apparenza casuale, e di una distribuzio-
ne degli individui in questo tipo di società, un importante punto
viene in luce. Anche se all'interno di tale società le sub-comunità
sono parzialmente erose e la loro autorità morale è di molto inde-
bolita, tuttavia gli individui continuano a differenziarsi in una note-
vole varietà di modi. Essi possono essere catalogati sotto l'etichet-
ta di alti e bassi, grassi e magri, scuri e chiari, e in molte altre ma-
niere. Chiaramente, non c'è limite al numero di voci sotto cui gli

74
individui si possono classificare. La grande maggioranza delle pos-
sibili classificazioni non sarà di interesse alcuno. Ma alcune di
esse diventano politicamente e socialmente molto importanti. Sono
quelle classificazioni che sono tentato di definire resistenti all'en-
tropia. Una classificazione è resistente all'entropia se si basa su un
attributo che ha una marcata tendenza a non diventare, anche col
passar del tempo dall'iniziale instaurazione di una società industria-
le, uniformemente diffuso attraverso l'intera società. In un simile
caso di resistenza all'entropia quegli individui che sono caratteriz-
zati dal tratto in questione tenderanno a concentrarsi da una parte
o dall'altra della società totale.
Supponiamo che una società contenga un certo numero di
individui che, per caso o per motivi ereditari, abbiano un colorito
azzurro; e supponiamo che, nonostante siano passate alcune gene-
razioni dal momento dell'instaurazione della nuova economia, e no-
nostante la promulgazione ufficiale e l'imposizione di una politica
di la carrière ouverte aux talents, la stragrande maggioranza degli
« azzurri » continui tenacemente a occupare i posti al vertice, o al
fondo, della società in questione: in altre parole, gli azzurri tendo-
no ad accaparrarsi o troppi, o troppo pochi, dei vantaggi disponi-
bili in questa società. Questo renderebbe il colorito azzurro un trat-
to resistente all'entropia sociale, nel senso inteso.
Si noti, comunque, che è sempre possibile inventare tratti che,
in qualsiasi dato momento, possano sembrare resistenti all'entro-
pia. È sempre possibile inventare un concetto che sia applicabile
solo a questa o a quella classe di individui. Ma la resistenza all'en-
tropia di un concetto, in questo senso, presenterà di solito qualche
interesse se tale concetto sarà una nozione ragionevolmente natura-
le, una nozione già in uso nella società in questione, piuttosto che
artificiosamente inventata per il fine del momento. In tal caso, se
non sarà uniformemente distribuito nella società piu vasta, ne po-
tranno conseguire complicazioni.
Il resto di questa argomentazione non è ora difficile da anti-
cipare: i tratti resistenti all'entropia costituiscono un problema
molto serio per la società industriale. Per la società agricola era
vero quasi l'esatto contrario. Ben lungi dal deplorare i tratti resi-
stenti all'entropia, quel tipo di società di solito li inventava, ogni
qual volta si trovava non sufficientemente fornita di questo pro-
dotto dalla natura. Essa amava pensare che certe categorie di uomi-
ni fossero dominatori naturali e che gli altri fossero schiavi natura-
li, e metteva in atto sanzioni, punitive e ideologiche, intese a per-

75
suadere gli uomini a conformarsi a queste prospettive e anzi ad in-
teriorizzarle. La società inventava dubbi attributi umani (o origini)
il cui scopo principale era, esattamente, di essere resistenti all'en-
tropia. La élite religiosa nei paesi tribali musulmani è spesso defi-
nita e legittimata in termini di discendenza dal Profeta: lo status
tra le tribu dell'Asia centrale è spesso espresso in termini di discen-
denza dal clan di Genghiz Khan; le aristocrazie europee si credono
molto spesso discendenti da un ben preciso gruppo etnico di con-
quistatori.
La resistenza all'entropia crea scissione, talvolta veri e propri
abissi, nelle società industriali in cui si verifica. Ma in che cosa si
differenzia questa propensione alle divisioni da quella generata
semplicemente dalle differenze culturali e dai problemi di comuni-
cazione che sussistono nella prima società industriale e che abbia-
mo esaminato nelle pagine precedenti?
I due fenomeni hanno senz'altro una certa affinità e persino
si sovrappongono. Ma le differenze rimangono comunque importan-
ti. L'accesso differenziato alla lingua/cultura del centro economico
e politico piu avanzato, che è di ostacolo ai nativi di culture piu
periferiche e che li spinge, insieme ai loro leader, verso un nazio-
nalismo culturale e alla fine politico, è anch'esso una forma di re-
sistenza all'entropia. Gli emigranti in cerca di lavoro che non par-
lano neppure una variante dialettale della principale lingua ufficia-
le usata dai burocrati e dagli imprenditori, proprio per questa ra-
gione, sono destinati inizialmente, con ogni probabilità, a rimanere
al gradino piu basso della gerarchia sociale, e quindi, incidental-
mente, ad essere meno in grado di correggere e compensare gli
svantaggi che li perseguitano, sia per se stessi sia per i loro figli.
Ma, quando la lingua di questi lavoratori (o piuttosto, la versione
standardizzata e piu viva di uno dei suoi dialetti) diventerà la lin-
gua commerciale, burocratica, quando diventerà strumento educati-
vo, di un nuovo Stato indipendente, questi particolari svantaggi
spariranno e le caratteristiche culturali di questi individui cesse-
ranno di essere resistenti all'entropia.
Ma è importante osservare che, nel nostro ipotetico caso,
essi avrebbero potuto aggirare l'ostacolo anche assimilando la vec-
chia lingua e cultura dei ceti dominanti; e di fatto molti hanno pre-
so questa strada. Non c'è motivo di creclere che questi ultimi siano
meno numerosi di quelli che hanno fatto la scelta nazionalista. An-
zi, non pochi devono aver preso entrambe le strade, successivamen-

76
te o simultaneamente 1 • Per esempio, molti sono diventati naziona-
listi irredentisti, in favore di una cultura che non era quella delle
loro vere origini, prima assimilandola e quindi assumendone la di-
fesa politica per garantire alla loro nuova cultura pieno diritto di
cittadinanza come cultura superiore, e per darle insieme una di-
mora politica sua propria.
Ma ciò che distingue questo specifico caso, pur decisivo e
importante, da altre forme di resistenza all'entropia è questo: se
in realtà si tratta semplicemente di un difetto di comunicazione
(sempre, però, fondamentalmente legato allo status generale e ad
una condizione di svantaggio economico), a tale difetto si può
rimediare con l'uno o l'altro dei due metodi discussi: un naziona-
lismo trionfante o l'assimilazione; oppure un misto di entrambi.
Ma ci sono forme di resistenza all'entropia le cui conseguenze so-
ciali fissipare non si possono riparare soltanto correggendo l'incon-
veniente della comunicazione. La seconda scelta, quella dell'assimi-
lazione attraverso l'istruzione, è preclusa. Qui c'è da superare
qualcosa piu di una barriera a livello di comunicazione. Se si dà il
caso che la prima scelta (di fatto un irredentismo trionfante) sia
anch'essa bloccata dagli equilibri del potere politico, la situazione
si fa grave e continuerà a deteriorarsi.
L'impossibilità di comunicare, tipo quella che si verifica tra
coloro che si immettono da una cultura estranea in un'area di in-
dustrializzazione, è una forma di inibizione all'entropia (anche se
una forma che può essere facilmente superata in una generazione
o poco piu); ma non è vero l'inverso, cioè che tutte le inibizioni
all'entropia dipendano esclusivamente dalla mera impossibilità di
comunicare. QueHe che non dipendono dalla mera impossibilità di
comunicare, e che non sono rimediabili né con l'assimilazione nel-
l'aggregato dominante né con la creazione di un nuovo aggregato
indipendente sulla base del mezzo di comunicazione originario dei
nuovi venuti, sono rispettivamente piu tragiche. Esse costituiscono
un problema la cui soluzione non si prospetta ancora all'orizzonte
e che potrebbe anche essere una delle questioni piu serie che la
società industriale deve affrontare.
Torniamo al nostro ipotetico caso di una sotto-popolazione
di colorito azzurro nell'ambito di una società piu vasta, e suppo-
niamo che per qualche motivo questa popolazione sia concentrata
quasi al fondo della scala sociale. Le società industriali sono deci-

1 F. Colonna, Instituteurs algériens, 1883-1939, Paris, 1975.

7.7
samente inegualitarie in quanto forniscono ai loro cittadini una
vasta gamma <li posizioni sociali, alcune molto pi{1 vantaggiose di
altre; ma nel contempo esse sono anche egualitarie, in quanto que-
sto sistema di posti forma una specie di continuo {non ci sono
nel suo disegno radicali discontinuità), e c'è la diffusa opinione,
forse esagerata ma non totalmente priva di verità, che sia possibile
muoversi verso l'alto e verso il basso, e che ogni barriera rigida nel
sistema sia illegittima. A paragone comunque di qualsiasi società
agricola, la società industriale è straordinariamente egualitaria e,
nelle società industriali sviluppate, c'è una marcata convergenza de-
gli stili di vita e una notevole diminuzione delle distanze sociali.
Ma nel nostro ipotetico caso di una popolazione dal colorito azzur-
ro che si concentra ai gradini bassi della scala sociale, la congiunzio-
ne di una facile identificabilità (l'azzurro è un colore ben distingui-
bile) con la distribuzione non-casuale, antientropica, di questa cate-
goria di persone (gli azzurri) presenta conseguenze molto negative.
Non c'è rischio d'errore nel supporre che le popolazioni diffe-
riscano in qualche misura nei loro talenti innati. L'assunto che tut-
ti i talenti siano distribuiti in maniera assolutamente eguale è
press'a poco altrettanto probabile dell'esistenza di una terra com-
pletamente piatta. È egualmente ovvio che, quando si arriva all'uti-
lizzazione dei talenti, i fattori sociali contino assai piu delle doti
innate. (Alcune popolazioni piu strettamente associate con le con-
quiste dell'umanità negli ultimi secoli er,ano, non moltissime gene-
razioni prima, selvagge ed arretrate, eppure è improbabile che il lo,
ro patrimonio genetico sia potuto cambiare di molto nel breve pe-
riodo che è trascorso tra la loro barbarie e il posto di rilievo che
hanno assunto nella storia del mondo; il che sembra confermare la
nostra tesi.) L'intera questione non ha troppa importanza nella
misura in cui appare chiaro che lo scarto di capacità esistente al-
l'interno di dati gruppi « razziali » o « etnici » è assai maggiore
delle differenze esistenti in media fra questi diversi gruppi.
Ne consegue qualcosa di molto importante. Gli azzurri sono
concentrati al fondo della scala sociale e può anche darsi che il
loro rendimento sia, mediamente, inferiore a quello di altri gruppi
distribuiti in maniera piu irregolare e casuale. Nessuno sa se ciò
sia dovuto a differenze genetiche o a fattori sociali. Ma una cosa
è certa: all'interno della popolazione azzurra ci saranno molti che
sono assai piu capaci, assai piu idonei di moltissimi altri membri
dei segmenti non-azzurri della popolazione totale, quali che siano
i criteri di rendimento comunemente applicati e pertinenti.

78
Che cosa accadrà ora nella situazione che abbiamo testè de-
scritta e definita? L'associazione dell'attributo di azzurro, della
« azzurrità », con un posto basso nella scala sociale finirà per crea-
re un pregiudizio contro gli azzurri. Se quelli al fondo della scala
sociale appaiono essere, da un punto di vista cromatico o da qual-
sivoglia punto, un campione casuale della popolazione, allora il
pregiudizio contro di loro non potrà collegarsi a nessun tratto spe-
cifico, dal momento che occupare il posto piu basso non è specifi-
camente connesso, per ipotesi, con nessun tratto. Ma se moltissimi
di quelli che sono al fondo della scala sociale sono azzurri, allora
il pregiudizio che tra gli strati leggermente piu in alto è generato
contro quelli piu in basso di loro dalla paura di esser spinti in giu,
si collegherà inevitabilmente alla azzurrità. Di fatto i gruppi non-
azzurri in basso nella scala sociale saranno particolarmente inclini
a sentimenti anti-azzurri, perché avranno ben poco altro di valido
di cui andar fieri e perciò si aggrapperanno alla loro unica e pate-
tica distinzione, la non-azzurrità, con particolare acrimonia.
Tuttavia, moltissimi degli azzurri cominceranno a salire nella
scala sociale, nonostante i pregiudizi a loro sfavore. La concentra-
zione degli azzurri nei gradini piu bassi è solo statistica, e molti
azzurri (anche se essi stessi non sono che una minoranza all'inter-
no della propria sotto-popolazione azzurra) a forza di lavorare so-
do, di capacità o di fortuna, riusciranno a salire e a raggiungere
una posizione piu elevata. Che ne sarà di loro?
Siamo partiti dall'assunto che l'azzurrità, per una ragione o
per l'altra, è inestirpabile. Le condizioni degli azzurri in ascesa
saranno dunque penose e dense di tensioni. Quali che siano i loro
meriti individuali, per i loro accidentali conoscenti non-azzurri e
per la gente non-azzurra incontrata per caso (ed è tipico dell'essen-
za stessa di una società mobile e complessa che tanti contatti uma-
ni siano casuali, rapidi, ma ciononostante significativi), essi saran-
no sempre degli azzurri sporchi, pigri, poveri e ignoranti; giacché
queste caratteristiche, o altre analoghe, sono associate con l'occu-
pare posti in basso nella scala sociale.
In questo contesto gli azzurri in ascesa non stanno molto
peggio degli emigranti ruritani in ascesa del nostro precedente
esempio; ma c'è una differenza di un peso determinante. Della
cultura ruritana è possibile spogliarsi, della azzurrità no. Abbiamo
anche assunto che i ruritani avessero una base territoriale; c'è una
zona, il cuore della terra ruritana, dove i contadini che parlano
una qualche versione di ruritano sono in maggioranza. Ancora una

79
volta, dunque, i ruritani hanno due vie di uscita: l'assimilazione
nella lingua o nella cultura megalomaniana o la creazione di una
gloriosa Ruritania indipendente, dove il loro dialetto si trasforme-
rebbe in una lingua letteraria e ufficiale. Ciascuna di queste due al-
ternative è stata sperimentata con successo in luoghi diversi e da
individui diversi. Ma nella nostra ipotesi gli azzurri non dispongo-
no della prima di queste due scelte. Qualsiasi cosa facciano, la loro
azzurrità, che si denuncia da sola, non li abbandonerà mai. Inoltre,
la cultura di Megalomania è antica, gode di un'immagine consoli-
data, tutte cose da cui l'azzurrità è esclusa.
E per la seconda scelta, cioè il consolidamento di una indi-
pendenza nazionale? Nella realtà storica attuale le popolazioni che
si trovano in una situazione analoga a quella dei nostri azzurri tal-
voha possiedono, e talvolta non possiedono, una base territoriale
propria. Nel primo caso hanno almeno una delle due scelte di cui
disponevano i ruritani e, se è politicamente e militarmente fattibi-
le, essi possono impegnarsi a imporla. Se, invece, i nostri ipotetici
azzurri non hanno una base territoriale in cui possono plausibil-
mente sperare di stabilire una patria azzurra indipendente o, alter-
nativamente, se ne hanno una che è però, per qualche motivo,
troppo piccola o troppo poco •attraente perché gli azzurri sparsi nel
mondo vi facciano ritorno, allora la situazione degli azzurri è ve-
ramente assai grave.
In una situazione del genere seri ostacoli sociologici, non fa-
cilmente rimovibili con la semplice buona volontà e con le leggi
oppure attraverso l'irredentismo e l'attivismo politico, bloccano la
via a quella omogeneità culturale, a quella entropia sociale, che so-
no non soltanto la norma della società industriale avanzata, ma an-
che, a quanto pare, la condizione del suo buon funzionamento.
Laddove questa inibizione all'entropia si manifesta, può costituire
uno dei pericoli piu gravi che la società industriale sia chiamata ad
affrontare. Per converso, mentre le popolazioni azzurre sono bloc-
cate in entrambe le direzioni, altre popolazioni possono comoda-
mente avere le due alternative. In uno Stato federale, popolazioni
come i nostri ipotetici ruritani possono possedere una Ruritania
autonoma e simultaneamente inserirsi anche nello Stato piu vasto,
grazie alla esigua distanza culturale tra loro e le altre culture dello
Stato federale e alla non identificabilità dei ruritani assimilati. Se-
condo me, tocca ai ruritani decidere se questo duplice vantaggio
vale il prezzo che essi pagano: cioè, che il cantone o la repubblica
federale autonoma di Ruritania non sia totalmente indipendente.

80
Alcune popolazioni che rientrano perfettamente nella descrizione
testt! fotta rimangono volontariamente nel phi vasto Stato federa-
le; altre sono state private di questa scelta con la forza. Il Quebec
sembrerebbe esemplificare il primo caso, il Biafra il secondo.
Nasce dunque la questione: quali sono i tipi di attributo che
nel mondo reale rassomigliano alla « azzurrità » del nostro ipo-
tetico esempio? I tratti trasmessi geneticamente sono una forma
di tale azzurrità, ma una forma soltanto; poi ci sono le altre forme
non-genetiche che hanno almeno· altrettanta importanza. Bisogna
anche aggiungere che non ogni tratto trasmesso geneticamente
avrà l'effetto di produrre una divisione, una scissur,a nella so-
cietà. I capelli •rossicci attirano su chi li ha battute scherzose du-
rante l'infanzia, mentre i capelli ramati tra le donne sono talvolta
considerati particolarmente attraenti. Si dice, inoltre, che alcuni
gruppi etnici abbiamo nelle loro file un numero sproporzionato
di teste rosse. Ma nonostante questi fatti e/o credenze popolari, i
capelli rossi non generano nel complesso nessun conflitto o proble-
ma sociale.
La cosa si può parzialmente spiegare dicendo, per usare il ter-
mine introdotto in precedenza a questo scopo, che i capelli rossi
sono abbastanza entropici, nonostante qualsiasi presunta correla-
zione etnica. I tratti fisici che, pur se genetici, non hanno precise
colleganze geografiche o storiche, tendono ad essere entropici; ed
anche se hanno qualche lieve correlazione con vantaggi sociali, ten-
dono a rimanere socialmente insignificanti. Al contrario, in Ruan-
da e Urundi la statura fisica è collegata alla affiliazione etnica e
allo status politico in maniera molto marcata, a livello sia pratico
che ideologico, giacché gli allevatori di bestiame che conquistarono
il paesè erano piu alti degli agricoltori locali, ed entrambi erano
piu alti dei pigmei. Ma in gran parte delle altre società questa
correlazione è abbastanza vaga da non diventare socialmente signi-
ficativa. Gli allievi di Eton sono, nella media, piu alti degli altri;
ma le semplici Guardie reali, pur di statura molto alta, non sono
considerate nobiltà o alta borghesia.
I tratti fisici o geneticamente trasmessi sono soltanto una for-
ma di ·« azzurrità ». Quali sono le altre? È di estremo interesse
ed importanza il fatto che alcune consuetudini culturali e religiose
profondamente radicate posseggano un vigore e una tenacia pari a
quelle che derivano dalla nostra costituzione genetica. La lingua e
le ideologie sembrano meno profondamente radicate ed è piu faci-
le spogliarsene; ma quel gruppo di valori .ed atteggiamenti intrin-

81
seci e assai diffusi che, nella società agricola, sono di solito col-
legati alla religione ·(siano o meno saldamente incorporati nell'alta
teologia ufficiale della fede in questione) rivelano spesso una per-
sistenza tetragona ad ogni attacco, e continuano a fungere da con-
trassegno distintivo per quelle popolazioni che ne sono portatrici.
Per esempio, all'epoca in cui l'Algeria era giuridicamente ritenuta
parte della Francia, l'assimilazione degli emigranti algerini in Fran-
cia non era ostacolata da alcuna differenza genetica, fisica tra, met-
tiamo, un contadino della Cabilia e un contadino della Francia me-
ridionale. La scissura generalmente insuperabile tra le due popola-
zioni, e che impediva una soluzione assimilazionista, era di natura
culturale e non fisica. Il conflitto comunitario che nell'Ulster ha
radici cosf profonde non si basa, ovviamente, sull'impossibilità del-
le due popolazioni di comunicare fra loro, ma sull'identificazione
con l'una o con l'altra delle due culture locali contendenti; identi-
ficazione che è cosf irremovibile da poter essere paragonata a carat-
teristiche fisiche, anche se in realtà trae origine da motivi sociali.
Le organizzazioni terroristiche la cui presunta ideologia, o meglio
ammasso di parole, è una specie di vago marxismo rivoluzionario
contemporaneo, di fatto reclutano esclusivamente i loro adepti da
una comunità un tempo caratterizzata da una fede religiosa, e che
continua ad essere caratterizzata dalla cultura che da tale fede è
sgorgata.
In Jugoslavia è recentemente avvenuto un fatto curioso e pro-
fondamente rivelatore: in Bosnia la popolazione ex musulmana si è
finalmente, e non senza ardui sforzi, assicurata il diritto di defi-
nirsi musulmana, al momento di riempire lo spazio relativo alla
« nazionalità » sul modulo del censimento. Il che non significa af-
fatto che i bosni-aci fossero ancor.a musulmani credenti e praticanti,
e ancor meno che volessero identificarsi come nazionalità unica con
altri musulmani o ex musulmani del paese, gli albanesi di Kosovo
per esempio. Essi erano una popolazione di lingua serbo-croata con
una ascendenza slava e con un retroterra culturale musulmano.
Quel che intendevano dire è che non potevano definirsi né serbi
né croati (pur condividendo la lingua con i serbi e con i croati),
perché queste identificazioni implicavano l'esser stati ortodossi o
cattolici; e definirsi « jugoslavi » sembrava loro troppo astratto,
generico e sbiadito.
Essi preferivano definirsi « musulmani » (e dopo tanto tem-
po erano riusciti ad averne il permesso), volendo dire con questo
ex musulmani ·slavi della Bosnia, i quali si sentono un preciso grup-

82
po etnico, anche se linguisticamente non differenziabili dai serbi
e dai croati, e sebbene la fede che li distingue sia ormai una fede
decaduta. Il giudice Oliver Wendell Holmes osservò una volta che
per essere un gentiluomo non si deve sapere il latino e il greco,
ma si deve averli dimenticati. Oggi per esser un musulmano bo-
sniaco non c'è bisogno di credere che c'è un solo Dio e che Mao-
metto è il suo profeta, ma c'è bisogno, si, di aver perso quella fede.
Il significato essenziale della transizione dalla fede alla cultura, alla
sua fusione con l'etnicità e alla fine con uno Stato, è chiaramente
illustrato da uno scambio di battute in quello studio classico del
ruolo dei militari in un paese in via di sviluppo che è Le tre sorel-
le di Cechov. Dice il barone Tusenbach: « ... Senza dubbio state
pensando: "Questo tedesco diventa sentimentale". Ma io, parola
d'onore, sono russo, e di tedesco non so nemmeno una parola. Mio
padre è ortodosso ... » 2 • Nonostante il suo nome e probabilmente
la sua ascendenza teutonica, il barone difende la sua condizione di
slavo riferendosi alla sua religione ortodossa.
Con questo non si vuol affermare che ogni religione pre-indu-
striale tenderà a presentarsi in una nuova veste come lealtà etnica
all'interno del crogiolo della società industriale. Sarebbe una prete-
sa assurda. Innanzitutto, come nel caso delle lingue e delle dif-
ferenziazioni culturali, il mondo agricolo è spesso fin troppo prov-
visto di religioni. Ce n'erano un'infinità. Il loro numero era eccessi-
vo rispetto a quello dei gruppi etnici e degli Stati nazionali per i
quali poteva esserci posto nel mondo moderno. Di conseguenza
molte religioni non riuscirono semplicemente a sopravvivere (sia
pur nella trasformazione quasi magica di unità etniche), per tenaci
che potessero essere. Anche nel caso delle lingue, molte non si di-
mostrano davvero altrettanto tenaci. Sono soltanto le grandi reli-
gioni, quelle che si fondano su scritture e che godono del sostegno
di personale specializzato, che talvolta, ma non sempre, diventano
la base di una nuova identità collettiva nel mondo industriale, tra-
sformandosi, per cosi dire, da cultura-religione in cultura-Stato.
Nel mondo agricolo. dunque, la cultura superiore coesiste con le
culture inferiori, ed ha bisogno di una Chiesa (o per lo meno di
una corporazione di chierici) per reggersi. Nel mondo industriale
prevalgono le culture superiori, ma esse hanno bisogno di uno
Stato non di una Chiesa, e di uno Stato ciascuna. Questa è una del-
le maniere di individuare nella sostanza l'emergere dell'età nazio-
nalista.
2 A. Cechov, Le tre sorelle, Milano, Rizzoli, 1960, p. 46 (n.d.t.).

83
Le culture superiori tendono a diventare la base di una nuova
nazionalità (come in Algeria), quando prima dell'emergere del na-
zionalismo era la religione che definiva con sufficiente esattezza
tutti i ceti meno favoriti distinguendoli da quelli piu favoriti, an-
che o specialmente se i meno favòriti non avevano altra esplicita
caratteristica comune (come la lingua o la storia). Non c'era mai
stata nessuna nazione algerina prima del risveglio nazionalista di
questo secolo, come ebbe ad osservare Ferhat Abbas, uno dei mag-
giori leader nazionalisti della prima ora. C'era stata la piu vasta co-
munità dell'Islam, c'era stata un'intera serie di comunità piu ri-
strette, ma nulla che corrispondesse neppur lontanamente agli abi-
tanti dell'attuale territorio nazionale. In tale caso è effettivamente
nata una nuova nazione, definita come la totalità di tutti i seguaci
di una determinata fede all'interno di un determinato territorio.
(Nel caso dei palestinesi, oggi, sembra che la lingua, la cultura, una
comune difficile condizione, ma non la religione, concorrano a pro-
durre questa cristallizzazione.) Per svolgere un ruolo distintivo, di
definizione di una nazione, la religione in questione può di fatto
aver bisogno di trasformarsi totalmente, come è avvenuto in Al-
geria: nel XIX secolo l'Islam algerino con la sua reverenza per i
lignaggi sacri coincideva, ai fini pratici, con i santuari locali e il cul-
to dei santi. Nel XX secolo ha respinto tutto questo e si è identifi-
cato con uno scritturalismo riformistico, negando la legittimità di
ogni mediazione sacra tra l'uomo e Dio. I santuari avevano defini-
to tribu e confini tribali; lo scritturalismo poteva definire, ed ha
definito, una nazione.

Scissure e barriere

Il nostro argomento generale potrebbe essere riformulato co-


me segue. L'industrializzazione genera una società mobile e cultu-
ralmente omogenea che, di conseguenza, ha speranze e aspirazioni
egualitarie che erano generalmente mancate alle precedenti società
agricole stabili, stratificate e assolutiste. Contemporaneamente, nel-
le sue prime fasi, la società industriale genera anche vistose ine-
guaglianze, molto stridenti e dolorose, tanto piu dolorose in quan-
to accompagnate da grandi agitazioni, e perché coloro che in que-
sto periodo si collocano ai livelli piu bassi della scala sociale gene-
ralmente si dibattono in uno stato non solo di relativa, ma spesso
di assoluta povertà. In una simile situazione - caratterizzata da

84
aspirazioni egualitarie, realtà non-egualitarie, miseria, omogeneità
culturale desiderata ma non ancora raggiunta . - la tensione politi-
ca latente è acuta, e diventa reale se riesce ad appropriarsi di buoni
simboli, di buoni segni distintivi, capaci di separare chi comanda
da chi obbedisce, chi ha privilegi da chi non ne ha.
Questa tensione, fotto tipico, usa come propri strumenti la
lingua, i tratti geneticamente trasmessi (« razzismo ») o la cultura
soltanto. E a spingere con forza in questa direzione è il fatto che
nella società in via di industrializzazione la comunicazione, e quin-
di la cultura, assume una importanza nuova, mai prima sperimen-
tata. La comunicazione diventa importante a causa della comples-
sità, dell'interdipendenza e della mobilità della vita produttiva, en-
tro la quale si rende necessaria 1a trasmissione di messaggi com-
plessi, precisi, liberi da contesto, assai piu numerosi di quanto sia
mai stato in precedenza.
Sembra che, tra le molte, siano proprio le culture legate ad
una fede superiore (basata su scritture) ad essere destinate a svol-
gere un ruolo di catalizzatore del malcontento. La fede e le culture
popolari locali, come i dialetti minori, non possono probabilmente
aspirare a tanto. Nel primo periodo della industrializzazione, natu-
ralmente, anche le culture inferiori possono essere prese e trasfor-
mate in segni distintivi dei meno favoriti, possono essere usate per
identificarli e unirli, se esse appaiono politicamente promettenti,
in particolare se definiscono popolazioni numerose, territorialmente
piu o meno compatte. Durante questa prima fase c'è il rischio che
parecchie stridenti differenze vadano ad aggiungersi al privilegio e
al non-privilegio: facilità di accesso al nuovo stile di vita e alla
istruzione che ne è la condizione preliminare anziché ostacoli al-
l'accesso (comunicazione facilitata o ostacolata), una cultura supe-
riore anziché inferiore.
Questo è il tipo di generazione solcata da scissure, in cui la
mancanza di una effettiva comunicazione ,è cruciale perché denun-
cia e sottolinea una differenza obiettiva. Piu tardi, quando grazie
allo sviluppo generale le barriere alla comunicazione e le inegua-
glianze non saranno phl tanto grandi e, quindi, il comune stile di
vita della società industriale permetterà agli uomini di comunicare
anche attraverso lingue diverse, saranno i persistenti tratti non-uni-
formemente distribuiti (« anti-entropici ») a diventare realmente
cruciali, siano essi di tipo genetico o culturale. In questa fase la
trasformazione delle culture un tempo inferiori in una nuova cul-
tura superiore, al fine di fornire una bandiera a tutta la vasta clas-

85
se dei non-privilegiati, dei poveri, che probabilmente mancavano
in precedenza di qualsiasi sistema per chiamarsi l'un l'altro a rac-
colta ed unirsi, questa trasformazione, dicevamo, non è piu molto
probabile; il periodo di estrema povertà, di disorganizzazione, di
quasi fame, di totale alienazione dei ceti inferiori è finito. Lo scon-
tento è ora generato non tanto da condizioni oggettive intollera-
bili (dal momento che le privazioni sono, per cosi dire, relative),
ma soprattutto dalla distribuzione sociale non-casuale di alcuni trat-
ti visibili e in generale percepiti.
La differenza tra le due fasi, la prima e l'ultima, si può espri-
mere come !Segue. Nella prima fase c'è una differenza spaventosa
tra le opportunità offerte dalla vita ai benestanti e ai morti di fa-
me, tra coloro che sanno nuotare nel nuovo grande bacino della
società industriale e quelli che solo faticosamente stanno imparan-
do a farlo. Anche in questo caso il conflitto di rado diventerà fero-
ce o si intensificherà all'infinito, contrariamente alle previsioni
marxiste, a meno che i privilegiati e gli altri non possano identifi-
care se stessi, e identificarsi reciprocamente, in termini culturali,
« etnici ». Ma se possono cosi distinguersi gli uni dagli altri, allora
si può genericamente dire che è nata una nuova nazione (o nuove
nazioni); e tale nuova nazione può organizzarsi intorno sia ad una
cultura superiore sia ad una precedente cultura inferiore. Se un::i
cultura superiore non è già H bell'e pronta, a disposizione, o non
è già stata mutuata da un gruppo rivale, allora una cultura inferio-
re viene trasformata in una cultura superiore. Questa è l'età della
nascita (o della presunta « rinascita ») delle nazioni, e delle trasfor-
mazioni delle culture inferiori in nuove culture superiori, letterate.
La fase successiva è diversa. Non c'è piu un acuto malconten-
to sociale obiettivo né una vistosa differenziazione sociale che cer-
chino di individuare una qualsiasi vecchia differenziazione culturale
a portata di mano al fine di usarla, se possibile, per creare una
nuova barriera, anzi, in definitiva, una nuova frontiera. Adesso è
soltanto una precedente genuina barriera alla mobilità e all'egua-
glianza, che, avendo ostacolato una facile identificazione, potrà ge-
nerare una nuova frontiera. E la differenza non è da poco.

Diversità di focalizzazione
Alcuni casi particolari meritano un commento particolare. La
civiltà islamica nell'età agricola illustra chiaramente la nostra tesi
che le società agricole non sono inclini ad usare la cultura per defi-

86
nire le unità politiche; in altre parole, che esse non sono portate ad
essere nazionaliste. La vaga corporazione degli ulama, degli studio-
si-teologi-giuristi 3 , che diedero il tono e dominarono moralmente il
tradizionale mondo musulmano, era transpolitica e transetnica, non
vincolata ad alcuno Stato (una volta che il Califfato con le sue pre-
tese monopolistiche di fornire un tetto politico all'intera comunità
si fu disintegrato) né ad alcuna «nazione». Da parte sua l'Islam
popolare dei santuari e del sacro lignaggio era sub-etnico e sub-
politico (per quel che concerne le principali unità, simili agli Stati
storici e nazionali), pronto invece a servire e a rafforzare le vigo-
rose unità locali di autodifesa e autoamministrazione (tribu).
L'Islam si divideva, dunque, al suo interno in una cultura superio-
re e una cultura inferiore, le due confluenti, naturalmente, l'una
. nell'altr,a, intimamente correlate e intrecciate, anche se periodica-
mente entravano in violento conflitto, quando i «rammentatori»
ravvivavano il presunto antico zelo della cultura superiore e univa-
no gli uomini della tribu nell'interesse della pur-ificazione e del lo-
ro arricchimento e avanzamento politico. Ma i cambiamenti pro-
dotti in questo modo nell'ordine tradizionale (anche se ricorrenti
con una certa frequenza) non portavano nessun profondo cam-
biamento culturale; servivano soltanto a determinare un avvicen-
damento del personale, ma non alteravano sostanzialmente la so-
cietà 4 •
Col sopraggiungere del travaglio della modernizzazione, le cose
presero una piega diversa. Tra l'altro, ciò significa in generale, co-
me abbiamo già accennato, la sostituzione di culture inferiori di-
versificate, ciascuna legata ,a una data località, con culture supe-
riori standardizzate, formalizzate, basate su un sistema educativo.
Ma la società islamica era sempre stata idealmente preparata, per
un caso della storia, a questo sviluppo, in quanto possedeva dentro
di sé sia una cultura superiore sia una cultura inferiore. Esse ave-
vano lo stesso nome, non sempre erano accuratamente distinte e
spesso erano fuse e confuse; erano, insomma, reciprocamente lega-
te. Entrambe, in passato, potevano essere, e furono, il mezzo di
una incondizionata e appassionata identificazione con un Islam
(presunto unico), visto come una rivelazione assoluta, intransigen-
te ·e definitiva. L'Lslam forse non aveva Chiesa, ma certo quella
che non aveva el'a una Chiesa « latitudinaria », una Chiesa tolle-
3 Scholars, Saints and Sufis, a cura di N. Keddie, Berkeley, 1972; E. Gellner,
Muslim Society, Cambridge, 1981.
' Ibn Khaldun, The Muqaddimah, trad. F. Rosenthal, Lon<lon, 1958.

87
tante. Nel mondo moderno la variante popolare o inferiore può
essere ed è sconfessata come una corruzione, sfruttata se non real-
mente inventata o istigata dal nemico colonialista straniero, mentre
la variante superiore diventa la cultura intorno a cui si può cristal-
lizzare un nuovo nazionalismo. Questo è particolarmente facile che
avvenga nel caso di un gruppo linguistico la cui lingua è collegata
con quella dell'unica rivelazione; è anche facile in quei casi in cui
l'intera nazione si identifica con l'Islam ed è circondata da vicini
non musulmani (somali, malesi); o quando l'intera popolazione di-
scriminata, pur non linguisticamente omogenea, è musulmana e si
contrappone a detentori privilegiati del potere (Algeria); o quando
la nazione si definisce abitualmente nei termini di setta musulma-
na e il suo risentimento è diretto contro una classe dominante oc-
cidentalizzata e provocatoriamente secolarizzata, e contro gli stra-
nieri non musulmani (Iran). ·
L'unicità dell'Islam può forse esser messa meglio in risalto se
ricapitoliamo il nostro tema generale. L'età agricola dell'umanità
è un periodo in cui alcuni sanno leggere e i piu non sanno leggere,
mentre l'età industriale è una in cui tutti sanno e devono leggere.
Nell'età agricola le culture superiori letterate coesistevano con le
culture inferiori o popolari illetterate. Durante il periodo di tran-
sizione tra le due età, alcune vecchie culture inferiori diventano
nuove culture superiori; e talvolta una nuova cultura superiore può
essere inventata, ricreata dalla volontà politica o con un'operazio-
ne di ingegneria culturale, basata su elementi tratti da un remoto
passato e riassemblati al fine di creare qualcosa, in effetti, di total-
mente nuovo, come in Israele.
Ma le culture superiori che sopravvivono al periodo di transi-
zione cessano di essere lo strumento e il contrassegno di una intel-
lighenzia o di una corte per diventare invece lo strumento e l'em-
blema di una «nazione» e, contemporaneamente, subiscono un'al-
tra interessante trasformazione. Quando queste culture erano so-
stenute da una corte o da un ceto di cortigiani, opipure da una
intellighenzia, tendevano ad essere transetniche e anche transpoli-
tiche, ed erano facilmente esportabili dovunque questa corte fosse
emulata o questa intellighenzia rispettata e ingaggiata. D'altra par-
te c'era, però, il rischio che tali culture fossero vincolate a una
teologia e a un corpo dottrinale dogmatico di solito rigorosi, nei
cui termini la intellighenzia in questione era definita e la corte
legittimata. Secondo l'uso prevalente delle ideologie letterate del-
l'età agricola quel corpo di dottrine aveva pretese assolutiste e si

88
rafforzava proclamando a proprio beneficio non soltanto di essere
vero (e con questo?), ma anche di essere la norma della verità.
Nel contempo emetteva virulenti anatemi contro eretici e infe-
deli, i cui stessi dubbi sull'unica e manifesta verità erano la prova
della loro turpitudine morale, della « corruzione sulla terra», per
usare l'espressione contenuta nelle sentenze capitali emesse da
quel regime che vuole ravvivare 1a fede di un'altra epooa, appunto
quella agricola, oggi al potere :in Iran. Queste ideologie sono come
fortezze - « Eine feste Burg ist mein Gott » 5 - che rinchiu-
dono entro le proprie mura tutte le sorgenti d'acqua negandole
cosi al nemico. Non solo esse detengono il monopolio della verità
(e questo è niente), ma soprattutto il monopolio delle sorgenti
stesse e delle pietre di paragone della verità. Le fonti sono tutte
collocate entro i loro bastioni, il che chiude la questione, visto
che il nemico non può raggiungerle.
Tutto questo andava bene, e a loro completo vantaggio, du-
rante l'età agricola, quando il nemico che dovevano affrontare
era, nel peggiore dei casi, simile a loro, e spesso si trattava di
religioni popolari piu deboli, semplicistiche, senza difesa. L'età
industriale ha le proprie basi nella crescita economica, la quale
s'impernia, a sua volta, sulla crescita della conoscenza, ratificata
(e forse notevolmente aiutata) dalle filosofie cartesiane ed empi-
riste. L'essenza di queste filosofie consisteva nel de-assolutizzare
tutte le convinzioni autosufficienti sul mondo e nel sottoporre
tutte le osservazioni, senza eccezione alcuna, ad un esame obiet-
tivo secondo criteri (« esperienza », « il lume della ragione ») col-
locati ,al di là dei limiti e dei bastioni di tutti i sistemi di credenze.
Il che salda definitivamente il conto con le loro pretese assolu-
tiste, dal momento che devono inchinarsi a un giudice fuori del
loro controllo. La prova diventa sovrana, o almeno garante della
sovranità. Le fonti della verità sono dunque collocate in territorio
neutro e nessuno può vantarsi di possederle.
Questo è, comunque, l'aspetto puramente ideologico, dottri-
nale, della complessa storia, che non può essere qui illustrata
nella sua interezza, per cui le culture superiori assolutiste del-
1'età agricola sono costrette a spogliarsi del loro assolutismo e
permettere che le fonti della verità passino sotto un dominio pub-
blico e neutrale. In breve, il prezzo che queste culture superiori
pagano per diventare l'idioma di intere nazioni territoriali, invece

5 Una solida fortezza è il mio Dio.

89
di appartenere a una casta di «chierici» soltanto, è di diventaré
secolarizzate. Esse si spogliano di ogni pretesa assolutistica e co-
noscitiva, e non si legano piu a una dottrina.· La Spagna è stata
una delle piu tardive eccezioni in proposito, giacché ha conser-
vato fino a tempi assai recenti un regime nazionalista che incor-
porava l'appoggio alle pretese assolutiste della Chiesa cattolica
nella propria immagine di nazione. Durante le prime timide fasi
della liberalizzazione post-franchista la legalizzazione pubblica del
culto protestante era avversata perché vista come una provoca-
toria sfida all'unità e alla identità della Spagna. Una dottrina as-
soluta per tutti e una cultura superiore per alcuni diventa una
cultura assoluta per tutti e una dottrina per alcuni. La Chiesa
deve arrendersi e dissolversi se vuole conquistare l'intera società.
La Grande Tradizione deve spogliarsi della dottrina che un tempo
la legittimava se vuole diventare cultura diffusa e universale.
In generale quello che un tempo era stato un idioma per
alcuni e un idioma apprezzato e obbligatorio per tutti diventa un
credo obbligatorio per tutti e una fede annacquata, non seria,
buona solo di domenica, per alcuni. Questo è di massima il de-
stino delle culture superiori, ~e sopravvivono alla grande transi-
zione. Nel caso classico dell'Europa nord-occidentale, si può dire
che il processo abbia avuto due fasi: la Riforma ha universaliz-
zato l'intellighenzia e unificato il vernacolo e la liturgia; l'Illu-
minismo ha secolarizzato l'intellighenzia ormai diventata univer-
sale, e l'idioma linguistico ormai coincidente con la nazione, en-
trambi non pi{1 legati a una dottrina o a una classe.
Sarebbe interessante riflettere su che cosa sarebbe successo
in Europa occidentale se l'industrializzazione, con tutto quel che
essa ha comportato, fosse cominciata durante l'alto medioevo,
prima dello sviluppo delle letterature dialettali e l'emergere di ciò
che sarebbe alla fine diventato la base delle varie culture supe-
riori nazionali. Ci sarebbe chiaramente stata la prospettiva di un
nazionalismo latino, o forse romanzo, guidato dall'intellighenzia,
::mziché i nazionalismi relativamente piu locali che alla fine si cri-
sta:llizzarono, secolarizzando non piu una cultura superiore trans-
politica e gestita da una casta di chierici, ma una cultura metà
di chierici e metà di cortigiani. Se tutto ciò fosse avvenuto piu
presto, sarebbe stato verosimile un nazionalismo pan-romanzo
come lo fu poi il panslavismo che venne preso sul serio nel
XIX secolo, o il nazionalismo panarabo del XX, che si svilup-
parono entrambi anche sulla base di una cultura superiore lette-

90
rata comune, che coesisteva con enormi differenze a livello in-
feriore o popolare.
L'Islam è esattamente in questa condizione e conosce si-
multaneamente un certo numero di trasformazioni. Il piu prote-
stante dei grandi monoteismi è sempre incline alla riforma.
(L'Islam potrebbe essere invero definito come la Riforma perma-
nente.) Una delle sue molteplici successive autoriforme coincise
praticamente con l'avvento del nazionalismo arabo moderno e
solo con grande difficoltà si riuscirebbe a districarlo da esso.
L'emergere della nazione e la vittoria del movimento di riforma
sembrano parti di un unico identico processo. La dissoluzione
delle vecchie vigorose strutture locali e familiari, le cui ombre
pesanti e talvolta insopportabili sopravvivono come una diffusa
rete di protezioni che domina le nuove strutture politiche cen-
tralizzate, procede di pari passo con la eliminazione del culto dei
santi che aveva ratificato la organizzazione di mini-comunità, e
con il subentrare, al suo posto, di una teologia riformata, unitaria
e individualista, che lascia al singolo credente la facoltà di colle-
garsi, singolarmente, con un solo Dio e con una sola grande, ano-
nima comunità senza mediatori; il che corrisponde in pratica al
paradigma dei requisiti nazionalisti.
Altre culture superiori che sperimentano la transizione de-
vono pagare il prezzo di abbandonare il supporto e l'appoggio
fornito un tempo dal corpo dottrinale. La massa di dottrine che
si erano portate dietro cosi a lungo sono talmente assurde, tal-
mente indifendibili in un'epoca di filosofie epistemiche (rispettose
della prova), da diventare un peso invece del beneficio che erano
state. Vengono cosi ben volentieri abbandonate o trasformate in
segni « simbolici », destinati a indicare il legame con il passato,
la continuità di una comunità nel tempo, ed elusivamente igno-
rate nei limiti del loro contenuto nominale.
Non cosf per l'Islam. L'Islam era stato un Giano bifronte
nell'età agricola. Una faccia era fatta apposta per il pluralismo
religioso e sociale dei gruppi e della gente di campagna, l'altra
per la gente di città, per i letterati e i maestri piu sottili, piu
colti e individualisti. Inoltre, il dogma reso obbligatorio per que-
sti ultimi era purificato, economico, unitario quanto bastava per
essere· almeno relativamente accettabile in epoca moderna, mentre
il ridondante carico sostenuto dai loro rivali delle sponde setten-
trionali del Mediterraneo era addirittura intollerabile e doveva
essere furtivamente attenuato e lasciato cadere a poco a poco.

91
Ben poca di questa purificazione clandestina è necessaria nel ba-
cino meridionale del Mediterraneo - o, meglio, la purificazione
è già stata compiuta, in maniera chiara e forte,. all'insegna della
liberazione della fede dalla corruzione e dalla superstizione rozza,
contadina e forse ispirata da elementi stranieri. Giano ha dunque
lasciato cadere una delle sue due facce. All'interno del mondo
musulmano, e particolarmente, è ovvio, nella sua parte araba (ma
anche tra quelle che si potrebbero chiamare le nazioni succedanee
di quelle arabe, visto che talvolta a livello locale i loro membri
si definiocono i musulmani di una data area), un nazionalismo ba-
sato su una comunità territoriale anonima, generalizzata può per-
petuare proprio quelle specifiche dottrine, sostenute precedente-
mente da una intellighenzia, con fierezza e senza sconfessarle. L'idea-
le degli ulama, almeno all'interno dei vari territori che hanno di-
mensioni di nazione, è ora piu vicino alla realtà di quanto non lo
fosse stato all'epoca della frammentazione definita dai criteri di
parentela.
L'eleganza dottrinale, la semplicità, l'economicità, il rigo-
roso unitarismo, senza molte concessioni a tutti quei fronzoli
che sono un'offesa all'intelligenza: queste sono le caratteristiche
che hanno aiutato l'Islam a sopravvivere nel mondo moderno me-
glio di altre fedi dottrinalmente piu rigogliose. Ma se è cosf, ci
si potrebbe chiedere perché una ideologia di matrice agricola come
il confucianesimo non sia sopravvissuta ancora meglio; dal mo-
mento che tale sistema di credenze s'incentrava ancor piu ferma-
mente sulle norme di moralità e sull'osservanza dell'ordine e della
geriarchia, e si curava ancor meno del dogma cosmologico o teo-
logico. Forse, però, un unitarismo tenace, rigoroso ed enfatico,
è meglio, nella fattispecie, dell'indifferenza verso la dottrina ace
coppiata con l'interesse per la moralità. La moralità e l'etica po-
litica delle società-Stato agro-letterate sono un po' troppo sfaccia-
tamente imperniate sulla deferenza e sull'ineguaglianza per un
gusto moderno. Questo particolare può aver reso poco credibile
la perpetuazione del confucianesimo in una società moderna, al-
meno sotto lo stesso nome e la stessa direzione.
Per contrasto, l'insistenza sul puro unitarismo dell'Islam,
congiuntamente all'inevitabile ambiguità dei suoi concreti precetti
politici e morali, ha potuto contribuire a creare una situazione in
cui la stessa identica fede può legittimare sia regimi tradiziona-
listi come quello dell'Arabia saudita o della Nigeria settentrio-
nale, dello Yemen del sud o dell'Algeria. I prestigiatori politici

92
sono riusciti a fare bene la loro tirata sulla teologia rigorosa,
mentre in materia di moralità politica hanno mescolato le carte
secondo le loro personali preferenze, senza attrarre troppa atten-
zione. L'unitarismo, la rinuncia (talvolta dolorosa) al conforto della
mediazione e dei mediatori spirituali, hanno distratto la mente dei
credenti dalle trasformazioni intellettuali che stavano tramutando
una fede che un tempo s'era occupata dell'eredità dei cammelli
in una che prescriveva o proscriveva, a seconda dei casi, la na-
zionalizzazione dei campi petroliferi.
Se l'Islam è un caso unico in quanto permette l'uso di una
grande tradizione pre-industriale, sostenuta da una intellighenzia,
come idioma e credo nazionali, socialmente diffusi, di una co-
munità di stile nuovo, allora i nazionalismi dell'Africa a sud del
Sahara sono interessanti in quanto esemplificano l'estremo oppo-
sto: spesso non perpetuano né inventano una cultura locale su-
periore (il che sarebbe difficile essendo l'alfabetizzazione degli in-
digeni piuttosto rara in quella regione), né elevano la cultura po-
polare d'un tempo a nuova cultura letterata, politicamente san-
cita, come hanno fatto spesso i nazionalismi europei. Essi conti-
nuano, invece, ad usare una cultura superiore straniera, europea.
L'Africa subsaharian~ è uno dei migliori banchi di prova, e cer-
tamente il piu vasto, per 1'attribuzione di grande potere al prin-
cipio del nazionalismo, che richiede la convergenza dei confini
etnici e politici. I confini politici subsahariani sfidano questo prin-
cipio quasi senza eccezione. L'Africa nera ha ereditato dal pe-
riodo coloniale una serie di confini tracciati nel piu completo di-
sprezzo (e in generale senza la benché minima conoscenza) dei
confini etnici o culturali.
Uno degli aspetti piu interessanti e sorprendenti della storia
post-coloniale dell'Africa è stato che i tentativi nazionalisti e ir-
redentisti di por ,rimedio al suddetto stato di cose, anche se non
del tutto assenti, sono stati però straordinariamente scarsi e de-
boli. Gli sforzi sia per sostituire l'uso delle lingue europee come
strumento della pubblica amministrazione sia per risistemare i
confini interstatali nel rispetto dell'etnicità sono stati tutt'altro
che frequenti e decisi. Qual è la spiegazione di questo fenomeno?
Forse che, tutto sommato, il nazionalismo non è una forza nel-
Africa nera?
Abbiamo suggerito una dicotomia tra i « primi » nazionali-
smi, caratterizzati da un difetto di comunicazione (in questi na-
zionalismi l'ulteriore svantaggio che deriva a una popolazione di

93
ex contadini emigrati dal non condividere la cultura dominante
inasprisce il suo risentimento per le altre privazioni « oggettive»
che subisce), e un nazionalismo « maturo », generato da ostacoli
che sono diversi da quelli della comunicazione. Nei termini di
questa importante differenza, il nazionalismo africano nel suo
complesso appartiene al secondo tipo, cioè al tipo « anti-entro-
pico ». Al suo centro non troviamo i lavoratori emigranti, mal-
trattati ai cancelli della fabbrica dai capi-reparto che parlano una
lingua diversa; quel che troviamo sono intellettuali capaci di fluen-
te comunicazione, ma esclusi come categoria dai posti del potere
reale da un tratto distintivo comune: il colore. Essi sono uniti
da una comune esclusione, non da una comune cultura. I feno-
meni associati ad altri tipi di nazionalismo primitivi e ricondu-
cibili a difetto di comunicazione certamente non mancano, e sono
spesso molto importanti. La miccia del conflitto sudafricano è la
condizione del proletariato industriale africano; e il ruolo delle
classi povere urbane, per esempio, nell'ascesa di Nkrumah è stato
cospicuo.
La situazione tipica creata dal dominio europeo in Africa
era questa: erano state create amministrazioni efficienti e unità
politiche che controllavano e mantenevano la pace in vaste aree
stabili e ben definite. Queste amministrazioni erano estremamen-
te, vistosamente e, in effetti, sistematicamente anti-entropiche.
I governanti e alcuni altri erano bianchi, i rimanenti erano tutti
neri. Difficilmente la situazione avrebbe potuto essere ?iu sem-
plice o piu chiara. Di rado c'è mai stato un sistema politico il
cui principio guida fosse cosf facilmente comprensibile o cosi
facile da interpretare.
Nel mondo agricolo tradizionale questo assetto sarebbe stato
giudicato ampiamente positivo, un grande aiuto per evitare ogni
ambiguità di status e tutti i mali delle oscure, incerte relazioni di
potere che tale ambiguità può portare con sé; avrebbe lasciato
ben presagire per la stabilità e il valore della sopravvivenza del
sistema. Il principio non era estraneo all'Africa, e alcune strut-
ture politiche indigene ne avevano usato delle varianti. Gli Azan-
de erano un'aristocrazia di conquistatori che era stata imposta a
sudditi etnicamente diversi. Un'aristocrazia Fulani governava mol-
te città-Stato della Nigeria settentrionale.
Ma questo non era piu l'ordine agricolo tradizionale. Anche
se talvolta rispettosi del costume locale e disposti ad appoggiar-
ne l'autorità, gli europei erano in Africa per costruire una so-

94
cietà orientata verso il mercato ed i commerci, una società edu-
cata (« civile ») e in definitiva di tipo industriale. Ma, per i
motivi che abbiamo a ]ungo illustrato e che non c'è ora bisogno
di ripetere, una società industriale o sulla via dell'industrializza-
zione è profondamente allergica a istituzioni anti-entropiche. E
qui c'era proprio un esempio vistoso, eclatante di una società di
questo tipo! Qui non si trattava piu, come nel nostro precedente
esempio, di una categoria di « azzurri » statisticamente collocati
troppo spesso negli strati piu bassi della società, come nei nazio-
nalismi irredentisti europei. Qui c'era un piccolo numero di bian-
chi che dominava grandi, talvolta enormi, popolazioni nere. Il
nazionalismo che da questo dato scaturiva era semplicemente la
somma di tutti i neri, di tutti i non-bianchi di un dato territo-
rio storicamente accidentale, ora unificati dalla nuova macchina
amministrativa. Gli adepti del nuovo nazionalismo non condivi-
devano necessariamente alcun tratto preciso.
Dopo l'indipendenza, nella lotta per il controllo degli Stati
di nuova costituzione, i concorrenti avevano la loro base di po-
tere in questo o quel gruppo etnico tradizionale preesistente. Re-
sta tuttavia il fatto strabiliante della stabilità delle frontiere anti-
etniche tracciate arbitr,ariamente dai colonialisti, e della perpetua-
zione delle lingue coloniali come strumento di governo e di edu-
cazione. È forse troppo presto per dire se queste società raggiun-
geranno il momento dell'omogeneità interna, della mobilità e
dell'istruzione generalizzata pur continuando a mantenere l'uso
della lingua coloniale, o se ad un certo punto esse affronteranno
con coraggio le difficoltà dell'autotrasformazione culturale che la
modernizzazione comporta, adattando e imponendo una delle lin-
gue indigene. Questo processo è stato, ad esempio, avviato in Al-
geria, con la sua « arabizzazione » estremamente dolorosa che in
pratica significa imporre una remota lingua letteraria ai dialetti
locali berberi e arabi 6 • Nell'Africa nera la indigenizzazione lingui-
stica è ostacolata non solo dai vantaggi della lingua straniera con
i suoi libri di testo è i suoi legami internazionali, e con i grossi
investimenti di tempo che in essa ha fatto la élite dominante, ma

6 H. Roberts, The tm/oreseen development of Kabyle Question in contemporary


A/,geria, in Government and Opposition, XVII, 1982, n. 3. L'emergente naziona-
lismo kabile è interessante in quanto esprime il sentimento di ex contadini piccoli
proprietari che hanno saputo ben approfittare dell'emigrazione in città, senza per-
dere la loro base rurale. Un analogo caso può essere quello dei baschi. Vedi
M. Heiberg, Insiders/outsiders: Basque nationalism, in European Journal of So-
ciology, XVI, 1975, n. 2.

95
anche dalla frammentazione linguistica locale, assai maggiore di
quella che era prevalsa in Europa; e dal fatto che la scelta di
una delle tante lingue locali suonerebbe come un affronto per
tutti gli altri per i quali non è la lingua nativa, e questi altri co-
stituiscono in generale una maggioranza, spesso una maggioranza
schiacciante.
Per queste ragioni quei gruppi etnici _africani che si erano
legati a una cultura superiore letterata attraverso la conversione
a una religione mondiale, l'Islam o il cristianesimo, si trovarono
meglio preparati degli altri a sviluppare un nazionalismo effi-
ciente. La regione in cui la lotta tra queste due fedi era tradi-
zionalmente andata avanti senza una vittoria decisiva né dell'una
né dell'altra, cioè il Corno d'Africa, è anche l'area con i migliori
esempi di quello che si può chiamare il nazionalismo classico. È
stato detto dei boeri che le uniche cose che li distinguevano .ve-
ramente dai loro nemici bantu, quando entrambi entrarono in Su-
dafrica da direzioni diverse, era il possesso della Bibbia, del fucile
e del carro. Nel Corno d'Africa sia gli amhara che i somali pos-
sedevano sia il fucile che la Bibbia (non la stessa Bibbia, ma edi-
zioni diverse e contrastanti), ma né gli uni né gli altri si preoccu-
parono molto del carro. Ciascuno di questi gruppi etnici fu aiu-
tato nell'impiego di questi due strumenti culturali dai suoi legami
con altri membri della civiltà religiosa piu vasta che li usavano
abitualmente, e che erano disposti a rifornire le loro scorte. Sia
i somali che gli amhara furono aiutati da questi strumenti nella
formazione dello Stato. I somali crearono alcune di quelle carat-
teristiche formazioni musulmane basate sul commercio urbano e
sulla coesione pastorale tribale, stimolate da alcune personalità
religiose; gli amhara crearono in Etiopia l'unico esempio africano
veramente convincente di feudalesimo, un impero senza vincoli
rigorosi con detentori di un potere locale su un determinato ter-
ritorio, legati a una Chiesa nazionale.
Il fucile e la Bibbia, con il loro potenziale di centralizza-
zione, permisero a questi due gruppi etnici di dominare la storia
politica di questa vasta regione, anche se nessuno dei due era
numericamente predominante. Altri gruppi etnici senza gli stessi
vantaggi, anche se erano assai piu numerosi - in particolare gli
oromo (piu comunemente noti come i galla) - non riuscirono a
tenergli testa. All'epoca della temporanea vittoriosa avanzata dei
somali contro gli etiopici negli anni settanta, sembrò del tutto
naturale, e dal punto di vista somalo addirittura gratificante, pre-

96
sentare gli oromo come un tipo di popolazione umana senza una
forma ben definita, una materia etnica grezza, in attesa di essere
trasformati in amhara o in somali dal volgere delle fortune poH-
tiche e dalla conversione religiosa. In base a questo ragionamento
si spiegherebbe la loro somalizzazione, nel caso passasse. Gli
oromo andavano visti come un'immensa popolazione di Adami ed
Eve, cui era stata finora rifiutata la mela dell'etnicità, e che co-
noscevano soltanto la rudimentale foglia di fico dell'organizza-
zione per gruppi di età. Se fossero stati incorporati nello Stato
amharico, i Joro capi locali sarebbero diventati i suoi funzionari
e alla fine si sarebbero trasformati in cristiani e amhara; se invece
fossero stati assorbiti nella sf~ra somala, l'islamizzazione nel nome
del culto dei grandi santi locali avrebbe infine significato la so-
malizzazione. Ma dopo la sconfitta subita dai somali nella guerra,
le prospettive di resistere al predominio amharico nel Corno
d'Africa s'imperniano in larga misura sulla possibilità di stimolare
i fronti di liberazione nazionali che finalmente vanno emergendo
all'interno dell'impero etiopico, compreso il fronte degli oromo,
i quali, essendo il gruppo piu numeroso, stanno anche emergendo
come il piu importante; e quindi è oggi meno probabile sentir
parlare del loro status preculturale come materia prima di valore
etnico.
L'impero amharico fu un carcere di nazioni, se mai ce ne
furono. Quando il vecchio imperatore fu spodestato nel 1974, i
nuovi governanti annunciarono subito, come i nuovi governanti
sono soliti fare, che d'allora in poi tutti i gruppi etnici sarebbero
stati uguali e, in effetti, liberi di scegliere il proprio destino.
Questi ammirevoli sentimenti liberali furono seguiti a breve di-
stanza dalla sistematica liquidazione degli intellettuali provenienti
da gruppi non-amharici, una politica purtroppo razionale dal pun-
to di vista del progetto di bloccare l'emergere di nazionalismi
rivali all'interno dell'impero 7 •
Insomma, entrambi questi vigorosi nazionalismi, per il mo-
mento prevalenti, illustrano il vantaggio di poter disporre di una
vecchia cultura superiore, in passato un elemento prezioso per
la formazione di uno Stato, ma anche oggi cruciale per acquisire
un primo senso politico di etnicità. In ciascuno di questi casi i
7 I. Lewis, The Western Somali Liberation Front (WSLF) and the legacy o/
Sbeikh Hussein o/ Bale, in Modern Etbiopia, a cura di J. Tubiana, Rotterdam,
1980; e Nationalism and self-deter,nination in the Horn of Africa, a cura di
I.M. Lewis, Indiana, 1983.

97
limiti del gruppo etnico in questione sembrano coincidere, all'in-
terno dell'area locale, con quelli della sua stessa fede, il che
aiuta notevolmente l'autodefinizione.
Quello dei somali è un caso interessante anche perché costi-
tuisce uno degli esempi (come i curdi) di commistione del vec-
chio tribalismo basato sulla struttura sociale con il nuovo nazio-
nalismo anonimo basato sulla cultura comune. Il senso di affilia-
zione per linguaggio è forte e radicato (nonostante il fatto che sia
ufficialmente condannato e che l'invocarlo sia in effetti proibito),
ed è molto importante per capire la politica interna. Il che non
contraddice, a mio avviso, la nostra teoria generale secondo cui
la presa di una cultura letterata comune (nazionalità) sull'uomo
moderno scaturisce dall'erosione delle vecchie strutture che un
tempo fornivano a ciascun uomo la propria identità, dignità e si-
curezza materiale, mentre oggi, per queste cose, egli dipende dal-
l'educazione. I somali posseggono una cultura comune che, quan-
do è dotata (come in effetti è) di un proprio Stato, può assicu-
rare a ciascun somalo l'accesso alla pubblica amministrazione se-
condo criteri accettabili. La possibilità che la vita offre al citta-
dino somalo, e il suo benessere psichico, sono nello Stato attuale,
basato sulla sua cultura, chiaramente migliori di quelle del citta-
dino dello Stato confinante che ha basi diverse. Tuttavia molti
somali continuano a fare gli allevatori di bestiame mantenendo
inalterato interesse per i diritti di pascolo definiti secondo i vec-
chi criteri, e continuano a conservare i reciproci legami di paren-
tela; legami che non sembrano essere del tutto dimenticati nel
dare e avere della vita politica.
Tutto ciò vuol dire che, in gran parte dei casi, il richiamo
della nuova etnicità trasmessa dall'educazione nasce dal gioco di
due forze contrastanti: l'attrattiva delle nuove possibilità d'im-
piego e la repulsione suscitata dall'erosione dei vecchi gruppi di
parentela che davano sicurezza. Il caso somalo non è unico, an-
che se è il piu cospicuo. La persistenza di forme di vita pasto-
rali e certi tipi di migrazione di manodopera e di attività com-
merciali possono favorire la sopravvivenza nel mondo moderno di
vaste organizzazioni parentali. Quando ciò accade abbiamo una
giustapposizione di lealtà tribale alla struttura e di lealtà nazio-
nale alla cultura (e ad una cultura letterata, per la precisione).
Ma è impensabile che il mondo moderno avrebbe potuto nascere
se le rigidità strutturali della mini-0rganizzazione fossero rimaste in-
superabili dappertutto. Le grandi storie sui successi dello sviluppo

98
economico parlavano di società la cui ricchezza e potere avevano
un effetto dimostrativo che spingeva l'umanità verso il nuovo stile
di vita; e quelle storie, o paradigmi, non erano e non potevano
essere di altro tipo. Il generale emergere della modernità s'incen-
trava sull'erosione delle molteplici piccole organizzazioni, vinco-
late a livello locale, e sulla loro sostituzione con culture mobili,
anonime, letterate, in grado di offrire identità. È questa condi-
zione generalizzata che ha reso il nazionalismo diffuso e norma-
tivo. Il che non è contraddetto dalla occasionale sovrapposizione
di entrambi questi due tipi di lealtà, dall'uso occasionale di vin-
coli parentali per una specie di adeguainento parziale, parassita-
rio, interstiziale al nuovo ordine. L'industria moderna può essere
paternalistica e nepotistica al vertice; ma non può reclutare le
proprie unità produttive sulla base di criteri territoriali o di pa-
rentela, come aveva fatto la società tribale.
La differenza che sto qui evidenziando tra il nazionalismo
mediato dalla cultura e il tribalismo mediato dalla struttura vuole
essere, naturalmente, una genuina distinzione analitica tra due
tipi di organizzazione oggettivamente distinguibili; e non deve
essere confusa con l'opposizione emotiva o relativistica tra il mio
nazionalismo e il tuo tribalismo. Questo è puramente il linguag-
gio dell'elogio e dell'invettiva attraverso il quale i nazionalismi
potenzialmente rivali si combattono a vicenda, in cui si dice: « Io
sono un patriota, tu sei un nazionalista, egli è un tribalista » e
che rimane sempre quello chiunque capiti stia parlando. In que-
sto senso i nazionalismi sono semplicemente quei tribalismi, o,
se volete, qualsiasi altro tipo di raggruppamento, che per fortuna,
per impegno o per concorso di circostanze riescono a diventare
una forza effettiva nel mondo moderno. Essi sono identificabili
soltanto in retrospettiva. Il tribalismo non prospera mai, in quan-
to se prospera, tutti lo rispetteranno come vero nazionalismo e
nessuno oserà chiamarlo tribalismo.

99
VII. Una tipologia del nazionalismo

Si può costruire un'utile tipologia del nazionalismo semplice-


mente elaborando le varie combinazioni possibili dei principali fat-
tori che entrano nella formazione di una società moderna. Il primo
fattore àa introdurre in questo modello costruito per via dedut-
tiva è quello del potere. Non c'è qui bisogno di considerare alter-
native binarie o di qualsiasi altro tipo, giacché è assurdo prospet-
tarsi la possibilità dell'assenza o della diffusione del potere centra-
lizzato in una società moderna. Le società moderne sono sempre e
inevitabilmente centralizzate nel senso che il mantenimento dell'or-
dine è compito di un ente o di un gruppo di enti, e non è disper-
so nell'intera società. La complessa divisione del lavoro, la comple-
mentarità e l'interdipendenza e la costante mobilità: tutti questi
fattori impediscono ai cittadini di sdoppiarsi in produttori e in
soggetti attivi di violenza. Ci sono società - in particolare alcune
di quelle pastorali - in cui ciò è possibile: il pastore è simultanea-'
mente il soldato e spesso anche il senatore, il giurista e il mene-
strello della sua tribu. L'intera cultura, o quasi, di tutta la società
sembra incapsulata in ciascun individuo piuttosto che ·distribuita
tra tutti gli individui in forme diverse, e la società sembra respin-
gere la specializzazione, almeno nella sua metà maschile, ed in
misura notevole. I pochi specialisti che questo tipo di società tol-
lera, diventano anche oggetto del suo disprezzo.
Tutto quel che è fattibile tra allevatori di bestiame quasi no-
madi, non è neppur lontanamente possibile in una complessa so-
cietà industriale moderna. Gli specialisti che la compongono non
possono pensare di aprirsi con la forza la strada da casa al lavoro,
non possono prendere misure cautelative contro eventuali attacchi
improvvisi di membri di una corporazione rivale né partecipare a

101
rappresaglie notturne nei loro confronti.' Possono averlo fatto i
contrabbandieri di alcolici, ma essi non sono mai diventati il mo-
dello dell'Uomo dell'organizzazione moderna. In generale le impre-
se di tipo mafioso prosperano soltanto nelle zone dove l'illegalità
rende difficile invocare l'intervento delle autorità incaricate di
far rispettare la legge. Sembra essere piu l'impresa mafiosa a muo-
versi contro l'impresa legittima, che non viceversa. In effetti i mem-
bri delle società moderne sono poco addestrati, o avvezzi, ad usare
o a respingere la violenza. Alcuni settori della società moderna
sfuggono talvolta a questa generalizzazione, come quelli che devo-
no convivere con la violenza urbana nei centri delle grandi città
in via di disgregazione. C'è comunque una società economicamente
complessa, quella libanese, che pare sia finora riuscita a sopravvi-
vere alla disgregazione dell'effettiva autorità centrale, dimostrando
una insospettata capacità di ricupero.
Ma queste eccezioni relativamente minori non intaccano la
tesi fondamentale che in una società moderna il mantenimento
dell'ordine sociale non sia un compito uniformemente distribuito
in tutta la società, - com'era invece all'interno delle tribu con
la loro organizzazione segmentaria, - ma si concentri nelle mani
di alcuni suoi membri. In termini piu semplici, avviene sempre che
alcuni esercitino il potere e altri no. Alcuni sono piu vicini di altri
ai posti di comando degli enti preposti al mantenimento dell'ordi-
ne. Il che genera la distinzione innegabilmente arbitraria, ma utile,
tra i detentori <lei potere e il resto dei cittadini. Questa distinzione
ci offre il primo elemento del nostro modello semplificato di socie-
tà, che, attraverso diverse combinazioni di ulteriori elementi, indi-
cherà i vari tipi possibili di nazionalismo.
Il successivo elemento del modello è l'accesso all'istruzione o
ad una cultura superiore moderna e vitale (le due cose sono qui
considerate equivalenti). La nozione di istruzione o di cultura supe-
riore moderna e vitale è di nuovo abbastanza vaga ma nondimeno
utile. Si riferisce a quel complesso di capacità che rende l'uomo ade-
guato ad occupare gran parte dei normali posti di lavoro di una
società moderna e che lo rende, per cosi dire, capace di nuotare
senza fatica in questa specie di liquido culturale. Si tratta di una
sindrome piu che di un elenco rigoroso: nessuna singola voce è
forse assolutamente indispensabile. Saper leggere e scrivere è in-
dubbiamente un requisito fondamentale, anche se talvolta indivi-
dui abili e pieni d'iniziativa possono cavarsela bene in questo
mondo, e persino ammassare fortune, senza possederlo. Lo stesso

102
vale per l'aritmetica elementare e per un minimo di competenza
tecnica, nonché per un sorta di mentalità non rigida, facile ad ade-
guarsi, stimolata dall'ambiente urbano, e inibita dalle tradizioni
rurali. In generale possiamo dire - e ciò è naturalmente impor-
tante per la nostra argomentazione - che individui adeguatamen-
te dotati o sub-comunità favorevolmente collocate possono talvolta
acquisire questa sindrome minima di propria iniziativa, ma che la
sua vasta ed effettiva diffusione presuppone un sistema educativo
centralizzato, efficiente e appropriatamente sostenuto.
In connessione con questo accesso all'istruzione (nel senso
tesre indicato) ci sono alternative e possibili differenti situazioni.
Per quel che riguarda il potere non ce n'è nessuna: in una società
industriale si dà sempre che alcuni lo abbiano e altri no. Il che ci
fornisce la nostra situazione di fondo, cioè una società arbitraria-
mente divisa in detentori del potere e gli altri. Ma relativamente
all'accesso all'istruzione, tale distinzione predeterminata non c'è.
Nel contesto della società biforcuta in materia di potere, di cui stia-
mo parlando, ci sono ora quattro distinte possibilità: può darsi che
soltanto i detentori del potere abbiano tale accesso, che usino tale
privilegio, datogli dal potere, per riservarsi il monopolio di questo
accesso; o alternativamente, che entrambi, i detentori del potere e
gli altri, abbiano questo accesso; o anche che soltanto gli altri (o
alcuni tra loro) abbiano tale accesso, e che i detentori del potere
non ce l'abbiano (una situazione non cosf assurda, inverosimile o
irrealistica come potrebbe a prima vista apparire); o infine, come
talvolta accade, che nessuna delle due parti goda dei benefici di
tale accesso, o per dirla piu semplicemente, che i detentori del po-
tere, e quelli su cui il potere è esercitato, siano entrambi una ban-
da di ignoranti, immersi, per dirla con Marx, nell'idiozia della vita
contadina. È questa una situazione perfettamente plausibile e rea-
listica, non cosi rara nel corso della passata storia dell'uomo, e nep-
pure totalmente sconosciuta nella nostra epoca.
Le quattro possibilità prospettate o, meglio, scaturite dai no-
stri ,assunti {ciascuna con due sub-alternative da spiegare, vedi fig.
2) corrispondono a situazioni storiche realistiche. Quando la ca-
tegoria di coloro che hanno il potere corrisponde press 'a poco
a qu~lli che hanno anche accesso al tipo di istruzione che li rende
adatti per la nuova vita, abbiamo qualcosa che corrisponde su per
giu al primo industrialismo. I nuovi emigranti senza potere, appe-
na arrivati dalla campagna, sono politicamente privi di diritti e cul-
turalmente alienati, del tutto indifesi di fronte a una situazione su

10.3
cui non hanno alcuna influenza e che non riescono a capire. Essi
costituiscono il classico primo proletariato com~ è descritto da
Marx e da Engels (e del tutto erroneamente da loro attribuito a
fasi successive della società industriale) e come è spesso rappresen-
tato nelle baraccopoli dei paesi che furono piu tardi sommersi dal-
1'ondata dell'industrialismo.
La seconda combinazione corrisponde, invece, all'industriali-
smo maturo come è realmente (e non come era stato erroneamen-
te preannunciato): la grande ineguaglianza del potere persiste, ma
le differenze culturali, educative, di stile di vita sono enormemente
diminuite. Il sistema di stratificazione è piano e continuo, non po-
larizzato, né fatto di strati qualitativamente differenti. C'è una con-
vergenza nello stile di vita e una diminuzione della distanza socia-
le, e l'accesso al nuovo sapere, all'anticamera del nuovo mondo, è
aperto praticamente a tutti, se non proprio in termini di perfetta
eguaglianza, almeno senza barriere insuperabili per chi voglia arri-
varci. (Solo coloro che posseggono tratti anti-entropici, come li
abbiamo descritti, si trovano di fronte seri ostacoli.)
La terza situazione, apparentemente paradossale, in cui coloro
che esercitano il potere si trovano in svantaggio quando si tratta
di acquisire le nuove capacità, si verifica di fatto e non rappresen-
ta minimamente una costellazione storica insolita. Nelle società
agricole tradizionali i ceti dominanti sono spesso imbevuti di un'eti-
ca che esalta la guerra, la violenza impulsiva, l'autorità, il possesso
della terra, gli sv,aghi e i consumi, e che disdegna l'online, la piani-
ficazione del tempo o di altro, il commercio, la laboriosità, la parsi-
monia, lo sforzo sistematico, la previdenza e il sapere che viene
dai libri. (La maniera in cui alcuni di questi tratti poterono, tutta-
via, diventare di moda e prevalenti, e giungere a caratterizzare gli
strati dominanti della società, è in definitiva l'argomento centrale
del piu famoso di tutti i trattati di sociologia, cioè lo studio di
Weber sull'origine dello spirito del capitalismo.) Di conseguenza
questi ultimi tratti si trovano normalmente soltanto tra gruppi ur-
bani piu o meno disprezzati, dediti al commercio e interessati al
sapere, che possono essere tollerati e di tanto in tanto perseguitati
dai loro governanti. Fin qui tutto bene: all'interno dell'ordine tra-
dizionale la situazione acquisisce una certa stabilità. Il personale
può cambiare, la struttura rimane. Ai parsimoniosi accumulatori,
dediti al lavoro, non è di solito permesso di sostituire la classe
agiata orientata verso il consumo vistoso, perché quest'ultima rego-
lM"mente li deruha e talvolta li massacra. {Nel caso dell'India, colo-

104
ro che riescono ad acqu1S1re eccedenze investono di preferenza
tutto il loro denaro in templi per evitare d'essere pelati o almeno
per limitare la spoliazione.)
Ma con l'avvento dell'ordine industriale, sotto forma di espan-
sione delle relazioni commerciali, di nuove tecnologie militari e
produttive, di conquista coloniale e cosi via, l'antica stabilità è
perduta per sempre. E all'interno di questo nuovo mondo instabile
e turbolento sono i valori, lo stile e l'orientamento di quei gruppi
commerciali urbani, tanto disprezzati, che offrono nuovi vantaggi
e un facile accesso alle nuove fonti della ricchezza e del potere,
mentre i vecchi meccanismi compensatori di espropriazione non
sono piu disponibili o efficienti 1 • L'ufficio di contabilità diventa
piu potente della spada. Il semplice uso della spada al servizio di
una causa non porterà piu molto lontano.
I vecchi governanti possono, naturalmente, fiutare il vento
e cambiare metodo. Lo hanno fatto in Prussia e in Giappone. Ma
per essi non è del tutto psicologicamente facile farlo in fretta (o,
talvolta, farlo semplicemente), e molto spesso può darsi che non
si_muovano con sufficiente rapidità. Il risultato è, dunque, la situa-
zione prospettata: adesso sono i governati, o almeno alcuni di loro,
che si trovano in deciso vantaggio, quando si tratta di accedere
al nuovo tipo di istruzione e di capacità.
C'è infine la quarta possibilità: né i governanti né i governati
hanno alcun accesso alle capacità richieste dal momento. Questa è
la situazione prevalente in qualsiasi società agricola stagnante, tetra-
gona al mondo industriale, in cui governanti e governati sono
entrambi immersi in una qualche combinazione di ostentazione, ri-
tualismo, superstizione, alcolismo o in qualunque altra diversione
possa esser localmente favorita, e quando nessuno dei due desidera
o è in grado di imboccare la nuova strada.
Combinando la (sempre presente) ineguaglianza di potere con
i vari possibili modelli di distribuzione dell'accesso all'istruzione,
abbiamo ottenuto quattro possibili situazioni: eguale ,accesso, egua-
le mancanza di accesso, e accesso disposto in favore dei detentori

I A.O. Hirschman, Tbe Passions and tbe Interests, Princeton, 1977. È na-
turalmente possibile che lo spirito mobile, individualistico preceda di molti se-
coli, come è avvenuto in una società almeno, l'avvento dell'ordine industriale;
vedi A. MacFarlane, Tbe Origins of Englisb Individualism, Oxford, 1978. Il che
non contraddirebbe la nostra tesi, pur potendo gettare una -luce particolare sul
primo emergere del sentimento nazionale in Inghilterra. Per una rapida tratta-
zione del modo in cui l'attuale teoria del nazionalismo si inserisce in una piu vasta
filosofia sociale, vedi J.A. Hall, Diagnosis of Our Time, London, 1981.

105
del potere o contro di essi. Ma non abbiamo ancora introdotto
l'elemento che è il piu importante dal punto di vista del nazionali-
smo: l'identità o la diversità della cultura.
Va da sé che qui il termine « cultura » è usato in senso antro-
pologico e non normativo: ciò che con questo termine intendiamo
è lo stile distintivo della condotta e della comunicazione di una
determinata comunità. Il termine «cultura» in se stesso non è mai
usato in questa discussione nell'altro suo senso, come Kultur, cul-
tura superiore o grande tradizione, uno stile di condotta e di co-
municazione che chi parla sancisce come superiore, come qualcosa
che detta una norma '1a quale dovrebbe essere, ma ahimè spesso
non è, soddisfatta nella vita reale, e le cui regole sono di solito
codificate da un gruppo di specialisti rispettati, con compiti norma-
tivi, in seno alla società. « Cultura» senza aggettivi significa cul-
tura nel senso antropologico, non-normativo; Kultur indica una
cultura superiore. La relazione tra i due tipi di «cultura» è, natu-
ralmente, un problema d'importanza centrale per il nostro tema.
Le culture o tradizioni superiori (normative) che qui ci interessa-
no in particolare sono, va da sé, quelle letterate. Il problema del-
l'accesso a tali cuhure ,appare, dunque, nella presente discussione,
come l'accesso all'istruzione. L'espressione « accesso ad una cultu-
ra» significa di conseguenza accesso alla cultura (senso antropolo-
gico) che è negato a un individuo a causa della sua appartenenza
ad un'altra cultura, e non a causa della mancanza di «istruzione».
Questa precisazione forse pedantesca era essenziale per evitare
equivoci nella discussione.
Per evitare premature complicazioni la diversità delle cultu-
re è introdotta nella forma piu semplice possibile. Emulando gli
economisti che talvolta discutono di mondi che contengono una o
due merci soltanto, supponiamo che in ciascun caso la nostra so-
cietà sia o monoculturale (tutti sono dotati della stessa cultura,
in senso antropologico) o, alternativamente, che ci siano due cul-
ture del genere, la cultura dei detentori del potere essendo diversa
da quella di tutti gli rutri. Nel mondo reale le complic-azioni che pos-
sono nascere dalla simultanea presenza in un'unica sfera di tre,
quattro o piu culture non influenzano seriamente la discussione.
La sovrapposizione di questa ulteriore opposizione binaria
« unità culturale / dualità culturale » alla quadruplice tipologia che
abbiamo già stabilita, genera immediatamente otto possibili situa-
zioni (vedi fig. 2). Si noti anzitutto che le linee 1, 3, 5, e 7 corri-
spondono a situazioni in cui, quali che siano le ineguaglianze di

106
potere o di accesso all'istruzione che prevalgono, il nazionalismo
non ha presa per mancanza (per ipotesi) di differenziazione cultu-
rale. Altri conflitti possono verificarsi, ed è interessante chiedersi
se realmente si verificano. L'evidenza sembra indicare che le classi
generate dal primo industrialismo (per non parlare della meno
aspra e piu moderata stratificazione prodotta dalla sua forma ma-
tura) non entrano in un tipo di conflitto permanente e sempre piu
duro, a meno che la differenziazione culturale non produca la scin-
tilla, un allineamento su due fronti opposti, per cosi dire, e il mez-
zo di identificare e se stessi e il nemico. Ci fu senz'altro, e non si
trattò di cosa da poco, un vero e proprio conflitto di classe, dicia-
mo, nel 1848: Tocqueville, cui non piaceva, lo vide con altrettanta
chiarezza di Marx, cui invece piaceva. Ma esso non continuò fa.
cendosi piu violento e piu incontrollato.
Il marxismo, comunque, ama pensare al conflitto etnico come
ad un conflitto di classe camuffato, e crede che l'umanità trarreb-
be qualche beneficio se la maschera gli venisse strappata, se soltan-
to la gente arrivasse a veder chiaro e quindi a liberarsi dal pregiu-
dizio e dai paraocchi del nazionalismo. Il che sembrerebbe essere
una errata interpretazione sia della maschera sia di quel che le sta
sotto. « L'antisemitismo è il socialismo degli stupidi » si diceva
una volta, anche se la frase non trovò molta eco nei giorni del pro-
cesso Slanski o delle purghe polacche del 1968, quando un regi-
me socialista fomentò l'antisemitismo. Gli operai, si dice, non han-
no patria; né, presumibilmente, una cultura nativa che li separi
dagli altri operai, specialmente gli immigrati; e neppure un colore
di pelle. Sfortunatamente gli operai in generale sembrano non ren-
dersi conto di queste perdite di sensibilità interessanti e liberatrici,
anche se non sono mancati quelli che gliele hanno fatte notare. In
effetti l'etnicità entra nella sfera politica come « nazionalismo » nel
momento in cui l'omogeneità o la continuità culturale (non la as-
senza di classi) è una esigenza della base economica della vita
sociale, e quando, di conseguenza, le differenze di classe, connesse
alla cultura, diventano nocive, mentre le differenze di classe gra-
duali, etnicamente irrilevanti, rimangono tollerabili.
La linea 1 corrisponde al primo industrialismo classico, dove
sia il potere sia l'accesso all'istruzione sono nelle mani di alcuni;
ma nella linea 1 coloro che ne sono privi non si differenziano cul-
turalmente dai privilegiati e di conseguenza, alla fine, nulla, o per-
lomeno nulla di veramente radicale. accade. Il conflitto e la cata-
strofe che il marxismo prevedeva non si verificano. La linea 3 cor-

107
p ~P
E ~E
1 A A primo industrialismo
senza catalizzatore etnico
2 A B nazionalismo « asburgico »
(punti est e sud)
E E

3 A A industrialismo maturo omogeneo


4 A B nazionalismo liberale classico
dell'Occidente
~E E

5 A A situazione rivoluzionaria decabrista


ma non nazionalista
6 A B nazionalismo della diaspora
~E ~E
7 A A situazione pre-nazionalista atipica
8 A B situazione pre-nazionalista tipica
Fig. 2 - Una tipologia di situazioni sociali che generano il nazionalismo e
che ostacolano il nazionalismo

~ = negazione, assenza. P = potere, E = accesso all'istruzione di stile moderno,


=
A e B singole culture. Ciascuna linea numerata rappresenta una possibile situa-
zione in cui due culture coesistono su un unico territorio, e una linea con A e A
indica una omogeneità culturale su un territorio analogo. Se A o B stanno sotto
una E e/o una P, allora il gruppo culturale in questione ha effettivamente ac-
cesso a istruzione o potere; se stanno sotto ~ E o ~ P, tale accesso manca. La si-
tuazione di ciascun gruppo è indicata dalla piu vicina E e dalla P che le sta sopra.

risponde all'industrialismo maturo, con l'accesso generalizzato al-


l'istruzione e la assenza di differenza culturale; e qui c'è ancora
meno motivo che nella linea 1 di aspettarsi un conflitto. Ci resta
ancora da discutere la difficile e importante questione se l'indu-
strialismo avanzato, come tale, costituisca in ogni caso una cultu-
ra comune, che prevale, oramai, sulle irrilevanti differenze del-
l'idioma linguistico. Quando gli uomini hanno, piu o meno, gli
stessi concetti, forse non ha piu molta importanza se usano paro-
le diverse per esprimerli, si potrebbe dire. In tal caso, la linea 3
potrebbe caratterizzare il comune futuro dell'umanità, dopo la con-
sumazione generale dell'industrialismo, se e quando verrà. Questo

108
problema verrà discusso piu avanti. La linea 5, di nuovo, non ge-
nera nessun problema e conflitto di carattere nazionalista. Un sot-
to-gruppo politicamente debole è privilegiato dal punto di vista
economico o educativo, ma, essendo indistinguibile dalla maggio-
ranza, è in grado di nuotare nel bacino generale senza scoprirsi e,
al pari della proverbiale guerriglia maoista, non attrae l'attenzione
nemica.
Le linee 7 e 8 sono entrambe esenti dalla problematica nazio-
nalista per un motivo del tutto diverso: perché il problema del-
l'accesso a una nuova cultura superiore, che è la condizione preli-
minare per accedere al nuovo stile di vita e goderne i benefici,
semplicemente non s'impone. Qui nessuno possiede tale cultura e
di conseguenza, nessuno ,ne possiede piu di un altro. Questo è, na-
turalmente, l'elemento considerato cruciale e centrale per la nostra
teoria: · nazionalismo vuol dire ingresso in una cultura superiore
letteraria, partecipazione a tale cultura, identificazione con tale cul-
tura, la quale coincide, sotto il profilo dell'estensione, con una inte-
ra unità politica e con la sua popolazione, e che deve essere neces~
sariamente di questo tipo, cioè superiore letterata, per essere com-
patibile con il tipo di divisione del lavoro, con il tipo o modo di
produzione:, su cui la società industriale si basa. Qui, alle linee 7 e
8, questo modo è assente, anche nella forma di una qualsiasi con-
sapevolezza del suo significato o di una qualsiasi aspirazione ai
suoi fini. Qui non c'è nessuna cultura superiore, o perlomeno nes-
suna che possegga una tendenza a una capacità di generalizzarsi
nell'intera società e di diventare la condizione del suo effettivo
funzionamento economico. La linea 7 è esclusa dallo sbocco nazio-
nalist)a due volte: la prima, per i motivi tesre accennati, la seconda,
perché manca anche di quella differenziazione culturale che può
dare mordente agli altri suoi problemi, quali che siano. La linea 8
è piu della 7 tipica delle società agricole complesse: il ceto diri-
gente è identificabile per una sua distinta cultura, che serve da
indicatore di rango, che diminuisce l'ambiguità e quindi la tensio-
ne. Con la sua continuità culturale la linea 7 è atipica per il mondo
agricolo.
Si noti un'ulteriore differenza tra il quadro che sta alla base
di questa tipologia e quello abitualmente offerto dal marxismo.
Come già accennato, il nostro modello presume e prevede un con-
flitto verticale tra i diversi strati orizzontali in una maniera com-
pletamente diversa dal marxismo. E lo prevede soltantò in quei casi
in cui tratti « etnici » (culturali o altrimenti distintivi) siano visi-

109
bili e accentuino le differenze di potere o di accesso all'istruzione
e, soprattutto, quando ostacolino il libero flusso del personale at-
traverso le fluide linee della stratificazione sociale 2• Il nostro mo-
dello prevede anche conflitti piu presto che piu tardi nello svi-
luppo dell'industrialismo (con la clausola limitativa che non ci sa-
ranno affatto virulenti ed esplosivi conflitti, né presto né tardi,
senza differenziazioni etnico-culturali). Ma queste diversità di pre-
visione si percepiscono meglio se viste non isolate in sé e per sé,
ma come conseguenza delle diversità nell'interpretazione di fondo.
A questo livello ci sono perlomeno due differenze molto
importanti tra i due punti di vista. Una riguarda un argomento
molto studiato e commentato tra i critici del marxismo: le sue idee
sulla stratificazione sociale prodotta dall'industrialismo (o, per usa-
re il linguaggio marxista, dal « capitalismo »). Il nostro modello
conviene che una netta polariz~zione e discontinuità sociale si
verifichino nel primo industrialismo, ma riconosce poi che le due
cose diventano attenuate in seguito alla mobilità sociale, alla dimi-
nuzione delle distanze sociali e alla convergenza degli stili di vita.
Non nega che grosse differenze persistano in relazione alla proprie-
tà, ma sostiene che le effettive conseguenze sociali del fatto, sia
quelle nascoste che quelle palesi, diventino molto meno impor-
tanti.
Ancor piu importante è la natura della polarizzazione che si
verifica nella società industriale. Ciò che distingue il nostro model-
lo da quello marxista è che il controllo, o la proprietà, del capitale
non è neppure menzionato. L'identità della cultura, l'accesso al po-
tere e l'accesso all'istruzione sono gli unici elementi inseriti come
premesse nel modello, e usati poi per derivare le nostre otto possi-
bili situazioni. Capitale, proprietà e ricchezza sono semplicemente
ignorate, e deliberatamente. Questi fattori un tempo tenuti in gran
conto sono sostituiti da un altro fattore, genericamente definito
accesso all'istruzione, con ciò intendendo, come abbiamo spiegato,
il possesso, o l'accesso ,all'acquisizione, di quel fascio di capacità
che permettono all'individuo di operare bene nelle condizioni
generali di una divisione industriale del lavoro, come siamo venuti
definendola. Sostengo che questo modo di affrontare il problema
sia del tutto legittimo e fondato. Basta considerare quel che dico-
no alcuni economisti dello sviluppo della scuola del laisser /aire.
2 Questo fatto delle scissure cruciali nella società sembra esser stato ricono-
sciuto da un autore che, ciononostante, continua a classificarsi come marxista.
Vedi T. Naim, The Break-up of Britain, London, 1977.

110
Popolazioni indigenti (i coolie cinesi trapiantati, per esempio, as-
sunti come apprendisti) danno risultati straordinari, se dotate di
attitudini adeguate; mentre capitali versati a piene mani in conte-
sti umani inadeguati, come aiuto allo sviluppo, non approdano a
nulla. Il capitale, come il capitalismo, sembra essere una categoria
sopravvalutata.

Le varietà dell'esperienza nazionalista

Il nostro modello è nato dall'introduzione dei tre fattori che


soli hanno realmente importanza: il potere, l'istruzione e la cultu-
ra comune, nel senso indicato. -Delle otto ,possibili situazioni che
il modello genera, cinque sono, per cosi dire, non-nazionaliste,
quattro di esse perché non c'è differenziazione culturale, e due per-
ché il problema dell'accesso a una cultura superiore sostenuta cen-
tralmente non si pone (una delle situazioni rientra, ovviamente, sia
nella categoria delle quattro sia in quella delle due situazioni). Ci
restano dunque tre forme di nazionalismo.
La linea 2 corrisponde a quel che possiamo chiamare la clas-
sica forma asburgica (punti est e sud) del nazionalismo. I deten-
tori del potere hanno accesso privilegiato alla cultura superiore cen-
trale, che è poi in effetti la loro, e all'intero corredo di capacità
che permettono di far adeguatamente fronte alle condizioni mo-
derne esistenti. Quelli che non hanno il potere sono privati anche
dell'istruzione. Hssi, o gruppi di essi, condividono culture popola-
ri che, con grande sforzo e una propaganda standardizzata e so-
stenuta, si possono trasformare in una nuova cultura superiore an-
tagonista, - alimentata o meno dalla memoria, reale o inventa-
ta, - propria di una unità politica storica che si sarebbe costituita
un tempo intorno a quella stessa cultura o ad una delle sue varian-
ti. A compiere lo sforzo necessario per questa trasformazione sono
gli intellettuali « risvegliatori » del gruppo etnico interessato e alla
fine, se e quando le circostanze stesse sono propizie, questo gruppo
costituirà uno Stato suo proprio, con il compito di sostenere e
proteggere la cultura appena nata, o ri-nata a seconda dei casi.
Ne risulterà una situazione di immediato e immenso vantaggio
per i detti « risveglia tori », e qualche beneficio potrà anche venire
ad altri che parlano la lingua della nuova cultura, benché sia diffi-
cile dire che questi ultimi non avrebbero tratto altrettanto benefi-
cio anche da un'eventuale assimilazione nella cultura degli origina-

111
ri detentori del potere. Quelli che non la parlano e che per caso
vivono nel territorio al presente controllato dal nuovo Stato si tro-
vano adesso, a loro volta, a dover scegliere tra assimilazione, slan-
cio irredentistico, sgradevole status di minoranza o liquidazione fi-
sica. Questo modello è stato imitato in altre parti del mondo, tal-
volta con l'importante modifica che caratterizza quel che si può
chiamaire il tipo « africano» (pur se non limitato all'Africa), che
nasce quando le culture popolari locali sono incapaci di diventare la
nuova cultura superiore dello Stato emergente sia perché troppo
numerose o troppo gelose l'una dell'altra, sia per qualche altra ra-
gione.
Questo punto lo abbiamo già toccato parlando della pseudo-
ipotetica Ruri tania (cap. V), ma in quella fase della discussione
era mio principale interesse sottolineare la differenza tra il tipo
ruritano (o linea 2) e un problema particolare cui si trovano di
fronte le società industriali avanzate, in seguito alla presenza nelle
loro popolazioni di tratti anti-entropici, resistenti alla mobilità: il
contrasto tra i freni alla mobilità dovuti alle difficoltà di comuni-
cazione e i freni dovuti alle difficoltà di identificazione culturale,
o, se volete, dovuti alla facilità dell'identificazione dell'inegua-
glianza, alle conseguenze dell'avere la pelle scura, o dell'attribuire
a tutto un gruppo in blocco gli stessi caratteri negativi.
La barriera alla mobilità dovuta alla persistente presenza di
alcuni tratti nei ceti meno favoriti della popolazione è un problema
molto grave, particolarmente nelle società industriali, e costituisce
una distinzione importante; ma non è identica a quella che qui ci
riguarda, cioè la differenza tra la linea 2 e la linea 4. La situazione
che la linea 4 simboleggia è interessante: alcuni hanno il potere e
altri non ce l'hanno. La differenza si ricollega alla differenza di
cultura, e possiamo individuarla in tali termini. Ma se parliamo
di accesso all'istruzione, allora non c'è nessuna differenza signifi-
cativa tra le popolazioni interessate. Che cosa accade in questo
caso?
La realtà storica cui questo modello corrisponde è il naziona-
lismo unificatore dell'Italia e della Germania nel XIX secolo. Gli
italiani erano, nella grande maggioranza, governati da stranieri, e
in tal senso apparivano politicamente i meno favoriti. I tedeschi,
gran parte dei tedeschi, vivevano in Stati frammentati, molti dei
quali erano piccoli e deboli, almeno secondo i livelli delle potenze
europee, e dunque non in grado di fornire ialla cultura tedesca, come
elemento moderno ·centralizzato, un suo tetto politico. (Per un

112
ulteriore par,adosso, la grande potenza multinazionale, l'Austria,
cercava di fare qualcosa in tgl senso incontrando però l'avversione
di alcuni dei suoi dttadini.)
La protezione politica delle culture italiana e tedesca era dun-
que visibilmente, e per italiani e tedeschi in maniera offensiva, in-
feriore a quella che invece era fornita, diciamo, alla cultur,a france-
se o inglese. Ma quando si trattava di accesso all'istruzione, i mezzi
forniti da queste due culture superiori (italiana e tedesca) a quelli
che erano nati all'interno di loro varianti dialettali, non erano nella
realtà per nulla inferiori. Sia l'italiano che il tedesco erano· lingue
lettemrie, ciascuna con un'effettiva standardizzazione centralizzata
delle proprie forme corrette e una fiorente letteratura, con tradi-
zioni e un vocabolario teorici, con proprie accademie e istituzioni
educative. C'era una inferiorità culturale minima, se pure c'era. Il
tasso di alfabetizzazione e i livelli educativi non erano tra i tede-
schi significativamente piu bassi che tra i francesi (se mai lo era-
no), né erano significativamente bassi tra gli italiani se confrontati
con quelli dell'Austria, la potenza dominante. La cultura tedesca in
confronto a quella francese, o la cultura italiana in confronto a
quella tedesca usata dagli austriaci, non erano in posizione di svan-
taggio, e coloro che ne parlavano la lingua non avevano bisogno di
correggere un ineguale accesso agli eventuali benefici di un mondo
moderno. Tutto quel che bisognava correggere era l'ineguaglianza
di potere e l'assenza sia di un tetto politico sopra la cultura (e so-
pra l'economia) sia di quelle istituzioni che si sarebbero identifi-
cate con essa e impegnate nel suo mantenimento. Il Risorgimento
e l'unificazione della Germania corressero questi squilibri.
C'è tuttavia una differenza tra questo tipo di nazionalismo
unificatore, nel nome di una cultura superiore integralmente effet-
tiva che ha solo bisogno di una migliore protezione politica, e il
classico tipo asburgico di nazionalismo, ad est e a sud. Questa dif-
ferenza è l'argomento di un saggio affascinante e piuttosto com-
movente del compianto professor John Plamenatz, un'opera che
avrebbe anche potuto essere intitolata « Le tristi riflessioni di un
montenegrino a Oxford » 3 • Plamenatz chiamò i due tipi di nazio-
nalismo « l'orientale » e « l'occidentale », quello occidentale essen-
do del tipo unificatore o risorgimentale, caratteristico del XIX se-
colo e con profondi legami con le idee liberali, mentre l'altro, quel-

3 J. Plamenatz, Two types of nationalism, in Nationalism, The Nature and


Evolution of an Idea, _London, 1973.

113
lo orientale, anche se l'autore non lo sottolineava con molti discorsi,
era esemplificato dal genere di nazionalismo che egli sapeva esiste-
re nei suoi nativi Balcani. Non c'è dubbio che Plamenatz vide il
nazionalismo occidentale come un fenomeno benigno e non spiace-
vole, mentre il giudizio che dava su quello orientale era l'opposto:
si trattava di un fenomeno negativo, e pericoloso, destinato ad es-
sere tale dalle condizioni che ne avevano prodotto l'insorgere. (Sa~
rebbe interessante sapere se egli avrebbe considerato aberrazioni
accidentali ed evitabili le forme decisamente non-benigne assunte da
quelle un tempo benigne, o relativamente liberali e moderate, dei
nazionalismi occidentali nel corso del XX secolo.)
La logica alla base dell'argomentazione di Plamenatz è chia-
ra. I nazionalismi occidentali relativamente benigni agivano in dife-
sa di culture superiori perfettamente sviluppate, normativamente
centralizzate e dotate di un seguito popolare abbastanza ben defi-
nito: tutto quel che ci voleva era un qualche aggiustamento della
situazione politica e dei confini internazionali, in modo da assicu-
rare a queste culture, ai loro seguaci e a chi ne parlava la lingua,
una protezione e un sostegno simili a quelli che già godevano le
culture loro antagoniste. Il che richiese alcune battaglie e una buo-
na dose di sostenuta attività diplomatica ma, come succede pe(
le frittate storiche, non bisognò rompere un numero sproporzio-'
nato o insolito di uova, forse non piu di quante ne sarebbero state
comunque rotte nel corso di un normale gioco politico all'interno
della cornice politica generale e degli assunti del tempo.
Consideriamo, per contrasto, il nazionalismo che Plamenatz
indica come orientale. La sua realizzazione ha richiesto, natural-
mente, battaglie e diplomazia almeno nella stessa misura dell'attua:
zione del nazionalismo occidentale. Ma la questione non si esauri
tutta in tali termini. Questo tipo di nazionalismo non operò in di-
fesa di una cultura superiore codificata già esistente e ben definita,
che aveva, per cosi dire, delimitato il proprio territorio e l'aveva
linguisticamente già trasformato attraverso una costante attività let-
teraria che affondava le sue radici nel primo Rinascimento o nella
Riforma, a seconda dei casi. Proprio per niente. Questo naziona-
lismo scese in campo a sostegno di una cultura superiore non ancora
convenientemente cristallizzata, una cultura superiore che aspi-
rava semplicemente all'esistenza o che era ancora in formazione.
Stabili il suo predominio, o almeno cercò vigorosamente di sta-
bilirlo, in feroce contesa con altri competitori analoghi, su una
caotica mappa etnografica di molti dialetti, con lealtà storiche o

114
lingua-genetiche ambigue, e che conteneva popolazioni che avevano
appena cominciato a identificarsi con queste emergenti culture su-
periori nazionali. Le condizioni oggettive del mondo moderno le
avrebbero costrette, a suo tempo, a identificarsi con una di que-
ste culture. Ma fino a che questo non fosse accaduto, tali popola-
zioni mancarono della base culturale ben definita che invece aveva-
no •le loro omologhe italiana e tedesca.
Queste popolazioni dell'Europa orientale erano ancora rin-
chiuse nelle complesse, multiple lealtà della parentela, del territorio
e della relig!one. Per renderle conformi alle sue esigenze, l'impera-
tivo nazionalista dovette impegnarsi in qualcosa piu di qualche bat-
taglia e un po' di diplomazia. Dovette impegnarsi in una vigorosa
operazione di ingegneria culturale. ln molti casi avrebbe dovuto
anche affrontare scambi o espulsioni di popolazioni, una assimi-
lazione piu o meno violenta, e talvolta arrivare a liquidazioni, per
raggiungere quella stretta relazione tra Stato e cultura che è l'es-
senza del nazionalismo. E tutte queste conseguenze derivano non
da un'insolita brutalità dei nazionalisti che alla fine applicarono
queste misure (probabilmente non erano né meglio né peggio di
chiunque altro), ma dall'inevitabile logica della situazione.
Se l'imperativo nazionalista doveva essere concretamente rea-
lizzato in quelle che Plamenatz indicava genericamente come le
condizioni orientali, allora queste conseguenze erano obbligate.
Una società di tipo moderno non può essere costruita senza che
siano soddisfatte alcune norme molto vicine all'imperativo naziona-
lista, che conseguono dal nuovo tipo di divisione del lavoro. Il de-
siderio di opulenza che pervade la società industriale, una volta
che siano ormai noti i suoi vantaggi e la loro accessibilità, e una
volta che il precedente ordine sociale si sia comunque disgregato,
diventa praticamente irresistibile. La conclusione a cui questa se-
rie di passi ci porta non può essere evitata. Con un po' di fortuna,
comprensione e risolutezza, il prezzo può essere mitigato; ma riu-
scire proprio a non pagarlo del tutto è impossibile.

Il nazionalismo della diaspora

La differenza tra le linee 2 e 4 della figm.-a 2 evidenziata


dalla nostra discussione ripete in certo senso la distinzione tra na-
zionalismi occidentale e orientale indicata da Plamenatz; ma sulla
trattazione di quest'ultimo la nostra presenta alcuni vantaggi. An-
zitutto la differenza non è vista semplicemente come una distin-

115
zione storica contingente in cui necessariamente ci si imbatte, ma è
una conseguenza derivata da un semplice modello entro cui, a tito-
lo di ipotesi, sono stati inseriti alcuni fattori molto elementari e
fondamentali. Ciò costituisce, in ogni modo, un vantaggio per co-
loro che, come me, credono che si debba perlomeno tentare la
costruzione di un modello del genere.
Ma c'è un ulteriore vantaggio: questo approccio « costrutti-
vo » dà vita ad un'altra, terza variante del nazionalismo, del tutto
trascurata da Plamenatz, ma generata, e giustificatamente, da una
ulteriore combinazione di quegli stessi identici elementi che spie-
gano, in differenti combinazioni, le due specie di nazionalismo che
lo avevano interessato. Questa terza specie può essere meglio defi-
nita come il nazionalismo della diaspora, ed è, nella realtà storica,
una sotto-specie particolare, assai vistosa ed importante di nazio-
nalismo.
La società agricola tradizionale, come abbiamo insistito a di-
re, usa la cultura o l'etnicità anzitutto per distinguere i gruppi pri-
vilegiati, sottolineandone cosi la peculiarità e legittimità, ravvivan-
do l'aura che li circonda e diminuendo il pericolo di uno status
di ambiguità. Se coloro che appartengono alla classe dominante par-
lano un certo tipo di linguaggio o hanno un certo tipo di accentò,
e vestono un certo tipo di abiti, sarebbe una scorrettezza, se non
peggio, per coloro che a tale classe non appartengono usare lo stes-
so modo di comunicazione. Sarebbe un atto di presunzione, di lesa
maestà, un inquinamento o un sacrilegio, o qualcosa di estrema-
mente ridicolo. Lo scherno è una punizione molto efficace; rappre-
senta, di fatto, la piu potente sanzione sociale contro cui la ragia•
ne è particolarmente disarmata, anche o specialmente quando il
verdetto è pronunciato dalla meno qualificata delle giurie. Possono
essere anche impiegate altre e forse piu brutali punizioni.
Ma lo stesso espediente distintivo della cultura o dell'etnicità
è usato per identificare e separare non semplicemente i privilegiati,
ma anche i gruppi di emarginati, d'incerta appartenenza o di paria.
Ed è assai utile dal punto di vista sociale che esistano tali gruppi.
Come abbiamo notato, nelle società preindustriali le funzioni buro-
cratiche venivano meglio espletate da eunuchi, preti, schiavi e stra-
nieri. Permettere a cittadini nati liberi l'accesso a queste posizioni
chiave è troppo pericoloso. Essi sono eccessivamente esposti alle
pressioni e alle tentazioni esercitate dai loro effettivi legami fami-
liari e locali perché usino le posizioni che occupano in favore cli
parenti e clienti; e, all'inverso, essi stessi possono usare parenti e

116
clienti per rafforzare ulteriormente le proprie posizioni. È soltan-
to con l'avvento della nostra società moderna, quando ognuno di-
venta o un mamelucco o un intellettuale, che ognuno può anch,e
esercitare ragionevolmente bene le funzioni del burocrate, senza
aver bisogno d'essere castrato, fisicamente o socialmente. Ora si
può tranquillamente credere che gli uomini onoreranno quelle che
erano state le norme politicamente ardue e atipiche della società
agricola, ma che nella nostra società sono diventate norme accetta-
bili e universalmente diffuse. Ora siamo tutti indistintamente ca-
strati, e pateticamente affidabili. Lo Stato può, nel complesso, aver
fiducia di noi, contare che facciamo il nostro dovere senza bisogno
di trasformarci prima in eunuchi, preti, schiavi o mamelucchi.
Ma la necessità di fornire personale alla struttura amministra-
tiva non è l'unico motivo per cui l'ordine agricolo ha bisogno di
paria. Le burocrazie paria non sono l'unica forma di esenzione
completa dall'umanità, e la burocrazia non è l'unica fonte del pote-
re sociale. La magia, la lavorazione dei metalli, la finanza, l'arte
militare, vari altri tipi di mestieri, e in alcuni casi qualsiasi genere
di specializzazione chiave, possono conferire un pericoloso potere
agli specialisti che vi hanno accesso. Un modo di neutralizzare que-
sto rischio, pur tollerando nel contempo la specializzazione e maga-
ri confermando il monopolio di una corporazione o d'una casta,
è insistere perché questa isola sociale sia occupata solo da un
gruppo facilmente identificabile sotto il profilo culturale, destinato
all'isolamento e al disprezzo, escluso dagli incarichi politici, dal su-
premo controllo dei mezzi di coercizione e dai pubblici onori.
Chiari esempi di posti del genere, che appare spesso troppo
pericoloso affidare a locali o cittadini a pieno diritto, e quindi
riservati agli stranieri, sono quelli delle guardie di palazzo e dei
gestori dell'amministrazione finanziaria. Maneggiare grosse somme
di denaro conferisce ovviamente grande potere, e se tale potere è
nelle mani di qualcuno che non può usarlo a proprio van1laggio per-
ché appartiene a una categoria esclusa dalle cariche piu elevate e
prestigiose e da posizioni che permettano di esigere obbedienza da-
gli altri, tanto meglio. Nell'ordine tradizionale i gruppi che occupa-
no tali posti accettano insieme al buono anche il cattivo, adattan-
dosi con rassegnazione, al di là dei benefici, ai pericoli e alle umi-
liazioni della propria condizione. Talvolta essi hanno vita dura, ma
spesso, accanto ai sacrifici, ci sono notevoli vantaggi.
La situazione cambia in maniera radicale e profonda con l'av-
vento della società di massa, mobile, anonima, centralizzata. Questo

117
vale soprattutto per le minoranze impegnate in attività finanziarie,
commerciali e -in generale per le occupazioni urbane specializzate.
Con una mobilità universalmente diffusa e con costanti avvicenda-
menti occupazionali non è piu possibile per un gruppo culturale
particolare conservare il monopolio di qualche attività. Quando
tanti membri di una società piu vasta aspirano a queste occupazioni
piu confortevoli e in se stesse lucrative (se non soggette a penaliz-
zazioni), è difficile che esse vengano riservate a una minoranza,
tanto piu se tale minoranza è negativamente segnata a dito.
C'è però, contemporaneamente, il rischio 'che questi gruppi in
precedenza distinti e specializzati abbiano un netto vantaggio quan-
do si passa al nuovo stile di vita e alla distribuzione delle nuove
mansioni. Gli usi e costumi urbani che li contraddistinguono, l'abi-
tudine al calcolo razionale, la correttezza commerciale, un piu alto
livello d'istruzione e forse un sentimento religioso alimentato dalla
conoscenza delle scritture li rendono, tutt'insieme, piu adatti sia
dei membri della vecchia classe dominante, sia del vecchio contadi-
name, ai nuovi modelli di vita.
Si è spesso affermato, anche da parte di sociologi estremamen-
te sottili come Max Weber, che queste minoranze hanno un du:::,
plice modo di comportarsi, uno verso il proprio gruppo, e un altro,
strumentale e amorale, verso gli estranei. È vero che hanno questo
duplice modo, ma la cosa funziona esattamente in senso inverso.
Tutta la posizione di questi individui di fronte al mondo esterno
era precedentemente imperniata sull'esercizio di specifiche mansio-
ni o sulla fornitura di specifiche merci. Il loro buon nome e i loro
redditi dipendevano interamente dalla capacità di espletare questi
compiti in maniera affidabile, ed essi erano in effetti noti per tale
affidabilità professionale. Il che era del tutto diverso dai rapporti
prevalenti all'interno di una comunità morale, dove un affare com-
merciale tra due individui era sempre inevitabilmente assai piu di
un semplice affare commerciale. I due partner potevano essere an-
che parenti, alleati, nemici, membri dello stesso clan, e cosi via;
l'affare, quindi, non si limitava mai alla consegna di questa merce
a questo prezzo. C'era sempre la promessa, o la paura, di maggiori
vantaggi, o di un possibile tradimento. Entrambe le parti erano
coinvolte in contratti e calcoli rigorosi e di assai piu lunga durata,
e inoltre dovevano cercare di dare di piu. Se però non erano soddi-
sfatte dell'affare, ferree considerazioni intervenivano a impedire
ogni lagnanza, a meno che non si volesse rischiare di mettere a re-
pentaglio tutti gli altri fili del reciproco rapporto.

118
Il vantaggio di trattare invece con altri, con qualcuno con cui
non dovevate mangiare, sposarvi, o stringere alleanze politiche o
militari, era che entrambe le parti potevano concentrarsi su un:J
analisi razionale dei costi-guadagni dell'effettivo affare in questio-
ne, ed aspettarsi, nel complesso, di ottenere quello per cui s'erano
accordati, niente di piu e niente di meno. All'interno della comuni-
tà minoritaria i rapporti erano, naturalmente, composti di molti
fili, e quindi gli affari erano necessariamente meno razionali e
affidabili, e presentavano una maggiore pluralità di aspetti. Ma
nella società piu vasta coloro che non avevano un particolare status
potevano tranquillamente onorare un contratto. Quelli invece che
godevano di una condizione sociale di rispetto, e dovevano osser-
varne i diritti e i doveri, avevano molto meno spazio per quel
lavoro di gomiti che le trattative commerciali richiedono e anche
per tenere fede a precisi contratti. Condizione sociale ed onore tol-
gono all'uomo la libertà di scelta facendo pesare su di lui troppi
vincoli e obblighi. La mancanza di uno status particolare permette
ad un individuo di dedicarsi all'affare che ha sottomano, di nego-
ziare un contratto razionale e di osservarne i termini.
È dunque vero che la comunità minoritaria aveva un duplice
modo di comportarsi, ma nel senso inverso a quello che normal-
mente si pensa. Verso gli estranei dimostrava quella affidabilità che
è il presupposto indispensabile di rapporti commerciali moderni
composti non da un intreccio di fili ma da un filo unico. Era invece
all'interno della comunità stessa che i singoli membri avevano con
gli altri rapporti d'affari fatti di quella pluralità di fili che, per
la nostra sensibilità moderna, puzza di corruzione. Ma, natural-
mente, con l'avvento della società di massa mobile e anonima gli
affari ad un solo filo, negoziati e conclusi, diventano la norma, e
non un aspetto particolare di rapporti commerciali tra gruppi che
non sono soliti mangiare insieme.
Nelle condizioni create dalla modernizzazione i gruppi mino-
ritari un tempo specializzati perdono le loro limitazioni, ma anche
ahimè ,il loro monopolio e le relative protezioni. La loro attitudine
e la loro preparazione precedenti li mettono spesso in grado di de-
streggiarsi con migliori risultati degli antagonisti nella nuova eco-
nomia aperta a tutti. La loro esperienza passata, se da un lato li
rende molto piu adatti al nuovo sistema, è però caratterizzata da
una tradizione di impotenza politica e di rinuncia al diritto comu-
nitario di autodifesa. Proprio questo, in fin dei conti, era stato il
prezzo che avevano in primo luogo pagato per accedere all'esercì

I I 'I
zio della professione: avevano dovuto rendersi politicamente e mi-
litarmente imponenti prima di essere abilitati all'uso di strumenti
che, in mani sbagliate, avrebbero potuto diventare molto potenti
e pericolosi. Ma anche a prescindere da questa tradizione, la debo-
lezza politica e militare di tale gruppo scaturisce dalla sua condizio-
ne di minoranza e, molto spesso, dal fatto di essere disperso in
una varietà di centri urbani e di mancare di una compatta base ter-
ritoriale, propria e difendibrle. Alcuni gruppi di questo tipo, econo-
micamente brillanti, hanno dietro di sé una lunga tradizione di di-
spersione, di urbanizzazione e di condizione minoritaria: tale è
chiaramente il caso di ebrei, greci, armeni o parsi. Altri gruppi fini-
scono per occupare posizioni analoghe solo come risultato di recen-
ti migrazioni o di attitudini (o capacità professionali) acquisite o
dispiegate soltanto nei tempi moderni. Ne sono un esempio i cine-
si e gli indiani d'oltremare, o gli ibo della Nigeria.
Le disastrose e tragiche conseguenze, in circostanze moderne,
della congiunzione di superiorità economica e di identificabilità cul-
turale con un'obiettiva debolezza politica e militare sono fin troppo
note per doverle ripetere. Esse vanno dal genocidio all'espulsione.
Talvolta si riesce a mantenere un precario e non facile equilibrio.'
Il punto principale è che ora il potere centrale si trova in una
situazione molto diversa, soggetto a tentazioni e a pressioni molto
differenti di quelle che prevalevano ai tempi della divisione agri-
cola del lavoro. Allora non si pensava neppur lontanamente alla
possibilità che tutti acquisissero mobilità, specializzazione o men-
talità commerciale; chi, se no, avrebbe lavorato la terra? « Quan-'
do Adamo v•angava e Eva filava, / Chi d'-affari si occupava? » Ep-
pure di gente che si occupava di affari ce n'era, ma non si trattava
di una maggioranza o della norma. Una società fatta quasi intera-
mente di borghesi era inconcepibile.
La popolazione in generale non aspirava allora al ruolo di
minoranza che era, in ogni modo, guardata con sprezzo. La classe
dominante accoglieva ben volentieri qualche gruppo di speciali-
sti nelle attività economiche, facilmente tassabili e inermi, legati
ad essa da una mancanza assoluta di mezzi di difesa. Ma, nelle
condizioni moderne, lo « sviluppo » nazionale esige che ciascuno
muova nella direzione che un tempo era esclusiva di un gruppo
minoritario e ferocemente criticato. Mentre una volta lo Stato ave-
va interesse a proteggere la minoranza da cui spillava denaro, ades-
so aveva piu interesse a privarla del suo monopolio economico e,
grazie alla cospicua ricchezza che la distingueva, poteva tacitare

120
molto del malcontento della popolazione piu vasta sottraendole i
suoi beni e perseguitandola. E fu quel che inevitabilmente succes-
se. Ne derivò un godibile (tranne che per le vittime) e patetico
spettacolo di umiliazione, ai danni di un gruppo un tempo invidia-
to, con gran diletto della maggioranza. Questo piacere poté essere
gustato da una categoria assai piu numerosa del ristretto gruppo
di coloro che ereditarono i posti lasciati vacanti dalla minoranza
perseguitata; e anche questa è una considerazione importante che
contribui a rendere questa linea di condotta una scelta politica-
mente attraente per lo Stato.
Stando cosi le cose, la minoranza si trova dunque di fronte
allo stesso tipo di scelte (sia pur in circostanze diverse) che in pas-
sato dovettero affrontare i nostri lavoratori ruritani costretti ad
emigrare. Può lasciarsi assimilare; e talvolta l'intera minoranza, o
comunque sue porzioni considerevoli, accetta di esserlo. Alterna-
tivamente, può sforzarsi di abbandonare sia la sua specializzazione
sia il suo status minoritario, e di creare uno Stato suo proprio, qua-
le nuovo protettore di una nuova cultura nazionale, generica ed
ora non-specializzata. Per una popolazione urbana dispersa il pro-
blema principale è, naturalmente, l'acquisizione della necessaria
base territoriale. I contadini ruritani, essendo contadini, avevano
una base territoriale, destinata a diventare presto il regno di Ruri-
tania, e a trasformarsi successivamente nella Repubblica popolare
socialista di Ruritania. Ma che cosa doveva fare un gruppo urbano,
disperso e specializzato, con pochi o nulli legami rurali?
Per questi tipi di nazionalismo l'acquisizione di un territorio
era il primo e forse il principale problema. Inizialmente gli elleni
pensarono non tanto di staccarsi dall'impero ottomano quanto di
investire la gerarchia al suo interno e di impadronirsene facendo
quindi rinascere Bisanzio. La prima insurrezione greca ebbe luogo
non in Grecia ma in quella che è oggi la Romania, dove i greci
erano una minoranza, e per di piu una minoranza che se la cavava
abbastanza bene alle spalle del sistema ottomano. L'uso di quella
che è ora la Grecia meridionale come base territoriale venne solo
successivamente.
Il caso piu famoso e drammatico di nazionalismo della dia-
spora, che è riuscito a realizzarsi, è Israele. Per dirla con le parole
di Trevor-Roper, esso è « l'ultimo e il meno tipico dei nazionali-
smi europei » 4 • (Ha risolto un problema europeo creandone uno

4 H. Trevor-Roper, Jewish and Other Nationalism, London, 1962.

I.> I
asiatico, a cui Israele ha appena cominciato a pensare. Nella dia-
spora la religione ebraica guardava a Gerusalemme; una volta di
ritorno a Gerusalemme, un sionismo semisecolarizzato fece propri
per un certo periodo i clichés socialisti o populisti dell'Europa del
XIX secolo, ormai invecchiati.) Quasi duemila anni di storia non
hanno lasciato nessun tipo di base territoriale ebraica, men che
meno in terra d'Israele, e per giunta hanno fatto degli ebrei un
insieme di gruppi discontinui, altamente specializzati, all'interno
delle strutture di altre società, invece di quel tipo di popolazione
equilibrato che solo può costituire la base di uno Stato moderno
piu o meno autarchico, di un geschlossener Handelsstaat 5 • Questa
straordinaria trasformazione fu, tuttavia, raggiunta, senza dubbio
grazie, in gran parte, all'incentivo fornito dalle persecuzioni prima
in Europa orientale e poi in tutta l'Europa durante il periodo del-
l'Olocausto. Queste persecuzioni illustrano, meglio di tutte le altre,
il destino che con ogni probabilità attende comunità culturalmente
identificabili, economicamente privilegiate e politicamente senza
difesa, in un periodo in cui l'età delle comunità specializzate, della
tradizionale forma di divisione organica del lavoro, è conclusa.
La trasformazione umana che distinse la vicenda ebraica an-
dava contro la tendenza globale: una popolazione urbana, cosmo-
polita, altamente istruita e sofisticata, fu esortata, almeno in parte,
a tornare alla terra, e spinta cosi ancor piu verso l'isolamento. Ge-
neralmente il processo nazionalista si ricollega in senso inverso ai
discorsi che lo sostengono: si parla tanto di contadini e si creano
cittadini. Nel caso ebraico fu veramente necessario creare un certo
numero di sostituti contadini. Di fatto ne vennero fuori dei con-
tadini con alcuni tratti tribali precisi: una forma di organizzazione
locale composta di unità che erano simultaneamente produttive e
militari nel loro ruolo effettivo. Nessuno poteva ragionevolmente
pensare che fosse agevole creare tali contadini-membri-di-tribu da
un materiale essenzialmente urbano; e di fatto questi contadini-
soldati furono educati da una specie di ordine monastico secolare.
In questo caso c'era però bisogno di una ideologia e, per un acci-
dente della storia, un'adeguata commistione di socialismo e popu-
lismo era in realtà già bell'e pronta e molto diffusa negli ambienti
intellettuali in cui l'ordine reclutava i propri adepti. I motivi col-
lettivisti, filo-rurali e anti-divisione del lavoro, presenti in questa
ideologia, erano idealmente adeguati al fine. Se il movimento dei
5 Stato mercantile chiuso.

122
kibbutz fornisca davvero all'uomo moderno il tipo di vita degna
di esser vissuta, come credevano e speravano i suoi fondatori, è
ancora materia di discussione; ma come macchina per dare un nuo-
vo efficace assetto alla terra con il concorso di elementi tratti da
popolazioni con profonde radici urbane e borghesi, e per difender-
la, in una crisi militare, con mezzi esigui e minimali, i kibbutz si
dimostrarono eccezionali e davvero ineguagliabili. I problemi della
trasformazione sociale, della rinascita culturale, dell'acquisizione di
territorio e della capacità di tener testa alla natur-ale ostilità di co-
loro che vantano diritti di precedenza sul territorio, in questione,
illustrano i problemi del tutto speciali e acuti che i nazionalismi
della diaspora devono affrontare. Quei nazionalismi che conservano
qualche resto di antico territorio si trovano forse ad affrontare
problemi corrispondentemente un po' meno acuti. Ma i problemi
che stanno di fronte a una cultura della diaspora che non abbia
fatto la scelta nazionalista sono forse altrettanto gravi e tragici
<li quelli che stanno di fronte ad una analoga cultura che, invece,
abbia adottato il nazionalismo. Di fatto possiamo dire che è l'estre-
mo pericolo dell'alternativa assimilazionista che spinge i sostenitori
della soluzione nazionalista a sposare la loro causa in questa situa-
zione.
La gravità della situazione cui le popolazioni della diaspora
si trovano di fronte se non scelgono il nazionalismo, e la maniera
in cui l'intera situazione può essere dedotta dalle caratteristiche
generali stesse della transizione dall'ordine agricolo a quello indu-
striale, dimostrano che è assolutamente sbagliato invocare i nazio-
nalismi della diaspora come esempio che smentisce la nostra teo-
ria del nazionalismo: « Il nazionalismo armeno e greco sorse tra
popolazioni che erano in generale piu prospere e piu capaci di
capire le moderne economie europee, generatrici di ricchezza, dei
loro signori musulmano-ottomani » ''.

6 Nationalism in Asia and Africa, a cura di E. Kedourie, London, 1970, p. 20.


A pagina 132 dello stesso volume, il professor Kedourie contesta la teoria che l'or-
ganizzazione sociale dell'ordine industriale favorisca l'omogeneità culturale: « Grandi
imprese industriali hanno preso piede e sono fiorite in società multilingue: in Boe-
mia e negli Stati Uniti nel XIX secolo; a Hong Kong, in Israele, nell'Algeria fran-
n:se, in India, a Ceylon e in Malesia nel XX».
Non è mai stato sostenuto che si possa avere un'impresa industriale soltanto
in una società che sia già culturalmente omogenea. Quel che la teoria sostiene,
invece, è che se un'economia industriale s'instaura in una società culturalmente
eterogenea (o se anche getta in anticipo su di essa la sua ombra), allora ne risul-
teranno tensioni che genereranno il nazionalismo. Con la probabile e temporanea
cccezione di Hong Kong, la cui popolazione è reclutata tra i cinesi che semplice-

123
Nel nostro caso ruritano il nazionaHsmo è stato spiegato in
riferimento ad una popolazione meno favorita sotto il profilo
economico e politico, ma capace di distinguersi culturalmente, e
quindi spinta verso la scelta nazionalista. Ma, una volta avviato il
processo di industrializzazione, l'intollerabile posizione delle po-
polazioni culturalmente distinguibili che non si trovano in condi-
zioni di svantaggio economico (proprio il contrario), ma solo di
svantaggio politico, inerente al loro status minoritario, discende
dalle stesse premesse generali e punta verso la stessa conclusione,
sia pur, naturalmente, attraverso una propria specifica strada. Con-
centrarsi esclusivamente sullo svantaggio economico, che senza dub-
bio è in primo piano nei casi piu tipici, significa travisare la no-
stra posizione. ,L'ordine industriale esige omogeneità all'interno del-
le unità politiche, per lo meno quel tanto che permetta una mobi-
lità senza eccessivi problemi e che impedisca l'identificazione
« etnica » sia dei vantaggi sia degli svantaggi economici o politici.

mente non vogli_ono vivere sotto il regime attualmente al potere in Cina, tanto che
il principio stesso del reclutamento della comunità diventa attivo al di fuori di
una precisa volontà irredentista, ogni altro paese citato nell'elenco di Kedourie,
lungi dal costituire un esempio contrario alla teoria, di fatto la conferma, e anzi
fornisce veri e propri paradigmi del modello che essa propone. La Boemia è stata
la fonte, in larga misura, della teoria e dell'attività del prin;io nazionalismo, sia
tedesco che ceco. Il sistema educativo negli Stati Uniti era notoriamente conge-
gnato per trasformare una eterogenea popolazione di immigranti in una popola-
zione etnicamente omogenea, con l'entusiastico concorso della popolazione interes-
sata. Tutti gli altri paesi elencati illustrano la storia del nazionalismo, alcuni in
forma tragica ed estrema. È vero che in India l'omogeneità culturale trascende
talvolta le diversità linguistiche: gli Hindu « parlano lo stesso -linguaggio » anche
quando non parlano la stessa lingua. Ma la teoria non esclude tale eventualità.

124
VIII. Il futuro del nazionalismo

La nostra diagnosi generale del nazionalismo è semplice. Delle


tre fasi della storia dell'umanità, la seconda è quella agricola e la
terza la industriale. La società agricola ha determinati tratti gene-
rali: la maggioranza della popolazione è fatta di produttori agri-
coli, di contadini. Solo una minoranza della popolazione della so-
cietà è costituita da special1sti, attivi in diversi campi: militare,
politico, religioso o economico. La maggioranza delle popolazioni
agricole subisce anche l'influenza delle due grandi innovazioni del-
!'età agricola: il governo centralizzato e la scoperta della scrit-
tura.
La società agricola - a differenza, parrebbe, delle società pre-
cedenti e successive - è maltusiana: le esigenze sia della difesa
sia della produzione la spingono a cercare una popolazione cre-
scente, che arriva a rasentare i limiti delle risorse disponibili al
punto da essere occasionalmente colpita da calamità. I tre fattori
cruciali che operano in questa società - la produzione di cibo, la
centralizzazione politica e l'alfabetizzazione - danno vita ad una
struttura sociale in cui i confini politici e culturali raramente coin-
cidono.
La società industriale è completamente diversa. Non è maltu-
siana. Si basa, e conta, su una crescita economica e conoscitiva che
alla fine vince e insieme scoraggia ogni ulteriore sensazionale cre-
scita della popolazione. In essa numerosi fattori - l'istruzione uni-
versale, la mobilità e quindi l'individualismo, la centralizzazione
politica, il bisogno di una costosa infrastruttura educativa - la
spingono in una situazione in cui i confini culturali e politici sono
nel complesso corrispondenti. Lo Stato è, anzitutto, il protettore
non di una fede ma di una cultura, il garante di un sistema educa-
125
tivo standardizzato e inevitabilmente omogeneo, che solo può pro-
durre quel tipo di personale in grado di passare da un lavoro al-
l'altro, all'interno di una economia in sviluppo e di una società mo-
bile, e di svolgere attività che richiedono la manipolazione di signi-
ficati e persone piu che di cose. Per la maggior parte di questi
uomini, tuttavia, i limiti della loro cultura sono i limiti, forse non
del mondo, ma certo della loro stessa possibilità di lavoro e quin-
di della loro stessa dignità.
Nella maggioranza delle micro-comunità chiuse dell'età agri-
cola i limiti della cultura erano i limiti del mondo, e la cultura di
per sé rimaneva spesso qualcosa di ignoto, di invisibile: nessuno
pensava ad essa come al confine politico ideale. Ora, con la mobi~
lità, è diventata un dato visibile e costituisce il limite della mo-
bilità dell'individuo, ciò che circoscrive la gamma di recente am-
pliata delle sue possibilità di lavoro; e diventa cosi il confine poli-
tico naturale. Dire questo non significa ridurre il nazionalismo a
una mera ansia circa le prospettive di mobilità sociale. Gli uomini
amano davvero la loro cultura, perché ora avvertono in concreto
l'atmosfera culturale (invece di prenderla come una cosa ovvia,
che non merita particolare attenzione) e sanno che fuori di essa
non potrebbero respirare o realizzare la loro identità.
La cultura superiore (letterata) nella quale sono stati educa-
ti è, per i piu, l'investimento maggiormente prezioso, il nucleo
della loro identità, la loro ,sicurezza, la loro garanzia. È dunque
emerso un mondo che in generale, salvo eccezioni minori, soddisfa
l'imperativo nazionalista, la corrispondenza di cultura e società-
Stato. Il soddisfacimento del principio nazionalista non è stato la
condizione preliminare dell'emergere dell'industrialismo, ma sol-
tanto il prodotto della sua diffusione.
Si rendeva necessaria la transizione da un mondo che non
incoraggiava neppure la formulazione dell'ideale nazionalista, e tan-
to meno una sua sia pur remota possibilità di realizzazione, a
un'età che faceva apparire (erroneamente) tale ideale come qual-
cosa di ovvio, valido per tutti i tempi, trasformandolo di conse-
guenza in una vera e propria norma che, nella maggior parte dei
casi, doveva essere realizzata. Il periodo di questa transizione è
inevitabilmente un periodo di attivismo nazionalista. L'umanità è
arrivata all'età industriale con istituzioni politiche e culturali che
in genere contraddicevano i requisiti del nazionalismo. Portare la
società in linea con i nuovi imperativi è stato forzatamente un pro-
cesso turbolento.

126
La fase piu violenta del nazionalismo è quella che accompa-
gna il primo industrialismo, e la diffusione dell'industrialismo. Si
crea una situazione sociale instabile in cui un'intera serie di peno-
se divisioni tendono a sovrapporsi l'un l'altra: ci sono marcate
disuguaglianze educative, economiche e politiche. Contemporanea-
mente vanno emergendo nuovi Stati in corrispondenza dei confi-
ni culturali. In simili condizioni, se queste molteplici e sovrappo-
ste disuguaglianze coincidono, piu o meno, anche con quelle cultu-
rali ed etniche, che sono visibili, cospicue e facilmente intelligibili,
esse spingono allora le nuove unità emergenti a porsi sotto ban-
diere etniche.
L'industrializzazione raggiunge inevitabilmente luoghi e grup-
pi diversi in tempi diversi. Il che assicura che la miscela esplosiva
del primo industrialismo (dislocazione, mobilità, acute disugua-
glianze non consacrate da tempo e consuetudini) spinga in primo
piano le differenze culturali, scovandole, per cosf dire, in tutti gli
angoli possibili, dovunque si nascondono. Poche di quelle che pos-
sono essere efficacemente attivate in favore del nazionalismo, per-
ché coincidono sia pur vagamente con le disuguaglianze settiche del
tempo, e perché definiscono potenziali Stati industriali in grado
di sopravvivere, mancano di essere attivate. Come investe il mon-
do, la grande ondata della modernizzazione garantisce prima o poi
che ogni individuo, o quasi, abbia motivo di sentirsi ingiustamente
trattato e possa identificare i colpevoli in quelli di un'altra « na-
zione». Se egli riesce ,a identificare un numero sufficiente di vit-
time come lui, che appartengano alla stessa « nazione », allora
nasce un nazionali-smo. Se questo nazionalismo riesce a prevalere,
e non tutti riescono, allora nasce una nazione.
C'è un ulteriore elemento di razionalità economica nel si-
stema politico dei « confini laterali » che il nazionalismo genera
nel mondo moderno. I confini territoriali sono tracciati e legal-
mente imposti, mentre le differenze sociali non sono né segnate né
imposte, ma piuttosto camuffate e rinnegate. Notoriamente le eco-
nomie avanzate possono sommergere e ostacolare le economie ap-
pena emergenti, a meno che queste non siano effettivamente pro-
tette da un proprio Stato. Lo Stato nazionalista è il protettore non
soltanto di una cultura, ma anche di una nuova economia spesso
inizialmente fragile. (In generale lo Stato nazionalista si cura sem-
pre meno di proteggere una fede.) In quei casi in cui una nazione
moderna nasce da quel che in precedenza era stato un semplice ce-
to, - contadini soltanto, o specialisti urbani soltanto, - gli inte-

127
ressi dello Stato di trasformare il suo gruppo etnico in una nazione
equilibrata, e di svilupparne l'economia, diventano aspetti di un
unico identico compito.
Sorge ora il quesito se il nazionalismo continuerà ad essere
una forza principale o un imperativo politico generale in un'età
di industrialismo avanzato, fors'anche in un certo senso compiuto.
Poiché il mondo non è ancora abbastanza vicino al soddisfacimen-
to del desiderio di crescita economica, ogni risposta al detto que-
sito sarà inevitabilmente congetturale. Comunque val la pena di
tentarla. Le implicazioni della crescita economica ai fini della mo-
bilità sociale e occupazionale hanno avuto un posto di primo pia-
no nella nostra argomentazione. I costanti cambiamenti occupazio-
nali, rafforzati dal fatto che maggior parte dei lavori riguarda la
comunicazione, la manipolazione dei significati piu che delle cose,
favoriscono perlomeno un certo tipo di eguaglianza sociale o di
diminuita distanza sociale, e il bisogno di un mezzo di comunica-
zione effettivamente comune e standardizzato. Questi fattori stan-
no alla base sia del moderno egualitarismo sia del nazionalismo.>
Ma che cosa succede se una società industriale che ha soddi-
sfatto il suo bisogno di crescita diventa ancora una volta stabilizza-
ta, non piu mobile? La classica indagine immaginaria su quanto
potrebbe succedere è contenuta nel celebre romanzo di Aldous
Huxley Il mondo nuovo. Una società industriale pienamente sod-·
disfatta non è qualcosa di assolutamente inconcepibile: sebbene
non ci sia ragione di credere che tutte le possibili innovazioni tec-
-niche un -giorno si esauriscano, è però lecito supporre che oltre un
certo punto ulteriori innovazioni tecniche possano cessar di avere
qualsiasi ulteriore significativo impatto sulla struttura sociale e
sulla società in generale, sull'analogia di un uomo che, al di là
di un certo livello di ricchezza, non può piu in nessun modo cam-
biare il proprio stile di vita in rapporto ad un ulteriore arricchi~
mento. Questa analogia può essere piu o meno valida, ed è dif-
ficile avventurarsi in una risposta ad un simile quesito. L'epoca
di una saturazione di ricchezza per l'umanità sembra ancora abba-
stanza lontana, e quindi il bisogno di dare una risposta non è al
momento cosi urgente.
Ma giova notare che gran parte della nostra argomentazione
s'incentra sulle implicazioni di un costante impegno per una cre-
scita economica globale, e quindi per l'innovazione e per il cambia-
mento occupazionale; essa presuppone pure la persistenza di una
società basata sulla promessa di opulenza e di un Danegeld genera-

128
lizzato. Questi assunti, se pur validi oggi, non si può pensare che
lo rimangano all'infinito (anche se escludiamo la possibilità della
fine di questo tipo di società in conseguenza di un disastro nuclea-
re o del genere). La nostra società culturalmente omogenea, mobile,
e, nei suoi strati medi, non rigidamente strutturata può non durare
per sempre, anche se prescindiamo dalla possibilità di cataclismi; e
quando una società di tale tipo non sarà piu predominante, allora
quella cht abbiamo presentato come la base sociale del nazionali-
smo risulterà profondamente modificata. Ma non si tratta di qual-
cosa che può emergere nel corso degli anni della nostra vita.
Nel breve periodo, senza guardare tanto lontano, possiamo
attenderci una modificazione del nazionalismo. La sua fase piu acu-
ta si era presentata, come accennato, nel periodo del massimo diva-
rio tra le popolazioni affrancate sotto il profilo politico e educati-
vo, e perfettamente inserite nell'ordine industriale, e quelle invece
alle soglie del nuovo mondo, ma non ancora al suo interno. Con
il procedere dello sviluppo economico, questo divario è andato gra-
datamente riducendosi (nonostante le pessimistiche affermazioni al
contrario). Il divario può continuare ad allargarsi in termini asso-
luti, ma una volta che entrambi i ricchi e i poveri saranno sopra un
certo livello, questo divario non sarà piu avvertito e sofferto in
maniera molto acuta. La differenza tra la fame e la sufficienza è
certamente assai sensibile; la differenza tra la sufficienza e il super-
fluo fatto di fronzoli perlopiu simbolici e artificiosi lo è meno, spe-
cialmente quando, in una società almeno nominalmente egualitaria,
questi fronzoli sono tutti dello stesso tipo.
La diminuzione dell'acutezza della passione nazionalista non
significa, tuttavia, che le minoranze anti-entropiche se la cavino ne-
cessariamente bene. Il loro destino nel mondo moderno è stato
spesso tragico e l'esser tanto sicuri che queste tragedie non si ripe-
teranno piu sarebbe come cedere a un facile gratuito ottimismo.
Una società industriale matura esige per i suoi membri scioltezza
Ji comunicazione e scioltezza di mobilità. Il raggiungimento del
primo obiettivo sembra la condizione preliminare della maturità;
il secondo sembra essere piu sfuggente. Gli ostacoli alla mobilità,
dove si verificano, rappresentano uno dei problemi piu gravi ed
ostici della società industriale. Ii divario in materia di prosperità
può aumentare anche tra le nazioni, ma quando esiste già una fron-
tiera tra chi ha e chi non ha, la tensione tra i due non può, per
cosi dire, creare un'altra frontiera, e di conseguenza dal punto di
vista del nazionalismo il fatto è irrilevante. (Tralascio per il mo-

12'>
mento la possibili<tà di una qualche ostilità collettiva da parte di
un'intera classe di « nazioni proletarie », politicamente sovrane,
verso le nazioni ricche. Se ciò avviene, sarà in ogni caso qualcosa di
diverso dal nazionalismo. A manifestarsi sarebbe una solidarietà
internazionale dei poveri.)
Che cosa accade dunque al nazionalismo maturo, se le dispa-
rità di ricchezza tra le popolazioni diminuiscono con l'estendersi
del sistema industriale? La risposta a questa domanda non è anco-
ra chiara, ma ci riguarda assai piu da vicino di prospettive remote,
visto che un buon numero di paesi già si stanno almeno avvicinan-
do a questa condizione. Possiamo guardare sia alle implicazioni del-
le nostre premesse teoriche sia all'evidenza storica, empirica e
concreta, che è già in qualche misura davanti ai nostri occhi e che
s'incentra, sostanzialmente, sulla natura della cultura industriale.

Cultura industriale: una o molte?

Ci sono due possibili visioni del futuro della cultura nelle so-
cietà industriali, e alcune posizioni intermedie di compromesso tra
i poli che queste visioni rappresentano. La mia personale concezio-
ne della storia del mondo è semplice e chiara: le tre grandi fasi del-
la storia dell'uomo, quella dei cacciatori-raccoglitori e le fasi agri-
cola e industriale determinano i nostri problemi, ma non la nostra
soluzione. In altre parole il marxismo ha sbagliato in due diverse
maniere, non soltanto quando ha moltiplicato le fasi, al di là delle
tre canoniche, economiche e ben congegnate (i trinitari come
Comte, Frazer o Karl Polanyi avevano ragione, abbiano o meno
identificato correttamente gli elementi della trinità), ma soprat-
tutto quando ha sostenuto che per ciascuna fase era determinata la
soluzione, oltre che il problema: « Il modo di produzione della
vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politi-
co e spirituale della vita ... A grandi linee, i modi di produzione
asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere desi-
gnati come epoche che marcano il progresso della formazione eco-
nomica della società » 1•
Ma, in generale, la determinazione della società da parte del-
la base economica esistente non sembra reggere. Né le società

1 K. Marx, Per la critica dell'economia politica. Prefazione, in Marx-Engels,


Le opere, Roma, Editori Riuniti, 19743, p. 747.

130
fondate sulla caccia né quelle agricole sono tutte simili. Quel che
è specificamente disastroso per la filosofia marxista della storia è
che i principali tratti sovrastrutturali (lo Stato e la cultura) non
sono in correlazione con la mmparsa del cambiamento infrastrut-
turale realmente decisivo, cioè l'inizio della produzione di cibo. Se
James \'Qoodburn vede giusto, un cambiamento strutturale impor-
tante avviene già all'interno della categoria delle società dipen-
denti dalla caccia, che si possono dividere in quelle che praticano
il godimento immediato e quelle con economie di raccolta e di cac-
cia a godimento differito. Acquisendo la base morale e istituzio-
nale per impegni di lungo periodo, queste ultime posseggono già le
condizioni organizzative preliminari per lo sviluppo dell'agricoltu-
ra, se e quando le pressioni in tale direzione diventano operative e
ci sono i mezzi tecnici necessari 2 • La divisione dei compiti genera
col tempo abitudini di pensiero e d'azione che renderanno possi-
bile la specializzazione permanente dei ruoli tra gli individui impe-
gnati nella produzione di cibo. Se è cosf, allora il primo grande
cambiamento socio-strutturale precede il grande salto compiuto
verso la produzione di cibo; mentre non ci può essere dubbio alcu-
no che l'altro grande cambiamento strutturale, la formazione del-
lo Stato, lo segua, e che non sia in nessuna maniera immediata o
unilineare collegato con esso 3 • L'umanità è passata da uno stadio
di caccia-raccolta quando tutti avevano tempo libero a uno stadio
agricolo, quando solo alcuni (la élite dominante) lo avevano, a
un'età industriale governata dall'etica del lavoro, quando nessuno
ne ha. O si potrebbe dire che siamo passati da un nessun rinvio
nel proprio soddisfacimento, a qualche rinvio e infine a un rinvio
perenne.
L'idea della determinazione materiale della società sembrereb-
be, dunque, in generale, da escludersi. Ma, in definitiva, lo è an-
che per la società industriale? La forma generale della società in-
dustriale, almeno, è determinata unicamente dalla sua infrastruttu-
ra produttiva? La risposta è tutt'altro che evidente, e certamente

2 J. Woodburn, Hunters and gatherers today and reconstruction of the past,


in Soviet and Western Anthropology, a cura di E. Gellner, London and New
York, 1980.
3 I problemi, empirici e teorici, che deve affrontare la dottrina di un rego-
lare rapporto tra base sociale e sovrastruttura nel marxismo, e la loro maggiore
acut=a una volta che si sia lasciata cadere la visione unilineare dello sviluppo
sociale, suscitano qualche attenzione nel pensiero sovietico. Cfr. per esempio Eero
Loone, Sovremennaja filosofi;a istorii (Filosofia contemporanea della storia), Tal-
lin, 1980, specie Parte IV.

131
non è determinata dalle chiare prove in contrario fornite dalle so-
cietà basate sulla caccia e l'agricoltura. Potrebbe darsi che l'uomo
della società industriale avrà, alla fine, meno scelte sociali del suo
antenato cacciatore e contadino. Potrebbe darsi che la tesi che tut-
te le società industriali finiranno a un certo punto per rassomigliar-
si sia giusta, o che comunque col tempo si rivelerà tale. Con speci-
fico riferimento alla cultura e al nazionalismo che cosa possiamo
aspettarci?
Sarebbe conveniente esplorare dapprima la tesi della conver-
genza. Supponiamo sia vero che il modo di produzione industriale
sia l'unico elemento che determini la cultura della società: la stessa
tecnologia incanala gli uomini nello stesso tipo di attività e nello
stesso tipo di gerarchia, e inoltre lo stesso modo di occupare il
tempo libero è generato dalle tecniche esistenti e dalle esigenze del-
la vita produttiva. Naturalmente potrebbero sopravvivere, e pro-
babilmente sopravviverebbero, le diverse lingue: ma gli usi socia-
li a cui verrebbero dèstinate, i significati stessi prevalenti al loro
interno, sarebbero in gran parte uguali in ogni lingua nell'ambito'
di questa piu vasta cultura industriale comune.
In un mondo del genere, un uomo che passi da una lingua ad
un'altra potrebbe si aver bisogno di imparare un nuovo vocabola-
rio, nuove parole per le cose e i contesti piu familiari, e potrebbe
anche, alla peggio, dover imparare una nuova grammatica, in un
senso piu o meno puramente linguistico; ma questo sarebbe press'a
poco il limite dell'aggiustamento che gli verrebbe richiesto. Non
gli si richiederebbe nessuno stile nuovo di pensiero. Potrebbe, tutto
sommato, comportarsi come un turista col suo libretto di frasi uti-
li, nella certezza che tutto quel che dovtà fare s-arà di usare adegua-
tamente la nuova frase per esprimere un vecchio familiare bisogno.
Il turista passerà da una regione all'ahra ben sapendo che dapper-
tutto le esigenze umane sono limitate al bisogno di una camera, di
un pasto, di una bevanda, della benzina, dell'ufficio del turismo, e
di poche altre cose. Nello stesso modo, in un mondo in cui la tesi
della convergenza fosse valida, l'aggiustamento interlinguistico si
ridurrebbe semplicemente allo scambio, per cosi dire, di una mone-
ta verbale con un'altra, all'interno di un sistema concettuale inter-
nazionale ben congegnato in cui i cambi sono abbastanza stabili,
fissi e affidabili.
C'è effettivamente un elemento di verità in tutto questo. La
società industriale ha una divisione del lavoro e un'interdipenden-
za piuttosto complesse a livello sia internazionale che interno. No-

132
nostante la cura che gli Stati nazionali si prendono per non essere
1roppo specializzati e quindi troppo dipendenti dagli altri, il volu-
me degli scambi internazionali è veramente enorme, e cosi pure
lo è la relativa convergenza concettuale e istituzionale. Non è sen-
za grande significato che le carte di credito valgano anche oltre
la cortina di ferro. Potete usare liberamente fa vostra carta di
credito in paesi dove non vi è permesso esprimere liberamente il
vostro pensiero. Il dollaro ha corso assolutamente legale in al-
meno uno dei paesi socialisti. C'è notoriamente una cultura giova-
nile transideologica internazionale.
Nell'età industriale solo le culture superiori finiscono effet-
tivamente per sopravvivere. Le culture popolari e le tradizioni
minori sopravvivono solo artificiosamente, tenute in vita dalle
associazioni linguistiche e di protezione del· folclore. Inoltre le
culture superiori delle società industriali sono una razza speciale
tra le culture superiori in generale, e si rassomigliano l'un l'altra
piu di quanto si rassomigliassero quelle dell'età agricola. Sono le-
gate tutte a una comune base conoscitiva e ad una economia co-
scientemente globale. Probabilmente si sovrappongono piu stret-
tamente di quanto non facessero le vecchie culture superiori che
erano un tempo profondamente pervase da teologie loro proprie,
da sistemi conoscitivi peculiari e culturalmente specifici di ogni
cultura.
Ma questa è tutta la verità? Non si potrebbe ipotizzare che,
alla fine, con l'effettivo compimento dell'industrializzazione, le dif-
ferenze interculturali e interlinguistiche si trasformino in diffe-
renze puramente fonetiche, in cui soltanto i segni di comunica-
zione superficiali sono variabili, mentre il contenuto semantico
e il contesto sociale delle espressioni e delle azioni diventano
universali, non-regionali? Se un'eventualità del genere si verifi-
casse, il divario a livello di comunicazione tra le diverse lingue
o i diversi linguaggi potrebbe ridursi quasi a niente, e il relativo
divario sociale, l'effetto anti-entropico, anti-mobilità, dei diversi
retroterra linguistici e culturali potrebbero diventare corrisponden-
temente insignificanti. Nessuna inibizione di carattere nazionalista
impedirebbe allora cordiali rapporti interculturali e l'internazio-
nalismo.
In qualche misura e in qualche campo qualcosa del genere
sta già effettivamente accadendo: due persone di eguale cultura
e preparazione, appartenenti ai ceti professionali piu elevati dei
paesi industriali avanzati, non si sentono in difficoltà né avvcr-

1n
tono il bisogno di qualche aggiustamento, quando si recano nei
reciproci paesi, a prescindere se sappiano. o meno parlare la lin-
gua, in senso letterale, l'una dell'altra. Esse collaborano senza
impedimenti nell'organizzazione multinazionale; parlano già « il
linguaggio l'una dell'altra », anche se non parlano la lingua l'una
dell'altra. A questo livello esiste già una sorta di mercato del la-
voro internazionale e intercambiabile. Ma può questa situazione
diventare generalizzata? E lo diventerà davvero? C'è dell'ironia
nel fatto che gli intellettuali, la forza motrice del primo naziona-
lismo, siano oggi, in un mondo di Stati nazionali, proprio coloro
che si muovono piu agevolmente tra gli Stati, con meno pregiu-
dizi, come facevano in passato, ai tempi di una intellighenzia
inter-statale internazionale.
Se questa libertà di movimento internazionale diventasse ge-
nerale, il nazionalismo cesserebbe di essere un problema; o per-
lomeno i difetti di comunicazione generati dalle differenze cul-
turali cesserebbero di essere incisivi e non produrrebbero piu
tensioni nazionaliste. Il nazionalismo come problema permanente"
come spada di Damocle sospesa sulle società-Stato che osano sfi-
dare l'imperativo della coincidenza tra confini culturali e politici,
sarebbe rimosso e cesserebbe di rappresentare una minaccia sem-
pre acuta e presente. In questo ipotetico continuo globale di una
cultura industriale sostanzialmente omogenea, differenziata da lin-
gue che si distinguono superficialmente soltanto sotto il profilo
fonetico ma non semantico, l'età del nazionalismo diventerebbe
una cosa del passato.
Non credo che questa soluzione riuscirà a diventare effettiva.
Propendo a seguire in materia l'idea di J.F. Revel: « Les peu-
ples ne sont pas tous le memes. Ils ne l'étaient pas dans fa misère,
ils ne le sont pas dans le luxe » 4.
Le costrizioni comuni della produzione industriale, di un
unico retroterra scientifico, e di una complessa interdipendenza
internazionale insieme a contatti e comunicazioni costanti e con-
tinui produrranno senza dubbio un certo grado di convergenza
culturale globale, di cui già vediamo qualche saggio. Ciò impedirà
a quella mancanza di comunicazione che nasce dalle divergenze
culturali di essere un fattore primario nel processo di inaspri-
mento delle tensioni tra i piu e i meno favoriti. (Ma non im-
pedirà ad altri tratti anti-entropici di aggravare o provocare ten-
4 J.F. Revel, En France, Paris, 1965 (I popoli non sono tutti uguali. Non
lo erano nella miseria, non lo sono nel lusso).

134
sioni.) Tra i paesi sviluppati, quelli in cui la grande maggioranza
dei cittadini ha una possibilità di accesso ragionevolmente buona
e non troppo ineguale alla cultura superiore dominante e inci-
siva sotto il profilo economico, e dove le esistenti disuguaglianze
non possono essere portate in superficie e attivate politicamente
, la un sistema culturale o « etnico » insidioso, pur se potranno
ancora sperimentare una certa dose di pluralismo e di diversità
rnlturali secondarie, non si tratterà di fenomeni politicamente
pericolosi. Dato lo sviluppo generalizzato, e una sorta di eguale
accesso alla promozione sociale, le culture con un certo reciproco
rapporto o con una storia comune, riusciranno a coabitare in ar-
monia. La pluralità linguistica del cantone svizzero dei Grigioni
sembra non aver minacciato in alcun modo l'unità politica del
cantone. Lo stesso non si può dire del cantone di Berna, dove
gli abitanti del Giura, non proprio soddisfatti della convivenza
con il gruppo germanofono, finirono per ottenere, non senza con-
flitti, una riorganizzazione della Confederazione svizzera.
Resta però difficile immaginare due grandi culture, politica-
mente vitali e degne singolarmente d'indipendenza, che coabitano
:;otto un unico tetto politico, e che si affidano ad un unico cen-
tro politico perché salvaguardi e serva entrambe le culture con
perfetta, o anche adeguata, imparzialità. Il grado di sovranità che
gli Stati nazionali possono conservare nelle varie circostanze pre-
vedibili - si considerino le limitazioni alla sovranità da parte
<li organismi come le Nazioni Unite, le confederazioni e le al-
leanze regionali, e simili - non è argomento di questo studio,
né un tema che deve essere necessariamente discusso in queste
pagine; ma sembra del tutto probabile che le differenze tra gli
stili di vita e di comunicazione culturali, nonostante un'analoga
base economica, rimarranno abbastanza grandi da richiedere, per
cosi dire, manutenzioni separate, e quindi unità politico-culturali
distinte, siano o meno completamente sovrane.
E quanto all'altra opposta possibilità? Il polo alternativo
corrisponde ad una situazione in cui le distinte culture rimarreb-
bero altrettanto incommensurabili e incompatibili come si dice
siano state tra loro le culture pre-industriali, se non di piu.. Que-
sto problema è reso piu. complesso dal fatto che non è per nulla
chiaro, tra gli antropologi e gli altri studiosi, quanto totalmente
incommensurabili e autosufficienti fossero ,le culture pre-indu-
striali.
Nella sua forma estrema la tesi della incommensurabilità (di-

135
ventata di recente assai di moda) suona press'a poco cosi: ciascuna
cultura o modo di vivere ha propri criteri di giudizio non sol-
tanto per la virtu., ma anche per la realtà in se stessa; e nessuna
cultura può mai essere legittimamente giudicata, per non parlare
poi di essere condannata, secondo i criteri di un'altra, o secondo
criteri che pretendano di essere universali e al di sopra di tutte
le culture (non esistono, infatti, simili norme superiori e asso-
lute). Questa posizione è generalmente sostenuta dai romantici
che la usano come premessa ·per difendere credenze e consuetudini
arcaiche dalla critica razionale, e per affermare che l'idea di criteri
universalmente razionali e assoluti è un mito. In questa forma tale
posizione sembrerebbe implicare un virulento nazionalismo nella
misura in cui implica chiaramente che la soggezione di una cul-
tura alla direzione politica gestita dai membri di un'altra cultura
deve essere sempre necessariamente iniqua.
Sono assai scettico circa la possibilità di applicare la tesi della
incommensurabilità anche alle società agricole. Penso che tale t i
non possa essere legittimamente usata per negare la possibilità dt;
una comunicazione inter-culturale, o di una valutazione compa-
rata delle culture agricola e industriale. La tesi della incommen-
surabilità deve parte della sua plausibilità alla tendenza a pren-
dere troppo sul serio le fedi ufficiali delle società agricole ma:
ture, fedi che amano autoassolutizzarsi, lanciare critiche e anatemi,
e che sono in generale costruite in maniera da essere logicamente
invulnerabili dall'esterno e perpetuamente autorafforzate dall'in-
terno. Nonostante questi tratti negativi che oggi suscitano repul-
sione negli uomini di tendenze liberali, i seguaci di queste fedi
hanno in pratica imparato a rimuovere i loro stessi paraocchi,
tanto pubblicizzati. Essi sono ed erano concettualmente bilin-
gui, e sanno e sapevano come spostarsi con naturalezza e solerzia
da idiomi commensurabili a idiomi incommensurabili. Funzionari
di fedi nominalmente esclusive che pretendono di avere il mono-
polio della verità, partecipano tuttavia amichevolmente alle di-
scussioni del Consiglio mondiale delle Chiese. La questione di
come riusciamo a trascendere il relativismo è difficile e ricca d'in-
teresse, e non sarà certo possibile risolverla in queste pagine.
Quel che conta, però, è che riusciamo in un modo o nell'altro a
superare questo relativismo, che non rimaniamo imprigionati
senza sperànza in una serie di compartimenti stagni e nelle loro
regole, e che per ragioni molto ovvie (base conoscitiva e produt-
tiva comune e comunicazioni inter-sociali di gran lunga accresciu-

136
te) possiamo sperare che l'uomo della società industriale sia an-
che meno schiavo della sua cultura locale di quanto lo fosse il
suo predecessore della società agricola.
Su questo problema mi pare che la verità stia un po' nel
mezzo. La infrastruttura economica comune della società indu-
striale avanzata e le sue inevitabili implicazioni continueranno a
garantire che gli uomini dipendano dalla cultura, e che la cul-
tura assicuri una standardizzazione su tutta un'area assai vasta,
facendo leva per il suo mantenimento e la sua gestione su enti
centralizzati. In altre parole, gli uomini continueranno a dovere
le loro possibilità di lavoro e di inserimento sociale a un costante
e multiforme processo formativo che non può essere garantito da
gruppi locali o familiari. Stando cosi le cose, la definizione di
unità politiche e di confini politici non potrà ignorare impune-
mente la distribuzione delle culture. Nell'insieme, a parte alcune
eccezioni minori e innocue, l'imperativo nazionalista della coinci-
denza di unità politica e cultura continuerà ad essere applicato.
In tal senso non c'è bisogno di sperare che l'età del nazionali-
smo giunga a fine.
Ma si può sperare che l'asprezza dei conflitti nazionalisti di-
minuisca, giacché erano le profonde differenze sociali create dal
primo industrialismo e dalla sua ineguale diffusione che li rende-
vano cosi acuti. Queste differenze sociali non erano probabil-
mente peggiori di quelle che la società agricola tollerava senza
battere ciglio, ma non erano piu addolcite o legittimate da con-
suetudini e tradizioni secolari e, per giunta, si verificavano in un
contesto che incoraggiava, altrimenti, la speranza e le aspettative
di uguaglianza, e che richiedeva mobilità. Ogni qualvolta le dif-
ferenze culturali servivano a definire queste differenze sociali,
allora erano guai davvero. In caso contrario, nulla di particolar-
mente grave succedeva. Le « nazioni », i gruppi etnici, non erano
nazionalisti quando gli Stati si collocavano in sistemi agricoli
abbastanza stabili. Le classi, per quanto oppresse e sfruttate, non
rovesciavano il sistema politico quando non potevano definirsi
« etnicamente ». Solo quando una « nazione » diventava una clas-
se, una categoria visibile e non adeguatamente distribuita in un
sistema altrimenti mobile, diventava politicamente cosciente e at-
tiva. Solo quando capitava che una classe fosse, piu o meno, una
« nazione », allora si trasformava da classe-in-sé in classe-per-sé,
o nazione-per-sé. Né le nazioni né le classi sembrano essere cata-

137
lizzatori politici: soltanto le classi-nazione, o le nazioni-classe,
sono tali.
Un interessante autore che tenta di recuperare il marxismo,
o di scoprire o inventare una nuova forma vitale di marxismo, rico-
nosce questo fatto 5 • La società industriale matura non genera piu
quegli abissi sociali profondi che potevano poi essere attivati dalla
etnicità. (Continuerà a incontrare difficoltà, talvolta tragiche, su-
scitate da tratti anti-entropici, come la « razza », che contraddicono
vistosamente il suo palese egualitarismo.) Dovrà rispettare le diffe-
renze culturali laddove sopravvivono, purché siano superficiali e
non generino genuine barriere tra la popolazione, nel qual caso le
barriere, non le culture, costituiscono un grave problema. Sebbene
l'antica pletora di culture popolari difficilmente potrà sopravvi-
vere, se non come simbolo e come forma avvolta nel cellofan, una
pluralità internazionale di culture superiori talvolta abbastanza
diverse continuerà invece, fortunatamente, a restare viva e vitale.
Si può star certi che.gli investimenti infrastrutturali fatti in ques\e
culture riuscirono a perpetuarle. In parte perché molti confini si
sono già adeguati ai confini di queste culture, e in parte perché l'im-
perativo nazionalista è oggi cosi ampiamente rispettato che le so-
cietà sviluppate di rado lo sfidano in maniera sfacciata, e cer-
cano di evitare uno scontro frontale con esso: per questi vari motivi
c'è da sperare che la società industriale matura (se l'umanità sarà
risparmiata abbastanza a lungo da godersela), diventerà una società
in cui il nazionalismo continuerà a sopravvivere, ma in una forma
silenziosa e meno virulenta.

5 T. Naim, The Break-up of Britain, cit.

138
IX. Nazionalismo e ideologia

Un aspetto vistoso della nostra trattazione del nazionalismo


?: stato la mancanza d'interesse per la storia delle idee nazionaliste
e per i contributi e le sfumature di pensiero dei singoli pensatori
nazionalisti. Il che costituisce una vistosa differenza rispetto ai
numerosi altri saggi sull'argomento. Questo atteggiamento non
scaturisce da un disprezzo generalizzato per il ruolo delle idee
nella storia. Ci sono idee e sistemi di credenze che hanno· un'in-
fluenza davvero decisiva. (Non sono necessariamente le idee buo-
ne che esercitano il maggior impatto. Alcune idee sono buone, altre
cattive; alcune esercitano un grande impatto, altre nessuno, e non
c'è alcun rapporto sistematico tra le due cose.) Per esempio i si-
stemi di credenze noti come cristianesimo e marxismo. Eppure
l"ntrambi sono contingenti: ciascuno di essi consiste in un com-
plesso di temi, che singolarmente ·possono essere stati inerenti alla
situazione in cui sono affiorati, ma che, come combinazione parti-
colare dotata di un nome e di una esistenza e continuità storiche,
sono stati forgiati in una specie di unità soltanto da una serie di
pensatori o predicatori.
Questa unità sopravvive in certa misura all'uso selettivo che
di essi è stato fatto successivamente. Inoltre, una volta emersi,
questi sistemi sono talvolta giunti a dominare le società che capi-
I ava prendessero le loro dottrine con grande serietà e le mettessero
in atto (almeno alcune) con grande determinazione. Stando cosi
le cose, se vogliamo capire il_ destino di queste società, siamo a
volte èostretti a guardare attentamente alle parole, alle dottrine
i· agli argomenti dei pensatori che hanno forgiato le fedi che

le dominano. Per esempio, le particolari dottrine etnografiche che

139
influenzarono Marx e Engels, negli anni 1870, circa la sopravvi-
venza dello spirito comunitario nei villaggi dei paesi arretrati non-
ché le condizioni del suo perpetuarsi, sono incorporate con un peso
decisivo nel marxismo, e probabilmente hanno avuto un effetto
determinante, e disastroso, sulla politica agraria sovietica.
Ma per il nazionalismo le cose mi sembra stiano diversamen-
te. (Il che, sia detto per inciso, aiuta forse a capire perché il na-
zionalismo, nonostante la sua indiscutibile importanza, abbia rice-
vuto relativamente scarsa attenzione da parte dei filosofi politici
accademici: non c'era forse in esso sufficiente sostanza nel senso
di buoni testi e dottrine, che è il tipo di materiale che di solito
costoro prediligono, perché ci affondassero i denti 1 .) Con questo
non si vuol dire che i profeti del nazionalismo non riuscissero
proprio a trovare una loro collooazione in serie A, quando si
veniva alle faccende del pensare. Comunque, anche se fosse, ciò
non impedirebbe a un pensatore di esercitare sulla storia u~in-
fluenza enorme, genuina e decisiva, come dimostrano numer6r',i
esempi. Il fatto è che questi pensatori si equivalevano un po' tutti.
Se uno cadeva, subito se ne faceva avanti un altro a prenderne il
posto. (Essi amavano dire di se stessi qualcosa di simile, anche
se non proprio nel senso qui indicato.) Nessuno era indispensabile.
La qualità del pensiero nazionalista difficilmente avrebbe risentito
granché da tali sostituzioni.
Le loro singole dottrine non meritano un'analisi precisa. Ci
sembra di essere di fronte a un fenomeno che scaturisce diretta-
mente e inevitabilmente dai cambiamenti essenziali nella nostra
comune base sociale, da quelli nei r,apporti globali tra ,società, cul-
tura e Stato. L'esatta comparsa e la forma locale di questo feno-
meno dipendono senza dubbio in larga misura da circostanze locali
che meritano d'essere studiate; ma non credo che le sfumature
della dottrina nazionalista abbiano giocato molta parte nella mo-
difica di queste circostanze.

1 La sproporzione tra l'importanza del nazionalismo e la quantità di pensiero


ad esso dedicato è messa in rilievo da E rie Hobsbawm nel suo Some re/lections on
nationalism, in Imagination and precision in the social sciences. Essays in memory
of Peter Nettl, a cura di T.J. Nossiter, A.H. Hanson e S. Rokkan e al., NJ, Atlantic
Heights, 1972. Egli cita da Il Risorgimento di Mack Smith (1968) alcune idee assai
curiose di Mazzini su una conveniente organizzazione nazionalista dell'Europa, che
includerebbe la Slovenia in una specie di Grande Svizzera e unirebbe magiari, ro-
meni e cechi, per una qualche ragione, con l'Erzegovina. Tutto sommato Mazzini,
fuori dall'Italia, sembra avere maggior percezione delle economie politiche di scala
e della compattezza territoriale che non delle sensibilità culturali.

140
Generalmente parlando l'ideologia· nazionalista risente di una
diffusa falsa coscienza. I suoi miti rovesciano 1a realtà: essa sostiene
di difendere la cultura popolare mentre di fatto· inventa una· cul-
tura superiore; pretende di proteggere un'antica società popolare
mentre di fatto aiuta a costruire una anonima società di massa. (La
Germania pre~nazionalista era composta di uha molteplicità di ge-
nuine comunità, molte delle quali rurali. La Germania unita post-
naziona>lista era per lo piu industdale e una società di massa.) Il
nazionalismo tende a cons,iderarsi un principio ovvio e manifesto,
accessibile come tale a tutti gli uomini, e violato soltanto da una
perversa cecità, mentre di fatto deve la sùa plausibilità e la sua
natura ineluttabile esclusivamente a una serie di circostanze molto
particolari, che in effetti sussistono oggi, ma che erano estranee
,illa maggior parte dell'umanità e della storia. Il nazionalismo predioa
t: difende la comunità, ma deve tutto ad una decisiva e profonda
rottura nella storia umana. Predica e difende la diversità culturale,
mentre di fatto impone l'omogeneità sia all'interno delle unità
poHtiche sia, in misura minore, tra le unità politiche stesse.
L'idea che il nazionalismo dà di sé e la sua vera natura sono
rnrrelate alla rovesda, con una ironica franchezza che raramente
trova l'eguale anche in altre ideologie di successo. Mi sembra, di
conseguenza, che, in generale, non abbiamo molto da imparare
sul nazionalismo dall'analisi dei ·suoi stessi profeti.
Impareremo di piu studiando forse i suoi nemici? Un po' di
piu certamente, ma dovremo essere molto cauti. Secondo me il
loro merito principale sembra quello di insegnarci a non prendere
il nazionalismo in base alla sua autovalutazione, ai suoi stessi ter-
mini, e come qualcosa di perfettamente ovvio. La tentazione di
rnmportarci in questo modo è molto forte, radicata, per cosi dire,
ndla condizione moderna, in cui gli uomini partono dal semplice
assunto che le unità culturalmente omogenee, con governati e
~overnanti culturalmente simili, sono una norma la cui violazione
t· intrinsecamente scandalosa. Essere strappati da questo assunto
i· veramente qualcosa di cui sentirsi grati, è una vera e propria
il l11 minazione.
Ma sarebbe altrettanto disastroso seguire fino in fondo le
,11me di un nemico dichiarato del nazionalismo come Elie Kedou-
ril', e considerare il nazionalismo un'aberrazione contingente, evi-
I ahi le e accidentalmente alimentata da alcuni pensatori europei.
11 nazionalismo - il principio che predica le unità culturali come

141
fondamento della vita politica e l'unità obbligatoria di governanti
e governati - non è iscritto né nella natura delle cose né nel
cuore degli uomini, e neppure nelle condizioni preliminari della
vita sociale in generale; sostenere che lo sia è una falsità che la
dottrina nazionalism è riuscita a presentare come cosa ovvia. Ma
il nazionalismo come fenomeno, non come dottrina presentata
dai nazionalisti, è insito in una data serie di condizioni sociali;
e tali condizioni sono, guarda caso, le condizioni del nostro tempo.
Negare questo dato è un errore perlomeno ,altrettanto grande
dell'accettare il nazionalismo secondo i suoi stessi termini. C'è
qualcosa di bizzarro nell'idea che una forza cosi ampiamente dif-
fusa e generalizzata, una fiamma che n'.lsce cosi viva e spontanea in
tanti posti non reciprocamente correlati, e che ha bisogno di cosi
poca aria per diventare un incendio, debba nascere da elucubra-
zioni estremamente astruse di filosofi. Nel bene e nel male li;:_ no-
stre idee raramente hanno una simile potenza. \
In un'epoca in cui carta e stampa costano relativamente p~o,
in cui tutti sanno leggere e scrivere ed è facile comunicare, una
valanga di ideologie emergono e scendono in liz2r.1 per conqui-
starsi il nostro favore. Ed esse sono sovente formulate e diffuse
da uomini con una cultura e doti propagandistiche maggi.od di
quelle che la natura ha voluto elargire ai profeti del nazionalismo.
Eppure queste altre forme di assurdo non hanno mai avuto sull'u-
manità un impatto neppur lontanamente paragonabile al nazionali-
smo. Il che non era da imputarsi a minori meriti culturali. Né si
può parlare di semplice fortuna; l'esperienza si è ripetuta in tal-
mente tante parti del globo che, se il caso fosse stato qui l'ele-
mento principe, ci sarebbe da attendersi un disegno assai piu
eterogeneo, con un tipo di dottrina che prevale in un posto e un
altro tipo completamente diverso che prevale in un altro. Ma
cosi non è: la tendenza degli eventi è in larga misura la stessa
nella maggioranza dei posti. Di conseguenza, poiché possiamo in-
dividuare una chiara e palese connessione tra le condizioni sociali
generali della nostra epoca e questa tendenza clamorosamente pre-
dominante, abbiamo allora ogni diritto di invocare tale connessio-
ne, piuttosto che l'accidentale attrattiva di un'idea arbitraria,
prodotta dal gioco delle fantasie intellettuali degli europei al volger
del XVIII e del XIX secolo.
Nel caso del nazionalismo (sebbene lo stesso non si possa
dire sempre di altri movimenti) l'effettiva formulazione delle

142
i<lee o dell'idea, il problema di chi abbia detto o scritto con pre-
cisione questa o quellia cosa, non ha poi tanta importanza. L'idea
chiave è, comunque, cosi semplice e agevole che chiunque può
concepirla in qualsiasi momento, il che spiega in parte perché il
nazionalismo può sostenere che il na21ionalismo è sempre naturale.
(Juel che importa è se le condizioni di vita sono tali da far si che
l'idea sembri irresistibile piu che, come avviene in molte altre si-
1ua21ioni, assurda.
A questo punto val la pena di dire qualcosa sul ruolo della
rnmunicazione nella diffusione generale dell'idea nazionalista. Que-
sto tema gioca una parte di primo piano nell'analisi del nazionali-
smo di almeno un noto scrittore 2 • Ma la formulazione che in
genere si dà del legame tra nazionalismo e servizi di comunicazione
moderni è piuttosto fuorviante, in quanto produce l'impressione
che una data idea (il nazionalismo) si trovi li come per caso, e che
quindi la parola stampata, il transistor e altri mezzi di comunica-
zione aiutano questa nozione a raggiungere un pubblico sparso
in lontane valli ed isolati villaggi ed accampamenti, un pubblico che
in un'epoca non benedetta dai mass media non ne sarebbe mai ve-
nuto a conoscenza.
Questa che abbiamo accennata è nel complesso una maniera
erronea di vedere la questione. I mezzi di comunicazione di massa
non trasmettono un'idea che è stata casualmente immessa nei loro
circufoi. Quel che è stato immesso nei loro circuiti conta ben poco:
sono i media stessi, la diffusione e l'importanza dell'astratta, cen-
tralizzata, standardizzata comunicazione dell'uno-a-molti che gene-
rano di per sé, automaticamente, l'idea di nazionalismo nella sua
essenza piu profonda, senza alcun riguardo per quel che in parti-
colare viene inserito negli specifici messaggi trasmessi. Il messag-
gio piu importante e persistente è generato dal mezzo stesso, dal
ruolo che tali mezzi hanno acquisito nella vita moderna.
Il senso piu intimo del messaggio è che il linguaggio e
lo stile delle trasmissioni sono importanti, che soltanto chi può
capirli, o può acquisire tale comprensione, è incluso in una· comu-
nità morale e economica, mentre chi non li capisce e non può ca-
pirli, ne è escluso. Tutto questo è lampante e deriva dalla diffu.
sione e dal ruolo commerciale della comunicazione di massa in que-
sto tipo di società. Quel che viene effettivamente detto ha poca
importanza.
2 K.W. Deutsch, Nationalism and Social Communication, New York, 1966.

143
La maniera in cui le condizioni sono cambiate. trasformando
un'idea che un tempo era stravagante in un'idea irresistibile e
apparentemente ovvia, può essere meglio indicata ricordando le
parole cruciali scritte da Kedourie a conclusione di un suo saggio:
« L'unico criterio suscettibile di pubblico appoggio è di vedere se
i nuovi governanti siano meno corrotti e ayidi, o piu giusti e bene-
voli, o se non ci sia il benché minimo cambiamento, ma se sempli-
cemente la corruzione, l'avidità e la tirannia abbiano trovato vittime
diverse da quelle dei governanti passati» ·(E. Kedourie, Nationa-
lism, p. 140).
Il quesito che il profes-sor Kedourie si pone con tanta eloquen-
za è per la verità lo stesso che il tipico cittadino di una società
agricola si porrebbe, se una mattina sentisse che il pascià locale
è stato rovesciato e sostituito da un altro nuovo. Se, a quel punto,
sua moglie osasse chiedergli quale lingua parla tra le pareti di ~a
sua il nuovo pascià, se l'arabo, il turco, il persiano, il francesé o
l'inglese, il ,povero cittadino le lancerebbe un'ansiosa occhiata do-
mandandosi come farebbe ad affrontare tutte le nuove difficoltà
se, nel contempo, sua moglie fosse uscita completamente di senno.
Probabilmente la manderebbe in un santuario che si è specializzato
nella cura di aberrazioni mentali acute.
H quesito proposto da Kedourie aveva certamente senso in socie-
tà in cui il governo da un lato, e l'economia e la società dall'altro,
erano distinti, in cui la continuità culturale too le due cose non era
di nessuna rilevanza, e dove, come la citazione chiaramente implica,
si può sperare nel migliore dei casi in un governo giusto e benevolo,
ma non in un governo affidabile, partecipativo e rappresentativo.
(Queste nostre aspirazioni sono dunque totalmente illusorie?) Ma
qualcosa di diverso dalla semplice diffusione su larga scafa delle
parole di oscuri scribacchini europei deve essere accaduto per
trasformare la domanda della moglie in questione, un tempo pale-
semente insensata, nella domanda che oggi è predominante nella
mente di quasi tutti. E qualcosa è effettivamente accaduto. L'eco-
nomia è oggi tale da richiedere una costante e precisa comuni-
cazione tra tutti quelli che hanno par-te in essa, e tra costoro
e il governo, mentre il mantenimento della infrastruttura educativa
e culturale è diventato uno dei compiti centrali del governo. La
lingua che il nuovo pascià parlava in casa, una volta del tutto
priva di rilevanza, è ora il segno cruciale capace di indicare chi
il nuovo potere favorirà e chi invece sarà escluso.
144
In un successivo libro, Nationalism in Asia and Africa (1970)
Kedourie pone sul dominio coloniale europeo del mondo quesiti
che sono, del tutto a buon diritto, totalmente e significativamente
diversi dal quesito avanzato alla fine di Nationalism. Egli com-
menta a lungo il rifiuto dei conquistatori europei di accettare come
eguali quei membri delle popolazioni conquistate che avevano
acquisito le qualifiche e le capacità necess,arie, e trova evidente-
mente nel loro esclusivismo la spiegazione almeno parziale del per-
ché il predominio europeo ha prodotto la reazione nazionalista che
in effetti ha stimolato. Non risulta del tutto chiaro se questa sia una
critica o semplicemente una diagnosi neutrale, pur essendo difficile
non avvertire la presenza del primo elemento; se cosf, sembrereb-
be- ora affiorare una domanda sui governanti che non riguarda sol-
tanto la loro benevolenza e la rapacità!
La nuova domanda è se chi governa abbia la volontà e la
capacità di dirigere una società mobile, una società in cui gover-
nanti e governati possano fondersi e formare un continuo cultu-
rale. Questa è, a parer mio, la domanda cruciale che nelle condizioni
del ·mondo moderno ci si deve necessariamente porre a proposito
di tutti i governanti, a complemento della precedente domanda che
viene di fatto in gran parte adombrata dalla nuova. Ma senza que-
ste speciali condizioni moderne perché il loro esclusivismo dovreb-
be essere un demerito o una· debolezza? Alcuni dominatori del
passato (romani e greci) possono essersi mostrati a volte aperti e
ricettivi (anche se è difficile credere che i romani usassero correre
per il mondo ad offrire la libera cittadinanza romana ad ogni re-
gione appena conquistata); ma molti altri si comportarono diver-
samente senza subirne necessariamente un danno. Anzi, nelle
condizioni tradizionali, la facile identificabilità di chi comandava
e il loro isolamento dovettero rivelarsi spesso un w.ntaggio impor-
tante, fautore di stabilità. I mamelucchi non trassero alcun bene-
ficio come classe, quando contrassero matrimoni misti con i ceti
mercantili. Perché questa tendenza all'esclusivismo poté diventare
all'improvviso tanto disastrosa e provocare una simile virulenta,
diffusa e comune reazione?
Lo stesso Kedourie ci offre la r1sposta: « Non si può negare
il fatto .che l'Europa è stata l'origine e il centro di profonde agita-
zioni radicali che sono andate diffondendosi nel mondo intero a
ondate sempre piu vaste, e seminando disordini e violenza nelle
società tradizionali dell'Asia e dell'Africa, sia che queste società

145
avessero o meno sperimentato direttamente il dominio europeo ...
polverizzazione delle società tradizionali, esplosione di economie
autosufficienti ... ».
Se si completa questo resoconto, da cui difficilmente si può
dissentire, con il chiedersi quale tipo di nuova riorganizzazione
sia possibile, dati i metodi produttivi moderni e la società che li
comporta, a11ora, a mio parere, si arriva a formulare una risposta
in cui il nazionalismo moderno appare qualcosa piu di un accidente
ideologico, piu del frutto di un puro risentimento; qualcosa che,
nella sua forma generale se non nei dettagli, dimostra di essere una
necessità.
Vale forse la pena di dare un breve elenco, certamente in-
completo, delle false teorie sul nazionalismo:
1. È un fenomeno naturale e ovvio, che si autogenera\ Se
non c'è, l'assenza è sicuramente dovuta ad una vigorosa reprbs-
sione.
2. È una conseguenza artificiosa di idee che non c'è mai stato
bisogno di formulare, e la sua comparsa è dovuta ad un increscioso
accidente. La vita politica, anche in società industriali, potrebbe
benissimo farne a meno.
3. La teoria dell'« indirizzo sbagliato», favorita dal marxi-
smo: proprio come i musulmani sciiti estremisti sostengono che
l'arcangelo Gabriele ha fatto uno sbaglio consegnando il messaggio
a Maometto mentre doveva darlo ad AH, cosi i marxisti sostanzial-
mente amano pensare che lo spirito della storia, o la coscienza
umana, ha commesso un errore madornale. Il messaggio di risveglio
era destinato alle classi, ma per qualche terribile disguido postale
è stato consegnato alle nazioni. È ora necessario che gli attivisti
rivoluzionari convincano l'errato destinatario a passare il messaggio,
e lo zelo ch'esso genera, al legittimo, designato destinatario. Il
rifiuto di entrambi i destinatari, il legittimo e l'usurpatore, di sod-
disfare questa richiesta provoca grande irritazione negli attivisti.
4. Le divinità delle tenebre: il nazionalismo è il riemergere
delle forze ataviche del sangue o del suolo. Quest'opinione è spesso
condivisa sia da chi ama sia da chi odia il nazionalismo. I primi
pensano che queste forze oscure sono portatrici di vita, gli altri
di barbarie. Di fatto l'uomo dell'età del nazionalismo non è né
piu buono né piu cattivo degli uomini di altre età. Anzi c'è qualche
leggera prova a favore della seconda ipotesi. I suoi crimini non sono

146
maggiori di quellri di uomini di altre epoche; sono forse piu vistosi
proprio perché sono diventati piu scioccanti, e perché sono ese-
guiti con mezzi tecnologici piu potenti.
Nessuna di queste teorie è neppur lontanamente sostenibile.

Chi è per Norimberga?

Uno studioso convinto che la storia ideologica o dottrinale


del nazionalismo sia in larga misura irrilevante per la compren-
sione del fenomeno stesso non dovrebbe forse indulgere alle di-
scussioni sulla sua ascendenza intellettuale. Se non c'è una ascen-
denza dottrinale degna d'essere discussa, perché dovremmo esami-
nare chi figura e chi non figura nella sua genealogia? Alcune osser-
vazioni sono, tuttavia, quasi rese d'obbligo dall'autorevole reso-
conto di Kedourie sulle sue origini ideali.
A parte la strana implicita assoluzione di Hegel, quel che
sembra sia imbarazzante oltre che ingiusto è l'incriminazione di
Kant. Certo il concetto di autodeterminazione è assolutamente
centrale al pensiero kantiano. Il problema principale di Kant era
la convalida (e la delimitazione) della nostra conoscenza sia scien-
tifica sia morale. Il principale espediente filosofico che Kant impie-
ga per raggiungere questo fine è l'affermazione che i nostri prindpi
guida conoscitivi e morali si autogenerano, in un processo inevita-
bile. E poiché non c'è nessuna autorità o convalida ultima che si
possa trovare all'esterno, bisogna dunque che essa sia all'interno.
Questo è il nucleo centrale del pensiero kantiano. L'autorità
dei principi che sono alla base della nostra vita sta nel fatto che
il nostro intelletto ha necessariamente una data struttura che ine-
vitabilmente li genera. Il che ci dà, tra le altre cose, un'etica del-
l'imparzialità, e anche la giustificata speranza di trovare nella na-
tura regolarità se112a eccezioni. Un'etica ordinata e una scienza
ordinata sono cosi, entrambe, garantite. Il fatto che la struttura del
nostro intelletto sia data e rigida ci libera dal timore che queste
liasi della scienza ·e della morale possano essere alla mercè del ca-
priccio, che possano tra-sformarsi in sabbie mobili. Pur avendo esse
il proprio fondamento soltanto in noi, tuttavia, grazie a questa
concezione, noi possiamo essere affidabili e fornire un terreno
sicuro. Il fatto che siamo noi, o piuttosto che è ciascuno di noi
individualmente (sia pur nel rispetto reciproco) che assume la

I •I/
responsabilità di questi prindpi, libera Kant dal timore di una re-
gressione che ripugnava sia al logico sia al protestante che erano
in lui: se l'autorità e la giustificazione fossero fuori di noi (per
elevate che siano), come: potrebbe tale autorità essere a sua volta
giustificata?
L'autorità del sé, non influenzabile dal capriccio, ultima ed
assoluta, arresta la regressione. Impedisce lo scandalo, intollerabil-
mente ripugnante sia al logico sia al moralista presenti in Kant, di
accettare una qualche autorità esterna, per quanto elevata: lo scan-
dalo dell'eteronomia, come egli stesso lo chiamava, che è l'antitesi
dell'autodeterminazione. Contemporaneamente la fortunata rigidità
del sé rende la sua autorità affidabile e utilizzabile.
Questa è l'essenza della filosofia kantiana, l'immagine c'\n-
tenuta nel suo concetto di autodeterminazione. Quale nesso, ~e
non puramente verbale, ha dunque l'autodeterminazione kantiana
con l'autodeterminazione delle nazioni, che tanto interessa i na-
zionalisti? Nessuno. Per Kant è la natura umana individuale ad
essere realmente sovrana, - e il trasferimento ad essa della so-
vranità costitui la sua rivoluzione copernican:;i; - e la natuta
umana è universale e identica in tutti gli uomini. È l'universale
che sta nell'uomo ciò che egli riverisce, non lo specifico e sicu-
ramente non il culturalmente specifico. In una simile filosofia non
c'è posto per la mistica della particolarità culturale. Di fatto c'è
difficilmente posto per la cultura in senso antropologico. L'iden-
tità e la dignità della persona sono per· Kant radicate nella sua
universale umanità, o, piti generalmente, nella sua razionalità, e
non nella sua specificità etnica o culturale. È difficile pensare ad
uno scrittore le cui idee forniscano meno conforto ai nazionalisti.
Al contrario: l'identificazione kantiana dell'uomo con ciò che
di razionale e di universale c'è in lui, la sua tipica avversione
persistente e meticolosa a basare tutte le cose importanti sul pu-
ramente contingente, storico o specifico, fanno di Kant il mo-
dello stesso di quell'etica dell'Illuminismo che passa per esangue,
cosmopolita, emaciata, e che i nazionalisti romantici respingevano
e detestavano tanto. Al suo posto collocavano con entusiasmo un
impegno piti terreno, sfacciatamente parziale e specifico, in favore
del sangue, del suolo o della cultur-a.
Questo punto riveste un interesse generale. Kant è davvero
l'ultima persona cui si potrebbe imputare di aver contribuito col
suo pensiero al nazionalismo. Tale accusa non è semplicemente
un errore, ma scaturisce da qualcosa di piti profondo che merita

148
d'essere rilevato. È vero che Kant avvertiva un acuto bisogno di
fondare i nostri principali valori sulle idee, su qualcosa di meno
fragile, di. meno contingente, di meno terreno della pura tradi-
zione che incidentalmente prevale in questo o quel paese. Tutta
la sua strategia filosofica riflette questo bisogno, e l'acutezza con
cui tale bisogno era sentito. E Kant pensava di poterlo soddi-
sfare invocando la struttura universale della ragione umana.
Dal punto di vista di un tradizionalismo cripto-romantico che
respinge con disprezzo tale ricerca di una base esterna, « razio-
nale » per le cose della vita, che· desidera insegnare all'uomo ad
accontentarsi dei limiti della prassi concreta, ad accettare il con-
tingente della storia e a trattenersi dal cercare l'illusorio conforto
e s6stegno di idee astratte, estranee, Kant è senz'altro una figura
molto negativa. Egli era al di là di ogni dubbio un « razionali-
sta » nel senso peggiorativo in cui Michael Oakeshott usa il ter-
mine, e Kedourie nel suo Nationalism in Asia and Africa sembra
condurre la discussione entro questa cornice generale. In altre pa-
role, Kant appartiene certamente al filone prometeico del pensiero
europeo,· giunto forse al suo apogeo nel XVIII secolc, che lotta
per rubare il fuoco divino e che non si accontenta degli occasio-
nali, fortuiti compromessi contenuti nelle tradizioni specifiche.
Kant esprime nella maniera piu semplice e chiara il suo profondo
disprezzo per simili atteggiamenti che permettono all'uomo di sen-
tirsi soddisfatto delle basi puramente storiche e contingenti.
L'insistenza di Kant sull'autodeterminazione individuale co-
me la sola morale genuinamente valida non era né ostinata né ro-
mantica. Era, al contrario, il disperato tentativo di salvaguardare
una genuina, obiettiva, vincolante etica (e conoscenza) universale.
Kant accettava la .tesi humiana che necessità e universalità non si
potevano semplicemente trovare nei dati empirici; dunque, egli
ragionava, non possono che essere radicate nella struttura inelut-
tabilmente imposta della ragione individuale. Chiaramente, que-
sta soluzione, che era la migliore possibile, s'adeguava anche alla
perfezione ad un certo tipo di orgoglio individualista protestante
che disdegna di trovare un'autorità esterna a sé. Ma il motivo
principale per cui l'autorità andava cercata all'interno dell'indivi-
duo era semplicemente perché non poteva essere trovata da nes-
sun' altra parte.
Quando invocano l'astratto principio del nazionalismo con-
tro le tradizionali istituzioni locali che un tempo avevano funzio-
nato abbastanza bene, i nazionalisti sono davvero una specie di

149
compagni di Prometeo. Di fatto il nazionalismo è, per cosi dire,
un Giano bifronte. È prometeico nel suo disprezzo per il compro-
messo politico che ignora l'imperativo nazionalista. Ma è anche
anti-prometeico, quando vede la nazione e il suo sviluppo cultu-
rale come qualcosa che, proprio perché concreto e storicamente
specifico, giustamente calpesta la morale astratta degli internazio-
nalisti e degli umanisti.
Proprio in questo senso molto generico e soprattutto nega-
tivo, Kant e i nazionalisti si possono forse classificare insieme.
Né l'uno né gli altri sono, nel senso richiesto, rispettosi sosteni-
tori della tradizione. (0 piuttosto, il nazionalismo è opportuni-
sticamente selettivo nel rispetto che accorda alla tradizione.) Eh-
trambi sono, in questo senso largo, dei « razionalisti », che cer-
cano le basi della legittimità in qualcosa oltre quello che sem-
plicemente è.
I nazionalisti, di fatto, potrebbero benissimo acclamare i tra-
dizionalisti conservatori come fratelli, come loro associati nel ri-
pudiare il razionalismo astratto dell'Illuminismo, e molto spesso
lo fanno. Entrambi desiderano rispettare o riverire le realtà cbn-
crete della storia, e rifiutarsi di sottoporle al verdetto di una ra-
gione pan-umana astratta ed esangue. Lungi dall'applaudire la ri-
belle volontà individuale, i nazionalisti si compiacciono dei sen-
timenti di sottomissione o d'inserimento in una entità continua
piu grande, piu persistente e piu legittima dell'isolato sé. In ma-
niera curiosa Kedourie non solo attribuisce al nazionalismo una
teoria di ostinata autodeterminazione, ma riconosce anche (erro-
neamente a mio avviso) il successo storico di un tale nazionali-
smo. Una teoria è scaturita dalla testa di alcuni filosofi, e coloro
che ad essa si sono convertiti sono riuscici con la pura volontà
ad imporre la teoria ad un'umanità infelice! Questa netta svolta
nel giudizio di Kedourie, che inizialmente fa qualche concessione
alle circostanze sociali che hanno favorito il nazionalismo, farebbe
sembrare il suo successo un vero e proprio trionfo della volontà.
Sta di fatto, a mio avviso, che i conservatori o i nazionalisti
scelgono parti diverse del concreto come loro riferimento: nel
primo caso le istituzioni continue, e nell'altro le comunità, la lin-
gua, la razza o un'altra nozione che si presumono continue. Ma
non è questo un disaccordo sul particolare piu che sul principio?
Questa affinità dell'atteggiamento di fondo non prova, natural-
mente, che nessuna di queste due posizioni sia necessariamente er-
rata. Chiedo soltanto di dimostrare che il senso che un uomo ha

150
della realtà storica concreta sia la trahison des clercs di un nitro
uomo. Come dobbiamo scegliere i nostri realisti?
Non tutti coloro che respingono una data posizione (tradi-
zionalismo) per questo si assomigliano necessariamente sotto ogni
altro aspetto. Sbaglia chi pensa il contrario, e questa deduzione
erronea, rafforzata dall'uso dell'omonimo termine « autodetermi-
nazione», sembra essere alla base dell'accusa fatta a Kant. Kant
parlava si di autodeterminazione (autonomia), ma parlava anche,
e molto, dello status sintetico a priori delle nostre categorie. ~
storicamente incontrovertibile che nessuna bomba sia mai stata lan-
ciata in nome della teoria kantiana dello status a priori delle ca-
tegorie. Ma la stessa identica cosa vale per le sue idee sulla auto-
determinazione. Se mai connessione esiste tra Kant e il naziona-
lismo, allora il nazionalismo è una reazione a Kant e non una
sua proliferazione.

Una nazione, uno Stato

Il sentimento nazionalista è profondamente offeso dalle vio-


lazioni del principio nazionalista della coincidenza di Stato e na-
zione; ma non è offeso (in misura eguale) da tutti i vari tipi di
violazione. È assai piu intensamente offeso dalla divergenza et-
nica tra governanti e governati. Come diceva Lord Acton: « Co-
minciò dunque l'epoca in cui la norma era semplicemente che le
nazioni non fossero governate da stranieri. Il potere legittima-
mente ottenuto, ed esercitato con moderazione, fu dichiarato non
valido » 3 •
Si noti che Acton parla di un'epoca che comincia, mentre per
i nazionalisti essa era sempre stata presente in forma latente e re-
pressa. Ma quando si arriva alla non-corrispondenza aritmetica tra
nazione e Stato, l'offesa è maggiore piu se lo Stato è fatto, per
cosi dire, di troppo pochi che di troppi cittadini della stessa cul-
tura. Una popolazione culturalmente omogenea che non ha nes-
suno Stato suo proprio si sente profondamente lesa. (I suoi mem-
bri sono obbligati a vivere in uno Stato, o in Stati, retti da gruppi
diversi e estranei.) Un gruppo che, invece, ha piu di uno Stato
associato con la sua cultura, pur essendo anche qui tecnicamente

3 Citato in NationaJism, its meaning and history, di Hans Kohn, Princcton,


1955, pp. 122-123.

I'> I
violato il principio nazionale, ha meno motivi di lagnanza; salvo
forse in circostanze speciali. Quali sono queste circostanze?
La maggioranza dei neozelandesi e la maggioranza dei citta-
dini del Regno Unito sono cosf culturalmente continue che, senza
ombra di dubbio, le due unità non si sarebbero mai separate, se
fossero state geograficamente contigue. -La distanza ha reso l'ef-
fettiva sovranità della Nuova Zelanda conveniente e imperativa, e
la separazione non provoca risentimento in nessuno, nonostante
la violazione tecnica del principio nazionale. iE perché no? Ci 50no
arabi che deplorano la mancata unità degli arabi, sebbene gli
arabi dei diversi paesi differiscano culturalmente gli uni dagli altJ::!
assai piu degli inglesi dai neozelandesi. L'ovvia risposta sembra'
essere che il rango internazionale e la posizione generale degli in-
glesi e dei neozelandesi .non risentono granché del fatto di non
presentarsi al mondo come una sola unità. In effetti la cosa non
ha il benché minimo peso, mentre gli svantaggi dell'assetto alter-
nativo sarebbero considerevoli. Per contrasto, si può sostenere
che la forza politica degli arabi, dei latino-americani 4,. e degli ita-
liani e dei tedeschi dell'epoca precedente la loro unificazione riel
XIX secolo, abbia effettivamente risentito della frammentazione
dei relativi tetti politici.
Questa particolare violazione del principio nazionale, il caso
di « una nazione-molti Stati», è tuttavia, senza dubbio, la meno
settica, la meno irritante di tutte le violazioni possibili. Gli osta-
coli che si oppongono alla sua correzione sono evidenti e certa-
mente non da poco. Se una data nazione è felicemente dotata di
n Stati, ne consegue rigorosamente che la gloriosa unificazione
della nazione significherà la diminuzione del numero dei suoi primi
ministri, capi di stato maggiore, presidenti di accademia, mana-
ger, capitani di squadre calcistiche, e cosi via, di un fattore di n.
Per ogni persona che occupa un posto di questo tipo dopo l'uni~
ficazione, ci saranno n - l che lo avranno perso. In prospettiva
tutti questi n - l saranno danneggi!ati dall'unificazione, anche se
la nazione nel suo complesso ne trarrà vantaggio.
Chiaramente la persona abbastanza fortunata da mantenere
o acquisire il posto in questione sarà ora il poeta laureato, il di-
rettore del teatro nazionale e simili, di qualcosa di piu grande,
piu glorioso, piu dotato di risorse di prima. Ciononostante, anche
4 La continua compiacenza dei latino-americani di fronte a questa situazione
è vigorosamente invocata contro la nostra teoria da José Merquior in Politics o/
transition, in Government and Opposition, XVI, 1981, n. 2, p. 230.

152
se c'è una differenza in meglio ad essere il capo di tanti uomm1
piuttosto che di pochi, tale differenza non è cosf drastica come
tra l'essere un capo, non importa di quanti, e non esserlo affatto.
Pur considerando l'effetto dell'illusione che può aver incoraggiato
assai piu d'uno dei pochi a sperare di diventare un capo dei tanti
quando sarà arrivato il momento, resta il fatto che, tutto som-
mato, l'opposizione razionale alla unificazione deve essere consi-
derevole. L'unificazione riesce, comunque, soltanto in quei casi in
cui gli svantaggi esterni della frammentazione sono molto grandi
e visibili, in cui coloro che ne soffrono sanno far prevalere i pro-
pri interessi contro quelli di coloro che hanno tutto da perdere
nella molteplice diminuzione dei posti politici; e quando, infine,
i nuovi leader dell'unità maggiore diventano in qualche modo
capaci di imporsi sugli altri, con la forza o con il fascino politico.
X. Conclusione

Un libro come questo che discute di un argomento semplice


e ben definito rischia tuttavia (o forse tanto piu) di essere frain-
teso e travisato. I tentativi fatti in precedenti occasioni di pre-
sentare versioni diverse e piu semplici del tema mi hanno con-
vinto della realtà del pericolo. Da un lato i contorni stessi sem-
plici e ben definiti della posizione possono condurre il lettore ad
aggiungervi per associazione idee proprie, a prescindere dall'inten-
zione dell'autore. Dall'altro, ogni posizione nuova (e spero viva-
mente che questa sia tale) può essere articolata solo se prima sia
stata tranquillamente costruita la struttura entro cui inserirla. A
mio avviso non si può fare nessuna affermazione originale sem-
plicemente ricorrendo alle carte già esistenti nel mazzo delle espres-
sioni che è in uso. Il mazzo è stato troppo spesso rimescolato, e
tutte le combinazioni possibili che offriva sono state fatte piu
volte in precedenza. Un contributo nuovo all'argomento è dun-
que possibile solo ridrsegnando un mazzo che permetta al suo
interno nuove combinazioni. Fare questo in maniera graduale e
manifesta è un'operazione assai pedante e noiosa. Erigere alla luce
del sole una nuova impalcatura è tollerabile in campo matema-
tico, ma non nella prosa ordinaria. Per fare una buona presenta-
zione è necessario sciogliere senza chiasso le consuete associa-
zioni, crearne delle nuove sulla base dei principi che diventano
evidenti dal contesto, finché non sia stato finalmente completato
il contesto entro cui si possa fare un'affermazione che sia sem-
plice, senza essere una banale ripetizione della vecchia saggezza.

Quello che non si dice


Soltanto gli altri possono giudicare se sono riuscito in questo
tentativo. Ma l'esperienza mi ha insegnato che di rado uno riesce

155
completamente in una simile impresa. Voglio dunque elencare al-
cune affermazioni che non sono state né fotte né ritenute necessa-
rie per le idee proposte.
Non rientra nel mio intento negare che l'umanità in tutti i
tempi è vissuta in gruppi. Al contrario, gli uomini sono -sempre vis-
suti in gruppi. Di solito tali gruppi persistevano nel tempo. Uno
dei fattori importanti di questa persistenza era la lealtà che gli
uomini sentivano per questi gruppi, e il fatto che si identificava-
no con essi. Questo elemento della vita umana non aveva nesso
alcuno con la ricerca di un tipo specifico di economia. Si trattava,
naturalmente, non dell'unico fattore che contribuiva a perpetuare
questi gruppi, ma di uno tra i tanti. Se si chiama, genericamente,
questo fattore « patriottismo », allora non è nelle mie intenzioni
negare che un certo grado di tale patriottismo sia veramente una
parte perenne della vita umana. (Quanto importante -sia ri,spetto
alle altre forze è qualcosa che non è necessario tentare di deci-
dere qui.)
Quello che si afferma è che il nazionalismo è una specie tutta
particolare di patriottismo, una specie che diventa pervasiva e do-
minante solo in certe condizioni sociali, che di fatto prevalgono nel
mondo moderno e da nessun'altra parte. Il nazionalismo come for-
ma di patriottismo si distingue per alcuni tratti molto importanti:
le unità che questo tipo di patriottismo, cioè il nazionalismo, favo-
risce con la sua lealtà, sono culturalmente omogenee, basate su una
cultura che cerca in tutti i modi di diventare una cultura superiore
(letterata); esse sono abbastanza grandi da alimentare la speran-
za che siano in grado di sostenere un sistema educativo, capace di
provvedere al mantenimento di una cultura letterata; sono scarsa-
mente fornite di sotto-gruppi interni rigidi; la loro popolazione
è anonima, fluida e mobile, e non ha bisogno di intermediari; gli
individui appartengono a queste unità direttamente, in virtu del
loro stile culturale e non in virtu di un'appartenenza a sotto-grup-
pi inseriti uno nell'altro. La omogeneità, l'istruzione, l'anonimità
sono i tratti chiave.
Non si afferma che lo sciovinismo culturale fosse generalmen-
te assente dal mondo pre-industriale, ma si afferma solo che non
vestiva panni politici moderni o che non aveva aspirazioni politiche
moderne. Non si nega che il mondo agricolo avesse occasionalmen-
te prodotto unità che potevano assomigliare ad un moderno Stato
nazionale; solo che il mondo agricolo poteva farlo occasionalmente,

156
me?tre il mondo moderno è costretto a farlo nella maggioranza dei
casi.
Non si afferma che, anche nel mondo moderno, il naziona-
lismo sia la sola forza operante, o una forza irresistibile. Non lo è.
Talvolta viene sconfitto da quakhe altra forza o da altro interesse,
o dall'inerzia.
Non si nega che talvolta esista una corteccia di strutture pre-
industriali e di sentimento nazionale. Una nazione tribale può esse-
re, per un periodo, tribale all'interno e nazionale all'esterno. Non
è in effetti difficile pensare a un paio di evidenti casi del genere,
per esempio i somali e i curdi. Ma oggi un uomo può dichiarare
di appartenere ad una di queste unità nazionali semplicemente in
virtu della propria cultura e non ha bisogno di rivelare la propria
appartenenza ad un sotto-gruppo che funga da mediatore (e in defi-
nitiva non ha bisogno neppure di averlo). Non si afferma che la
presente argomentazione possa spiegare perché alcuni nazionalismi,
in particolare quelli del periodo di Hitler e di Mussolini, siano di-
ventati tanto virulenti. Essa pretende soltanto di spiegare perché
il nazionalismo è emerso ed ha conosciuto una diffusione cosi
vasta.
Tutte queste smentite non sono un'assicurazione contro even-
tuali esempi al contrario che avrebbero, nel contempo, lo scopo
di ridurre tacitamente il contenuto della tesi centrale fino in so-
stanza a smentirla. Sono soltanto il riconoscimento che in un mon-
do complesso, al macrolivello delle istituzioni e dei gruppi, le gene-
ralizzazioni senza eccezione sono di rado, se pure, possibili. Il che
non impedisce che le tendenze globali, come il nazionalismo, siano
cospicue, o anche sociologicamente spiegabili.

Sommario

In questo campq come in alcuni altri, una volta descritto con


precisione il fenomeno che ci interessa, arriviamo quasi a spiegarlo
correttamente. (Forse possiamo descrivere le cose soltanto quando
le abbiamo già capite.) Ma consideriamo la storia del principio na-
zionale; o consideriamo due carte etnografiche, una disegnata pri-
ma dell'epoca nazionalista, e l'altra dopo che il principio del nazio-
nalismo aveva compiuto gran parte della sua opera.
La prima carta assomiglia a un quadro di Kokoschka. La pro-
fusione dei diversi punti di colore è tale che non è possibile indi-

157
viduare nei dettagli nessun disegno preciso, anche se il quadro nel
suo complesso ne ha effettivamente uno. Una grande diversità e
pluralità e complessità caratterizza ogni singola parte del tutto: i
minuscoli gruppi sociali, che sono gli atomi di cui il quadro si com-
pone, hanno molteplici rapporti, complessi ed ambigui, con le nu-
merose culture; alcuni attraverso la lingua, altri attraverso la fede
predominante, altri ancora attraverso una variante di questa fede
o una serie di pratiche, altri infine attraverso la lealtà ad un tipo
di gestione, ecc. Quando si arriva alla figurazione del sistema poli-
tico, la complessità non è meno grande che nella sfera della cul-
tura. L'obbedienza mirata a un fine e in un determinato contesto
non è necessariamente la stessa dell'obbedienza per qualche altro
fine o in qualche altro periodo.
Ora osserviamo invece la carta etnografica e politica di un'area
del mondo moderno. Ci ricorda non Kokoschka ma, diciamo, Mo-
digliani. C'è pochissimo chiaroscuro; le superfici molto ben defini-
te sono chiaramente separate le une dalle altre, non ci sono dubbi
dove una comincia e l'altra finisce, c'è poca ambiguità o sovrappo-
sizione, se pure c'è. :Bassando dalla carta alla realtà raffigurata, ve-
diamo che la stragrande parte dell'autorità politica è stata concen-
trata nelle mani di un solo tipo di istituzione, uno Stato centraliz-
zato e ragionevolmente esteso. In generale ciascuno Stato domina,
salvaguarda, e si identifica con, un solo tipo di cultura, un solo
stile di comunicazione, che prevalgono entro i suoi confini e che
dipendono per la loro perpetuazione da un sistema educativo cen-
tralizzato, controllato e spesso, in realtà, gestito dallo Stato in que-
stione, che monopolizza la cultura legittima quasi come monopo-
lizza la violenza legitt,ima, o forse ancora di piu.
E quando osserviamo la società controllata da questo tipo di
Stato, vediamo anche perché le cose devono essere proprio cosL La
sua economia dipende dalla mobilità e dalla comunicazione tra gli
individui, ad un livello che può essere raggiunto soltanto se que-
sti individui sono stati socializzati e inseriti in una cultura supe-
riore, anzi nella stessa cultura superiore, che impone requisiti pre-
cisi, i quali non possono essere soddisfatti dai vecchi sistemi che
demandavano alle sub-comunità locali il compito di preparare gli
uomini addestrandoli, per cosi dire, sul campo, come se la loro
istruzione fosse parte del normale mestiere di vivere. Questi requi-
siti possono essere garantiti soltanto da un sistema educativo abba-
stanza monolitico. Inoltre, i cotnpiti economici posti a questi in-
dividui non permettono loro di essere insieme soldati e cittadini

158
di minuscole comunità locali; essi devono delegare tali attività in
modo da poter svolgere il loro lavoro.
L'economia ha dunque bisogno sia del nuovo tipo di cultura
centrale sia dello Stato centrale; la cultura ha bisogno dello Stato;
lo Stato, probabilmente, ha bisogno di un marchio culturale omoge-
neo per il suo gregge, in una situazione in cui non può contare su
sotto-gruppi, in larga misura erosi, sia per proteggere i suoi cittadi-
ni sia per infondere loro quel minimo di entusiasmo morale e di
identificazione sociale senza cui la vita sociale diventa molto diffi-
cile. È la cultura non la comunità che detta le norme piu profon-
de, cosf come sono. Insomma, il reciproco rapporto tra cultura
moderna e Stato è qualcosa di assolutamente nuovo, e scaturisce,
inevitabilmente, dalle esigenze di una economia moderna.
Quel che abbiamo inteso affermare è molto semplice. Una so-
cietà produttrice di cibo era soprattutto una società che permette-
va ad alcuni uomini di non essere produttori di cibo, ma che, tutta-
via (salvo le comunità parassite), obbligava la maggioranza degli
uomini a rimanere tali. È la società industriale che è riuscita a
liberarsi da questo bisogno.
La società industriale ha spinto la divisione del lavoro a livel-
li nuovi, prima mai sperimentati, ma, ancor piu importante, ha
dato vita a un tipo nuovo di divisione del lavoro: una divisione del
lavoro che esige dagli uomini in essa coinvolti di esser pronti a pas-
sare da una occupazione ad un'altra, anche nell'arco della vita del
singolo, e certamente da generazione a generazione. Per far questo
gli uomini della società industriale hanno bisogno di una cultura
comune, di una cultura superiore, letterata e sofisticata. Il nuovo
ordine li obbliga a saper comunicare al di fuori di ogni contesto e
con precisione con tutti i nuovi arrivati, in effimeri contatti faccia
a faccia, ma anche attraverso mezzi di comunicazione astratti. Tut-
to questo, - mobilità, comunicazione, dimensioni dovute all'affi-
namento della specializzazione, - imposto all'ordine industriale
dalla sua ansia di ricchezza e di crescita, obbliga le sue unità socia-
li ad essere ampie e pur culturalmente omogenee. Il mantenimento
di questo tipo di cultura inevitabilmente superiore (perché lettera-
ta) esige la protezione di uno Stato, di un ente o meglio di un
gruppo di enti centralizzati, in grado di imporre l'ordine, di accu-
mulare e dispensare le risorse che sono necessarie sia per soste-
nere una cultura superiore sia per assicurarne la diffusione tra tut-
ta la popolazione. Un'impresa questa inconcepibile, e mai tenta-
ta, nel mondo pre-industriale.

159
Le culture superiori dell'età industriale differiscono da quelle
dell'ordine agricolo sotto molti aspetti, importanti e vistosi. Le
culture superiori della società agricola erano una realizzazione mi-
noritaria, perseguita da specialisti privilegiati, e si distinguevano
dalle culture popolari maggioritarie, frammentarie e non codifica-
te, che cercavano ostinatamente di dirigere e dominare. Esse deter-
minavano un ceto intellettuale raramente legato ad una singola uni-
tà politica o a un settore di popolazione linguisticamente delimitato.
Al contrario tendevano e si sforzavano di essere trans-etniche e
trans-politiche. Molto spesso usavano un idioma morto o arcaico
e non si curavano minimamente di collegarlo in qualche modo con
il linguaggio della vita economica e quotidiana. La minoranza nu-
merica e il predominio politico che le distinguevano erano insiti
nella loro stessa natura; e probabilmente insito nella natura stessa
della società agricola era il fatto che la sua maggioranza fosse costi-
tuita da produttori di cibo esclusi sia dal potere sia dalla cultura
superiore. Le culture superiori della società agricola erano legate a
una fede e a una Chiesa piuttosto che a uno Stato e ad una cul-
tura generalizzata. In Cina una cultura superiore legata piu a
un'etica e ad una burocrazia statale che a una fede e a una Chie-
sa era forse un fenomeno atipico, e sotto questo aspetto, ma sotto
questo aspetto soltanto, anticipava la moderna connessione tra Sta-
to e cultura. Laggiu la cultura superiore coesisteva, e continua a
coesistere, con una varietà di lingue parlate.
Per contrasto, una cultura superiore industriale non è piu
legata - quale che sia la sua storia - a una fede o a una Chie-
sa. Il suo mantenimento sembra richiedere le risorse di uno Stato
che sia altrettanto esteso della società, piuttosto che, semplicemen-
te, le risorse di una Chiesa sovrapposta ad essa. Un'economia orien-
tata verso la crescita e perciò dipendente dal rinnovamento cono-
scitivo non può legare seriamente il suo meccanismo culturale (di
cui ha assolutamente bisogno) a qualche fede dottrinaria che diven-
ta rapidamente obsoleta e spesso ridicola.
La cultura ha dunque bisogno di essere sostenuta come cultu-
ra e non come portatrice di una fede, o sua associata di poco con-
to. La società può venerare, ed in effetti venera, se stessa o la pro-
pria cultura direttamente e non, come sosteneva Durkheim, attra-
verso l'opaco mezzo della religione. La transizione da un tipo di
cultura superiore ad un altro è visibile dall'esterno come l'avvento
del nazionalis'mo. Ma, quale che sia la verità su questa complessa
ed importante questione, l'emergere del mondo industriale fu un

160
fenomeno intimamente collegato ad un protestantesimo che, guar-
da caso, possedeva alcuni dei tratti principali che avrebbero carat-
terizzato il nuovo mondo in via di formazione, e generato anche
il nazionalismo. L'accento sull'istruzione e lo scritturalismo, l'uni-
tarismo senza sacerdoti che abolisce il monopolio del sacro, e l'in-
dividualismo che fa di ciascun uomo il proprio sacerdote e la pro-
pria coscienza ·senza dover ricorrere ai servizi rituali degli altri:
tutto questo adombra una società di massa anonima, individuali-
stica, abbastanza non-strutturata, in cui prevale un accesso relati-
vamente eguale a una cultura comune, in cui la cultura ha le sue
norme affidate ad una scrittura accessibile a tutti,' piu che date
in custodia a specialisti privilegiati. L'eguale accesso a un Dio testi-
moniato in scritture aperte a tutti spianava la via ad un eguale ac-
cesso ad una cultura superiore. Il saper leggere e scrivere, l'istru-
zione, non è piu una specializzazione, ma una condizione prelimi-
nare di tutte le specializzazioni, in una società in cui ognuno è
uno specialista. In una società del genere la prima lealtà dell'indi-
viduo è verso il proprio mezzo d'istruzione e quindi verso il protet-
tore politico di tale mezzo. L'eguale accesso dei credenti a Dio di-
venta infine l'eguale accesso dei non-credenti all'istruzione e alla
cultura.
Tale è il mondo delle culture superiori sostenute da uno Sta-
to moderno, pervasive e omogenee, entro cui c'è relativamente scar-
sa ,attribuzione di status e molta mobilità, e che presuppone una
di~fusa padronanza di una cultura superiore comune e sofisticata.
C'è una profonda ironia nel celebre resoconto di Max Weber sulle
origini di questo mondo: esso nacque perché alcuni individui pre-
sero molto seriamente la loro professione e si creò un mondo in
cui la rigida attribuzione delle professioni è tramontata, dove le
specializzazioni abbondano ma restano temporanee e opzionali, sen-
za richiedere alcun impegno definitivo, e dove la parte della edu-
cazione o della formazione di ciascuno, quella piu importante e
veicolo d'identità, non è la singola specializzazione individuale, ma
le capacità generiche comuni, derivanti dalla cultura superiore co-
mune che definisce la «nazione». Tale cultura/nazione diventa
allora e soltanto allora l'unità sociale naturale e non può normal-
mente sopravvivere senza la propria corazza politica, lo Stato.

l{,I
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164
Indice dei nomi

Acton John E., lord, 15,1. Hume David, 24-27.


AH, 146. Huxley Aidous, 128.
Andreski S., 17.
Ibn Khaildun, 87 n.
Bernstein Basil, 38.
Bromlej Ju. V., 66 n.
Kant Immanud, 4, 11, 24-26, 147-
15'1.
Cartesio, 25. Keddie N., 87 n.
Cechov Anton, 83. Kedour-ie Ehle, 45, 123 n., 124 n.,
Chamisso Ada:1bert von, 9. 141, 144, 145, 147, 149, 150.
Chase J.H., 58. Kohn Hans, 151 n.
Colonna Fianny, 77 n. Kokoschloa Osoar, 157, 158.
Comte Auguste, 130.
Lewis Ioan, 97 n.
Deursch K.W., 143 n. Loone Eero, 131 n.
Dore Ronald, 33, 48 n.
Durkheim EmHe, }1, 64--66, 160.
MacFarlane A•J.an, 105 n.
Mack Smith D., 140 n.
Engds F11iedrich, 104, 130 n., 140. Maometto, 83, 146.
Marx Karl, 34, 103, 104, 107, 130
Ferhat Abbas, 84. n., 140.
Fr-azer J,ames, 130. Miaz21ini Giuseppe, 140 n.
Merquior José, 152 n.
Gellner Ernest, 87 n., Ul n. Modig,ltani Amedeo, 158.
Genghiz Khan, 76. MussoMni Benito, 4, 157.
Goody Jack, 33 n.
Nairn Tom, 110 n., 138 n.
Hadl John A., 105 n. Nkrumah Kwame, 94.
Hanson A.H., 140 n. Nossiter T.J., 140 n.
Hegel G.W:F., 8, 11, 55, 147.
Heiberg Ma11ianne, 95 n. Oakeshott Michael, 149.
Hirschman Albert O., 105 n.
Hitler Adolf, 157.
Hobsbawm Er-ic, 140 n. P.1amenatz John, 113-116.
Holmes O. WendeH, 83. Platone, 18, 22.
Hopkins Keith, 19 n. Po1anyi Karl, 130.

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Renan Emest, 61 n. TocquevHle Alexis de, 107.
Revel J.F., 134. Trevor-Roper Hugh, 121.
Roberts Hugh, 95 n.
Rokbn Stein, 140 n. Veblen Thorstein, 42.

Weber Max, 5, 6, 23-25, 47, 104,


Slanski Rudolf, 107. 118, 161.
Smith Adam, 28, 29. W oodburn J,ames, 131.

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