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BOTTEGA

SIGNIFICATO Negozio accessibile dalla strada in cui si vende al dettaglio;


laboratorio artigianale o artistico
ETIMOLOGIA dal latino apotheca, dal greco apothéke ‘deposito’

Bottega, farmacia, mescita di vini: ecco le incarnazioni, in giro per l’Europa,


dell’apotheca latina. Passaggi semantici, tutto sommato, non sorprendenti: la
genericità della madre greca apothéke (deposito, ripostiglio) autorizzava sviluppi
multiformi, e la quasi identica voce tedesca Apotheke non è, in fondo, che una
banale specializzazione – da deposito generico a magazzino dello speziale e
quindi farmacia. Decisamente più interessanti gli slittamenti di significato sul
versante eno-bottegaio, anche perché ognuno ha provocato lo spostamento
delle altre tessere del mosaico linguistico.
In latino apotheca era la dispensa, o più specificamente la cella in cui il vino era
conservato in anfore esposte al fumo. In italiano diventò poteca e poi bottega,
‘locale pubblico adibito a vendita di merci o attività artigiana’ , sostituendo la
taverna (taberna), ormai specializzatasi in ‘osteria’. In spagnolo, invece, bodega
è rimasto più fedele all’originale latino e al legame col vino, significando
‘enoteca, cantina’ nonché ‘raccolto, vendemmia’. In questo modo, però, restava
scoperta la casella ‘bottega’, prontamente riempita con tienda ( da tenda: facile
immaginare, un tempo, gli esercizi commerciali come semplici bancarelle con un
telo sospeso tra pali a procurare un po’ d’ombra).

Ma le parole cambiano anche quando il loro significato sembra ormai acquisito,


perché è la società a cambiare. Un tempo, la bottega era protagonista assoluta
della città: si apriva, si teneva e si chiudeva bottega, i giovani si mettevano a
bottega perché imparassero il mestiere, e di ciò che era utile si diceva che
faceva per la bottega. Da gran tempo, però, ha smesso di incarnare il
dinamismo impetuoso dell’economia: la fattura di beni è eminentemente
industriale, e i suoi centri spesso delocalizzati in continenti lontani. Gli artigiani
che restano, poi, a seconda del settore e delle pretese artistiche, preferiscono
chiamare le loro botteghe laboratori, studi o atelier.

Quanto alle botteghe intese come locali adibiti alla vendita, oggi quest’uso
suona démodé quanto i bauli da viaggio e il fonografo – oppure, al contrario,
scientemente pretenzioso e modaiolo: se compro un panino in una bottega del
gusto invece che in un alimentari qualunque, posso star sicuro che non me la
caverò con meno di sei euro. Ormai da tempo, la parola più usata per un locale
di vendita è negozio, passato dall’indicare l’attività (il nec otium) al designarne
anche le sedi. Ma in campo commerciale, si capisce, impera la necessità di
evocare, suscitare, rivestire le nude parole di connotazioni ammalianti: così, un
negozio di abbigliamento raffinato si chiamerà boutique, prendendo in prestito
una parola francese chiaramente sorella di bottega e che a casa sua non gode
affatto di maggiore nobiltà – ma il francese, si sa, è garanzia di ricercatezza.
Comunque, anche se per vie diverse il risultato è lo stesso: il panino, in una
boutique del gusto, costerà più o meno lo stesso che in una bottega del gusto.

In altri casi, invece, funziona meglio l’inglese: nella grande distribuzione – che
ogni giorno, com’è noto, guadagna terreno sulle piccole realtà indipendenti –
non ci sono botteghe o boutique che tengano: un punto vendita è
immancabilmente uno store. La lezione che traiamo da questa girandola di
termini è chiara: il commercio oggi è una faccenda troppo sofisticata e
complessa perché ai suoi luoghi ci si possa riferire con un solo nome.

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