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LIMES L'ucraina Tra Noi e Putin
LIMES L'ucraina Tra Noi e Putin
Limes,
ISBN: 9788888240848
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Copertina
Frontespizio
AUTORI
LA STORIA IN CARTE – a cura di Edoardo Boria
Colophon
Lo specchio ucraino
1.N elle crisi ci sveliamo per quel che siamo e non per quel che
vorremmo essere. Vale anche per gli attori geopolitici. Il test dell’Ucraina,
al quale si sono sottoposti russi, americani ed europei, ha prodotto un esito
negativo per Mosca, positivo per Washington, catastrofico per l’Unione
Europea. Bilancio molto provvisorio, da riverificare nel futuro prossimo.
Eppure ineludibile, se vogliamo intendere il senso di una partita la cui
prima posta è la ridefinizione della sempre mobile frontiera fra impero
russo e spazio euroatlantico. Vediamo.
La Russia ha riportato a casa la Crimea con la gloriosa Sebastopoli
(carta a colori 1). Premio di consolazione rispetto alla perdita del pur
relativo controllo su Kiev, al gelo con gli Stati Uniti e alla crisi di coppia
con il partner tedesco. Soprattutto, Mosca sta già pagando il pedaggio
economico della brillante operazione militare sulle sponde del Mar Nero:
fuga di capitali, rublo infragilito, incertezza sui progetti di sviluppo
dell’interdipendenza con il mercato energetico europeo – che ne sarà di
South Stream? (carta a colori 2) – scetticismo sull’Unione Eurasiatica,
versione soft della parziale riconquista dello spazio ex sovietico. La sola
manutenzione della Crimea, con le infrastrutture necessarie a renderla
autonoma dall’Ucraina e con i russi locali che si aspettano di essere
foraggiati dalla vecchia/nuova patria – senza contare l’inquieta minoranza
tatara islamica, esposta al contagio jihadista – costerà al Cremlino almeno
20 miliardi di dollari in tre anni. Mentre concelebrava la riannessione della
penisola, il primo ministro Dmitrij Medvedev avvertiva: «Tutto questo
adesso sarà il nostro mal di testa»1.
L’America ha stoppato l’ambizione di Putin di rinverdire la caratura
globale della potenza russa, basata sulla sua maestria tattica più che sulle
risorse strategiche del paese. Dopo averne subìto la verve scacchistica in
Siria e sul dossier iraniano, constatata con disgusto l’abilità manovriera di
Mosca nel vasto mondo che mal tollera la presunzione occidentale di
dettare l’agenda globale (gruppo Brics) e persino in ambito Nato (intesa
con Berlino, gioiello della geopolitica putiniana), Washington è passata al
contrattacco. Cavalcando «Piazza Europa» (Jevromajdan), che per mesi ha
incarnato la rivolta del popolo ucraino vessato da un regime ipercorrotto,
Obama ha costretto Putin a riconcentrarsi sul suo cortile di casa, a
sovraesporsi sotto il profilo propagandistico – non il suo forte – e militare,
risorsa che Mosca tende a sovrastimare, almeno quanto i cantori
dell’«Europa civile» la sottovalutano. Tutto pur di scacciare l’incubo che
un giorno lo scenario di «Piazza Europa» si riproduca dalle parti della
Piazza Rossa.
Quanto a noi europei, ci siamo confermati pallide, velleitarie comparse.
Se è possibile che ai tempi supplementari Putin spunti un pareggio e
Obama veda per conseguenza ridimensionato il suo successo, pare invece
improbabile per i soci dell’Unione Europea, specie per noi italiani, risalire
la corrente. La «famiglia» comunitaria si è dispersa fra due estremi: chi
considera la stabilità della Russia un bene di tutti, per il quale conviene
pagare quasi ogni prezzo, anche perché acquistiamo il 29% del nostro gas
a Mosca, la metà del quale ci giunge via Ucraina (carta 1); e chi nella
contesa per Kiev vorrebbe vederla risucchiata dal vortice alla sua frontiera
occidentale, per disintegrarsi come l’Unione Sovietica – ciò che peraltro
porrebbe i nostalgici del roll-back di fronte alle conseguenze dei propri
desideri. Non solo nordici versus mediterranei, centrorientali versus
occidentali, con i tedeschi impegnati, senza successo, a stemperare le
cacofonie di orchestrali refrattari a eseguire lo stesso spartito. La
partizione taglia gli establishment nazionali al proprio interno, con il
mondo finanziario e industriale istintivamente conservatore, a salvaguardia
dei propri contratti e investimenti nel mercato russo, e il sempre più
irrilevante teatro politico a esibirsi in roboanti quanto vacue litanie su
democrazia e pace minacciati dall’orso russo, il cui unico effetto consiste
nel convincere gli ucraini della nostra ipocrisia e i russi della genialità di
Putin.
Di più: il caso ucraino ci ricorda che non siamo padroni della casa che
abitiamo. Continuiamo anzi a segmentarla, a dilatarne gli spazi contesi, a
invitarvi potenze esterne, formali e informali. Un dogma ci affratella: mai
assumerci la responsabilità di noi stessi. Non stupiamoci dunque
dell’elegante sintesi di Victoria Nuland, l’inviata di Obama a Jevromajdan:
«Unione Europea vaffanculo!»2.
L’effetto di lungo periodo della nostra inconsistenza, fin troppo evidente
nella battaglia per Kiev, è la balcanizzazione del Vecchio Continente. Più
intoniamo il rassicurante ritornello dell’integrazione comunitaria, più
contiamo nuove frontiere, informali o ufficiali, a ritagliare coriandoli
d’Europa. Le terre di nessuno, consegnate alle rivalità fra gruppi criminali
travestiti da politici e segnate da nazionalismi autistici, sono la cifra della
nostra stagione geopolitica. Questo continente in via di accentuata
frammentazione non minaccia a breve gli interessi americani, è tollerabile
(entro certi limiti) per i russi, ma è sempre meno rassicurante per gli
europei. La deriva balcanizzante può diventare esiziale per chi si trova nel
cuore dello scontro, dove i primattori della crisi recitano i rispettivi copioni
nella tranquilla (in)coscienza che a subirne le conseguenze non saranno
loro, semmai le cavie locali. In questo caso, gli aspiranti rivoluzionari di
Jevromajdan. I quali oggi debbono constatare che gli oligarchi restano a
galla, pronti a inaugurare la loro nuova stagione. Intanto il paese,
amputato della Crimea, è sull’orlo della bancarotta. Altre sub-Ucraine, da
Leopoli a Donec’k, riscoprono la propria soggettività. Nell’intero Donbas i
filorussi oscillano fra rivendicazioni super-autonomiste e tentazione
separatista, scontrandosi con i leader provvisori di Kiev, tanto consapevoli
del proprio ruolo da autodefinirsi kamikaze.
Dalla pancia di «Piazza Europa» sono intanto resuscitati gli agguerriti
eredi del filonazismo ucraino, i cultori del «genotipo nazionale»: russofobi,
polonofobi, antisemiti. Nella quasi indifferenza dell’Unione Europea che
nel 2000 sanzionò l’Austria per via di Haider – blando conservatore
appetto ai miliziani del Pravyj Sektor – e che negli ultimi anni ha
contemplato con sereno distacco tanto la pulsione grande-ungherese di
Orbán quanto i revival dei particolarismi xenofobi che punteggiano la
mappa del continente, non solo all’Est.
A più di vent’anni dalle guerre jugoslave, che avrebbero dovuto esporre
al mondo la virtù pacificante e ordinatrice dell’Europa unita, la contesa
ucraina ci inchioda al rango di quantità trascurabili. Spesso ignorate. In
alternativa, agite dagli americani o condizionate dai russi – nel caso
dell’Italia, le due cose insieme. Risultato: una rivoluzione avviata in nome
dei valori europei (quali?) si è scontrata con il cinismo, l’indifferenza e le
manipolazioni dei soci del club cui avrebbe inteso aderire, di fatto
indisponibili ad ammettere gli ucraini nel proprio salotto.
In cinque fotogrammi, ecco l’autoritratto di noi stessi come risulta dal
test ucraino.
A) L’Unione Europea non solo non è un soggetto geopolitico ma pesa
meno della somma dei suoi Stati membri e persino di molti di essi.
B) Quando in Europa la parola passa alle armi possiamo metter mano
solo alle armi della retorica e invocare la protezione dell’alleato
americano. Il quale non sbarcherà mai più in Normandia, essendo
concentrato su se stesso e, secondariamente, sulla sfida con la Cina. La
nostra rinuncia a rivendicare il diritto di codecisione in ciò che resta
dell’Alleanza Atlantica consente al partner principale di stabilire quali
siano i nostri interessi – meglio: la loro insussistenza.
C) Le percezioni europee della Russia sono diverse, spesso opposte, a
seconda della lontananza da Mosca – la russofilia ne è in genere
direttamente proporzionale – e della memoria storica. Solo chi è stato
occupato dai russi sente di conoscerli davvero.
D) La simpatia europea per l’America resta funzione della paura della
Russia.
E) La dipendenza strategica dalla pur riluttante Mamma America
significa che se ci smarchiamo da Washington dobbiamo pagare pedaggio,
mentre l’interdipendenza energetica con la Russia implica che se
sanzioniamo Mosca sanzioniamo noi stessi.
Per chi in Italia e in Europa conservasse qualche curiosità circa il
proprio immediato futuro sarà dunque utile indagare quali siano i progetti
di Mosca e di Washington per l’Ucraina e come essi incrocino le velleità
europee, soprattutto quelle esibite dai vicini di Kiev. Ma prima conviene
scandagliare l’epicentro del confronto. Perché solo considerando le
specifiche condizioni storico-geopolitiche dell’Ucraina e del suo intorno ci
renderemo conto di quanto costose – dunque improbabili – siano le
ambizioni di chi intende orientarne dall’esterno il destino e di quanto
scarse siano le risorse dei patrioti ucraini interessati alla sicurezza e al
benessere del proprio paese.
1
Citato in A. MALASHENKO, «Will the Crimean Tatars Become Russia’s Headache?», Carnegie
Moscow Center, 3/4/2014, carnegie.ru/eurasiaoutlook/?fa=55220
2
Cfr. «Ukraine Crisis: Transcript of Leaked Nuland-Pyatt Call», Bbc News, 7/2/2014.
3
Cfr. T. SNYDER, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano 2011, Rizzoli.
4
A. WILSON, The Ukrainians. An Unexpected Nation, New Haven-London 2002, Yale University
Press, p. 289.
5
Ivi, p. 313.
6
Cfr. O. HOLOYDA, «Ukrainian Oligarchs and the «Family», a New Generation of Czars – or Hope
for the Middle Class?», Irex scholar research brief (agosto 2013).
7
La definizione è dell’analista (oggi diplomatico) polacco Slawomir Matuszak, nel suo studio «The
Oligarchic Democracy. The Influence of Business Groups on Ukrainian Politics», Osw paper n. 42,
Varsavia (settembre 2012).
8
Citata in «Ukraine’s Economy Would Have Collapsed without Russian Aid – IMF Chief», Ria-
Novosti, 3/4/2013.
9
C. HOTTELET, «Ultimes paroles de Maxim Litvinov», Bulletin B.e.i.p.i., supplemento al n. 78
dell’1-15/12/1952. Cfr. poi il telegramma di W. BEDELL SMITH (Mosca) a J. BYRNES, 21/1/1946,
Foreign Relations of the United States, 1946, vol. VI, pp. 763-765.
10
Citato in S. WILSON, «Obama Dismisses Russia as “Regional Power” Acting out of Weakness»,
The Washington Post, 25/3/2014.
11
H.A. KISSINGER, «How the Ukraine Crisis Ends», The Washington Post, 6/3/2014.
12
«Address by President of the Russian Federation», 18/3/2014, eng.kremlin.ru/news/6889
13
A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, Roma 2009, Edizioni Lavoro (2a ed.),
p. 3.
14
«Chicken Kiev Speech. Full text of President George H. Bush’s speech, later dubbed the “Chicken
Kiev Speech” by commentator William Safire, to a session of the Supreme Soviet of Ukraine, 1°
August 1991», en.wikisource.org/wiki/Chicken_Kiev_speech
L’UCRAINA TRA NOI E PUTIN
Parte I
Terra di frontiera
LA MATRICE SOVIETICA DELLO
STATO UCRAINO
L’analisi storico-geopolitica dell’Ucraina ne spiega la difficoltà a
configurare istituzioni nazionali in un contesto plurietnico e
plurilinguistico. Il marchio di Stalin nella delimitazione delle
frontiere dell’attuale repubblica. Il regionalismo come chiave di
lettura.
di Adriano ROCCUCCI
Bolscevichi e Ucraina
La conseguenza più importante per la causa nazionale ucraina delle
trasformazioni avvenute tra il 1917 e il 1921 fu la nascita di una Repubblica
Socialista Sovietica d’Ucraina al momento della costituzione nel 1922 di un
nuovo Stato plurinazionale di carattere federale, l’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche (Urss). La nuova compagine statale organizzava il
territorio sulla base del principio nazionale, identificato su base linguistica,
come criterio di definizione delle repubbliche che formavano l’Unione (alla
sua fondazione esse erano Russia – a sua volta costituita come repubblica
federale – Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia). Seguirono le politiche di
indigenizzazione, volte a sostenere il gruppo etnico titolare delle varie
repubbliche, che hanno fatto parlare Terry Martin di «Soviet Affirmative
Action Empire»5. Il potere bolscevico, oltre a connettere il principio
nazionale a un territorio, favoriva anche la formazione di una classe
dirigente locale nonché la diffusione della cultura nazionale. Questa linea
politica venne interrotta da Stalin negli anni Trenta, quando anzi furono
lanciate campagne antinazionali nelle diverse repubbliche. In tutti questi
passaggi l’Ucraina ha avuto un ruolo centrale, «sia di per se stessa che
come perno della questione nazionale, nella storia sovietica in ciascuno dei
suoi tornanti decisivi»6.
Ingrandisci la carta dal sito di Limes
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L’attenzione alla questione ucraina da parte del centro sovietico
mostrava una certa ambivalenza. Da una parte si promuovevano identità e
protagonismo ucraini, dall’altro si davano segnali inequivocabili di segno
opposto, più in linea con la tradizione imperiale. Nel dicembre 1917 Lenin
e Stalin, allora commissario alle nazionalità, avevano deciso la prima
operazione militare del nuovo governo bolscevico proprio contro la
Repubblica Popolare Ucraina per contrastarne le spinte separatiste.
L’invasione avvenne a seguito di un ultimatum, dopo che un governo
fantoccio formato a Kharkiv ad opera di bolscevichi scappati da Kiev aveva
rivolto a Pietrogrado una richiesta di aiuto. L’operazione militare in Ucraina
segnò l’inizio della guerra civile e costituì anche la prima chiara
manifestazione della propensione imperiale del centro bolscevico.
L’architettura territoriale e istituzionale sovietica comportava la
valorizzazione dei confini interni tra le varie unità territoriali, sia perché
essi svolgevano la funzione delicata di delimitazione degli spazi etnici,
insita allo stesso sistema di organizzazione del territorio, sia perché essi
avevano potenzialmente la valenza di futuri confini interstatali, come si
sarebbe verificato al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel
1924 si ebbe un processo di revisione dei confini della Repubblica Ucraina,
in seguito alla richiesta del kraj del Caucaso settentrionale di espandersi ad
alcuni territori nella regione del Don appartenenti all’Ucraina. Una
commissione fu istituita dal Politbjuro. Alle motivazioni dei rappresentanti
del Caucaso settentrionale, che poggiavano su argomentazioni relative
all’orientamento economico della regione, i rappresentanti ucraini
replicavano con considerazioni sulla composizione etnica dei territori
contesi. Fu l’unico caso di revisione territoriale che si risolse con un
vantaggio a favore della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. I
leader ucraini a loro volta sollevarono la questione di zone all’interno delle
regioni di Voronež, Kursk e Brjansk in Russia e di Homel’ in Bielorussia,
dove la maggioranza della popolazione era ucraina, per le quali
richiedevano una revisione territoriale. Secondo il censimento del 1926
nella Repubblica Russa vivevano quasi otto milioni di ucraini. Il ricorso a
motivazioni etnografiche era ricorrente per i dirigenti ucraini. La questione
linguistica costituiva il perno delle argomentazioni a favore o contro la
richiesta degli ucraini, che ebbero una relativa e modesta soddisfazione con
l’acquisizione di soli tre distretti7. Nel febbraio 1929 una delegazione di
scrittori ucraini, a Mosca per un festival della cultura ucraina, durante un
incontro con Stalin sollevò la questione dei confini dell’Ucraina: «Noi
abbiamo discusso la questione alcune volte», rispose Stalin, «noi spesso
cambiamo i nostri confini, troppo spesso, troppo spesso cambiamo i nostri
confini. Ciò provoca una cattiva impressione all’interno del paese. (…)
Internamente noi dobbiamo essere particolarmente prudenti, perché tali
cambiamenti provocano enormi resistenze da parte di alcuni russi. Occorre
considerare questo fattore. (…) Ogni volta che discutiamo tale questione, la
gente comincia a ringhiare che milioni di russi in Ucraina vengono
oppressi, che essi non possono usare la loro lingua nativa, che vengono
ucrainizzati con la forza e così via»8.
Se la risposta di Stalin manifesta la permanenza di motivi ricorrenti
nelle rivendicazioni di parte russa nei confronti della situazione delle
relazioni interetniche in Ucraina, il prosieguo della conversazione con gli
scrittori è emblematico di come il leader sovietico prestasse grande
attenzione alla questione ucraina. «Come vanno le cose in Galizia?», chiese
ai suoi ospiti ucraini, ai quali ricordò che la Galizia prima della rivoluzione
era stata il centro culturale e politico del movimento ucraino: «Adesso
l’egemonia è nelle nostre mani?», aggiunse Stalin. E alla domanda se
l’ucraino parlato nella repubblica sovietica fosse inteso dai galiziani, uno
degli scrittori rispose, interpretando i piani del segretario generale: «Può
unire la Galizia all’Ucraina: essi ci capiranno»9. La questione ucraina
presentava una precisa valenza geopolitica esterna: il territorio di quella
repubblica proiettava l’Unione Sovietica verso l’Europa, da dove si pensava
che sarebbero potute provenire le principali minacce per il governo
sovietico. In Polonia, ritenuta ostile e con la quale era stata combattuta da
poco una guerra, era presente una compatta e combattiva minoranza
ucraina, le cui rivendicazioni costituivano uno degli elementi di maggior
difficoltà per il governo di Varsavia. Nella questione ucraina era insita una
partita geopolitica di posizionamento di Mosca nei confronti dell’Europa,
sia da un punto di vista politico che strategico-militare, che infine culturale
e religioso.
La politica di indigenizzazione aveva favorito il consolidamento alla
guida della Repubblica Ucraina di una leadership nazionalcomunista che
aveva realizzato un importante programma di ucrainizzazione della società.
Mentre in Polonia le autorità di Varsavia sviluppavano una politica
assimilazionista nei confronti degli ucraini di Galizia e Volinia, la politica
sovietica contribuiva alla formazione di un cultura ucraina moderna. L’ex
presidente della Repubblica socialdemocratica georgiana, Noj Žordanija,
dal suo esilio francese rilevò il ruolo dei bolscevichi nel favorire il processo
di formazione nazionale: «Dal punto di vista delle relazioni nazionali i
bolscevichi hanno fatto progredire le nazioni senza storia ponendole sulla
strada della rinascita. Per esempio l’Ucraina è stata creata sotto i nostri
occhi»10.
La «grande svolta» del 1929, con la fine della Nep e l’inizio della
campagna per la collettivizzazione delle campagne e la liquidazione dei
kulaki, segnò anche il tornante che nella politica nazionale condusse
all’abbandono dell’opzione a favore della indigenizzazione. In Ucraina tale
svolta si realizzò nel quadro dell’attacco violento sferrato dal governo
bolscevico alle campagne che generò la carestia del 1932-33, il Holodomor,
con quasi 3,5 milioni di vittime. Il mix di collettivizzazione, deportazioni,
carestia e politiche repressive nei confronti dei contadini affamati brutalizzò
e destrutturò definitivamente il tradizionale tessuto delle campagne
dell’Ucraina centrale e orientale. L’intreccio tra questione contadina e
questione nazionale era fondamentale in un contesto come quello ucraino,
dove, nonostante i successi delle politiche di ucrainizzazione delle città
negli anni Venti, erano le campagne a essere prevalentemente popolate da
ucraini, mentre nei centri urbani, soprattutto quelli più grandi, essi erano in
minoranza rispetto alle componenti russe, ebraiche e in alcune città anche
polacche.
Nel 1933-34 il gruppo dirigente nazionalcomunista della Repubblica e
le élite ucraine furono sottoposte a dure repressioni che privarono il
movimento nazionale dei suoi quadri. Il governo sovietico, pur secondo il
nuovo registro centralista dell’«unità e fratellanza dei popoli» che aveva
sostituito la linea dell’indigenizzazione, non rinunciò però a dare una sua
interpretazione del processo di costruzione nazionale della Repubblica
Ucraina. Lo spostamento della capitale da Kharkiv a Kiev nel 1934,
l’attenzione all’elemento anche culturale e linguistico ucraino da parte della
nuova dirigenza sovietica della Repubblica – nel 1939 il 125° anniversario
della nascita del poeta nazionale Taras Ševčenko fu celebrato con grande
solennità – erano segnali della prosecuzione di una linea di ucrainizzazione,
sebbene di carattere diverso da quella precedente. Da un punto di vista
politico-amministrativo l’attenzione al carattere ucraino della Repubblica
era conservata: sebbene nel 1938 a capo del partito ucraino Stalin avesse
messo un russo, Nikita Khruščëv, si nominavano generalmente quadri
dirigenti di origine ucraina, ma si favoriva la loro integrazione nella cultura
russo-sovietica. Da un punto di vista nazional-culturale, invece, il processo
di ucrainizzazione si bloccò e «si cristallizzarono due sfere linguistiche di
cui quella russa, che s’identificava con il distacco dalle campagne,
riacquistò una netta preminenza»11: si continuavano a pubblicare libri e
giornali in ucraino, quantunque in misura minore di prima, ma il russo
aveva consolidato lo status di lingua della promozione sociale e
intellettuale, nonché della supremazia politica. In questo contesto il nemico
principale non era più lo «sciovinismo di grande potenza», grande russo,
indicato da Lenin, ma sempre più il nazionalismo ucraino.
Reductio ad unum
La grande Ucraina
1
A.S. ČERNJAEV, Sovmestnyj iskhod. Dnevnik dvukh epokh. 1972-1991 gody (Esodo comune.
Diario di due epoche. 1972-1991), Moskva 2010, Rosspen, p. 1029.
2
Si veda G. KASIANOV, «“Nationalized” History: Past Continuous, Present Perfect, Future…», in
A Laboratory of Transnational History. Ukraine and Recent Ukrainian Historiography, a cura di G.
KASIANOV e PH. THER, Budapest-New York 2009, Ceu Press, pp. 7-23.
3
TH. SNYDER, The Reconstruction of Nations. Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999,
New Haven-London 2003, Yale University Press, pp. 120-121.
4
Ivi, p. 132.
5
T. MARTIN, The Affirmative Action Empire. Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1932-
1939, Ithaca-London 2001, Cornell University Press.
6
A. GRAZIOSI, «Collectivisation, révoltes paysannes et politiques gouvernementales à travers les
rapports du GPU d’Ukraine de février-mars 1930», Cahiers du Monde russe, 3, 1994, p. 438.
7
Cfr. F. HIRSCH, Empire of Nations. Ethnographic Knowledge & the Making of the Soviet Union,
Ithaca-London 2005, Yale University Press, pp. 155-160.
8
Le parole di Stalin riportate dallo stenogramma dell’incontro sono citate in T. MARTIN, op. cit.,
pp. 280-281.
9
Ivi, p. 281.
10
A. GRAZIOSI, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna 2007, il
Mulino, p. 224.
11
Ivi, p. 360.
12
A. GRAZIOSI, Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956, Bologna 2001, il Mulino, pp. 123-124.
Cfr. L. MISES, Nation, Staat und Wirtschaft. Beiträge zur Politik und Geschichte der Zeit, Wien und
Leipzig 1919, trad. it. di E. GRILLO, Stato, nazione ed economia. Contributi alla politica e alla
storia del nostro tempo, con un saggio di A. GRAZIOSI, Torino 1994, Bollati Boringhieri.
13
Le parole di Franzos sono citate nell’introduzione di S.M. MORALDO a K.E. FRANZOS,
Racconti della Galizia e della Bucovina, a cura di S.M. MORALDO, trad. it. di E.I. VEGHER, Roma
2002, Salerno ed., p. 9.
14
R. AUSLÄNDER, Erinnerungen an eine Stadt, in Id., Gesammelte Gedichte, Köln 1977, Braun,
1977, pp. 504-505, cit. in ivi, pp. 9-11.
15
TH. SNYDER, op. cit., pp. 154-178.
16
A. GRAZIOSI, L’Urss di Lenin e Stalin… cit., p. 549.
17
P.W. RODGERS, Nation, Region and History in Post-Communist Transitions. Identity Politics in
Ukraine, 1991-2006, Stuttgart 2008, Ibidem- Verlag, p. 33.
18
L. BARRINGTON, «Region, Language, and Nationality: Rethinking Support in Ukraine for
Maintaining Distance from Russia», in Dilemmas of State-Led Nation Building in Ukraine, a cura di
T. Kuzio, P. D’Anieri, Westport, Ct 2002, pp. 131-146.
19
P.W. RODGERS, Nation, Region and History in Post-Communist Transitions… cit., p. 63.
20
Cfr. ivi, pp. 56-64. Si veda anche L.W. BARRINGTON, E.S. HERRON, «One Ukraine or many?
Regionalism in Ukraine and its Political Consequences», Nationalities Papers, 32, 2004, pp. 53-86.
21
La citazione è riportata in R. SZPORLUK, Russia, Ukraine, and the Breakup of the Soviet Union,
Stanford, Ca. 2000, Hoover Institution Press, p. 269.
22
G. NIVAT, «Kiev et Moscou: mythe ou héritage à partager?», Cahiers du Monde russe, XXXVI, 4,
1995, p. 479.
23
La citazione è riportata in S. MERLO, All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola
II a Stalin (1905-1939), prefazione di R. MOROZZO della Rocca, Milano 2005, Guerini, p. 159.
24
R. SZPORLUK, op. cit., p. 321.
2014, MORIRE PER L’EUROPA
In Ucraina si consuma un nuovo capitolo del plurisecolare scontro
tra mondo russo e Occidente. Jevromajdan è il grido d’aiuto di una
società che rifiuta l’abbraccio mortale del revanscismo moscovita.
Se Putin vince in Crimea, si rischia l’effetto domino.
di Oxana PACHLOVSKA
I
1. n 23 anni di indipendenza ucraina si sono succedute tre rivoluzioni:
nel 1991, nel 2004 e a cavallo tra il 2013 e il 2014. Le prime due sono
rimaste incomplete: non hanno portato a un radicale cambiamento del
sistema. Jevromajdan invece sta aprendo la strada a un’autentica
trasformazione. Per il momento si tratta solo di una possibilità, ma già si
palesa l’attore che vuole impedire a tutti i costi questa trasformazione: la
Russia. L’invasione della Crimea rappresenta la reazione di Mosca
all’aspirazione ucraina a emanciparsi dalla sua sfera d’influenza. Ma in
questa reazione si legge la consapevolezza del Cremlino di aver esaurito
tutti gli strumenti di ricatto a cui la Russia è ricorsa in questi ultimi anni nei
confronti della sua riottosa vicina. Dunque Mosca è uscita allo scoperto nel
suo tentativo di sottomettere definitivamente lo Stato ucraino. Da questo
punto di vista, Jevromajdan può essere considerata una lente
d’ingrandimento storica sulla questione identitaria ucraina e sui meccanismi
del rapporto tra Ucraina e Russia e tra Russia ed Europa.
Ciò che abitualmente si designa con l’espressione «crisi ucraina» non
costituisce un conflitto locale, bensì uno scontro di proporzioni mondiali.
Non si tratta di un conflitto tra Kiev e Simferopoli, bensì di uno scontro
frontale e ormai senza infingimenti tra Russia ed Europa e tra Mosca e
Washington, «nuova Cartagine» da distruggere nell’ottica eurasiatica. Il 2
marzo il capo del Comitato della Duma per le questioni della Csi,
dell’integrazione eurasiatica e dei rapporti con i connazionali, Leonid
Sluckij, ha dichiarato che l’invasione militare in Crimea sarebbe una guerra
contro l’Occidente che la Russia non può permettersi di perdere.
È importante comprendere che l’impero eurasiatico non potrà mai
essere costruito senza l’Ucraina: è quanto Brzezinski ha dichiarato a più
riprese. Nell’ottica russa, quindi, un’Ucraina indipendente protesa verso
l’Europa non può e non deve esistere: sia per il ruolo storico fondamentale
rivestito da questo paese nell’identità russa, sia per il fatto che l’Ucraina
rappresenta una preziosa fonte di risorse umane, economiche, energetiche e
demografiche indispensabili a risolvere l’endemica crisi in cui si dibatte la
Russia.
All’interno della società ucraina questo scontro tra Russia e Occidente
si esprime attraverso la contrapposizione tra una parte europea e una neo- (o
post)sovietica. Tra le due parti è impossibile trovare un compromesso: sono
davvero antagoniste, inconciliabili. E non si tratta di una mera questione
linguistica: l’Ucraina europea è costituita da ucraini, russi, ebrei, tatari e
altre minoranze, è cioè una dimensione in cui può prosperare una diversità
dialogante carica di potenziali sviluppi1. Di contro, la parte postsovietica si
identifica esclusivamente con una mitica «russicità» impervia a dubbi,
analisi, argomentazioni. Essa reca in sé l’immagine orwelliana di un mondo
in cui da una parte vige una Verità assoluta e dall’altra si annida il Nemico,
al momento riconosciuto massimamente nell’idea di una presunta
Europa/Ucraina «fascista». Uno degli slogan dell’Antimajdan a Kharkiv
diceva: «Fermeremo l’Europa nazista del 1941». Qui il tempo si è fermato.
Per ironia della sorte, Jevromajdan è esplosa nel momento in cui i
sociologi valutavano come molto bassa la probabilità di manifestazioni. La
società ucraina veniva considerata spenta, delusa, diffidente della politica.
Ma gli eventi sono precipitati a velocità sorprendente. La mancata firma
dell’accordo di Vilnius ha scatenato la protesta studentesca. La parte più
giovane della società ha deciso di reagire: la paura e la rabbia di fronte a
una prospettiva che escludeva definitivamente l’orizzonte europeo ha
riempito la piazza. La violenza brutale usata dalle forze dell’ordine contro
gli studenti a fine novembre ha scatenato l’indignazione di una fetta più
larga della popolazione. Di conseguenza, la protesta si è trasformata in uno
scontro durissimo tra società e potere. La morte di più di cento persone
(chiamate «centuria celeste»), centinaia di feriti, le persone rapite, torturate
e lasciate morire nei boschi con temperature sottozero hanno mostrato il
lato più orrendo del potere postsovietico, pronto a tutto pur di conservare la
facoltà di razziare il paese.
Questo insieme di circostanze ha definito la soglia invalicabile:
simbolicamente, i primi a morire sono stati ragazzi coetanei
dell’indipendenza ucraina. A nulla sono valse le trattative che hanno visto il
coinvolgimento della Russia e dell’Ue. La società ucraina ha costretto l’ex
presidente Janukovyč a una rocambolesca e umiliante fuga a Mosca. Così
Putin, senza perdere tempo, si è servito della sua marionetta per
destabilizzare l’Ucraina e l’intera area, presentando l’invasione delle truppe
russe in Crimea come espressione della richiesta di un «legittimo
presidente». L’annessione della Crimea dovrebbe servire da modello per
operazioni simili in tutte le regioni orientali e meridionali dell’Ucraina, con
lo scopo principale di rendere impossibili le elezioni presidenziali e
parlamentari, che stavolta potrebbero davvero portare a un totale reset del
potere in Ucraina.
2. Questo è però solo il disegno visibile di una storia ben più intricata.
Si tratta di un vero scontro di civiltà, per dirla alla Huntington. Se
guardiamo la mappa della civiltà della Prima Roma vediamo un mondo
assestato e pacifico, malgrado la crisi attuale; un mondo che non
permetterebbe più al suo interno guerre o ridefinizioni dei confini. È un
mondo in cui paesi esterni aspirano ad entrare.
L’area tra la Seconda e la Terza Roma, tra Costantinopoli e Mosca,
costituisce invece un coacervo di conflitti insanabili, dove i paesi più
sviluppati scelgono la strada europea e quelli più arretrati rimangono
incatenati alla sfera d’influenza russa, condannati a una condizione di
perenne soggezione e penuria materiale. Il divario continua a crescere,
spingendo la Russia verso un tipo di chiusura culturale in cui il sogno
imperiale di una grandeur perduta si amalgama a una mentalità sovietica
irrimediabilmente trincerata in se stessa. È un monstrum ideologico
anacronistico, ma molto aggressivo, cui si aggiungono diversi elementi
fortemente destabilizzanti: disagi economici, conflitti nazionali e religiosi,
drammatiche dinamiche demografiche. Insomma, un «impero morto a
caccia dei vivi», come lo ha definito il quotidiano Den’.
La Russia risponde a queste crisi come ha sempre fatto:
contrapponendosi all’Occidente e al suo sistema democratico. Sul territorio
dell’Ucraina Putin combatte dunque la democrazia occidentale. La
prospettiva di un’Ucraina europea stravolge fino alle fondamenta il mondo
russo come presunto perno dell’universo slavo-ortodosso antagonista
dell’Europa. Non solo i paesi slavi parte del cristianesimo occidentale
scelsero Bruxelles senza indugi, ma l’attrazione europea riuscì a farsi largo
persino all’interno del mondo ortodosso: è così che Mosca perse la Bulgaria
e addirittura la Serbia nei Balcani, per non parlare della Georgia nel
Caucaso. Ormai, all’interno del mondo slavo Mosca può contare solo su
un’inerme Bielorussia.
Lo scontro con l’Ucraina sposta il conflitto al centro stesso della civiltà
ortodossa. È da Kiev, cuore della Rus’, che nel 988 s’irradiò il cristianesimo
bizantino. Quella parabola storica può ora considerarsi chiusa. È infatti
Kiev che va bombardata, affermano (dal 2004 in poi) vari autori russi,
ideologi del Drang nach Westen della Russia eurasiatica in pieno delirio
revanscista. È per questo che il Cremlino risponde con brutale forza militare
a questa sfida, nel tentativo di tracciare con le armi una nuova linea di
confine tra il mondo russo e l’Europa, ponendosi come realtà non solo
antitetica, ma irrimediabilmente ostile ai valori occidentali.
È alla luce di questo scontro tra Russia e Occidente che vanno riviste sia
sul piano sincronico che su quello diacronico le ragioni di Jevromajdan.
Tanto in Russia quanto in Ucraina è stato imposto un rapace sistema
definibile come cleptocrazia oligarchica, in cui lo Stato depreda ogni genere
di risorsa naturale e umana all’interno del paese, privando quest’ultimo di
tutto il suo potenziale. Ma esiste una differenza cruciale tra i due paesi:
mentre in Ucraina c’è una massa critica di gente capace di protestare, sul
territorio russo un simile germe di coscienza politica e sensibilità civica
invece può contare su numeri più esigui.
3. Jevromajdan non va dunque considerata un evento circoscritto entro
limiti temporali ben definiti; si tratta bensì del processo di consolidamento
di un’Ucraina europea. Alla base della sua esplosione vi sono diverse
ragioni. La prima è interna: la crisi dell’idea dell’indipendenza. Il sogno
dello Stato indipendente per il quale sono morte intere generazioni è stato
umiliato e sfruttato ai fini di arricchimento di una classe politica cinica e
corrotta. Fallita la rivoluzione arancione, è andata fermentando la protesta
in seno alla società, connotata ora da un livello di maturità politica
nettamente superiore rispetto a quello della sua classe politica.
L’elemento che maggiormente distingue Jevromajdan dalla rivoluzione
arancione è l’intenzione di non delegare più alla classe dirigente le
responsabilità e le decisioni politiche senza alcun meccanismo di controllo
dal basso2. Se osserviamo la sua composizione strutturale, notiamo che
Jevromajdan si è trasformata in una sorta di «repubblica nella repubblica»,
con un’incredibile capacità di autorganizzazione e un’ammirabile
espressione di umanità e cooperazione. Il suo compito primario è quello di
sradicare il sistema di riciclaggio dell’establishment, del feudalesimo
oligarchico, del nichilismo giuridico. E per chi si chiede quali fossero le
basi di legittimazione politico-giuridica di Jevromajdan, basti ricordare che
è dai tempi della rivoluzione americana e di quella francese che si riconosce
ai popoli oppressi il diritto di ribellarsi contro regimi dispotici.
La seconda ragione è la crescente ingerenza della Russia nella vita
interna dello Stato ucraino, con continui ricatti di natura politica ed
economica. Se nell’Ucraina sovietica vigeva comunque una certa retorica
sulla «fratellanza slava», la Russia putiniana ha ormai gettato la maschera,
comportandosi in maniera spregiudicata e violenta. La verità è che Putin
non ha mai riconosciuto la sovranità dello Stato ucraino. Lo ha anche detto
apertamente a più riprese. È tristemente noto il suo discorso alla Conferenza
sulla politica di sicurezza a Monaco nel 2007, nel quale il presidente russo
comunicò a George Bush che in realtà l’Ucraina come Stato non esisteva, in
quanto la metà del paese le era stato regalato dalla Russia, mentre l’altra
metà era di fatto Europa orientale. In buona sostanza, agli ucraini restava lo
status di «non luogo».
In terzo luogo Jevromajdan è frutto del difficile rapporto tra l’Ucraina e
l’Europa stessa. Anzi, si potrebbe dire che in questo periodo Ucraina ed
Europa hanno fatto reciproci passi da gigante per capirsi ed accettarsi. Una
parte della società ha ben salda l’idea di un’Europa dei valori della quale
l’Ucraina rimane storicamente parte inalienabile. Nel contempo, però, si è
sviluppato anche un certo senso critico. Si capisce che, lottando per
l’Europa, bisogna lottare anche con una certa parte dell’Europa che nega
all’Ucraina il diritto di integrazione (ricordiamo l’infelice battuta di
Romano Prodi, secondo cui le possibilità di integrazione dell’Ucraina
nell’Ue erano da considerarsi pari a quelle della Nuova Zelanda). Nei
confronti dell’Ucraina l’Europa ha assunto una posizione di attesa,
relegando il paese al ruolo di Stato cuscinetto. In questo senso il fattore
energetico ha giocato un ruolo nefasto, con la nascita di un’Europa
schroederiana all’ombra di Putin. Quindi anche per gli ucraini convinti
europeisti non è facile lottare, dal momento che manca una precisa
prospettiva di integrazione. Eppure, oggi come mai prima domina in
Ucraina la consapevolezza della necessità della scelta europea.
È qui che l’asse sincronico e quello diacronico si incrociano
nell’esperienza di Jevromajdan. L’Ucraina resta oggi l’ultimo baluardo
dell’Europa lungo il suo limes orientale. «Morire sulle barricate per
l’Europa e per la libertà» è lo slogan di Milan Kundera con cui veniva
tracciato un invalicabile confine tra il mondo europeo e il mondo russo, il
mondo del cristianesimo occidentale e quello del cristianesimo orientale3.
Per Kundera questo limite passava nell’Europa orientale tra la Budapest del
1956, la Praga del 1868 e la Varsavia di Solidarność. L’Ucraina sposta oggi
il confine verso Kiev, tracciando non solo una nuova frontiera, ma
articolando meglio il discorso. L’occupazione della Crimea e l’ammasso di
truppe russe ai confini orientali dell’Ucraina rafforza la dolorosa certezza
che la scelta europea segna l’alternativa tra il dissolvimento dell’Ucraina
nello spazio del neototalitarismo russo e un difficile cammino verso
l’Europa. Non a caso Brzezinski vede nell’Ucraina l’ultimo confine
europeo e afferma che la scelta del paese tra l’Unione Europea e la Russia
definirà una volta per tutte una globale redistribuzione delle forze sullo
scacchiere mondiale4. La questione del confine tra Europa e non Europa è
dunque inevitabilmente segnata da contenuti culturali e valoriali.
Ciò va tenuto presente anche nella valutazione degli aspetti contingenti.
Nell’immaginario europeo gli ultimi secoli vedono l’Ucraina integrata nella
statualità russa; di conseguenza il confine culturale tra le due realtà appare
spesso sfumato e incerto. Eppure si dimentica che per quasi tre secoli
l’Ucraina moderna si è formata culturalmente e linguisticamente all’interno
della statualità polacca. Ed è attraverso questo rapporto conflittuale, ma
estremamente fruttuoso, che in Ucraina si attiva una vivace ricezione della
tradizione filosofica, giuridica, storiografica europea.
Le conseguenze di tale retaggio storico arrivano fino ad oggi. Il campo
elettorale delle forze democratiche abbraccia infatti quella parte
dell’Ucraina occidentale e centrale che per tre secoli si è sviluppata come
Stato moderno in seno alla Repubblica polacca. La Chiesa ortodossa
ucraina non ha mai seguito il modello cesaropapista russo-bizantino, al
contrario è stata aperta alle istanze europee. Anche la nascita nel 1596 della
Chiesa greco-cattolica in un paese a maggioranza ortodossa ha
rappresentato un ricchissimo fenomeno culturale, identificabile nel tentativo
di superare le discordie interne e costruire un dialogo europeo «a due
polmoni», per dirla con Giovanni Paolo II. L’organizzazione cosacca non
era affatto una masnada ribelle anarcoide, come la vedeva Caterina II, la
quale distrusse il cosaccato nel 1775; esprimeva bensì un’originalissima
realtà socio-politica (ne è conferma la costituzione di Orlyk del 1710, la
prima costituzione in assoluto in Europa). Anche nel corso del
Romanticismo la cultura ucraina si sviluppava nel solco delle idee europee.
Jevromajdan ha dunque una forte valenza simbolica. È una piazza dove
s’incontrano il passato e il futuro, varie generazioni, varie nazionalità.
Durante le proteste si usavano tecniche di combattimento cosacco e
strategie dell’Esercito insurrezionale ucraino (Upa). Marciavano insieme,
come ha detto Bernard-Henry Lévy, ebrei e cosacchi. Tra gli slogan più
diffusi spiccava l’espressione «Per la vostra libertà e per la nostra», motto
derivato dall’insurrezione polacca del 1830-31. I tatari difendevano i valori
europei. È un sottile linguaggio culturale che mostra quanto profondo e
coerente sia il cambiamento in atto, nonostante non poche contraddizioni.
4. Jevromajdan ha dunque portato a rapido sviluppo i diversi conflitti
intestini dello spazio ucraino, diventati un groviglio nei 23 anni di storia
postsovietica. Grazie alla scelta europea dell’Ucraina da un lato e al
parteggiare dell’Ue per l’Ucraina dall’altro, è così riemersa con nuovo
vigore la contrapposizione tra Russia e Occidente. Questo scontro ha
meccanismi ed esiti complessi.
In primis, l’Ucraina diventa il banco di prova dei princìpi democratici.
L’alternativa è netta: o l’Occidente prova la fedeltà ai propri valori o la
Russia si farà beffe dell’Occidente, con risultati nefasti per entrambe le
parti. L’Ucraina è l’unico paese al mondo ad aver ceduto volontariamente il
suo arsenale atomico in cambio di precise garanzie sulla sua sovranità e
sull’integrità dei propri confini da parte di Russia, Stati Uniti e Gran
Bretagna. Con l’invasione della Crimea, Mosca ha deliberatamente violato i
princìpi sui quali poggia la sicurezza europea postbellica. Qualora l’azione
militare russa non venisse rigidamente sanzionata, emergerebbe uno stato di
cose secondo cui nessun accordo può essere considerato valido. Ciò rischia
di generare una pericolosa proliferazione di armi atomiche nel mondo.
Europa e Stati Uniti finirebbero per uscire da questo confronto indeboliti da
un punto di vista politico e morale: il crollo dello Stato ucraino
costituirebbe infatti un pericoloso precedente, che esorterebbe il Cremlino
ad estendere la propria aggressione. Quando il Cremlino parla della
Polonia, degli Stati baltici, della Finlandia come «terre russe» sta
provocando l’Occidente. E se quest’ultimo non si dimostra in grado di
opporre una risposta ferma e una strategia efficace, si potrebbe prospettare
un nefasto effetto domino.
All’inizio dell’èra putiniana lo storico russo Jurij Afanas’ev ha scritto
un libro dal titolo La Russia pericolosa5. Nel 2004 anche Edward Lucas ha
avvertito che la politica putiniana sta mettendo in piedi una «nuova guerra
fredda»6. L’invasione della Crimea costituisce la sfida più plateale. Putin
conosce le debolezze dell’Occidente e le sfrutta sapientemente: sapendo che
la principale di queste debolezze è l’avidità: sotto Putin il maggior prodotto
d’esportazione della Russia è stata la corruzione del sistema politico e
finanziario occidentale7.
Inoltre, come dice Jan Tombiński, la Crimea rischia di diventare il posto
più pericoloso nel mondo, trasformandosi in uno snodo di traffici criminali,
con il potere saldamente in mano a mafie locali e non. Del resto, Putin fa
leva su un’eclettica combriccola di personaggi loschi, tra cui troviamo
cosacchi che si organizzano in «centurie nere», bikers «Lupi notturni»,
cetnici serbi, ceceni di Kadyrov, nonché Aksënov, l’autoproclamato nuovo
primo ministro della Repubblica Autonoma di Crimea, noto nel mondo
della criminalità organizzata con il nome di Goblin.
Sullo sfondo spicca la sfida globale lanciata all’America. Nella notte
successiva al referendum del 16 marzo il «giornalista di Putin» Dmitrij
Kiselëv ebbe a dire con orgoglio che la Russia è l’unico paese al mondo
capace di trasformare l’America in cenere radioattiva8. Fortunatamente, al
momento resiste anche la protesta degli stessi cittadini russi, che si ribellano
contro queste assurdità. Non si tratta solo di manifestazioni come quella di
50 mila persone a Mosca il 15 marzo. Emergono sempre più voci di
intellettuali russi che vogliono cambiare il paese e considerano l’invasione
della Crimea l’inizio della fine di Putin. A questo punto, varrebbe la pena di
rispolverare un’altra previsione di Brzezinski, che preconizzava la
democratizzazione della Russia in caso di vittoria delle forze democratiche
in Ucraina.
La sfida della Russia all’Occidente è dunque lanciata. Già ai tempi della
rivoluzione arancione, il filosofo francese André Glucksmann affermava
che l’odierna Europa occidentale non sarebbe altro che lo spazio dell’euro,
mentre sono i popoli dell’Europa orientale, vittime di due totalitarismi, a
restituire al Vecchio Continente gli ideali di libertà sui quali esso stesso era
fondato. La stessa cosa ha ripetuto Bernard-Henry Lévy dieci anni dopo, nel
2014, in una piazza gremita, parafrasando il famoso detto di Kennedy: «Io
sono ucraino».
È forse questo, per ora, il risultato più grande di Jevromajdan: mostrare
che si possono sfidare i mostri del totalitarismo, cambiando il corso della
storia, organizzando le forze e credendo nell’Europa. Václav Havel parlava
della più grande delle rivoluzioni, la rivoluzione esistenziale. Nel caso di
Jevromajdan, questa rivoluzione ha un nome datole dai primi giorni di
protesta: rivoluzione della Dignità.
1
«Ukraine–Divided or Diverse», Current Politics in Ukraine (blog),
ukraineanalysis.wordpress.com/2014/02/22/ukraine-divided-or-diverse
2
Jevromajdan ha adottato anche il nome Viče, cioè agorà slava ai tempi della Rus’ di Kiev.
3
M. KUNDERA, «Occidente sequestrato, ovvero la tragedia dell’Europa centrale», Nuovi
Argomenti, n. 9, gennaio-marzo 1984.
4
Z. BRZEZINSKI, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives,
Washington 1997.
5
JU. AFANAS’EV, Opasnaja Rossija, Moskva 2001.
6
E. LUCAS, The New Cold War: How the Kremlin Menaces Both Russia and the West, London-New
York-Berlin 2008.
7
«Russia’s New Cold War», The Washington Post, 19/2/2014.
8
www.youtube.com/watch?v=teZZMrnWUNw&feature=youtu.be
GLI OLIGARCHI ALLA FIERA
DELL’EST
Il cuore economico dell’Ucraina batte nelle regioni orientali. Un
pugno di affaristi ne ha assunto il controllo per poter manipolare le
scelte di Kiev. Qui si rivolgono gli appetiti del Cremlino. Che cosa
(non) è cambiato dopo Majdan.
di Fulvio SCAGLIONE
T
« endenze centrifughe», «possibile frammentazione del paese»,
«rischio di guerra civile», «intervento militare russo che non può essere
escluso a priori». Il tono è quello allarmato con cui la stampa mondiale
segue da mesi le ultime vicende ucraine, ma i timori risalgono al 1994, anno
in cui Stephen Larrabee, ricercatore dell’americana Rand Corporation,
pubblicò lo studio intitolato Ukraine: Europe’s Next Crisis?1. Nello stesso
anno Eugene Rumer, che oggi analizza per Politico l’evoluzione della crisi
tra Russia e Ucraina2 e che fu esperto di Russia per il National Security
Council degli Usa all’epoca della presidenza Clinton, scrisse per Foreign
Policy un articolo significativamente intitolato Will Ukraine Return to
Russia?3.
Da lungo tempo, insomma, politologi, diplomatici, economisti, e certo
gli uomini dei servizi segreti s’interrogano sulla solidità dell’integrità
territoriale dell’Ucraina indipendente nata dal disfacimento dell’Urss e dal
referendum svoltosi nel paese il 1° dicembre 19914. L’attenzione era e resta
puntata sulla parte dell’Ucraina che si estende a est del fiume Dnepr, la
provincia di Dnipropetrovs’k e la regione del cosiddetto Donbas, il
Donec’kyj Basejn, a sua volta organizzato in due province: quella di
Donec’k e quella di Luhans’k. Poco meno di un terzo della popolazione
dell’Ucraina, in gran parte cittadini ucraini di origine e di lingua russa5; un
territorio che geograficamente e orograficamente si estende anche oltre i
660 chilometri di confine con la Russia, fino a comprendere l’area di
Rostov sul Don, in Russia, che molti appunto definiscono «Russkij
Donbass», il Donbas russo. E per conseguenza una continuità di assetto
economico non priva di significato: di qua e di là dal confine miniere,
industrie metallurgiche, allevamenti e fertili «terre nere», che coprono pur
sempre il 60% del territorio del Donbas. Per non parlare della rete dei
gasdotti russi6, che pare cucire insieme questi territori, indifferente ai
confini, alle etnie, alle lingue.
Considerato che tra Dnipropetrovs’k, Luhans’k e Donec’k si concentra
circa l’80% del potenziale industriale dell’Ucraina, non è difficile
immaginare che il Cremlino, alle prese con la crisi dei suoi rapporti con
Europa e Usa innescata dalla caduta a Kiev del regime di Viktor Janukovyč,
possa oggi guardare a questa regione con rinnovati appetiti. E considerare
che l’integrazione di una parte o di tutta l’area non tanto nella Russia ma
nello «spazio vitale» della Russia post-sovietica potrebbe avvenire con
relativa facilità.
Il Donbas all’attacco
A
1. lla base degli avvenimenti ucraini degli ultimi mesi sta senza
dubbio la difficile situazione economica del paese, che non è frutto solo del
malgoverno di Janukovyč. Un sistema economico caratterizzato da
debolezze strutturali e da politiche economiche sbagliate, decise da una
classe politica totalmente inadeguata, hanno impedito la costruzione di uno
Stato e di un’economia efficienti, in grado di migliorare il tenore di vita dei
cittadini. Il fallimento più rilevante è stata la mancata costruzione di uno
Stato unitario con una sua identità definita; invece di darsi questo obiettivo,
le classi dirigenti hanno giocato a tempi alterni a ottenere l’appoggio
europeo contro quello russo e viceversa, per massimizzare i possibili
benefici.
Oltre vent’anni, dal 1991 a oggi, sono così trascorsi invano: mentre nel
1992 il reddito medio ucraino era il 90% di quello polacco, attualmente è
meno del 40%. A parità di potere d’acquisto, il reddito pro capite polacco è
quadruplicato dal 1992, mentre quello ucraino è cresciuto solamente del
40%; in termini assoluti, nel 2013 il reddito medio pro capite ucraino,
sempre a parità di potere d’acquisto, era (secondo il Fondo monetario
internazionale) minore di quelli di Bielorussia, Russia e Polonia: 7.422
dollari in Ucraina, 16.106 in Bielorussia, 18.083 in Russia e 21.118 in
Polonia. Da un punto di vista comparativo i ventitré anni trascorsi dal 1991
sono stati quindi un sostanziale fallimento, in contrasto con le previsioni di
gran parte degli osservatori che immaginavano per il sistema economico
ucraino un brillante futuro: transizione veloce, avvicinamento all’Unione
Europea, forse adesione alla Nato.
4. Visto che Mosca fornisce all’Europa quantità di gas tali da non poter
essere sostituite, si testa la possibilità, proprio a partire dalla scacchiera
ucraina, di invertire la polarità dei tubi. Un gioco semplice sulla mappa dei
vari circuiti di reverse flow, previsti nell’Europa centrale dopo la crisi del
2009, quando i bisticci sul prezzo tra Mosca e Kiev portarono al blocco del
flusso di gas russo a tre quarti del Vecchio Continente. Il punto è che la
formula sottende una strategia volta a rovesciare la geografia attuale del
mercato europeo del gas. L’obiettivo è la marginalizzazione progressiva non
delle forniture russe – che servono, eccome – ma del ruolo dominante di
Gazprom nella commercializzazione europea del suo gas, fatta di relazioni
strette e intricate con utilities europee, soprattutto dell’Est. È questo settore
che ha garantito a Gazprom i più forti margini di profitto, che d’ora in poi
andrebbero a spartirsi tra altri operatori non produttori, incluse le grandi
aziende internazionali di marketing. Ecco perché è in atto anche il tentativo
di emarginare Gunvor, colosso concepito dagli strateghi del Cremlino per
commercializzare il gas russo e portare a casa i profitti complessivi del
business energetico prodotto dalle proprie aziende. Da Gazprom e da
Rosneft’ e ora anche da Novatek – lanciata, in partnership con Total e China
National Petroleum, in un progetto di gnl alle soglie dell’Artico da
esportare principalmente sui mercati asiatici. Le sanzioni Usa che hanno
centrato Gennadij Timčenko, comproprietario e fondatore della Gunvor,
rischiano di nuocere al prestigio della società.
Si cerca in ogni modo di tagliare gli extraprofitti di Gazprom,
nonostante i ricavi maggiori vengano a Mosca dal petrolio, le cui
esportazioni sono meno vulnerabili. La domanda europea di gas è critica
per la Russia, che continua a connotarsi come un petrostato: Gazprom
dichiara che le esportazioni di gas incidono per il 52% dei suoi ricavi,
mentre quelle di petrolio, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia,
rappresentano il 71% dell’export globale russo.
5. La nuova geografia del marketing del gas genera equazioni
complesse, con molte variabili. Vediamole partitamente, a cominciare dal
perno principale: la piattaforma ucraina.
Il primo problema di Kiev è rappresentato dagli enormi consumi interni
di gas che unitamente ai sussidi alle imprese costituiscono il peso principale
del suo debito. Nel 2013 l’Ucraina ha consumato oltre 50 miliardi di metri
cubi, di cui 30 miliardi importati, coperti sostanzialmente dalle forniture
russe (28,5 miliardi). Solo 1 miliardo e mezzo di metri cubi di gas russo
sono arrivati in reverse flow dall’Ungheria e dalla Germania via Polonia,
commercializzati dalle rispettive aziende. Poco più di un test. Infatti, l’unica
operazione importante di uso dei circuiti a flusso invertito, che può passare
attraverso gasdotti ormai in disuso dopo l’attivazione del Nord Stream, è
quella promossa dal commissario all’Energia Ue, che ha cercato di costruire
una partnership tra la tedesca RWE, la slovacca Eustream e l’azienda di
trasmissione ucraina Ukrtanshaz. La RWE avrebbe garantito una capacità di
trasmissione fino a 10 miliardi di metri cubi/anno fino al 2017, da
accrescere nel tempo con collettori ad hoc.
L’operazione oggi si ripropone con un duplice obiettivo, che c’entra
poco con la necessità di aiutare l’Ucraina a diventare meno dipendente
energeticamente da Mosca. Tanto per cominciare i consumi interni ucraini
dovranno ridimensionarsi sensibilmente, dopo il giro di vite imposto dal
Fondo monetario internazionale nel recente accordo con Kiev. Si prepara
l’aumento del 50% delle tariffe interne del gas, a partire da maggio.
Farisaicamente si è dato ampio risalto, in questo quadro, alla necessità di
«tutelare le situazioni più vulnerabili».
Si tratta in realtà di garantire a Kiev flussi controllati di gas russo
proveniente dal Nord Stream e stoccato nei depositi commerciali tedeschi,
aggiunto a quello che viene direttamente da Mosca. Al tempo stesso occorre
tenere alto il flusso di esportazioni russe all’Europa via Ucraina: ciò, oltre a
garantire lucrosi diritti di transito a Kiev, servirà anche a rimpinguare i
depositi sotterranei del network ucraino (quelli predisposti dall’ex Urss per
ovviare a problemi climatici di trasmissione del gas dalla Siberia) che
hanno una capacità di 33 miliardi di metri cubi. Sono condizioni
indispensabili per cominciare a configurare un ruolo di hub alla piattaforma
logistica ucraina. In vista di tale obiettivo si punta, in un futuro a medio
termine, anche sullo sfruttamento dei depositi di shale gas nelle regioni
occidentali del paese, dove si è installata la Chevron, oltreché in quelle
orientali, dove sono in corso esplorazioni da parte della Shell. Si parla di
riserve pari a 3 trilioni di metri cubi di gas, quantità che movimentate in
Europa avrebbero un positivo effetto sul meccanismo dei prezzi.
È interessante notare che questa strategia cammina in parallelo con
quella che Janukovyč aveva imbastito anche con la Russia. Essa risale al
2012 ed è andata avanti anche nel periodo in cui Majdan già ribolliva, fino a
tutto gennaio 2014. Al presidente ucraino e al suo clan di interessi faceva
probabilmente gola la prospettiva di gestire un paese che potesse assurgere
a hub del gas europeo piuttosto che restare un territorio di transito utile agli
interessi di Mosca. Un ufficio particolare di pianificazione energetica
direttamente sotto il controllo di Janukovyč e assistito da esperti comunitari
aveva già cominciato a impostare – in vista dell’accordo che l’Ue dava per
scontato al vertice di Vilnius del novembre 2013 – un progetto di riforma
del settore energetico nazionale volto a favorire il clima degli investimenti,
in particolare delle condizioni contrattuali di production sharing con le big
oil. Non solo sul continente ma anche sull’offshore della Crimea, dove la
Exxon si era assicurata il rango di operatore in un consorzio in cui figurava
anche la Shell, mentre ne era stata esclusa la russa Lukoil.
Contemporaneamente venivano preparate le condizioni affinché la
compagnia nazionale Naftohaz potesse permettere il third party access (tpa)
alle sue reti di trasmissione, così allineandosi alle regole comunitarie
sull’unbundling. In questo clima erano stati approntati alcuni test di reverse
flow da Ungheria e Polonia, oltre che di forniture di gas russo
commercializzato in Germania attraverso l’unica condotta di reverse flow
che può essere attivata in Slovacchia.
Si può immaginare come Putin abbia seguito queste manovre volte a
diminuire la dipendenza energetica e quindi l’influenza geopolitica del
Cremlino sull’Ucraina e sull’Europa intera. Ma l’obiettivo di attirare
l’Ucraina nella sua Unione doganale eurasiatica gli è apparso più
importante: meglio lavorare Kiev ai fianchi. Aspettando di veder fallire le
trattative con l’Ue, impossibilitata a concedere finanziamenti, se non in
parallelo all’Fmi, a un governo in bancarotta e certo non propenso a riforme
strutturali impopolari ad appena un anno dalla campagna elettorale
presidenziale.
Se tutto fosse andato secondo le sue previsioni, il wait and see di Putin
avrebbe poi dovuto permettere di coinvolgere le big oil Exxon e Shell attive
in Russia, in joint-venture con Gazprom e Rosneft’ (sulla piattaforma
continentale dell’Artico russo e nella Siberia nord-occidentale). Quanto al
partenariato trilaterale di reverse flow cui Janukovič si era mostrato
propenso, sono stati sufficienti un contratto ventennale con la compagnia
elettrica slovacca a prezzi favorevoli del gas e forniture scontate alla RWE
per bloccare tutta la manovra. Con gli accordi stipulati tra Mosca e Kiev il
17 dicembre 2013, che fornivano il gas russo a 268,5 dollari per mille metri
cubi – uno sconto del 30% sul prezzo del mercato europeo – l’Ucraina ha
cessato di ritirare anche le piccole quantità che arrivavano in reverse flow
da Ungheria e Germania via Polonia. A tutt’oggi Oettinger sta faticando per
convincere la Slovacchia a diventare un pivot importante della piattaforma
ucraina, nonostante l’Fmi e l’Ue siano disponibili a finanziare infrastrutture
di reverse flow tra i due paesi.
L’
1. idea che l’Ucraina fosse una nazione distinta dalle altre e che
essa avesse diritto a uno Stato indipendente nacque nel corso del XIX
secolo con il diffondersi dei nazionalismi e della massificazione della
società. Differentemente da alcuni paesi occidentali, l’Ucraina non aveva
un’antica tradizione statuale alle spalle. I primi tentativi di creare uno Stato
nazionale si ebbero solo dopo la rivoluzione del febbraio 1917 e,
successivamente, per tutto il corso della cosiddetta guerra civile russa.
Con la fondazione dell’Unione Sovietica, l’Ucraina emerse come una
repubblica formalmente indipendente. L’Urss condusse tuttavia una politica
delle nazionalità ambivalente, alternando periodi di maggiore autonomia ad
altri di repressione violenta di ciò che veniva definito «nazionalismo
borghese». Massima espressione di tale repressione fu la carestia artificiale
del 1932-33, il Holodomor, che uccise milioni di ucraini. Nel periodo fra le
due guerre mondiali, nelle regioni ucraine occidentali come la Galizia, che
erano parte dello Stato polacco, si diffuse una variante radicale del
movimento nazionale ucraino, sempre più influenzato dai movimenti
fascisti, rappresentato dalla Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun).
Nel corso della seconda guerra mondiale i nazionalisti ucraini combatterono
sotto le insegne dell’Upa (Esercito insurrezionale ucraino) a tratti contro
sovietici e nazisti, a tratti alleati invece a questi ultimi, che speravano di
sfruttare la questione nazionale ucraina contro il potere di Mosca. La guerra
partigiana nazionale fu sconfitta dall’esercito sovietico solo a metà degli
anni Cinquanta. Proprio allora all’interno del dissenso sovietico nacque un
nuovo filone del movimento nazionale, profondamente pacifista e convinto
del valore dei diritti umani, che divenne, nel corso degli anni Settanta, tanto
antisovietico quanto antifascista1.
Si deve a questi ex dissidenti, saliti brevemente al potere nei primi anni
dopo il crollo dell’Urss, la decisione di non costruire in Ucraina uno Stato
etnico, ovvero che legasse il diritto di cittadinanza all’appartenenza
nazionale o linguistica. Differentemente da quello che avvenne negli Stati
baltici, il passaporto ucraino fu garantito a tutti i residenti sul territorio
nazionale alla data del 31 dicembre 1991. Questo tuttavia non impedì che
nel corso di un decennio le polemiche sulla storia ucraina tornassero a
inquinare il dibattito sociale e politico.
6. Le proteste che hanno portato alla fuga di Janukovyč sono state fin
dall’inizio contraddistinte da un desiderio di rinascita nazionale, in parte
rappresentato dallo scontento per la mancata associazione all’Ue. Il tridente
era onnipresente sul Majdan e il saluto tradizionale del movimento
nazionale («Gloria all’Ucraina!» a cui si risponde «Gloria agli eroi!») è
divenuto usuale. Il fine delle proteste era però combattere contro il potere
sempre più dittatoriale del presidente e ottenere più democrazia e una
migliore distribuzione della ricchezza. Anche se fare statistiche è
particolarmente difficile, è stato stimato che sul Majdan solo il 55% degli
intervenuti parlava ucraino: il 26% era russofono, il 18% si dichiarava
bilingue e l’1% di un’altra madrelingua8.
Anche se nel corso degli scontri la federazione di movimenti Pravyj
Sektor (settore destro del Majdan) guidata dal nazionalista estremista
Dmytro Jaroš ha acquistato grandissima visibilità grazie ai suoi gruppi
organizzati per la guerriglia urbana, di fatto la piazza non ha ceduto alle
lusinghe del nazionalismo. Secondo vari sondaggi sia pubblici che privati,
Jaroš raccoglierebbe solo l’1,6% se si presentasse alle presidenziali del 25
maggio9.
Nella generale sfiducia degli ucraini per tutti i politici, anche
dell’opposizione, emerge come eccezione la figura di Andrij Sadovyj, il
sindaco di Leopoli. Ucrainofono, ma che parla spesso in pubblico in russo,
Sadovyj si è recentemente rivolto alle regioni orientali, in cui si teme una
discriminazione dei russofoni, per tranquillizzarli. I suoi richiami all’unità
della nazione risuonano come la migliore proposta per scongiurare una
guerra civile e avviare il paese, conscio degli scontri fratricidi del passato,
verso una nuova integrazione delle sue due anime all’interno del più ampio
contesto dell’Unione Europea.
Il paradigma di Leopoli
di Andrij SADOVYJ
1
Una delle migliori introduzioni all’importanza della memoria storica per la costruzione statuale
ucraina è quella di A. WILSON, The Ukrainians. Unexpected Nation, New Haven 2000, Yale
University Press.
2
La migliore ricostruzione storica dei primi decenni d’indipendenza dell’Ucraina è quella di H.
KAS’JANOV, Ukraïna 1991-2007. Narysy novitnoï istoriï, Kiev 2008, Naš čas. La migliore
discussione delle polemiche scientifiche, sociali e politiche sui personaggi della storia ucraina è
quella di D.R. Mrples, Heroes and Villains: Creating National History in Contemporary Ukraine,
Budapest-New York 2007, Ceu Press.
3
In Ucraina le maggiori religioni sono tre: la Chiesa uniate di rito ortodosso ma cattolica (con circa il
15% dei credenti), la Chiesa ortodossa che riconosce il patriarca di Kiev (circa il 39%) e infine quella
ortodossa sottoposta a Mosca (circa il 30%).
4
Uno dei migliori contributi per la storia della rivoluzione arancione e della campagna politica che la
precedette è A. WILSON, Ukraine’s Orange Revolution, New Haven 2005, Yale University Press.
5
Il russo risulta maggioritario anche in gran parte delle città occidentali dell’Ucraina, ma qui
l’appartenenza linguistica non ha avuto un riflesso sul voto pressoché plebiscitario a favore degli
arancioni.
6
Sul Holodomor il lettore italiano può vedere l’eccellente volume a cura di G. DE ROSA, F.
LOMASTRO, La morte della terra. La «grande carestia» in Ucraina nel 1932-33, Roma 2004,
Viella.
7
Nel sistema ucraino è possibile votare contro entrambi i candidati al ballottaggio.
8
Dati dell’Istituto internazionale di sociologia di Kiev e della Fondazione di iniziative democratiche
Ilko Kučeriv (dicembre 2013).
9
Due sondaggi con risultati molto simili sono stati condotti fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo
dall’Istituto internazionale di sociologia di Kiev e dal privato Centro di ricerche sociali e politiche
(Socis).
10
Ovvero la Rus’ di Kiev (n.d.r.).
11
Si fa qui riferimento al cosiddetto patto di non-aggressione Molotov-Ribbentrop siglato il 23
agosto 1939. In base ai relativi protocolli segreti l’Urss e la Germania si spartirono l’Europa orientale
(n.d.r.).
12
Si intende qui la regione della Galizia in Europa orientale, oggi divisa fra Ucraina e Polonia
(n.d.r.).
13
Firmato il 30 settembre 1938 anche grazie al diretto intervento di Mussolini, questo accordo
assegnò alla Germania le terre abitate dai tedeschi dei Sudeti in Cecoslovacchia, decretandone lo
smembramento in più unità territoriali (n.d.r.).
14
Frutto della mediazione fra il capo dei cosacchi ucraini Bohdan Khmel’nyc’kyj e il rappresentante
dello zar Alessio I, il trattato è uno dei documenti più contestati della storia ucraina: per alcuni esso
fu soltanto un’alleanza in funzione antipolacca, per altri prevedeva invece la sottomissione
dell’Ucraina alla Russia (n.d.r.).
15
Questa carica fu così rinominata da Stalin nel 1922 quando divenne segretario del partito
bolscevico (n.d.r.).
16
Quando fu condannato per attività terroristica, nel 1934, le regioni occidentali dell’Ucraina erano
parte dello Stato polacco. Significativamente, Tjahnybok definisce il tribunale polacco
«d’occupazione» per sottolinearne l’illegittimità ai suoi occhi (n.d.r.).
17
A seguito dell’invasione tedesca della Polonia, i nazionalisti ucraini tentarono di prendere il potere
a Cracovia nel 1940, ma furono poi indotti a cedere il governo della regione ai nazisti (n.d.r.).
18
I nazionalisti ucraini avevano invaso l’Urss al seguito dei tedeschi con la convinzione che questi
avrebbero loro permesso di fondare uno Stato ucraino indipendente. A causa della proclamazione
d’indipendenza i nazisti dichiararono l’Oun illegale e rinchiusero nel campo di Sachsenhausen molti
suoi dirigenti, Stec’ko compreso. Egli fu liberato dalla Gestapo nel 1944 nel tentativo disperato di
utilizzarlo contro l’avanzata dell’Armata Rossa (n.d.r.).
19
Il Blocco antibolscevico delle nazioni era un’organizzazione di fuoriusciti dall’Europa orientale
dopo la vittoria sovietica nel 1945. Era organizzata per gruppi nazionali e aveva sede a Monaco di
Baviera; l’Oun-rivoluzionaria era una fazione dell’Oun, nata durante il conflitto e poi resasi
indipendente, che riuniva i membri più estremisti, spesso anche razzisti e antisemiti (n.d.r.).
20
Mykola Mikhnovs’kyi (1873-1924) fu un politico e uno dei primi ideologi del nazionalismo
ucraino, famoso per il suo manifesto L’Ucraina indipendente del 1900. Dopo aver lottato per
l’indipendenza durante la guerra civile, morì in condizioni misteriose a Kiev, forse a seguito di un
suicidio (n.d.r.).
21
Così si chiamava la formazione statale nazionale ucraina che a fasi alterne dal 1917 al 1920
governò su alcune regioni dell’Ucraina (n.d.r.).
22
Andrij Mel’nyk fu il rivale di Stepan Bandera nell’Oun per tutti gli anni Trenta e Quaranta e
rappresentò una linea più vicina al fascismo italiano rispetto a quella filonazista del suo rivale
(n.d.r.).
23
Šeptyc’kyj fu metropolita della Chiesa uniate ucraina di Leopoli dal 1900 fino alla sua morte nel
1944. Guida spirituale del nazionalismo nell’Ucraina occidentale, è noto per aver salvato la vita di
molti ebrei durante l’occupazione nazista, nascondendoli in chiese e monasteri (n.d.r.).
24
I diritti di Magdeburgo sono una raccolta delle leggi comunali di questa città che ne regolavano
l’autonomia rispetto al Sacro romano impero e che vennero utilizzati nel XIII e XIV secolo per
regolare i rapporti con molte altre città. Furono riconosciuti a Leopoli nel 1356 dal re di Polonia
Casimiro III. Nel 2008 Sadovyj ha proposto provocatoriamente di restaurare a Leopoli i diritti di
Magdeburgo.
I GUARDIANI DI PIAZZA
INDIPENDENZA
Chi sono gli ultranazionalisti di Majdan. Pravyi Sektor di Dmytro
Jaroš esprime le posizioni più radicali. Samooborona (Autodifesa),
capeggiata da Andrij Porubij, riunisce ex militari e giovani
nazionalrivoluzionari.
di Renata CARUSO
M
1. « ajdan» in lingua ucraina non significa altro che «piazza», ma in
ucraino esiste anche un altro termine – «plošča» – che ha lo stesso
significato. Tuttavia il termine «Majdan» deriva dal persiano meydan, poi
passato all’arabo come maydān, e indica un parco pubblico urbano o uno
spazio aperto. La parola in origine aveva un significato più esatto, non
indicava una semplice piazza ma si riferiva a quelle aree in cui avevano
luogo le pubbliche discussioni, il centro della vita sociale e politica, dove
venivano lette le dichiarazioni ufficiali e dove potevano avere luogo le
esecuzioni, gli spettacoli e i giochi1. In altre parole, il significato originale
del termine perfettamente si associa a quello di cui oggi siamo spettatori a
piazza Indipendenza (Majdan Nezaležnosti) a Kiev.
Nella piazza si muovono molti attori: povera gente spinta dalla
disperazione per le misere condizioni di vita, giovani che credono e sperano
di poter cambiare il mondo, uomini e donne desiderosi di vedere per sé e i
propri figli un futuro migliore, sacerdoti che cercano di portare aiuto ai più
bisognosi, politicanti che cercano di cavalcare l’onda della protesta. Ma nel
vortice di queste voci in cerca di speranza si aggirano anche molti
«demoni» di dostoevskjana memoria. Essi sono i nuovi ideologi, posseduti
da una concezione della vita onnicomprensiva e onniesplicativa della realtà,
uomini che si credono in possesso della Verità, ma di una verità che in
ognuno di essi si concretizza in una forma aberrante, distruttiva,
catastrofica. Spesso, a causa di questi «professionisti» delle agitazioni,
proteste più che lecite di natura politica e sociale si tramutano in pretesti per
scatenare odi ideologici le cui conseguenze nel lungo periodo sono
imprevedibili, ma che nel breve periodo portano all’inasprirsi dei contrasti,
con il rischio di provocare l’implosione delle istituzioni.
1
«In epoca ottomana era attraverso le feste e le processioni che il potere diveniva tangibile per il
popolo. Accanto a intronizzazioni e funerali, simbolo della legittimità della dinastia, gli ottomani
organizzavano anche altre cerimonie per trasmetterne visivamente il messaggio imperiale. Tra queste
vi erano innanzitutto quelle legate al concetto di rinnovamento della famiglia imperiale, cioè le
circoncisioni dei principi e i matrimoni delle principesse, vi erano poi le cerimonie che riguardavano
i rapporti internazionali, per ratificare un accordo di pace o per ricevere un ambasciatore o un
principe, le processioni organizzate per la partenza dell’esercito per la guerra, spesso usate anche per
censire la popolazione della capitale, e infine le festività legate al calendario religioso. Le feste a
carattere decisamente pubblico erano utilizzate soprattutto come valvola di sfogo per possibili
tensioni sociali, e contenevano quindi elementi carnascialeschi: processioni con personaggi di miti o
leggende, (…) banchetti pubblici, spettacoli di acrobati, danzatori, musicisti, poeti, animali, giochi di
guerra e tanti fuochi d’artificio, così amati dalla popolazione. Tali feste servivano anche per
ridicolizzare i nemici e renderli quindi inoffensivi agli occhi del popolo. (…) Allo stesso tempo
animali di razze diverse e danzatori e artisti provenienti da vari paesi, come attori della Commedia
dell’arte, o ballerini ebrei, stavano a indicare il dominio che il sultano aveva su tutto il mondo. Infine
si solevano organizzare in alcuni di questi momenti anche discussioni di dotti, spesso alla presenza
del sultano. Tutto il mondo ottomano era dunque rappresentato sul palcoscenico della festa pubblica.
A Istanbul il luogo deputato era l’ippodromo (At Meydan)». Vedi M.P. PEDANI, Breve storia
dell’impero ottomano, Roma 2006, Aracne, p. 86.
2
Cfr. l’articolo del 21/2/2014 «Pravyj Sektor nedovolen soglašeniem s Janukovičem»,
euromaidan.rbc.ua/rus/pravyy-sektor-nazval-soglashenie-s-yanukovichem-ocherednym-
21022014160600 [8/3/2014].
3
Cfr. l’articolo del 3/2/2014 del Centro di ricerche politiche e di conflittologia di Kiev «Pravyj
Sektor (Ps) i Spil’na Sprava», www.analitik.org.ua/current-comment/int/52ef63a65473b/ [8/3/2012].
4
Cfr. gazeta.ua/ru/articles/politics/_lider-pravogo-sektora-trebuet-zapretit-regionalov-i-
kommunistov/543549 [8/3/2014].
5
Cfr. S. Shuster «Exclusive: Leader of Far-Right Ukrainian Militant Group Talks Revolution with
TIME», articolo del 4/2/2014, time.com/4493/ukraine-dmitri-yarosh-kiev [8/3/2014].
6
Programma ideologico dell’organizzazione Tryzub: banderivets.ho.ua/index.php?
page=pages/zmist4/zmist402 [8.03.2014]
7
Articolo del 20/1/2014,
www.bbc.co.uk/ukrainian/ukraine_in_russian/2014/01/140120_ru_s_right_sector.shtml [8.03.2014]
8
Articolo del 10/2/2014, glavred.info/politika/lider-pravogo-sektoru-dmitro-yarosh-mi-prosto-
prirecheni-peremogti-270621.html [8/3/2014]
9
Il manifesto di Samooborona Majdanu è reperibile nella pagina di Facebook
www.facebook.com/samooboronaMaydanu/posts/267245400101004 [9/3/2014].
10
A. WILSON, The Ukrainians: Unexpected Nation, New Haven-London 2000, Yale University
Press, pp. 129-130.
CRONACA DI UNA RIVOLUZIONE
IMPROBABILE
Dai primi assembramenti del 21 novembre 2013 al sanguinoso
epilogo del 20 febbraio, il racconto dei giorni che hanno sconvolto
l’Ucraina. I luoghi e i volti della piazza. La logistica dei rivoltosi.
Le tattiche del regime sconfitto. Majdan cova ancora sotto le
ceneri.
di Sergio CANTONE
K
1. iev. Majdan Nezaležnosti, in ucraino piazza dell’Indipendenza, per
tutti da sempre più semplicemente Majdan. Ora Majdan è sinonimo di
insurrezione. Lo spazio in cui si decide il destino dei circa 45 milioni di
abitanti del più esteso paese est-europeo è incredibilmente ridotto. Ci si
muove nel cuore e nelle arterie di Kiev: Majdan, viale Khreščatyk, via
Instytuts’ka, via Hruševs’kyj, Jevropejs’ka Plošča-piazza Europa.
Il 21 novembre 2013 l’Ucraina si sfila dalla firma dell’accordo di
associazione con l’Ue e quasi inconsapevole entra nella fase più turbolenta
dei suoi 23 anni d’indipendenza. Gli studenti delle università di Kiev
scendono in piazza la sera stessa con manifestazioni spontanee tra bandiere
europee, ucraine e americane. Sbocciano le prime coccarde giallo-celesti su
cappotti e piumini, indossati da ragazze e ragazzi dai volti dipinti coi colori
delle bandiere ucraina ed europea. Alla vigilia del vertice di Vilnius,
qualche migliaio di giovani gremisce la zona pedonale di Majdan.
La piazza è uno spazio ellittico nel pieno centro di Kiev, fa parte del
complesso architettonico in stile neoclassico staliniano di Khreščatyk, la via
principale della capitale, che a un certo punto del suo percorso da sud-ovest
(dal mercato di Besarabka) verso nord-est (fino alla Jevropejs’ka Plošča)
taglia in due Majdan. Cerchiamo di immaginare questo grande spazio (già
teatro nel 2004 della rivoluzione arancione), alla vigilia del vertice di
Vilnius, pieno di studenti che saltellando gridano in ucraino Khto ne skače
toj – moskal’ («chi non salta è un russo»): moskal’ in ucraino non è
l’accezione più gentile per definire i russi.
Ma il 28 novembre Janukovyč conferma: nessun accordo formale con
l’Ue. Quella sera nella metà orientale dell’area pedonale della piazza si
riuniscono soprattutto musicisti e cantanti. I manifestanti improvvisano una
specie di palcoscenico sotto la colonna sormontata dalla statua
dell’arcangelo Michele, chiamata dai locali Batman per la sua forma. La più
attiva è Ruslana Lyžyčko, carismatica cantante di Leopoli, vincitrice del
concorso canoro Eurovision 2004, anno della rivoluzione arancione. Ci
sono cartelli contro Putin, o con scritte in inglese del tipo «l’Ucraina è
Europa, non è Eurasia». Spuntano le prime giovani volontarie, con le mani
infilate in guanti di lattice preparano tartine di salo, una specie di lardo,
salsicce e cetrioli sottaceto, tutto gratis.
La rivendicazione principale della protesta è l’adozione da parte
dell’Ucraina degli standard europei di governance e di lotta alla corruzione.
Il malessere delle classi medie è diventato insostenibile. L’impossibilità di
fare impresa senza dover fare i conti con gli appetiti della «famiglia» è
ormai intollerabile. Per la piazza la risposta è: Stato di diritto e leggi contro
la corruzione, come in Europa. Alla fine dei comizi rimangono a presidiare
una parte ridotta dell’area pedonale un centinaio tra studenti e artisti
bohémien. I leader dell’opposizione hanno inviato il messaggio la sera
stessa, un’ultima grande manifestazione la domenica successiva e poi tutti a
casa, fino alla campagna elettorale delle presidenziali 2015.
Ma verso le quattro del mattino di sabato 30 novembre calano sui
manifestanti i berkut (letteralmente «aquile reali»), le unità speciali
antiterrorismo del ministero dell’Interno costituite sul modello dei russi
Omon. Gruppi di sicurezza addestrati e mai riformati, con una concezione
sovietica dell’ordine pubblico e dello Stato di diritto. I berkut menano a più
non posso con manganelli e calci, spaccano la testa a un videoperatore della
Reuters e rincasano soddisfatti portandosi appresso un discreto numero di
fermati.
Sabato la città è sotto shock, sono ventiquatt’ore cruciali per quanto
accadrà nei tre mesi successivi. Domenica 1° dicembre 300 mila persone
scendono in piazza e si dirigono verso via Bankova, la sede della
presidenza. Alcuni di loro, soprattutto i militanti di Svoboda, vogliono
sfondare a ogni costo, tanto che avanzano verso il cordone delle forze di
sicurezza con un bulldozer. I berkut reagiscono in modo scoordinato, ma
alla fine prevalgono al prezzo di picchiare chiunque: ben quaranta
giornalisti subiscono percosse. La via Instytuts’ka è quasi zona di guerra.
Alla fine i manifestanti desistono dal proposito di prendere il palazzo
presidenziale, ma occupano tutta Majdan, bloccano il traffico di Khreščatyk
ed erigono barricate sui quattro assi principali: la via Instyuts’ka, i due sensi
di Khreščatyk e la parte bassa della via Mykhajlivs’ka, proprio all’ingresso
di Khreščatyk, di lato al palazzo dei sindacati e davanti all’hotel Kozac’kyj.
Ricevono un appoggio incondizionato da una buona parte della città.
1
Il sito Futbolgrad ricorda un altro tweet sarcastico di Rakyc’kyj: «Twitto raramente perché i seguaci
di Bandera (eroe del nazionalismo ucraino, n.d.r.) continuano a picchiarmi e a rubarmi il telefono.
Sono costretto ad andare in Crimea per ogni tweet», Y. MATUSEVICH, «Crimea Crisis: Ukraine’s
Football Solidarity», Futbolgrad, 13/3/2014.
2
«Vladislav Kalytvyncev o napadenii titušek: “Bespredel polnyj. Ljuboj mog popast’ pod eto”»
(«Vladyslav Kalytvyncev sull’attacco dei tituški: “Il caos è totale. Sarebbe potuto capitare a
chiunque”»), Segodnja, 20/2/2014.
3
Y. MATUSEVICH, op. cit.
4
J. BUJSKIKH, «Ultras of Ukraine Safeguarding the Eurorevolution», Euromaidan PR, 27/1/2014.
5
«Official Statement of All Ukrainian Ultras Concerning the Latest Developments in the Country»,
Euromaidan PR, 13/2/2014. La tregua implica il divieto di qualsiasi «combattimento non
concordato» e di provocazioni come il furto o il rogo di simboli avversari («Truce among the
Ukrainian Ultras», Ultras-Tifo, 13/2/2014).
6
«Devono il loro nome a Vadym Tituško, un fanatico delle arti marziali filmato mentre picchiava una
giornalista e il marito fotografo» («Groups at the Sharp End of Ukraine Unrest», Bbc News,
1/2/2014).
7
D. MCARDLE, M. VETH, «Ukrainian Ultras and the Unorthodox Revolution», Futbolgrad,
11/2/2014.
8
Comunicato degli ultras di Sebastopoli citato in T. TRASCA, «Euromaidan: le rôle citoyen des
ultras ukrainiens et la futilité du football», Footballski, 23/2/2014.
9
Cfr. il sondaggio del Kiev International Institute of Sociology pubblicato il 26/11/2013, in base al
quale il 50,6% degli ucraini di età compresa fra i 18 e i 29 anni si dice pronto a votare in favore
dell’adesione all’Ue, contro il 37,8% di media e il 28,9% della fascia 60-69 anni (www.kiis.com.ua/?
lang=eng&cat=reports&id=204).
10
Cfr. M. RJABČUK, «Ukraine: Across the Dividing Lines», Al Jazeera, 16/12/2013.
11
Cfr. M. VETH, «Crimea Developments: The Lonely Voice of Pro-Ukraine Tavriya Ultras»,
Futbolgrad, 11/3/2014.
12
N. DJUK, «Youth as an Agent for Change: The Next Generation in Ukraine», National
Endowment for Democracy, 2013.
13
«Profile: Ukraine’s Right Sector Movement», Bbc News, 21/1/2014.
14
Intervista di Limes a M. VETH, ricercatore del King’s College di Londra sul calcio nello spazio
post-sovietico.
15
L’Arsenal si è ritirato dal campionato lo scorso autunno per fallimento, ma i tifosi sperano di
mantenerlo in vita (L. GESLIN, «Il dilemma dell’Arsenal di Kiev», La Gazzetta dello Sport,
13/12/2013).
16
Sulla frattura generazionale in Crimea, cfr. P. CONSTABLE, «In Crimean Capital, Duelling
Rallies Offer a Study in Contrasting Narratives, Ambitions», The Washington Post, 10/3/2014.
17
Intervista di Limes a M. VETH.
18
M. DRAGINA, «The Crimean Ultras», Ukrajins’ka Pravda, 10/3/2014.
19
Ibidem.
20
«Kiev Loses out in Referendum, but Beats Crimea in Football Match», Agence France Press,
16/3/2014.
21
In principio lo Zenit San Pietroburgo aveva ventilato l’ipotesi di trasferirsi a Sebastopoli per
protestare contro una squalifica considerata ingiusta («Offended Zenit May Move to Ukraine, Russia
Today, 23/11/2012). Da quel momento sono cominciate le discussioni pubbliche sulla possibilità di
fondere i due campionati.
22
Gazprom possiede lo Zenit San Pietroburgo (Russia), sponsorizza Schalke 04 (Germania) e Stella
Rossa (Serbia) e ha concluso un accordo commerciale col Chelsea (Inghilterra). Nei mesi scorsi è
stata associata a un’infinità di squadre lungo le rotte del gas, dalla Grecia ai Paesi Bassi. Inoltre è
sponsor ufficiale della Champions League, della Supercoppa europea (competizioni Uefa) e della
Fifa in vista dei Mondiali 2018, che si svolgeranno in Russia.
23
M. KAVANAGH, G. CHAZAN, R. OLEARCH, «Support for Russia-Ukraine Football Tie-up»,
Financial Times, 24/3/2013.
24
K. MAYNZYUK, «Football Ultras Unite to Defend Civilian Population», Euromaidan PR,
30/1/2014.
25
D. MCELROY, «Pro-Russian Leader Arrested in Donetsk as Kiev Hits Back», The Telegraph,
6/3/2014.
26
«Ultras Dynamo-Ultras Šachtar», Ultras-Tifo, 2/3/2014.
27
Intervista di Limes a M. Veth.
28
R. OLEARCHYK, «Akhmetov Joins Ukraine Oligarchs in Pledging to Protect Homeland»,
Financial Times, 2/3/2014.
29
C. NEEF, «The New Ukraine: Inside Kiev’s House of Cards», Der Spiegel, 3/3/2014.
30
M. VETH, «Let the Games Begin: The Uncertain Future of the Ukrainian Premier League»,
Futbolgrad, 16/3/2014.
31
V. BYLINA, «Belarusian Ultras and the Regime», Belarus Digest, 29/1/2013.
32
V. BYLINA, «Police Crack Down on Pro-Euromaidan Ultras in Belarus», Belarus Digest,
12/2/2014.
UNITÀ, INDIPENDENZA, DIALOGO:
L’APPELLO DELLE CHIESE UCRAINE
Decise a scongiurare una guerra di religione, le confessioni
nazionali difendono l’integrità dello Stato e rinnovano lo sforzo
ecumenico. Il divario religioso Est-Ovest. La mappa
dell’ortodossia. Il duello a distanza Filaret-Kirill riapre il fronte
con la Russia.
di Simona MERLO
4. Nel corso della crisi attuale tutte le Chiese senza eccezione si sono
schierate per la pacificazione e la riconciliazione. Di fronte agli scontri di
piazza, ripetuti appelli alla calma sono risuonati dalle diverse Chiese e da
singole personalità religiose. Centrale è stato il ruolo giocato dal Consiglio
ucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose, l’organismo che dal
1996 riunisce i rappresentanti di tutte le confessioni religiose del paese: le
tre Chiese ortodosse, la Chiesa greco-cattolica e quella di rito latino, le
minoranze cristiane (luterani, battisti, pentecostali, avventisti, armeni),
l’Unione delle comunità ebraiche e dei musulmani d’Ucraina,
particolarmente numerosi tra i discendenti dei tatari in Crimea. Attraverso
questo organismo le Chiese e le organizzazioni religiose hanno intrapreso
iniziative congiunte per richiamare le forze politiche e sociali alla concordia
e alla pace. Già a fine novembre 2013 il Consiglio fece appello ai
manifestanti e al governo affinché fosse evitato l’uso della violenza10. Ma è
soprattutto nei giorni successivi che esso ha alzato la voce per scongiurare
gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine, come nell’appello del 10
dicembre: «Esortiamo la società ucraina, il governo e l’opposizione al
dialogo e alla comune ricerca di un’accettabile via d’uscita dalla crisi.
Ricordiamo che siamo parte di un unico popolo, di un unico paese. Non si
può permettere che la contrapposizione politica diventi motivo di violazione
dell’integrità del nostro Stato». Il Consiglio si diceva «pronto (…) a
favorire l’avvio del dialogo e a fare tutto il necessario per la riconciliazione
e il ripristino della stabilità»11.
L’appello alla concordia civile e alla pacificazione sarà presente in tutti i
documenti ufficiali del Consiglio nelle concitate settimane seguenti.
Soprattutto, saranno sempre più insistenti i richiami all’integrità territoriale
del paese, man mano che le regioni sembrano sfuggire al controllo di Kiev,
con l’occupazione dei palazzi governativi. Così il 22 gennaio – giornata
dell’Unità nazionale che commemora l’effimera unione tra le Repubbliche
ucraine orientale e occidentale, proclamata il 22 gennaio 1919 e subito
spazzata via dall’ingresso dei bolscevichi a Kiev – il Consiglio sottolineava
come tale celebrazione «non soltanto ricorda l’inviolabile unità di tutte le
terre ucraine in uno Stato libero e indipendente», ma «simbolizza l’unità
degli ucraini nella molteplicità di visioni, punti di vista e concezioni sulla
costruzione del futuro. (…) Esortiamo a custodire l’integrità territoriale
dell’Ucraina e a respingere con decisione qualsiasi idea di separatismo o di
divisione della nostra patria, perché siamo un unico popolo!»12.
Lo stesso giorno, mentre si registravano i primi morti, il Consiglio
pubblicava un comunicato con la richiesta di incontrare il presidente
Janukovyč e i leader dell’opposizione. Incontri effettivamente avvenuti nei
giorni seguenti: il 24 con Janukovyč e il 25 con Klyčko, Jacenjuk e
Tjahnybok, nel tentativo del Consiglio di «agire come mediatore e
pacificatore», secondo le parole del primate greco-cattolico Svjatoslav
(Ševčuk)13. Il 22 febbraio il Consiglio tornava con una dichiarazione
ufficiale a condannare ogni forma di separatismo – che condurrebbe a
«un’escalation del conflitto, trasferendolo nelle regioni» – e di «inimicizia
tra gli abitanti delle diverse regioni dell’Ucraina, rappresentanti di diverse
minoranze nazionali e religiose»14. Il riferimento era ad alcuni episodi di
antisemitismo verificatisi nei giorni precedenti.
La preoccupazione per l’integrità territoriale dello Stato ucraino è al
centro del messaggio diretto dal sinodo della Upc–Mp alle autorità civili:
«Abbiamo ripetutamente rimarcato che stiamo operando per la
preservazione dell’integrità dello Stato ucraino. Esortiamo gli organismi del
potere statale a non permettere la disgregazione del paese». Il sinodo ha
inoltre posto l’accento sull’eterogeneità della popolazione ucraina e ha
affermato con forza come le differenze, a partire da quelle confessionali,
non possano in alcun modo giustificare le divisioni: «Dobbiamo fare tutti
gli sforzi per il mantenimento della pace religiosa in Ucraina. In nessun
caso si possono permettere contrapposizioni su base religiosa. La nostra
grande famiglia ucraina deve essere una nella molteplicità»15. In tale
direzione si è mosso anche il primate greco-cattolico nel corso della
conferenza stampa svoltasi in Vaticano il 25 febbraio, evocando «gli slogan
separatistici [che] risuonano in alcune regioni dell’Ucraina e che attentano
all’integrità territoriale. (…) Siamo diversi, ma non divisi. Sono i politici a
tentare di dividere gli ucraini per i loro fini politici. Majdan ha dimostrato
che gli ucraini sono un popolo unito nell’aspirazione a vivere in un paese
pacifico»16.
1
Dati riportati nel sito ufficiale della Chiesa greco-cattolica ucraina, aggiornati all’1/1/2013,
www.ugcc.org.ua/36.0.html?&L=2
2
S.P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 2001 (1a ed.
1997), Garzanti, pp. 239-242.
3
Un altro 9,2% era costituito da polacchi, mentre il 4,4% degli abitanti di Kiev si dichiarava
«piccolo-russo», una categoria che comprendeva coloro che, sebbene fossero ucraini per nascita, non
si riconoscevano nella nazionalità ucraina, ma si sentivano piuttosto membri della grande famiglia
degli slavi orientali. Cfr. S.L. GUTHIER, «Ukrainian Cities during the Revolution and the Interwar
Era», in Rethinking Ukrainian History, a cura di I.L. RUDNYTSKY, Edmonton 1981, University of
Alberta, pp. 159-161.
4
Sulla presenza ebraica in questi territori si veda, tra gli altri, B. NATHANS, Beyond the Pale: The
Jewish Encounter with Late Imperial Russia, Berkeley 2002, University of California Press.
5
N.M. MEIR, «Jews, Ukrainians, and Russian in Kiev: Intergroup Relations in Late Imperial
Associational Life», Slavic Review, 3, 2006, pp. 475-501. Dello stesso autore Kiev, Jewish
Metropolis: A History, 1859-1914, Bloomington 2010, Indiana University Press.
6
Si veda S. MERLO, All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola II a Stalin (1905-
1939), Milano 2005, Guerini e associati, in particolare pp. 271-294.
7
V.I. PETRUŠKO, O popytkakh sozdanija Kievskogo patriarkhata Ukrainskimii uniatami i
raskol’nikami-aftokefalistami v XX veke, Moskva 2008, p. 221.
8
«Arkhierejskij Sobor Russkoj Pravoslavnoj Cerkvi 30-31 janvarja 1990 g., Moskva», Žurnal
Moskovskoj Patriarkhii, 5, 1990, pp. 4-12.
9
risu.org.ua/ua/index/resourses/statistics/ukr2013/51768
10
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=209&Itemid=1 (26/11/2013).
11
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=211&Itemid=31 (10/12/2013).
12
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=212&Itemid=1&lang=uk
(22/1/2014).
13
isu.org.ua/ru/index/all_news/state/national_religious_question/55087
14
vrciro.org.ua/index.php?option=com_content&task=view&id=218&Itemid=30 (22/2/2014).
15
news.church.ua/2014/02/24/zvernennya-svyashhennogo-sinodu-ukrajinskoji-pravoslavnoji-cerkvi-
do-derzhavnoji-vladi (25/2/2014).
16
risu.org.ua/ru/index/all_news/state/national_religious_question/55493
17
www.cerkva.info/uk/publications/articles/4457-uaoc-mp-zvern.html (22/2/2014).
18
ria.ru/religion/20140223/996523423.html (24/2/2014).
19
news.church.ua/2014/02/24/zvernennya-svyashhennogo-sinodu-ukrajinskoji-pravoslavnoji-cerkvi-
do-jepiskopatu-duxovenstva-chernectva-ta-miryan-u-zvyazku-z-ostannimi-podiyami-v-ukrajini
(25/2/2014).
20
risu.org.ua/ru/index/all_news/confessional/orthodox_relations/55500 (26/2/2014).
21
news.church.ua/2014/03/01/misceblyustitel-kijivskoji-mitropolichoji-kafedri-nadislav-list-
svyatishomu-patriarxu-kirilu (1/3/2014).
22
mospat.ru/ru/2014/03/02/news99102 (2/3/2014).
23
news.church.ua/2014/03/02/misceblyustitel-kijivskoji-mitropolichoji-kafedri-nadislav-list-
prezidentu-rosijskoji-federaciji-v-v-putinu (2/3/2014).
QUANDO ODESSA PARLAVA
ITALIANO
Fondazione e sviluppo della città sul Mar Nero si devono in gran
parte a nostri connazionali. Architetti, mercanti, musici e pittori
giunsero nella Nuova Russia a inizio Ottocento. Ascesa e declino di
una comunità essenziale per l’espansione dell’impero degli zar.
di Aldo FERRARI
1
Cfr. A.W. FISHER, The Russian Annexation of the Crimea, Cambridge 1970, Cambridge
University Press.
2
Si veda al riguardo la mia introduzione all’edizione italiana del fondamentale studio di A.
KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, tr. it. Roma 2006, Edizioni Lavoro, pp. IX-
XXI.
3
Sulla storia della città di Odessa si vedano soprattutto i seguenti studi: P. HERLIHY, Odessa: A
History, 1794-1914, Cambridge (MA) 1987, Harvard University Press; M. GURFINKEL, Le roman
d’Odessa, Monaco 2005, Éditions du Rocher; CH. KING, Odessa. Splendore e tragedia di una città
di sogno, tr. it. Torino 2013, Einaudi.
4
A questo riguardo una studiosa ha parlato addirittura di «a peculiar case of historical amnesia: the
forgotten Italians»: A. MAKOLKIN, A History of Odessa: The Last Italian Black Sea Colony,
Ontario 2004, Edvin Mellen Press, p. 5.
5
Cfr. R. SINIGAGLIA, Genova e Russia. La missione Rivarola a Pietroburgo (1783-1785), Genova
1994, Graphos, e A. MAKOLKIN, op. cit., pp. 34-41.
6
Sull’origine della famiglia de Ribas si vedano soprattutto lo studio di G. MORACCI: Michele de
Ribas: saggio sulla città di Odessa e altri documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, Genova 1988,
Cassa di Risparmio di Genova e il recente articolo di M. MARZANO, «I de Ribas, una famiglia
napoletana a Odessa», in L. MASCILLI MIGLIORINI, M. MAFRICI (a cura di), Mediterraneo e/è
Mar Nero: due mari tra età moderna e contemporanea, Napoli 2012, Edizioni Scientifiche Italiane,
pp. 139-162. Nello stesso volume (pp. 31- 54 e 203-233) si trovano gli importanti articoli di M.
MAFRICI, «La diplomazia in azione: rapporti commerciali tra la Russia e il regno di Napoli» e M.
SIRAGO, «Il consolato napoletano nel Mar Nero e lo sviluppo di Odessa tra la fine del Settecento e
la prima metà dell’Ottocento».
7
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., p. 5.
8
Ivi, pp. 65-66.
9
Ivi, pp 70-73.
10
Ivi, p. 74.
11
Si veda al riguardo un altro volume che costituisce un affresco appassionato della presenza
artistica italiana a Odessa: A. MAKOLKIN, One Hundred Years of Italian Culture on the shores of
the Black Sea (1794-1894), Lewiston-Queenstown-Lampeter 2000, The Edwin Mellen Press, p. 27.
12
Ivi, p. 29.
13
Ivi, pp. 42-44.
14
Ivi, p. 99. Su questo artista si veda in particolare C. VERNIZZI (a cura di), Carlo Bossoli, Torino
1998, Artema.
15
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., pp. 174-176.
16
Ivi, pp. 177-197.
17
Ivi, pp. 204-216.
18
Cfr. CH. KING, op. cit., p. 54.
19
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., pp 124-126.
20
H. WIKOFF, The Reminiscences of an idler, New York 1880, Fords, Howard, & Hulbert, p. 231.
21
Cfr. G. VIGNOLI (a cura di), Gli Italiani di Crimea. Nuovi documenti e testimonianze sulla
deportazione e lo sterminio, Roma 2012, Edizioni Settimo Sigillo, p. 26.
22
Cfr. A. MAKOLKIN, op. cit., pp. 220-225.
23
Cfr. Ch. KING, op. cit., pp. 88-89.
24
Cfr. P. HERLIHY, «The Ethnic Composition of Odessa, in the Nineteenth Century», Harvard
Ukrainian Studies, I, 1, 1977, p. 74.
25
A. MAKOLKIN, «Italians Bringing Russia into Mediterranean: Odessa the Last Italian Colony»,
in L. SOMIGLI, D. PIETROPAOLO (a cura di), Modernism and Modernity, Ottawa 2006, Legas, pp.
249-261.
CRIMEA, FARO RUSSO SUL
MEDITERRANEO
Da sempre la penisola rappresenta per Mosca l’avamposto verso il
mare nostrum. Storia di un crocevia di genti e dominatori. Il nodo
tataro e il timore di incrinare la pax interconfessionale. La
minaccia islamista e la valenza strategica di Sebastopoli per il
Cremlino.
di Aldo FERRARI e Giorgio CELLA
Posta sulle sponde del Mar Nero, la Crimea ha costituito nel corso dei
millenni un luogo cruciale dell’incontro tra i nomadi delle steppe
eurasiatiche e le civiltà del Mediterraneo1. Nel corso della sua lunga e
travagliata storia la regione è stata abitata infatti da numerosi popoli:
cimmeri, tauri, sciti, greci, goti, bizantini, ebrei caraiti, armeni, genovesi,
tatari e russi; nessuno di loro ha legato in maniera definitiva il suo nome
alla Crimea, ma ognuno vi ha lasciato importanti testimonianze
archeologiche e artistiche. In uno spazio geografico quanto mai limitato si
incontra in effetti una quantità impressionante di monumenti sciti (kurgan)
e greci, città rupestri, chiese cristiane (ortodosse e armene), moschee e
palazzi dei khan tatari, templi caraiti, fortezze genovesi e ottomane,
residenze della nobiltà russa, basi navali sovietiche. Oggi la Crimea
costituisce il principale nodo dei rapporti tra Mosca e Kiev.
Le tensioni etniche
La questione di Sebastopoli
La base navale di Sebastopoli, che ospita la flotta russa del Mar Nero,
rappresenta un’altra questione spinosa della crisi ucraina. Nel 1997, con il
Trattato di scissione della flotta del Mar Nero, il governo russo e quello
ucraino istituirono due flotte nazionali indipendenti nella base di
Sebastopoli e in altre località della Crimea; Kiev concesse inoltre l’affitto
della base alla Russia fino al 201720. Con il successivo e controverso patto
di Kharkiv del 2010, stipulato fra l’ormai deposto presidente Janukovyč e
l’ex presidente russo Medvedev, si è invece fissato il prolungamento
dell’affitto della base navale fino al 2042, in cambio di forniture a prezzi di
favore del gas russo. Sempre all’interno di questo patto, si dava inoltre alla
Federazione Russa il permesso di incrementare la sua potenza navale senza
l’autorizzazione di Kiev. Questa estensione della presenza russa a
Sebastopoli ha anche assestato un duro colpo alla ventilata adesione
dell’Ucraina alla Nato21: che non può infatti essere concessa a quei paesi
che ospitano sul proprio suolo basi militari di paesi terzi.
La base navale di Sebastopoli, strategica per la proiezione di Mosca nel
Mediterraneo, ospita la più piccola delle quattro principali flotte della
Marina militare russa, che comprende la flotta del Nord con sede a
Severomorsk, quella del Pacifico collocata a Vladivostok e quella del
Baltico a Kaliningrad, alle quali si affianca la flottiglia del Caspio.
L’importanza della base non si esaurisce però nell’aspetto militare, in
quanto attraverso i porti del Mar Nero transita circa il 30% del totale delle
esportazioni marittime russe. Peraltro, alcune navi della flotta russa del Mar
Nero, anche se operative e funzionanti, risultano datate e in condizioni di
manutenzione non ottimali22. La flotta è costituita dall’incrociatore
lanciamissili Moskva, da un cacciatorpediniere e due fregate, da navi da
sbarco e da un sottomarino d’attacco a propulsione diesel. Oltre alla base
principale e quartier generale di Sebastopoli, esistono una dozzina di altre
basi russe di minore importanza sparse sul territorio della penisola, fra
centri di comunicazione e basi aeree.
Prima dei recenti avvenimenti politici, le truppe presenti a Sebastopoli
erano costituite da 2.500 uomini della fanteria navale e da un numero di
membri delle forze speciali della Marina stimato intorno alle 300 unità. Non
si trattava, quindi, di una forza particolarmente consistente. Il Cremlino,
infatti, ha previsto per gli anni a venire investimenti considerevoli al fine di
rafforzare e modernizzare la flotta del Mar Nero, che sarà integrata da sei
sottomarini avanzati classe Kilo, così come dalla nave da assalto anfibio di
fabbricazione francese classe Mistral.
L’importanza strategica della base di Sebastopoli si è palesata anche
durante i momenti più critici della recente crisi siriana, quando
l’incrociatore lanciamissili Moskva ha raggiunto le coste siriane producendo
un effetto di deterrenza notevole sui piani statunitensi. La flotta russa del
Mar Nero era entrata in gioco anche nella breve guerra russo-georgiana del
2008, con l’attuazione di blocchi navali e la distruzione di varie
motovedette georgiane23. La base di Sebastopoli deve inoltre essere
inquadrata in una più ampia ottica strategica dell’area Mar Nero-
Mediterraneo, dove la Russia ha installato nel tempo una rete di strutture
militari: la base navale di Novorossijsk nella regione di Krasnodar, quella
militare di Gudauta in Abkhazia, la base navale di Ṭarṭūs in Siria, alla quale
il Cremlino vorrebbe affiancarne un’altra a Cipro24, consolidando
ulteriormente la sua proiezione di potenza nel Mediterraneo.
L’evoluzione politica che ha portato alla destituzione di Janukovyč e
alla formazione a Kiev di un nuovo governo dichiaratamente filoccidentale
ha messo in moto una rapida reazione di Mosca che, facendo leva sui
sentimenti della maggioranza russa presente in Crimea, ha portato alla
secessione della regione dall’Ucraina attraverso il referendum del 16 marzo.
Il referendum è passato con quasi il 96% dei votanti a favore e con
un’affluenza pari all’84%. Successivamente la Duma ha ratificato il trattato
di annessione della Crimea alla Federazione Russa e approvato la legge
costituzionale per la creazione dei due nuovi soggetti federali di Crimea e
Sebastopoli. Il parlamento di Kiev ha dichiarato il referendum illegale e
incostituzionale, così come hanno fatto l’Unione Europea e gli Stati Uniti,
che hanno in seguito imposto sanzioni per colpire alcune personalità chiave
dell’establishment russo e alcuni politici della Crimea, tra cui il primo
ministro Serhij Aks’onov. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha tentato di
esprimersi con una risoluzione sull’invalidità del referendum in Crimea,
presentata dagli Stati Uniti e condivisa da 41 paesi, tra i quali l’Italia. La
risoluzione non è stata approvata per lo scontato veto russo (la Cina si è
astenuta)25.
Una dinamica che, per quanto inaccettabile dal punto di vista del diritto
internazionale, non sembra poter essere arrestata o invertita. Appare infatti
impensabile, allo stato attuale, configurare il destino futuro della Crimea
fuori dall’orbita di Mosca. Sia per il Cremlino sia per la maggioranza degli
abitanti della penisola si tratta del ritorno alla realtà storica, culturale e
strategica della regione. Tuttavia, l’esito del referendum – subito dichiarato
illegittimo dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti – comporta senz’altro
uno smottamento della situazione geopolitica dell’area, i cui effetti sul
medio e lungo termine non sono per ora prevedibili, a livello tanto regionale
quanto globale.
1
La bibliografia sulla Crimea è molto scarsa, soprattutto in italiano. Pagine interessanti si trovano nei
seguenti volumi: Aa.Vv., Dal Mille al Mille. Tesori e popoli dal Mar Nero, Milano 1995, Electa
(catalogo della mostra, Rimini 1995); N. Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo
d’Oriente, Torino 1999, Einaudi; e Ch. King, Storia del Mar Nero dalle origini ai nostri giorni,
Roma 2005, Donzelli.
2
Su questo tema esiste una notevole bibliografia specialistica. Segnalo solo gli studi di S.P. Karpov,
La navigazione veneziana nel Mar Nero 13-15 sec., Ravenna 2000, Edizioni del Girasole; e S.
Origone, Il Mar Nero nei secoli della supremazia dei Genovesi, Genova 2011, Coedit.
3
Cfr. P. Donabédian, «Gli armeni di Crimea in epoca genovese», in Cl. Mutafian (a cura di), Roma-
Armenia, Roma 1999, De Luca, p. 189.
4
Sui tatari di Crimea si vedano soprattutto gli studi di A.W. Fisher, Between Russians, Ottomans and
Turks: Crimea and Crimean Tatars, Istanbul 1998,, Isis Press; e B.G. Williams, The Crimean Tatars:
The Diaspora Experience and the Forging of a Nation, Leyden 2001, Brill.
5
Si veda al riguardo lo studio di M. Kozelsky, Christianizing Crimea. Shaping Sacred Space in the
Russian Empire and Beyond, DeKalb 2009, Northern Illinois University Press, pp. 41-46.
6
Cfr. G. Giachetti Boico, G. Vignoli, L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli Italiani di Crimea,
Roma 2008, Edizioni il Settimo Sigillo, p. 7.
7
Cfr. S. Courtois et alii (a cura di), Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione,
Milano 1998, Mondadori, p. 93.
8
Già da tempo si sta valutando a livello bilaterale russo-ucraino la costruzione di un ponte di
collegamento dallo stretto di Kerč alla Russia. Cfr. ria.ru/economy/20140305/998246428.html
9
S. Stewart, Explaining the Low Intensity of Ethnopolitical Conflict in Ukraine, Münster 2005, Lit
Verlag, p. 64.
10
Ivi, pp. 65 ss.
11
Law of Ukraine on Approval of the Constitution of the Autonomous Republic of Crimea,
www.rada.crimea.ua/en/bases-of-activity/konstituciya-ARK
12
Constitution of Ukraine, Title X, www.president.gov.ua/en/content/chapter10.html
13
L.D. Anderson, Federal Solution to Ethnic Problems: Accomodating Diversity, New York 2013,
Routledge, p. 234.
14
P.R. Magocsi, A History of Ukraine: The Land and Its People, Toronto 2010, Columbia University
Press, p. 729
15
All-Ukrainian population census, State Statistics Committee of Ukraine, 2001
2001.ukrcensus.gov.ua/eng/results/general/nationality/Crimea
16
«Facts You Need to Know about Crimea and Why It Is in Turmoil», Russia Today, 27/2/2014,
rt.com/news/crimea-facts-protests-politics-945
17
A. Krushelnycky, Ukraine: Crimea’s Tatars — Clearing The Way For Islamic Extremism? (Part 4),
16/3/2014, www.rferl.org/content/article/1054513.html
18
I. Losiev, «Encouraging a Pan-Islamic Caliphate in Crimea?», The Ucranian Week, 12/4/2013,
ukrainianweek.com/Security/77283
19
«Agreement on Cooperation between Tatarstan, Crimea Signed in Simferopol», Interfax-Ukraine
Agency, 5/3/2014, en.interfax.com.ua/news/general/194499.html
20
S . Glebov, «The Russian Black Sea Fleet and Ukraine’s Security Strategy: Agenda 2017», in
Military Bases: Historical Perspectives, Contemporary Challenges, Amsterdam 2009, Ios Press, p.
184.
21
M. de Leonardis, La Nato tra globalizzazione e perdita di centralità, Cemiss, Centro militare di
studi strategici, 2009, p. 24.
22
C. Le Miere, Evaluating Russia’s Black Sea Fleet, Iiss, 26/2/2014,
www.iiss.org/en/iiss%20voices/blogsections/iiss-voices-2014-b4d9/february-72f2/black-sea-5599
23
St. Beardsley, Analysts: Back Sea Port in Ukraine Still Key to Russia’ Naval Interests,
www.stripes.com/news/analysts-black-sea-port-in-ukraine-still-key-to-russia-s-naval-interests-
1.270904
24
N. Kalmouki, Russia’s Airbase Requests in Cyprus Causes Conflict with U.S.,
greece.greekreporter.com/2013/11/25/russias-airbase-requests-in-cyprus-causes-conflict-with-u-s
25
«UN Security Council Action on Crimea Referendum Blocked», UN News Center, 15/3/2014,
www.un.org/ apps/news/story.asp?NewsID=47362
Diario di Crimea
di Alessandro CASSIERI
I
1. l grigiore stagionale di piazza dell’Indipendenza stavolta scolora
nel tetro. I fuochi e i fumi che la settimana prima, in mondovisione, hanno
consegnato Kiev a una dimensione infernale continuano a sfigurarla. La
macchina non può procedere tra barricate e pile di pneumatici abbrustoliti.
Pioggia sottile e gelata, scenario da Blade runner. L’Hotel Ukrajina,
testimone e protagonista della rivoluzione Majdan 2.0, si raggiunge a piedi.
«Bentornato a Kiev». La voce di Ludmyla come sempre è senza
punteggiatura. Interpretazione a piacere. Adesso vuol dire che il soggiorno
sarà più complicato. Detto da lei, che in questa reception d’albergo
modello Urss ha trascorso almeno la metà dei suoi cinquant’anni, è una
garanzia.
Infatti da Kiev, oggi, fine febbraio dell’anno rivoluzionario 2014, è
difficile anche andarsene. Per lo meno con destinazione Crimea: il nuovo
epicentro del terremoto post-sovietico che con regolarità variabile fa
sussultare i sismografi della geopolitica. «In Crimea non si va», firmato
linee aeree ucraine. Sette aeroporti, compresi i due per il traffico
passeggeri, Simferopoli e Sebastopoli, diventati zona interdetta. La penisola
crimeana, che vuole staccarsi dall’Ucraina, si isola. Si può tentare di
raggiungerla in treno: venti ore di binari e meta incerta. Oppure in auto.
Ma il mese nuovo inizia con notizie pessime. Posti di blocco a ridosso di
Kherson e di tutte le località di confine: il confine tra Ucraina e Crimea.
«Confine come tra Italia e Veneto che vuole indipendenza», dice il
ragazzotto tutto blogosfera che per la terza volta mi porta a Boryspil’,
International airport.
Il volo invece c’è in questa prima domenica di marzo che profuma di
vischiosa avventura. E c’è, all’arrivo, anche la minacciata presenza di
uomini pesantemente armati, col passamontagna, in mimetica e senza
mostrine. Anonimi e inquietanti. Crimeani filorussi, russi delle basi in
Crimea, russi dalla Russia? Tutti si interrogano, nessuno risponde. Lo
domando direttamente a due di questi ninja, prima di muovermi verso la
città. Non rispondono, ma non fanno problemi quando li riprendo con la
telecamera. Segnale interessante. Si sta compiendo qualcosa che non
accetta di entrare in dialettica ma che può essere rappresentato. Può
servire alla causa. Eccome.
4. L’azzurro dell’acqua sconfessa per una volta la fama del Mar Nero.
Si paga una manciata di euro e si realizza un sogno. Prendi a noleggio la
barca in tek e te ne vai in giro nella baia di Sebastopoli. Senza controlli
navighi nel sancta sanctorum della Flotta russa del Mar Nero. Incrociatori,
torpediniere, sommergibili a portata di mano, letteralmente. Due unità con
la stella rossa a prua bloccano contro il molo una nave che batte ancora
bandiera ucraina. Quando arrivi troppo sotto, armato di telecamera, un
marinaio armato di mitra ti dice di tornare indietro. Tutto qui. Bizzarria
russa. «Funziona così da qualche anno, per noi è un bel business». Irina, la
bionda padrona della barca, è grata e al tempo stesso infastidita. La
potenza militare, sintetica espressione del prestigio di un paese, non
dovrebbe essere offerta ai turisti, ai giornalisti e alle spie con tanta
leggerezza. Lei è russa e a quei 25 mila soldati della flotta chiede
credibilità prima ancora che vantaggi. Non vede l’ora che arrivi il
referendum, che tornino i russi, che vadano al diavolo quelli di Kiev. Al
voto mancano tre settimane.
Si dice baia ma si deve intendere una sfilza di insenature, con fiordi
inaspettatamente profondi. La costa occidentale della Crimea è una serie di
ricoveri naturali per le navi e i loro cantieri di manutenzione. Da
Sebastopoli all’aeroporto di Bel’bek i chilometri sono pochi. Ma prima del
rettilineo finale posti di blocco e gruppi di autodifesa più agguerriti di
quelli incontrati da Simferopoli impediscono a tutti di proseguire. Senza
spiegazioni. Passamontagna e modi spicci: girare al largo. E quando si
tenta l’aggiramento, dai sentieri fangosi spuntano altri uomini mascherati,
in mimetica, senza insegne. Fucili spianati. Bel’bek è sotto assedio. A
ridosso c’è una base aerea ucraina. Lungo giro e spuntano, oltre un muro,
sopra una collina, una ventina di soldati di guardia. Elmetti e kalashnikov.
«Siamo italiani», urlo. Rispondono col saluto romano. Poi ridono e
indicano come raggiungere l’ingresso della caserma. Davanti e dietro il
cancello socchiuso giovani mogli con i bambini in carrozzina scherzano
con i mariti assediati. Altre, dentro la caserma, si ristorano con il tè caldo
sotto una tenda arancione. Piove e fa freddo. Il comandante della base
poche ore prima è andato a mani nude di fronte ai miliziani filorussi
rivendicando l’accesso all’aeroporto. Un ninja ha sparato in aria, dieci
secondi di trambusto, poi il comandante e il capopattuglia hanno avviato
un negoziato. «La trattativa è a buon punto. Loro hanno autorizzato un
certo numero di uomini a entrare per portare via le nostre armi e le
apparecchiature. Noi chiediamo che il numero degli uomini sia maggiore.
Sono ottimista». Il mondo intero sta guardando a Bel’bek come alla
possibile scintilla che inneschi la terza guerra mondiale e il colonnello Julij
Mamčur spazza via l’aria: «Qui nessuno ha voglia di spararsi addosso».
5. Se deve essere guerra fredda, e pochi ne dubitano, quella che riparte
dalla Crimea ha già il suo check-point Charlie. All’estremo opposto
rispetto a Sebastopoli, sullo Stretto di Kerč. Stretto davvero, poco più di
quattro chilometri. Dove il Mar Nero si mescola con le acque del Mare di
Azov e dove, in una giornata nitida come questa, la Russia è proprio vicina.
Tanto vicina che da qui continuano ad arrivare i rinforzi. La radio
annuncia che il nuovo governo filorusso a Simferopoli ha appena deciso di
anticipare il referendum. Non più il 30 marzo ma il 16. Qualche blindato e
una ventina di camion sono appena sbarcati. Sul molo solo poche macchine
e un paio di furgoni in attesa di partire. In compenso c’è un motel con tre
stanze e buffet proprio sul porto. La scintillante biglietteria in vetro, divisa
a metà, mi incuriosisce. Traghetti per la Russia da una parte, navi di una
società russa di trasporto marittimo per Kerč dall’altra. Con ingressi
separati. E missioni diverse. Lì depliant, informazioni su orari e tariffe, qui
nessuna informazione. «Non facciamo traffico passeggeri», è tutto quello
che una hostess russa in divisa grigia e minigonna d’ordinanza si autorizza
a dire. E nessuno è autorizzato a fotografare o a riprendere alcunché. I
soliti ninja sono più ruvidi e sbrigativi. Vogliono vedere le immagini che ho
girato. Forse turistiche, forse no. Nel dubbio ordinano di andare via.
Nessuna meraviglia, per Mosca il punto strategico sullo scacchiere
crimeano è Kerč.
«Da qui i soldati ci fecero salire sul treno blindato che ci portò prima in
Russia e poi in Kazakistan. Era il 29 gennaio del 1942 e io festeggiavo il
mio settimo compleanno». Natale De Martino è uno dei superstiti della
deportazione degli italiani di Crimea. Tutti considerati fascisti. Adesso si
affaccia sul porto cittadino di Kerč e ripensa alla beffa di quella giornata
iniziata con i preparativi della festa. Parla della condizione sua e di circa
trecento italiani e discendenti di italiani. Di quanto sarebbe utile per la
casa, la pensione, i farmaci avere lo status di deportato che anche tedeschi
e armeni hanno ottenuto. Finora tra Roma e Kiev non si è trovata l’intesa.
Forse anche per questo, alla vigilia del referendum, il ritorno della Crimea
sotto l’autorità di Mosca non preoccupa più di tanto De Martino. Che a un
soffio dagli ottant’anni continua a insegnare matematica alla scuola n. 14
di Kerč.
7. Tra una banca che non dà più euro e una pizzeria che si chiama
Celentano quattro ragazzi con la bandiera russa al collo suonano Smoke
on the water. E la versione crimeana dei Deep Purple piace parecchio.
Mamme e babuške ballano con figli e nipoti. E soprattutto applaudono
quando il cantante manda in saturazione l’impianto urlando «Rossija,
Rossija!». Propaganda a presa rapida. A parte la scritta su un muro di
Jalta contro Janukovyč, la campagna per il referendum è tutta tv e comizi e
agit-prop di strada. Poi ci sono le intimidazioni. Vernice nera sul portone
della sinagoga di Simferopoli. Minacce agli ebrei e una svastica per firma.
Mikhail Kapustin prima ridipinge il portone grigio e poi prepara gli
scatoloni. «Sono costretto a lasciare la Crimea. Non credo di essere
diventato paranoico, qui il clima per noi si è fatto pesante». Kapustin è il
rabbino di Simferopoli, ha una quarantina d’anni e una famiglia
terrorizzata. «Questa è storicamente una terra di persecuzione per gli ebrei.
Adesso ci sono i rigurgiti nazisti e la nostalgia per i tempi sovietici,
insieme. È come se una tenaglia si stringesse intorno agli ebrei». Fuori la
grande menorà appoggiata su un muro scrostato. Dentro corridoi bui, sedie
rovesciate, stanze vuote. Nel suo ufficio, tra quadri e libri imballati, il
rabbino invia mail con allegata la foto del portone profanato. La prova
dell’ultima intimidazione.
Eppure gli ebrei nella Russia putiniana sono tutelati più di altre
minoranze. Il rabbino di tutte le Russie, Berl Lazar, è sempre presente ai
grandi eventi al Cremlino. Era lui che in un buon italiano, una decina di
anni fa, mi esprimeva la sorpresa per la scelta di tanti ebrei russi che da
Israele tornavano per andare in quella inospitale terra promessa
ultrasiberiana che è la Repubblica autonoma ebraica del Birobidžan. «Si,
ma il rabbino Lazar sta a Mosca, qui siamo tra Russia e Ucraina. Altro
territorio, altri problemi», risponde secco Kapustin. Che come prima tappa
della sua fuga dalla Crimea ha scelto Kiev.
8. Si prepara il palco per la festa che sarà. Che il referendum passi non
c’è dubbio. «Bye bye Kiev!»: quattro studentesse sorridono facendo la «V»
con le dita. Intanto sul vecchio carro armato sovietico, con tanto di
piedistallo in pietra davanti al parlamento, hanno aggiunto una bandiera
rossa. Falce-e-martello resuscita su qualche vessillo anche nei comizi.
Tirati giù dalla soffitta hanno una funzione esorcistica più che un valore
ideologico. L’esorcismo è contro il fascismo ucraino di ritorno in certi
settori della politica a Kiev. Pagina poco approfondita altrove, la storia dei
nazionalisti di Stepan Bandera, bande di collaborazionisti filohitleriani
esaltati dal mito della razza pura, ha segnato uno spartiacque. «Lei è
italiano. Avete avuto Mussolini, avete dovuto subire il fascismo, un duce.
Noi non vogliamo che arrivino in Crimea i nipoti di Bandera».
Il concetto viene riproposto da un angolo all’altro della penisola, da
giovani e vecchi. Però alla domanda, secca come un quiz, perché la Russia
sia meglio dell’Ucraina come casa-madre dei crimeani, la risposta è anche
un’altra. «Intanto perché in Russia c’è meno corruzione. E poi ha visto
Soči, ha visto che premi e che stipendi per gli atleti russi, anche per quelli
disabili? La Russia garantisce un benessere che l’Ucraina non ci ha mai
dato». Duemila hryvni, centocinquanta euro al mese lo stipendio medio: un
terzo in meno che a Kiev.
«Ma cosa vuole che succeda a partire da lunedì. Il voto dirà che
vogliamo stare con la Russia, visto che la Russia è da secoli la nostra
patria. Tutto qui». Tutto qui per Jurij Meškov, separatista da sempre, primo
e unico presidente della Crimea, a metà degli anni Novanta, dopo il trattato
con Kiev per l’autonomia della regione. Autonomia poco riconosciuta nella
pratica. E questo è benzina nel motore dei filorussi.
Parte II
I
1. l referendum in Crimea ha posto fine a un’èra durata oltre un quarto
di secolo, le cui origini affondano nelle azioni del segretario generale del
Comitato centrale del Partito comunista sovietico Mikhail Gorbačëv tra il
1988 e il 1989. Questi venticinque anni hanno registrato diversi attriti tra
Russia e Occidente, che sono andati crescendo di frequenza e intensità:
Caucaso, Jugoslavia, Iraq, rivoluzioni colorate, Georgia, primavere arabe.
Tuttavia, il bisogno di minimizzare i danni alle relazioni con Europa e Stati
Uniti ha orientato costantemente la postura del Cremlino. Persino il
conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008, ad oggi il maggiore di questo
travagliato periodo, è stato accompagnato da sforzi politici e diplomatici
miranti a smorzare le tensioni e a raggiungere qualche forma di accordo.
Finora la politica estera russa si è dunque mossa nel solco tracciato da
Gorbačëv, che considerava i rapporti con l’Occidente preziosi per lo
sviluppo della Russia.
Quella stagione è tramontata. Ora la Russia non si cura più dei possibili
danni alle sue relazioni con l’Occidente, che rischiano di essere seriamente
compromessi.
La crisi ucraina è lungi dal concludersi e non vi sono segnali di dialogo.
Eppure è tempo di valutare le circostanze a mente fredda, onde minimizzare
i rischi di escalation. La decisione russa sulla Crimea è irreversibile: è
un’illusione sperare altrimenti. Senza dubbio, la volontà politica del
Cremlino conta sul vasto sostegno dell’opinione pubblica russa e di quella
della penisola. Dal collasso dell’Urss, vi è stata la convinzione – sia in
Crimea che in Russia – che l’inclusione di questo territorio entro i confini
ucraini fosse un accidente storico, un malinteso e un’ingiustizia. Il fatto che,
stando a un sondaggio condotto nel 2013, poco più del 40% degli abitanti
della Crimea sostenesse l’annessione alla Russia (chi contesta i risultati del
referendum sottolinea questo dato) non importa granché. Nessuno avrebbe
potuto immaginare che un simile esito fosse possibile, ma a marzo i
cittadini sono stati chiamati a scegliere il loro destino e lo hanno fatto in
modo inequivocabile.
Il ritorno della Crimea alla Russia è stato possibile solo perché
l’Ucraina ha cominciato a disgregarsi dall’interno. Ancora a metà febbraio
un siffatto scenario era imprevedibile, pertanto è risibile parlare di
predeterminazione. Una volta avviata la catena degli eventi, però, era
difficile resistere alla tentazione di correggere quel macroscopico errore
storico. Comprensibilmente, Vladimir Putin non voleva essere ricordato
come il presidente che si era lasciato sfuggire l’occasione di recuperare un
territorio di così grande importanza culturale, politica e strategica per la
Russia. Un ipotetico annullamento della decisione di annettere la Crimea
sarebbe equivalso a un disastro politico e morale per la dirigenza russa: un
vero e proprio incubo.
1
Si veda il brillante saggio dello storico B. NEMENSKIJ, Affinché nella Rus’ non ci sia la Rus’, in
www.ruska-pravda.com/nit-vremeni/45-st-nit-vremeni/17470-l-r-.html
2
Il testo del Decalogo è così folle che meriterebbe di essere tradotto! Per esempio, nel 5° punto si
legge: «Vendica la morte dei grandi cavalieri!», oun-upa.org.ua/documents/dekalog.html
3
Ulteriori informazioni sui padri del nazionalismo ucraino in
sputnikipogrom.com/russia/ua/8587/oun-bandera-oi-oi-oi
4
Un magnifico intervento del prete greco-cattolico che ha incitato a uccidere i moskali in
youtu.be/tWKRchf9Sqo. Cari signori, cosa inizieranno a pensare i russi dei cattolici sapendo che
questi coloriti personaggi sono sotto l’autorità del papa?
5
Il testo completo è in www.regnum.ru/news/polit/1755429.html
6
www.unn.com.ua/ru/news/1313734-d-yarosh-balotuvatimetsya-u-prezidenti-ukrayini-dopovneno. e
rus.newsru.ua/ukraine/18mar2014/pravseknac.html
7
Moskal’ è un termine dispregiativo largamente diffuso in Ucraina per indicare i russi. Nel testo
verrà lasciato così (n.d.t.).
8
Si veda il video youtu.be/KrJC6rU9lG0. Non si tratta di immagini di un meeting di nazionalisti, ma
di un appello in una scuola. I bambini scandiscono lo slogan Moskaljaku na hyljaku [Il moskal’ alla
forca]. Il video è stato girato prima dei sanguinosi eventi accaduti a Majdan e mostra eloquentemente
il frutto di vent’anni di indipendenza ucraina. Inoltre lo slogan «Chi non salta moskal’ è!» è stato uno
dei più popolari a Majdan.
9
books.vremya.ru/books/865-leonid-kuchma-ukraina-ne-rossiya.html#.UypYSfl_uKU
10
Per approfondire l’argomento si legga l’eccellente lavoro dello storico A. Miller sul dualismo
dell’identità ucraina in www.bigyalta.com.ua/story/2681. Si veda anche l’articolo pubblicato sul
nostro sito sull’essenza del concetto di «popolo russo dalle tre identità» in
sputnikipogrom.com/russia/ua/8949/triedinstvo
11
I diari di Ševčenko sono pubblicati in rete. Si veda per esempio il sito www.e-
reading.bz/book.php?book=1002263
12
Si veda: vlasti.net/news/144320. Inoltre in Ucraina hanno luogo requisizioni di massa di chiese
appartenenti al patriarcato di Mosca. Su una di queste requisizioni si legga l’articolo:
www.newsru.com/religy/25feb2014/pochaev_sumy.html
13
Un esempio in www.nr2.ru/kiev/341532.html
14
Un tipico esempio di messaggio in un social network che sostiene l’integrazione europea
dell’Ucraina: vk.com/wall-5525046_2526000?reply=2527276. È interessante notare il numero dei
«mi piace» e dei «condividi»: si tratta dunque di un punto di vista tutt’altro che marginale.
15
Una raccolta preziosa dei principali argomenti della propaganda ucraina antirussa si trova in
svetonline.wordpress.com/2012/09/23/15-glavnyh-mifov
16
Il video della deputata Farion che ha suscitato lo scandalo è in youtu.be/HjQVFcbl4AY
17
La notizia della modifica della legge sulle lingue nazionali è in
lenta.ru/news/2014/02/23/language. La dichiarazione di Pravyj Sektor in cui si afferma che la
derussificazione dell’Ucraina è il loro programma strategico è in
interfax.com.ua/news/political/192192.html
18
Il motivo dell’erezione delle barricate a Majdan, quando ancora la situazione era pacifica, era
mostrare in modo evidente il desiderio di associazione all’Ue. Tutti i guerrieri e i manifestanti di
Majdan per mesi sono passati accanto a questa immagine divenuta simbolo della protesta:
s.pikabu.ru/post_img/2013/12/08/10/1386517381_284976664.jpg. Un altro esempio eloquente è in
ic.pics.livejournal.com/_devol_/5706944/67528/67528_original.jpg. Come si vede, l’obiettivo non è
l’associazione con l’Europa ma l’isolamento di Mosca.
19
La reale politica degli ucraini nei confronti dei russi è evidente in una tabella dove sono mostrati i
dati dell’inevitabile riduzione del numero delle scuole in lingua russa, vedi
www.igpi.ru/info/people/malink/1111152776.html. In alcune regioni il taglio è stato di due volte e
mezzo.
20
Il social network russo VKontakte, che ha il primato anche in Ucraina, ha elaborato un grafico in
cui si analizza la lingua dell’interfaccia scelta dagli utenti:
cs1.kprf.ru/images/newsstory_illustrations/large/544cbb_image.jpg. Dai dati emerge chiaramente
l’esistenza di «due Ucraine».
21
Un’eccellente ricerca sul lavoro di colonizzazione della Nuova Russia prima della rivoluzione
russa è in www.runivers.ru/lib/book4322/52906
22
«Il 74% degli abitanti delle regioni sud-orientali dell’Ucraina e l’87% della popolazione della
Repubblica Autonoma di Crimea (compresa Sebastopoli) voterebbero a favore della ricostruzione
dell’Urss se il referendum federale si svolgesse oggi», www.regnum.ru/news/806657.html
23
Un breve video sulla costruzione delle città nell’Ucraina orientale: ruspravda.info/Prichem-zdes-
Ukraina.html
24
Un’indagine sociologica compiuta dal Fondo per la lotta alla corruzione, guidato dal noto
oppositore Naval’nyj, rileva che l’85% dei russi è a favore della riunificazione con la Crimea,
ni42.fuckrkn.me/915621.html
25
Un digest della stampa dei paesi baltici è in www.regnum.ru/news/polit/1780238.html
26
en.wikipedia.org/wiki/Non-citizens_(Latvia)
27
www.theguardian.com/world/2014/mar/06/hillary-clinton-says-vladimir-putins-crimea-occupation-
echoes-hitler
28
lenta.ru/news/2014/03/17/crimea1
29
Si veda, ad esempio, il saggio di E. SEMËNOVA dedicato al genocidio dei russi nelle ex
repubbliche dell’Urss. Il testo è ricco di citazioni da fonti di orientamento molto differente e rende
bene il quadro degli orrori che sono stati perpetrati. Il saggio si trova in docviewer.yandex.com/?
url=ya-disk-
public%3A%2F%2FYkY0%2B4Q288AX6un0Pe%2FNBYG6smKr%2F1s1SiTgQ5oOa4g%3D&na
me=Semenova_-_Na_etnicheskoy_voyne.doc&c=532a6a7b952e#_Toc279236089
30
izvestia.ru/news/299041
31
www.youtube.com/watch?v=1YI-WodmA-Q
32
www.rosbalt.ru/exussr/2013/05/03/1123864.html
33
www.bbc.co.uk/russian/international/2011/05/110503_osh_investigation_outcome.shtml
34
kaspy.info/glavnoe-na-pervom/11644-astrakhanka-pokonchila-s-soboj-posle-togo-kak-ee-polgoda-
derzhali-v-kachestve-nalozhnitsy.html
35
Esiste un vero e proprio movimento di volontari che salvano i russi dalla schiavitù in Daghestan.
36
www.fergananews.com/articles/1395
37
Delle foto particolarmente cruente in verhovskiy.livejournal.com/8729.html
38
lenta.ru/news/2014/02/25/crimea
39
ukraine-russia.livejournal.com/1573354.html
40
Si veda youtube/Km3566Uo92Y. Nel video si suppone che vi siano i cosiddetti titušky, agenti di
Janukovyč, da lui remunerati. La tituškomania in Ucraina ha raggiunto livelli incredibili, a tal punto
che anche i radicali di Pravyj Sektor a un certo punto sono stati accusati di essere titušky chiamati per
screditare la protesta pacifica. Non possiamo stabilire se la persona che si vede nel video è colpevole
di qualcosa o no, ma possiamo con certezza affermare che una caratteristica della rivoluzione
democratica ucraina è la passione per l’umiliazione pubblica degli oppositori.
41
youtube/A8d1B9i73Bc. La principale accusa mossa ai cosiddetti titušky (che nel video sono
descritti come «schifosi filorussi») prima che di lavorare per Janukovyč, è di nutrire simpatie
filorusse. Ciò giustificherebbe la scritta indelebile «merda» sulla loro fronte.
42
Si veda youtu.be/KcTC5NMEqv0. Nel video i deputati del partito Svoboda aggrediscono il
direttore del primo canale nazionale per avere trasmesso il discorso di Putin, chiedendogli: «Per
quale nazione lavori?». Sospettando che lavorasse per la nazione russa è stato costretto a scrivere una
lettera di dimissioni. Questa vicenda ha sollevato un ampio dibattito, ma non ci sono state
conseguenze. Gli uomini del video continuano a essere deputati ai quali l’Ue eroga fondi, con i quali
firma accordi eccetera.
43
www.politnavigator.net/na-majjdane-izbili-i-pytali-reportjora-sergeya-ruljova.html
LA LEGGE DEL PIÙ FORTE
I giuristi dibatteranno a lungo sulla legittimità del referendum in
Crimea. Ma una secessione non è né un diritto, né un atto illegale:
è un fatto. Se ha successo, esiste. Altrimenti è condannata dalla
storia e dai tribunali.
di Leonardo BELLODI
1
L’Atto di Helsinki del 1° agosto 1975 afferma: «The participating states will refrain in their mutual
relations, as well as in their international relations in general, from the threat of use of force against
the territorial integrity or political independence of any State». Si noti, però, che l’Atto di Helsinki
afferma anche che «frontiers can be changed in accordance with international law by peaceful means
and by agreement». Con il Memorandum di Budapest del 1994 la Russia, il Regno Unito e gli Stati
Uniti «reaffirmed their obligations to refrain from the threat or use of force against the territorial
integrity or political independence of Ukraine, and that none of their weapons will ever be used
against Ukraine except in self-defense or otherwise in accordance with the Charter of the United
Nations».
2
T.M. FRANCK, «The Emerging Right of Democratic Governance», The American Journal of
International Law, vol. 86, n. 1, gennaio 1992.
3
«Legitimacy of origin: a government is legitimate if it rests on the will of people expressed through
a free and fair election», J. D’ASPREMONT, «Legitimacy of Governments in the Age of
Democracy», International Law and Politics, 2011.
4
«From the point of legitimacy of exercise, a government is legitimate if it exerts its power in a
manner consistent with basic political freedoms and the rule of law», J. D’ASPREMONT, Les Etats
non démocratiques et le droit international, Paris 2008, Ed. Pédone.
5
Il giurista Santi Romano usava dire che «il diritto è quello che ha la forza di divenire e di imporsi
come diritto positivo».
6
Interessante notare cosa pensava al riguardo il segretario di Stato Robert Lansing: «When the
President talks of “self-determination” what unit has he in mind? Does he mean a race, a territorial
area, or a community? (…) It will raise hopes which can never be realized. It will, I fear, cost
thousands of lives. In the end it is bound to be discredited, to be called the dream of an idealist who
failed to realize the danger until it was too late to check those who attempt to put the principle into
force».
7
M.N. SHAW, International Law, Cambridge 2003, Cambridge University Press.
8
Nel 1972, una commissione internazionale di giuristi scrisse nel Report on the events in East
Pakistan, 1971: «(The principle of territorial integrity) is subject to the requirement that the
government does comply with the principle of equal rights and does represent the whole people
without distinction. If one of the constituent peoples of a state is denied equal rights and is
discriminated against, it is submitted that their full right of self-determination will revive».
9
C.J. BORGEN, The Language of Law and the Practice of Politics: Great Powers and the Rhetoric
of Self-Determination in the Cases of Kosovo and South Ossetia, Legal Studies Research Paper, St
John’s University, settembre 2009.
10
B. DE VILLIERS, «Secession: The Last Resort for Minority Protection», Journal of Asian and
African Studies, 1, 2012.
L’UCRAINA TRA NOI E PUTIN
Parte III
1
M. HOSENBALL, «For Ukraine Rivals, No Let up in Washington Lobbying», Reuters, 19/2/2014.
2
Cfr. A. BURNS, M. HABERMAN, «Mystery Man: Ukraine’s U.S. Political Fixer», Politico,
5/3/2014.
3
Statement by Victoria Nuland, Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs, The
US/Ukraine Foundation, 13/12/2013.
4
Statement by Thomas O. MELIA, Deputy Assistant Secretary of State, Bureau of Democracy,
Human Rights and Labor, U.S. Senate Foreign Relations Committee, 15/1/2014.
5
Cfr. National Endowment for Democracy 2012 Annual Report.
6
Cfr. Open Society Foundations 2012 Expenditures.
7
Citato in S. SENGUPTA, «With Tumult Around Him, Russian Diplomat Keeps Calm», The New
York Times, 21/2/2014.
8
Citato in S. WALKER, O. GRYTSENKO, «Ukraine Protesters Return en Masse to Central Kiev for
Pro-EU Campaign», The Guardian, 15/12/2013.
9
Cfr. «Ukraine Crisis: Transcript of Leaked Nuland-Pyatt Call», Bbc News, 7/2/2014.
10
Daily Press Briefing with Spokesperson Jen Psaki, U.S. Department of State, 6/2/2014.
11
Cfr. E. MACASKILL, «Ukraine Crisis: Bugged Call Reveals Conspiracy Theory about Kiev
Snipers», The Guardian, 5/3/2014.
12
P. BAKER, «Amid Fence-Mending, Another U.S.-Russia Rift», The New York Times, 21/2/2014.
13
R. LOCKER, «Pentagon Studies Putin Body Language for Hint of Intent», Usa Today, 6/3/2014.
14
Citato in Z. MILLER, M. CROWLEY, «Obama Warns Russia about Ukraine Intervention»,
Time.com, 28/2/2014.
15
Cfr. Federal Reserve Statistical Release, Factors Affecting Reserve Balances, 20/3/2014.
16
Citato in S. WILSON, «Obama Dismisses Russia as “Regional Power” Acting out of Weakness»,
The Washington Post, 25/3/2014.
MORIRE PER KIEV?
Gli improbabili scenari bellici dipinti dagli americani: Russian
Storm, small e large. L’eventualità di una missione Onu a guida
Usa-Russia per pacificare il paese. Obama alle prese con i falchi.
E se tutto finisse con un conflitto congelato, vegliato dall’Osce?
di Alessandro POLITI
D
1. uemilaquattordici, la non-guerra di Crimea: un non-luogo per i
non-decision makers delle nostre classi digerenti, che sì e no ricordano che
oltre un secolo e mezzo fa ce ne fu un’altra, in cui i pre-italiani di Cavour
fecero la loro prima missione out of area. E nemmeno sospettano che il
crudelissimo Kurgan del film Highlander mutui il nome con la ridotta
d’artiglieria Malakoff Kurgan espugnata allora dagli zuavi.
L’Ucraina: una grande piana con fertili terre e antiche città che parla una
geografia che segna la storia sanguinosa e terribile di quattro secoli di
vicende europee: Vinnycja, L’viv-Lwów-L’vov-Lemberg, Poltava,
Stavučany, Černivci, Perekop, Sebastopoli, Kerč, Kharkiv, Belgorod,
Pervomajs’k, Khmel’nyc’kyi, Dnipropetrovs’k. La mente abbraccia veloce
una rete invisibile di eventi, schieramenti, strade, ponti, fortificazioni, basi
strategiche nucleari, grandi capi e comandanti, eroi e disfatte, che dialoga
muta con le tombe di migliaia di morti senza nome.
Appunto… le nere zolle d’Ucraina valgono le ossa di un granatiere di
Sardegna? Abbiamo già visto dal 1914 e dal 1939 che i Balcani non
valevano il cadavere di un granatiere di Pomerania, anzi che hanno causato
il suicidio della potenza europea durante una lunga guerra in due fasi. Erano
i tempi del Drang nach Osten, la grande spinta nazista verso l’Est da
soggiogare e colonizzare in un delirio agrario ariano. E poi, siamo proprio
sicuri che valgano, come ai tempi della grande guerra patriottica sovietica
(1941-45), il sangue di un carrista della magnifica divisione corazzata
Kantemirovskaja?
La crisi ucraina, come prima di essa quella siriana, ha suscitato
nell’opinione pubblica un comprensibile allarme per il rischio di uno
scontro militare diretto russo-americano o, per lo meno, di un ritorno alla
guerra fredda. Non è al momento, al netto d’imponderabili follie
guerrafondaie, una prospettiva particolarmente realistica. È però importante
capire che le grandi guerre mondiali non scoppiano solo per le ambizioni di
capi e gruppi dirigenti, ma anche per asimmetrie strutturali che mettono in
moto faglie geopolitiche e geoeconomiche ritenute da chi decide a somma
zero. La prima guerra mondiale è stata preparata da una crescente
militarizzazione di franco-britannici e impero zarista da un lato e imperi
centrali dall’altro, sulla base della radicata convinzione che la Germania
guglielmina rappresentasse una minaccia economica e strategica per
l’impero britannico e per l’equilibrio delle potenze sancito dal Congresso di
Berlino (1878). La Bosnia fu solo la scintilla, ma l’esplosivo stava altrove.
C’era anzitutto un crescente disequilibrio competitivo di ricerca,
produzione ed esportazione di merci tedesche nei mercati già mondiali che
la Gran Bretagna vedeva di pessimo occhio, tracciando simbolicamente una
linea rossa sulla crescita della flotta da guerra tedesca. Il varo del
programma navale di von Tirpitz fu correttamente percepito come una sfida
alla Royal Navy e contribuì a quella corsa contro il tempo, le curve
demografiche e le tabelle di mobilitazione che precipitarono l’azione
aggressiva tedesca preventiva, propiziata dalle fissazioni balcaniche di
Vienna e saggiamente ignorata da Roma.
La seconda guerra mondiale è stato il secondo tempo di quello scontro
anglo-tedesco, arricchito dalla competizione militarista giapponese per il
dominio del Pacifico, chiaramente oggetto delle mire espansionistiche
americane sin dai tempi delle teorizzazioni di Mahan, ma sullo sfondo delle
connivenze trasversali a favore dei nazifascismi in chiave prettamente
antibolscevica. Chi perse a propria insaputa furono Francia e Gran
Bretagna. Chi vinse davvero furono le potenze (quasi) extraeuropee centrate
su Washington e Mosca. Chi evitò la disfatta fu l’Italia. Dopo di che il
containment antisovietico riprese l’eredità del 1918 a Fulton, appena 28
anni dopo, inaugurando la terza guerra mondiale sulla base dell’arma
nucleare come «betabloccante» delle pulsioni belliche nell’emisfero Nord
del mondo tra Usa e Urss.
Tolta quindi la possibilità di liquidare direttamente l’avversario manu
militari, stabilizzate col sangue e le destabilizzazioni controllate le proprie
zone d’influenza, il gioco a somma zero riprendeva nel Terzo e nel Quarto
Mondo tra un sistema capitalistico a guida americana e uno ad economia
centralizzata a guida sovietica. La corsa agli armamenti sostituiva le
competizioni commerciali spietate della Belle Époque.
Ripensando ai tre quarti di secolo che separano Sarajevo dalla presa
della Crimea si può asciuttamente notare che si è passati da un oligopolio di
potenza a un lungo duopolio, a un breve monopolio seguito dal
multipolarismo disarchico e disfunzionale che stiamo vivendo. Insomma un
periodo di mergers and acquisitions, seguite dalla crisi scoppiata nel 2008,
se volessimo fare analogie economico-finanziarie.
Ci sono le condizioni per una grande guerra in Europa? A quanto pare
no. L’area dell’euro non è adesso e non può nel medio termine diventare il
trampolino di lancio di ambizioni continentali di grande portata. La Russia
è una potenza con seri problemi interni e sulla difensiva: le brillanti
manovre diplomatiche in Siria e la tacita acquiescenza sul dossier iraniano
non possono mascherare la difficoltà che Mosca ha di mantenere i propri
alleati, ancor più di prendere un’iniziativa strategica.
La stessa fulminea zampata in Crimea, in chiara violazione della lettera
e dello spirito del memorandum di Budapest del 1994, è la mossa
d’emergenza alla frantumazione di una sfera d’influenza nell’«estero
vicino», messa in crisi da violenti moti di piazza e da una forte campagna
politico-mediatica. Non è dettata da particolari imperialismi, ma dalla
semplice constatazione che la posizione navale russa, come quella zarista e
sovietica, è sempre stata molto debole. La flotta del Pacifico, senza i
sottomarini lanciamissili balistici, è poca roba già rispetto alle flotte
combinate di Giappone e Corea del Sud e ha tre basi che sono avamposti
appesi a una fragile linea ferroviaria transiberiana. Le flotte del Mare del
Nord e del Baltico sono inficiate dall’azione dei ghiacci e dai punti di
passaggio obbligati. L’unica flotta in mari caldi non solo è già imbottigliata
dalla strettoia dei Dardanelli, ma non ha soluzioni di ricambio per la
Crimea, tranne in parte Novorossijsk. Una penisola strategica persa dal
1856 al 1921, ripersa nel 1941-44 e ri-ripersa dal 1991 al 2014 (la bellezza
di 91 anni su 159, cioè il 42% del tempo totale).
Ci sono le condizioni per una grande guerra nel Pacifico? Non adesso,
ma potrebbero determinarsi, esattamente per quelle dissimmetrie che si
sono viste cent’anni fa: uno squilibrio tra esportazioni, crediti e debiti; la
paura di una sfida insostenibile alla propria way of life; la presenza di una
potenza militare suprema rispetto ai dodici paesi successivi e la costante
modernizzazione di uno strumento militare difensivo. È in quello scenario
che gli F-35 Lightning II acquisterebbero tutta la loro logica e utilità in una
Crimea all’altro capo del mondo.
I
1. l cambio di regime a Kiev e la complessa crisi che ne è discesa
sotto il profilo dei rapporti intrattenuti dall’Occidente con la Russia
derivano prevalentemente dalle pressioni esercitate da un certo numero di
paesi europei, che l’amministrazione Obama non pare aver particolarmente
gradito, impegnata com’era a gestire insieme a Mosca il dossier siriano e il
percorso di reintegrazione dell’Iran nella comunità internazionale. Non si
spiega altrimenti la velenosa invettiva rivolta all’Unione Europea
dall’assistente segretario di Stato per l’Europa e l’Eurasia, Victoria Nuland,
nel corso di una sua telefonata all’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey
Pyatt, la quale probabilmente presumeva sarebbe stata intercettata, seppure
ben difficilmente immaginasse di vederne divulgati i contenuti su
YouTube1. Noi europei – alcuni più di altri in verità – abbiamo infatti creato
un problema di cui alla Casa Bianca non si avvertiva affatto il bisogno,
determinando la distrazione di preziose risorse diplomatiche da quello che a
Washington era ritenuto l’obiettivo principale di questa fase del secondo
mandato del presidente americano: la riconciliazione con Teheran, che certo
gli eventi di Kiev e Simferopoli non hanno affatto contribuito ad avvicinare,
generando anzi forte inquietudine in Iran, specialmente tra i simpatizzanti di
Hassan Rohani.
Si può oggi affermare con relativa sicurezza che Jevromajdan non sia
scaturita da una spallata statunitense per portare l’Ucraina e magari anche
Tbilisi dentro l’Alleanza Atlantica, traguardo che Germania e Italia
negarono a George W. Bush nell’ormai lontano 2008, ma sia stata invece
l’esito degli sforzi convergenti di due raggruppamenti di paesi europei tra
loro coordinati – il Gruppo di Visegrád e la pattuglia di punta della più
ampia Partnership orientale – determinati ad attrarre nell’orbita comunitaria
gli Stati post-sovietici che ne erano rimasti esclusi. Del primo, costituitosi
nel lontano febbraio 1991 per promuovere l’adesione dei suoi membri
nell’Unione Europea, fanno parte la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia e la
Repubblica Ceca in quanto Stati successori della Cecoslovacchia, membro
fondatore nel frattempo divisosi. La seconda, invece, deriva da una proposta
avanzata nella primavera del 2008 da Varsavia e da Stoccolma ai partner
comunitari ed è ormai un’articolazione istituzionale dell’Ue, che attraverso
la Commissione europea ne gestisce le iniziative rivolte all’Armenia,
all’Azerbaigian, alla Georgia, alla Moldova, all’Ucraina e persino alla
Bielorussia, con l’obiettivo di avvicinarle gradualmente all’Europa
comunitaria. Fin dall’inizio, la storia del Partenariato si lega al tortuoso
sviluppo del dialogo bilaterale tra Bruxelles e Kiev, che prende le mosse già
nel settembre 2008 con l’ambizione di pervenire in tempi ragionevoli alla
negoziazione dell’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione. Viktor
Juščenko era all’epoca ancora presidente, seppure la fiamma della
«rivoluzione arancione» si fosse da tempo attenuata. Due anni dopo, nel
2010, sarebbe stata la volta di Chișinău e successivamente anche di Baku,
Erevan e Tbilisi, ma non di Minsk, esclusa da questo processo anche a
causa di un’aspra contesa personale tra la cancelliera tedesca Angela
Merkel e il presidente bielorusso, Aleksandr Lukašenko: dettaglio
retrospettivamente assai rivelatore.
Come la coeva Unione per il Mediterraneo, sorta dal progetto
sarkoziano di Union Méditerranéenne, anche la Partnership orientale venne
comunitarizzata perché la Germania potesse condividerne le attività e non si
verificassero indesiderate fughe in avanti da parte dei rispettivi promotori.
In effetti, entrambe le iniziative avevano avuto originariamente una forte
valenza anti-tedesca e, in minor misura, anche anti-italiana, mirando a
smantellare il triangolo mackinderiano allestito da Roma e Berlino con
Mosca. Mentre però, quietamente e silenziosamente, Merkel iniziava già
allora a proiettare l’ombra della Germania sull’avanzata verso est
dell’Unione Europea, utilizzando anche lo strumento del Partenariato
orientale, l’Italia berlusconiana veniva progressivamente indebolita e
isolata, esposta internazionalmente al pubblico ludibrio non solo in ragione
delle intemperanze del suo presidente del Consiglio, ma altresì e forse
soprattutto in quanto zelante «avvocato della Russia in Occidente» dai
tempi della guerra in Georgia. Occorrerà comunque attendere il 2011 perché
le cose cambino radicalmente. Stati Uniti e Gran Bretagna agevoleranno
allora l’intraprendenza francese nel Mediterraneo anche per mettere in
difficoltà il governo italiano e prepararne l’avvicendamento, che sarebbe
stato precipitato più tardi da una grave crisi intervenuta
nell’approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare il debito
sovrano della nostra Repubblica, probabilmente con complicità di alcuni
grandi investitori anglosassoni, veri artefici del downgrading del merito di
credito dei titoli italiani. Neanche l’abbattimento del regime libico del
colonnello Gheddafi e l’avvio di trattative riservate per sostituire Silvio
Berlusconi a Palazzo Chigi avrebbero però potuto mascherare il fallimento
dell’esercizio transalpino2: l’Unione per il Mediterraneo si sarebbe così
rivelata sostanzialmente un flop, complice la «primavera araba», mentre il
Partenariato orientale avrebbe continuato a gettare ponti verso l’«estero
vicino» della Federazione Russa, senza che questo indirizzo geopolitico,
ormai comune, fosse mai davvero discusso nel Consiglio e nel Parlamento
europeo. La Ostpolitik dell’Unione sarebbe stata di fatto appaltata a
polacchi, svedesi e baltici, acerrimi rivali regionali di Mosca, che avrebbero
cercato sistematicamente di dilatare la loro influenza su un Intermarium
esteso fino al Caspio – ben oltre quindi le terre della Rus’ di Kiev raggiunte
dai vichinghi e anche del villaggio di Poltava, dove diversi secoli dopo
Pietro il Grande avrebbe fermato le scorrerie di Carlo XII – ponendo
inesorabilmente in rotta di collisione Europa e Russia.
4. Tutto questo non è stato pianificato negli Stati Uniti, anche se è stato
reso possibile dal calo d’interesse dimostrato dal presidente Obama verso il
nostro continente, avvertito persino nella cosiddetta Nuova Europa –
anzitutto in Polonia – che aveva da tempo iniziato a considerare anche altri
punti di riferimento7. È in questa diminuzione d’attenzione da parte di
Washington che va cercata anche la ragione del cambio di rotta attuato dalla
Germania. Berlino deve aver infatti intuito il vuoto geopolitico
determinatosi alle proprie frontiere orientali e ha probabilmente deciso di
sacrificare gli eccellenti rapporti intrattenuti con Mosca per andarlo a
occupare. In sintesi, la Repubblica Federale parrebbe aver lanciato,
attraverso il sostegno a Jevromajdan, un’opa che riguarda tutta l’Europa
uscita dal Patto di Varsavia, rinviando a un futuro più lontano l’eventuale
ripresa della cooperazione bilaterale con la Federazione Russa, magari sulla
base di rapporti di forza modificati a proprio favore. A leggere gli sviluppi
recenti in questo modo è tra gli altri Dmitrij Trenin, l’autorevole direttore
del Carnegie di Mosca, che in un editoriale pubblicato online il 14 febbraio
scorso non esita a scrivere della Germania come di una potenza eurasiatica
emergente, impiegando nei suoi confronti termini assai diversi rispetto a
quelli finora utilizzati per descrivere la più rassicurante Berliner Republik
euroatlantica, che apparterrebbe ormai al passato8.
L’assertiva Germania che si profila all’orizzonte sarebbe sensibile
persino agli interessi della Cina e ovviamente libera da ogni residuo timore
reverenziale nei confronti degli Stati Uniti, pronta perciò ad abbandonare il
solco bismarckiano tracciato da Helmut Kohl, che ne aveva contraddistinto
il cammino nei due decenni seguenti alla riunificazione, per abbracciare un
rischioso e solitario sentiero neoguglielmino. Il passo decisivo matura
proprio mentre prende forma il patto di grande coalizione destinato a
reggere le sorti della politica tedesca nei prossimi anni, quasi a sottolineare
il carattere condiviso e bipartisan della svolta, e coincide con una serie di
interessanti sortite, con le quali il presidente federale, la stessa cancelliera e
i suoi ministri degli Esteri e della Difesa abbattono un altro tabù,
prefigurando apertamente una Germania che dovrà in futuro essere decisiva
anche militarmente nei conflitti combattuti all’estero. Il tutto senza suscitare
alcuna apprezzabile reazione interna o internazionale di riprovazione.
Di qui, verosimilmente, il disappunto colto nella conversazione
telefonica tra Nuland e Pyatt. E soprattutto l’intervento smart – secondo
consolidata preferenza obamiana – ma ciò nondimeno inesorabile, con il
quale gli Stati Uniti riescono a rientrare rapidamente in gioco a Kiev,
ristabilendo le gerarchie di potenza che Berlino stava cercando di
trasformare a proprio favore con l’aiuto incomprensibilmente prestatole
dalla Francia, in evidente stato confusionale, persino orgogliosa di aver
partecipato alla resurrezione del Triangolo di Weimar.
Mentre Frank-Walter Steinmeier, Laurent Fabius e Radosław Sikorski
pensano, nel pomeriggio del 21 febbraio scorso, di aver contribuito a
delineare il percorso della transizione ucraina verso nuovi equilibri,
inducendo il leader di Udar, Vitalij Klyčko, e il presidente Janukovyč a
firmare al proprio cospetto un accordo di compromesso, una piazza
opportunamente eccitata insorge e, sotto la guida di poche migliaia di
miliziani nazionalisti armati, appartenenti a gruppi radicali come Pravyj
Sektor e Svoboda, provoca il collasso del locale sistema politico. All’alba
del nuovo giorno, infatti, fiutato il pericolo che incombe su di lui, il
presidente abbandona la capitale, facendo perdere per qualche giorno le
proprie tracce prima di riapparire in Russia, mentre la gente irrompe anche
nella sua residenza di Kiev, rivelandone al mondo intero i grotteschi
eccessi. Come esito di questi eventi tumultuosi, il capo dello Stato è
dichiarato decaduto e sostituito provvisoriamente dal presidente della Rada,
Oleksandr Turčynov, dirigente di Patria, il partito filoamericano guidato da
Julija Tymošenko, che viene immediatamente liberata dal carcere. In breve,
un altro esponente della medesima formazione, Arsenij Jacenjuk, è
nominato primo ministro. Per Kličko e i suoi sponsor esteri è una disfatta,
dalla quale l’ex pugile cerca di riprendersi annunciando la propria
candidatura alle presidenziali indette per il 25 maggio, in significativa
concomitanza con il voto per il rinnovo del Parlamento europeo, con
speranze tanto flebili di successo da indurlo poi a ritirarsi, per favorire la
campagna dell’oligarca Petro Porošenko.
Il campione sul quale i tedeschi avevano puntato le proprie carte è stato
messo fuori combattimento e un’intera prospettiva politica rovesciata in
meno di ventiquattr’ore. La sconfitta riportata da Berlino non è inferiore a
quella patita da Mosca e per di più è priva di possibilità di riscossa
immediata. Non ci sono infatti Crimee per i tedeschi, ma soltanto la strada
di un graduale rientro nei ranghi, in attesa di tempi migliori, quando gli
americani si ritireranno nuovamente dagli affari europei che tanto paiono
tediarli, per tornare a occuparsi di Pacifico e Medio Oriente.
1
«Victoria Nuland: Leaked Call Shows US Hand on Ukraine», Bbc News, US & Canada, 7/2/2014.
2
A. FRIEDMAN, Ammazziamo il gattopardo, Milano 2014, Rizzoli, pp. 39 ss.
3
Lo riconosce anche il fondatore di Stratfor. Cfr. G. FRIEDMAN, «New Dimensions of U.S. Foreign
Policy toward Russia», 11/2/2014.
4
C. ASHTON, «Europa-Russia, ora lavoriamo insieme», Corriere della Sera, 25/2/2014, p. 15.
5
Lo ammette anche Leonardo Bellodi, nel suo saggio «Mosca vs Bruxelles: lo scontro evitabile»,
Limes, «Grandi giochi nel Caucaso», n. 2/2014, pp. 115-122.
6
S.P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, 2a ed. italiana dell’originale
del 1996, Milano 2001, Garzanti, pp. 239-242. L’autore ricorda tra l’altro come già nel gennaio 1994
gli abitanti della Crimea avessero eletto un presidente la cui campagna elettorale si era basata sullo
slogan dell’unità con la Russia.
7
Cfr. M. ZABOROWSKI, «Agli americani non serviamo più», Limes, «Polonia, l’Europa senza
euro», n. 1/2014, pp. 121-124 e, nello stesso numero, D. FABBRI, «Se Obama tradisce Varsavia con
Mosca», pp. 125-32.
8
D. TRENIN, «Enter Germany, A New Great Power in Eurasia», 14/2/2014, consultato sul sito
Internet di Carnegie Europe, Judy Dempsey’s Strategic Europe.
9
«Ucraina: Barroso, prospettiva europea per Kiev», Ansa, 3/3/2014.
MAJDAN VISTA DA VARSAVIA
La rivolta ucraina nasce sotto una cattiva stella: all’ombra di una
Russia revanscista e di un Occidente in crisi. Eppure, è l’occasione
per avviare un percorso di desovietizzazione e di riconciliazione
con la Polonia. Purché l’Ue faccia la sua parte.
di Olaf OSICA
SERGIO CANTONE - Responsabile da Kiev dell’Ufficio Europa orientale del canale Euronews.
ALDO FERRARI - Insegna Lingua e letteratura armena, Storia del Caucaso e Storia della cultura
russa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Per l’Ispi di Milano dirige i programmi di
ricerca su Russia, Caucaso e Asia centrale. Presidente dell’Asiac.
EVA HULSMAN-KNOLL - Direttrice del programma Asia alla John C. Hulsman Enterprises.
ANDREA LUCHETTA - Giornalista, si occupa dei rapporti tra calcio e politica per La Gazzetta
dello Sport.
RUSLANA LYŽYČKO - Cantante ucraina, vincitrice del concorso Eurovision nel 2004.
SIMONA MERLO - Dottore di ricerca in Storia sociale e religiosa. Studiosa dei paesi ex sovietici.
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OLEH TJAHNYBOK - Dal 2004 leader del partito nazionalista Svodoba (Libertà).
OLGA TOKARIUK - Giornalista freelance. Durante le proteste in Ucraina collabora con media
italiani, croati e australiani. Ha lavorato nella redazione esteri di K1 TV, Inter TV, Ukraina TV.
La storia in carte
a cura di Edoardo Boria
2. Più che per i dati sul commercio di grano, che confermano la spiccata
vocazione agricola dell’Ucraina, questa carta sorprende per la delimitazione
del paese, indicata in legenda come «limite dell’Ucraina»: la linea blu che
la identifica comprende infatti una vastissima area che va dall’alto Dnepr al
Caucaso settentrionale.
Fonte: L. Hautecoeur, «Production et commerce du blé en Russie», in
Les Rapports économiques de la Russie et de l’Ukraine, Paris 1919, Service
Géographique de l’Armée.
3. Un’immaginaria «Grande Ucraina» che si spinge oltre il Caucaso e il
Volga fino agli Urali. Sul retro è riportato lo slogan «Tutti avanti! Tutti
insieme! Non a parole ma a fatti!».
Fonte: Carta dell’Ucraina, cartolina postale, 1920 ca.
Consiglio di amministrazione
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Amministratore delegato Monica Mondardini
Consiglieri Agar Brugiavini, Rodolfo De Benedetti Giorgio Di
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