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Archimede

Pier Daniele Napolitani

26 giugno 2016
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Indice

Perché Archimede i

1 Archimede e il suo tempo 1


1 Una metropoli ellenistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1
2 Il figlio di Fidia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2
3 Tra Siracusa e Alessandria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
3.1 L’amicizia con Conone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
3.2 La biblioteca dei sogni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
3.3 Archimede ad Alessandria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6
4 Navi, corone e macchine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
4.1 La Syrakosia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
4.2 La corona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
4.3 Macchine. E cos’altro? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
5 L’assedio di Siracusa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
5.1 Tempi difficili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
5.2 La difesa della città . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
5.3 La morte di Archimede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

2 Il corpus archimedeo 15
1 I testi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
1.1 Le opere inviate ad Alessandria . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
1.2 Un universo di sabbia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
1.3 Le altre opere pervenute . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
1.4 Frammenti e opere perdute o di dubbia attribuzione . . . . . . 22
2 La tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
2.1 Nel mondo antico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
2.2 La tradizione arabo-latina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
2.3 ABC . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26
2.4 Archimede nelle corti umanistiche . . . . . . . . . . . . . . . . 28
2.5 Il Cinquecento e la rinascita di Archimede . . . . . . . . . . . 29
2.6 L’età della rivoluzione scientifica . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
3 Archimede e la filologia classica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
3.1 Un nuovo interesse per la matematica classica . . . . . . . . . 31
3.2 L’edizione di Heiberg . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
4 La riscoperta del palinsesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34
4.1 Milionari e studiosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34

3
4 INDICE

4.2 Verso un nuovo Archimede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35

3 Amici e nemici 37

4 La fortuna: quale Archimede? 39


1 Il mito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
1.1 Sfaccettature . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
1.2 La sirena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40
2 La matematica dei destini incrociati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
2.1 Archimede nel Rinascimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42
2.2 Tra artisti e tecnici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42
3 La tradizione archimedea nel Cinquecento . . . . . . . . . . . . . . . 43
3.1 Archimede e la stampa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
3.2 Maurolico e Commandino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
3.3 Guidobaldo dal Monte e la meccanica . . . . . . . . . . . . . . 44
4 Da Archimede a Cauchy e ritorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44
4.1 All’alba della nostra matematica . . . . . . . . . . . . . . . . 44
4.2 Precursore o postcursori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

5 Pagine scelte 47
1 Dalle lettere a Dositeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
1.1 La Quadratura della parabola . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
1.2 Sfera e Cilindro, 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
1.3 Spirali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
2 La lettera a Eratostene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50
3 Dall’Arenario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51

6 Ulteriori letture 53
1 Per saperne un po’ di più . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
2 Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
3 Approfondimenti e letteratura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
Perché Archimede

a R., che mi ha fatto scrivere

Non è facile parlare di Archimede. C’è tanto, troppo da raccontare.


La sua figura ha moltissime sfaccettature, legata com’è al suo rapporto con
Siracusa e ai tanti aneddoti che lo riguardano, sullo sfondo della crisi che, con le
guerre puniche, portò Roma a divenire padrona del mondo. Inoltre, per cogliere la
genialità delle sue invenzioni sarebbe necessario collocarle nel contesto dello sviluppo
della scienza e della tecnica ellenistiche. Né si può dare un’idea della sua opera
matematica traducendone i risultati nel nostro linguaggio: una simile traduzione
porta inevitabilmente a un appiattimento e a trasformare il racconto delle sue scoperte
in un grigio elenco di risultati che oggi si ottengono facilmente usando il calcolo
infinitesimale. Sarebbe necessario dunque discutere non solo delle sue opere, ma
anche di ciò che oggi possiamo dire sulla matematica greca dei suoi tempi.
Va dunque da sé che quello che qui leggerete non può essere altro che un’intro-
duzione e che è stato necessario operare alcune scelte piuttosto drastiche. In primo
luogo la discussione della letteratura è stata ridotta al minimo: non è una limitazione
da poco, data l’ampiezza e il numero delle interpretazioni spesso discordanti fra lo-
ro. Tuttavia, gli studi archimedei hanno conosciuto negli ultimi quindici anni novità
importanti che aprono prospettive del tutto nuove: dai lavori sul famoso palinsesto,
a novità nel campo della tradizione rinascimentale, a spostamenti del punto di vista
interpretativo. Nelle pagine che seguono si è cercato di dare almeno un’idea di que-
sta evoluzione e di fornire al lettore gli strumenti per farsi un’idea dell’attuale stato
dell’arte; il lettore interessato potrà trovare i riferimenti per ulteriori letture.
In secondo luogo, non ho nemmeno provato a entrare nel merito delle tecniche
dimostrative archimedee o di attirare l’attenzione sui problemi interpretativi che l’o-
pera matematica pone, se non episodicamente. Ho dato conto dei suoi scritti, ma
so bene che la mancanza di un approfondimento potrà deludere molti lettori. Ciò
nonostante, ho preferito concentrarmi su un altro aspetto.
La storia dell’Occidente è stata attraversata sia la figura di Archimede – che
assunse ben presto dei tratti che potremmo dire mitologici – sia dai suoi scritti. L’at-
tenzione di questo libretto è quindi rivolta a mettere in evidenza quanto possiamo
realmente conoscere di lui, a come la sua opera ci sia pervenuta e all’influenza essa
abbia avuto nella costruzione della nostra civiltà. Mi è sembrato infatti importan-
te cercare di dare almeno un’idea di quanto la riscoperta di Archimede sia stata
essenziale per la nascita della matematica e della scienza moderne.
Nel primo capitolo si troverà una vita di Archimede che propone una possibile
lettura della sua formazione e del rapporto che egli ebbe con i suoi burrascosi tempi.

i
ii PERCHÉ ARCHIMEDE

Viene poi descritta brevemente la sua opera, dedicando un certo spazio ai pro-
blemi di tradizione testuale. Spesso non si riflette abbastanza sul fatto che le opere
del mondo classico ci sono giunte attraverso un complesso processo di trasmissione; il
lavoro filologico è essenziale per potere interpretare correttamente un testo, a maggior
ragione un testo scientifico.
Infine, un capitolo sulla fortuna: per far vedere come l’aura “mitologica” che
circonda la sua figura si sia strettamente intrecciata, a partire dal Rinascimento,
con l’assimilazione della sua opera – assimilazione che via via ha prodotto una nuova
matematica e una nuova meccanica, spesso assai lontane da quelli che potevano essere
gli intenti di Archimede stesso.
Molti amici mi hanno aiutato nel mio studio di Archimede – che ormai conta più
di qualche anno – con nuovi punti di vista, consigli, indicazioni. Vorrei ringraziare
in particolare Fabio Acerbi, Lorenzo Braccesi, Paolo d’Alessandro, Enrico Giusti,
Roshdi Rashed e Ken Saito, per anni e anni di discussioni e di lavoro.
Un grazie speciale a Carlo Maccagni, per le tante ore passate a discutere insieme
e i consigli; a Paolo Buzzao, per le critiche inesorabili, ma sempre azzeccate. Se
troverete leggibile questo libretto è in gran parte merito loro.
Infine, Pierre Souffrin. Sono diversi anni che Pierre ci ha lasciato, ma ancora
oggi mi mancano le sue visioni fuori dal politically correct – e le mille discussioni su
Archimede e la scienza galileiana.
Capitolo 1

Archimede e il suo tempo

Scrivere una biografia di Archimede sembra un compito impossibile. Abbiamo infatti


ben pochi particolari della vita degli scienziati antichi: per esempio, di Euclide non
si sa quasi nulla, salvo un paio di aneddoti e la vaga notizia che avrebbe lavorato e
ad Alessandria, la capitale dell’Egitto dei Tolomei.
Bisogna però riconoscere che nel caso di Archimede siamo un po’ più fortunati.
Infatti la sua vicenda biografica e scientifica fu intrecciata strettamente con quella
della sua Siracusa, tanto che gli storici, da Polibio (206 ca.– 124 a.C.) in poi, ce ne
hanno riferito molti elementi, dato che Archimede fu l’animatore della difesa con-
tro l’assedio dei Romani e morì nella presa della città (212 a.C.). Tuttavia le fonti
spesso discordano, o riferiscono particolari dal sapore decisamente leggendario. Di
conseguenza non è possibile ricostruire una biografia sicura nemmeno nel suo caso.
Qui proveremo comunque a raccontare una storia, sforzandoci di tenere distinti
i pochi elementi sicuri, trasmessi dalle fonti letterarie o archeologiche, dal filo con cui
li cuciremo insieme.

1 Una metropoli ellenistica


Urbem Syracusas maximam esse Graecarum, pulcherrimam omnium sae-
pe audistis: est, iudices, ita ut dicitur.

Siracusa: la più grande di tutte le città greche, di tutte la più bella. Tale la
racconta Cicerone nel 70 a.C. ai giudici del processo contro Verre, assicurando loro
che è proprio così: descrive i suoi due porti, le quattro maximae urbes – l’Insula,
Achradina, Tyche e Neapolis – da cui la metropoli era costituita, i ricchi e numerosi
templi, il grande ginnasio e il grandissimo teatro, vanta la bellezza della fonte Aretusa
tutta piena di pesci. In una di queste quattro città, nell’Insula Ortigia separata dalla
terraferma solo da uno stretto braccio di mare, stava il palazzo del re Gerone. Questi
(306 ca.–215 a.C.) era stato l’artefice della grande prosperità di Siracusa, prosperità
che, a dire di Cicerone, nemmeno la conquista romana aveva potuto far sfiorire. La
sua era stata una politica prudente e saggia, che aveva permesso alla città di crescere
e arricchirsi in tempi tutt’altro che facili. (Contro Verre, II.4.116-119.)
Vale la pena di ricordare questi fatti perché la vita del protagonista di questo
racconto si intrecciò inestricabilmente con le vicende della sua città e con la cauta

1
2 CAPITOLO 1. ARCHIMEDE E IL SUO TEMPO

avvedutezza di Gerone. Archimede era ancora un bambino quando Pirro (famoso per
i suoi elefanti e per le “vittorie di Pirro” contro i Romani) si impadronì di Siracusa e
di tutta la Sicilia. Il suo regno durò pochi mesi, e quando il re dell’Epiro nel 276 a.C.
lasciò l’isola, Siracusa cadde nelle mani di Gerone, capo dell’esercito.
Intanto Roma, sconfitto Pirro, si stava espandendo rapidamente in Italia, e la sua
espansione la portava a entrare in contrasto con le città greche dell’Italia meridionale
e con l’impero commerciale cartaginese. Archimede aveva una ventina d’anni quando
nel 264 iniziò la prima guerra punica tra i Romani e i Cartaginesi. La posta in gioco
era assai alta: il controllo della Sicilia e di tutto il Mediterraneo occidentale. Nel
difficile equilibrio di forze, Gerone si alleò dapprima con i Cartaginesi, poi vista la
superiorità romana, si ritirò quasi subito dalla lotta. I Romani gli imposero condizioni
di pace piuttosto dure, ma Gerone, pur di conservare l’indipendenza di Siracusa le
accettò ugualmente e rimase fedele all’alleanza con Roma per tutto il corso del suo
regno.
Alla fine della prima guerra punica (241 a.C.) Roma fece sua la Sicilia, ma
Siracusa rimase la sola città indipendente dell’isola. La saggia politica di Gerone
permise ai siracusani di godere di mezzo secolo di pace e prosperità in cui fiorirono
agricoltura e commerci, arti e scienze. Fu sotto il suo regno che venne edificata la
grandiosa Ara, un altare dedicato quasi certamente a Zeus, lungo ben 196 metri,
di cui purtroppo ben poco resta di visibile; suo l’Olympeion, un grandioso tempio
dedicato a Zeus nell’agorà; suo il rifacimento e l’ampliamento del famosissimo teatro.
Come scrive Lorenzo Campagna:

Tutto concorre a far intuire l’impegno messo in atto per conferire alla cit-
tà l’immagine di una capitale dinastica [...] Quanto resta della Siracusa
ieroniana ci fa intuire che la sua trasformazione in una grande metropo-
li ellenistica è il frutto di un disegno mirato a imprimere nel paesaggio
urbano i simboli del nuovo potere (Campagna:2013, pp. 49 e 53).

La politica di Gerone, infatti mirava a consolidare un potere regio e dinastico che


avrebbe assicurato alla città ricchezza, e alla sua famiglia un durevole predominio.
Con Gerone, Siracusa rinunciava al sogno di essere padrona di tutta la Sicilia, ma si
assicurava, grazie anche a un’avveduta politica fiscale, la fedeltà e l’appoggio delle
città rimaste sotto il suo dominio nel quadrante sud-orientale dell’isola.

2 Il figlio di Fidia
Questa Siracusa di Gerone è quindi lo sfondo e al tempo stesso l’humus della mate-
matica e della meccanica di Archimede: è la città dove crebbe, per cui lavorò, per cui
perse la vita.
Non si hanno notizie certe della sua famiglia: alcune fonti lo vogliono di umili
origini, altre – tra cui Plutarco (I-II sec. d.C.) – imparentato con la famiglia reale
di Siracusa. Forse conosciamo il nome del padre. In un passo di una sua opera,
l’Arenario, egli cita misurazioni astronomiche fatte da Feidía dè toū Akoúpatros. Il
che vorrebbe dire qualcosa come “Fidia, di Acupatro” ovvero “originario di Acupatro”
o “figlio di Acupatro”. Tuttavia Friedrich W. Blass – un importante filologo tedesco
2. IL FIGLIO DI FIDIA 3

del XIX secolo – osservò (Blass:1883a e 1883b) che entrambe tali interpretazioni erano
assai problematiche e propose di leggere Feidía dè toū amoú patròs: Fidia, nostro
padre.

Archimede sarebbe dunque nato a Siracusa, nella famiglia dell’astronomo Fidia.


Quanto alla data, dovrebbe essere il 287 a.C. L’unica informazione al riguardo è quella
fornita da un erudito bizantino del XII secolo, Giovanni Tzetze. Questi riferisce che
Archimede sarebbe morto all’età di settantacinque anni; siccome la data della morte è
certa (il 212), dovrebbe essere nato appunto nel 287. L’informazione sembra affidabile:
Tzetze disponeva delle fonti accumulate nelle grandi biblioteche di Costantinoopoli; a
proposito di Archimede, poi, cita – esplicitamente e per due volte – Diodoro e Dione
Cassio in libri delle loro opere non pervenutici (Braccesi:2015, p. 113).

Se accettiamo l’idea che Archimede fosse figlio di Fidia, possiamo immaginare


che la sua prima formazione – quando era ancora un paidíon, un bimbo, sia stata
influenzata dalle conoscenze paterne, che potrebbero aver acceso in lui la passione
per le discipline astronomico-matematiche. Da ragazzo poi, passati i quattordici
anni, avrà frequentato il ginnasio, dove si svolgeva l’educazione dei néoi, dei giovani.

Tradizionalmente si tende a pensare che l’educazione in età ellenistica abbia sem-


pre di più lasciato da parte l’aspetto di “educazione fisica” a vantaggio degli aspetti
“spirituali”, con una sempre maggiore prevalenza degli aspetti letterari e libreschi
(si leggano al riguardo le pagine della classica Storia dell’educazione nell’antichità di
Henri-Irénée Marrou [2010]). Questa tendenza avrà sicuramente influito sul giovane
futuro scienziato, ma non bisogna dimenticare che nelle póleis ancora indipenden-
ti, come era Siracusa, il ginnasio rimaneva l’istituzione in cui si formava il futuro
cittadino-soldato. Come documenta Leone Porciani, “le città ellenistiche possono pa-
gare maestri di giavellotto, tiro con l’arco, lancio con la catapulta e organizzare gare
in queste specialità”; in particolare sembra che ancora in età romana le citta siciliane
mantenessero istituzioni di questo tipo (Porciani 2010, pp. 44-45.).

Erano gli anni in cui Gerone andava consolidando il suo potere (sarebbe stato
eletto re nel 270, quando Archimede aveva diciassette anni) in guerre e scontri contro
i Mamertini, una specie di “soldati di ventura” campani che si erano impadroniti
di Messina. Riuscì a sconfiggerli formando un esercito composto di cittadini e sba-
razzandosi delle infide truppe mercenarie su cui aveva dovuto contare fino a quel
momento. Con un po’ di sforzo di fantasia, perché non immaginarci un Archimede
arruolato nel nuovo esercito siracusano? Un giovane che, mentre combatte per la sua
patria, è curioso di capire a fondo come funzionino le macchine da guerra? E perché
non immaginarci anche il giovane Archimede che, cercando di impadronirsi dei segreti
del mestiere, osserva i cantieri che il nuovo sovrano sta allestendo in Siracusa per la
costruzione di templi, edifici pubblici e palazzi che celebrino il suo nuovo potere.

E, visto che ci siamo messi a raccontare una storia, possiamo spingerci a conget-
turare che fossero proprio questi gli anni in cui Archimede contrasse un’amicizia che
avrebbe segnato gran parte della sua carriera di matematico: quella con Conone di
Samo.
4 CAPITOLO 1. ARCHIMEDE E IL SUO TEMPO

3 Tra Siracusa e Alessandria


3.1 L’amicizia con Conone
Omnia qui magni dispexit lumina mundi,
qui stellarum ortus comperit atque obitus,
..............................
idem me ille Conon caelesti in lumine vidit
e Bereniceo vertice caesariem
fulgentem clare ...

Chi tutte distinse le luci del cielo infinito


e conobbe delle stelle il levarsi e il cadere
..............................
lui, quel Conone, me vide,
me, ciocca recisa dalla chioma di Berenice,
che fulgida splendo nella luce del cielo ...

La chioma di Berenice, il poema che Catullo compose imitando quello di Calli-


maco (310 – 235 a.C. ca., poema di cui oggi restano solo frammenti) ci mette subito
di fronte la figura di Conone. Astronomo e matematico, per compiacere il re del-
l’Egitto Tolomeo III Evergete, verso il 246–245 rintracciò tra le stelle il ricciolo che
la regina Berenice aveva dedicato agli dei per propiziare il ritorno del marito dalla
guerra, inventando così la costellazione Coma Berenices. Fu un matematico di un
certo spessore, Conone: Apollonio di Perga (262 – 190 ca.) accenna a suoi lavori
sulla geometria delle coniche; da Tolomeo (il famoso astronomo del II sec. d.C.) si sa
che – proprio come ce lo descrive Catullo – lavorò a dei parapegmata, sorta di alma-
nacchi che collegavano i fenomeni atmosferici al sorgere e al tramontare delle stelle;
Seneca nelle sue Naturales quaestiones riferisce di una sua compilazione sulle eclissi
solari; scrisse anche un trattato di astronomia in sette libri ora perduto. Si sarebbe
inoltre occupato di specchi capaci di concentrare i raggi solari in un solo punto, come
riferiscono fonti arabe.
Nelle Fasi delle stelle fisse Tolomeo si trova che Conone avrebbe compiuto le
sue osservazioni astronomiche in Italia e in Sicilia, come d’altra parte anche il grande
Eudosso di Cnido (408 a.C.–355 a.C. ca.) e un certo Metrodoro; cosa che conferma
l’interesse per l’astronomia nella patria di Archimede. Possiamo così figurarci che
proprio in Sicilia sia avvenuto l’inizio dell’amicizia tra Conone e il giovane siracu-
sano. E che si sia trattato di un’amicizia molto sentita ce lo testimonia Archimede
stesso. Scriverà a Dositeo, continuatore del lavoro di Conone nella compilazione di
almanacchi, nella prefazione alla Quadratura della parabola:

Quando sentii che era morto Conone, a cui da tempo ero legato da amici-
zia, e che tu eri stato in precedenza assai intimo di Conone e che sei versa-
tissimo in geometria, fui colpito dal rimpianto e da un dolore grandissimo
per la sua scomparsa, poiché era un uomo che mi amava moltissimo e,
per di più, nelle speculazioni teoriche aveva un ingegno mirabile e quasi
divino. A te invece preannunziai che — proprio come ero avvezzo a fare
3. TRA SIRACUSA E ALESSANDRIA 5

spessissimo con Conone — avrei mandato per iscritto, tra altri teoremi di
geometria, questo [sulla quadratura della parabola].

E simili attestati si trovano anche in altre prefazioni e in particolare in quella delle


Spirali, testo importantissimo perché descrive quasi un vero e proprio “programma
di ricerca” che lui e Conone avevano concordato: lo studio del rapporto tra sfera e
cilindro; lo studio di una curva speciale, la spirale, lo studio del solido detto oggi
paraboloide di rotazione.
Archimede aveva inviato per lettera a Conone questo progetto di studi; e dal tono
che egli usa nelle sue lettere a Dositeo si intuisce che non conobbe mai di persona
il successore del suo amico: scriveva dunque da Siracusa. Ma visto che vogliamo
immaginarci il giovane Archimede che conosce Conone in Sicilia (magari in compagnia
del padre Fidia), possiamo allora anche immaginare che questa nuova amicizia lo
abbia spinto a visitare Alessandria, uno dei grandi centri della cultura ellenistica.

3.2 La biblioteca dei sogni


Alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) l’Egitto finí nelle mani del suo generale
Tolomeo. Divenuto re d’Egitto, Tolomeo sviluppò una politica culturale tesa a gre-
cizzare il mondo egizio, cercando di attirare in Alessandria, la capitale del suo regno,
i piú famosi studiosi del mondo ellenico. La politica del primo Tolomeo fu perseguita
dai suoi successori. Non è ben chiaro quando esattamente fosse istituito il Mouseion,
lo “scrigno” delle Muse, che era una specie di accademia di arti e di scienze, dedicata
al culto di queste nove dee. Poeti, musici, storici, scienziati, letterati e filosofi vi
potevano lavorare fianco a fianco, vivendo in una sorta di comunità felice. Va detto
però che questa descrizione del Museo è più documentata per il periodo imperiale ro-
mano, mentre per il periodo ellenistico c’è “una disarmante assenza di fonti dirette”
(Acerbi:2007, p. 67).
La perla del Museo era la Biblioteca. Per essa i Tolomei spesero cifre enormi, allo
scopo di fornire agli studiosi tutti gli strumenti di conoscenza che potessero desiderare:
secondo alcune fonti la biblioteca di Alessandria arrivò a possedere qualcosa come
oltre 500 mila rotoli di papiro se non addirittura ancora di più. Questo può apparirci
una cosa grandiosa (e, per i tempi, sarebbe stato in effetti un risultato decisamente
notevole). Si tenga però presente che in un rotolo entravano mediamente solo circa
ventimila parole: la famosa biblioteca avrebbe quindi posseduto, secondo le stime
più iperboliche, tra 50 e i 100 mila libri dei nostri libri. D’altra parte 500 mila rotoli
appaiono una cifra colossale: stime prudenti porterebbero a immaginare chilometri di
scaffali alti diversi metri. Inoltre, anche per la biblioteca, come per il Museo, le fonti
sono discordanti, e rare quelle più antiche. Tutto questo ha spinto Roger Bagnall a
etichettarla come “the Library of Dreams”: non perché sia esistita solo in fantasie,
quanto per il suo carattere di mito – il sogno che possa esistere un luogo in cui si
raduni tutto il sapere (Bagnall 2002). Sogno (o piuttosto incubo) che si è prolungato
nei secoli fino alla Biblioteca de Babel di Jorge Luis Borges.
Come che sia, non si può dubitare che si trattasse di qualcosa di grandioso per
quei tempi; e la vastità della Biblioteca impose ben presto la necessità di vegliare
al suo ordinamento e alla sua conservazione: fu cosí istituita la figura del bibliophy-
lax, il direttore della biblioteca. Tale carica fu ricoperta da personaggi di grande
6 CAPITOLO 1. ARCHIMEDE E IL SUO TEMPO

importanza: ai tempi di Archimede, Apollonio Rodio (dal 270 al 245, l’autore delle
Argonautiche) ed Eratostene di Cirene (276–194), astronomo, poeta e matematico
che diresse la biblioteca dal 245 al 204.

3.3 Archimede ad Alessandria


L’ipotesi che Archimede si sia recato a compiere i suoi studi ad Alessandria potrebbe
apparire quindi del tutto credibile, alla luce di questi fatti, o piuttosto dei miti che
circondano Museo e Biblioteca. Fabio Acerbi ha però messo ben in luce (Acerbi 2007)
come sia fuorviante parlare di “scuola matematica di Alessandria”: si corre il rischio
di proiettare su due istituzioni dai contorni quantomeno incerti il nostro modo di
organizzare la ricerca scientifica. Restano però due fatti.
Il primo, che ad Alessandria gli studi matematici effettivamente fiorirono. Non è
un caso che sarà a un matematico come Eratostene (cui si deve, tra l’altro, la prima
misurazione della circonferenza terrestre) che Archimede invierà il suo testamento
scientifico, il cosiddetto Metodo meccanico. Ad Alessandria sembra che Euclide (fl.
320-330 a.C.) componesse i suoi Elementi e altre opere (i Dati, i Porismi, l’Ottica,
e varie altre). Con tutta probabilità ad Alessandria lavorava Aristarco di Samo (fl.
280 a.C.), l’astronomo che propose un modello eliocentrico dell’universo. Vi avrebbe
studiato Apollonio di Perga (262–190 a.C. ca.), uno dei piú grandi geometri antichi.
Il secondo fatto è la testimonianza di Diodoro Siculo (I sec. a.C.) che nella sua
Bibliotheca historica narra in due luoghi che Archimede inventò la pompa a spirale
(la coclea) quando si trovava in Egitto.
Se dunque appare anacronistica l’idea che Archimede sia andato al Mouseion
come un giovane brillante può oggi andare all’MIT per prendervi un dottorato, quello
che risulta certo – dagli scritti di Archimede stesso e dalle fonti di cui disponiamo
– è che Archimede intrattenne con Alessandria e gli studiosi che frequentavano la
biblioteca e il Museo rapporti molto stretti. Ugualmente – che la coclea sia una sua
invenzione, o che egli abbia solo contribuito a perfezionarla – il suo viaggio in Egitto
gli permise di confrontarsi con problematiche tecniche nuove.
Infatti, se collochiamo la conoscenza con Conone e il soggiorno in Egitto nel
ventennio della prima guerra punica (264–241 a.C.), Archimede avrà avuto modo di
entrare in contatto ad Alessandria con Ctesibio (fl. 275-260), il fondatore della nuova
meccanica alessandrina, o con il suo allievo Filone di Bisanzio (280 ca.–220 ca.). Come
scrive Paul Fraser nella sua monumentale Ptolemaic Alexandria (1972):

non c’è dubbio che verso la metà del III sec. Alessandria era un centro
d’avanguardia nella ricerca sulle macchine da guerra e che i progressi che
Filone ci ha trasmesso sono di non minore importanza nella valutazione
dei risultati alessandrini di quelli ottenuti dai grandi matematici teorici.
(vol I, p. 429.)

Filone scrisse un vasto Trattato di meccanica in più libri in cui riprendeva anche
lavori di Ctesibio. Oggi è in gran parte perduto, ma è noto che conteneva un’intro-
duzione matematica, trattati sulla costruzione di armi da getto (i Belopoeica, l’unico
libro pervenuto in greco), sulle macchine idrauliche e quelle semoventi, sulle tecniche
di difesa e di conduzione di un assedio.
4. NAVI, CORONE E MACCHINE 7

Per il figlio di Fidia e il giovane educato all’arte della guerra nel ginnasio di
Siracusa il periodo trascorso ad Alessandria non può essere stato altro che veramente
stimolante. Ma anche se si volesse mettere in dubbio il soggiorno di Archimede in
Egitto, bisogna comunque tenere conto che la capitale tolemaica era uno degli incroci
nevralgici di quello che Giovanni Di Pasquale ha definito un “network tecnologico
mediterraneo” di cui anche Siracusa era parte, insieme con Rodi, Samo, Bisanzio,
Atene, Pergamo, Cirene, Perga... . I protagonisti delle nuove invenzioni tecniche e i
matematici che danno un nuovo impulso e una nuova strutturazione alla geometria
viaggiano tra i centri di un Mediterraneo solcato non solo da mercanti ed eserciti, ma
anche da

architetti, strateghi ed esperti costruttori di macchine, che avevano in-


dividuato nella rigorosa precisione delle misure e nella geometria degli
ingrandimenti proporzionali il filo capace di legare ambiti solo apparen-
temente diversi: edifici, dispositivi da guerra e da cantiere obbedivano
alle medesime norme costruttive. ... Al linguaggio della geometria che
disegna forme, architetti e costruttori di macchine abbinavano la capacità
di raccontare il comportamento della materia con cui si costruisce.” (Di
Pasquale:2013, pp. 78-79)

Attraverso questa rete Archimede poteva essere costantemente informato delle


ultime novità tecniche e degli sviluppi delle discipline matematiche.

4 Navi, corone e macchine


4.1 La Syrakosia
Accettiamo pure che Archimede abbia passato parte della sua giovinezza in Egitto.
Ma così come non si sa quando vi si possa essere recato, nemmeno sappiamo quando
Archimede ritornò a Siracusa e nemmeno è chiaro se abbia compiuto altri viaggi.
È quasi certo che fosse a Siracusa dopo il 240 a.C., dato che dedica una sua opera,
l’Arenario al re Gelone di Siracusa. Gelone era figlio di Gerone e il padre lo associò al
regno appunto verso il 240. In ogni caso, la maggior parte delle notizie che abbiamo
su Archimede sono legate è alla sua attività a Siracusa e ai rapporti con Gerone.
Una conferma che Archimede si trovasse a Siracusa verso questa data ci viene
dalla storia della famosa nave Syrakosia. Gerone aveva fatto apparecchiare una nave
grandiosa – pare che avesse una stazza di circa 4200 tonnellate. La nave è descritta
da Ateneo di Naucrati (II-III sec. d.C.), che riprendeva fonti più antiche. Il legno con
cui era stata costruita veniva dalle pendici dell’Etna, quello per le attrezzature dai
boschi della Calabria; le funi dalla Spagna. Centinaia di artigiani avevano lavorato al
cantiere sotto la direzione di Archia di Corinto e sotto la supervisione di Archimede.
La Syrakosia aveva tre alberi; al suo interno si trovavano una biblioteca, una palestra,
stalle per i cavalli, giardini, una peschiera, un tempio dedicato ad Afrodite. Non
parliamo neanche del lusso con cui era arredata. Sul ponte superiore, difendevano
questo gigante dei mari otto torri d’assedio munite di catapulte e sulle murate i litoboli
progettati da Archimede potevano lanciare pietre del peso di quasi cento chili a una
8 CAPITOLO 1. ARCHIMEDE E IL SUO TEMPO

distanza di un paio di centinaia di metri. (Sulla Syrakosia e il ruolo di Archimede si


vedano Di Pasquale 2010 e Castagnino Berlinghieri 2010.)
Plutarco racconta che Archimede avrebbe detto a Gerone che era possibile muo-
vere qualunque peso con una data forza. Gerone allora l’avrebbe sfidato a muovere
una nave della flotta reale: e Archimede, muovendo con la mano sinistra la manovella
di una macchina da lui ideata sarebbe riuscito ad alare la Syrakosia in mare, carica
di tutto il suo equipaggio. Sarebbe stata questa l’occasione in cui fu pronunciata la
frase famosa: “datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo!”.
La nave fu inviata in dono da Gerone a Tolomeo III Evergete: ribattezzata Ale-
xandris, salpò per la capitale tolemaica carica di tonnellate di grano e di ogni bendidio
perché nel 238 una gravissima carestia aveva devastato l’Egitto. Questo ha permesso
a Lorenzo Braccesi (2015) di collocare Archimede in Siracusa verso il 240 e datare il
suo viaggio in Egitto a prima del 241, anche perché, secondo Ateneo, le sentine della
nave sarebbero state svuotate con una coclea di invenzione archimedea: invenzione
(o, più probabilmente, perfezionamento) che, secondo Diodoro, sarebbe avvenuto in
Egitto.
La dedica dell’Arenario a Gelone e la storia della Syrakosia/Alexandris ci met-
tono sulla strada delle tante storie semileggendarie che sarebbero andate a costruire
il mito di Archimede.

4.2 La corona
L’altra storia famosissima su Archimede riguarda l’affaire della corona d’oro che
Gerone aveva dedicato agli dei. È Vitruvio (I sec. d.C.) che ha tramandato questa
storia nel IX libro del De Architectura: a Gerone sarebbe venuto il sospetto che
l’orefice si fosse intascato parte dell’oro che gli aveva affidato per fabbricare la corona,
sostituendolo con argento. Siccome la corona nel frattempo era stata consacrata, non
poteva venire rotta o comunque alterata per scoprire il furto. Il caso fu passato ad
Archimede, il quale cominciò a pensare come avrebbe potuto fare senza distruggere
il manufatto. Se ne andò ai bagni e, notando che quando entrò nella vasca piena fino
all’orlo l’acqua usciva fuori, ebbe un’improvvisa illuminazione: saltò fuori dal bagno e
nudo com’era corse a casa gridando l’altra frase famosissima “Eureka, Eureka!” (“Ho
trovato!”). Arrivato a casa, prese una massa d’oro e una d’argento di ugual peso
della corona. Poi, preso un vaso d’acqua pieno fino all’orlo vi immerse la corona,
misurando l’acqua che ne usciva. Ripetè l’operazione con l’oro e con l’argento: e la
differenza tra i volumi d’acqua fuoriusciti gli permise di svelare il furto dell’orefice.
La storia non racconta cosa accadde all’incauto artigiano; sta di fatto, però, che
la vicenda della corona è una di quelle che piú ha eccitato le fantasie intorno ad Archi-
mede e l’inventività dei matematici. Il resoconto di Vitruvio, infatti, appare alquanto
sospetto: per dirla con Galileo, è “privo di quell’esquisitezza” di cui Archimede dà
prova nelle sue opere. Inoltre il metodo che Archimede avrebbe seguito non ha nulla
a che vedere con il principio del galleggiamento che porta a ragione il suo nome. Già
a partire dalla tarda Antichità e poi nel corso del Medioevo cominciarono a circolare
idee alternative, basate appunto sul principio di Archimede: l’idea era di misurare
le diverse perdite di peso dell’oro e dell’argento quando vengono immersi in acqua.
Galileo si inserí in questa tradizione proponendo la sua “bilancetta” idrostatica: uno
5. L’ASSEDIO DI SIRACUSA 9

strumento di alta precisione con cui riuscí a ottenere misurazioni assai accurate e
precise.

4.3 Macchine. E cos’altro?


Questi due episodi famosissimi (il “datemi un punto d’appoggio” e “l’Eureka, eure-
ka!”) sono evidentemente legati alla fama di Archimede come meccanico e tecnico.
Le fonti antiche gli attribuiscono infatti l’invenzione di varie macchine e meccanismi.
Diodoro Siculo e Ateneo gli attribuiscono l’invenzione della coclea o vite d’Archime-
de, una macchina per sollevare l’acqua che Vitruvio descrive dettagliatamente nel X
libro del De architectura, senza però menzionare Archimede. A questa attribuzione
sono associate imprese archimedee piú o meno leggendarie, quali il prosciugamento
di miniere, irrigazione di terre egizie non bagnate dalle inondazioni del Nilo, bonifica
di terre paludose.
Che la vite senza fine fosse o no un’invenzione di Archimede, quando nel Rinasci-
mento esplose l’interesse per la scienza e la matematica greca si sviluppò ben presto
la tendenza a fornire modelli geometrici delle macchine semplici (leva, piano incli-
nato, coclea, pulegge ecc.) basandosi sui principi della statica che Archimede aveva
trattato nelle sue opere meccaniche (in particolare nell’Equilibrio dei piani). Questa
tendenza avrebbbe portato all’individuazione di importanti concetti meccanici, quali
per esempio quello di momento. Per altri versi, il problema della corona portò al-
l’individuazione e alla geometrizzazione del moderno concetto di peso specifico: due
begli esempi di come i miti possano essere operativi e fecondi anche nella scienza.
Gli antichi attribuirono ad Archimede altri strumenti meravigliosi come il plane-
tario con cui si potevano osservare i movimenti degli astri e le eclissi del Sole e della
Luna: uno di questi planetari esisteva ancora a Roma ai tempi di Cicerone (106–43
a.C.) e faceva parte del bottino di guerra ricavato dal sacco di Siracusa.
Oltre a queste invenzioni Archimede è celebre per le sue realizzazioni in campo
militare. Polibio, e Livio, e Plutarco raccontano che Gerone, stupefatto dalle capacità
di Archimede, l’avrebbe indotto a costruire vari tipi di ordigni difensivi e offensivi da
utilizzare in caso di assedio. Gerone, però, trascorse quasi tutto il suo regno in pace,
e non ebbe occasione di giovarsi delle macchine prodotte da Archimede. L’occasione
si sarebbe, purtroppo, presentata poco dopo la morte del saggio e prudente re di
Siracusa.

5 L’assedio di Siracusa
5.1 Tempi difficili
Nel 218 a.C. era iniziata la seconda guerra punica. Annibale aveva condotto i suoi
elefanti oltre le Alpi e aveva sconfitto un esercito romano dopo l’altro. Nonostante
questi rovesci, Gerone non ruppe i patti che aveva con il suo tradizionale alleato,
anzi. Non solo collaborò con i generali romani per sconfiggere tentativi cartaginesi di
far ribellare la Sicilia, ma inviò addirittura a Roma trecentomila moggia di frumento
e duecentomila di orzo, accompagnate da una statua della Vittoria tutta in oro, del
peso di trecentoventi libbre.
10 CAPITOLO 1. ARCHIMEDE E IL SUO TEMPO

Ma il 2 agosto del 216 Annibale infligge a Roma il tremendo disastro di Canne. La


situazione critica in cui si trovavano i Romani offrí spazio a quanti non sopportavano
la loro egemonia, in particolare a Siracusa. Livio racconta che Gelone (associato al
governo di Siracusa già da molti anni) dopo Canne si sarebbe dimostrato insofferente
della politica filoromana del padre ormai novantenne e si sarebbe dato da fare per
spingere i Siracusani ad abbandonare l’alleanza con Roma e prepararsi a combattere a
fianco dei Cartaginesi: ne sarebbe stato impedito da una morte prematura, avvenuta
in quello stesso anno. Morte – dice Livio – così opportuna che gettò qualche sospetto
di assassinio sul vecchio Gerone. Polibio su questo punto tace, e non è chiaro quanto
il racconto di Livio sia affidabile: sta di fatto però che indica il formarsi di un forte
partito filocartaginese a Siracusa.
Sia come sia, Gerone finché ebbe vita si mantenne fedele alla sua politica. Ma
la morte di Gelone creava un serio problema per la casa reale: il più grande dei suoi
figli, Geronimo, era appena quindicenne, e per di più non sembrava nemmeno tanto
adatto a raccogliere lo scettro del nonno in un momento così difficile. Sentendo ormai
vicina la fine, Gerone nominò un consiglio di tutela che assistesse il giovane; morì nel
215, raccomandando a Geronimo e ai tutori di non abbandonare l’alleanza con Roma.
Raccomandazioni inutili. Insofferente della tutela e mal consigliato dallo zio
Adranodoro, Geronimo si arrogò tutto il potere e, irretito da consigli degli amba-
sciatori di Annibale, si risolse a intavolare aperte trattative con i Cartaginesi. Una
decisione che fu per lui e per Siracusa un disastro. Geronimo e i suoi parenti vennero
assassinati dal partito filoromano nel 214; ne seguì una guerra civile che si concluse
con la vittoria del partito cartaginese. Roma, ovviamente non poteva stare a guarda-
re: dopo un massacro avvenuto a Leontini, un’importante polis a una cinquantina di
chilometri da Siracusa, nel 213 il generale romano Marco Claudio Marcello cingeva
d’assedio Siracusa. Un’imponente flotta di 60 quinquiremi si dispose ad assaltare la
città dal mare, mentre due legioni al comando di Appio Claudio Pulcro l’attaccavano
dalla terraferma.

5.2 La difesa della città


Marcello contava di prendere facilmente la città d’assalto grazie alle imponenti forze
di cui disponeva. Si sarebbe dovuto ben presto ricredere. Come racconta Polibio, i
Romani

preparati graticci e dardi e altre macchine d’assedio speravano che con


tanti uomini impiegati avrebbero portato avanti le operazioni in soli cin-
que giorni, avvantaggiandosi sui nemici. Ma non avevano messo in conto le
capacità di Archimede, né si immaginavano che in certi tempi una mente
sola è più efficace di quante braccia si voglia (Le storie, VIII.3).

Il ruolo di Archimede in questo assedio è un fatto storico che esce dalle nebbie
delle notizie vaghe, delle leggende, degli aneddoti. È narrato in dettaglio da Polibio
che scrisse solo qualche decina di anni dopo i fatti e poteva ancora accedere a fonti
dirette, da Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) e da Plutarco.
Archimede aveva assunto la direzione delle operazioni di difesa. Siracusa era ben
protetta dalle sue mura a mare, mentre dalla parte di terra era difesa dalla natura del
5. L’ASSEDIO DI SIRACUSA 11

sito, assai scosceso e difficile da scalare tranne che in alcuni punti: e questi Archimede
aveva provveduto a munirli opportunamente e i Romani che tentarono l’assalto da
quella parte ne uscirono alquanto malconci.
Marcello aveva il comando delle operazioni marittime: ma non appena le sue
navi si avvicinavano, venivano colpite da catapulte di varie dimensioni e di varia
portata di tiro. Come se non bastasse Archimede aveva fatto costruire gru girevoli
che lasciavano cadere enormi massi sulle navi che si avvicinavano e la famosa manus
ferrea, una sorta di artiglio di ferro che afferrava le navi per la prua facendole poi
ricadere di colpo in acqua. I soldati romani erano terrorizzati, scappavano non appena
vedevano un asse di legno far capolino da dietro le mura. Marcello, riferisce Polibio,
riusciva a mantenere abbastanza humour da commentare: “Questo Archimede usa le
mie navi per attingere acqua per le sue coppe da vino, ma caccia via le mie sambuche
[una scala protetta da parapetti che serviva per dare la scalata alle mura] dal suo
banchetto!” (Le storie, VIII.6). Le cose non andavano meglio da parte di terra,
al punto che i Romani decisero di interrompere gli assalti e di cercare di prendere
Siracusa per fame.
Naturalmente alla storia si mischia sempre la leggenda, e cosí è avvenuto anche
per l’assedio di Siracusa. Vari secoli dopo Polibio e Livio, fanno la loro comparsa
nella letteratura anche gli specchi ustori con cui Archimede avrebbe bruciato le navi
romane. È ben noto che non poteva trattarsi di specchi parabolici, perché la parabola
concentra i suoi raggi troppo vicino: questo fatto non impedì lo sviluppo di un’im-
pressionante letteratura in materia, che a partire dalla tarda Antichità attraversò il
mondo arabo e il Medioevo latino per arrivare almeno fino al Seicento. Merito di
questo mito fu di far sviluppare la ricerca sulle proprietà ottiche delle sezioni coniche
e, naturalmente, di aggiungere un altro tocco di leggendario alla figura di Archimede.
Ancora nel Settecento, Buffon sperimentava un sistema di specchi piani per potere
bruciare oggetti a distanze ragionevoli.
Nonostante esperimenti recenti (eseguiti dalla Marina greca (1973) e all’MIT
(2005)), è poco probabile che una nave romana rimanesse ferma sotto il “raggio della
morte” a farsi bruciare senza che nessuno tirasse una secchiata d’acqua nel punto che
iniziava a fumare e a fiammeggiare. Recentemente è stato proposto che Archimede
sparasse proiettili incendiari utilizzando una sorta di cannone a vapore, portando
l’acqua all’evaporazione grazie a uno specchio parabolico. Una trovata ingegnosa,
ma poco sostenuta dalle fonti, talmente vaghe da aver permesso, per l’appunto, la
nascita della leggenda degli specchi. (Il lettore curioso di questo cannone, di cui
parleranno anche Petrarca e Leonardo da Vinci, può rifarsi a Rossi:2010.)

5.3 La morte di Archimede


Nel 212 Marcello seppe cogliere un’occasione favorevole e le truppe romane si impos-
sessarono dell’Epipole, un vasto pianoro interno al sistema di fortificazione siracusano.
Siracusa, e in particolare due delle sue città-quartiere, Achradina e Ortigia, avrebbero
resistito ancora a lungo, non senza scontri intestini tra chi voleva trattare la pace e
chi non si voleva arrendere. Finché Merico, capo di un gruppo di mercenari ispanici
al soldo di Siracusa, decise di vendere la città ai Romani. I legionari dilagarono in
città, mettendola a sacco.
12 CAPITOLO 1. ARCHIMEDE E IL SUO TEMPO

È qui che, a quanto pare, inizia un’altra leggenda destinata a una fortuna im-
mensa. Livio racconta (Ab Urbe condita, XXV.24) che Marcello fosse contrario al
saccheggio, anzi, che penetrato nell’Epipole dall’Exapylon (la monumentale porta
settentrionale, una delle chiavi della difesa esterna) e vedendo Siracusa distesa sotto
di sé rompesse in singhiozzi. Forse perché pensava alla sua prossima rovina? (Ma
forse, come accenna Livio, piangeva di gioia, pensando alla gloria che stava raggiun-
gendo: conquistava Siracusa, la città che aveva sconfitto l’impero ateniese, che aveva
tenuto in scacco per decenni e decenni i Cartaginesi, quella metropoli così bella, così
ricca.)
Quando, mesi dopo, prese finalmente grazie al tradimento di Merico Ortigia e
Achradina, Neapolis e Tyche, messo al sicuro il tesoro reale, abbandonò Siracusa al
saccheggio della soldataglia. Il bottino fu enorme: si racconta che quando i Romani
conquistarono Cartagine non ne fecero uno altrettanto ricco.
Fu in questo saccheggio che morì Archimede. Un soldato romano (almeno cosí
racconta Livio, XXV.31) che girava per le case saccheggiando, si imbatté in Archime-
de, tanto assorto nello studio di alcune figure geometriche da non essersi nemmeno
accorto di quello che stava succedendo. Non sapendo chi fosse, il legionario l’uccise.
Plutarco (Vita di Marcello, 19) fornisce altre versioni, leggermente diverse: il soldato
si sarebbe avvicinato ad Archimede ordinandogli di seguirlo da Marcello, e Archimede
gli disse di aspettare che avesse risolto il problema: il che fece infuriare il legionario
che l’uccise. Una variante è che il soldato lo minacciò subito di morte, ma Archimede
lo pregò di dargli il tempo di terminare la dimostrazione. Infine, secondo un’altra
versione, Archimede sarebbe stato ucciso mentre si recava da Marcello con una cassa
di strumenti matematici che eccitò l’avidità dei saccheggiatori.
Livio e Plutarco sono concordi nel dire che Marcello fosse assai addolorato dall’in-
crescioso accaduto (avrebbe anzi dato ordine di risparmiare a tutti i costi Archimede);
avrebbe fatto ricercare i parenti di Archimede per proteggerli e provvedere alla sua
sepoltura. Questa è la storia tramandata, che non manca di un suo pathos: il grande
e clemente generale piange sul nemico sconfitto; la triste fine di uno dei piú grandi
geni dell’umanità trucidato da un rozzo e ignorante legionario.
Tuttavia Lorenzo Braccesi si interroga (2008) su quanto sia attendibile la storia
edificante per cui il console vincitore avrebbe voluto mostrare la sua clemenza e la
sua lungimiranza salvando la vita del famoso saggio, e quanto invece non rappresenti
un travestimento di una realtà molto più bieca. Se pensiamo che Archimede fu in
rapporti con Gelone, il re filocartaginese; se pensiamo alle lotte intestine che squas-
sarono Siracusa tra il 215 e il 212; se pensiamo che ad Archimede fu affidata la difesa
della città: beh, allora non si può sfuggire alla conclusione che Archimede fosse uno
dei capi del partito che aveva voluto rompere l’alleanza con i Romani. In questa luce
la fine di Archimede risulta una conseguenza logica di un ordine di Marcello: impar-
tire un monito solenne a tutti coloro che osassero pensare di intralciare la politica di
Roma.
Questa conclusione mi piace molto di più. Una fine eroica, non una fine triste.
Archimede muore insieme alla sua patria.
Ma la sua matematica non morirà. Racconta Cicerone (Tusculanae disputationes
V.64-66) che sulla sua tomba, come egli aveva chiesto, fu posta una sfera inscritta
in un cilindro con inciso il rapporto tra i due solidi; era stata, questa, una delle sue
5. L’ASSEDIO DI SIRACUSA 13

maggiori scoperte matematiche. La tomba di Archimede, che già ai tempi di Cicerone


era stata quasi dimenticata, oggi non esiste piú. Ma la Sfera e il cilindro e tutta la
sua opera matematica hanno continuato a vivere attraverso i secoli.
14 CAPITOLO 1. ARCHIMEDE E IL SUO TEMPO
Capitolo 2

Il corpus archimedeo

Gli storici antichi ci hanno raccontato soprattutto ciò che Archimede fece. Daremo
ora uno sguardo a quello che Archimede scrisse e racconteremo la storia che sta dietro
ai testi che possiamo oggi leggere – in originale o in traduzione.
Cominceremo col descrivere i testi inviati ad Alessandria che, essendo corredati
da una lettera di accompagnamento, possono essere collocati in un ordine cronologico
di pubblicazione. Vale appena di segnalare che per nessuna di queste lettere abbiamo
la risposta dell’interlocutore. Descrivendo l’Arenario accenneremo al complesso pro-
blema della sistemazione cronologica delle sue opere, passando poi a dar conto delle
altre opere pervenute.
Nel terzo paragrafo vedremo quale sia stato il processo che ha portato a formarsi
il corpus attuale a partire dai tempi di Archimede. Passeremo poi a raccontare come
il filologo danese Johan Ludvig Heiberg sia arrivato a costruire la sua edizione critica
degli opera omnia, accennando infine alle prospettive future degli studi archimedei.

1 I testi
1.1 Le opere inviate ad Alessandria
1.1.1 Quadratura della parabola (QP)
È la prima delle cinque opere indirizzate a Dositeo ad Alessandria. Come si è visto,
Archimede si rivolge a lui in quanto amico di Conone, cui in precedenza aveva inviato
altri scritti. Scopo del breve trattato è dimostrare che un segmento di parabola è
uguale ai 4/3 del triangolo avente uguale base e uguale altezza. Il testo è diviso in
due parti: una quadratura “meccanica” (in cui si fa ricorso a concetti di statica) e
una “geometrica”.
Si osservi che, nonostante il titolo Tetragonismos parabolēs, nel testo si utilizza
la terminologia pre-apolloniana delle sezioni coniche e la curva che, da Apollonio in
poi, è detta “parabola”, viene chiamata “sezione di cono rettangolo”.

1.1.2 Sulla sfera e il cilindro I (SC1)


Quest’opera è pervenuta in una redazione tarda, che non solo accoppia insieme due
testi inviati separatamente e in tempi diversi a Dositeo, ma fu anche sottoposta a

15
16 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

Figura 2.1: Il segmento di parabola ABC è uguale ai 4/3 del triangolo inscritto; il
parallelogramma ADEC è quindi una volta e mezzo il segmento.

revisione linguistica: la lingua doricizzante di Archimede fu uniformata tutta alla


lingua comune nel mondo ellenistico e imperiale, la koinè.
Nel cosiddetto “primo libro” Archimede dimostra che la sfera è pari a 2/3 del
cilindro a essa circoscritto e che la superficie sferica è uguale a quella di quattro cerchi
massimi; inoltre mostra che tale superficie – analogamente al volume – è pari ai 2/3
della superficie totale del cilindro circoscritto.
È forse il testo più famoso di Archimede; insieme con la Misura del cerchio è
sicuramente uno dei più letti e studiati. Eutocio di Ascalona, un commentatore
bizantino vissuto all’epoca di Giustiniano (540 ca.) dedicò un importante commento
a questi due testi e all’Equilibrio dei piani.

1.1.3 Sulla sfera e il cilindro II (SC2)


Il “secondo libro” è dedicato a problemi quali dividere una sfera in due segmenti
sferici in modo tale che essi o le loro superfici abbiano tra loro un rapporto dato.
Nella lettera con cui invia il testo a Dositeo, Archimede accenna al fatto che
questi problemi che invia ora a Dositeo li aveva inviati tempo prima a Conone, senza
però la loro soluzione: come vedremo, sembra che lui e Conone avessero concordato
una sorta di “programma di ricerca”, se mi si permette l’evidente anacronismo.

1.1.4 Sulle linee spirali (LS)


Tra l’invio di SC2 ad Alessandria e l’invio delle Spirali passarono forse molti anni.
Infatti la lettera a Dositeo di SC2 sembra continuare a riferirsi a Conone come morto
da non molto tempo, mentre ora si dice esplicitamente che “sono passati molti anni
dalla morte di Conone”.
1. I TESTI 17

Figura 2.2: Il raggio che descrive la spirale è proporzionale all’angolo percorso.

Oltre ai problemi sui segmenti sferici di SC2, Archimede aveva inviato a Conone
un altro tipo di questioni che, come egli stesso dice a Dositeo, erano di tutt’altro
genere e “non avevano niente in comune” con quelli relativi ai solidi: si trattava di
studiare una nuova curva, la spirale. Abbiamo già accennato al fatto che Pappo nella
sua Collezione matematica (libro IV, prop. 30) attribuisce l’invenzione della spirale
a Conone stesso.
Archimede definisce la spirale in modo cinematico: una semiretta che ha l’origine
fissata ruota uniformemente su piano; su di essa si muove di moto uniforme un punto:
la curva descritta da questo punto sarà la spirale.
I risultati più interessanti che dimostra riguardo a questa curva sono due. Il
primo (LS.18) riguarda la tangente: si immagini che la retta ruotante abbia compiuto
una rivoluzione completa, e si prenda la tangente alla spirale in questo punto. Dal
centro di rotazione si tracci la perpendicolare alla retta: il segmento di perpendicolare
compreso tra il centro di rotazione e il punto di intersezione tra la perpendicolare e
la tangente è uguale alla circonferenza del “primo cerchio”, ovvero il cerchio che ha
come raggio il segmento compreso tra il centro di rotazione e il punto di tangenza. Il
secondo risultato stabilisce che la superficie compresa tra la prima rivoluzione della
spirale e la retta ruotante è uguale a 1/3 del primo cerchio (LS.24).
Anche quest’opera esercitò un grande fascino su studiosi del calibro di François
Viète (1540–1603, l’inventore dell’algebra simbolica e della sua applicazione alla geo-
metria) e di Galileo. Oltre che dai risultati ottenuti da Archimede, Galileo era colpito
dalla commistione di argomenti cinematici e geometrici. In effetti le prime due pro-
posizioni delle Spirali trattano appunto del moto uniforme e sono uno dei primissimi
tentativi di costruire un modello matematico per la descrizione del moto. La di-
mostrazione è infatti inquadrata nello schema teorico della teoria delle proporzioni,

Figura 2.3: La lunghezza della circonferenza è pari a quella dell’asse in rosso; l’area in nero
racchiusa dal primo giro della spirale è pari a 1/3 di quella del cerchio.
18 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

applicata qui non a grandezze geometriche, ma a spazi e a tempi. E per Galileo, la


cui ricerca gravitò quasi interamente intorno al problema della costruzione di un tale
modello, l’esempio di Archimede costituì un punto di riferimento fondamentale.

1.1.5 Sui conoidi e sferoidi (CS)


Tra i problemi inviati a Conone molti anni prima ce n’erano anche alcuni che riguar-
davano la figura che detta oggi paraboloide di rivoluzione e che Archimede battezza
come “conoide rettangolo”. Inviando le LS a Dositeo promette di inviare anche i
risultati relativi a questo solido. Qualche tempo dopo (mesi? anni?) invierà invece
un’opera che abbraccia anche il caso dell’ellissoide (“sferoide”) e dell’iperboloide di
rivoluzione (“conoide ottusangolo”), scusandosi per il ritardo nello spedire i risultati
perché, dice, questi teoremi contenevano diffioltà che l’avevano messo in imbarazzo.
Vi viene dimostrato che il rapporto tra il paraboloide di rivoluzione è i 3/2 del
cono avente stessa base e stessa altezza; che un semiellissoide è doppio del cono di
stessa base e stessa altezza e che vale un analogo risultato (ma più complesso da
esprimere) per l’iperboloide.
È da notare che in quest’opera piuttosto tarda, Archimede sembra mostrare un
orientamento alla generalizzazione delle tecniche che utilizza, e sembra concentrarsi
sulle proprietà “topologiche” delle figure che considera. È difficile valutare queste
novità rispetto all’evoluzione del pensiero di Archimede stesso, ma sta di fatto che
dall’impostazione dei Conoidi e sferoidi studiosi del Cinquecento come Francesco
Maurolico (1494-1575) o Luca Valerio (1553-1618) trassero ispirazioni importanti che
avrebbero aperto la strada a una nuova concezione della matematica.

Figura 2.4: L’unghia cilindrica. Si ottiene a partire da un prisma a base quadrata in cui sia
inscritto un cilindro. Prendendo un diametro del cerchio di base parallelo a uno dei lati del
quadrato, si tagli il cilindro con un piano che passi per tale diametro e per uno dei lati del
quadrato sulla faccia superiore del prisma. L’unghia è il solido contenuto dal semicerchio
nella base del cilindro, dalla semiellisse sul piano secante e dalla superficie del cilindro.

1.1.6 Il metodo sui teoremi meccanici (MM)


Si tratta forse dell’ultimo scritto di Archimede; è inviato ad Eratostene, il direttore
della Biblioteca di Alessandria. Johan Ludvig Heiberg rese il titolo in latino come
Archimedis De mechanicis propositionibus ad Eratosthenem methodus.
Archimede rivela in quest’opera l’approccio che seguiva per ottenere i risultati qui
sopra descritti e altri ancora. Numerosi esempi mostrano in che modo avesse utilizzato
1. I TESTI 19

tale approccio nella ricerca di centri di gravità e di rapporti tra figure geometriche,
ottenendo i risultati relativi alla parabola, alla sfera e ai segmenti sferici, ai conoidi
e agli sferoidi.
L’opera è tuttavia mirata allo studio della cosiddetta “unghia cilindrica” (fig.
2.4) e del solido che si ottiene intersecando due cilindri inscritti in un cubo (fig. 2.5).
Il suo ritrovamento in un palinsesto, avvenuto nel 1906, fece un enorme scalpore.

Figura 2.5: La doppia volta. Intersecando perpendicolarmente due cilindri uguali, si ottiene
una doppia volta a crociera. Si osservi che essa può venire scomposta in otto unghie
cilindriche. Una discussione di questi solidi si può trovare in Saito Napolitani 2014.

1.2 Un universo di sabbia


1.2.1 Il problema della cronologia

Quando furono ideate, quando composte e quando inviate ad Alessandria queste


opere? Le lettere e il loro contenuto permettono di stabilire una cronologia relativa
di pubblicazione molto precisa, ma non ci dicono nulla sulla cronologia assoluta,
ovvero in che anni esse furono inviate a Dositeo e a Eratostene.
Ancora meno ci dicono sulla cronologia di invenzione. Tutto quello che sappiamo
è che esse furono ideate e poi prodotte in un lasso di tempo piuttosto lungo, che va
da prima della morte di Conone, fino a molti anni dopo la sua scomparsa. Purtroppo
non è nota la data di morte di Conone; l’unico dato certo è che Conone morì dopo il
245 a.C. dato che in quell’anno “scoprì” in cielo il ricciolo di Berenice.
Quello a cui stiamo accennando è l’annoso problema della cronologia del corpus
archimedeo. Problema di non semplice soluzione. Wilbur Knorr aveva proposto
un’acuta e complessa soluzione in un suo articolo del 1978; articolo che a sua volta fu
poi severamente criticato da Bernard Vitrac con argomenti molto stringenti (1992).
Ci limitiamo qui a segnalare la questione, che ha ormai una storia plurisecolare.
Aggiungendo però che almeno per un’opera di Archimede c’è una qualche indicazione
cronologica: quella dedicata a re Gelone, il figlio di Gerone II associato al regno verso
il 240.
20 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

1.2.2 L’Arenario (AR)

In questa operetta Archimede vuole far vedere che è possibile costruire un sistema
di numerazione in grado di contare numeri grandissimi: come il numero di granelli
di sabbia contenuti in una sfera grande quanto l’intero universo. Per capire meglio
il problema, si tenga presente che i Greci utilizzavano una numerazione basata su
27 lettere dell’alfabeto (24 + tre lettere cadute in disuso). Le prime 9 lettere rap-
presentavano i numeri da 1 a 9, le seconde nove quelli da 10 a 90, le terze da 100 a
900. Con un complicato sistema di apici in alto, in basso e sovrascritture si poteva
poi arrivare a scrivere numeri fino alla “miriade di miriadi” ovvero 10 milioni. Una
tale complicazione poteva indurre a pensare che non fosse possibile contare qualsiasi
quantità, se questa fosse stata veramente grande.
Nonostante il suo carattere curioso, l’Arenario è molto importante per varie
ragioni. In primo luogo è una testimonianza di primissima mano della vicinanza di
Archimede con la casa reale di Siracusa; inoltre permette di datare l’opera a dopo il
240 a.C. In secondo luogo in essa Archimede dà conto del sistema di Aristarco, che
poneva il Sole immobile al centro dell’universo e la Terra e gli altri pianeti in orbita
intorno ad esso; e parla anche di risultati e di metodi di misurazione astronomici in
uso all’epoca (è in questo contesto che Archimede citerebbe suo padre Fidia). Infine,
Archimede segnala a Gelone di aver scritto un’opera sui sistemi di numerazione, opera
che ha inviato a un certo Zeusippo.
La menzione del sistema eliocentrico di Aristarco ebbe ovviamente un peso
notevole quando dopo il 1543 iniziò la discussione sul De revolutionibus di Copernico.

1.3 Le altre opere pervenute


Il corpus archimedeo contiene anche altre tre opere molto importanti, ma di più
difficile collocazione, dato che sono prive di lettera di dedica.

1.3.1 La Misura del cerchio (DC)

Quest’opera consiste di tre sole proposizioni. Nella prima si dimostra che il cerchio è
uguale al triangolo rettangolo avente per cateti il raggio e la circonferenza rettificata.
Nella terza si dimostra che il rapporto tra la circonferenza e il diametro deve essere
compreso tra 3 1071
e 3 17 . La seconda (che logicamente dovrebbe seguire la terza)
asserisce imprecisamente che “Il rapporto di un cerchio al quadrato del diametro è
uguale a quello di 11 a 14”.
Già da questo si vede che il testo della Misura del cerchio ci è pervenuto parti-
colarmente corrotto. Wilbur Knorr nei suoi Textual Studies in Ancient and Medieval
Geometry (1989) considera il testo attuale di DC come un prodotto della scuola ales-
sandrina tra la seconda metà del IV secolo e l’inizio del VI: si tratterebbe in pratica
di un riassunto di rielaborazioni precedenti del genuino testo di Archimede. Correda-
to da un importante commento di Eutocio, DC ebbe un’enorme fortuna nel mondo
arabo e nell’Occidente latino.
1. I TESTI 21

1.3.2 Sull’equilibrio dei piani, in due libri (PE)

Il titolo completo di quest’opera è Sull’equilibrio dei piani ovvero sui centri di gra-
vità dei piani. Nel primo libro viene dedotta la legge della leva: due grandezze si
fanno equilibrio da distanze inversamente proporzionali al loro peso. Inoltre vengono
determinati i centri di gravità di alcune figure piane: parallelogrammo, triangolo,
trapezio. Il secondo è interamente dedicato alla determinazione del centro di gravità
del segmento di parabola. L’opera è pervenuta corredata dal commento di Eutocio.
Mentre il secondo libro appare senz’altro genuinamente archimedeo (lo stile, il
riferimento costante a risultati ottenuti nella QP lo provano), sul primo pesano molti
dubbi.
Len Berggren (1977) ritiene che buona parte di PE.I debba essere considerata
spuria. Il problema è troppo complesso per essere discusso qui approfonditamente;
in ogni caso, si tratta di un testo cui manca qualcosa. Infatti nella proposizione 6 di
QP Archimede fa esplicito riferimento a una serie di teoremi e definizioni riguardanti
i concetti di equilibrio e di centro di gravità dicendo che “queste cose sono state
dimostrate nelle proposizioni meccaniche”: ma tale materiale non si ritrova nel testo
tràdito di PE.
Un’ipotesi plausibile è che il testo che oggi disponibile di PE.I sia una compilazio-
ne, basata forse su un testo mutilo.Che la produzione di Archimede in questo campo
fosse di ben altra portata si ricava non solo dai riferimenti a opere sull’equilibrio che
Archimede fa e da citazioni di autori antichi quali Erone e Pappo, ma dal Metodo in
cui Archimede discute i centri di gravità di figure solide e non solo di figure piane.
La mancanza di una trattazione dei centri di gravità delle figure solide nelle
opere di Archimede che pervennero al Rinascimento fu l’occasione per i matematici
del Cinquecento e del Seicento di dedicarsi alla ricerca della loro determinazione;
studio che diede l’avvio ad approcci che contribuirono alla creazione della meccanica
e della matematica moderne.

1.3.3 Sui galleggianti, in due libri (CF)

Heiberg assegnò a quest’opera il titolo De corporibus fluitantibus. Nel primo libro


viene stabilito il “principio di Archimede”: un corpo immerso in un liquido riceve una
spinta verso l’alto pari al peso del volume di liquido spostato. Su questa base alla
fine del primo libro vengono determinate le condizioni di equilibrio di un segmento
sferico galleggiante, mentre il secondo libro è dedicato allo studio del comportamento
di un paraboloide galleggiante.
Anche i Galleggianti sono un testo problematico. Il primo libro tratta di proble-
mi su scala planetaria, supponendo che le linee secondo cui cadono i gravi siano tutte
dirette verso il centro del mondo; ipotesi questa che mal si concorda con l’uso della
nozione di centro di gravità nelle ultime due proposizioni. Il secondo libro suppone
invece le forze parallele. Inoltre il taglio delle dimostrazioni è profondamente diverso
tra i due libri: il secondo è uno dei testi più complessi di tutta la matematica greca,
mentre le dimostrazioni del primo appaiono meno rigorose e costruite su idee em-
piriche. Anche in questo caso si può forse congetturare che materiali genuinamente
archimedei siano stati assemblati da più tardi compilatori.
22 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

Il testo greco dell’opera è stato ritrovato solo nel 1906 nello stesso palinsesto
contenente il Metodo; fino ad allora l’opera fu conosciuta unicamente grazie alla tra-
duzione eseguita da Guglielmo di Moerbeke nel 1269. Traduzione che, nonostante
gravi limiti, ebbe un’importanza enorme perché permise lo sviluppo di nuove conce-
zioni matematiche e si colloca alle origini della riflessione di Galileo nel campo della
filosofia naturale.

1.4 Frammenti e opere perdute o di dubbia attribuzione


1.4.1 Lo Stomachion (ST)

Nell’Antichità ebbe molta fortuna un gioco, detto loculus archimedeius o “stoma-


chion” perché procurava il mal di stomaco ai giocatori che volevano usare le sue
tessere per ricomporre figure di elefanti, uccelli ecc.: una sorta di tangram a 14 pezzi.
Le testimonianze classiche su questo gioco sono raccolte e discusse attentamente in un
articolo di Giuseppe Morelli (2009); esse lo collegano esplicitamente con il matematico
di Siracusa.
Tuttavia, fino al 1906, l’unico testo disponibile attribuito ad Archimede che aves-
se a che fare con lo stomachion era un breve scritto in arabo, pubblicato da Heinrich
Suter nel 1899; secondo l’autore arabo lo scopo del trattato archimedeo sarebbe stato
quello di dividere un quadrato in 14 pezzi poligonali tutti commensurabili tra loro.
La scoperta del palinsesto nel 1906 fece emergere un nuovo frammento: l’inizio di
un libro intitolato ΑΡΧΙΜΕΔΟΥΣ ΣΤΟΜΑΧ***, contenente accenni al gioco e una
proposizione di carattere geometrico.

1.4.2 Il Problema dei buoi (PB)

Nel 1773 l’illuminista tedesco Gotthold Ephraim Lessing scoprì un manoscritto greco
che conteneva tra le altre cose un poemetto intitolato “Problema trovato da Archime-
de e inviato sotto forma di epigramma in una lettera a Eratostene di Cirene per coloro
che ad Alessandria studiavano cose di questo genere”. Lessing stesso sollevò dubbi
sulla possibilità che il testo fosse da attribuire ad Archimede; Heiberg l’accolse nella
sua edizione critica, non senza qualche riserva, sulla base di uno scolio al Carmide di
Platone, di una citazione di Erone e di una (probabile) citazione di Cicerone.
L’operetta sfida i matematici del tempo a risolvere un problema di aritmetica:
contare il numero dei buoi – tori e giovenche; bianchi, pezzati, neri e fulvi – che il dio
Sole pascolava nella Trinacria, note certe relazioni tra i numeri dei buoi di ogni singolo
colore. Si tratta di un problema di analisi diofantea che nella sua formulazione più
semplice e più aderente al testo tràdito ha come più piccola soluzione intera positiva
una ottupla di numeri, per un totale di una cinquantina di milioni di capi di bestiame
(50.389.082, per la precisione).
L’epigramma introduce poi condizioni aggiuntive e ciò conduce a un’equazione
del tipo x2 − ky 2 = 1 le cui soluzioni sono numeri decisamente mostruosi, con più
di duecentomila cifre e che è stata risolta da August Amthor solo alla fine del XIX
secolo.
1. I TESTI 23

Non è noto se Archimede potesse essere pervenuto alla soluzione o se si trattasse


di una sorta di presa in giro degli interlocutori alessandrini cui si rivolge. Nell’era dei
computer, il dibattito è aperto!

1.4.3 Libro dei lemmi (LL)


.
Questo testo è pervenuto solo attraverso una parafrasi araba; ammesso comun-
que che possa essere attribuito ad Archimede, tratta di figure come l’ “arbelon” o il
“salinon” ottenibili per mezzo di intersezioni di cerchi.

Figura 2.6: Un arbelo. La superficie in verde risulta uguale a quella del cerchio avente
diametro CD.

In Occidente vide la luce nel 1657, tradotto dall’arabo in latino da John Graeves
e rivisto da Samuel Forster (Londra, 1657). Una seconda traduzione uscirà nel 1661
a Firenze, curata dal galileiano Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) e dal maronita
Abramo Ecchellense (1605-1664), insieme con la traduzione latina di una parafrasi
araba dei libri 5-7 delle Coniche di Apollonio, anch’essi perduti nell’originale greco.

1.4.4 I testi perduti


Il corpus oggi disponibile è sicuramente incompleto. L’Equilibrio dei piani sembra
essere un estratto di un’opera assai più ampia riguardante la meccanica, l’equilibrio
e i centri di gravità; Archimede stesso si riferisce più volte a un’opera che chiama
“Equilibri” o “Elementi di meccanica”, citandola in modo tale da escludere che si stia
riferendo al testo di PE di cui oggi disponiamo.
Allo stesso modo è certo che dovesse aver composto un’opera riguardante i centri
di gravità dei solidi (PE tratta solo di centri di gravità di figure piane): nel Metodo
infatti descrive come era arrivato a determinare il centro di gravità del paraboloide, del
semiellissoide e dell’iperboloide, oltre a elencare una serie di risultati relativi al centro
di gravità del cilindro e del cono. Il risultato sul centro di gravità del paraboloide è
poi citato e utilizzato esplicitamente in più passi del secondo libro dei Galleggianti.
Nell’Arenario, inoltre, si fa riferimento a un’opera sui grandi numeri inviata a
un certo Zeusippo, il cui contenuto, presumibilmente, corrispondeva almeno in parte
a quello dell’Arenario stesso.
24 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

Oltre a queste, gli autori antichi attribuiscono ad Archimede varie opere. Erone
e Pappo citano suoi lavori sui poliedri semiregolari; Pappo parla di un trattato Sulla
bilancia; varie testimonianze gli attribuiscono lavori di ottica e sulla costruzione di
planetari e di orologi ad acqua.
Gli autori arabi, infine, segnalano una serie di testi di geometria piana, in parti-
colare una sulla costruzione dell’ettagono regolare e sui cerchi mutuamente tangenti.

2 La tradizione
Tradizione, nel linguaggio corrente, significa la trasmissione del patrimonio culturale
delle generazioni passate (non senza qualche sfumatura: le tradizioni “folkloristiche”
o quelle “familiari”). Tradizioni anche bizzarre, curiose: baciarsi sotto il vischio,
mangiare il panettone a Natale, tirare le orecchie a qualcuno quando compie gli
anni...
Più austero è il concetto di tradizione in filologia: con traditio si intendono le
modalità con cui l’opera di un autore è giunta fino a noi. Si tratta cioè del processo
che trasmette il testo, che si incarna di volta in volta nei suoi testimoni, ovvero i
manoscritti e le stampe che lo tramandano.
Descriveremo ora la traditio dei testi archimedei, il processo che ha portato alla
formazione del corpus che possiamo oggi studiare. Ma avvertiamo subito che dovremo
poi fare i conti anche con l’altra accezione del termine, perché la storia, le leggende
e gli aneddoti intorno alla sua figura hanno condizionato – e non poco – anche la
trasmissione e lo studio dei suoi testi.

2.1 Nel mondo antico


Le opere di Archimede vennero studiate ad Alessandria: oltre ai riscontri che ci
offre la sua corrispondenza con i matematici alessandrini, sappiamo ad esempio che
Apollonio aveva ripreso i suoi studi sulla determinazione di un valore approssimato
del rapporto tra circonferenza e diametro. Ciò nonostante il processo di dispersione
e di mutilazione del corpus dei suoi scritti iniziò ben presto. Alle cause accidentali
bisogna aggiungerne subito un’altra: gli scritti di Archimede erano assai difficili e
specialistici e, probabilmente, andavano ben al di là degli interessi di ricerca dei
matematici ellenistici del III secolo, che sembrano concentrati più sulla geometria
delle coniche e delle curve che sui temi cari ad Archimede
Vale la pena di sottolineare questo punto. Archimede non aveva fondato niente
che possa anche vagamente somigliare a una “teoria dell’integrazione”: aveva sempli-
cemente misurato quasi tutti gli oggetti che potevano essere misurati con gli strumenti
del calcolo delle proporzioni. Ne aveva addirittura inventato di nuovi: le spirali, le
unghie cilindriche, le intersezioni di cilindri e forse anche gli stessi conoidi e sferoidi.
Ma la sua opera non aveva posto nessun problema che potesse alimentare veramente
la ricerca successiva. Con una genialità difficilmente uguagliabile aveva posto e risolto
problemi che chiudevano la ricerca piuttosto che aprirle nuove strade.
Ne è una prova il fatto che nella Collezione matematica di Pappo non si trova-
no significativi cambiamenti rispetto ai problemi che avevano occupato Archimede
quasi sette secoli prima: il risultato di maggior rilievo è il cosiddetto teorema di
2. LA TRADIZIONE 25

Pappo-Guldin che collega i centri di gravità di una figura piana al volume del soli-
do di rotazione che essa genera. Un teorema importante, generalizzatore, certo: ma
che al tempo stesso è indice di come la matematica di stampo archimedeo avesse
sostanzialmente segnato il passo per più di settecento anni.
Le parti più difficili della sua opera non furono dunque molto lette, né svilup-
pate.Le opere di carattere più fondamentale quali la Sfera e il cilindro, la Misura del
cerchio, il primo libro dell’Equilibrio dei piani subirono un processo parallelo di tra-
sformazione e di mutilazione. Per esempio, già nel II sec. a.C., Dione e Dionisodoro
non disponevano più di una dimostrazione che Archimede asserisce di aver scritto alla
fine della proposizione 4 di SC2. Eutocio attesta che questa dimostrazione mancava
da tutti gli esemplari di SC da lui consultati; solo dopo lunghe ricerche si era imbattu-
to in un frammento ormai poco leggibile, ma scritto in dialetto dorico (quello parlato
a Siracusa e in cui Archimede compose le sue opere), che gli sembrava attribuibile ad
Archimede.
È questa una conferma che gli aspetti più ardui della sua opera tendevano a essere
espunti o quantomeno trascurati. Inoltre le opere che abbiamo qui sopra citato furono
spesso trasfigurate a scopi divulgativi. DC e SC furono tradotte in koinè; il testo che
oggi possediamo di DC è fuor di dubbio un frammento (o forse un estratto per uso
scolastico) di un’opera che ai tempi di Eutocio non esisteva già più. Considerare
il primo libro di PE come un’opera completamente genuina non regge alle critiche
interne ed esterne che vari studiosi hanno sollevato.
Dopo Pappo, e con la decadenza generale del mondo antico, la conoscenza dei
testi di Archimede sembra fosse circoscritta a poche opere, probabilmente solo a
SC 1 & 2, DC e PE e che esse circolassero in versioni ormai fortemente adulterate.
All’inizio del VI secolo Eutocio le commentava usando un testo che non sembra si
scostasse molto da quello di cui disponiamo oggi; ma dalle sue parole risulta che era
inconsapevole del fatto che Archimede avesse scritto la Quadratura della parabola (e
con ogni probabilità gli erano ignote anche le Spirali).
Il lavoro di Eutocio fu letto e studiato da Antemio di Tralles (morto nel 534)
e da Isidoro di Mileto, entrambi architetti impegnati nei lavori di ricostruzione di
Santa Sofia a Costantinopoli. Isidoro incoraggiò lo studio dei trattati commentati da
Eutocio nella sua scuola, salvando così quanto rimaneva in circolazione alla fine del
mondo antico dell’opera di Archimede.

2.2 La tradizione arabo-latina


2.2.1 Archimede nel Medioevo: arabi e latini

Verso la fine del VI secolo, alla vigilia della conquista araba della Siria e dell’Egitto
(633-642), la diffusione dei testi archimedei nel mondo bizantino sembra dunque li-
mitata essenzialmente ai trattati Sulla sfera e il cilindro, Sull’equilibrio dei piani e
Misura del cerchio.
Di conseguenza i matematici arabi conobbero solo queste opere oltre a frammenti
dei Galleggianti. Nonostante questo, svilupparono una loro, originale matematica
archimedea. In particolare, nel IX secolo, i tre fratelli Muhammad, Ahamad e al-
Hasan, noti come i Banū Mūsā (ovvero i figli di Mūsā ibn Shākir), scrissero un testo
26 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

che riprendeva molti dei temi archimedei legati alla Sfera e il cilindro, che ebbe poi
una larga diffusione nell’Occidente latino.
È inoltre grazie alla matematica araba se ci sono pervenuti frammenti e notizie di
opere archimedee perdute nell’originale greco, quali un frammento dello Stomachion
(che integra il breve frustulo noto per tradizione diretta), il Libro dei lemmi, un libro
sui Cerchi mutuamente tangenti, un testo sulla costruzione dell’ettagono regolare e
altri.
Fino al XIII secolo in Occidente si conoscono ben poche opere di Archimede
o di ispirazione archimedea. In pratica, l’unico testo di Archimede che circolò nel
Medioevo fu la Misura del cerchio, nella traduzione eseguita nel XII secolo dal grande
Gerardo da Cremona (1147–1187). Tra le tantissime opere che tradusse dall’arabo
(oltre settanta) bisogna contare quella dei Banū Mūsā che circolò con il titolo Verba
filiorum (Le parole dei figli [di Mosé]) o Liber trium fratrum (Libro dei tre fratelli).
Sempre di ispirazione araba sono altri due testi: il Liber de curvis superficiebus
(Libro sulle superficie curve), in cui si offre una dimostrazione del volume e della
superficie della sfera ispirata a quella dei Verba filiorum ed essenzialmente diversa da
quella originale, e il Liber Archimenedis de ponderibus (Libro di Archimenide sui pesi),
dedicato alla determinazione del rapporto tra due sostanze costituenti un composto.
In questo periodo lo stesso nome “Archimede” sembra quasi dimenticato: i tra-
duttori e i compilatori medievali lo storpiano in forme derivate dall’arabo quali “Er-
semides” o “Arsamithes”. La figura del matematico di Siracusa si intravede appena
dietro le nebbie di leggende ormai lontane.

2.3 AB C
2.3.1 I Bizantini e la costituzione del corpus archimedeo
Verso la metà del IX secolo il mondo bizantino conosce una sorta di Rinascimento.
Con Basilio I nell’811 si insedia la nuova dinastia macedone, che farà uscire l’impero
da una crisi durata decenni e decenni, dovuta all’espansionismo arabo, alle invasioni
barbariche di Slavi e Bulgari nei Balcani, alle laceranti lotte intestine connesse con
la questione del culto delle immagini. Costantinopoli conoscerà un nuovo apogeo e
il IX secolo sarà un periodo di rinnovamento artistico e letterario. Vengono prodotti
manoscritti di pregio abbandonando la scrittura maiuscola e creando la “minuscola
libraria”, utilizzata per copiare le opere dell’Antichità. Durante i regni di Teofilo
(829–842) e di Michele III (842–867) viene riorganizzato l’insegnamento superiore e
istituite le cattedre di filosofia, geometria, astronomia, grammatica.
Questo periodo di rinascita intellettuale è legato al nome di Leone il Matematico
(detto anche il Filosofo, 790 – 869 ca.), riorganizzatore della Scuola di filosofia di
Costantinopoli. Fu per suo impulso se tra il IX e il X secolo vennero copiati almeno
tre codici – designati oggi con i sigla A, B e C – che contenevano tutte le opere
del corpus archimedeo oggi note. I codici A e B sarebbero divenuti la fonte della
diffusione di Archimede nell’Occidente latino.
Il codice C, invece, conobbe una storia molto diversa: il testo archimedeo fu
infatti cancellato e la pergamena fu nuovamente impiegata per trascrivere testi reli-
giosi. Il codice divenne cioè un “palinsesto” e rimase sepolto nella biblioteca di un
convento fin quando nel 1906 Heiberg riuscì a leggerne la scriptio inferior, ovvero il
2. LA TRADIZIONE 27

testo archimedeo che era stato cancellato nell’XI secolo. Questo manoscritto conte-
neva, tra l’altro, un’opera del tutto sconosciuta, quella oggi nota con il titolo Metodo
sui teoremi meccanici.
I tre capostipiti non contenevano tutti e tre le stesse opere, né le presentavano nello
stesso ordine (anche se, come ora si vedrà, l’ordine e il preciso contenuto di B sono
difficili da determinare). Ciò mostra che nel IX secolo non si era ancora costituito un
unico corpus di testi archimedei. Leone il Matematico e i suoi continuatori lavorarono
con tutta probabilità su materiali fino ad allora dispersi.

2.3.2 Guglielmo di Moerbeke e la corte di Viterbo

Guglielmo di Moerbeke (1215 ca.–1286), risiedette a lungo presso la corte papale di


Viterbo. Con la battaglia di Benevento (1266) il papato aveva finalmente stabilito la
sua supremazia sull’Impero e la corte di Viterbo era divenuta il vero faro culturale
dell’Occidente. Si trattava di un ambiente scientifico molto ricco, dove intorno alla
metà del Duecento soggiornarono – tra gli altri – il domenicano polacco Witelo, autore
di una summa di ottica, e Giovanni Campano da Novara, a cui si deve un’importante
edizione degli Elementi di Euclide.
Guglielmo era un frate domenicano che aveva soggiornato nell’oriente bizantino,
che stava allora attraversando una delle sue più gravi crisi. Nel 1204 gli eserciti
della quarta crociata avevano assediato e conquistato Costantinopoli, fondando un
impero latino in Grecia. Si era però ricostituito uno stato bizantino a Nicea in
Asia minore, da cui sarebbe partita la riscossa greca; nel 1261 l’imperatore Michele
VIII Paleologo riusciva a riconquistare Costantinopoli. In mezzo a questi torbidi,
Guglielmo aveva trovato però la sua vocazione di ricercatore di codici e traduttore:
le sue prime traduzioni furono eseguite a Tebe e a Nicea, nel 1260. Guglielmo fu un
grande traduttore: tradusse o rivide traduzioni già esistenti di opere di Aristotele
e di altri filosofi o scienziati greci, spesso mai tradotte in latino precedentemente.
Un’opera immensa, che si aggira intorno ai quaranta o cinquanta titoli.
Di ritorno in Occidente (forse verso il 1266), Moerbeke divenne cappellano e
penitenziario di papa Clemente IV. Nel 1269 Guglielmo tradusse, utilizzando i codici
A e B, quasi tutto il corpus archimedeo oggi conosciuto (le eccezioni più notevoli sono
l’Arenario, il Metodo e il commento di Eutocio alla Misura del cerchio).
È quasi certo che la traduzione archimedea di Guglielmo fosse nota e studiata
nei circoli scientifici della corte di Viterbo; tuttavia la difficoltà intrinseca delle di-
mostrazioni, lo stato delle conoscenze, le drammatiche vicende dell’epoca (la peste
nera, la Guerra dei Cent’anni, il trasferimento ad Avignone della sede papale) ne
limitarono la diffusione. Gli studi di Marshall Clagett (1964-84) hanno dimostrato
che la traduzione di Guglielmo rimase sostanzialmente lettera morta fino alla fine del
secolo XV.
Il testo dei due libri dei Galleggianti era contenuto solo nel codice B, che pare
andasse perduto non molto dopo il 1311. Di conseguenza, fino alla riscoperta del
codice C nel 1906 (in cui fortunatamente era contenuto anche il testo greco di que-
st’opera), la conoscenza dei Galleggianti rimase affidata unicamente alla traduzione
di Moerbeke.
28 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

2.4 Archimede nelle corti umanistiche


2.4.1 La traduzione di Iacopo da San Cassiano

Con l’Umanesimo si torna a cercare Archimede, in un contesto di studi e di ricerche


che puntano alla ricostruzione del mondo classico visto come un modello insuperato
di civiltà e di sapere.
Nel 1447 l’umanista Tommaso Parentucelli diviene papa Niccolò V; sarà il crea-
tore della biblioteca Vaticana. Voleva che divenisse la più grande e ricca della Cristia-
nità: sotto il suo regno il numero dei manoscritti conservati presso la corte pontificia
passò da 340 a 1209, di cui 414 in greco. Niccolò V era anche fortemente interessato
alla traduzione di opere greche in latino e non solo di testi storici, letterari, filoso-
fici, ma anche di testi scientifici. Insistette molto con Giorgio Trapezunzio perché
traducesse dal greco l’Almagesto di Tolomeo (ne esisteva una traduzione dall’arabo
eseguita da Gerardo da Cremona) e fece tradurre a Teodoro Gaza opere scientifiche
di Aristotele.
Nel contesto delle traduzioni promosse da papa Niccolò V si colloca la nuova tra-
duzione del corpus archimedeo eseguita da Iacopo da San Cassiano (1410 ca.–1454):
con l’eccezione dei Galleggianti (e ovviamente del Metodo); essa contiene tutte le ope-
re di Archimede tràdite in greco insieme ai commenti di Eutocio. Umanista formatosi
alla scuola di Vittorino da Feltre, Iacopo aveva studiato all’università di Pavia e nel
1446 era succeduto a Vittorino come direttore della “Giocosa”, la scuola umanistica
fondata dai marchesi di Mantova, uno dei centri più importanti di formazione delle
élites politiche e intellettuali del primo Quattrocento.
Nel 1451 Iacopo si trasferì a Roma, dove già all’inizio del 1452 gli era stata affida-
ta la mathematica provincia, ovvero l’incarico di occuparsi delle traduzioni matema-
tiche. Tra le altre cose dovette rivedere la traduzione e il commento che Trapezunzio
aveva fatto dell’Almagesto: le critiche da lui rivolte al lavoro del collega sollevarono
una polemica furibonda che durò a lungo. Certo godeva della stima del papa, che gli
affidò anche la traduzione di parte della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo.
Non si sa con precisione se la traduzione archimedea fosse eseguita a Roma o
se Iacopo l’avesse preparata nei suoi anni mantovani; studi recenti (d’Alessandro &
Napolitani 2012) hanno tuttavia permesso di dimostrare che Iacopo utilizzò per la
sua traduzione un manoscritto greco diverso dal codice A e di individuare l’autografo
della sua traduzione che è anche il capostipite di quasi tutte le successive copie,
rifacimenti ed edizioni.

2.4.2 Bessarione e Regiomontano

Una delle figure più importanti dell’Umanesimo è il cardinale Bessarione (1403-1472).


Prelato della Chiesa ortodossa, poi cardinale della Chiesa cattolica, riunì intorno a
sé un circolo di studiosi che si dedicavano alla traduzione e al ricupero della cultura
greca. Nunzio apostolico a Vienna nel 1460–61, fece conoscenza con l’umanista e
matematico Georg Peurbach e con il suo giovane allievo Johannes Müller, detto il
Regiomontano (1436–1476). Questi seguì Bessarione in Italia, sviluppando la sua
conoscenza del greco e mettendo a frutto le sue elevate competenze matematiche.
2. LA TRADIZIONE 29

Bessarione da tempo si interessava ad Archimede, ed era venuto in possesso di


una copia della traduzione archimedea di Iacopo da San Cassiano e anche di una
copia del codice A: questi due manoscritti si trovano oggi alla Biblioteca Marciana di
Venezia. Li mise a disposizione di Regiomontano, il quale rivide a fondo la traduzio-
ne di Iacopo che era in molti punti manchevole se non decisamente erronea. Conscio
dell’importanza del nuovo strumento della stampa, Regiomontano nel 1472 impiantò
una tipografia a Norimberga: intendeva pubblicare non solo i testi di Archimede, in-
sieme a quelli di Apollonio, Tolomeo, Euclide, Teodosio, ma anche sue opere originali
quali il De triangulis, il primo testo organico di trigonometria. Purtroppo il suo pro-
gramma si realizzò soltanto parzialmente: Regiomontano morì infatti precocemente
a Roma nel 1476, lasciando inedita la sua revisione della traduzione di Iacopo.

2.5 Il Cinquecento e la rinascita di Archimede


2.5.1 Giorgio Valla e la fine del codice A

Nel corso del Quattrocento il codice A era pervenuto nelle mani dell’umanista Giorgio
Valla (1447-1500). Questi, grande collezionista di manoscritti greci, matematici in
particolare, aveva intenzione di utilizzarli per la compilazione di una grande enciclo-
pedia che sarebbe però stata pubblicata solo postuma e solo parzialmente compiuta:
il De expetendis et fugiendis rebus opus (Sulle cose da ricercare e da fuggire, Venezia,
1501). Anche se appare un testo piuttosto frammentario, ebbe comunque un’impor-
tanza notevole: tra l’altre cose vi si trovano pubblicati per la prima volta alcuni brani
del commento di Eutocio ad Archimede.
La biblioteca di Valla aveva attirato l’interesse di molti, tra cui quello di Polizia-
no. Questi, su incarico di Lorenzo il Magnifico, fece copiare il codice A ordinando al
copista di imitare quanto meglio poteva il modo di scrivere e la mise en page del ve-
tusto esemplare del IX secolo: la copia è oggi conservata nella Biblioteca Laurenziana
di Firenze.
Dopo la morte di Valla, la sua biblioteca fu acquisita dal conte Alberto Pio di
Carpi ed ereditata poi dal nipote di questi, il cardinale Rodolfo Pio. Le ultime notizie
sul codice A risalgono alla morte di Rodolfo (1564: a esso si fa cenno nell’inventario
dei beni del Cardinale); dopo di allora non se ne sono sin qui più avute notizie. For-
tunatamente, nel corso del Cinquecento il codice A era stato copiato almeno altre due
volte: sulla base di queste tre copie e su quella appartenuta a Bessarione, Heiberg ha
fondato il suo lavoro di edizione critica del testo archimedeo, riuscendo dal confronto
tra questi testimoni a ricostruire il testo del loro capostipite comune.

2.5.2 Valla, Gaurico e Tartaglia

Nel corso del Cinquecento uscirono varie edizioni di testi di Archimede:

- nel 1501 esce a Venezia il De expetendis di Valla, in cui sono contenuti alcuni
frammenti del commento di Eutocio alla Sfera e il cilindro e all’Equilibrio dei
piani;
30 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

- nel 1503, Luca Gaurico pubblica a Venezia il Tetragonismus idest circuli qua-
dratura , in cui è contenuto il testo della Misura del cerchio e della Quadratura
della parabola nella traduzione di Gugliemo di Moerbeke;

- nel 1543, sempre a Venezia, Tartaglia fa uscire gli Opera Archimedis Syracu-
sani philosophi et mathematici ingeniosissimi: si tratta del testo latino di Gu-
glielmo di Moerbeke della Misura del cerchio, della Quadratura della parabola,
dell’Equilibrio dei piani e del primo libro dei Galleggianti.
Nel caso di Valla si tratta di brevissimi frammenti; i testi di Gaurico e di Tartaglia
sono pieni di errori. Ma si tratta comunque di edizioni che ebbero molta importanza
sullo sviluppo degli studi archimedei.

2.5.3 L’editio princeps: Basilea 1544


Regiomontano non aveva potuto portare a termine il suo programma editoriale, ma
le sue fatiche su Archimede non risultarono vane: nel 1544 Thomas Gechauff, detto
Venatorius, pubblica a Basilea l’editio princeps greca di tutti i testi di Archimede oggi
noti, con la sola eccezione dei Galleggianti e del Metodo; l’edizione è accompagnata dai
commenti di Eutocio e dalla traduzione latina (rivista e corretta da Regiomontano)
eseguita circa un secolo prima da Iacopo da San Cassiano.
Ora chiunque poteva studiare quasi tutte le opere disponibili di Archimede riu-
nite in un solo volume greco-latino e accompagnate dai commenti di Eutocio. Questa
edizione costituirà il punto di partenza della ricerca matematica e filologica successiva.

2.5.4 Le traduzioni latine di Commandino (1558 e 1565)


Restava l’eccezione dei Galleggianti, di cui si conosceva solo la traduzione di Gugliel-
mo di Moerbeke, pubblicata solo parzialmente da Tartaglia nel 1543.
Questa situazione indusse il cardinale bibliotecario della Biblioteca Vaticana a
chiedere a Federico Commandino (1509–1575) di mettere a frutto le sue conoscenze
matematiche per emendare il testo assai manchevole di Guglielmo.
Commandino era allora al servizio della famiglia Farnese; sfruttando la loro pro-
tezione, poté consultare il codice della biblioteca Marciana appartenuto a Bessarione,
copia diretta del codice A, e confrontarlo con l’edizione di Basilea. Risultato di que-
sti primi studi sono gli Archimedis Opera nonnulla (Venezia, 1558). Si tratta di una
nuova traduzione latina della Misura del cerchio, delle Spirali, della Quadratura della
parabola, dei Conoidi e sferoidi e dell’Arenario. Si può valutare l’eccellenza del la-
voro di Commandino pensando che la sua è la prima versione del testo della Misura
del cerchio in cui i complessi calcoli che Archimede esegue per la determinazione del
rapporto tra circonferenza e diametro sono tutti corretti.
Grazie a questi studi, Commandino padroneggiava ormai la matematica archi-
medea. Nel 1565 esce a Bologna la sua revisione della traduzione di Gugliemo di
Moerbeke dei Galleggianti, con il titolo De iis quae vehuntur in aqua libri duo. Que-
sta pubblicazione diventerà la base dei successivi studi di idrostatica, in particolare di
quelli galileiani. Insieme a essa pubblicava anche il Liber de centro gravitatis solido-
rum, uno dei primi tentativi di ricostruire le ricerche archimedee sui centri di gravità
dei solidi.
3. ARCHIMEDE E LA FILOLOGIA CLASSICA 31

2.6 L’età della rivoluzione scientifica


Nel XVII secolo l’impetuoso sviluppo della matematica mise in ombra l’opera di
Archimede. Viene pubblicato un gran numero di edizioni – più o meno complete,
alcune delle quali recanti anche il testo greco di opere archimedee – che puntano
piuttosto alla divulgazione dei risultati che al rigore filologico.
Forse la più importante edizione seicentesca delle opere di Archimede fu quella di
David Rivault (1511-1616), precettore del re di Francia Luigi XIII. Negli Archimedis
opera quae extant, novis demonstrationibus commentariisque illustrata, pubblicati a
Parigi nel 1615, viene dato il testo greco solo per gli enunciati delle proposizioni,
mentre le dimostrazioni sono in latino, per di più rimaneggiate da Rivault. La tra-
duzione era basata sull’edizione di Basilea con il saltuario uso di un codice greco
conservato nella biblioteca reale. Heiberg la giudicò pessima: Rivault a suo avvi-
so era ignorantissimo in greco e avrebbe potuto risparmiarsi la maggior parte delle
correzioni proposte. Ciò nonostante quest’opera fu alla base, grazie anche alla sua
bellezza tipografica, della conoscenza di Archimede nel XVII secolo: fu l’edizione che
lesse e studiò Cartesio, e fu alla base dell’edizione tedesca (1670, una delle primissime
in volgare) di Johann Christoph Sturm (1635-1703).
Molto significativa dello spirito del Seicento è l’edizione curata da Isaac Barrow
(1630-1677), Archimedis opera methodo novo illustrata (Londra 1675), in cui i ragio-
namenti archimedei vengono riassunti ed esposti con le nuove tecniche algebriche. Un
procedimento che, se rendeva il contenuto dell’opera di Archimede più consono allo
sviluppo della matematica del tempo, oscurava completamente lo stile e il contesto
di quella genuinamente archimedea. L’anno dopo usciva a Oxford l’edizione della
Misura del cerchio e dell’Arenario curata da John Wallis (1616-1703) uno dei prota-
gonisti –insieme con Barrow – della matematica inglese di quegli anni da cui sarebbe
uscito Newton. A differenza del lavoro di Barrow, quello di Wallis (che pure era un
matematico tutt’altro che ligio alle tecniche classiche dei Greci) si contraddistingue
per il rigore filologico.

3 Archimede e la filologia classica


3.1 Un nuovo interesse per la matematica classica
Bisogna però attendere l’opera di Giuseppe Torelli (1721-1781) perché si cominci a
impostare seriamente il problema di un’edizione filologicamente corretta delle opere
di Archimede.
Nel 1792 uscivano postumi a Oxford, per cura di Abraham Robertson, gli Archi-
medis quae supersunt omnia, cum Eutocii Ascalonitae commentariis, ex recensione
Josephii Torelli Veronensi cum nova versione latina (accedunt versiones variantes ex
codd. Mediceo et Parisiensibus): “un’opera tipograficamente splendida” (A. Frajese).
Ma al di là dello splendore tipografico, Torelli si era posto il problema di fornire
un testo corretto e aveva collazionato il testo greco dell’edizione di Basilea con quello
di alcuni manoscritti greci. Aveva inoltre condotto un’attenta discussione dell’ordine
cronologico da assegnare alle opere archimedee e forniva una nuova traduzione latina
32 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

che teneva conto del lavoro, ormai imponente, che sull’opera di Archimede si era
venuto accumulando nel corso di tre secoli.
Il lavoro di Torelli servì di base a François Peyrard (1759-1822) per la sua tradu-
zione francese delle opere di Archimede, dedicata a Napoleone e pubblicata nel 1807
con l’approvazione entusiasta di Lagrange e Delambre, due dei più importanti mate-
matici del tempo. Peyrard è famoso per aver identificato il “codice P” come il più
antico codice della tradizione euclidea: si tratta di un manoscritto degli Elementi che
Napoleone aveva sottratto alla Biblioteca Vaticana. Su di esso lo studioso francese
condusse la sua traduzione francese dell’opera di Euclide. Sollecitato dai suoi amici
matematici, si era poi dedicato ad Archimede e aveva messo mano a una traduzione
delle opere complete di Euclide e delle Coniche di Apollonio, traduzione questa che
sarebbe però rimasta inedita.
Tutto cià testimonia il risveglio dell’interesse verso il rigore dei metodi della
matematica classica, alla vigilia delle grandi riforme che matematici come Augustin-
Louis Cauchy (1789-1857), Peter Gustav Lejeune-Dirichlet (1805-1859) o Bernhard
Bolzano (1781-1848) avrebbero introdotto nell’analisi. Un analogo discorso si po-
trebbe fare per il risveglio di interesse nei confronti della matematica apolloniana
che avrebbe portato, sempre nei primi decenni del XIX secolo, alla creazione della
geometria proiettiva: uno dei protagonisti di queste ricerche, Michel Chasles (1793-
1880), pubblicherà nel 1837 l’Aperçu historique sur l’origine et le développement des
méthodes en géométrie (Esposizione storica sull’origine e lo sviluppo dei metodi in
geometria) in cui riconosceva esplicitamente i lavori di Apollonio e Pappo come sua
fonte di ispirazione.
Il parallelo svilupparsi della filologia classica, in particolare tedesca, convergeva
verso la meta di ottenere finalmente edizioni rigorose dei testi di quella che veniva
sempre di più vista come l’immediato antecedente della matematica militante.

3.2 L’edizione di Heiberg


3.2.1 La prima edizione del corpus (1880–81)
Tra il 1876 e il 1878 vedono la luce i tre volumi della Collezione matematica di Pappo
a cura di Friedrich Hultsch (1833–1906). Questa pubblicazione inaugura la stagione
delle grandi edizioni critiche che nel giro di una cinquantina d’anni avrebbe reso
disponibile tutto il corpus della matematica greca.
Protagonista assoluto di questa stagione fu Johan Ludvig Heiberg (1854–1928).
Nel 1879, giovane filologo appena venticinquenne, sosteneva la sua tesi dottora-
le, intitolata Quaestiones Archimedeae. Accompagnava la tesi una nuova edizione
dell’Arenario, condotta sulla base del manoscritto della Laurenziana di Firenze che
Poliziano aveva fatto copiare dall’esemplare risalente al IX secolo appartenuto a Gior-
gio Valla. Poco dopo (1880-81) pubblicava in tre volumi, l’edizione del corpus archi-
medeo allora conosciuto: Archimedis Opera omnia cum commentariis Eutocii. E
codice florentino recensuit, latine vertit notisque illustravit J. L. Heiberg.
Heiberg aveva collazionato tutti i codici più importanti, individuando i quat-
tro che devono essere considerati copie dirette del codice di Valla. Era solo l’inizio
di un’attività che desta ammirazione e stupore: nell’arco di pochi decenni Heiberg
avrebbe preparato edizioni di Apollonio, Euclide, Sereno, Tolomeo, Erone. A distan-
3. ARCHIMEDE E LA FILOLOGIA CLASSICA 33

za di più di un secolo, il suo lavoro è ancora il punto di riferimento obbligato per chi
voglia intraprendere lo studio della matematica greca.

3.2.2 Nuove scoperte: Guglielmo e il palinsesto


L’edizione di Heiberg di Archimede era destinata a conoscere una rapida evoluzione.
Già nel 1881, Valentin Rose scopriva tra i manoscritti del fondo Ottoboniano
della biblioteca Vaticana l’autografo della traduzione latina eseguita da Guglielmo
di Moerbeke nel 1269. Heiberg si rese rapidamente conto che Guglielmo aveva uti-
lizzato, oltre al codice che entrò poi in possesso di Valla (che chiamò A) anche un
altro manoscritto greco (B) che aveva contenuto il testo dei Galleggianti (che si ri-
teneva perduto) e recava lezioni relative all’Equilibrio dei piani diverse da quelle di
A. Il ritrovamento della traduzione di Guglielmo metteva così almeno parzialmente
in discussione la sua edizione del 1880-81.
Nel 1899 il paleografo greco Athanosios Papadopoulos-Kerameus pubblicò un
catalogo di manoscritti della biblioteca del Metochion di Costantinopoli. Tra gli altri,
descriveva anche un libro di preghiere, che era in realtà un palinsesto la cui scriptio
inferior recava un testo di carattere matematico di cui trascrisse alcune righe. Visto
il catalogo, Heiberg riconobbe immediatamente che quelle righe facevano parte della
Sfera e il cilindro.
Riuscì a recarsi a Istanbul solo nel 1906: aveva ottenuto un finanziamento
dalla Fondazione Carlsberg. Nel palinsesto scoprì non solo il testo greco di parte
dell’Equilibrio dei piani, delle Spirali, della Sfera e il cilindro e della Misura del cer-
chio, ma anche il testo greco dei Galleggianti che si credeva perduto. Soprattutto,
vi rinvenne il testo di un’opera di Archimede fino ad allora sconosciuta: il Meto-
do sui teoremi meccanici, indirizzato a Eratostene, in cui Archimede descrive il suo
approccio euristico e non rigorosamente dimostrativo ai problemi di geometria.
Il palinsesto conteneva inoltre l’inizio frammentario di un’opera, lo Stomachion,
di cui era nota soltanto una proposizione trasmessaci in arabo e pubblicata nel 1899
da Heinrich Suter, con traduzione tedesca.

3.2.3 La pubblicazione del Metodo (1907) e l’edizione critica del 1910–


1915
Grazie ai fondi messigli a disposizione dalla Carlsberg, Heiberg aveva potuto fare
effettuare fotografie del palinsesto; grazie a queste e allo studio che aveva effettuato
con il solo aiuto di una lente di ingrandimento, nel 1907 poté pubblicare nella rivista
Hermes l’articolo “Eine neue Archimedeshandschrift” (“Un nuovo manoscritto di Ar-
chimede”); vi descriveva la sua scoperta e forniva una prima trascrizione del Metodo.
Nello stesso anno, insieme con il matematico e storico della matematica Hieronymus
Georg Zeuthen (1839-1920), ne pubblicava una traduzione tedesca (“Eine neue Schrift
des Archimedes”, Bibliotheca Mathematica, 1907).
La notizia fece enorme sensazione, tanto che il New York Times la pubblicò in
prima pagina il 16 luglio 1907.
La scoperta del palinsesto di Costantinopoli, insieme con tutte quelle che erano
state compiute tra il 1881 e il 1906 (prima tra tutte quella della traduzione di Moerbe-
ke) costrinse Heiberg a un profondo lavoro di revisione della sua edizione che terminò
34 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO

nel 1915, quando uscì a Lipsia, nella classica “Bibliotheca Teubneriana”, il terzo volu-
me degli Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii. In esso erano contenuti
anche i Prolegomena all’edizione, che restano finora lo strumento indispensabile per
lo studioso di Archimede.
Su questa edizione si sono basati tutti i lavori critici successivi e i vari lavori di
traduzione e commento in lingue moderne: la parafrasi inglese di Thomas L. Heath,
la traduzione francese di Paul ver Eecke, la traduzione italiana di Attilio Frajese.
A queste occorre aggiungere l’edizione del testo greco di Charles Mugler (che non
si discosta in quanto a impianto complessivo da quella di Heiberg) con traduzione
francese a fronte.

4 La riscoperta del palinsesto


4.1 Milionari e studiosi
Heiberg potè consultare e anche fotografare il palinsesto nel 1906: ma esso era de-
stinato a sparire durante i torbidi seguiti alla rivoluzione turca. Nel corso degli anni
Venti del XX secolo, il codice era finito nelle mani di una famiglia francese. Fu con-
servato piuttosto malamente, forse perché i possessori non si resero conto del tesoro
che si trovavano tra le mani. Vi fecero addirittura apporre delle miniature di soggetto
religioso che avrebbero dovuto accrescerne il valore (si ricordi che il manoscritto si
presentava come un libro di preghiere).
Tuttavia nel 1998 fu presentato all’asta presso la sede di New York di Christie’s e
venduto a un milionario americano per due milioni di dollari. Questi lo mise a dispo-
sizione della Walters Art Gallery di Baltimora perché venisse restaurato e studiato.
Dopo dieci anni di lavori, il palinsesto — che non contiene solo testi di Archimede
ma anche dell’oratore ateniese Iperide e un commento di Alessandro di Afrodisia alle
Categorie di Aristotele — è ora disponibile in immagini digitali e in trascrizione nel
sito http://archimedespalimpsest.net/. Inoltre, nel settembre 2011 la Cambrid-
ge University Press ha pubblicato due volumi che raccolgono il risultato di questi
studi.
Lo studio del palinsesto non ha prodotto finora risultati che sconvolgano quelli
raggiunti da Heiberg nella sua edizione del 1910–15. Tuttavia, varie lezioni sono state
migliorate; tra le cose di un qualche rilievo c’è la lettura di parte di una proposizione
del Metodo che Heiberg non aveva potuto decifrare. Reviel Netz, Ken Saito e Natalie
Tcherneska hanno potuto dimostrare che in questo passo Archimede illustra un meto-
do per lo studio dell’unghia cilindrica che si avvicina molto a quello degli indivisibili
inventato da Bonaventura Cavalieri nel XVII secolo.
Occorre aggiungere però che Netz si è spinto fino a sostenere che Archimede
stia qui prefigurando non solo risultati e metodi del calcolo integrale, ma addirittura
concezioni della moderna teoria degli insiemi. Una visione altrettanto spinta Netz
l’ha dimostrata a proposito dello Stomachion: basandosi su alcune incongruenze tra il
frammento greco del palinsesto e quello arabo pubblicato da Suter nel 1899, è arrivato
a vedervi un frammento di una scienza combinatoria antica ormai completamente
perduta. Archimede l’avrebbe applicata al calcolo dei modi possibili di ricomporre il
quadrato iniziale: ben 17.152. Congettura questa che, per quanto fascinosa, appare
4. LA RISCOPERTA DEL PALINSESTO 35

più romanzesca che sostenibile: come sottolinea Giuseppe Morelli nel suo recente
studio (2009), nulla – né nel testo sopravvissuto, né nelle testimonianze antiche –
autorizza questa ipotesi.

4.2 Verso un nuovo Archimede


L’Archimede che oggi abbiamo è l’Archimede che Heiberg ha ricostruito attraverso
uno studio sterminato. In un recente contributo Netz (2012) non gli lesina lodi,
ma mette in evidenza come sia ormai necessario andare oltre Heiberg – anche se,
paradossalmente, ciò si potrà fare proprio grazie all’eredità che il grande filologo
danese ci ha lasciato. Bisogna inoltre considerare che negli ultimi decenni nuovi
punti di vista e nuovi indirizzi di ricerca si sono andati affermando nel campo della
storia e della critica testuale della matematica greca.
Uno dei punti critici (Netz ha avuto il merito di averlo posto all’attenzione dei
filologi e degli storici) è il problema dell’edizione critica delle figure matematiche. Hei-
berg l’aveva ignorato, ricostruendo sistematicamente le figure in modo da assicurare
la loro coerenza con il testo senza tener conto delle varianti che recavano i testimoni
a sua disposizione. Nella sua traduzione inglese della Sfera e il cilindro (2004) Netz
ha cercato di dare conto di come le figure siano tracciate e collocate nei codici che
hanno trasmesso quest’opera di Archimede. Si tratta di un nuovo e fruttuoso punto
di vista che è stato poi sviluppato da Ken Saito e altri per lo studio della tradizione
degli Elementi di Euclide e nell’Archimede Latino (2012) per lo studio della tradizione
rinascimentale di Archimede.
Sempre nell’Archimede Latino è stato dimostrato che la traduzione di Iacopo fu
effettuata utilizzando un modello greco diverso dal codice A – come invece si era
sempre ritenuto da Heiberg in poi. Ciò apre la strada a nuovi studi, dato che in più
punti il testo di Iacopo presenta dimostrazioni alternative a quelle presenti in A e in
C. Inoltre oggi è ormai nuovamente disponibile (anche se solo in riproduzione foto-
grafica) il palinsesto di Costantinopoli e disponibile ormai da diversi anni è l’edizione
critica allestita da Marshall Clagett (1964-1984) della traduzione di Guglielmo: tutto
ciò pone seriamente il problema di riconsiderare dalle fondamenta il problema della
costituzione del testo di Archimede.
Si tenga poi presente che oggi la nostra conoscenza della matematica greca e della
sua eredità araba è molto più sviluppata di un secolo fa (solo per citare alcuni nomi,
si pensi ai lavori di Alexander Jones, Bernard Vitrac, Micheline Decorps-Foulquier,
Roshdi Rashed, Ahmed Djebbar, Jacques Sesiano, e tantissimi altri) e questo permet-
te di impostare l’approccio ad Archimede su basi nuove. Per esempio, Fabio Acerbi
(2010) ha sviluppato la proposta di considerare la matematica greca come un genere
letterario di cui occorre decifrare i peculiari codici stilistici e linguistici; Ken Sai-
to sta intraprendendo l’opera gigantesca di produrre un’analisi degli alberi sintattici
presenti negli Elementi di Euclide.
È dunque auspicabile – e forse probabile – che nei prossimi anni si possa assistere
a un rinnovamento degli studi archimedei tale da permettere di meglio conoscere e
capire l’opera e la tradizione di uno dei più grandi matematici di tutti i tempi.
36 CAPITOLO 2. IL CORPUS ARCHIMEDEO
Capitolo 3

Amici e nemici

Ci sono state famosissime dispute fra matematici: si pensi a quella fra Leibniz e
Newton sulla priorità dell’invenzione del calcolo infinitesimale, o alle feroci invettive
di Niccolò Tartaglia contro Girolamo Cardano, colpevole di aver rivelato al mondo il
segreto dell’equazione di terzo grado che Tartaglia gli aveva incautamente comunicato.
Nel caso di Archimede, però, è difficile individuare a distanza di ventitré secoli
simili diatribe. Ma fra i suoi amici possiamo certamente collocare Conone di Samo;
anzi, con un po’ di immaginazione, si può persino arrivare a pensare che tra loro due
si sia sviluppato un vero e proprio rapporto di collaborazione.
Più sfumato è il rapporto che Archimede ebbe con Dositeo. Quando gli invia la
Quadratura della parabola non esita a manifestargli la sua stima. Nelle lettere succes-
sive però cambia un po’ registro. Quando gli manda i problemi del secondo libro della
Sfera e il cilindro, già il tono si raffredda. “Mi chiedi di mandarti la dimostrazione
dei problemi che avevo mandato a Conone” – dice – “ma guarda che si risolvono con
i teoremi che ti ho già mandato qualche tempo fa!” E quando gli invia le Spirali sem-
bra proprio perdere la pazienza. “Insomma, continui a chiedermi di quei problemi,
ma la maggior parte ce l’hai, te li ha portati Eraclide.” (È interessante osservare che,
secondo Eutocio, un Eraclide/Eraclio avrebbe scritto una Vita di Archimede., oggi
per noi purtroppo perduta.)
Sempre in questa lettera c’è un passo famoso che è stato variamente interpretato.
Archimede si lamenta del fatto che, pur essendo passati tanti anni dalla morte di
Conone, quei famosi problemi nessuno ha mai nemmeno provato a risolverli. Tanto
più che in quella lista c’erano due problemi che lui stesso non aveva potuto portare a
buon fine, perché erano sbagliati. E aggiunge:

quelli che pretendono di aver scoperto tutte le dimostrazioni, senza però


farne mai vedere nessuna, restino confusi: questa volta hanno trovato una
dimostrazione impossibile.

C’è chi ha pensato che Archimede inviasse a bella posta risultati impossibili ad
Alessandria per disprezzo verso i suoi interlocutori: in questa categoria rientrerebbe
anche il Problema dei buoi, impossibile da risolvere nella sua formulazione comple-
ta. Personalmente ritengo che Archimede si stesse semplicemente lamentando di un
atteggiamento un po’ spocchioso di qualche matematico alessandrino che avrebbe
trattato con sufficienza i risultati che egli andava loro proponendo.

37
38 CAPITOLO 3. AMICI E NEMICI

Una conferma di questa mia opinione la trovo nella famosissima lettera a Erato-
stene che apre il Metodo. Anche in questo caso aveva inviato al direttore della biblio-
teca di Alessandria due problemi, quello sulla cosiddetta unghia cilindrica e quello
sull’intersezione di due cilindri, invitandolo a trovarne la dimostrazione. Apparente-
mente Eratostene non gli aveva risposto: e allora non solo gli manda le dimostrazioni
in questione, ma addirittura gli affida quello che potrebbe essere considerato il suo
testamento scientifico: quel modo di procedere che gli aveva permesso le sue mirabo-
lanti scoperte, nella speranza “che qualcuno, tra i presenti o tra quanti verranno in
futuro, seguendo il procedimento indicato, scoprirà altri teoremi, a cui non abbiamo
ancora pensato.”
Quindi più che un Archimede burlone o, peggio, tessitore di perfidi trabocchetti,
sembra venire fuori la figura di un matematico piuttosto isolato, che non trova con
chi condividere veramente le sue ricerche. Cosa piuttosto terribile, per un matema-
tico. La matematica è un genere di letteratura molto comunicativo. Tutti hanno nel
cassetto una poesia che hanno scritto in giovane età, a cui tengono moltissimo ma
non farebbero mai leggere a nessuno. Ma chi farebbe altrettanto con un teorema?
Amici di Archimede saranno sicuramente stati Gerone e suo figlio Gelone. Se poi
davvero Gelone fu uno dei sostenitori del partito filocartaginese, allora possiamo far
galoppare la fantasia e spingerci fino a immaginare un’amicizia con Archimede molto
stretta. Me lo immagino invece poco amichevole con Geronimo, il ragazzino che finì
sul trono di Siracusa alla morte di Gerone, approfittandone a quanto pare per darsi
a dissolutezze di svariato genere.
E i nemici? Beh, sicuramente ad Alessandria ci deve esser stato qualche matema-
tico che gli stava antipatico – quelli che ostentavano di saper fare qualsiasi dimostra-
zione, senza però farne mai vedere nessuna. Ma i suoi veri nemici furono i Romani.
Per più di due anni la sua Siracusa fu sotto il loro assedio, e da come stavano andando
le cose c’erano ben poche speranze che la città potesse salvarsi o, quantomeno, man-
tenere la sua indipendenza. Con che animo colui che aveva tenuto in scacco l’esercito
di Marcello avrà appreso che i nemici si erano impossessati dell’Epipole!
Da quel giorno Archimede avrà capito che Siracusa aveva i giorni contati. E
piuttosto che cercare la fuga o arrendersi a Marcello implorando pietà, preferì morire
in compagnia della sua amica più cara: la matematica.
Capitolo 4

La fortuna: quale Archimede?

La figura e l’opera di Archimede attraversano i secoli e si ritrovano in tutti i nodi


cruciali che hanno portato la civiltà occidentale ad assumere il discorso scientifi-
co matematicamente fondato come uno dei suoi valori basilari. In questo capitolo
proporremo una rapida descrizione di come ciò sia avvenuto.
Dovremo cominciare con una constatazione: la figura di Archimede e la sua
matematica si presentano fin dall’inizio come separate, se non in contrasto tra loro.
Da un lato una specie di figura archetipale dello scienziato “buono e geniale”, ma
“bizzarro”; dall’altra una matematica ardua, scritta per altri matematici, difficile da
dominare.
Vedremo poi come, durante il Rinascimento, l’una cosa abbia aiutato l’altra
e il mito di Archimede abbia favorito il ricupero dei suoi scritti e lo studio della
sua opera, riappropriazione che contribuì a porre le basi di una matematica com-
pletamente nuova. Ma i due aspetti hanno continuato a intrecciarsi, separandosi e
reincontrandosi.
Infatti la nuova matematica che si crea nel corso del XVII secolo sfocerà nella
grande rivoluzione rappresentata dall’invenzione del calcolo infinitesimale e la mate-
matica archimedea finirà sullo sfondo – un venerando cimelio di famiglia. Quando
però, nei primi decenni dell’Ottocento, ci si sforzerà di integrare quelle conquiste in
una nuova analisi matematica rigorosamente fondata, allora si cercheranno nuova-
mente in Archimede e nella matematica greca i materiali con cui costruire il nuovo
edificio.
Uno sguardo retrospettivo che non sarà privo di conseguenze.

1 Il mito
1.1 Sfaccettature
La figura di Archimede è tanto famosa quanto poco conosciuta è la sua opera. Per
quanto strano possa oggi sembrare, questa separazione tra i “detti e fatti memorabili”
e i suoi scritti, cominciò a formarsi già nell’Antichità. Infatti, non pare che nel mondo
classico l’opera matematica di Archimede sia stata studiata con la solerzia che ci si
potrebbe aspettare. Sembra che Archimede stesso avvertisse queste difficoltà, come

39
40 CAPITOLO 4. LA FORTUNA: QUALE ARCHIMEDE?

traspare dal tono – quello sconsolato di uno che sente di non essere compreso – con
cui invia i suoi lavori ad Alessandria.
La scarsa considerazione per la sua opera matematica fa da contraltare alla
fama di cui gode la sua figura. Nel recente libro di Mary Jaeger, Archimedes and the
Roman Imagination (2008), sono raccolte le storie tradizionalmente legate a questo
matematico, quelle che andranno a costruire gli ingredienti fondamentali del mito di
Archimede:

l’ingegnere e l’inventore geniale: il varo della gigantesca Syracosia, la leggenda


della corona, le invenzioni che gli vengono attribuite (dal meraviglioso planetario
alle macchine da guerra);

il difensore della patria: vera anima della resistenza contro il barbaro romano; la
manus ferrea che afferra le navi romane e le scaglia in acqua; gli specchi ustori
che bruciano le quinquiremi ecc.

il “prigioniero delle muse”: ovvero il “genio distratto” descritto da Plutarco: quel-


lo che, gridando Eureka eureka, corre nudo per le strade di Siracusa;

il sapiente e il potere: i suoi rapporti con la casa reale di Siracusa; il conquistatore


Marcello che lo avrebbe voluto onorare e proteggere.

Un mito può essere assai potente. I Greci, inventori della medicina razionale,
della ricerca storica, della filosofia, della matematica con dimostrazione, questi cultori
della razionalità credevano sul serio alla storia di Priamo e di Ettore, Paride ed Elena,
e a tutte le leggende che narravano la guerra di Troia. Forse, osservava Georges
Dumézil (cit. in Lozano 1991, p. 121), qualche dubbio poteva toccarli a proposito
del giudizio di Paride e delle tre dee, ma l’avventatezza di assegnare la mela d’oro ad
Afrodite diveniva ai loro occhi un motivo di spiegazione della vittoria achea, segno
profetico della vocazione greca a conquistare l’Asia. “Il mito e la storia” aggiungeva
Dumézil “risultano allora inestricabilmente intrecciati”.
Così è stato per Archimede. La sua figura è divenuta una figura fondatrice della
nostra civiltà, attraversando, grazie appunto anche alla dimensione mitica, ventitré
secoli. E, come tutti i miti, è stato variamente ricercato e variamente reinterpretato
dalle varie civiltà in cui ha operato. Nelle prossime pagine cercheremo di fornire gli
elementi essenziali per valutare la complessità di questo processo.

1.2 La sirena
Queste varie componenti del mito sono apparentemente contraddittorie. Come conci-
liare il disinteresse che un saggio dovrebbe avere con il coinvolgimento di Archimede
nelle vicende politiche e militari? E come conciliare la vantata rarefatta bellezza della
sua matematica con il fatto che non sdegnava di mischiarsi con opere indegne di un
sapiente, quali la costruzione di macchine e di ordigni? Si tratta di domande in gran
parte frutto diretto o indiretto della penna di Plutarco, che parla a lungo e in vari
luoghi di Archimede; in particolare nel cap. 17 della Vita di Marcello si trova questa
famosa descrizione:
2. LA MATEMATICA DEI DESTINI INCROCIATI 41

Viveva continuamente incantato dalla geometria, che potremmo chiama-


re una Sirena a lui familiare e domestica, al punto di scordarsi persino di
mangiare e curare il proprio corpo. Spesso, quando i servitori lo trasci-
navano a viva forza nel bagno per lavarlo e ungerlo, egli disegnava sulla
cenere della stufa alcune figure geometriche; e appena lo avevano spal-
mato d’olio, tracciava sulle proprie membra delle linee col dito, tanto lo
tormentava il diletto ed era veramente prigioniero delle Muse (XVII.11).

Insomma: l’Archimede di Plutarco non è un essere di questo mondo. Se vi di-


scende ogni tanto, lo fa con disprezzo; infatti “non volle lasciare alcun scritto su quelle
materie [meccaniche] di cui si diceva avesse intelligenza non umana, ma divina” e, a
dire di Plutarco, avrebbe giudicato l’interessarsi di tecniche e di arti pratiche “ignobile
e degno di schiavi”. Ma come conciliare allora il genio perso nelle sue contemplazioni
con l’inventore di catapulte? Cosa ha a che fare la matematica astratta che Plutarco
tanto loda con la spietata manus ferrea?
Non possiamo fare a meno di notare che Plutarco ci presenta un Archimede plato-
nico, perso nelle contemplazioni di un iperuranio matematico, di cui il nostro mondo
sarebbe solo un pallido riflesso. Questa interpretazione plutarchea avrà una sua im-
portanza in tutta nella storia successiva; ma, come vedremo, dispiegherà appieno i
suoi effetti solo con la matematica e la scienza del XIX secolo.

2 La matematica dei destini incrociati


Accenneremo brevemente alla fortuna che Archimede ha conosciuto in Occidente, a
partire dal Rinascimento. Lasciamo qui invece da parte, volutamente, un discorso
sul significato della sua matematica nel contesto dei suoi tempi e dei successivi esiti
della matematica ellenistica.
Si tratta infatti di un terreno ancora troppo infido per poterne tracciare una
mappa in poche pagine; ci limiteremo a osservare che molti dei risultati archimedei
che a noi possono sembrare platonicamente rarefatti sono invece legati a question
concretissime. Se si lascia da parte l’interpetazione plutarchea, è infatti possibile
concepire l’opera matematica di Archimede nell’ottica di costruzione di modelli geo-
metrici di situazioni reali: i problemi del secondo libro della Sfera e cilindro sono
connessi a questioni di costruzioni in scala; lo studio dell’equilibrio di un paraboloide
in un liquido al galleggiamento delle navi; persino i due strani solidi di cui parla a
Eratostene hanno probabilmente a che fare con questioni di tecnica architettonica
(Napolitani & Saito 2013).
Ma la matematica greca – con i suoi dieci secoli di sviluppo in mondi tanto
diversi quali l’Atene del IV secolo a. C., le corti ellenistiche e gli inizi dell’impero
bizantino – è qualcosa di difficilmente afferrabile; e difficilmente afferrabili sono le sue
connessioni con il mondo quotidiano e quello della filosofia. Preferiamo quindi fare
un salto nel tempo di una quindicina di secoli.
42 CAPITOLO 4. LA FORTUNA: QUALE ARCHIMEDE?

2.1 Archimede nel Rinascimento


Abbiamo visto come la traduzione fatta nel 1269 da Guglielmo di Moerbeke restasse
sostanzialmente lettera morta per tutto il XIV e buona parte del XV secolo. Con
l’Umanesimo, la figura leggendaria di Archimede tornò alla ribalta. Già negli anni
Venti del Quattrocento si diffuse la voce che Rinuccio di Castiglione avesse ritrovato
un codice archimedeo, suscitando le brame degli umanisti più in vista dell’epoca.
Tanto più che correva voce che il misterioso manoscritto trattasse de instrumentis
bellicis et aquaticis – di macchine da guerra, quali quelle di si legge nei classici da
loro appena ricuperati.
Verso la metà del secolo, questo rinascente interesse produrrà la nuova traduzio-
ne di Iacopo da San Cassiano. Ma tutto lascia pensare che nella seconda metà del
Quattrocento l’attenzione della maggioranza degli umanisti per le opere del matema-
tico siracusano fosse andata scemando, fors’anche per il loro carattere eminentemente
speculativo, assai lontano dalle attese e dai gusti di quegli ambienti. Inebriati dal
mito costruito su Cicerone e Plutarco, su Polibio e Livio, ci si aspettava di trovare
nelle sue opere segreti meravigliosi; invece esse erano piene solo di figure geometriche,
alcune delle quali, come la parabola o la spirale, mai prima sentite nominare.

2.2 Tra artisti e tecnici


Mentre i circoli più raffinati sembrano distogliersi dell’opera di Archimede, l’interesse
si accende in un altro tipo di ambienti culturali.
Verso il 1458 Francesco Cereo di Borgo San Sepolcro, notaio apostolico e ar-
chitetto, fece copiare la traduzione di Iacopo in uno splendido manoscritto miniato;
esso è oggi conservato nella Biblioteca Vaticana. Francesco disegnò personalmente le
figure geometriche del codice in collaborazione con Piero della Francesca, suo parente
e conterraneo; questi a propria volta esemplò, utilizzando il manoscritto di Francesco,
una sua copia di Archimede. James Banker (2005) ha riconosciuto questo esemplare,
in parte autografo, nel ms. 106 della Biblioteca Riccardiana di Firenze. Notevoli fu-
rono gli sforzi di Piero e Francesco per emendare il testo: nonostante la matematica
archimedea soverchiasse le loro competenze, riuscirono in certi casi persino a forni-
re figure coerenti, laddove Iacopo aveva riprodotto i diagrammi erronei offertigli dal
modello greco.
Archimede – nella versione di Iacopo e in quella di Guglielmo che torna in circo-
lazione sul finire del Quattrocento – si diffuse rapidamente negli ambienti di tecnici e
artisti: o, meglio (per usare un’espressione coniata da Carlo Maccagni) nello “strato
culturale intermedio”. Si tratta di tutti quegli ambienti che, indipendentemente dalla
loro condizione sociale, erano però unificati dal possedere una cultura comune, in-
termedia tra l’analfabetismo delle masse e la conoscenza approfondita del latino che
schiudeva le porte delle professioni liberali. È lo strato culturale cui appartengono
nobili e uomini d’arme, mercanti e banchieri, pittori e architetti. Provenienti dal-
la formazione ricevuta nelle “scuole d’abaco”, è da qui che verranno i grandi nomi
del nostro Rinascimento: Piero, Leonardo, Luca Pacioli, Niccolò Machiavelli, Miche-
langelo; persino un umanista raffinato come Leon Battista Alberti è profondamente
influenzato da questa cultura.
3. LA TRADIZIONE ARCHIMEDEA NEL CINQUECENTO 43

Un tratto comune è l’alfabetizzazione matematica che riceve chi viene da queste


esperienze: non è dunque un caso se i primi a tentare di capire cosa sia la matematica
di Archimede siano Piero e suo cugino Francesco. Né è un caso che Leonardo da Vinci
ricercasse attivamente la traduzione di Iacopo e l’utilizzasse per le sue riflessioni di
meccanica e di idrostatica. Questo mondo culturale fatica a comprendere la struttura
deduttiva degli scritti del Siracusano. Ma, forse perché libero dai pregiudizi platonici
di un Plutarco e dei suoi seguaci rinascimentali, riesce a vedere dietro quella struttura
l’Archimede costruttore di modelli geometrici. Esemplare il caso di Piero: dalla
sua lettura dei Conoidi e sferoidi arriva fino a ripercorrere, senza saperlo, la strada
archimedea che aveva portato il Siracusano a studiare la doppia volta a crociera.

3 La tradizione archimedea nel Cinquecento


3.1 Archimede e la stampa
Un genio come Regiomontano aveva quasi immediatamente capito l’importanza della
stampa anche per la diffusione di una nuova cultura matematica fondata sui classici
greci; se non poté portare a compimento il suo progetto, nei primi decenni del Cin-
quecento si assisterà a una esplosione di pubblicazioni. In particolare, abbiamo visto
che nel 1544 uscirà a Basilea l’editio princeps e che nel 1543 Niccolò Tartaglia aveva
pubblicato una sorta di antologia della traduzione di Guglielmo di Moerbeke.
Tartaglia fu un’esponente di primo piano di quella matematica delle “scuole
d’abaco” a cui facevano riferimento Piero della Francesca e Leonardo da Vinci. I
suoi Ragionamenti sopra la sua travagliata inventione (1551) sono una parafrasi del
primo libro dei Galleggianti. Il libro terzo della parte quarta del suo General trattato
di numeri e misure, apparso postumo nel 1557, riprende i risultati archimedei relativi
alla sfera e al cilindro, basandosi sulla traduzione di Guglielmo.
I tecnici, gli artisti, gli uomini d’arme avevano ormai incontrato Archimede. Al
tempo stesso, si stavano ponendo le premesse perché la sua matematica potesse rina-
scere su basi nuove: era infatti ormai disponibile gran parte della matematica greca
che oggi conosciamo. E questo rendeva finalmente possibile cercare di interpretare la
matematica archimedea stessa.

3.2 Maurolico e Commandino


Già nel 1528 uno studioso messinese, Francesco Maurolico (1494-1575), aveva pro-
gettato un vasto programma di restaurazione delle discipline matematiche e, a tale
scopo, non disponendo dei testi di Archimede, mise mano a una sorta di divinazione
dell’Equilibrio dei piani, della Misura del cerchio e della Sfera e il cilindro, basata
sulla tradizione arabo-latina e su notizie ricavate da varie fonti (Regiomontano, Valla
e Gaurico).
In effetti, i quatto libri del De momentis aequalibus, dove è ricostruito l’Equilibrio
dei piani, contengono uno studio dei centri di gravità dei solidi, nonché l’introduzione
di una nuova grandezza, il momento meccanico, inteso come peso × distanza. La
matematica archimedea viene così ricuperata e integrata nel contesto delle conoscenze
matematiche sviluppatesi nei secoli precedenti. Purtroppo, il lavoro di Maurolico
44 CAPITOLO 4. LA FORTUNA: QUALE ARCHIMEDE?

restò per lo più inedito, anche se i suoi risultati e l’approccio nei confronti dei Classici
ebbero circolazione nei collegi dei Gesuiti.
Nel corso del Cinquecento la matematica archimedea si impose come modello
da seguire nello studio e nella ricerca: questo risultato è in gran parte dovuto a
Federico Commandino (1509-1575) e alla sua scuola. Se Maurolico non era riuscito a
pubblicare i risultati delle proprie ricerche, l’opera di Commandino ebbe invece vasta
diffusione; egli riunì intorno a sé una scuola di matematici e tecnici assai fiorente a
cavallo tra Cinque e Seicento.
La sua opera fornì ai lettori un filo per riappropriarsi della cultura matematica
greca: il Liber de centro gravitatis solidorum, pubblicato nel 1565, inaugurò un filone
di ricerca originale, destinato ad approdare, con la mediazione di Luca Valerio (1553-
1618), all’invenzione della teoria degli indivisibili di Bonaventura Cavalieri (1598-
1647). Con la loro opera, la riscoperta matematica archimedea si trasformava in
qualcosa di nuovo. Non più studio di singoli oggetti, generati da procedure ben
precise come i cerchi, i coni, le parabole... . Al loro posto si studiano classi di figure,
le più generali possibili, e si cercano metodi generali che possano permetterne lo
studio.

3.3 Guidobaldo dal Monte e la meccanica


Tra gli allievi di Commandino vi fu Guidobaldo dal Monte (1545-1607), rampollo di
una delle famiglie nobili più in vista nel ducato di Urbino, dedicatosi alle matematiche,
alla meccanica, all’architettura militare e civile. Egli completò l’opera del maestro
pubblicando nel 1588 una parafrasi ampiamente commentata dell’Equilibrio dei piani,
nella cui prefazione si ribadiva l’importanza della meccanica come scienza e si tentava
di accordare la concezione archimedea dei centri di gravità con la filosofia naturale
di Aristotele. Soprattutto, però, Guidobaldo pubblicò il Mechanicorum liber (1577),
in cui le cinque macchine semplici vengono ridotte alla bilancia. Scopo del trattato
era elevare la meccanica da “arte” a “scienza”: una scienza geometrizzata, in cui la
nozione archimedea di centro di gravità assumeva un ruolo centrale. Il libro ebbe un
grande successo e fu tradotto in volgare nel 1581
L’Archimede che il Cinquecento riscopre è alla radice della meccanica di Galileo e
delle sue nuove scienze che puntano a costituire la geometria di Euclide e di Archimede
come linguaggio e fondamento della filosofia naturale.
La leggenda archimedea si saldava così con la lezione che il Quattrocento e il
Cinquecento avevano appreso dallo studio delle sue opere. Ma un nuovo mondo stava
nascendo.

4 Da Archimede a Cauchy e ritorno


4.1 All’alba della nostra matematica
Come nel caso degli indivisibili di Cavalieri, le ricerche sul moto di Galileo rappre-
sentano una sintesi che va ben oltre gli accenni che si possono ritrovare nel corpus
degli scritti del matematico siracusano. Ma Galileo si muove ancora nell’ambito della
geometria di Euclide e di Archimede, sia pur avvertendone le costrizioni.
4. DA ARCHIMEDE A CAUCHY E RITORNO 45

Lo sviluppo della matematica nel XVII secolo (e in particolare l’algebrizzazione


della geometria di Fermat e di Cartesio) fu invece una rivoluzione che mise in ombra
quanto dell’edificio della matematica greca era stato ricostruito e restaurato nel corso
del secolo precedente. Ma la tradizione archimedea del Cinquecento aveva svolto un
ruolo pilota nei confronti di tutte le altre tradizioni classiche. Fu su di essa che si
concentrò l’attenzione della nascente comunità scientifica, fu a partire da essa che ci si
mosse per riappropriarsi di Apollonio e di Pappo e della geometria delle curve. Inoltre,
dietro la rivoluzione cartesiana non c’è solo l’algebra di Viète. Fu anche la riflessione
metodologica maturata sulle opere di Archimede – da Maurolico a Commandino, da
Valerio a Cavalieri – a permettere la maturazione delle novità cartesiane.
Sull’onda della nuova geometria cartesiana, l’invenzione del calcolo infinitesimale
schiuderà orizzonti sconfinati a matematici come i fratelli Bernoulli o Leonhard Euler
(1707-1783). La matematica archimedea, pur continuando a esercitare tutto il suo
fascino per la genialità delle dimostrazioni, subirà una sorta di banalizzazione. Di
fronte ai nuovi metodi che permettevano a Newton di dedurre le orbite dei pianeti e
a d’Alembert di studiare i comportamenti delle corde vibranti, di fronte alla nuova
meccanica analitica, che risultato mai poteva apparire la quadratura della parabola,
quando con i nuovi mezzi del calcolo esso si riduceva al semplice integrale x dx? La
R 2

figura di Archimede tende a svanire in quella di un grande antenato; a ridursi tutt’al


più a quella di uno dei giganti sulle cui spalle i nani si sono arrampicati.
Eppure la sua geometria di misura avrebbe avuto una rivincita. Tra la fine del
Settecento e l’inizio dell’Ottocento, il problema della “metafisica del calcolo infinitesi-
male”, ovvero di dare un fondamento alle ardite e poco giustificabili manipolazioni di
infinitesimi, somme infinite, prodotti infiniti e altre diavolerie, si era fatto sempre più
pressante. Sarà Cauchy, con il suo Cours d’analyse del 1821 a dare la svolta decisiva
che porterà nel corso del XIX secolo a fondare l’analisi matematica nei termini che
oggi studiamo.
Uno dei capisaldi della riforma di Cauchy è la separazione tra il concetto di
derivata e quello di integrale. È infatti lui a introdurre l’integrale come area (e a
dimostrare poi il cosiddetto “teorema fondamentale del calcolo integrale”). È un
ritorno ad Archimede, in particolare alle tecniche che il matematico di Siracusa aveva
utilizzato nei Conoidi e sferoidi e che già avevano ispirato Luca Valerio alla fine del
Cinquecento.

4.2 Precursore o postcursori?


Il caso di Cauchy non è isolato. Si è già accennato alla nascita della geometria proiet-
tiva per opera di Poncelet e Chasles; potremmo aggiungere il lavoro di Dedekind sulla
costruzione dei numeri reali, l’assiomatizzazione hilbertiana della geometria euclidea,
e altri casi ancora. In altre parole, la matematica dell’Ottocento per progredire, per
darsi basi più rigorose e salde, guarda all’indietro e sceglie come suo modello quello
greco.
È una scelta che ad Archimede costerà moltissimo. Non sarà un caso se il mate-
matico che lavorò con Heiberg alla prima divulgazione del Metodo sia stato un allievo
di Chasles, Hieronymus Zeuthen, autore di studi sulla matematica antica importanti,
46 CAPITOLO 4. LA FORTUNA: QUALE ARCHIMEDE?

ma che tendono a rileggerla con occhiali moderni. D’altra parte, lo stesso Heiberg
concludeva la prima pubblicazione del palinsesto con questa lapidaria sentenza parole:

Il nuovo metodo di Archimede è veramente identico al calcolo integrale.

Indicato come precursore di ciò che i matematici andavano facendo, finirà rele-
gato nel mondo platonico di cui dicevamo. È la rivincita di Plutarco: Archimede in
quel mondo avrebbe visto anche una matematica che era di là da venire e nelle sue
opere si è voluto di volta in volta trovarci gli indivisibili di Cavalieri; l’idea di limite;
il calcolo integrale; varie nozioni di meccanica; e, in tempi recentissimi, persino il
calcolo combinatorio e la teoria degli insiemi transfiniti.
Per quasi tutto il secolo scorso gli studi sulla sua matematica (e, più in generale
su quella greca) si sono centrati sulla rilettura in chiave moderna dei suoi risultati.
Come scriveva Alexandre Koyré, uno dei padri fondatori della storia della scienza
contemporanea:

nulla ha avuto influsso piú nefasto nella storiografia della nozione di pre-
cursore. Indicare qualcuno come precursore di qualcun altro comporta
inevitabilmente l’impossibilità di comprenderlo.

Ma è ormai da qualche decennio che ad Archimede ci si va accostando con un


po’ più di rispetto. Sempre di più gli studi tendono a cercare di capire meglio i
suoi scritti: da un lato nel contesto della matematica greca; dall’altro in quello del
processo di evoluzione storica il quale – selezionando nell’opera di Archimede tecniche
e problematiche che hanno contribuito a creare la matematica moderna – ha fatto di
noi i suoi postcursori.
Capitolo 5

Pagine scelte

1 Dalle lettere a Dositeo


1.1 La Quadratura della parabola
Riproduciamo la traduzione della versione latina di Iacopo da San Cassiano di questa
lettera.
Archimede [augura] a Dositeo ogni bene.
Quando sentii che era morto Conone, a cui da tempo ero legato da amicizia, e che
tu eri stato in precedenza assai intimo di Conone e che sei versatissimo in geometria,
fui colpito dal rimpianto e da un dolore grandissimo per la sua scomparsa, poiché
era un uomo che mi amava moltissimo e, per di piú, nelle speculazioni teoriche aveva
un ingegno mirabile e quasi divino; a te invece preannunziai che – proprio come ero
avvezzo a fare spessissimo con Conone – avrei mandato per iscritto, tra altri teoremi
di geometria, questo in particolare che, non essendo stato sondato da nessun altro
prima, è stato ora esaminato e compreso da me, ed è stato dapprima indagato con
ragionamenti meccanici, poi dimostrato anche geometricamente.
Tra quanti infatti si sono finora occupati di geometria alcuni si preoccuparono
di ricercare e tramandare che è possibile trovare una superficie rettilinea uguale a un
cerchio dato o a una qualunque porzione di cerchio. [...]
Anche questo è ben noto: sappiamo che nessuno degli antichi si è avvicinato a
quadrare una porzione contenuta da una sezione di cono rettangolo [= parabola] il
che ora è stato da me trovato. Si dimostra infatti che ogni porzione compresa da
una retta e da una sezione di cono rettangolo è pari ai quattro terzi di un triangolo,
precisamente di quello che ha la medesima base e la medesima altezza della porzione,
ponendo a fondamento di tale dimostrazione che gli eccessi per cui la minore di [due]
superfici è superata da quella maggiore possono essere accumulati tanto da superare
qualunque superficie finita proposta.
Anche i geometri precedenti si sono appoggiati su questo fondamento. E che
i cerchi abbiano fra loro il rapporto duplicato dei diametri, lo dimostrarono muniti
di questo fondamento. E poi che le sfere hanno tra loro il rapporto triplicato dei
diametri, e inoltre che ogni piramide è la terza parte di quel prisma che abbia la
medesima base e l’altezza uguale alla piramide; e ancora che ogni cono è la terza
parte di quel cilindro che abbia la medesima base e altezza uguale al cono: tutte

47
48 CAPITOLO 5. PAGINE SCELTE

queste cose similmente le scrissero basandosi sullo stesso fondamento, poiché avviene
che ciascuno di quei teoremi di cui ho detto merita per sé altrettanta fede di qualunque
di quelli che furono dimostrati senza tale fondamento.
Dato poi che non da molto tempo sono stato condotto da quanto ho esposto ad
avere una simile fiducia in questo fondamento, te ne invio per iscritto le dimostrazioni:
come furono anzitutto indagate per mezzo di ragionamenti meccanici, e poi dimostrate
con argomenti geometrici.
Iacopo da San Cassiano, Quadratura Parabolae, in d’Alessandro & Napolitani 2102, pp. 282-
284.

1.2 Sfera e Cilindro, 1

Archimede a Dositeo salute.


Antecedentemente ti mandai per iscritto, insieme alla dimostrazione, [la seguen-
te] tra le cose che avevo considerato: che ogni sezione compresa da una retta e da
una sezione di cono rettangolo [= parabola] supera di un terzo il triangolo avente la
stessa base della sezione e uguale altezza.
In seguito, essendomi imbattuto in teoremi degni di considerazione, composi le
loro dimostrazioni. Sono questi: dapprima che la superficie di ogni sfera è quadrupla
del suo circolo massimo, poi che alla superficie di qualunque segmento sferico è uguale
il cerchio, il raggio del quale sia uguale alla retta condotta dal vertice della sezione
alla circonferenza del cerchio che è base della sezione.
Oltre a questi: che per qualunque sfera il cilindro avente la base uguale al circolo
massimo della sfera e l’altezza uguale al diametro della sfera supera della metà la
sfera, e così la sua superficie [totale] supera della metà la superficie della sfera. Que-
ste proprietà erano da sempre inerenti alla natura delle figure menzionate ed erano
ignorate da coloro che prima di noi si occuparono di geometria: nessuno di loro si era
accorto che per queste figure c’è una simmetria.
Perciò non ho esitato a porre queste proposizioni accanto a quelle trovate da altri
geometri, ed a quei teoremi, che sembrano di molto superiori, che Eudosso stabili sulle
figure solide, cioè che ogni piramide è la terza parte del prisma avente la stessa base
della piramide e uguale altezza, e che ogni cono è la terza parte del cilindro avente
la stessa base del cono e uguale altezza: e infatti per queste proprietà appartenenti
da sempre alla natura di queste figure accadde che dei molti degni geometri anteriori
a Eudosso tutti le ignorarono e nessuno le comprese. È ora data la possibilità ai
competenti di esaminare queste proposizioni.
Sarebbe stato bene che esse fossero state rese note quando Conone era ancora
in vita: pensiamo infatti che egli massimamente avrebbe potuto comprenderle piena-
mente e dare su di esse un giudizio confacente: ma ritenendo che sia bene portarle
a conoscenza di coloro cui la matematica è familiare, ti inviamo le dimostrazioni
che abbiamo scritte, e che sarà possibile di esaminare a coloro che si occupano di
matematica.
Archimede, Sulla Sfera e il Cilindro, in Frajese 1974, pp. 69-72.
1. DALLE LETTERE A DOSITEO 49

1.3 Spirali
Archimede a Dositeo salute.
Dei teoremi già inviati a Conone, e dei quali sempre mi richiedi di scrivere le
dimostrazioni, hai, la maggior parte di queste, scritte nei libri che ti ha portato
Eraclide: alcune [altre] di esse te le mando scritte in questo libro. Non meravigliarti
se gran tempo ho lasciato trascorrere prima di inviarti le dimostrazioni: infatti è
accaduto che io ho voluto prima presentarle a studiosi di matematica, che preferivano
ricercare essi stessi [le dimostrazioni].
Infatti, quanti teoremi di geometria che non apparivano facili in principio so-
no stati poi portati a compimento? Conone poi, prima che avesse avuto il tempo
sufficiente per il loro esame, è passato ad altra vita: altrimenti egli avrebbe trovato
e reso evidenti queste cose, e molte altre ne avrebbe trovate facendo progredire la
geometria: sappiamo infatti che egli fu straordinariamente abile in matematica e che
fu molto amante del lavoro. Ed essendo passati molti anni dalla morte di Conone,
non sappiamo che da alcuno sia stato risolto nessuno di quei problemi.
Voglio quindi qui uno per uno riportarli, tanto più che accade che sono stati
aggiunti due di essi, che non ho potuto portare a buon fine [testo incerto], sicché
coloro che dicono di [saper] trovare tutto, ma senza riportare alcuna dimostrazione,
vengano confutati per il fatto di aver trovato le cose impossibili.
Ouali siano questi problemi, tanto quelli di cui ti ho già mandato le dimostrazioni,
quanto quelli che ti mando in questo libro, mi è sembrato [opportuno] comunicarti.
[segue l’elenco dei provlemi trattati in SC2]
Di tutti questi problemi [sopra] menzionati Eraclide ti ha portato le dimostrazioni,
ma quel [teorema] che era stato proposto dopo di essi era falso. Esso è: se una sfera
è tagliata da un piano in parti disuguali, il segmento maggiore ha rispetto al minore
ragione duplicata di quella che la superficie maggiore ha rispetto alla minore. Che
questo sia falso risulta manifesto dalle [dimostrazioni] che prima ti sono state inviate:
infatti nelle stesse si trova che se una sfera è divisa in parti disuguali da un piano
perpendicolare a un diametro, la superficie del segmento sferico maggiore ha rispetto
alla minore lo stesso rapporto che la parte maggiore del diametro ha rispetto alla
minore; e che il segmento sferico maggiore ha rispetto al minore rapporto minore
del [rapportol duplicato dì quello che la superficie maggiore ha rispetto alla minore,
quindi maggiore di 3/2.
Anche l’ultimo dei problemi che era stato proposto è falso, ed era: se si divide
il diametro di una qualunque sfera in modo che il quadrato della parte maggiore sia
triplo del quadrato della parte minore, e per quel punto [di divisione del diametro] si
conduce un piano perpendicolare al diametro, [detto piano] taglia la sfera, e la figura
costituita dal segmento sferico è massima fra tutti gli altri segmenti aventi uguale
superficie. Che questa proposizione sia falsa è [reso] manifesto dai teoremi che ti
ho prima inviato: è stato infatti dimostrato che la semisfera è massima fra tutti i
segmenti sferici compresi da una uguale superficie.
Dopo di queste erano proposte [le seguenti proposizioni] sul cono: [si tratta delle
proposizioni relative al paraboloide di rotazione (PDN)] ... Non ancora ti vengono
inviate le dimostrazioni di questi [teoremi].
Dopo di questi sulla spirale erano stati proposti i seguenti: essi sono d’altro
genere e non hanno nulla in comune con quelli prima detti: e di essi ti abbiamo scritto
50 CAPITOLO 5. PAGINE SCELTE

le dimostrazioni in questo libro. Essi sono questi: se una linea retta, rimanendo
[fermo] un estremo, vien fatta rotare nel piano con velocità costante fino a farla
tornare di nuovo nella posizione dalla quale è partita, e insieme con la retta rotante
viene mosso un punto sulla retta con velocità costante cominciando dall’estremo fisso,
il punto descrive nel piano una spirale.
Dico quindi che l’area compresa tra la spirale e la retta che è tornata nella
posizione dalla quale si è mossa, è la terza parte del cerchio descritto con centro
nel punto fisso e con raggio che è la retta percorsa dal punto in una sola rotazione
della retta. E se una retta è tangente ad una spirale nell’ultimo suo termine, e se
dal termine fisso [= principio] della spirale si traccia una retta perpendicolare alla
retta rotata e ricondotta nella posizione [iniziale] [= retta principio della rotazione]
in modo che incontri la tangente, dico che la retta condotta [alla tangente] è uguale
alla circonferenza del cerchio. [...]
Archimede, Spirali, in Frajese 1974, pp. 317-321.

2 La lettera a Eratostene
Si tratta come abbiamo già rilevato del testamento intellettuale di Archimede. Sui due
solidi di cui egli parla all’inizio della lettera, si veda ***Saito Napolitani 2014***.
Archimede ad Eratostene – salute!
Tempo fa ti comunicai per iscritto gli enunciati dei risultati da me trovati, inci-
tandoti a trovare quelle dimostrazioni che non ti dicevo sul momento. Gli enunciati
dei risultati che avevo comunicato erano i seguenti.
Primo: qualora in un prisma retto che ha un parallelogrammo come base sia
inscritto un cilindro che ha le basi nei parallelogrammi opposti e i lati tangenti alle
quattro facce che restano, e per il centro del cerchio che è base del cilindro e per un
solo lato del quadrato nella faccia opposta sia condotto un piano, il piano condotto
resecherà dal cilindro un segmento che è compreso da due piani e da una superficie
cilindrica – un piano è quello condotto, l’altro quello in cui è la base del cilindro,
mentre la superficie è quella tra i detti piani – e il segmento resecato dal cilindro è la
sesta parte dell’intero prisma.
L’enunciato dell’altro risultato è il seguente: qualora in un cubo sia inscritto un
cilindro che ha le basi sui parallelogrammi opposti e la superficie tangente alle quattro
facce che restano, e nello stesso cubo sia inscritto anche un altro cilindro che ha le
basi in altri parallelogrammi e la superficie tangente alle quattro facce che restano,
la figura circondata dalle superfici dei cilindri (quella che è in entrambi i cilindri) è
due terzi dell’intero cubo.
Si dà il caso che questi risultati siano di natura differente da quelli da me scoperti
in precedenza. In effetti, misi in relazione quelle figure – i conoidi, gli sferoidi e i
loro segmenti – sia tra loro che con coni e cilindri, ma nessuna di esse si è trovata
essere uguale a una figura solida compresa da piani, mentre ciascuna di queste figure
comprese da due piani e da una superficie cilindrica si scopre uguale ad una figura
solida compresa da piani.
Ecco, nel presente libro vado a comunicarti per iscritto le dimostrazioni di questi
risultati. Sapendoti però, come ho detto, curioso intellettualmente, sempre in prima
3. DALL’ARENARIO 51

fila nella ricerca del sapere e all’occasione in grado di apprezzare al meglio le argo-
mentazioni matematiche, mi è sembrato opportuno esporti in dettaglio per iscritto
nello stesso libro le peculiarità di una particolare procedura, grazie alla quale, una
volta assimilata, sarà agevole prendere le mosse per essere in grado di stabilire qual-
che risultato matematico in virtù di considerazioni meccaniche – e sono d’altronde
convinto che essa sia non meno utile in vista della dimostrazione dei risultati stessi.
In effetti, alcuni risultati che mi si erano in un primo momento rivelati per via
meccanica sono poi stati da me dimostrati per via geometrica, dato che lo stabilire
risultati per mezzo di questa procedura si situa al di fuori di un contesto dimostrativo.
È infatti più agevole elaborare una dimostrazione di quanto ricercato una volta che
siano poste delle linee guida per mezzo della procedura piuttosto che mettersi a
ricercare senza alcuna linea guida. Per questo motivo, della scoperta di quei risultati
di cui Eudosso diffuse per primo la dimostrazione – a proposito del cono e della
piramide, che il cono è la terza parte del cilindro (e la piramide del prisma) che ha la
stessa base e altezza uguale – una parte non piccola del merito andrebbe assegnata a
Democrito, che per primo fece quest’asserzione riguardo alla detta figura al di fuori
di un contesto dimostrativo.
Mi è capitato che anche la scoperta del risultato cui ora do diffusione si sia pro-
dotta in modo analogo a quelle precedenti; volevo d’altronde far circolare la procedura
per iscritto, vuoi perché, essendomi espresso su di essa in precedenza, non paresse
a qualcuno che parlavo a vanvera, 7 vuoi perché sono convinto che se ne produca
un’utilità non piccola per la materia – ritengo infatti che certuni (nel presente o nel
futuro) potranno scoprire, grazie al metodo, altri risultati che non mi sono ancora
venuti a mente.
Trascrivo dunque per primo quel risultato che, a sua volta, mi si rivelò per primo
in virtù di considerazioni meccaniche: ogni segmento di sezione di cono rettangolo
[= parabola] è quattro terzi di un triangolo che ha come base la stessa e altezza
uguale; e dopo di esso ciascuno di quelli stabiliti per mezzo della stessa procedura;
alla fine del libro trascrivo le dimostrazioni in stile geometrico di quei risultati di cui
in precedenza ti comunicai gli enunciati.
Archimede ad Eratostene sui risultati meccanici in Acerbi et al. 2013, pp. 99-102

3 Dall’Arenario
Archimede vuol calcolare il numero di granelli di sabbia che si dovrebbero ammassare
per riempirlo completamente la sfera del Cosmo. Prendendo come diametro quello
ammesso da sistemi geocentrici quali quelli di Eudosso e di Aristotele, arriva a un
numero di granelli pari circa a 1051 . Ma Archimede è anche al corrente che il suo
contemporaneo Aristarco di Samo aveva ipotizzato un Mondo ben più grande. Per
Aristarco, infatti, il sistema del Mondo è eliocentrico ed eliostatico: il Sole è immobile
al centro dell’universo, e la Terra gli orbita intorno descrivendo una circonferenza,
il cui diametro è insensibile rispetto a quello del Cosmo. Archimede, allora, rifà il
conto adottando come diametro del Mondo quello fornito da Aristarco e ottiene un
numero di granelli di sabbia circa eguale a 1063 .
Alcuni pensano, o re Gelone, che il numero [dei granelli] della sabbia sia infinito
in quantità: dico non solo quello dei [granelli di sabbia] che sono intorno a Siracusa
52 CAPITOLO 5. PAGINE SCELTE

e nel resto della Sicilia, ma anche di quello [dei granelli di sabbia] che sono in ogni
regione, sia abitata sia non abitata. Vi sono poi alcuni che ritengono che quel numero
non sia infinito, ma che non si possa nominare un numero che superi la sua quantità.
È chiaro che se coloro che così pensano si rappresentassero un volume di sabbia
di grandezza tale quale quello della Terra, avendo riempito tutti i mari e tutte le
depressioni fino a raggiungere l’altezza delle più alte montagne, molto meno com-
prenderebbero che si possa nominare un numero che superi quella quantità. Ma io
tenterò di mostrarti, per mezzo di dimostrazioni geometriche che tu potrai seguire,
che dei numeri da noi denominati ed esposti negli scritti inviati a Zeusippo, alcuni
superano non soltanto il numero [dei granelli] della sabbia aventi [nell’insieme] gran-
dezza uguale alla Terra riempita come abbiamo detto, ma anche grandezza uguale al
cosmo [intero].
Tu sai che dal più gran numero di astrologi vien chiamata cosmo la sfera il cui
centro è il centro della Terra, e il [cui] raggio è uguale alla retta compresa tra il centro
del Sole e il centro della Terra: questo l’hai appreso dalle dimostrazioni scritte dagli
astrologi. Aristarco di Samo, poi, espose per iscritto alcune ipotesi, secondo le quali
si ricava che il cosmo è più volte maggiore di quello suddetto. Suppone infatti che le
stelle fisse e il Sole rimangano immobili, e che la Terra giri seguendo la circonferenza
di un cerchio, attorno al Sole, che sta nel mezzo dell’orbita.
[...]
Credo, o re Gelone, che queste cose sembreranno incredibili alla maggior parte
di coloro cui le matematiche non sono familiari; ma quelli che in esse sono versati e
che hanno meditato sulle distanze e le dimensioni della Terra, del Sole e del Cosmo
intero le ammetteranno dopo la mia dimostrazione.
Archimede, Arenario, in Frajese 1974, p. 447.
Capitolo 6

Ulteriori letture

1 Per saperne un po’ di più


Per accostarsi all’opera di Archimede ci si può tutt’oggi rifare allo studio di Dijkste-
rhuis (prima edizione 1938):

• Dijksterhuis 1989
Eduard J. Dijksterhuis, Archimede. Con un saggio bibliografico di W.R. Knorr,
Ponte alle Grazie, Firenze, 1989. La bibliografia di Knorr, aggiornata al 1989,
fornisce una panoramica dello stato degli studi archimedei del secolo scorso.

Per una panoramica sulla scienza ellenistica:

• Russo 2001
Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, Milano, 2001.

Su Internet si trovano varie fonti relative ad Archimede. Segnaliamo il bel sito della
Drexel University di Philadelphia:

• Chris Rorres
http://www.mcs.drexel.edu/ crorres/Archimedes/contents.html
ricchissimo di materiale iconografico; in esso troverete anche le fonti classiche
(in originale e in traduzione inglese) su Archimede.

Per le romanzesche vicende del palinsesto di Costantinopoli:

• Netz & Noel


Reviel Netz e William Noel, Il codice perduto di Archimede, Milano, Mondolibri,
2007.

Sull’importanza di Archimede per la nascita della scienza moderna e la sua diffusione


nel Rinascimento:

• Napolitani 2007
Pier Daniele Napolitani, Il Rinascimento italiano, in La matematica. I luoghi
e i tempi, a cura di C. Bartocci e P. Oddifreddi, Torino, Einaudi, 2007, pp.
237-281.

53
54 CAPITOLO 6. ULTERIORI LETTURE

Molto bello il catalogo della mostra tenuta ai Musei Capitolini a Roma nel 2013 (era
il 2300-esimo anniversario di Archimede):

• Archimede 2013
Archimede. Arte e scienza dell’invenzione a cura di G. di Pasquale e C. Parisi
Presicce, Firenze-Milano, GAMM-Giunti, 2013. Oltre al catalogo riccamente
illustrato della mostra, contiene una trentina di saggi e una vasta bibliografia
su tutti gli aspetti della figura e dell’opera di Archimede.

2 Fonti
Il riferimento fondamentale è la seconda edizione di Heiberg:

• Heiberg 1910-15
Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii, Iterum edidit Iohan Ludvig
Heiberg, I, Lipsiae, in Aedibus B.G. Teubneri, 1910-15 [ristampata a cura di
E.S. Stamatis, Stuttgart, 1972].

L’opera di Heiberg è accessibile solo a chi conosca il greco o il latino; ne esistono però
due traduzioni francesi integrali:

• Mugler 1970-72
Charles Mugler (Les oeuvres d’Archimède, Paris, Les Belles lettres, 1970-72, 4
voll. con testo greco a fronte)

• Ver Eecke 1960


Paul Ver Eecke, Les oeuvres complètes d’Archimède suivies des commentaires
d’Eutocius d’Ascalon, Vaillant-Carmanne, Liegi, 1960, 2 voll.; è dotata di un
ricco apparato di note matematiche.

L’unica traduzione italiana esistente è:

• Frajese 1974
Attilio Frajese Opere di Archimede, UTET, Torino, 1974.

Esiste una traduzione inglese della Sfera e cilindro e del relativo commento di Eutocio:

• Netz 2004
Reviel Netz, The Two Books “On the Sphere and the Cylinder”, Cambridge,
Cambridge University Press, 2004

e una traduzione italiana del Metodo:

• Acerbi et al. 2013


Archimede, Metodo. Nel laboratorio del genio, a cura di F. Acerbi, C. Fontanari
e M. Guardini. Traduzione di F. Acerbi, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

L’unica traduzione italiana di tutto il corpus è:


3. APPROFONDIMENTI E LETTERATURA 55

• Frajese 1974
Attilio Frajese Opere di Archimede, UTET, Torino, 1974.

Infine, data l’importanza che Plutarco ha avuto per la formazione del mito archime-
deo:

• Plutarco 1996
Plutarco, Marcello, in Vite a cura di D. Magnino, vol. IV, Torino, UTET, 1996,
pp. 219-303, in part. 256-271.

3 Approfondimenti e letteratura
Troverete qui – in ordine di apparizione nel testo – i libri e gli articoli che abbiamo
via via richiamato:

Archimede e il suo tempo


• Campagna 2013
Lorenzo Campagna, Monumenti e potere regio a Siracusa nell’età di Ierone II,
in Archimede 2013, pp. 49-53.

• Blass 1883a
Friederich Blass, Der Vater des Archimedes, in “Astronomische Nachrichten”,
vol. 104, pp. 255-256.

• Blass 1883b
—, Zu Archimedes, “Jarbücher für classische Philologie”, 1883, p.382.

• Braccesi 2015
Lorenzo Braccesi, Archimede, appunti per una biografia, “Sicilia Antiqua” 12,
2015, pp. 113-114.

• Marrou 2010
Henri-Irénée Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, Studium,
2010.

• Porciani 2010
Leone Porciani, Guerra e paideia nella Grecia antica, in Formare alle professio-
ni. La cultura militare fra passato e presente, a cura di M. Ferrari e F. Ledda,
Milano FrancoAngeli, 2010, pp. 35-48.

• Acerbi 2007
Fabio Acerbi, Una scuola matematica alessandrina?, in La matematica. I luoghi
e i tempi, pp. 65-90.

• Bagnall 2002
Roger S. Bagnall, Alexandria: Library of Dreams, “Proceedings of the American
Philosophical Society” vol. 146, n. 4, December 2002, pp. 348-362.
56 CAPITOLO 6. ULTERIORI LETTURE

• Fraser 1972
Paul M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford, Clarendon Press, 1972, 3 voll.

• Di Pasquale 2013
Giovanni di Pasquale, Tra Siracusa e Alessandria: Il Mediterraneo come net-
work tecnologico, in Archimede 2013, pp. 76-81.

• Di Pasquale 2010
—, The “Syrakousia” Ship and the Mechanical Knowledge between Syracuse
and Alexandria, in The Genius of Archimedes , a cura di S. A. Paipetis e M.
Ceccarelli, Dordrecht-Heidelberg-London-New York, Springer, 2010, pp. 289-
301.

• Castagnino Berlinghieri 2010


Elena Flavia Castagnino Berlinghieri, Archimede e Ierone II: dall’idea al proget-
to della più grande nave del mondo antico, la Syrakosia, “Hesperìa”, 26, 2010,
pp. 169-188.

• Rossi 2010
Cesare Rossi, Archimedes’ Cannons Against the Roman Fleet? in The Genius
of Archimedes, pp. 113-131.

• Braccesi 2008
Lorenzo Braccesi, L’assassinio di Archimede, “Hesperìa”, 22, 2008, pp. 161-166.

Il corpus archimedeo
• Knorr 1978
Wilbur B. Knorr, Archimedes and the Elements: Proposal for a Revised Chro-
nological Ordering of the Archimedean Corpus, “Archive for History of Exact
Sciences”, 19 (1978), pp. 211-290.

• Vitrac:1998
Bernard Vitrac, À propos de la chronologie des œuvres d’Archimède, in Mathé-
matiques dans l’Antiquité, a cura di J.-Y. Guillaumin, Saint-Etienne, Publica-
tions de l’Université, 1992, pp. 59-91.

• Knorr 1978
Wilbur B. Knorr, Textual Studies in Ancient and Medieval Geometry, Boston,
Birkhäuser, 1989.

• Berggren 1977
Len Berggren, Spurious Theorems in Archimedes Equilibria of Planes, Book I,
“Archive for History of Exact Sciences”, 16 (1976-1977), pp. 87-103.

• Morelli 2009
Giuseppe Morelli, Lo Stomachion di Archimede nelle testimonianze antiche,
“Bollettino di Storia delle scienze matematiche”, 29, 2009, pp. 181-206.
3. APPROFONDIMENTI E LETTERATURA 57

• Saito & Napolitani Ken Saito e Pier Daniele Napolitani, Reading the Lost
Folia of the Archimedean Palimpsest, in From Alexandria, Through Baghdad. ,
a cura di N. Sidoli e G. Van Brumellen, Berlin-Heidelberg, Springer, 2014, pp.
199-226.

• Clagett 1964-1984
Archimedes in the Middle Ages, 5 voll; vol. 1, Madison, The University of
Wisconsin Press, 1964; voll. 2-5, Philadelphia, The American Philosophical
Society 1976-1984.

• d’Alessandro & Napolitani 2012


Paolo d’Alessandro e Pier Daniele Napolitani, Archimede Latino. Iacopo da san
Cassiano e il corpus archimedeo alla metà del Quattrocento, Paris, Les Belles
Lettres, 2012.

• Netz et al. 2011


The Archimedes Palimpsest, 2 voll., a cura di R. Netz, W. Noel, N. Tchernetska
and N. Wilson, New York, Cambridge University Press, 2011.

• Netz 2012
Reviel Netz, Archimedes’ Writings: Through the Heiberg’s Veil, in The History
of Mathematical Proofs in Ancient Traditions, a cura di K. Chemla, New York,
Cambridge University Press, 2012, pp. 163-205.

• Acerbi 2010
Fabio Acerbi, Il silenzio delle sirene, Roma, Carocci, 2010.

La fortuna: quale Archimede?


• Jaeger 2008
Mary Jaeger, Archimedes and the Roman Imagination, Ann Arbor, University
of Michigan Press, 2008.

• Lozano 1991
Jorge Lozano, Il discorso storico, Palermo Sellerio, 1991.

• Napolitani & Saito 2013


Pier Daniele Napolitani e Ken Saito, Archimedes and the Baths: Not Only One
Eureka, in Greek Baths and Bathing Culture. , a cura di S. K. Lucore and
M. Trümper, “Babesch Supplement” 23, Leuven-Paris-Walpole Mass., Peeters,
2013.

• Banker 2005
James R. Banker, A Manuscript of the Works of Archimedes in the Hand of
Piero della Francesca, in “The Burlington Magazine”, 147 (marzo 2005), pp.
165-169

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