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Limes - L'Ucraina tra noi e Putin

Limes,

ISBN: 9788888240848

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Sommario

Copertina
Frontespizio

Editoriale - LO SPECCHIO UCRAINO

PARTE I – TERRA DI FRONTIERA


LA MATRICE SOVIETICA DELLO STATO UCRAINO – A. Roccucci
2014, MORIRE PER L’EUROPA – O. Pachlovska
GLI OLIGARCHI ALLA FIERA DELL’EST – F. Scaglione
LA BANCAROTTA UCRAINA È DIETRO L’ANGOLO – G.P. Caselli
PRENDI LA CRIMEA E PERDI SOUTH STREAM – M. Paolini
VOCI DA MAJDAN E DINTORNI – V. Fesenko, V. Omel’čenko, R.
Lyžyčko, J. Mirošnyčenko
TRIDENTE CONTRO FALCE E MARTELLO: GLI USI DELLA STORIA
NELL’UCRAINA POST-SOVIETICA – S.A. Bellezza (in appendice: TRE
IDEE DI UCRAINA – D. Tabačnyk, O. Tjahnybok e A. Sadovyj)
I GUARDIANI DI PIAZZA INDIPENDENZA – R. Caruso
CRONACA DI UNA RIVOLUZIONE IMPROBABILE – S. Cantone
LA PARTITA DEGLI ULTRAS – A. Luchetta
UNITÀ, INDIPENDENZA, DIALOGO: L’APPELLO DELLE CHIESE
UCRAINE – S. Merlo
QUANDO ODESSA PARLAVA ITALIANO – A. Ferrari
CRIMEA, FARO RUSSO SUL MEDITERRANEO – A. Ferrari e G. Cella
DIARIO DI CRIMEA – A. Cassieri

PARTE II – DOVE ARRIVA LA RUSSIA?


LA CRIMEA È RUSSIA – V.V. Putin
PROMEMORIA PER L’OCCIDENTE: LA RUSSIA È TORNATA – F.
Luk’janov
NOI RUSSI E I PERICOLI DI UN’UCRAINA SCIOVINISTA E
VIOLENTA – E. Prosvirnin
LA LEGGE DEL PIÙ FORTE – L. Bellodi

PARTE III – CORIANDOLI D'OCCIDENTE (E NON


SOLO)
FOMENTA E DOMINA – D. Fabbri
MORIRE PER KIEV? – A. Politi
ANCHE BERLINO HA PERSO A KIEV – G. Dottori
MAJDAN VISTA DA VARSAVIA – O. Osica
COSA CI GUADAGNA LA CINA IN CRIMEA – E. Hulsman-Knoll

AUTORI
LA STORIA IN CARTE – a cura di Edoardo Boria

Colophon
Lo specchio ucraino

1.N elle crisi ci sveliamo per quel che siamo e non per quel che
vorremmo essere. Vale anche per gli attori geopolitici. Il test dell’Ucraina,
al quale si sono sottoposti russi, americani ed europei, ha prodotto un esito
negativo per Mosca, positivo per Washington, catastrofico per l’Unione
Europea. Bilancio molto provvisorio, da riverificare nel futuro prossimo.
Eppure ineludibile, se vogliamo intendere il senso di una partita la cui
prima posta è la ridefinizione della sempre mobile frontiera fra impero
russo e spazio euroatlantico. Vediamo.
La Russia ha riportato a casa la Crimea con la gloriosa Sebastopoli
(carta a colori 1). Premio di consolazione rispetto alla perdita del pur
relativo controllo su Kiev, al gelo con gli Stati Uniti e alla crisi di coppia
con il partner tedesco. Soprattutto, Mosca sta già pagando il pedaggio
economico della brillante operazione militare sulle sponde del Mar Nero:
fuga di capitali, rublo infragilito, incertezza sui progetti di sviluppo
dell’interdipendenza con il mercato energetico europeo – che ne sarà di
South Stream? (carta a colori 2) – scetticismo sull’Unione Eurasiatica,
versione soft della parziale riconquista dello spazio ex sovietico. La sola
manutenzione della Crimea, con le infrastrutture necessarie a renderla
autonoma dall’Ucraina e con i russi locali che si aspettano di essere
foraggiati dalla vecchia/nuova patria – senza contare l’inquieta minoranza
tatara islamica, esposta al contagio jihadista – costerà al Cremlino almeno
20 miliardi di dollari in tre anni. Mentre concelebrava la riannessione della
penisola, il primo ministro Dmitrij Medvedev avvertiva: «Tutto questo
adesso sarà il nostro mal di testa»1.
L’America ha stoppato l’ambizione di Putin di rinverdire la caratura
globale della potenza russa, basata sulla sua maestria tattica più che sulle
risorse strategiche del paese. Dopo averne subìto la verve scacchistica in
Siria e sul dossier iraniano, constatata con disgusto l’abilità manovriera di
Mosca nel vasto mondo che mal tollera la presunzione occidentale di
dettare l’agenda globale (gruppo Brics) e persino in ambito Nato (intesa
con Berlino, gioiello della geopolitica putiniana), Washington è passata al
contrattacco. Cavalcando «Piazza Europa» (Jevromajdan), che per mesi ha
incarnato la rivolta del popolo ucraino vessato da un regime ipercorrotto,
Obama ha costretto Putin a riconcentrarsi sul suo cortile di casa, a
sovraesporsi sotto il profilo propagandistico – non il suo forte – e militare,
risorsa che Mosca tende a sovrastimare, almeno quanto i cantori
dell’«Europa civile» la sottovalutano. Tutto pur di scacciare l’incubo che
un giorno lo scenario di «Piazza Europa» si riproduca dalle parti della
Piazza Rossa.
Quanto a noi europei, ci siamo confermati pallide, velleitarie comparse.
Se è possibile che ai tempi supplementari Putin spunti un pareggio e
Obama veda per conseguenza ridimensionato il suo successo, pare invece
improbabile per i soci dell’Unione Europea, specie per noi italiani, risalire
la corrente. La «famiglia» comunitaria si è dispersa fra due estremi: chi
considera la stabilità della Russia un bene di tutti, per il quale conviene
pagare quasi ogni prezzo, anche perché acquistiamo il 29% del nostro gas
a Mosca, la metà del quale ci giunge via Ucraina (carta 1); e chi nella
contesa per Kiev vorrebbe vederla risucchiata dal vortice alla sua frontiera
occidentale, per disintegrarsi come l’Unione Sovietica – ciò che peraltro
porrebbe i nostalgici del roll-back di fronte alle conseguenze dei propri
desideri. Non solo nordici versus mediterranei, centrorientali versus
occidentali, con i tedeschi impegnati, senza successo, a stemperare le
cacofonie di orchestrali refrattari a eseguire lo stesso spartito. La
partizione taglia gli establishment nazionali al proprio interno, con il
mondo finanziario e industriale istintivamente conservatore, a salvaguardia
dei propri contratti e investimenti nel mercato russo, e il sempre più
irrilevante teatro politico a esibirsi in roboanti quanto vacue litanie su
democrazia e pace minacciati dall’orso russo, il cui unico effetto consiste
nel convincere gli ucraini della nostra ipocrisia e i russi della genialità di
Putin.
Di più: il caso ucraino ci ricorda che non siamo padroni della casa che
abitiamo. Continuiamo anzi a segmentarla, a dilatarne gli spazi contesi, a
invitarvi potenze esterne, formali e informali. Un dogma ci affratella: mai
assumerci la responsabilità di noi stessi. Non stupiamoci dunque
dell’elegante sintesi di Victoria Nuland, l’inviata di Obama a Jevromajdan:
«Unione Europea vaffanculo!»2.
L’effetto di lungo periodo della nostra inconsistenza, fin troppo evidente
nella battaglia per Kiev, è la balcanizzazione del Vecchio Continente. Più
intoniamo il rassicurante ritornello dell’integrazione comunitaria, più
contiamo nuove frontiere, informali o ufficiali, a ritagliare coriandoli
d’Europa. Le terre di nessuno, consegnate alle rivalità fra gruppi criminali
travestiti da politici e segnate da nazionalismi autistici, sono la cifra della
nostra stagione geopolitica. Questo continente in via di accentuata
frammentazione non minaccia a breve gli interessi americani, è tollerabile
(entro certi limiti) per i russi, ma è sempre meno rassicurante per gli
europei. La deriva balcanizzante può diventare esiziale per chi si trova nel
cuore dello scontro, dove i primattori della crisi recitano i rispettivi copioni
nella tranquilla (in)coscienza che a subirne le conseguenze non saranno
loro, semmai le cavie locali. In questo caso, gli aspiranti rivoluzionari di
Jevromajdan. I quali oggi debbono constatare che gli oligarchi restano a
galla, pronti a inaugurare la loro nuova stagione. Intanto il paese,
amputato della Crimea, è sull’orlo della bancarotta. Altre sub-Ucraine, da
Leopoli a Donec’k, riscoprono la propria soggettività. Nell’intero Donbas i
filorussi oscillano fra rivendicazioni super-autonomiste e tentazione
separatista, scontrandosi con i leader provvisori di Kiev, tanto consapevoli
del proprio ruolo da autodefinirsi kamikaze.
Dalla pancia di «Piazza Europa» sono intanto resuscitati gli agguerriti
eredi del filonazismo ucraino, i cultori del «genotipo nazionale»: russofobi,
polonofobi, antisemiti. Nella quasi indifferenza dell’Unione Europea che
nel 2000 sanzionò l’Austria per via di Haider – blando conservatore
appetto ai miliziani del Pravyj Sektor – e che negli ultimi anni ha
contemplato con sereno distacco tanto la pulsione grande-ungherese di
Orbán quanto i revival dei particolarismi xenofobi che punteggiano la
mappa del continente, non solo all’Est.
A più di vent’anni dalle guerre jugoslave, che avrebbero dovuto esporre
al mondo la virtù pacificante e ordinatrice dell’Europa unita, la contesa
ucraina ci inchioda al rango di quantità trascurabili. Spesso ignorate. In
alternativa, agite dagli americani o condizionate dai russi – nel caso
dell’Italia, le due cose insieme. Risultato: una rivoluzione avviata in nome
dei valori europei (quali?) si è scontrata con il cinismo, l’indifferenza e le
manipolazioni dei soci del club cui avrebbe inteso aderire, di fatto
indisponibili ad ammettere gli ucraini nel proprio salotto.
In cinque fotogrammi, ecco l’autoritratto di noi stessi come risulta dal
test ucraino.
A) L’Unione Europea non solo non è un soggetto geopolitico ma pesa
meno della somma dei suoi Stati membri e persino di molti di essi.
B) Quando in Europa la parola passa alle armi possiamo metter mano
solo alle armi della retorica e invocare la protezione dell’alleato
americano. Il quale non sbarcherà mai più in Normandia, essendo
concentrato su se stesso e, secondariamente, sulla sfida con la Cina. La
nostra rinuncia a rivendicare il diritto di codecisione in ciò che resta
dell’Alleanza Atlantica consente al partner principale di stabilire quali
siano i nostri interessi – meglio: la loro insussistenza.
C) Le percezioni europee della Russia sono diverse, spesso opposte, a
seconda della lontananza da Mosca – la russofilia ne è in genere
direttamente proporzionale – e della memoria storica. Solo chi è stato
occupato dai russi sente di conoscerli davvero.
D) La simpatia europea per l’America resta funzione della paura della
Russia.
E) La dipendenza strategica dalla pur riluttante Mamma America
significa che se ci smarchiamo da Washington dobbiamo pagare pedaggio,
mentre l’interdipendenza energetica con la Russia implica che se
sanzioniamo Mosca sanzioniamo noi stessi.
Per chi in Italia e in Europa conservasse qualche curiosità circa il
proprio immediato futuro sarà dunque utile indagare quali siano i progetti
di Mosca e di Washington per l’Ucraina e come essi incrocino le velleità
europee, soprattutto quelle esibite dai vicini di Kiev. Ma prima conviene
scandagliare l’epicentro del confronto. Perché solo considerando le
specifiche condizioni storico-geopolitiche dell’Ucraina e del suo intorno ci
renderemo conto di quanto costose – dunque improbabili – siano le
ambizioni di chi intende orientarne dall’esterno il destino e di quanto
scarse siano le risorse dei patrioti ucraini interessati alla sicurezza e al
benessere del proprio paese.

2. Come stabilisce l’etimologia del nome, l’Ucraina è terra di frontiera,


parte cospicua del liquido spazio storico fra impero russo e imperi europei
(in specie, il Commonwealth polacco-lituano, la monarchia asburgica, i
Reich germanici). Il dramma ucraino va dunque letto nel contesto di
quest’area a incerta pressione geopolitica, dove intere nazioni scompaiono
o riaffiorano per effetto della collisione fra le potenze che se la contendono.
È la facciata centrorientale del Vecchio Continente, dove oggi s’intersecano
i campi magnetici di Mosca, Washington e Berlino, incastonata fra Mar
Baltico e Mar Nero. La sua sostanza geopolitica varia a seconda
dell’osservatore e delle fasi storiche. Per il maresciallo Józef Piłsudski,
campione dell’indipendenza polacca fra le due guerre (carta a colori 3),
questo sarebbe dovuto diventare il perno dell’Intermarium, ambizioso
progetto di reinvenzione in veste allargata dell’Unione di Lublino, con i
cosacchi zaporoghi incarnati dai moderni ucraini, a forgiare un polo
antibolscevico. Nella proiezione imperiale russa, lo stesso spazio è invertito
e ridotto a corridoio di accesso alla Perednjaja Azija, l’Asia anteriore che è
la penisola europea vista con occhi di zar. Per chi lo ha abitato nell’ultimo
secolo, infine, questo è il teatro di contese sanguinose – le Bloodlands
narrate da Timothy Snyder, i mattatoi di Hitler e di Stalin3. Un «vuoto
geopolitico, poco più di un “intermezzo”, la cui assenza di unità effettiva
ha risucchiato le potenze circostanti in due guerre mondiali» (Andrew
Wilson)4.
Ancora oggi, il pendolo sembra oscillare fra la riabilitazione delle
marche eurorientali quali canali di comunicazione fra Russia e Vecchio
Continente e la loro ricaduta ad avamposto dello «scontro di civiltà» fra
universi incompatibili, impegnati a ridelimitare il reciproco confine in un
clima sovraccarico di ideologie un tempo universalistiche (comunismo
versus liberalismo) oggi autocentrate sul «carattere nazionale».
Per l’Ucraina, il guaio è che la linea di separazione Est-Ovest ne incide
il corpo vivo, slittando di qualche centinaio di chilometri a seconda del
vento geopolitico prevalente. Come l’insieme della nebulosa strategica cui
appartiene, anche la costellazione ucraina è modulabile in base al punto di
vista. Se ne arriva a discutere l’esistenza: per chi la scruta da Mosca entro
le classiche coordinate imperiali, l’Ucraina non risulta, siamo nella
«Piccola Russia», mentre per i patrioti di Kiev questa è l’orgogliosa patria
indipendente preconizzata quasi due secoli fa dal bardo nazionale, Taras
Ševčenko.
Scavando all’interno dello Stato ucraino, le partizioni concernono ad
esempio l’ambito georeligioso, dove la tradizione cristiana si confronta con
gli esiti agnostici o seccamente ateistici del settantennio sovietico.
Soprattutto, qui passa il crinale fra ortodossia e cattolicesimo. I greco-
cattolici, centrati sulla Galizia, tendono a identificarsi con il nazionalismo
antirusso e/o a rappresentarsi come custodi di un Québec ucraino in un
contesto prevalentemente russo (Mykola Riabčuk)5. A distinguersi sia dagli
ortodossi affiliati, con tonalità proprie, al patriarcato di Mosca, sia dai loro
maggioritari cugini, inquadrati nel patriarcato di Kiev – coetaneo
dell’Ucraina indipendente e dunque a essa consustanziale – sia infine dalla
Chiesa autocefala, sorta nel 1921.
La crisi in corso ha marcato le faglie etno-linguistiche, esaltate in
chiave identitaria dalle forze più estreme (carta a colori 4). Resta che la
popolazione si afferma per tre quarti ucraina, per meno di un quinto russa,
pur se questa peculiarissima tassonomia si svela spesso forzosa. Le esigue
minoranze bielorusse, moldave, ungheresi, romene, ceche, ebraiche,
greche, bulgare, tatare eccetera sono a rammentarci le sedimentazioni
multietniche di questa terra di frontiera.
Infine, Kiev è a un tempo culla della Russia eterna per la consolidata
mitografia moscovita e della nazione ucraina per la recente pedagogia
autoctona. Di qui la permanente vocazione all’instabilità che marca dal
1991 l’Ucraina indipendente, primo vero esperimento di Stato nazionale
che quelle terre abbiano conosciuto, fatte salve le oleografie protonazionali
a uso identitario che dipingono remote età dell’oro e il breve esperimento
repubblicano nel fuoco della guerra civile fra «bianchi» e «rossi». La
carenza di tradizione statuale induce una labile legittimità istituzionale. I
patrioti ucraini tendono a compensarla tramite l’ipertrofia nazionalistica. I
russi, fuori e talvolta dentro la nuova Ucraina, ricorrono invece alla
negazione dell’identità kievana, sussunta nella propria.
Se ne deduce che questo Stato ucraino può fiorire solo nella gestione
condivisa del potere fra le sue molte anime. Altrimenti si spacca a metà,
come nelle elezioni politiche (carta a colori 5) e nel giudizio su Jevromajdan
(grafico). Implode. La via dell’intesa è stata finora negletta o appena
accennata. Il percorso alternativo è iniziato con la secessione della Crimea.
In assenza di un compromesso fra tutti gli attori interni ed esterni coinvolti
nella crisi in corso, la decomposizione territoriale minaccia di estendersi a
macchia d’olio, lungo e attraverso la faglia che distingue le regioni
filorusse del Sud e dell’Est dall’«Ucraina doc» del Centro e dell’Ovest.
Bipartizione semplicistica ma efficace, anche perché corrente nei media
internazionali ed esasperata dalla propaganda russa.
Lo stigma geopolitico decisivo che complica la prognosi per il futuro
dell’odierno Stato ucraino deriva dalla sua matrice sovietica. Esso nasce il
1° dicembre 1991 battezzando internazionali le frontiere amministrative
della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, disegnate ed emendate da
Lenin, Stalin e Khruščëv. Al dittatore georgiano spetta fra l’altro la scelta
di annettervi nel 1945 la Galizia d’impronta cattolica, polacca e asburgica,
mai prima inscritta nel perimetro imperiale russo, assurta a epicentro
dell’ucrainismo più antimoscovita e antipolacco, della breve ma intensa
cooperazione fra milizie nazionaliste ucraine e «liberatori» tedeschi
durante la seconda guerra mondiale. Al suo successore capitò nel 1954 di
staccare la Crimea – che Caterina II aveva riconvertito a fine Settecento da
provincia tatara ottomana ad avamposto mediterraneo russo – dalla
Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa per assegnarla
all’omologa sezione ucraina dello spazio bolscevico, pare sotto l’effetto di
due bicchieri di scadente cognac.
La compresenza sotto il medesimo tetto dei poli galiziano e crimeano,
geograficamente e culturalmente opposti, ha complicato la maturazione di
un’identità nazionale condivisa a sostegno dello Stato indipendente. Né era
immaginabile che Kiev, appena emancipata dall’impero sovietico, si
dedicasse a inventare un mini-impero ucraino-russo, o addirittura una
variante creola delle sue culture originarie.
Mentre negli anni Novanta gli ucraini erano impegnati a distillare la
formula identitaria della nuova repubblica, tale da calibrare le esigenze del
patriottismo e le suggestioni euro-atlantiche con la dipendenza economica
e geopolitica dall’ingombrante vicino moscovita, nel corpo del paese si
diffondeva la tabe oligarchica. La repentina mutazione da antemurale
occidentale e mediterraneo dell’Urss in Stato indipendente aveva infatti
offerto alla nomenklatura comunista e ai suoi scaltri rampolli l’occasione
di arricchirsi a man salva, autoprivatizzando le maggiori industrie ucraine.
Di qui tre conseguenze, tuttora attualissime: il monopolio dei settori
economici chiave, detenuto da pochi speculatori rampanti; l’affermazione
di tali oligarchi come padroni non solo della ricchezza nazionale – cento
individui controllano l’80% del pil6 – ma anche della politica, in cui
dominano direttamente (come in passato la «principessa del gas» Julija
Tymošenko, poi lo stesso Viktor Janukovič, domani forse il re della
cioccolata Petro Porošenko) o attraverso loro marionette (al contrario
della Russia di Putin, dove sono abilitati a curare gli affari propri purché
non mettano il naso nelle stanze del Cremlino).
Jevromajdan è figlia naturale di questo scandalo quotidiano prima che
della vocazione europeista o della refrattarietà al revanscismo grande-
russo. È l’insofferenza per la «democrazia oligarchica»7 che dopo la
fallimentare «rivoluzione arancione» del 2004 ha scaldato le folle che lo
scorso inverno hanno gremito decine di piazze ucraine, financo in regioni
prevalentemente russofone e russofile, contro il presidente-oligarca Viktor
Janukovič. La sua retromarcia in extremis, quando il 28 novembre scorso a
Vilnius si è rifiutato di firmare il protocollo di associazione all’Unione
Europea – peraltro più che discutibile sotto il profilo economico – è stata la
miccia che ha prodotto l’esplosione spontanea di cui stiamo ancora
sperimentando gli effetti. Troppo evidente era poi il cedimento di Janukovič
alla pressione di Putin per prendere sul serio le ragioni pragmatiche del
suo rifiuto, ben presenti comunque al capo dell’attuale governo ad interim,
Arsenij Jacenjuk, che ha firmato l’accordo politico con Bruxelles ma non le
clausole economiche, poco rispettose dell’interesse nazionale ucraino.
Fatto è che quasi tutti a Kiev sono consapevoli che Bruxelles non è
un’alternativa alla dipendenza economica da Mosca. Al massimo, un
additivo. Senza il peloso sussidio del Cremlino, elargito fino alla fuga di
Janukovič, gli ucraini sarebbero «scomparsi nel nulla», come osserva la
direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, costretta
dalle contingenze geopolitiche a concedere un «prestito» da 14-18 miliardi
di dollari in cambio di improbabili riforme strutturali8. Ciò non esimerà i
futuri leader ucraini dal rinegoziare i vincoli economici con la Russia, che
nel frattempo ha provveduto a raddoppiare il prezzo del gas, finora ceduto
a condizioni parasovietiche.
Ingrandisci la carta dal sito di Limes
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3. «Le prospettive sono cattive. Sembra che le divergenze fra Est e
Ovest siano diventate troppo profonde per poter essere sanate. A un certo
punto è sembrato che i due mondi potessero vivere fianco a fianco; ma
evidentemente non è più così. In Russia si è tornati alla già decaduta
concezione della sicurezza in termini di territorio – più se ne possiede più si
è sicuri (…). Se l’Occidente cedesse a tutte le proposte russe ciò avrebbe
come risultato di metterlo, a scadenza più o meno breve, di fronte a una
nuova serie di esigenze»9.
A esprimersi così non è un odierno russofobo estone ma l’allora
viceministro degli Esteri sovietico, Maksim Litvinov, il 18 giugno 1946,
mentre in una soffocante giornata estiva brucia nel caminetto del suo
ufficio alcuni documenti segreti, avendo appreso che Stalin lo ha «dimesso»
per l’eccessiva disponibilità al compromesso con gli americani. A
raccogliere la sua confessione è il corrispondente della Cbs da Mosca, che
ne informa subito la propria diplomazia. Il testamento geopolitico di
Litvinov giunge così all’amministrazione Truman, che ne terrà gran conto
nel definire la strategia del contenimento destinata a soffocare la
superpotenza rivale.
Dopo l’annessione russa della Crimea, a Washington e in altre capitali
atlantiche il contenimento è tornato di moda, neanche fossimo ripiombati in
piena guerra fredda (carta a colori 6). In questo caso, l’effetto-verità della
crisi ci informa che nelle élite strategiche e nei media occidentali la
mentalità antirussa (già sinonimo di antirossa) succhiata con il latte per
mezzo secolo ha lasciato traccia di sé. Davvero l’Ucraina inaugura una
nuova guerra fredda, con Putin nei panni di Stalin e Obama/Truman
impegnato a disegnare il suo containment?
No. E non solo, come parrebbe ovvio ma non è, perché la storia non si
ripete e le analogie diacroniche care ai media e alla politologia servono
alla propaganda o alla carriera più che alla comprensione delle vicende in
corso. Per altri tre motivi.
A) Come sanno i lettori di Limes, la guerra fredda non è mai del tutto
finita perché la sua radice è geopolitica prima che ideologica. Per
l’America si tratta di garantirsi contro l’emergere di una potenza rivale in
Eurasia. Poco importa se comunista, buddhista o vegana. Per la Russia il
punto è di spingere la sua frontiera occidentale quanto più lontano da
Mosca, visto che dell’Alleanza Atlantica a guida statunitense continua a
non fidarsi. La guerra fredda non è un segmento di storia ma una curvatura
permanente della geopolitica contemporanea, con le sue crisi acute e i suoi
letarghi. La sua vicenda non si è consumata con il suicidio dell’Urss. Per
liquidare la partita con Mosca gli Stati Uniti avrebbero dovuto annichilirne
l’impero. Non sezionarlo, umiliandolo. Ma per questo sarebbero stati
chiamati a pagare un prezzo inconcepibile: gestire l’universo sovietico in
rovina, magari dopo un bombardamento atomico. Sicché la cenere della
guerra fredda continua a covare. La scintilla ucraina ne ha riacceso
qualche fiamma, per la gioia dei cremlinologi in pensione e dei tuttora
numerosi nostalgici dell’impero sovietico. Non solo russi.
B) Obama ha dedicato il suo doppio quadriennio a estricare l’America
dalle debilitanti guerre afghana e irachena. Non ha una strategia globale,
anche se il pivot to Asia indica una priorità esterna allo scenario europeo,
epicentro del confronto permanente con la Russia. Gli Stati Uniti non
hanno ancora deciso che cosa fare con la Cina, se neutralizzarla per vie
inclusive o allestendo una cintura di contenimento (ancora!) con i presunti
partner asiatici. Sono impegnati nel delicatissimo negoziato con l’Iran,
tentano di influenzare i rivolgimenti nel campo islamico senza finirci
dentro, allestiscono l’ennesima finta sul fronte israelo-palestinese mentre
cercano un modus vivendi con l’inaffidabile partner saudita e con
l’intrattabile fratello israeliano. Nel frattempo, continuano a tener vivo il
paradigma anti-terroristico con operazioni coperte. Figuriamoci se
possono concentrarsi su Putin. Stabilendo che la Russia resta solo «potenza
regionale»10, Obama ha voluto stroncare sul nascere la tentazione,
serpeggiante nel Congresso e in qualche angolo del suo governo – oltre che
nelle industrie atlantiche degli armamenti, nella Nato e nei partner della
«Nuova Europa», baltici in testa – di rianimare lo spettro dell’orso russo.
C) Est e Ovest, Mosca e Washington non sono più alfa e omega della
geopolitica globale. Il mondo cambia velocemente e rifiuta di schierarsi.
Non è tempo di alleanze, semmai di provvisori allineamenti. Amici e nemici
delle ex superpotenze hanno preso atto del modesto irradiamento della
Russia e del relativo ripiegamento dell’America post-guerra al terrorismo.
Sicché i nuovi aspiranti protagonisti della scena internazionale, dal Brasile
all’India e al Sudafrica, hanno evitato di schierarsi nella partita ucraina. A
molti europei, moltissimi russi e qualche americano Jevromajdan è apparso
uno spartiacque storico. Al resto del mondo, per nulla. La stessa Cina non
ha voluto condividere la linea russa, sia perché considera Mosca, nella
migliore ipotesi, un junior partner tattico, da attivare per estrarre qualche
vantaggio nel confronto strategico con gli Stati Uniti, sia perché qualsiasi
secessione, come quella provocata da Mosca in Crimea, è anatema per chi
si deve preoccupare di Taiwan, del Tibet e del Xinjiang.
Tuttavia, poiché dalla fine della guerra fredda Washington ha investito
in Ucraina ufficialmente cinque miliardi di dollari (più almeno altrettanti
informalmente) pur di impedire che tornasse sotto Mosca, Obama ha
profittato di Jevromajdan per ammortizzare l’investimento. Non sono state
necessarie speciali sollecitazioni dalla Casa Bianca per mobilitare la
diplomazia, le agenzie di intelligence e le ong domestiche o amiche (Open
Society di George Soros su tutte), quando è parso chiaro che il cavallo di
Putin a Kiev stava per essere travolto dalla protesta. Aiuti d’emergenza, tra
cui 300 mila razioni militari finite sul mercato nero gestito dalle
sanguisughe locali, supporto politico-diplomatico, finanziario e
propagandistico all’opposizione, minacce e lusinghe agli oligarchi pro
regime perché cambiassero bandiera (qui il successo pareva garantito
dall’evocazione dei loro conti esteri), infiltrazione d’intesa con servizi
amici e alleati tanto della polizia che delle milizie intervenute nella fase
decisiva della rivolta per rovesciare il regime e impedire che il
compromesso fra Janukovič e i ministri degli Esteri di Polonia, Francia e
Germania consentisse ai russi di cavarsela quasi gratis (carta a colori 7). In
questo modo Obama ha costretto sulla difensiva sia Putin, di cui ha
incassato con filosofia la peraltro inattesa contromossa in Crimea, sia
Merkel, che aveva ecceduto nelle proteste per il cellulare spiato
dall’intelligence Usa, si era illusa di riportare la Germania fra i
protagonisti della serie A globale e soprattutto non aveva rinunciato al
fidanzamento d’interesse con la Russia strutturato dai suoi predecessori
intorno all’interdipendenza energetica.
Resta la questione regina, cui Obama si rifiuta di rispondere. Chiarito
che gli americani non intendono morire per la Crimea e nemmeno per Kiev,
fino a quale linea rossa Putin sarebbe abilitato ad avanzare senza
incontrare la resistenza armata degli Stati Uniti e della Nato? Alcuni leader
europei teoricamente protetti dall’ombrello atlantico si chiedono se questa
frontiera esista davvero. Ha ragione Henry Kissinger quando riassume
l’approccio euroatlantico al test ucraino in una delle sue icastiche
sentenze: «Per l’Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una
politica; è un alibi per l’assenza di una politica»11.

4. Putin ha una geopolitica. Il suo obiettivo è opposto a quello di


Obama. Non accetta di essere relegato nel girone delle potenze regionali,
come un Brasile qualsiasi. Pretende un trattamento paritario da Stati Uniti
e Cina, con cui ambisce a riscrivere le regole del gioco internazionale. La
sua visione del mondo autoritaria, tradizionalista, anzi reazionaria, ne
avrebbe fatto a suo tempo un superiore emulo di Alessandro I, lo zar della
Santa Alleanza. L’inclinazione a trattare la diplomazia come partita di
scacchi, sposata ai limiti introiettati con l’educazione spionistica – la
fissazione sul dettaglio a scapito della percezione d’insieme e la pulsione a
immaginare quel che c’è dietro trascurando ciò che è palese – ne fa un
alieno nell’anomico universo contemporaneo. Nell’èra della finanza
selvaggia e dei fanatismi pseudoreligiosi, della latenza di regole condivise e
della delegittimazione della politica, nel pianeta senza registi ma con tanti
aspiranti mattatori che recitano a soggetto, i talenti del leader russo non
incidono come avrebbero potuto agli ordinati tempi del concerto delle
potenze o nella stessa guerra fredda. Il suo iperrealismo può rivelarsi
talvolta irrealistico. Ucraina docet. Alessandro arrivò a Parigi, Putin
difficilmente riprenderà Kiev.
Il test ucraino conferma poi che il capo della Russia non ha le risorse
delle sue ambizioni. L’obiettivo è recuperare le terre considerate russe,
imperiali o comunque incapaci di dotarsi di una propria statualità, per
inquadrarle insieme a Kazakistan, Bielorussia e altri spezzoni ex sovietici
nell’Unione Eurasiatica, ossia in un nuovo impero di Mosca. Con la lingua
russa quale esperanto imperiale e idioma degli affari (carta 2). Tale sfera di
super-influenza non sarebbe fine a se stessa, ma condizione per affermare il
diritto della Russia al rango di potenza globale. Nei primi anni del suo
mandato Putin puntava ad ottenerla per via diretta, negoziandola nel
contesto dell’inserimento della Federazione Russa quale polo indipendente
entro il quadro euro-atlantico, con l’adesione alla Nato e all’Unione
Europea. Trovò la porta sbarrata, da parte sia americana che europea.
L’allora presidente della Commissione, Romano Prodi, gli fece notare che
la Russia era troppo grande per entrare nella casa comunitaria. Fatto è che
la taglia demografica e quella economica sono insufficienti a garantirle un
trattamento paritario da americani e cinesi. Per tacere delle non
affascinanti memorie del bolscevismo che offuscano il marchio della Russia
post-sovietica non solo in Occidente e l’inchiodano a un deficit di soft
power.
Allo stesso tempo, il formidabile tesoro minerario, la panoplia nucleare,
ma anche la rispettabile forza convenzionale in via di rapida
modernizzazione, esibita con successo nell’operazione Crimea, insieme al
culto della storia, della cultura e della scienza russe, inducono Putin a non
accontentarsi del rango di potenza continentale, cui Obama continua a
condannarlo (carta a colori 8).
Il presidente della Russia è l’opposto del suo omologo americano anche
nel carattere. È un emotivo. Tende dunque alla sincerità anche quando
funzione e formazione glielo vieterebbero. Ascoltiamolo, mentre proclama
al Cremlino l’annessione della Crimea, scagliandosi contro gli occidentali
che l’hanno umiliato e offeso: «Quante volte ci hanno mentito, preso
decisioni alle nostre spalle, messo davanti al fatto compiuto! Questo è
accaduto con l’espansione della Nato all’Est, come pure con lo
spiegamento di infrastrutture militari alla nostra frontiera. Hanno
continuato a ripeterci la stessa cosa – «beh, questo non vi riguarda». Facile
a dirsi. (…) In breve, noi abbiamo ogni ragione per assumere che l’infame
politica del contenimento, condotta nel XVIII, XIX e XX secolo, continui
anche oggi. Loro (gli occidentali, n.d.r.) cercano costantemente di sbatterci
all’angolo perché abbiamo una posizione indipendente, perché la
manteniamo e perché chiamiamo le cose per quel che sono e non facciamo
gli ipocriti». Sicché il recupero della Crimea non è che la misurata reazione
al colpo di Stato «fascista» a Kiev – perché di questo si tratta, secondo
Putin: «La Russia si è trovata nella posizione di non potersi ritirare. Se tu
comprimi la molla fino al limite, ti scatterà indietro forte»12.
Dunque Putin la linea rossa ce l’ha. È per lui inaccettabile che
l’Ucraina, e con essa magari Georgia, Bielorussia e altri soggetti ex
sovietici seguano le orme di Estonia, Lettonia e Lituania, passando nella
formazione atlantica.
Per mantenere la pressione su Kiev, Putin usa tre leve. Anzitutto quella
economica e specialmente energetica, mettendo i «nuovi» leader ucraini –
definizione difficilmente applicabile ai favoriti delle elezioni presidenziali
previste per il 25 maggio, ovvero l’ex premier Julija Tymošenko e Petro
Porošenko, ministro sia di Juščenko che di Janukovič – di fronte al fatto che
il loro paese non ha futuro se strappa il cordone ombelicale che lo vincola
al mercato e al gas russo. Poi la minaccia militare: la Crimea è un
assaggio della determinazione del Cremlino a ricorrere alla forza e della
indisponibilità americana a contrastarla direttamente, sul campo. I costi
geopolitici ed economici dell’invasione dell’Ucraina centro-meridionale
sarebbero forse insostenibili. Ma escluderla è impossibile, se Mosca vuole
restare credibile. Infine, la mobilitazione contro i «golpisti» di Kiev dei
russi di Ucraina, parte del vasto esercito di russi etnici sparsi per
l’ecumene già sovietico, sui quali Putin ha aperto il suo paterno ombrello.
Venti milioni di «piedi rossi», che Mosca considera parte integrante della
demografia nazionale. Alla stregua di propri cittadini, la cui sicurezza va
garantita con ogni mezzo. Sotto questo profilo la Crimea può diventare un
modello.
Tutte armi a doppio taglio. Il pressing energetico su Kiev rafforza
nell’Unione Europea e soprattutto in America chi punta a ridurre
l’interdipendenza fra fornitore russo e consumatore europeo, persino
evocando la prossima surrogazione del metano di Gazprom con il gas
naturale liquefatto che gli Stati Uniti affermano di poterci vendere. Eppure
ci vorranno diversi anni prima che siano disponibili, su entrambe le sponde
dell’Atlantico, le infrastrutture necessarie a immettere il liquigas
nordamericano sul nostro mercato in quantità decenti, sempre che le
aziende statunitensi intendano privilegiarci rispetto al più lucroso mercato
asiatico. L’esibizione dei muscoli russi, poi, produce deterrenza su Kiev e
su altri vicini, ma servirà anche a legittimare il loro riarmo e, quel che più
conta, ad accelerare l’ammodernamento delle forze atlantiche. Nessuno
dimentica che l’Urss si è dissolta anche perché non ha retto la corsa alle
armi lanciata da Reagan. Quanto alla carta etnica, se presa sul serio
significa per Putin retrocedere dalla concezione imperiale della statualità
russa, fondata sul suo carattere multinazionale. Nazionalismo etnico e
imperialismo sono incompatibili. Se nel caso ucraino per il Cremlino era
forse scontato enfatizzare il dovere di soccorso verso i fratelli della Crimea,
lo slittamento dalla russità politica (rossijskaja) a quella etnica (russkaja)
come cifra della geopolitica putiniana è un incentivo alle robuste
componenti ultranazionaliste, financo razziste, radicate nella Russia
profonda. E che oggi approvano la performance crimeana del presidente
ma domani potrebbero rivoltarglisi contro per la presunta corrività verso
l’Occidente.

5. «Il crollo dell’Unione Sovietica che abbiamo vissuto negli ultimi


decenni del XX secolo non è solo la conclusione della storia settantennale
dell’Impero multinazionale comunista: è piuttosto l’atto finale della storia,
durata oltre quattro secoli, dello Stato multietnico della Russia»13. La
sentenza dello storico svizzero Andreas Kappeler, pronunciata subito dopo
l’estinzione dell’Urss, merita di essere riconsiderata alla luce del test
ucraino. In «Piazza Europa», all’originaria spinta anti-regime si è
sovrapposta una retorica violentemente russofoba, con i moskali
(dispregiativo ucraino per «moscovita», leggi «russo») nel mirino non solo
propagandistico di bande di attivisti armati, mirabilmente inquadrati in
formazioni paramilitari. Ancora, l’annessione russa della Crimea è stata
legittimata da Putin con la protezione dei russi etnici ovunque essi siano –
varrà anche per i tre milioni di russi d’America? – e salutata con enfasi dai
paradossali nostalgici hitleriani che circolano impunemente nella sfera
pubblica della Federazione. Inoltre, la risorgente questione tataro-islamica
in Crimea ha suscitato la solidarietà del consanguineo Tatarstan russo ma
anche della Turchia neo-ottomana e dei jihadisti globali. Molto sembra
indicare che la tesi di Kappeler possa svilupparsi nel senso più estremo.
Lo spazio già sovietico rischia di mutarsi in palestra di «nazionalismi
suicidi», per riprendere il termine con cui il 1° agosto 1991 a Kiev George
Bush padre, citando Lord Acton, ammonì gli ucraini in festa per
l’emancipazione dal giogo sovietico: «Il test più sicuro con il quale noi
giudichiamo se un paese è davvero libero è il grado di sicurezza goduto
dalle minoranze». In chiaro: «La libertà non è lo stesso dell’indipendenza.
Gli americani non appoggeranno coloro che bramano l’indipendenza per
rimpiazzare una lontana tirannia con un despotismo locale. Non aiuteranno
coloro che promuovono un nazionalismo suicida basato sull’odio etnico»14.
Diagnosi di Kappeler e ricetta di Bush formano la precondizione per
affrontare la crisi ucraina, prima che degeneri in guerra civile e/o in
intervento armato russo. Il traguardo di tappa è un compromesso che non
risolverà la partita ma ne stempererà i veleni. I termini generali dell’intesa
sono evidenti ai negoziatori russi e americani che dal primo minuto,
protetti dal velo delle reciproche propagande, sono impegnati a controllare
il potenziale esplosivo della crisi. Grosso modo si tratta di:
a) garantire l’indipendenza dell’Ucraina come Stato neutrale, con la
Crimea di fatto russa ma non riconosciuta per tale dagli occidentali e da
quasi tutto il resto del mondo, alla stregua di Estonia, Lettonia e Lituania
durante la guerra fredda;
b) incardinare Kiev nello spazio economico europeo, ma non in
alternativa al rapporto con quello russo ed eurasiatico, e soprattutto senza
alcun corollario geopolitico-militare (niente Nato, anche se non lo si vorrà
mettere nero su bianco);
c) aprire corpose linee di credito all’Ucraina, in particolare via Fondo
monetario e istituzioni europee, per impedirne il default, rinegoziando al
contempo prezzi e quantità dei flussi di idrocarburi russi in Ucraina e da
essa verso l’Europa, che il governo di Kiev si impegnerà a non taglieggiare
come finora accaduto, in cambio di un più morbido approccio di Gazprom
al mega-credito vantato nei suoi confronti;
d) riformare la costituzione in chiave federalistica, proteggendo i diritti
di tutte le minoranze, senza attribuire alle regioni quei poteri para-sovrani
che consentirebbero ad alcune di esse di seguire l’esempio della Crimea, e
salvaguardando la lingua russa pur non affiancandola su scala nazionale
al rango ufficiale dell’ucraino;
e) mettere al bando tutte le milizie armate, nella speranza che i prossimi
appuntamenti elettorali ridimensionino gli appetiti degli ultranazionalisti,
ben rappresentati nel governo provvisorio.
L’ultima parola spetta al popolo ucraino. Molti manifestanti di
Jevromajdan sono delusi. Vedono caos e miseria, più che l’ordine liberale,
la democrazia, il benessere agognato. Gli oligarchi non mollano, cambiano
d’abito. Resta la paura dell’intervento russo e della guerra civile. Normale
sindrome post-rivoluzionaria? Forse. Ma di normale qui non c’è altro.

1
Citato in A. MALASHENKO, «Will the Crimean Tatars Become Russia’s Headache?», Carnegie
Moscow Center, 3/4/2014, carnegie.ru/eurasiaoutlook/?fa=55220
2
Cfr. «Ukraine Crisis: Transcript of Leaked Nuland-Pyatt Call», Bbc News, 7/2/2014.
3
Cfr. T. SNYDER, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano 2011, Rizzoli.
4
A. WILSON, The Ukrainians. An Unexpected Nation, New Haven-London 2002, Yale University
Press, p. 289.
5
Ivi, p. 313.
6
Cfr. O. HOLOYDA, «Ukrainian Oligarchs and the «Family», a New Generation of Czars – or Hope
for the Middle Class?», Irex scholar research brief (agosto 2013).
7
La definizione è dell’analista (oggi diplomatico) polacco Slawomir Matuszak, nel suo studio «The
Oligarchic Democracy. The Influence of Business Groups on Ukrainian Politics», Osw paper n. 42,
Varsavia (settembre 2012).
8
Citata in «Ukraine’s Economy Would Have Collapsed without Russian Aid – IMF Chief», Ria-
Novosti, 3/4/2013.
9
C. HOTTELET, «Ultimes paroles de Maxim Litvinov», Bulletin B.e.i.p.i., supplemento al n. 78
dell’1-15/12/1952. Cfr. poi il telegramma di W. BEDELL SMITH (Mosca) a J. BYRNES, 21/1/1946,
Foreign Relations of the United States, 1946, vol. VI, pp. 763-765.
10
Citato in S. WILSON, «Obama Dismisses Russia as “Regional Power” Acting out of Weakness»,
The Washington Post, 25/3/2014.
11
H.A. KISSINGER, «How the Ukraine Crisis Ends», The Washington Post, 6/3/2014.
12
«Address by President of the Russian Federation», 18/3/2014, eng.kremlin.ru/news/6889
13
A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, Roma 2009, Edizioni Lavoro (2a ed.),
p. 3.
14
«Chicken Kiev Speech. Full text of President George H. Bush’s speech, later dubbed the “Chicken
Kiev Speech” by commentator William Safire, to a session of the Supreme Soviet of Ukraine, 1°
August 1991», en.wikisource.org/wiki/Chicken_Kiev_speech
L’UCRAINA TRA NOI E PUTIN

Parte I

Terra di frontiera
LA MATRICE SOVIETICA DELLO
STATO UCRAINO
L’analisi storico-geopolitica dell’Ucraina ne spiega la difficoltà a
configurare istituzioni nazionali in un contesto plurietnico e
plurilinguistico. Il marchio di Stalin nella delimitazione delle
frontiere dell’attuale repubblica. Il regionalismo come chiave di
lettura.
di Adriano ROCCUCCI

Qualche settimana prima che i presidenti di Russia, Ucraina e


Bielorussia si accordassero per firmare l’atto di scioglimento dell’Urss e
che alla fine di dicembre del 1991 la bandiera con la falce e il martello fosse
sostituita dal tricolore russo sulle guglie del Cremlino, mentre a Kiev
iniziava la storia dell’Ucraina sovrana e indipendente, i presidenti di Stati
Uniti e Unione Sovietica ebbero una conversazione telefonica che sembra
non avere perso la sua attualità: «[George Bush] passò al tema dell’Ucraina.
A lungo spiegò la sua posizione… M.S. [Mikhail Sergeevič Gorbačëv], a
sua volta, gli ripeteva la sua concezione: “L’indipendenza non è la
separazione”, e la separazione è “Jugoslavia” al quadrato, al decimo grado!
Bush era molto prudente, ha assicurato due volte che non avrebbe fatto
nulla che potesse mettere “Michael” [Gorbačëv] e il ‘Centro’ [il governo
dell’Unione Sovietica] in una situazione imbarazzante. Una volta ha perfino
detto: “Ostacolerebbe il processo di riunificazione dell’Unione”. Era
evidente (ha detto che avrebbe telefonato anche a El’cin) che lo
preoccupava particolarmente la possibilità di “processi violenti” a causa
della Crimea, del Donbas… L’accenno di M.S. a questo problema è stato
accompagnato dalla replica di Baker (lui, Scowcroft e Hewitt erano a dei
telefoni paralleli): Sì, sì, è molto pericoloso… Evidente: Baker è più libero
nei giudizi, meno soggetto alla pressione di lobbisti, più aperto! È finita con
Bush che ha augurato a Michael successo nell’opera molto difficile “della
riunificazione”»1.
Gli auguri che il presidente degli Stati Uniti, Bush senior, rivolse a
Gorbačëv in questa conversazione telefonica del 1° dicembre 1991, giorno
del referendum sull’indipendenza dell’Ucraina, non si sono probabilmente
ripetuti nella recente telefonata tra Barack Obama e Vladimir Putin. È
presumibile, però, che nel loro colloquio siano risuonati gli stessi temi del
dialogo sull’Ucraina tra i loro predecessori riportato nel diario del
principale consigliere di politica estera dell’ultimo presidente dell’Unione
Sovietica, Anatolij Černjaev: indipendenza e separazione, riunificazione,
Crimea, Donbas, rischi di «processi violenti».
Il reciproco e fitto rinvio tra presente e passato che caratterizza l’attuale
crisi ucraina è un nodo che non può essere eluso se ci si vuole misurare con
il non semplice compito di provare a comprendere la complessità del
processo in corso.

Verso la formazione di un’idea nazionale

L’avvento di una narrazione del passato ucraino di carattere patriottico a


partire dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo ha condotto alla
definizione di un canone di «nazionalizzazione della storia» di carattere
teleologico fondato sulla linearità della continuità storica della nazione
ucraina dalla cultura preistorica di Tripol’e fino alla nascita dello Stato
ucraino nel 1991. In tale paradigma il periodo sovietico rappresenta una
fase di notevole ambiguità: per alcuni rottura della linearità, per altri
elemento di continuità2.
La nascita dell’Ucraina non era un destino predeterminato della storia,
ma è stata il prodotto di processi e contingenze, quali si sono verificati
prevalentemente nel corso del Novecento. In questo senso l’esperienza
sovietica è stata l’officina che ha composto in un insieme geopolitico nuovo
quel soggetto che noi oggi conosciamo come Ucraina. La convergenza di
processi storici di più lungo periodo ha fornito i componenti che sono stati
assemblati per la realizzazione del manufatto, che ha assunto una forma
diversa dai disegni dei progettisti.
In seguito all’Unione di Lublino, che nel 1569 determinò la nascita del
Commonwealth polacco, le terre meridionali abitate da slavi orientali
ortodossi appartenenti alla Lituania, corrispondenti a una buona parte dei
territori dell’odierna Ucraina, si congiunsero alla Galizia, anch’essa
popolata da ortodossi, nell’ambito del Regno di Polonia. La formazione di
un insieme di terre abitate da slavi orientali ortodossi nel contesto polacco
e, insieme, l’avvio del processo di trasformazione della Moscovia in uno
Stato di carattere imperiale, costituirono la fine dell’universo medievale
della Rus’. Il mondo bizantino nell’ambito del Commonwealth acquisì una
connotazione linguistico-culturale polacca. In tale ambito si determinò una
frattura in seguito all’Unione di Brest (1596), che introdusse nel panorama
religioso un nuovo protagonista con la formazione di una Chiesa bizantina
unita alla sede romana. L’Unione di Brest fu percepita dai suoi oppositori
come un tentativo di eliminare la Chiesa ortodossa. Il fattore religioso
assunse un connotato geopolitico. A tale linea di divisione di carattere
religioso-confessionale si sovrappose una scomposizione di carattere
sociale, con l’ingresso nelle nuove terre orientali del regno di Polonia della
nobiltà polacca, che acquisì posizioni di dominio economico, mentre la
nobiltà slavo-orientale si polonizzava. Lungo tali fratture si configurò un
conflitto di carattere geopolitico che condusse alla secessione delle terre più
orientali abitate da cosacchi, rimasti fedeli all’ortodossia, che dapprima si
allearono con la Moscovia nel 1654, per essere poi assorbiti dallo Stato
russo, che estese i suoi possedimenti a ovest fino al Dnepr e alla città di
Kiev. L’Ucraina della riva sinistra del Dnepr entrava nell’orbita russa. Le
élite ucraine, più colte di quelle moscovite, iniziarono a svolgere la
funzione fondamentale di veicolare idee, conoscenze, saperi dell’universo
culturale europeo, che in ambito religioso e politico ebbero una rilevanza
decisiva per il mondo russo.
Negli ultimi decenni del XVIII secolo, dopo la conquista russa della
Crimea, le regioni costiere, che affacciano sul Mar di Azov e sul Mar Nero,
vennero colonizzate dall’impero degli zar: nasceva la Nuova Russia,
corrispondente all’attuale Ucraina meridionale, con capitale Odessa,
fondata alla fine del Settecento. Con le partizioni della Polonia nel 1772,
1793 e 1795 fu assegnata all’impero russo l’Ucraina di riva destra (regione
di Kiev, Volinia, Podolia), in cui il 10% della popolazione era costituito da
polacchi, soprattutto nobili. L’egemonia culturale e sociale polacca su
queste regioni durò per quasi tutto il XIX secolo. Come ha notato Timothy
Snyder, «questi territori della riva destra, dove generalmente la nobiltà era
polacca, furono assenti dalla nozione russa di “Ucraina” per buona parte
dell’Ottocento. Per i russi l’Ucraina era piuttosto la riva sinistra, assorbita
dall’impero nel 1667»3.
Il cambiamento di registro della politica nazionale nell’impero russo
dopo la guerra di Crimea e soprattutto dopo l’insurrezione polacca del
1863, con l’introduzione di politiche di russificazione, determinò la
formazione di un movimento nazionale ucraino nelle terre della riva sinistra
con centro a Kiev. I primi circoli culturali di orientamento patriottico erano
stati attivi tra il 1820 e il 1830 presso l’università di Kharkiv, dove era stata
per la prima volta elaborata l’idea di una connessione tra cultura ucraina e
terra ucraina. Nella seconda metà dell’Ottocento, con i decreti di Valuev
(1863), con cui si negava l’esistenza di una lingua ucraina, e di Ems (1876),
che proibiva la pubblicazione e l’importazione di libri in ucraino, si operava
la saldatura tra questione linguistica e questione nazionale che veniva a
caratterizzare la contrapposizione tra l’idea nazionale ucraina e quella russa.
Quest’ultima considerava tutti gli slavi orientali all’interno di un’unica
nazione russa, composta da grandi russi (i russi), piccoli russi (gli ucraini) e
russi bianchi (i bielorussi).
Tuttavia una moderna idea nazionale ucraina di contenuto geopolitico si
venne precisando nei territori che le partizioni della Polonia avevano
attribuito all’impero austriaco, ovvero nella Galizia orientale. Si trattava di
uno spazio in cui a una maggioranza contadina ucraina (nell’ultimo quarto
del XIX secolo, il 65%) facevano fronte le cospicue minoranze polacca
(22%) ed ebraica (12%). La politica imperiale aveva favorito lo sviluppo
della Chiesa greco-cattolica, ma in un contesto in cui l’egemonia culturale
polacca era ancora sensibile. Le celebrazioni dell’elevazione della sede
episcopale greco-cattolica di Leopoli, capitale della Galizia orientale, a sede
metropolitana nel 1808 furono in lingua polacca. La lealtà del clero greco-
cattolico alla cultura polacca cominciò a incrinarsi con la rivoluzione del
1848, quando si palesò la divergenza di interessi sociali tra la nobiltà
polacca e i fedeli, contadini ucraini.
La maturazione della coscienza nazionale ucraina, in cui la Chiesa
greco-cattolica giocò un ruolo di primo piano, avvenne in un contesto di
antagonismo crescente con i polacchi e condusse all’elaborazione attorno al
1890 dell’idea di una nazione ucraina divisa tra Austria e Russia che
aspirava legittimamente alla formazione di uno Stato nazionale. L’idea
nazionale fu elaborata secondo un paradigma populista che ebbe il suo
principale ispiratore nello storico dell’Università di Kiev Mykhajlo
Hruševs’kyj, stabilitosi a Leopoli nel 1894: i popoli sono gli attori della
storia ed è il popolo a essere l’elemento costitutivo della nazione; quindi
«se l’Ucraina era il suo popolo, uno Stato ucraino si sarebbe esteso ovunque
esso fosse»4.
L’impatto della Grande Guerra e degli eventi rivoluzionari del 1917 in
Russia sul quadrante ucraino condusse alla proclamazione e alla travagliata
esistenza di due formazioni statali ucraine: la Repubblica Popolare Ucraina
fondata a Kiev nel novembre del 1917 e definitivamente sbaragliata
dall’Armata rossa nel 1920, e la Repubblica Popolare dell’Ucraina
Occidentale con capitale Leopoli. Questa città, a maggioranza polacca
(52%), era considerata dalle classi dirigenti e dall’opinione pubblica della
nuova Polonia una città polacca cui Varsavia non avrebbe mai potuto
rinunciare. Lo Stato ucraino basato in Galizia, proclamato nell’ottobre
1918, fu liquidato dall’esercito polacco nell’aprile del 1919: si rafforzava la
convinzione tra gli ucraini galiziani che i polacchi fossero il principale
nemico dell’Ucraina. Alla Polonia, con la firma del trattato di Riga nel
marzo 1921, che metteva fine alla guerra russo-polacca, andavano peraltro
la Galizia e gran parte della Volinia.

Bolscevichi e Ucraina
La conseguenza più importante per la causa nazionale ucraina delle
trasformazioni avvenute tra il 1917 e il 1921 fu la nascita di una Repubblica
Socialista Sovietica d’Ucraina al momento della costituzione nel 1922 di un
nuovo Stato plurinazionale di carattere federale, l’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche (Urss). La nuova compagine statale organizzava il
territorio sulla base del principio nazionale, identificato su base linguistica,
come criterio di definizione delle repubbliche che formavano l’Unione (alla
sua fondazione esse erano Russia – a sua volta costituita come repubblica
federale – Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia). Seguirono le politiche di
indigenizzazione, volte a sostenere il gruppo etnico titolare delle varie
repubbliche, che hanno fatto parlare Terry Martin di «Soviet Affirmative
Action Empire»5. Il potere bolscevico, oltre a connettere il principio
nazionale a un territorio, favoriva anche la formazione di una classe
dirigente locale nonché la diffusione della cultura nazionale. Questa linea
politica venne interrotta da Stalin negli anni Trenta, quando anzi furono
lanciate campagne antinazionali nelle diverse repubbliche. In tutti questi
passaggi l’Ucraina ha avuto un ruolo centrale, «sia di per se stessa che
come perno della questione nazionale, nella storia sovietica in ciascuno dei
suoi tornanti decisivi»6.
Ingrandisci la carta dal sito di Limes
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L’attenzione alla questione ucraina da parte del centro sovietico
mostrava una certa ambivalenza. Da una parte si promuovevano identità e
protagonismo ucraini, dall’altro si davano segnali inequivocabili di segno
opposto, più in linea con la tradizione imperiale. Nel dicembre 1917 Lenin
e Stalin, allora commissario alle nazionalità, avevano deciso la prima
operazione militare del nuovo governo bolscevico proprio contro la
Repubblica Popolare Ucraina per contrastarne le spinte separatiste.
L’invasione avvenne a seguito di un ultimatum, dopo che un governo
fantoccio formato a Kharkiv ad opera di bolscevichi scappati da Kiev aveva
rivolto a Pietrogrado una richiesta di aiuto. L’operazione militare in Ucraina
segnò l’inizio della guerra civile e costituì anche la prima chiara
manifestazione della propensione imperiale del centro bolscevico.
L’architettura territoriale e istituzionale sovietica comportava la
valorizzazione dei confini interni tra le varie unità territoriali, sia perché
essi svolgevano la funzione delicata di delimitazione degli spazi etnici,
insita allo stesso sistema di organizzazione del territorio, sia perché essi
avevano potenzialmente la valenza di futuri confini interstatali, come si
sarebbe verificato al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel
1924 si ebbe un processo di revisione dei confini della Repubblica Ucraina,
in seguito alla richiesta del kraj del Caucaso settentrionale di espandersi ad
alcuni territori nella regione del Don appartenenti all’Ucraina. Una
commissione fu istituita dal Politbjuro. Alle motivazioni dei rappresentanti
del Caucaso settentrionale, che poggiavano su argomentazioni relative
all’orientamento economico della regione, i rappresentanti ucraini
replicavano con considerazioni sulla composizione etnica dei territori
contesi. Fu l’unico caso di revisione territoriale che si risolse con un
vantaggio a favore della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. I
leader ucraini a loro volta sollevarono la questione di zone all’interno delle
regioni di Voronež, Kursk e Brjansk in Russia e di Homel’ in Bielorussia,
dove la maggioranza della popolazione era ucraina, per le quali
richiedevano una revisione territoriale. Secondo il censimento del 1926
nella Repubblica Russa vivevano quasi otto milioni di ucraini. Il ricorso a
motivazioni etnografiche era ricorrente per i dirigenti ucraini. La questione
linguistica costituiva il perno delle argomentazioni a favore o contro la
richiesta degli ucraini, che ebbero una relativa e modesta soddisfazione con
l’acquisizione di soli tre distretti7. Nel febbraio 1929 una delegazione di
scrittori ucraini, a Mosca per un festival della cultura ucraina, durante un
incontro con Stalin sollevò la questione dei confini dell’Ucraina: «Noi
abbiamo discusso la questione alcune volte», rispose Stalin, «noi spesso
cambiamo i nostri confini, troppo spesso, troppo spesso cambiamo i nostri
confini. Ciò provoca una cattiva impressione all’interno del paese. (…)
Internamente noi dobbiamo essere particolarmente prudenti, perché tali
cambiamenti provocano enormi resistenze da parte di alcuni russi. Occorre
considerare questo fattore. (…) Ogni volta che discutiamo tale questione, la
gente comincia a ringhiare che milioni di russi in Ucraina vengono
oppressi, che essi non possono usare la loro lingua nativa, che vengono
ucrainizzati con la forza e così via»8.
Se la risposta di Stalin manifesta la permanenza di motivi ricorrenti
nelle rivendicazioni di parte russa nei confronti della situazione delle
relazioni interetniche in Ucraina, il prosieguo della conversazione con gli
scrittori è emblematico di come il leader sovietico prestasse grande
attenzione alla questione ucraina. «Come vanno le cose in Galizia?», chiese
ai suoi ospiti ucraini, ai quali ricordò che la Galizia prima della rivoluzione
era stata il centro culturale e politico del movimento ucraino: «Adesso
l’egemonia è nelle nostre mani?», aggiunse Stalin. E alla domanda se
l’ucraino parlato nella repubblica sovietica fosse inteso dai galiziani, uno
degli scrittori rispose, interpretando i piani del segretario generale: «Può
unire la Galizia all’Ucraina: essi ci capiranno»9. La questione ucraina
presentava una precisa valenza geopolitica esterna: il territorio di quella
repubblica proiettava l’Unione Sovietica verso l’Europa, da dove si pensava
che sarebbero potute provenire le principali minacce per il governo
sovietico. In Polonia, ritenuta ostile e con la quale era stata combattuta da
poco una guerra, era presente una compatta e combattiva minoranza
ucraina, le cui rivendicazioni costituivano uno degli elementi di maggior
difficoltà per il governo di Varsavia. Nella questione ucraina era insita una
partita geopolitica di posizionamento di Mosca nei confronti dell’Europa,
sia da un punto di vista politico che strategico-militare, che infine culturale
e religioso.
La politica di indigenizzazione aveva favorito il consolidamento alla
guida della Repubblica Ucraina di una leadership nazionalcomunista che
aveva realizzato un importante programma di ucrainizzazione della società.
Mentre in Polonia le autorità di Varsavia sviluppavano una politica
assimilazionista nei confronti degli ucraini di Galizia e Volinia, la politica
sovietica contribuiva alla formazione di un cultura ucraina moderna. L’ex
presidente della Repubblica socialdemocratica georgiana, Noj Žordanija,
dal suo esilio francese rilevò il ruolo dei bolscevichi nel favorire il processo
di formazione nazionale: «Dal punto di vista delle relazioni nazionali i
bolscevichi hanno fatto progredire le nazioni senza storia ponendole sulla
strada della rinascita. Per esempio l’Ucraina è stata creata sotto i nostri
occhi»10.
La «grande svolta» del 1929, con la fine della Nep e l’inizio della
campagna per la collettivizzazione delle campagne e la liquidazione dei
kulaki, segnò anche il tornante che nella politica nazionale condusse
all’abbandono dell’opzione a favore della indigenizzazione. In Ucraina tale
svolta si realizzò nel quadro dell’attacco violento sferrato dal governo
bolscevico alle campagne che generò la carestia del 1932-33, il Holodomor,
con quasi 3,5 milioni di vittime. Il mix di collettivizzazione, deportazioni,
carestia e politiche repressive nei confronti dei contadini affamati brutalizzò
e destrutturò definitivamente il tradizionale tessuto delle campagne
dell’Ucraina centrale e orientale. L’intreccio tra questione contadina e
questione nazionale era fondamentale in un contesto come quello ucraino,
dove, nonostante i successi delle politiche di ucrainizzazione delle città
negli anni Venti, erano le campagne a essere prevalentemente popolate da
ucraini, mentre nei centri urbani, soprattutto quelli più grandi, essi erano in
minoranza rispetto alle componenti russe, ebraiche e in alcune città anche
polacche.
Nel 1933-34 il gruppo dirigente nazionalcomunista della Repubblica e
le élite ucraine furono sottoposte a dure repressioni che privarono il
movimento nazionale dei suoi quadri. Il governo sovietico, pur secondo il
nuovo registro centralista dell’«unità e fratellanza dei popoli» che aveva
sostituito la linea dell’indigenizzazione, non rinunciò però a dare una sua
interpretazione del processo di costruzione nazionale della Repubblica
Ucraina. Lo spostamento della capitale da Kharkiv a Kiev nel 1934,
l’attenzione all’elemento anche culturale e linguistico ucraino da parte della
nuova dirigenza sovietica della Repubblica – nel 1939 il 125° anniversario
della nascita del poeta nazionale Taras Ševčenko fu celebrato con grande
solennità – erano segnali della prosecuzione di una linea di ucrainizzazione,
sebbene di carattere diverso da quella precedente. Da un punto di vista
politico-amministrativo l’attenzione al carattere ucraino della Repubblica
era conservata: sebbene nel 1938 a capo del partito ucraino Stalin avesse
messo un russo, Nikita Khruščëv, si nominavano generalmente quadri
dirigenti di origine ucraina, ma si favoriva la loro integrazione nella cultura
russo-sovietica. Da un punto di vista nazional-culturale, invece, il processo
di ucrainizzazione si bloccò e «si cristallizzarono due sfere linguistiche di
cui quella russa, che s’identificava con il distacco dalle campagne,
riacquistò una netta preminenza»11: si continuavano a pubblicare libri e
giornali in ucraino, quantunque in misura minore di prima, ma il russo
aveva consolidato lo status di lingua della promozione sociale e
intellettuale, nonché della supremazia politica. In questo contesto il nemico
principale non era più lo «sciovinismo di grande potenza», grande russo,
indicato da Lenin, ma sempre più il nazionalismo ucraino.

Reductio ad unum

Mentre negli anni Trenta l’Ucraina centrale e quella orientale furono


travolte dalla carestia e dalle ondate repressive, con la conseguenza di una
lacerazione per molti versi irrimediabile del tessuto della società, in Galizia,
allora sotto la Polonia, il movimento nazionale ucraino ebbe la possibilità di
sviluppare l’idea nazionale ucraina, soprattutto nel contesto di un confronto
serrato con l’egemonia polacca su quelle regioni.
Gli ucraini anche a occidente si trovavano a dover misurarsi con tessuti
nazionali non omogenei, compositi. Ludwig von Mises, il grande
economista austriaco nato a Leopoli, propose subito dopo la prima guerra
mondiale una definizione di Europa orientale, su cui ha opportunamente
richiamato l’attenzione Andrea Graziosi, come «insieme di territori
plurilingui nei quali (…) si erano instaurati legami particolari tra
arretratezza, (…) nazionalità e tipo di nazionalismo, costruzione statale,
tentativi di modernizzazione e produzione ideologica»12. Territori di
frontiera fra culture, religioni, Stati, civiltà. Frontiere spesso mobili, e non
solo quelle politiche, con tante zone di meticciato e coabitazione. Territori
in cui per secoli hanno vissuto insieme popolazioni di lingua, cultura,
religione diverse, nelle stesse regioni, nelle stesse città e soprattutto, più
spesso, negli stessi villaggi nel quadro di società rurali. Territori plurali le
cui città hanno una molteplicità di nomi. È un fenomeno emblematico
dovuto al succedersi di differenti dominazioni, ma anche alla compresenza
nella stessa città di diverse nazionalità, nella cui cultura quella città aveva
acquistato un posto. È il caso di Leopoli, per usare la denominazione latina,
L’viv per gli ucraini, Lwów per i polacchi, L’vov per i russi, Lemberg per i
tedeschi, Lvuv per gli ebrei; o quello, in Bucovina settentrionale, oggi in
Ucraina, di Czernowitz per i tedeschi, Cernăuţi per i romeni,
Tshernevits/Tshernovits per gli ebrei, Czerniowce per i polacchi, Černovcy
per i russi, Černivci per gli ucraini, patria di tanti scrittori significativi fra
XIX e XX secolo, come Paul Celan, Gregor von Rezzori o Karl Emil
Franzos.
Le città più delle campagne erano espressione di questo mondo plurale.
Di Czernowitz Franzos scriveva: «Chi attraversa questa città si trova
davanti agli occhi immagini tanto straordinariamente differenti e variopinte
da chiedersi stupito se quella che sta attraversando sia sempre la medesima
città. Oriente e Occidente, Nord e Sud e ogni singola cultura della terra
sono riuniti qui»13. «Una città policroma, nella quale si compenetravano il
patrimonio culturale germanico, slavo, romanzo ed ebraico», così la
definiva Rose Ausländer, poetessa ebrea di lingua tedesca della Bucovina,
che continuava: «Aveva una fisionomia particolare, un suo proprio
incarnato. Sotto la superficie del dicibile affondavano le radici ampie e
ramificate delle differenti culture, che si compenetravano sotto molteplici
aspetti e che apportavano forza e linfa vitale alle fronde dell’albero della
parola, alla creazione del suono e della parola. (…) È da questo barocco
milieu linguistico, da questa sfera mistico-mitica che provengono poeti e
scrittori tedeschi ed ebrei»14.
Su questi territori, di cui la «policromia» culturale e la «barocca»
varietà linguistica costituivano la cifra secolare, si è abbattuto il ciclone
della seconda guerra mondiale, che in molti di essi ha svolto una funzione
di omogeneizzazione traumatica della pluralità nazionale. Secondo Timothy
Snyder, nelle regioni dell’Ucraina occidentale, fino al 1939 appartenenti
alla Polonia, si realizzò negli anni del conflitto mondiale una vera e propria
pulizia etnica15. La prima vittima fu la popolazione ebraica, che costituiva
una presenza qualificante dei centri urbani, investita dalla Shoà. Nel 1943
seguì un cruento confronto armato tra ucraini e polacchi, dapprima in
Volinia e poi in Galizia. La decapitazione delle élite dei gruppi nazionali
eliminate o deportate durante l’occupazione sovietica tra il 1939 e il 1941 e
la brutalizzazione dei comportamenti indotta dalle pratiche di terrore e
violenza durante l’occupazione tedesca, in modo particolare dalle azioni
genocidarie nei confronti della popolazione ebraica e di quella rom,
prepararono il terreno alle feroci violenze operate dalle unità dell’esercito
insurrezionale ucraino (Upa) o dai partigiani polacchi, che combatterono
una vera e propria guerra all’interno del più ampio conflitto, la quale
provocò circa centomila vittime, in gran parte polacchi, a cui vanno
aggiunti i polacchi che abbandonarono la Volinia, stimati tra i 200 mila e i
300 mila. Dopo che l’Armata rossa ebbe riconquistato i territori
dell’Ucraina occidentale si aprì un cruento conflitto tra esercito e polizia
politica sovietica, da una parte, e combattenti dell’Upa dall’altra, che si
protrasse fino ai primi anni Cinquanta e fu accompagnato da misure
repressive applicate massicciamente nei confronti degli ucraini di quelle
regioni.
Tuttavia la carta dell’idea nazionale ucraina fu giocata anche dai
sovietici. Quando nel 1939 occuparono la Galizia, nella propaganda
comunista i motivi della riunione dei fratelli dello stesso sangue, o
dell’unificazione di un’antica terra ucraina, erano prevalenti. Durante la
guerra Khruščëv, a capo del partito ucraino, ricorse alla retorica patriottica
del «grande popolo ucraino». La scelta di Stalin, alla frontiera occidentale
dell’Unione Sovietica quale si veniva delineando alla fine della guerra, fu a
favore di una maggiore omogeneità etnica dei territori. Da una parte la
Polonia doveva formarsi come uno Stato nazionale più compatto di quello
che si era stabilito tra le due guerre; dall’altra la Galizia doveva venire a
costituire l’Ucraina occidentale all’interno della Repubblica Sovietica
Ucraina. A tal fine Unione Sovietica e Polonia si accordarono su uno
scambio di popolazione definita secondo parametri nazionali. I polacchi
della Galizia – la gran parte di quelli di Volinia era fuggita prima dell’arrivo
dei sovietici in seguito alle violenze dell’Upa – furono spostati in Polonia,
mentre gli ucraini che vivevano in Polonia, soprattutto nella Galizia
occidentale, furono trasferiti in Unione Sovietica. Le deportazioni di
popolazione in questo caso non ebbero per Stalin una finalità punitiva, ma
quella di sostenere processi di costruzione di nazioni. In questo senso i
sovietici portarono a compimento in Volinia e in Galizia quello che era il
progetto del nazionalismo ucraino, ovvero la ridefinizione etnica di quei
territori, nel senso di una loro ucrainizzazione. Era stato raggiunto uno degli
obiettivi di Stalin, quello di stabilire una frontiera etnografica tra
Repubblica Sovietica Ucraina e Polonia. Dei 350 mila polacchi che
vivevano in Volinia nel 1939, nel 1947 ne rimanevano forse 7 mila; in
Galizia ne erano rimasti 150 mila rispetto a 1 milione e 800 mila prima
della guerra.

La grande Ucraina

Negli ultimi mesi della guerra, la politica di Stalin condusse al


raggruppamento dei territori abitati da popolazione ucraina nel quadro della
Repubblica Sovietica Ucraina. Infatti egli volle unire all’Urss anche la
Bucovina settentrionale, appartenuta all’impero asburgico e tra le due
guerre alla Romania, e la Transcarpazia, legata storicamente alla corona
ungherese e parte della Cecoslovacchia dopo la prima guerra mondiale.
Altre due regioni abitate da ucraini, ma composite dal punto di vista
nazionale, erano aggiunte alla Repubblica Sovietica Ucraina. Esse erano
unite da Stalin «in una grande Ucraina che corrispondeva territorialmente ai
sogni dei nazionalisti»16.
Si veniva completando l’opera di assemblaggio delle diverse
componenti che hanno formato l’Ucraina nel quadro dell’Unione Sovietica,
e poi dal 1991 come Stato indipendente. Artefice principale di tale
operazione era stato paradossalmente colui che si era distinto anche per
essere stato il principale artefice di violenza sugli ucraini. Stalin, infatti,
dapprima come commissario alle nazionalità, poi come leader sovietico,
aveva condotto la regia di tale «raccolta delle terre ucraine». Nella sua
prospettiva imperiale l’Ucraina costituiva un fondamentale territorio di
proiezione verso occidente. L’inserimento della prospettiva nazionale
ucraina nel particolare federalismo sovietico costituiva un asse portante del
progetto geopolitico sovietico di controllo dello spazio imperiale russo, la
cui tenuta era stata messa seriamente in crisi proprio dall’emergere delle
questioni nazionali nella seconda metà del XIX secolo. Era stata proprio
questa opzione strategica di carattere federale-imperiale della dirigenza
bolscevica a consolidare il progetto nazionale ucraino attorno a una
proiezione territoriale che si era andata allargando nel corso della vicenda
sovietica, fino ad approdare a una sua variante maggiore.
Tale processo aveva assunto caratteristiche divergenti nelle diverse
regioni, rispondendo a contesti geopolitici diversificati. All’Est si era
caratterizzato per l’esclusione a vantaggio della Repubblica Russa di
territori abitati da una maggioranza etnica di ucraini e contemporaneamente
per un’opzione volta a favorire una maggiore diversificazione nazionale,
con l’immissione di consistenti contingenti di popolazione etnicamente
russa o con la decisione presa nel 1918 da Lenin di unire il Donbas
all’Ucraina, imposta ai bolscevichi di quella regione mineraria, da loro
considerata parte integrale della Russia. All’Ovest la tendenza era stata nel
senso di un’ampia inclusione di territori nella Repubblica Ucraina,
nonostante la loro composizione nazionale eterogenea, con il ricorso a
operazioni di omogeneizzazione etnica, attraverso l’uso di scambi di
popolazione e di deportazioni di minoranze verso gli Stati confinanti.
Le esigenze erano diverse. All’Est si trattava di rafforzare le
connessioni che legavano l’Ucraina al centro dell’Unione attraverso il
potenziamento dell’elemento russo, collante dell’edificio imperiale.
All’Ovest invece occorreva supportare il vettore di espansione difensiva,
secondo il paradigma di sicurezza della tradizione imperiale russa, cioè
spostare in avanti i confini per allontanare il potenziale nemico. A questo
fine le dinamiche di contrapposizione nazionale delle zone di frontiera
inducevano a favorire il consolidamento della componente ucraina. Era
questo un elemento che di per sé spingeva le regioni occidentali di frontiera
a un ancoraggio rivolto verso est, verso il loro centro di gravità nazionale, la
Repubblica Sovietica Ucraina, da saldare attraverso giunture resistenti al
centro imperiale.
In epoca sovietica nei territori che sono entrati a far parte della
Repubblica Sovietica Ucraina si è consumato un complesso gioco
geopolitico. Su un tessuto variegato prodotto di stratificazioni secolari si
sono sovrapposte nuove connessioni e sono intervenuti processi sovente
ambivalenti. L’esito finale è stato la formazione di un insieme piuttosto
composito di regioni differenti, con profili etnici eterogenei e con
dinamiche diverse di trasformazione degli equilibri nazionali. D’altronde,
pur nel quadro del disegno complessivo di unificare nella Repubblica
Ucraina la gran parte dei territori sud-occidentali dello spazio sovietico – ne
era esclusa dopo la seconda guerra mondiale la Bessarabia eretta a
Repubblica Socialista Sovietica Moldava – per connetterli in questo modo
al progetto di federalismo imperiale bolscevico, diversi erano stati i motivi
che avevano determinato la convergenza dei differenti territori. Nel caso
della Galizia e della Volinia erano prevalse ragioni di carattere etnico-
nazionale, in quello della Transcarpazia, regione che permetteva all’Unione
Sovietica di confinare direttamente con Ungheria e Cecoslovacchia, erano
state prevalenti motivazioni di carattere strategico.
A complicare un assemblaggio che era stato già piuttosto macchinoso
intervenne nel 1954 l’unificazione della Crimea all’Ucraina, che
contraddiceva ogni considerazione di carattere nazionale data la
composizione etnica della penisola, allora popolata prevalentemente da
russi – ai tatari deportati da Stalin durante la guerra fu concesso di rientrare
solo negli anni della perestrojka. In questo caso a motivare la decisione di
Khruščëv di donare la Crimea alla Repubblica Ucraina, oltre al contesto
celebrativo del terzo centenario della riunificazione russo-ucraina – così era
presentato il trattato di Perejaslav tra Bohdan Khmel’nyc’kyj e Mosca – e al
desiderio dell’ex capo del partito ucraino di compensare l’Ucraina per i
costi sostenuti durante la guerra, erano state probabilmente esigenze di tipo
funzionale connesse al farraginoso sistema di gestione dell’economia
sovietica. L’allacciamento della Crimea alla rete idrica dell’Ucraina, volto a
sopperire alla cronica carenza di acqua della penisola, unitamente alla
connessione con il sistema di distribuzione energetico, sollevava questioni
di carattere gestionale e burocratico che avevano fatto maturare tra i
dirigenti del Gosplan, l’organo che centralmente sopraintendeva alla
pianificazione economica dell’Unione Sovietica, la proposta di annettere la
penisola all’Ucraina.

Uno Stato nazionale regionale

Al momento dell’indipendenza, nel dicembre 1991, l’Ucraina costituiva


un agglomerato composito, diversificato al suo interno, che aveva
sperimentato le dinamiche di appartenere a un comune spazio nazionale,
sebbene di tipo sovietico, di misurarsi con una capitale, Kiev, dotata di un
ragguardevole patrimonio simbolico e storico. Il distacco da Mosca, ossia
l’allentamento delle giunture che saldavano l’Ucraina al centro imperiale
sovietico e che contribuivano anche a tenere unito l’insieme dei territori
della Repubblica Ucraina, non poteva non generare contraccolpi, la cui
conseguenza è stata quella di allargare le fessure dell’assemblaggio
originario e renderle visibili.
La fessura che più delle altre richiama l’attenzione è quella che lungo
una direttrice nord-sud traccia una divisione dell’Ucraina secondo un
parametro etnico-linguistico dualistico tra una parte occidentale del paese di
chiara identità nazionale ucraina e un’altra orientale caratterizzata da una
più accentuata impronta russa. Tuttavia, le diversità interne all’Ucraina
sono più complesse. L’esame del carattere composito dell’Ucraina conduce
a considerare la peculiare caratteristica geopolitica del paese, che non si
presenta, come ha osservato Peter W. Rodgers, quale «uno Stato nazionale
nella comprensione classica del termine». La questione non è tanto quella
della presenza al suo interno di numerose minoranze, quanto che «la
maggioranza etnica titolare ucraina non costituisce una nazione unificata,
omogenea e coerente»17.
Il quadro geopolitico interno dell’Ucraina è caratterizzato da una
molteplicità di fessure, alcune di carattere etnico-culturale, altre di carattere
regionale, le quali non tendono a coincidere, ma piuttosto a intersecarsi.
Lowell Barrington ha enfatizzato la maggiore rilevanza del fattore regionale
rispetto a quello etnico o linguistico18. Il paradigma regionale può rendere
conto in maniera più congrua della complessità e della stratificazione
storica dell’Ucraina. Elaborando uno schema di Barrington ed Erik Herron,
Rodgers ha proposto un’articolazione della composizione dell’Ucraina in
dieci regioni, che conserva la sua validità ermeneutica anche di fronte
all’attuale crisi. Oltre alla Crimea, oggi riannessa de facto alla Russia, le
regioni indicate sono:
1) Regione orientale. Corrisponde al Donbas con le due oblasti [regioni]
di Donec’k e Luhans’k. Zona mineraria al confine con la Russia, presenta
una spiccata identità regionale: «Esiste una specifica identità regionale nel
Donbas, che è stata pesantemente condizionata dalla storia del suo sviluppo
nell’Urss. Il Donbas nell’Urss fu la vetrina del socialismo»19. L’operaio
modello Stakhanov, eroe della mitologia sovietica, era un minatore del
Donbas. Per questa regione modello il centro di riferimento politico ed
economico era Mosca, mentre Kiev era solo un centro amministrativo.
Tuttavia, sebbene la regione sia ampiamente russofona e una parte
consistente della popolazione sia russa, l’identità regionale è stata
tradizionalmente prevalente su quella nazionale russa. La popolazione è
ortodossa.
2) Regione centro-orientale. È costituita dalle oblasti di Zaporižžja,
Dnipropetrovs’k e Kharkiv. È una regione industrializzata con grandi città,
ma anche con un settore agricolo importante. A differenza del Donbas, tra
la popolazione ha una qualche diffusione un sentimento identitario ucraino.
La popolazione è prevalentemente russofona e ortodossa.
3) Regione meridionale. Corrisponde a quella che storicamente è stata
colonizzata come Nuova Russia, ovvero le terre costiere del Mar Nero
annesse all’impero russo alla fine del XVIII secolo. Questa regione
comprende le oblasti di Odessa, Mykolajiv e Kherson. Regione
industrializzata, è stata meta di immigrazione russa nelle città, mentre nelle
campagne hanno prevalso gli insediamenti di contadini ucraini. La
popolazione è maggioritariamente russofona e ortodossa. Odessa, che ha
una sua peculiare identità di città portuale e cosmopolita, con un’importante
tradizione ebraica, presenta indicatori di russofonia più elevati.
4) Regione centro-settentrionale. Comprende le oblasti di Poltava,
Kirovohrad, Čerkasy, Kiev, Černihiv e Sumy. Storicamente questi territori
hanno fatto parte quasi tutti del Commonwealth polacco e sono entrati
nell’impero russo in seguito al processo innescato dal trattato di Perejaslav
nel 1654. Pur essendo state annesse all’impero russo nello stesso periodo
delle oblasti orientali, esse hanno mantenuto un profilo più ucraino. Infatti,
zone prevalentemente agricole, senza risorse minerarie, sono state meno
investite dai processi di industrializzazione. Tranne Kiev, nella regione non
sono presenti grandi città, mentre la popolazione è in prevalenza rurale,
etnicamente ucraina e ortodossa.
5) Regione centro-occidentale. Si estende alle oblasti di Žytomyr,
Vinnycja, Khmel’nyckyj, Rivne. Si tratta di terre che fino alla fine del
XVIII secolo sono state parte del Commonwealth polacco e in cui si sono
registrati processi di polonizzazione. La popolazione è ucraina e
prevalentemente ortodossa.
6) Volinia. La regione inserita nell’impero russo alla fine del Settecento,
dopo la prima guerra mondiale in seguito al trattato di Riga è stata
assegnata alla Polonia per diventare sovietica nel 1944. La popolazione è
ucraina e ortodossa.
7) Regione occidentale. Coincide con la Galizia e le sue tre oblasti di
Leopoli, Ternopil’ e Ivano-Frankivs’k. Il particolare itinerario storico che
ha portato la regione prima nel Commonwealth polacco, poi nell’impero
asburgico, nella Polonia tra le due guerre e infine nell’Unione Sovietica a
partire dal 1944, ha delineato il profilo singolare della Galizia, abitata da
una popolazione ucraina in maggioranza greco-cattolica.
8) Bucovina. La regione fino al 1918 è stata parte dell’impero
asburgico, per poi entrare nella Romania, prima di diventare sovietica alla
fine della seconda guerra mondiale. La popolazione slava è ucraina e
prevalentemente ortodossa, ma rimane una significativa minoranza romena.
9) Transcarpazia. La regione, storicamente conosciuta come Rutenia
subcarpatica, è stata parte dell’impero asburgico, per essere poi tra le due
guerre mondiali assegnata alla Cecoslovacchia. Alla fine della seconda
guerra mondiale è entrata nell’Unione Sovietica. La caratteristica peculiare
della regione è la diversità etnica, con una significativa presenza ungherese
accanto alla maggioranza slava, divisa in ucraini e ruteni, la cui identità si
precisa in opposizione a quella ucraina. Sono presenti minoranze romene,
rom, slovacche20.
La realtà composita dell’Ucraina induce a privilegiare letture complesse
e plurali del paese. In questo senso è opportuno rilevare come il dualismo
russo-ucraino non possa essere in maniera semplificata assunto come unica
chiave di lettura della realtà ucraina. La realtà dell’Ucraina indipendente è
più complessa, articolata, sfumata. Tuttavia non si può negare che questa
fessura esista e che nei momenti di crisi tenda ad allargarsi e a essere
catalizzatrice di antagonismi e di conflittualità di origine diversa, ma che si
riconfigurano secondo i connotati etnico-linguistici di questa
contrapposizione binaria. La tensione Est-Ovest, costitutiva della stessa
realtà geopolitica dell’Ucraina, innesca una dinamica geopolitica
permanente nel paese, come all’inizio del Novecento intuiva Mykhajlo
Hruševs’kyj: «In venti o trent’anni noi avremo davanti a noi due nazionalità
su un’unica base etnografica. Questo sarebbe simile alla posizione dei serbi
e dei croati, due parti di un unico gruppo etnico serbo diviso nelle sue
circostanze politiche, culturali e religiose, con conseguente completa
alienazione»21.
Per alcuni studiosi questa dicotomia della realtà ucraina in realtà va letta
nella prospettiva di una dualità che costituisce in qualche misura un
carattere distintivo della stessa identità ucraina, per sua natura «biculturale e
bilingue»22. Vasilij Zen’kovskij, intellettuale ortodosso di Kiev, che ricoprì
cariche governative nella Repubblica Popolare Ucraina per poi riparare in
esilio a Parigi, ha scritto di una «dualità della coscienza nazionale
ucraina»23. Si tratta di percezioni che non corrispondono a quelle del
movimento nazionale ucraino, forse nemmeno a quelle diffuse della
popolazione, ma colgono come la questione del rapporto tra Ucraina e
Russia sia sottile e profonda, e non possa essere ridotta solo a quella di una
contrapposizione netta, rigida, marcata.
Roman Szporluk, studioso acuto della questione nazionale nella storia
sovietica e della questione ucraina, ha messo in guardia dalla
sottovalutazione del fattore russo nel processo di costruzione della nazione
nel contesto dell’Ucraina indipendente: «Il progresso dell’Ucraina nella
costruzione di una società civile culturalmente plurale dipende dalla
capacità di mantenere la lealtà dell’elemento russo e specialmente di
prevenire la politicizzazione di questo elemento come minoranza etnica.
Questo sarebbe uno sviluppo particolarmente pericoloso perché potrebbe
condurre a una frattura territoriale dell’Ucraina lungo linee jugoslave»24.
La sfida che la storia dell’Ucraina, la sua realtà composita, prodotto di
un processo di aggregazione di territori diversi compiutosi nel corso della
vicenda sovietica, e l’ultima rivoluzione pongono con urgenza stringente è
quella ancora una volta della capacità di costruire uno Stato nazionale
atipico, che faccia della sua anomalia non un difetto ma un orientamento
per poter mettere a punto un’idea nazionale in grado di abbracciare tutte le
diversi componenti. Costruire la nazione e lo Stato nella differenza e non
nella omogeneità. Per far questo occorre misurarsi con la realtà geopolitica
che è fatta delle dinamiche dello spazio e della storia. Essa non rappresenta
una gabbia, ma se ignorata si trasforma facilmente in una trappola.

1
A.S. ČERNJAEV, Sovmestnyj iskhod. Dnevnik dvukh epokh. 1972-1991 gody (Esodo comune.
Diario di due epoche. 1972-1991), Moskva 2010, Rosspen, p. 1029.
2
Si veda G. KASIANOV, «“Nationalized” History: Past Continuous, Present Perfect, Future…», in
A Laboratory of Transnational History. Ukraine and Recent Ukrainian Historiography, a cura di G.
KASIANOV e PH. THER, Budapest-New York 2009, Ceu Press, pp. 7-23.
3
TH. SNYDER, The Reconstruction of Nations. Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999,
New Haven-London 2003, Yale University Press, pp. 120-121.
4
Ivi, p. 132.
5
T. MARTIN, The Affirmative Action Empire. Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1932-
1939, Ithaca-London 2001, Cornell University Press.
6
A. GRAZIOSI, «Collectivisation, révoltes paysannes et politiques gouvernementales à travers les
rapports du GPU d’Ukraine de février-mars 1930», Cahiers du Monde russe, 3, 1994, p. 438.
7
Cfr. F. HIRSCH, Empire of Nations. Ethnographic Knowledge & the Making of the Soviet Union,
Ithaca-London 2005, Yale University Press, pp. 155-160.
8
Le parole di Stalin riportate dallo stenogramma dell’incontro sono citate in T. MARTIN, op. cit.,
pp. 280-281.
9
Ivi, p. 281.
10
A. GRAZIOSI, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna 2007, il
Mulino, p. 224.
11
Ivi, p. 360.
12
A. GRAZIOSI, Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956, Bologna 2001, il Mulino, pp. 123-124.
Cfr. L. MISES, Nation, Staat und Wirtschaft. Beiträge zur Politik und Geschichte der Zeit, Wien und
Leipzig 1919, trad. it. di E. GRILLO, Stato, nazione ed economia. Contributi alla politica e alla
storia del nostro tempo, con un saggio di A. GRAZIOSI, Torino 1994, Bollati Boringhieri.
13
Le parole di Franzos sono citate nell’introduzione di S.M. MORALDO a K.E. FRANZOS,
Racconti della Galizia e della Bucovina, a cura di S.M. MORALDO, trad. it. di E.I. VEGHER, Roma
2002, Salerno ed., p. 9.
14
R. AUSLÄNDER, Erinnerungen an eine Stadt, in Id., Gesammelte Gedichte, Köln 1977, Braun,
1977, pp. 504-505, cit. in ivi, pp. 9-11.
15
TH. SNYDER, op. cit., pp. 154-178.
16
A. GRAZIOSI, L’Urss di Lenin e Stalin… cit., p. 549.
17
P.W. RODGERS, Nation, Region and History in Post-Communist Transitions. Identity Politics in
Ukraine, 1991-2006, Stuttgart 2008, Ibidem- Verlag, p. 33.
18
L. BARRINGTON, «Region, Language, and Nationality: Rethinking Support in Ukraine for
Maintaining Distance from Russia», in Dilemmas of State-Led Nation Building in Ukraine, a cura di
T. Kuzio, P. D’Anieri, Westport, Ct 2002, pp. 131-146.
19
P.W. RODGERS, Nation, Region and History in Post-Communist Transitions… cit., p. 63.
20
Cfr. ivi, pp. 56-64. Si veda anche L.W. BARRINGTON, E.S. HERRON, «One Ukraine or many?
Regionalism in Ukraine and its Political Consequences», Nationalities Papers, 32, 2004, pp. 53-86.
21
La citazione è riportata in R. SZPORLUK, Russia, Ukraine, and the Breakup of the Soviet Union,
Stanford, Ca. 2000, Hoover Institution Press, p. 269.
22
G. NIVAT, «Kiev et Moscou: mythe ou héritage à partager?», Cahiers du Monde russe, XXXVI, 4,
1995, p. 479.
23
La citazione è riportata in S. MERLO, All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola
II a Stalin (1905-1939), prefazione di R. MOROZZO della Rocca, Milano 2005, Guerini, p. 159.
24
R. SZPORLUK, op. cit., p. 321.
2014, MORIRE PER L’EUROPA
In Ucraina si consuma un nuovo capitolo del plurisecolare scontro
tra mondo russo e Occidente. Jevromajdan è il grido d’aiuto di una
società che rifiuta l’abbraccio mortale del revanscismo moscovita.
Se Putin vince in Crimea, si rischia l’effetto domino.
di Oxana PACHLOVSKA

I
1. n 23 anni di indipendenza ucraina si sono succedute tre rivoluzioni:
nel 1991, nel 2004 e a cavallo tra il 2013 e il 2014. Le prime due sono
rimaste incomplete: non hanno portato a un radicale cambiamento del
sistema. Jevromajdan invece sta aprendo la strada a un’autentica
trasformazione. Per il momento si tratta solo di una possibilità, ma già si
palesa l’attore che vuole impedire a tutti i costi questa trasformazione: la
Russia. L’invasione della Crimea rappresenta la reazione di Mosca
all’aspirazione ucraina a emanciparsi dalla sua sfera d’influenza. Ma in
questa reazione si legge la consapevolezza del Cremlino di aver esaurito
tutti gli strumenti di ricatto a cui la Russia è ricorsa in questi ultimi anni nei
confronti della sua riottosa vicina. Dunque Mosca è uscita allo scoperto nel
suo tentativo di sottomettere definitivamente lo Stato ucraino. Da questo
punto di vista, Jevromajdan può essere considerata una lente
d’ingrandimento storica sulla questione identitaria ucraina e sui meccanismi
del rapporto tra Ucraina e Russia e tra Russia ed Europa.
Ciò che abitualmente si designa con l’espressione «crisi ucraina» non
costituisce un conflitto locale, bensì uno scontro di proporzioni mondiali.
Non si tratta di un conflitto tra Kiev e Simferopoli, bensì di uno scontro
frontale e ormai senza infingimenti tra Russia ed Europa e tra Mosca e
Washington, «nuova Cartagine» da distruggere nell’ottica eurasiatica. Il 2
marzo il capo del Comitato della Duma per le questioni della Csi,
dell’integrazione eurasiatica e dei rapporti con i connazionali, Leonid
Sluckij, ha dichiarato che l’invasione militare in Crimea sarebbe una guerra
contro l’Occidente che la Russia non può permettersi di perdere.
È importante comprendere che l’impero eurasiatico non potrà mai
essere costruito senza l’Ucraina: è quanto Brzezinski ha dichiarato a più
riprese. Nell’ottica russa, quindi, un’Ucraina indipendente protesa verso
l’Europa non può e non deve esistere: sia per il ruolo storico fondamentale
rivestito da questo paese nell’identità russa, sia per il fatto che l’Ucraina
rappresenta una preziosa fonte di risorse umane, economiche, energetiche e
demografiche indispensabili a risolvere l’endemica crisi in cui si dibatte la
Russia.
All’interno della società ucraina questo scontro tra Russia e Occidente
si esprime attraverso la contrapposizione tra una parte europea e una neo- (o
post)sovietica. Tra le due parti è impossibile trovare un compromesso: sono
davvero antagoniste, inconciliabili. E non si tratta di una mera questione
linguistica: l’Ucraina europea è costituita da ucraini, russi, ebrei, tatari e
altre minoranze, è cioè una dimensione in cui può prosperare una diversità
dialogante carica di potenziali sviluppi1. Di contro, la parte postsovietica si
identifica esclusivamente con una mitica «russicità» impervia a dubbi,
analisi, argomentazioni. Essa reca in sé l’immagine orwelliana di un mondo
in cui da una parte vige una Verità assoluta e dall’altra si annida il Nemico,
al momento riconosciuto massimamente nell’idea di una presunta
Europa/Ucraina «fascista». Uno degli slogan dell’Antimajdan a Kharkiv
diceva: «Fermeremo l’Europa nazista del 1941». Qui il tempo si è fermato.
Per ironia della sorte, Jevromajdan è esplosa nel momento in cui i
sociologi valutavano come molto bassa la probabilità di manifestazioni. La
società ucraina veniva considerata spenta, delusa, diffidente della politica.
Ma gli eventi sono precipitati a velocità sorprendente. La mancata firma
dell’accordo di Vilnius ha scatenato la protesta studentesca. La parte più
giovane della società ha deciso di reagire: la paura e la rabbia di fronte a
una prospettiva che escludeva definitivamente l’orizzonte europeo ha
riempito la piazza. La violenza brutale usata dalle forze dell’ordine contro
gli studenti a fine novembre ha scatenato l’indignazione di una fetta più
larga della popolazione. Di conseguenza, la protesta si è trasformata in uno
scontro durissimo tra società e potere. La morte di più di cento persone
(chiamate «centuria celeste»), centinaia di feriti, le persone rapite, torturate
e lasciate morire nei boschi con temperature sottozero hanno mostrato il
lato più orrendo del potere postsovietico, pronto a tutto pur di conservare la
facoltà di razziare il paese.
Questo insieme di circostanze ha definito la soglia invalicabile:
simbolicamente, i primi a morire sono stati ragazzi coetanei
dell’indipendenza ucraina. A nulla sono valse le trattative che hanno visto il
coinvolgimento della Russia e dell’Ue. La società ucraina ha costretto l’ex
presidente Janukovyč a una rocambolesca e umiliante fuga a Mosca. Così
Putin, senza perdere tempo, si è servito della sua marionetta per
destabilizzare l’Ucraina e l’intera area, presentando l’invasione delle truppe
russe in Crimea come espressione della richiesta di un «legittimo
presidente». L’annessione della Crimea dovrebbe servire da modello per
operazioni simili in tutte le regioni orientali e meridionali dell’Ucraina, con
lo scopo principale di rendere impossibili le elezioni presidenziali e
parlamentari, che stavolta potrebbero davvero portare a un totale reset del
potere in Ucraina.

2. Questo è però solo il disegno visibile di una storia ben più intricata.
Si tratta di un vero scontro di civiltà, per dirla alla Huntington. Se
guardiamo la mappa della civiltà della Prima Roma vediamo un mondo
assestato e pacifico, malgrado la crisi attuale; un mondo che non
permetterebbe più al suo interno guerre o ridefinizioni dei confini. È un
mondo in cui paesi esterni aspirano ad entrare.
L’area tra la Seconda e la Terza Roma, tra Costantinopoli e Mosca,
costituisce invece un coacervo di conflitti insanabili, dove i paesi più
sviluppati scelgono la strada europea e quelli più arretrati rimangono
incatenati alla sfera d’influenza russa, condannati a una condizione di
perenne soggezione e penuria materiale. Il divario continua a crescere,
spingendo la Russia verso un tipo di chiusura culturale in cui il sogno
imperiale di una grandeur perduta si amalgama a una mentalità sovietica
irrimediabilmente trincerata in se stessa. È un monstrum ideologico
anacronistico, ma molto aggressivo, cui si aggiungono diversi elementi
fortemente destabilizzanti: disagi economici, conflitti nazionali e religiosi,
drammatiche dinamiche demografiche. Insomma, un «impero morto a
caccia dei vivi», come lo ha definito il quotidiano Den’.
La Russia risponde a queste crisi come ha sempre fatto:
contrapponendosi all’Occidente e al suo sistema democratico. Sul territorio
dell’Ucraina Putin combatte dunque la democrazia occidentale. La
prospettiva di un’Ucraina europea stravolge fino alle fondamenta il mondo
russo come presunto perno dell’universo slavo-ortodosso antagonista
dell’Europa. Non solo i paesi slavi parte del cristianesimo occidentale
scelsero Bruxelles senza indugi, ma l’attrazione europea riuscì a farsi largo
persino all’interno del mondo ortodosso: è così che Mosca perse la Bulgaria
e addirittura la Serbia nei Balcani, per non parlare della Georgia nel
Caucaso. Ormai, all’interno del mondo slavo Mosca può contare solo su
un’inerme Bielorussia.
Lo scontro con l’Ucraina sposta il conflitto al centro stesso della civiltà
ortodossa. È da Kiev, cuore della Rus’, che nel 988 s’irradiò il cristianesimo
bizantino. Quella parabola storica può ora considerarsi chiusa. È infatti
Kiev che va bombardata, affermano (dal 2004 in poi) vari autori russi,
ideologi del Drang nach Westen della Russia eurasiatica in pieno delirio
revanscista. È per questo che il Cremlino risponde con brutale forza militare
a questa sfida, nel tentativo di tracciare con le armi una nuova linea di
confine tra il mondo russo e l’Europa, ponendosi come realtà non solo
antitetica, ma irrimediabilmente ostile ai valori occidentali.
È alla luce di questo scontro tra Russia e Occidente che vanno riviste sia
sul piano sincronico che su quello diacronico le ragioni di Jevromajdan.
Tanto in Russia quanto in Ucraina è stato imposto un rapace sistema
definibile come cleptocrazia oligarchica, in cui lo Stato depreda ogni genere
di risorsa naturale e umana all’interno del paese, privando quest’ultimo di
tutto il suo potenziale. Ma esiste una differenza cruciale tra i due paesi:
mentre in Ucraina c’è una massa critica di gente capace di protestare, sul
territorio russo un simile germe di coscienza politica e sensibilità civica
invece può contare su numeri più esigui.
3. Jevromajdan non va dunque considerata un evento circoscritto entro
limiti temporali ben definiti; si tratta bensì del processo di consolidamento
di un’Ucraina europea. Alla base della sua esplosione vi sono diverse
ragioni. La prima è interna: la crisi dell’idea dell’indipendenza. Il sogno
dello Stato indipendente per il quale sono morte intere generazioni è stato
umiliato e sfruttato ai fini di arricchimento di una classe politica cinica e
corrotta. Fallita la rivoluzione arancione, è andata fermentando la protesta
in seno alla società, connotata ora da un livello di maturità politica
nettamente superiore rispetto a quello della sua classe politica.
L’elemento che maggiormente distingue Jevromajdan dalla rivoluzione
arancione è l’intenzione di non delegare più alla classe dirigente le
responsabilità e le decisioni politiche senza alcun meccanismo di controllo
dal basso2. Se osserviamo la sua composizione strutturale, notiamo che
Jevromajdan si è trasformata in una sorta di «repubblica nella repubblica»,
con un’incredibile capacità di autorganizzazione e un’ammirabile
espressione di umanità e cooperazione. Il suo compito primario è quello di
sradicare il sistema di riciclaggio dell’establishment, del feudalesimo
oligarchico, del nichilismo giuridico. E per chi si chiede quali fossero le
basi di legittimazione politico-giuridica di Jevromajdan, basti ricordare che
è dai tempi della rivoluzione americana e di quella francese che si riconosce
ai popoli oppressi il diritto di ribellarsi contro regimi dispotici.
La seconda ragione è la crescente ingerenza della Russia nella vita
interna dello Stato ucraino, con continui ricatti di natura politica ed
economica. Se nell’Ucraina sovietica vigeva comunque una certa retorica
sulla «fratellanza slava», la Russia putiniana ha ormai gettato la maschera,
comportandosi in maniera spregiudicata e violenta. La verità è che Putin
non ha mai riconosciuto la sovranità dello Stato ucraino. Lo ha anche detto
apertamente a più riprese. È tristemente noto il suo discorso alla Conferenza
sulla politica di sicurezza a Monaco nel 2007, nel quale il presidente russo
comunicò a George Bush che in realtà l’Ucraina come Stato non esisteva, in
quanto la metà del paese le era stato regalato dalla Russia, mentre l’altra
metà era di fatto Europa orientale. In buona sostanza, agli ucraini restava lo
status di «non luogo».
In terzo luogo Jevromajdan è frutto del difficile rapporto tra l’Ucraina e
l’Europa stessa. Anzi, si potrebbe dire che in questo periodo Ucraina ed
Europa hanno fatto reciproci passi da gigante per capirsi ed accettarsi. Una
parte della società ha ben salda l’idea di un’Europa dei valori della quale
l’Ucraina rimane storicamente parte inalienabile. Nel contempo, però, si è
sviluppato anche un certo senso critico. Si capisce che, lottando per
l’Europa, bisogna lottare anche con una certa parte dell’Europa che nega
all’Ucraina il diritto di integrazione (ricordiamo l’infelice battuta di
Romano Prodi, secondo cui le possibilità di integrazione dell’Ucraina
nell’Ue erano da considerarsi pari a quelle della Nuova Zelanda). Nei
confronti dell’Ucraina l’Europa ha assunto una posizione di attesa,
relegando il paese al ruolo di Stato cuscinetto. In questo senso il fattore
energetico ha giocato un ruolo nefasto, con la nascita di un’Europa
schroederiana all’ombra di Putin. Quindi anche per gli ucraini convinti
europeisti non è facile lottare, dal momento che manca una precisa
prospettiva di integrazione. Eppure, oggi come mai prima domina in
Ucraina la consapevolezza della necessità della scelta europea.
È qui che l’asse sincronico e quello diacronico si incrociano
nell’esperienza di Jevromajdan. L’Ucraina resta oggi l’ultimo baluardo
dell’Europa lungo il suo limes orientale. «Morire sulle barricate per
l’Europa e per la libertà» è lo slogan di Milan Kundera con cui veniva
tracciato un invalicabile confine tra il mondo europeo e il mondo russo, il
mondo del cristianesimo occidentale e quello del cristianesimo orientale3.
Per Kundera questo limite passava nell’Europa orientale tra la Budapest del
1956, la Praga del 1868 e la Varsavia di Solidarność. L’Ucraina sposta oggi
il confine verso Kiev, tracciando non solo una nuova frontiera, ma
articolando meglio il discorso. L’occupazione della Crimea e l’ammasso di
truppe russe ai confini orientali dell’Ucraina rafforza la dolorosa certezza
che la scelta europea segna l’alternativa tra il dissolvimento dell’Ucraina
nello spazio del neototalitarismo russo e un difficile cammino verso
l’Europa. Non a caso Brzezinski vede nell’Ucraina l’ultimo confine
europeo e afferma che la scelta del paese tra l’Unione Europea e la Russia
definirà una volta per tutte una globale redistribuzione delle forze sullo
scacchiere mondiale4. La questione del confine tra Europa e non Europa è
dunque inevitabilmente segnata da contenuti culturali e valoriali.
Ciò va tenuto presente anche nella valutazione degli aspetti contingenti.
Nell’immaginario europeo gli ultimi secoli vedono l’Ucraina integrata nella
statualità russa; di conseguenza il confine culturale tra le due realtà appare
spesso sfumato e incerto. Eppure si dimentica che per quasi tre secoli
l’Ucraina moderna si è formata culturalmente e linguisticamente all’interno
della statualità polacca. Ed è attraverso questo rapporto conflittuale, ma
estremamente fruttuoso, che in Ucraina si attiva una vivace ricezione della
tradizione filosofica, giuridica, storiografica europea.
Le conseguenze di tale retaggio storico arrivano fino ad oggi. Il campo
elettorale delle forze democratiche abbraccia infatti quella parte
dell’Ucraina occidentale e centrale che per tre secoli si è sviluppata come
Stato moderno in seno alla Repubblica polacca. La Chiesa ortodossa
ucraina non ha mai seguito il modello cesaropapista russo-bizantino, al
contrario è stata aperta alle istanze europee. Anche la nascita nel 1596 della
Chiesa greco-cattolica in un paese a maggioranza ortodossa ha
rappresentato un ricchissimo fenomeno culturale, identificabile nel tentativo
di superare le discordie interne e costruire un dialogo europeo «a due
polmoni», per dirla con Giovanni Paolo II. L’organizzazione cosacca non
era affatto una masnada ribelle anarcoide, come la vedeva Caterina II, la
quale distrusse il cosaccato nel 1775; esprimeva bensì un’originalissima
realtà socio-politica (ne è conferma la costituzione di Orlyk del 1710, la
prima costituzione in assoluto in Europa). Anche nel corso del
Romanticismo la cultura ucraina si sviluppava nel solco delle idee europee.
Jevromajdan ha dunque una forte valenza simbolica. È una piazza dove
s’incontrano il passato e il futuro, varie generazioni, varie nazionalità.
Durante le proteste si usavano tecniche di combattimento cosacco e
strategie dell’Esercito insurrezionale ucraino (Upa). Marciavano insieme,
come ha detto Bernard-Henry Lévy, ebrei e cosacchi. Tra gli slogan più
diffusi spiccava l’espressione «Per la vostra libertà e per la nostra», motto
derivato dall’insurrezione polacca del 1830-31. I tatari difendevano i valori
europei. È un sottile linguaggio culturale che mostra quanto profondo e
coerente sia il cambiamento in atto, nonostante non poche contraddizioni.
4. Jevromajdan ha dunque portato a rapido sviluppo i diversi conflitti
intestini dello spazio ucraino, diventati un groviglio nei 23 anni di storia
postsovietica. Grazie alla scelta europea dell’Ucraina da un lato e al
parteggiare dell’Ue per l’Ucraina dall’altro, è così riemersa con nuovo
vigore la contrapposizione tra Russia e Occidente. Questo scontro ha
meccanismi ed esiti complessi.
In primis, l’Ucraina diventa il banco di prova dei princìpi democratici.
L’alternativa è netta: o l’Occidente prova la fedeltà ai propri valori o la
Russia si farà beffe dell’Occidente, con risultati nefasti per entrambe le
parti. L’Ucraina è l’unico paese al mondo ad aver ceduto volontariamente il
suo arsenale atomico in cambio di precise garanzie sulla sua sovranità e
sull’integrità dei propri confini da parte di Russia, Stati Uniti e Gran
Bretagna. Con l’invasione della Crimea, Mosca ha deliberatamente violato i
princìpi sui quali poggia la sicurezza europea postbellica. Qualora l’azione
militare russa non venisse rigidamente sanzionata, emergerebbe uno stato di
cose secondo cui nessun accordo può essere considerato valido. Ciò rischia
di generare una pericolosa proliferazione di armi atomiche nel mondo.
Europa e Stati Uniti finirebbero per uscire da questo confronto indeboliti da
un punto di vista politico e morale: il crollo dello Stato ucraino
costituirebbe infatti un pericoloso precedente, che esorterebbe il Cremlino
ad estendere la propria aggressione. Quando il Cremlino parla della
Polonia, degli Stati baltici, della Finlandia come «terre russe» sta
provocando l’Occidente. E se quest’ultimo non si dimostra in grado di
opporre una risposta ferma e una strategia efficace, si potrebbe prospettare
un nefasto effetto domino.
All’inizio dell’èra putiniana lo storico russo Jurij Afanas’ev ha scritto
un libro dal titolo La Russia pericolosa5. Nel 2004 anche Edward Lucas ha
avvertito che la politica putiniana sta mettendo in piedi una «nuova guerra
fredda»6. L’invasione della Crimea costituisce la sfida più plateale. Putin
conosce le debolezze dell’Occidente e le sfrutta sapientemente: sapendo che
la principale di queste debolezze è l’avidità: sotto Putin il maggior prodotto
d’esportazione della Russia è stata la corruzione del sistema politico e
finanziario occidentale7.
Inoltre, come dice Jan Tombiński, la Crimea rischia di diventare il posto
più pericoloso nel mondo, trasformandosi in uno snodo di traffici criminali,
con il potere saldamente in mano a mafie locali e non. Del resto, Putin fa
leva su un’eclettica combriccola di personaggi loschi, tra cui troviamo
cosacchi che si organizzano in «centurie nere», bikers «Lupi notturni»,
cetnici serbi, ceceni di Kadyrov, nonché Aksënov, l’autoproclamato nuovo
primo ministro della Repubblica Autonoma di Crimea, noto nel mondo
della criminalità organizzata con il nome di Goblin.
Sullo sfondo spicca la sfida globale lanciata all’America. Nella notte
successiva al referendum del 16 marzo il «giornalista di Putin» Dmitrij
Kiselëv ebbe a dire con orgoglio che la Russia è l’unico paese al mondo
capace di trasformare l’America in cenere radioattiva8. Fortunatamente, al
momento resiste anche la protesta degli stessi cittadini russi, che si ribellano
contro queste assurdità. Non si tratta solo di manifestazioni come quella di
50 mila persone a Mosca il 15 marzo. Emergono sempre più voci di
intellettuali russi che vogliono cambiare il paese e considerano l’invasione
della Crimea l’inizio della fine di Putin. A questo punto, varrebbe la pena di
rispolverare un’altra previsione di Brzezinski, che preconizzava la
democratizzazione della Russia in caso di vittoria delle forze democratiche
in Ucraina.
La sfida della Russia all’Occidente è dunque lanciata. Già ai tempi della
rivoluzione arancione, il filosofo francese André Glucksmann affermava
che l’odierna Europa occidentale non sarebbe altro che lo spazio dell’euro,
mentre sono i popoli dell’Europa orientale, vittime di due totalitarismi, a
restituire al Vecchio Continente gli ideali di libertà sui quali esso stesso era
fondato. La stessa cosa ha ripetuto Bernard-Henry Lévy dieci anni dopo, nel
2014, in una piazza gremita, parafrasando il famoso detto di Kennedy: «Io
sono ucraino».
È forse questo, per ora, il risultato più grande di Jevromajdan: mostrare
che si possono sfidare i mostri del totalitarismo, cambiando il corso della
storia, organizzando le forze e credendo nell’Europa. Václav Havel parlava
della più grande delle rivoluzioni, la rivoluzione esistenziale. Nel caso di
Jevromajdan, questa rivoluzione ha un nome datole dai primi giorni di
protesta: rivoluzione della Dignità.
1
«Ukraine–Divided or Diverse», Current Politics in Ukraine (blog),
ukraineanalysis.wordpress.com/2014/02/22/ukraine-divided-or-diverse
2
Jevromajdan ha adottato anche il nome Viče, cioè agorà slava ai tempi della Rus’ di Kiev.
3
M. KUNDERA, «Occidente sequestrato, ovvero la tragedia dell’Europa centrale», Nuovi
Argomenti, n. 9, gennaio-marzo 1984.
4
Z. BRZEZINSKI, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives,
Washington 1997.
5
JU. AFANAS’EV, Opasnaja Rossija, Moskva 2001.
6
E. LUCAS, The New Cold War: How the Kremlin Menaces Both Russia and the West, London-New
York-Berlin 2008.
7
«Russia’s New Cold War», The Washington Post, 19/2/2014.
8
www.youtube.com/watch?v=teZZMrnWUNw&feature=youtu.be
GLI OLIGARCHI ALLA FIERA
DELL’EST
Il cuore economico dell’Ucraina batte nelle regioni orientali. Un
pugno di affaristi ne ha assunto il controllo per poter manipolare le
scelte di Kiev. Qui si rivolgono gli appetiti del Cremlino. Che cosa
(non) è cambiato dopo Majdan.
di Fulvio SCAGLIONE

T
« endenze centrifughe», «possibile frammentazione del paese»,
«rischio di guerra civile», «intervento militare russo che non può essere
escluso a priori». Il tono è quello allarmato con cui la stampa mondiale
segue da mesi le ultime vicende ucraine, ma i timori risalgono al 1994, anno
in cui Stephen Larrabee, ricercatore dell’americana Rand Corporation,
pubblicò lo studio intitolato Ukraine: Europe’s Next Crisis?1. Nello stesso
anno Eugene Rumer, che oggi analizza per Politico l’evoluzione della crisi
tra Russia e Ucraina2 e che fu esperto di Russia per il National Security
Council degli Usa all’epoca della presidenza Clinton, scrisse per Foreign
Policy un articolo significativamente intitolato Will Ukraine Return to
Russia?3.
Da lungo tempo, insomma, politologi, diplomatici, economisti, e certo
gli uomini dei servizi segreti s’interrogano sulla solidità dell’integrità
territoriale dell’Ucraina indipendente nata dal disfacimento dell’Urss e dal
referendum svoltosi nel paese il 1° dicembre 19914. L’attenzione era e resta
puntata sulla parte dell’Ucraina che si estende a est del fiume Dnepr, la
provincia di Dnipropetrovs’k e la regione del cosiddetto Donbas, il
Donec’kyj Basejn, a sua volta organizzato in due province: quella di
Donec’k e quella di Luhans’k. Poco meno di un terzo della popolazione
dell’Ucraina, in gran parte cittadini ucraini di origine e di lingua russa5; un
territorio che geograficamente e orograficamente si estende anche oltre i
660 chilometri di confine con la Russia, fino a comprendere l’area di
Rostov sul Don, in Russia, che molti appunto definiscono «Russkij
Donbass», il Donbas russo. E per conseguenza una continuità di assetto
economico non priva di significato: di qua e di là dal confine miniere,
industrie metallurgiche, allevamenti e fertili «terre nere», che coprono pur
sempre il 60% del territorio del Donbas. Per non parlare della rete dei
gasdotti russi6, che pare cucire insieme questi territori, indifferente ai
confini, alle etnie, alle lingue.
Considerato che tra Dnipropetrovs’k, Luhans’k e Donec’k si concentra
circa l’80% del potenziale industriale dell’Ucraina, non è difficile
immaginare che il Cremlino, alle prese con la crisi dei suoi rapporti con
Europa e Usa innescata dalla caduta a Kiev del regime di Viktor Janukovyč,
possa oggi guardare a questa regione con rinnovati appetiti. E considerare
che l’integrazione di una parte o di tutta l’area non tanto nella Russia ma
nello «spazio vitale» della Russia post-sovietica potrebbe avvenire con
relativa facilità.

Da Alessandro II a Kučma via Stalin

Plausibile ma non probabile. Meglio non sottovalutare il carattere


speciale di questa regione, quella serie di tratti che, a dispetto del precoce
assorbimento nella Moscovia, soprattutto con Vasilij III tra fine
Quattrocento e i primi del Cinquecento, hanno fatto del Donbas e dei suoi
dintorni un’entità assolutamente originale e gli hanno garantito uno status
con pochi eguali nel mondo russo, sovietico e post-sovietico.
Questi tratti si sono formati nel corso di un lungo adattamento storico
che possiamo sintetizzare con il nome di tre protagonisti. Partiamo con
Alessandro II: la prima miniera di carbone del Donbas fu aperta nel 1721, il
primo impianto metallurgico fu inaugurato a Luhans’k nel 1795 ma una
vera febbre mineraria e industriale scoppiò solo nella seconda metà
dell’Ottocento, durante il regno di questo zar. Nel 1870 il Donbas
produceva 250 mila tonnellate di carbone, nel 1900 già 11 milioni di
tonnellate, pari a due terzi di tutta la produzione dell’impero. Un boom
industriale che poteva essere sostenuto solo con una massiccia importazione
di manodopera. A questo provvide nel 1861 appunto Alessandro II, con il
decreto di abolizione della servitù della gleba che riversò dalla Russia verso
la regione un flusso di contadini per la prima volta liberi, avventurieri,
minatori, piccoli artigiani, criminali e uomini in cerca di fortuna, non molto
dissimile da quello che solo qualche decennio prima aveva animato la
conquista del West nell’America del Nord.
Si formava in quegli anni la natura ibrida di questa parte dell’Ucraina
contemporanea. Nel 1897 il primo censimento generale dell’impero russo
mostrò che gli ucraini erano la maggioranza della popolazione, il 52,4%, e i
russi solo il 28,7% (oltre a tedeschi, polacchi, bielorussi, tatari, greci); ma
già nel 1900 i russi formavano il 55% dei lavoratori dell’industria (miniere,
ferriere, ferrovie…) e gli ucraini solo un terzo. Andava delineandosi
quell’assetto regionale che uno studioso come Vlad Mykhnenko ha così
descritto: «Una serie di centri urbani fortemente russificati su una mappa
rurale ucraina»7.
Sarà Stalin a trasformare in modo drammatico la mappa economica e
umana. Prima con la campagna contro i kulaki, i «contadini ricchi» che
secondo il dittatore avrebbero dovuto essere «eliminati come classe». Tra il
1928 e il 1929 oltre 350 mila fattorie e tenute agricole furono cancellate in
Ucraina e circa 850 mila persone deportate verso la Siberia o il Kazakistan.
La resistenza più o meno aperta alla dekulakizzazione condusse a ulteriori
misure da parte delle autorità sovietiche (requisizioni, vendita forzata di
prodotti agricoli a prezzi non remunerativi…) che scatenarono (1932-33) la
carestia nelle campagne, provocando tra 4,5 e 7,5 milioni di morti.
Tutto questo produsse un secondo esodo, dopo quello dell’Ottocento,
dalle aree rurali (ancora occupate in prevalenza da ucraini) verso le grandi
città industriali del Donbas. Per evitarlo le autorità introdussero il
passaporto interno, negando il permesso di spostamento ai contadini di
kolkhoz e sovkhoz, ma non riuscirono a impedire che nel decennio 1929-39
la popolazione urbana raddoppiasse e quella rurale diminuisse di quasi due
terzi. Le miniere del Donbas restavano uno dei pochissimi luoghi nell’Urss
in cui si potesse trovare un lavoro anche con documenti non perfettamente
in regola.
Negli ultimi secoli, quindi, si sono verificati sulla parte dell’Ucraina a
est del Dnepr molteplici fenomeni: la russificazione (che c’è indubbiamente
stata, anche se alla fine degli anni Cinquanta gli ucraini-russi erano ancora
«solo» il 37% della popolazione e gli ucraini-ucraini il 55%) si è innestata e
ha contribuito alla nascita di una comunità sociale ed economica nuova, che
a sua volta ha recuperato il carattere di area aperta, di via di fuga, di altro
dal centro, di Far West cosacco, insomma, che le era proprio fin dal
Cinquecento. Una vocazione emersa più volte nel tempo, dalle forme di
autogoverno delle comunità cosacche del sič tra fine Quattrocento e fine
Settecento allo spazio ribelle (né bolscevico né «bianco» né nazionalista
ucraino ma localistico e comunitario) della rivolta guidata da Nestor
Makhno tra il 1918 e il 1921. In modo solo apparentemente paradossale,
questo carattere si è dispiegato al massimo con la fine dell’Urss e con
l’avvento sulla scena politica ucraina di Leonid Kučma.

Il Donbas all’attacco

Il 7 giugno del 1993 entrò in sciopero la prima miniera di carbone di


Donec’k, l’8 giugno altre 75, dopo altri due giorni il numero delle miniere
in sciopero era arrivato a 400. La principale richiesta del comitato
organizzatore dei minatori, subito adottata e amplificata da tutti i partiti
politici, dalle autorità regionali, dalle organizzazioni degli industriali e dai
mass media, era: autonomia per il Donbas. Dieci giorni più tardi, il
presidente Kravčuk dovette fare una lunga serie di concessioni, tra cui la
promessa di un’«indipendenza economica» per il Donbas. Un anno dopo il
premier Leonid Kučma, che aveva condotto la propria carriera
professionale e politica a Dnipropetrovs’k, ed era primo ministro durante il
grande sciopero dei minatori, vinceva largamente le elezioni presidenziali
proprio ai danni di Kravčuk. In un passaggio di consegne che riverbera
anche sui problemi di questi mesi, il presidente nato in un villaggio della
Polonia poi diventato ucraino lasciava il posto al premier cresciuto in una
delle città più «russe» dell’Ucraina.
L’avvento al potere di Kučma inaugurava l’èra degli oligarchi e nello
stesso tempo l’èra del dominio delle regioni dell’Est sull’intero paese. I due
fenomeni s’intrecciano: la concentrazione all’Est della potenza economica
produceva gli oligarchi, che difendendo i propri interessi difendevano l’Est.
Ma qui ci interessa notare che i due fenomeni sono proseguiti senza
significative variazioni nell’ultimo ventennio.
Degli oligarchi si sa: ingrassarono le proprie fortune con le
privatizzazioni degli anni Novanta (oltre 9.200 aziende statali passarono in
mani private tra il 1993 e il 2003 nella sola regione di Donec’k) e da allora
non hanno mai smesso di condizionare il governo centrale di Kiev,
addirittura occupando in esso posizioni di assoluto rilievo in determinati
periodi8. Ma anche la seconda condizione si è perpetuata a dispetto delle
apparenze e delle stagioni politiche. Il caso forse più emblematico è quello
di Pavlo Lazarenko, governatore della provincia di Dnipropetrovs’k (1992-
95, prima come inviato del presidente e poi come governatore eletto), vice
primo ministro (1995), primo ministro (1996-97), imputato di corruzione,
frode e riciclaggio di denaro (1999), ricercato con mandato di cattura
internazionale, infine condannato a nove anni di prigione negli Usa nel
2006 per riciclaggio di denaro.
Lazarenko era un rapace uomo d’affari diventato politico, all’apice del
successo considerato una possibile alternativa a Kučma come leader del
clan di Dnipropetrovs’k in opposizione a quello di Donec’k. Tra i due clan
non c’era alcuna differenza «filosofica». Lazarenko fu sospettato di essere il
mandante dell’assassinio di Jevhen Ščerban’, leader del Partito liberale e
figura di spicco del clan politico-affaristico di Donec’k, ma avrebbe potuto
controfirmare le parole che questi pronunciò nel 1995, un anno prima di
essere ucciso con la moglie e il figlio: «È chiaro che con la scusa di
combattere la mafia e la corruzione si sta conducendo una sistematica
campagna per indebolire le principali strutture economiche del Donbas.
(…) È solo questione di tempo prima che tutte le posizioni chiave della
regione vengano occupate da esponenti di altre regioni».
Lazarenko era azionista occulto e grande patron della United Energy
Systems of Ukraine (Uesu), che all’epoca del suo premierato divenne il
maggiore conglomerato industrial-finanziario del paese. Tra il 1995 e il
1997 la Uesu fu diretta da Julija Tymošenko, anche lei originaria di
Dnipropetrovs’k, presto nominata vice di Lazarenko pure alla guida del
partito Hromada. Nel 1999, all’epoca della disgrazia del suo mentore, la
Tymošenko, al modo tipico degli oligarchi ucraini, fondò un partito proprio
per diventare, nel 2004, la figura leader della «rivoluzione arancione» e di
una politica in apparenza anti-russa. Definire «oligarca» la Tymošenko può
sorprendere solo chi abbia dimenticato che prima della Uesu esisteva
un’altra azienda, la Ukrains’kyj Benzyn fondata nel 1989 dalla stessa Julija
e dal marito Oleksandr. Fu proprio sulla base di questa azienda di famiglia,
e ovviamente della «protezione» di Lazarenko, che venne poi creata la
Uesu, tanto che nel 1996, quando fu eletta al parlamento, la Tymošenko
passò la presidenza della Uesu direttamente al suocero Hennadij.
Nel frattempo risaliva all’orizzonte la stella del clan di Donec’k e con
essa quella di Viktor Janukovyč. Ex «manager rosso» di un’azienda di
trasporti, governatore regionale del Donbas tra il 1997 e il 2002, ottenne nel
1999 (alla vigilia delle elezioni presidenziali che avrebbero riconfermato
Kučma) lo status di «zona franca» per la provincia di Donec’k, oltre a
quello di «area di sviluppo privilegiata» per diciassette centri minerari della
regione. Nel 1997 aveva fondato il Partito ucraino per la rinascita delle
regioni che nel 2001, fondendosi con altre piccole formazioni politiche
attive nel Donbas, divenne il Partito delle regioni e alle elezioni politiche
del 2002 risultò il secondo partito per numero di seggi in parlamento, il che
portò Janukovyč alla nomina a primo ministro (2002-4). Su quella base, nel
2004 tentò di conquistare la presidenza ma il voto fu annullato per brogli.
Le proteste popolari portarono alla «rivoluzione arancione» e all’elezione di
Viktor Juščenko nella ripetizione del voto.
Ma la misura in cui gli oligarchi sono padroni degli assetti politici
dell’Ucraina è testimoniata dalle prime decisioni del governo provvisorio
guidato dal premier Arsenij Jacenjuk dopo la cacciata di Janukovyč: alla
guida della provincia di Dnipropetrovs’k è stato insediato Ihor
Kolomojs’kyj, a quella di Donec’k Serhij Taruta. Kolomojs’kyj, nativo di
Dnipropetrovs’k, è fondatore e proprietario del gruppo Privat (finanza,
metallurgia, media, petrolio, trasporti), considerato il secondo per
importanza dell’Ucraina dopo il System Capital Management di Rinat
Akhmetov. Taruta, nato non lontano da Donec’k, attivo nella metallurgia e
nei media, presidente di un conglomerato denominato Industrial Union of
Donbas, è il terzo uomo più ricco del paese. È l’ennesimo riconoscimento,
tra l’altro, del fatto che questa parte dell’Ucraina non si lascia amministrare
da Kiev ma, semmai, manda i «suoi» ad amministrare altri.

Il giardino privato degli oligarchi

Resta da chiedersi in che modo la storia della regione, per secoli


impegnata a miscelare e annullare le ingerenze esterne e poi ad affermare la
propria preminenza all’interno dell’Ucraina, si rifletta oggi sui rapporti con
la Russia.
Per rispondere, è utile considerare l’andamento economico della regione
Est negli ultimi anni. Nel 1988, nelle fasi terminali del socialismo reale, la
quota di pil pro capite di questa parte del paese era del 32,5% inferiore a
quello medio dell’Ucraina. Nel 2002 il rapporto era rovesciato: il pil pro
capite dell’Ucraina a est del Dnepr era del 26,7% superiore alla media
nazionale. Dal 1993, inoltre, i salari nell’Ucraina dell’Est sono sempre
cresciuti più rapidamente che nel resto del paese e il tasso di
disoccupazione è sempre rimasto sotto quello medio nazionale.
In poche parole: l’oligarchia dell’industria e del denaro espressa dalle
regioni industriali dell’Est ha esercitato un controllo sulla politica nazionale
di cui, in ultima istanza, hanno beneficiato anche lavoratori e semplici
cittadini. Questo ha rafforzato la convinzione, negli oligarchi già da tempo
consolidata, che il benessere derivi non dall’associarsi ma dall’imporsi.
Ancor più in breve: quel che fa bene agli affari e al territorio non è
aggregarsi a Mosca (o, sull’altro versante, all’Unione Europea) ma dettare
la linea a Kiev. Questo non impedisce agli oligarchi ucraini di fare affari
con grandi aziende statali o influenti imprenditori privati di Mosca e
dintorni, ma li rende attenti e persino spietati nel tracciare limiti che
nessuno può permettersi di superare. Sapendo che, naturalmente, il conto
degli eventuali danni lo pagherà Kiev.
Subito dopo l’arrivo alla presidenza di Viktor Janukovyč nel 2010 si
diffusero, contemporaneamente in Russia9 e nel cuore dell’Europa
comunitaria10, i pronostici di una prossima «colonizzazione» dell’economia
ucraina da parte di quella russa e i timori per le eventuali conseguenze.
L’allarme, in primo luogo, suonava tardivo. Per un paradosso solo
apparente, gli investimenti diretti russi in Ucraina erano cresciuti in modo
deciso proprio nel periodo della «rivoluzione arancione» del duo
Tymošenko-Juščenko, quand’erano passati dal 4,2% del totale nel 2005 al
5,2% nel 2008. Anche le proporzioni, come si vede, non erano poi così
abnormi, considerato che in quegli anni la Russia valeva circa il 30% sia
delle importazioni sia delle esportazioni dell’Ucraina. Ma era soprattutto la
qualità degli investimenti russi a rivelare il fatto che gli oligarchi locali
avevano costruito un solido recinto intorno al loro giardino economico
privato.
Il settore in cui gli investimenti russi hanno potuto espandersi di più è
senz’altro quello bancario. Tra le dieci maggiori banche del paese11, che
insieme controllano il 54,2% del mercato, tre sono in effetti a capitale russo.
Ma quello bancario è anche il settore dell’economia ucraina più penetrato
dai capitali stranieri: delle 177 banche che operano in Ucraina, 56 hanno
capitali stranieri e 21 sono controllate al 100% da capitale straniero.
Gli oligarchi ucraini hanno altresì tollerato che i colleghi russi
espandessero i propri interessi nel settore delle comunicazioni (caso tipico:
l’operatore di telefonia mobile Mts che nel 2003 rileva il 57,7% delle azioni
dell’operatore ucraino Ums), delle costruzioni navali, dell’indotto
dell’industria automobilistica. Ma hanno custodito gelosamente le galline
dalle uova d’oro: il commercio del gas, la lavorazione del petrolio e
l’industria metallurgica.
Per quanto riguarda gas e petrolio, gli oligarchi ucraini – per il tramite
dei diversi governi che si sono succeduti a Kiev – e la Russia hanno
stipulato un matrimonio d’interessi suscettibile di trasformazioni e colpi di
scena destinati ad assecondare più la convenienza dei primi che i desideri
della seconda. Lo dimostra in modo eloquente la vicenda di RosUkrEnergo,
che merita di essere rievocata.
I due colossi statali del gas, Naftohaz per l’Ucraina e Gazprom per la
Russia, hanno da sempre trattato le forniture non direttamente ma tramite
società di mediazione. Un ottimo sistema per convogliare parte dei profitti
su conti esteri a beneficio dei soliti noti. Tra il 1994 e il 2001 il mediatore
fu la Itera (società registrata negli Usa), dal 2001 al 2005 la Eural Trans Gas
(registrata in Ungheria). Nel 2006, in seguito a un accordo tra Kučma e
Vladimir Putin, subentrò nel ruolo la RosUkrEnergo, società registrata in
Svizzera. Il 50% delle azioni era nelle mani di Gazprom, l’altro 50% era
così suddiviso: il 45% di proprietà dell’oligarca ucraino Dmytro Firtaš
(dominatore dell’industria chimica e proprietario della banca Nadra, la
decima per importanza in Ucraina, ma arrestato in marzo a Vienna), il 5%
di Ivan Fursin (altro uomo d’affari di spicco, primo azionista degli studi
cinematografici Odessa e uno dei proprietari della banca Misto). Passata
indenne, anzi rafforzatasi in occasione della «guerra del gas» del 2006 tra
Russia e Ucraina, la RusUkrEnergo avrebbe poi dovuto soccombere con la
seconda guerra del 2009. Che sarebbe passata alla cronaca come un
conflitto geopolitico tra nazioni mentre altro non era che il solito
regolamento di conti tra oligarchi a spese dello Stato.
Julija Tymošenko, a quell’epoca primo ministro e figura preminente
della «rivoluzione arancione», considerava la RosUkrEnergo una pericolosa
fonte di sostegno finanziario per i suoi maggiori rivali: il Partito delle
regioni, cioè Janukovyč, e il presidente Juščenko. Voleva inoltre eliminare
le società di intermediazione affinché le forniture di gas fossero
direttamente trattate da Stato a Stato, cioè da lei e dalla controparte russa.
L’occasione giunse con la crisi finanziaria internazionale del 2008 e la
successiva disputa con la Russia sul debito pregresso e sulle forniture di gas
a venire: RosUkrEnergo fu eliminata e nel 2009 fu siglato un accordo
decennale diretto tra Naftohaz e Gazprom. Peccato che il prezzo fosse nel
frattempo aumentato in misura sensibile, andando negli anni a formare quel
debito che oggi la Russia rinfaccia all’Ucraina.
È sempre stato il denaro, insomma, a stabilire il grado di vicinanza tra
l’Ucraina, dove gli oligarchi si appoggiano allo Stato, e la Russia, dove lo
Stato si appoggia agli oligarchi. Si diceva del gas. Vediamo ora il petrolio.
La vicenda più emblematica è quella della raffineria di Kremenčuk, la più
grande dell’Ucraina, gestita da una società fondata nel 1994 dal governo
ucraino e da quello della Repubblica autonoma russa del Tatarstan. Dal
1998, parte delle azioni «ucraine» cominciò a passare di mano, finché nel
2007 la situazione si rivelò essere questa: il 43% delle azioni restava al
governo ucraino tramite Naftohaz, mentre i russi (governo del Tatarstan e
società come Tatneft’, SeaGroup International e AmRuzTrading) ne
controllavano il 55%. Un altro 1,2% era detenuto dal solito oligarca locale,
in quel caso il gruppo Privat del duo Kolomojs’kyj-Boholjubov.
Nel 2008 un tribunale di Kiev stabilì che l’acquisto del 18,3% di azioni
realizzato da SeaGroup International e AmRuzTrading era illegale. Quel
pacchetto azionario fu prima sequestrato dall’autorità giudiziaria e poi
rapidamente acquistato dagli emissari di Privat. L’anno successivo
l’operazione fu completata da un altro tribunale, che fece sequestrare anche
il 28,8% di azioni di proprietà del governo del Tatarstan. Anche queste
passarono a Privat che nel giro di due anni, con il 47%, divenne l’azionista
di maggioranza dell’impresa. Per rappresaglia, la compagnia petrolifera
russa Tatneft’, che era rimasta con un inutile 10% delle azioni e che era il
principale fornitore di greggio della raffineria di Kremenčuk, sospese le
forniture. Allora il gruppo Privat «convinse» UkrTransNafta, l’azienda di
Stato ucraina che gestisce gli oleodotti, a cambiare il flusso nelle condotte
per far arrivare a Kremenčuk greggio dell’Azerbaigian. Con un delizioso
effetto collaterale: così facendo restava a secco la raffineria rivale di
Odessa, che apparteneva alla compagnia petrolifera russa Lukoil.

Giù le mani dall’acciaio

Il settore che gli oligarchi ucraini sono riusciti a rendere quasi


impermeabile alle infiltrazioni dall’esterno è però quello della metallurgia,
il boccone più prelibato e redditizio dell’economia nazionale. L’industria
metallurgica esporta circa l’80% della produzione e così facendo genera
circa il 40% del ricavato di tutto l’export ucraino. Tutte le lobby degli affari
del paese si sono saldamente insediate in questo settore.
Il clan di Donec’k, attraverso la Industrial Union of Donbass (Iud), nella
seconda metà degli anni Novanta si è aggiudicato la Azovstal’, terzo
complesso metallurgico dell’Ucraina. Ma il vero colpo è arrivato nel 2001,
con la conquista del controllo della fabbrica di condotte di Khartcyz’k,
quasi monopolista tra tutti i paesi dell’ex Urss nella produzione dei tubi di
grandi dimensioni (da 530 a 1.420 millimetri) rivestiti di materiale
anticorrosione, fondamentali nella costruzione degli oleodotti.
Il clan di Dnipropetrovs’k (non dimentichiamo che da questa città sono
usciti il presidente Kučma, il primo ministro Lazarenko, il primo ministro
Tymošenko, oltre a un vasto numero di oligarchi impegnati anche in
politica) non ha a sua volta perso il passo. Oltre a una miriade di altre
imprese, la Interpipe di Viktor Pinčuk si è saldamente insediata nella
produzione ed esportazione di condotte d’acciaio, un ramo dell’industria
metallurgica assai ben rappresentato nella provincia di Dnipropetrovs’k.
Vale la pena di accennare brevemente al fatto che Pinčuk, già leader del
partito Trudova Ukrajina (Ucraina del lavoro, ribattezzato ironicamente
Trubova Ukraina, Ucraina dei tubi, per evidenti ragioni), è il secondo
marito di Olena, figlia del presidente Kučma, la quale è stata sposata in
prime nozze con il figlio del presidente della Repubblica autonoma di
Crimea.
Al di là del gossip resta la politica. Perché gli oligarchi ucraini si sono
assicurati il dominio assoluto del settore metallurgico manovrando a proprio
piacere il governo centrale di Kiev, qualunque governo. Persino quello
provvisorio insediatosi poche settimane fa tra gli applausi di Majdan: il
miliardario Serhij Taruta, nominato governatore della provincia di Donec’k,
è l’azionista di maggioranza della Industrial Union of Donbass, ai cui
interessi abbiamo appena fatto qualche cenno.
Oltre al benevolo sguardo sulle privatizzazioni frettolose e poco
trasparenti degli anni Novanta, i businessmen dell’Ucraina dell’Est hanno
goduto negli anni Duemila di copiosi e poco giustificabili rimborsi fiscali,
di leggi ad hoc per la riduzione degli obblighi sanitari ed ecologici, di
massicce esenzioni dalle spese per la costruzione e manutenzione delle
infrastrutture necessarie agli stabilimenti, di creativi esperimenti fiscali e
legislativi per concedere sempre nuove agevolazioni a questa o quella
categoria di imprese del settore metallurgico o a questa o quell’area
industriale.
L’inevitabile risultato è stato di tenere alla larga gli investimenti esteri:
quelli europei come quelli dei meno esigenti russi. Qualche modesta
eccezione (impianti per la lavorazione dell’alluminio o acciaierie di
secondo piano acquisite da società russe) non cambia il quadro di fondo. E
anche qui c’è almeno una storia interessante da raccontare, quella della
rivalità tra il solito Taruta e Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco di Ucraina, il
39° più ricco al mondo secondo Forbes, magnate dagli interessi che
spaziano dalle acciaierie al calcio12. Nel 2009 la Iud di Taruta ebbe il suo
momento di crisi, arrivando alle soglie della bancarotta. Il problema era,
come sempre, sia politico sia industriale. Politico perché la Iud appoggiava
la Tymošenko mentre Akhmetov il Partito delle regioni e Janukovyč.
Industriale, perché la Iud, nella gestione dell’impianto per le condotte
speciali di Khartcyz’k e di altri stabilimenti, soffriva il quasi monopolio dei
materiali ferrosi esercitato in Ucraina dalla MetInvest di Akhmetov, che la
costringeva ad acquistare in Brasile e in Russia, pagandolo a caro prezzo, il
minerale necessario.
A quel punto Vitalij Hajduk, socio di Taruta, decise di vendere il proprio
pacchetto azionario della Iud. Così la maggioranza delle azioni passò alla
Carbofer, società creata in Svizzera da un consorzio di investitori russi tra i
quali figura anche la Vnešekonombank, la banca per le attività economiche
all’estero dello Stato russo. Taruta rimase con il 49% delle azioni: ottima
quota di un grande affare ma pur sempre quota di minoranza.
Anche se isolata, è una lezione che i politici e gli oligarchi non hanno
dimenticato. Nel 2010, la Iron Works (secondo più importante stabilimento
metallurgico dell’Ucraina) e la Zaporižistal’ (quarta acciaieria del paese) di
Mariupol’ finirono sotto il controllo di società create a Cipro da investitori
russi. Meno di un anno dopo il primo ministro Mykola Azarov, un
tecnocrate fedelissimo di Janukovyč, dichiarò illegale il passaggio di
proprietà. E a difendere la «ucrainità» degli stabilimenti corse proprio la
MetInvest che, forte dei capitali di Akhmetov, rilevò i due impianti. Azarov,
notiamolo di passaggio, è un ucraino di recente acquisizione: di famiglia
mezza russa e mezza estone, è nato nel 1947 a Kaluga (Russia), si è
laureato in geologia a Mosca e si è trasferito in Ucraina solo nel 1984.

Per una morale della favola


La possibile evoluzione dei rapporti economici e politici tra Ucraina e
Russia, dunque, non può essere letta senza tener conto di quanto si è cercato
fin qui di descrivere, e che possiamo riassumere in una serie di passaggi:
1) la parte di Ucraina a est del Dnepr, grazie alle sue risorse naturali, è
decisiva per le sorti economiche del paese;
2) di questa regione e di queste risorse, attraverso le privatizzazioni
degli anni Novanta, si è impadronito un gruppo ristretto di uomini d’affari, i
cosiddetti oligarchi che, pur essendo in competizione tra loro, condizionano
in misura decisiva il governo centrale di Kiev;
3) tale posizione di privilegio consente agli oligarchi di indirizzare
anche l’opinione pubblica: sia spostando verso le province dell’Est, grazie
alla pressione sugli organi di Stato, risorse e investimenti importanti; sia
redistribuendo alla popolazione parte dei profitti realizzati grazie a tale
privilegio; sia influenzando in modo più diretto l’opinione pubblica
attraverso i media, che nella quasi totalità appartengono appunto all’élite
degli uomini d’affari13.
Un meccanismo ormai ben oliato, che per funzionare al meglio, cioè per
produrre il massimo del profitto per gli oligarchi, ha il bisogno quasi
assoluto di rispettare una condizione: un’Ucraina indipendente e
sostanzialmente equidistante dai due blocchi che premono per annetterla
alle proprie politiche, l’Unione Europea e la Russia.
È chiaro infatti che tanto l’adesione all’Ue quanto l’inserimento
nell’Unione doganale proposta da Mosca comporterebbero vantaggi e
svantaggi per i centri del potere economico ucraino. Dal punto di vista
politico lo svantaggio sarebbe certo ed evidente: se il governo di Kiev fosse
costretto, avendo siglato un accordo, a rispettare regole e procedure
sovranazionali, sarebbe anche meno influenzabile e malleabile rispetto agli
interessi personali degli oligarchi. Pensiamo, per fare un solo esempio,
all’Ue e alle norme a favore del libero mercato e contro il protezionismo di
Stato: che succederebbe all’enorme quantità di privilegi accordati finora da
Kiev alla metallurgia del Donbas?
La politica più proficua per gli oligarchi ucraini è stata ed è proprio
quella di tenere il piede in due scarpe, senza mai scegliere. Politica che
Kiev, finora, ha sempre e docilmente messo in atto: non è un caso che sul
processo di adesione all’Ue si sia trattato per dodici anni e che ad accettare
l’Unione doganale proposta dalla Russia Janukovyč si sia risolto solo alla
vigilia del crollo, mentre le procedure per l’adesione alla Wto andarono a
buon fine già nel 2008, quando le riforme necessarie per guadagnare
l’ingresso nel club del commercio internazionale furono realizzate in breve
tempo.
La strategia dei due forni è peraltro suggerita, se non imposta, anche
dalla particolare struttura delle esportazioni ucraine, che sono la maggior
fonte di ricchezza del paese. Esse vanno per il 38% ai paesi dell’area ex
Urss, per il 26% all’Ue e per il 36% ad altri paesi14. Questo almeno è quanto
si evince analizzando i cinque settori dell’economia ucraina che da soli
generano il 90% delle esportazioni e dei relativi proventi, cioè metallurgia,
industria mineraria, agricoltura, chimica e meccanica.
Difficile scegliere in queste condizioni. Anzi: più conveniente non
scegliere. Ecco perché gli oligarchi finora non hanno scelto e hanno per
conseguenza imposto al governo centrale di non scegliere. Con le
sommosse di Kiev e il cambio di regime lo scenario sembra spostarsi a
favore di un’adesione all’Unione Europea: è lecito attendersi, oltre a
qualche trauma imprevisto per molti ucraini (le regole comunitarie, per
esempio, potrebbero produrre un certo shock sull’agricoltura, settore dove
sembrano prevalere i filo-Ue), una mediazione tra il governo (qualunque
esso sia) e gli oligarchi che, se Ue dovrà essere, vorranno almeno
«contrattare» il massimo della convenienza possibile.
Per le stesse ragioni, però, pare impossibile che si realizzi uno «scenario
Crimea» anche per il Donbas e altre province dell’Ucraina dell’Est. Il caso
Khodorkosvkij ha insegnato molte cose anche agli oligarchi ucraini, mentre
nella popolazione è viva la consapevolezza non solo di vivere in una zona
economicamente privilegiata ma di poter vantare potenti personaggi, capaci
di imporsi anche al governo centrale, impegnati a presidiare e perpetuare
tale privilegio.
Sarà il futuro prossimo a dirci se gli eventi di Kiev hanno fatto saltare
questo particolare e delicato equilibrio o se, come in altri periodi della storia
recente dell’Ucraina, è questo stesso equilibrio ad aver preso solo una
forma nuova e diversa.
1
ST. LARRABEE, «Ukraine: Europe’s next Crisis?», Arms Control Today, luglio-agosto 1994.
2
www.politico.com/magazine/story/2014/03/putins-reckless-ukraine-gambit-
104125.html#.Uxx4hud5MR4
3
E. RUMER, «Will Ukraine Return to Russia?», Foreign Policy, n. 3/1994.
4
Il referendum si svolse il 1° dicembre 1991. Il quesito sulla scheda era: «Approvi l’Atto di
Dichiarazione di Indipendenza dell’Ucraina?». Votò l’84,18% degli aventi diritto e il «sì» ottenne il
90,32% dei voti. Nella stessa occasione Leonid Kučma fu eletto presidente dell’Ucraina.
5
In un recente sondaggio, il 17% degli abitanti di tutta l’Ucraina si è definito «russo», ma il 30% ha
dichiarato di considerare il russo come la propria lingua.
6
www.eegas.com/fsu_r.htm
7
V. MYCHNENKO, «From Exit to Take Over: The Evolution of Donbas as an Intentional
Community», paper per il workshop «The Politics of Utopia: Intentional Communities as Social
Science Microcosms», Uppsala 2004.
8
Ecco alcuni degli oligarchi che hanno occupato importanti posizioni di governo: Vitalij Hajduk,
viceministro dell’Energia (2000-1), ministro dell’Energia (2001-2), vice primo ministro (2003-4);
Viktor Medvedčuk, capo dell’amministrazione presidenziale dal 2002 al 2005; Julija Tymošenko,
primo ministro nel 2005 e dal 2007 al 2010; Petro Porošenko, segretario del Consiglio di sicurezza
nazionale e di difesa nel 2005 e ministro degli Esteri tra 2009 e 2010; Borys Kolesnikov, vice primo
ministro e ministro delle Infrastrutture dal 2010 al 2012; Valerij Khorošovskyj, vicesegretario del
Consiglio di sicurezza nazionale e di Difesa nel 2006, nel 2009 vice capo dei servizi segreti e poi
capo degli stessi nel 2010 e 2011; Andrij Kljuev, di volta in volta vice primo ministro (2003-4 e
2006-7), ministro dello Sviluppo economico e vice primo ministro (2010-12), segretario del
Consiglio della difesa e della sicurezza nazionale (2012-14) e capo dell’Amministrazione
presidenziale negli ultimi mesi della presidenza Janukovyč, nel 2014. Questi sono solo i casi più
clamorosi, senza tenere conto del fatto che quasi tutti gli oligarchi, nel corso della loro carriera, sono
stati membri del parlamento. Inutile sottolineare che tutti gli oligarchi qui elencati erano nati nel
triangolo Dnipropetrovs’k-Donec’k-Luhans’k.
9
Si veda, a titolo di esempio, questo articolo della Nezavisimaja Gazeta: www.ng.ru/cis/2010-07-
22/100_posol.html
10
La Fondation Robert Schuman pubblicò un lungo articolo dedicato, appunto, alla colonizzazione
economica dell’Ucraina da parte della Russia: www.robert-schuman.eu/fr/questions-d-europe/0217-l-
ukraine-en-proie-a-la-colonisation-economique-russe
11
Le dieci maggiori banche d’Ucraina: Privat Bank (emanazione del gruppo Privat di Ihor
Kolomojs’kyj e Hennadiy Boholjubov), con il 13,7% del mercato; Oščadbank (statale), 7,3%;
Ukreksimbank (statale), 7,1%; Raiffeisen Bank Aval (Raiffeisen Bank International, Austria), 5,2%;
UkrSibbank (Bnp Paribas, Francia), 4,1%; Ukrsocbank (Bank Austria e Unicredit, Italia), 3,8%; Wtb
Bank (sussidiaria della Vneštorgbank, Russia), 3,6%; Prominvest Bank (Vnešekonombank, Russia),
3,4%; Fuib (gruppo System Capital Management di Rinat Akhmetov, Ucraina), 2,8%; Alfa Bank
(Alfa Bank, Russia), Nadra (Centragas Holding GmbH di Dmytro Firtaš, Ucraina). Dati dicembre
2011.
12
Rinat Akhmetov è dal 2006 proprietario e presidente dello Šakhtar Donec’k, che con lui è
diventata la prima e finora unica squadra di calcio ucraina a vincere la Europa League (2009).
13
I cinque canali tv più visti in Ucraina, e di fatto tutti i maggiori organi di stampa, appartengono a
quattro persone: gli oligarchi Rinat Akhmetov, Ihor Kolomojs’kyj, Viktor Pinčuk e Valerij
Khoroškovskyj.
14
Dati 2012.
LA BANCAROTTA UCRAINA È
DIETRO L’ANGOLO
L’incertezza geopolitica, i ritardi atavici e l’eredità nefasta della
stagione Juščenko-Tymošenko palesano lo spettro del default
sovrano. I danni per la Russia e per l’Europa. Senza un’azione
internazionale concertata si rischia una Weimar al cubo.
di Gian Paolo CASELLI

A
1. lla base degli avvenimenti ucraini degli ultimi mesi sta senza
dubbio la difficile situazione economica del paese, che non è frutto solo del
malgoverno di Janukovyč. Un sistema economico caratterizzato da
debolezze strutturali e da politiche economiche sbagliate, decise da una
classe politica totalmente inadeguata, hanno impedito la costruzione di uno
Stato e di un’economia efficienti, in grado di migliorare il tenore di vita dei
cittadini. Il fallimento più rilevante è stata la mancata costruzione di uno
Stato unitario con una sua identità definita; invece di darsi questo obiettivo,
le classi dirigenti hanno giocato a tempi alterni a ottenere l’appoggio
europeo contro quello russo e viceversa, per massimizzare i possibili
benefici.
Oltre vent’anni, dal 1991 a oggi, sono così trascorsi invano: mentre nel
1992 il reddito medio ucraino era il 90% di quello polacco, attualmente è
meno del 40%. A parità di potere d’acquisto, il reddito pro capite polacco è
quadruplicato dal 1992, mentre quello ucraino è cresciuto solamente del
40%; in termini assoluti, nel 2013 il reddito medio pro capite ucraino,
sempre a parità di potere d’acquisto, era (secondo il Fondo monetario
internazionale) minore di quelli di Bielorussia, Russia e Polonia: 7.422
dollari in Ucraina, 16.106 in Bielorussia, 18.083 in Russia e 21.118 in
Polonia. Da un punto di vista comparativo i ventitré anni trascorsi dal 1991
sono stati quindi un sostanziale fallimento, in contrasto con le previsioni di
gran parte degli osservatori che immaginavano per il sistema economico
ucraino un brillante futuro: transizione veloce, avvicinamento all’Unione
Europea, forse adesione alla Nato.

In tempi sovietici, la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina (Rssu) era


una delle più povere dell’Urss; solo le repubbliche asiatiche, eccetto il
Kazakistan, erano più povere e arretrate, mentre nella parte europea
l’Ucraina precedeva solamente la Georgia e l’Azerbaigian. D’altra parte, in
epoca zarista l’Ucraina era il granaio dell’impero e la fornitura di prodotti
agricoli ne era la principale fonte di valuta estera. Un principio di
industrializzazione era avvenuto alla fine dell’Ottocento intorno al bacino
carbonifero del Donbas e alle miniere di ferro di Kryvyj Rih. Nel periodo
sovietico l’Ucraina si è industrializzata nel quadro della pianificazione
centralizzata, fornendo all’Urss (oltre ai prodotti agricoli) manufatti di vario
tipo, soprattutto strumentali, venendo integrata nella produzione aeronautica
e di armi. Il processo di industrializzazione è avvenuto solamente in alcune
parti del paese, principalmente l’Est, dove si sono formati importanti
conglomerati industriali; l’Ovest rimane sostanzialmente agricolo e
scarsamente industrializzato.

Immediatamente dopo l’indipendenza, durante la presidenza Kravčuk, il


paese è piombato in una depressione profonda durata fino al 1995. Dopo
l’elezione a presidente di Leonid Kučma alla fine del 1994, grazie a un
piano di stabilizzazione economica la caduta del reddito e della produzione
decelera e l’iperinflazione viene domata con una radicale misura di
sostituzione della moneta, dal karbovanec’ alla hryvnja, che viene
agganciata al dollaro. Il cambio karbovanec’/hryvnja è di 100 mila a uno e
viene fissato il primo novembre 1996, quando il prezzo di un chilo di pane
ha raggiunto 90 mila karbovanec’. La caduta del reddito continua però fino
al 1999: in totale, in questo intervallo di tempo il reddito crolla del 59%.
Solo alla fine del 1999 l’economia ricomincia a crescere; lo farà in modo
soddisfacente fino al 2009. La spaventosa caduta di reddito si accompagna
a una diminuzione della popolazione, che ridimensiona la contrazione del
reddito pro capite. Tuttavia, questa emorragia demografica si sostanzia nella
perdita di circa 8 milioni di cittadini dal 1991 al 2012. Dato il basso tasso di
natalità, difficilmente il trend potrà essere invertito.

2. Il periodo d’oro dell’economia ucraina va dal 2001 al 2008, quando il


tasso di crescita medio è simile a quello russo, superiore cioè al 7%. Tale
crescita è determinata da diversi fattori, tutti però contingenti: non vi sono
infatti veri cambiamenti nella struttura economica, tali da eliminarne
almeno alcune delle caratteristiche patologiche; sicché i fattori di crescita si
rivelano presto transitori. La crescita mondiale del periodo determina un
aumento dei prezzi delle esportazioni metallurgiche e chimiche, con il
conseguente miglioramento dei termini di scambio ucraini di circa il 50%.
Parallelamente, i prezzi del gas russo restano stabili. Un altro fattore di
crescita è l’aumento della domanda per consumi, favorita dalla politica di
credito permissiva praticata sia dal sistema bancario ucraino che dalle
banche straniere, insediatesi nel paese dall’inizio degli anni Duemila. Tale
politica, simile a quella attuata in altri paesi dell’Europa orientale,
contribuisce a rimonetizzare un sistema che negli anni Novanta
assomigliava più a un’economia basata sul baratto che a un’economia
monetaria.
La fragilità dell’economia ucraina si manifesta in tutta la sua gravità con
la crisi iniziata nel 2008 e palesatasi in pieno nel 2009, quando il reddito
nazionale ucraino crolla del 15%. Per consentire al paese di restare a galla
dopo questa batosta, nel luglio 2010 l’Fmi interviene con un prestito di 15,3
miliardi di dollari. I rapporti tra il Fondo e i governi ucraini non sono mai
stati facili e la delegazione del Fondo incaricata di controllare l’osservanza
delle condizioni poste per la concessione del prestito lascia Kiev senza
raggiungere alcun accordo.
Il problema principale su cui si arenano le trattative è l’innalzamento dei
prezzi interni dell’energia. Si tratta di un dilemma che qualunque governo
ucraino dovrà affrontare e che pone serie incognite di ordine sociale e
politico. Per svariato tempo, nonostante le «guerre del gas» verificatesi
nell’ultimo decennio, Kiev ha goduto di prezzi energetici molto al di sotto
delle quotazioni mondiali, grazie alle relazioni particolari con la
Federazione Russa e con Gazprom. Questo ha provocato una profonda
distorsione nel suo sistema economico, impedendo la razionalizzazione
energetica delle sue industrie metallurgiche e degli impianti che producono
semilavorati, fortemente energivori. La Banca per la ricostruzione e lo
sviluppo ha recentemente affermato che l’economia ucraina è una delle più
inefficienti nell’uso delle risorse energetiche e che solo un terzo della sua
struttura produttiva può essere paragonata a quella media europea.
Attualmente, secondo l’Oxford Institute for Energy Studies, il prezzo
interno del gas per le famiglie è un quinto del nuovo prezzo praticato dalla
Russia a Janukovyč (268,50 dollari per mille metri cubi) e un ottavo di
quello più alto precedente (oltre 400 dollari). Si stima che l’economia
ucraina abbia usufruito costantemente di uno sconto del 20% sui prezzi
dell’energia vigenti sui mercati mondiali.
Per capire meglio il malfunzionamento dell’economia ucraina è
necessario esaminare le sue diversità regionali, che sono tali da
frammentare lo spazio economico e politico in tre parti. Tale divisione è
frutto non solo dell’eredità economica zarista e sovietica, ma anche delle
politiche attuate dal 1991 a oggi.
Il primo spazio comprende l’area occidentale e parte di quella centro-
meridionale del paese, a vocazione agricola; il secondo ricomprende le
regioni dell’Est a vocazione principalmente industriale; l’area della capitale
e quella che circonda Kharkiv, la città più importante dell’Est ucraino,
hanno acquisito nel corso degli anni Duemila una vocazione terziaria. Le
differenze regionali si sono molto accentuate negli ultimi vent’anni anche e
soprattutto a causa delle politiche economiche decise a Kiev.

3. Se si esamina il periodo della crescita della economia ucraina, dal


1999 al 2008, si possono distinguere due diverse fasi di politica economica:
la prima va dalla presidenza Kučma alla rivoluzione arancione; la
successiva ha come protagonisti il presidente Juščenko e Julija Tymošenko
nelle vesti di primo ministro. Le due stagioni hanno contribuito ad
accentuare la regionalizzazione strutturale dell’economia ucraina.
Il modello di sviluppo di Kučma era basato su una politica economica
equilibrata, che forniva un quadro stabile in cui le imprese pesanti dell’Est
ucraino (ferro, acciaio e prodotti in metallo) esportavano sui mercati esteri
gran parte della produzione, favorite dal basso prezzo del carbone venduto
dalle imprese minerarie statali e dal basso prezzo del gas russo, che allora
costava 50 euro per mille metri cubi. Ovviamente, tali prezzi non
favorivano una ristrutturazione delle imprese nel senso di una maggiore
efficienza energetica, ma consentivano, dati gli alti prezzi mondiali,
esportazioni indispensabili al funzionamento dell’economia ucraina. Era un
tentativo di costruire un capitalismo nazionale con uno Stato molto debole
che doveva guidare lo sviluppo.
La politica economica della successiva amministrazione ha preso una
direzione completamente diversa, inserendo l’Ucraina nei flussi
internazionali di capitale, con investimenti diretti stranieri nel cuore
dell’industria metallurgica, come quello di ArcelorMittal. Il fragile e
sottocapitalizzato sistema bancario ucraino è stato integrato nei circuiti
finanziari globali, mentre la politica fiscale di aumento delle pensioni, dei
salari pubblici e dei trasferimenti statali favoriva un aumento della domanda
di consumi, diventata il principale traino della crescita. Lo stesso effetto ha
avuto la politica monetaria, che assecondando l’indebitamento delle
famiglie ha stimolato l’acquisto di beni durevoli importati. A trarre
vantaggio da questo cambiamento del paradigma di sviluppo sono state le
aree terziarie di Kiev e di Kharkiv, nonché le regioni turistiche del Sud sulle
rive del Mar Nero, dipendenti dal capitale straniero per il loro sviluppo.
Viceversa, le regioni occidentali sono rimaste inchiodate alla loro
arretratezza agricola. Questo modello di sviluppo ha mostrato tutta la sua
fragilità durante la crisi: il crollo del consumo a credito e del terziario ha
messo a nudo l’aumento della divisione regionale avvenuta sotto le due
amministrazioni presidenziali.
Da questo momento in poi il modello di sviluppo cambia
sostanzialmente, con effetti macroeconomici rilevanti. Mentre fino al 2004
la crescita è stata trainata dalle esportazioni, nel periodo 2004-2008 il
motore sono stati i consumi, favoriti da una politica fiscale e creditizia
espansiva. Ma il notevole aumento degli acquisti di beni d’importazione ha
peggiorato la bilancia in conto corrente che, dopo anni di surplus, nel 2006
registra un deficit. Questo cambiamento è stato peraltro favorito dalla
facilità con cui le banche ucraine accedevano al credito presso le banche
europee, le quali di fatto hanno così contribuito al crescente indebitamento
delle famiglie ucraine.
In questo periodo pensioni e salari dei dipendenti pubblici aumentano,
incrementando la spesa pubblica di dieci punti percentuali (dal 37% al 47%
del reddito nazionale). Come certificato dalla Banca mondiale in un
rapporto del 2010, in questi anni non vengono fatti investimenti pubblici in
conto capitale e in tal modo le infrastrutture del paese peggiorano
notevolmente. La politica fiscale assume un carattere essenzialmente
populista.

4. L’esperienza delle crisi economiche, soprattutto in presenza di


strutture statali malfunzionanti e incapaci di esercitare un pieno controllo
sullo spazio economico e politico, mostra che la situazione
macroeconomica si deteriora rapidamente se non vengono prese misure
drastiche, le quali nel caso ucraino dipendono in buona parte da interventi
esterni. Nelle situazioni di grave crisi politica e istituzionale, come l’attuale,
normalmente i capitali cominciano a fuggire verso porti più sicuri, la
crescita economica si blocca, il commercio internazionale tende a diminuire
e peggiorano le condizioni del bilancio statale; inoltre, il cambio si deprezza
e le riserve valutarie diminuiscono e tendono ad esaurirsi, mentre il credito
bancario si prosciuga e le banche registrano un peggioramento dei bilanci.
La Banca centrale ucraina ha già imposto controlli sui movimenti di
capitale nel tentativo di regolare l’offerta di moneta e impedire una corsa
agli sportelli da parte della popolazione. Più il tempo passa, più il
salvataggio dell’economia ucraina diventerà costoso sia per l’Fmi sia per le
istituzioni europee, che continuano a emettere comunicati come se ci si
trovasse di fronte a una normale crisi finanziaria.
Questo è invece l’usuale processo che si sviluppa in caso di crisi
contemporaneamente economiche, politiche e istituzionali ed è utile
chiedersi a quale punto di tale processo ci troviamo. Quando è cominciata
ad aggravarsi la tensione con la Russia, la situazione economica era già
molto compromessa: la crescita del reddito nazionale nel 2013 era vicino
allo zero, il deficit del bilancio statale intorno all’8% e il deficit in conto
corrente al 9%. Una parte notevole del deficit statale è imputabile ai sussidi
pagati da Naftohaz, l’impresa statale che fornisce gas. Le riserve di valuta
ammontano a circa 15 miliardi di dollari, sufficienti per finanziare due mesi
di importazioni, data la politica seguita dalla Banca centrale ucraina di
difendere un cambio dollaro/ hryvnja di 1 a 8. Si stima che sia avvenuta una
fuga di depositi pari al 10 % del totale, indebolendo il già traballante
sistema bancario; la hryvnja si è svalutata del 20%. Inoltre, nel 2014 il
governo ucraino dovrà pagare in conto restituzione capitale e interessi 8,2
miliardi di dollari in valuta estera.
Questa situazione macroeconomica potrà evolvere secondo due scenari.
Il primo scenario prevede che la crisi non peggiori sul piano militare e che
vengano decise sanzioni solo economiche. Prevedibilmente, le sanzioni
decise da Mosca incideranno sulla vita economica ucraina, causando un
calo di investimenti e fiducia negli operatori economici, peggiorando di
conseguenza il deficit statale e in conto corrente e causando un’ulteriore
svalutazione della divisa ucraina. In caso di sostegno finanziario da parte
del Fondo monetario internazionale, dell’Unione Europea e di singoli Stati,
la caduta del reddito nazionale nel 2014 potrà essere contenuta fra il 5 e il
10%.
In caso di aggravamento della situazione sul piano militare e di tentativi
di secessione delle regioni russofone dell’Est, si può calcolare una perdita
fra il 20 e il 30% del reddito nazionale. In tale contesto gli aiuti finanziari
dovrebbero arrivare molto rapidamente, ma è probabile che tanto l’Fmi
quanto l’Ue vogliano vedere una stabilizzazione politica, forse aspettare le
elezioni presidenziali del 25 maggio, prima di erogare aiuti. Per giungere a
una stabilizzazione bisognerebbe pervenire a un accordo almeno
temporaneo con la Federazione Russa. Bruxelles ha offerto all’Ucraina 15
miliardi di dollari per i prossimi due anni; questi possono prendere la forma
di prestiti, investimenti, concessioni doganali. L’erogazione di tali aiuti è
condizionata al raggiungimento di un accordo fra il governo provvisorio
ucraino e il Fondo monetario, che non sarà facilissimo. Gli Stati Uniti
hanno promesso un miliardo di dollari in garanzie su prestiti, mentre la
Banca mondiale sta conducendo trattative per un prestito di tre miliardi di
dollari da investire in progetti infrastrutturali e riforme economiche.

5. Kiev è sull’orlo del default finanziario e bisognosa di aiuti


internazionali che devono essere erogati molto velocemente per scongiurare
un disastro sociale e politico. Me è abbastanza chiaro che l’economia
ucraina avrà bisogno di profonde riforme, attualmente molto difficili, se non
impossibili da realizzare. Basti pensare alla riforma del settore energetico,
alla necessità di riformare il sistema dei trasferimenti statali, agli
investimenti necessari per migliorare le infrastrutture del paese, alla
necessità di aumentare la produttività del settore agricolo e di quello
manifatturiero, alla diversificazione delle esportazioni.
La prima condizione politica necessaria è che l’intero paese e non solo
una sua parte sia rappresentato nel governo. Questo indispensabile
compromesso interno deve essere seguito da un compromesso
internazionale: gli Stati Uniti e l’Europa devono riconoscere gli interessi
russi nell’area, accettando che la Crimea sia parte della Federazione Russa,
mentre la Russia deve riconoscere l’integrità territoriale dell’Ucraina de
iure e de facto. I paesi occidentali, in tutte le loro manifestazioni
istituzionali, dovranno impiegare risorse finanziarie ben al di là di quelle
previste, non escludendo l’apporto di Mosca, che potrebbe dilazionare il
saldo della bolletta energetica. Questo compromesso, impedendo il collasso
dell’economia ucraina, darebbe spazio alle parti coinvolte per trovare punti
di accordo in campo politico.
La crisi ucraina comincia già a mostrare i primi effetti economici
negativi sui paesi europei coinvolti, prima fra tutti la Russia. Dall’inizio
della vicenda la Borsa di Mosca ha subìto un notevole ribasso; il rublo si è
svalutato oltre le aspettative della Banca centrale russa, che ha dovuto
alzare di 1,5 punti il tasso d’interesse. A questo si aggiungono previsioni
sempre più pessimistiche sulla crescita nel 2014 del reddito russo: le stime
sono state abbassate all’1-1,5%. Più che le sanzioni dei paesi occidentali, è
l’incertezza sul futuro che sta provocando danni all’economia russa,
attraverso i canali reali e finanziari.
Molto minori, anche se non trascurabili, sono le conseguenze sui paesi
europei, a meno che non si ostacoli il flusso energetico. Questi costi
possono aiutare a raffreddare la situazione, ridimensionando l’esaltazione
nazionalistica da parte russa e ucraina e la retorica occidentale russofoba,
che ha ormai raggiunto toni da guerra fredda. In realtà, questa retorica è il
sintomo della debolezza degli attori in gioco. L’unico paese con buone
ragioni per sorridere è la Cina.
PRENDI LA CRIMEA E PERDI SOUTH
STREAM
La crisi con la Russia offre agli Stati Uniti l’occasione per
infliggere un serio colpo a Putin, minandone il progetto di gasdotto
che avrebbe dovuto aggirare l’Ucraina. Due obiettivi principali:
ridimensionare Gazprom e fare di Kiev uno hub strategico del gas.
di Margherita PAOLINI

1.L a Crimea contro il gasdotto South Stream: questo il prezzo che


Putin ha certamente calcolato per portarsi a casa Sebastopoli e le consistenti
riserve di gas conservate nell’offshore della penisola. Nonostante sulla crisi
ucraina gli occidentali mantengano toni forti, si comincia a lavorare alla de-
escalation visto che ognuno ha ottenuto qualcosa. L’America ha giocato
bene la carta delle sanzioni, che hanno intimorito i maggiori partner europei
di Mosca più dello stesso Cremlino. La Nato, che dopo il ritiro
dall’Afghanistan rischiava di restare disoccupata, ora può reinventarsi un
menu aggiornato per la difesa della sicurezza energetica degli alleati, così
giustificando corposi finanziamenti al suo languente budget.
Finito il primo round con la caduta di Janukovyč e la conseguente
riconquista russa della Crimea, si va dunque aprendo una nuova partita
ucraina. La posta in gioco è il mercato del gas europeo. L’America con i
suoi alleati europei punta a una riscrittura delle regole per mettere al passo
Gazprom, riducendola a mero venditore di gas alle frontiere comunitarie e a
quelle orientali ucraine, su cui l’Ue ha esteso di fatto la sua influenza. Lo
scenario prevede alleanze commerciali eterogenee di operatori di utilities,
grandi traders europei e globali di gas e di gnl, fornitori di impianti di
rigassificazione, concorrenti in generale o nello specifico di Gazprom. Le
preoccupazioni geopolitiche sulla sicurezza energetica europea e la
coalizione della concorrenza commerciale a Gazprom sul mercato del gas
europeo hanno contribuito a coagulare, nel corso del 2013, alleanze
funzionali a entrambe le sponde dell’Atlantico, pronte a sfruttare la crisi
ucraina per ridimensionare le ambizioni del Cremlino.
Nel corso del 2012, la Russia era stata scavalcata sul mercato europeo
dalla Norvegia, che si era adattata velocemente al mercato spot dei prezzi,
ribassato dalle partite di gas naturale liquefatto (gnl) rifiutate dagli Stati
Uniti – ormai grandi produttori di gas non convenzionale da scisti – e
reindirizzate da traders e produttori verso i terminali degli hub inglesi e
olandesi. Gazprom, ancorata testardamente ai prezzi del petrolio, aveva
accusato la caduta delle forniture, salutata da Bruxelles come una strutturale
inversione di tendenza. Nel 2013 si è avuta la conferma del calo degli arrivi
di gnl ai terminali nordeuropei iniziato bruscamente nel 2011. I produttori
mediorientali si erano infatti riorientati verso il mercato asiatico, di un terzo
più remunerativo di quello europeo, con il risultato di far sfumare anche le
forniture di costosi impianti fissi o galleggianti di rigassificatori nel Baltico
e nel Mediterraneo che alcune multinazionali si attendevano: il gas via
condotte tornava ad essere competitivo.
Di qui la forte ripresa delle vendite di gas russo, confermata dai dati
consolidati relativi al 2013, grazie alla più flessibile politica dei prezzi
praticata da Gazprom. Recuperato il primo posto di fornitore, favorita da
una capacità produttiva da indirizzare al mercato europeo che arriva fino a
200 miliardi di mc/anno – a fronte di quella norvegese di 115 miliardi di
mc/anno – Gazprom ha spuntato forti aumenti delle vendite a Germania,
Italia, Regno Unito e a diversi paesi dell’Est, geopoliticamente oltre che
commercialmente importanti per Mosca. Inoltre, l’uscita di scena del
progetto di gasdotto sponsorizzato da Bruxelles, il Nabucco West, battuto
nel 2013 dalla più modesta condotta transadriatica Tap, è apparsa dare
nuovo slancio al progetto russo South Stream che, tra l’altro, riportava
Mosca a stringere forti partnership nei Balcani occidentali.
A conti fatti e rifatti, resta intatto lo scenario di fondo di una forte
dipendenza dal gas russo di cui l’Europa non può fare a meno neanche a
medio termine, figurarsi sul breve, per mancanza di alternative reali e
consistenti. A meno che non si voglia ricominciare a produrre elettricità a
tutto carbone, visto che l’America, ormai convertita al gas, lo vende a
prezzi stracciati.

2. In questo scenario, nel quale enfatizzando la crisi della Crimea si


mimano vecchi copioni da guerra fredda, da parte occidentale si cerca di
mettere in pratica una strategia volta a riscrivere le regole del gioco con cui
Gazprom è riuscita ad espandere la sua presenza sul mercato europeo del
gas. Questa strategia, per la molteplicità dei soggetti che vi convergono, ha
pochi registi visibili: gli Stati Uniti spiccano sulla scena per l’assenza di
altri. Bruxelles è una comparsa, utilizzata dal superattivo Gruppo di
Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) trainato da
Varsavia. Il primo ministro polacco Donald Tusk si è spinto fino a osservare
che «la dipendenza tedesca dal gas russo può effettivamente limitare la
sovranità europea». Quanto al particolare rigore che sulla questione ucraina
dimostra il commissario europeo per l’Energia, il tedesco Günther
Oettinger, esso è certamente influenzato dalla conoscenza profonda che
esperti polacchi hanno dei paesi dell’Est europeo in cui si è maggiormente
sviluppata la presenza invasiva di Gazprom con le sue innumerevoli
associate locali.
I paesi del Gruppo di Visegrád continuano a essere importanti clienti del
gas russo e quindi sono molto interessati a ridimensionare Gazprom,
riducendolo alla stregua di grande distributore posizionato alla frontiera
ucraina, a prezzi sorvegliati. Il prossimo anno quei paesi devono rinnovare i
loro contratti di approvvigionamento di gas russo e vorrebbero dunque
disporre del maggior potere contrattuale possibile. Per questo hanno cercato
collegamenti con i leader della Camera e del Senato degli Stati Uniti
sollecitando invii di gnl americano nel quadro della solidarietà atlantica.
Anche se sanno benissimo che attivare un flusso di gas dagli Stati Uniti
all’Europa è operazione impraticabile nel breve termine: le prime forniture
di gas americano, che si potranno attivare nel giro di due-tre anni, sono già
legate a contratti con paesi asiatici. I flussi di export del gnl (costoso per i
trattamenti di liquefazione) seguono infatti la logica dei prezzi, non della
geopolitica. Lo ha detto recentemente anche Angela Merkel e lo ha
platealmente ribadito davanti al Congresso Usa il rappresentante del
ministero dell’Energia: «Non siamo noi a inviare gas ma compagnie
private. Non è l’Europa che compra il gas ma aziende private europee. La
realtà è che il gas naturale nordamericano non ha un prezzo attraente per la
maggior parte delle aziende europee. E trovatemi una compagnia americana
disposta a perdere ricavi per inseguire obiettivi geopolitici».
Le rassicurazioni di Kerry e Obama, che accreditano lo scenario di una
forte ripresa delle forniture di gnl sul mercato europeo grazie soprattutto a
esportazioni dagli Stati Uniti, sono funzionali a irritare Mosca. Non solo il
Gruppo di Visegrád ma tutti gli operatori del settore hanno interesse a
sostenere questo scenario.

3. Se il ricatto della concorrenza del gnl americano non impressiona


Mosca, che anzi favorisce le partnership tra le maggiori aziende energetiche
russe e le big oil internazionali per recuperare spazi di mercato anche in
quel settore, è l’attacco concentrico volto a limitare le sue politiche
commerciali che viene avvertito come un assedio. Punto di partenza e leva
del braccio di forza è la piattaforma logistica dell’Ucraina, con il suo
netwok di gasdotti e di stoccaggi. Ma anche con le sue consistenti risorse
energetiche non convenzionali (shale gas) cui, prima dell’avventura di
Crimea, si aggiungevano le importanti riserve offshore al largo delle coste
della penisola riannessa alla Russia (una grossa perdita per Kiev). La sua
collocazione geografica assegna alla piattaforma ucraina un ruolo
importante di collegamento tra i mercati europei occidentali e orientali.
Ma per fare dell’Ucraina un futuro hub orientale del marketing europeo
del gas che abbia anche una valenza strategica per il Gruppo di Visegrád,
occorre che il gas russo di cui non si può fare a meno continui ad arrivare
agli ingressi della rete ucraina posizionati nel suo Est e di qui fluisca verso
gli stoccaggi situati nell’Ovest del paese e verso i consumatori europei.
L’obiettivo è di forzare Mosca a rimanere agganciata alla piattaforma
ucraina e a mantenere il grosso delle forniture al Vecchio Continente: 86
miliardi di metri cubi all’anno, pari al 34% del totale, Turchia inclusa.
Questa è la partita che si gioca nel prossimo futuro. È probabile che il
tiro alla fune abbia fasi alterne e che il blocco delle forniture russe via
Ucraina venga spesso minacciato ma non attuato. Nel caso si verificasse, il
giro dei circuiti alternativi che Mosca aveva previsto di utilizzare per
rifornire i suoi principali clienti del mercato centro- e sud-europeo offre
oggi una flessibilità piuttosto ridotta, a causa dei paletti burocratici già
predisposti dalla Commissione. Il commissario Oettinger, in carica ancora
per poco, ha fatto in tempo a mettere in atto misure duramente punitive nei
confronti delle politiche dilatorie e sfuggenti di Gazprom sull’unbundling
(spacchettamento), varate nel marzo 2011, che intendono costringere il
monopolista russo a vendere la propria rete di distribuzione nei paesi
comunitari per prevenirne l’abuso di posizione dominante. Oettinger ha
preparato un dossier già blindato per il suo successore, che fa di Gazprom
una sorta di vigilato speciale a causa dei suoi trucchi societari (diffusi però
in tutto il settore energetico europeo). Un approccio fondato
sull’applicazione strettissima dell’unbundling, che tutti gli operatori in
Europa devono rispettare, ma che prende di petto Gazprom.
Stabilendo che «tutti i contratti firmati con i paesi che sarebbero
attraversati da South Stream non sono in linea con le regole europee»,
Oettinger ha chiuso la porta al progetto russo di un corridoio meridionale
destinato ad aggirare l’Ucraina. Dopo il vertice di marzo del G7 in cui il
presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha annunciato la
decisione di «ridurre la dipendenza energetica specialmente dalla Russia,
riducendo la domanda, diversificando le vie di approvvigionamento ed
espandendo le risorse locali», il South Stream è stato di fatto dichiarato
morto. Anche se le dichiarazioni di Van Rompuy sono apparse del tutto
velleitarie quanto alla possibilità di una diversificazione consistente degli
approvvigionamenti europei, per Oettinger è stato sufficiente questo
messaggio politico a Mosca per far scattare la partita parallela, «dura e
pura», della Commissione nei confronti di Gazprom.
La posizione assunta da Oettinger non è irrilevante nella parata degli
schieramenti occidentali: infatti costringe a uniformarsi ai dettami del terzo
pacchetto energia anche i più riottosi partner europei, forti clienti del gas
russo. Ormai a Mosca si pongono condizioni di uso dei gasdotti basate sul
fatto che quando questi attraversano il territorio comunitario passano sotto
il vaglio ultimo della Commissione. Strategia difficilmente aggirabile. E
che può rivelarsi per Mosca altrettanto pericolosa di alcune sanzioni Usa
contro personalità eminenti del sistema energetico russo.

4. Visto che Mosca fornisce all’Europa quantità di gas tali da non poter
essere sostituite, si testa la possibilità, proprio a partire dalla scacchiera
ucraina, di invertire la polarità dei tubi. Un gioco semplice sulla mappa dei
vari circuiti di reverse flow, previsti nell’Europa centrale dopo la crisi del
2009, quando i bisticci sul prezzo tra Mosca e Kiev portarono al blocco del
flusso di gas russo a tre quarti del Vecchio Continente. Il punto è che la
formula sottende una strategia volta a rovesciare la geografia attuale del
mercato europeo del gas. L’obiettivo è la marginalizzazione progressiva non
delle forniture russe – che servono, eccome – ma del ruolo dominante di
Gazprom nella commercializzazione europea del suo gas, fatta di relazioni
strette e intricate con utilities europee, soprattutto dell’Est. È questo settore
che ha garantito a Gazprom i più forti margini di profitto, che d’ora in poi
andrebbero a spartirsi tra altri operatori non produttori, incluse le grandi
aziende internazionali di marketing. Ecco perché è in atto anche il tentativo
di emarginare Gunvor, colosso concepito dagli strateghi del Cremlino per
commercializzare il gas russo e portare a casa i profitti complessivi del
business energetico prodotto dalle proprie aziende. Da Gazprom e da
Rosneft’ e ora anche da Novatek – lanciata, in partnership con Total e China
National Petroleum, in un progetto di gnl alle soglie dell’Artico da
esportare principalmente sui mercati asiatici. Le sanzioni Usa che hanno
centrato Gennadij Timčenko, comproprietario e fondatore della Gunvor,
rischiano di nuocere al prestigio della società.
Si cerca in ogni modo di tagliare gli extraprofitti di Gazprom,
nonostante i ricavi maggiori vengano a Mosca dal petrolio, le cui
esportazioni sono meno vulnerabili. La domanda europea di gas è critica
per la Russia, che continua a connotarsi come un petrostato: Gazprom
dichiara che le esportazioni di gas incidono per il 52% dei suoi ricavi,
mentre quelle di petrolio, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia,
rappresentano il 71% dell’export globale russo.
5. La nuova geografia del marketing del gas genera equazioni
complesse, con molte variabili. Vediamole partitamente, a cominciare dal
perno principale: la piattaforma ucraina.
Il primo problema di Kiev è rappresentato dagli enormi consumi interni
di gas che unitamente ai sussidi alle imprese costituiscono il peso principale
del suo debito. Nel 2013 l’Ucraina ha consumato oltre 50 miliardi di metri
cubi, di cui 30 miliardi importati, coperti sostanzialmente dalle forniture
russe (28,5 miliardi). Solo 1 miliardo e mezzo di metri cubi di gas russo
sono arrivati in reverse flow dall’Ungheria e dalla Germania via Polonia,
commercializzati dalle rispettive aziende. Poco più di un test. Infatti, l’unica
operazione importante di uso dei circuiti a flusso invertito, che può passare
attraverso gasdotti ormai in disuso dopo l’attivazione del Nord Stream, è
quella promossa dal commissario all’Energia Ue, che ha cercato di costruire
una partnership tra la tedesca RWE, la slovacca Eustream e l’azienda di
trasmissione ucraina Ukrtanshaz. La RWE avrebbe garantito una capacità di
trasmissione fino a 10 miliardi di metri cubi/anno fino al 2017, da
accrescere nel tempo con collettori ad hoc.
L’operazione oggi si ripropone con un duplice obiettivo, che c’entra
poco con la necessità di aiutare l’Ucraina a diventare meno dipendente
energeticamente da Mosca. Tanto per cominciare i consumi interni ucraini
dovranno ridimensionarsi sensibilmente, dopo il giro di vite imposto dal
Fondo monetario internazionale nel recente accordo con Kiev. Si prepara
l’aumento del 50% delle tariffe interne del gas, a partire da maggio.
Farisaicamente si è dato ampio risalto, in questo quadro, alla necessità di
«tutelare le situazioni più vulnerabili».
Si tratta in realtà di garantire a Kiev flussi controllati di gas russo
proveniente dal Nord Stream e stoccato nei depositi commerciali tedeschi,
aggiunto a quello che viene direttamente da Mosca. Al tempo stesso occorre
tenere alto il flusso di esportazioni russe all’Europa via Ucraina: ciò, oltre a
garantire lucrosi diritti di transito a Kiev, servirà anche a rimpinguare i
depositi sotterranei del network ucraino (quelli predisposti dall’ex Urss per
ovviare a problemi climatici di trasmissione del gas dalla Siberia) che
hanno una capacità di 33 miliardi di metri cubi. Sono condizioni
indispensabili per cominciare a configurare un ruolo di hub alla piattaforma
logistica ucraina. In vista di tale obiettivo si punta, in un futuro a medio
termine, anche sullo sfruttamento dei depositi di shale gas nelle regioni
occidentali del paese, dove si è installata la Chevron, oltreché in quelle
orientali, dove sono in corso esplorazioni da parte della Shell. Si parla di
riserve pari a 3 trilioni di metri cubi di gas, quantità che movimentate in
Europa avrebbero un positivo effetto sul meccanismo dei prezzi.
È interessante notare che questa strategia cammina in parallelo con
quella che Janukovyč aveva imbastito anche con la Russia. Essa risale al
2012 ed è andata avanti anche nel periodo in cui Majdan già ribolliva, fino a
tutto gennaio 2014. Al presidente ucraino e al suo clan di interessi faceva
probabilmente gola la prospettiva di gestire un paese che potesse assurgere
a hub del gas europeo piuttosto che restare un territorio di transito utile agli
interessi di Mosca. Un ufficio particolare di pianificazione energetica
direttamente sotto il controllo di Janukovyč e assistito da esperti comunitari
aveva già cominciato a impostare – in vista dell’accordo che l’Ue dava per
scontato al vertice di Vilnius del novembre 2013 – un progetto di riforma
del settore energetico nazionale volto a favorire il clima degli investimenti,
in particolare delle condizioni contrattuali di production sharing con le big
oil. Non solo sul continente ma anche sull’offshore della Crimea, dove la
Exxon si era assicurata il rango di operatore in un consorzio in cui figurava
anche la Shell, mentre ne era stata esclusa la russa Lukoil.
Contemporaneamente venivano preparate le condizioni affinché la
compagnia nazionale Naftohaz potesse permettere il third party access (tpa)
alle sue reti di trasmissione, così allineandosi alle regole comunitarie
sull’unbundling. In questo clima erano stati approntati alcuni test di reverse
flow da Ungheria e Polonia, oltre che di forniture di gas russo
commercializzato in Germania attraverso l’unica condotta di reverse flow
che può essere attivata in Slovacchia.
Si può immaginare come Putin abbia seguito queste manovre volte a
diminuire la dipendenza energetica e quindi l’influenza geopolitica del
Cremlino sull’Ucraina e sull’Europa intera. Ma l’obiettivo di attirare
l’Ucraina nella sua Unione doganale eurasiatica gli è apparso più
importante: meglio lavorare Kiev ai fianchi. Aspettando di veder fallire le
trattative con l’Ue, impossibilitata a concedere finanziamenti, se non in
parallelo all’Fmi, a un governo in bancarotta e certo non propenso a riforme
strutturali impopolari ad appena un anno dalla campagna elettorale
presidenziale.
Se tutto fosse andato secondo le sue previsioni, il wait and see di Putin
avrebbe poi dovuto permettere di coinvolgere le big oil Exxon e Shell attive
in Russia, in joint-venture con Gazprom e Rosneft’ (sulla piattaforma
continentale dell’Artico russo e nella Siberia nord-occidentale). Quanto al
partenariato trilaterale di reverse flow cui Janukovič si era mostrato
propenso, sono stati sufficienti un contratto ventennale con la compagnia
elettrica slovacca a prezzi favorevoli del gas e forniture scontate alla RWE
per bloccare tutta la manovra. Con gli accordi stipulati tra Mosca e Kiev il
17 dicembre 2013, che fornivano il gas russo a 268,5 dollari per mille metri
cubi – uno sconto del 30% sul prezzo del mercato europeo – l’Ucraina ha
cessato di ritirare anche le piccole quantità che arrivavano in reverse flow
da Ungheria e Germania via Polonia. A tutt’oggi Oettinger sta faticando per
convincere la Slovacchia a diventare un pivot importante della piattaforma
ucraina, nonostante l’Fmi e l’Ue siano disponibili a finanziare infrastrutture
di reverse flow tra i due paesi.

6. Vediamo su uno scenario più allargato come si configura il tentativo


di reset dei flussi di importazioni russe sottraendoli alla gestione diretta di
Gazprom. In primo luogo, per mantenere Mosca ancorata alla piattaforma
ucraina occorre bloccare la mossa di Putin, legittima sul piano
commerciale, tesa a preservare gli invii complessivi di gas russo solo a
condizione che vengano pagate le forniture arretrate a Kiev. Su questa
partita entrano in campo le garanzie Ue, con dietro l’Fmi. Il punto è che ora
la piattaforma ucraina ha cambiato gestore. Sicché Ue e Fmi ne
ricondizioneranno con aiuti finanziari l’assetto logistico, in qualche modo
«pignorato» per tutelare i propri esborsi pluriennali. Pertanto Gazprom
dovrà praticare anche all’Ucraina un prezzo in linea con quello in corso sul
mercato comunitario. Ma Mosca non ha solo annullato gli sconti praticati a
Kiev dal dicembre scorso e chiesto il pagamento delle bollette scadute: per
ripicca, ha sparato futuri rincari provocatori, sostenendo che con la
secessione della Crimea non valgono più gli accordi del 2010 fleet for gas
(l’affitto della base di Sebastopoli alla flotta russa del Mar Nero in cambio
di un ribasso sul prezzo del gas), che davano all’Ucraina uno sconto di 100
dollari per mille metri cubi. Il prezzo del gas russo a Kiev arriverebbe così a
500 dollari per Mbtu (mille British thermal units) contro quello praticato in
Europa, che l’Ucraina potrebbe comprare, riciclato da traders europei, a
380-400 dollari per Mbtu.
Nelle richieste di Mosca valgono ovviamente questioni di principio oltre
che di contrattazione. Bisogna vedere se gli interessi commerciali finiranno
per prevalere. Tutto sommato, lasciando perdere i famosi 100 dollari del
fleet for gas, Putin avrebbe ancora un relativo interesse a non interrompere
le forniture all’Ucraina: per non mettere subito in crisi le aree orientali a
maggioranza russofona che hanno industrie storicamente legate al mercato
della Federazione Russa ad alta intensità di consumi energetici. Queste
industrie sono destinate comunque a breve ad essere smantellate, stando
almeno alle strategie dell’Fmi. Soprattutto a Mosca interessano le forniture
di gas ai clienti europei, che in caso di problemi di prezzo con Kiev
prevedevano vie alternative. Con i clienti del Nord Europa il problema è
stato definitivamente risolto grazie al gasdotto russo-tedesco Nord Stream,
entrato in funzione nel 2011. L’extracapacità del gasdotto permette poi di
reindirizzare alla Germania anche la quota che ancora passa per il territorio
ucraino. Così come quote aggiuntive che la Germania potrebbe provvedere
a inoltrare ai paesi dell’Est europeo in maggiore difficoltà. Questo può
avvenire tramite circuiti in reverse flow approntati dopo la crisi del 2009
che lasciò mezza Europa senza gas. Tali circuiti utilizzano tratti di gasdotti
in disuso dopo l’attivazione del Nord Stream. Per gli altri clienti europei era
in progetto il corridoio South Stream, che completava a sud la strategia di
bypass dell’Ucraina, a partire dalla fine del 2015.
Nell’attuale gioco al rilancio tra sanzioni ufficiali e coperte occidentali e
reazioni russe, c’è il rischio che si arrivi a uno stallo, determinato dalle
difficili trattative tra Mosca e Kiev, che si sente sostenuta dall’Occidente. In
tal caso il flusso del gas russo via Ucraina si arresterebbe, o forse
procederebbe a singhiozzo. Grazie al Nord Stream, per i clienti nord-
europei di Gazprom (Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi,
Belgio e ora anche Regno Unito) non ci saranno particolari problemi. Lo
stesso vale per la maggior parte dei paesi dell’Est, in particolare per il
Gruppo di Visegrád.
Le prospettive per l’Austria, l’Ungheria, per l’Italia, per i paesi della ex
Jugoslavia, ma anche per Grecia, Bulgaria e Turchia, sono invece meno
rassicuranti. Venendo a mancare la carta del South Stream, per questi paesi
esiste comunque una soluzione alternativa di emergenza: il gasdotto russo-
tedesco (Gazprom e Wintershall) Opal, una bretella che ha una capacità di
trasporto di 38 miliardi di mc/anno e permette di connettere il terminale di
arrivo tedesco del Nord Stream sul Baltico con la frontiera della Repubblica
Ceca. In questo modo è possibile fare arrivare ulteriore gas russo fino al
circuito slovacco e poi allo snodo austriaco di Baumgarten, che serve il
mercato sud-europeo. Ma poiché corre in territorio comunitario, il suo uso,
che secondo le regole è aperto a terze parti, è permesso a Gazprom solo per
il 50%. A dicembre la Russia ha chiesto l’esenzione dalle regole
comunitarie per utilizzare la piena capacità del gasdotto, ottenendola
dall’autorità di controllo tedesca. Ma Oettinger ha obiettato che il tubo deve
rimanere disponibile per la Repubblica Ceca. E il 10 marzo il commissario
all’Energia ha confermato di voler valutare con calma la situazione.
Evidentemente si vuole lasciare aperta la disponibilità dell’Opal a invii di
gas russo, già inseriti nel circuito commerciale europeo, per eventuali
forniture all’Ucraina se le forniture russe si dovessero interrompere.
Inoltre, occorre considerare il problema di sicurezza connesso
all’attraversamento dell’instabile territorio ucraino. Ciò porterebbe alla
sospensione delle forniture russe all’Europa: il collettore si immette sul
territorio comunitario slovacco passando per le regioni ucraine occidentali,
le più ostili a Mosca. Dal gruppo russofobo di estrema destra Pravyj Sektor
sono partite minacce di sabotaggio ai gasdotti perché «costituiscono fonte
di reddito per Mosca». Paradossalmente, in tal modo gli ucraini
rinuncerebbero a incassare le loro royalties pur di danneggiare i russi.
Il Cremlino non dà a vedere di aver accusato il colpo che minaccia il
futuro di South Stream. Anzi, Gazprom ha dato pubblicità ai contratti per la
fornitura dei tubi sottomarini (a ditte tedesche) e all’appalto Saipem per la
parte di ingegneria concernente la prima sezione del gasdotto, sotto il Mar
Nero. Le esternazioni dell’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni,
riportate ampiamente dalla stampa internazionale, hanno invece avvalorato i
dubbi sul futuro di South Stream. Così contribuendo a mettere forse una
pietra tombale sul progetto che l’Eni (20%) ha portato avanti per anni in
partnership con Gazprom (50%), con la francese Edf (15%) e con la tedesca
Wintershall (15%).
VOCI DA MAJDAN E DINTORNI
Volodymyr FESENKO, Vadym OMEL’ČENKO, Ruslana LYŽYČKO, Jurij
MIROŠNYČENKO

La piazza ucraina è un universo articolato e magmatico, che affianca


ceti medi e alta borghesia industriale, attivisti politici e anonimi cittadini,
artisti affermati e professionisti della contestazione. Le ragioni e le facce
del movimento descritte dai suoi protagonisti – e da chi stava dall’altra
parte delle barricate.

‘Jevromajdan ha vinto il primo round, ma la partita è ancora


aperta’
Conversazione con Volodymyr FESENKO, presidente del centro di ricerche politiche Penta, a cura di
Dario FABBRI

LIMES A che punto è la crisi ucraina?


FESENKO La crisi è ufficialmente entrata nella seconda fase, quella militare.
La rivoluzione, conseguenza del dibattito interno relativo al modello di
sviluppo da adottare – il sistema europeo contrapposto a quello post-
sovietico – si è articolata fin qui in due periodi distinti. Il primo è stato
caratterizzato dalle proteste di piazza e dal successivo rovesciamento del
regime di Janukovyč. Il secondo, tuttora in corso, è figlio dell’occupazione
russa della Crimea e della possibilità che Mosca invada il resto del paese.
LIMES Quali sono state le forze decisive di Jevromajdan?
FESENKO Majdan è stato un movimento composito e trasversale, che in
generale ha rappresentato gli interessi della società civile. In piazza erano
attivi soprattutto gli esponenti della classe media: piccoli commercianti,
pensionati, qualche grande imprenditore. Al loro fianco, i giovani della
cosiddetta «generazione dell’indipendenza», ovvero gli studenti nati e
cresciuti nell’Ucraina post-sovietica. Una forza libera e democratica, che in
breve tempo si è organizzata in una miriade di gruppi autogestiti. A questi si
sono aggiunti gli esponenti dei partiti di minoranza e l’opposizione
extraparlamentare.
LIMES Quanto è grande il divario culturale tra le regioni occidentali e quelle
orientali del paese?
FESENKO È piuttosto ampio. Se l’Ucraina occidentale è storicamente legata
all’Europa, le oblasti del Sud-Est per molti secoli hanno fatto parte
all’impero russo e restano sensibili al richiamo di Mosca. Queste differenze
però si annullano nelle regioni centrali e la stragrande maggioranza degli
ucraini (oltre l’80%) è contraria a qualsiasi secessione. Purtroppo la Russia
cerca di provocare la frammentazione della nostra nazione ed è
indispensabile attuare un’iniziativa di pacificazione sociale per
neutralizzare le spinte centrifughe.
LIMES Che ruolo hanno avuto gli ultranazionalisti nel rovesciamento di
Janukovyč?
FESENKO La stampa e le autorità russe hanno descritto Jevromajdan come
un covo di estremisti e di nazisti, ma è soltanto propaganda. Secondo
autorevoli rilevazioni effettuate tra gennaio e febbraio, appena un terzo dei
contestatori si dichiarava vicino alla destra. Basti pensare che Pravyj Sektor,
lo schieramento paramilitare più conosciuto, è composto da appena
cinquecento membri, mentre nei giorni più caldi le unità di autodifesa di
Majdan potevano contare su circa tremila aderenti. Il punto non è il peso
dell’estrema destra, quanto la radicalizzazione del dissenso. A causa dello
stallo e della repressione violenta, tra dicembre e febbraio il sostegno dei
manifestanti a una soluzione militare della crisi è aumentato di quasi il
30%.
LIMES Quale influenza avrà l’estrema destra sulla politica ucraina?
FESENKO Gli ultranazionalisti sono molto rumorosi, ma non decisivi. Sono
convinto che in futuro saranno relegati nelle retrovie. Proprio come avviene
nell’attuale esecutivo, nel quale i tre ministri del partito di destra, Svoboda,
sono titolari di dicasteri poco rilevanti e Pravyj Sektor non è neanche
rappresentato. Dobbiamo inoltre considerare che, in vista delle prossime
elezioni presidenziali, soltanto il 3% degli elettori si dice pronto a votare
per il leader di Svoboda, Oleh Tjahnybok, e appena l’1,6% per il capo di
Pravyj Sector, Dmytro Jaroš.
LIMES Gli oligarchi manterranno il controllo della politica e dell’economia
ucraina?
FESENKO Per ora sì. Il nuovo governo è stato costretto a stringere
un’alleanza con gli oligarchi per preservare l’integrità territoriale. Tuttavia
nei prossimi anni la loro influenza è destinata a scemare. Gli attivisti di
Jevromajdan si sono battuti per riformare la politica e l’economia e la loro
capacità di organizzarsi e premere sulla classe dirigente sarà decisiva per
ribaltare i rapporti di potere.
LIMES Come giudica la bellicosità di Putin?
FESENKO Il Cremlino non ha accettato la vittoria della piazza e sta usando
l’aggressione militare e le pulsioni separatiste delle regioni russofone per
provare a invertire il corso della rivoluzione. In questa fase Putin persegue
un duplice obiettivo: nell’immediato vuole distruggere l’apparato statale
ucraino, nel medio periodo vorrebbe volgere a suo favore l’equilibrio di
potenza continentale. Per raggiungere il suo scopo ha bisogno di controllare
l’Ucraina, la Moldova e gli Stati baltici.
LIMES Kiev accetterà mai l’annessione russa della Crimea?
FESENKO Ufficialmente no, ma in realtà il governo si è già rassegnato al
fatto che la penisola appartenga alla Federazione Russa. Sono certo che nei
prossimi anni la Crimea si tramuterà per il nostro popolo in un vero trauma
politico e psicologico.
LIMES Come si sono mossi europei e americani?
FESENKO In maniera molto diversa. Il coinvolgimento dell’Europa è
aumentato con il consolidarsi della rivolta. Nelle prime settimane l’Ue
appariva lontana e poco disposta ad accogliere le richieste degli attivisti che
pretendevano l’imposizione di sanzioni contro Janukovyč. Da metà gennaio
le autorità europee hanno iniziato a spendersi con maggiore convinzione e
in seguito ai tragici eventi del 18-20 febbraio sono stati i ministri tedesco,
polacco e francese a propiziare l’accordo tra l’ex presidente e l’opposizione.
Sebbene abbia avuto vita breve, quel compromesso ha bloccato l’escalation
violenta della crisi e ha provocato la dissoluzione del regime. L’America
invece si è limitata ad applicare la dottrina del containment. Prima con
Janukovyč, per scongiurare che soffocasse nel sangue la sollevazione
popolare; poi nei confronti di Putin, per impedirgli di invadere l’Ucraina e
causarne la distruzione.
LIMES Come finirà la rivoluzione?
FESENKO È presto per dirlo. Con la deposizione di Janukovyč, Jevromajdan
ha inflitto un duro colpo alla strategia del Cremlino e si è aggiudicata il
primo round del conflitto. La Russia però ha rifiutato la sconfitta ed è
passata al contrattacco. Putin punta tutto sulla pressione politica e militare,
mentre il governo ucraino si affida al sostegno economico e diplomatico
dell’Occidente. Sono sicuro che ci saranno ulteriori sviluppi. La partita è
ancora aperta.

‘All’Occidente chiediamo sostegno politico e aiuti concreti’


Conversazione con Vadym OMEL’ČENKO, presidente del Goršenin Institute di Kiev a cura di Dario
FABBRI

LIMES Com’è nato e come si è sviluppato il movimento di Jevromajdan?


OMEL’ČENKO La protesta è scaturita dal desiderio dei cittadini di difendere i
propri diritti, dalla necessità di battersi per cambiare lo stato delle cose, dal
coraggio di sacrificare la vita in nome di ideali e princìpi. Jevromajdan ha
mostrato al mondo intero il valore, la propensione al sacrificio e la capacità
di organizzarsi del popolo ucraino. Una manifestazione talmente spontanea
che col trascorrere del tempo si è tramutata in un test per gli esponenti di
tutti i partiti. Alla prova della piazza, nessun politico ha veramente brillato:
né i membri del Partito delle regioni, né i leader dell’opposizione.
LIMES In uno Stato come l’Ucraina, etnicamente e linguisticamente
eterogeneo, è possibile considerare Jevromajdan un movimento nazionale?
OMEL’ČENKO Assolutamente sì. La protesta è esplosa a piazza
dell’Indipendenza (Majdan Nezaležnosti), nel cuore di Kiev, ma non si è
esaurita nella capitale. Nell’arco di tre mesi è cresciuta in modo
esponenziale e si è estesa ad altre ottanta Majdan sparse su tutto il territorio
ucraino. Un filo ininterrotto che dalle regioni occidentali a quelle orientali
ha unito il paese. Forse all’estero Jevromajdan è stata raccontata come
un’iniziativa locale, abbracciata solo da una parte della popolazione. In
realtà è stata l’espressione di un sentimento ampiamente condiviso e
trasversale.
LIMES Che peso ha avuto l’estrema destra nella sollevazione popolare? E
che ruolo giocherà nel futuro dell’Ucraina?
OMEL’ČENKO Gli ultranazionalisti hanno svolto il compito che è loro
maggiormente congeniale: provocare il caos. Le loro azioni nei giorni più
intensi della rivolta hanno causato spargimenti di sangue e determinato
l’escalation violenta del conflitto. In futuro i loro obiettivi non
cambieranno. Anche adesso stanno provando a colpire il governo e a
destabilizzare le istituzioni, senza comprendere che ogni loro gesto fa il
gioco delle forze ostili al nostro paese. Fortunatamente, per quanto mi
risulta, la nuova leadership politica comprende la gravità del problema e si
sta attivando per risolverlo. È indispensabile che tali elementi siano
identificati e neutralizzati il prima possibile.
LIMES Come valuta la reazione della Russia alla caduta di Janukovyč? Cosa
vuole realmente il Cremlino?
OMEL’ČENKO Putin è un uomo molto coerente e diretto. Il suo unico
obiettivo è mantenere la Russia tra le principali potenze del pianeta e ogni
sua mossa è funzionale al raggiungimento di un traguardo così ambizioso.
Nei suoi calcoli non c’è spazio per altri ragionamenti. Non possiamo
dunque stupirci dei metodi che usa e se tra questi vi è la violazione della
sovranità di un altro Stato. Il presidente russo non bada a certe sottigliezze.
LIMES L’annessione della Crimea è da considerarsi irreversibile?
OMEL’ČENKO L’Ucraina non accetterà mai l’occupazione straniera della
Crimea, tanto meno la sua illegale incorporazione nella Federazione Russa.
La penisola è parte integrante del territorio nazionale e non può esserci
sottratta con la forza. È questa la posizione espressa con chiarezza negli
ultimi giorni da tutti i leader politici – da Julija Tymošenko a Petro
Porošenko – e condivisa dall’intera popolazione. Gli ucraini considerano
quanto accaduto in Crimea un rovescio temporaneo e sono convinti che la
situazione sia destinata a tornare alla normalità.
LIMES Gli oligarchi hanno in buona parte determinato l’esito della
rivoluzione. A suo avviso continueranno anche in futuro a dominare la
politica e l’economia ucraina?
OMEL’ČENKO Mi piacerebbe che lo strapotere degli oligarchi diventasse
presto un lontano ricordo e che la loro influenza diminuisse notevolmente,
ma dobbiamo essere realisti e valutare con lucidità la situazione attuale. Per
favorire una trasformazione profonda del tessuto sociale e produttivo
nazionale, il governo dovrebbe realizzare riforme radicali in tutti i campi:
dalla politica all’economia, dalla finanza alla società civile. Si tratta di un
processo assai complesso, che inevitabilmente richiederà molto tempo e che
dovrà compiersi in diverse fasi.
LIMES Cosa si aspetta l’Ucraina dall’Occidente?
OMEL’ČENKO Ovviamente ci aspettiamo sostegno politico e aiuti concreti.
Dobbiamo comprendere però che la Nato deve fare i conti con l’immenso
arsenale nucleare russo e che non può lanciarsi in pericolose avventure
militari. Inoltre non possiamo dimenticare che esiste una cruciale
interdipendenza economica tra l’Europa occidentale e la Russia e che per
queste ragioni è giusto perseguire la strada della diplomazia. Alcuni politici
ucraini accusano l’Occidente di ipocrisia e opportunismo, ma sono giudizi
semplicistici che non condivido. Direi al contrario che Europa e Stati Uniti
stanno dimostrando coerenza e un notevole impegno in favore della
democratizzazione dell’Ucraina.
LIMES Alla fine chi sarà il vincitore della crisi ucraina?
OMEL’ČENKO È troppo presto per dirlo. La transizione non si è ancora
conclusa ed è impossibile in questa fase pronosticare vincitori e vinti.
Tuttavia alcuni dati appaiono già incontrovertibili. È innanzitutto evidente
che è stata una rivoluzione democratica a cambiare il volto del paese. Ed è
altrettanto chiaro che il popolo ucraino e i valori universali della
democrazia hanno trionfato. Teoricamente con l’annessione della Crimea il
Cremlino può sostenere d’aver conseguito una vittoria tattica, ma è
impossibile considerarla un successo. Molto dipenderà da come si muoverà
l’Occidente nei prossimi mesi. Se la rivolta servirà a Europa e Stati Uniti
soltanto per conquistare nuove fette di mercato, allora quanto accaduto
assumerà un altro significato. E gli attuali vincitori potrebbero trasformarsi
in grandi sconfitti.
‘Putin è un mostro che cresce mentre noi lo guardiamo’
Conversazione con Ruslana LYŽYČKO, cantante ucraina vincitrice di Eurovision 2004, voce e volto
di Jevromajdan, a cura di Olga TOKARIUK

LIMES Ruslana, pensi che la rivoluzione abbia raggiunto i suoi obiettivi?


RUSLANA Credo di sì. Jevromajdan ha risuonato in tutto il mondo con la sua
energia. Personalmente ho ricevuto tantissimi inviti a dare dei concerti negli
Stati Uniti, forse più di Beyoncé (ride). Girando per il mondo ho visto
quanto la gente ammiri Majdan, molti lo considerano un incredibile
esempio di coraggio. Adesso alcune persone portano persino i nastri giallo-
blu in onore dell’Ucraina.
LIMES Dentro il movimento di Majdan ci sono forze di estrema destra, come
Pravyj Sektor. Potrebbero essere loro a godere dei frutti di questa
rivoluzione?
RUSLANA Io capisco bene la propaganda di Putin che sta cercando di
screditare le forze patriottiche ucraine. Non abbiamo mai avuto problemi
con Pravyj Sektor. Non c’è stata nessuna reale manifestazione di
estremismo da parte loro. Però la propaganda di Putin vuole distruggere
tutte le forze patriottiche dell’Ucraina e far credere al mondo che questi
ragazzi sono dei fascisti o dei nazisti. Non capisco perché uno debba usare
in continuazione le parole «nazismo», «fascismo». Mi fa molto male
sentirlo, perché tutti capiamo che non c’è nessun fascismo o nazismo in
Ucraina. Io invece mi preoccupo molto per le sorti degli ucraini che vivono
in Russia, anche perché mia mamma è nata lì e lì ho dei parenti. Adesso
sono in pericolo: vengono considerati fascisti solo perché ucraini. È
incredibile. La propaganda può uccidere, è molto pericolosa. Purtroppo sta
funzionando. Si tratta di una guerra, non solo una guerra nel senso militare,
con i soldati russi in Crimea o in altre parti d’Ucraina, ma anche nel senso
che Putin sta cercando di catturare le menti delle persone.
LIMES Tu viaggi molto per il mondo e leggi la stampa estera. Ti sembra che
sia obiettivo ciò che si scrive in Occidente sull’Ucraina?
RUSLANA Gli articoli di approfondimento in generale sono abbastanza
obiettivi. Comunque noto che ci sono molti lobbisti di Putin in Europa, si
spendono tanti soldi per promuovere gli interessi russi. La Russia dispone
di una macchina di propaganda enorme. Per esempio, l’agenzia Itar-Tass è
uno strumento molto forte, è una grande struttura con molta influenza
sull’opinione pubblica mondiale. Purtroppo molti giornalisti occidentali non
vanno in Crimea per scoprire la verità. Semplicemente, riprendono ciò che
dicono le agenzie e i media russi senza fare domande né verificare le
informazioni. Una volta pubblicata una notizia falsa, questa si diffonde
subito, anche se dopo viene smentita. Questa macchina di propaganda
agisce non solo contro l’Ucraina, ma contro tutto l’Occidente: non mi
stupirei se tra poco Putin iniziasse a creare dei problemi ai paesi baltici o
addirittura all’Alaska.
La stampa occidentale vuole sempre presentare due opinioni, ed è giusto.
Ma io dico: se uccidono le persone in Crimea o altrove in Ucraina, voi
farete vedere sia l’opinione per cui è successa una cosa brutta sia quella per
cui non è niente di grave? Non ci si può limitare solo a rappresentare due
opinioni diverse, bisogna cercare la verità.
LIMES Che cosa può fare l’Occidente, che cosa può fare l’Europa per aiutare
l’Ucraina?
RUSLANA Smettere di comprare il gas russo: sarebbe una misura più che
sufficiente. E poi introdurre sanzioni contro Putin e i suoi alleati. L’Europa
si può permettere di boicottare la Russia economicamente.
LIMES Che cosa pensi di Putin? Perché fa quello che fa?
RUSLANA È un mostro che cresce mentre noi lo guardiamo. È motivato dal
desiderio di potere, di soldi. Però ha già fatto molti danni all’immagine
della Russia nel mondo. Ne soffrono soprattutto le persone comuni. Adesso,
se uno dice da qualche parte del mondo «sono russo», gli rispondono «ah,
allora tra poco arriva Putin per difenderti? Noi non lo vogliamo». Secondo
me, Putin ha umiliato e messo in pericolo i russi in tutto il mondo. Non è un
bravo leader.
LIMES Tu sei di Leopoli, in Ucraina occidentale. Cosa c’è in comune tra un
ucraino di Leopoli e un russo di Crimea?
RUSLANA Abbiamo vissuto tutta la vita insieme, senza conflitti. Non ci sono
mai stati problemi. Adesso è scoppiato un conflitto artificiale. Tutti in
Ucraina lo sanno. Che cosa ci unisce? L’Ucraina. Ci sono pochissime
persone qui che non vogliono saperne dell’Ucraina e che vorrebbero unirsi
alla Russia. E anche quelle, secondo me, sono vittime della propaganda di
Putin perché iniziano a credere nelle cose che sentono dire ogni giorno.
Nell’Urss c’era una propaganda fortissima contro l’America, contro i valori
occidentali. Quella propaganda esiste ancora nella Russia di oggi. È su
questo sfondo che Putin vuole muovere guerra all’Ucraina. Lui non vuole
che il nostro paese si avvicini all’Europa, o almeno non l’intero paese. Per
questo vuole dividerci.
LIMES Pensi che ci sia il rischio di una guerra civile in Ucraina?
RUSLANA No, perché non c’è nessun conflitto tra i vari gruppi etnici in
Ucraina. Quelli che alzano la bandiera russa a Luhans’k sono cittadini russi.
La gente che vive nell’Ucraina dell’Est sa che dei «turisti» russi vengono da
fuori per fare queste provocazioni. Ma Dio vede tutto. Putin può mentire a
tutto il mondo ma non vincerà mai.

‘Per scongiurare il caos servono Europa, riforme e unità


nazionale’
Conversazione con Jurij MIROŠNYČENKO, deputato del Partito delle regioni a cura di Olga
TOKARIUK

LIMES Il Partito delle regioni ha sempre appoggiato strette relazioni con la


Russia. Questa posizione è cambiata dopo l’annessione russa della Crimea?
MIROŠNYČENKO Per un partito che rappresenta l’Ucraina, l’integrità
territoriale del paese è fondamentale. Personalmente ho lanciato appelli ai
colleghi del parlamento di Crimea a non fare ciò che hanno fatto. La
separazione della Crimea è inaccettabile, non può essere riconosciuta.
Bisogna fare di tutto affinché la Crimea ritorni a far parte dell’Ucraina.
LIMES L’unità territoriale del resto dell’Ucraina è in pericolo?
MIROŠNYČENKO Sì, è in grave pericolo. Nessuno ha ancora pienamente
realizzato quanto accaduto in Crimea, neanch’io posso credere che sia stata
annessa alla Russia. Ma questa annessione non è riconosciuta dal mondo e
pone delle domande sul futuro delle relazioni tra Ucraina e Russia. Molte
cose devono essere ripensate.
LIMES Come può essere riconsiderato il rapporto dell’Ucraina con la Russia
dati gli stretti legami economici ed energetici tra i due paesi?
MIROŠNYČENKO I rapporti economici non possono cessare repentinamente,
anche Mosca è interessata a continuarli. Sono contrario alle azioni radicali.
Tuttavia, credo sia necessario rivedere gli accordi sul partenariato strategico
russo-ucraino, nonché la dottrina ucraina di sicurezza nazionale. Le nostre
priorità in politica estera devono essere cambiate, gli eventi lo richiedono.
Ora però occorre occuparsi anzitutto della politica interna, bisogna unire il
paese.
LIMES Cosa può unire l’Ucraina?
MIROŠNYČENKO La costruzione di un paese europeo, non nazionalizzare le
imprese o confiscare le proprietà dei precedenti esponenti di governo.
Queste cose fanno paura. Credo che l’Ucraina debba cercare rapporti più
stretti con l’Unione Europea. L’unica condizione in grado di rendere il
paese più unito e forse di far tornare la Crimea in Ucraina è far sì che questa
diventi una storia di successo, in grado di garantire diritti umani, qualità
della vita e lotta alla corruzione.
LIMES Perché allora il governo Janukovyč, guidato dal Partito delle regioni,
ha rifiutato all’ultimo momento di firmare l’accordo con l’Ue?
MIROŠNYČENKO Per la stessa ragione che ha spinto il nuovo premier
Jacenjuk a rifiutarne la parte economica (la cui firma è stata rimandata
all’autunno, n.d.r.) e a sottoscriverne solo quella politica. Il testo
dell’accordo verrà cambiato perché, secondo la formulazione attuale, gli
interessi dell’Ucraina sono meno protetti di quelli dell’Ue. Poi c’è stata
sicuramente anche la pressione della Russia. Insomma: le ragioni per non
firmare c’erano. Il problema è che il dietrofront è giunto troppo tardi, a una
settimana dalla data prevista per la firma. Questa mancanza di coerenza ha
causato le proteste di Majdan, perché ha suscitato dubbi sulla traiettoria di
avvicinamento del paese all’Europa. Janukovyč ha commesso un grave
errore: non è riuscito a spiegare al popolo il brusco voltafaccia. Adesso
dobbiamo riconciliare l’Ovest e l’Est dell’Ucraina, dimenticare le
differenze e cercare spunti di dialogo. In Europa non mancano gli esempi di
riconciliazione: la Francia ha combattuto molte guerre con l’Inghilterra e la
Germania, ma ora vivono in pace grazie all’Ue. Anche per l’Ucraina
Bruxelles potrebbe svolgere questo ruolo di pacificazione.
LIMES Qual è adesso la situazione nell’Est e nel Sud dell’Ucraina, dove il
Partito delle regioni ha sempre avuto il sostegno maggiore?
MIROŠNYČENKO Nell’Est una parte della popolazione rifiuta il governo
centrale. La gente ha paura delle nuove autorità a Kiev e per questo guarda
alla Russia. Non perché vorrebbero davvero separarsi dall’Ucraina, ma
perché vogliono sentirsi protetti. Certo, c’è un forte elemento di propaganda
russa. Ma bisogna riconoscere che il senso d’insicurezza esiste. I separatisti
che scendono in piazza nell’Est e nel Sud non sono solo i provocatori
portati dalla Russia, ci sono anche molti cittadini normali. Il nuovo governo
deve prenderne atto e cercare il dialogo con queste persone. Il Partito delle
regioni potrebbe essere un alleato in tal senso. Io ero per aderire alla nuova
coalizione, per dare un segnale all’Est e al Sud. Purtroppo la decisione del
partito è stata diversa. Ciò nonostante dobbiamo tutti lavorare per unire
l’Ucraina. Noi parlamentari del Partito delle regioni siamo andati nell’Est e
in Crimea, abbiamo cercato di parlare con le persone. Ma molti ci
considerano dei traditori, perché pensano che non rappresentiamo più i loro
interessi. Ora, non voglio addossare troppe colpe alle nuove autorità; la
maggiore responsabilità di questa crisi è del Partito delle regioni. Però ciò
che succede dopo la rivoluzione è responsabilità del nuovo governo.
LIMES Quali sono esattamente le responsabilità del partito e come il vede il
suo futuro?
MIROŠNYČENKO Tanto il presidente Janukovyč, quanto il Consiglio di
ministri e i governatori regionali erano espressione del Partito delle regioni.
È anche vero che molti funzionari del partito, parlamentari inclusi, erano
costretti ad agire sotto la costante pressione della corruzione che
caratterizzava il sistema. Il problema principale del governo precedente era
la corruzione, che gravava sull’intero paese impedendone lo sviluppo. Il
Partito delle regioni deve assumersene la responsabilità, perché la
corruzione proliferava sotto la sua protezione politica. Riconoscere questo
fatto è il primo passo verso il futuro. Siamo consapevoli che perderemo
molti voti. Stiamo già perdendo membri nelle regioni, danno le dimissioni.
È una sfida seria, ma se il partito dimostra che è in grado di correggere i
propri errori e di cambiare le sue regole interne, allora potrà rinascere.
LIMES Cosa pensa di Janukovyč? Lo considera ancora il presidente
legittimo?
MIROŠNYČENKO Per ragioni etiche mi astengo dal commentare le azioni di
Janukovyč. Da suo rappresentante presso il parlamento ho lavorato per
l’Ucraina, non per il singolo personaggio, al pari degli altri ministri. Non ho
niente di cui vergognarmi, non ero coinvolto in pratiche corrotte o schemi
opachi.
LIMES Chi detiene al momento il potere legittimo in Ucraina?
MIROŠNYČENKO Il parlamento ucraino è ora l’istituzione la cui legittimità
non può essere messa in discussione. Molte decisioni del presidente ad
interim e del governo spesso vengono ribadite da decreti e risoluzioni del
parlamento. Così rimaniamo dentro la legalità. Credo che si sarebbe dovuto
cambiare la costituzione prima delle elezioni presidenziali, per evitare le
accuse rivolte a Janukovyč nel 2010, quando – dopo essere stato eletto –
ampliò i poteri presidenziali. La situazione politica rende però necessario
avere quanto prima un presidente eletto dal popolo.
LIMES Secondo lei cosa ha ottenuto Majdan?
MIROŠNYČENKO La gente non ce la faceva più e – detto francamente – tale
sentimento era condiviso dai parlamentari del Partito delle regioni. È per
questo che sono scese in piazza tante persone. Le immagini dei berkut che
picchiavano gli studenti disarmati a Majdan erano sconvolgenti: non si
poteva restare indifferenti. Majdan è riuscita a rovesciare il regime e così
facendo ci ha dato una possibilità di cambiare il sistema. Però ci sono
conseguenze indesiderate: vediamo un certo caos per le strade, gente armata
che compie rapine e il governo non riesce ancora a controllare la situazione.
C’è poi il rischio di divisione del paese. Auguro il successo al nuovo
governo. Anche noi, che siamo ora all’opposizione, dipendiamo dalla loro
capacità di combattere la corruzione e il crimine organizzato. Se non ci
riusciranno sarà una tragedia, perché le decine di vittime della rivolta
saranno morte per niente.
LIMES Quanto è probabile che prenda piede una controrivoluzione?
MIROŠNYČENKO La possibilità c’è. Gli umori della società cambiano in
fretta: se le nuove autorità non ottengono successi con le riforme, se non
riescono a eliminare la corruzione rampante e se proseguono sulla strada
della repressione, potremmo trovarci in una situazione molto pericolosa. E
sarà terribile, non solo per l’Ucraina: sarà una delusione per il mondo
intero, specie per l’Europa e per gli Stati Uniti che ci sostengono. Abbiamo
già avuto una chance storica dopo la rivoluzione arancione, e non l’abbiamo
usata. Spero che questa volta vada diversamente.
LIMES Pensa che la Russia spinga per una «restaurazione» in Ucraina? Le
azioni in Crimea sono una reazione alla vittoria di Jevromajdan?
MIROŠNYČENKO Non sono un nemico della Russia: ci sono nato, lì ho molti
parenti. Però non riesco a capire la logica del Cremlino. Nel XXI secolo il
possesso di molti territori non garantisce necessariamente vantaggi nella
competizione internazionale. Non riesco dunque a capire perché la Russia
avesse tutto questo bisogno di annettere la Crimea. Spero che non compia
altre mosse del genere nei nostri confronti. Adesso siamo in una posizione
di debolezza e abbiamo un bisogno urgente di riforme. In quest’ottica
l’unità nazionale è fondamentale anche per contrastare l’ingerenza della
Russia. Bisogna contenere la potenziale minaccia russa tramite mediatori
internazionali. Sono due le cose che l’Ucraina deve fare urgentemente:
assicurarsi il sostegno di alleati potenti e fare di tutto per unire il paese,
ristabilire l’ordine e avviare le riforme.
LIMES Come valuta l’attuale status dell’Ucraina di paese non allineato?
Dopo i fatti della Crimea i sondaggi mostrano che la maggioranza degli
ucraini sarebbe favorevole all’adesione alla Nato.
MIROŠNYČENKO La retorica russa mostra che è proprio la prospettiva di
un’eventuale adesione dell’Ucraina alla Nato ad aver giustificato
l’annessione della Crimea. Da un punto di vista militare, l’adesione alla
Nato ci renderebbe molto più forti, perché l’alleanza sarebbe obbligata a
proteggerci in caso di aggressione militare esterna. Però bisogna dialogare
con la Russia. Forse il non allineamento è il prezzo da pagare per
riprenderci la Crimea o per prevenire un attacco russo ad est. La decisione
se aderire o meno alla Nato dev’essere presa considerando anche i
potenziali sviluppi futuri, la possibile reazione della Russia. Il processo di
adesione è lungo, ma il rischio di perdere l’Est e il Sud è attuale.
LIMES C’è il rischio di una guerra civile o di un conflitto con la Russia?
MIROŠNYČENKO Di una guerra civile no, ma c’è il rischio che alcune regioni
si stacchino. In Crimea è stato creato un precedente. Già sentiamo appelli ai
referendum separatisti nelle regioni dell’Est. Non so quali siano i piani di
Mosca, però abbiamo visto che la Crimea è stata occupata senza incontrare
resistenza. Questo è il problema: se i russi non vengono percepiti come
occupanti dalle popolazioni locali, possono proseguire. È per questo che
dobbiamo unirci, per difendere i nostri confini e il futuro dell’Ucraina.
TRIDENTE CONTRO FALCE E
MARTELLO: GLI USI DELLA STORIA
NELL’UCRAINA POST-SOVIETICA
La costruzione dell’identità nazionale ucraina è argomento di
permanente contesa fra partiti e correnti politico-culturali.
Retoriche contraddittorie e manipolazioni, da Kučma a Janukovyč.
La memoria del Holodomor e la glorificazione di Bandera.
di Simone Attilio BELLEZZA

L’
1. idea che l’Ucraina fosse una nazione distinta dalle altre e che
essa avesse diritto a uno Stato indipendente nacque nel corso del XIX
secolo con il diffondersi dei nazionalismi e della massificazione della
società. Differentemente da alcuni paesi occidentali, l’Ucraina non aveva
un’antica tradizione statuale alle spalle. I primi tentativi di creare uno Stato
nazionale si ebbero solo dopo la rivoluzione del febbraio 1917 e,
successivamente, per tutto il corso della cosiddetta guerra civile russa.
Con la fondazione dell’Unione Sovietica, l’Ucraina emerse come una
repubblica formalmente indipendente. L’Urss condusse tuttavia una politica
delle nazionalità ambivalente, alternando periodi di maggiore autonomia ad
altri di repressione violenta di ciò che veniva definito «nazionalismo
borghese». Massima espressione di tale repressione fu la carestia artificiale
del 1932-33, il Holodomor, che uccise milioni di ucraini. Nel periodo fra le
due guerre mondiali, nelle regioni ucraine occidentali come la Galizia, che
erano parte dello Stato polacco, si diffuse una variante radicale del
movimento nazionale ucraino, sempre più influenzato dai movimenti
fascisti, rappresentato dalla Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun).
Nel corso della seconda guerra mondiale i nazionalisti ucraini combatterono
sotto le insegne dell’Upa (Esercito insurrezionale ucraino) a tratti contro
sovietici e nazisti, a tratti alleati invece a questi ultimi, che speravano di
sfruttare la questione nazionale ucraina contro il potere di Mosca. La guerra
partigiana nazionale fu sconfitta dall’esercito sovietico solo a metà degli
anni Cinquanta. Proprio allora all’interno del dissenso sovietico nacque un
nuovo filone del movimento nazionale, profondamente pacifista e convinto
del valore dei diritti umani, che divenne, nel corso degli anni Settanta, tanto
antisovietico quanto antifascista1.
Si deve a questi ex dissidenti, saliti brevemente al potere nei primi anni
dopo il crollo dell’Urss, la decisione di non costruire in Ucraina uno Stato
etnico, ovvero che legasse il diritto di cittadinanza all’appartenenza
nazionale o linguistica. Differentemente da quello che avvenne negli Stati
baltici, il passaporto ucraino fu garantito a tutti i residenti sul territorio
nazionale alla data del 31 dicembre 1991. Questo tuttavia non impedì che
nel corso di un decennio le polemiche sulla storia ucraina tornassero a
inquinare il dibattito sociale e politico.

2. Leonid Kravčuk, che fu il primo presidente dell’Ucraina indipendente


dal 1991 al 1994, era un ex comunista velocemente riconvertitosi alla
retorica nazionale, che in quegli anni andava a costituire il nuovo collante
sociale delle repubbliche postsovietiche ormai private dell’ideologia
comunista. Sotto la sua guida il paese recuperò i simboli e la retorica tipici
del nazionalismo, scegliendo il tridente della Rus’ di Kiev come stemma
ufficiale e dichiarando i cosacchi del Dniprò del XVII secolo predecessori
della moderna democrazia ucraina. Nel far questo Kravčuk in parte
mistificava la storia, in quanto né il principe Volodymyr il Grande di Kiev
(980-1015) né i cosacchi del Seicento possedevano un’idea della nazione
comparabile a quella odierna. Tali semplificazioni e riletture sono però
tipiche di qualsiasi retorica nazionale. I manuali di storia spesso accolsero
acriticamente la versione di un filo rosso delle vicende nazionali ucraine
che si dipanava senza interruzioni fra i secoli, creando qualche malumore
negli insegnanti propensi a stimolare lo spirito critico negli studenti. Tali
questioni non appassionarono allora i cittadini ucraini, pressati dalla crisi
economica e istituzionale dovuta all’assoluto immobilismo del proprio
presidente, incapace di avviare una qualsiasi riforma. Kravčuk si vide
costretto perciò a dare le dimissioni anticipate nel 1994 e fu sostituito da
Leonid Kučma, ex primo ministro e dirigente della Južmaš, una delle più
grandi fabbriche di armamenti dell’ex Unione Sovietica.
In pochi anni Kučma fu in grado di creare una valuta nazionale e di far
approvare una nuova costituzione che sostituisse quella sovietica. Egli
avviò una privatizzazione dell’economia che lo rese arbitro delle contese fra
i vari oligarchi che qui, differentemente dalla Russia, sedevano (e siedono)
tutti in parlamento e si occupavano di politica. Kučma fu anche in grado di
gestire uno dei nodi più spinosi della storia patria in maniera
incredibilmente contraddittoria seppure efficace: l’interpretazione della
seconda guerra mondiale. L’Urss e in particolare Brežnev, che come Kučma
veniva dalla città di Dnipropetrovs’k, avevano assegnato al secondo
conflitto mondiale (chiamato «Grande guerra patriottica») un ruolo
fondante all’interno dell’identità sovietica: la sconfitta dell’orrore
nazifascista era uno dei pochi meriti incontestabili del potere bolscevico,
che aveva sostenuto a lungo da solo il grosso dell’offensiva di Hitler. Per
decenni la propaganda si era impegnata a esaltare le gesta dei partigiani
sovietici e a contrapporli a quanti avevano collaborato con gli invasori, fra i
quali c’erano stati per alcuni periodi anche i partigiani nazionalisti dell’Upa.
Nell’Ucraina postsovietica tale ricostruzione poneva seri problemi: se pure
parte del nazionalismo ucraino riconosceva i meriti dei partigiani rossi, altri
consideravano l’avanzata dell’Armata rossa come un’invasione straniera e
sottolineavano le legittime aspirazioni all’indipendenza di Oun e Upa,
dimenticandosi però degli infamanti episodi di alleanza coi nazisti.
Kučma, senza temere il principio di non-contraddizione, decise di
esaltare tanto le gesta dei partigiani rossi nelle regioni orientali del paese (a
volte con discorsi in russo) quanto quelli nazionalisti quando visitava
Galizia e Volinia in Occidente. La soluzione cerchiobottista, così come nel
campo della lingua (Kučma sosteneva che l’ucraino dovesse essere l’unica
lingua ufficiale dello Stato ma anche che il russo andasse salvaguardato
come l’idioma di un’importante minoranza nazionale), riuscì di fatto per un
decennio a mantenere latenti alcuni conflitti, senza farli emergere nella
contesa politica. Il fine di questa linea era seguire la Polonia sulla strada di
una ricostruzione della memoria nazionale come vittima dei contrapposti
totalitarismi: dimenticando le collaborazioni delle popolazioni locali ai
crimini di entrambi i regimi ci si proponeva come martiri senza colpe2.

3. L’Ucraina di Kučma era caratterizzata da una corruzione pervasiva:


una ristretta cerchia si arricchiva a scapito di una nazione che faticava a
uscire della crisi economica. Gli oligarchi controllavano quasi tutti i canali
televisivi e la stampa, mentre i giornalisti che non volevano piegarsi ai
dettami dall’alto rischiavano la vita: nel 2000 lo scandalo per l’omicidio del
giornalista Heorhij Gongadze, dovuto al ritrovamento di un nastro in cui
Kučma ordinava la sua decapitazione, travolse il presidente. Era l’origine
delle proteste che sarebbero sfociate nella rivoluzione arancione nel 2004.
A guidare l’opposizione emerse Viktor Juščenko, già direttore della Banca
centrale e brevemente primo ministro, che fece una campagna elettorale sui
temi della lotta alla corruzione e per la liberalizzazione economica. Dopo la
vittoria alle elezioni parlamentari del 2002 fu chiaro che le riforme proposte
avrebbero potuto smantellare il sistema di potere economico e politico
diretto da Kučma. La partita veniva decisa dalle elezioni presidenziali del
2004, alle quali il gruppo degli oligarchi aveva candidato Viktor Janukovyč,
primo ministro con un passato da malvivente, che era direttamente
riconducibile a Rinat Akhmetov, il magnate dell’acciaio e uomo più ricco
del paese. Janukovyč, che veniva dalle regioni orientali del paese, quelle
tradizionalmente più russofone e industrializzate, e in cui il sistema di
governo attraverso il clientelismo era più diffuso, decise assieme agli spin
doctors di Mosca che l’unico modo per contrastare la montante campagna
contro la corruzione era una controcampagna sul tema della divisione fra
russofoni e ucrainofoni.
Janukovyč prese a dipingere l’opposizione come un gruppo di
neofascisti, fautori di un nazionalismo estremo, abilmente manovrati dagli
Stati Uniti di George W. Bush. Per Juščenko, nonostante che questi fosse
assai poco connotato in maniera nazionale (veniva da una regione
nordorientale ed era fedele della Chiesa ortodossa moscovita)3, fu
addirittura creato l’epiteto bušist, crasi di Bush e fašist. Culmine della
campagna elettorale di Janukovyč fu la partecipazione di Vladimir Putin
alle celebrazioni per l’anniversario della vittoria nella seconda guerra
mondiale a Kiev: il fine era quello di dipingere Juščenko come un seguace
di Stepan Bandera, il nazionalista ucraino che negli anni Trenta si era
alleato con Hilter, per far credere alla parte russofona del paese che la
vittoria delle opposizioni avrebbe comportato la nascita di uno Stato etnico
che avrebbe discriminato i russofoni. Per corroborare questa tesi, Janukovyč
fece approvare una legge che rendeva obbligatoria la lingua ucraina in
televisione (in realtà mai resa effettiva), per poi lamentare l’inizio delle
norme discriminatorie4.
La scoperta dei brogli nel secondo turno delle presidenziali del
dicembre 2004, la rivoluzione arancione e la vittoria di Juščenko alla
ripetizione del ballottaggio sembrarono segnare la sconfitta di Janukovyč.
In realtà, questi era riuscito a spaccare il paese su un nuovo confine
linguistico e storico: se nelle elezioni del 1999 Kučma era risultato vincitore
tanto nell’orientale Donec’k quanto nella capitale occidentale dell’Ucraina,
Leopoli, ora le regioni russofone nel Sud e nell’Est del paese votavano
compatte contro il Nord e l’Occidente, nelle cui campagne l’ucraino era
maggioritario5.

4. Contrariamente alle grandi aspettative della rivoluzione arancione, il


quinquennio alla presidenza di Juščenko è stato sostanzialmente un
fallimento per l’incapacità, nonostante gli anni di crescita economica, di
riformare un paese dilaniato dalla rivalità fra l’amministrazione
presidenziale e i ben quattro governi che si sono succeduti. È stata forse
l’insoddisfazione per l’impossibilità a procedere a riforme economiche e
sociali a far rivolgere il neopresidente alla cura dell’identità e della
memoria nazionale. Durante il suo mandato, Juščenko si fece promotore sia
in politica interna sia in campo internazionale di una campagna per la
riscoperta e la commemorazione del Holodomor: la carestia creata da Stalin
in Ucraina con le requisizioni dei prodotti agricoli fu presentata come uno
strumento per fiaccare la resistenza dei contadini ucraini alla colonizzazione
di Mosca. In questa lettura si faceva notare come la Russia, che negli stessi
anni era pure sottoposta alla collettivizzazione forzata, non conobbe tanti
morti, mentre in Ucraina morirono fra i 3,5 e i 5 milioni di persone.
Juščenko promosse la memoria del Holodomor come il genocidio degli
ucraini, ottenendone il riconoscimento in vari Stati stranieri (anche
dall’Italia nel 2007 e dal Parlamento europeo nel 2008) e organizzando una
nuova retorica nazionale attorno a questo evento. Il cardine di tale strategia
fu la costruzione in tutto il paese di complessi monumentali attorno ai quali
si sarebbero svolte le cerimonie di commemorazione. Nel 2006 Juščenko
istituì il quarto sabato di novembre come giorno della memoria del
Holodomor, che fu celebrato nel 2007 con tre giorni di manifestazioni sul
Majdan Nezaležnosti ed infine nel 2008 con l’inaugurazione del memoriale
di Kiev. Esso fu costruito sulle colline a ridosso del Dniprò, vicino al
monastero delle Grotte (uno dei luoghi più sacri della religione ortodossa) e
al memoriale della seconda guerra mondiale. Oltre che modificare
significativamente lo skyline della capitale, il sito della costruzione aveva il
valore simbolico di aggiungere ai due eventi fondanti della identità
nazionale (la conversione al cristianesimo e la vittoria contro il
nazifascismo) un terzo elemento6. La forte connotazione antirussa fu
aspramente avversata da Mosca e in parte dal Partito delle regioni di
Janukovyč.
Quest’ultimo aveva intenzione di utilizzare l’arma del timore del
nazionalismo ucraino anche contro la sua rivale nelle elezioni presidenziali
del 2010, Julija Tymošenko. Quest’ultima, benché russofona con
ascendenze armene ed ebraiche, aveva più apertamente sposato la questione
del nazionalismo ucraino e fondato un partito chiamato appunto
Bat’kivščyna (Patria). La candidatura della Tymošenko, primo ministro nel
2005 e poi di nuovo dal dicembre 2007, pareva già assai debole a causa
della crisi economica iniziata con la crisi finanziaria del 2008 e degli
scandali seguiti all’emergenza dell’influenza A-H1N1. Il colpo di grazia le
fu dato dal suo ex alleato Juščenko che, escluso dal ballottaggio delle
presidenziali, voleva evitare l’elezione della pasionaria della rivoluzione
arancione. Nel pieno della campagna elettorale, resa tesa dalle accuse di
nazionalismo, Juščenko decise di concedere l’onorificenza di «eroe
dell’Ucraina» a Stepan Bandera, il capo dell’Oun colpevole dell’alleanza
con Hitler. Presa dalla contesa, Tymošenko decise di appoggiare la
decisione attirandosi gli strali di gran parte dell’opinione pubblica, come
confermarono i risultati delle elezioni. Nonostante Janukovyč raccogliesse
nel 2010 400 mila voti in meno che nel 2005, risultò comunque vincitore in
quanto la Tymošenko perse quasi 4 milioni di voti rispetto a quanto aveva
fatto Juščenko: la politica del nazionalismo estremo faceva perdere voti
anche a Ovest, dove erano cresciuti sensibilmente l’astensione e il voto
contro entrambi i candidati7.

5. Gli anni della presidenza di Janukovyč si contraddistinsero per le


polemiche sul carattere fortemente antiucraino del suo governo. Il primo
ministro Mykola Azarov era incapace di parlare correttamente ucraino,
mentre il nuovo ministro dell’Educazione pubblica, Dmytro Tabačnyk, era
noto per le sue posizioni ucrainofobe. Quest’ultimo si fece protagonista di
molte polemiche per la condanna assoluta del movimento partigiano
dell’Upa e per dichiarazioni filorusse o financo filosovietiche: se è vero che
i leader dell’Oun non si fecero scrupolo di allearsi coi nazisti e che l’Upa
compì molte operazioni di pulizia etnica nei confronti dei polacchi, è
altrettanto vero che il movimento partigiano ucraino era espressione di uno
scontento che non poteva essere risolto con la violenza, così come fece
l’Urss, trasformando i partigiani dell’Upa in martiri della libertà nazionale
agli occhi della popolazione. Le dichiarazioni di Tabačnyk, assieme al
tentativo di imbrigliare la ricerca storica nelle università (nonostante che il
dibattito scientifico fosse assai meno polarizzato di quello pubblico) non
fecero che gettare benzina sul fuoco.
Pietra dello scandalo fu poi, nel 2012, l’approvazione a colpi di
maggioranza della legge sulle minoranze linguistiche, giusto prima delle
nuove elezioni parlamentari. Con essa si concedeva alle minoranze che
raggiungevano una percentuale del 10% della popolazione di rendere
ufficiale la loro lingua all’interno delle regioni e delle grandi città. L’effetto
della legge fu di ufficializzare l’uso del russo in molte regioni, a scapito
delle altre minoranze nazionali (piccole e sparse su tutto il territorio
nazionale) che si ritrovarono in una condizione di russificazione forzata
(per fare un esempio, sarebbe come se i ladini della provincia di Bolzano
fossero stati costretti a utilizzare il tedesco).
Le conseguenze, come apparve dai risultati delle elezioni parlamentari,
fu un avanzamento dei partiti nazionalisti nelle file dell’opposizione. Ne era
protagonista Oleh Tjahnybok, leader del partito Svoboda (Libertà).
Svoboda era nato nel 1995 come Partito socialista-nazionale ucraino e si
richiamava direttamente al neofascismo. Quando ne divenne segretario nel
2004, Tjahnybok fece di tutto per trasformarlo in un partito più moderato:
cambiò il nome e il simbolo (il Wolfsangel nazista fu sostituito da una mano
con le tre dita centrali erette a simboleggiare il tridente ucraino), e
abbandonò l’ideologia neofascista pur mantenendo un forte accento
nazionalista. Dall’ingresso nel parlamento nel 2012, nella propaganda di
Svoboda sono sparite le dichiarazioni contro gli omosessuali o gli ebrei e
Tjahnybok si è giovato dell’influsso moderatore degli altri due partiti
d’opposizione: Bat’kivščyna ora guidato da Arsenij Jacenjuk e Udar
(Colpo), dell’ex campione del mondo di pugilato Vitalij Klyčko.
Intanto Janukovyč stava trasformando l’Ucraina in un paese in cui tutta
la ricchezza andava a un gruppo ristretto di parenti e amici (chiamato
«famiglia», come nella Russia di El’cin), sempre meno democratico e più
corrotto. Ne era simbolo la polizia che prese a usare la forza per estorcere
denaro e si rese colpevole di numerose violenze private e stupri per tutto il
corso del 2013. La situazione doveva precipitare con il rifiuto a firmare
l’accordo di associazione con l’Ue, nel novembre scorso.

6. Le proteste che hanno portato alla fuga di Janukovyč sono state fin
dall’inizio contraddistinte da un desiderio di rinascita nazionale, in parte
rappresentato dallo scontento per la mancata associazione all’Ue. Il tridente
era onnipresente sul Majdan e il saluto tradizionale del movimento
nazionale («Gloria all’Ucraina!» a cui si risponde «Gloria agli eroi!») è
divenuto usuale. Il fine delle proteste era però combattere contro il potere
sempre più dittatoriale del presidente e ottenere più democrazia e una
migliore distribuzione della ricchezza. Anche se fare statistiche è
particolarmente difficile, è stato stimato che sul Majdan solo il 55% degli
intervenuti parlava ucraino: il 26% era russofono, il 18% si dichiarava
bilingue e l’1% di un’altra madrelingua8.
Anche se nel corso degli scontri la federazione di movimenti Pravyj
Sektor (settore destro del Majdan) guidata dal nazionalista estremista
Dmytro Jaroš ha acquistato grandissima visibilità grazie ai suoi gruppi
organizzati per la guerriglia urbana, di fatto la piazza non ha ceduto alle
lusinghe del nazionalismo. Secondo vari sondaggi sia pubblici che privati,
Jaroš raccoglierebbe solo l’1,6% se si presentasse alle presidenziali del 25
maggio9.
Nella generale sfiducia degli ucraini per tutti i politici, anche
dell’opposizione, emerge come eccezione la figura di Andrij Sadovyj, il
sindaco di Leopoli. Ucrainofono, ma che parla spesso in pubblico in russo,
Sadovyj si è recentemente rivolto alle regioni orientali, in cui si teme una
discriminazione dei russofoni, per tranquillizzarli. I suoi richiami all’unità
della nazione risuonano come la migliore proposta per scongiurare una
guerra civile e avviare il paese, conscio degli scontri fratricidi del passato,
verso una nuova integrazione delle sue due anime all’interno del più ampio
contesto dell’Unione Europea.

TRE IDEE DI UCRAINA


di Dmytro TABAČNYK, Oleh TJAHNYBOK, Andrij SADOVYJ

Presentiamo qui tre idee diverse di Ucraina, che illustrano il dibattito


sempre attuale sull’identità nazionale.

Elogio del patto Molotov-Ribbentrop


di Dmytro TABAČNYK

Dmytro Tabačnyk (1963) si è laureato in storia nel 1986 ma si è sempre


dedicato alla politica, cominciando dall’Unione della gioventù leninista
sovietica. Reso famoso dalle sue dichiarazioni ucrainofobe, ha fatto
carriera accademica come politologo, ricoprendo parallelamente cariche
amministrative e politiche, quale vice primo ministro (2006-7) e ministro
dell’Istruzione (2010-14). In questo articolo (parzialmente accorciato) per
il settimanale in lingua russa 2000, Tabačnyk discute la posizione dell’Urss
all’inizio della seconda guerra mondiale, legandola alla polemica politica
contemporanea. Il nodo dell’occupazione legittima di una porzione di
territorio di uno Stato straniero è trattato da un punto di vista assieme
sovietico e russo e risulta di particolare attualità.

Da: D. TABAČNIK [ucr. Dmytro Tabačnyk], «Un paese senza storia è un


paese senza futuro», 2000, 18-24/9/2009.

Il 17 settembre 1939 le truppe sovietiche attraversarono il confine


orientale della Polonia, entrarono nei territori dell’Ucraina e della
Bielorussia occidentali, e presero sotto protezione la loro popolazione. Più
tardi, nell’ottobre dello stesso anno, l’Assemblea nazionale dell’Ucraina
Occidentale si rivolse al governo sovietico con la richiesta di annettere la
regione nell’Unione Sovietica e di unirla alla Repubblica Ucraina Sovietica.
La richiesta fu soddisfatta. Allora anche le terre bielorusse occidentali si
unirono alla Repubblica Sovietica Bielorussa.
Oggi i nazionalisti ucraini d’ogni tipo, così come gli altri nemici della
Russia (qualunque sia l’ipostasi in cui si è manifestata: lo Stato dei
Rjurikidi10, l’impero dei Romanov, l’Urss, la repubblica democratica),
cercano di dare al fatto dell’ingresso dell’Armata Rossa nel territorio
polacco un significato apocalittico e di attribuire all’Urss sulla base di
questo fatto una responsabilità per lo scoppio della seconda guerra
mondiale pari a quella del Terzo Reich. (…)
A un’analisi della situazione senza doppie misure nazionaliste appare
evidente il fatto che di per sé il patto o la dichiarazione di non-aggressione11
non possono essere un fatto negativo e, men che meno, vergognoso. La
firma di tali accordi era una pratica comune europea di quegli anni. Per
esempio, la Polonia aveva un patto analogo con la Germania. Il 7 giugno
1939 patti di non-aggressione con la Germania furono conclusi da Lituania,
Lettonia ed Estonia. L’Unione Sovietica aveva offerto alla Germania di
sottoscrivere un tale patto già nel 1936. Allora la ragione formale del rifiuto
ufficiale di Berlino era stata la mancanza di un confine comune fra
Germania e Urss. Da questo punto di vista il ritorno (per iniziativa della
parte tedesca) a tale questione nell’agosto 1939 sembra assolutamente
logico. I tedeschi dichiararono apertamente che si apprestavano a liquidare
la Polonia e, per evitare una situazione di conflitto, avrebbero voluto
regolare in anticipo le relazioni con l’Urss, con la quale si sarebbe così
creato un confine comune.
Dal punto di vista della morale o della pratica diplomatica del tempo
l’Urss, che già si trovava ai confini dell’isolamento diplomatico, fu l’ultima
a firmare un patto di non-aggressione con la Germania. Mosca di fatto si
allineò a una pratica comune europea, o come si dice oggi «condivise i
valori europei».
Allo stesso modo l’ingresso delle truppe sovietiche nella Polonia
orientale non si può considerare «un atto di aggressione, conseguenza
diretta del patto Molotov-Ribbentrop», come amano chiamarlo i nazionalisti
ucraini. Innanzitutto, l’attrazione di un territorio nella zona o nella sfera di
interessi prioritari di questa o quella grande potenza non significa
un’automatica inevitabile occupazione di tale territorio. (…) In secondo
luogo, né gli alleati della Polonia (Gran Bretagna e Francia) né lo stesso
governo polacco considerarono l’Urss un aggressore e non gli dichiararono
guerra. (…) Infine, in terzo luogo, la cosa più importante. L’Urss non stava
ingannando quando parlava della difesa dei bielorussi e degli ucraini
occidentali. Le truppe sovietiche passarono non casualmente il confine solo
il 17 settembre. Hitler si era rivolto alcune volte a Stalin dopo il 1°
settembre con tutte le più insistenti proposte affinché conducesse
immediatamente l’Armata Rossa in Polonia. Addirittura aveva ricattato
«con allusioni» alla sua apparente impossibilità di ritirare l’esercito tedesco
dal territorio della Polonia orientale, se i battaglioni tedeschi, inseguendo i
fuggitivi polacchi, vi fossero arrivati prima dell’Armata Rossa. (…) In
queste condizioni l’ingresso delle truppe sovietiche nella Polonia orientale
non fu proficuo solo per l’Urss (ma non lo fu in alcun modo alla Germania,
che aveva già risolto i suoi problemi ed era pronta a inghiottire interamente
la Polonia). La convenienza fu riconosciuta anche dagli alleati dei polacchi,
dai bastioni della democrazia europea – Gran Bretagna e Francia. (…)
L’unificazione della Galizia12 all’Urss riunì in un’unica formazione
amministrativa e persino statale il fronte civilizzato. I galiziani hanno
costituito gran parte dei quadri della polizia collaborazionista hitleriana,
delle formazioni dell’Abwehr e delle SS. Essi furono anche la forza motrice
di un golpe di piazza, ed è un miracolo, grazie all’opposizione delle
istituzioni di allora, che non si sia scivolati in una guerra civile. Anche
l’odierna politica antiucraina, antirussa, antieuropea e persino
antiumanitaria (nel senso dei valori) della classe dirigente ucraina è in grado
considerevole il risultato della dominazione del radicalismo galiziano nella
politica ucraina.
Benché la storia non si faccia con i se, si sarebbero potuti evitare molti
dei problemi odierni, se solo nel 1939 la Galizia fosse stata annessa all’Urss
con uno statuto di soggetto indipendente.
Cionondimeno in qualsiasi decisione o avvenimento, persino nel
peggiore, c’è un seme di razionalità. Gli ultimi vent’anni di coesistenza di
ucraini e galiziani con ogni evidenza hanno mostrato che è destinato a
fallire lo Stato eretto sui valori imposti con la forza dagli ideologi galiziani,
valori estranei agli ucraini e che non sono condivisi dalla maggioranza della
popolazione. (…)
Non vi sono dubbi che il patto dell’agosto 1939 abbia rappresentato un
fatto scioccante di politica realista da parte di uno Stato che conduceva una
campagna contro il fascismo ancor prima dell’inizio della guerra civile
spagnola. Si può discutere di come Stalin se ne sia servito per guadagnare
tempo, o dei suoi errori nel rallentamento della pressione dei nazisti, o del
fatto che l’occupazione sovietica di quelle che erano sostanzialmente parti
ucraine e bielorusse della Polonia, come riconobbe a quel tempo Churchill,
era «necessaria per la difesa della Russia dalla minaccia nazista».
Ma l’affermazione che senza il patto non vi sarebbe stata neppure la
guerra è semplicemente assurda e, secondo le parole dello storico Mark
Mazower, «troppo colorata con le passioni politiche contemporanee per
essere presa sul serio». Hitler diede l’ordine di attaccare la Polonia e
occuparla molto tempo prima. Come dice ancora un altro storico, Geoffey
Roberts, il patto fu «uno strumento di difesa, non di aggressione».
Questa affermazione è assai meno vera per quanto riguarda gli accordi
di Monaco13, raggiunti un anno prima, quando i politici britannici e francesi
spartirono la Cecoslovacchia. (…)
Ma nei paesi dell’Europa orientale, negli Stati baltici e in Ucraina la
tendenza a riscrivere la storia viene utilizzata per sminuire i crimini del
nazismo e riabilitare i suoi complici. A livello ufficiale è stata svolta una
campagna per l’istituzione il 23 agosto, data della firma del patto di non-
aggressione, del giorno della memoria delle vittime del comunismo e del
nazismo. (…)
In conclusione vale la pena di fare attenzione a una curiosità legata
all’accordo tedesco-sovietico di non-aggressione. Praticamente ogni vero
nazionalista ucraino è allo stesso tempo feroce critico «del patto Molotov-
Ribbentrop». Questo riguarda non solo Stalin e il regime sovietico, ma
anche la Russia contemporanea, che non vuole calare il capo cosparso di
cenere per il fatto che, a suo tempo, la dirigenza sovietica, non avendo
nessun jolly da giocare, di fronte a un deficit di tempo e alla mancanza di
spazio per manovre, circondata da nemici, fu in grado di portare a termine
una brillante operazione diplomatica, mettendo avanti gli interessi vitali del
paese e fissando, con un decennio di anticipo, un nuovo scenario strategico
in Europa. (…)
Del resto i nazionalisti ucraini sono in generale persone strane e risibili.
Chiamano occupazione l’unificazione di Ucraina e Russia sanzionata dal
trattato di Perejaslav del 165414, ma non vogliono in alcun modo restituire
la Crimea, regalata per i 300 anni di questa «occupazione». Definiscono
un’ignominia la politica delle nazioni di Stalin, ma vogliono vivere in
un’Ucraina non coi confini dei tempi di Khmel’nyc’kyj, ma nello Stato
ucraino i cui confini furono fissati proprio dal primo segretario generale del
Pcus15.
Forse proprio a causa di questa stranezza dei nazionalisti ucraini che
controllano il potere statale a Kiev, la diplomazia ucraina non ha al suo
attivo nessuna vittoria che sia paragonabile almeno al patto tedesco-
sovietico del 1939, e lo Stato ucraino odierno per il suo peso negli affari
internazionali e per prospettive di sopravvivenza è comparabile alla Polonia
del 1939. (…)

Per una rivoluzione nazionale e sociale


di Oleh TJAHNYBOK

Oleh Tjahnybok è dal 2004 leader del partito nazionalista Svodoba


(Libertà). Nato nel 1968, si è occupato fin da giovanissimo di politica ed è
stato eletto per la prima volta in parlamento nel 1998. Come si evince
anche da questo articolo, scritto per il centenario della nascita
dell’ideologo del nazionalismo ucraino Jaroslav Stec’ko, Tjahnybok è il
principale fautore di una ridefinizione in termini di destra sociale delle
frange più estreme del nazionalismo ucraino. Completamente dimentico dei
crimini commessi dall’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun)
durante la seconda guerra mondiale contro polacchi ed ebrei, Tjahnybok
celebra la lotta di liberazione nazionale ucraina condotta durante il
conflitto e la sua ideologia, che a suo parere è alternativa alle altre grandi
dottrine politiche del Novecento.

Da: O. TJAHNYBOK, «Jaroslav Stec’ko ideologo del nazionalismo sociale


(per il centenario del leader dell’Oun)», Ukrajins’ka Pravda, 19/1/2012.

Gli eroi delle passate generazioni si sono meritati la splendente


memoria dei contemporanei. Mettendo in moto la Rivoluzione nazionale,
hanno fatto la scelta di una vita piena di pericoli. Il loro convincimento
ideologico li spingeva all’azione. La lotta senza compromessi contro il
nemico per la libertà del proprio popolo assumeva forme concrete laddove
non v’era più spazio per le parole senza azioni né per il contrario. Ognuno
desiderava servire la causa della vittoria, poiché essa rappresentava l’unione
del destino della nazione e dello spirito di sacrificio individuale. Erano
contenti di essere nelle file del proprio esercito, ma non temevano
nemmeno di essere «soli sul campo di battaglia».
Gli organizzatori e gli ideologi del nostro movimento rivoluzionario
nazionale ucraino erano figure eccezionali, nelle cui azioni e idee noi
troviamo ispirazione. I loro appelli ci spronano a superare i nostri limiti, a
raggiungere nuove vittorie.
Il 19 gennaio 2012 si compiono cento anni dalla nascita del leader
dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini Jaroslav Stec’ko. Giovanissimo
divenne membro di quest’organizzazione segreta. A soli 20 anni venne
nominato nell’organo direttivo dell’Oun, la Direzione Regionale, e referente
per l’ideologia politica. A 22 anni venne condannato da un tribunale
d’occupazione16 a 5 anni di galera. Nel 1940 fu collaboratore della
Direzione Rivoluzionaria dell’Oun17, più tardi venne scelto come vice di
Stepan Bandera. Il 30 agosto 1941 proclamò l’Atto di ricostituzione dello
Stato Ucraino e venne scelto come premier del Direttorato statale ucraino18.
Nel 1946 fondò e guidò il Blocco antibolscevico delle nazioni. Fra il 1968 e
il 1986 fu a capo della Direzione dell’Oun(-rivoluzionaria)19.
L’Unione Ucraina «Svoboda» considera Jaroslav Stec’ko l’ispiratore
della sua ideologia politica – il nazionalismo sociale – e il suo libro Due
rivoluzioni un’opera programmatica. Proprio questo scritto ha indicato quei
fattori che renderanno vincente la rivoluzione ucraina: «La Nostra
rivoluzione coinvolge tutto il popolo, ci muoveremo col popolo, che
gradualmente unirà la questione della liberazione sociale a quella
dell’indipendenza nazionale».
Nelle opere di Jaroslav Stec’ko troviamo le risposte nazionaliste ai
problemi attuali. Lo Stato della classe dirigente della nostra vita economica
e politica – l’occupazione interna dell’Ucraina da parte di una classe di
oligarchi del capitale – riceve da parte di Jaroslav Stec’ko una precisa
critica dalle fondamenta e un’alternativa. Perché egli aveva capito
benissimo che, dopo la vittoria sulla Russia sovietica, nemico principale
degli ucraini, dei bielorussi, dei popoli del Caucaso, del Baltico e dell’Asia
centrale, il nazionalismo ucraino si sarebbe scontrato con il problema
dell’egemonia liberal-capitalista dell’Occidente.
Nelle proprie riflessioni egli è andato oltre l’Idea di Nazione. La
nazione è la più alta forma di comunità fisico-spirituale, nella quale sono
incarnate la libertà e la giustizia nei confronti di tutti i suoi membri; tale
concezione della nazione è divenuta il lascito di Stec’ko al patrimonio
teorico del nazionalismo ucraino. Come conseguenza della contaminazione
del nazionalismo con il fascismo, il comunismo e il liberalismo, egli ha
arricchito il significato della nazione con le idee della giustizia sociale,
della libertà dei membri della nazione e dell’etica del lavoro. Egli rigettò il
razzismo del fascismo, l’ateismo e il totalitarismo del comunismo,
l’individualismo e gli strati parassitari del liberalismo. Stec’ko credeva che
per gli ucraini la concezione della persona come parte organica di una
grande famiglia fosse naturale: «Nazione, famiglia, singolo: questa è la
gerarchia dei fenomeni sociali». La persona è incarnazione del fattore
biologico, individuale, sociale e spirituale. Per questo alle idee della libertà
creativa della persona, del bene della nazione e della giustizia sociale egli
ha riconosciuto lo stato di «valori assoluti sulla Terra». Egli dichiarava
continuamente l’impossibilità di un distacco della nostra visione del mondo
dalla fede in Dio e dalla tradizione spirituale degli ucraini: «Al di sopra
della nazione e della persona v’è il valore assoluto dell’universo: il suo
Creatore Iddio».
Sviluppata in questo modo, l’idea della nazione era per Jaroslav Stec’ko
il più alto valore, per il quale vale la pena che ogni ucraino combatta senza
compromessi e si adoperi con spirito di sacrificio.
Da queste riflessioni, si capisce, consegue che la più alta forma di
manifestazione della volontà della nazione è lo Stato nazionale. Questa
idea, intesa dall’Organizzazione dei nazionalisti ucraini come uno Stato
Ucraino Indipendente Unitario, è divenuta lo scopo della strategia di
liberazione nazionale del nazionalismo del XX secolo. La sua necessità era
talmente chiara, che si espresse nell’imperativo: «Costruisci lo Stato
ucraino o muori nella lotta per ottenerlo». Una nazione che rivendichi per sé
il diritto alla creazione della storia concepisce lo Stato come un mezzo per
assicurare la giustizia interna e la libertà esterna. Stec’ko comprendeva le
leggi effettive della sopravvivenza: «L’autodeterminazione politico-
nazionale ha luogo con un plebiscito di sangue nel fuoco delle rivolte e
delle rivoluzioni o delle guerre di liberazione, e non con schede e urne
elettorali».
Nel proprio Stato la liberazione nazionale prevede la liberazione sociale
e individuale. Questo pensiero di Jaroslav Stec’ko è prosecuzione del
pensiero sociale e comunitario del grande Mykola Mikhnovs’kyj20, che
rigettava i programmi cosmopoliti di superamento della schiavitù
economica della classe del lavoro. «Il nazionalismo emancipatore ucraino
creerà un nuovo ordine legale e sociopolitico ucraino del lavoro»: egli mise
questa tesi alla base della critica delle dottrine liberal-capitaliste e
comuniste, estranee agli ucraini. L’ordine sociale degli ucraini proviene
dalla loro cultura del lavoro. Alla sua base sta l’individuo lavoratore
creativo, legato alla famiglia, misura del cui valore è il lavoro individuale di
utilità sociale. Anch’egli «combatte per una comunità nazionale senza strati
parassitari». Il nazionalista ucraino, credeva Jaroslav Stec’ko, emerge come
l’organizzatore di tali individui nella lotta per una società nella quale «non
vi sia parassitismo né alcuna oppressione» e che sia negazione «di qualsiasi
sfruttamento della persona da parte dello Stato o di un’altra persona».
Proprio per questo tale corrente di pensiero valuta il capitalismo liberale in
questi termini: «Il culto dell’irresponsabilità e del gioco libero senza
limitazioni è un anacronismo storico».
Un’indicazione pratica per tale ordine sociale è la distribuzione alla
classe del lavoro della proprietà dei mezzi di produzione, «una
socializzazione della proprietà privata sulla base del lavoro del singolo».
Stec’ko era un sostenitore della statalizzazione dei settori importanti
dell’economia e si dichiarò per «la protezione della proprietà statale dei
mezzi di produzione, che è richiesta dal bene generale della nazione e che è
dettata dalla razionalità della vita stessa». Egli sviluppò l’idea di Stepan
Bandera e degli uomini di governo del tempo della Repubblica Popolare
Ucraina21 sulla collaborazione economica e sulla pianificazione: «diffusione
delle cooperative e di altre forme volontarie di organizzazione comune di
generi sicuri di produzione e di commercio; pianificazione organica nel
rispetto degli stimoli creativi individuali basilari e del bene generale della
nazione». La concretizzazione di queste idee, pensava Stec’ko, impedisce il
ritorno del capitalismo predatorio: «Senza liberazione nazionale non v’è
liberazione sociale e libertà personale. La rivoluzione nazionale deve essere
allo stesso tempo anche una rivoluzione sociale».
«Nella lotta per la libertà si può contare solo sulle proprie forze», ha
scritto Stec’ko, giudicando i politicanti che cercavano una via d’uscita per
l’Ucraina che si inchinava di fronte ai centri di potere stranieri. I
nazionalisti non insegnano ai pusillanimi, ma li devono eliminare dalla
dirigenza dello Stato. Con queste riflessioni il pensatore confermava gli
slogan programmatici dell’Oun, ai quali aveva conferito un significato
globale e universale: «Libertà ai popoli! Libertà alla persona!». Il primo
slogan significa che l’imperialismo è nemico di tutte le nazioni e che
ciascuna di esse può e deve combattere per se stessa. Il secondo significa
ciascuna persona nel suo Stato nazionale ha diritto a tutti gli importanti
diritti comunitari e attraverso di questi può godere dei frutti del proprio
lavoro e delle ricchezze di tutta la nazione. Egli credeva che «l’Ucraina
dovesse diventare l’avanguardia nella lotta per la libertà dei popoli e della
persona».
Jaroslav Stec’ko si considerava un componente di quel movimento che
combatte «per il rafforzamento del potere della nazione e della libertà della
persona», fonte della quale sono «le luminose tradizioni ucraine e i bisogni
del popolo ucraino». In questo modo il nazionalismo ucraino per lui
rappresentava «il compagno di battaglia per l’idea di libertà e giustizia per
l’individuo e per il popolo ucraini».
Le due rivoluzioni di Jaroslav Stec’ko – sociale e nazionale – sono i
nostri compiti odierni. Il superamento delle conseguenze dell’occupazione
moscovita, l’epurazione dell’élite post-sovietica, l’istituzione del pieno
potere degli ucraini sulla propria terra e la costruzione di un giusto ordine
sociale senza oligarchi o sfruttamento economico, divengono la
dimostrazione del rispetto che si deve alla memoria dei combattenti per la
libertà dell’Ucraina.
Jaroslav Stec’ko ha dato tutta la sua vita per non vergognarsi di fronte
agli antenati e ai discendenti nella lotta per la liberazione. Oggi noi
continuiamo la sua Opera. Aspiriamo a completare la sua lotta. La lotta per
uno Stato ucraino indipendente, unito, socialmente e nazionalmente giusto.

Il paradigma di Leopoli
di Andrij SADOVYJ

Andrij Sadovyj (1968) è un ingegnere che dal 1997 ha iniziato


un’intensa attività sociale e politica nella sua città natale, Leopoli, fino a
diventarne sindaco nel 2006. Già membro del partito Naša Ukrajina di
Juščenko, ha fondato nel 2012 una sua formazione Samopomič (Autoaiuto)
ed è tra i pochissimi politici – anche dell’opposizione – che abbia il
sostegno di Jevromajdan. Nel febbraio scorso ha rifiutato l’invito di
Jacenjuk a fargli da vicepremier nel nuovo governo di unità nazionale,
motivandolo con il desiderio di continuare a fare il sindaco. Fermo
sostenitore dell’europeità dell’Ucraina, come emerge anche da questo
discorso tenuto il 25 agosto 2009 per le celebrazioni dell’indipendenza
nazionale, è fautore del superamento delle divisioni storiche del paese.

Da: A. SADOVYJ, «Sull’indipendenza», Ukrajins’ka Pravda, 25/8/2009

Ogni anno, festeggiando il Giorno dell’Indipendenza, oltre alle parole di


celebrazione, siamo obbligati a parlare di quanto sia delicata la nostra
Indipendenza. Ricordo come l’anno scorso voi e io, riunendoci in questa
sala, abbiamo parlato del caso della Georgia. Abbiamo detto che si trattava
di un segnale per l’Ucraina. È passato un anno e, purtroppo, abbiamo visto
più conferme che smentite di questa tesi.
Oggi, forse, non v’è altro paese al mondo che conosca una così forte
pressione destinata a mettere fine alla sua sovranità come l’Ucraina. Siamo
abituati a pensare che la guerra inizi quando per le strade compaiono i carri
armati e i soldati. Ma il mondo contemporaneo ha dato i natali a una nuova
guerra: economica, energetica e dell’informazione. Oggi constatiamo che
contro l’Ucraina è già in corso una guerra aggressiva. È la guerra per
l’influenza sulla nostra economia, sulla nostra politica, per la coscienza dei
cittadini del nostro paese.
C’è l’illusione che il mondo civilizzato non permetterà mai
un’aggressione contro l’Ucraina. Ma guardiamo la verità in faccia. Il
mondo ha assistito all’occupazione di una parte del territorio della Georgia,
proprio come quello stesso mondo civilizzato ha assistito a suo tempo
all’occupazione della Cecoslovacchia da parte di Hitler. Questo stesso
mondo civilizzato, che nel 1994 ha dato all’Ucraina la garanzia della
sicurezza anche economica in cambio della rinuncia alle armi atomiche,
oggi assiste tranquillamente al ricatto energetico del popolo ucraino da parte
di Mosca.
La storia procede per cicli e nel caso dell’Ucraina essa si ripete in
maniera particolarmente tenace. Per secoli i principali nemici del popolo
ucraino sono stati il tradimento e la scissione. Proprio questi, e non i
propositi ostili di qualcuno, sono le ragioni della perdita della statualità da
parte del nostro popolo. Dopo la caduta della Rus’ di Kiev gli ucraini hanno
combattuto su diversi versanti delle barricate in tutte le guerre che hanno
avuto come scenario le nostre terre. I prìncipi fecero a brandelli la Rus’; si
combatterono fra loro anche i cosacchi; il primo Stato ucraino del XX
secolo non ha retto di fronte ai colpi del nemico a causa delle scissioni e
della lotta per il potere; la seconda guerra mondiale è divenuta una guerra
ancor più fratricida per gli ucraini e persino l’assai disciplinata e
indubbiamente patriottica Organizzazione dei nazionalisti ucraini ha
conosciuto un conflitto interno fra i seguaci di Bandera e di Mel’nyk22, che
fece alcune decine di migliaia di vittime fra i membri dell’organizzazione.
Nel XVIII anno dell’indipendenza dobbiamo riconoscere che noi tutti
abbiamo di nuovo permesso al tradimento e alle scissioni di farla da
padrone nel nostro Stato. E proprio questa, e non i piani di Putin o
Medvedev, è oggi la principale minaccia per l’Ucraina.
La forza dell’organismo umano non consiste nell’assenza di irritanti o
minacce esterni, ma nella salute, nella forma fisica e nel solido spirito
morale dello stesso organismo. Gli attacchi esterni, i pericoli e i confronti
corretti non possono che rendere questo organismo più forte ed esperto.
A suo tempo il metropolita Andrij Šeptyc’kyj23 ha detto: «È chiaro
come il sole che la Capanna Natia (proprio così il metropolita chiamava
l’Ucraina) non insorgerà, che non vi sarà un monolito ucraino fino a che gli
indipendentisti ucraini non saranno in grado, superando tutte le differenze
che li dividono, di realizzare fra loro la massima unità. Tale unità è
necessaria all’Ucraina e questa necessità impone a tutti noi dei doveri. E
dalla loro realizzazione dipende l’intero destino della Patria. Se desideriamo
profondamente e sinceramente una Capanna unita, e se questo desiderio non
è fatto soltanto di vane parole e di un’illusione, allora esso deve
concretizzarsi in azioni e queste azioni devono portare all’unità».
Noi viviamo in una città che per molti è il simbolo dei sentimenti
d’indipendenza e pro europei dell’Ucraina. Questo lo capiscono i nostri
amici come i nostri nemici. Il successo di Leopoli è il successo dell’Ucraina
indipendente. Ciò è un segnale per molti ucraini che la nazione ucraina è
capace di ottenere dei risultati. È un segnale per l’Europa del fatto che
l’Ucraina rimane una parte della civiltà europea. Infine è un potente
impulso per la comunità della nostra città, per le future generazioni di
abitanti di Leopoli.
Tempo fa per l’attivo ruolo di Leopoli e della Galizia nella lotta per
l’indipendenza ci siamo meritati lo status di «Piemonte ucraino». Oggi
sempre più spesso c’è la consapevolezza che per mantenere questo
importante status nel paese e la posizione di guida come città generatrice di
nuove idee per l’Ucraina, noi dobbiamo mostrare nuovi risultati, una nuova
ondata di sviluppo, per dare alla nazione un nuovo impulso, col quale
permeare l’Ucraina di spirito ucraino.
Oggi l’Ucraina si aspetta da Leopoli degli esempi in quei settori in cui
la nostra città può dare mostra di sé.
• la collaborazione efficace con le istituzioni internazionali che ci
aiutano a ottenere gradualmente degli standard europei in diverse sfere della
vita: il governo della città, la fornitura di servizi agli abitanti, la gestione dei
costi e i progetti di costruzione di infrastrutture, lo sviluppo di nuovi
promettenti settori dell’economia della città. Mentre il resto dell’Ucraina
decide da che parte andare (in Europa o in Asia), noi non dobbiamo
aspettare ma mostrare con fatti concreti cosa siano gli standard europei;
• la costituzione di relazioni di parternariato fra le istituzioni e gli
ambienti professionali che permettono, non a parole ma con i fatti, di
sviluppare le regole della società civile. I giornalisti mi chiedono spesso:
«Come mai non avete un oligarca che decide tutto come nelle altre città
dell’Ucraina?». La mia risposta è semplice: «Leopoli non è mai appartenuta
e non apparterrà mai agli oligarchi. Questa è una città che ha ricevuto
libertà e autogoverno con i diritti di Magdeburgo24. Essa rimarrà tale quale
la vorranno vedere i suoi abitanti. Qualsiasi tentativo di usurpare il potere
da parte di questi o di quei gruppi oligarchici è destinato al fallimento»;
• a Leopoli oggi spetta di nuovo il compito di conservare i simboli
nazionali, la storia e l’identità. Si tratta innanzitutto di resistere alla guerra
d’informazione totale che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina. Una
guerra dopo la quale, secondo il Cremlino, gli ucraini dovrebbero rinunciare
alla propria lingua, alla storia, alla fede, agli eroi nazionali e infine al
proprio Stato. Non sarà una resistenza semplice. Perché come nemico
abbiamo una macchina dell’informazione potente, con risorse miliardarie.
Una macchina che polverizza i cervelli e distorce la realtà, che trasforma le
persone in stupidi zombie che credono non ai propri occhi ma agli schemi
menzogneri pensati dai tecnici della politica del Cremlino.
Dobbiamo anche essere pronti all’ennesima guerra del gas. Essa verrà
utilizzata in primo luogo contro le società delle città ucraine. L’anno scorso
grazie alla disciplina interna e a una posizione unita siamo riusciti a
mantenere la situazione sotto controllo e a non permettere diminuzioni del
riscaldamento, come invece è successo in molte altre città dell’Ucraina.
La nostra Indipendenza ha dei nemici. Questi nemici sono ben noti. Essi
costituiscono una grande preoccupazione. Ma i galiziani sono abituati a
combattere con tali mostri. Nella prima guerra mondiale l’Esercito ucraino
della Galizia, piccolo nei numeri ma forte nello spirito, ha saputo opporsi
tanto ai bolscevichi quanto ai polacchi armati dall’Intesa. Nella seconda
guerra mondiale l’Upa ha dato un esempio senza precedenti di una lotta allo
stesso tempo contro la Russia staliniana e contro la Germania di Hitler. Sì,
allora i nostri bisnonni e nonni hanno perso. Ma hanno tenuto alto l’onore
della nazione.
Il nostro compito è correggere i loro errori e vincere oggi!
Bisogna trovare la forza e il coraggio di essere uniti, di non dividersi in
contese locali e di vincere assieme! Bisogna convincere la nostra gioventù
che essa è necessaria al paese come una forza fisica e morale, priva di
cattive abitudini e dipendenze, ma con una buona educazione e la Fede in
Dio. Perché solo in queste condizioni un giovane potrà ottenere le sue
piccole e grandi vittorie e collaborare alla nostra vittoria comune!
Ognuno di noi può fare molto. Ognuno al proprio posto può collaborare
alla causa comune. È solo necessario amare la propria terra, il proprio
popolo, e affrontare responsabilmente le proprie responsabilità.
Ogni generazione ha una propria missione e lascia la propria orma nella
storia. La nostra missione è rafforzare l’indipendenza della nostra nazione
ora e per sempre. E noi abbiamo la forza di farlo!
Gloria alla nazione, gloria all’Ucraina!

1
Una delle migliori introduzioni all’importanza della memoria storica per la costruzione statuale
ucraina è quella di A. WILSON, The Ukrainians. Unexpected Nation, New Haven 2000, Yale
University Press.
2
La migliore ricostruzione storica dei primi decenni d’indipendenza dell’Ucraina è quella di H.
KAS’JANOV, Ukraïna 1991-2007. Narysy novitnoï istoriï, Kiev 2008, Naš čas. La migliore
discussione delle polemiche scientifiche, sociali e politiche sui personaggi della storia ucraina è
quella di D.R. Mrples, Heroes and Villains: Creating National History in Contemporary Ukraine,
Budapest-New York 2007, Ceu Press.
3
In Ucraina le maggiori religioni sono tre: la Chiesa uniate di rito ortodosso ma cattolica (con circa il
15% dei credenti), la Chiesa ortodossa che riconosce il patriarca di Kiev (circa il 39%) e infine quella
ortodossa sottoposta a Mosca (circa il 30%).
4
Uno dei migliori contributi per la storia della rivoluzione arancione e della campagna politica che la
precedette è A. WILSON, Ukraine’s Orange Revolution, New Haven 2005, Yale University Press.
5
Il russo risulta maggioritario anche in gran parte delle città occidentali dell’Ucraina, ma qui
l’appartenenza linguistica non ha avuto un riflesso sul voto pressoché plebiscitario a favore degli
arancioni.
6
Sul Holodomor il lettore italiano può vedere l’eccellente volume a cura di G. DE ROSA, F.
LOMASTRO, La morte della terra. La «grande carestia» in Ucraina nel 1932-33, Roma 2004,
Viella.
7
Nel sistema ucraino è possibile votare contro entrambi i candidati al ballottaggio.
8
Dati dell’Istituto internazionale di sociologia di Kiev e della Fondazione di iniziative democratiche
Ilko Kučeriv (dicembre 2013).
9
Due sondaggi con risultati molto simili sono stati condotti fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo
dall’Istituto internazionale di sociologia di Kiev e dal privato Centro di ricerche sociali e politiche
(Socis).
10
Ovvero la Rus’ di Kiev (n.d.r.).
11
Si fa qui riferimento al cosiddetto patto di non-aggressione Molotov-Ribbentrop siglato il 23
agosto 1939. In base ai relativi protocolli segreti l’Urss e la Germania si spartirono l’Europa orientale
(n.d.r.).
12
Si intende qui la regione della Galizia in Europa orientale, oggi divisa fra Ucraina e Polonia
(n.d.r.).
13
Firmato il 30 settembre 1938 anche grazie al diretto intervento di Mussolini, questo accordo
assegnò alla Germania le terre abitate dai tedeschi dei Sudeti in Cecoslovacchia, decretandone lo
smembramento in più unità territoriali (n.d.r.).
14
Frutto della mediazione fra il capo dei cosacchi ucraini Bohdan Khmel’nyc’kyj e il rappresentante
dello zar Alessio I, il trattato è uno dei documenti più contestati della storia ucraina: per alcuni esso
fu soltanto un’alleanza in funzione antipolacca, per altri prevedeva invece la sottomissione
dell’Ucraina alla Russia (n.d.r.).
15
Questa carica fu così rinominata da Stalin nel 1922 quando divenne segretario del partito
bolscevico (n.d.r.).
16
Quando fu condannato per attività terroristica, nel 1934, le regioni occidentali dell’Ucraina erano
parte dello Stato polacco. Significativamente, Tjahnybok definisce il tribunale polacco
«d’occupazione» per sottolinearne l’illegittimità ai suoi occhi (n.d.r.).
17
A seguito dell’invasione tedesca della Polonia, i nazionalisti ucraini tentarono di prendere il potere
a Cracovia nel 1940, ma furono poi indotti a cedere il governo della regione ai nazisti (n.d.r.).
18
I nazionalisti ucraini avevano invaso l’Urss al seguito dei tedeschi con la convinzione che questi
avrebbero loro permesso di fondare uno Stato ucraino indipendente. A causa della proclamazione
d’indipendenza i nazisti dichiararono l’Oun illegale e rinchiusero nel campo di Sachsenhausen molti
suoi dirigenti, Stec’ko compreso. Egli fu liberato dalla Gestapo nel 1944 nel tentativo disperato di
utilizzarlo contro l’avanzata dell’Armata Rossa (n.d.r.).
19
Il Blocco antibolscevico delle nazioni era un’organizzazione di fuoriusciti dall’Europa orientale
dopo la vittoria sovietica nel 1945. Era organizzata per gruppi nazionali e aveva sede a Monaco di
Baviera; l’Oun-rivoluzionaria era una fazione dell’Oun, nata durante il conflitto e poi resasi
indipendente, che riuniva i membri più estremisti, spesso anche razzisti e antisemiti (n.d.r.).
20
Mykola Mikhnovs’kyi (1873-1924) fu un politico e uno dei primi ideologi del nazionalismo
ucraino, famoso per il suo manifesto L’Ucraina indipendente del 1900. Dopo aver lottato per
l’indipendenza durante la guerra civile, morì in condizioni misteriose a Kiev, forse a seguito di un
suicidio (n.d.r.).
21
Così si chiamava la formazione statale nazionale ucraina che a fasi alterne dal 1917 al 1920
governò su alcune regioni dell’Ucraina (n.d.r.).
22
Andrij Mel’nyk fu il rivale di Stepan Bandera nell’Oun per tutti gli anni Trenta e Quaranta e
rappresentò una linea più vicina al fascismo italiano rispetto a quella filonazista del suo rivale
(n.d.r.).
23
Šeptyc’kyj fu metropolita della Chiesa uniate ucraina di Leopoli dal 1900 fino alla sua morte nel
1944. Guida spirituale del nazionalismo nell’Ucraina occidentale, è noto per aver salvato la vita di
molti ebrei durante l’occupazione nazista, nascondendoli in chiese e monasteri (n.d.r.).
24
I diritti di Magdeburgo sono una raccolta delle leggi comunali di questa città che ne regolavano
l’autonomia rispetto al Sacro romano impero e che vennero utilizzati nel XIII e XIV secolo per
regolare i rapporti con molte altre città. Furono riconosciuti a Leopoli nel 1356 dal re di Polonia
Casimiro III. Nel 2008 Sadovyj ha proposto provocatoriamente di restaurare a Leopoli i diritti di
Magdeburgo.
I GUARDIANI DI PIAZZA
INDIPENDENZA
Chi sono gli ultranazionalisti di Majdan. Pravyi Sektor di Dmytro
Jaroš esprime le posizioni più radicali. Samooborona (Autodifesa),
capeggiata da Andrij Porubij, riunisce ex militari e giovani
nazionalrivoluzionari.
di Renata CARUSO

M
1. « ajdan» in lingua ucraina non significa altro che «piazza», ma in
ucraino esiste anche un altro termine – «plošča» – che ha lo stesso
significato. Tuttavia il termine «Majdan» deriva dal persiano meydan, poi
passato all’arabo come maydān, e indica un parco pubblico urbano o uno
spazio aperto. La parola in origine aveva un significato più esatto, non
indicava una semplice piazza ma si riferiva a quelle aree in cui avevano
luogo le pubbliche discussioni, il centro della vita sociale e politica, dove
venivano lette le dichiarazioni ufficiali e dove potevano avere luogo le
esecuzioni, gli spettacoli e i giochi1. In altre parole, il significato originale
del termine perfettamente si associa a quello di cui oggi siamo spettatori a
piazza Indipendenza (Majdan Nezaležnosti) a Kiev.
Nella piazza si muovono molti attori: povera gente spinta dalla
disperazione per le misere condizioni di vita, giovani che credono e sperano
di poter cambiare il mondo, uomini e donne desiderosi di vedere per sé e i
propri figli un futuro migliore, sacerdoti che cercano di portare aiuto ai più
bisognosi, politicanti che cercano di cavalcare l’onda della protesta. Ma nel
vortice di queste voci in cerca di speranza si aggirano anche molti
«demoni» di dostoevskjana memoria. Essi sono i nuovi ideologi, posseduti
da una concezione della vita onnicomprensiva e onniesplicativa della realtà,
uomini che si credono in possesso della Verità, ma di una verità che in
ognuno di essi si concretizza in una forma aberrante, distruttiva,
catastrofica. Spesso, a causa di questi «professionisti» delle agitazioni,
proteste più che lecite di natura politica e sociale si tramutano in pretesti per
scatenare odi ideologici le cui conseguenze nel lungo periodo sono
imprevedibili, ma che nel breve periodo portano all’inasprirsi dei contrasti,
con il rischio di provocare l’implosione delle istituzioni.

2. Pravyj Sektor (Settore di destra) riunisce attivisti di diverse


organizzazioni della destra radicale che hanno preso parte alle azioni di
protesta a Kiev. Esso diventa noto partecipando il 1° dicembre 2013 agli
scontri con i reparti speciali del ministero dell’Interno che difendevano il
palazzo del presidente. Questo gruppo ha partecipato anche all’occupazione
di edifici amministrativi a Kiev e nei centri regionali dell’Ucraina. Il leader
di Pravyj Sektor è Dmytro Jaroš, a capo anche di Tryzub, una delle
organizzazioni riunite sotto l’ombrello di Pravyj Sektor.
Come hanno evidenziato alcuni analisti del Centro di ricerche politiche
di Kiev, sin dai primi giorni delle proteste la piazza si è divisa in due grandi
gruppi: coloro che ritengono che il «nuovo» Majdan debba rispecchiare il
pacifico Majdan del 2004; Pravyj Sektor e Samooborona Majdanu, per i
quali Majdan è solo un pretesto per l’inizio di una «rivoluzione nazionale».
Sebbene i leader dell’opposizione (perfino Tjahnybok, leader del partito
socialnazionale Svoboda) abbiano cercato di distanziarsi dai radicali che
all’inizio definivano provocatori, non hanno tuttavia potuto rifiutare i loro
servigi. Proprio Pravyj Sektor è stato la spina dorsale di Majdan, ne ha
organizzato la difesa (sia verso l’esterno sia come garante dell’ordine).
Senza la sua partecipazione sarebbe stato impensabile organizzare azioni al
di fuori della piazza2. I capi di Pravyj Sektor si sono tenuti a lungo
nell’ombra e non hanno partecipato alla politica pubblica, probabilmente
perché almeno in uno stadio iniziale quel gruppo era un’unione piuttosto
artificiale di forze incompatibili, tra le quali sistematicamente sorgevano dei
conflitti. Il radicalismo dei loro punti di vista li ha uniti a Majdan3.
Solo alla fine di gennaio i capi di Pravyj Sektor hanno iniziato ad
avanzare le loro richieste, posizionandosi come una forza politico-sociale
indipendente. Gli obiettivi del gruppo consistono in una rivoluzione politica
in senso nazionalista, nella riforma degli organi di giustizia, degli organi di
sicurezza e delle forze speciali. I rappresentanti di Pravyj Sektor hanno poi
chiesto di partecipare in qualità di terza parte ai negoziati tra il governo e
l’opposizione; è interessante che dopo la vittoria di Jevromajdan Dmytro
Jaroš sia stato nominato vicesegretario del Consiglio di sicurezza nazionale.
Il 20 febbraio Jaroš ha avuto un incontro con il presidente Viktor
Janukovyč e ha rifiutato di accoglierne la proposta di compromesso. Il 21
febbraio, durante l’annuncio pubblico da parte dei leader dell’opposizione
parlamentare delle condizioni sottoscritte con Janukovyč e con i ministri
degli Esteri di Germania, Polonia e Francia – ossia dell’accordo sulla
risoluzione della crisi politica in Ucraina – i rappresentanti di Pravyj Sektor
hanno dichiarato di non condividere la gradualità delle riforme politiche
concordate nel documento. Hanno anzi chiesto le dimissioni immediate di
Janukovyč, altrimenti sarebbero stati costretti ad attaccare e occupare la
sede dell’amministrazione del presidente e la Verkhovna Rada
(parlamento). Dmytro Jaroš ha dichiarato che nell’accordo mancavano
precise condizioni riguardo alle dimissioni del presidente, alla dissoluzione
della Verkhovna Rada, alle pene da infliggere ai capi delle agenzie di
sicurezza e agli esecutori «degli ordini criminali, il cui risultato è stato
l’uccisione di circa un centinaio di cittadini ucraini». Egli ha definito
l’accordo «la solita polvere negli occhi» e si è rifiutato di accettarlo.
Il 22 febbraio, subito dopo la fuga di Janukovyč, Jaroš ha chiesto di
vietare l’attività del Partito delle regioni e dei partiti comunisti in Ucraina4.
Il 26 febbraio 2012 a Majdan sono state presentate le candidature per il
governo in formazione; a Jaroš è stata offerta la carica di vicesegretario del
Consiglio di sicurezza nazionale. Il 27 febbraio la Verkhovna Rada a
maggioranza degli aventi diritto al voto (331 deputati) ha confermato la
composizione del nuovo Consiglio dei ministri. In questo contesto, la guida
delle strutture della forza è stata affidata al comandante di Jevromajdan e
capo di Samooborona Majdanu, Andrij Porubij (in qualità di segretario del
Consiglio di sicurezza nazionale) e a Jaroš (nominato vicesegretario dello
stesso Consiglio).

3. Ma quali sono le linee di pensiero di Jaroš e di Pravyj Sektor? Chi


rappresenta, cosa vorrebbe diventare? Proviamo a tracciare una risposta che
ci aiuti a capire questa componente di Majdan.
Secondo Simon Shuster, l’ideologia di Pravyj Sektor confina con
l’ultranazionalismo più estremista5. Aderendo alle idee del nazionalismo
ucraino, il programma dell’organizzazione Tryzub, il cui leader è lo stesso
Jaroš, che quindi parla a nome di Pravyj Sektor, afferma di respingere le
idee dell’umanesimo, del socialismo, della democrazia liberale,
dell’ateismo, del cosmopolitismo, della globalizzazione, in quanto esse
formano nell’essere umano una coscienza servile e lo trasformano in una
parte del «branco cosmopolita» che sta diventando un «campo di
concentramento globale». L’alternativa è la rinascita nazionale dell’Ucraina
come Stato del popolo ucraino creato da Dio6. L’idea di Tryzub è lo Stato
indipendente conciliare ucraino (Ussd), fondato sull’«Ordine nazionale». I
leader di Pravyj Sektor criticano l’opposizione parlamentare ucraina di
stampo nazionalista, in particolare il partito Svoboda, per il suo
conformismo e liberalismo7.
Jaroš ha affermato in un’intervista che Pravyj Sektor non è un partito
politico, ma un movimento nazionale rivoluzionario. E per questo non entra
nella lotta politica. L’organizzazione si propone di rovesciare il potere, ma
non ha alcuna agenda politica concreta. Lo stesso Jaroš ha sottolineato la
necessità di una rinascita sia economica (liquidazione dei monopoli ed
elevamento della classe media) sia spirituale8.
Per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, Jaroš ha affermato che
Pravyj Sektor ha sostenuto e sostiene una forma di associazione con
l’Unione Europea. Tuttavia, secondo lui bisogna stare molto attenti a un
eventuale partenariato con l’Ue perché il «mostro burocratico» di Bruxelles
fa di tutto per livellare le identità nazionali e le famiglie tradizionali, oltre a
proporre una politica anticristiana. Jaroš sostiene che l’Ucraina debba
essere un soggetto e non un oggetto della geopolitica. Per questo bisogna
costruire uno Stato forte. Pravyj Sektor vorrebbe utilizzare l’Unione
Europea come mezzo per allontanare il pericolo rappresentato dalla Russia,
considerata come vero e proprio «Leviatano» nella visione apocalittica
dell’ideo-guerrigliero Jaroš.
Gli attivisti di Pravyj Sektor hanno fatto rivivere a Majdan gli slogan
tradizionali dei nazionalisti ucraini in voga negli anni Trenta. Tra i più
popolari, gridati nelle piazze non solo dell’Ucraina ma di tutto il mondo,
sono: «Gloria all’Ucraina! Gloria agli eroi!», «Gloria alla nazione! Morte ai
nemici!», «Ucraina prima di tutto!».

4. Il termine «Samooborona» vuol dire «Autodifesa». Si tratta di una


formazione di «volontari» che si occupano di mantenere l’ordine pubblico e
difendono i luoghi in cui si svolgono le azioni di Jevromajdan. Gli attivisti
si sono organizzati in unità di autodifesa per garantire la sicurezza dei
manifestanti. Hanno un loro centro di coordinamento, il quartier generale di
resistenza nazionale.
Attraverso i social network, l’11 febbraio 2014 Samooborona Majdanu
ha comunicato le sue linee di azione sottoscritte da Andrij Porubij, capo
della struttura, con il decreto n. 1 «Sui princìpi fondamentali
dell’organizzazione Samooborona Majdanu». Eccole: «Primo: salvare la
sovranità e l’unità dell’Ucraina. Secondo: difendere la scelta europea
dell’Ucraina. Terzo: proteggere i diritti e la libertà delle persone. Quarto:
opporsi al regime criminale corrente fino al suo allontanamento».
Samooborona Majdanu, basata sull’autorganizzazione e sulla solidarietà
popolare, specifica inoltre nel suo manifesto di voler ripulire il potere dagli
elementi criminali e antiucraini e di voler mantenere l’ordine pubblico nei
territori liberati. Segue la descrizione della struttura dell’organizzazione,
guidata da un centro di coordinamento e divisa in centurie9.
Samooborona Majdanu non rappresenta una novità né per la sua
struttura né tantomeno per il suo inquadramento organizzativo. È un calco
dell’organizzazione e dei sistemi d’azione dei cosacchi. Anche i cosacchi
usavano dividere i soldati in centurie (sotnia), le quali a loro volta erano
divise in decurie, esattamente come descritto nel manifesto di Samooborona
Majdanu redatto da Porubij. D’altronde, il tentativo di costituire uno Stato
cosacco, l’etmanato, non fu forse l’embrione di uno Stato nazionale,
l’espressione della consapevolezza di essere qualcosa di differente dagli
ingombranti vicini polacchi e grande-russi? L’immagine del cosacco è
l’emblema stesso dell’orgoglio ucraino e della sua sete di libertà: tutto
quello che vorrebbe essere il movimento Samooborona Majdanu per gli
ucraini di oggi.
In seguito al rovesciamento di Janukovyč, Samooborona Majdanu ha
preso sotto il suo controllo la Rada ucraina, la sede dell’amministrazione
del presidente e il ministero dell’Interno. Essa è composta da veterani dei
servizi speciali e da ex militari reduci dalla guerra di Afghanistan (costoro
in generale hanno il compito di istruttori), ma anche da studenti e in
generale da giovani delle diverse regioni dell’Ucraina. Essi seguono gli
ordini del «comandante di Majdan» Andrij Porubij, deputato al parlamento
per la coalizione panucraina Bat’kivščyna (Patria). Porubij è dal 27 febbraio
segretario del Consiglio di sicurezza nazionale e di difesa dell’Ucraina.
Echeggiano profetiche le parole di Dmytro Doncov, ideologo del
nazionalismo integrale degli anni Venti del secolo scorso. Considerando
l’indipendenza dell’Ucraina come lo scopo principale dell’intera nazione,
egli respingeva ogni forma di federalismo e di autonomismo ucraino sia nel
contesto polacco sia in quello russo. Come sosteneva Doncov, «riguardo le
questioni nazionali non siamo andati oltre a quei limiti che riguardavano il
bisogno dell’autodifesa»10: proprio la mancanza di un istinto statale
orientato verso la volontà di potenza aveva provocato l’assenza di ogni idea
nazionale sul suolo ucraino. Il popolo ucraino, per affermare la vittoria della
sua idea di nazione e di Stato, non avrebbe dovuto rifiutare l’uso della
forza, perché avrebbe trionfato solo attraverso la violenza.

1
«In epoca ottomana era attraverso le feste e le processioni che il potere diveniva tangibile per il
popolo. Accanto a intronizzazioni e funerali, simbolo della legittimità della dinastia, gli ottomani
organizzavano anche altre cerimonie per trasmetterne visivamente il messaggio imperiale. Tra queste
vi erano innanzitutto quelle legate al concetto di rinnovamento della famiglia imperiale, cioè le
circoncisioni dei principi e i matrimoni delle principesse, vi erano poi le cerimonie che riguardavano
i rapporti internazionali, per ratificare un accordo di pace o per ricevere un ambasciatore o un
principe, le processioni organizzate per la partenza dell’esercito per la guerra, spesso usate anche per
censire la popolazione della capitale, e infine le festività legate al calendario religioso. Le feste a
carattere decisamente pubblico erano utilizzate soprattutto come valvola di sfogo per possibili
tensioni sociali, e contenevano quindi elementi carnascialeschi: processioni con personaggi di miti o
leggende, (…) banchetti pubblici, spettacoli di acrobati, danzatori, musicisti, poeti, animali, giochi di
guerra e tanti fuochi d’artificio, così amati dalla popolazione. Tali feste servivano anche per
ridicolizzare i nemici e renderli quindi inoffensivi agli occhi del popolo. (…) Allo stesso tempo
animali di razze diverse e danzatori e artisti provenienti da vari paesi, come attori della Commedia
dell’arte, o ballerini ebrei, stavano a indicare il dominio che il sultano aveva su tutto il mondo. Infine
si solevano organizzare in alcuni di questi momenti anche discussioni di dotti, spesso alla presenza
del sultano. Tutto il mondo ottomano era dunque rappresentato sul palcoscenico della festa pubblica.
A Istanbul il luogo deputato era l’ippodromo (At Meydan)». Vedi M.P. PEDANI, Breve storia
dell’impero ottomano, Roma 2006, Aracne, p. 86.
2
Cfr. l’articolo del 21/2/2014 «Pravyj Sektor nedovolen soglašeniem s Janukovičem»,
euromaidan.rbc.ua/rus/pravyy-sektor-nazval-soglashenie-s-yanukovichem-ocherednym-
21022014160600 [8/3/2014].
3
Cfr. l’articolo del 3/2/2014 del Centro di ricerche politiche e di conflittologia di Kiev «Pravyj
Sektor (Ps) i Spil’na Sprava», www.analitik.org.ua/current-comment/int/52ef63a65473b/ [8/3/2012].
4
Cfr. gazeta.ua/ru/articles/politics/_lider-pravogo-sektora-trebuet-zapretit-regionalov-i-
kommunistov/543549 [8/3/2014].
5
Cfr. S. Shuster «Exclusive: Leader of Far-Right Ukrainian Militant Group Talks Revolution with
TIME», articolo del 4/2/2014, time.com/4493/ukraine-dmitri-yarosh-kiev [8/3/2014].
6
Programma ideologico dell’organizzazione Tryzub: banderivets.ho.ua/index.php?
page=pages/zmist4/zmist402 [8.03.2014]
7
Articolo del 20/1/2014,
www.bbc.co.uk/ukrainian/ukraine_in_russian/2014/01/140120_ru_s_right_sector.shtml [8.03.2014]
8
Articolo del 10/2/2014, glavred.info/politika/lider-pravogo-sektoru-dmitro-yarosh-mi-prosto-
prirecheni-peremogti-270621.html [8/3/2014]
9
Il manifesto di Samooborona Majdanu è reperibile nella pagina di Facebook
www.facebook.com/samooboronaMaydanu/posts/267245400101004 [9/3/2014].
10
A. WILSON, The Ukrainians: Unexpected Nation, New Haven-London 2000, Yale University
Press, pp. 129-130.
CRONACA DI UNA RIVOLUZIONE
IMPROBABILE
Dai primi assembramenti del 21 novembre 2013 al sanguinoso
epilogo del 20 febbraio, il racconto dei giorni che hanno sconvolto
l’Ucraina. I luoghi e i volti della piazza. La logistica dei rivoltosi.
Le tattiche del regime sconfitto. Majdan cova ancora sotto le
ceneri.
di Sergio CANTONE

K
1. iev. Majdan Nezaležnosti, in ucraino piazza dell’Indipendenza, per
tutti da sempre più semplicemente Majdan. Ora Majdan è sinonimo di
insurrezione. Lo spazio in cui si decide il destino dei circa 45 milioni di
abitanti del più esteso paese est-europeo è incredibilmente ridotto. Ci si
muove nel cuore e nelle arterie di Kiev: Majdan, viale Khreščatyk, via
Instytuts’ka, via Hruševs’kyj, Jevropejs’ka Plošča-piazza Europa.
Il 21 novembre 2013 l’Ucraina si sfila dalla firma dell’accordo di
associazione con l’Ue e quasi inconsapevole entra nella fase più turbolenta
dei suoi 23 anni d’indipendenza. Gli studenti delle università di Kiev
scendono in piazza la sera stessa con manifestazioni spontanee tra bandiere
europee, ucraine e americane. Sbocciano le prime coccarde giallo-celesti su
cappotti e piumini, indossati da ragazze e ragazzi dai volti dipinti coi colori
delle bandiere ucraina ed europea. Alla vigilia del vertice di Vilnius,
qualche migliaio di giovani gremisce la zona pedonale di Majdan.
La piazza è uno spazio ellittico nel pieno centro di Kiev, fa parte del
complesso architettonico in stile neoclassico staliniano di Khreščatyk, la via
principale della capitale, che a un certo punto del suo percorso da sud-ovest
(dal mercato di Besarabka) verso nord-est (fino alla Jevropejs’ka Plošča)
taglia in due Majdan. Cerchiamo di immaginare questo grande spazio (già
teatro nel 2004 della rivoluzione arancione), alla vigilia del vertice di
Vilnius, pieno di studenti che saltellando gridano in ucraino Khto ne skače
toj – moskal’ («chi non salta è un russo»): moskal’ in ucraino non è
l’accezione più gentile per definire i russi.
Ma il 28 novembre Janukovyč conferma: nessun accordo formale con
l’Ue. Quella sera nella metà orientale dell’area pedonale della piazza si
riuniscono soprattutto musicisti e cantanti. I manifestanti improvvisano una
specie di palcoscenico sotto la colonna sormontata dalla statua
dell’arcangelo Michele, chiamata dai locali Batman per la sua forma. La più
attiva è Ruslana Lyžyčko, carismatica cantante di Leopoli, vincitrice del
concorso canoro Eurovision 2004, anno della rivoluzione arancione. Ci
sono cartelli contro Putin, o con scritte in inglese del tipo «l’Ucraina è
Europa, non è Eurasia». Spuntano le prime giovani volontarie, con le mani
infilate in guanti di lattice preparano tartine di salo, una specie di lardo,
salsicce e cetrioli sottaceto, tutto gratis.
La rivendicazione principale della protesta è l’adozione da parte
dell’Ucraina degli standard europei di governance e di lotta alla corruzione.
Il malessere delle classi medie è diventato insostenibile. L’impossibilità di
fare impresa senza dover fare i conti con gli appetiti della «famiglia» è
ormai intollerabile. Per la piazza la risposta è: Stato di diritto e leggi contro
la corruzione, come in Europa. Alla fine dei comizi rimangono a presidiare
una parte ridotta dell’area pedonale un centinaio tra studenti e artisti
bohémien. I leader dell’opposizione hanno inviato il messaggio la sera
stessa, un’ultima grande manifestazione la domenica successiva e poi tutti a
casa, fino alla campagna elettorale delle presidenziali 2015.
Ma verso le quattro del mattino di sabato 30 novembre calano sui
manifestanti i berkut (letteralmente «aquile reali»), le unità speciali
antiterrorismo del ministero dell’Interno costituite sul modello dei russi
Omon. Gruppi di sicurezza addestrati e mai riformati, con una concezione
sovietica dell’ordine pubblico e dello Stato di diritto. I berkut menano a più
non posso con manganelli e calci, spaccano la testa a un videoperatore della
Reuters e rincasano soddisfatti portandosi appresso un discreto numero di
fermati.
Sabato la città è sotto shock, sono ventiquatt’ore cruciali per quanto
accadrà nei tre mesi successivi. Domenica 1° dicembre 300 mila persone
scendono in piazza e si dirigono verso via Bankova, la sede della
presidenza. Alcuni di loro, soprattutto i militanti di Svoboda, vogliono
sfondare a ogni costo, tanto che avanzano verso il cordone delle forze di
sicurezza con un bulldozer. I berkut reagiscono in modo scoordinato, ma
alla fine prevalgono al prezzo di picchiare chiunque: ben quaranta
giornalisti subiscono percosse. La via Instytuts’ka è quasi zona di guerra.
Alla fine i manifestanti desistono dal proposito di prendere il palazzo
presidenziale, ma occupano tutta Majdan, bloccano il traffico di Khreščatyk
ed erigono barricate sui quattro assi principali: la via Instyuts’ka, i due sensi
di Khreščatyk e la parte bassa della via Mykhajlivs’ka, proprio all’ingresso
di Khreščatyk, di lato al palazzo dei sindacati e davanti all’hotel Kozac’kyj.
Ricevono un appoggio incondizionato da una buona parte della città.

2. In quei primi giorni di gelo a Majdan si montano tende militari,


cucine da campo e botti di ferro piene di legna che brucia. Attorno alle
lingue di fuoco si formano crocchi di individui vestiti da cosacchi – con i
colbacchi in pelo d’agnello – e di reduci dell’Afghanistan in mimetica, con i
pakol a cingergli il capo. L’odore di legna bruciata si insinua in tutti gli
angoli del centro città. I volontari passano le notti lì. Molti lasciano l’ufficio
alle sei di sera e vanno a montare la guardia sulle barricate. I più vengono
da Kiev e dalle città dell’Ovest, come Leopoli, ma anche dal Sud e dall’Est.
Secondo un sondaggio condotto da Open Democracy, il 44% del popolo di
Majdan proviene dall’Ucraina orientale e meridionale, il 15,6% parla
esclusivamente russo e il 24% è bilingue russo/ucraino. Condividono tutti lo
stesso obiettivo: abbattere il regime di Viktor Janukovyč.
La logistica è impressionante, degna del miglior esercito. Gli edifici
occupati, come il municipio di Kiev e il palazzo dei sindacati, diventano
ostelli per i volontari e centri direzionali destinati a coordinare la
distribuzione di cibo, coperte, stufe, medicinali. C’è addirittura un centro di
assistenza psicologica. Si può mangiare e bere a sbafo. Camion, furgoni e
auto private creano una catena ininterrotta di approvvigionamento. I
finanziamenti, dicono, vengono «da privati cittadini». Effettivamente buona
parte della Kiev bene, i cui interessi non sono legati alla «famiglia»,
contribuisce direttamente alla causa. Si vedono auto di lusso fare la spola a
Majdan. Alcuni bar del centro distribuiscono gratis tè e caffè.
Kiev è ormai l’ombelico dell’Europa orientale. Responsabili della
politica Usa e Ue visitano Majdan acclamati dalla folla. L’alto
rappresentante per la Politica estera europea Catherine Ashton, Victoria
Nuland del Dipartimento di Stato Usa, eurodeputati, parlamentari da
Washington come John McCain e molte altre personalità fanno capolino
sulle barricate. «È una strategia», ci spiega una diplomatica del Servizio di
azione esterno dell’Ue basata a Kiev: «più [occidentali] siamo a Majdan,
meno probabile è un colpo di mano contro la folla».
Ciononostante, il governo attacca la notte dell’11 dicembre, quando
sono contemporaneamente in città Victoria Nuland e Catherine Ashton. Il
grande schermo installato sulla torre del palazzo dei sindacati indica l’ora (1
a.m.) e la temperatura (-19°). I berkut arrivano allo scoccar dell’ora: non è
una notte di violenze, ma di forza fisica, una sorta di immenso braccio di
ferro. I corpi speciali tentano di farsi strada spingendo la folla, che fitta
oppone una controspinta. Non ci sono bastonate né manganellate, non viene
fatto uso di lacrimogeni. I berkut rimuovono le barricate di Instytuts’ka e di
Khreščatyk e arrivano fino al centro della piazza, mentre dal palco Ruslana
anima gli attivisti con passione, cantando l’inno nazionale ucraino.
È come se fossero calati cercando la provocazione per poter rispondere
a dovere. Samooborona, l’autodifesa di Majdan, allontana a forza alcuni
giovani con l’aria da picchiatori che cercano lo scontro. Un membro del
servizio d’ordine estrae la pistola e la punta alla gola di un ragazzo. C’è la
convinzione che si tratti di provocatori al servizio di Janukovyč. È la prima
volta che notiamo un’arma da fuoco a Majdan. La prova di forza dura tutta
la notte. Poi la milizia si ritira.

3. La situazione si stabilizza nei giorni successivi, la pausa natalizia è


alle porte. Dopo il Natale ortodosso, il 7 gennaio, Majdan entra in una fase
calante. Molti sono sul punto di gettare la spugna e ormai sembra che in
piazza ci siano solo senza tetto alla ricerca di un pasto gratis e un locale
caldo dove dormire, oltre a qualche ultranazionalista fanatico. Ci sono
parecchie bandiere rossonere dell’Upa, l’esercito insurrezionale ucraino che
lottò contro l’Urss di Stalin alleandosi anche coi nazisti. Un po’ ovunque si
vedono effigi di Stepan Bandera, il controverso leader dell’Upa.
Nella seconda settimana di gennaio il governo decide di dare il colpo
finale a Majdan. Vengono approvate leggi restrittive in parlamento, per
alzata di mano e senza alcuna conta dei voti. La nuova legislazione
criminalizza chiunque partecipi alle attività di protesta, bandisce ogni
critica giornalistica ai politici filogovernativi e alla magistratura e rende
passibile di arresto chiunque indossi un casco nelle zone attorno a Majdan.
Inoltre obbliga tutte le ong straniere a registrarsi come «agenti esteri»,
esattamente come in Russia. È il secondo scivolone di Janukovyč, proprio
nel momento in cui Majdan si va spegnendo.
Domenica 19 gennaio è la seconda data cruciale. Malgrado il freddo, il
cielo è terso e i partecipanti optano per lo sberleffo. Mi vieti il casco? E io
metto la pentola. Centinaia di persone si presentano a Majdan con le teste
infilate nelle casseruole. I tre leader dell’opposizione fanno il solito comizio
domenicale e propongono a una folla in cerca di idee una specie di governo
ombra di Majdan. Vengono fischiati impietosamente. Il gruppo Automajdan
(una frazione volante del movimento che organizzava cortei automobilistici
per protestare sotto le abitazioni dei leader governativi) prende l’iniziativa.
«Tutti al parlamento!». Vogliono prendere la Rada, lasciano Majdan e si
dirigono verso piazza Europa passando per Khreščatyk, seguiti dalla folla.
Il corteo si ferma davanti alle barricate delle forze di sicurezza
all’altezza dello stadio Valerij Lobanovs’kyj della Dynamo. La milizia ha
messo di traverso nel viale due camion militari Zil e un piccolo autobus.
Mezz’ora o poco più dei soliti slogan – Zeka het’!, Bandu het’! (fuori i
criminali! fuori la gang!) – i berkut schierati dietro agli autoveicoli. La folla
spinge i bus messi di traverso per ribaltarli. All’improvviso Vitalij Klyčko
tenta di farsi strada a spintoni per fermare i manifestanti. Lo fischiano, lo
insultano e gli spruzzano un estintore in faccia. L’opposizione ufficiale
trotta, la folla galoppa. Ed è subito escalation.
Volano le prime molotov che centrano in pieno gruppi di berkut
schierati a tartaruga. Partono i lacrimogeni, mentre prendono fuoco gli
autoveicoli. C’è una temperatura polare, è la battaglia del ghiaccio e del
fuoco. I manifestanti sono ben organizzati, preparano le molotov nelle
retrovie e le trasportano velocemente verso le prime linee. Avanzano a
tartaruga, lanciano le molotov a gruppetti. La milizia spara proiettili di
gomma, granate stordenti e bombe lacrimogene. Per guastare la mira delle
truppe del ministero dell’Interno i sollevati bruciano centinaia di copertoni.
Tutto si svolge 24 ore su 24. Lingue di fuoco illuminano la notte, una coltre
di fumo nero oscura il giorno.
Arrivano a centinaia da Majdan in tenuta da combattimento con vecchi
elmetti dell’esercito, mimetiche, scudi di latta o di legno con una croce
dipinta e un rosario legato al polso. Avanzano verso la prima linea in fila
indiana tenendosi una mano sulla spalla gli uni agli altri, quando incrociano
il plotone a cui devono dare il cambio si scambiano il motto: «Slava
Ukrajini!», e gli altri rispondono: «Herojam slava!» (Gloria all’Ucraina,
gloria agli eroi). Dietro, altri rompono il selciato di via Hruševs’kyj e di
piazza Europa con piedi di porco per ricavare cubi di porfido da lanciare. È
una catena di montaggio, lo fanno scientificamente: rompono, estraggono e
altri trasportano le pietre verso la linea di combattimento. Ragazze giovani
distribuiscono il cibo e il tè caldo ai combattenti. Studenti di medicina
danno una mano a curare i feriti. Le prime molotov sono state scagliate dai
militanti di Pravyj Sektor. È un movimento complesso, una sorta di
confederazione di gruppuscoli autonomi, come Tryzub (il Tryzub è il
simbolo nazionale al centro della bandiera ucraina) Una/Unso (Assemblea
nazionale ucraina e Autodifesa popolare ucraina), Martello bianco e gli
ultras della Dynamo di Kiev. Sono tutti nazionalisti e almeno un paio di
estrema destra, con tendenze russofobe su base individuale. Ma c’è di tutto:
un portavoce di Pravyj Sektor ci dice di essere di origine russa e di parlare
solo russo.
Secondo calcoli approssimativi i militanti di questa galassia non
sarebbero più di duemila. Ma vengono seguiti da migliaia di giovani,
soprattutto studenti e professionisti. Molti sono ingegneri informatici,
parlano bene l’inglese e hanno facce da computer geeks. In via Hruševs’kyj
i gruppi radicali si trasformano de facto nel braccio armato del movimento e
agiscono in simbiosi con i gruppi di autodifesa. Si creano le sotni (centurie
cosacche in lingua ucraina): comandate dai sotnyk (i centurioni cosacchi), si
addestrano a Majdan in uno spiazzo all’angolo tra la via Instytuts’ka e la
piazza principale.

4. La mattina di giovedì 23 gennaio ci sono i primi due morti per colpi


d’arma da fuoco, seguiti da accuse reciproche tra governo e manifestanti (la
verità non è ancora stata stabilita). Ce n’è abbastanza per esasperare gli
animi. Per evitare il peggio, venerdì pomeriggio inizia una tregua negoziata
da Janukovyč e Klyčko: ambo le parti mantengono le posizioni di
combattimento, ma non accade nulla. Via Hruševs’kyj è coperta da una
lastra di ghiaccio nero. È come camminare su un grande vetro fumé. Fino al
cessate-il-fuoco la milizia ha fatto uso di idranti, la cui acqua è caduta sulla
cenere degli pneumatici bruciati creando una fanghiglia nera che poi si è
ghiacciata.
I giorni successivi si negozia tra l’opposizione e Janukovyč, che il 27
gennaio abroga le leggi per l’ordine pubblico. Il giorno dopo accetta le
dimissioni del primo ministro Azarov, quindi offre la carica di capo del
governo a Jacenjuk, che la respinge. L’opposizione vuole le dimissioni del
capo dello Stato ed elezioni anticipate. Inizia un braccio di ferro politico-
istituzionale. È difficile avviare un negoziato per la formazione di un
governo di coalizione e il varo di una riforma costituzionale che restituisca
al governo e al parlamento le prerogative in mano al presidente. La fiducia
reciproca è zero, si entra in una fase di stallo.
Majdan comincia a temere un attacco finale, anche perché si ode un
tintinnar di sciabole. La mattina di martedì 18 febbraio si svolge una grande
manifestazione. È una giornata di sole e non fa particolarmente freddo, c’è
una grande tensione. Questa volta i manifestanti dei due campi contrapposti
sono schierati gli uni contro gli altri lungo tutto il parco Marijins’kyj, a
poche centinaia di metri dalla Rada dove si discute la formazione del
governo. Ma la politica istituzionale quella mattina viene liquidata in un
baleno.
Sono circa le dieci quando i manifestanti cominciano a lanciare pietre e
molotov contro le forze di sicurezza a presidio delle traverse di via
Instytuts’ka che portano al parlamento.
Focolai di scontri urbani si accendono un po’ in tutto il centro di Kiev.
Questa volta entrano in scena anche i titušky, volontari che sostengono il
Partito delle regioni: armati di bastoni e con gli elmetti in testa possono
essere facilmente scambiati per manifestanti. Come segno di
riconoscimento portano una fettuccia di cellofan bianca e rossa legata al
braccio. Attaccano chiunque, soprattutto i giornalisti non russi.
Al tramonto i sostenitori di Janukovyč sembrano aver preso il controllo
della città. Siamo accanto alla Rada, di fronte al Circolo ufficiali, dove
volontari hanno organizzato un pronto soccorso per curare i numerosi feriti.
Si parla anche di qualche morto ammazzato con armi da fuoco. Un corteo
mesto marcia lungo la via Hruševs’kyj, verso il parlamento dove staziona il
grosso delle truppe del ministero dell’Interno. Sono dei prigionieri.
Avanzano con le mani sulla nuca, a un certo punto un berkut li percuote
sulla testa per farli abbassare. Altri manifestanti aizzati dalla scena
attaccano la scorta. Ne nasce un tafferuglio. Un paio di prigionieri riescono
a fuggire.
La via Instytuts’ka è un campo di battaglia: vetture bruciate, pietre
dappertutto, edifici completamente anneriti dalla fuliggine. Drappelli di
corpi speciali marciano soddisfatti picchiando il manganello sullo scudo in
segno di vittoria. Attraversiamo quella che fu la barricata esterna di Majdan.
Ci sono segni di scontri recenti. A una decina di metri, all’altezza della
stazione metro Khrešchatyk, poco prima dell’hotel Ukraijna, due donne
piangono e gridano ai miliziani «venite a vedere cosa avete fatto!». Proprio
accanto ci sono due cadaveri coperti da vecchi pastrani da metà busto in su,
non si vede sangue.
L’obiettivo è ormai chiaro: farla finita con Majdan. Janukovyč si gioca
il tutto per tutto. È anche il momento di Pravyj Sektor, che ha mantenuto un
profilo basso per tutta la giornata. La difesa di Majdan è il suo vero campo
di battaglia. L’attacco comincia verso le sei di sera, all’imbrunire. I berkut
travolgono le linee difensive dei manifestanti lungo tutta la via Instytuts’ka.
Riconquistano la via Hruševs’kyj e piazza Europa, avanzano verso la
grande barricata poco prima di Majdan. Hanno un autoblindo. Il mezzo
militare si avvicina alla barricata, ma un lancio preciso, coordinato e
concentrico di molotov lo manda in fiamme in pochi secondi, come se si
fosse acceso un grande cerino.
Pravyj Sektor comincia a fare uso di armi da fuoco e l’avanzata si
ferma. I berkut riescono a conquistare un buon terzo della piazza. La notte
ha un aspetto infernale, migliaia di copertoni bruciano su Majdan. Le forze
di sicurezza tentano di passare protette da due grossi camion muniti di
idranti. Ma sono costrette a indietreggiare dalle molotov, dai fasci di raggi
laser puntati sugli occhi e dalle armi da fuoco. Ci sono i primi morti.
Gruppetti di berkut tornano indietro risalendo la via Instytuts’ka, sono
depressi e sembrano demotivati. Alcuni sono feriti, a uno viene praticato un
massaggio cardiaco ma spira. Per l’ennesima volta il fronte si blocca. I
corpi speciali tentano una sortita e danno fuoco al palazzo dei sindacati
dove, si dice, Pravyj Sektor ha ammassato le armi.
Il giorno dopo viene negoziata una sorta di fragilissima tregua: strano
ma vero, si continua a parlare di riforme istituzionali.

5. La mattina di giovedì 20 febbraio è l’epilogo. Agenti della milizia,


non berkut, avanzano verso le barricate a Majdan. Vengono impallinati da
franchi tiratori, molti perdono la vita. Qualche manifestante ha fucili di
precisione, è immortalato dalle immagini televisive. All’improvviso gli
insorti decidono di contrattaccare, i miliziani in assetto antisommossa
fuggono lungo la via Instytuts’ka. I manifestanti riconquistano in pochi
minuti il terreno perduto martedì sera. Avanzano spediti a tartaruga, con i
soliti scudi di legno e di latta, i bastoni e gli elmetti. Ma tra l’hotel Ukrajina
e il palazzo d’Ottobre vengono accolti dal fuoco dei cecchini. Un insorto
cade sul selciato, un compagno si stacca supino dalla tartaruga e cerca di
afferrarlo per una mano. Ma viene anch’egli colpito all’improvviso e cade
morto sull’asfalto.
I cecchini portano le uniformi maculate azzurro-grigie dei berkut,
almeno quelli che si vedono piazzati nel prato accanto al palazzo d’Ottobre.
Altri sono sui tetti, forse dell’hotel Ukrajina o addirittura degli edifici di
Majdan. Non v’è certezza e dovrà essere stabilito da un’inchiesta. Come
non è certo se a uccidere miliziani e manifestanti sia stata la stessa mano.
La hall dell’hotel Ukrajina viene immediatamente convertita in un ospedale
da campo, con sale operatorie, chirurghi e infermieri. La situazione è
concitata, insorti, medici e giornalisti da tutto il mondo affollano la
reception (è l’hotel scelto dalla stampa internazionale), arrivano i primi
cadaveri che vengono avvolti pietosamente in lenzuola bianche e sistemati
in una zona separata da tende candide. Per lunghe ore l’albergo è isolato
perché circola la voce che ci siano ancora franchi tiratori nei dintorni. Olha
Bohomolec’, un medico piuttosto noto in Ucraina, dirige l’ospedale
improvvisato. È una volontaria. Spiega che «tutte le salme presentano la
stessa ferita letale. Un colpo secco al cuore con una pallottola in grado di
trapassare anche i giubbotti antiproiettile. Questo riguarda le vittime sia tra i
manifestanti, sia tra i miliziani». È, secondo la dottoressa, la firma dei
cecchini. A fine giornata si contano un centinaio di morti.
A Majdan si rinforzano le barricate con un occhio costantemente rivolto
ai tetti. Non si sa mai. Ragazze, ragazzi, pensionati fanno catene umane per
passarsi i mattoni destinati alle muraglie. Le notizie del massacro, invece di
demoralizzare i militanti, sembrano motivarli ulteriormente. Arrivano
autobus dall’Ovest del paese pieni di volontari che sfidano i controlli della
polizia stradale. C’è fretta di consolidare le posizioni appena riconquistate.
A nemmeno 500 metri in linea d’aria si tenta un negoziato. I ministri degli
Esteri di Francia, Germania e Polonia sono alle prese con una staffetta
estenuante tra Janukovyč e l’opposizione. C’è una sorta di cessate-il-fuoco
non dichiarato. Ma di notte lungo le barricate la psicosi dei cecchini
provoca molta tensione tra gli insorti. Basta accendere una sigaretta per
scatenare la rabbia dei commilitoni.
Un primo risultato arriva il giorno successivo: il governo accetta di
ritirare tutte le forze di sicurezza dal centro di Kiev, i berkut devono tornare
nelle loro caserme. Alla Rada si discute ancora del governo di coalizione.
All’improvviso, verso mezzogiorno, tutti i nuclei antisommossa
abbandonano il piazzale davanti al parlamento, seguiti dai sostenitori di
Janukovyč e dai titušky. Questi ultimi avevano seminato il panico in città
nei giorni precedenti attaccando indiscriminatamente automobilisti inermi
all’incrocio tra le vie Volodymyrs’ka e Velyka Žytomyrs’ka, dove passa la
linea di approvvigionamento di Majdan. Si parla di un accordo raggiunto tra
Janukovyč e l’opposizione con la garanzia franco-germano-polacca.
Non ci sono più forze di sicurezza, gradualmente sostituite dai gruppi di
autodifesa di Majdan. Le uniche truppe rimaste sono quelle di guardia al
palazzo presidenziale, perché Janukovyč è ancora in carica. Ma in barba
agli accordi, alla comunità internazionale e allo stesso Janukovyč, il loro
generale negozia con un deputato di Bat’kivščyna (Patria), Jurij Lucenko,
una ritirata immediata in buon ordine. Proprio mentre i tre ministri Laurent
Fabius, Frank-Walter Steinmeier e Radosław Sikorski lasciano la
presidenza con l’accordo in tasca che avrebbe permesso a Janukovyč di
restare fino a dicembre, le forze di sicurezza presidenziali abbandonano
spontaneamente il campo per «tornare dalle nostre famiglie».
Inevitabile che la sera stessa, quando Klyčko presenta l’accordo dal
palco di Majdan, la folla lo respinga. Verso le 23 le agenzie battono la
notizia del presidente in fuga.
Adesso Majdan continua, è in uno stato di abbandono, ma esercita
ancora un certo potere di attrazione su chi vuole incidere sulle scelte
politiche del paese e tenere d’occhio un governo provvisorio poco amato. Il
premier ad interim Jacenjuk ha fatto concessioni a Majdan nella
composizione dell’esecutivo e sono proprio i ministri espressione della
piazza a far rizzare i capelli in testa a Vladimir Putin.
Pravyj Sektor occupa ancora alcuni edifici nel centro di Kiev. Si è
costituito in partito politico, ma i suoi militanti hanno armi da fuoco. Il loro
coordinatore, Oleksandr Muzyčko, alias Saško Bilyj (Saško il Bianco) è
morto la notte del 24 marzo ucciso da una rivoltellata subito dopo un
inseguimento della polizia a Rivne, nell’Ovest del paese. Saško era nella
lista nera dei servizi di sicurezza di Mosca per «crimini commessi in
Cecenia contro soldati russi». Pochi giorni prima aveva detto che «Pravyj
Sektor resta armato per assicurare che l’esecutivo lavori onestamente e non
diventi corrotto».
Majdan si va trasformando in un grattacapo per il governo provvisorio,
stretto tra la necessità di normalizzazione e le pressioni internazionali.
Anche perché Kiev, secondo alcune agenzie di sicurezza, è a rischio
infiltrazioni criminali. E le fasi turbolente possono dare vita a sodalizi ad
alto rischio, diventando una fucina di pretesti per un intervento russo.
LA PARTITA DEGLI ULTRAS
I gruppi del tifo ucraino hanno svolto un ruolo di primo piano a
Majdan e dintorni. Contro Janukovyč si sono schierati anzitutto i
supporter della Dynamo Kiev, spina dorsale di Pravyj Sektor. Gli
slogan razzisti. Il fallimento del piano geocalcistico di Gazprom.
di Andrea LUCHETTA

1. J aroslav Rakic’kyj, difensore dello Šakhtar Donec’k e della


nazionale ucraina, su Twitter ama l’ironia al curaro: «Truppe russe in
Crimea per proteggere i nostri diritti? E dove diavolo eravate, ragazzi,
quando ci hanno annullato un gol all’Europeo?». Urticante il rilancio di
Jevhen Konopljanka, fantasista del Dnipro Dnipropetrovs’k: «Spero che
nessun giocatore russo senza insegne cerchi di rubarmi il posto da titolare
questa notte»1. Tutto rigorosamente in russo, lingua prediletta nello
spogliatoio della nazionale ucraina. Altri compagni, sempre russofoni,
hanno partecipato alle manifestazioni o espresso pubblicamente il loro
sostegno; Vladyslav Kalytvyncev, centrocampista della Dynamo Kiev nato
a Mosca, ha rimediato perfino una frattura alla mascella in un agguato
tesogli sotto casa2. Per una volta non sarà possibile accusare i giocatori di
essere dei viziati astratti dalla realtà quotidiana.
«Uno sguardo nel mondo del calcio mette a nudo il conflitto
generazionale all’interno della società ucraina»3. I primi alfieri di questo
conflitto sono gli ultras: dai Carpazi al Donbas, decine di tifoserie hanno
aderito alle proteste anti-Janukovyč e lottato contro le mire putiniane,
smentendo così la narrazione di un paese irrimediabilmente diviso fra Est
filorusso e Ovest nazionalista. Organizzati, risoluti, rotti alla guerriglia
urbana, i tifosi ucraini sono scesi in massa nelle piazze, a prescindere dalla
lingua madre, e in molti casi hanno deciso l’esito degli scontri. Tre le
motivazioni fondamentali: l’antiautoritarismo affinato in anni di battaglie
con le forze di sicurezza; il rifiuto della cleptocrazia al potere; la sensibilità
al tema dell’indipendenza ucraina, più sviluppata presso le fasce di
popolazione cresciute dopo il crollo dell’Urss.
Tutto comincia il 21 gennaio, alla vigilia dell’entrata in vigore delle
leggi speciali. La curva della Dynamo Kiev, la squadra più nobile e amata
d’Ucraina, annuncia di voler costituire dei gruppi di autodifesa: «Invitiamo
gli uomini abili a difendere gli attivisti dalle bande ingaggiate dal governo.
(…) Armatevi con scudi e bastoni, indossate il giubbotto antiproiettile e
proteggete il resto del corpo. In ogni automobile dovrebbero esserci delle
medicine»4. A stretto giro di posta, gli ultras di Dnipropetrovs’k annunciano
il loro arrivo a Kiev per sostenere i contestatori accampati in piazza
dell’Indipendenza. Da quel momento è un diluvio di adesioni, culminato in
una tregua sottoscritta da 33 delle principali tifoserie del paese: «Crediamo
esista un solo principio a cui attenerci – e cioè che siamo ucraini. (…)
Continuare a combattere sarebbe un crimine contro il futuro radioso
dell’Ucraina. Siamo compagni e fratelli, da Luhans’k ai Carpazi»5.
L’adesione alle proteste è un riflesso spontaneo per un mondo abituato a
vivere «contro», antiautoritario fino al midollo e avvezzo ai manganelli dei
berkut, le squadre antisommossa della polizia. Un richiamo viscerale,
irresistibile per l’identità di questi gruppi, più ancora della lingua madre o
delle simpatie politiche. I primi nemici delle tifoserie diventano così i
«titušky»6, lumpenproletari ingaggiati per colpire le manifestazioni,
ribattezzati «prostitušky» nei comunicati delle curve. Fra tifosi e «titušky» –
che pure spesso condividono l’origine sociale – è in primo luogo una
battaglia filosofica: «Mentre gli ultras di solito obbediscono a un codice di
condotta rigoroso – per quanto deprecabile – gli istigatori mandati dal
governo appaiono molto meno inibiti quando si tratta di ricorrere alla
violenza»7. Gli abusi dei «titušky», sempre più scatenati con l’incancrenirsi
del conflitto, sono stati l’elemento decisivo per convincere le curve a
scendere nelle strade.
Identico disprezzo colpisce i gangster al potere: «Faremo di tutto per far
cadere questo regime criminale», scrivevano gli ultras di Sebastopoli8, in
Crimea, in perfetta sintonia con l’umore di un paese tanto diviso quanto
esasperato dalla corruzione e dall’inefficacia delle politiche governative.
Rincaravano i tifosi del Tavrija Simferopol’, sempre in Crimea: «Siamo
stufi di vivere nella merda. Siamo stufi della polizia che stupra e picchia le
donne. Siamo stufi dei funzionari che investono i pedoni guidando ubriachi
e poi la fanno franca. Siamo stufi di pagare mazzette a chiunque. Siamo qui
per un po’ di giustizia. Fratelli e sorelle, unitevi!».
Il terzo fattore da considerare è l’età media dei tifosi. Le fasce della
popolazione cresciute dopo il crollo dell’Urss mostrano un senso di
appartenenza all’Ucraina molto più sviluppato di nonni e genitori. Si spiega
in parte così il favore che incontra presso i più giovani il processo di
integrazione europea9, inteso anche come strumento di difesa
dall’espansionismo russo. In questo senso, l’atteggiamento «antisovietico»10
delle curve rispecchia una frattura generazionale ben definita11. Allo stesso
modo, l’autoreferenzialità e la chiusura del sistema politico hanno spinto
parte dei ragazzi a radicalizzarsi, convincendoli ad adottare delle forme di
lotta perfettamente legittime nel mondo ultras. «I giovani ucraini sono più
attivi nelle organizzazioni non governative dei loro coetanei di altri paesi
post-sovietici. Tuttavia, gli ostacoli all’ingresso nel sistema politico formale
suggeriscono che questa partecipazione potrebbe tradursi in un maggior
coinvolgimento nelle proteste di strada», scriveva Nadia Djuk nel 201312.
Sarebbe difficile far passare i tifosi ucraini come dei campioni di
liberalismo. Gli ultras di Kiev e dintorni sono gli stessi che alla vigilia di
Euro 2012 avevano conquistato titoli e titoli di giornale per le imprese
violente e razziste. Le curve locali aderiscono a posizioni di estrema destra
in modo pressoché unanime. Gli ultras del Tavrija, per esempio, hanno
scelto di partecipare alla lotta nel nome «dell’unità dei popoli bianchi di
Ucraina». E sono sempre tifosi – per lo più russofoni – ad aver costituito la
spina dorsale di Pravyj Sektor, gruppo paramilitare particolarmente attivo
negli scontri di piazza dell’Indipendenza13. I legami politici sono però molto
allentati: «La sola curva ad avere dei rapporti profondi con un partito è
quella del Karpaty L’viv, legata a Svoboda, che a Leopoli controlla
l’amministrazione cittadina»14. L’eccezione in questo panorama
fascisteggiante è costituita dall’Arsenal di Kiev, unica tifoseria schierata a
sinistra fra le squadre della massima serie. I suoi ultras si sono radunati a
Majdan sin dai primi giorni, malgrado i rapporti tesissimi con le altre curve.
«Siamo pro europei, crediamo nella democrazia e nel rispetto dei diritti
umani», spiegava uno dei suoi leader alla Gazzetta dello Sport. «È difficile
partecipare a queste manifestazioni, perché la sicurezza è gestita dai
fascisti»15.

2. L’invasione della Crimea non ha cambiato le carte in tavola. A


riprova della frattura generazionale che attraversa la società ucraina, gli
ultras di Tavrija e Sebastopoli – i due club principali della penisola – si sono
schierati sin dal primo momento con le nuove autorità di Kiev16. I tifosi del
Tavrija hanno perfino tenuto un referendum su VKontakte – l’equivalente
russo di Facebook – per stabilire la linea ufficiale del gruppo. Ha vinto la
posizione filoucraina col 56% dei voti. «Molti dei pareri favorevoli al
Cremlino sono stati espressi da persone che vivono a Mosca. Senza questo
tentativo di manipolazione, credo che i sostenitori di Kiev avrebbero
raggiunto anche l’80%»17. «La Crimea resta ucraina, e noi saremo ucraini
per sempre», ha spiegato all’Ukrajins’ka Pravda un gruppo di ultras di
Simferopoli18. «Abbiamo ottenuto un’opportunità per migliorare questo
paese, per renderlo giusto, ma loro vogliono solo la stabilità». Le milizie
filorusse hanno messo subito i tifosi nel mirino, arrivando a distribuire dei
volantini con le foto dei capi. Dopo i primi giorni di attivismo sulle piazze
della Crimea, le curve sono quasi sparite. «Diventando parte della Russia
cesseremo di esistere, non c’è dubbio. Saremo costretti a scappare, o nel
migliore dei casi ci imprigioneranno uno dopo l’altro»19.
Il campionato ucraino è ripreso proprio durante il weekend del
referendum sulla Crimea, nel tentativo di ricreare una parvenza di
normalità, dopo che la lunga pausa invernale si è prolungata a causa degli
scontri: per uno scherzo del destino il calendario ha subito messo di fronte
Tavrija e Dynamo Kiev. Originariamente prevista a Simferopoli, la partita si
è svolta a Kiev per ragioni di sicurezza (2-1 per la Dynamo). Tavrija e tifosi
non hanno esitato a presentarsi, prendendo così le distanze dal voto nella
penisola20. Una risposta implicita ai progetti di Roman Khudjakov, deputato
della Duma, che a inizio marzo aveva proposto alla Federcalcio moscovita
di includere le squadre della Crimea nei tornei russi.
Il conflitto segna il tramonto dell’ipotesi di un campionato unico russo-
ucraino, allo studio dall’autunno 201221. L’unione calcistica fra Mosca e
Kiev, nei progetti dei suoi sostenitori, avrebbe poi potuto estendersi ad altri
paesi dello spazio post-sovietico, costituendo una sorta di Unione doganale
in chiave pallonara. Ipotesi sostenuta in primo luogo da Gazprom, che ha
fatto del calcio il suo strumento principe di soft power22. La compagnia
energetica ha prospettato la possibilità di investire cinque miliardi di dollari
nella realizzazione del progetto23. Alcuni passi sono già stati intrapresi,
sotto gli auspici di un comitato organizzatore presieduto dal tecnico Valerij
Gazaev: lo scorso gennaio lo Šakhtar Donec’k si è aggiudicato la seconda
Supercoppa Unita, competizione riservata alle prime quattro squadre di
Russia e Ucraina. Un progetto che però ora pare destinato a svanire come il
suo più ambizioso fratello maggiore, anche per non scatenare l’ira delle
tifoserie.

3. Se le curve non hanno avuto modo di incidere sul destino della


Crimea, nell’Est del paese hanno giocato un ruolo centrale. Gli ultras di
Dnipropetrovs’k sono stati i primi a raccogliere l’appello dei tifosi di Kiev,
seguiti prestissimo dai «colleghi» di Donec’k, malgrado la città del Donbas
abbia dato i natali a Janukovyč. «Non ci interessa l’adesione all’Ue e
disprezziamo l’opposizione, ma vogliamo proteggere il nostro popolo. (…)
La cosa più importante è che siamo patrioti dell’Ucraina e di Donec’k!»24.
Concetto ribadito sul campo durante gli scontri di piazza Lenin, in
occasione dei quali i tifosi si sono schierati a difesa dei manifestanti filo-
ucraini. «Gli ultras sono stati meravigliosi, erano come dei carri armati di
fronte a noi», ha raccontato una ragazza al Telegraph25. I tifosi di Šakhtar e
Dynamo – divisi da un’inimicizia molto radicata – hanno suggellato la
nuova alleanza con un’amichevole fra le due tifoserie, giocata a Kiev il 2
marzo. Sugli spalti lo striscione «Libertà per l’Ucraina o morte»,
accompagnato da 90 minuti di canti patriottici26.
«Buona parte delle tifoserie ucraine è legata ai proprietari dei club da un
rapporto clientelare. È come minimo curioso che le prese di posizione delle
curve abbiano anticipato di poche ore gli annunci dei loro “padrini”»27. Non
fa eccezione lo Šachtar, giocattolo di Rinat Achmetov, l’oligarca più ricco
d’Ucraina. Patrimonio stimato da Forbes in 12,5 miliardi di euro, azionista
di maggioranza del Partito delle regioni di Janukovyč, Achmetov non ha
esitato a riposizionarsi appena si è reso conto dell’inevitabile destino
dell’ex presidente ucraino. A inizio marzo, in contemporanea con
l’impegno della tifoseria, Achmetov ha promesso di fare «tutto il possibile
per mantenere l’integrità del paese»28. Non sorprende nemmeno l’attivismo
degli ultras del Metalist Kharkiv, rimasti legati all’ex proprietario
Oleksandr Jaroslavs’kyj: il suo successore Serhij Kurčenko, misterioso
ventottenne vicino al figlio di Janukovyč, è fuggito all’estero e si è visto
congelare i beni dall’Ue29. Il Metalist ora è a rischio fallimento e potrebbe
tornare nelle mani di Jaroslavs’kyj, che ha sempre denunciato di essere
stato costretto a cedere il club dopo aver ricevuto «un’offerta che non si
poteva rifiutare»30.
La campana dei tifosi ucraini si è fatta sentire anche in Bielorussia, dove
«è in crescita la subcultura degli ultras. (…) In un paese in cui buona parte
della vita pubblica si trova sotto il controllo del governo, i tifosi
costituiscono un gruppo con un grande potenziale di protesta»31. Due tifosi
del Bate Borysaŭ sono stati arrestati per aver esposto uno striscione di
sostegno agli oppositori di Kiev. Il governo teme che le curve finiscano per
rovinare lo show di maggio, quando Minsk ospiterà i campionati mondiali
di hockey. «Se si dovessero verificare delle proteste simili in Bielorussia,
gli ultras potrebbero diventare uno dei gruppi più organizzati e radicali del
paese»32. Dalle curve sono già partiti dei segnali durante le proteste del
2011, culminati nel coro «Possa morire» dei tifosi del Bate, riferito a
Lukašenka.

1
Il sito Futbolgrad ricorda un altro tweet sarcastico di Rakyc’kyj: «Twitto raramente perché i seguaci
di Bandera (eroe del nazionalismo ucraino, n.d.r.) continuano a picchiarmi e a rubarmi il telefono.
Sono costretto ad andare in Crimea per ogni tweet», Y. MATUSEVICH, «Crimea Crisis: Ukraine’s
Football Solidarity», Futbolgrad, 13/3/2014.
2
«Vladislav Kalytvyncev o napadenii titušek: “Bespredel polnyj. Ljuboj mog popast’ pod eto”»
(«Vladyslav Kalytvyncev sull’attacco dei tituški: “Il caos è totale. Sarebbe potuto capitare a
chiunque”»), Segodnja, 20/2/2014.
3
Y. MATUSEVICH, op. cit.
4
J. BUJSKIKH, «Ultras of Ukraine Safeguarding the Eurorevolution», Euromaidan PR, 27/1/2014.
5
«Official Statement of All Ukrainian Ultras Concerning the Latest Developments in the Country»,
Euromaidan PR, 13/2/2014. La tregua implica il divieto di qualsiasi «combattimento non
concordato» e di provocazioni come il furto o il rogo di simboli avversari («Truce among the
Ukrainian Ultras», Ultras-Tifo, 13/2/2014).
6
«Devono il loro nome a Vadym Tituško, un fanatico delle arti marziali filmato mentre picchiava una
giornalista e il marito fotografo» («Groups at the Sharp End of Ukraine Unrest», Bbc News,
1/2/2014).
7
D. MCARDLE, M. VETH, «Ukrainian Ultras and the Unorthodox Revolution», Futbolgrad,
11/2/2014.
8
Comunicato degli ultras di Sebastopoli citato in T. TRASCA, «Euromaidan: le rôle citoyen des
ultras ukrainiens et la futilité du football», Footballski, 23/2/2014.
9
Cfr. il sondaggio del Kiev International Institute of Sociology pubblicato il 26/11/2013, in base al
quale il 50,6% degli ucraini di età compresa fra i 18 e i 29 anni si dice pronto a votare in favore
dell’adesione all’Ue, contro il 37,8% di media e il 28,9% della fascia 60-69 anni (www.kiis.com.ua/?
lang=eng&cat=reports&id=204).
10
Cfr. M. RJABČUK, «Ukraine: Across the Dividing Lines», Al Jazeera, 16/12/2013.
11
Cfr. M. VETH, «Crimea Developments: The Lonely Voice of Pro-Ukraine Tavriya Ultras»,
Futbolgrad, 11/3/2014.
12
N. DJUK, «Youth as an Agent for Change: The Next Generation in Ukraine», National
Endowment for Democracy, 2013.
13
«Profile: Ukraine’s Right Sector Movement», Bbc News, 21/1/2014.
14
Intervista di Limes a M. VETH, ricercatore del King’s College di Londra sul calcio nello spazio
post-sovietico.
15
L’Arsenal si è ritirato dal campionato lo scorso autunno per fallimento, ma i tifosi sperano di
mantenerlo in vita (L. GESLIN, «Il dilemma dell’Arsenal di Kiev», La Gazzetta dello Sport,
13/12/2013).
16
Sulla frattura generazionale in Crimea, cfr. P. CONSTABLE, «In Crimean Capital, Duelling
Rallies Offer a Study in Contrasting Narratives, Ambitions», The Washington Post, 10/3/2014.
17
Intervista di Limes a M. VETH.
18
M. DRAGINA, «The Crimean Ultras», Ukrajins’ka Pravda, 10/3/2014.
19
Ibidem.
20
«Kiev Loses out in Referendum, but Beats Crimea in Football Match», Agence France Press,
16/3/2014.
21
In principio lo Zenit San Pietroburgo aveva ventilato l’ipotesi di trasferirsi a Sebastopoli per
protestare contro una squalifica considerata ingiusta («Offended Zenit May Move to Ukraine, Russia
Today, 23/11/2012). Da quel momento sono cominciate le discussioni pubbliche sulla possibilità di
fondere i due campionati.
22
Gazprom possiede lo Zenit San Pietroburgo (Russia), sponsorizza Schalke 04 (Germania) e Stella
Rossa (Serbia) e ha concluso un accordo commerciale col Chelsea (Inghilterra). Nei mesi scorsi è
stata associata a un’infinità di squadre lungo le rotte del gas, dalla Grecia ai Paesi Bassi. Inoltre è
sponsor ufficiale della Champions League, della Supercoppa europea (competizioni Uefa) e della
Fifa in vista dei Mondiali 2018, che si svolgeranno in Russia.
23
M. KAVANAGH, G. CHAZAN, R. OLEARCH, «Support for Russia-Ukraine Football Tie-up»,
Financial Times, 24/3/2013.
24
K. MAYNZYUK, «Football Ultras Unite to Defend Civilian Population», Euromaidan PR,
30/1/2014.
25
D. MCELROY, «Pro-Russian Leader Arrested in Donetsk as Kiev Hits Back», The Telegraph,
6/3/2014.
26
«Ultras Dynamo-Ultras Šachtar», Ultras-Tifo, 2/3/2014.
27
Intervista di Limes a M. Veth.
28
R. OLEARCHYK, «Akhmetov Joins Ukraine Oligarchs in Pledging to Protect Homeland»,
Financial Times, 2/3/2014.
29
C. NEEF, «The New Ukraine: Inside Kiev’s House of Cards», Der Spiegel, 3/3/2014.
30
M. VETH, «Let the Games Begin: The Uncertain Future of the Ukrainian Premier League»,
Futbolgrad, 16/3/2014.
31
V. BYLINA, «Belarusian Ultras and the Regime», Belarus Digest, 29/1/2013.
32
V. BYLINA, «Police Crack Down on Pro-Euromaidan Ultras in Belarus», Belarus Digest,
12/2/2014.
UNITÀ, INDIPENDENZA, DIALOGO:
L’APPELLO DELLE CHIESE UCRAINE
Decise a scongiurare una guerra di religione, le confessioni
nazionali difendono l’integrità dello Stato e rinnovano lo sforzo
ecumenico. Il divario religioso Est-Ovest. La mappa
dell’ortodossia. Il duello a distanza Filaret-Kirill riapre il fronte
con la Russia.
di Simona MERLO

1.L a collocazione nel cuore dell’Europa, in un territorio faglia, ha


condizionato non soltanto lo sviluppo politico e culturale dell’Ucraina, ma
anche quello religioso. Il fattore religioso ha giocato qui – come nel resto
del Medio Oriente europeo, per usare l’espressione di Lewis Namier – un
ruolo primario, senza il quale è impossibile comprendere gran parte di quel
mondo di cui anche l’Ucraina fa parte.
L’appartenenza a un mondo «plurale» che si è infranto ha segnato anche
la storia recente dei paesi dell’area ex sovietica: nuovi confini hanno
tracciato una linea di divisione laddove la frontiera era piuttosto spazio di
incontro, scambio, crocevia di lingue, fedi e culture, transito e migrazioni.
L’appartenenza dell’Ucraina a un mondo plurinazionale, plurilingue e
plurireligioso – ortodosso e greco-cattolico, ma con significative minoranze
– nonché il fatto, ad essa peculiare, di essere un paese di frontiera (tale il
significato del toponimo Ukrajina) è un elemento determinante della sua
identità.
Innanzitutto, per l’Ucraina passa il limes tra cattolicesimo e ortodossia.
Divisa dapprima tra lo Stato polacco-lituano e la Russia moscovita, poi tra
gli imperi asburgico e russo, l’attuale Ucraina è una realtà articolata, con
una parte occidentale di lingua ucraina e confessione greco-cattolica,
tradizionalmente legata all’Occidente; e una parte orientale russofona,
ortodossa e di orientamento filorusso.
La presenza della Chiesa greco-cattolica è conseguenza dell’Unione di
Brest, con cui nel 1596 la metropolia di Kiev e Galizia entrò in comunione
con la Chiesa cattolica, mantenendo il rito bizantino. Si tratta di una Chiesa
martire, che ha molto sofferto negli anni del regime sovietico. La Galizia,
che dopo la dissoluzione dell’impero asburgico era entrata a far parte della
Polonia, nel secondo dopoguerra fu infatti annessa all’Urss staliniana. Ne
conseguirono la soppressione della Chiesa greco-cattolica e la sua
integrazione nella Chiesa ortodossa russa, deliberate nel marzo del 1946 dal
cosiddetto sinodo di Leopoli, un’assemblea voluta da Stalin stesso. Il clero
che non accettò di passare sotto la giurisdizione del patriarcato di Mosca fu
incarcerato, mentre il patrimonio della Chiesa greco-cattolica fu incamerato
dallo Stato, che diede in uso alla Chiesa ortodossa russa centinaia di chiese
e molti edifici ecclesiastici. Tale atto fu una sorta di mina a scoppio
ritardato, che avrebbe causato un contenzioso senza fine all’indomani della
caduta dell’Unione Sovietica, quando la rinata Chiesa greco-cattolica chiese
la restituzione delle proprietà confiscate quarant’anni prima. La disputa
sugli edifici religiosi è tuttora uno dei principali motivi d’attrito tra
ortodossi e cattolici.
La Chiesa greco-cattolica sarebbe uscita dalla clandestinità alla fine
degli anni Ottanta, nel clima della perestrojka voluta da Gorbačëv. Nel 2005
la sua sede è stata trasferita da Leopoli a Kiev, con la conseguente modifica
del titolo primaziale in «arcivescovo maggiore di Kiev e Halyč» (Halyč fu
capitale della Galizia medievale): circostanza che ha ulteriormente acuito lo
scontro tra Chiesa cattolica e patriarcato di Mosca, per il quale Kiev è la
sede storica della metropolia ortodossa. Oggi la Chiesa greco-cattolica
ucraina conta circa 5,5 milioni di fedeli, concentrati essenzialmente nelle
regioni occidentali del paese1.

2. La classica divisione fra Ucraina della riva destra del Dnepr e


Ucraina della riva sinistra non basta però a descrivere questa realtà plurale.
La chiave di lettura proposta da Samuel Huntington nel suo celebre Clash
of Civilizations, che muove dalla presenza di due Ucraine rigidamente
contrapposte, rende solo in parte ragione della complessità della situazione
sul territorio. Scrive Huntington che «l’Ucraina è un paese diviso, patria di
due distinte culture. La linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà
ortodossa attraversa infatti il cuore del paese, e così è stato per secoli. (…)
Storicamente, gli ucraini occidentali hanno sempre parlato ucraino e hanno
sempre esibito un atteggiamento fortemente nazionalista. La popolazione
dell’Ucraina orientale, al contrario, è sempre stata in forte prevalenza di
religione ortodossa e di lingua russa». Riprendendo le teorie di Zbigniew
Brzezinski, il politologo statunitense parla di una «spaccatura esistente tra
gli slavi europeizzati dell’Ucraina occidentale e la visione slavo-russa dello
Stato ucraino. Non si tratta tanto di polarizzazione etnica, quanto piuttosto
di culture diverse». Huntington immagina la possibilità che «l’Ucraina si
spacchi in due distinte entità e che la parte orientale del paese venga
annessa alla Russia», anche se ritiene «più probabile [lo] scenario che
l’Ucraina resti unita, resti un paese diviso, resti indipendente»2.
La descrizione dell’Ucraina come realtà irrimediabilmente bicefala,
faglia tra due civiltà – l’occidentale e l’ortodossa – non tiene conto
dell’esistenza di aree con storia e connotazioni particolari, non assimilabili
alla suddetta contrapposizione. La Transcarpazia, la Bucovina e la Crimea
non rientrano in questo schema. La stessa Galizia, che nel corso del
Novecento ha giocato il ruolo di motore del nazionalismo ucraino, ha alle
spalle una storia multinazionale. Leopoli, la principale città della Galizia e
odierna capitale morale della nazione, era sotto l’impero asburgico un
importante centro del nazionalismo polacco di fede cattolico-latina.
Sulla frontiera ucraina culture, fedi e lingue si sono certamente
contrapposte, ma si sono anche incontrate e contaminate, coesistendo. È il
caso di Kiev, che riassume in sé i caratteri di pluralità. C’è una complessità
della fisionomia di Kiev tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del
Novecento che è indispensabile cogliere per comprendere la complessa
anima della città, connotata anzitutto dalla peculiare composizione
demografica e religiosa. Secondo i dati del censimento del 1917, la
popolazione ucraina di Kiev costituiva il 12% del totale, contro il 49,5%
della componente russa e il 18,7% di quella ebraica3.
La presenza ebraica è stata una costante in quest’area. Kiev si trovava
all’interno della čerta osedlosti, la speciale «zona di residenza» – che
comprendeva, oltre a Ucraina, Polonia, Bielorussia e Stati baltici – in cui gli
ebrei furono relegati al momento dell’annessione di questi territori
all’impero russo4. Lo studioso di storia ebraica Natan Meir ha messo in luce
come, malgrado la cattiva reputazione di Kiev per i brutali pogrom, la città
fosse al centro di un’originale interazione tra gli ebrei e gli altri gruppi
nazionali (ucraini, russi, polacchi), un mutuo scambio non limitato ai
contatti commerciali, ma esteso alle relazioni culturali, associative,
caritative. Tale rapporto non era certamente privo di aspetti problematici,
ma non imponeva agli ebrei di nascondere o cambiare la loro identità5.
L’aspetto della presenza ebraica a Kiev esemplifica il clima di
convivenza in cui la città era inserita. Kiev era una città di frontiera, parte di
un mondo imperiale multireligioso e multilingue, dove si incrociavano e si
soprapponevano identità differenti e spesso contrastanti. Città al plurale, era
però al contempo fortemente connotata in senso religioso, costituendo uno
dei principali centri dell’ortodossia russa: Kiev Zlatoverkhij, la città dalle
cupole d’oro. Era il luogo dove, secondo la tradizione, la Rus’ aveva
ricevuto il suo battesimo e per questo era considerata la madre delle città
russe, ossia la culla del primo Stato degli slavi orientali. In questo aspetto
religioso ortodosso c’è una chiave fondamentale per comprendere l’identità
ancora oggi difficilmente afferrabile di Kiev: capitale ucraina e al tempo
stesso riferimento per una Chiesa ortodossa russa che non si concepisce
come Chiesa nazionale, ma come Chiesa imperiale. E che, dopo la caduta
dell’Unione Sovietica, è rimasta un organismo sovranazionale, i cui fedeli si
trovano da una parte e dall’altra del confine che separa l’Ucraina dalla
Russia.

3. Oltre alla divisione tra cattolicesimo e ortodossia, a complicare il


quadro confessionale concorre la frattura interna al mondo ortodosso
ucraino. A fianco della tradizionale Chiesa ortodossa ucraina, da sempre
legata al patriarcato di Mosca (Upc-Mp), esistono infatti altre due Chiese
ortodosse: la Chiesa ortodossa autocefala ucraina (Uapc) e la Chiesa
ortodossa ucraina del patriarcato di Kiev (Upc-Kp). Si tratta di due Chiese
con storie diverse, ma accomunate dal fatto di non essere ritenute
canoniche, ossia di non essere riconosciute ufficialmente da nessun’altra
Chiesa ortodossa.
La prima sorse nel confuso clima rivoluzionario (che portò l’Ucraina
temporaneamente fuori dall’orbita russa) come movimento ecclesiastico a
carattere nazionale, poi trasformatosi in una vera e propria Chiesa dopo
l’avvento del potere sovietico. È interessante notare come nessuno dei
vescovi a capo delle eparchie ucraine (fra cui alcuni ucraini etnici) avesse
partecipato al primo Concilio della Uapc, che nell’ottobre del 1921 elesse
patriarca uno dei leader del movimento, l’arciprete Vasyl’ Lypkivs’kyj6. La
Uapc divenne riferimento soltanto di una parte esigua della popolazione, ma
attecchì tra i membri dell’élite nazionalista.
Il governo sovietico dapprima riconobbe la nuova Chiesa, in quanto
funzionale all’indebolimento della Chiesa patriarcale con centro a Mosca;
poi, una volta che questa non risultò più utile alla politica religiosa del
Cremlino, procedette alla sua liquidazione: nel gennaio del 1930,
nell’ambito di una campagna contro il nazionalismo ucraino, essa fu
costretta a convocare un concilio e a proclamare il proprio scioglimento. In
un processo organizzato nella primavera di quell’anno, i suoi responsabili
furono condannati a morte e in seguito fucilati insieme a parte
dell’intelligencija ucraina. La Chiesa autocefala sparì fino alla seconda
guerra mondiale, quando fu parzialmente ricostituita nei territori sotto
occupazione tedesca, ma si dissolse nuovamente dopo il conflitto e la
restaurazione del potere sovietico, sopravvivendo solo nella diaspora.
Nel clima di intenso fervore nazionale che contraddistinse l’ultimo
periodo della perestrojka in Ucraina, fu proprio la gerarchia vissuta nelle
Americhe a collaborare alla ricostituzione della Chiesa autocefala ucraina in
patria: Mstyslav (Skrypnyk), nominato primate nell’ottobre del 1989 ed
eletto patriarca di Kiev dal concilio locale della Uapc nel giugno 1990,
aveva guidato fino ad allora la Chiesa ortodossa autocefala ucraina negli
Stati Uniti7. Attualmente la Uapc è una Chiesa divisa in vari orientamenti;
non è più stato eletto un patriarca e non tutti i vescovi riconoscono l’attuale
primate, il «metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina» Mefodij (Kudrjakov).
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta il movimento
nazionalista agitava non soltanto la società ucraina, ma anche il mondo
ecclesiastico. Per tentare di arginare tali fermenti, nel gennaio 1990 il
concilio dei vescovi della Chiesa ortodossa russa adottò una risoluzione con
cui l’esarcato ucraino (cioè le eparchie del patriarcato di Mosca in territorio
ucraino) riceveva una maggiore autonomia, il diritto di istituire un proprio
sinodo e quello di modificare la propria denominazione in Chiesa ortodossa
ucraina8. In pratica, l’esarcato ucraino (come quello bielorusso) diventava
una Chiesa autonoma all’interno e in comunione con il patriarcato di
Mosca. In questo contesto si consumò lo scisma che condusse alla
costituzione di una terza Chiesa, la Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato
di Kiev, per mano del metropolita di Kiev Filaret (Denysenko), a capo
dell’esarcato fin dal 1966.
Alla scomparsa del patriarca di Mosca Pimen (Izvekov), morto il 3
maggio 1990, in attesa dell’elezione di un nuovo patriarca Filaret era stato
eletto locum tenens patriarcale. Tutto portava a pensare che il successivo
patriarca di Mosca sarebbe stato lui: era quasi tradizione che il locum tenens
divenisse patriarca. Filaret era stato a lungo metropolita di Kiev: una
cattedra prestigiosa, che dava diritto a un seggio permanente nel sinodo
della Chiesa russa ed era ritenuta la seconda per onore dopo quella
patriarcale. Inoltre, al concilio dei vescovi della Chiesa russa Filaret risultò
uno dei tre candidati al trono patriarcale.
Tuttavia, le cose andarono diversamente. Non secondario fu il ruolo
giocato dalla pubblicazione di articoli che screditavano il controverso e
potente locum tenens. Il 7 giugno 1990 il concilio locale della Chiesa
ortodossa russa elesse a stragrande maggioranza patriarca di Mosca e di
tutte le Russie Aleksij (Ridiger). Nell’ottobre di quello stesso anno il
concilio dei vescovi della Chiesa ortodossa russa soppresse definitivamente
l’esarcato ucraino; al suo posto nasceva la Chiesa ortodossa ucraina, con a
capo il metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina a cui spettava d’ora in poi
l’appellativo di beatissimo (blažennejšij). Al sinodo ucraino era conferito il
potere di eleggere i vescovi ordinari e vicari, nonché di istituire e abolire
eparchie all’interno del territorio ucraino.

Di fatto la Chiesa ucraina riceveva da Mosca la piena autonomia, salvo


il legame canonico con il patriarcato. Filaret restava a capo della Chiesa
ortodossa ucraina con poteri rafforzati; i suoi sforzi si orientarono tuttavia al
conseguimento della piena autocefalia – cioè della totale indipendenza da
Mosca – e all’elevazione della Chiesa ucraina al rango di patriarcato. Falliti
i tentativi di divenire patriarca per via canonica, Filaret ruppe con Mosca: in
un primo tempo i suoi destini si unirono a quelli della Uapc, quindi fondò la
Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Kiev, divenendone patriarca nel
1995. Nel frattempo, l’Unione Sovietica si era dissolta e dalle sue ceneri era
sorta l’Ucraina indipendente. Molti nel mondo politico ucraino vedevano di
buon occhio la formazione di una Chiesa con forte connotazione nazionale.
Secondo gli ultimi dati riportati dal sito del Servizio di informazione
religiosa di Ucraina (Risu), attualmente la Chiesa ortodossa ucraina del
patriarcato di Mosca, canonica e maggioritaria, conterebbe quasi 12.500
comunità registrate, la maggior parte dislocate nell’Ucraina centrale e sud-
orientale. Alla Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Kiev farebbero
capo oltre 4.500 comunità, circa un terzo delle quali nelle regioni centrali e
circa il 10% nelle zone sud-orientali, mentre la Chiesa ortodossa autocefala
ucraina ne avrebbe poco più di 1.200, situate per l’80% circa nell’Ucraina
occidentale9.

4. Nel corso della crisi attuale tutte le Chiese senza eccezione si sono
schierate per la pacificazione e la riconciliazione. Di fronte agli scontri di
piazza, ripetuti appelli alla calma sono risuonati dalle diverse Chiese e da
singole personalità religiose. Centrale è stato il ruolo giocato dal Consiglio
ucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose, l’organismo che dal
1996 riunisce i rappresentanti di tutte le confessioni religiose del paese: le
tre Chiese ortodosse, la Chiesa greco-cattolica e quella di rito latino, le
minoranze cristiane (luterani, battisti, pentecostali, avventisti, armeni),
l’Unione delle comunità ebraiche e dei musulmani d’Ucraina,
particolarmente numerosi tra i discendenti dei tatari in Crimea. Attraverso
questo organismo le Chiese e le organizzazioni religiose hanno intrapreso
iniziative congiunte per richiamare le forze politiche e sociali alla concordia
e alla pace. Già a fine novembre 2013 il Consiglio fece appello ai
manifestanti e al governo affinché fosse evitato l’uso della violenza10. Ma è
soprattutto nei giorni successivi che esso ha alzato la voce per scongiurare
gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine, come nell’appello del 10
dicembre: «Esortiamo la società ucraina, il governo e l’opposizione al
dialogo e alla comune ricerca di un’accettabile via d’uscita dalla crisi.
Ricordiamo che siamo parte di un unico popolo, di un unico paese. Non si
può permettere che la contrapposizione politica diventi motivo di violazione
dell’integrità del nostro Stato». Il Consiglio si diceva «pronto (…) a
favorire l’avvio del dialogo e a fare tutto il necessario per la riconciliazione
e il ripristino della stabilità»11.
L’appello alla concordia civile e alla pacificazione sarà presente in tutti i
documenti ufficiali del Consiglio nelle concitate settimane seguenti.
Soprattutto, saranno sempre più insistenti i richiami all’integrità territoriale
del paese, man mano che le regioni sembrano sfuggire al controllo di Kiev,
con l’occupazione dei palazzi governativi. Così il 22 gennaio – giornata
dell’Unità nazionale che commemora l’effimera unione tra le Repubbliche
ucraine orientale e occidentale, proclamata il 22 gennaio 1919 e subito
spazzata via dall’ingresso dei bolscevichi a Kiev – il Consiglio sottolineava
come tale celebrazione «non soltanto ricorda l’inviolabile unità di tutte le
terre ucraine in uno Stato libero e indipendente», ma «simbolizza l’unità
degli ucraini nella molteplicità di visioni, punti di vista e concezioni sulla
costruzione del futuro. (…) Esortiamo a custodire l’integrità territoriale
dell’Ucraina e a respingere con decisione qualsiasi idea di separatismo o di
divisione della nostra patria, perché siamo un unico popolo!»12.
Lo stesso giorno, mentre si registravano i primi morti, il Consiglio
pubblicava un comunicato con la richiesta di incontrare il presidente
Janukovyč e i leader dell’opposizione. Incontri effettivamente avvenuti nei
giorni seguenti: il 24 con Janukovyč e il 25 con Klyčko, Jacenjuk e
Tjahnybok, nel tentativo del Consiglio di «agire come mediatore e
pacificatore», secondo le parole del primate greco-cattolico Svjatoslav
(Ševčuk)13. Il 22 febbraio il Consiglio tornava con una dichiarazione
ufficiale a condannare ogni forma di separatismo – che condurrebbe a
«un’escalation del conflitto, trasferendolo nelle regioni» – e di «inimicizia
tra gli abitanti delle diverse regioni dell’Ucraina, rappresentanti di diverse
minoranze nazionali e religiose»14. Il riferimento era ad alcuni episodi di
antisemitismo verificatisi nei giorni precedenti.
La preoccupazione per l’integrità territoriale dello Stato ucraino è al
centro del messaggio diretto dal sinodo della Upc–Mp alle autorità civili:
«Abbiamo ripetutamente rimarcato che stiamo operando per la
preservazione dell’integrità dello Stato ucraino. Esortiamo gli organismi del
potere statale a non permettere la disgregazione del paese». Il sinodo ha
inoltre posto l’accento sull’eterogeneità della popolazione ucraina e ha
affermato con forza come le differenze, a partire da quelle confessionali,
non possano in alcun modo giustificare le divisioni: «Dobbiamo fare tutti
gli sforzi per il mantenimento della pace religiosa in Ucraina. In nessun
caso si possono permettere contrapposizioni su base religiosa. La nostra
grande famiglia ucraina deve essere una nella molteplicità»15. In tale
direzione si è mosso anche il primate greco-cattolico nel corso della
conferenza stampa svoltasi in Vaticano il 25 febbraio, evocando «gli slogan
separatistici [che] risuonano in alcune regioni dell’Ucraina e che attentano
all’integrità territoriale. (…) Siamo diversi, ma non divisi. Sono i politici a
tentare di dividere gli ucraini per i loro fini politici. Majdan ha dimostrato
che gli ucraini sono un popolo unito nell’aspirazione a vivere in un paese
pacifico»16.

5. Nel pieno della crisi si è anche registrata l’iniziativa di Filaret


(Denysenko), capo della Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Kiev,
che ha colto l’occasione per rilanciare il progetto di riunificazione delle
Chiese ortodosse d’Ucraina: uno dei cavalli di battaglia del suo patriarcato,
che aspira a conquistare l’egemonia sull’ortodossia ucraina. Il 22 febbraio il
sinodo della Upc-Kp ha inviato un messaggio alle altre due Chiese
ortodosse con la proposta di «superare la divisione della Chiesa ortodossa in
Ucraina (…) e di creare un’unica Chiesa ortodossa ucraina locale». Il
messaggio si rivolgeva in particolare a clero ed episcopato, avanzando la
convinzione che «il patriarca ecumenico e la maggioranza delle altre Chiese
ortodosse locali (…) riconosceranno l’autocefalia di un’unica Chiesa
ortodossa ucraina»17. Il riferimento al patriarcato ecumenico rileva
l’intenzione di scalzare il patriarcato di Mosca, da cui la Chiesa ortodossa
ucraina (l’unica canonica) ancora dipende.
La reazione del patriarca di Mosca Kirill è stata di condanna delle
ingerenze politiche nelle vicende della Chiesa («Il potere non deve
interferire nelle questioni ecclesiastiche; non è possibile risolvere con la
forza i problemi della Chiesa») e di riaffermazione del principio per cui la
divisione della Chiesa può essere superata soltanto nel rispetto dei
fondamenti canonici18. Tali concetti sono stati ripresi in forma ufficiale dal
sinodo della Upc–Mp riunitosi a Kiev in febbraio, per il quale «il
superamento degli scismi della Chiesa in Ucraina deve avvenire
esclusivamente sul fondamento del diritto canonico ortodosso»19. In altre
parole, l’eventuale unificazione delle Chiese ortodosse dell’Ucraina non
potrà avvenire se non in accordo e comunione con il patriarcato di Mosca.
Filaret ha scelto di rivolgersi solo ad alcuni vescovi – in particolare quelli di
Leopoli e di Ivano-Frankivs’k – e alle parrocchie dell’eparchia di Ternopil’,
al fine di evitare il confronto diretto con il metropolita di Kiev Mefodij
(Kudrjakov), con cui non corrono buoni rapporti. Il suddetto accusa
quest’ultimo di appoggiare l’unificazione a parole, ma di contrastarla nei
fatti.
Occorre rilevare la tempistica della proposta di Filaret, che ha coinciso
non soltanto con la peggiore crisi dello Stato ucraino contemporaneo, ma
anche con l’acuirsi della malattia dell’anziano metropolita di Kiev e di tutta
l’Ucraina, Volodymyr (Sabodan), a capo della Chiesa ortodossa ucraina del
patriarcato di Mosca dalla rimozione di Filaret nel 1992. Negli ultimi tempi
le condizioni di Volodymyr sono peggiorate, al punto da spingere il sinodo
della Chiesa ortodossa ucraina a eleggerne, il 24 febbraio, un locum tenens
nella persona del metropolita di Černivci e Bucovina Onufrij
(Berezovs’kyj). Quest’ultimo è stato piuttosto cauto nella valutazione delle
prospettive di dialogo con le Chiese ortodosse separate: «In un tempo così
inquieto non può crearsi niente di buono. Il positivo sorge quando viene la
pace», ha dichiarato. E ha aggiunto che una guerra di religione «sarebbe
ben più terribile della guerra economica»20. Nel frattempo il sinodo della
Upc-Mp ha istituito una speciale commissione per il dialogo con le altre
due Chiese.
Per il suo legame con il patriarcato di Mosca, la Chiesa ortodossa
ucraina si trova attualmente nella posizione più delicata. È del 1° marzo,
subito dopo l’inizio delle azioni militari russe in Crimea, l’appello del
locum tenens Onufrij al patriarca Kirill per «fare tutto il possibile affinché
non sia permesso spargimento di sangue sul territorio dell’Ucraina» e
«alzare la voce per la preservazione dell’integrità dello Stato ucraino»21.
La risposta del patriarca è giunta all’indomani, sotto forma di messaggio
indirizzato al locum tenens e a tutta la Chiesa ortodossa ucraina: «Figli della
nostra Chiesa sono persone di diversi orientamenti e convinzioni politiche,
ivi compresi coloro che oggi stanno dai diversi lati delle barricate. La
Chiesa non occupa questa o quella parte nella lotta politica». Kirill si è poi
impegnato a fare tutto il possibile per convincere «coloro nelle cui mani si
trova il potere» che è inammissibile uccidere persone pacifiche. «Non si
può permettere un’ulteriore polarizzazione della società», ha aggiunto il
patriarca, per poi concludere con una riaffermazione dell’unità ortodossa
nello spazio ex sovietico: «La fratellanza dei popoli russo, ucraino e
bielorusso è una realtà (…) che deve determinare il nostro futuro, non la si
può sacrificare a interessi contingenti»22.
Il richiamo al comune battesimo degli slavi orientali si trova anche
nell’accorato appello indirizzato lo stesso 2 marzo da Onufrij a Vladimir
Putin: «Scongiuri la divisione del nostro Stato ucraino e della Santa Chiesa.
(…) La esorto (…) a non permettere lo spargimento di sangue e il
fratricidio di popoli che discendono dall’unico fonte battesimale del
Dnepr»23. Nell’attuale situazione di tensione politica e sociale, in cui le
Chiese hanno agito finora da elemento di pacificazione, è in gioco tuttavia –
come rileva il locum tenens – non soltanto l’unità dello Stato ucraino, ma
anche quella della Chiesa ortodossa. Resta da vedere quale ruolo avrà
all’interno del mondo ecclesiastico la contrapposizione in atto tra Russia e
Ucraina.

1
Dati riportati nel sito ufficiale della Chiesa greco-cattolica ucraina, aggiornati all’1/1/2013,
www.ugcc.org.ua/36.0.html?&L=2
2
S.P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 2001 (1a ed.
1997), Garzanti, pp. 239-242.
3
Un altro 9,2% era costituito da polacchi, mentre il 4,4% degli abitanti di Kiev si dichiarava
«piccolo-russo», una categoria che comprendeva coloro che, sebbene fossero ucraini per nascita, non
si riconoscevano nella nazionalità ucraina, ma si sentivano piuttosto membri della grande famiglia
degli slavi orientali. Cfr. S.L. GUTHIER, «Ukrainian Cities during the Revolution and the Interwar
Era», in Rethinking Ukrainian History, a cura di I.L. RUDNYTSKY, Edmonton 1981, University of
Alberta, pp. 159-161.
4
Sulla presenza ebraica in questi territori si veda, tra gli altri, B. NATHANS, Beyond the Pale: The
Jewish Encounter with Late Imperial Russia, Berkeley 2002, University of California Press.
5
N.M. MEIR, «Jews, Ukrainians, and Russian in Kiev: Intergroup Relations in Late Imperial
Associational Life», Slavic Review, 3, 2006, pp. 475-501. Dello stesso autore Kiev, Jewish
Metropolis: A History, 1859-1914, Bloomington 2010, Indiana University Press.
6
Si veda S. MERLO, All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola II a Stalin (1905-
1939), Milano 2005, Guerini e associati, in particolare pp. 271-294.
7
V.I. PETRUŠKO, O popytkakh sozdanija Kievskogo patriarkhata Ukrainskimii uniatami i
raskol’nikami-aftokefalistami v XX veke, Moskva 2008, p. 221.
8
«Arkhierejskij Sobor Russkoj Pravoslavnoj Cerkvi 30-31 janvarja 1990 g., Moskva», Žurnal
Moskovskoj Patriarkhii, 5, 1990, pp. 4-12.
9
risu.org.ua/ua/index/resourses/statistics/ukr2013/51768
10
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=209&Itemid=1 (26/11/2013).
11
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=211&Itemid=31 (10/12/2013).
12
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=212&Itemid=1&lang=uk
(22/1/2014).
13
isu.org.ua/ru/index/all_news/state/national_religious_question/55087
14
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=218&Itemid=30 (22/2/2014).
15
news.church.ua/2014/02/24/zvernennya-svyashhennogo-sinodu-ukrajinskoji-pravoslavnoji-cerkvi-
do-derzhavnoji-vladi (25/2/2014).
16
risu.org.ua/ru/index/all_news/state/national_religious_question/55493
17
www.cerkva.info/uk/publications/articles/4457-uaoc-mp-zvern.html (22/2/2014).
18
ria.ru/religion/20140223/996523423.html (24/2/2014).
19
news.church.ua/2014/02/24/zvernennya-svyashhennogo-sinodu-ukrajinskoji-pravoslavnoji-cerkvi-
do-jepiskopatu-duxovenstva-chernectva-ta-miryan-u-zvyazku-z-ostannimi-podiyami-v-ukrajini
(25/2/2014).
20
risu.org.ua/ru/index/all_news/confessional/orthodox_relations/55500 (26/2/2014).
21
news.church.ua/2014/03/01/misceblyustitel-kijivskoji-mitropolichoji-kafedri-nadislav-list-
svyatishomu-patriarxu-kirilu (1/3/2014).
22
mospat.ru/ru/2014/03/02/news99102 (2/3/2014).
23
news.church.ua/2014/03/02/misceblyustitel-kijivskoji-mitropolichoji-kafedri-nadislav-list-
prezidentu-rosijskoji-federaciji-v-v-putinu (2/3/2014).
QUANDO ODESSA PARLAVA
ITALIANO
Fondazione e sviluppo della città sul Mar Nero si devono in gran
parte a nostri connazionali. Architetti, mercanti, musici e pittori
giunsero nella Nuova Russia a inizio Ottocento. Ascesa e declino di
una comunità essenziale per l’espansione dell’impero degli zar.
di Aldo FERRARI

La conquista dei territori della Ucraina meridionale da parte della


Russia avvenne nella seconda metà del Settecento, al termine di lunghe
guerre con l’impero ottomano e con i suoi vassalli, i khan di Crimea. Nel
1783 ebbe luogo l’annessione del canato di Crimea1, mentre al termine della
guerra con l’impero ottomano del 1787-1791 la Russia ottenne il controllo
su tutto il litorale settentrionale del Mar Nero. Sin dal 1764 questi territori
vennero organizzati amministrativamente nel governatorato della Nuova
Russia. In questo modo si completava quel processo di avvicinamento al
mare che alcuni decenni prima aveva visto il consolidamento della
posizione russa sul Baltico, con la fondazione – nel 1703 – di San
Pietroburgo.
La Nuova Russia, relativamente poca popolata al momento della
conquista, venne rapidamente colonizzata grazie alla politica di privilegi
attuata per attrarre immigrati appartenenti a molte e diverse popolazioni:
serbi, tedeschi, russi, ucraini, bulgari, greci, armeni, romeni e anche italiani,
come vedremo. Secondo le diverse attitudini, ognuna di queste popolazioni
immigrate collaborò attivamente allo sviluppo della Nuova Russia. Questa
regione divenne in tal modo un esempio particolarmente significativo di
quella struttura multietnica e multiculturale dell’impero russo che è stata
troppo sottovalutata sino a un recente passato e che costituisce invece una
delle linee di analisi più interessanti dell’attuale ricerca storiografica2.
La Nuova Russia crebbe rapidamente di importanza nei decenni
successivi sia per la fertilità del suolo sia per il suo significato come sbocco
sul Mar Nero, fondamentale per l’economia dell’impero russo, in
particolare per quel che riguardava l’esportazione di grano verso l’Europa.

Odessa: una colonia ‘italiana’?

In questo senso un ruolo decisivo fu recitato dalla città di Odessa,


fondata nel 17943. Una fondazione strettamente collegata all’espansione
imperiale verso sud progettata da Caterina II e che per certi aspetti ricorda
quella, già accennata e ben più celebre, di San Pietroburgo. Come la nuova
capitale sul Baltico, Odessa fu infatti concepita per essere una «finestra
sull’Europa». E senza dubbio lo è stata, divenendo una delle città più attive,
vivaci e cosmopolite dell’impero russo.
Ebbene, il ruolo degli italiani nella storia di Odessa costituisce una
pagina più interessante e per certi aspetti misconosciuta4 nelle relazioni tra
il nostro paese e la Russia. La sua stessa fondazione venne probabilmente
suggerita dal genovese Stefano de Rivarola, che tra il 1783 e il 1785 compì
un’importante missione diplomatica, suscitando l’interesse di Caterina II
che lo incaricò di visitare la Nuova Russia fornendole dettagliate
informazioni al riguardo5.
E almeno in parte italiano può essere considerato anche il fondatore
della città, José/Giuseppe de Ribas, nato a Napoli il 1749 da un nobile
spagnolo al servizio dei Borboni6. Tutti i suoi quattro figli, Giuseppe,
Emanuele, Andrea e Felice, entrarono al servizio della Russia. Giuseppe
combatté più volte contro gli ottomani, facendo una notevole carriera,
culminata nella carica di primo governatore della città di Odessa, fondata
nel luogo da lui stesso suggerito7. Egli tenne questa carica sino al 1797,
creando il porto, la flotta e le fondamenta della città, organizzando il
commercio e l’arrivo degli immigrati, segnando la via che fece di Odessa
un porto di rilevante significato non solo nel Mar Nero ma nell’intero
Mediterraneo.
Anche per la sua origine, de Ribas chiamò a Odessa un gran numero di
ingegneri, architetti, mercanti e artigiani italiani, che costituirono una
colonia importante nella città, una cui strada iniziò a chiamarsi
Ital’janskaja, cioè via degli Italiani, ridenominata via Puškin dal 18808. Nel
complesso il suo ruolo fu fondamentale nella storia della città, così come
quello del fratello minore, Felice. Nato a Napoli intorno al 1770, fece anche
lui una brillante carriera militare nell’esercito russo, poi si insediò nella
tenuta di Tuzla, nei pressi di Odessa, dove partecipò intensamente alla vita
commerciale e industriale della città. Egli fu attivo soprattutto durante il
governatorato del duca di Richelieu, dal 1803 al 1814.
La dinastia dei de Ribas proseguì con il figlio di Felice, Michele (1808-
1882), una figura importante nella vita culturale della città, editore tra
l’altro del Journal d’Odessa, pubblicato in russo e francese (con qualche
articolo in italiano) sul modello del Corriere Mercantile di Genova9. Non è
certo un caso che la via principale di Odessa porti ancora il nome di questa
famiglia (Deribasovskaja). In effetti, le tre generazioni di de Ribas
costituiscono una sorta di simbolo del carattere multietnico della città di
Odessa, oltre che un esempio dei rapporti italo-russi che caratterizzarono
questa prima fase della città, dove intorno al 1850 vivevano circa 3 mila
italiani10.
Il ruolo degli italiani nella costruzione della città fu rilevante, come
dimostrano molti dei suoi monumenti, ancora una volta a somiglianza con
San Pietroburgo. Si era in effetti in un’epoca in cui l’Italia continuava a
dare molto all’Europa e alla Russia, soprattutto nell’architettura, nella
musica, nell’arte. E Odessa deve non poco del suo aspetto europeo, che
tanto entusiasmò il giovane Puškin, all’opera degli artisti italiani che vi
lavorarono.
Tra i molti architetti italiani attivi qui va ricordato Francesco Frapolli
(Napoli?-Odessa 1819), che fu nominato architetto della città dal duca di
Richelieu nel 1804 e vi lavorò a lungo con i fratelli Pietro, Giovanni ed
Elia, lasciandovi un’impronta chiaramente riconoscibile in edifici come
l’Opera e la Chiesa della Trinità11. Molti altri architetti italiani contribuirono
per tutto l’Ottocento ad abbellire la città in conformità alle tradizioni
artistiche del loro paese d’origine: Francesco Boffo, Giovanni Quarenghi,
Giovanni Torricelli, Giovanni Dell’Acqua, Alessandro Digby, Alessandro
Bernadazzi e i fratelli Frapolli più giovani, in particolare Pietro, divenuto
architetto della città nel 1827. A questi artisti si devono molti tra i principali
monumenti di Odessa, inclusa la scalinata immortalata dal film di
Ejzenštejn La corazzata Potëmkin, opera di Francesco Boffo12. Più
mediterranea, più europea delle altre città russe, Odessa è anche più laica.
Nessuno dei suoi monumenti principali è infatti una chiesa, mentre il
maggior risalto è dato ai teatri, ai mercati, al porto13.
Quasi altrettanto rilevante è stata l’impronta italiana sulla pittura,
sebbene legata meno alla committenza governativa e più a quella privata.
Alcuni di questi pittori migrarono a Odessa via Costantinopoli, tutti erano
di alto livello tecnico. Tra i nomi principali possiamo ricordare Paolo
Riccardi (1826-1873), Cesare Boldrini (1785-1849), Francesco Morandi
(Cremona 1811-1894, Roma, ma sepolto a Odessa) e soprattutto Carlo
Bossoli (nato a Soragno, in Svizzera nel 1815, e morto a Torino nel 1884).
Quest’ultimo giunse a Odessa con i genitori già nel 1820 e si formò nella
città del Mar Nero, trascorrendovi 23 anni e venendo anche sostenuto dal
governatore Mikhail Voroncov, che ebbe un ruolo di grande rilievo nella
storia russa della prima metà dell’Ottocento. Gli anni trascorsi a Odessa non
separarono Bossoli dal corso principale dell’arte europea, ma furono una
sorta di trampolino di lancio per la sua grande carriera, che si svolse tra
Milano e Torino, diventando uno dei principali pittori italiani di metà
Ottocento14. Da questo punto di vista l’arte di Bossoli può essere
considerata un esempio particolarmente significativo dei legami culturali
sviluppatisi tra Odessa e l’Italia.
Un altro aspetto caratteristico di questi legami fu costituito dalla musica,
che era allora uno dei settori espansivi della cultura italiana. In particolare
gli italiani Giovanni Mantovani e Giuseppe Zamboni ebbero un ruolo
fondamentale nella creazione dell’Opera di Odessa. A partire dal 1811
vennero messe in scena opere di Domenico Cimarosa, Nicola Piccinni,
Antonio Sacchini, Niccolò Zingarelli, Giovanni Paisiello, Gioacchino
Rossini e cosi via, per un pubblico costituito dalla locale colonia italiana,
ma anche dagli abitanti di altre nazionalità15. Per diverse ragioni merita di
essere ricordata la rappresentazione della Semiramide di Rossini nel 1823,
stesso anno della prima veneziana, alla presenza tra gli altri di Aleksandr
Puškin e di Amalia Riznič, moglie di un mercante dalmata che viveva a
Odessa, alla quale il poeta dedicò la splendida lirica che inizia con i versi
Per le rive della patria lontana. La vitalità musicale di questa città rimase
comunque strettamente legata alla sua componente italiana per tutto
l’Ottocento, con una gran quantità di musicisti, cantanti e impresari attivi a
Odessa16.
Il ruolo degli italiani fu rilevante anche nello sviluppo del teatro
drammatico di Odessa, dove la presenza di compagnie provenienti dal
nostro paese era abituale. Grandi attori come Tommaso Salvini, Ernesto
Rossi ed Eleonora Duse ne calcarono di frequente le scene, cosa non
sorprendente vista la vitalità artistica della città e i suoi stretti legami
culturali con l’Italia17.
Questi legami fecero sì che l’italiano rimanesse a lungo la lingua franca
di Odessa, come veicolo principale delle attività economiche, in primo
luogo marittime, della città. Per molto tempo i cartelli stradali vennero
scritti in italiano oltre che in russo, e l’italiano era usato anche per
passaporti, liste dei prezzi del grano e notizie teatrali18. Questo ruolo è
testimoniato per esempio dal fatto che venne usato dal governatore
Voroncov il 3 dicembre 1829 per rincuorare gli abitanti dopo un’epidemia19.
Per molti viaggiatori Odessa, con il suo clima, lo stile architettonico, la
cucina e la cultura ricordava una città italiana. Per esempio, l’americano
Henry Wikoff, che la visitò nel 1835, scrisse: «I was almost tempted to
believe that, by some hocus-pocus, we had tumbled on an Italian town. (…)
There were little or nothing Russian about it. Its inhabitants were chiefly
Italians or Greeks, with a sparkling of French, German and English»20.
Con l’unità d’Italia a Odessa venne creato un consolato21, ma il peso
della colonia italiana di questa città diminuì progressivamente nella seconda
metà dell’Ottocento. Un declino dovuto a varie e non del tutto chiare
ragioni: la principale studiosa della comunità italiana parla di crescente
discriminazione verso gli italiani da parte della maggioranza slava
nell’ottica del crescente nazionalismo dell’epoca22, ma questa spiegazione
sembra poco convincente; occorre pensare piuttosto ad altre dinamiche:
l’assimilazione, in primo luogo, ma anche la forte concorrenza delle altre
comunità etniche, in particolare quella ebraica, destinata ad acquisire un
ruolo di particolare rilievo nella città23. In ogni caso la comunità italiana si
ridusse fortemente; nel 1897 vi erano soltanto 286 uomini attivi nella città24
e il declino sarebbe continuato nei decenni successivi, senza però che la
forte impronta italiana sulla struttura architettonica e culturale della città
scomparisse del tutto.
Questa importante presenza italiana nella storia di Odessa, e in
particolare il suo ruolo nel «portare la Russia nel Mediterraneo»25, merita in
effetti di essere conosciuto più di quanto sia oggi. Si tratta di una pagina
interessante sia nell’ambito dei rapporti storici e culturali tra l’Italia e la
Russia sia in quello dell’ormai indispensabile lettura multietnica e
multiculturale dell’impero russo.

1
Cfr. A.W. FISHER, The Russian Annexation of the Crimea, Cambridge 1970, Cambridge
University Press.
2
Si veda al riguardo la mia introduzione all’edizione italiana del fondamentale studio di A.
KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, tr. it. Roma 2006, Edizioni Lavoro, pp. IX-
XXI.
3
Sulla storia della città di Odessa si vedano soprattutto i seguenti studi: P. HERLIHY, Odessa: A
History, 1794-1914, Cambridge (MA) 1987, Harvard University Press; M. GURFINKEL, Le roman
d’Odessa, Monaco 2005, Éditions du Rocher; CH. KING, Odessa. Splendore e tragedia di una città
di sogno, tr. it. Torino 2013, Einaudi.
4
A questo riguardo una studiosa ha parlato addirittura di «a peculiar case of historical amnesia: the
forgotten Italians»: A. MAKOLKIN, A History of Odessa: The Last Italian Black Sea Colony,
Ontario 2004, Edvin Mellen Press, p. 5.
5
Cfr. R. SINIGAGLIA, Genova e Russia. La missione Rivarola a Pietroburgo (1783-1785), Genova
1994, Graphos, e A. MAKOLKIN, op. cit., pp. 34-41.
6
Sull’origine della famiglia de Ribas si vedano soprattutto lo studio di G. MORACCI: Michele de
Ribas: saggio sulla città di Odessa e altri documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, Genova 1988,
Cassa di Risparmio di Genova e il recente articolo di M. MARZANO, «I de Ribas, una famiglia
napoletana a Odessa», in L. MASCILLI MIGLIORINI, M. MAFRICI (a cura di), Mediterraneo e/è
Mar Nero: due mari tra età moderna e contemporanea, Napoli 2012, Edizioni Scientifiche Italiane,
pp. 139-162. Nello stesso volume (pp. 31- 54 e 203-233) si trovano gli importanti articoli di M.
MAFRICI, «La diplomazia in azione: rapporti commerciali tra la Russia e il regno di Napoli» e M.
SIRAGO, «Il consolato napoletano nel Mar Nero e lo sviluppo di Odessa tra la fine del Settecento e
la prima metà dell’Ottocento».
7
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., p. 5.
8
Ivi, pp. 65-66.
9
Ivi, pp 70-73.
10
Ivi, p. 74.
11
Si veda al riguardo un altro volume che costituisce un affresco appassionato della presenza
artistica italiana a Odessa: A. MAKOLKIN, One Hundred Years of Italian Culture on the shores of
the Black Sea (1794-1894), Lewiston-Queenstown-Lampeter 2000, The Edwin Mellen Press, p. 27.
12
Ivi, p. 29.
13
Ivi, pp. 42-44.
14
Ivi, p. 99. Su questo artista si veda in particolare C. VERNIZZI (a cura di), Carlo Bossoli, Torino
1998, Artema.
15
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., pp. 174-176.
16
Ivi, pp. 177-197.
17
Ivi, pp. 204-216.
18
Cfr. CH. KING, op. cit., p. 54.
19
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., pp 124-126.
20
H. WIKOFF, The Reminiscences of an idler, New York 1880, Fords, Howard, & Hulbert, p. 231.
21
Cfr. G. VIGNOLI (a cura di), Gli Italiani di Crimea. Nuovi documenti e testimonianze sulla
deportazione e lo sterminio, Roma 2012, Edizioni Settimo Sigillo, p. 26.
22
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., pp. 220-225.
23
Cfr. Ch. KING, op. cit., pp. 88-89.
24
Cfr. P. HERLIHY, «The Ethnic Composition of Odessa, in the Nineteenth Century», Harvard
Ukrainian Studies, I, 1, 1977, p. 74.
25
A. MAKOLKIN, «Italians Bringing Russia into Mediterranean: Odessa the Last Italian Colony»,
in L. SOMIGLI, D. PIETROPAOLO (a cura di), Modernism and Modernity, Ottawa 2006, Legas, pp.
249-261.
CRIMEA, FARO RUSSO SUL
MEDITERRANEO
Da sempre la penisola rappresenta per Mosca l’avamposto verso il
mare nostrum. Storia di un crocevia di genti e dominatori. Il nodo
tataro e il timore di incrinare la pax interconfessionale. La
minaccia islamista e la valenza strategica di Sebastopoli per il
Cremlino.
di Aldo FERRARI e Giorgio CELLA

Posta sulle sponde del Mar Nero, la Crimea ha costituito nel corso dei
millenni un luogo cruciale dell’incontro tra i nomadi delle steppe
eurasiatiche e le civiltà del Mediterraneo1. Nel corso della sua lunga e
travagliata storia la regione è stata abitata infatti da numerosi popoli:
cimmeri, tauri, sciti, greci, goti, bizantini, ebrei caraiti, armeni, genovesi,
tatari e russi; nessuno di loro ha legato in maniera definitiva il suo nome
alla Crimea, ma ognuno vi ha lasciato importanti testimonianze
archeologiche e artistiche. In uno spazio geografico quanto mai limitato si
incontra in effetti una quantità impressionante di monumenti sciti (kurgan)
e greci, città rupestri, chiese cristiane (ortodosse e armene), moschee e
palazzi dei khan tatari, templi caraiti, fortezze genovesi e ottomane,
residenze della nobiltà russa, basi navali sovietiche. Oggi la Crimea
costituisce il principale nodo dei rapporti tra Mosca e Kiev.

Una storia composita


I più antichi abitatori storici della Crimea sono stati i cimmeri, i tauri
(dai quali venne l’antica denominazione di Tauride) e gli sciti. Con questi
ultimi i greci vennero in contatto già nei secoli VI-V a.C., quando crearono
le importanti colonie commerciali di Teodosia, Chersoneso e di Panticapea,
intorno alla quale sarebbe nato il multietnico e potente regno del Bosforo.
Un incontro testimoniato da testi importanti come le Storie di Erodoto e
l’Ifigenia in Tauride di Euripide. Gli sciti furono seguiti da altre popolazioni
iraniche, i sarmati e gli alani, poi dai goti (III secolo). Questi ultimi vennero
però costretti dagli unni a trovar rifugio nelle zone montuose della penisola
dove sopravvissero per qualche secolo. In seguito la Crimea entrò, sia pure
in maniera blanda, sotto l’influenza dell’impero romano, poi di quello
bizantino.
A partire dalla metà del VII secolo e sino al IX, però, la regione passò
nell’orbita del canato chazaro; per questa ragione è spesso denominata
Khazaria nelle fonti bizantine e in quelle europee più tarde. Nel IX secolo i
russi cominciano a essere presenti in questa regione: è qui che nel 988 il
gran principe di Kiev Volodymyr si convertì al cristianesimo, a Khersones,
nei pressi dell’odierna Sebastopoli. In seguito la Crimea ritornò
parzialmente nell’orbita bizantina e tra il XII e il XV secolo nella sua parte
meridionale sorse il piccolo regno di Teodoro, dalla popolazione composita
(greci, goti, alani). In questa stessa epoca la Crimea vide l’insediamento di
genovesi e veneziani, che vi portarono la loro rivalità politica e
commerciale. La vittoria qui spettò ai primi, che si insediarono a Cembalo
(Balaklava), Soldaja (Sudak) e Cerchio (Kerč)2. Ma anche degli armeni, il
cui insediamento in Crimea fu così forte da far per qualche tempo
denominare questa regione «Armenia marittima»3.
Nel frattempo nuove ondate di popolazioni nomadi turciche provenienti
dalle steppe eurasiatiche premevano sulla regione: dapprima i peceneghi e i
polovtsi, poi i tatari dell’Orda d’oro, sotto il cui dominio la penisola si trovò
a partire dal 1239. È in quest’epoca che la regione ricevette il nome con cui
è conosciuta oggi, Krym, dal turco kırım, che vuol dire «mia roccia». Una
località con questo nome fu a lungo il centro principale del dominio
mongolo nella regione. Per circa due secoli, tuttavia, la Crimea vide la
coesistenza del dominio dei tatari con la presenza di armeni, greci, genovesi
e veneziani: i primi vivevano nelle steppe a nord dei rilievi montuosi e i
secondi nelle città costiere, stabilendo rapporti di proficua – anche se non
facile – cooperazione economica.
Al momento della dissoluzione dell’Orda d’oro, nel 1441, in Crimea si
formò un autonomo canato tataro4. Nel 1475, però, gli ottomani
conquistarono la penisola, spazzando via le colonie genovesi e il regno di
Teodoro e determinando l’emigrazione degli armeni. Il canato tataro di
Crimea – la cui capitale era Bakhčysaraj – divenne allora vassallo di
Costantinopoli. Progressivamente la popolazione tatara si sedentarizzò,
dedicandosi all’allevamento e all’agricoltura, ma senza rinunciare a
devastanti scorrerie ai danni di russi e polacchi, in primo luogo per
procacciare schiavi da vendere nell’impero ottomano. Una situazione che
durò sino alla guerra russo-turca del 1768-1774, conclusa dalla pace di
Küçük-Kaynarca, con la quale l’impero ottomano rinunciava alla sovranità
sulla Crimea.
Nel 1783 la Russia annetteva questa regione, ponendo fine all’esistenza
del canato. Dopo la conquista, la Crimea fu visitata da Caterina II nel corso
di un celebre viaggio, durante il quale Potëmkin allestì i villaggi divenuti
simboli di mistificazione. La Crimea cominciò presto ad avere un ruolo
importante nella cultura russa, in primo luogo perché il suo possesso
forniva un legame culturale con l’antichità classica e con il Mediterraneo5. I
decenni successivi videro inoltre il progressivo insediamento di comunità
cristiane (russi, ucraini, bulgari, greci, armeni e anche una piccola comunità
italiana, di origine prevalentemente pugliese)6 e, contemporaneamente,
l’emigrazione di numerosi tatari verso l’impero ottomano, con un rapido
mutamento del quadro etno-culturale della regione, del quale partecipavano
anche comunità particolari quali gli ebrei caraiti.
Furono costruite le nuove città di Sebastopoli e Simferopoli e la regione
cominciò a divenire luogo di viaggio e di villeggiatura per l’élite
dell’impero, a partire dalla famiglia imperiale e dalla nobiltà, che vi
costruirono sontuosi palazzi. Nel corso dell’Ottocento la Crimea divenne
anche un luogo centrale della letteratura russa, da Puškin a Tolstoj, da
Čechov a Mandel’štam e Vološin, ma anche della pittura, in particolare con
il grande marinista armeno-russo Ivan Ajvazovskij. La guerra di Crimea,
combattuta tra il 1853 e il 1856, rafforzò ulteriormente l’immagine di
questa regione nell’immaginario russo, attribuendole anche un importante
elemento di orgoglio nazionale nonostante la dolorosa sconfitta subita. In
epoca zarista, cioè, la Crimea acquisì un significato particolare all’interno
dell’impero, del quale giunse a costituire una sorta di propaggine
mediterranea, una Costa azzurra interna.
La prima guerra mondiale e soprattutto la rivoluzione bolscevica
spezzarono l’incantesimo e la guerra civile fu qui particolarmente feroce,
dato che la Crimea costituì una roccaforte degli eserciti bianchi di Denikin e
Vrangel’. Molti superstiti del movimento bianco partirono per l’esilio
proprio dalla Crimea, ma alla fine del 1920 i bolscevichi vi massacrarono
oltre 50 mila persone7. La Crimea entrò allora a far parte della Repubblica
Socialista Federativa Sovietica Russa (Rsfsr), conoscendo un momento
particolarmente duro della sua storia negli anni della seconda guerra
mondiale. E questo sia per la violenza delle operazioni belliche, sia per le
deportazioni che colpirono nel 1944 i tatari e altre popolazioni locali
sospettate di collaborare con gli invasori: bulgari, greci e anche italiani.
Nonostante la successiva riabilitazione, queste popolazioni non hanno avuto
per tutta l’epoca sovietica il diritto a tornare legalmente nelle loro case.
In Crimea – in un palazzo appartenuto agli zar – ebbe anche luogo nel
febbraio 1945 la celebre conferenza nella quale Stalin, Roosevelt e
Churchill crearono un mondo spaccato in due, il mondo di Jalta. Nel 1954,
in occasione del terzo centenario del trattato di Perejaslav, con il quale
buona parte dei territori ucraini passò sotto la sovranità di Mosca, la Crimea
venne trasferita dalla Russia all’Ucraina come pegno dell’amicizia russo-
ucraina. Al momento della dissoluzione dell’Urss, la Crimea si è quindi
trovata all’interno dell’Ucraina con lo status di repubblica autonoma.

La Repubblica Autonoma di Crimea

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica le sorti politiche della Crimea sono


state gestite in modo diretto dalla relazione trilaterale fra Kiev, Simferopoli
e Mosca, con un limitato coinvolgimento di attori esterni come Stati Uniti,
Unione Europea e Nato. La Crimea, circondata a sud-ovest dal Mar Nero e
a est da quello di Azov, è unita all’Ucraina unicamente dal sottile istmo di
Perekop e non ha nessun collegamento geografico col territorio russo8. Alla
luce del braccio di ferro attuale tra Kiev e Mosca per il controllo della
penisola, è opportuno ripercorrere le vicissitudini costituzionali e le
tendenze indipendentiste che dalla dissoluzione dell’Urss ad oggi hanno
caratterizzato la vita politica interna della penisola.
In realtà la Crimea cercò la strada dell’autonomia e in seguito
dell’indipendenza da Kiev, prima ancora del disfacimento dell’Urss. Già nel
gennaio 1991 il parlamento di Simferopoli approva un referendum che, con
il 93% dei consensi, sancisce la ricostituzione della Crimea come
repubblica autonoma, con lo stesso status che aveva avuto prima del 1945.
Un mese dopo viene proclamata la Repubblica Autonoma Socialista
Sovietica (Rass) di Crimea. Questa proclamazione viene fatta addirittura
prima della dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina, che avverrà nel 24
agosto 1991. La Rass viene in seguito riconosciuta dall’allora Soviet
supremo ucraino di Kiev, ma in quanto entità interna all’Ucraina.
Nel frattempo a Mosca si comincia a criticare l’appartenenza della
Crimea all’Ucraina e, nel maggio del 1992, la Duma approva una
risoluzione che dichiara illegale il trasferimento della penisola dalla Russia
all’Ucraina del 1954 e auspica negoziati sul suo futuro9. L’atteggiamento
del Cremlino ha come effetto quello di infiammare il separatismo russo in
Crimea. La Verkhovna Rada di Simferopoli, nel maggio dello stesso anno,
con 118 voti a favore e 28 contro dichiara l’indipendenza e promulga la
prima carta costituzionale della Crimea pianificando un referendum per
l’agosto dello stesso anno. La tensione è alta e il parlamento di Kiev
reagisce con l’annullamento della dichiarazione di indipendenza della
Crimea e con la concessione al parlamento di Simferopoli di una settimana
di tempo per fare altrettanto. Dopo intense trattative, la Crimea rinuncerà
sia all’indipendenza che al referendum, accettando lo status di Repubblica
Autonoma di Crimea all’interno dell’Ucraina.
Le istanze autonomiste ripresero tuttavia vigore nel 1993, quando venne
deciso di istituire il ruolo inedito di presidente della Crimea. Le elezioni si
tennero nel gennaio del 1994 e videro la vittoria del separatista filorusso
Jurij Meškov, leader della coalizione Blocco russo. In realtà, una volta
divenuto presidente, Meškov non seppe dare seguito alle promesse elettorali
né migliorare la difficile situazione economica. Il suo slancio separatista
toccò il culmine quando decise di assumere pieni poteri e ripristinare la
costituzione del 1992. Il presidente ucraino dell’epoca, Kučma, decise di
intervenire con una serie di decreti tra cui quello che aboliva la carica di
presidente della Crimea. Kučma applicò inoltre ritorsioni economiche,
intervenendo sulle forniture di acqua ed elettricità – risorse per le quali la
Crimea dipende pesantemente dall’Ucraina – e rinforzando la presenza
militare nella penisola.
Quando il governo di Kiev riprese il controllo, Meškov fu destituito.
Nel novembre 1995 venne preparata la prima stesura della costituzione
della Crimea, approvata definitivamente nel 1998. Da quel momento in
avanti maturò la convinzione del governo ucraino che il Cremlino non
avrebbe più interferito negli affari interni della penisola, e tanto meno
avrebbe tentato di alterarne lo status10.
La carta costituzionale attuale della Crimea deriva da una proposta della
Verkhovna Rada di Simferopoli – avanzata nel 1996, ma con norme non
accettate da Kiev – che implicò successivi aggiustamenti fino ad arrivare
alla stesura definitiva del 1998. In questa costituzione, tuttora valida, la
Crimea è definita Repubblica Autonoma di Crimea (Rac)11. In realtà
l’autonomia della penisola è stata fortemente condizionata da Kiev e ciò è
chiaramente indicato in alcuni articoli della costituzione ucraina. L’articolo
134, ad esempio, dopo aver ricordato che la Rac è una componente
integrante dello Stato ucraino, stabilisce che essa deve risolvere i problemi
delegati alla sua autorità avendo come schema di riferimento la costituzione
ucraina, così come l’articolo 135 stabilisce che la costituzione della Crimea
e le norme che la riguardano devono essere approvate dal parlamento di
Kiev. Altri articoli stabiliscono che la scelta del presidente del Consiglio dei
ministri deve essere approvata dal presidente dell’Ucraina e che i poteri e le
procedure per far funzionare il parlamento della Crimea e il Consiglio dei
ministri sono definite dalla costituzione e dalle leggi ucraine12; analoghi
articoli si trovano nella costituzione della Repubblica Autonoma della
Crimea.
Secondo alcuni osservatori l’autonomia di cui gode la Crimea con
questa costituzione è più o meno simile a quella che caratterizza altre
strutture regionali ucraine13. Per completare il quadro costituzionale è
necessario ricordare che, sempre nel 1998, venne deciso che la Rac non
avrebbe più controllato l’area di Sebastopoli – riconosciuta come città a
statuto speciale e amministrativamente separata dalla Rac – che passava
direttamente sotto la giurisdizione di Kiev14.

Le tensioni etniche

L’implosione del blocco sovietico ha portato, come in altri casi, anche la


Crimea a un risveglio etno-identitario. La popolazione è suddivisa
etnicamente fra russi, ucraini e tatari, seguiti da altre minoranze. Stando
all’ultimo censimento del 2001, su una popolazione complessiva di
2.033.700 persone, la componente russa è quella maggioritaria, con quasi
1.200.000 unità (59%); seguono 500 mila ucraini (25%) e circa 243 mila
tatari (12%)15. Nella città a statuto speciale di Sebastopoli, invece, la
percentuale dei tatari è molto più bassa, oltre il 70% della popolazione è
costituito da russi e il 22% da ucraini.
Nel quadro etnico della penisola merita particolare attenzione la
questione dei tatari. Si tratta di una comunità musulmana di confessione
sunnita che parla una lingua turca simile a quella dei tatari di Kazan’, ma
non reciprocamente comprensibile. Il ritorno dei tatari di Crimea nella loro
terra d’origine dopo le deportazioni staliniane – cominciato dopo il 1991 e
simile per molti aspetti a quello di ceceni e ingusci – si è svolto con le
intuibili difficoltà di reintegrazione in una società drasticamente mutata dal
punto di vista socio-demografico e nell’ostilità delle popolazioni slave
locali. Solo una parte dei tatari crimeani è ritornata nella madrepatria: la
loro diaspora mantiene tuttora dimensioni rilevanti, principalmente in
Turchia, Uzbekistan e Bulgaria. Inoltre, il parlamento di Simferopoli non ha
riconosciuto istituzionalmente il Medžlis, il corpo rappresentativo dei tatari
di Crimea.
Da una comparazione con i dati degli ultimi due censimenti si registrano
mutamenti demografici considerevoli che hanno interessato la
composizione etnica della penisola. Nel 1989 difatti i russi erano il 67%
mentre i tatari appena l’1,6%. Nel 2001 invece, si registra una diminuzione
relativa della presenza russa, scesa al 58%, e un notevole aumento dei tatari,
saliti al 12%. L’aumento della popolazione tatara non è esclusivamente il
prodotto dei flussi migratori di ritorno, ma anche di un alto tasso di crescita
demografica. Viceversa, a causa di un basso tasso di natalità, la comunità
russa è globalmente diminuita dell’11,6%.
I secolari risentimenti dei tatari verso Mosca sono riemersi durante i
primi passi della silenziosa militarizzazione russa della Crimea, agli inizi di
marzo. Si sono infatti verificati scontri nelle strade di Simferopoli tra i
manifestanti pro-russi e i tatari favorevoli all’integrità territoriale ucraina e
al nuovo governo di Kiev. In realtà, la posizione dei tatari non è monolitica
e alcuni di loro, tra i quali il vice premier Rustam Temirgaliev, sono
schierati con le forze pro-russe16.
Problemi ulteriori provengono dalla dimensione religiosa. Storicamente
la Crimea ha conosciuto una storia di armonia interconfessionale, ma la
recente crisi suscita il timore di una diffusione dell’estremismo islamico
tramite la presenza di gruppi di osservanza wahhabita che dispongono di
cospicui finanziamenti mediorientali17. Tra questi, il movimento Ḥizb al-
Taḥrīr, che promuove la nascita di un califfato regionale18. Inoltre, si sono
registrate presenze di jihadisti tatari crimeani nel teatro bellico siriano. Il
rischio di tensioni è inoltre aggravato dal preoccupante livello di
disoccupazione della gioventù tatara.
Dopo il referendum del 16 marzo 2014 sia le autorità locali di
Simferopoli sia il Cremlino dovranno porsi come priorità quella di
rafforzare i sottili equilibri che hanno sinora mantenuto le tensioni
interetniche a bassa intensità, prevenendo possibili spinte anti-tatare della
maggioranza russa, trovando forme di collaborazione con il Medžlis e
creando un dialogo costruttivo con le élite politiche della Repubblica del
Tatarstan, alla quale i tatari crimeani sono legati da forti vincoli religiosi e
culturali.
Un passo in questa direzione sembra che il Cremlino l’abbia già
compiuto, inviando il 5 marzo nella capitale crimeana il presidente del
Tatarstan Rustam Minnikhanov per un incontro con i rappresentanti politici
e religiosi dei tatari locali, concludendo altresì un accordo bilaterale di
cooperazione19. In questo modo, Putin sembra intenzionato ad avviare una
politica di persuasione diplomatica verso i tatari, consapevole dei danni che
un conflitto con questa comunità potrebbe avere sulla posizione russa nei
delicati equilibri geopolitici e georeligiosi sia nel Medio Oriente sia nel
sempre inquieto distretto federale del Caucaso settentrionale.

La questione di Sebastopoli

La base navale di Sebastopoli, che ospita la flotta russa del Mar Nero,
rappresenta un’altra questione spinosa della crisi ucraina. Nel 1997, con il
Trattato di scissione della flotta del Mar Nero, il governo russo e quello
ucraino istituirono due flotte nazionali indipendenti nella base di
Sebastopoli e in altre località della Crimea; Kiev concesse inoltre l’affitto
della base alla Russia fino al 201720. Con il successivo e controverso patto
di Kharkiv del 2010, stipulato fra l’ormai deposto presidente Janukovyč e
l’ex presidente russo Medvedev, si è invece fissato il prolungamento
dell’affitto della base navale fino al 2042, in cambio di forniture a prezzi di
favore del gas russo. Sempre all’interno di questo patto, si dava inoltre alla
Federazione Russa il permesso di incrementare la sua potenza navale senza
l’autorizzazione di Kiev. Questa estensione della presenza russa a
Sebastopoli ha anche assestato un duro colpo alla ventilata adesione
dell’Ucraina alla Nato21: che non può infatti essere concessa a quei paesi
che ospitano sul proprio suolo basi militari di paesi terzi.
La base navale di Sebastopoli, strategica per la proiezione di Mosca nel
Mediterraneo, ospita la più piccola delle quattro principali flotte della
Marina militare russa, che comprende la flotta del Nord con sede a
Severomorsk, quella del Pacifico collocata a Vladivostok e quella del
Baltico a Kaliningrad, alle quali si affianca la flottiglia del Caspio.
L’importanza della base non si esaurisce però nell’aspetto militare, in
quanto attraverso i porti del Mar Nero transita circa il 30% del totale delle
esportazioni marittime russe. Peraltro, alcune navi della flotta russa del Mar
Nero, anche se operative e funzionanti, risultano datate e in condizioni di
manutenzione non ottimali22. La flotta è costituita dall’incrociatore
lanciamissili Moskva, da un cacciatorpediniere e due fregate, da navi da
sbarco e da un sottomarino d’attacco a propulsione diesel. Oltre alla base
principale e quartier generale di Sebastopoli, esistono una dozzina di altre
basi russe di minore importanza sparse sul territorio della penisola, fra
centri di comunicazione e basi aeree.
Prima dei recenti avvenimenti politici, le truppe presenti a Sebastopoli
erano costituite da 2.500 uomini della fanteria navale e da un numero di
membri delle forze speciali della Marina stimato intorno alle 300 unità. Non
si trattava, quindi, di una forza particolarmente consistente. Il Cremlino,
infatti, ha previsto per gli anni a venire investimenti considerevoli al fine di
rafforzare e modernizzare la flotta del Mar Nero, che sarà integrata da sei
sottomarini avanzati classe Kilo, così come dalla nave da assalto anfibio di
fabbricazione francese classe Mistral.
L’importanza strategica della base di Sebastopoli si è palesata anche
durante i momenti più critici della recente crisi siriana, quando
l’incrociatore lanciamissili Moskva ha raggiunto le coste siriane producendo
un effetto di deterrenza notevole sui piani statunitensi. La flotta russa del
Mar Nero era entrata in gioco anche nella breve guerra russo-georgiana del
2008, con l’attuazione di blocchi navali e la distruzione di varie
motovedette georgiane23. La base di Sebastopoli deve inoltre essere
inquadrata in una più ampia ottica strategica dell’area Mar Nero-
Mediterraneo, dove la Russia ha installato nel tempo una rete di strutture
militari: la base navale di Novorossijsk nella regione di Krasnodar, quella
militare di Gudauta in Abkhazia, la base navale di Ṭarṭūs in Siria, alla quale
il Cremlino vorrebbe affiancarne un’altra a Cipro24, consolidando
ulteriormente la sua proiezione di potenza nel Mediterraneo.
L’evoluzione politica che ha portato alla destituzione di Janukovyč e
alla formazione a Kiev di un nuovo governo dichiaratamente filoccidentale
ha messo in moto una rapida reazione di Mosca che, facendo leva sui
sentimenti della maggioranza russa presente in Crimea, ha portato alla
secessione della regione dall’Ucraina attraverso il referendum del 16 marzo.
Il referendum è passato con quasi il 96% dei votanti a favore e con
un’affluenza pari all’84%. Successivamente la Duma ha ratificato il trattato
di annessione della Crimea alla Federazione Russa e approvato la legge
costituzionale per la creazione dei due nuovi soggetti federali di Crimea e
Sebastopoli. Il parlamento di Kiev ha dichiarato il referendum illegale e
incostituzionale, così come hanno fatto l’Unione Europea e gli Stati Uniti,
che hanno in seguito imposto sanzioni per colpire alcune personalità chiave
dell’establishment russo e alcuni politici della Crimea, tra cui il primo
ministro Serhij Aks’onov. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha tentato di
esprimersi con una risoluzione sull’invalidità del referendum in Crimea,
presentata dagli Stati Uniti e condivisa da 41 paesi, tra i quali l’Italia. La
risoluzione non è stata approvata per lo scontato veto russo (la Cina si è
astenuta)25.
Una dinamica che, per quanto inaccettabile dal punto di vista del diritto
internazionale, non sembra poter essere arrestata o invertita. Appare infatti
impensabile, allo stato attuale, configurare il destino futuro della Crimea
fuori dall’orbita di Mosca. Sia per il Cremlino sia per la maggioranza degli
abitanti della penisola si tratta del ritorno alla realtà storica, culturale e
strategica della regione. Tuttavia, l’esito del referendum – subito dichiarato
illegittimo dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti – comporta senz’altro
uno smottamento della situazione geopolitica dell’area, i cui effetti sul
medio e lungo termine non sono per ora prevedibili, a livello tanto regionale
quanto globale.

1
La bibliografia sulla Crimea è molto scarsa, soprattutto in italiano. Pagine interessanti si trovano nei
seguenti volumi: Aa.Vv., Dal Mille al Mille. Tesori e popoli dal Mar Nero, Milano 1995, Electa
(catalogo della mostra, Rimini 1995); N. Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo
d’Oriente, Torino 1999, Einaudi; e Ch. King, Storia del Mar Nero dalle origini ai nostri giorni,
Roma 2005, Donzelli.
2
Su questo tema esiste una notevole bibliografia specialistica. Segnalo solo gli studi di S.P. Karpov,
La navigazione veneziana nel Mar Nero 13-15 sec., Ravenna 2000, Edizioni del Girasole; e S.
Origone, Il Mar Nero nei secoli della supremazia dei Genovesi, Genova 2011, Coedit.
3
Cfr. P. Donabédian, «Gli armeni di Crimea in epoca genovese», in Cl. Mutafian (a cura di), Roma-
Armenia, Roma 1999, De Luca, p. 189.
4
Sui tatari di Crimea si vedano soprattutto gli studi di A.W. Fisher, Between Russians, Ottomans and
Turks: Crimea and Crimean Tatars, Istanbul 1998,, Isis Press; e B.G. Williams, The Crimean Tatars:
The Diaspora Experience and the Forging of a Nation, Leyden 2001, Brill.
5
Si veda al riguardo lo studio di M. Kozelsky, Christianizing Crimea. Shaping Sacred Space in the
Russian Empire and Beyond, DeKalb 2009, Northern Illinois University Press, pp. 41-46.
6
Cfr. G. Giachetti Boico, G. Vignoli, L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli Italiani di Crimea,
Roma 2008, Edizioni il Settimo Sigillo, p. 7.
7
Cfr. S. Courtois et alii (a cura di), Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione,
Milano 1998, Mondadori, p. 93.
8
Già da tempo si sta valutando a livello bilaterale russo-ucraino la costruzione di un ponte di
collegamento dallo stretto di Kerč alla Russia. Cfr. ria.ru/economy/20140305/998246428.html
9
S. Stewart, Explaining the Low Intensity of Ethnopolitical Conflict in Ukraine, Münster 2005, Lit
Verlag, p. 64.
10
Ivi, pp. 65 ss.
11
Law of Ukraine on Approval of the Constitution of the Autonomous Republic of Crimea,
www.rada.crimea.ua/en/bases-of-activity/konstituciya-ARK
12
Constitution of Ukraine, Title X, www.president.gov.ua/en/content/chapter10.html
13
L.D. Anderson, Federal Solution to Ethnic Problems: Accomodating Diversity, New York 2013,
Routledge, p. 234.
14
P.R. Magocsi, A History of Ukraine: The Land and Its People, Toronto 2010, Columbia University
Press, p. 729
15
All-Ukrainian population census, State Statistics Committee of Ukraine, 2001
2001.ukrcensus.gov.ua/eng/results/general/nationality/Crimea
16
«Facts You Need to Know about Crimea and Why It Is in Turmoil», Russia Today, 27/2/2014,
rt.com/news/crimea-facts-protests-politics-945
17
A. Krushelnycky, Ukraine: Crimea’s Tatars — Clearing The Way For Islamic Extremism? (Part 4),
16/3/2014, www.rferl.org/content/article/1054513.html
18
I. Losiev, «Encouraging a Pan-Islamic Caliphate in Crimea?», The Ucranian Week, 12/4/2013,
ukrainianweek.com/Security/77283
19
«Agreement on Cooperation between Tatarstan, Crimea Signed in Simferopol», Interfax-Ukraine
Agency, 5/3/2014, en.interfax.com.ua/news/general/194499.html
20
S . Glebov, «The Russian Black Sea Fleet and Ukraine’s Security Strategy: Agenda 2017», in
Military Bases: Historical Perspectives, Contemporary Challenges, Amsterdam 2009, Ios Press, p.
184.
21
M. de Leonardis, La Nato tra globalizzazione e perdita di centralità, Cemiss, Centro militare di
studi strategici, 2009, p. 24.
22
C. Le Miere, Evaluating Russia’s Black Sea Fleet, Iiss, 26/2/2014,
www.iiss.org/en/iiss%20voices/blogsections/iiss-voices-2014-b4d9/february-72f2/black-sea-5599
23
St. Beardsley, Analysts: Back Sea Port in Ukraine Still Key to Russia’ Naval Interests,
www.stripes.com/news/analysts-black-sea-port-in-ukraine-still-key-to-russia-s-naval-interests-
1.270904
24
N. Kalmouki, Russia’s Airbase Requests in Cyprus Causes Conflict with U.S.,
greece.greekreporter.com/2013/11/25/russias-airbase-requests-in-cyprus-causes-conflict-with-u-s
25
«UN Security Council Action on Crimea Referendum Blocked», UN News Center, 15/3/2014,
www.un.org/ apps/news/story.asp?NewsID=47362
Diario di Crimea
di Alessandro CASSIERI

I
1. l grigiore stagionale di piazza dell’Indipendenza stavolta scolora
nel tetro. I fuochi e i fumi che la settimana prima, in mondovisione, hanno
consegnato Kiev a una dimensione infernale continuano a sfigurarla. La
macchina non può procedere tra barricate e pile di pneumatici abbrustoliti.
Pioggia sottile e gelata, scenario da Blade runner. L’Hotel Ukrajina,
testimone e protagonista della rivoluzione Majdan 2.0, si raggiunge a piedi.
«Bentornato a Kiev». La voce di Ludmyla come sempre è senza
punteggiatura. Interpretazione a piacere. Adesso vuol dire che il soggiorno
sarà più complicato. Detto da lei, che in questa reception d’albergo
modello Urss ha trascorso almeno la metà dei suoi cinquant’anni, è una
garanzia.
Infatti da Kiev, oggi, fine febbraio dell’anno rivoluzionario 2014, è
difficile anche andarsene. Per lo meno con destinazione Crimea: il nuovo
epicentro del terremoto post-sovietico che con regolarità variabile fa
sussultare i sismografi della geopolitica. «In Crimea non si va», firmato
linee aeree ucraine. Sette aeroporti, compresi i due per il traffico
passeggeri, Simferopoli e Sebastopoli, diventati zona interdetta. La penisola
crimeana, che vuole staccarsi dall’Ucraina, si isola. Si può tentare di
raggiungerla in treno: venti ore di binari e meta incerta. Oppure in auto.
Ma il mese nuovo inizia con notizie pessime. Posti di blocco a ridosso di
Kherson e di tutte le località di confine: il confine tra Ucraina e Crimea.
«Confine come tra Italia e Veneto che vuole indipendenza», dice il
ragazzotto tutto blogosfera che per la terza volta mi porta a Boryspil’,
International airport.
Il volo invece c’è in questa prima domenica di marzo che profuma di
vischiosa avventura. E c’è, all’arrivo, anche la minacciata presenza di
uomini pesantemente armati, col passamontagna, in mimetica e senza
mostrine. Anonimi e inquietanti. Crimeani filorussi, russi delle basi in
Crimea, russi dalla Russia? Tutti si interrogano, nessuno risponde. Lo
domando direttamente a due di questi ninja, prima di muovermi verso la
città. Non rispondono, ma non fanno problemi quando li riprendo con la
telecamera. Segnale interessante. Si sta compiendo qualcosa che non
accetta di entrare in dialettica ma che può essere rappresentato. Può
servire alla causa. Eccome.

2. A piazza Lenin, cuore di Simferopoli, composita capitale di questa


regione eternamente contesa, non è la statua del principe dei rivoluzionari
ad attrarre un paio di centinaia di uomini, donne, ragazze e bambini. Di
fronte al palazzo del governo ci sono una dozzina di altri ninja che si
lasciano fotografare da ogni distanza e posizione. Meritano un selfie
ricordo perché sono loro a permettere il trapianto sui pennoni della piazza.
Via le bandiere gialloblù dell’Ucraina, su quelle biancorossoblù della
Russia. Gli stessi colori della Crimea, la differenza è solo nella larghezza
della banda bianca. Per i pochi etno-ucraini presenti è un’oscenità, più che
un colpo di Stato. «Applaudire questo gesto è uno sfregio alla convivenza
tra popoli fratelli», dice un tipo rivolgendosi al gruppetto compiaciuto per
lo spettacolo. In due cercano di agguantarlo. Sua figlia, una bambina, si
spaventa e scoppia a piangere. È un attimo, ma il furore si rinfodera nel
pudore. L’uomo viene abbracciato e consolato.
La vergogna svuota il pregiudizio. «Russi e ucraini non sono fatti per le
guerre fratricide». Lo dicevano anche durante la rivoluzione arancione del
2004. Ma quella fu una rivolta a metà. «Una specie di discoteca all’aperto
ventiquattr’ore al giorno. Che però ha dato agli ucraini la certezza, per la
prima volta nella storia, di non essere più un corpo passivo. Ma un corpo
capace di cacciare quelli al potere, se non funzionano». Parole di Andrej
Kurkov, penna straordinaria, paragonato a Gogol’. Parlava con divertita
amarezza mentre provava a sciogliere quattro bustine di zucchero in una
tazza di tè. Dieci anni dopo ha ancora più ragione.

3. «Nella lotta tra russi e ucraini le vittime siamo noi». Abduraman


Egiz è giovane, parla inglese e rientra volentieri nel suo ufficio nonostante
sia buio. Per spiegare. I tatari di Crimea hanno una storia straordinaria e
molta sofferenza alle spalle. E lui, che della comunità è il capo del
dipartimento per la Cooperazione internazionale, con una bella sede e una
segretaria devota, guarda al futuro immediato. «Dobbiamo dire no al
referendum per l’annessione della Crimea alla Russia nella maniera più
forte. Boicottando il referendum». L’idea che sia Mosca a governare di
nuovo la Crimea viene vissuta come una iattura. Il ricordo delle
deportazioni ordinate da Stalin è evocato costantemente. Indignazione
velata di reticenza, invece, sull’accusa di collaborazionismo con i nazisti.
Acqua passata.
Intorno alla moschea Kebir-Džami, la più grande della città,
traccheggiano gli anziani. Si parla di referendum e di Russia. Senza patemi.
Il presidente del Tatarstan è appena venuto a rassicurarli sulle intenzioni di
Mosca: più diritti per i tatari rispetto a quelli riconosciuti dall’Ucraina,
non meno.

4. L’azzurro dell’acqua sconfessa per una volta la fama del Mar Nero.
Si paga una manciata di euro e si realizza un sogno. Prendi a noleggio la
barca in tek e te ne vai in giro nella baia di Sebastopoli. Senza controlli
navighi nel sancta sanctorum della Flotta russa del Mar Nero. Incrociatori,
torpediniere, sommergibili a portata di mano, letteralmente. Due unità con
la stella rossa a prua bloccano contro il molo una nave che batte ancora
bandiera ucraina. Quando arrivi troppo sotto, armato di telecamera, un
marinaio armato di mitra ti dice di tornare indietro. Tutto qui. Bizzarria
russa. «Funziona così da qualche anno, per noi è un bel business». Irina, la
bionda padrona della barca, è grata e al tempo stesso infastidita. La
potenza militare, sintetica espressione del prestigio di un paese, non
dovrebbe essere offerta ai turisti, ai giornalisti e alle spie con tanta
leggerezza. Lei è russa e a quei 25 mila soldati della flotta chiede
credibilità prima ancora che vantaggi. Non vede l’ora che arrivi il
referendum, che tornino i russi, che vadano al diavolo quelli di Kiev. Al
voto mancano tre settimane.
Si dice baia ma si deve intendere una sfilza di insenature, con fiordi
inaspettatamente profondi. La costa occidentale della Crimea è una serie di
ricoveri naturali per le navi e i loro cantieri di manutenzione. Da
Sebastopoli all’aeroporto di Bel’bek i chilometri sono pochi. Ma prima del
rettilineo finale posti di blocco e gruppi di autodifesa più agguerriti di
quelli incontrati da Simferopoli impediscono a tutti di proseguire. Senza
spiegazioni. Passamontagna e modi spicci: girare al largo. E quando si
tenta l’aggiramento, dai sentieri fangosi spuntano altri uomini mascherati,
in mimetica, senza insegne. Fucili spianati. Bel’bek è sotto assedio. A
ridosso c’è una base aerea ucraina. Lungo giro e spuntano, oltre un muro,
sopra una collina, una ventina di soldati di guardia. Elmetti e kalashnikov.
«Siamo italiani», urlo. Rispondono col saluto romano. Poi ridono e
indicano come raggiungere l’ingresso della caserma. Davanti e dietro il
cancello socchiuso giovani mogli con i bambini in carrozzina scherzano
con i mariti assediati. Altre, dentro la caserma, si ristorano con il tè caldo
sotto una tenda arancione. Piove e fa freddo. Il comandante della base
poche ore prima è andato a mani nude di fronte ai miliziani filorussi
rivendicando l’accesso all’aeroporto. Un ninja ha sparato in aria, dieci
secondi di trambusto, poi il comandante e il capopattuglia hanno avviato
un negoziato. «La trattativa è a buon punto. Loro hanno autorizzato un
certo numero di uomini a entrare per portare via le nostre armi e le
apparecchiature. Noi chiediamo che il numero degli uomini sia maggiore.
Sono ottimista». Il mondo intero sta guardando a Bel’bek come alla
possibile scintilla che inneschi la terza guerra mondiale e il colonnello Julij
Mamčur spazza via l’aria: «Qui nessuno ha voglia di spararsi addosso».
5. Se deve essere guerra fredda, e pochi ne dubitano, quella che riparte
dalla Crimea ha già il suo check-point Charlie. All’estremo opposto
rispetto a Sebastopoli, sullo Stretto di Kerč. Stretto davvero, poco più di
quattro chilometri. Dove il Mar Nero si mescola con le acque del Mare di
Azov e dove, in una giornata nitida come questa, la Russia è proprio vicina.
Tanto vicina che da qui continuano ad arrivare i rinforzi. La radio
annuncia che il nuovo governo filorusso a Simferopoli ha appena deciso di
anticipare il referendum. Non più il 30 marzo ma il 16. Qualche blindato e
una ventina di camion sono appena sbarcati. Sul molo solo poche macchine
e un paio di furgoni in attesa di partire. In compenso c’è un motel con tre
stanze e buffet proprio sul porto. La scintillante biglietteria in vetro, divisa
a metà, mi incuriosisce. Traghetti per la Russia da una parte, navi di una
società russa di trasporto marittimo per Kerč dall’altra. Con ingressi
separati. E missioni diverse. Lì depliant, informazioni su orari e tariffe, qui
nessuna informazione. «Non facciamo traffico passeggeri», è tutto quello
che una hostess russa in divisa grigia e minigonna d’ordinanza si autorizza
a dire. E nessuno è autorizzato a fotografare o a riprendere alcunché. I
soliti ninja sono più ruvidi e sbrigativi. Vogliono vedere le immagini che ho
girato. Forse turistiche, forse no. Nel dubbio ordinano di andare via.
Nessuna meraviglia, per Mosca il punto strategico sullo scacchiere
crimeano è Kerč.
«Da qui i soldati ci fecero salire sul treno blindato che ci portò prima in
Russia e poi in Kazakistan. Era il 29 gennaio del 1942 e io festeggiavo il
mio settimo compleanno». Natale De Martino è uno dei superstiti della
deportazione degli italiani di Crimea. Tutti considerati fascisti. Adesso si
affaccia sul porto cittadino di Kerč e ripensa alla beffa di quella giornata
iniziata con i preparativi della festa. Parla della condizione sua e di circa
trecento italiani e discendenti di italiani. Di quanto sarebbe utile per la
casa, la pensione, i farmaci avere lo status di deportato che anche tedeschi
e armeni hanno ottenuto. Finora tra Roma e Kiev non si è trovata l’intesa.
Forse anche per questo, alla vigilia del referendum, il ritorno della Crimea
sotto l’autorità di Mosca non preoccupa più di tanto De Martino. Che a un
soffio dagli ottant’anni continua a insegnare matematica alla scuola n. 14
di Kerč.

6. La notizia arriva presto la mattina ed è sorprendente. A cinque giorni


dal referendum il parlamento della Repubblica Autonoma di Crimea vota
per l’indipendenza dall’Ucraina. Pressoché all’unanimità, ovviamente.
Scherzo o provocazione? Il teatro mediatico, organizzato intorno al brutto
edificio presidiato da un manipolo di vecchi cosacchi su via Marx, è in
fermento. Le cancellerie occidentali, già alle prese con le sanzioni contro la
Russia, sotto pressione. Gli 81 deputati dopo il voto sembrano essersi
dissolti. Usciti dalle porte secondarie e filati via in macchina. Tranne uno,
Iov Grigor’ev. È il primo vicepresidente dell’assemblea parlamentare.
Spiega che sono state fatte tante votazioni durante la seduta: sul budget, sui
diritti linguistici dei tatari… e anche sul referendum. «Un voto che lo
legalizza. Un voto importante, ma le votazioni più importanti verranno
dopo il risultato». Una promessa. Per la maggioranza russa.
«Non aspetto il risultato, parto domani, non so ancora per dove ma qui
non ci resto. Intanto vado da mia sorella, a Kiev». Viktorija usa Internet per
raccontare la sua paura. E siccome è una giovane giornalista televisiva la
sua storia, a due giorni dal voto, diventa «la storia» per i media stranieri.
Viktorija Puliščuk è venuta otto anni fa in Crimea, dall’Ucraina. Un buon
contratto per curare la parte in lingua ucraina dei programmi della
KrimTV. Anche qualche spazio in video nelle rubriche del mattino. Poi
sempre di meno. «Da un anno è stata ridotta la durata dei programmi in
lingua ucraina. E da qualche mese sento la pressione dei russofoni sui
dirigenti della televisione. Ho deciso di andarmene dalla Crimea». Se ne va
dopo che due canali ucraini sono stati oscurati, 5 Kanal e 1+1. Pessimo
indicatore sullo stato di salute della democrazia crimeana. «Ma hanno fatto
bene a chiuderli fino al referendum. Non era informazione, era pura e
semplice propaganda». Kazbek fa zapping e Svetlana e Oleh gli danno
ragione. È una famiglia come molte in Crimea. Lei russa, laureata e
disoccupata. Lui capomastro ucraino, Kazbek che lavora in Ossezia. Idee
diverse che hanno un punto di sintesi. «Questa terra era russa da secoli,
tornerà russa. Per i russi sarà una festa ma per gli ucraini non sarà un
dramma».
Nella piccola hall del poco imperiale Hotel Imperial il maxischermo
Samsung è sintonizzato su Btb, canale finanziato dalla Banca centrale
ucraina. All’inizio del telegiornale i conduttori leggono slogan filoucraini,
alla fine, tutti insieme, in piedi, gridano «Slava Ukrajini!», gloria
all’Ucraina. Il ragazzo della security guarda e non batte ciglio.

7. Tra una banca che non dà più euro e una pizzeria che si chiama
Celentano quattro ragazzi con la bandiera russa al collo suonano Smoke
on the water. E la versione crimeana dei Deep Purple piace parecchio.
Mamme e babuške ballano con figli e nipoti. E soprattutto applaudono
quando il cantante manda in saturazione l’impianto urlando «Rossija,
Rossija!». Propaganda a presa rapida. A parte la scritta su un muro di
Jalta contro Janukovyč, la campagna per il referendum è tutta tv e comizi e
agit-prop di strada. Poi ci sono le intimidazioni. Vernice nera sul portone
della sinagoga di Simferopoli. Minacce agli ebrei e una svastica per firma.
Mikhail Kapustin prima ridipinge il portone grigio e poi prepara gli
scatoloni. «Sono costretto a lasciare la Crimea. Non credo di essere
diventato paranoico, qui il clima per noi si è fatto pesante». Kapustin è il
rabbino di Simferopoli, ha una quarantina d’anni e una famiglia
terrorizzata. «Questa è storicamente una terra di persecuzione per gli ebrei.
Adesso ci sono i rigurgiti nazisti e la nostalgia per i tempi sovietici,
insieme. È come se una tenaglia si stringesse intorno agli ebrei». Fuori la
grande menorà appoggiata su un muro scrostato. Dentro corridoi bui, sedie
rovesciate, stanze vuote. Nel suo ufficio, tra quadri e libri imballati, il
rabbino invia mail con allegata la foto del portone profanato. La prova
dell’ultima intimidazione.
Eppure gli ebrei nella Russia putiniana sono tutelati più di altre
minoranze. Il rabbino di tutte le Russie, Berl Lazar, è sempre presente ai
grandi eventi al Cremlino. Era lui che in un buon italiano, una decina di
anni fa, mi esprimeva la sorpresa per la scelta di tanti ebrei russi che da
Israele tornavano per andare in quella inospitale terra promessa
ultrasiberiana che è la Repubblica autonoma ebraica del Birobidžan. «Si,
ma il rabbino Lazar sta a Mosca, qui siamo tra Russia e Ucraina. Altro
territorio, altri problemi», risponde secco Kapustin. Che come prima tappa
della sua fuga dalla Crimea ha scelto Kiev.

8. Si prepara il palco per la festa che sarà. Che il referendum passi non
c’è dubbio. «Bye bye Kiev!»: quattro studentesse sorridono facendo la «V»
con le dita. Intanto sul vecchio carro armato sovietico, con tanto di
piedistallo in pietra davanti al parlamento, hanno aggiunto una bandiera
rossa. Falce-e-martello resuscita su qualche vessillo anche nei comizi.
Tirati giù dalla soffitta hanno una funzione esorcistica più che un valore
ideologico. L’esorcismo è contro il fascismo ucraino di ritorno in certi
settori della politica a Kiev. Pagina poco approfondita altrove, la storia dei
nazionalisti di Stepan Bandera, bande di collaborazionisti filohitleriani
esaltati dal mito della razza pura, ha segnato uno spartiacque. «Lei è
italiano. Avete avuto Mussolini, avete dovuto subire il fascismo, un duce.
Noi non vogliamo che arrivino in Crimea i nipoti di Bandera».
Il concetto viene riproposto da un angolo all’altro della penisola, da
giovani e vecchi. Però alla domanda, secca come un quiz, perché la Russia
sia meglio dell’Ucraina come casa-madre dei crimeani, la risposta è anche
un’altra. «Intanto perché in Russia c’è meno corruzione. E poi ha visto
Soči, ha visto che premi e che stipendi per gli atleti russi, anche per quelli
disabili? La Russia garantisce un benessere che l’Ucraina non ci ha mai
dato». Duemila hryvni, centocinquanta euro al mese lo stipendio medio: un
terzo in meno che a Kiev.
«Ma cosa vuole che succeda a partire da lunedì. Il voto dirà che
vogliamo stare con la Russia, visto che la Russia è da secoli la nostra
patria. Tutto qui». Tutto qui per Jurij Meškov, separatista da sempre, primo
e unico presidente della Crimea, a metà degli anni Novanta, dopo il trattato
con Kiev per l’autonomia della regione. Autonomia poco riconosciuta nella
pratica. E questo è benzina nel motore dei filorussi.

9. Domenica a metà giornata ha già votato, ufficialmente, più del 50%


degli elettori. Giro tra i seggi della capitale. Nessuna fila ma l’affluenza è
consistente quasi ovunque. Interrogo una decina di persone che hanno
appena messo la scheda nell’urna trasparente. Nove sono russi, uno
ucraino. Ad Ak-Mečet’, il quartiere tataro nella città vecchia, i votanti sono
pochissimi. Il boicottaggio si vede. Sommando tatari e ucraini dovrebbe
mancare almeno il 30% dei voti.
Ma già un paio d’ore dopo la chiusura dei seggi Aksënov e
Konstantinov, i «gemelli» del nuovo corso politico a Simferopoli,
annunciano lo score: quasi il 97% di sì all’adesione alla Russia, con l’83%
degli aventi diritto che hanno votato. Caroselli di auto per le strade del
centro, bandiere crimeane e russe. A piazza Lenin è festa grande. Decine di
migliaia a seguire il concerto rock che dal palco diffonde nostalgia russa
senza risparmio di decibel.

10. Lunedì succede tutto rapidamente. Molto più di quanto lasciasse


intendere l’ex presidente Meškov. Aveva ragione Grigor’ev, votazioni
davvero importanti. A raffica. In una parola: russificazione. Cambia il fuso
orario della Crimea: dal 30 marzo non più un’ora avanti rispetto a
Bruxelles e Roma, come Kiev, ma tre ore, come Mosca. Cambio della
valuta: dal 1° aprile pensioni e stipendi dei dipendenti pubblici verranno
pagati in rubli. La hryvnja affiancherà il rublo fino al 31 dicembre 2015,
poi sarà considerata come una moneta straniera, da cambiare in banca.
Ma è nei giorni successivi che l’adesione della Crimea alla Russia si
modella anche plasticamente. Con l’annuncio del Cremlino sul
completamento entro quest’anno del progetto per la costruzione del ponte
sullo Stretto di Kerč. Un braccio di ferro e cemento che aggancerà la
Crimea all’impero come mai prima nella storia. Per diventare la Florida
dei futuri pensionati russi.
Da qui la storia ricomincia. Tra Est e Ovest. Con in mezzo il destino
dell’Ucraina. Tassello pregiato lungo la cerniera che dal Baltico al Mar
Nero unisce o divide due piattaforme geopolitiche. Archiviata la
ricollocazione della Crimea, è in ballo l’integrità territoriale del resto
dell’Ucraina. Niente affatto scontata. Una divisione è inconcepibile a Kiev,
viene temuta dall’Occidente e probabilmente non interessa nemmeno alla
Russia, che per la prima volta in mille anni vedrebbe definitivamente persa
la sua «fonte battesimale», la città di Kiev. Eppure la frattura è possibile.
Se a Kiev, da qui alle presidenziali, non si profileranno figure capaci di
esercitare una governance equilibrata che garantisca le regioni orientali. A
Luhans’k, Donec’k, Kharkiv la miccia della protesta è accesa e la sua
velocità di combustione, o il suo spegnimento, è nella piena disponibilità di
Putin. Che non ha bisogno di far sconfinare i suoi carri armati per tenere
sotto la massima pressione i protagonisti del dopo-Majdan. Varate le
sanzioni alla Russia, tocca all’Europa, prima ancora che agli Stati Uniti, il
compito di aiutare la nuova leadership ucraina a non trasformare la fine di
un regime nella fine dell’unità di un paese.
L’UCRAINA TRA NOI E PUTIN

Parte II

Dove arriva la Russia?


‘LA CRIMEA È RUSSIA’
Estratti del discorso pronunciato dal presidente della Federazione
Russa il 18 marzo 2014 al Cremlino, in occasione della cerimonia
che ha sancito ufficialmente la secessione della Repubblica di
Crimea dall’Ucraina e la sua annessione alla Federazione Russa.
di Vladimir Vladimirovič PUTIN

Membri del Consiglio della Federazione, deputati della Duma, buon


pomeriggio. Alcuni rappresentanti della Repubblica di Crimea e di
Sebastopoli sono qui tra noi, cittadini della Russia, abitanti della Crimea e
di Sebastopoli!
Cari amici, siamo qui riuniti oggi in virtù di una questione di vitale,
storica importanza per tutti noi. Il 16 marzo si è tenuto un referendum in
Crimea nel pieno rispetto dei meccanismi democratici e delle norme
internazionali. Più dell’82% degli aventi diritto ha preso parte al voto. Di
questi, oltre il 96% si è espresso a favore della riunificazione con la Russia.
Questi numeri parlano da soli.
Per capire le ragioni dietro questa scelta è sufficiente conoscere la storia
della Crimea e ciò che la Russia e la Crimea hanno sempre rappresentato
l’una per l’altra. Tutto in Crimea ricorda la storia e l’orgoglio che
condividiamo. Là sorge l’antica Kherson, dove il principe Vladimir fu
battezzato. La sua opera spirituale di conversione all’ortodossia pose le
fondamenta della cultura, della civiltà, dei valori umani che uniscono i
popoli di Russia, Ucraina e Bielorussia. In Crimea si trovano anche le
tombe dei soldati russi il cui coraggio portò la Crimea nell’impero russo.
C’è pure Sebastopoli, una città leggendaria con una straordinaria storia, una
fortezza che rappresenta la culla della flotta russa del Mar Nero. La Crimea
è Balaklava e Kerč, il Malakhov Kurgan e il monte Sapun. Ognuno di
questi luoghi è caro ai nostri cuori: simboleggia la gloria militare e
l’incredibile valore dei russi.
La Crimea è una combinazione unica di popoli, culture e tradizioni
diverse. In questo è simile alla Russia, dove nel corso dei secoli non un solo
gruppo etnico è scomparso. Russi e ucraini, tatari della Crimea e genti
appartenenti ad altri gruppi etnici hanno vissuto fianco a fianco in Crimea
conservando la loro identità, le loro tradizioni, le loro lingue e le loro
confessioni. Per inciso, oggi la popolazione totale della penisola della
Crimea è di 2,2 milioni di persone, di cui circa un milione e mezzo russi,
350 mila ucraini che per la maggior parte considerano il russo la loro lingua
madre e circa 290-300 mila tatari della Crimea, che pure, come il
referendum ha mostrato, si volgono alla Russia.
Vero, vi fu un tempo in cui i tatari della Crimea ricevettero un
trattamento ingiusto, così come altri popoli dell’Urss. Solo una cosa posso
dire oggi: milioni di persone di varie etnie soffrirono durante quelle
repressioni, primi fra tutti i russi. I tatari della Crimea sono tornati alla loro
terra natia. Credo che dovremmo intraprendere tutte le necessarie misure
politiche e normative per completare la riabilitazione dei tatari della
Crimea, restituire i loro diritti e ripristinare la loro reputazione. Abbiamo un
grande rispetto per le genti di tutte le etnie che vivono in Crimea. È la loro
casa comune, la loro madrepatria e sarebbe giusto – so che i locali sono
d’accordo – che la Crimea avesse tre lingue nazionali paritarie: il russo,
l’ucraino e il tataro.
Nei cuori e nelle menti delle persone, la Crimea è sempre stata una parte
inscindibile della Russia. Questa ferma convinzione si basa sulla verità e
sulla giustizia ed è stata trasmessa di generazione in generazione, in ogni
circostanza, nonostante tutti i drammatici cambiamenti che il nostro paese
ha attraversato nel corso del XX secolo.
Dopo la rivoluzione, i bolscevichi, per una serie di ragioni – sta a Dio
giudicarli – aggiunsero alla Repubblica d’Ucraina ampie parti della storica
regione della Russia meridionale. Questo fu fatto senza considerare il
profilo etnico delle popolazioni e oggi queste aree formano l’Ucraina
sudorientale. In seguito, nel 1954, fu presa la decisione di trasferire
all’Ucraina la regione della Crimea, assieme a Sebastopoli, nonostante
quest’ultima fosse una città federale. Si trattò di un’iniziativa personale del
capo del Partito comunista Nikita Khruščëv. Stabilire quali furono le
motivazioni dietro a questa decisione – la volontà di guadagnare il sostegno
dell’establishment politico ucraino o di far ammenda per le repressioni di
massa degli anni Trenta in Ucraina – è compito degli storici.
Quello che oggi conta è che questa decisione costituì una chiara
violazione delle norme costituzionali in vigore all’epoca. La decisione fu
presa dietro le quinte. Naturalmente, in uno Stato totalitario nessuno si
prese il disturbo di consultare i cittadini della Crimea e di Sebastopoli. Si
trovarono di fronte al fatto compiuto. La gente, ovviamente, si chiese
perché tutto d’un tratto la Crimea fosse diventata parte dell’Ucraina. Ma in
generale – e dobbiamo dirlo chiaramente, lo sappiamo tutti – la decisione fu
trattata come una formalità, dal momento che il territorio veniva trasferito
all’interno dei confini di uno Stato unitario. All’epoca, era impossibile
immaginare che l’Ucraina e la Russia potessero separarsi e diventare due
Stati diversi. Tuttavia è successo.
Sfortunatamente, quello che sembrava impossibile divenne realtà.
L’Urss crollò. I fatti si succedettero così rapidamente che in pochi
realizzarono quanto drammatici questi eventi e le loro conseguenze si
sarebbero dimostrati. In molti, sia in Russia sia in Ucraina, così come nelle
altre repubbliche, sperarono che la neonata Comunità degli Stati
Indipendenti potesse rivelarsi una nuova forma di Stato comune. Si disse
che essa avrebbe condiviso la valuta, lo spazio economico, le Forze armate;
tuttavia, le promesse non furono mantenute, mentre il grande Stato
scompariva. È solo nel momento in cui ci si accorse che la Crimea era finita
in un paese diverso che la Russia realizzò di non essere stata semplicemente
derubata, ma saccheggiata.
Allo stesso tempo, dobbiamo ammettere che, facendosi paladina della
sovranità, la Russia stessa agevolò il crollo dell’Unione Sovietica. E mentre
si ufficializzava il crollo, ci si dimenticò della Crimea e di Sebastopoli – la
base più importante della flotta del Mar Nero. Milioni di persone si
addormentarono in uno Stato e si risvegliarono in un altro, diventando dal
giorno alla notte minoranze etniche nelle ex repubbliche dell’Unione,
mentre la nazione russa diventava una delle maggiori, se non la più grande
diaspora del mondo.
Oggi, molti anni dopo, sento gli abitanti della Crimea affermare che nel
1991 furono ceduti come un sacco di patate. Difficile dar loro torto. E lo
Stato russo? E la Russia? Accettò umilmente la situazione. Il paese stava
attraversando tempi così difficili da non essere in grado di proteggere i
propri interessi. Tuttavia, la gente non si è potuta riconciliare con questo
oltraggioso torto storico. In tutti questi anni, i cittadini e molte figure
pubbliche sono tornati sull’argomento, affermando che la Crimea è
storicamente un territorio russo e Sebastopoli una città russa. Sì, lo
sapevamo tutti, ma dovevamo venire a patti con la realtà dei fatti e costruire
su nuove basi un rapporto di buon vicinato con l’Ucraina indipendente. Nel
frattempo, le nostre relazioni con l’Ucraina, con il popolo ucraino fratello,
sono sempre rimaste di primaria importanza per noi e tali resteranno. (…)
Capisco coloro che si sono radunati a Majdan con slogan pacifici contro
la corruzione, l’inefficienza della gestione dello Stato e la povertà. Il diritto
alla pacifica protesta, a meccanismi democratici e alle elezioni esiste per un
unico scopo: sostituire le autorità che non soddisfano la popolazione.
Tuttavia, i responsabili dei recenti eventi in Ucraina avevano scopi diversi:
(…) intendevano prendere il potere e non si sarebbero fermati di fronte a
nulla. Hanno fatto ricorso al terrore, all’assassinio, alla sommossa. Questo
colpo di Stato è opera di nazionalisti, neonazisti, russofobi e antisemiti, che
continuano a dettare l’agenda in Ucraina. (…)
Al momento, in Ucraina non c’è nessuna legittima autorità esecutiva,
nessuno con cui parlare. Diverse agenzie governative sono state conquistate
da impostori che non hanno alcun controllo del paese, mentre essi stessi –
voglio sottolinearlo – sono sovente controllati dai radicali. Spesso, per
incontrare alcuni ministri dell’attuale governo c’è bisogno di un permesso
speciale dei militanti di Majdan. Non è uno scherzo, è la realtà.
Quanti si opponevano al colpo di Stato sono stati subito minacciati con
la repressione. Naturalmente, in prima linea c’era la Crimea, la Crimea
russofona. In questo contesto, gli abitanti della Crimea e di Sebastopoli si
sono rivolti alla Russia perché li aiutasse nella difesa dei loro diritti e delle
loro vite, per prevenire gli eventi che si stavano e si stanno succedendo a
Kiev, Donec’k, Kharkiv e in altre città ucraine. Ovviamente, non potevamo
non ascoltare questo appello; non potevamo abbandonare la Crimea e i suoi
abitanti. Si sarebbe trattato di tradimento. (…)
Tuttavia, cosa dicono i nostri colleghi in Europa occidentale e in
Nordamerica? Dicono che stiamo violando le norme del diritto
internazionale. (…) Cosa stiamo violando esattamente? Vero, il presidente
della Federazione Russa ha ricevuto il permesso dalla Camera alta del
parlamento di impiegare le Forze armate in Ucraina. Tuttavia, a voler essere
precisi, nessuno ha ancora adoperato quel permesso. Le Forze armate russe
non sono mai entrate in Crimea; erano già là, nel rispetto di un accordo
internazionale. Vero, abbiamo incrementato il nostro contingente laggiù, ma
– voglio che tutti ascoltino e capiscano – non abbiamo oltrepassato il limite
delle nostre Forze armate in Crimea, fissato a 25 mila uomini, perché non
ce n’era bisogno.
Poi. Dichiarando l’indipendenza e decidendo di organizzare un
referendum, il Consiglio supremo della Crimea ha fatto riferimento alla
Carta delle Nazioni Unite, che riconosce il diritto all’autodeterminazione
delle nazioni. Per inciso, vorrei ricordare che l’Ucraina adoperò gli stessi
argomenti quando si staccò dall’Urss, quasi parola per parola. L’Ucraina
poté godere di questo diritto, ma agli abitanti della Crimea non è concesso.
Perché?
Inoltre, le autorità della Crimea hanno fatto riferimento al famoso
precedente del Kosovo – un precedente creato con le loro stesse mani dai
nostri colleghi occidentali in una situazione molto simile, quando
concessero che la separazione unilaterale del Kosovo dalla Serbia –
esattamente ciò che la Crimea sta facendo ora – fosse legittima e non
richiedesse alcun permesso dalle autorità centrali dello Stato. Applicando
l’articolo 2 del primo capitolo della Carta della Nazioni Unite, la Corte
internazionale dell’Onu ha confermato questo approccio e ha fatto il
seguente commento nella sentenza del 22 luglio 2010. Cito: «Dalla prassi
del Consiglio di Sicurezza non si può inferire alcun divieto generale
riguardo alle dichiarazioni d’indipendenza». Chiarissimo. Non mi piace
ricorrere alle citazioni, ma in questo caso non posso farne a meno. Ecco una
citazione da un altro documento ufficiale: la dichiarazione scritta degli Stati
Uniti d’America del 17 aprile 2009, sottoposta alla stessa Corte
internazionale in occasione delle audizioni sul Kosovo. Cito ancora: «Le
dichiarazioni d’indipendenza possono, come spesso accade, violare la
legislazione domestica. Tuttavia, ciò non le rende violazioni del diritto
internazionale». (…)
La situazione in Ucraina riflette come uno specchio quanto successo e
quanto sta succedendo nel mondo negli ultimi decenni. Scomparso il mondo
bipolare, non c’è più stabilità. Le istituzioni internazionali più importanti
non si stanno rafforzando; al contrario, in molti casi conoscono un triste
declino. I nostri partner occidentali, capeggiati dagli Stati Uniti d’America,
preferiscono farsi guidare nelle loro pratiche politiche non dal diritto
internazionale, ma dalla legge del cannone. Sono arrivati a credere, nella
loro esclusività e nel loro eccezionalismo, di poter decidere i destini del
mondo e di essere gli unici ad aver sempre ragione. Agiscono a loro
piacimento: usano la forza contro Stati sovrani a destra e a manca,
costruiscono coalizioni basate sul principio «con noi o contro di noi». Per
dare una parvenza di legittimità alle loro aggressioni, estorcono con la forza
le necessarie risoluzioni alle organizzazioni internazionali, e se per qualche
motivo non ci riescono, semplicemente ignorano il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu e l’istituzione in generale.
È accaduto in Jugoslavia: ricordiamo bene il 1999. Mi fu difficile
credere ai miei stessi occhi: alla fine del XX secolo una delle capitali
d’Europa, Belgrado, fu colpita per diverse settimane da un attacco
missilistico, cui seguì un vero e proprio intervento. A legittimare queste
azioni era una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu?
Nient’affatto. In seguito, hanno colpito l’Afghanistan e l’Iraq e hanno
platealmente violato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla
Libia, dove invece di imporre la cosiddetta no-fly zone hanno iniziato a
bombardare.
C’è stata una serie di rivoluzioni «colorate» controllate. I popoli delle
nazioni in cui questi eventi avevano luogo erano chiaramente stanchi della
tirannia, della povertà e della mancanza di prospettive; ma questi impulsi
sono stati cinicamente sfruttati. A queste nazioni sono stati imposti standard
che non corrispondevano in alcun modo al loro stile di vita, alle loro
tradizioni, alle culture di quei popoli. I risultati, invece della democrazia e
della libertà, sono stati il caos, le esplosioni di violenza e diverse
insurrezioni. La primavera araba si è trasformata in inverno arabo. (…)
Oggi è d’obbligo (…) respingere la retorica della guerra fredda e
accettare un dato di fatto: la Russia prende parte in modo attivo e
indipendente agli affari internazionali; al pari di altri paesi, ha i suoi
interessi nazionali che devono essere presi in considerazione e rispettati.
Al tempo stesso, siamo grati a tutti coloro che comprendono le nostre
azioni in Crimea; siamo grati al popolo cinese, i cui leader hanno sempre
affrontato la situazione in Ucraina e in Crimea prendendo in considerazione
il contesto storico e politico; e apprezziamo molto il riserbo e l’obiettività
dell’India.
Oggi vorrei rivolgermi al popolo degli Stati Uniti d’America, il popolo
che, sin dalla fondazione della propria nazione e dall’adozione della
dichiarazione d’indipendenza, si è fatto vanto di considerare la libertà al di
sopra di tutto. Il desiderio degli abitanti della Crimea di disporre
liberamente del loro destino non risponde a quel valore? Vi prego di capirci.
Credo che gli europei, e primi fra tutti i tedeschi, mi capiranno.
Lasciatemi ricordare che nel corso delle consultazioni politiche
sull’unificazione della Germania dell’Est e di quella dell’Ovest (…) alcune
nazioni che erano e sono tuttora alleate alla Germania non sostenevano
l’idea dell’unificazione. La nostra nazione, tuttavia, ha supportato senza
indugi la sincera e inarrestabile aspirazione dei tedeschi all’unità nazionale.
Sono convinto che non l’abbiate dimenticato e mi aspetto che i cittadini
della Germania sostengano le aspirazioni dei russi, della Russia storica al
ripristino dell’unità.
Voglio anche rivolgermi al popolo ucraino. Voglio sinceramente che ci
capiate: non vogliamo assolutamente arrecarvi un danno o ferire la vostra
sensibilità nazionale. Abbiamo sempre rispettato l’integrità territoriale dello
Stato ucraino, a differenza, per inciso, di coloro che hanno sacrificato
l’unità ucraina ad ambizioni politiche particolari. Quelli che scandiscono
slogan sulla grandezza dell’Ucraina sono gli stessi che hanno fatto di tutto
per dividere la nazione. L’attuale stallo pesa interamente sulle loro
coscienze. Voglio che mi ascoltate, miei cari amici. Non credete a coloro
che vogliono farvi aver paura della Russia, paventando che altre regioni
seguiranno la Crimea. Non vogliamo dividere l’Ucraina; non ne abbiamo
bisogno. (…)
Ho sentito dichiarazioni da Kiev sull’imminente ingresso dell’Ucraina
nella Nato. Cosa avrebbe significato questo per la Crimea e per
Sebastopoli? Che la Marina della Nato si sarebbe installata proprio là, nella
città della gloria militare russa, portando una minaccia non potenziale, ma
pienamente attuale all’intera Russia meridionale. Questo scenario si sarebbe
potuto avverare, non fosse stato per la scelta del popolo della Crimea e vi
voglio ringraziare per questo. Non abbiamo nulla in contrario a una
cooperazione con la Nato. Ma la Nato resta un’alleanza militare e non
intendiamo vederla acquartierata proprio nel nostro cortile di casa, in un
nostro territorio storico. Non potrei assolutamente immaginare di andare a
Sebastopoli per rendere visita ai marinai della Nato. Certo, molti di loro
sono dei meravigliosi ragazzi, ma sarebbe meglio che loro fossero nostri
ospiti, non il contrario. (…)
Milioni di russi e di russofoni abitano in Ucraina e continueranno a
farlo. La Russia difenderà sempre i loro interessi facendo ricorso a mezzi
politici, diplomatici e legali. Tuttavia la piena protezione dei diritti e degli
interessi di queste persone dovrebbe essere per prima cosa nell’interesse
ucraino. Questa è la garanzia della stabilità dello Stato ucraino e della sua
integrità territoriale. (…)
Abitanti della Crimea e della città di Sebastopoli, la Russia intera
ammira il vostro coraggio, la vostra dignità, la vostra audacia. Siete stati voi
a decidere il futuro della Crimea. Da parte nostra, non vi siamo mai stati
così vicini come in questi giorni. (…) Ora, dobbiamo mantenere questa
unione per risolvere le sfide che il nostro paese è chiamato a fronteggiare.
(…)

Membri del Consiglio della Federazione, deputati della Duma, cittadini


della Russia, abitanti della Crimea e di Sebastopoli. Oggi, nel rispetto della
volontà popolare, sottopongo all’Assemblea federale la richiesta di
esaminare una legge costituzionale sulla creazione di due nuove entità in
seno alla Federazione Russa, la Repubblica di Crimea e la città di
Sebastopoli, e di ratificare il trattato sull’ammissione della Crimea e di
Sebastopoli alla Federazione Russa, già pronto per essere firmato. Sono
sicuro del vostro sostegno.

(traduzione dall’inglese di Federico Petroni)


PROMEMORIA PER L’OCCIDENTE: LA
RUSSIA È TORNATA
L’annessione della Crimea è irreversibile, e corregge un tragico
errore storico. Invece di gridare allo scandalo, Usa e Ue prendano
atto che l’utopia di Helsinki è tramontata, insieme alla supremazia
statunitense. Le sanzioni mordono, ma Mosca guarda ad est.
di Fëdor LUK’JANOV

I
1. l referendum in Crimea ha posto fine a un’èra durata oltre un quarto
di secolo, le cui origini affondano nelle azioni del segretario generale del
Comitato centrale del Partito comunista sovietico Mikhail Gorbačëv tra il
1988 e il 1989. Questi venticinque anni hanno registrato diversi attriti tra
Russia e Occidente, che sono andati crescendo di frequenza e intensità:
Caucaso, Jugoslavia, Iraq, rivoluzioni colorate, Georgia, primavere arabe.
Tuttavia, il bisogno di minimizzare i danni alle relazioni con Europa e Stati
Uniti ha orientato costantemente la postura del Cremlino. Persino il
conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008, ad oggi il maggiore di questo
travagliato periodo, è stato accompagnato da sforzi politici e diplomatici
miranti a smorzare le tensioni e a raggiungere qualche forma di accordo.
Finora la politica estera russa si è dunque mossa nel solco tracciato da
Gorbačëv, che considerava i rapporti con l’Occidente preziosi per lo
sviluppo della Russia.
Quella stagione è tramontata. Ora la Russia non si cura più dei possibili
danni alle sue relazioni con l’Occidente, che rischiano di essere seriamente
compromessi.
La crisi ucraina è lungi dal concludersi e non vi sono segnali di dialogo.
Eppure è tempo di valutare le circostanze a mente fredda, onde minimizzare
i rischi di escalation. La decisione russa sulla Crimea è irreversibile: è
un’illusione sperare altrimenti. Senza dubbio, la volontà politica del
Cremlino conta sul vasto sostegno dell’opinione pubblica russa e di quella
della penisola. Dal collasso dell’Urss, vi è stata la convinzione – sia in
Crimea che in Russia – che l’inclusione di questo territorio entro i confini
ucraini fosse un accidente storico, un malinteso e un’ingiustizia. Il fatto che,
stando a un sondaggio condotto nel 2013, poco più del 40% degli abitanti
della Crimea sostenesse l’annessione alla Russia (chi contesta i risultati del
referendum sottolinea questo dato) non importa granché. Nessuno avrebbe
potuto immaginare che un simile esito fosse possibile, ma a marzo i
cittadini sono stati chiamati a scegliere il loro destino e lo hanno fatto in
modo inequivocabile.
Il ritorno della Crimea alla Russia è stato possibile solo perché
l’Ucraina ha cominciato a disgregarsi dall’interno. Ancora a metà febbraio
un siffatto scenario era imprevedibile, pertanto è risibile parlare di
predeterminazione. Una volta avviata la catena degli eventi, però, era
difficile resistere alla tentazione di correggere quel macroscopico errore
storico. Comprensibilmente, Vladimir Putin non voleva essere ricordato
come il presidente che si era lasciato sfuggire l’occasione di recuperare un
territorio di così grande importanza culturale, politica e strategica per la
Russia. Un ipotetico annullamento della decisione di annettere la Crimea
sarebbe equivalso a un disastro politico e morale per la dirigenza russa: un
vero e proprio incubo.

2. All’indomani dell’annessione è partita la macchina delle sanzioni, ma


queste rischiano di avere un effetto contrario a quello previsto da
Washington e dalle capitali europee. Sarebbe infatti ingenuo credere che la
pressione economico-finanziaria esercitata su paesi come Jugoslavia, Iraq o
Myanmar funzioni nel caso di una superpotenza nucleare che occupa gran
parte dell’Eurasia ed esercita una forte influenza nel mondo. Anche perché,
a ben vedere, non ha funzionato nemmeno negli altri casi. Gli esperti russi
non hanno dubbi sul fatto che Stati Uniti ed Europa possano infliggere seri
danni all’economia nazionale. Il blocco dei sistemi Visa e MasterCard è
stata una chiara dimostrazione in tal senso. Va da sé che nel valutare se
annettere o meno la Crimea, il Cremlino ha considerato il possibile prezzo
da pagare, dunque le ritorsioni occidentali non hanno sorpreso nessuno.
Anzi, esse non fanno che rafforzare l’establishment russo, cementando la
sua determinazione a tenere il punto. Per non parlare dell’assurdità di
alcune misure, come aggiungere alla «lista nera» il ministro della Difesa
russo, una delle persone da cui dipende in ultima analisi la stabilità globale.
Al momento, con grande sollievo di Kiev e dell’Occidente, ulteriori
operazioni russe sul territorio ucraino non sembrano in agenda. Mosca
comprende la differenza tra i sentimenti della Crimea e l’atmosfera
prevalente nell’Est e nel Sud dell’Ucraina. Gli abitanti di queste aree sono
leali alla Russia e hanno buone ragioni per mantenere saldi legami con essa,
ma fra di loro non vi è la stessa unanimità che si registra in Crimea. Non vi
è una chiara linea che separi le regioni filorusse dalle altre, data
l’eterogeneità dell’Ucraina.
Vi è solo un caso in cui l’interferenza russa in Ucraina orientale e
sudorientale sarebbe possibile, se non inevitabile: quello di una radicale
destabilizzazione di questi territori. Lo scoppio di una guerra civile
innescato, ad esempio, dal tentativo delle autorità di Kiev di controllare gli
elementi radicali e la reazione violenta di questi; o il desiderio del governo,
in cui gli ultranazionalisti giocano un ruolo importante, di estendere il
modello culturale dell’Ucraina occidentale al resto del paese; o ancora
un’acuta crisi economica, un’ondata di bancarotte industriali nell’Est e il
conseguente tentativo delle autorità di reprimere le proteste con la forza;
oppure una frattura politica causata dalle elezioni presidenziali.
Vi sono molti scenari negativi e la loro materializzazione metterebbe la
Russia in una posizione difficile. Le controindicazioni di un intervento sono
palesi e il successo non è garantito. Tuttavia, in caso di marcato
deterioramento della situazione, di radicalizzazione del clima politico e di
forte richiesta d’aiuto a Mosca da parte della popolazione russofona,
l’inazione sarebbe inaccettabile. La Russia è in cerca di una nuova identità
nazionale che rimpiazzi quella sovietica, ormai obsoleta. Come in altri paesi
passati attraverso processi simili, il nazionalismo è in ascesa.

3. La Russia vuole che la situazione in Ucraina si stabilizzi e che il


paese si rimetta in piedi dopo il collasso del suo sistema politico. Mosca è
convinta che a tal fine l’unica soluzione sia riorganizzare lo Stato in base a
un ordinamento federale o confederale, in grado di garantire alle differenti
regioni il diritto alla piena autodeterminazione linguistica e culturale. Le
componenti federate potrebbero costruire strategie economiche in base ai
rispettivi interessi e obiettivi, appoggiandosi ai partner ad esse più
congeniali, tanto all’Ovest quanto all’Est. Ovviamente, la Russia resta
allergica all’idea dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato, sicché uno status di
neutralità per il paese è il prerequisito di qualsiasi assetto duraturo.
Con tutto il rispetto per il popolo ucraino, è impossibile creare un
modello di sviluppo sostenibile del paese senza il consenso di Russia,
Europa e Stati Uniti. Per storia e geografia, l’Ucraina non è in grado di
operare una scelta e ora assistiamo alle conseguenze dei tentativi di forzarle
la mano. Certamente, la vicenda della Crimea ha reso le comunicazioni
molto più difficili, ma ciò non toglie che i contatti a livello internazionale
siano indispensabili e urgenti. Russia e Unione Europea devono discutere
seriamente di Ucraina. Nella prima fase i colloqui saranno strettamente
riservati, per evitare la collisione delle rispettive ambizioni. È chiaro che
non sarà facile superare le posizioni e le preclusioni attuali;
prevedibilmente, l’Europa obietterà che è impossibile discutere il futuro
dell’Ucraina senza che questa sia presente al tavolo. Tuttavia,
sfortunatamente la situazione è straordinaria e richiede misure altrettanto
inusuali.
La crisi ucraina chiude un’èra nella politica europea e mondiale,
mettendo drammaticamente in evidenza l’assenza, in tutti questi anni, di un
efficace meccanismo di controllo e gestione delle crisi internazionali.
Questa svolta è carica di insidie, ma presenta anche l’opportunità di
riscrivere le regole del gioco. Nel 2015, tra poco più di un anno, cadrà il 40°
anniversario della Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e lo sviluppo
in Europa. Fino a ieri si pensava a celebrazioni in grande stile. Del resto, fu
dal processo di Helsinki che scaturì l’idea di una «casa comune europea»,
frase usata da Gorbačëv nel suo discorso al Consiglio d’Europa venticinque
anni fa. Da allora però, gli eventi hanno subìto un’accelerazione imprevista.
La cortina di ferro è caduta, l’Unione Sovietica è scomparsa, il mondo si è
pienamente globalizzato, una nuova fase dell’integrazione europea è stata
inaugurata, la Nato si è espansa a est.
Oggi vi sono buone probabilità che le celebrazioni di Helsinki vengano
annullate. La crisi ucraina ha diviso l’Europa; ora sembra strano persino
parlare di un continente unico. Lo spirito di Helsinki e l’aspirazione alla
reciproca comprensione sono tramontati; la cortina di ferro è stata
rimpiazzata da una «linea rossa» concepita da Mosca come la delimitazione
esterna dei propri interessi vitali e dall’Occidente (Europa e Stati Uniti)
come il prodotto delle ambizioni imperiali russe. Ma soprattutto: il fine
ultimo del processo di Helsinki era consolidare il principio dell’inviolabilità
dei confini, emerso in Europa dopo la fine della guerra fredda. Quei confini
sono durati quindici anni. La loro revisione è iniziata, in molti modi diversi.
In alcuni casi sono stati cambiati per via diplomatica, come nell’ex
Cecoslovacchia. In altri con la forza, come in Jugoslavia. In altri ancora
dalla cogenza degli eventi, come nello spazio ex sovietico. In alcuni casi,
infine, sono stati ridisegnati per volontà di una potenza esterna nell’ambito
di un conflitto, come in Kosovo, Ossezia del Sud e Abkhazia. In ogni caso,
le frontiere hanno cessato di essere viste come qualcosa di sacro e
definitivo. Finito il confronto bipolare, ci siamo tutti abituati all’idea che
possano mutare. I confini hanno smesso di terrorizzare la gente come nella
seconda metà del XX secolo, quando il ricordo delle guerre mondiali
rendeva tabù l’argomento.

4. Perché, allora, il cambiamento dei confini ucraini ha causato un tale


shock? Perché, al posto di un’Europa senza frontiere, abbiamo una nuova
linea rossa, che si è appena spostata verso est? E perché lo spirito di
Helsinki è morto?
Paradossalmente, il successo del processo di Helsinki si doveva alla
divisione dell’Europa. Si sente spesso parlare di un ritorno alla guerra
fredda. Ma questo è impossibile: la guerra fredda è stata un periodo unico
della storia, nel quale il sistema internazionale era soggetto a un inedito
livello di controllo. L’equilibrio tra le due superpotenze, basato sulla
reciproca deterrenza nucleare, ha assicurato la stabilità: qualcosa che non
esisteva prima e che non esisterà in futuro. Prima e dopo, al massimo, le
superpotenze cerca(va)no di armonizzare i propri interessi, come nel
concerto delle nazioni del XIX secolo. Al tempo nessuno pretendeva di
bandire i conflitti, ma per la loro soluzione esisteva un meccanismo
diplomatico, con conferenze di pace in cui le potenze delimitavano i
rispettivi ambiti di interesse.
Il trattato di Helsinki fu siglato e applicato solo perché in Europa e nel
mondo vigeva un equilibrio di potenza, ma la fine della guerra fredda e la
scomparsa di uno dei due poli di quell’equilibrio hanno compromesso
l’assetto europeo e globale. L’utopia della «fine della storia» e di un mondo
– o quanto meno di un’Europa – senza linee di divisione scaturiva
dall’assunto che il vincitore del confronto militare, politico e ideologico
avrebbe imposto il proprio sistema politico ed economico agli altri. Ma ciò
si è dimostrato impossibile: tanto a livello globale, in cui gli Stati Uniti si
sono rivelati incapaci di sostenere un simile fardello; quanto a livello
europeo, in cui l’Ue ha fatto il passo più lungo della gamba nella sua corsa
all’allargamento.
Oggi l’Europa appare persa nel mondo globale. Lo slogan di fine
Novecento aveva una sua logica: la competizione globale lascia poche
chance ai singoli Stati europei, persino ai più grandi fra essi. Solo
combinando le forze il Vecchio Continente può competere ad armi pari con
Stati Uniti, Cina, forse India e, a livello politico, con la Russia. Ma alla
logica dei proclami non è corrisposta la concretezza dei risultati. Il peso
dell’Europa unita nel mondo non è solo inferiore alla somma dei suoi Stati
membri; anche il potenziale dei maggiori paesi singolarmente presi – come
Germania, Francia e Regno Unito – è diminuito rispetto a vent’anni fa. Le
capitali europee hanno smesso di essere attori dotati di una qualche
rilevanza politica: Parigi è sprofondata nell’irrilevanza, Londra resta a galla
grazie allo status di polo finanziario globale, ma va perdendo influenza e
visione strategica.
Tutti questi fattori rendono Berlino il fulcro incontestato dell’Europa.
La Germania non può più evadere le proprie responsabilità; del resto, è da
tempo che non se ne assume. Ci sono voluti oltre cinquant’anni per
neutralizzarne le ambizioni, ma oggi ogni qualvolta prova ad assumere un
ruolo di guida suscita sospetti e timori. Soprattutto, manca un contrappeso
alla forza tedesca: la Francia non svolge più il suo tradizionale ruolo in tal
senso. Dunque l’Europa è orfana di un equilibrio interno.
A questa confusione si sommano le difficili relazioni con l’America,
tradizionale custode dell’Europa. L’idea di sfidare gli Stati Uniti è stata
definitivamente archiviata: il Vecchio Continente è pronto a tornare sotto la
tutela americana, principalmente nella forma della Transatlantic Trade and
Investment Partnership, attualmente in fase di negoziazione.
Sfortunatamente, l’opinione che circola a Washington sull’Europa non è un
segreto: un giorno Edward Snowden parla di vigilanza totale, un altro
l’assistente segretario di Stato Victoria Nuland fa commenti irriferibili sulla
politica estera europea. Il guaio è che la Nuland non ha completamente
torto: l’Unione Europea non è esattamente brillante sulla scena
internazionale.

5. Un’altra sfida della globalizzazione è rappresentata dalla crescente


eterogeneità sociale, i cui effetti sulla sfera culturale e ideologica sono
quanto meno contraddittori. Da un lato, negli ultimi vent’anni l’Europa ha
maturato una visione molto più liberale e laica della democrazia,
sviluppando un’attenzione maggiore alle minoranze. Ciò si deve in gran
parte alla crescente presenza, nei paesi europei, di immigrati provenienti da
altre parti del mondo, specie di fede musulmana. Il desiderio di integrare
senza traumi gli stranieri nelle società europee comporta una deliberata
attenuazione ovvero una sostanziale erosione dei tradizionali capisaldi
culturali, in favore di modelli sociali molto più flessibili.
Tuttavia, i tentativi di presentare questa scelta come un esito ineluttabile
e universale sono accolti con diffidenza da molti interlocutori esterni e
provocano crescenti resistenze anche all’interno delle società europee, in
cui crescono le tendenze protezionistiche. Gli avversari dell’integrazione e
le destre estreme, nelle loro varie incarnazioni, si mobilitano per le elezioni
europee; le formazioni di estrema sinistra fanno altrettanto. Tutti questi
attori sono uniti da un elemento: l’insoddisfazione per l’Europa attuale.
La crisi ucraina sembra rimettere le cose al loro posto, restituendo al
mondo il suo volto abituale. Tutti gli istinti sopiti sono riemersi di colpo: la
resurrezione del nemico di sempre ha dato una sferzata alla Nato e ha
fornito nuova linfa alle relazioni transatlantiche, dopo vent’anni di
smarrimento. Di fronte alla vecchia minaccia russa, l’Europa si sente
investita del dovere morale di difendere un popolo bramante libertà contro
il mostro imperialista.
Ma questa è un’illusione. Sì, l’Europa può rifugiarsi sotto l’ombrello
americano, dove si è trovata così bene negli ultimi quarant’anni, specie da
quando è stato significativamente allargato. A conti fatti, l’Occidente ha
guadagnato molto terreno e l’annessione della Crimea è quasi niente
rispetto alla drastica riduzione dello spazio di sicurezza russo. Ma il gioco a
somma zero che ha visto impegnati i due blocchi fino alla fine degli anni
Ottanta non è più praticabile.
È vero che Russia e Occidente non hanno mai superato i loro sospetti
reciproci, né hanno mai smesso di competere. Non hanno nemmeno trovato
un equilibrio di interessi che consenta loro di instaurare relazioni stabili.
All’inizio, per via della debolezza e della dipendenza russe; dopo, perché
tutti si erano abituati a questa nuova condizione e nessuno reputava
necessario fare concessioni a Mosca. Di fatto, l’Europa non ha mai
abbandonato l’idea che il riavvicinamento fosse possibile solo alle sue
indiscutibili condizioni. Di discutibile c’era solo la tempistica con cui i
partner avrebbero dovuto adottare la normativa comunitaria. Quando la
Russia ha cominciato a contestare questo approccio e a pretendere
reciprocità, l’Ue ha fatto muro per principio. Non vi è altra spiegazione, ad
esempio, per gli infiniti e infruttuosi colloqui sull’abolizione dei visti
turistici, che avrebbe reso molto più facili gli spostamenti e contribuito ad
avvicinare le parti. L’Unione Europea ha sempre considerato l’accesso al
suo territorio come un premio per i paesi terzi, il che trasuda arroganza.
Ma tutto ciò non implica che il clima di confronto del XX secolo sia
destinato a tornare. Nel corso del Novecento, le relazioni Est-Ovest hanno
costituito il cuore delle relazioni internazionali. Tutto il resto era
secondario. Ora sono solo un aspetto della politica mondiale, e nemmeno il
più importante. Uno scontro con la Russia sull’Ucraina o su altro non
aiuterà l’Europa e gli Stati Uniti a risolvere i loro problemi in Medio
Oriente o in Asia. Al contrario, una virata di Mosca a est creerà ulteriori
problemi. Questo riorientamento avverrà in ogni caso, perché nel XXI
secolo un paese che affaccia sul Pacifico non può permettersi di non avere
una politica attiva e ben congegnata in quella regione. Le pressioni
occidentali sulla Russia non faranno altro che accelerare tale processo.

(traduzione di Fabrizio Maronta)


NOI RUSSI E I PERICOLI DI
UN’UCRAINA SCIOVINISTA E
VIOLENTA
In attesa di guidare una Russia senza Putin, i nazional-liberali
individuano nel patriottismo ucraino una minaccia per il destino
del paese. I pilastri del nazionalismo di Majdan, le colpe
dell’Europa e le ferite di un popolo umiliato e pronto a difendersi.
di Egor PROSVIRNIN

1.B uongiorno signori e signore! Sono il fondatore e caporedattore del


sito Internet russo Sputnik e Pogrom, che ogni mese ha circa un milione di
visitatori. Il nostro pubblico è formato da giovani colti con un reddito
medio-alto. È lecito affermare che siamo la voce di una larga fascia della
prima generazione post-sovietica. Il nostro sito ha un orientamento liberal-
nazionale e pone l’accento sui valori europei dell’imperio della legge, della
libertà di scelta e dei diritti dell’uomo, e considera suo scopo strategico la
costruzione di un Stato nazionale russo democratico.
Siamo critici verso il signor Putin poiché ha distrutto il sistema politico
democratico nel nostro paese e fatto fuori dalla politica reale i nazionalisti
(come del resto anche le altre ideologie), blindando il sistema di governo
con i suoi fedeli e con se stesso. È evidente che dopo la morte o l’uscita di
scena del signor Putin la Russia si ritroverà nel caos. Il nostro sito, dunque,
vuole essere il tentativo di formare e di rendere noti alle masse i pensieri
post-putiniani, dopo aver preparato una parte colta e capace della nostra
nazione a una vita senza Putin.
A nome dei nazionalisti russi liberali vorrei affermare che noi vediamo
nel nazionalismo ucraino una delle principali e più terribili minacce per
l’identità russa. Il nazionalismo ucraino, a causa della sua origine,
rappresenta l’ideologia di tre regioni occidentali dell’Ucraina, la cosiddetta
zona della Galizia, che dal crollo della Rus’ di Kiev fino al 1939 si è trovata
a far parte di differenti potenze tutte ostili alla Russia. A differenza dei
cittadini dell’Ucraina centrale e orientale, che sono tornati a far parte dello
Stato russo nel 1654 e che in seguito sono stati un’etnia all’interno del più
grande popolo russo, i galiziani erano e restano una nazione estranea e
nemica, al pari dei polacchi.
Tra i nazionalisti russi è diffusa l’opinione che il nazionalismo galiziano
sia il risultato dell’influenza e dell’ispirazione polacca1, dal momento che il
suo cuore è la Chiesa coloniale greco-cattolica. Tale Chiesa è stata creata e
sostenuta appositamente dalla cattolica Polonia per l’assimilazione della
popolazione ortodossa dell’Ucraina occidentale. L’opzione greco-cattolica
(mantenimento dei riti ortodossi ma sottomissione a Roma e al papa) è stata
il cardine di un enorme meccanismo assimilatorio che ha riunito gli slavi
ortodossi dell’Ucraina occidentale in una nuova «nazione galiziana», il cui
trionfo possiamo oggi osservare nei fatti di Kiev.
A conferma di quanto appena affermato, il famoso Stepan Bandera,
principale eroe e ideologo del nazionalismo ucraino, era figlio di un prete
greco-cattolico. Roman Šukhevič, il secondo astro del nazionalismo
ucraino, era figlio di un prete greco-cattolico. E Stec’ko, il primo vice di
Bandera? Pure lui figlio di un un prete greco-cattolico! E Stepan
Lenkavs’kyj, autore del Decalogo2 – la raccolta dei comandamenti per il
vero nazionalista ucraino? Ovviamente figlio di un prete greco-cattolico.
Tutte le figure principali del nazionalismo ucraino sono legate direttamente
o indirettamente alla Chiesa greco-cattolica. Per questo motivo vediamo nel
nazionalismo ucraino non tanto un’ideologia di modernità e solidarietà
nazionale, quanto un movimento religioso di fanatici, al pari di quelli
musulmani3.
Il nazionalismo russo moderno, invece, è un’ideologia del tutto laica. Le
centurie religiose vi rappresentano una minoranza insignificante. Invece,
durante gli scontri a Majdan abbiamo visto come sul palco si alternavano
sacerdoti che nei momenti più disperati leggevano preghiere. Si è trattato di
uno spettacolo strano per una manifestazione di liberali pro-europei (così i
media definivano la piazza), ma nulla di più logico per un raduno di crociati
posseduti dal fervore religioso, di guerrieri in crociata contro il Centro e
l’Oriente del paese4.
Si può con certezza affermare che il nazionalismo ucraino
contemporaneo non è un nazionalismo nel vero senso della parola, ma un
artificio pre-moderno di quando l’identità principale era quella religiosa e
non nazionale. Ha affermato Dmitrij Skvorcov, esperto di questioni
religiose: «È vero, i greco-cattolici hanno monopolizzato completamente la
regia di Majdan, officiano continuamente preghiere sul palco, sono a capo
del movimento degli automobilisti a sostegno della piazza, occupano la
residenza di Janukovyč. In questo caso si può parlare a ragione di un
monopolio greco-cattolico sulle manifestazioni di protesta»5.
È ovvio che nella piazza era possibile incontrare persone di
orientamento religioso e politico diverso, ma il nucleo, soprattutto nei
momenti più drammatici in cui ci si contrapponeva ai berkut, era ed è
tuttora il nazionalismo religioso greco-cattolico, che indubbiamente
cercherà di ottenere un ruolo centrale nella vita politica del paese (si vedano
la dichiarazione di Pravyj Sektor che rifiuta di restituire le armi e di
sottomettersi al nuovo governo, e le ambizioni politiche del suo leader,
Dmytro Jaroš)6. Sarà però difficile trovare un compromesso tra persone
appartenenti a tre generazioni diverse, educate alla fede messianica nella
necessità di una crociata contro i moskali7 e della conversione delle regioni
orientali alla vera fede8.

2. Il secondo pilastro del nazionalismo ucraino è il fermo orientamento


anti-russo. Se il credo dei nostri nazionalisti si può riassumere nello slogan
«la Russia ai russi», quello dei nazionalisti ucraini è identificabile nel
concetto elaborato dall’ex presidente Kučma: «L’Ucraina non è la Russia»9.
Ad eccezione delle tre regioni occidentali del paese popolate da greco-
cattolici galiziani fanatici, il restante 80% dell’Ucraina è abitato dai «piccoli
russi», uno dei tre sottogruppi etnici che compongono il popolo russo10 (fino
alla rivoluzione del 1917 veniva riconosciuto ufficialmente che il popolo
russo era composto da «grandi russi», «piccoli russi» e «russi bianchi»).

L’etnonimo «piccoli russi» non era dispregiativo, anzi sottolineava


l’antichità delle origini. I «piccoli russi» conoscono il russo (l’80% della
popolazione dell’Ucraina lo parla), hanno gli stessi tratti somatici dei russi,
hanno nella loro storia e cultura un’enorme quantità di eroi russi. Il più
importante scrittore «piccolo russo» Ševčenko ha vissuto la maggior parte
della sua vita in Russia e ha scritto i suoi diari nella nostra lingua11. Per
questo motivo il principale obiettivo del nazionalismo ucraino è accrescere
le contraddizioni e le distanze tra i «grandi russi» e i «piccoli russi», al fine
di trasformare un sottogruppo etnico in una nazione separata, nemica della
Russia.
A questo scopo vengono praticati alcuni precetti strategici.
• Propaganda religiosa e conversione alla fede greco-cattolica, con la
costante sottolineatura dell’idea di «schiavitù» insita nella tradizione
ortodossa12.
• Razzismo primitivo. Si afferma che i «grandi russi» non sono un
popolo slavo e che il giogo tataro-mongolo li ha fatti diventare turchi.
L’espressione razzista mongolo-kacap si sta diffondendo sempre di più per
apostrofare i grandi russi13.
• Guerra culturale. Si sostiene che la Russia è un paese asiatico
totalitario, non adatto alla democrazia e ai valori europei, mentre gli ucraini
sono un popolo «libero». L’unico modo per avvicinarsi all’Europa sembra
essere la rimozione di qualsiasi influenza russa14.
• Guerra della memoria. La secolare interazione tra «grandi russi» e
«piccoli russi» è narrata come una storia di violenza e oppressione. I
«piccoli russi» sarebbero come gli ebrei, i «grandi russi» come i nazisti. E
trecentocinquant’anni di vita comune vengono presentati come un lungo
olocausto. La Rus’ di Kiev, che era uno Stato panrusso nel quale ha avuto
origine il popolo russo, viene considerata unicamente come uno Stato
nazionale ucraino. La lingua paleoslava, nella quale sono scritte molte
cronache, viene spacciata per un dialetto ucraino15.
• Intimidazione e cambiamento d’identità. I partiti nazionalisti
dell’Ucraina hanno intrapreso una campagna a favore del cambiamento dei
nomi dei bambini russi in nomi ucraini. Fra l’altro, nonostante sia diventato
di dominio pubblico l’episodio di derisione dei bambini russi da parte della
nota deputata del partito Svoboda Iryna Farion, quest’ultima ha mantenuto
la sua carica e partecipa ai lavori del nuovo governo rivoluzionario16.
• Limitazione dell’uso della lingua russa al fine di ucrainizzare la
società. La decisione di cambiare la legge sulle lingue nazionali presa il
primo giorno di lavoro del governo rivoluzionario (mentre nel paese
l’economia era a pezzi e nelle strade regnava il caos) ha mostrato
chiaramente le priorità dei nazionalisti ucraini17.
• Diffusione del tema dell’integrazione europea non come desiderio di
entrare nella famiglia dei popoli europei, ma come strumento per creare un
cordone sanitario, rompere i legami culturali ed economici con la Russia e
isolare decine di milioni di «piccoli russi» dall’influenza russa per
ucrainizzarli in seguito18.
Il lettore europeo si chiede stupito: perché l’Ucraina non proclama la
lingua russa come seconda lingua nazionale se l’80% del paese parla russo?
La risposta è chiara: poiché ciò farebbe fallire tutto il progetto di
ucrainizzazione e cambiamento di identità nazionale di decine di milioni di
abitanti. Per quale motivo si buttano giù con tanta enfasi i monumenti di
Lenin? Perché rappresentano un legame con la Russia. Perché si insiste sul
mantenimento di uno Stato ucraino centralistico, perché non dare più
autonomia alle regioni? Poiché altrimenti le regioni russe manterrebbero la
loro identità e respingerebbero quella ucraina.

3. Il terzo pilastro del nazionalismo ucraino consiste nella certezza che


l’Ucraina corrisponda allo Stato nazionale ucraino19, mentre invece è
un’entità dalla composizione più complessa. Nella parte occidentale del
paese sono maggioritarie l’identità ucraina, la lingua ucraina e la fede
greco-cattolica. In quella orientale l’identità russa, la lingua russa e la fede
ortodossa. Nelle regioni centrali le due identità si intrecciano, generando
un’interazione difficile e spesso conflittuale20. In una situazione di tale
complessità la politica può andare avanti solo attraverso compromessi, ma
la concezione religiosa dei nazionalisti ucraini non ne prevede alcuno.
La parte orientale del paese fino all’arrivo dei bolscevichi si chiamava
Nuova Russia. Si trattava di steppe deserte, nelle quali regnavano i nomadi,
colonizzate dai russi dopo la vittoria sul canato di Crimea, che le aveva rese
terre pericolose21. Nessun ucraino ha mai vissuto nella Nuova Russia. È
stato Lenin a stabilire che queste zone entrassero a far parte dell’Ucraina.
Per questo motivo fino ad oggi la Nuova Russia ha conservato il suo
carattere russo e legami economici molto stretti con la Russia22. Non
stupisce, dunque, che dieci milioni di russi che per tre secoli hanno
coltivato queste steppe e scavato gallerie in queste montagne non capiscano
perché debbano studiare la lingua ucraina, cambiare i propri nomi e
integrarsi all’Unione Europea, se tutti i loro parenti vivono in Russia.
Nessuno, compresi i nazionalisti ucraini, può spiegare perché le città
russe, create da soldati e ingegneri russi23, abitate da russi e dove si parla
russo, si trovino in Ucraina, e perché vengano considerate dai nazionalisti
ucraini una sorta di zona coloniale di seconda categoria da mettere in
ginocchio. Immaginate di trovarvi in una terra dove sono seppelliti i vostri
nonni e bisnonni, nella quale vi riposate sotto l’ombra di un enorme tiglio
piantato da vostro padre quando siete nati, e un bel giorno da Kiev i
rivoluzionari dichiarano che voi siete elementi estranei, favoreggiatori degli
occupanti russi e che «dovete sloggiare nella vostra Russia se non avete
voglia di imparare la lingua nazionale ucraina».
La Crimea è già «sloggiata» in Russia, mentre nelle restanti regioni
stanno diffondendosi umori separatisti. È logico che Mosca si senta in
diritto di difendere i russi dal progetto di neocolonialismo galiziano e che le
azioni di Putin a favore della riacquisizione delle terre russe incontrino
l’appoggio generale, anche tra i suoi critici più accaniti24, compreso il
nostro sito. Il ritorno della Crimea in Russia ha seminato il panico nei paesi
baltici25, dove i russi sono ufficialmente considerati «non cittadini»26 o
«occupanti» (sebbene quelle zone abbiano fatto parte del territorio russo per
più di trecento anni). Non deve sorprendere che noi non consideriamo tutto
ciò «imperialismo» (cioè assoggettamento di popoli e Stati), ma
«irredentismo», cioè sforzo di un popolo diviso per unirsi in un unico Stato.
Putin è spesso paragonato a Hitler27. Si ripete spesso l’orribile parola
Anschluss… Ma quale Anschluss! Qui si tratta di una vera e propria guerra
come quella per l’unificazione italiana! E Putin non si comporta come il
diabolico Führer, che aveva l’idea folle di creare un regno mondiale, ma
come Vittorio Emanuele II, che riunì un popolo diviso in vari Stati in
un’unica nazione. «Restituite la Toscana, Parma, Modena e la Romagna alla
Francia e a Napoleone III! Le lacrime dei vostri compatrioti non hanno
alcun senso di fronte ai trattati firmati da quell’ubriacone di El’cin!» –
questo è quello che in questi giorni i russi sentono dai critici della
riunificazione con la Crimea.
Si dice: «Putin è impazzito ed è posseduto da manie di grandezza».
Putin in realtà non ha avuto nessun ruolo, perché troppo grande è stato il
movimento popolare a favore dell’unificazione e troppo forte il grido di
aiuto che si è levato dalla Crimea russa28. Putin è solamente una zattera
instabile che viene portata dalle onde potenti del rinato sentimento
nazionale. Dopo il crollo dell’Urss milioni di russi sono stati uccisi,
violentati e cacciati dalle proprie case in Asia centrale, e la Russia ha
taciuto29. Duecentomila russi sono stati mandati via dalla sola Cecenia e non
si è sentita alcuna parola di condanna da parte dell’Europa30. Negli Stati
baltici i russi sono diventati dei «non cittadini».
Dove sono tutte quelle famose commissioni europee per i diritti umani?
Dove sono i commissari di Bruxelles che hanno cercato di ostacolare la
parata dei veterani delle SS a Riga?31. Con la fine dell’Unione Sovietica
l’immensa regione russa detta «dei sette fiumi» si è trasformata
nell’estraneo e indipendente Kazakistan, dove i russi sono stati sbattuti fuori
da ogni incarico direttivo e, come al solito, tutti hanno taciuto32. In
Kirghizistan, dove gli inferociti kirghizi uccidevano gli uzbeki, davano alle
fiamme intere città e terrorizzavano centinaia di migliaia di russi rimasti,
non si è avuto neanche il coraggio di sognare un intervento dell’esercito
russo. Ma chi ha risposto a queste malefatte? Nessuno33.

4. Noi russi siamo diventati cittadini di seconda, terza o quarta categoria


in tutto il territorio dell’ex impero, costretti a strisciare davanti ai satrapi
orientali e a servire docilmente come ostaggi negli harem dei principi
caucasici34. Ci sono schiavi russi nelle fabbriche di mattoni del Daghestan,
ma dobbiamo stare tranquilli, si tratta solo di «particolarità nazionali»,
locali!35. In Turkmenistan ai russi è vietato vendere le case: dicono loro «se
volete andare via lasciate tutto!»36. Della carneficina di russi e armeni
compiuta dagli azeri a Baku non bisogna neanche azzardare il ricordo!37.
Ed ecco che dopo 23 anni di umiliazioni e maltrattamenti nei confronti
del nostro popolo in tutto lo spazio eurasiatico il nostro Stato autoritario, in
risposta all’arrivo al potere di nazi-sciovinisti religiosi che avevano
l’obiettivo di ucrainizzarci forzatamente, ha fatto finalmente una cosa
incredibile: difenderci. Per la prima volta il nostro Stato non si è comportato
come un cortile di transito, ma ha svolto un ruolo che ricorda quello di una
vera e propria patria. Per la prima volta non abbiamo visto scene di violenze
sulla popolazione russa ma assistito all’arrivo di soldati assennati e
silenziosi mandati in risposta alla promessa dei nazionalisti ucraini di
organizzare un «treno dell’amicizia» punitivo in Crimea38. Vediamo come
gli sciovinisti e i fanatici religiosi che hanno giurato vendetta contro i russi
ora arretrano come sciacalli, spaventati da un nemico più forte. Vediamo
come finalmente si sia iniziata a cancellare l’onta subita da decine di
milioni di russi umiliati, cacciati e violentati nelle repubbliche ex
sovietiche.
Allo stesso tempo vediamo l’Ue che condanna risolutamente i nostri
soldati, colpevoli di aver violato il sacro diritto dei greco-cattolici di
spaccare con i manganelli il cranio di coloro che parlano in quella lingua –
sapete come chiamano il russo? – «da cani»39. Cari amici europei, noi vi
consideriamo dei russofobi. A Kiev il nuovo governo fa sfilare per la città
gli attivisti russi con le mani legate e la scritta sulla fronte «schiavo»40 (a
Dnipropetrovs’k, a proposito, preferiscono la scritta «merda»)41, e sembra
che voi, cari europei, siate scontenti del fatto che ciò non avvenga anche in
Crimea (si sa che voi siete a favore dell’umanesimo, ma senza una reale
forza militare in grado di fermare i nazi-guerrieri le vostre parole non
valgono niente). Ecco come la penso io, che ho scritto decine di articoli
sull’importanza dei valori europei e della scelta europea della Russia.
Immaginatevi cosa pensano gli altri russi, ben meno filoeuropeisti di me.
Se l’Europa vuole conservare la Russia bisogna che si immedesimi nel
nostro dolore di popolo diviso e riconosca il diritto dell’Italia, cioè – scusate
– della Russia, all’unificazione. La sofferenza di coloro che vengono fatti
sfilare legati per le strade di Kiev, a cui sputano in faccia42 e che vengono
torturati43, è ben più importante di tutti gli accordi internazionali e dei
discorsi ampollosi dei politici.
Questo è l’umanesimo. Questi sono i valori europei. Questa è la vera
Europa, non ipocrita, nella cui esistenza credono i russi e il cui aiuto la
Russia attende.

(traduzione di Alessandro Salacone)

1
Si veda il brillante saggio dello storico B. NEMENSKIJ, Affinché nella Rus’ non ci sia la Rus’, in
www.ruska-pravda.com/nit-vremeni/45-st-nit-vremeni/17470-l-r-.html
2
Il testo del Decalogo è così folle che meriterebbe di essere tradotto! Per esempio, nel 5° punto si
legge: «Vendica la morte dei grandi cavalieri!», oun-upa.org.ua/documents/dekalog.html
3
Ulteriori informazioni sui padri del nazionalismo ucraino in
sputnikipogrom.com/russia/ua/8587/oun-bandera-oi-oi-oi
4
Un magnifico intervento del prete greco-cattolico che ha incitato a uccidere i moskali in
youtu.be/tWKRchf9Sqo. Cari signori, cosa inizieranno a pensare i russi dei cattolici sapendo che
questi coloriti personaggi sono sotto l’autorità del papa?
5
Il testo completo è in www.regnum.ru/news/polit/1755429.html
6
www.unn.com.ua/ru/news/1313734-d-yarosh-balotuvatimetsya-u-prezidenti-ukrayini-dopovneno. e
rus.newsru.ua/ukraine/18mar2014/pravseknac.html
7
Moskal’ è un termine dispregiativo largamente diffuso in Ucraina per indicare i russi. Nel testo
verrà lasciato così (n.d.t.).
8
Si veda il video youtu.be/KrJC6rU9lG0. Non si tratta di immagini di un meeting di nazionalisti, ma
di un appello in una scuola. I bambini scandiscono lo slogan Moskaljaku na hyljaku [Il moskal’ alla
forca]. Il video è stato girato prima dei sanguinosi eventi accaduti a Majdan e mostra eloquentemente
il frutto di vent’anni di indipendenza ucraina. Inoltre lo slogan «Chi non salta moskal’ è!» è stato uno
dei più popolari a Majdan.
9
books.vremya.ru/books/865-leonid-kuchma-ukraina-ne-rossiya.html#.UypYSfl_uKU
10
Per approfondire l’argomento si legga l’eccellente lavoro dello storico A. Miller sul dualismo
dell’identità ucraina in www.bigyalta.com.ua/story/2681. Si veda anche l’articolo pubblicato sul
nostro sito sull’essenza del concetto di «popolo russo dalle tre identità» in
sputnikipogrom.com/russia/ua/8949/triedinstvo
11
I diari di Ševčenko sono pubblicati in rete. Si veda per esempio il sito www.e-
reading.bz/book.php?book=1002263
12
Si veda: vlasti.net/news/144320. Inoltre in Ucraina hanno luogo requisizioni di massa di chiese
appartenenti al patriarcato di Mosca. Su una di queste requisizioni si legga l’articolo:
www.newsru.com/religy/25feb2014/pochaev_sumy.html
13
Un esempio in www.nr2.ru/kiev/341532.html
14
Un tipico esempio di messaggio in un social network che sostiene l’integrazione europea
dell’Ucraina: vk.com/wall-5525046_2526000?reply=2527276. È interessante notare il numero dei
«mi piace» e dei «condividi»: si tratta dunque di un punto di vista tutt’altro che marginale.
15
Una raccolta preziosa dei principali argomenti della propaganda ucraina antirussa si trova in
svetonline.wordpress.com/2012/09/23/15-glavnyh-mifov
16
Il video della deputata Farion che ha suscitato lo scandalo è in youtu.be/HjQVFcbl4AY
17
La notizia della modifica della legge sulle lingue nazionali è in
lenta.ru/news/2014/02/23/language. La dichiarazione di Pravyj Sektor in cui si afferma che la
derussificazione dell’Ucraina è il loro programma strategico è in
interfax.com.ua/news/political/192192.html
18
Il motivo dell’erezione delle barricate a Majdan, quando ancora la situazione era pacifica, era
mostrare in modo evidente il desiderio di associazione all’Ue. Tutti i guerrieri e i manifestanti di
Majdan per mesi sono passati accanto a questa immagine divenuta simbolo della protesta:
s.pikabu.ru/post_img/2013/12/08/10/1386517381_284976664.jpg. Un altro esempio eloquente è in
ic.pics.livejournal.com/_devol_/5706944/67528/67528_original.jpg. Come si vede, l’obiettivo non è
l’associazione con l’Europa ma l’isolamento di Mosca.
19
La reale politica degli ucraini nei confronti dei russi è evidente in una tabella dove sono mostrati i
dati dell’inevitabile riduzione del numero delle scuole in lingua russa, vedi
www.igpi.ru/info/people/malink/1111152776.html. In alcune regioni il taglio è stato di due volte e
mezzo.
20
Il social network russo VKontakte, che ha il primato anche in Ucraina, ha elaborato un grafico in
cui si analizza la lingua dell’interfaccia scelta dagli utenti:
cs1.kprf.ru/images/newsstory_illustrations/large/544cbb_image.jpg. Dai dati emerge chiaramente
l’esistenza di «due Ucraine».
21
Un’eccellente ricerca sul lavoro di colonizzazione della Nuova Russia prima della rivoluzione
russa è in www.runivers.ru/lib/book4322/52906
22
«Il 74% degli abitanti delle regioni sud-orientali dell’Ucraina e l’87% della popolazione della
Repubblica Autonoma di Crimea (compresa Sebastopoli) voterebbero a favore della ricostruzione
dell’Urss se il referendum federale si svolgesse oggi», www.regnum.ru/news/806657.html
23
Un breve video sulla costruzione delle città nell’Ucraina orientale: ruspravda.info/Prichem-zdes-
Ukraina.html
24
Un’indagine sociologica compiuta dal Fondo per la lotta alla corruzione, guidato dal noto
oppositore Naval’nyj, rileva che l’85% dei russi è a favore della riunificazione con la Crimea,
ni42.fuckrkn.me/915621.html
25
Un digest della stampa dei paesi baltici è in www.regnum.ru/news/polit/1780238.html
26
en.wikipedia.org/wiki/Non-citizens_(Latvia)
27
www.theguardian.com/world/2014/mar/06/hillary-clinton-says-vladimir-putins-crimea-occupation-
echoes-hitler
28
lenta.ru/news/2014/03/17/crimea1
29
Si veda, ad esempio, il saggio di E. SEMËNOVA dedicato al genocidio dei russi nelle ex
repubbliche dell’Urss. Il testo è ricco di citazioni da fonti di orientamento molto differente e rende
bene il quadro degli orrori che sono stati perpetrati. Il saggio si trova in docviewer.yandex.com/?
url=ya-disk-
public%3A%2F%2FYkY0%2B4Q288AX6un0Pe%2FNBYG6smKr%2F1s1SiTgQ5oOa4g%3D&na
me=Semenova_-_Na_etnicheskoy_voyne.doc&c=532a6a7b952e#_Toc279236089
30
izvestia.ru/news/299041
31
www.youtube.com/watch?v=1YI-WodmA-Q
32
www.rosbalt.ru/exussr/2013/05/03/1123864.html
33
www.bbc.co.uk/russian/international/2011/05/110503_osh_investigation_outcome.shtml
34
kaspy.info/glavnoe-na-pervom/11644-astrakhanka-pokonchila-s-soboj-posle-togo-kak-ee-polgoda-
derzhali-v-kachestve-nalozhnitsy.html
35
Esiste un vero e proprio movimento di volontari che salvano i russi dalla schiavitù in Daghestan.
36
www.fergananews.com/articles/1395
37
Delle foto particolarmente cruente in verhovskiy.livejournal.com/8729.html
38
lenta.ru/news/2014/02/25/crimea
39
ukraine-russia.livejournal.com/1573354.html
40
Si veda youtube/Km3566Uo92Y. Nel video si suppone che vi siano i cosiddetti titušky, agenti di
Janukovyč, da lui remunerati. La tituškomania in Ucraina ha raggiunto livelli incredibili, a tal punto
che anche i radicali di Pravyj Sektor a un certo punto sono stati accusati di essere titušky chiamati per
screditare la protesta pacifica. Non possiamo stabilire se la persona che si vede nel video è colpevole
di qualcosa o no, ma possiamo con certezza affermare che una caratteristica della rivoluzione
democratica ucraina è la passione per l’umiliazione pubblica degli oppositori.
41
youtube/A8d1B9i73Bc. La principale accusa mossa ai cosiddetti titušky (che nel video sono
descritti come «schifosi filorussi») prima che di lavorare per Janukovyč, è di nutrire simpatie
filorusse. Ciò giustificherebbe la scritta indelebile «merda» sulla loro fronte.
42
Si veda youtu.be/KcTC5NMEqv0. Nel video i deputati del partito Svoboda aggrediscono il
direttore del primo canale nazionale per avere trasmesso il discorso di Putin, chiedendogli: «Per
quale nazione lavori?». Sospettando che lavorasse per la nazione russa è stato costretto a scrivere una
lettera di dimissioni. Questa vicenda ha sollevato un ampio dibattito, ma non ci sono state
conseguenze. Gli uomini del video continuano a essere deputati ai quali l’Ue eroga fondi, con i quali
firma accordi eccetera.
43
www.politnavigator.net/na-majjdane-izbili-i-pytali-reportjora-sergeya-ruljova.html
LA LEGGE DEL PIÙ FORTE
I giuristi dibatteranno a lungo sulla legittimità del referendum in
Crimea. Ma una secessione non è né un diritto, né un atto illegale:
è un fatto. Se ha successo, esiste. Altrimenti è condannata dalla
storia e dai tribunali.
di Leonardo BELLODI

1.È successo. Il 16 marzo la popolazione della Crimea, regione a


schiacciante maggioranza russa e legata alla Russia da storia, radici
culturali e interessi economici, ha votato quasi all’unanimità la secessione
dall’Ucraina. È l’epilogo della crisi che ha avuto inizio nel novembre 2013,
quando Kiev si è trovata a scegliere tra il Deep and Comprehensive Free
Trade Agreement dell’Unione Europea e l’Unione Eurasiatica di Mosca. Il
resto è storia: il presidente Janukovyč deposto dal parlamento; l’intervento
in Crimea di truppe senza insegne, ma che pochi dubitano essere russe; il
referendum; la secessione; il ritorno al rublo e l’annessione della Crimea
alla Russia.
Tutte le parti in causa invocano il diritto internazionale: chi per negare
la legittimità del referendum e della secessione, chi per giustificare
l’intervento armato. La confusione giuridica è totale e non è semplice
stabilire chi, in punto di diritto internazionale, abbia torto o ragione. Forse,
come spesso accade nelle relazioni internazionali, il diritto darà ragione al
vincitore, ovvero a chi riuscirà a consolidare la situazione di fatto che si è
creata.
Analizziamo le rivendicazioni delle parti.
Ammettiamo che sia vero ciò che tutti pensano: le truppe russe sono
intervenute militarmente in Crimea. L’intervento armato da parte di uno
Stato in un territorio estero è ammesso dal diritto internazionale solo in
determinate circostanze: in risposta a un attacco; quando vi è una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che lo autorizza; nel caso di
crisi umanitarie, anche in assenza di autorizzazione delle Nazioni Unite, in
applicazione della dottrina della «responsabilità di proteggere»; in caso di
invito da parte del governo legittimo. Vi è poi un’altra giustificazione, non
sempre considerata legittima: la protezione di propri cittadini o interessi
presenti nel territorio, come è successo per esempio nella notte tra il 3 e 4
luglio del 1976 a Entebbe, in Uganda, quando Israele intervenne per
liberare i cittadini israeliani a bordo del volo che era stato lì dirottato.
Durante la crisi ucraina non vi è stato né un attacco dell’Ucraina alla
Russia, né un’autorizzazione delle Nazioni Unite. E Mosca non potrebbe
invocare la dottrina della responsabilità di proteggere o giustificare
l’intervento con la protezione dei propri cittadini o di persone di etnia russa
in Crimea. Insomma, secondo questi criteri, l’intervento russo in Crimea è
chiaramente illegittimo.
Resta una possibilità: pare che il 1° marzo il presidente Janukovyč abbia
mandato una lettera al governo russo chiedendo assistenza. È assodato nel
diritto internazionale che un governo legittimo possa chiedere assistenza
militare a uno Stato terzo per ristabilire nel proprio territorio ordine e pace.
La Francia, ad esempio, è intervenuta spesso nel continente africano su
invito di alcuni governi minacciati da ribelli.
Il punto, però, è un altro: Janukovyč, quando ha inviato la richiesta di
assistenza, era ancora il legittimo rappresentante del governo ucraino,
tenuto conto del fatto che il parlamento del suo paese gli aveva chiesto
pochi giorni prima (22 febbraio) di rassegnare le dimissioni e che il giorno
successivo aveva eletto Oleksandr Turčynov come suo successore? Non è
una questione di finesse giuridica: se Janukovyč fosse stato il
rappresentante legittimo del proprio governo avrebbe potuto validamente
invocare l’intervento russo che sarebbe stato, dunque, in linea con il diritto
internazionale. In caso contrario, tale intervento si profilerebbe come una
grave violazione di princìpi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite
ribaditi, tra l’altro, dall’Accordo di Helsinki del 1975, dal Memorandum di
Budapest del 1994 e dal Trattato di amicizia, cooperazione e partnership tra
la Russia e l’Ucraina del 19971.
Chi decide, quindi, se un governo è legittimo o meno? Ciò dev’essere
stabilito in base al diritto costituzionale dello Stato, oppure vi sono criteri di
diritto internazionale? Stati Uniti e Unione Europea affermano che
Janukovyč è stato allontanato dal governo in seguito a un voto legittimo del
parlamento. La Russia contesta che vi fosse il quorum necessario. Ma il
terreno sul quale ci si scontra è quello della legittimità internazionale. E qui
le due visioni non potrebbero essere più antitetiche.

2. Nel corso del dibattito al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite


sulla crisi ucraina, l’ambasciatore britannico ha affermato: «Stiamo
parlando di un ex leader che ha abbandonato il suo ufficio, la sua capitale e
il suo paese; il cui governo corrotto ha portato l’Ucraina sull’orlo della
rovina economica; un leader che ha represso le proteste contro l’esecutivo
provocando ottanta morti e che è stato abbandonato dal suo stesso partito.
L’idea che le sue affermazioni rechino anche solo l’ombra della legittimità è
bizzarra e in linea con il resto delle pretestuose giustificazioni avanzate
dalla Russia per le proprie azioni. Il governo di Kiev è legittimo ed è stato
sostenuto a larghissima maggioranza dal parlamento ucraino».
La replica dell’ambasciatore russo alle Nazioni Unite è stata altrettanto
colorita: «Sto provando a immaginare cosa accadrebbe se, mentre il
presidente Obama è in California, Mitt Romney si presentasse alla Casa
Bianca e il Congresso, forte dell’attuale maggioranza repubblicana alla
Camera dei rappresentanti, votasse di punto in bianco l’impeachment del
presidente. Come reagirebbe l’opinione pubblica statunitense a un simile
atto? Sarebbe una prova di democrazia? Ciò è esattamente quanto accaduto
in Ucraina».
In realtà il diritto internazionale è di poco aiuto per capire chi ha ragione
e chi ha torto. Non vi sono criteri oggettivi: ogni Stato valida la legittimità
di un governo in base alle norme che si è scelto. Si danno pertanto casi in
cui un governo è considerato legittimo da alcuni Stati e illegittimo da altri.
È vero però che soprattutto a partire dalla fine della guerra fredda la
legittimità internazionale di uno Stato discende dal rispetto dalla sua origine
democratica (un criterio, questo, oggetto comunque di numerose deroghe
per ragioni di carattere strategico)2, come ben descritto dal sottosegretario di
Stato James Baker: «La legittimità nel 1991 scaturisce non dalla canna di
un fucile, ma dalla volontà popolare».
Sicuramente Janukovyč è stato eletto in modo democratico. Le elezioni
sono state libere e sufficientemente trasparenti. Vi sono dubbi sulla
costituzionalità della sua defenestrazione. Sarebbe logico pensare che il suo
fosse, quindi, un governo legittimo. Anche qui, però, la questione non è così
semplice. Negli ultimi anni, infatti, si è fatta strada una nuova dottrina: un
governo deve essere legittimo all’origine3, ma deve anche conservare la
propria legittimità nel suo agire quotidiano e garantire i diritti fondamentali
della cittadinanza. Deve, insomma, garantire ogni giorno il rispetto dello
Stato di diritto4. Il test di legittimità di un governo non si esaurisce nel
momento della «conta» dopo le (libere) elezioni, ma è continuamente
ripetuto nel momento in cui lo Stato ha contatti con la comunità
internazionale. Ad esempio, la Francia non ha raccolto in più occasioni
l’invito a intervenire in aiuto di governi democraticamente eletti perché
questi si erano resi responsabili di gravi violazioni di diritti umani. E questa
è la ragione per la quale alcuni regimi democraticamente eletti (si pensi in
passato all’Egitto e all’Algeria) sono stati «disconosciuti» dalla comunità
internazionale nel momento in cui negavano ai cittadini l’esercizio dei più
elementari diritti.
Questo test di legittimità ab origine e in itinere dei poteri pubblici basta
per giudicare in un senso o nell’altro il regime di Janukovyč? Purtroppo no.
I valori politici, culturali, etici sono troppo diversi da uno Stato all’altro.
Noi occidentali rabbrividiamo di fronte agli ottanta morti delle
manifestazioni di piazza. Altri potrebbero pensare che fosse una reazione
necessaria di fronte all’assalto dei palazzi del governo.
Quel che conta per il diritto internazionale è, nella maggior parte dei
casi (fra cui questo), l’effettività5. Nel valutare l’attività di uno Stato, si
tiene conto dell’organizzazione di fatto e non di quella giuridica. Il nuovo
governo ha il controllo della situazione in Ucraina e la maggior parte degli
Stati l’hanno riconosciuto. Questo è sufficiente.
3. Il secondo tema di diritto internazionale è quello della legittimità del
referendum che ha sancito la secessione. Anche qui le tesi sono opposte.
L’Occidente (e il Giappone) lo ritengono illegittimo. La Russia sostiene il
contrario, anzi sottolinea come il voto rispetti il principio fondamentale
dell’autodeterminazione dei popoli, solennemente enunciato dal presidente
americano Woodrow Wilson in occasione del Trattato di Versailles del
19196. Dal canto loro, gli Stati Uniti fanno leva sulla dottrina Stimson, la
quale prende il nome dal segretario di Stato americano che, all’inizio degli
anni Trenta, si prodigò contro il riconoscimento internazionale del
Manciukuò. Il Giappone era allora intervenuto in modo illegittimo in
Manciuria, in violazione del patto Briand-Kellog del 1928, provocandone la
secessione dalla Cina7.
È curioso notare come entrambi gli schieramenti evochino il principio
di diritto internazionale secondo cui il prematuro riconoscimento di uno
Stato costituisce un’illecita interferenza nei suoi affari interni. La Russia
accusa l’Occidente di aver riconosciuto in modo intempestivo il nuovo
governo di Kiev; l’Occidente imputa alla Russia il frettoloso
riconoscimento della «nuova» Crimea.
Sono tre gli elementi da tenere in considerazione per valutare la
legittimità di una secessione. Il primo è se tale possibilità sia contemplata
dalla costituzione dello Stato, o comunque se vi è l’assenso del governo
centrale. Il secondo riguarda il modo in cui il governo centrale si comporta
nei confronti della popolazione che manifesta il desiderio di secedere. Il
terzo è l’atteggiamento della comunità internazionale.
Prendiamo ad esempio il caso del prossimo referendum in Scozia: il
diritto interno del Regno Unito ne prevede la possibilità. La costituzione
spagnola, al contrario, non la contempla; idem quella dell’Ucraina. Qui,
inoltre, non vi era nemmeno l’assenso del governo di Kiev. Se non vi è un
diritto costituzionale alla secessione, né l’accordo del governo, rileva il
secondo criterio: quello relativo a come sono trattati i gruppi che chiedono
la secessione. Se essi sono oppressi, se vengono loro negate la libertà di
espressione e la partecipazione alla vita politica – se, in altri termini, non è
loro riconosciuto il diritto interno all’autodeterminazione, allora forse nasce
un diritto alla secessione che potrebbe essere riconosciuto dalla comunità
internazionale8. Ne è stato esempio il Kosovo9: in quel caso, gli stessi Stati
Uniti si affrettarono a dichiarare che la situazione era eccezionale, nel
tentativo di non creare un precedente pericoloso per la comunità
internazionale.
Da un punto di vista politico, le secessioni sono infatti viste
negativamente e sono associate al caos, alla frammentazione e
all’instabilità10, tanto che nel 1970 l’allora segretario generale delle Nazioni
Unite U Thant dichiarò che la comunità internazionale «non ha mai
accettato, non accetta e non credo che accetterà mai il principio di
secessione di parte dei suoi Stati membri». Non potrebbe essere altrimenti,
dal momento che la secessione contrasta con due pilastri del modello
vestfaliano di relazioni internazionali: la sovranità e l’integrità territoriale.
E il diritto internazionale? C’è sicuramente una presunzione a favore
dell’integrità, del rispetto della piena sovranità e della volontà del governo
centrale legittimo. Ma non sorprenderà notare che anche in questo caso il
diritto internazionale è al servizio di ciò che è già accaduto e si è
cristallizzato. Nel 1877, al termine della guerra civile più sanguinosa che il
mondo abbia conosciuto (quella americana), la Corte suprema degli Stati
Uniti nel caso William vs Bruffy ebbe a scrivere: «La validità degli atti di
secessione contro i rispettivi Stati, cittadini e soggetti dipende interamente
dal loro esito finale. Se non riescono ad affermarsi in modo permanente, tali
atti falliscono. Se invece hanno successo, essi sono considerati alla stregua
delle prime azioni di una nazione indipendente».
Nel diritto internazionale, insomma, una secessione non è né un diritto,
né un atto illegale. È considerata un fatto: o ha successo, e dunque esiste;
oppure fallisce, e dunque è contestata. Così sarà per la Crimea.

1
L’Atto di Helsinki del 1° agosto 1975 afferma: «The participating states will refrain in their mutual
relations, as well as in their international relations in general, from the threat of use of force against
the territorial integrity or political independence of any State». Si noti, però, che l’Atto di Helsinki
afferma anche che «frontiers can be changed in accordance with international law by peaceful means
and by agreement». Con il Memorandum di Budapest del 1994 la Russia, il Regno Unito e gli Stati
Uniti «reaffirmed their obligations to refrain from the threat or use of force against the territorial
integrity or political independence of Ukraine, and that none of their weapons will ever be used
against Ukraine except in self-defense or otherwise in accordance with the Charter of the United
Nations».
2
T.M. FRANCK, «The Emerging Right of Democratic Governance», The American Journal of
International Law, vol. 86, n. 1, gennaio 1992.
3
«Legitimacy of origin: a government is legitimate if it rests on the will of people expressed through
a free and fair election», J. D’ASPREMONT, «Legitimacy of Governments in the Age of
Democracy», International Law and Politics, 2011.
4
«From the point of legitimacy of exercise, a government is legitimate if it exerts its power in a
manner consistent with basic political freedoms and the rule of law», J. D’ASPREMONT, Les Etats
non démocratiques et le droit international, Paris 2008, Ed. Pédone.
5
Il giurista Santi Romano usava dire che «il diritto è quello che ha la forza di divenire e di imporsi
come diritto positivo».
6
Interessante notare cosa pensava al riguardo il segretario di Stato Robert Lansing: «When the
President talks of “self-determination” what unit has he in mind? Does he mean a race, a territorial
area, or a community? (…) It will raise hopes which can never be realized. It will, I fear, cost
thousands of lives. In the end it is bound to be discredited, to be called the dream of an idealist who
failed to realize the danger until it was too late to check those who attempt to put the principle into
force».
7
M.N. SHAW, International Law, Cambridge 2003, Cambridge University Press.
8
Nel 1972, una commissione internazionale di giuristi scrisse nel Report on the events in East
Pakistan, 1971: «(The principle of territorial integrity) is subject to the requirement that the
government does comply with the principle of equal rights and does represent the whole people
without distinction. If one of the constituent peoples of a state is denied equal rights and is
discriminated against, it is submitted that their full right of self-determination will revive».
9
C.J. BORGEN, The Language of Law and the Practice of Politics: Great Powers and the Rhetoric
of Self-Determination in the Cases of Kosovo and South Ossetia, Legal Studies Research Paper, St
John’s University, settembre 2009.
10
B. DE VILLIERS, «Secession: The Last Resort for Minority Protection», Journal of Asian and
African Studies, 1, 2012.
L’UCRAINA TRA NOI E PUTIN

Parte III

Coriandoli d'Occidente (e non solo)


FOMENTA E DOMINA
Dietro la crisi ucraina c’è un preciso progetto statunitense:
prendere Kiev per ridimensionare le ambizioni regionali e globali
di Mosca. Storia di una rivolta pianificata e delle armi utilizzate da
Obama per ribadire al mondo chi comanda davvero.
di Dario FABBRI

1.L’ equilibrio di potenza è la cifra della dottrina Obama. A dispetto


della vulgata giornalistica che lo vuole restio a intervenire sulla scena
internazionale, se non addirittura fautore di un isolazionismo mascherato, in
realtà il presidente americano persegue i classici dettami della politica
dell’equilibrio. Frenato dai postumi della crisi economica e dall’avversione
dell’opinione pubblica per ogni avventurismo militare, Barack ha preferito
accantonare l’eccezionalismo dei padri fondatori per adottare la strategia
che fu per secoli della corona britannica: impedire l’emergere di una
nazione in grado di dominare la propria regione di appartenenza e
potenzialmente di insidiare il primato della superpotenza.
In quest’ottica la tattica più efficace, e meno dispendiosa, è acuire le
tensioni tra i principali attori regionali, obbligandoli a concentrarsi sulle
questioni continentali e ad abbandonare le ambizioni globali. Perfino
nell’Asia-Pacifico, quadrante cruciale per le sorti del pianeta, dove
Washington pratica il containment della Cina sostenendo la corsa agli
armamenti di giapponesi, sudcoreani e australiani. In Europa è la Russia ad
aver raggiunto una pericolosa posizione di forza. Grazie alla sua scaltrezza,
unita alla compiacenza della Germania e alla distrazione degli Stati Uniti,
nell’ultimo decennio Putin ha pressoché neutralizzato il cosiddetto «estero
vicino» e legato al proprio benessere il Vecchio Continente dipendente dal
gas siberiano. Libero di scrutare l’orizzonte, il capo del Cremlino ha potuto
dedicarsi a questioni di planetaria rilevanza, provocando alla Casa Bianca
più di un imbarazzo, in Siria come in Egitto, quanto con la concessione
dell’asilo al fuggitivo Edward Snowden.
Matura così la necessità di scalfirne le certezze e provocare al contempo
una spaccatura tra Mosca e Berlino. A metà 2013 gli analisti statunitensi
individuano nell’embrionale crisi ucraina l’occasione per colpire Putin e
costringere la Merkel a scegliere tra la fedeltà atlantica e la sua audace
Ostpolitik. L’optimum si raggiungerebbe se l’Unione Europea cadesse nella
trappola di integrare l’Ucraina – un fardello economico capace di sferrare il
colpo di grazia alla già traballante architettura comunitaria – ma Obama si
accontenta di sottrarre il paese all’influenza russa. Ne scaturisce uno
scontro combattuto a colpi di operazioni coperte, propaganda mediatica e
ritorsioni finanziarie che in poche settimane fa scendere sull’Europa un
clima da guerra fredda e pone Russia e Germania sulla difensiva.

2. La scelta americana di passare al contrattacco in Ucraina è dettata da


ragioni di carattere simbolico, strategico e congiunturale. Nell’immaginario
russo «la nazione di confine» ricopre un ruolo eccezionale: è a Kiev che nel
IX secolo nasce la Rus’, antesignana della Russia attuale, ed è con il
battesimo nelle acque del fiume Dnepr che un secolo più tardi Vladimir il
Grande impone il cristianesimo ai suoi sudditi. Sul piano strategico il
controllo dell’Ucraina consente a Mosca di allontanare la prima linea di
difesa dall’heartland nazionale, per conformazione orografica da sempre
esposto alle invasioni straniere, e di mettere nel mirino l’Europa centrale.
Inoltre, eredità della rivoluzione arancione del 2004, specie nelle regioni
occidentali del paese Washington controlla un folto numero di
organizzazioni non governative che, in caso di rivolta popolare, possono
fungere da avanguardia per un’azione tesa a destabilizzare l’esecutivo
ucraino.
Infine nel 2010 è stato eletto presidente Viktor Janukovyč, despota
corrotto e maldestro che gioca su più tavoli nel tentativo di lucrare sulle
scelte di politica estera e sul cui conto l’amministrazione Usa possiede
informazioni esclusive. Nello specifico, a curare i suoi interessi americani è
la società di lobbying di John Podesta1, attuale consigliere straordinario di
Obama. E dal 2005 fino all’improvvida fuga dello scorso febbraio, il
principale consulente politico di Janukovyč è stato lo statunitense Paul
Manafort2, titolare di un’azienda di consulenza elettorale che gestisce
assieme a Rick Davis, già spin doctor di John McCain, a sua volta destinato
nella commedia ucraina al ruolo di novello Charlie Wilson.
L’antefatto risale all’estate del 2013. Il progetto obamiano di minare
dall’interno la tenuta della Federazione Russa è naufragato: troppo risicate
le risorse a disposizione della Cia e troppo complicato eludere il
sofisticatissimo servizio di intelligence del Cremlino (Fsb). Snervato dalle
continue intimidazioni, per la prima volta l’ambasciatore Michael McFaul
comunica ai superiori l’intenzione di lasciare Mosca per far rientro in
patria. Al contrario Putin, rincuorato dal consolidamento del fronte
domestico, da alcune settimane è tornato a viaggiare all’estero. A fine luglio
vola a Kiev per ribadire che non permetterà all’Ucraina di uscire dall’orbita
russa e ai primi di settembre si serve dell’accordo relativo allo smaltimento
delle armi chimiche per impedire il rovesciamento di al-Asad.
È in quei giorni che la Casa Bianca medita la svolta. Presto Janukovyč
dovrà decidere se aderire all’Unione doganale oppure firmare un accordo di
associazione con l’Unione Europea e Barack è sicuro di poter beneficiare di
un eventuale stallo.
Con una scelta assai rilevante, il 18 settembre nomina assistente
segretario di Stato per gli Affari eurasiatici Victoria Nuland, diplomatico di
professione influenzata dal pensiero neoconservatore, la cui carriera è
segnata da frequenti avventure oltrecortina. Nei primi anni Ottanta trascorre
otto mesi su un peschereccio sovietico al largo dell’Oceano Pacifico, sul
quale sviluppa una passione per la storia e la lingua russa, oltre che per la
vodka Stoličnaja. Nell’agosto del 1991 si mischia tra la folla moscovita
durante le ore più concitate del golpe organizzato per deporre Gorbačëv e
negli anni Novanta, nelle vesti di capo di gabinetto del vicesegretario di
Stato Strobe Talbott, sovrintende all’allargamento della Nato verso est.
A lei Obama affida il compito di coordinare il lavoro delle numerose
ong operanti in Ucraina, quinta colonna in grado di intercettare e indirizzare
gli umori della popolazione filoccidentale. Anche le ong tedesche sono
molto attive – in particolare la fondazione Konrad Adenauer che formando
Vitalij Klyčko ha creato in laboratorio il suo candidato di riferimento – ma
gli americani non si fidano di Berlino e preferiscono muoversi
autonomamente. Come rivelato lo scorso dicembre dalla stessa Nuland,
dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno speso oltre 5 miliardi di
dollari per «rendere l’Ucraina una nazione sicura e democratica»3 e secondo
quanto riferito alla commissione Esteri del Senato dal vicesegretario di
Stato per i Diritti umani, Tom Melia, di questi quasi un miliardo4 è finito
nelle casse delle organizzazioni non governative. Soltanto nel 2012 il
National Endowment for Democracy, l’ente collegato al Dipartimento di
Stato incaricato di promuovere la democrazia a livello globale, ha
finanziato in Ucraina ben 65 progetti5.
Tra le ong maggiormente presenti nell’ex paese sovietico figurano:
Open Society Foundations del magnate George Soros, che nel 2012 ha
speso da queste parti oltre 10 milioni di dollari6; Freedom House, qui
collegata all’Institute for Mass Information; il National Democratic Institute
for International Affairs; la Millennium Challenge Corporation;
l’International Center for Journalists, parzialmente sovvenzionato da Bill
Gates e curatore del progetto YanukovichLeaks.
Allo stesso tempo l’amministrazione Usa mantiene contatti con gli
oligarchi più influenti, soprattutto quelli che si oppongono all’orientamento
filorusso del governo di Kiev. A settembre Bill e Hillary Clinton sono gli
ospiti d’onore della conferenza organizzata annualmente a Jalta dal tycoon
dell’acciaio Viktor Pinčuk per rinsaldare i legami tra Ucraina e Occidente.
Nello stesso periodo emissari dell’ambasciata statunitense si incontrano con
il re del cioccolato Petro Porošenko, i cui prodotti sono banditi nella
Federazione Russa, e con i finanzieri Ihor Kolomojs’kyj e Kostjantin
Ževago. Rimangono al fianco di Janukovyč i due uomini più ricchi della
nazione, Rinat Akhmetov e Dmytro Firtaš, ma col tempo entrambi si
arrenderanno al misto di lusinghe e minacce somministrato da Washington.
L’offensiva entra nel vivo a fine novembre, quando centinaia di persone
iniziano a radunarsi in piazza Indipendenza a Kiev per protestare contro la
decisione di Janukovyč di respingere l’offerta di Bruxelles. Le ong si
adoperano per coinvolgere tutti gli strati della popolazione e tra l’11 e il 14
dicembre Nuland e i senatori John McCain e Chris Murphy giungono sul
posto per manifestare la propria solidarietà al movimento di Jevromajdan.
Seguendo l’esempio delle cosiddette donut dollies, le volontarie incaricate
di tenere alto il morale delle truppe statunitensi impegnate nella seconda
guerra mondiale, in Corea e in Vietnam, Nuland scende in piazza per
regalare panini e biscotti ai manifestanti antigovernativi e ai poliziotti
presenti. Al Cremlino non sfugge il valore simbolico dell’evento. «È stato
un gesto umiliante: degli ucraini che mangiano da mani americane!»7,
commenterà sdegnato l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite, Vitalij
Čurkin.
In seguito Nuland si incontra con Akhmetov, al quale paventa
l’intenzione di sanzionare gli interessi degli oligarchi collusi con il governo
nel caso in cui la protesta fosse sedata nel sangue. McCain invece prima
arringa la folla, annunciando che «l’America è dalla parte degli ucraini che
vogliono il cambiamento»8, quindi va a cena con il fondatore della
formazione ultranazionalista di Svoboda, Oleh Tjahnybok. L’inettitudine di
Janukovyč, in bilico tra repressione e compromesso, favorisce il perdurare
della protesta, mentre sul terreno si intensificano la presenza
dell’intelligence americana e la competizione tra Stati Uniti e Germania che
sostengono rispettivamente il principale esponente dell’Unione panucraina
Bat’kivščyna (Patria), Arsenij Jacenjuk, e il capo del partito Udar (Colpo),
Vitalij Klyčko. Obama è convinto che la Merkel non abbia intenzione di
rompere con Putin, ma che piuttosto stia sfruttando gli eventi ucraini per
bilanciare a suo favore l’intesa bilaterale e proporsi come leader indiscusso
dell’Europa orientale.
Così ai primi di febbraio Nuland alza il telefono per recapitare un chiaro
avvertimento al governo tedesco e arrogare agli Usa il ruolo di riferimento
esterno della protesta. In barba a ogni precauzione tecnica, in una nazione
monitorata capillarmente dallo spionaggio russo, il diplomatico utilizza una
comune linea cellulare per chiamare a Kiev l’ambasciatore Geoffrey Pyatt e
parlare apertamente della posizione americana. «Non credo che Klyčko
debba entrare nel governo. (…) Solo l’Onu può sistemare le cose, che l’Ue
si fotta»9, dice Nuland con ostentato candore, apostrofando con un
nomignolo (Jac) Jacenjuk e servendosi dello slang per spiegare che il
vicepresidente Biden è pronto a complimentarsi con Janukovyč se
collaborerà con l’opposizione (he’s willing for an attaboy). Come
ampiamente previsto, in poco tempo la conversazione finisce prima su
YouTube e poi sull’account Twitter di Dmitrij Loskutov, un collaboratore
del vice premier russo. Il Dipartimento di Stato accusa Mosca d’aver
giocato sporco10, ma in privato si rallegra per un piano ben riuscito. Si tratta
della prima operazione di false flag in una vicenda disseminata di manovre
coperte.
Intanto l’entrata in scena di gruppi paramilitari collegati ai servizi
occidentali, come Pravyj Sektor (Settore di destra) e l’Assemblea nazionale
ucraina Samooborona (Autodifesa), pareggia la ferocia dei berkut, i reparti
antiterrorismo del ministero dell’Interno, e determina il definitivo
precipitare della situazione. Il 20 febbraio cecchini non identificati sparano
sulla folla, mettendo in fuga le forze di polizia e provocando la morte di
decine di persone. Secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri estone,
Urmas Paet, all’alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Catherine
Ashton11, ad aprire il fuoco sarebbero stati elementi legati ai manifestanti
con l’obiettivo di far ricadere la colpa sull’esecutivo.
Nelle stesse ore i canali televisivi Ukrajina e Inter, appartenenti
rispettivamente ad Akhmetov e Firtaš, iniziano a trasmettere reportage
favorevoli a Jevromajdan. È il segnale della fine. Il 21 febbraio Janukovyč
sottoscrive con gli esponenti dell’opposizione un accordo che prevede
elezioni anticipate, un esecutivo di solidarietà nazionale e il ripristino della
costituzione in vigore nel 2004. La piazza però respinge il compromesso e
profittando del caos e della complicità degli oligarchi il parlamento nomina
Arsenij Jacenjuk primo ministro ad interim e vota all’unanimità la
procedura di impeachment nei confronti di Janukovyč, che fugge in Russia.

3. A rivoluzione compiuta gli sforzi americani si concentrano


sull’inevitabile risposta russa, potenzialmente in grado di annullare il
vantaggio acquisito. Già il 21 febbraio la Casa Bianca si serve del New York
Times per comunicare con il Cremlino. Dalle colonne del quotidiano
«anonimi funzionari dell’amministrazione federale» invitano Putin ad
accettare il fait accompli, in cambio della normalizzazione dei rapporti
bilaterali e di un improbabile accordo commerciale12. A destare
preoccupazione è la possibilità che la Russia – impegnata con oltre 150
mila uomini in un’esercitazione militare oltreconfine – invada l’Ucraina e
comprometta la fiducia che le nazioni dell’Europa orientale ripongono nella
deterrenza garantita dagli Stati Uniti.
Tra il 22 e il 27 febbraio rapporti riservati della Cia, della Defense
Intelligence Agency (Dia), l’organo di spionaggio estero del Pentagono, e
dell’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale (Odni) definiscono
imminente «un’azione» realizzata da reggimenti «speciali»: citano i
mercenari della Vnevedomstvennaja Okhrana e gli specnaz, ma ammettono
di non sapere quali regioni ne saranno interessate. A differenza del resto
d’Europa, la Russia sfugge al controllo dell’Nsa e nonostante i 300 mila
dollari spesi dal leggendario Office of Net Assessment del Pentagono per
studiare il linguaggio del corpo di Putin13, nessuno sa prevedere con
certezza le sue mosse. Nemmeno Silvio Berlusconi, il ministro degli Esteri
israeliano Avigdor Lieberman o il presidente kazako Nursultan Nazarbaev,
contattati nel frattempo dal Dipartimento di Stato per avere impressioni su
cosa stia per accadere. In piena nebbia di guerra Obama si convince che «il
bullo» stia per invadere l’Ucraina orientale e la sera del 28 febbraio si
presenta davanti alle telecamere per minacciarlo «di gravi ritorsioni»14.
Tuttavia il giorno seguente l’occupazione russa della Crimea gli
permette di tirare un (parziale) respiro di sollievo. Al netto delle
rimostranze ufficiali, Barack considera un sacrificio tollerabile barattare la
penisola abitata in maggioranza da russi con il nuovo status quo imposto al
resto del paese. Peraltro la patente violazione della sovranità ucraina pone
adesso tedeschi e cinesi in una posizione di notevole imbarazzo,
costringendoli a scegliere tra la volontà di preservare un’alleanza strategica
e la necessità di condannare un atto che almeno formalmente lede i princìpi
della loro politica estera.
Il punto è impedire a Putin di inghiottire il resto dell’Ucraina.
Inizialmente la Casa Bianca pensa di inibirne le intenzioni attraverso
l’imposizione di sanzioni economiche concertate con l’Unione Europea.
L’illusione svanisce in seguito alle telefonate avute con i leader del Vecchio
Continente e agli incontri con i rappresentanti delle associazioni industriali
d’America. La Germania è pronta a censurare verbalmente l’accaduto e a
raffreddare la cooperazione militare, ma non vuole scatenare la rappresaglia
energetica del Cremlino e perfino il fido alleato Cameron si rifiuta di
privare la City londinese degli ingenti capitali russi.
Dal canto loro le multinazionali statunitensi operanti in Russia – su tutte
ExxonMobil, Boeing, Ford – vogliono impedire che, in caso di misure
punitive imposte unilateralmente dagli Usa, i concorrenti europei assorbano
la loro fetta di mercato. Così Obama si accontenta, a cavallo del referendum
per l’indipendenza della Crimea, di approvare sanzioni largamente
simboliche che colpiscono alcuni membri dell’entourage presidenziale,
nonché Bank Rossija, l’istituto di San Pietroburgo legato a Gazprom, ma
che non hanno alcun impatto concreto.
Le armi più efficaci in possesso degli Stati Uniti si rivelano
l’aggressione mediatica e la speculazione finanziaria. La diffusione
planetaria e il prestigio riconosciuto ai media d’Oltreoceano consentono alla
Casa Bianca di respingere agevolmente le accuse di interferenza e di bollare
come barbara e anacronistica la reazione russa, sebbene questa sia stata
pressoché incruenta e possa essere considerata una declinazione della
responsibility to protect. Contemporaneamente le manovre speculative
infliggono danni ragguardevoli alla già fragile economia russa. Rispetto ai
tempi della guerra fredda, oggi l’ex superpotenza comunista aderisce (suo
malgrado) al Washington Consensus e il governo federale è doppiamente
esposto all’umore dei mercati perché azionista di maggioranza delle
principali aziende nazionali.
Agli Usa bastano gli strumenti convenzionali della politica monetaria e
finanziaria – tapering, diffusione del panico fra gli investitori, valutazione
della solvibilità – per colpire l’avversario. Non a caso il lunedì successivo
all’invasione della Crimea, l’indice Rtsi della Borsa di Mosca scende di ben
12 punti, bruciando quasi 60 miliardi di dollari, la stessa somma spesa per
organizzare le Olimpiadi di Soči. E nelle settimane seguenti, le newyorkesi
agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s rivedono al ribasso l’outlook
della Federazione, portandolo da stabile a negativo, inserendo l’attuale
congiuntura geopolitica tra le motivazioni della decisione. La Banca
centrale russa prova a cautelarsi ritirando tra il 26 febbraio e il 12 marzo
dalla sede della Federal Reserve di New York 118 miliardi di dollari in
buoni del Tesoro15, ma si tratta di una partita palesemente impari.
Anche per questo il bilancio della crisi arride agli Stati Uniti. La
Germania non sembra intenzionata a stravolgere la propria strategia e
l’Europa non dispone dei mezzi finanziari e della volontà politica necessari
a mantenere stabilmente l’Ucraina nel campo occidentale. Inoltre la Russia
ha riconquistato la Crimea, rettificando il torto perpetrato sessant’anni fa da
Khruščëv e, toccata sul vivo, proverà adesso a ostacolare gli Stati Uniti su
dossier internazionali di primaria importanza: dalla trattativa per il
programma nucleare iraniano alla guerra civile siriana, fino al prossimo
ritiro Nato dall’Afghanistan.
Tuttavia l’iniziativa americana, realizzata magistralmente, ha colto nel
segno: Putin è impegnato in una battaglia di retroguardia, costretto a
difendersi piuttosto che a inseguire traguardi di grande respiro; la Merkel ne
ha inevitabilmente disapprovato l’operato e tra Mosca e Pechino c’è stato
un animato confronto sul tema. Con il minimo sforzo politico, economico e
di intelligence la Casa Bianca ha ottenuto ciò che voleva. «La Russia è
soltanto una potenza regionale e non può rappresentare una minaccia
globale»16, ha spiegato Obama il 25 marzo, quasi a illustrare la sua dottrina
e a dichiarare compiuta la missione ucraina. In nome dell’equilibrio di
potenza.

1
M. HOSENBALL, «For Ukraine Rivals, No Let up in Washington Lobbying», Reuters, 19/2/2014.
2
Cfr. A. BURNS, M. HABERMAN, «Mystery Man: Ukraine’s U.S. Political Fixer», Politico,
5/3/2014.
3
Statement by Victoria Nuland, Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs, The
US/Ukraine Foundation, 13/12/2013.
4
Statement by Thomas O. MELIA, Deputy Assistant Secretary of State, Bureau of Democracy,
Human Rights and Labor, U.S. Senate Foreign Relations Committee, 15/1/2014.
5
Cfr. National Endowment for Democracy 2012 Annual Report.
6
Cfr. Open Society Foundations 2012 Expenditures.
7
Citato in S. SENGUPTA, «With Tumult Around Him, Russian Diplomat Keeps Calm», The New
York Times, 21/2/2014.
8
Citato in S. WALKER, O. GRYTSENKO, «Ukraine Protesters Return en Masse to Central Kiev for
Pro-EU Campaign», The Guardian, 15/12/2013.
9
Cfr. «Ukraine Crisis: Transcript of Leaked Nuland-Pyatt Call», Bbc News, 7/2/2014.
10
Daily Press Briefing with Spokesperson Jen Psaki, U.S. Department of State, 6/2/2014.
11
Cfr. E. MACASKILL, «Ukraine Crisis: Bugged Call Reveals Conspiracy Theory about Kiev
Snipers», The Guardian, 5/3/2014.
12
P. BAKER, «Amid Fence-Mending, Another U.S.-Russia Rift», The New York Times, 21/2/2014.
13
R. LOCKER, «Pentagon Studies Putin Body Language for Hint of Intent», Usa Today, 6/3/2014.
14
Citato in Z. MILLER, M. CROWLEY, «Obama Warns Russia about Ukraine Intervention»,
Time.com, 28/2/2014.
15
Cfr. Federal Reserve Statistical Release, Factors Affecting Reserve Balances, 20/3/2014.
16
Citato in S. WILSON, «Obama Dismisses Russia as “Regional Power” Acting out of Weakness»,
The Washington Post, 25/3/2014.
MORIRE PER KIEV?
Gli improbabili scenari bellici dipinti dagli americani: Russian
Storm, small e large. L’eventualità di una missione Onu a guida
Usa-Russia per pacificare il paese. Obama alle prese con i falchi.
E se tutto finisse con un conflitto congelato, vegliato dall’Osce?
di Alessandro POLITI

D
1. uemilaquattordici, la non-guerra di Crimea: un non-luogo per i
non-decision makers delle nostre classi digerenti, che sì e no ricordano che
oltre un secolo e mezzo fa ce ne fu un’altra, in cui i pre-italiani di Cavour
fecero la loro prima missione out of area. E nemmeno sospettano che il
crudelissimo Kurgan del film Highlander mutui il nome con la ridotta
d’artiglieria Malakoff Kurgan espugnata allora dagli zuavi.
L’Ucraina: una grande piana con fertili terre e antiche città che parla una
geografia che segna la storia sanguinosa e terribile di quattro secoli di
vicende europee: Vinnycja, L’viv-Lwów-L’vov-Lemberg, Poltava,
Stavučany, Černivci, Perekop, Sebastopoli, Kerč, Kharkiv, Belgorod,
Pervomajs’k, Khmel’nyc’kyi, Dnipropetrovs’k. La mente abbraccia veloce
una rete invisibile di eventi, schieramenti, strade, ponti, fortificazioni, basi
strategiche nucleari, grandi capi e comandanti, eroi e disfatte, che dialoga
muta con le tombe di migliaia di morti senza nome.
Appunto… le nere zolle d’Ucraina valgono le ossa di un granatiere di
Sardegna? Abbiamo già visto dal 1914 e dal 1939 che i Balcani non
valevano il cadavere di un granatiere di Pomerania, anzi che hanno causato
il suicidio della potenza europea durante una lunga guerra in due fasi. Erano
i tempi del Drang nach Osten, la grande spinta nazista verso l’Est da
soggiogare e colonizzare in un delirio agrario ariano. E poi, siamo proprio
sicuri che valgano, come ai tempi della grande guerra patriottica sovietica
(1941-45), il sangue di un carrista della magnifica divisione corazzata
Kantemirovskaja?
La crisi ucraina, come prima di essa quella siriana, ha suscitato
nell’opinione pubblica un comprensibile allarme per il rischio di uno
scontro militare diretto russo-americano o, per lo meno, di un ritorno alla
guerra fredda. Non è al momento, al netto d’imponderabili follie
guerrafondaie, una prospettiva particolarmente realistica. È però importante
capire che le grandi guerre mondiali non scoppiano solo per le ambizioni di
capi e gruppi dirigenti, ma anche per asimmetrie strutturali che mettono in
moto faglie geopolitiche e geoeconomiche ritenute da chi decide a somma
zero. La prima guerra mondiale è stata preparata da una crescente
militarizzazione di franco-britannici e impero zarista da un lato e imperi
centrali dall’altro, sulla base della radicata convinzione che la Germania
guglielmina rappresentasse una minaccia economica e strategica per
l’impero britannico e per l’equilibrio delle potenze sancito dal Congresso di
Berlino (1878). La Bosnia fu solo la scintilla, ma l’esplosivo stava altrove.
C’era anzitutto un crescente disequilibrio competitivo di ricerca,
produzione ed esportazione di merci tedesche nei mercati già mondiali che
la Gran Bretagna vedeva di pessimo occhio, tracciando simbolicamente una
linea rossa sulla crescita della flotta da guerra tedesca. Il varo del
programma navale di von Tirpitz fu correttamente percepito come una sfida
alla Royal Navy e contribuì a quella corsa contro il tempo, le curve
demografiche e le tabelle di mobilitazione che precipitarono l’azione
aggressiva tedesca preventiva, propiziata dalle fissazioni balcaniche di
Vienna e saggiamente ignorata da Roma.
La seconda guerra mondiale è stato il secondo tempo di quello scontro
anglo-tedesco, arricchito dalla competizione militarista giapponese per il
dominio del Pacifico, chiaramente oggetto delle mire espansionistiche
americane sin dai tempi delle teorizzazioni di Mahan, ma sullo sfondo delle
connivenze trasversali a favore dei nazifascismi in chiave prettamente
antibolscevica. Chi perse a propria insaputa furono Francia e Gran
Bretagna. Chi vinse davvero furono le potenze (quasi) extraeuropee centrate
su Washington e Mosca. Chi evitò la disfatta fu l’Italia. Dopo di che il
containment antisovietico riprese l’eredità del 1918 a Fulton, appena 28
anni dopo, inaugurando la terza guerra mondiale sulla base dell’arma
nucleare come «betabloccante» delle pulsioni belliche nell’emisfero Nord
del mondo tra Usa e Urss.
Tolta quindi la possibilità di liquidare direttamente l’avversario manu
militari, stabilizzate col sangue e le destabilizzazioni controllate le proprie
zone d’influenza, il gioco a somma zero riprendeva nel Terzo e nel Quarto
Mondo tra un sistema capitalistico a guida americana e uno ad economia
centralizzata a guida sovietica. La corsa agli armamenti sostituiva le
competizioni commerciali spietate della Belle Époque.
Ripensando ai tre quarti di secolo che separano Sarajevo dalla presa
della Crimea si può asciuttamente notare che si è passati da un oligopolio di
potenza a un lungo duopolio, a un breve monopolio seguito dal
multipolarismo disarchico e disfunzionale che stiamo vivendo. Insomma un
periodo di mergers and acquisitions, seguite dalla crisi scoppiata nel 2008,
se volessimo fare analogie economico-finanziarie.
Ci sono le condizioni per una grande guerra in Europa? A quanto pare
no. L’area dell’euro non è adesso e non può nel medio termine diventare il
trampolino di lancio di ambizioni continentali di grande portata. La Russia
è una potenza con seri problemi interni e sulla difensiva: le brillanti
manovre diplomatiche in Siria e la tacita acquiescenza sul dossier iraniano
non possono mascherare la difficoltà che Mosca ha di mantenere i propri
alleati, ancor più di prendere un’iniziativa strategica.
La stessa fulminea zampata in Crimea, in chiara violazione della lettera
e dello spirito del memorandum di Budapest del 1994, è la mossa
d’emergenza alla frantumazione di una sfera d’influenza nell’«estero
vicino», messa in crisi da violenti moti di piazza e da una forte campagna
politico-mediatica. Non è dettata da particolari imperialismi, ma dalla
semplice constatazione che la posizione navale russa, come quella zarista e
sovietica, è sempre stata molto debole. La flotta del Pacifico, senza i
sottomarini lanciamissili balistici, è poca roba già rispetto alle flotte
combinate di Giappone e Corea del Sud e ha tre basi che sono avamposti
appesi a una fragile linea ferroviaria transiberiana. Le flotte del Mare del
Nord e del Baltico sono inficiate dall’azione dei ghiacci e dai punti di
passaggio obbligati. L’unica flotta in mari caldi non solo è già imbottigliata
dalla strettoia dei Dardanelli, ma non ha soluzioni di ricambio per la
Crimea, tranne in parte Novorossijsk. Una penisola strategica persa dal
1856 al 1921, ripersa nel 1941-44 e ri-ripersa dal 1991 al 2014 (la bellezza
di 91 anni su 159, cioè il 42% del tempo totale).
Ci sono le condizioni per una grande guerra nel Pacifico? Non adesso,
ma potrebbero determinarsi, esattamente per quelle dissimmetrie che si
sono viste cent’anni fa: uno squilibrio tra esportazioni, crediti e debiti; la
paura di una sfida insostenibile alla propria way of life; la presenza di una
potenza militare suprema rispetto ai dodici paesi successivi e la costante
modernizzazione di uno strumento militare difensivo. È in quello scenario
che gli F-35 Lightning II acquisterebbero tutta la loro logica e utilità in una
Crimea all’altro capo del mondo.

2. Nel frattempo, nonostante la telefonata Putin-Obama (28 marzo) e


l’incontro Kerry-Lavrov a Parigi (30 marzo), tiene banco la notizia che il
comandante in capo delle truppe statunitensi in Europa e supreme allied
commander Nato è rientrato anticipatamente al suo quartier generale e che
una valutazione dell’intelligence Usa ritiene più probabile un’invasione
russa dell’Ucraina orientale e meridionale sino alla Transnistria, cercando
anche catture territoriali negli Stati baltici. Questo apre all’analisi del primo
scenario: Russian Storm Rising nelle sottovarianti small e large.
Fonti d’intelligence, per la maggior parte Sigint e Imint, hanno
identificato a fine marzo forze pari a 40 mila uomini lungo la frontiera con
l’Ucraina, con una prevalenza di unità motorizzate e corazzate di prima
linea, in aggiunta ad altri elementi militari già pronti a muovere. Unità
aeromobili, paracadutiste, forze speciali a un più alto stato d’allerta sono gli
altri indicatori che fanno scattare l’allarme nei centri di comando Nato. I
centri principali di dislocazione sono intorno a Rostov, Kursk e Belgorod.
Nelle prossime settimane una tenaglia corazzata e meccanizzata
partirebbe da nord e da sud, preceduta da incursioni aeree e missilistiche
sopra le poche basi dell’Aeronautica ucraina ancora attive.
Simultaneamente all’impiego massiccio di misure di guerra elettronica e
informatica per isolare e disarticolare una catena di comando avversaria già
fragile, le unità di specnaz, tra cui quelle temutissime del Gru (il mai
riformato servizio di spionaggio militare ex sovietico) preparerebbero le
zone di sbarco per le unità aviotrasportate e aeromobili, passando poi a
seminare confusione e terrore nelle retrovie ucraine. L’obiettivo finale è
d’impadronirsi del triangolo industriale Kharkiv-Luhans’k-Donec’k per poi
costituire un collegamento terrestre con la Crimea.
Mentre il gruppo settentrionale di forze russe cala velocemente da nord
a sud per prendere Zaporižžja, il gruppo meridionale da Rostov corre lungo
la costiera del Mar d’Azov per impadronirsi di Mariupol’, Berdjans’k e del
cruciale nodo ferroviario di Melitopol’, in modo da assicurare le rotaie e la
strada sino a Simferopoli, la capitale della nuova repubblica autonoma
russa.
La variante large, sempre partendo dalle stesse città, ha uno
svolgimento degno delle grandi campagne aeroterrestri della seconda guerra
mondiale proprio sul fronte orientale. Da Kursk parte un cuneo corazzato
dritto al cuore dell’Ucraina, la capitale Kiev, fermandosi nei sobborghi, non
solo per evitare la strage di un assalto casa per casa, ma anche per evitare
problemi maggiori di gestione politica della crisi. Da Belgorod la colonna
d’assalto aggira e isola Kharkiv, precipitandosi sullo storico snodo della
Poltava con obiettivo ultimo le due città chiave di Kremenčuk e
Dnipropetrovs’k. Invece la forza di Rostov continua la sua corsa sino alle
rive del Dnepr. L’obiettivo strategico è d’impadronirsi di una solida
posizione difensiva dietro il fiume Dnepr.
Le forze ucraine, nonostante la mobilitazione generale e la combattività
di alcuni loro elementi, sono disperse, disorganizzate e deboli. Anzi la
mobilitazione generale è chiaro segno che il governo de facto ha bisogno di
fare appello al morale della popolazione che gli è più vicina per dare un
segnale politico all’interno e all’estero. È il momento, se davvero le cose
girano male, degli atti d’eroismo disperati da poter glorificare a futura
memoria, del genere «mancò la fortuna, non il valore»; tradotto: «Eravamo
impreparati dalla a alla z, ma qualcuno dei nostri aveva fegato, benché non
servisse a nulla sul campo».
Sounds great for Putin, ma ci sono un paio di problemi seri. Vale la
pena ricordare che per prendere quella parte d’Ucraina – alcuni media
hanno rilanciato che le mire russe arriverebbero sino alla Transnistria – i
(bis)nonni sovietici avevano impiegato non meno di cinque gruppi d’armate
contro quattro armate tedesche. Gli americani per invadere l’Iraq hanno
schierato non meno di 300 mila uomini a terra. Fatte le debite proporzioni
teoriche di superfici da coprire, si scopre che i russi avrebbero bisogno di
almeno 213 mila uomini per la variante large e di 106 mila per quella small.
Del resto, per invadere e occupare Kosovo, Serbia e Bosnia-Erzegovina
(150.470 km2), i generali Nato avevano stimato necessari 200 mila uomini
per una superficie due volte più piccola di quella ucraina in questione.
Con 40 mila uomini schierati in esercitazioni intimidatorie, ma
decisamente entro i tetti di forze previsti in ambito Osce, la Russia può
tranquillamente dichiarare che non vuole e non ha bisogno d’invadere il
resto dell’Ucraina orientale: non può, a meno di non correre grossi rischi.
La prova del nove è data proprio dalla propaganda di Kiev, per cui le stime
lanciate sono di 120 mila soldati russi, non trovati però nemmeno dai
satelliti e dai fotoricognitori (per non parlare degli osservatori e dei
meccanismi di trasparenza per le esercitazioni) che da un quarto di secolo
garantiscono la correttezza quantitativa degli schieramenti.
Problema ben più grosso, invadendo di colpo l’Ucraina orientale Putin
non può politicamente sostenere un’annessione così importante. Non
dimentico della lezione di Lenin secondo il quale esiste una relazione
reciproca tra quantità e qualità, Putin sa che un colpo chirurgico delle
dimensioni approssimative di Kosovo, Transnistria, Ossezia meridionale ed
Abkhazia può essere gestito a livello internazionale, mentre un boccone più
grosso induce chiaramente una frattura permanente con la Nato e
un’accelerazione dell’ingresso dell’Ucraina mutilata nell’Alleanza, proprio
quel che vuole evitare.

3. Ci sarebbe anche un altro scenario d’intervento umanitario piuttosto


estremo, ma che vale la pena d’accennare per mettere a nudo le paure sopite
di un grande pezzo d’Europa. Immaginiamo che l’Ucraina non si stabilizzi
né all’Ovest né all’Est e che sprofondi gradualmente in una guerra civile a
bassa intensità. I partiti in possesso di milizie aggressive e sempre più
armate con il saccheggio dei depositi dell’esercito regolare cominciano a far
saltare completamente il quadro istituzionale per un regolamento di conti
interno e con la parte russofona. La comunità internazionale, a cominciare
dalla Russia, evita un intervento che non desidera per un paio d’anni,
lasciando incancrenire la situazione. Nel 2016 una serie d’eventi fa
precipitare la crisi: alcuni pogrom di minoranze, ripetuti atti
d’antisemitismo, devastanti incursioni reciproche tra le due metà del paese,
infiltrazione di guerriglieri irredentisti in zone sotto sovranità polacca,
bielorussa e moldava, espropri di ditte occidentali mono- e multinazionali
tra cui quelle tedesche.
Sulla base di un protocollo «Steinmeier-Lavrov» si decide
un’operazione Onu (Unified Relief) con una catena di comando che
prevede un comandante americano, un vice russo e il nerbo dei contingenti
fornito da paesi scandinavi, baltici, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca,
Germania, Romania, Moldova, Bielorussia e Russia, più enabling
capabilities russo-americane con una spruzzata franco-britannica ed
eventualmente italiana. Inizia un’operazione di pacificazione e
stabilizzazione di quindici anni in un paese ripartito in due zone lungo il
Dnepr. Ovviamente le contrapposte propagande sottolineeranno che la croce
di ferro e la stella rossa, insieme al mai sopito revanscismo polacco-lituano,
avevano rialzato la testa, ma si trattava di un mondo immaginario, mentre la
lotta alle mafie ucraine era uno dei rompicapi peggiori della forza Onu.
Certo, le foto dei Leopard II tedeschi scaricati a Brest avevano fatto una
certa impressione tra gli europei più vecchi e più dotati di memoria, ma era
stata giusto una curiosità storica e culturale.
4. Dunque, basta sedersi e aspettare che la diplomazia faccia il suo
corso? Non è una buona idea con un giocatore come Vladimir Vladimirovič
Putin perché gli scenari di conflitto possono essere almeno due. Il primo,
che possiamo chiamare «Compagni di strada», vede un Obama stretto da un
importante establishment bipartisan di neocon e sempre più azzoppato
dall’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 2016, in lotta sotterranea per
preservare la sua eredità di pace e ricostruzione dall’irresponsabile tenacia
aggressiva dei fautori del regime change come distruzione creativa degli
scacchieri più vulnerabili. La vera guerra non sarebbe sulle rive del Mar
Nero, ma su quelle del Potomac e della Moscova. Putin, nonostante le
tentazioni di potenza tipiche di un regime autoritario, usa razionalità e
calcolo per migliorare il recupero strategico della Russia, il suo interesse
nazionale supremo. Togliere dietro le quinte le castagne dal fuoco per
Obama in Siria e dargli una mano discreta per chiudere la partita iraniana
significa creare spazi d’azione geopolitica ed economica indispensabili per
lo sviluppo futuro della Russia.
Obama, il primo presidente «democristiano» d’America, sa che bisogna
lavorare a tutto campo per proteggersi da nemici interni di cui non ha potuto
far piazza pulita nei gangli vitali dello Stato. A ben guardare, ci sono parti
consistenti dell’eredità di G.W. Bush che Obama non ha potuto/voluto
liquidare, ma l’ultima cosa che vuole è far deragliare il proprio percorso di
ricostruzione della potenza americana per avventurismi sconsiderati in posti
periferici del Mediterraneo. Il che crea delle situazioni apparentemente
contradditorie per la grande stampa anglosassone e bipolare, ma chiare per
qualunque analista politico italiano di ragionevoli capacità.
Se questa lotta nell’ombra dovesse fallire, Putin o il suo successore
hanno leve sufficienti per tentare di ricondurre l’Ucraina nella propria sfera
o per indurla a un’utile neutralità «finlandese». Venti miliardi di dollari di
debito sono solo una prima carta da calare sul tavolo, seguiti da altre per un
totale di 235 miliardi di deficit finanziario del paese. Restano sempre le
forniture di gas al paese e ai clienti europei che sono un pegno
d’interdipendenza difficile da spezzare con il liquigas importato dalla
Norvegia, dal Qatar o dagli Usa con l’estrazione da scisti. Tanto più che
intorno alle royalties del gas ruota gran parte della politica a Kiev. Chi si
vuole davvero accollare quel paese, quando non si è nemmeno in grado e
desiderosi di chiudere la partita con i Piigs?
Poi c’è un alleato sinora molto solido nel paese, una classe politica
divisa, ultranazionalista e corrotta, l’ideale per operazioni di dezinformacija
e provokacija. Passata l’euforia di Majdan, restano i problemi concreti con
in più la minaccia di secessione/autonomia di pezzi importanti del paese
capaci di portare in piazza folle più che sufficienti a destabilizzare la
politica interna, mentre la Crimea rischia di diventare, con una buona
missione Osce, un altro conflitto congelato quasi in eterno. Good morning
Kiev-nam!
ANCHE BERLINO HA PERSO A KIEV
La spinta degli ex satelliti europei di Mosca dietro il regime change
in Ucraina. Il ruolo della Partnership orientale, lo strappo della
Germania e la risposta americana. La crisi ci lascia in eredità una
nuova questione tedesca. La difficile posizione dell’Italia.
di Germano DOTTORI

I
1. l cambio di regime a Kiev e la complessa crisi che ne è discesa
sotto il profilo dei rapporti intrattenuti dall’Occidente con la Russia
derivano prevalentemente dalle pressioni esercitate da un certo numero di
paesi europei, che l’amministrazione Obama non pare aver particolarmente
gradito, impegnata com’era a gestire insieme a Mosca il dossier siriano e il
percorso di reintegrazione dell’Iran nella comunità internazionale. Non si
spiega altrimenti la velenosa invettiva rivolta all’Unione Europea
dall’assistente segretario di Stato per l’Europa e l’Eurasia, Victoria Nuland,
nel corso di una sua telefonata all’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey
Pyatt, la quale probabilmente presumeva sarebbe stata intercettata, seppure
ben difficilmente immaginasse di vederne divulgati i contenuti su
YouTube1. Noi europei – alcuni più di altri in verità – abbiamo infatti creato
un problema di cui alla Casa Bianca non si avvertiva affatto il bisogno,
determinando la distrazione di preziose risorse diplomatiche da quello che a
Washington era ritenuto l’obiettivo principale di questa fase del secondo
mandato del presidente americano: la riconciliazione con Teheran, che certo
gli eventi di Kiev e Simferopoli non hanno affatto contribuito ad avvicinare,
generando anzi forte inquietudine in Iran, specialmente tra i simpatizzanti di
Hassan Rohani.
Si può oggi affermare con relativa sicurezza che Jevromajdan non sia
scaturita da una spallata statunitense per portare l’Ucraina e magari anche
Tbilisi dentro l’Alleanza Atlantica, traguardo che Germania e Italia
negarono a George W. Bush nell’ormai lontano 2008, ma sia stata invece
l’esito degli sforzi convergenti di due raggruppamenti di paesi europei tra
loro coordinati – il Gruppo di Visegrád e la pattuglia di punta della più
ampia Partnership orientale – determinati ad attrarre nell’orbita comunitaria
gli Stati post-sovietici che ne erano rimasti esclusi. Del primo, costituitosi
nel lontano febbraio 1991 per promuovere l’adesione dei suoi membri
nell’Unione Europea, fanno parte la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia e la
Repubblica Ceca in quanto Stati successori della Cecoslovacchia, membro
fondatore nel frattempo divisosi. La seconda, invece, deriva da una proposta
avanzata nella primavera del 2008 da Varsavia e da Stoccolma ai partner
comunitari ed è ormai un’articolazione istituzionale dell’Ue, che attraverso
la Commissione europea ne gestisce le iniziative rivolte all’Armenia,
all’Azerbaigian, alla Georgia, alla Moldova, all’Ucraina e persino alla
Bielorussia, con l’obiettivo di avvicinarle gradualmente all’Europa
comunitaria. Fin dall’inizio, la storia del Partenariato si lega al tortuoso
sviluppo del dialogo bilaterale tra Bruxelles e Kiev, che prende le mosse già
nel settembre 2008 con l’ambizione di pervenire in tempi ragionevoli alla
negoziazione dell’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione. Viktor
Juščenko era all’epoca ancora presidente, seppure la fiamma della
«rivoluzione arancione» si fosse da tempo attenuata. Due anni dopo, nel
2010, sarebbe stata la volta di Chișinău e successivamente anche di Baku,
Erevan e Tbilisi, ma non di Minsk, esclusa da questo processo anche a
causa di un’aspra contesa personale tra la cancelliera tedesca Angela
Merkel e il presidente bielorusso, Aleksandr Lukašenko: dettaglio
retrospettivamente assai rivelatore.
Come la coeva Unione per il Mediterraneo, sorta dal progetto
sarkoziano di Union Méditerranéenne, anche la Partnership orientale venne
comunitarizzata perché la Germania potesse condividerne le attività e non si
verificassero indesiderate fughe in avanti da parte dei rispettivi promotori.
In effetti, entrambe le iniziative avevano avuto originariamente una forte
valenza anti-tedesca e, in minor misura, anche anti-italiana, mirando a
smantellare il triangolo mackinderiano allestito da Roma e Berlino con
Mosca. Mentre però, quietamente e silenziosamente, Merkel iniziava già
allora a proiettare l’ombra della Germania sull’avanzata verso est
dell’Unione Europea, utilizzando anche lo strumento del Partenariato
orientale, l’Italia berlusconiana veniva progressivamente indebolita e
isolata, esposta internazionalmente al pubblico ludibrio non solo in ragione
delle intemperanze del suo presidente del Consiglio, ma altresì e forse
soprattutto in quanto zelante «avvocato della Russia in Occidente» dai
tempi della guerra in Georgia. Occorrerà comunque attendere il 2011 perché
le cose cambino radicalmente. Stati Uniti e Gran Bretagna agevoleranno
allora l’intraprendenza francese nel Mediterraneo anche per mettere in
difficoltà il governo italiano e prepararne l’avvicendamento, che sarebbe
stato precipitato più tardi da una grave crisi intervenuta
nell’approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare il debito
sovrano della nostra Repubblica, probabilmente con complicità di alcuni
grandi investitori anglosassoni, veri artefici del downgrading del merito di
credito dei titoli italiani. Neanche l’abbattimento del regime libico del
colonnello Gheddafi e l’avvio di trattative riservate per sostituire Silvio
Berlusconi a Palazzo Chigi avrebbero però potuto mascherare il fallimento
dell’esercizio transalpino2: l’Unione per il Mediterraneo si sarebbe così
rivelata sostanzialmente un flop, complice la «primavera araba», mentre il
Partenariato orientale avrebbe continuato a gettare ponti verso l’«estero
vicino» della Federazione Russa, senza che questo indirizzo geopolitico,
ormai comune, fosse mai davvero discusso nel Consiglio e nel Parlamento
europeo. La Ostpolitik dell’Unione sarebbe stata di fatto appaltata a
polacchi, svedesi e baltici, acerrimi rivali regionali di Mosca, che avrebbero
cercato sistematicamente di dilatare la loro influenza su un Intermarium
esteso fino al Caspio – ben oltre quindi le terre della Rus’ di Kiev raggiunte
dai vichinghi e anche del villaggio di Poltava, dove diversi secoli dopo
Pietro il Grande avrebbe fermato le scorrerie di Carlo XII – ponendo
inesorabilmente in rotta di collisione Europa e Russia.

2. Alla conclusione del lungo e incerto negoziato concernente l’accordo


di associazione dell’Ucraina all’Unione Europea si giunge infine nel 2013.
È un documento voluminoso, di circa 1.300 pagine, quello che Viktor
Janukovyč avrebbe dovuto firmare il 29 novembre scorso a nome del suo
paese nel corso del vertice di Vilnius. Polacchi, baltici e amici del Gruppo
di Visegrád sono perfettamente consapevoli delle implicazioni del passo e
infatti mobilitano le proprie diplomazie in tutti i paesi dell’Unione affinché
non si verifichino sorprese dell’ultima ora. Molti di loro temono ad esempio
un ripensamento dell’Italia, che proprio poche settimane prima del summit
lituano avrebbe ospitato a Trieste un importante vertice bilaterale con la
Russia, presente anche Vladimir Putin. Ma i margini d’azione di cui
dispone il governo italiano, che effettivamente dubita dell’opportunità
dell’iniziativa, sono in realtà limitati. Obtorto collo, Roma si è infatti già
messa da due anni in sintonia con «la direzione di marcia della storia» e ora
confida probabilmente che sia infine la Germania a toglierle le castagne dal
fuoco, bloccando il processo in extremis.
In effetti, complici le lunghe trattative per la formazione dell’esecutivo
di Grosse Koalition, la posizione di Berlino rimane fino all’ultimo, o quasi,
sospesa in un limbo. Cosa che consiglia ai diplomatici tedeschi di disertare
qualsiasi occasione o incontro più o meno informale che possa costringerli a
esplicitare le effettive intenzioni della Repubblica Federale. Accade anche a
Roma, quando gli organizzatori del Festival della diplomazia invitano il
viceministro degli Esteri ucraino Andrij Olefirov a parlare l’11 ottobre
scorso delle prospettive dell’accordo di associazione: di fronte a un parterre
in cui siedono numerosi i rappresentanti delle ambasciate dei paesi coinvolti
nella Partnership orientale si riconoscono diversi osservatori russi, ma
mancano i tedeschi. Alla fine, tuttavia, Berlino esce allo scoperto,
rinnegando all’improvviso una politica di dialogo e cooperazione con la
Russia perseguita per vent’anni, a partire dalla filiera energetica fino a
sfiorare una partnership strategica che avrebbe svuotato di significato la
Nato, per abbracciare la causa dell’integrazione dell’Ucraina in Europa. È
così che viene introdotto sulla scena del nostro continente un dato
geopolitico nuovo, con il quale molto verosimilmente dovremo misurarci
per parecchi anni a venire3.
È infatti il sostegno della Germania a rendere immaginabile e
concretamente possibile l’associazione di Kiev all’Ue proprio nel momento
in cui maggiormente ne è chiara la portata antirussa. Mai come adesso,
infatti, è evidente che ciò di cui si discute è nulla di meno dell’allineamento
geopolitico dell’Ucraina, contesa da progetti chiaramente alternativi e tra
loro incompatibili. Nel luglio 2013 sono infatti iniziati i negoziati finalizzati
allo stabilimento della Partnership transatlantica del commercio e degli
investimenti (Ttip), che dovrebbe fare dei confini doganali dell’Unione
Europea la nuova frontiera economica degli Stati Uniti, vincolando di fatto
Bruxelles alle scelte unilaterali di Washington in materia di concessione
della clausola di nazione più favorita. Allo stesso tempo, invece, Kiev è
vista a Mosca come componente essenziale di quell’Unione Eurasiatica con
la quale Vladimir Putin conta di consolidare la fragile presa della Russia sul
suo «estero vicino», dando vita nel contempo a un blocco geopolitico e
geoeconomico capace di resistere ai marosi della globalizzazione e
competere proprio con l’Ue e magari anche con la Cina. O di qui, dunque, o
di là. Tertium non datur, anche se qualcuno, inclusa la baronessa Catherine
Ashton, si illude che sia possibile immaginare alla fine uno statuto che
permetta all’Ucraina l’affiliazione multipla a raggruppamenti di fatto
concorrenti, magari per valorizzarne la funzione di cerniera e corridoio4.
Associazione all’Ue, accessione all’area transatlantica di libero scambio e
membership dell’Unione Eurasiatica sono infatti irriducibilmente
inconciliabili, implicando tra l’altro l’adozione di set regolatori del tutto
differenti, afferenti tanto alla sfera economica quanto a quella politica5. Non
è come nel caso della Partnership for Peace della Nato, di cui sono partecipi
anche Stati inseriti nel Patto di Tashkent e nell’Organizzazione della
cooperazione di Shanghai. Così la battaglia di Kiev è prima di ogni altra
cosa uno scontro sulla futura collocazione geopolitica dell’Ucraina,
destinato a determinare se il paese debba gravitare sull’asse euroatlantico o
rifluire definitivamente verso Mosca. È così, tra l’altro, che paiono
interpretarlo anche i protagonisti direttamente interessati. Ben si
comprende, perciò, perché tante bandiere europee sventolino nella piazza
dell’Indipendenza di Kiev, almeno nelle fasi iniziali della rivolta.

3. L’Ucraina non poteva quindi evitare la lacerazione, che del resto


Samuel Huntington aveva previsto con vent’anni di anticipo6. Una sua parte
doveva essere in qualche modo sacrificata, a meno di non accettare la
frantumazione del paese, che è uno sbocco ancora possibile. Mosca ha
contribuito efficacemente a evidenziare questa realtà, anche con la
decisione di marcare con il filo spinato la frontiera proprio laddove si
concentravano gli ucraini russofoni che maggiormente dipendevano per il
proprio sostentamento dalle relazioni commerciali con la Russia. Saranno
proprio loro, la principale costituency del Partito delle regioni di Janukovyč,
a puntare per primi i piedi contro la prospettiva dell’accordo di
associazione. Il resto lo farà il Fondo monetario internazionale, cioè la
massima espressione del Washington Consensus, vincolando a condizioni
draconiane la concessione dei prestiti di cui Kiev aveva bisogno per
separarsi da Mosca senza incorrere in un default rovinoso: un vero e proprio
assist per il Cremlino, che in effetti interverrà a trarre d’impaccio
l’imbarazzata leadership ucraina con una generosa elargizione, praticamente
una sovvenzione estera delle rendite indispensabili al mantenimento della
pace sociale in Ucraina, in cambio ovviamente della rinuncia all’accordo di
associazione all’Ue.
Così, tra il 28 ed il 29 novembre scorsi va in scena a Vilnius uno
spettacolo mutilato della sua componente principale. La presidenza ucraina
annuncia a solo una settimana dal summit la propria intenzione di fare un
passo indietro. Verranno invece parafati gli accordi bilaterali di
associazione con Georgia e Moldova, con l’obiettivo di giungere alla loro
firma entro un anno, sempre che non si verifichino imprevisti. La parte
perdente di questa mano di poker, però, non ci sta e reagisce, dando vita alle
proteste che condurranno infine alla deposizione del legittimo governo di
Kiev lo scorso 22 febbraio e a tutto ciò che ne sarebbe seguito: la
secessione della Repubblica Autonoma di Crimea e la sua accessione alla
Federazione Russa, l’uscita dell’Ucraina dalla Comunità degli Stati
Indipendenti e la firma del capitolato politico dell’accordo di associazione
all’Unione Europea.

4. Tutto questo non è stato pianificato negli Stati Uniti, anche se è stato
reso possibile dal calo d’interesse dimostrato dal presidente Obama verso il
nostro continente, avvertito persino nella cosiddetta Nuova Europa –
anzitutto in Polonia – che aveva da tempo iniziato a considerare anche altri
punti di riferimento7. È in questa diminuzione d’attenzione da parte di
Washington che va cercata anche la ragione del cambio di rotta attuato dalla
Germania. Berlino deve aver infatti intuito il vuoto geopolitico
determinatosi alle proprie frontiere orientali e ha probabilmente deciso di
sacrificare gli eccellenti rapporti intrattenuti con Mosca per andarlo a
occupare. In sintesi, la Repubblica Federale parrebbe aver lanciato,
attraverso il sostegno a Jevromajdan, un’opa che riguarda tutta l’Europa
uscita dal Patto di Varsavia, rinviando a un futuro più lontano l’eventuale
ripresa della cooperazione bilaterale con la Federazione Russa, magari sulla
base di rapporti di forza modificati a proprio favore. A leggere gli sviluppi
recenti in questo modo è tra gli altri Dmitrij Trenin, l’autorevole direttore
del Carnegie di Mosca, che in un editoriale pubblicato online il 14 febbraio
scorso non esita a scrivere della Germania come di una potenza eurasiatica
emergente, impiegando nei suoi confronti termini assai diversi rispetto a
quelli finora utilizzati per descrivere la più rassicurante Berliner Republik
euroatlantica, che apparterrebbe ormai al passato8.
L’assertiva Germania che si profila all’orizzonte sarebbe sensibile
persino agli interessi della Cina e ovviamente libera da ogni residuo timore
reverenziale nei confronti degli Stati Uniti, pronta perciò ad abbandonare il
solco bismarckiano tracciato da Helmut Kohl, che ne aveva contraddistinto
il cammino nei due decenni seguenti alla riunificazione, per abbracciare un
rischioso e solitario sentiero neoguglielmino. Il passo decisivo matura
proprio mentre prende forma il patto di grande coalizione destinato a
reggere le sorti della politica tedesca nei prossimi anni, quasi a sottolineare
il carattere condiviso e bipartisan della svolta, e coincide con una serie di
interessanti sortite, con le quali il presidente federale, la stessa cancelliera e
i suoi ministri degli Esteri e della Difesa abbattono un altro tabù,
prefigurando apertamente una Germania che dovrà in futuro essere decisiva
anche militarmente nei conflitti combattuti all’estero. Il tutto senza suscitare
alcuna apprezzabile reazione interna o internazionale di riprovazione.
Di qui, verosimilmente, il disappunto colto nella conversazione
telefonica tra Nuland e Pyatt. E soprattutto l’intervento smart – secondo
consolidata preferenza obamiana – ma ciò nondimeno inesorabile, con il
quale gli Stati Uniti riescono a rientrare rapidamente in gioco a Kiev,
ristabilendo le gerarchie di potenza che Berlino stava cercando di
trasformare a proprio favore con l’aiuto incomprensibilmente prestatole
dalla Francia, in evidente stato confusionale, persino orgogliosa di aver
partecipato alla resurrezione del Triangolo di Weimar.
Mentre Frank-Walter Steinmeier, Laurent Fabius e Radosław Sikorski
pensano, nel pomeriggio del 21 febbraio scorso, di aver contribuito a
delineare il percorso della transizione ucraina verso nuovi equilibri,
inducendo il leader di Udar, Vitalij Klyčko, e il presidente Janukovyč a
firmare al proprio cospetto un accordo di compromesso, una piazza
opportunamente eccitata insorge e, sotto la guida di poche migliaia di
miliziani nazionalisti armati, appartenenti a gruppi radicali come Pravyj
Sektor e Svoboda, provoca il collasso del locale sistema politico. All’alba
del nuovo giorno, infatti, fiutato il pericolo che incombe su di lui, il
presidente abbandona la capitale, facendo perdere per qualche giorno le
proprie tracce prima di riapparire in Russia, mentre la gente irrompe anche
nella sua residenza di Kiev, rivelandone al mondo intero i grotteschi
eccessi. Come esito di questi eventi tumultuosi, il capo dello Stato è
dichiarato decaduto e sostituito provvisoriamente dal presidente della Rada,
Oleksandr Turčynov, dirigente di Patria, il partito filoamericano guidato da
Julija Tymošenko, che viene immediatamente liberata dal carcere. In breve,
un altro esponente della medesima formazione, Arsenij Jacenjuk, è
nominato primo ministro. Per Kličko e i suoi sponsor esteri è una disfatta,
dalla quale l’ex pugile cerca di riprendersi annunciando la propria
candidatura alle presidenziali indette per il 25 maggio, in significativa
concomitanza con il voto per il rinnovo del Parlamento europeo, con
speranze tanto flebili di successo da indurlo poi a ritirarsi, per favorire la
campagna dell’oligarca Petro Porošenko.
Il campione sul quale i tedeschi avevano puntato le proprie carte è stato
messo fuori combattimento e un’intera prospettiva politica rovesciata in
meno di ventiquattr’ore. La sconfitta riportata da Berlino non è inferiore a
quella patita da Mosca e per di più è priva di possibilità di riscossa
immediata. Non ci sono infatti Crimee per i tedeschi, ma soltanto la strada
di un graduale rientro nei ranghi, in attesa di tempi migliori, quando gli
americani si ritireranno nuovamente dagli affari europei che tanto paiono
tediarli, per tornare a occuparsi di Pacifico e Medio Oriente.

5. Favorendo o comunque assecondando questo blitz, Washington è


riuscita ad avere l’ultima parola, riconquistando la propria leadership
politica e morale su tutta l’Europa dell’Est. Qualcuno accuserà peraltro il
presidente Obama di incertezze, debolezza e passività di fronte
all’intervento russo a Sebastopoli. Ma il dato di fondo è che con un
investimento minimo gli Stati Uniti hanno modificato l’allineamento
geopolitico dell’Ucraina. Poco importa adesso che un pezzo manchi
all’appello, anche se occorre denunciarlo come uno scandalo, perché alla
mappa d’Europa è stata apportata qualche variazione di modesta entità. È
invece un prezzo ragionevole a fronte della notevole alterazione impressa
alla conformazione delle sfere d’influenza nel nostro continente, che è in
grado di spiegare perché l’America non abbia voluto veramente, almeno per
adesso, calcare eccessivamente la mano nei confronti di Mosca. Farlo
potrebbe infatti rivelarsi a questo punto controproducente, esistendo una
serie di scacchieri molto delicati nei quali la Casa Bianca è consapevole di
aver bisogno di una certa cooperazione da parte della Russia. E questo stato
d’animo è condiviso da diversi alleati europei, inclusa l’Italia.
Ecco perché l’Alleanza Atlantica ha assunto tutte le misure necessarie a
rassicurare i paesi membri che maggiormente temono un ritorno di fiamma
del Cremlino, rinforzando in particolare le difese della Polonia e delle
repubbliche baltiche, senza però fare niente di più, anzi rifiutando la
prospettiva di un intervento diretto e automatico in Ucraina. Jacenjuk ha
finito in questo modo con il trovarsi nella stessa scomoda posizione di
Mikheil Saakašvili sei anni fa, cioè costretto a fronteggiare da solo e con
unità di dubbia lealtà le preponderanti forze russe affluite in Crimea.
Washington si accontenterà di segnalare il suo apparente malcontento
aggravando i toni della propria comunicazione politica e colpendo con
sanzioni mirate alcune influenti personalità vicine al presidente russo.
Nessuno, peraltro, che eserciti responsabilità dirette di governo e tutti
soggetti, comunque, che hanno avuto il tempo di prepararsi all’eventualità
di un blocco dei propri beni depositati in Occidente. Gesticolazione politica
che salva le apparenze e non pregiudica le possibilità di ricomposizione
futura, come diventerà chiaro a fine marzo, con l’ennesima telefonata fra
Obama e Putin e gli incontri parigini tra Kerry e Lavrov.
L’Unione Europea segue finalmente a ruota. La Germania sembra infatti
aver compreso l’antifona e assume un atteggiamento più conciliante e
omogeneo rispetto a quello adottato dagli Stati Uniti, quindi oggettivamente
stabilizzatore, rinunciando a ulteriori accentuazioni del carattere antirusso
della sua nuova politica. Fa marcia indietro, piuttosto facilmente e senza
perdere la faccia, perché può comunque chiamare in causa la propria
dipendenza energetica dalla Russia, che certamente viene ricordata nel
corso delle visite che la cancelliera Merkel e il suo ministro degli Esteri
Steinmeier compiono rispettivamente a Varsavia e nelle capitali baltiche.
Ma sarebbe illusorio credere che tutto possa tornare davvero come
prima. Lo dimostrano lo stesso capo della diplomazia federale, che si reca
anche a Kiev per rassicurare Jacenjuk, e l’inopinata generosità di cui
l’Unione Europea inizia a far sfoggio nei confronti dell’Ucraina. È per
questo motivo che è lecito ipotizzare che la crisi di Jevromajdan ci lascerà
comunque in eredità una questione tedesca se possibile ancora più
complessa e spinosa di quella che abbiamo affrontato in questi anni di gravi
difficoltà economico-finanziarie. In Germania sono infatti affiorate nuove
ambizioni e sarà difficile non tenerne conto, anche se è presumibile che
Berlino cercherà per qualche tempo di evitare nuovi attriti con Washington.
Molto dipenderà peraltro da come evolveranno le relazioni tra l’America e
la Russia, perché non è affatto escluso che Mosca assuma per conto proprio
delle iniziative tese a danneggiare importanti interessi statunitensi ed
europei, ostacolando ad esempio la riconciliazione tra Iran e comunità
internazionale, come sarebbe in ogni caso suo interesse fare, con l’effetto
però di ricompattare l’Occidente.

6. Anche per questo motivo è interessante osservare come si è mossa in


questo frangente l’Italia, che fra tutti i paesi europei è quello teoricamente
meglio posizionato per agire da elemento di moderazione nei rapporti tra
Mosca e l’Occidente. Della crisi ucraina hanno dovuto occuparsi sia il
governo diretto da Enrico Letta, con Emma Bonino alla Farnesina, che
quello subentratogli recentemente, guidato da Matteo Renzi, con Federica
Mogherini alla testa del ministero degli Esteri. Ma l’azione
complessivamente svolta dal nostro paese non pare aver risentito di alcun
cambiamento sostanziale.
Lo scorso novembre, Roma aveva accolto con un sospiro di sollievo
l’arretramento di Janukovyč e la mancata firma dell’accordo di associazione
dell’Ucraina all’Ue, essendo perfettamente consapevole delle implicazioni
che questo avrebbe potuto comportare nelle proprie future relazioni con la
Russia, vista non solo come insostituibile fornitrice di risorse energetiche,
ma altresì come un partner economico promettente sul quale investire,
all’occasione cooperando con Mosca anche sul terreno squisitamente
geopolitico, com’era accaduto ad esempio alla vigilia dell’intesa russo-
americana sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano.
Logico quindi che l’Italia abbia evitato di esporsi nelle settimane della
protesta a Jevromajdan, malgrado l’opinione pubblica del nostro paese
fosse indotta da una rappresentazione piuttosto piatta degli eventi da parte
dei nostri media nazionali a simpatizzare apertamente per la causa dei
dimostranti. A Roma si temeva che da un’associazione dell’Ucraina
all’Unione potessero derivare nuovi costi da sostenere per stabilizzare Kiev
e soprattutto si intuiva che a questo passo sarebbe presto o tardi stato
necessario aggiungere la prospettiva di un’adesione vera e propria, del resto
ormai apertamente evocata anche dal presidente della Commissione, José
Manuel Barroso9.
Anche per sottolineare i propri dubbi al riguardo, diversamente da
Barack Obama e Angela Merkel, il nostro presidente del Consiglio aveva
partecipato alla cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici di Soči. Dopo il
rovesciamento di Janukovyč, e quello dello stesso Letta, il nuovo governo
Renzi non si è discostato molto da questa linea, pur declinandola in modo
evidentemente appropriato alle mutate circostanze. Così la nostra
diplomazia si è adeguata alle condanne verbali espresse dagli Stati Uniti e
da tutti i nostri partner europei, concentrando però i propri sforzi sulla
ricerca della maniera migliore di limitare i danni in sede di definizione delle
sanzioni da adottare nei confronti della Russia per l’appoggio dato ai
secessionisti in Crimea.
Ma forse il passaggio più rivelatore è quello che ha visto l’Italia
schierarsi apertamente contro il coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica
nella gestione della crisi ucraina, proponendo invece il suo deferimento
all’Osce, istituzione paneuropea derivante dal processo di Helsinki, priva di
uno strumento militare proprio e soprattutto partecipata «alla pari» dalla
Russia e dai suoi alleati eurasiatici. Una scelta per l’apertura al dialogo e,
quindi, per l’implicita accettazione del fatto compiuto in Crimea, purché
all’incorporazione nella Federazione della penisola secessionista non
seguano ulteriori acquisizioni territoriali. Sembra pertanto che Roma e
Berlino non siano più perfettamente sulla stessa lunghezza d’onda, mentre
l’Italia e gli Stati Uniti potrebbero esserlo più di quanto non paia a prima
vista. Se ne è avuta riprova anche nel corso della breve visita di Obama nel
nostro paese, non priva di significativi incoraggiamenti. Sarebbe senz’altro
una buona notizia per il nostro paese, giacché Matteo Renzi ha bisogno di
un forte sostegno esterno nel suo tentativo di modificare in qualche modo
gli equilibri interni ad una Unione Europea sempre più a trazione tedesca.

1
«Victoria Nuland: Leaked Call Shows US Hand on Ukraine», Bbc News, US & Canada, 7/2/2014.
2
A. FRIEDMAN, Ammazziamo il gattopardo, Milano 2014, Rizzoli, pp. 39 ss.
3
Lo riconosce anche il fondatore di Stratfor. Cfr. G. FRIEDMAN, «New Dimensions of U.S. Foreign
Policy toward Russia», 11/2/2014.
4
C. ASHTON, «Europa-Russia, ora lavoriamo insieme», Corriere della Sera, 25/2/2014, p. 15.
5
Lo ammette anche Leonardo Bellodi, nel suo saggio «Mosca vs Bruxelles: lo scontro evitabile»,
Limes, «Grandi giochi nel Caucaso», n. 2/2014, pp. 115-122.
6
S.P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, 2a ed. italiana dell’originale
del 1996, Milano 2001, Garzanti, pp. 239-242. L’autore ricorda tra l’altro come già nel gennaio 1994
gli abitanti della Crimea avessero eletto un presidente la cui campagna elettorale si era basata sullo
slogan dell’unità con la Russia.
7
Cfr. M. ZABOROWSKI, «Agli americani non serviamo più», Limes, «Polonia, l’Europa senza
euro», n. 1/2014, pp. 121-124 e, nello stesso numero, D. FABBRI, «Se Obama tradisce Varsavia con
Mosca», pp. 125-32.
8
D. TRENIN, «Enter Germany, A New Great Power in Eurasia», 14/2/2014, consultato sul sito
Internet di Carnegie Europe, Judy Dempsey’s Strategic Europe.
9
«Ucraina: Barroso, prospettiva europea per Kiev», Ansa, 3/3/2014.
MAJDAN VISTA DA VARSAVIA
La rivolta ucraina nasce sotto una cattiva stella: all’ombra di una
Russia revanscista e di un Occidente in crisi. Eppure, è l’occasione
per avviare un percorso di desovietizzazione e di riconciliazione
con la Polonia. Purché l’Ue faccia la sua parte.
di Olaf OSICA

1.N on sarebbe dovuto accadere. Mentre la «primavera araba»


sprofondava il Nordafrica in una profonda crisi politica, in Europa orientale
il sistema oligarchico (una forma post-sovietica di sultanato) raggiungeva la
piena maturità, fatta di stagnazione economica, inerzia sociale, corruzione
dilagante e crescente autoritarismo pubblico. Tutto questo aveva
gradualmente avvicinato l’Ucraina (come pure la Moldova) al modello
russo, anche se l’assenza di risorse naturali la condannava a diventare
piuttosto una seconda Bielorussia, con un’economia dipendente dal prezzo
del gas e dagli investimenti russi.
In questo contesto, il programma di Partenariato orientale avviato
dall’Ue nel 2009 sembrava un tentativo ritardato di invertire il trend
mediante la creazione di uno spazio per le riforme economiche, politiche e
sociali sul modello di quelle che, dopo il 1989, avevano trasformato la
Polonia, i paesi baltici, l’Ungheria, la Repubblica ceca e la Slovacchia. Il
partenariato era un investimento a lungo termine e senza garanzie di
successo su una generazione per la quale l’Unione Sovietica costituiva al
massimo il luogo di nascita, avendo vissuto tutta la vita in un’Ucraina, una
Moldova e una Bielorussia indipendenti.
Perciò l’intenzione di firmare l’accordo di associazione tra Ue e Ucraina
al vertice di Vilnius del 21 novembre 2013 rappresentava, nel migliore dei
casi, l’inizio di un percorso incerto. Nessun esperto dell’area post-sovietica
e delle abitudini delle sue élite si illudeva che il programma comunitario
avrebbe cambiato rapidamente le regole del gioco politico nella regione.
L’obiettivo non era destabilizzare il sistema, bensì costruire una rete di
collegamenti che permettessero di moderare il comportamento delle
oligarchie, influendo sulle loro scelte tutt’altro che imparziali e creando così
un clima di fiducia. Anche con la Russia.
E invece è successo.
Anche se in linea retta tra Varsavia e Kiev vi sono solo 100 chilometri
in più che tra Varsavia e Berlino, per un europeo medio l’Europa orientale
era un luogo dimenticato da Dio e dalla storia. Poi, nel giro di tre mesi,
l’Ucraina ha smesso di essere una terra incognita tra Ue e Russia: a partire
dal vertice di Vilnius, il paese è stato prima testimone di proteste sociali, poi
di un’insurrezione contro le autorità e infine di una rivoluzione che ha
portato alla fuga del presidente Viktor Janukovyč (21 febbraio) e
all’invasione armata della Russia (28 febbraio), culminata nella separazione
di fatto della Crimea dall’Ucraina e nella sua annessione alla Federazione
Russa.
È ancora troppo presto per dire se la rivoluzione ucraina si porrà sulla
scia delle rivoluzioni centroeuropee del 1989 – che Timothy Garton Ash
chiama «rifoluzioni», ossia rivoluzioni attuate tramite riforme – o se rimarrà
sospesa nel limbo che separa le speranze della popolazione dalla debolezza
dell’economia. Questa si trova oggi di fronte a una doppia sfida: riforme
profonde e dolorose, che la Polonia ha sperimentato all’inizio degli anni
Novanta; ostilità della Russia, che mira a destabilizzare l’Ucraina e a
violarne la sovranità nazionale.

2. Come è potuto succedere? Una breve sintesi dell’accaduto ci aiuterà a


comprendere meglio la natura dei cambiamenti avvenuti, le loro
conseguenze e il prezzo dell’aggressività russa.
Qualche giorno prima del vertice di Vilnius il presidente Janukovyč
informò i rappresentanti della Commissione europea che non avrebbe
firmato l’accordo di associazione. Già allora era chiaro che il vero motivo
della sua decisione erano le pressioni della Russia, che minacciava non solo
conseguenze economiche per l’Ucraina (in agosto aveva bloccato gli
scambi commerciali per vari giorni), ma anche ripercussioni personali
contro lo stesso Janukovyč e la sua famiglia. Analogamente a settembre,
dopo un incontro con Putin durato parecchie ore, a perdere interesse verso
una collaborazione con l’Ue era stato il presidente armeno Serž Sargsyan.
Perché la Russia ha messo l’Ucraina con le spalle al muro? Il motivo è
che già allora non voleva che l’Ucraina divenisse terreno di contesa fra
Russia ed Europa. Voleva che entrasse a forza nell’Unione doganale e
nell’Unione euroasiatica di cui fanno parte Bielorussia e Kazakistan. La
Russia ha infranto un delicato status quo mettendo a rischio la stabilità
dell’Ucraina, cosa che l’Unione Europea non aveva avuto il coraggio di
fare. Janukovyč, però, avrebbe potuto firmare l’accordo di associazione e
tirarne per le lunghe la ratifica in parlamento, ricattando a turno Russia e
Ue, in un gioco che conosceva bene. Invece ha deciso diversamente,
dimostrandosi un politico debole.
Anche gli eventi successivi hanno preso una piega imprevista. La
rinuncia alla firma dell’accordo di associazione ha generato proteste. La
gente ha iniziato a riunirsi in Majdan, la piazza principale di Kiev,
affermando che la decisione di Janukovyč era una prova che in Ucraina non
sarebbe cambiato mai nulla e che non aveva neppure senso sognare una vita
migliore in un paese normale. In questa prima fase, Majdan ricordava più
un movimento di «indignati» sul modello spagnolo che non l’embrione di
un’organizzazione rivoluzionaria. La sua particolarità, rispetto alle proteste
in Europa occidentale, era la presenza di bandiere dell’Unione Europea
come simbolo di un mondo migliore.
Tutto sembrava indicare che Majdan non avrebbe travalicato la sua
fisionomia: i tentativi dei leader d’opposizione di darle una veste politica
sono stati accolti da un coro di fischi. La piazza non si fidava di nessun
politico. Senza un obiettivo preciso, la protesta ha iniziato rapidamente a
perdere vigore. Una settimana dopo, il numero di manifestanti è diminuito
drasticamente, ma proprio quando sembrava che Janukovyč si sarebbe
limitato ad attendere la fine della protesta, la polizia ha picchiato
brutalmente un gruppo di studenti che dormivano in piazza. Le ripetute
azioni repressive della polizia hanno accresciuto la determinazione dei
dimostranti.
A partire dalle prime settimane di dicembre, Majdan ha iniziato a
trasformarsi in un movimento politico sempre più consapevole dei propri
obiettivi (le dimissioni del governo) e dotato di proprie infrastrutture. La
massa ha dato avvio alla costruzione di una fortezza nel centro della città,
provvista di logistica, rifornimenti, servizio d’ordine e di una sua vita
culturale. La piazza si è alleata con i leader dell’opposizione politica
(Jacenjuk, Klyčko e Tjahnybok), che nelle settimane successive hanno
cercato inutilmente di negoziare con le autorità la ricostruzione del governo,
il ritiro delle leggi contro i dimostranti e la fine delle persecuzioni contro
chi aiutava la piazza. Ma la piazza non si fidava dell’opposizione,
semplicemente aveva accettato le sue trattative con le autorità nella
speranza di una vittoria pacifica della protesta. L’opposizione, dal canto
suo, temeva la spontaneità e la forza di Majdan, ma senza il suo appoggio
non poteva negoziare con il presidente Janukovyč e il suo Partito delle
regioni (omologo ucraino di Russia unita). Lo stallo nei colloqui e l’operato
sempre più brutale delle autorità hanno portato a un’escalation di proteste:
tra gennaio e febbraio sono nate nuove Majdan in altre città dell’Ucraina
occidentale e centrale allo scopo di prendere gradualmente le redini
dell’amministrazione locale. Tutto senza spargimenti di sangue e senza
slogan separatisti. La piazza ha iniziato ad assumere il carattere di
un’insurrezione nazionale contro le autorità.
L’ultimo capitolo, quello rivoluzionario, ha avuto inizio nella seconda
settimana di febbraio, quando nell’arco di tre giorni le forze speciali della
polizia hanno ucciso quasi un centinaio di dimostranti a Kiev. Per tutta
risposta Majdan si è rivelata non solo una forza politica, ma anche una forza
militare. La negoziazione del cessate-il-fuoco del 21 febbraio, portata avanti
dai leader dell’opposizione e dai ministri degli Esteri di Polonia, Germania
e Francia, sembrava poter ripristinare il dialogo politico. Il presidente
Janukovyč ha accettato le elezioni presidenziali anticipate, la riforma
costituzionale e il ritiro delle leggi contro i manifestanti, ma non ha fatto in
tempo a firmare nulla: qualche ora dopo è fuggito da Kiev in circostanze
misteriose insieme a un gruppo di collaboratori. Con lui sono scomparsi
anche i capi dei servizi segreti e i vertici del ministero dell’Interno. La
rivoluzione aveva vinto, ma era solo la fine di un’ennesima fase della crisi
provocata dal rifiuto di firmare l’accordo di associazione con l’Ue e dagli
errori commessi dalle autorità. Una settimana più tardi le truppe
dell’esercito russo sono uscite in tenuta antisommossa dalle basi russe in
Crimea per dare avvio all’invasione armata dell’Ucraina. Il presidente
Janukovyč è ricomparso a Rostov sul Don, da dove in una conferenza
stampa ha affermato di non essere mai fuggito e di essere ancora il
presidente del paese. La Russia ha rifiutato di riconoscere il nuovo governo
e ha definito la rivoluzione ucraina un «colpo di Stato».

3. L’aspetto fondamentale di questi avvenimenti è stato la nascita di un


autentico movimento nazionale operante in base alla democrazia diretta, un
fatto del tutto nuovo per l’Ucraina. La «rivoluzione arancione» del 2004, la
prima lezione di democrazia nel paese, era passata velocemente nelle mani
delle élite politiche. I brogli alle elezioni presidenziali (quando Viktor
Janukovyč si contendeva per la prima volta la presidenza con Viktor
Juščenko) erano serviti all’opposizione per un cambio di poltrone, ma non
avevano portato a una vera trasformazione del paese. Memore di
quell’esperienza, Majdan si ritiene la guardiana degli ideali della
rivoluzione e l’unica autorità nazionale alla quale deve rispondere il
governo. Per questo la protesta rimane in piazza come un elemento
ineludibile della vita politica.
Questa protesta evolverà in un movimento politico sul modello di
Solidarność, alleandosi con l’opposizione e assumendosi la responsabilità di
governo? O rimarrà solo una forma di contestazione, avanzando pretese
sempre maggiori senza volersi assumere alcuna responsabilità? Entrambe le
prospettive produrranno inevitabilmente divisioni all’interno della piazza, i
cui leader daranno vita a propri progetti politici e favoriranno il ricambio
delle élite dei quadri dell’apparato statale. Majdan si dimostrerà fonte di
stabilità interna per l’Ucraina o bloccherà il passaggio dalla fase
rivoluzionaria al normale funzionamento del paese? Oggi è troppo presto
per rispondere a queste domande.
L’altra conseguenza importante della rivoluzione ucraina è stata la
crescita della coscienza nazionale e statale. Quando nel dicembre del 1991
Boris El’cin, Leonid Kravčuk e Stanislaŭ Šuškevič firmarono l’atto che
segnava la fine dell’Urss e la nascita di Russia, Ucraina e Bielorussia, non
vi furono rivoluzioni, ma solo l’istituzione di nuovi soggetti di diritto
internazionale. In Ucraina non c’era stata Solidarność e l’idea nazionale era
troppo poco presente nella coscienza collettiva per giocare un ruolo
importante nella creazione del paese. L’Ucraina nacque in seguito a un
terremoto geopolitico, non a un progetto politico consapevole. Nell’arco di
25 anni ha rafforzato la sua autonomia, creato istituzioni politiche proprie
(benché difettose) e difeso la sua economia. Ma non è mai uscita da una
dimensione post-sovietica, impersonata da élite che avevano fatto carriera
in Urss e dalla spaccatura tra la narrazione storica sovietica e quella
nazionale. Gli ultimi mesi hanno accelerato il processo di formazione di una
coscienza nazionale: il senso di comunità politica, l’importanza dell’unità
territoriale (senza ignorare le differenze regionali) e la convinzione che
l’esistenza dell’Ucraina abbia un significato profondo. Sullo sfondo della
rivoluzione è giunta a compimento anche un’altra fase della
desovietizzazione dello spazio collettivo: la distruzione dei monumenti di
Lenin e l’eliminazione dei simboli sovietici dagli edifici pubblici.
L’invasione della Russia apre una fase ulteriore, che accelera
l’educazione nazionale degli ucraini. Non è solo un paradosso, ma anche
una testimonianza dell’enorme stupidità del Cremlino, che invece di
puntare a instaurare nuovi legami con l’Ucraina (che vuole essere sua
partner sul piano sociale, economico e politico) la accusa di sciovinismo. Il
risveglio nazionale dell’Ucraina non è diretto contro i russi, che sono un
elemento stabile del suo paesaggio sociale e culturale. In Ucraina la
popolazione russa non è mai stata oggetto di repressioni da parte dello
Stato. Nessuno ha mai impedito ai russi dell’Ucraina orientale e
meridionale, compresa la Crimea, di fare affari, studiare e coltivare la
propria cultura. Nessuno ha mai impedito loro di fare carriera nelle strutture
statali. Tra i soldati e gli ufficiali dell’esercito ucraino in Crimea, circondato
da truppe russe, c’erano e ci si sono tuttora molti russi.
L’aggressione russa cambierà le cose? O la paura del radicalismo
porterà i suoi frutti, dando finalmente a Mosca una scusa per difendere i
suoi connazionali? Finora la corrente radicale di Majdan, Pravyj Sektor
(Settore di destra), è una minoranza nel mare dei dimostranti e non
influenza la politica delle autorità. Ma quando i vertici cadranno sotto la
spinta delle accuse di passività nei confronti dell’invasione russa e del
ricatto economico, i radicali potrebbero aumentare. Sarà l’ennesimo
«successo» della politica del Cremlino e una prova che la Russia riesce a
compattare solo i veri nemici, mentre gli amici se li deve comprare.
La nuova Ucraina durerà nel tempo o sarà solo un episodio a cui seguirà
una restaurazione di velluto o un periodo di anarchia? Qualunque scenario è
possibile. Ormai il modello post-comunista e post-sovietico di sviluppo
sociale, politico ed economico si è esaurito e la rivoluzione ucraina ne è una
chiara prova. Ma sarà difficile recuperare il tempo perso. La sfida non si
gioca solo sull’economia, ma anche sul sistema statale, bisognoso di un
efficace decentramento che rispecchi la pluralità del paese senza
trasformarlo in un agglomerato di soggetti che mettono in dubbio
l’esistenza di una nazione comune (come vorrebbero i politici del
Cremlino).

4. La nuova Ucraina non ha fortuna nemmeno per quanto riguarda la


situazione internazionale: in Europa orientale la primavera dei popoli del
1989 è avvenuta all’ombra della vittoria politica ed economica
dell’Occidente su un’Unione Sovietica sempre più debole. Oggi è il
contrario: la Russia si trova all’apice di un regime autoritario sostenuto dai
petrodollari che spinge sul tasto delle emozioni nazionali, mentre
l’Occidente sta attraversando una profonda crisi che non riguarda solo
l’economia, ma soprattutto le idee, il coraggio e le ambizioni.
Dal punto di vista polacco, l’Ucraina non è in grado di affrontare
l’intervento russo e di attuare allo stesso tempo le riforme. Per questo a
Varsavia si discute soprattutto dell’esigenza di creare un’ampia coalizione
di paesi europei che, insieme a Stati Uniti e Canada, si impegnino ad aiutare
il paese. Sono necessari sia aiuti umanitari di carattere temporaneo sia aiuti
a lungo termine, legati ai prestiti e all’introduzione delle riforme. Oggi in
Polonia si pensa all’Ucraina in maniera analitica e pragmatica. La Polonia
vorrebbe che l’Ucraina seguisse la via polacca alle trasformazioni sociali,
politiche ed economiche. A differenza del 2004, quando è scoppiata la
rivoluzione arancione, Varsavia ha però oggi un quadro esaustivo delle
possibilità e delle sfide davanti alle quali si trova la politica ucraina. Questo
significa che il suo grado d’impegno dipenderà dalla determinazione dei
futuri governi ucraini a riformare il paese.
Il secondo elemento che influisce sul modo in cui la Polonia guarda
all’Ucraina è la storia comune dei due paesi, compreso il ricordo dei crimini
e dei torti reciproci. Negli ultimi 25 anni la Polonia ha cambiato
profondamente il modo di pensare alla propria storia in relazione ai suoi
vicini. Lo stesso non si può dire dell’Ucraina. I movimenti nazionalisti
ucraini hanno impedito un dibattito serio sui crimini contro la popolazione
polacca (il massacro di Volinia). La riconciliazione con la Polonia e
l’assunzione di responsabilità ha esposto il movimento nazionalista ucraino
ad attacchi da parte della storiografia comunista e russa, che in questo modo
ha evitato una discussione sui crimini del comunismo e della Russia nel
paese. La rivoluzione è un’opportunità per avviare la riconciliazione. Sarà
un processo lungo e tortuoso, ma indispensabile per una collaborazione a
lungo termine.
Questa rivoluzione – come qualunque altra – non l’ha voluta nessuno.
Ma visto che è avvenuta, sarebbe un errore pensare che il ruolo dell’Ue in
Europa orientale e i suoi rapporti con la Russia non cambieranno. L’Ucraina
può rappresentare un’insperata vittoria dell’Europa o l’inizio di nuovi
problemi, ma di sicuro deve rimanere un esempio di rivolta civile, che con
le sue richieste di libertà e democrazia sta forzando un pacifico cambio di
regime.

(traduzione di Alessandro Amenta)


COSA CI GUADAGNA LA CINA IN
CRIMEA
La ‘riconquista’ russa della penisola alimenta la retorica del
Partito comunista cinese, che ha nella tutela dell’unità nazionale
un pilastro della sua leadership. Il voltafaccia di Putin
all’Occidente spinge Mosca tra le braccia di Pechino. E allarga il
fronte anti-Usa.
di Eva HULSMAN-KNOLL

1. P uò sembrare un’ovvietà, ma per un paese vi sono numerosi


vantaggi nell’avere un approccio unitario e coerente in politica estera,
invece della cacofonia di voci e della competizione permanente che
caratterizzano l’azione internazionale degli Stati Uniti. La Cina, con la sua
smisurata enfasi sul realismo, rientra nella prima categoria. L’approccio
realista permea tutti i livelli dell’analisi politica, da quello strategico a
quello ideologico. Riproducendosi nel contesto interno, dà inoltre luogo a
un effetto moltiplicatore che accresce l’impatto delle singole azioni
governative. Tale integrazione produce una politica decisa e coerente, che
consente alla Cina di perseguire una tattica opportunistica, traendo
vantaggio dagli eventi internazionali che di volta in volta si presentano. Ciò
in quanto il paese si affaccia sulla scena internazionale avendo già risolto
numerosi dilemmi strategici.
La crisi in Crimea ha reso manifesto questo vantaggio. Apparentemente
la Cina è solo un attore marginale nel dramma ucraino, avendovi pochi
interessi diretti. Ma forte di una chiara visione del mondo e dei propri
obiettivi, Pechino è in grado di trarre pieno vantaggio dagli eventi,
sfruttando la novità principale: l’enorme spostamento degli equilibri
geopolitici connesso al fatto che la Russia, in uno dei suoi ricorrenti accessi
di slavofilia, sta voltando le spalle all’Occidente per cercare sostegno ad est.
Questo cambio di paradigma favorisce l’Impero di Mezzo, che si appresta a
sfruttare una crisi nella cui genesi non ha avuto alcun ruolo.

2. In un’ottica strategica, il voltafaccia russo all’Occidente è la migliore


notizia che la politica estera cinese abbia ricevuto da molti anni a questa
parte. Infatti, malgrado le pur corrette analisi sull’avvento del mondo
multipolare, la realtà strutturale della nuova èra ha prodotto una strana
bestia, che sfugge alle tassonomie dei pensatoi accademici.
Gli Stati Uniti restano – di gran lunga e per molto tempo ancora – primi
inter pares nel nuovo mondo, anche se altri (principalmente, ma non
esclusivamente, la Cina) stanno accorciando le distanze. Inoltre, l’America
resta al centro di una rete globale di alleanze che Pechino può solo sognare.
L’Europa, malgrado la sua debolezza e le divisioni interne, rimane
saldamente in campo americano. E i vicini della Cina – Giappone, Vietnam,
India, Australia, Corea del Sud – hanno tutti legami stretti con Washington.
Ciò spiega perché il primo viaggio ufficiale di Xi Jinping in veste di
presidente abbia avuto come meta Mosca, alla ricerca di possibili alleati tra
i paesi profondamente scontenti del primato statunitense. Essendo altamente
improbabile che nel prossimo futuro l’Europa e i paesi asiatici gravitino
intorno a Pechino, la nuova leadership comunista si è concentrata sulla
Russia e sulle economie emergenti, alla ricerca di alleati con cui fare causa
comune contro l’inviso ordine americanocentrico. Si tratta però di un
progetto a lungo termine, appena all’inizio in questi convulsi mesi della
crisi ucraina.
Piuttosto, la nuova leadership cinese ha posto notevole enfasi sui
numerosi e pressanti problemi interni. La relativa rinascita americana stride
fortemente con una Cina il cui governo ammette senza mezzi termini di
dover cambiare in fretta il proprio modello di sviluppo, evitando la trappola
del reddito medio nel momento in cui i problemi demografici cominciano a
farsi sentire. Presto i crescenti salari cinesi ridurranno la competitività del
manifatturiero nazionale, a vantaggio dei vicini asiatici. Se non adotta
rapidamente produzioni a più alto valore aggiunto, la Cina sarà nuovamente
surclassata dai suoi principali concorrenti industriali, come Germania e
Stati Uniti. Al contempo, i danni prodotti dall’insensata politica del figlio
unico – anche in termini di insostenibilità del welfare nazionale – rendono
concreta la prospettiva che la Cina invecchi prima di arricchirsi. Questa
messe di problemi economici e sociali interni, sommata al «ritorno»
dell’America, ha messo in crisi la retorica dell’ineluttabile ascesa cinese al
vertice dell’ordine globale.
È in tale contesto di crescente difficoltà e incertezza che l’offensiva
antioccidentale di Vladimir Putin assume una cruciale valenza strategica per
Pechino: Mosca non si limiterà più a sedere al bordo del campo occidentale,
ma virerà naturalmente in direzione della Cina. Tuttavia, contrariamente
alle più sfrenate fantasie neoconservatrici non si prospetta un ritorno alla
guerra fredda: un nuovo confronto bipolare, con la Cina in veste di junior
partner del Cremlino, è semplicemente incompatibile con l’odierna realtà
internazionale. Piuttosto, sarà Mosca a svolgere un ruolo cadetto in questa
tacita alleanza, data la sua fragilità economica (la sostenibilità del bilancio
statale dipende dal permanere del petrolio oltre i 110 dollari al barile), i
tassi endemici di corruzione e il drammatico collasso demografico. La
cruda realtà dei rapporti di forza ha gettato la Russia nelle braccia della
Cina; e con grande soddisfazione di quest’ultima, il rapporto si annuncia
sbilanciato a suo favore.

3. Contrariamente alla vulgata che circola sui media occidentali, questi


vecchi/nuovi legami sino-russi sono cementati dal fatto che i due paesi
condividono un’ideologia nazionalista basata sull’intangibilità dei confini,
sulla non interferenza negli affari interni e sulla venerazione del principio di
sovranità. Ma la Russia non ha appena destabilizzato uno Stato confinante,
annettendone parte del territorio e calpestandone la sovranità, in aperta
contraddizione con i princìpi che orientano l’azione internazionale della
Cina?
Questa è certamente la lettura più immediata degli eventi ucraini, quella
che domina sui media occidentali, i quali vedono nell’acquiescenza di
Pechino una prova della sua ipocrisia. A uno sguardo più attento però, la
vicenda della Crimea rafforza, anziché indebolire, gli argomenti cinesi a
favore di un sistema vestfaliano di Stati. Essendo, al pari della Russia, un
paese con una lunga memoria storica, la Cina vede nella decisione
impulsiva (e probabilmente dettata dall’alcol) di Khruščëv di cedere la
Crimea all’Ucraina il peccato originale della crisi, l’aberrazione da
correggere a tutti i costi, perché giunta dopo 175 anni di dominio russo
della penisola. Nell’ottica cinese, i russi stanno dunque rettificando un
errore scaturito dall’aver ignorato la storia: sbaglio che Pechino non
commetterà mai nelle sue inquiete periferie.
Cina e Russia hanno coltivato a lungo l’idea che i rispettivi nazionalismi
non siano assoggettabili al volere di una comunità internazionale improntata
alle nozioni wilsoniane dei valori universali e del diritto internazionale.
Piuttosto, le élite dei due paesi ritengono che questi alti princìpi celino
inconfessabili interessi occidentali, che specie nel caso dell’Europa non
sono più perseguibili con una politica di potenza. Mosca e Pechino non
sono le uniche a pensarla così: una peculiarità della nuova èra è che sebbene
le potenze emergenti (siano esse l’Indonesia, l’India, il Brasile, la Turchia,
il Sudafrica o il Messico) non abbiano quasi niente in comune, esse
condividono un forte spirito nazionalistico e percepiscono l’attuale ordine
internazionale come funzionale agli interessi delle ex potenze occidentali.
Pertanto sono il realismo, il nazionalismo e il particolarismo le tendenze in
ascesa, mentre il vecchio modello wilsoniano è sempre più screditato.
Questo collante ideologico si va rafforzando e grazie ad esso la relazione
sino-russa assume una valenza che va oltre il mero opportunismo.
Vista in quest’ottica, la vicenda della Crimea appare a Pechino in linea
con la propria politica interna. Essendo sopravvissuto al trauma della
Rivoluzione culturale, il Partito comunista cinese basa la sua legittimità (il
«mandato del cielo») sul doppio pilastro della sostenuta crescita economica
e dell’unità nazionale. Questo secondo obiettivo implica il recupero delle
province che sfuggivano o sfuggono ancora al controllo di Pechino
(Taiwan, Hong Kong), ma anche il mantenimento nell’orbita cinese dei
territori con forti tendenze separatiste, come il Tibet e il Xinjiang.
È questo secondo gruppo a presentare una notevole affinità con la
Crimea. Ogni ipotesi che, sulla scia dell’esempio di Khruščëv, essi si
emancipino dal controllo diretto di Pechino, è vista come foriera di
instabilità e problemi. La retorica delle umiliazioni subìte dalla Cina per
oltre 150 anni ruota attorno alla tragica perdita di parti del territorio
nazionale, non alla stolta cessione delle stesse con un atto volontario. Solo
una Cina unitaria può essere forte: la legittimità della leadership cinese si
fonda sul nazionalismo han, oltre che sul capitalismo.
La Crimea appare dunque come una sorta di incubo, un esempio di cosa
succede quando uno Stato un tempo potente ignora la storia e gli imperativi
nazionali, consegnandosi così alla marginalità, alla debolezza e alle
divisioni. Da questa lettura, Putin emerge come un leader «gollista» che
tenta di riedificare uno Stato russo fortemente indebolito, stupidamente
spinto sulla via del declino negli ultimi anni del comunismo (una visione
peraltro non incompatibile con quella dello stesso Cremlino).

4. Pragmaticamente, i cinesi faranno di tutto per trarre il massimo


beneficio possibile dalla situazione attuale. Recentemente Pechino ha
firmato un importante accordo che le garantisce un accesso pluriennale al
bengodi agricolo ucraino; il caos politico metterebbe a repentaglio questo
risultato. C’è poi la Siberia: con le sue ricchezze minerarie custodite in aree
scarsamente popolate e al centro delle mire di Pechino, la vasta regione
rappresenta un poderoso ostacolo alle relazioni russo-cinesi. La leadership
comunista è ben cosciente che nei prossimi anni potrebbe innescarsi un
duro confronto per il controllo di queste risorse e che ciò limiterebbe le
chance di un’alleanza strategica tra i due paesi.
Tuttavia, malgrado tutto – come spesso avviene nella politica estera – il
nemico del mio nemico è mio amico. Questa è la ferrea legge realista che
sottende al mutamento strategico in corso al di là degli Urali, i cui effetti
sono già visibili. Alla luce delle sanzioni occidentali alla Russia, la
conclusione di un accordo bilaterale per la fornitura di idrocarburi russi alla
Cina (dopo anni di stallo dei negoziati) è un’ipotesi tutt’altro che peregrina.
Al di là dei legami energetici, c’è da aspettarsi anche un incremento a breve
delle importazioni cinesi di armamenti russi.
Nel prossimo futuro, entrambi i paesi saranno inoltre più decisi nel
sabotare a livello diplomatico i disegni occidentali, specie americani,
sapendo di godere ognuno del sostegno più o meno tacito dell’altro. Ciò
avverrà in numerosi ambiti, dall’Iran alla Siria agli accordi commerciali con
Europa e Asia perseguiti da Washington, tra i cui scopi principali figura
l’isolamento economico di Mosca e Pechino.
In tutti questi casi, la Cina non deve fare quasi niente per propiziare tale
spostamento degli equilibri geopolitici. Così la mossa di Putin sullo
scacchiere eurasiatico favorisce gli apparentemente remoti interessi cinesi;
lo fa in modo involontario, ma non per questo meno determinante.
L’Occidente prenda nota: avere una politica estera coerente, paga.

(traduzione di Fabrizio Maronta)


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italiani, croati e australiani. Ha lavorato nella redazione esteri di K1 TV, Inter TV, Ukraina TV.
La storia in carte
a cura di Edoardo Boria

1. I territori dell’attuale Ucraina risultano in questa carta d’epoca non


solo divisi tra la Polonia e la Russia zarista ma anche, in quest’ultimo
contesto, ripartiti tra più regioni amministrative. Tale marcata
frammentazione corrisponde a un’altrettanto marcata frammentazione
culturale di queste terre.
Fonte: S. Dunn, Russia divided into its Governments, London 1810,
Laurie & Whittle.

2. Più che per i dati sul commercio di grano, che confermano la spiccata
vocazione agricola dell’Ucraina, questa carta sorprende per la delimitazione
del paese, indicata in legenda come «limite dell’Ucraina»: la linea blu che
la identifica comprende infatti una vastissima area che va dall’alto Dnepr al
Caucaso settentrionale.
Fonte: L. Hautecoeur, «Production et commerce du blé en Russie», in
Les Rapports économiques de la Russie et de l’Ukraine, Paris 1919, Service
Géographique de l’Armée.
3. Un’immaginaria «Grande Ucraina» che si spinge oltre il Caucaso e il
Volga fino agli Urali. Sul retro è riportato lo slogan «Tutti avanti! Tutti
insieme! Non a parole ma a fatti!».
Fonte: Carta dell’Ucraina, cartolina postale, 1920 ca.

4. Fino all’esplodere della questione ucraina il pubblico sapeva poco di


questo grande paese, e ancora meno della sua rilevanza strategica per
l’Unione Sovietica ieri e per la Russia oggi. Va ricordato che l’Ucraina era
il granaio dell’Unione Sovietica. Questa carta mostra che la produzione
alimentare, contrassegnata da pallini gialli, era in larghissima parte
concentrata in Ucraina.
Fonte: «Produzione interna nell’Unione Sovietica europea nel 1913», in
Atlante geografico per insegnanti, Ministero dell’Interno dell’Unione
Sovietica, Direzione generale geodesia e cartografia, Mosca 1955.
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