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(traduzione mia).
2 A questo proposito gli scolastici distinguevano un “segno naturale” da un “segno
convenzionale”. È chiaro, ad esempio, che il fumo è un segno naturale del fuoco più che il
suo correlato concettuale, così come l’acqua che cade è un segno della pioggia e del cielo
coperto. Si tratta in questi casi di una relazione di proporzione intrinseca tra segni e signifi-
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DDB, Paris 1932, p. 769ss; e inoltre Ch. S. PEIRCE, Chance, Love and Logic, Braziller, New
York 1956.
6 GIOVANNI DI S. TOMMASO, Cursus theologiae, t. IX, De Sacramentis, §§108-115.
Simboli, immagini, icone 217
gno sacramentale non è più soltanto segno pratico, esso diviene allora causa
strumentale di cui la stessa Causa Prima dell’essere usa per produrre la gra-
zia nell’anima, così come l’artista usa del violino o del flauto per produrre la
bellezza»7. Al vertice della teoria scolastica del segno, rapportata alla teologia
dei sacramenti, sta il mistero dell’Eucarestia, il quale non poggia sull’identità
tra significante e significato, ma sulla relazione sostanziale tra significante e
significato, causata da un intervento diretto della Causa Prima. Intervento
che, secondo il dogma della transustanziazione, opera il cambiamento più
radicale dell’essere in quanto essere.
Se si è iniziata questa riflessione sul “simbolo” dalla teoria scolastica
del segno, è innanzi tutto dovuto alla necessità di dover fare riferimento, in
un modo o nell’altro, proprio alla dottrina teologica dei sacramenti ed in
particolare alla teologia eucaristica. L’influenza della Scrittura sulla teoria del
segno e del simbolo nella filosofia moderna e contemporanea è infatti de-
terminante, sia che si tratti della teologia sacramentaria dell’Antica Alleanza
che della Nuova8. Si potrebbe anzi affermare, come cercherò di mostrare
nelle considerazioni che seguiranno, che le diverse concezioni del segno
nell’età moderna e contemporanea e le diverse filosofie del simbolo, anche
nel suo rapporto di similitudine e di distanza con il “segno”, si rifacciano
tutte alle diverse teologie della realtà dei sacramenti, ed in particolare
dell’Eucarestia, elaborate all’interno delle diverse confessioni cristiane. La
Scrittura risulta ancora una volta, e sotto un aspetto decisivo, il referente
teologico ed insieme teoretico fondamentale per comprendere il percorso
differenziato e l’avventura della filosofia nella modernità, e in particolare
l’elaborazione della nuova teoria del simbolo.
San Tommaso precisa tuttavia che, a differenza dei segni-sacramenti dell’Antica Al-
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cezione scolastica del segno. In realtà, bisogna partire dal vertice della teoria
del segno introdotta dalla meditazione sull’Eucarestia nella teologia scolasti-
ca che occorre in un primo tempo prendere le mosse per comprendere co-
me la riflessione scolastica sul segno — anche indipendentemente dalla me-
tafisica dell’essere cui si collega — è risultata non all’altezza del dogma cui
vuole fare riferimento, e insufficiente a comprendere la vera natura del sim-
bolo quale si è venuta invece delineando nella filosofia contemporanea, la
quale introduce in questo tema elementi di decisiva importanza anche per la
teologia.
La teoria scolastica del segno, infatti, se da una parte, sul piano teolo-
gico, sa riconoscere la peculiarità unica del segno sacramentale, che porta
realmente ciò che significa, dall’altra invece, sul piano linguistico, antropolo-
gico e filosofico, attribuisce la capacità di percepire la realtà stessa del signi-
ficato nel significante linguistico ad una mentalità culturale primitiva e non
evoluta razionalmente. La conseguenza logica sarebbe che la capacità di ri-
conoscere nel sacramento la cosa stessa significata, apparterrebbe ad una
mentalità primitiva e non evoluta; e tale è stata infatti la conseguenza tratta
coerentemente dalla critica razionalista della religione, a partire dal Trattato
teologico-politico di Spinoza9. Tanto è vero che lo stesso Maritain, seguendo gli
autori di formazione scolastica, chiama “segno magico” il segno percepito in
uno stadio primitivo, notturno e magico della conoscenza, il quale precede-
rebbe “l’età solare” della ragione. «Diciamo sommariamente — egli scrive
— che nel nostro stato logico le sensazioni, le immagini, le idee sono solari,
impegnate nello psichismo luminoso e regolare dell’intelligenza e delle sue
leggi di gravitazione. Nello stato magico, esse erano notturne, impegnate
nello psichismo fluido e crepuscolare dell’immaginazione e in un’esperienza
stupefacentemente potente ma tutta vissuta e, — in quanto oggetto di rifles-
sione — sognata»10. A differenza dello stadio solare dell’intelligenza, rappre-
sentato dal logos, lo stadio notturno e magico della conoscenza sarebbe carat-
terizzato dall’attitudine a percepire nel simbolo il simbolizzato e la realtà nel
segno che la significa. Certamente, sia Aristotele che Tommaso riconoscono
che il movimento dell’intelligenza verso il significato del segno e
dell’immagine si identifica sostanzialmente con il movimento
dell’intelligenza verso la cosa significata: «Secundus autem motus, qui est in ima-
ginem in quantum est imago, est unus et idem cum illo qui est in rem»11. Ma precisa-
mente questo è il punto: e cioè che, da un punto di vista strettamente filoso-
fico, la capacità di riconoscere la cosa stessa nel segno che la significa viene
attribuita a una mentalità primitiva ma non alla coscienza educata dall’età
9 Cf. B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, Fabbri, Milano 1996.
10 J. MARITAIN, Quatre essais, cit., p. 84.
11 S. TOMMASO, Summa Theologica, III, 25, 3.
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12 J. MARITAIN, Quatre essais, cit., p. 95. In realtà, per poter approfondire la differente
natura del “simbolo” rispetto al “segno”, occorrerebbe riflettere sulla teoria scolastica della
natura dell’ “immagine”, per la quale il simbolo può essere definito anche come un “segno
immagine”, insieme “Bild” e “Bedeutung”, un qualche cosa di sensibile, come scrive Mari-
tain, «che significa un oggetto in ragione di una relazione presupposta di analogia» (ivi, p.
65). E in effetti l’immagine, a differenza del puro segno, trattiene la somiglianza con
l’originale, così come il figlio è l’immagine e non il “segno” del padre. La teoria scolastica
seppe in qualche modo riconoscere, seppur embrionalmente, in quel particolare tipo di se-
gno, che è il simbolo, un qualcosa della natura dell’immagine, che consiste nel trattenere in
sé qualcosa dell’originale rappresentato.
13 Ivi, p. 119.
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14 Ivi, p. 124.
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Ivi, p. 107. 15
Deutsche, von Hermann Diels, Elfte Auflage hrsg. von Walter Kranz, Zürich/Berlin 1964,
3 Band; la traduzione qui riportata è citata da M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro, in
Sentieri interrotti, cit., pp. 299-348.
17 Cf. M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, cit., p. 303.
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occidentale non prevedeva la netta separazione che poi si è stabilita tra logos
e mythos, proprio a motivo di una originaria esperienza dell’Essere, e che per-
tanto, con Anassimandro, ci troviamo di fronte ad un esempio straordinario
di pensiero poetante e di poesia pensante, ovvero di pensiero espresso nel
linguaggio del simbolo e del mythos. Il mythos ci appare qui come custode del-
la memoria delle origini. Ma non è forse significativo il fatto che proprio
una delle correnti più audaci della cultura contemporanea, ovvero
l’interpretazione psicoanalitica del simbolo, ci parli della sua fontalità
nell’esperienza originaria del distacco (dalla madre, o dal “magma psichico
delle origini”), del trauma della separazione, e del bisogno di narrazione le-
gato a questa esperienza fontale, nonché del bisogno di ricostruzione, attra-
verso la restaurazione del senso, di ciò che si era perduto? Anche a livello
della prospettiva psicanalitica il mito appare allora come racconto di una
storia originaria, come interpretazione dell’esistenza, come bisogno di cono-
scenza e di autocomprensione, e soprattutto come “memoria” e “ricordo”
di un trauma originario da ricomporre attraverso il racconto.
8.4.1. La “demitizzazione”
trascrizione concettuale del mito delle origini raccontato dalle genealogie esio-
dee ed in quelle omeriche19? E cos’è la critica severa dell’antropomorfismo da
parte di Senofane, se non la ricerca di un più autentico volto del divino, quale
si andrà ulteriormente precisando con il Nous di Anassagora, con il Logos di
Eraclito, con il Bene di Platone e con la Noesis Noeseos di Aristotele? E che
cos’è la concezione dell’eros (amore) come forza motrice dell’universo, da
Empedocle a Platone, se non la trascrizione concettuale del mito orfico,
analogamente alla concezione dell’anima come l’elemento divino nell’uomo,
e avente un destino ultraterreno? Si può affermare allora che in questa prima
forma di rapporto tra il logos e il mythos, il logos opera una qualche forma di
demitizzazione rispetto alla mitologia; ma che tuttavia esso custodisce anco-
ra la memoria di un’origine narrata dal mythos, e ne corregge la narrazione
mitologica di un principio che è principiato, è ancora il chaos di Esiodo, o i
libri delle genealogie, comprendendo concettualmente che il principio non
può essere esso stesso principiato. Viene elaborata in tal modo una nozione
metafisica di “principio” che resterà eredità preziosa della cultura filosofica
e teologica dell’Occidente. Il logos elabora concettualmente l’idea universale
del principio, che è origine non principiata, che è principio proprio in quan-
to non può avere principio, avvicinandosi molto alla nozione genesiaca del
Bereshit. Il mito custodisce la memoria delle origini, ma è il logos che ne svela
l’intima verità e la universalizza nel concetto.
Pertanto, se forse è eccessivo annoverare con il Wilamowitz i primi fi-
losofi greci nella storia delle religioni, per il motivo che, come egli sostiene
ne La fede degli Elleni20, le loro idee del divino sopravviveranno nella storia
culturale dell’umanità, si può concordare con lo Jaeger il quale, ne La teologia
dei primi pensatori greci21, sostiene la tesi secondo cui vennero da essi elaborate
le prime concettualizzazioni filosofiche di Dio e del divino, che resteranno
retaggio del linguaggio filosofico e teologico occidentale. Le idee di Primo
Principio, di Eternità, di Infinito, di Intelligenza creatrice, di Essere che è
pienezza di essere, di Bene diffusivo, costituiscono un patrimonio concet-
Se Omero, nell’Iliade, parla dell’Oceano come “madre di tutti gli dèi”, ed Esiodo, nella
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Genealogia, fa dire alle Muse: «Noi sappiamo raccontare molte menzogne che sono simili alla
realtà ma, volendo, sappiamo anche manifestare la verità», essi indicano la pretesa di an-
nunciare la “verità” sugli dèi e sulle origini di tutte le cose, che i primi filosofi porteranno a
compimento. Del resto, non sarà proprio Aristotele a scrivere che «anche chi ama il mito è
in qualche modo filosofo» (Metafisica, A 2, 982b 18 ss), in quanto anche il mito nasce, come
la filosofia, dalla “meraviglia” di fronte all’essere ed esprime anch’esso un bisogno di inter-
pretazione e di verità?
20 Cf. U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Der Glaube der Hellenen, 2 Band, Wissen-
ed. it. La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961.
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tuale che esprime verità universali, non più legate alla cultura greca, e nem-
meno al suo ancora insufficiente contesto teologico, ma appartenenti ormai
all’umanità, come verità che nascono in una determinata cultura storico-
mitologica, ma che, in quanto tali, hanno una destinazione universale che
non è racchiusa nella sola dimensione storica. Resta comunque acquisito che
in questa prima forma di rapporto tra logos e mythos, il logos demitizza ma non
distrugge integralmente il mythos, non solo perché nasce nel suo alveo, ma
perché mantiene sempre un rapporto dialettico con esso, volto insieme a
purificarlo e ad interpretarne la verità nascosta nell’orizzonte di una verità
concettualmente e universalmente compresa.
8.4.3. La “demitologizzazione”
Il terzo tipo di rapporto tra logos e mythos e, per analogia, tra filosofia e
narrazione biblica, è quello che potremmo chiamare della “demitologizza-
zione” (Entmythologisierung), la quale appartiene propriamente alla modernità.
Secondo questo tipo di rapporto il logos filosofico non solo si ritiene auto-
nomo dal mythos, ma elimina dal mito ogni possibilità di contenere una qual-
siasi verità che riguardi la ragione filosofica. Il mito non viene allora sola-
mente demitizzato, ma demitologizzato, nel senso che non vi si riconosce
più alcuna fonte di ispirazione veritativa per la filosofia. Questo processo di
demitologizzazione, che ha accompagnato la storia della ratio separata nella
modernità, ha travolto in particolare la considerazione della Bibbia come
fonte di verità non solo per la teologia, ma anche per la filosofia. Il settimo
capitolo del Trattato teologico-politico di Spinoza, concernente le nuove regole
dell’interpretazione della Scrittura, è fondativo di tutto il processo moderno
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fia a contatto dei simboli» e costituisce oggi «una delle vie del suo rinnova-
mento»25.
co ha finito per significare la svalutazione veritativa del simbolo, al pari della “demitologiz-
zazione” moderna, — da cui apparentemente sembra distanziarsi per la rivalutazione del
mythos contro il logos, ma con cui concorda sostanzialmente per la separazione irriducibile tra
mythos e logos — nel senso che laddove ad ogni simbolo religioso è affidata la verità religiosa,
semplicemente non vi è possibilità di alcuna verità religiosa, ovvero non vi è possibilità di
rapporto tra il mythos e il logos. Il sincretismo religioso che ne deriva (e di cui fa fede R.
GUÉNON, in Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1990), se da una parte testimonia una
forte esigenza di rivalutare il “simbolico” nell’ambito del linguaggio religioso, dall’altra apre
una serie di questioni non solo teologiche ma propriamente filosofiche ed ermeneutiche
circa l’interpretazione “veritativa” del simbolismo religioso e dei rapporti tra logos e mythos.
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M. KLEIN, L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’io, in Scritti (1921-
30
31 Cf. L. LEVY-BRUHL, La mitologia primitiva, Newton Compton, Roma 1973.
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ca — del simbolo. Per la sua “teoria del simbolo”, Ricoeur parte da una cri-
tica alla concezione freudiana del simbolo come una sublimazione, che egli
ritiene un “fallimento”38. Nel senso che Freud, concependo il simbolo come
una semplice sublimazione onirica di processi psichici, ed anche inconsci,
non avrebbe offerto la possibilità di chiarire le capacità di offrire
un’ulteriorità di senso propria del simbolo rispetto al simbolo stesso. Freud,
in altri termini, con la sua concezione della sublimazione, da un parte avreb-
be compreso che esiste un processo di trasferimento cognitivo dalla base
psichica alla sua espressione simbolica, ma dall’altra non avrebbe compreso
che nel processo di sublimazione è implicito un surplus da parte del soggetto
che conferisce al simbolo un’ulteriorità di significato. Rispetto ad
un’interpretazione troppo collegata ai suoi referenti psichici, Ricoeur ricorda
la capacità creativa del soggetto umano e della sua attività simbolizzatrice.
Nel simbolo esiste una sovrapproduzione di senso che la teoria freu-
diana non riesce a cogliere. Ciò avviene eminentemente nel linguaggio poe-
tico 39 . In modo analogo, Ricoeur critica la concezione del simbolo
nell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, perché per Ricoeur
l’antropologia strutturale è inadeguata a comprendere strutturalmente la
funzione del simbolo, in quanto le manca «un certo grado di intelligenza
ermeneutica»40. Il simbolismo del “pensiero selvaggio”, infatti, rimarrebbe
troppo legato ad un insieme di relazioni strutturali proprie di un sistema lin-
guistico e non riuscirebbe a cogliere, oltre la funzione segnica, anche la fun-
zione semantica del simbolo, che consiste nella capacità creativa e produtti-
va dei gruppi sociali e delle culture che li esprimono. Lévi-Strauss avrebbe
operato «una scelta della sintassi contro la semantica»41, e in questo modo
avrebbe realizzato una sorta di “simbolismo chiuso”, a cui occorre contrap-
porre un’ermeneutica del simbolico volta a coglierne tutte le dimensioni sia
linguistiche che semantiche, sia relazionate ai referenti psichici o antropolo-
gici sia, soprattutto, collocate nella dimensione della creatività,
dell’innovazione e della produttività.
Ricoeur è stato indubbiamente uno degli innovatori principali della
nozione contemporanea di simbolo. Non è possibile comprendere la novità
apportata da Ricoeur senza confrontarla con l’altra grande teoria filosofica
del simbolo nel nostro secolo, quella di Ernest Cassirer. Nella celebre Filoso-
fia delle forme simboliche42, Cassirer si preoccupa di aprire la rigida concezione
38 Cf. P. RICOEUR, Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Melangolo, Genova 1991, p.
448.
39 Cf. ivi, p. 457ss.
40 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, p. 71.
41 Ivi, p. 54.
42 Cf. E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961.
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kantiana del trascendentale della ragion pura, che è costitutivo delle scienze
fisiche e matematiche, ad una più ampia dimensione dello spirito dell’uomo,
che è appunto la sua attività simbolizzatrice e in quanto tale costitutiva di
tutte le forme della creazione spirituale, quali si manifestano nella cultura,
nell’arte, nella religione, nella filosofia. L’attività simbolizzatrice prende così
per Cassirer il posto della forma a priori kantiana. In tal modo, tuttavia, inte-
ressa a Cassirer approfondire più la dimensione simbolica, ineliminabile dal-
lo spirito umano, che non comprendere nella sua alterità e specifica realtà il
simbolo in quanto tale. E questo è precisamente uno dei punti importanti di
demarcazione con la teoria del simbolo di Ricoeur, il quale si preoccupa in-
vece di comprendere la natura stessa del simbolo in sé. Il simbolo, per Cas-
sirer, non è altro che il prodotto dell’attività simbolizzatrice dell’uomo, qua-
lificata come una fondamentale attività dello spirito, volta a dare significati
alla realtà. E poiché la cultura, nelle sue variegate manifestazioni, rappresen-
ta eminentemente il luogo in cui l’uomo esplica la sua attività di significa-
zione, le diverse forme culturali, considerate nella loro peculiarità, costitui-
scono l’insieme delle forme simboliche.
Cassirer contribuisce così a superare i limiti ristretti della Ragion pura
kantiana, destinata unicamente alla conoscenza dei fenomeni sensibili, e
quindi alla scienza, e apre la via per esplorare la vastità dell’attività simboliz-
zatrice dello spirito umano, nella sua concretezza esistenziale e storica; e tut-
tavia non riesce ad offrirci una compiuta teoria del simbolo e della sua natu-
ra. E in effetti, essendo il simbolo, per Cassirer, il referente espressivo di
un’attività spirituale simbolizzatrice e quindi segnica, esso rischia, come ha
osservato Ricoeur, di ridursi alla funzione di un segno linguistico, in cui,
come per la teoria scolastica, aliquid stat pro aliquo. In altri termini, il simbolo
in quanto tale rischierebbe, in Cassirer, di ridiventare un “segno” che si ap-
piattisce in una teoria generale dei segni, ovvero nella semiotica. Occorre in-
vece, secondo Ricoeur, poter passare dalla semiotica del simbolo
all’ermeneutica del simbolo, raccogliendo la provocazione sul simbolo offer-
ta dalla teoria psicoanalitica, e secondo cui il simbolo non è un referente
immediato di una realtà, come il segno, ma è “l’altra parte” di una realtà, di
cui costituisce piuttosto un referente indiretto e sovente intralciato, così da
offrirsi ad una complessa interpretazione del suo senso nascosto e sovente
misterioso. Occorre addentrarsi allora in un’ermeneutica del simbolo capace
di avvicinarsi alla sua pregnanza semantica ed alla sua natura. E occorre par-
tire, per questa ermeneutica del simbolo, da una fenomenologia dei simboli,
che sappia distinguere le tre grandi aree della sua presenza «le teofanie, o ie-
rofanie del cosmo, ovvero lo spazio del sacro; l’onirico, lo spazio desideran-
te del sogno; l’immagine poetica, lo spazio dell’immaginazione creativa»43.
43 F. SARCINELLI, Itinerari del simbolico. Tra Freud e Ricoeur, in “Symbolon”, I (1997) 1-2,
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Ricoeur distingue così tre tipi di simboli: i simboli sedimentati, che riguar-
dano il passato e che egli definisce: «vestigia di simboli stereotipati e trasla-
ti»; i simboli abituali, che riguardano il presente e che sono «i simboli in uso
[…] che, nella sincronia di una data società, servono da garanzia all’insieme
dei patti sociali»; e i simboli prospettici, che riguardano il futuro, e che sono
«creazioni di senso, che, riprendendo i simboli tradizionali, con la loro di-
sponibile polisemia, veicolano significazioni nuove»44.
Il simbolo unisce allora, per Ricoeur, archeologia e teleologia, nel sen-
so che si volge al passato per restaurarne il senso, per comprendere il pre-
sente e infine per proiettarsi con significatività verso il futuro. La restaura-
zione di una pienezza di senso del simbolo ha dunque questo significato
nell’ermeneutica di Ricoeur. Il simbolo si presenta come fonte di significa-
zioni e di interpretazioni e come luogo di una pienezza di senso che abbrac-
cia il passato, il presente e il futuro. Si potrebbero usare qui in modo simbo-
lico le parole che Omero mette in bocca a Calcante nell’Iliade, e citate da
Heidegger nel suo commento al detto di Anassimandro: «Si alzò nuovamente
Calcante il Testoride, il più saggio di tutti gli àuguri, che conosceva ciò che è, ciò che sarà e
ciò che fu…»45. La restaurazione di una pienezza di senso del simbolo, che
abbraccia il passato, il presente e il futuro, e che si presenta come fonte ine-
sauribile di significazioni e di interpretazioni, ha dunque questo significato
nella prospettiva ermeneutica. Ed è per questo che, a partire da Ricoeur,
ermeneutica e simbolo vengono strettamente congiunti.
Tuttavia, andando oltre lo stesso Ricoeur, gli studi più recenti osser-
vano che, sebbene il simbolo abbia la sua radice in un vissuto esistenziale
pre-linguistico e pre-categoriale, esso si manifesta e si esprime sempre in
una modalità particolare del linguaggio umano. In altri termini, dal punto di
vista della sua espressione linguistica, il simbolo rappresenta un particolare
uso del linguaggio che può essere denominato modo simbolico, e che è caratte-
rizzato da una forte carica di Sinngebung, ovvero di attribuzione di senso.
Ora, la domanda che ci si pone è la seguente: cosa fa sì che questa donazio-
ne di senso resti costante nel simbolo e non venga distorta o scardinata,
come avviene ad esempio nelle forme psicotiche di dissociazione o di allu-
cinazione? Per Wilfred Bion «il simbolo, per come è comunemente inteso,
rappresenta una congiunzione riconosciuta come costante da un gruppo»46,
nel senso che il simbolo, per essere veramente tale, deve esser riconosciuto
come costante in una dimensione intersoggettiva e comunitaria, e solo in
pp. 351- 378; Cf. P. RICOEUR, Della interpretazione, cit., p. 460 e ss.
44 P. RICOEUR, Della interpretazione, cit., pp. 463 e ss.
45 M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro, cit., p. 321.
46 W. BION, Attenzione e interpretazione: una prospettiva scientifica sulla psicoanalisi e sui gruppi,
51 P. RICOEUR, Finitudine e colpa, cit., p. 633.
52 Ibidem.
53 Ibidem.
54 Ibidem.
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59 G. MARTINI, Ermeneutica e narrazione, cit., p. 20.
60 Ivi, p. 21.
Simboli, immagini, icone 241
8.11. L’Erlebnis
Cf. M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1987.
61
cata nella dialettica di ritorno continuo alla realtà del vissuto, la quale opera
come “riempimento” (e anche il termine Erfüllung è di Husserl)
dell’interpretazione, impedendole di restare puramente teorica o ideologica.
Questo processo di ritorno, informato da una intenzionalità veritativa, è in
realtà il processo stesso del “riempimento” fenomenologico dell’idea.
Approfondendo il concetto di Erlebnis come “esperienza vissuta”,
Gadamer in Verità e metodo nota come nel concetto romantico dell’arte, che
fa capo in primo luogo a Goethe, ogni espressione artistica è espressione di
un’Erlebnis e a sua volta si presenta come Erlebnis per colui che ne fruisce.
Gadamer nota accuratamente come, a differenza del termine Erlebnis, che
entra in circolazione nel vocabolario filosofico solo a partire dalla fenome-
nologia husserliana, il termine Erleben è presente nella letteratura tedesca già
con Goethe e Schiller. Erleben, scrive Gadamer, significa «essere ancora in
vita quando una determinata cosa succede»65. Il termine Erleben fa riferimen-
to dunque a un qualcosa che non si conosce solo concettualmente, ma che
si sperimenta direttamente nella immediatezza. Erlebnis allora fa riferimento
a questa immediatezza dell’esperienza che, anche se avvenuta nel passato,
tuttavia mantiene un’influenza nel presente, formando in modo permanente
il tessuto cognitivo della realtà da parte di un soggetto o di una cultura.
«Qualcosa diventa un Erlebnis in quanto è stato erlebt, vissuto e sperimentato,
ma in quanto il suo essere vissuto ha avuto una particolare intensità che gli
conferisce un significato permanente»66. Ed è in direzione di questo signifi-
cato che il termine erleben viene approfondito da Dilthey, Schleiermacher,
Georg Simmel, Bergson, nonché da poeti come Stefan George.
Ora, osserva Gadamer, il termine Erlebnis entra nella terminologia er-
meneutica proprio con l’intenzionalità di designare un conoscere che non
faccia riferimento solo astrattamente all’oggetto conosciuto, ma che nasca
dal vissuto dell’esperienza e vi ritorni come luogo della verità dell’esperienza
stessa. Tutta la teoria di Dilthey intorno alla differenza tra le scienze della
natura e le scienze dello spirito (Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften) ruo-
ta intorno a questo concetto di Erlebnis come fondamento di quella oggetti-
vità conoscitiva che è propria delle scienze dello spirito e comunque di un
rapporto comprensivo ed interpretativo di realtà spirituali e personali. La
nozione di Erlebnis troverà poi nel capitolo II delle Ricerche logiche di Husserl
una tematizzazione definitiva. L’Erlebnis, per Husserl, non è solo il tessuto
vitale da cui nasce la conoscenza, ma è anche il fine intenzionale di ogni au-
tentica conoscenza. In tal modo, per Husserl il concetto di Erlebnis si applica
a tutti gli atti della coscienza, la cui essenza costitutiva è l’intenzionalità67.
65 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 87.
66 Ivi, p. 88.
67 Cf. E. HUSSERL, Ricerche logiche: prolegomeni a una logica pura, Il Saggiatore, Milano 1968, 2 voll.
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68 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., pp. 96-97.
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72 Ivi, pp. 102-103.
73 Ivi, p. 103.
74 Ivi, p. 179.
75 Ivi, p. 185.
76 Cf. ivi, p. 178.
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ché «il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui
grandezza non può essere in alcun modo sopravvalutata»79. In realtà, da un
punto di osservazione puramente teoretico, e quindi veritativo, l’equivoco
sorge dal fatto che l’uomo si illude di avere pienamente in sua mano la tec-
nica, mentre viceversa «la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di
per sé non è in grado di dominare»80. Sarà ancora possibile ritornare ad uno
stadio di osservazione della realtà che sia di tipo “simbolico”, e quindi con-
templativo, veritativo, teoretico e poetico? È possibile riprendere ancora il
cammino verso una visione alta del reale, con l’ausilio della filosofia, e attra-
verso la filosofia, mediante il suo ruolo insieme di “demistificazione” delle
odierne mitologie e di guida rinnovatrice del pensare, del sentire, del vedere?
Tenendo conto della drammaticità dell’odierna situazione e dell’attuale an-
nullamento del carattere “simbolico” della filosofia, generato proprio dal
dominante modello scientifico del sapere, Heidegger scrive che «la filosofia
non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato del mondo
[…] Ormai, egli scrive, solo un dio ci può salvare»81. Al pensatore, consape-
vole che il dominio tecnologico sta realmente mutando il volto antropologi-
co dell’uomo, «resta, come unica possibilità, quella di preparare (Vorbereiten)
nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschaft) all’apparire del dio o
dell’assenza del dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del dio assente,
noi tramontiamo)»82. Il dio che ci salva non è il dio dei filosofi, il dio del
pensiero. Anzi, scrive Heidegger «noi non possiamo avvicinarlo col pensie-
ro, siamo tutt’al più in grado di risvegliare la disponibilità dell’attesa»83.
Eppure occorre riconoscere, proprio in queste affermazioni heidegge-
riane circa l’impotenza della filosofia, ancora una volta la dimensione socra-
tica della filosofia, non tanto come proposta definitiva, quanto piuttosto
come “domanda” e come “attesa” di senso e di ulteriorità di senso oltre le
certezze apparenti su cui poggia sicura la nostra cultura scientifica e tecno-
logica. Ed è ancora questa dimensione socratica del pensare che può fare del
logos filosofico un demitizzatore di certezze illusorie e radicate nella cultura
contemporanea, un logos che non distrugge, ma riapre anche in senso religio-
so, nel contesto di una società sempre più secolarizzata, il cammino
dell’autentico pensare e lo spazio di quella che già Platone chiamava una
possibile rivelazione divina84.
M. HEIDEGGER, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, p. 131.
79
Ivi, p. 132. 80
81 Ivi, p. 136.
82 Ibidem.
83 Ivi, p. 137.
84 Scrive Platone che occorre affidarsi al “mito” circa il destino dell’anima dopo la mor-
te, «a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più
solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina» (Fedone, 85 D).
248
Phronesis
Del resto, scrive ancora Heidegger, «il domandare è la pietas del pen-
85
siero» .
per decifrare i simboli che gli vengono offerti, ossia per pensare. La celebre
disputa che Platone istituisce nel Fedro circa il primato della parola orale sul-
la scrittura, contiene in realtà al suo interno una tesi che è restata fondamen-
tale nella tradizione europea: quella del primato della parola sull’immagine,
giacché anche l’immagine, per essere decifrata, ha bisogno di essere compre-
sa come simbolo, e quindi di essere accolta nel linguaggio interiore del pen-
sare90.
90 Per le questioni relative al rapporto oralità-scrittura, con ricca bibliografia, cf. P.
MICCOLI, Homo loquens. Oralità e scrittura in Occidente, Urbaniana University Press, Città del
Vaticano 1998.
91 DEMOCRITO, Fr. 195 D-K.
92 ESCHILO, Agamennone, 416-419.
93 PLATONE, Fedro, 275d.
250
Phronesis
blema di fondo, nel contesto della riflessione socratica e platonica sul senso
dell’immagine, consiste non solamente nel confronto con la vivente parola
dell’oralità, ma soprattutto nella domanda se ciò che è spirituale possa essere
compiutamente imitato in una forma sensibile. Socrate si chiede se sia pos-
sibile imitare l’anima: «Come può essere imitata, se non ha né forma né co-
lore […] e non è affatto visibile?»94. E Platone aggiunge che non con gli oc-
chi del corpo ma solo con lo sguardo di un’anima purificata è possibile “ve-
dere” ciò che è spirituale e divino. Oltre la pura imitazione di un essere tran-
sitorio, propria della pittura, occorre cercare qualcosa di essenziale e di per-
manente, un più alto ordine dell’essere, nell’accoglimento di una bellezza
che proviene come un evento da più alte potenze ispiratrici.
Non è certamente condivisibile la categorica condanna platonica
dell’arte in quanto “imitazione di una imitazione”. Ma è indubbio che Plato-
ne abbia immesso nella meditazione sul “senso” dell’immagine
un’inquietudine che resterà perenne, ovvero la tensione tra il visibile e
l’invisibile, tra il visto e il non visto, tra il caduco e l’essenziale. E non è erra-
to affermare che la caratteristica peculiare dell’arte greca — non a caso de-
nominata “classica” — risieda proprio nella consapevolezza di questa ten-
sione tra il visibile e l’invisibile, che le ha fatto ricercare l’essenzialità nei ca-
noni dell’armonia e della proporzione delle parti, come pure nelle rigide re-
gole del metro poetico, quasi a voler dettare le leggi secondo cui l’invisibile
può farsi visibile, e lo spirituale corporeo, senza tradirsi, ma rivelandosi at-
traverso lo sguardo agli occhi dell’anima95.
E per questo, a motivo del primato della parola sulla stessa scrittura e
sull’immagine, il valore stesso dell’immagine può essere compreso solo
all’interno di un universo di parole, ovvero di simboli. «La pittura, scrive
Simonide, è poesia muta; la poesia è pittura che parla»96. L’immagine, in altri
termini, ha bisogno della parola per essere interpretata e capita, ossia ha bi-
sogno di rapportarsi all’universo simbolico del pensiero se non vuole restare
inerte e sterile.
SENOFONTE, Detti memorabili di Socrate, III, 10,4.
94
Scrive Plotino: «La bellezza, così come percepita dall’occhio, è costituita dalla correla-
95
zione delle parti tra di loro, e con il tutto, insieme con l’elemento aggiuntivo del buon colo-
re; in altre parole, la bellezza nelle cose visibili, come in ogni altra, consiste nella simmetria
e nella proporzione» (Enneadi I,VI, 1). Pittura e scultura differiscono dalla poesia perché
non hanno rapporti con la musica, ma li hanno con la matematica e la geometria. Le arti
sono strettamente legate al concetto di armonia e di proporzione, come mediazione della
bellezza.
96 PLUTARCO, De Gloria Atheniensium, 3.
Simboli, immagini, icone 251
97 G. SARTORI, Homo videns, cit., p. 8.
98 Ivi, p. 13.
99 Ivi, p. 15.
100 Ivi, p. 22.
101 E. KANT, Critica della ragion pura. Dialettica trascendentale, I, Utet, Torino 1986, par. 2.
252
Phronesis
Ivi, p. 56.
103
104 Ivi, pp. 109-110.
105 Ivi, p. 88.
106 Ivi, p. 63.
107 Cf. R. D. PUTNAM, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, Si-
mon and Schuster, New York 2000, tr. it. Capitale sociale e individualismo. Crisi e nascita della
cultura civica in America, Il Mulino, Bologna 2004.
Simboli, immagini, icone 253
109 M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit., p. 99.
110 Ivi, p. 73.
Simboli, immagini, icone 255
Cf. A. MANZONI, Dialogo dell’invenzione, Comune di Como, Como 1985.
111
pp. 157-164.
256
Phronesis
In un celebre brano del V atto del Sogno d’una notte di mezza estate, Sha-
kespeare fa rivolgere da Teseo, duca di Atene, questo strano discorso alla
sua fidanzata Ippolita, regina delle Amazzoni, ed a Filostrato, suo cerimo-
niere, in una commedia fantastica in cui i personaggi si scambiano le parti ed
il ruolo, con il favore di una notte d’estate, ed in un’atmosfera di sogno ir-
reale e magico.
Si tratta del celebre discorso detto l’“occhio del poeta”, che indica nel-
la poesia, al pari della pazzia d’amore, la facoltà non solo di trasfigurare le
cose, ma di confonderle tra di loro, di prendere un cespuglio per un orso, di
dare nome al nulla, in uno stato d’animo di sogno che è distacco totale dalla
realtà. L’arte, in altri termini, non sarebbe altro che dar corpo ai sogni, ai
fantasmi, alle ombre, perché l’arte è magia ed incantesimo, e quindi luogo
irreale ed immaginario, incapace di ritrovarsi nella crudezza di una realtà che
avvilisce i sogni nella banalizzazione del quotidiano. La creazione artistica
sorge dal nulla, ovvero da ciò che non è reale, e proprio per questo è sogno,
fantasia creatrice, immaginazione poetica.
Shakespeare anticipa genialmente la concezione dell’arte come pura
creazione dell’artista che sarà fatta propria dalla modernità, peraltro nel con-
testo di una commedia che è essa stessa effervescente di simboli e di magia,
ma in cui in realtà egli vuol dirci che il simbolo è poetico proprio perché è
fine a se stesso e non rimanda ad altro che al sogno generato dalla mente del
poeta.
«L’occhio del poeta è preso da una frenesia sublime e si rigira continuamente a guardare
cielo e terra, e con la penna rappresenta tutto ciò che la sua mente inventa di ignoto e di
fantastico, riuscendo così a dare nome e realtà al nulla evanescente. Ed è talmente forte la
forza dell’immaginazione, che se egli sogna la gioia, subito genera la gioia, e se, di notte,
sogna la paura, subito crea un pensiero di spavento, e trasforma tutta la realtà, perché egli
può, se vuole, far sembrare un cespuglio un orso».
122 Cf. M. MAETERLINCK, Pelléas et Mélisande, Feltrinelli, Milano 1993.
Simboli, immagini, icone 259
verso un fine, chiaro alla ragione cattivata passo a passo, ma un segno auto-
nomo, folgorante, irradiante, propagantesi in mille onde suggestive, slargan-
tesi in tutte le sue possibilità evocative, senza intermediari, fino al seguente
che gli si associa e lo giustifica, ed è a sua volta giustificato ed illuminato da
esso per l’espressione finale di un movimento di vita! Posar le parole come il
pittore i colori e vedere il mondo spiegarsi nel suo splendore!»123. Ma, di
conseguenza, è pure inquietante constatare come la tragedia sanguinante
della guerra abbia posto fine bruscamente al “sogno” dei simbolisti, e che il
risveglio per una nuova possibilità di creazione artistica — e non solo pitto-
rica — si sia originato a partire da Guernica di Pablo Picasso.
Occorre allora chiedersi se forse, pur nell’ambiguità filosofica e teolo-
gica delle sue affermazioni, non abbia visto più a fondo nella natura del
“simbolo” e con maggiore verosimiglianza Wolfgang Goethe, che alla fine
del V atto del Faust fa cantare dal Chorus Mysticus:
Tutto l’Effimero
è solo un Simbolo.
L’Inattuabile
si compie qua.
Qui, l’Ineffabile
è Realtà124.
che si riflette nella creazione intera. Sarà piuttosto il pensiero religioso russo
— in particolare di Vladimir Soloviev e di Pavel Florenskij — ad approfon-
dire il tema dell’“icona” come simbolo del mistero divino. Ed è nel contesto
di questo pensiero che verrà elaborata la più alta concezione della “parola”
come “immagine”, ovvero come simbolo iconico di ciò che appare come
inesprimibile ed ineffabile, come la realtà vera cui ogni autentico simbolo
rimanda ed allude.
126 Cf. P. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998.
127 P. FLORENSKIJ, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977, p. 68.
262
Phronesis
segni svolgono questa funzione rappresentativa del rappresentato, ma solo i segni che egli
definisce simboli e che sono in qualche modo simili alle immagini. Inoltre, mentre
l’immagine offre un di più d’essere al rappresentato, la funzione del simbolo non è il di più,
e il simbolo non apporta al simboleggiato un accrescimento di essere.
Simboli, immagini, icone 263
che il principio della realtà tutta non è l’identità ma in qualche modo una
coincidentia oppositorum. E proprio per questo nell’Uno-Trinità di Florenskij è
possibile concepire il mistero di una creazione che è altro da Dio, ma che
pure è fin dall’inizio una epifania di Dio, quale si manifesterà eminentemen-
te nell’Incarnazione del Logos. L’Uno-Trinità implica infatti in sé il mistero
della molteplicità delle creature, in cui solo può esprimersi in modo iconico
l’infinita ricchezza dell’Uno-Trinità di Dio. È qui che risiede il fondamento
teologico del simbolo e dell’icona, che è manifestazione visibile di una Paro-
la e di una Verità che è trans-razionale, trans-logica e quindi veramente tra-
scendente. Per Florenskij il visibile deve diventare in tal modo una manife-
stazione dell’Invisibile, anche nella sua apparente contraddittorietà. E questo
è appunto il senso del simbolo e dell’icona, capaci di comprendere tutta la
creazione come una epifania di Dio, e come una manifestazione visibile del-
la sua Parola creatrice e redentrice.
137 Col 1,15.