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8. SIMBOLI, IMMAGINI, ICONE

8.1. Il simbolo e il “segno”

Icone, immagini, simboli. L’ordine con cui è possibile entrare in que-


sti temi potrebbe essere facilmente capovolto: simboli, immagini, icone; o
anche: simboli, icone, immagini. Perché in realtà si tratta di un unico argo-
mento, che mette in questione il senso del “simbolo” quale si è venuto co-
struendo e poi smarrendo nel pensiero occidentale e quale si va recuperando
nella cultura contemporanea. E, ad esso strettamente congiunto, il problema
del mythos nel suo rapporto con il logos, che nelle forme storicamente assunte
diviene paradigma del rapporto stesso fra narrazione religiosa, filosofia in-
terpretante e culture storiche dell’uomo.
“Simbolo” trova la sua etimologia nel greco syn-ballo, che significa
mettere insieme, comporre qualcosa con un’altra. E per questo, poiché il
termine “simbolo” sta ad indicare un qualcosa che si collega intenzional-
mente ad un’altra per significarla e per portarla alla coscienza, esso viene in
molti casi associato al termine “segno”. Il simbolo, in altri termini, rappre-
senterebbe una modalità particolare della natura del segno, inteso a sua volta
come ciò che significa alla coscienza umana, proprio in quanto segno, ciò di
cui è segno ovvero la cosa rappresentata.
La teoria degli scolastici così definiva il segno: «signum est id quod re-
praesentat aliud a se potentiae cognoscenti», ovvero «il segno è ciò che rende pre-
sente alla facoltà conoscitiva un qualcosa di altro e di diverso da sé»1. Il se-
gno tiene il posto di, dipende da, nel senso che la natura del segno consiste
proprio nel suo rimandare a quel referente nella realtà di cui è segno. E la
natura del suo essere segno consiste proprio nel saper rappresentare alla co-
scienza la realtà di cui è segno, come un suo sostituto2. Secondo la teoria
                                                                                                               
1 J. MARITAIN, Quatre essais sur l’esprit dans sa condition charnelle, Alsatia, Paris 1956, p. 60

(traduzione mia).
2 A questo proposito gli scolastici distinguevano un “segno naturale” da un “segno

convenzionale”. È chiaro, ad esempio, che il fumo è un segno naturale del fuoco più che il
suo correlato concettuale, così come l’acqua che cade è un segno della pioggia e del cielo
coperto. Si tratta in questi casi di una relazione di proporzione intrinseca tra segni e signifi-
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classica della conoscenza infatti, — e pur con modalità diverse da Platone


ad Aristotele, da Agostino a Tommaso — tutta la nostra vita intellettuale
dipende dalla capacità di riconoscere il valore dei segni nel loro valore di si-
gnificazione di cui sono segni, ovvero segni di cose reali. L’intelligenza
dell’uomo è diversa proprio in questo dallo psichismo dell’animale, che per-
cepisce i segni come segnali, ma non come significati, e non comprende il
valore di significazione che essi hanno. In effetti, «percepire la relazione di
significazione, significa avere un’idea, un segno spirituale»3; cosicché si può
dire che «la chiave di volta della vita intellettuale è il segno»4.
Cogitare per signa ha costituito in tal modo il principio fondamentale
non solo della teoria agostiniana della conoscenza, entro la quale la posizio-
ne agostiniana si preoccupava peraltro di sottolineare come il cogitare per signa
fosse una particolarità della ragione umana ma non dell’intelligenza divina,
la quale conosce le cose non “per segni” ma “per essenza”, a motivo, come
preciserà san Tommaso, del suo non essere mai in potenza in quanto atto
puro; ma resterà a fondamento anche di tutta la moderna gnoseologia, la
quale concepisce il conoscere, pur con modalità diverse, come un cogitare per
signa5.
Peraltro va notato come è in questo contesto della teoria scolastica del
segno che verrà individuato un particolare tipo di segni, il “segno pratico”,
come quello capace di suscitare in colui a cui è rivolto la stessa cosa signifi-
cata. E in effetti gli scolastici si preoccuparono di distinguere i segni specu-
lativi dai segni pratici, i primi relativi alla conoscenza teorica del vero, i se-
condi ad una conoscenza del vero capace di condurre alla sua attuazione
nella prassi e nell’etica. Il segno pratico presuppone l’intenzionalità
dell’intelligenza della verità, ma esso va dai gesti di supplica ai riti religiosi,
suscitando in qualche modo in colui a cui è rivolto la stessa cosa che signifi-
ca. Gli scolastici, nella loro utilizzazione di concetti filosofici per
l’interpretazione e la concettualizzazione dei simboli sacri, quali quelli deri-
vanti dalla Rivelazione, intenderanno allora il segno sacramentale come un
tipo particolare di “segno pratico”. Come scrive Giovanni di san Tommaso
nel suo Corso di teologia il sacramento è «un segno pratico che significa una
cosa sacra ordinata alla nostra santificazione»6. E Maritain preciserà: «Il se-
                                                                                                                                                                                                                                                                             
cati, che gli scolastici fondavano sulla metafisica dell’essere, secondo cui la comprensione
intelligibile della realtà è fondata sullo stesso essere: verum et ens convertuntur; cf. J. MARITAIN,
Quatre essais, cit., p. 63.
3 Ivi, pp. 59-60.
4 Ivi, pp. 69-70.
5 Per la teoria del segno nella gnoseologia moderna, cf. J. MARITAIN, Les degrés du savoir,

DDB, Paris 1932, p. 769ss; e inoltre Ch. S. PEIRCE, Chance, Love and Logic, Braziller, New
York 1956.
6 GIOVANNI DI S. TOMMASO, Cursus theologiae, t. IX, De Sacramentis, §§108-115.
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gno sacramentale non è più soltanto segno pratico, esso diviene allora causa
strumentale di cui la stessa Causa Prima dell’essere usa per produrre la gra-
zia nell’anima, così come l’artista usa del violino o del flauto per produrre la
bellezza»7. Al vertice della teoria scolastica del segno, rapportata alla teologia
dei sacramenti, sta il mistero dell’Eucarestia, il quale non poggia sull’identità
tra significante e significato, ma sulla relazione sostanziale tra significante e
significato, causata da un intervento diretto della Causa Prima. Intervento
che, secondo il dogma della transustanziazione, opera il cambiamento più
radicale dell’essere in quanto essere.
Se si è iniziata questa riflessione sul “simbolo” dalla teoria scolastica
del segno, è innanzi tutto dovuto alla necessità di dover fare riferimento, in
un modo o nell’altro, proprio alla dottrina teologica dei sacramenti ed in
particolare alla teologia eucaristica. L’influenza della Scrittura sulla teoria del
segno e del simbolo nella filosofia moderna e contemporanea è infatti de-
terminante, sia che si tratti della teologia sacramentaria dell’Antica Alleanza
che della Nuova8. Si potrebbe anzi affermare, come cercherò di mostrare
nelle considerazioni che seguiranno, che le diverse concezioni del segno
nell’età moderna e contemporanea e le diverse filosofie del simbolo, anche
nel suo rapporto di similitudine e di distanza con il “segno”, si rifacciano
tutte alle diverse teologie della realtà dei sacramenti, ed in particolare
dell’Eucarestia, elaborate all’interno delle diverse confessioni cristiane. La
Scrittura risulta ancora una volta, e sotto un aspetto decisivo, il referente
teologico ed insieme teoretico fondamentale per comprendere il percorso
differenziato e l’avventura della filosofia nella modernità, e in particolare
l’elaborazione della nuova teoria del simbolo.

8.2. La crisi moderna del “segno”

In effetti è stata proprio la differenza posta dalla Scolastica tra segno e


simbolo, che aveva una motivazione prevalentemente teologica più che filo-
sofica, e per questo dagli scolastici non ulteriormente approfondita dal pun-
to di vista linguistico ed ermeneutico, a dare origine alle teorie moderne e
contemporanee del simbolo, che si originano proprio dalla “crisi” della con-
                                                                                                               
J. MARITAIN, Quatre essais, cit., p. 79.
7

San Tommaso precisa tuttavia che, a differenza dei segni-sacramenti dell’Antica Al-
8

leanza — circoncisione, unzione sacerdotale, manducazione dell’agnello pasquale —, che


significavano solamente la santificazione ma non la producevano per se stessi, viceversa i
segni-sacramenti della Nuova Alleanza, a motivo della sovrabbondanza di grazia che pro-
viene dalla passione di Cristo, e per il dono dello Spirito che vi opera ininterrottamente,
non solamente significano, ma effettuano realmente, a mo’ di causa strumentale, ciò che
significano.
218   Phronesis

cezione scolastica del segno. In realtà, bisogna partire dal vertice della teoria
del segno introdotta dalla meditazione sull’Eucarestia nella teologia scolasti-
ca che occorre in un primo tempo prendere le mosse per comprendere co-
me la riflessione scolastica sul segno — anche indipendentemente dalla me-
tafisica dell’essere cui si collega — è risultata non all’altezza del dogma cui
vuole fare riferimento, e insufficiente a comprendere la vera natura del sim-
bolo quale si è venuta invece delineando nella filosofia contemporanea, la
quale introduce in questo tema elementi di decisiva importanza anche per la
teologia.
La teoria scolastica del segno, infatti, se da una parte, sul piano teolo-
gico, sa riconoscere la peculiarità unica del segno sacramentale, che porta
realmente ciò che significa, dall’altra invece, sul piano linguistico, antropolo-
gico e filosofico, attribuisce la capacità di percepire la realtà stessa del signi-
ficato nel significante linguistico ad una mentalità culturale primitiva e non
evoluta razionalmente. La conseguenza logica sarebbe che la capacità di ri-
conoscere nel sacramento la cosa stessa significata, apparterrebbe ad una
mentalità primitiva e non evoluta; e tale è stata infatti la conseguenza tratta
coerentemente dalla critica razionalista della religione, a partire dal Trattato
teologico-politico di Spinoza9. Tanto è vero che lo stesso Maritain, seguendo gli
autori di formazione scolastica, chiama “segno magico” il segno percepito in
uno stadio primitivo, notturno e magico della conoscenza, il quale precede-
rebbe “l’età solare” della ragione. «Diciamo sommariamente — egli scrive
— che nel nostro stato logico le sensazioni, le immagini, le idee sono solari,
impegnate nello psichismo luminoso e regolare dell’intelligenza e delle sue
leggi di gravitazione. Nello stato magico, esse erano notturne, impegnate
nello psichismo fluido e crepuscolare dell’immaginazione e in un’esperienza
stupefacentemente potente ma tutta vissuta e, — in quanto oggetto di rifles-
sione — sognata»10. A differenza dello stadio solare dell’intelligenza, rappre-
sentato dal logos, lo stadio notturno e magico della conoscenza sarebbe carat-
terizzato dall’attitudine a percepire nel simbolo il simbolizzato e la realtà nel
segno che la significa. Certamente, sia Aristotele che Tommaso riconoscono
che il movimento dell’intelligenza verso il significato del segno e
dell’immagine si identifica sostanzialmente con il movimento
dell’intelligenza verso la cosa significata: «Secundus autem motus, qui est in ima-
ginem in quantum est imago, est unus et idem cum illo qui est in rem»11. Ma precisa-
mente questo è il punto: e cioè che, da un punto di vista strettamente filoso-
fico, la capacità di riconoscere la cosa stessa nel segno che la significa viene
attribuita a una mentalità primitiva ma non alla coscienza educata dall’età
                                                                                                               
9 Cf. B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, Fabbri, Milano 1996.
10 J. MARITAIN, Quatre essais, cit., p. 84.
11 S. TOMMASO, Summa Theologica, III, 25, 3.
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solare della ragione. La capacità di riconoscere nei simboli qualcosa che fa


entrare nella realtà stessa della cosa, è appannaggio di una mentalità primiti-
va e mitica, ma non logica e razionale. La conseguenza sarà, in epoca mo-
derna, lo smantellamento di questa cosiddetta “mentalità primitiva” da parte
di una ratio separata, che travolgerà la visione religiosa del mondo in nome di
una ragione ritenuta ormai autonoma e matura. E sebbene la riflessione
contemporanea rivaluti il simbolo dal punto di vista linguistico, psicoanaliti-
co, antropologico, ermeneutico, vedendovi il luogo in cui res et signum si
compongono in una sorprendente unità, tuttavia essa non farà più riferi-
mento alla dimensione teologica del segno, verso la quale opererà invece
una diffusa demitizzazione, che coinvolgerà anche il significato profondo
del segno sacramentale.
In questo modo, la teoria tradizionale del segno si è posta, sebbene
involontariamente, all’origine delle teorie positivistiche e razionalistiche del
“mito”, secondo le quali, da Spinoza a Hegel a Lévy-Bruhl, il linguaggio
simbolico è un linguaggio primitivo, che dev’essere superato dalla luminosa
chiarezza del logos. La fusione o addirittura l’identità tra il segno e il significa-
to apparterrebbe ad una mentalità pre-logica, magica e mitica, che dev’essere
trascesa nella matura dimensione della razionalità filosofica e scientifica.
«L’era della scienza — scrive ancora Maritain — è successa all’era della ma-
gia. E magia e scienza sono essenzialmente nemiche e incompatibili»12. Sen-
za forse rendersi conto che proprio l’era della scienza sta assistendo ad uno
straordinario rifiorire non solo della magia ma di un mito che oramai a sua
volta si è completamente sganciato dal logos.
Per la teoria scolastica, è solo lo spirito dell’uomo primitivo ad attri-
buire direttamente al segno la cosa significata senza la mediazione del segno
significativo e quindi del logos. Scrive Maritain: «Niente è più naturale per la
mentalità primitiva che fare del nome l’equivalente naturale della cosa no-
minata»13. Il pensiero magico rappresenterebbe un pensiero primitivo che
copre il mistero del sacro sotto la sua nominazione. Secondo la prospettiva
neoscolastica di Maritain sarebbe possibile comprendere qualcosa del tenta-

                                                                                                               
12 J. MARITAIN, Quatre essais, cit., p. 95. In realtà, per poter approfondire la differente

natura del “simbolo” rispetto al “segno”, occorrerebbe riflettere sulla teoria scolastica della
natura dell’ “immagine”, per la quale il simbolo può essere definito anche come un “segno
immagine”, insieme “Bild” e “Bedeutung”, un qualche cosa di sensibile, come scrive Mari-
tain, «che significa un oggetto in ragione di una relazione presupposta di analogia» (ivi, p.
65). E in effetti l’immagine, a differenza del puro segno, trattiene la somiglianza con
l’originale, così come il figlio è l’immagine e non il “segno” del padre. La teoria scolastica
seppe in qualche modo riconoscere, seppur embrionalmente, in quel particolare tipo di se-
gno, che è il simbolo, un qualcosa della natura dell’immagine, che consiste nel trattenere in
sé qualcosa dell’originale rappresentato.
13 Ivi, p. 119.
220   Phronesis

tivo operato dalla poesia simbolica moderna, ad esempio di Mallarmé, volto


a recuperare il potere magico delle parole, tentativo che rappresenterebbe
tuttavia un sintomo patologico, ovvero una regressione dello spirito civiliz-
zato alla mentalità magica. Laddove forse, in una rinnovata teoria del simbo-
lo, esso indica piuttosto il bisogno prepotente dello spirito dell’uomo di re-
cuperare ciò che era perduto: il legame del segno con il suo significato e del
simbolo con il simboleggiato, esprimendo così una “nostalgia” delle origini
stesse del pensare, quale verrà ampiamente tratteggiata in particolare dalle
riflessioni di Heidegger.
Del resto, poiché lo stesso Maritain afferma, seguendo gli scolastici,
che il linguaggio degli angeli non si serve di segni per pensare, occorrerebbe
piuttosto concludere che il poeta moderno vive della nostalgia di recuperare
un tipo di linguaggio in cui il segno e il significato, il simbolo e il simbolizza-
to, facciano tutt’uno. «I poeti nell’umanità — egli scrive — si sforzano di-
speratamente di attingere ad una certa similitudine il linguaggio degli Angeli,
ovvero il linguaggio perfetto, esprimendo in un medesimo sospiro il sé e le
cose tutt’insieme. Ciò che gli uccelli realizzano mediante la sola musica,
l’uomo lo può realizzare in qualche modo mediante la poesia, e la sua musi-
ca possiede anche un significato intelligibile, un senso spirituale»14. Il lin-
guaggio simbolico della poesia, come ogni autentico “simbolo”, vivrebbe
allora sostanzialmente della “nostalgia” del linguaggio originario, ovvero del
linguaggio in cui res et signum siano uno, quale si esprime in modo emblema-
tico nella narrazione del mito o, come dirà Heidegger, nel pensiero poetante
e nella poesia pensante.
Resta tuttavia che è nel contesto di questa visione antinomica tra logos
e mythos, e che intende il logos come un superamento definitivo del mythos,
che si inserisce la teoria positivista dei miti, secondo la quale il mito, come
narrazione simbolica, si inserirebbe in un’attitudine primitiva a riconoscere
nel simbolo il simbolizzato, e consisterebbe quindi nella disposizione magi-
ca e non logica ad attribuire alla narrazione mitica un’azione causale, in cui il
simbolizzato è trattenuto nella sua realtà all’interno dei miti, delle cerimonie
e delle scritture sacre che lo simbolizzano. I miti non rispondono ad un bi-
sogno di sapere e di conoscenza concettuale, essi corrispondono piuttosto
ad un bisogno di segni pratici che vengono equiparati alla magia. Da cui
consegue che la concezione scolastica del mito verrà paradossalmente ripre-
sa e radicalizzata a favore del logos contro il mito proprio da Spinoza e da
Hegel, secondo cui «il pensiero magico e il segno magico sono destinati ad
essere sostituiti, e ciò proprio in quanto “magici” sebbene essi sussistano al-
lo stato virtuale […] nell’immensa riserva sotterranea dell’immaginazione e

                                                                                                               
14 Ivi, p. 124.
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dell’affettività»15. La divaricazione tra mythos e logos e quindi tra linguaggio


simbolico e filosofia, raggiunge così un’acme sconosciuta alla stessa filosofia
greca, e si fa precorritrice involontaria della moderna critica della religione
come mythos che, a partire da Spinoza fino all’odierna demitizzazione, ha
percorso tutta la modernità.

8.3. Il «detto» di Anassimandro: logos o mythos?

Un esempio emblematico di quanto esposto ci viene offerto da Hei-


degger. Egli osserva infatti che il primo “detto” del pensiero occidentale di
cui abbiamo testimonianza, il detto che sarà poi a fondamento di tutto il
cammino del logos filosofico, è in realtà un detto espresso nel linguaggio
simbolico o del mito, perché ci parla insieme dell’origine e della fine, del
principio e del termine di tutte le cose, attraverso “l’ordine del tempo”. Si
tratta del celebre ed enigmatico detto di Anassimandro, cui Heidegger dedi-
ca uno dei suoi scritti più suggestivi, e che suona così: «Ma là donde le cose
hanno il loro sorgere, si volge anche il loro venir meno, secondo la necessi-
tà; esse pagano reciprocamente la pena e il fio per la loro malvagità, secondo
il tempo stabilito»16.
Non ha importanza qui discutere la particolare interpretazione che di
questo detto offre Heidegger, il quale vi vede profetizzato il cammino del
logos in Occidente, che si “distaccherebbe” dall’Essere per volgersi agli enti,
giungendo così al suo tramonto (Abendland = terra della sera)17. Egli vi scor-
ge, altresì, annunciata la sua stessa filosofia come meditazione sulla differen-
za ontologica tra Essere ed ente, pur nella loro coappartenenza originaria.
Ciò che mi sembra importante notare è come in questo detto si parli di “di-
stacco”, di “separazione”, di “colpa”, di “tempo” come luogo di una “ne-
cessità” che è “destino”, come la moira di Edipo, ma che può essere anche
luogo di una restaurazione della giustizia originaria, e poi di “origine”, di
“venir meno”, di “malvagità” intesa non come colpa morale ma come ingiu-
stizia ontologica, legata alla stessa struttura ontologica degli enti nel loro na-
scere e morire.
Siamo qui di fronte al logos o al mythos? È difficile rispondere. Po-
tremmo tuttavia concordare con Heidegger che, alle sue origini, il pensiero

                                                                                                               
Ivi, p. 107. 15

Il detto è in DIELS-KRANZ 12 B 1, Die Fragmente der Vorsokratiker, Griechisch und


16

Deutsche, von Hermann Diels, Elfte Auflage hrsg. von Walter Kranz, Zürich/Berlin 1964,
3 Band; la traduzione qui riportata è citata da M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro, in
Sentieri interrotti, cit., pp. 299-348.
17 Cf. M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, cit., p. 303.
222   Phronesis

occidentale non prevedeva la netta separazione che poi si è stabilita tra logos
e mythos, proprio a motivo di una originaria esperienza dell’Essere, e che per-
tanto, con Anassimandro, ci troviamo di fronte ad un esempio straordinario
di pensiero poetante e di poesia pensante, ovvero di pensiero espresso nel
linguaggio del simbolo e del mythos. Il mythos ci appare qui come custode del-
la memoria delle origini. Ma non è forse significativo il fatto che proprio
una delle correnti più audaci della cultura contemporanea, ovvero
l’interpretazione psicoanalitica del simbolo, ci parli della sua fontalità
nell’esperienza originaria del distacco (dalla madre, o dal “magma psichico
delle origini”), del trauma della separazione, e del bisogno di narrazione le-
gato a questa esperienza fontale, nonché del bisogno di ricostruzione, attra-
verso la restaurazione del senso, di ciò che si era perduto? Anche a livello
della prospettiva psicanalitica il mito appare allora come racconto di una
storia originaria, come interpretazione dell’esistenza, come bisogno di cono-
scenza e di autocomprensione, e soprattutto come “memoria” e “ricordo”
di un trauma originario da ricomporre attraverso il racconto.

8.4. I tre tipi di rapporto tra logos e mythos

Occorre allora riflettere brevemente sui tre principali tipi di rapporto


che il logos ha istituito con il mito, fin dalle origini di quella riflessione filoso-
fica che si rifà al logos greco.

8.4.1. La “demitizzazione”

Il primo tipo di rapporto che il logos filosofico istituisce con il mito è


quello di una “demitizzazione” (Entmythisierung), rivolta tuttavia non ad abo-
lire il mito, quanto a interpretarne la verità che vi si cela al fine di concettua-
lizzarla e renderla universale. In questa prima forma di demitizzazione il logos
sembra nascere dall’ampio alveo del mythos come esigenza di purificazione
dei suoi elementi spurii e come bisogno di interpretazione e di concettualiz-
zazione della sua nascosta verità. Ciò è particolarmente evidente dai rapporti
che il logos greco ha intrattenuto con i miti omerici e poi orfici. Il mito —
etimologicamente, come scrive Platone, «racconto intorno a dèi, esseri divi-
ni, e eroi discesi nell’aldilà»18 — viene inteso dai primi filosofi come custode
della memoria delle origini, memoria che tuttavia andava depurata da ogni
elemento antropomorfico e fabulistico, e ricondotta alla sua verità essenzia-
le. Cos’è infatti la ricerca dell’arché da parte dei filosofi della Ionia se non una
                                                                                                               
18 PLATONE, Repubblica, 329 A.
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trascrizione concettuale del mito delle origini raccontato dalle genealogie esio-
dee ed in quelle omeriche19? E cos’è la critica severa dell’antropomorfismo da
parte di Senofane, se non la ricerca di un più autentico volto del divino, quale
si andrà ulteriormente precisando con il Nous di Anassagora, con il Logos di
Eraclito, con il Bene di Platone e con la Noesis Noeseos di Aristotele? E che
cos’è la concezione dell’eros (amore) come forza motrice dell’universo, da
Empedocle a Platone, se non la trascrizione concettuale del mito orfico,
analogamente alla concezione dell’anima come l’elemento divino nell’uomo,
e avente un destino ultraterreno? Si può affermare allora che in questa prima
forma di rapporto tra il logos e il mythos, il logos opera una qualche forma di
demitizzazione rispetto alla mitologia; ma che tuttavia esso custodisce anco-
ra la memoria di un’origine narrata dal mythos, e ne corregge la narrazione
mitologica di un principio che è principiato, è ancora il chaos di Esiodo, o i
libri delle genealogie, comprendendo concettualmente che il principio non
può essere esso stesso principiato. Viene elaborata in tal modo una nozione
metafisica di “principio” che resterà eredità preziosa della cultura filosofica
e teologica dell’Occidente. Il logos elabora concettualmente l’idea universale
del principio, che è origine non principiata, che è principio proprio in quan-
to non può avere principio, avvicinandosi molto alla nozione genesiaca del
Bereshit. Il mito custodisce la memoria delle origini, ma è il logos che ne svela
l’intima verità e la universalizza nel concetto.
Pertanto, se forse è eccessivo annoverare con il Wilamowitz i primi fi-
losofi greci nella storia delle religioni, per il motivo che, come egli sostiene
ne La fede degli Elleni20, le loro idee del divino sopravviveranno nella storia
culturale dell’umanità, si può concordare con lo Jaeger il quale, ne La teologia
dei primi pensatori greci21, sostiene la tesi secondo cui vennero da essi elaborate
le prime concettualizzazioni filosofiche di Dio e del divino, che resteranno
retaggio del linguaggio filosofico e teologico occidentale. Le idee di Primo
Principio, di Eternità, di Infinito, di Intelligenza creatrice, di Essere che è
pienezza di essere, di Bene diffusivo, costituiscono un patrimonio concet-

                                                                                                               
Se Omero, nell’Iliade, parla dell’Oceano come “madre di tutti gli dèi”, ed Esiodo, nella
19

Genealogia, fa dire alle Muse: «Noi sappiamo raccontare molte menzogne che sono simili alla
realtà ma, volendo, sappiamo anche manifestare la verità», essi indicano la pretesa di an-
nunciare la “verità” sugli dèi e sulle origini di tutte le cose, che i primi filosofi porteranno a
compimento. Del resto, non sarà proprio Aristotele a scrivere che «anche chi ama il mito è
in qualche modo filosofo» (Metafisica, A 2, 982b 18 ss), in quanto anche il mito nasce, come
la filosofia, dalla “meraviglia” di fronte all’essere ed esprime anch’esso un bisogno di inter-
pretazione e di verità?
20 Cf. U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Der Glaube der Hellenen, 2 Band, Wissen-

schaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19593.


21 Cf. W. JAEGER, Die Theologie der frühen griechischen Denker, Kohlhammer, Stuttgart 1953;

ed. it. La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961.
224   Phronesis

tuale che esprime verità universali, non più legate alla cultura greca, e nem-
meno al suo ancora insufficiente contesto teologico, ma appartenenti ormai
all’umanità, come verità che nascono in una determinata cultura storico-
mitologica, ma che, in quanto tali, hanno una destinazione universale che
non è racchiusa nella sola dimensione storica. Resta comunque acquisito che
in questa prima forma di rapporto tra logos e mythos, il logos demitizza ma non
distrugge integralmente il mythos, non solo perché nasce nel suo alveo, ma
perché mantiene sempre un rapporto dialettico con esso, volto insieme a
purificarlo e ad interpretarne la verità nascosta nell’orizzonte di una verità
concettualmente e universalmente compresa.

8.4.2. L’armonia dialettica tra logos e mythos

Il secondo tipo di rapporto che il logos istituisce con il mythos è quello


che potremmo chiamare di “armonia dialettica”. Quale esempio paradigma-
tico di questo tipo di rapporto può essere indicato il pensiero di Platone. Di
fronte ai destini escatologici delle anime, Platone non può fare altro che ri-
correre alle interpretazioni del mito, in particolare orfico, che parla della so-
pravvivenza delle anime oltre la morte. “Il rischio è bello”, scrive Platone,
ma merita arrischiarsi a credere, con il mito, che l’anima è immortale; occor-
re affidarsi alla “fede” nel mythos «e bisogna — egli continua — che con
queste credenze, noi facciamo l’incantesimo a noi medesimi: ed è per questo
che io, da un pezzo, protraggo questo mio mito»22. L’incantesimo del logos
operato dal mythos non ha la funzione di carpirne il bisogno di conoscenza,
ma di mettere le ali ad un nuovo tipo di conoscenza, ad un nuovo livello di
contemplazione della verità, che il logos nella sua debolezza, senza
l’ispirazione del mythos, è incapace di raggiungere. Per questo, in una filosofia
dalla potente componente religiosa e mistica, quale quella platonica, il ricor-
so al mythos come fonte di ispirazione è frequente, in particolare laddove il
logos si trova impreparato e debole, ed interviene come un “incantesimo”
che soccorre il dubbio della ragione. Dal mito di Er, nella Repubblica, che
svela i destini delle anime, alla ripresa della credenza orfica e pitagorica della
metempsicosi, nel Fedone, al mito della legge ineluttabile di Adrastea che sve-
la la “colpa originale” di cui sono gravate le anime al loro nascere nel Fedro
e, ancora nel Fedro, il mito di Eros come la forza motrice dell’universo tutto
e della possibilità, per le anime, di rimettere di nuovo le “ali” per fare ritor-
no presso il divino. Il mito orfico, in particolare, ha influssi sul pitagorismo,
su Platone, e persino sul De Anima di Aristotele, perché esso custodisce la
memoria di un elemento spirituale e divino nell’uomo, che non può essere
                                                                                                               
22 PLATONE, Fedone, 114D-115A.
Simboli, immagini, icone 225  

confuso con la sua componente corporea, memoria che è interpretata e giu-


stificata razionalmente dal logos filosofico, ma non negata.
Il rapporto di armonia dialettica tra mythos e logos istituito da Platone è
stato fatto proprio, sotto molteplici aspetti, dal pensiero cristiano in relazio-
ne alla Rivelazione biblica. Ciò che accomuna infatti — al di là delle ovvie
differenze teologiche — il mythos antico alla Bibbia, è che entrambi sono
espressi non nella forma del pensiero concettuale o metafisico ma in quella
della narrazione storico-simbolica. È avvenuto così che la Rivelazione,
espressa in un linguaggio non metafisico ma narrativo e storico-simbolico, è
stata interpretata nella sua verità da parte di un logos rispettoso della sua alte-
rità e della sua primigenia fonte di ispirazione. Questa rivalutazione della
narrazione simbolica come fonte originaria del pensiero è un tratto molto
attuale della più recente ermeneutica, come vedremo più avanti, e che è sta-
to approfondito con particolare attenzione alla narrazione religiosa da Paul
Ricoeur. Ma va qui ancora sottolineato che nell’ambito della riflessione cri-
stiana si approfondiranno altre questioni attinenti al rapporto tra logos e lin-
guaggio narrativo della Scrittura, che sono estranee al pensiero antico: e cioè
la differenza esistente tra l’ambito delle verità razionali e quello delle verità
di fede; la corretta interpretazione della Verità contenuta nella Scrittura e il
corretto uso della metafisica per l’elaborazione concettuale del suo contenu-
to; e infine, oltre alla tensione teologica volta all’approfondimento della Ve-
rità della Rivelazione, il logos filosofico ha avuto l’audacia di ritenere la stessa
Rivelazione come fonte inesauribile di verità anche filosofiche, traendone
così sempre nuove ed inedite forme di “filosofia cristiana”.

8.4.3. La “demitologizzazione”

Il terzo tipo di rapporto tra logos e mythos e, per analogia, tra filosofia e
narrazione biblica, è quello che potremmo chiamare della “demitologizza-
zione” (Entmythologisierung), la quale appartiene propriamente alla modernità.
Secondo questo tipo di rapporto il logos filosofico non solo si ritiene auto-
nomo dal mythos, ma elimina dal mito ogni possibilità di contenere una qual-
siasi verità che riguardi la ragione filosofica. Il mito non viene allora sola-
mente demitizzato, ma demitologizzato, nel senso che non vi si riconosce
più alcuna fonte di ispirazione veritativa per la filosofia. Questo processo di
demitologizzazione, che ha accompagnato la storia della ratio separata nella
modernità, ha travolto in particolare la considerazione della Bibbia come
fonte di verità non solo per la teologia, ma anche per la filosofia. Il settimo
capitolo del Trattato teologico-politico di Spinoza, concernente le nuove regole
dell’interpretazione della Scrittura, è fondativo di tutto il processo moderno
226   Phronesis

di demitologizzazione della Bibbia come fonte di verità filosofica e religiosa.


E ciò sebbene, anche nella modernità, e pur al di fuori di ogni ortodossia
teologica, appaiano esempi molto significativi di un rapporto con la Bibbia
considerata fonte d’ispirazione filosofica, quali possono essere considerati la
gnoseologia teologica di Hegel, la filosofia della Rivelazione di Schelling, e
persino l’ermeneutica di Heidegger, il quale scrive testualmente: «La mia fa-
miliarità con il termine ermeneutica risale al tempo in cui studiavo teologia.
Il problema che allora soprattutto mi tormentava era quello del rapporto tra
la Parola della Sacra Scrittura e il pensiero teologico speculativo. Era, se vuole,
lo stesso problema che tra Linguaggio ed Essere, solo velato e per me inac-
cessibile, così che tra giri e sviamenti, invano cercavo un filo conduttore»23.
Ecco allora che, da vari segnali provenienti dal pensiero contempora-
neo, ci troviamo oggi di fronte ad una situazione paradossale, e totalmente
nuova, dei rapporti tra logos e mythos, che non ripristina certo l’antico, ma è
capace di aprire nuovi percorsi — e forse anche nuove sfide — sul cammi-
no della rivalutazione del “mito”.
Il pensiero contemporaneo, che ha fatto seguito alla fase moderna
della demitologizzazione del mito, e in qualche modo alla “crisi” della mo-
dernità, ha visto infatti significativamente comparire una inedita attenzione
al mito ed al simbolo che lo narra, e ciò ad opera di diversi ed anche con-
trapposti ambiti culturali: all’interno dello studio comparato delle religioni;
nel contesto della teoria psicoanalitica del simbolo; nell’ambito
dell’antropologia interpretativa che fa seguito all’antropologia culturale di
Lévi-Strauss; e infine, e soprattutto, nella corrente ermeneutica, da Heideg-
ger a Gadamer e in particolare, per quanto concerne il “simbolo religioso”, a
Paul Ricoeur.
«Il simbolo dà a pensare», scrive Ricoeur24, nel senso che il rapporto
tra il pensiero e il simbolo è del tipo circolare tra “credere e comprendere”
approfondito dalla riflessione ermeneutica, che ha in questo capovolto la
demitologizzazione del mito propria della modernità. Certamente Ricoeur
riconosce che se la demitologizzazione significa in senso riduttivo il saper
separare nella narrazione simbolica ciò che è realmente storico da ciò che è
solamente pseudostorico, secondo i criteri storico-critici, questa forma di
demitologizzazione è valida e imprescindibile, in particolare per quanto
concerne l’interpretazione della Scrittura. Ma se la demitologizzazione signi-
fica «esorcizzare il logos del mythos», allora essa si capovolge nell’impossibilità
di cogliere «la dimensione del simbolo, in quanto segno originario del sa-
cro», che è invece la via percorsa fino in fondo dall’odierna ermeneutica.
L’ermeneutica, per Ricoeur, «partecipa così alla rivitalizzazione della filoso-
                                                                                                               
23 M. HEIDEGGER, In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano 1979, pp. 89-90.
24 P. RICOEUR, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1960, p. 629.
Simboli, immagini, icone 227  

fia a contatto dei simboli» e costituisce oggi «una delle vie del suo rinnova-
mento»25.

8.5. Il simbolo tra Freud e Ricoeur

La teoria del simbolo ha visto così un profondo ripensamento da par-


te del pensiero contemporaneo, e non solo nell’epoca del romanticismo,
con le sue elaborate teorie dell’arte, ma in particolare e soprattutto da parte
di diverse correnti del pensiero contemporaneo, che hanno sostanzialmente
trasformato l’impostazione scolastica della nozione del simbolo-segno. Ri-
coeur, come già detto, ha affermato che “il simbolo dà a pensare”, nel senso
che è risultato insufficiente individuare il fondamento del simbolo solamen-
te nel segno linguistico o concettuale. Ma piuttosto, come ha scritto Freud
nella Lezione 10 della Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917), il fondamento
del simbolo non «è stato ancora da noi chiaramente colto»26. E in effetti, gli
ambiti in cui la filosofia contemporanea ha visto operare una profonda tra-
sformazione della nozione di simbolo, pur senza volerne tentare una defini-
zione teorica definitiva, sono stati, come si è detto, oltre alla storia compara-
ta delle religioni — di cui qui non ci occuperemo, a motivo delle complesse
questioni sollevate dalle sue derive sincretistiche o gnostiche27 — la psicoa-
nalisi, l’antropologia culturale e, soprattutto, l’ermeneutica.
Sarà possibile allora addentrarci in una nuova concezione del simbolo
e del simbolico, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di poterne offri-
re una teoria conchiusa a motivo proprio della natura polivalente del simbo-
lo, solo attraverso le diverse codificazioni della odierna riflessione del sim-
bolo — quello psicoanalitico, quello antropologico-culturale, e quello erme-
neutico — per tentarne una composizione atta a comprendere meglio non
solo la natura del simbolo, ma la rilevanza anche religiosa e teologica che es-
                                                                                                               
25 Ibidem.
26 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, in ID., Opere, Boringhieri, Torino 1976, VIII, p.
339.
27 Nell’ambito della storia e teoria comparata delle religioni, la rivalutazione del simboli-

co ha finito per significare la svalutazione veritativa del simbolo, al pari della “demitologiz-
zazione” moderna, — da cui apparentemente sembra distanziarsi per la rivalutazione del
mythos contro il logos, ma con cui concorda sostanzialmente per la separazione irriducibile tra
mythos e logos — nel senso che laddove ad ogni simbolo religioso è affidata la verità religiosa,
semplicemente non vi è possibilità di alcuna verità religiosa, ovvero non vi è possibilità di
rapporto tra il mythos e il logos. Il sincretismo religioso che ne deriva (e di cui fa fede R.
GUÉNON, in Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1990), se da una parte testimonia una
forte esigenza di rivalutare il “simbolico” nell’ambito del linguaggio religioso, dall’altra apre
una serie di questioni non solo teologiche ma propriamente filosofiche ed ermeneutiche
circa l’interpretazione “veritativa” del simbolismo religioso e dei rapporti tra logos e mythos.
228   Phronesis

sa riveste. L’importanza di questa riattualizzazione è dovuta al fatto che il


linguaggio simbolico appartiene eminentemente alla narrazione del mito, e
quindi alla narrazione religiosa, quale è anche sotto molti aspetti quella della
Bibbia. Ora, il rapporto tra i diversi modelli di interpretazione del simbolo
da una parte attualizza il rapporto classico tra il logos e il mythos, ovvero tra
filosofia e narrazione religiosa — con evidenti implicanze anche per il rap-
porto della filosofia con la Bibbia — e dall’altra evidenzia come i diversi
modelli di approccio al linguaggio religioso ed all’interpretazione del simbo-
lo, quali si sono venuti costituendo nel pensiero contemporaneo, possono
offrire preziosi anche se tuttora inesplorati contributi per un rinnovato rap-
porto tra narrazione biblica e filosofia. Le moderne teorie di interpretazione
del simbolo devono essere viste infatti non tanto come distruttrici del lin-
guaggio religioso, quanto piuttosto come tentativi di mantenere la narrazio-
ne simbolica nella sua autonoma validità e fontalità significativa. In questo
senso il recupero del linguaggio simbolico è di grande importanza per la ri-
valutazione del linguaggio religioso in genere, e biblico in particolare.

8.6. Simbolo e psicoanalisi

In linea generale si può affermare che la fondazione remota della mo-


derna riflessione sul simbolo è contenuta nell’opera Interpretazione dei sogni di
Sigmund Freud, pubblicata nel 1900. Freud svilupperà l’originaria riflessione
sul simbolismo onirico nelle successive edizioni di quest’opera, soprattutto
nella quarta del 191428. E in seguito nella lezione 10 delle Lezioni sulla psicoa-
nalisi, del 1915-17, in cui, con una chiara sintesi, afferma un concetto che
rimarrà indiscusso nelle odierne teorie del simbolo, anche al di là del conte-
sto psicoanalitico.
Il simbolo non vi è qui considerato un semplice segno, ma come una
relazione simbolica tra due livelli di realtà, uno manifesto ed uno occulto, i
quali devono essere compresi nella loro reciprocità per poter dare “senso”, e
quindi offrire la possibilità di “interpretare” il simbolo. Freud, come è noto,
fa del sogno il paradigma del simbolico, in cui i remoti significati sono ricer-
cati non in concetti astratti, ma nelle concrete realtà del corpo, nelle figure
parentali, nella nascita, nella morte, nella nudità, nel sesso. Cosicché il signi-
ficato remoto dei simboli onirici non andrebbe ricercato nelle concettualiz-
zazioni astratte, ma nelle narrazioni simboliche, quali quelle dei racconti,
delle fiabe, dei motti di spirito, del folclore, dei proverbi, delle canzoni po-
polari, della poesia e del linguaggio colloquiale. Il sogno è un simbolo, la cui
interpretazione è legata al contesto di tutte quelle realtà esistenziali in cui vi-
                                                                                                               
28 Cf. S. FREUD, Rappresentazione simbolica nei sogni, in Opere, cit., VIII, cap. V.
Simboli, immagini, icone 229  

ve il soggetto e che costituiscono il substrato delle sue diverse rappresenta-


zioni simboliche ed anche concettuali.
Carl Gustav Jung, nell’opera La libido: simboli e trasformazioni29, accusa
Freud di non saper conciliare nella sua interpretazione del simbolo le due
dimensioni del simbolico: quella individuale, legata all’esperienza onirica, e
quella collettiva, legata alle espressioni culturali, simboliche, che sono patri-
monio dell’umanità. Per questo l’interpretazione freudiana dei simboli, pur
riconoscendo il valore esistenziale del simbolo, non riesce ad elaborare una
completa teoria ermeneutica del simbolo stesso, ma si riduce in fondo ad
una pura tecnica associativa di interpretazione. Secondo Jung, viceversa, la
funzione simbolica è espressione soprattutto di un’energia psichica origina-
ria, che tende a svilupparsi e ad esprimersi in molteplici forme culturali, reli-
giose, artistiche.
Anche la psicoanalisi post-freudiana tenta di superare o meglio di al-
largare la concezione freudiana del simbolo, pur mantenendone due assunti
fondamentali: e cioè che l’interpretazione del simbolo richiede la ricerca del
suo lato oscuro e nascosto da interpretare; e che il simbolo è sempre collo-
cato e in qualche modo correlato al corporeo, e quindi all’esistenza concreta
del soggetto o della collettività. Ciò significa che la difficoltà
nell’interpretazione del simbolo consiste proprio nel non saper condurre ad
un livello linguistico ed espressivo ciò che ha una dimensione non linguisti-
ca. In altri termini, come direbbe Ricoeur, nel non saper “narrare”
l’inenarrabile.
È nella direzione di una rinnovata comprensione del legame che esiste
tra la capacità di simbolizzare e la formazione dell’identità psichica nei primi
anni di vita, e della correlazione tra capacità simbolizzatrice e contesto cul-
turale, che la studiosa viennese Melanie Klein ha offerto un notevole con-
tribuito alla teoria del simbolo. Nella sua opera L’importanza della formazione
dei simboli nello sviluppo dell’io, la Klein studia i principali passi della formazio-
ne dell’io e sostiene che l’io si forma da una parte, come voleva Freud, sulla
base del substrato corporeo, dall’altra sul fondamento della sua capacità di
simbolizzare il corporeo e insieme di simbolizzare in modo corretto gli og-
getti del mondo con cui entra in contatto. Si deve appunto alla Klein la no-
zione di “oggetto simbolico”, con la quale si vuole significare che le pulsioni
degli individui non sono determinate solo dall’inconscio, ma dalle diverse
modalità della sua simbolizzazione, cosicché una malattia psichica è data
dalla «mancanza di rapporto simbolico con le cose»30. La formazione di
un’identità personale sarebbe dunque data dalla capacità simbolica che sa
                                                                                                               
Cf. C. G. JUNG, La libido: simboli e trasformazioni, Boringhieri, Torino 1965.
29

M. KLEIN, L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’io, in Scritti (1921-
30

1958), Boringhieri, Torino 1981, p. 255.


230   Phronesis

incanalare e sublimare le diverse pulsioni, attraverso la sublimazione, ad un


nuovo livello della psiche. E in questo senso la funzione simbolica, per la
Klein, non avrebbe tanto la funzione di compensare attraverso il simbolo
un desiderio rimosso, come per Freud, quanto il compito di incanalare e di
realizzare lo slancio creativo della persona.
Il simbolo diviene in tal modo, nello sviluppo storico della teoria psi-
coanalitica, il mediatore della realizzazione dell’identità personale e delle sue
capacità creative e originali. Il simbolo viene assumendo così una funzione
fondamentale nel complesso della teoria della personalità, in tal modo che si
potrebbe dedurre che la deprivazione del simbolo costituisce anche un im-
poverimento della realizzazione della persona. Il simbolo, nel contesto della
teoria psicoanalitica freudiana e post-freudiana, assume l’importante ruolo di
interpretazione della realtà profonda personale, nonché di realizzazione
dell’identità personale, sia nella dimensione culturale e comunicativa, sia
nell’affermazione della libera creatività.

8.7. Il simbolo nell’antropologia culturale

Il secondo ambito in cui si è avuto un rinnovamento della nozione di


simbolo è quello dell’antropologia culturale. Infatti, a differenza
dell’antropologia di matrice positivista, ad esempio di Lévy-Bruhl, nell’opera
Le funzioni mentali nelle società inferiori del 1917, nella quale si riteneva che tutti
i sistemi simbolici appartenessero a culture prelogiche e non civilizzate31,
Lévi-Strauss sostiene che l’attività simbolica fa parte della struttura e della
coesione di qualsiasi comunità umana. Lévi-Strauss conia l’espressione
“scambio simbolico”, per indicare come l’interazione della comunicazione
comunicativa in una società si realizza attraverso sistemi di simboli i quali
hanno dunque una funzione di coesione sociale. In questo contesto, le cul-
ture umane svolgerebbero il ruolo di sistemi stabili di scambio, e quindi di
comunicazione, allo stesso modo che il linguaggio, per la linguistica di de
Saussure, è una struttura ovvero un sistema di comunicazione. Comprende-
re allora l’uomo, e l’uomo nella società, significherà comprenderne la cultu-
ra, ovvero l’insieme di tutte le sue relazioni e interconnessioni simboliche. Il
“pensiero selvaggio”, proposto dall’antropologia culturale di Lévi-Strauss,
non indica dunque il pensiero dei popoli primitivi, ma viceversa il pensiero
originario dell’uomo il quale si costituisce nel rapporto fondativo con il
mondo e con gli altri attraverso l’attività simbolizzatrice della cultura. Il pen-
siero selvaggio, anzi, costituisce quasi un a priori costitutivo delle diverse cul-

                                                                                                               
31 Cf. L. LEVY-BRUHL, La mitologia primitiva, Newton Compton, Roma 1973.
Simboli, immagini, icone 231  

ture. Scrive Lévi-Strauss: «Lingua e cultura sono due modalità parallele di


un’attività più profonda: lo spirito umano»32.
Nella serie Mythologique, fin dai primi anni Sessanta, Lévi-Strauss studia
il totemismo nelle popolazioni primitive amerindiane, sostenendo la tesi che
in realtà ogni identità totemica svolge il ruolo di un simbolo di particolari
relazioni sociali. Il mito diviene in questo contesto un simbolo primitivo che
si struttura in un complesso di significazioni simboliche parallelo e analogo
a quello della lingua e che, come questa, manifesta l’interiore vita dello spiri-
to dei popoli. Il simbolo e l’attività simbolica assumono allora un ruolo par-
ticolarmente importante: ovvero quello di collegare la dimensione naturale
con quella culturale. Come si è già detto, il simbolo significa il luogo in cui è
possibile riunificare due parti separate in un’unica unità di significato. Il
simbolo mitico congiunge infatti il fondamento antropologico sociale con la
sua fondazione ontologica e richiede quindi un’interpretazione che unisca
insieme i metodi dell’antropologia con quelli della filosofia. L’insegnamento
complessivo di Lévi-Strauss consiste allora nel tentativo di interpretare il
simbolismo culturale come una struttura che si articola in modo analogo al
linguaggio umano.
E tuttavia la concezione del simbolico offerta dall’antropologia di
Lévi-Strauss ha offerto il fianco alla critica della cosiddetta “antropologia in-
terpretativa” di Sperber. Questi sostiene infatti che, se il simbolico viene ri-
dotto ad un ordine metalinguistico rispetto al sistema sociale di riferimento,
ciò significa implicitamente la pretesa, forse contro le stesse intenzioni di
Lévi-Strauss, di ridurre il simbolico al cognitivo, e quindi ad una sua esausti-
va interpretazione. Come scrive Sperber: «Lévi-Strauss ha concepito i miti
come un sistema simbolico, come un sistema semiologico»33. Laddove inve-
ce si tratta, secondo le intenzioni originarie di Lévi-Strauss, riprese
dall’antropologia interpretativa, di mantenere il simbolico nella sua alterità,
al di là delle categorie concettuali del significato del segno linguistico. Il
simbolico di Lévi-Strauss, se relazionato al segno della linguistica semiologi-
ca, è totalmente interpretabile, laddove, scrive Sperber, «una rappresenta-
zione è simbolica proprio nella misura in cui non è integralmente formulabi-
le, cioè significabile»34.
Nella sua Interpretative Anthropology, Clifford Geertz contrappone così
all’antropologia culturale di Lévi-Strauss, un’antropologia interpretativa, che
tenta di mantenere i simboli nella loro specificità, indipendentemente dal
sociale e dal loro ruolo semiologico strutturale35. Sono i simboli, in altri ter-
                                                                                                               
32 C. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1969, p. 87.
33 D. SPERBER, Per una teoria del simbolismo, Einaudi, Torino 1981, p. 83.
34 Ivi, p. 111.
35 Cf. C. GEERTZ, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987.
232   Phronesis

mini, che interpretano il contesto sociale da cui nascono e non viceversa. La


conseguenza è che il simbolismo non è una modalità del linguaggio, e nep-
pure una manifestazione significativa di un contesto antropologico e sociale,
ma una reale innovazione creativa sia del contesto del suo riferimento se-
mantico sia della lingua. Il simbolo viene allora sottratto alla sua assimila-
zione al segno linguistico, e viene concepito come una peculiare, originaria e
insostituibile funzione cognitiva dell’uomo, alla luce della quale è possibile
comprendere la peculiarità delle diverse culture.

8.8. Il simbolo e l’ermeneutica: Paul Ricoeur

Ma la nozione di simbolo è stata profondamente rinnovata anche dal-


la linguistica, e in particolare dall’ermeneutica: nel senso che è proprio
nell’ambito degli studi sulla lingua, e tenendo conto del tentativo di ridurre i
simboli ad una struttura linguistica comune, che la linguistica post-
strutturalista ha cercato di comprendere la particolarità del simbolico e la
struttura linguistica di riferimento. In questo senso viene superato anche il
padre della linguistica strutturale, de Saussure. Come scrive Todorov, «non
vi è posto per il simbolico in Saussure»36, nel senso che il simbolico trascen-
de con la sua pregnanza semantica la concezione che lo strutturalismo ha
dei segni come strutture linguistiche, in quanto il simbolico esprime una
modalità creativa e innovativa della facoltà cognitiva dell’uomo.
Emile Benveniste37 ha chiarito come vi sia un’opposizione tra la “se-
miologia”, che studia la lingua come un insieme di segni, e quindi come una
struttura, e la “semantica del linguaggio”, che studia le potenzialità innovati-
ve e creative che, all’interno di questa struttura, introducono il soggetto
umano ad un innovativo ordine di significati, i quali aprono nuovi orizzonti
di significazione e finiscono per rivoluzionare lo stesso sistema semantico di
riferimento. È a quest’ordine innovativo che appartengono le grandi crea-
zioni culturali, artistiche e religiose dell’umanità. Il simbolo appare dunque,
nella linguistica contemporanea, come un luogo di riflessione innovativa sia
nei confronti delle concezioni della lingua e del linguaggio, sia nella funzio-
ne cognitiva dell’uomo.
È in questa direzione che Ricoeur ha tentato un’opera di grande teo-
rizzazione del simbolo. Ricoeur ha cercato di assimilare, nella sua “teoria del
simbolo”, sia l’istanza psicoanalitica freudiana che quella antropologico-
culturale di Lévi-Strauss, nonché le prospettive della linguistica, in ordine ad
una comprensione generale — e in questo senso autenticamente ermeneuti-
                                                                                                               
36 T. TODOROV, Teorie del simbolo, Garzanti, Milano 1984, p. 371.
37 Cf. E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966.
Simboli, immagini, icone 233  

ca — del simbolo. Per la sua “teoria del simbolo”, Ricoeur parte da una cri-
tica alla concezione freudiana del simbolo come una sublimazione, che egli
ritiene un “fallimento”38. Nel senso che Freud, concependo il simbolo come
una semplice sublimazione onirica di processi psichici, ed anche inconsci,
non avrebbe offerto la possibilità di chiarire le capacità di offrire
un’ulteriorità di senso propria del simbolo rispetto al simbolo stesso. Freud,
in altri termini, con la sua concezione della sublimazione, da un parte avreb-
be compreso che esiste un processo di trasferimento cognitivo dalla base
psichica alla sua espressione simbolica, ma dall’altra non avrebbe compreso
che nel processo di sublimazione è implicito un surplus da parte del soggetto
che conferisce al simbolo un’ulteriorità di significato. Rispetto ad
un’interpretazione troppo collegata ai suoi referenti psichici, Ricoeur ricorda
la capacità creativa del soggetto umano e della sua attività simbolizzatrice.
Nel simbolo esiste una sovrapproduzione di senso che la teoria freu-
diana non riesce a cogliere. Ciò avviene eminentemente nel linguaggio poe-
tico 39 . In modo analogo, Ricoeur critica la concezione del simbolo
nell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, perché per Ricoeur
l’antropologia strutturale è inadeguata a comprendere strutturalmente la
funzione del simbolo, in quanto le manca «un certo grado di intelligenza
ermeneutica»40. Il simbolismo del “pensiero selvaggio”, infatti, rimarrebbe
troppo legato ad un insieme di relazioni strutturali proprie di un sistema lin-
guistico e non riuscirebbe a cogliere, oltre la funzione segnica, anche la fun-
zione semantica del simbolo, che consiste nella capacità creativa e produtti-
va dei gruppi sociali e delle culture che li esprimono. Lévi-Strauss avrebbe
operato «una scelta della sintassi contro la semantica»41, e in questo modo
avrebbe realizzato una sorta di “simbolismo chiuso”, a cui occorre contrap-
porre un’ermeneutica del simbolico volta a coglierne tutte le dimensioni sia
linguistiche che semantiche, sia relazionate ai referenti psichici o antropolo-
gici sia, soprattutto, collocate nella dimensione della creatività,
dell’innovazione e della produttività.
Ricoeur è stato indubbiamente uno degli innovatori principali della
nozione contemporanea di simbolo. Non è possibile comprendere la novità
apportata da Ricoeur senza confrontarla con l’altra grande teoria filosofica
del simbolo nel nostro secolo, quella di Ernest Cassirer. Nella celebre Filoso-
fia delle forme simboliche42, Cassirer si preoccupa di aprire la rigida concezione

                                                                                                               
38 Cf. P. RICOEUR, Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Melangolo, Genova 1991, p.
448.
39 Cf. ivi, p. 457ss.
40 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, p. 71.
41 Ivi, p. 54.
42 Cf. E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961.
234   Phronesis

kantiana del trascendentale della ragion pura, che è costitutivo delle scienze
fisiche e matematiche, ad una più ampia dimensione dello spirito dell’uomo,
che è appunto la sua attività simbolizzatrice e in quanto tale costitutiva di
tutte le forme della creazione spirituale, quali si manifestano nella cultura,
nell’arte, nella religione, nella filosofia. L’attività simbolizzatrice prende così
per Cassirer il posto della forma a priori kantiana. In tal modo, tuttavia, inte-
ressa a Cassirer approfondire più la dimensione simbolica, ineliminabile dal-
lo spirito umano, che non comprendere nella sua alterità e specifica realtà il
simbolo in quanto tale. E questo è precisamente uno dei punti importanti di
demarcazione con la teoria del simbolo di Ricoeur, il quale si preoccupa in-
vece di comprendere la natura stessa del simbolo in sé. Il simbolo, per Cas-
sirer, non è altro che il prodotto dell’attività simbolizzatrice dell’uomo, qua-
lificata come una fondamentale attività dello spirito, volta a dare significati
alla realtà. E poiché la cultura, nelle sue variegate manifestazioni, rappresen-
ta eminentemente il luogo in cui l’uomo esplica la sua attività di significa-
zione, le diverse forme culturali, considerate nella loro peculiarità, costitui-
scono l’insieme delle forme simboliche.
Cassirer contribuisce così a superare i limiti ristretti della Ragion pura
kantiana, destinata unicamente alla conoscenza dei fenomeni sensibili, e
quindi alla scienza, e apre la via per esplorare la vastità dell’attività simboliz-
zatrice dello spirito umano, nella sua concretezza esistenziale e storica; e tut-
tavia non riesce ad offrirci una compiuta teoria del simbolo e della sua natu-
ra. E in effetti, essendo il simbolo, per Cassirer, il referente espressivo di
un’attività spirituale simbolizzatrice e quindi segnica, esso rischia, come ha
osservato Ricoeur, di ridursi alla funzione di un segno linguistico, in cui,
come per la teoria scolastica, aliquid stat pro aliquo. In altri termini, il simbolo
in quanto tale rischierebbe, in Cassirer, di ridiventare un “segno” che si ap-
piattisce in una teoria generale dei segni, ovvero nella semiotica. Occorre in-
vece, secondo Ricoeur, poter passare dalla semiotica del simbolo
all’ermeneutica del simbolo, raccogliendo la provocazione sul simbolo offer-
ta dalla teoria psicoanalitica, e secondo cui il simbolo non è un referente
immediato di una realtà, come il segno, ma è “l’altra parte” di una realtà, di
cui costituisce piuttosto un referente indiretto e sovente intralciato, così da
offrirsi ad una complessa interpretazione del suo senso nascosto e sovente
misterioso. Occorre addentrarsi allora in un’ermeneutica del simbolo capace
di avvicinarsi alla sua pregnanza semantica ed alla sua natura. E occorre par-
tire, per questa ermeneutica del simbolo, da una fenomenologia dei simboli,
che sappia distinguere le tre grandi aree della sua presenza «le teofanie, o ie-
rofanie del cosmo, ovvero lo spazio del sacro; l’onirico, lo spazio desideran-
te del sogno; l’immagine poetica, lo spazio dell’immaginazione creativa»43.
                                                                                                               
43 F. SARCINELLI, Itinerari del simbolico. Tra Freud e Ricoeur, in “Symbolon”, I (1997) 1-2,
Simboli, immagini, icone 235  

Ricoeur distingue così tre tipi di simboli: i simboli sedimentati, che riguar-
dano il passato e che egli definisce: «vestigia di simboli stereotipati e trasla-
ti»; i simboli abituali, che riguardano il presente e che sono «i simboli in uso
[…] che, nella sincronia di una data società, servono da garanzia all’insieme
dei patti sociali»; e i simboli prospettici, che riguardano il futuro, e che sono
«creazioni di senso, che, riprendendo i simboli tradizionali, con la loro di-
sponibile polisemia, veicolano significazioni nuove»44.
Il simbolo unisce allora, per Ricoeur, archeologia e teleologia, nel sen-
so che si volge al passato per restaurarne il senso, per comprendere il pre-
sente e infine per proiettarsi con significatività verso il futuro. La restaura-
zione di una pienezza di senso del simbolo ha dunque questo significato
nell’ermeneutica di Ricoeur. Il simbolo si presenta come fonte di significa-
zioni e di interpretazioni e come luogo di una pienezza di senso che abbrac-
cia il passato, il presente e il futuro. Si potrebbero usare qui in modo simbo-
lico le parole che Omero mette in bocca a Calcante nell’Iliade, e citate da
Heidegger nel suo commento al detto di Anassimandro: «Si alzò nuovamente
Calcante il Testoride, il più saggio di tutti gli àuguri, che conosceva ciò che è, ciò che sarà e
ciò che fu…»45. La restaurazione di una pienezza di senso del simbolo, che
abbraccia il passato, il presente e il futuro, e che si presenta come fonte ine-
sauribile di significazioni e di interpretazioni, ha dunque questo significato
nella prospettiva ermeneutica. Ed è per questo che, a partire da Ricoeur,
ermeneutica e simbolo vengono strettamente congiunti.
Tuttavia, andando oltre lo stesso Ricoeur, gli studi più recenti osser-
vano che, sebbene il simbolo abbia la sua radice in un vissuto esistenziale
pre-linguistico e pre-categoriale, esso si manifesta e si esprime sempre in
una modalità particolare del linguaggio umano. In altri termini, dal punto di
vista della sua espressione linguistica, il simbolo rappresenta un particolare
uso del linguaggio che può essere denominato modo simbolico, e che è caratte-
rizzato da una forte carica di Sinngebung, ovvero di attribuzione di senso.
Ora, la domanda che ci si pone è la seguente: cosa fa sì che questa donazio-
ne di senso resti costante nel simbolo e non venga distorta o scardinata,
come avviene ad esempio nelle forme psicotiche di dissociazione o di allu-
cinazione? Per Wilfred Bion «il simbolo, per come è comunemente inteso,
rappresenta una congiunzione riconosciuta come costante da un gruppo»46,
nel senso che il simbolo, per essere veramente tale, deve esser riconosciuto
come costante in una dimensione intersoggettiva e comunitaria, e solo in

                                                                                                                                                                                                                                                                             
pp. 351- 378; Cf. P. RICOEUR, Della interpretazione, cit., p. 460 e ss.
44 P. RICOEUR, Della interpretazione, cit., pp. 463 e ss.
45 M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro, cit., p. 321.
46 W. BION, Attenzione e interpretazione: una prospettiva scientifica sulla psicoanalisi e sui gruppi,

Armando, Roma 1973, p. 89.


236   Phronesis

quanto tale può essere condiviso e riconosciuto. «Una comunicazione real-


mente simbolica mira a far sì che un ascoltatore riproduca un atto di dona-
zione di senso che chi parla compie per lui e insieme, come abbiamo visto,
per sé»47. Ma il simbolo è anche e soprattutto, come ha osservato Peirce, e
in qualche modo Jung, per quanto riguarda il simbolismo religioso, creazio-
ne di nuovo senso, innovazione di senso, e tale è il simbolo che si esprime
nelle più affascinanti esperienze dell’uomo, quella mistica e quella poetica.
Come osserva la Klein «la simbolizzazione è la base di tutti i talenti»48.
Ma se il simbolo, come appare da queste diverse prospettive della cul-
tura contemporanea, è espressione eminente della creatività dello spirito
dell’uomo, cade completamente il pregiudizio positivista e razionalista se-
condo cui esso sarebbe appannaggio di una mentalità primitiva e arcaica;
vengono invece potentemente rivalutate tutte quelle forme simboliche, tra
cui i testi poetici e religiosi e la stessa Bibbia, che manifestano in modo emi-
nente la creatività dell’uomo e la perennità del suo spirito, con la capacità di
essere fonte di inesauribili interpretazioni.

8.9. Il simbolo “dice” l’essere dell’uomo

Ciò che preoccupa Ricoeur è che il simbolo possa mantenere,


all’interno della riflessione filosofica, tutta la sua carica di significatività, e
che possa accedere in tal modo al “circolo ermeneutico” tra il credere e il
comprendere, tra l’ascolto della narrazione simbolica e la sua interpretazio-
ne, secondo lo schema classico del rapporto tra Testo sacro ed esegesi.
La narrazione simbolica, per Ricoeur, non riguarda solamente il sog-
getto, il suo inconscio o la sua esistenza, come nella teoria psicoanalitica, ma
coinvolge dall’interno il rapporto del soggetto nel suo legame con tutti gli
altri e con l’essere. In questo senso, il simbolo per Ricoeur non è riconduci-
bile solamente all’espressione simbolica del sé o della coscienza soggettiva,
ma il simbolo in quanto tale costituisce un appello al soggetto ad uscire da
sé per ritrovarsi nell’ambito dell’essere e dell’essere con altri e con l’Altro.
«Trattando il simbolo semplicemente come rivelatore della coscienza di sé,
lo mutiliamo della sua funzione ontologica»49. Il “conosci te stesso’, cui ap-
pella l’originario simbolo filosofico, non significa allora solamente un invito
ad “essere saggio”, come vuole il Carmide di Platone50, ma esso esprime so-
prattutto un «indizio della situazione dell’uomo al centro dell’essere nel qua-
                                                                                                               
47 S. BRIOSI, Per una ridefinizione fenomenologica del simbolo, in “Il Verri”, n. 1-2, p. 43.
48 M. KLEIN, L’importanza della formazione, cit., p. 256.
49 P. RICOEUR, Finitudine e colpa, cit., p. 632.
50 Cf. PLATONE, Carmide, 165 a.
Simboli, immagini, icone 237  

le si muove, esiste e vuole»51. Anzi, sostiene Ricoeur, il simbolo potrebbe


divenire, all’interno del percorso moderno della filosofia, intesa come mani-
festazione della soggettività della coscienza, un potente richiamo ad un pen-
siero dell’Altro e dell’alterità in genere, e quindi manifesterebbe il compito
di «spezzare il recinto incantato della coscienza di sé, infrangendo il privile-
gio della riflessione»52 puramente soggettiva, che ha dominato la riflessione
filosofica a partire dal Cogito cartesiano.
Il simbolo “dice” l’essere dell’uomo nella situazione di essere nel
mondo, nei confronti con gli altri e con Dio, e per questo il simbolo è emi-
nentemente espresso dal linguaggio religioso, che in tal modo ridiviene
l’interlocutore principale della riflessione filosofica. «Il simbolo, scrive Ri-
coeur, dà a pensare che il Cogito è all’interno dell’essere e non l’inverso», da
cui segue una vera nuova rivoluzione copernicana nella filosofia, e cioè:
«l’essere che si pone nel Cogito deve ancora scoprire che l’atto stesso col qua-
le si strappa alla totalità continua a partecipare all’essere che interpella in
ogni simbolo»53. Per questo il simbolo religioso, quale è espresso ad esempio
nella narrazione della Scrittura, non rappresenta soltanto una modalità pri-
mitiva della coscienza; esso manifesta invece la struttura fondamentale
dell’essere cui fa riferimento la coscienza dell’uomo in quanto esistenza nel
mondo, e in relazione con gli altri e con Dio. Il simbolismo religioso, quale
appare in modo eminente nella Scrittura, esprime le note fondamentali
dell’esistenza dell’uomo, e si pone non in antitesi alla riflessione filosofica
ma, come svela il pensiero ermeneutico, quale fonte indefettibile di interpre-
tazione e di significazione. «Tutti i simboli della colpevolezza — l’errare,
l’accecamento, la mescolanza, la caduta — dicono la situazione dell’essere
dell’uomo nell’essere del mondo; il compito è allora quello di elaborare, a
partire dai simboli, concetti esistenziali, e cioè non soltanto delle strutture di
riflessione, ma strutture dell’esistenza in quanto l’esistenza è l’essere
dell’uomo»54.
La dimensione esistenziale ed ermeneutica della filosofia elabora qui
una nozione di simbolo e di narrazione simbolica, anche per quanto riguar-
da il simbolo religioso, che capovolge totalmente i criteri della demitologiz-
zazione moderna, e fa invece del simbolo, anche religioso, il punto di rife-
rimento fondamentale per comprendere le articolazioni complesse
dell’essere dell’uomo nel mondo e con gli altri, e della sua dimensione reli-
giosa.

                                                                                                               
51 P. RICOEUR, Finitudine e colpa, cit., p. 633.
52 Ibidem.
53 Ibidem.
54 Ibidem.
238   Phronesis

La concezione ermeneutica del simbolo comporta così importanti


conseguenze antropologiche, filosofiche e religiose. Il simbolo diviene fon-
damentale per una nuova comprensione dell’identità personale che si coglie
non più come “soggetto”, ma come “identità narrativa”; il simbolo, espresso
nel linguaggio della poesia come nel linguaggio religioso, diviene luogo di
comprensione del rapporto del soggetto con la “corporeità”; il simbolo, nel-
la sua prospettazione dei valori, dei fini e delle inquietudini dell’esistenza, è
anche la fonte ispiratrice delle questioni e delle prospettive dell’etica, intesa
come “progetto” esistenziale umano; il simbolo, nella sua espressione poeti-
ca, artistica, scritturistica, manifesta in modo sublime, più di ogni concettua-
lizzazione astratta, componenti fondamentali dell’esistenza umana, quali
l’affettività, la felicità, il rispetto, il sentimento, l’amore, la sessualità, la capa-
cità di relazione con l’altro, con il mondo, con Dio stesso, fino alla vita mi-
stica; il simbolo, in altri termini, è il linguaggio più adatto ad esprimere la
dimensione esistenziale e religiosa dell’esistenza; e per questo, nella prospet-
tiva dell’ermeneutica, la narrazione biblica, con la sua ricchissima simbologia
esistenziale e religiosa, è ritenuta nuovamente una fonte privilegiata per
un’interpretazione filosofica intesa a cogliere le dimensioni strutturali e fon-
damentali dell’esistenza umana in tutte le sue vaste e profonde componenti.
I simboli della religiosità ridivengono in tal modo l’espressione privi-
legiata della struttura antropologica dell’essere umano. I principali simboli
religiosi — la separazione dell’anima e del corpo, il destino escatologico
dell’anima, la colpevolezza, l’impurità, il peccato, la confessione, la caduta, la
salvezza —, e la visione insieme tragica ed escatologica dell’esistenza che
percorre tutta la cultura antica, dal mondo greco al cristianesimo, ma che
abbraccia anche le culture religiose dell’Oriente, divengono il luogo di una
comprensione dell’esistenza umana nella sua struttura d’essere fondamen-
talmente religiosa. Ed in particolare i simboli della Sacra Scrittura — la libe-
razione, il corpo e la veste, il viaggio, il risveglio, lo specchio, la rinascita, il
silenzio, l’ascensione, l’unione sponsale, la notte —, vengono interpretati
come insuperabili metafore del senso mistico del cammino religioso
dell’uomo verso Dio. Tutta l’antropologia religiosa risulta così debitrice
dell’approfondimento della teoria ermeneutica del simbolo, che rappresenta
in tal modo un contributo fondamentale anche per il rinnovamento del dia-
logo interreligioso, in quanto offre gli strumenti ermeneutici più idonei per
comprendere la valenza simbolica delle più diverse manifestazioni della reli-
giosità dell’uomo.
Ciò che risulta manifesto, dalla riflessione di Ricoeur, è l’intenzionalità
veritativa del simbolo. «Il simbolo è geneticamente strutturato in modo da
tendere alla verità»55. Il processo simbolico non rappresenta più un processo
                                                                                                               
55 G. MARTINI, Ermeneutica e narrazione, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 92.
Simboli, immagini, icone 239  

di mistificazione del reale, ma una modalità particolare dell’espressione del


reale, e in quanto tale va interpretato. Ne deriva una conseguenza fonda-
mentale per quanto attiene l’interpretazione del mito. Esso, in quanto pecu-
liare espressione del simbolico, non rappresenterebbe allora la caratteristica
propria di una mentalità primitiva che antecede la luminosità del logos (come
voleva Lévy-Bruhl56 e tutta la scuola dei positivisti), né la fase simbolica che
precede il logos razionale ed è da questo sostituita (come voleva Hegel), ma
viceversa il mito, nella sua espressione simbolica, attiene ad una modalità e
ad una peculiare articolazione del logos nel suo bisogno di interpretazione del
reale e della stessa esistenza, e in quanto tale non è solo insopprimibile ma
necessario alla comprensione di essa. Il mito ha un rapporto ontologico con
la verità che persino la pratica psicoterapeutica scopre, ma che pure la rifles-
sione ermeneutica può svelare nella sua origine linguistica e cognitiva. Per-
ché il mito è insieme racconto della storia originaria, è interpretazione del
senso della sua verità ed è narrazione simbolica di un’esperienza fondativa
ed ineliminabile. Il mito, in senso ermeneutico, è un simbolo custode della
memoria delle origini, e in quanto tale non va sostituito dal logos ma inter-
pretato e compreso. Del resto, lo stesso Maritain riconosceva che «il mito,
dal momento che fa conoscere l’origine delle cose, ricorda ad esse la loro
origine per portarle ad agire, significa la loro origine e insieme il loro destino
e il loro compito efficace»57.

8.10. Il simbolo e l’identità narrativa

In particolare, esiste un punto originario di convergenza tra ermeneu-


tica e psicanalisi, il quale è divenuto, dopo la riflessione di Ricoeur, anche un
momento di reciproco e fecondo influsso tra le due metodologie
dell’interpretazione. Questo punto basilare è rappresentato dalla comune
convinzione di poter interpretare il sé, attraverso il racconto del sé, come un
altro da sé. Sé come un Altro58, di Paul Ricoeur, ruota intorno all’ipotesi che il
bisogno di raccontarsi è insopprimibile nell’uomo e che l’identità della per-
sona si manifesta e si costruisce attraverso il racconto. Ricoeur, traducendo
in qualche modo Freud, riconosce due dimensioni della persona: la medesi-
mezza e l’ipseità. La medesimezza indica le caratteristiche naturali identiche e
persistenti dell’io: il corpo, il carattere, le caratteristiche fisiche ecc.; l’ipseità
indica invece il “progetto” libero sul sé operato dal soggetto, che in tal mo-
do supera i limiti della medesimezza e del carattere, e diviene capace — pur
                                                                                                               
56 Cf. L. LEVY-BRUHL, op. cit.
57 J. MARITAIN, Quatre essais, cit., p. 98.
58 Cf. P. RICOEUR, Sé come un Altro, Jaca Book, Milano 1993.
240   Phronesis

all’interno di quelle che Jaspers chiamava “situazioni limite” e che costitui-


scono il “limite ontologico della persona” — di sviluppare tutte le potenzia-
lità implicite nell’io, rivelando, al termine di questo processo di autocom-
prensione, una persona diversa dall’io che era all’origine. Qui Ricoeur, co-
niugando psicanalisi ed ermeneutica, innesta la potenza implicita del raccon-
to e del linguaggio, nel senso che il bisogno insopprimibile di raccontarsi at-
traverso il linguaggio opera una modificazione della medesimezza originaria,
e insieme una riconquista del mondo esistenziale non nella dimensione della
sua realtà bruta, ma nel suo significato per l’io, ovvero nella sua significatività.
Ma allora, se il sé, al suo interno, si scopre non solo come medesi-
mezza ma anche come ipseità attraverso il racconto, ciò vuol dire che il sé
scopre sé come altro da sé. Ed è in questo scoprire sé come altro da sé che il
sé scopre insieme l’affinità con l’altro, la sua apertura all’altro, ed anche la
sua originaria co-appartenenza all’altro. Ciò che è centrale, comunque, è che
il riconoscimento di sé come altro avviene attraverso il racconto, la narra-
zione (da cui la rivalutazione del mythos come racconto e del simbolo che lo
esprime), così che la nozione di identità narrativa tende a divenire sinonimo
di esistenza personale e individuale.
Ma perché il sé sente il bisogno di raccontarsi? Per Ricoeur questo bi-
sogno della narrazione, che distingue l’uomo dall’animale, nasce dal fatto
che il sé avverte «la necessità di frapporre uno spazio fra l’irruenza delle
emozioni e il sé che le deve sì vivere, ma anche pensare e ordinare per non
rimanerne sommerso»59. Di fronte al flusso troppo forte delle emozioni, il
sé sente il bisogno di prenderne la distanza, ordinandole e ricostruendole
attraverso la narrazione. «Nel momento in cui ci si racconta, nella solitudine
della propria stanza, un frammento della propria storia, affidandolo a un
diario o a un pensiero che non verrà mai trascritto, ci si costituisce come in-
terlocutori di sé stessi […] si tratta, per usare l’espressione di Ricoeur: soi-
même comme un autre» 60 . Il sé come altro è allora non solo il portavoce
dell’autore, ma presenta anche un potere autoterapeutico, nel senso che la
narrazione, prendendo le distanze dal magma originario delle emozioni vita-
li, impedisce a queste di confluire in modo disordinato nella psiche. Il sé
comprende sé attraverso la narrazione, così come il romanzo è per l’artista
un modo per interpretarsi e per capirsi. Anche se va sottolineato come ogni
narrazione nasce dalla perdita, da una separazione, da un distacco dal flusso
originario emotivo.
La narrazione è una forma di significazione del mondo originario, di
nuova attribuzione di senso, come avviene in modo magistrale nella Recher-

                                                                                                               
59 G. MARTINI, Ermeneutica e narrazione, cit., p. 20.
60 Ivi, p. 21.
Simboli, immagini, icone 241  

che di Marcel Proust61, che presenta una grandiosa opera di risignificazione


del mondo, e dei momenti più quotidiani e banali dell’esistenza, attraverso il
racconto, la rivisitazione narrativa: «Ogni conoscere — scrive Colli — è fat-
to di ricordi» perché «conoscere è prendere qualcosa dal pozzo della vita»62.
In ogni narrazione vi è dunque il momento della separazione, della perdita,
del distacco dalle origini, in ordine ad una risignificazione e ricostruzione di
tipo esistenziale. Resta in ogni caso che la narrazione, in quanto narrazione
della propria storia, istituisce l’identità narrativa del soggetto, e diviene il
luogo in cui sia per il soggetto che per il suo interprete, si attua la possibilità
di una comprensione del sé e dell’altro da sé. «La comprensione che ognuno
ha di se stesso è narrativa: non posso cogliere me stesso al di fuori del tem-
po e, dunque, al di fuori del racconto; tra ciò che sono e la storia della mia
vita c’è un’equivalenza. In questo senso, la dimensione narrativa è costituti-
va della comprensione di sé. Essa possiede la duplice caratteristica di essere,
ad un tempo, storica e di finzione»63. Ciò significa, in altri termini, ricono-
scere alla narrazione (e quindi al mito ed al simbolo) un tessuto vissuto e
storico di riferimento, che l’ermeneutica del simbolo — anche quella di
stampo psicoanalitico — è intenta a decifrare ed a comprendere nella sua
valenza profondamente esistenziale.

8.11. L’Erlebnis

E qui è la fenomenologia husserliana ad offrire i criteri ermeneutici


fondamentali per una corretta interpretazione del simbolo, sia dal punto di
vista filosofico che religioso.
I simboli linguistici — come afferma Husserl — rimandano al mondo
come tessuto delle esperienze esistenziali e anche precategoriali, ovvero ri-
mandano all’Erlebnis, il vissuto dell’esistenza. Come scrive Enzo Paci, «la
scoperta della verità fondata dalla coscienza è anche la scoperta della vita e
cioè della Lebenswelt come viva Erfahrungswelt. La verità è la vita autentica
dell’esperienza e la scoperta della verità è anche il ‘ritorno all’esperienza»64.
E proprio il concetto husserliano di Erlebnis — il vissuto esistenziale — co-
stituisce il referente obbligato per l’interpretazione veritativa del simbolo
narrativo, così come, anche qui molto husserlianamente, l’interpretazione
offerta dall’analista è sempre suscettibile di essere rivisitata ed anche modifi-

                                                                                                               
Cf. M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1987.
61

G. COLLI, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1978, pp. 6-10.


62
63 P. RICOEUR, La componente narrativa della psicoanalisi, “Metaxù”, V (1988) 2, p. 7.
64 E. PACI, Commemorazione di Husserl, in AA.VV., Bilancio della fenomenologia e

dell’esistenzialismo, Liviana, Padova 1960, p. 152.


242   Phronesis

cata nella dialettica di ritorno continuo alla realtà del vissuto, la quale opera
come “riempimento” (e anche il termine Erfüllung è di Husserl)
dell’interpretazione, impedendole di restare puramente teorica o ideologica.
Questo processo di ritorno, informato da una intenzionalità veritativa, è in
realtà il processo stesso del “riempimento” fenomenologico dell’idea.
Approfondendo il concetto di Erlebnis come “esperienza vissuta”,
Gadamer in Verità e metodo nota come nel concetto romantico dell’arte, che
fa capo in primo luogo a Goethe, ogni espressione artistica è espressione di
un’Erlebnis e a sua volta si presenta come Erlebnis per colui che ne fruisce.
Gadamer nota accuratamente come, a differenza del termine Erlebnis, che
entra in circolazione nel vocabolario filosofico solo a partire dalla fenome-
nologia husserliana, il termine Erleben è presente nella letteratura tedesca già
con Goethe e Schiller. Erleben, scrive Gadamer, significa «essere ancora in
vita quando una determinata cosa succede»65. Il termine Erleben fa riferimen-
to dunque a un qualcosa che non si conosce solo concettualmente, ma che
si sperimenta direttamente nella immediatezza. Erlebnis allora fa riferimento
a questa immediatezza dell’esperienza che, anche se avvenuta nel passato,
tuttavia mantiene un’influenza nel presente, formando in modo permanente
il tessuto cognitivo della realtà da parte di un soggetto o di una cultura.
«Qualcosa diventa un Erlebnis in quanto è stato erlebt, vissuto e sperimentato,
ma in quanto il suo essere vissuto ha avuto una particolare intensità che gli
conferisce un significato permanente»66. Ed è in direzione di questo signifi-
cato che il termine erleben viene approfondito da Dilthey, Schleiermacher,
Georg Simmel, Bergson, nonché da poeti come Stefan George.
Ora, osserva Gadamer, il termine Erlebnis entra nella terminologia er-
meneutica proprio con l’intenzionalità di designare un conoscere che non
faccia riferimento solo astrattamente all’oggetto conosciuto, ma che nasca
dal vissuto dell’esperienza e vi ritorni come luogo della verità dell’esperienza
stessa. Tutta la teoria di Dilthey intorno alla differenza tra le scienze della
natura e le scienze dello spirito (Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften) ruo-
ta intorno a questo concetto di Erlebnis come fondamento di quella oggetti-
vità conoscitiva che è propria delle scienze dello spirito e comunque di un
rapporto comprensivo ed interpretativo di realtà spirituali e personali. La
nozione di Erlebnis troverà poi nel capitolo II delle Ricerche logiche di Husserl
una tematizzazione definitiva. L’Erlebnis, per Husserl, non è solo il tessuto
vitale da cui nasce la conoscenza, ma è anche il fine intenzionale di ogni au-
tentica conoscenza. In tal modo, per Husserl il concetto di Erlebnis si applica
a tutti gli atti della coscienza, la cui essenza costitutiva è l’intenzionalità67.
                                                                                                               
65 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 87.
66 Ivi, p. 88.
67 Cf. E. HUSSERL, Ricerche logiche: prolegomeni a una logica pura, Il Saggiatore, Milano 1968, 2 voll.
Simboli, immagini, icone 243  

In questo modo, nella prospettiva fenomenologica, e poi ermeneutica,


l’Erlebnis non è soltanto qualcosa che appartiene al flusso provvisorio della
vita e della coscienza, come nelle filosofie vitalistiche e nello storicismo del-
lo stesso Dilthey, ma è qualcosa che si distacca da questo flusso indistinto
per assurgere a una propria unità significativa e ad una specifica intenziona-
lità conoscitiva. Un caso particolare di Erlebnis è l’esperienza del ricordo,
quale si manifesta, ad esempio, nella letteratura autobiografica. Il ricordo
manifesta la stabilità dell’esperienza vissuta nella coscienza e allo stesso
tempo l’intenzionalità della coscienza nei suoi confronti con il vissuto e ma-
nifestazione della struttura teleologica della coscienza stessa. Per questo,
come osserverà Ricoeur, archeologia e teleologia finiscono per costituire un
unico movimento della coscienza nella prospettiva fenomenologica ed er-
meneutica. E poiché ogni autentico Erlebnis, come avviene nel ricordo, e
come è testimoniato da una lunga serie di opere letterarie fino alla Recherche
di Proust, è fonte di significazioni sempre ulteriori e mai definitivamente
concettualizzabili o conchiuse, gli Erlebnisse fanno parte in modo sostanziale
della vita interiore del soggetto. Non a caso per Nietzsche gli Erlebnisse e la
loro durata sarebbero le caratteristiche degli uomini profondi. Nel senso ap-
punto che ciò che si è esperito una volta in modo profondo diviene non so-
lamente qualcosa di indimenticabile, di insostituibile, ma viene a far parte in
qualche modo del soggetto stesso, divenendo così fonte di significazioni
mai esauribili concettualmente.
Certamente ogni Erlebnis, come scrive Schleiermacher, è un «momen-
to della vita infinita», cosicché potrebbe sorgere il problema del tipo di rap-
porto conoscitivo che sussiste tra l’Erleben e il Leben, potendo ricadere tale
rapporto in quel tipo di rappresentazione concettuale della realtà che è pro-
prio della conoscenza oggettiva. Gadamer, per illustrare il particolare tipo di
rapporto ermeneutico che si istituisce tra Erlebnis ed Erleben, adopera un
termine caro a Simmel, quello di “avventura”. «L’avventura — scrive Ga-
damer — rompe bensì il corso normale delle cose, ma è legata positivamen-
te e significativamente a quell’insieme che essa viene a rompere. L’avventura
fa venire in luce così la vita nella sua totalità, nella sua esperienza e forza
[…] nello stesso tempo, però, essa è conscia del carattere eccezionale che le
è proprio […] si avventura nell’incerto […] l’avventura è quindi qualcosa
che si supera come un cimento e una prova da cui si esce più ricchi e matu-
ri»68. In modo analogo, nella prospettiva ermeneutica, ogni Erlebnis si inseri-
sce nel flusso vitale della coscienza ma lo trascende (aufheben) nel darle signi-
ficato. Il termine molto hegeliano aufheben indica appunto un superare e un
mantenere, anzi un superare nel momento stesso del mantenere. Anche sot-

                                                                                                               
68 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., pp. 96-97.
244   Phronesis

to questo aspetto, le affinità tra la narrazione psicanalitica e l’ermeneutica


sono molto forti e profonde.

8.12. Simbolo e allegoria

È alla luce di questo concetto di Erlebnis che è possibile comprendere


la differenza che l’ermeneutica istituisce tra il simbolo e l’allegoria. Per dirla
con Gadamer: «l’allegoria appartiene originariamente alla sfera del dire, del
logos, ed è quindi una figura retorica o ermeneutica. Al posto di ciò che real-
mente s’intende, si dice qualcosa d’altro, di più facilmente comprensibile,
ma in modo che questo faccia intendere quell’altro. Il simbolo, invece, non
è limitato alla sfera del logos, giacché il simbolo non è in rapporto con un al-
tro significato mediante il proprio significato, ma il suo stesso essere sensibi-
le ha significato»69. Certamente simbolo e allegoria possono essere avvicinati
in quanto ambedue tendono a rappresentare qualcosa mediante qual-
cos’altro. Inoltre, se l’allegoria mira a conoscere il significato più profondo
di un testo, ad esempio religioso, o il suo valore di verità (ad esempio
l’interpretazione dei miti omerici da parte della filosofia), il simbolo a sua
volta, per influsso del platonismo, e poi dello Pseudo-Dionigi, «fonda la ne-
cessità di procedere simbolicamente sulla incommensurabilità tra l’essere
soprasensibile di Dio e il nostro spirito legato alla sensibilità. Il symbolon rice-
ve qui in tal modo una funzione anagogica; ci innalza alla conoscenza del
divino, allo stesso modo che il discorso allegorico ci conduce a un significa-
to “superiore”. Il procedere allegorico dell’interpretazione e il procedere
simbolico della conoscenza sono necessari per la medesima ragione: non è
possibile conoscere il divino se non in base al sensibile»70.
Ma la maggior pregnanza semantica del simbolo rispetto all’allegoria
s’instaura in una diversa fondazione ontologica e metafisica, la quale trova
soprattutto nella filosofia neoplatonica e poi nel neoplatonismo cristiano e
nella stessa teologia mistica il suo orizzonte di comprensione. All’interno di
questa visione metafisica, infatti, il sensibile non rappresenta solo un allon-
tanamento dalla verità, ma una sua epifania ed un suo riflesso. La possibilità
di risalire dal visibile all’invisibile è fondamentale per l’interpretazione reli-
giosa del simbolo, la quale si fonda appunto sulla «inscindibilità tra aspetto
visibile e significazione invisibile»71. È per questo motivo che verso la fine
del secolo XVIII, in un contesto ormai preromantico, si arriverà a conside-
rare il simbolo come il luogo in cui coincidono il visibile e l’invisibile, il sen-
                                                                                                               
69 Ivi, p. 100.
70 Ivi, p. 101.
71 Ibidem.
Simboli, immagini, icone 245  

sibile e il soprasensibile, ed esso verrà contrapposto all’allegoria intesa come


qualcosa di astratto e di artificiale. Il simbolo, a differenza dell’allegoria, che
rappresenterebbe sempre una concettualizzazione conclusa, proprio per il
suo carattere di pregnanza semantica su fondamento ontologico, verrà inte-
so invece come fonte inesauribile di significazioni e di interpretazioni. «Il
simbolo, come inesauribile, in quanto indefinitamente interpretabile, viene a
contrapporsi in maniera esclusiva all’allegoria con il suo carattere di riferi-
mento esatto che fa di essa qualcosa di conchiuso, e questa contrapposizio-
ne equivale a quella di arte e non arte»72. L’ermeneutica del simbolo come
fonte inesauribile di interpretazioni trova qui il suo fondamento, cosicché si
può concordare con Gadamer che «uno dei più brillanti risultati del pensiero
kantiano»73 sia consistito proprio, nel paragrafo 59 della Critica del giudizio,
nella nozione di “rappresentazione simbolica”, diversa radicalmente dallo
“schematismo trascendentale”, giacché essa non rappresenta un concetto
ma “semplicemente un simbolo per la riflessione”, e quindi per
l’interpretazione.

8.13. Il simbolo e l’immagine

È stato indubbiamente Gadamer ad aver sottolineato con forza il


fondamento ontologico e teologico dell’immagine, e quindi il suo stretto le-
game con la “teoria del simbolo” che stiamo cercando di tracciare.
«L’immagine, scrive Gadamer, è un fatto ontologico», e questo perché «in
essa l’essere si presenta in una manifestazione visibile dotata di senso»74.
L’immagine è “manifestazione” e quindi “epifania” in qualche modo della
stessa realtà rappresentata e per questo, sia dal punto di vista ontologico che
estetico, essa — sia che si tratti di immagini sacre o cultuali che di immagini
proprie dell’arte profana — «porta in sé qualcosa di quel misterioso irradiar-
si di essere che dipende dallo stato ontologico di colui che viene in esso
rappresentato» 75 . L’ontologia neoplatonica dell’emanazione sta indubbia-
mente dietro la teoria ermeneutica gadameriana dell’immagine come rappre-
sentazione che irradia la luce del rappresentato, permettendo la fondazione
di una “estetica dell’immagine”, che può ritrovare a sua volta nella dottrina
biblica dell’imago Dei il suo referente teologico76. Gadamer ricorda come «i
Padri greci si servissero di questa dottrina neoplatonica per respingere, in

                                                                                                               
72 Ivi, pp. 102-103.
73 Ivi, p. 103.
74 Ivi, p. 179.
75 Ivi, p. 185.
76 Cf. ivi, p. 178.
246   Phronesis

riferimento alla cristologia, le posizioni contrarie alle immagini che si trova-


no nell’Antico Testamento. Nell’incarnazione di Dio essi vedevano il rico-
noscimento fondamentale del valore dell’apparenza sensibile e ne ricavava-
no una giustificazione anche per le opere dell’arte» 77 . In tal modo,
l’immagine trattiene una stretta parentela con il simbolo, giacché anche la
parola simbolica — la parola poetica così come la parola della narrazione
biblica — “porta” in sé e suscita in chi l’ascolta qualcosa della realtà stessa
di cui è immagine.
Ma ancora di più: sul fondamento dell’ontologia neoplatonica, nonché
della teologia dell’imago Dei, è possibile comprendere come nell’“immagine”
e nel “simbolo” lo stesso originale si arricchisca, non nel senso ontologico,
ma in quello della sua manifestazione sensibile e simbolica. La rappresenta-
zione artistica viene intesa in tal modo non solo come una manifestazione
dell’originale rappresentato, ma anche come un suo arricchimento, che pur
godendo di vita autonoma, tuttavia irradia in modo originale una luce
d’essere che è anche donazione di un “sovrappiù” d’essere del rappresenta-
to. È qui, forse, che è possibile scorgere qualche verità che riguarda la “glo-
ria” che la creazione intera, come dice il salmista, “narra” non solo all’uomo
ma allo stesso creatore78.
Ma a questo punto possiamo legittimamente chiederci: in un contesto
antropologico e sociale quale quello di questo passaggio di millennio, in cui
sembra che gran parte dell’umanità sia divenuta incapace di interpretare la
narrazione di Dio nella creazione, è ancora possibile comprendere il signifi-
cato profondo del “simbolo” e dell’“immagine”?

8.14. Il simbolo e il “dominio planetario della tecnica”

Il destino finale dell’Occidente, ravvisato da Heidegger nelle enigma-


tiche parole di Anassimandro, sembra concludersi con quello che oramai si
suole definire “il dominio planetario della tecnica”. Molti critici del pensato-
re tedesco hanno puntato il dito sul pessimismo che caratterizzerebbe il suo
pensiero circa la positività intrinseca della scienza e delle tecnologie moder-
ne, le quali piuttosto sembrano aver liberato l’uomo non solo da numerose
malattie, ma da una serie di schiavitù sociali ed economiche opprimenti. Ma
non è questo il problema. Non si tratta di riconoscere o meno i vantaggi
apportati dalla civiltà tecnologica al mondo moderno; si tratta invece, per il
filosofo, in un atteggiamento contemplativo di “distacco” dalla contingenza
storica, di capire il “senso” per l’uomo di questo dominio tecnologico, giac-
                                                                                                               
77 Ivi, p. 175.
78 «I cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento l’opera delle sue mani» (Sal 19,2).
Simboli, immagini, icone 247  

ché «il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui
grandezza non può essere in alcun modo sopravvalutata»79. In realtà, da un
punto di osservazione puramente teoretico, e quindi veritativo, l’equivoco
sorge dal fatto che l’uomo si illude di avere pienamente in sua mano la tec-
nica, mentre viceversa «la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di
per sé non è in grado di dominare»80. Sarà ancora possibile ritornare ad uno
stadio di osservazione della realtà che sia di tipo “simbolico”, e quindi con-
templativo, veritativo, teoretico e poetico? È possibile riprendere ancora il
cammino verso una visione alta del reale, con l’ausilio della filosofia, e attra-
verso la filosofia, mediante il suo ruolo insieme di “demistificazione” delle
odierne mitologie e di guida rinnovatrice del pensare, del sentire, del vedere?
Tenendo conto della drammaticità dell’odierna situazione e dell’attuale an-
nullamento del carattere “simbolico” della filosofia, generato proprio dal
dominante modello scientifico del sapere, Heidegger scrive che «la filosofia
non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato del mondo
[…] Ormai, egli scrive, solo un dio ci può salvare»81. Al pensatore, consape-
vole che il dominio tecnologico sta realmente mutando il volto antropologi-
co dell’uomo, «resta, come unica possibilità, quella di preparare (Vorbereiten)
nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschaft) all’apparire del dio o
dell’assenza del dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del dio assente,
noi tramontiamo)»82. Il dio che ci salva non è il dio dei filosofi, il dio del
pensiero. Anzi, scrive Heidegger «noi non possiamo avvicinarlo col pensie-
ro, siamo tutt’al più in grado di risvegliare la disponibilità dell’attesa»83.
Eppure occorre riconoscere, proprio in queste affermazioni heidegge-
riane circa l’impotenza della filosofia, ancora una volta la dimensione socra-
tica della filosofia, non tanto come proposta definitiva, quanto piuttosto
come “domanda” e come “attesa” di senso e di ulteriorità di senso oltre le
certezze apparenti su cui poggia sicura la nostra cultura scientifica e tecno-
logica. Ed è ancora questa dimensione socratica del pensare che può fare del
logos filosofico un demitizzatore di certezze illusorie e radicate nella cultura
contemporanea, un logos che non distrugge, ma riapre anche in senso religio-
so, nel contesto di una società sempre più secolarizzata, il cammino
dell’autentico pensare e lo spazio di quella che già Platone chiamava una
possibile rivelazione divina84.
                                                                                                               
M. HEIDEGGER, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, p. 131.
79

Ivi, p. 132. 80
81 Ivi, p. 136.
82 Ibidem.
83 Ivi, p. 137.
84 Scrive Platone che occorre affidarsi al “mito” circa il destino dell’anima dopo la mor-

te, «a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più
solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina» (Fedone, 85 D).
248   Phronesis

Del resto, scrive ancora Heidegger, «il domandare è la pietas del pen-
85
siero» .

8.15. “Homo sapiens” e “homo videns”

Un’esemplificazione molto emblematica di questo dominio della tec-


nica sull’uomo contemporaneo, e del cambiamento irreversibile che essa
produce sulla stessa costituzione antropologica dell’uomo, è rappresentato
dalla progressiva sostituzione dell’homo videns all’homo sapiens, causato
dall’invasivo ed inarrestabile potere della televisione nella società contempo-
ranea. La questione “televisione” è certamente solo un aspetto della que-
stione più generale del dominio della “tecnica”, e la questione del senso
dell’immagine televisiva è a sua volta solo un aspetto della questione più ge-
nerale dell’immagine. Non a caso alla televisione, al suo senso ed al suo ruo-
lo, sono stati dedicati da parte di Gadamer e di Popper studi di grande seve-
rità86. Ma può essere utile, nel nostro contesto, riassumere brevemente le
analisi che il politologo e sociologo Giovanni Sartori ha dedicato proprio alla
trasformazione antropologica dell’uomo ad opera dell’immagine televisiva87.
Se infatti l’homo sapiens, secondo la definizione data da Carlo Linneo
nel Sistema della natura (1758)88, è caratterizzato dalla sua capacità, unica tra i
primati, di vivere non solamente in un sistema di natura ma di cultura, ovve-
ro in un sistema di simboli, e dalla sua capacità di decifrarli mediante il pen-
sare, il primato dell’immagine imposto dal sistema televisivo rischia di tra-
sformare l’homo sapiens in un homo videns, ovvero in un animale vedente ma
sempre più incapace di pensare e di interpretare i simboli creati dalla sua
stessa cultura. Cassirer precisava che l’uomo è un “animale simbolico” pro-
prio perché «non vive in un universo puramente fisico bensì in un universo
simbolico. Lingua, mito, arte e religione […] sono i vari fili che compongo-
no il tessuto simbolico […] La definizione dell’uomo come animal rationale
non ha perduto nulla del suo valore […] perché fianco a fianco con il lin-
guaggio concettuale c’è un linguaggio del sentimento, fianco a fianco con il
linguaggio logico o scientifico c’è il linguaggio dell’immaginazione poeti-
ca»89. L’homo sapiens è dunque un animale simbolico perché è innanzi tutto
un animale linguistico, che usa il linguaggio non solo per comunicare me-
diante segnali — caratteristica propria anche degli animali — ma soprattutto
                                                                                                               
85 M. HEIDEGGER, Ormai solo un dio ci può salvare, cit., p. 141.
86 Cf. K. R. POPPER, Cattiva maestra televisione, Donzelli, Milano 1994.
87 Cf. G. SARTORI, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1997.
88 C. LINNAEI, Systema naturae, from the Linnean society of London, London 1991.
89 E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, Longanesi, Milano 1948, pp. 47-48.
Simboli, immagini, icone 249  

per decifrare i simboli che gli vengono offerti, ossia per pensare. La celebre
disputa che Platone istituisce nel Fedro circa il primato della parola orale sul-
la scrittura, contiene in realtà al suo interno una tesi che è restata fondamen-
tale nella tradizione europea: quella del primato della parola sull’immagine,
giacché anche l’immagine, per essere decifrata, ha bisogno di essere compre-
sa come simbolo, e quindi di essere accolta nel linguaggio interiore del pen-
sare90.

8.16. La drammatizzazione greca dell’“immagine”

Ed appare straordinario che proprio nella cultura greca, la quale si ca-


ratterizza per un altissimo uso dell’immagine plastica, esistono momenti di
riflessione sul “senso” autentico dell’immagine che paiono di grande mo-
dernità. Quando Democrito scrive che «le immagini sono uno spettacolo
meraviglioso nelle loro vesti, ma sono senza cuore»91, afferma qualcosa di
molto vicino alla drammatizzazione del tema dell’immagine proposto da
Eschilo, che nell’Agamennone, parlando della sofferente solitudine di Mene-
lao che è stato abbandonato da Elena, scrive che le statue della donna amata
— e il termine statua, in greco, non è solo eikòn, “immagine”, ma è anche e
più originariamente àgalma, ovvero “gioia” — sono in realtà un vano ed inu-
tile sostituto della sua realtà:

La grazia di statue ben modellate


è odiosa a suo marito
e nella freddezza dello sguardo
tutto l’amore sfugge via92

Il doloroso pianto di Menelao, il suo lamento di fronte


all’impossibilità che una fredda statua susciti amore, potrebbero essere an-
cora compresi oggi dall’uomo che si appaga di una “realtà virtuale”?
Socrate, nel Fedro platonico, eleva un analogo rimprovero alle imma-
gini pittoriche che sono incapaci di dialogare e di prendere parte alla con-
versazione: «La sua progenie sta come cosa vivente, ma se tu le fai una do-
manda, essa rimane stranamente e completamente silenziosa»93. Ma il pro-

                                                                                                               
90 Per le questioni relative al rapporto oralità-scrittura, con ricca bibliografia, cf. P.

MICCOLI, Homo loquens. Oralità e scrittura in Occidente, Urbaniana University Press, Città del
Vaticano 1998.
91 DEMOCRITO, Fr. 195 D-K.
92 ESCHILO, Agamennone, 416-419.
93 PLATONE, Fedro, 275d.
250   Phronesis

blema di fondo, nel contesto della riflessione socratica e platonica sul senso
dell’immagine, consiste non solamente nel confronto con la vivente parola
dell’oralità, ma soprattutto nella domanda se ciò che è spirituale possa essere
compiutamente imitato in una forma sensibile. Socrate si chiede se sia pos-
sibile imitare l’anima: «Come può essere imitata, se non ha né forma né co-
lore […] e non è affatto visibile?»94. E Platone aggiunge che non con gli oc-
chi del corpo ma solo con lo sguardo di un’anima purificata è possibile “ve-
dere” ciò che è spirituale e divino. Oltre la pura imitazione di un essere tran-
sitorio, propria della pittura, occorre cercare qualcosa di essenziale e di per-
manente, un più alto ordine dell’essere, nell’accoglimento di una bellezza
che proviene come un evento da più alte potenze ispiratrici.
Non è certamente condivisibile la categorica condanna platonica
dell’arte in quanto “imitazione di una imitazione”. Ma è indubbio che Plato-
ne abbia immesso nella meditazione sul “senso” dell’immagine
un’inquietudine che resterà perenne, ovvero la tensione tra il visibile e
l’invisibile, tra il visto e il non visto, tra il caduco e l’essenziale. E non è erra-
to affermare che la caratteristica peculiare dell’arte greca — non a caso de-
nominata “classica” — risieda proprio nella consapevolezza di questa ten-
sione tra il visibile e l’invisibile, che le ha fatto ricercare l’essenzialità nei ca-
noni dell’armonia e della proporzione delle parti, come pure nelle rigide re-
gole del metro poetico, quasi a voler dettare le leggi secondo cui l’invisibile
può farsi visibile, e lo spirituale corporeo, senza tradirsi, ma rivelandosi at-
traverso lo sguardo agli occhi dell’anima95.
E per questo, a motivo del primato della parola sulla stessa scrittura e
sull’immagine, il valore stesso dell’immagine può essere compreso solo
all’interno di un universo di parole, ovvero di simboli. «La pittura, scrive
Simonide, è poesia muta; la poesia è pittura che parla»96. L’immagine, in altri
termini, ha bisogno della parola per essere interpretata e capita, ossia ha bi-
sogno di rapportarsi all’universo simbolico del pensiero se non vuole restare
inerte e sterile.

                                                                                                               
SENOFONTE, Detti memorabili di Socrate, III, 10,4.
94

Scrive Plotino: «La bellezza, così come percepita dall’occhio, è costituita dalla correla-
95

zione delle parti tra di loro, e con il tutto, insieme con l’elemento aggiuntivo del buon colo-
re; in altre parole, la bellezza nelle cose visibili, come in ogni altra, consiste nella simmetria
e nella proporzione» (Enneadi I,VI, 1). Pittura e scultura differiscono dalla poesia perché
non hanno rapporti con la musica, ma li hanno con la matematica e la geometria. Le arti
sono strettamente legate al concetto di armonia e di proporzione, come mediazione della
bellezza.
96 PLUTARCO, De Gloria Atheniensium, 3.
Simboli, immagini, icone 251  

8.17. L’immagine televisiva

Tornando all’attualità del discorso sulla televisione, l’immagine televi-


siva, come un “vedere da lontano” e “vedere ovunque”, sta imponendo
progressivamente il primato del vedere sul parlare e sul pensare, facendo del
telespettatore «più un animale vedente che non un animale simbolico»97. «La
parola è un “simbolo” tutto risolto in quel che significa, in quel che fa capi-
re. E la parola fa capire soltanto se capita […] altrimenti è lettera morta, un
segno o un suono qualsiasi. Per contro l’immagine è pura e semplice rappre-
sentazione visiva […] Mentre la parola è parte integrante e costitutiva di un
universo simbolico, l’immagine non lo è» 98 . Cosicché il primato
dell’immagine, e quindi del vedere sul capire, imposto dalla televisione, ri-
schia di imporre una nuova paideia, formatrice di un nuovo anthropos, appun-
to l’homo videns, l’uomo incentrato sul “vedere” più che sul “capire”. «La tele-
visione — scrive Sartori —, ha allevato e sta allevando l’uomo che non legge,
la torpidità mentale, il rammollito da video, l’addetto a vita ai videogames»99.
Questo primato del vedere sul pensare sta generando un grave impo-
verimento della capacità di “capire” ciò che si vede, e quindi di interpretare
l’immagine. L’attività simbolizzatrice del pensare consiste infatti nella capa-
cità di capire parole e concetti astratti e non visibili, quali sono appunto i
simboli veicolati dal linguaggio, e che sono in quanto tali capaci non solo di
rappresentare, di evocare, ma anche di portare qualcosa di ciò di cui sono
segni alla mente ed all’animo dell’homo sapiens. Le parole astratte, di cui si nu-
tre quasi tutto il nostro vocabolario teoretico, non hanno di per sé un refe-
rente visibile, né il loro significato può essere sempre rappresentato in im-
magine. Il “pensare per concetti” è una peculiarità dell’uomo, giacché «tutto
il sapere dell’homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di
concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun modo il mundus sensibi-
lis, il mondo percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione
inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictus oculi, in
un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce immagini e
cancella i concetti; ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa
tutta la nostra capacità di capire»100.
Come già scriveva Kant, l’idea è «un concetto necessario della ragione
al quale non può essere dato nei sensi nessun oggetto immediato (kongruiren-
der Gegenstand)»101. Giustamente osserva Sartori che «quel che noi concreta-

                                                                                                               
97 G. SARTORI, Homo videns, cit., p. 8.
98 Ivi, p. 13.
99 Ivi, p. 15.
100 Ivi, p. 22.
101 E. KANT, Critica della ragion pura. Dialettica trascendentale, I, Utet, Torino 1986, par. 2.
252   Phronesis

mente vediamo o percepiamo non produce idee, ma si inserisce in idee (o


concetti) che lo inquadrano e significano»102. Quando questo processo di in-
terpretazione e di comprensione dell’immagine viene interrotto o indeboli-
to, come è nel caso del “vedere televisivo”, allora avviene che l’attività sim-
bolizzatrice dell’uomo viene bloccata, «il visibile ci imprigiona nel visibile»
giacché «per l’uomo vedente (e basta) il non visto non esiste»103. La conse-
guenza è che «un uomo che perde la capacità di astrazione è eo ipso incapace
di razionalità, e quindi un animale simbolico che non è più in grado di so-
stenere, e tantomemo di alimentare, il mondo costruito dall’homo sapiens»104.
Certo, non si può negare che talvolta l’immagine abbia di per sé un
così forte valore simbolico da imporre il suo significato profondo in un
modo ancora più universale della stessa astrazione concettuale. Come non
pensare, ad esempio, che le immagini di Madre Teresa di Calcutta abbiano
risvegliato in milioni di uomini il senso autentico della tenerezza e della gra-
tuità dell’amore di Dio per l’uomo? E tuttavia è innegabile che, ad eccezione
di alcuni casi isolati, l’immagine televisiva propone sempre di più
un’“immagine pensiero” che è funzionale solamente agli scopi del potere
politico od economico che ne è il padrone. Le false forme di democrazia in
diretta, le false statistiche, le apparenti interviste casuali, la spettacolarizza-
zione della realtà, che per lo più è tragedia e non spettacolo, la disinforma-
zione legata ai dibattiti televisivi in cui prevale l’eccentricità e l’aggressività,
riducono sempre di più la capacità di “capire, di riflettere, di interpretare”,
così che non è errato affermare che «la televisione promuove una mente
rimpicciolita»105. Alla serena riflessione su ciò che obbiettivamente è vero o
falso, subentra l’induzione all’apprezzamento di ciò che è più stravagante ed
esagerato, perché fa audience. «Più una tesi è sballata, e più viene reclamizzata
e diffusa. Le menti vuote si specializzano in estremismo intellettuale, e così
acquistano notorietà (diffondendo… vuotaggini). Ne risulta una formidabile
selezione alla rovescia. Vengono a galla i ciarlatani, i pensatori da strapazzo,
i novisti a ogni costo, e restano in ombra le persone serie e veramente pen-
santi»106.
Robert Putnam107 ha sottolineato a questo proposito come, oltre alla
riduzione della capacità di pensare, la televisione riduca anche la capacità di
rapporti sociali e non solo familiari, producendo una “folla solitaria”. Cosic-
                                                                                                               
G. SARTORI, Homo videns, cit., p. 22.
102

Ivi, p. 56.
103
104 Ivi, pp. 109-110.
105 Ivi, p. 88.
106 Ivi, p. 63.
107 Cf. R. D. PUTNAM, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, Si-

mon and Schuster, New York 2000, tr. it. Capitale sociale e individualismo. Crisi e nascita della
cultura civica in America, Il Mulino, Bologna 2004.
Simboli, immagini, icone 253  

ché la stessa utilizzazione di Internet, non supportata da una sufficiente for-


mazione alla capacità di capire e di interpretare i milioni di dati e di immagi-
ni che bombardano ogni giorno ed ogni ora il monitor del nostro computer
da ogni parte del globo, può trasformarsi nel boomerang di una “solitudine
elettronica”108. È noto l’episodio dell’operaio americano che risponde a sua
moglie, che gli annuncia l’entrata in casa dei negri in rivolta: «non mi distur-
bare, lo sto vedendo in televisione!».
Ma l’immagine televisiva merita ulteriori considerazioni, di carattere
insieme veritativo ed etico. La natura stessa del mezzo televisivo, infatti, si
presenta come un “sistema chiuso” e non aperto, nel senso che le immagini
proposte fanno sempre riferimento al modo con cui sono state registrate e
riproposte e pertanto, a motivo di questo carattere essenzialmente autorefe-
rente, la narrazione televisiva si presenta con uno scarso o nullo valore sim-
bolico. Ogni autentica narrazione deve infatti operare sulla distanza che se-
para il vissuto dal “raccontato,” — e in questo senso può dirsi simbolica —
laddove il narrare televisivo si appiattisce su un apparente vissuto
(l’immediatezza dell’immagine), da cui non sa e non può prendere la distan-
za del racconto ovvero del simbolo. In questo senso si può dire allora che,
se la verità di una qualsiasi realtà appartiene alla sua narrazione intesa come
interpretazione “vera” e “bella”, allora il tipo di narrazione televisiva, sfug-
gendo alla distanza del “racconto”, impedisce di cogliere la verità del reale
nel momento stesso in cui illude di farcelo “vedere”. In altri termini, la tele-
visione “inganna” sulla visione della realtà, perché non la interpreta nella sua
verità — narrazione simbolica —, e quindi falsifica ciò stesso di cui vuole
rendere testimonianza.
Per applicare al tipo di linguaggio e di messaggio proprio del mezzo
televisivo un’immagine classica, potremmo fare ricorso alla figura di Mercu-
rio, che è il versante latino del dio Ermes, il “messaggero degli dèi”, il quale
proprio per essere “dominatore della parola” e “messaggero”, poteva anche
“ingannare” con la parola, introducendo tra il messaggio ricevuto e
l’annuncio dato, la propria frode ingannatrice. E per questo, nella realistica
visione latina, Mercurio non era solo il dio che indicava la via giusta ai vian-
danti, ma il dio dei bugiardi e dei ladri. Il problema del rapporto tra “verità”
e “realtà”, pertanto, non è solo di carattere ermeneutico, ma etico.
L’immagine televisiva rappresenta oggi l’esempio più eloquente di una vi-
sione della realtà che tuttavia può non essere “vera”, nel senso che il modo
stesso della rappresentazione della realtà, a motivo della natura stessa del
mezzo di trasmissione televisivo, distoglie dalla sua interpretazione veritati-
va ed impone la realtà che si vuole fare vedere, ma che non corrisponde alla
sua verità.
                                                                                                               
108 Cf. G. SARTORI, Homo videns, cit., p. 94.
254   Phronesis

E perciò stesso pone inquietanti interrogativi ad un’indagine filosofi-


ca: è possibile conoscere la realtà nella sua verità, senza mistificazioni, da
parte del mezzo televisivo? E inoltre: dal momento che la realtà può essere
falsificata dall’immagine, è più agevole per la mente dell’uomo conoscere la
realtà attraverso la sua rappresentazione visiva oppure conoscere la sua veri-
tà mediante la riflessione e l’interpretazione? E infine: non è forse vero che
in molti casi l’invisibile (valori, idee, e tutto ciò che appartiene al mondo del-
lo spirito), è più facilmente comprensibile del visibile il quale, pur nella sua
immediatezza, può ingannare? Ma allora: come raggiungere la “verità” del
visibile?
Martin Heidegger, nel celebre saggio dal titolo L’epoca dell’immagine del
mondo, sosterrà la tesi secondo cui «il tratto fondamentale del Mondo Mo-
derno è la conquista del mondo risolto in immagine»109, in cui il termine
immagine significa la libera e soggettiva produzione di rappresentazioni,
sganciate definitivamente da ogni ancoraggio oggettivo di realtà, e quindi da
ogni verità. L’epoca dell’immagine del mondo (Weltbild), è quindi anche
l’epoca dell’oltrepassamento della metafisica (Überwindung), in quanto in que-
sta sussiste la ricerca della verità dell’immagine, ed è l’epoca della sdivinizza-
zione del mondo (Entgötterung), che non è il semplice ateismo, ma è «lo stato
di indecisione rispetto a Dio e agli Dei», in cui il rapporto con Dio «si tra-
sforma in esperienza vissuta religiosa»110, senza più ancoraggi teologici e
dottrinali.
Per questo, all’ipotesi di un “sacro multimediale”, che sembra affasci-
nare oggi molti ambienti cristiani, occorre socraticamente far presente che la
multimedialità sta creando oggi non una ma molte forme di sacro e di miti,
di fronte ai quali sta l’impotenza di un logos debole, incapace di verità; che il
“sacro” cui spinge ad esempio Internet, con la proposta di sempre nuove
forme di religiosità, è in realtà un “sacro anonimo”, nutrito di individualità
incapaci di comunione, ma pago di soggettivismo, di sincretismo, di rifiuto
delle forme storiche e tradizionali della religiosità, di rifiuto soprattutto del
volto “personale di Dio” e della sua Parola di salvezza. Il “vedere” stimola
una curiositas religiosa che non ha niente a che fare con la serietà
dell’“ascoltare” e mettere in pratica la Parola. Il bisogno di vedere, ovvero
l’eidein greco, significante anche la visione intellettuale, e che ha costituito la
peculiare caratteristica della civiltà occidentale, decade ad un vedere senza
significati, che rappresenta per ciò stesso un decadimento ed una corruzione
dell’originario e insopprimibile bisogno di capire e di comprendere attraver-
so idee, concetti, astrazioni.

                                                                                                               
109 M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit., p. 99.
110 Ivi, p. 73.
Simboli, immagini, icone 255  

8.18. L’immagine filmica

«Quale pace emana da questi colori», così esclama Andrey Rubliov,


nell’omonimo film di Tarkovskij, di fronte alle icone di Teofane il Greco,
mostrando di cogliere a fondo il senso “iconico” dell’immagine. Se i colori
usati dall’artista sono capaci di “emanare pace”, ovvero un sentimento alta-
mente spirituale, allora vuol dire che l’artista ha saputo farsi mediatore, pur
attraverso il cammino di una sofferenza esistenziale sconosciuta ai più, di un
mondo più alto e più vero, cui egli, per dono divino, ha saputo attingere. È
stato questo peraltro il tema svolto da Alessandro Manzoni nel dialogo
Dell’invenzione, in cui il grande romanziere sostiene appunto che l’invenzione
artistica non è una semplice “creazione” della soggettività dell’artista, ma è
un “invenire”, un “attingere” da parte dell’artista il mondo dei valori spiri-
tuali e divini, e un saper “mediare” nell’espressione artistica ciò che ha inte-
riormente inventum, trovato111. Il film di Tarkovskij rappresenta forse un raro
esempio, nel panorama del cinema contemporaneo, di film che sappia farsi
esso stesso, nella sua natura di “immagine mobile”, una icona dello spirito.
E mostra al tempo stesso che il discorso sull’“immagine filmica”, in quanto
invenzione artistica, è sostanzialmente e profondamente diverso dal discorso
sull’immagine televisiva che siamo venuti svolgendo, e ciò anche a motivo del
peculiare carattere e della specifica natura del linguaggio cinematografico.
L’immagine filmica, infatti, per il suo stesso carattere “fotografico”, e
quindi legato a ciò che di più reale appare nella realtà, è suscitatrice di in-
quietanti interrogativi per una attenta riflessione filosofica intenta a scoprire
i luoghi dell’invisibile nel visibile. Alcuni interrogativi intorno alla natura del
cinema: il film è, come sostiene Theodor W. Adorno, la forma estrema
dell’alienazione dell’uomo moderno, l’oggettivazione senza residui della sua
interiorità, a motivo del suo rendere impossibile il momento soggettivo della
riflessione e del pensiero, rappresentando piuttosto la legittimazione ideolo-
gica delle «brutte cose che intenzionalmente vengono prodotte»112? Ovvero
il cinema è, come si esprime Franz Kafka, un “giocattolo grandioso” che
tuttavia “impedisce di guardare”, perché le sue veloci immagini invadono la
coscienza di guardare, così che esso «mette l’uniforme all’occhio che finora
era svestito»113? O ancora il cinema, come scrive Paul Valéry, distrae lo spet-
tatore nel sogno, ma proprio per questo lo sottrae al nucleo profondo e
consapevole della sua personalità114? O ancora, come afferma Emmanuel

                                                                                                               
Cf. A. MANZONI, Dialogo dell’invenzione, Comune di Como, Como 1985.
111

Cf. T. W. ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977.


112
113 F. KAFKA, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972, p. 75.
114 Cf. P. VALÉRY, Le cinéma, in ID., Les techniques au service de la pensée, Alcan, Paris 1938,

pp. 157-164.
256   Phronesis

Lévinas nello scritto Interdit de la represéntation, alla rappresentazione filmica è


interdetta la rappresentazione del Sacro, che nella prospettiva ebraica è per
sua natura irrappresentabile e non raffigurabile115? Oppure, come sostiene
un teorico del cinema, Siegfried Kracauer, il cinema è “sogno”, ma è soprat-
tutto “realtà fisica”, nel senso che permette di cogliere proprio nella fisicità
fotografica delle sue immagini quegli aspetti della realtà che sfuggono quan-
do noi la viviamo nell’immediatezza, ma che gli occhi del regista ci fanno
percepire, quasi un mondo reale nel reale, seppure invisibile ad uno sguardo
distratto e veloce116? O anche, come si esprime Gabriel Marcel, proprio la
capacità del cinema di rapportarsi a «questa terra che è il nostro habitat», e di
far vedere ciò che in realtà non riusciamo più a vedere «appare letteralmente
redentrice: salvatrice»117? Dovremmo allora concordare con Maurice Mer-
leau-Ponty, secondo cui la “fenomenologia”, che insegna a cogliere il rap-
porto tra il soggetto e il mondo, tra il soggetto e gli altri, non in un universo
teorico di concetti, ma proprio nell’incarnarsi della coscienza con il mondo,
nella corporeità, nella coesistenza anche dolorosa con gli altri, è la filosofia
dell’epoca del cinema, nel senso che «il filosofo e il cinema hanno in comu-
ne una certa maniera d’essere, una certa visione del mondo, che è quella di
una generazione»118?
L’accusa che filosofi e letterati muovono al cinema, da un punto di vi-
sta non solo estetico, è quella della sua incapacità di esprimere concetti,
proprio a motivo della sua intrinseca natura fotografica, la quale, come scri-
ve Proust nella Recherche, è il prodotto di una totale alienazione dal tempo
esistenziale del soggetto, ed è incapace di “raccontare l’invisibile”, ossia il
tessuto esistenziale che dà senso agli accadimenti più quotidiani della vita,
che può riscattarsi solo in un processo di narrazione intesa come distanzia-
mento contemplativo119. Mentre per i rappresentanti della scuola fenomeno-
logica, la novità dell’immagine filmica come arte consiste proprio nel saperci
immergere nella realtà stessa, per farcene cogliere il “senso”, per introdurci
nei suoi più segreti meandri, dove il soggetto, pur perdendosi nel ritmo della
narrazione filmica, ritrova una più alta coscienza del suo “essere nel mon-
do”, e quindi di sé.
Se è doveroso riconoscere che l’estetica cinematografica si trova anco-
ra agli inizi, è certamente possibile affermare che può essere riduttivo con-
trapporre semplicisticamente “concettualizzazione” e “fotografia”, “astra-
                                                                                                               
115 Cf. E. LÉVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, per le

analisi sulla critica dell’“immagine” in nome del “volto”.


116 Cf. S. KRACAUER, Film: ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano 1962.
117 Cf. G. MARCEL, Possibilités et limites de l’art cinématographique, in “Revue international de

filmologie”, Paris (1954), voll. V, 18/19, pp. 163-176.


118 M. MERLEAU-PONTY citato da KRACAUER, Film: ritorno alla realtà fisica, cit., pp. 13ss.
119 Cf. M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto, cit.
Simboli, immagini, icone 257  

zione” e “immagine filmica”, perché piuttosto la questione cinema dovreb-


be essere ricondotta alla capacità che ha ogni arte visiva di farsi “simbolo”
nel senso alto del termine, e quindi di evocare emozioni e pensieri che solo
la vera arte sa suscitare nell’animo dell’uomo.
È possibile inoltre, in base a quanto abbiamo finora esposto, azzarda-
re alcune considerazioni sulla natura dell’immagine cinematografica. Consi-
derando il carattere “temporale” dell’immagine filmica, si potrebbe azzarda-
re l’ipotesi, in un confronto con la tesi platonica sul tempo come “immagine
mobile dell’eternità”120, che l’immagine filmica rappresenti un tipo particola-
re di immagine mobile di una realtà — esistenziale, naturale, religiosa — che
deve essere prima pre-compresa ed esperita in un universo interiore di carat-
tere simbolico per essere veramente interpretata e capita. Il tempo, scrive
Platone nel Timeo, è un’immagine mobile dell’eternità. E l’Ecclesiaste scrive
che «c’è un tempo per ogni cosa» (3,12), ma che Dio ha messo nel cuore
dell’uomo il senso dell’eternità. Ora possiamo chiederci: cosa ne è
dell’immagine filmica rispetto alla realtà e soprattutto rispetto all’Eterno?

8.19. Il simbolo e l’icona

8.19.1. L’occhio del poeta

In un celebre brano del V atto del Sogno d’una notte di mezza estate, Sha-
kespeare fa rivolgere da Teseo, duca di Atene, questo strano discorso alla
sua fidanzata Ippolita, regina delle Amazzoni, ed a Filostrato, suo cerimo-
niere, in una commedia fantastica in cui i personaggi si scambiano le parti ed
il ruolo, con il favore di una notte d’estate, ed in un’atmosfera di sogno ir-
reale e magico.

L’occhio del poeta,


volgendosi in sublime frenesia,
mira di terra in ciel, di cielo in terra;
e al modo che la mente va formando
idee di cose ignote, ei con la penna
le configura, e la dimora e ‘l nome
conferisce a un nulla evanescente.
Del forte immaginare è l’artifizio
tal, che se gioia sogni, esso un datore
di quella gioia tosto concepisce;
e di notte, a un pensiero di spavento,
                                                                                                               
120 PLATONE, Timeo, 37d.
258   Phronesis

può far sì che un cespuglio sembri un orso!121.

Si tratta del celebre discorso detto l’“occhio del poeta”, che indica nel-
la poesia, al pari della pazzia d’amore, la facoltà non solo di trasfigurare le
cose, ma di confonderle tra di loro, di prendere un cespuglio per un orso, di
dare nome al nulla, in uno stato d’animo di sogno che è distacco totale dalla
realtà. L’arte, in altri termini, non sarebbe altro che dar corpo ai sogni, ai
fantasmi, alle ombre, perché l’arte è magia ed incantesimo, e quindi luogo
irreale ed immaginario, incapace di ritrovarsi nella crudezza di una realtà che
avvilisce i sogni nella banalizzazione del quotidiano. La creazione artistica
sorge dal nulla, ovvero da ciò che non è reale, e proprio per questo è sogno,
fantasia creatrice, immaginazione poetica.
Shakespeare anticipa genialmente la concezione dell’arte come pura
creazione dell’artista che sarà fatta propria dalla modernità, peraltro nel con-
testo di una commedia che è essa stessa effervescente di simboli e di magia,
ma in cui in realtà egli vuol dirci che il simbolo è poetico proprio perché è
fine a se stesso e non rimanda ad altro che al sogno generato dalla mente del
poeta.

8.19.2. Il simbolismo nell’arte

Si potrebbe tracciare a questo proposito una storia dell’estetica mo-


derna ed evidenziare come il “simbolismo” nell’arte (pittorica: dalla Tempesta
del Giorgione a Watteau o Moreau, Millais, Odilon Redon; poetica: da Ner-
val a Baudelaire, da Lautremont a Rimbaud a Mallarmé a Jean Moréas; mu-
sicale con il Debussy di Pelléas et Mélisande, il cui testo è del simbolista Mae-
terlinck122) mostri una grande affinità con la concezione dell’arte come “so-
gno” espressa dall’“occhio del poeta” di Shakespeare. Il simbolo, nell’arte
simbolista, è fine a se stesso e non rimanda ad altro, perché è pago solo
dell’atmosfera sognante che l’artista è capace di creare. Ed è sintomatico che
ancora alla vigilia della prima guerra mondiale il poeta Ardengo Soffici trac-
ciava in questo modo magistrale la concezione dell’arte simbolista: «Poter
fare che la parola non sia un membro di un discorso condotto, sviluppato
                                                                                                               
121 W. SHAKESPEARE, Sogno d’una notte di mezza estate, atto V. Mia parafrasi in prosa:

«L’occhio del poeta è preso da una frenesia sublime e si rigira continuamente a guardare
cielo e terra, e con la penna rappresenta tutto ciò che la sua mente inventa di ignoto e di
fantastico, riuscendo così a dare nome e realtà al nulla evanescente. Ed è talmente forte la
forza dell’immaginazione, che se egli sogna la gioia, subito genera la gioia, e se, di notte,
sogna la paura, subito crea un pensiero di spavento, e trasforma tutta la realtà, perché egli
può, se vuole, far sembrare un cespuglio un orso».
122 Cf. M. MAETERLINCK, Pelléas et Mélisande, Feltrinelli, Milano 1993.
Simboli, immagini, icone 259  

verso un fine, chiaro alla ragione cattivata passo a passo, ma un segno auto-
nomo, folgorante, irradiante, propagantesi in mille onde suggestive, slargan-
tesi in tutte le sue possibilità evocative, senza intermediari, fino al seguente
che gli si associa e lo giustifica, ed è a sua volta giustificato ed illuminato da
esso per l’espressione finale di un movimento di vita! Posar le parole come il
pittore i colori e vedere il mondo spiegarsi nel suo splendore!»123. Ma, di
conseguenza, è pure inquietante constatare come la tragedia sanguinante
della guerra abbia posto fine bruscamente al “sogno” dei simbolisti, e che il
risveglio per una nuova possibilità di creazione artistica — e non solo pitto-
rica — si sia originato a partire da Guernica di Pablo Picasso.
Occorre allora chiedersi se forse, pur nell’ambiguità filosofica e teolo-
gica delle sue affermazioni, non abbia visto più a fondo nella natura del
“simbolo” e con maggiore verosimiglianza Wolfgang Goethe, che alla fine
del V atto del Faust fa cantare dal Chorus Mysticus:

Tutto l’Effimero
è solo un Simbolo.
L’Inattuabile
si compie qua.
Qui, l’Ineffabile
è Realtà124.

Il simbolo, anche e soprattutto quello artistico, può essere tale solo se


si riconosce simbolo di una realtà vera che lo trascende ed alla quale deve
fare riferimento se non vuole vanificarsi nell’effimero. È di quella realtà che
l’effimero tutto — la realtà del mondo e la realtà stessa dell’arte — è solo un
“simbolo”. È quella realtà che compie pienamente ciò che nella realtà del
mondo come nella stessa creazione artistica, risulta “inattuabile”, quasi una
parola da sempre cercata ma mai compiutamente detta, o di un colore o di
un’immagine da sempre perseguita ma mai raggiunta persino nella più alta
espressione pittorica. È quella realtà che sola dà realtà all’Ineffabile, ovvero
a ciò che è al di là di ogni concettualizzazione come di ogni espressione
poetica e pittorica. Perché l’Ineffabile è la nostalgia segreta che muove
l’anima di ogni vero artista e di ogni grande poeta, i quali possono in qual-
che modo raggiungerlo — nella loro condizione esistenziale di confronto
con l’effimero — solo attraverso il linguaggio di un simbolo capace di dive-
nire icona dell’Ineffabile.
Goethe allude, ma non apre direttamente alla dimensione religiosa del
simbolo come “icona” della suprema bellezza che appartiene solo a Dio e
                                                                                                               
123 A. SOFFICI, Giornale di bordo, Vallecchi, Firenze 1915.
124 W. GOETHE, Faust, fine dell’Atto V.
260   Phronesis

che si riflette nella creazione intera. Sarà piuttosto il pensiero religioso russo
— in particolare di Vladimir Soloviev e di Pavel Florenskij — ad approfon-
dire il tema dell’“icona” come simbolo del mistero divino. Ed è nel contesto
di questo pensiero che verrà elaborata la più alta concezione della “parola”
come “immagine”, ovvero come simbolo iconico di ciò che appare come
inesprimibile ed ineffabile, come la realtà vera cui ogni autentico simbolo
rimanda ed allude.

8.19.3. Icona ed estetica teologica

«I nostri antichi antenati — scrive Trubeckoj — non erano filosofi


ma veggenti che esprimevano le proprie idee non con le parole, ma nei co-
lori […]. Gli iconografi della antica Russia con meravigliosa chiarezza e for-
za incarnarono nelle forme e nei colori ciò che riempiva il loro animo: la vi-
sione di una diversa verità vitale e di una diversa concezione del mondo.
Cercando di esprimere a parole l’essenza della loro risposta, sono ben con-
scio che non ve n’è alcuna in grado di rendere adeguatamente la bellezza e la
potenza di questo incomparabile linguaggio di simboli religiosi»125.
Questa affermazione mostra come si possa accedere ad una diversa
realtà del simbolo che non è solo di tipo artistico o linguistico, ma è di tipo
altamente religioso. Un simbolo che non rimanda all’altra parte di cui è sim-
bolo, ovvero al divino, cessa proprio nella sua funzione di simbolo. Voglia-
mo allora fare nostra una diversa concezione del simbolo, inteso come icona
della verità, concezione che si deve proprio al grande pensiero religioso rus-
so di Soloviev e di Florenskij. È in questo pensiero infatti che è possibile
comprendere come il linguaggio simbolico sia strettamente congiunto con il
linguaggio del Sacro e, soprattutto, come la concezione di una parola-
simbolo-icona è forse la più adatta ad esprimere il senso mistico — e per
questo anche poetico — dei grandi dogmi della Rivelazione cristiana:
l’Incarnazione e l’Uno-Trinità di Dio. E non è un caso, a mio avviso, che
Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, nomini proprio questi autori
quali modelli di una rinnovata filosofia cristiana nel contesto della cultura
contemporanea.
I grandi dogmi del cristianesimo, il dogma dell’Incarnazione e il dog-
ma dell’Uno-Trinità di Dio, nella loro grandiosa ma anche misteriosa verità,
sono forse meglio esprimibili, non solo da una concettualizzazione astratta,
ma da un pensiero simbolico di cui l’icona pittorica è la rappresentazione
più adeguata. La tavola iconica è un simbolo che rimanda all’archetipo di cui
                                                                                                               
125 E. TRUBECKOJ, Contemplazione nel colore. Tre studi sull’icona russa, La casa di Matriona,

Milano 1989, pp. 4-5.


Simboli, immagini, icone 261  

è simbolo e di cui è espressione luminosa, quasi sua emanazione sensibile. Si


potrebbe dire che il pensiero religioso russo, a differenza di quello occiden-
tale latino, si sia costituito non come teologia concettuale ma come teologia
visiva, in cui la potenza dell’immagine è fondata sulla relazione inscindibile
dell’immagine con la verità e come sua manifestazione sensibile. La colonna e
il fondamento della verità di Florenskij126 costituisce la più compiuta esposizione
del pensiero religioso russo come teologia iconica, la quale ha il suo fonda-
mento nel concetto teologico secondo cui il Padre trova nel Figlio-Logos
non la sua “dimostrazione” concettuale, ma la sua Rivelazione, e nel Logos
Incarnato la sua piena manifestazione sensibile. Il Padre dona allora nel Fi-
glio-Logos la pienezza della sua rivelazione, e nel Logos che presiede alla crea-
zione fino all’Incarnazione una progressiva manifestazione sensibile e visibi-
le della sua essenza. Il Logos Incarnato diviene in tal modo il paradigma della
natura intrinsecamente visibile della Parola, e la creazione appare come una
teofania del Logos che è ab aeterno presso Dio.
Nella concezione di Florenskij sussiste pertanto uno stretto legame
tra la parola e l’immagine, come peraltro in Soloviev: «Per tutta la vita ho
pensato all’uno, al rapporto fra fenomeni e noumeno, alla rivelazione del
noumeno nei fenomeni, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Que-
sta è la questione del simbolo. E per tutta la mia vita ho pensato ad un solo
problema, al problema del Simbolo»127.
L’Uno è presenza, e la realtà del simbolo consiste nell’essere una ma-
nifestazione, una epifania dell’Uno in tutto il creato. Il tema dell’immagine
ha avuto infatti un particolare sviluppo con l’estetica neoplatonica, la quale
non nega il primato della parola sull’immagine, stabilito da Platone, ma lo
supera nella direzione di una concezione dell’immagine intesa come riflesso
dell’Uno. Per Plotino, l’immagine è infatti anch’essa, come ogni realtà
dell’essere, una emanazione dell’Uno, sebbene non ne costituisca per questo
una sua dimensione, che significherebbe, in tale contesto ontologico, una
sua diminuzione, mentre l’Uno non può subire diminuzioni per essenza.
L’immagine viene concepita allora come un’emanazione dell’Uno che ne è
anche in qualche modo un accrescimento, sebbene solo sul piano
dell’immagine. È noto come in tutte le teorie estetiche fondate
sull’ontologia neoplatonica, la creazione artistica partecipa di questo potere
dell’immagine come “accrescimento” e come “novità”. È qui che trova il
suo fondamento la concezione iconica dell’arte — del mondo bizantino
come dell’islam iranico — la quale attraverso artisti come Matisse ha in-

                                                                                                               
126 Cf. P. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998.
127 P. FLORENSKIJ, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977, p. 68.
262   Phronesis

fluenzato in modo determinante l’arte e l’estetica contemporanee, ma anche,


potremmo aggiungere, l’“estetica teolologica” di von Balthasar128.
Anche l’estetica ermeneutica di Gadamer si rifà a questa impostazione
neoplatonica del tema dell’immagine, con alcune significative novità, che
consistono nel parallelo istituito tra immagine, intesa come partecipazione
all’essere della cosa di cui è immagine, e il “simbolo”, inteso come parola
che anch’essa partecipa in qualche modo all’essere a cui rimanda.
«L’immagine — scrive Gadamer — rimanda in quanto trattiene. La sua por-
tata ontologica [...] è proprio sottolineata dal fatto che essa non è separata
da ciò che rappresenta, ma partecipa al suo essere [...]. Il rappresentato,
nell’immagine, perviene a se stesso. Subisce un aumento di essere [...].
L’immagine non scompare adempiendo alla sua funzione di rimando, ma
partecipa nel suo essere proprio di ciò di cui è immagine»129. Analogamente
all’immagine, anche il simbolo non rimanda semplicemente a qualcosa di
non presente, «ma rappresenta in quanto è “rappresentate”, sta per qualcosa
[…] Il simbolo tiene il luogo di qualcosa in quanto “rappresenta”, fa esser
immediatamente presente qualcosa»130.
Gadamer precisa tuttavia che se la funzione di rappresentare il rappre-
sentato è comune all’immagine e al simbolo, questo si differenzia
dall’immagine perché svolge la sua funzione di rappresentanza con il suo
stesso esistere come “segno”, che in quanto tale non dice nulla del rappre-
sentato. Il simbolo-parola, in altri termini, presuppone l’esperienza esisten-
ziale a comprendere il significato del simbolo. Vedere un’immagine, signifi-
ca già vedere in qualche modo il rappresentato; ma per comprendere un
simbolo occorre già conoscere la sua funzione di rappresentanza, perché in
quanto puro segno esso non rappresenta, ma rappresenta solo in quanto
simbolo di un simboleggiato. «Non è infatti il suo proprio contenuto che gli
conferisce il significato, ma appunto un atto di istituzione, una fondazione,
una consacrazione, che assegna un significato a qualcosa che per sé ne è
privo»131.
Il paragone con l’estetica neoplatonica va fatto tuttavia con
l’avvertenza che l’Uno di Florenskij non è l’Uno neoplatonico, ma è il Dio
Uno-Trinità della rivelazione cristiana, e in quanto tale esso non è soltanto
identità, ma coincidenza di realtà che all’uomo appaiono opposte. Ne risulta
                                                                                                               
Cf. H.-U. VON BALTHASAR, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book, Milano 1973, 5 voll.
128

H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 189.


129
130 Ivi, p. 190.
131 Ivi, p. 192. Per una maggiore precisazione, occorre dire che per Gadamer non tutti i

segni svolgono questa funzione rappresentativa del rappresentato, ma solo i segni che egli
definisce simboli e che sono in qualche modo simili alle immagini. Inoltre, mentre
l’immagine offre un di più d’essere al rappresentato, la funzione del simbolo non è il di più,
e il simbolo non apporta al simboleggiato un accrescimento di essere.
Simboli, immagini, icone 263  

che il principio della realtà tutta non è l’identità ma in qualche modo una
coincidentia oppositorum. E proprio per questo nell’Uno-Trinità di Florenskij è
possibile concepire il mistero di una creazione che è altro da Dio, ma che
pure è fin dall’inizio una epifania di Dio, quale si manifesterà eminentemen-
te nell’Incarnazione del Logos. L’Uno-Trinità implica infatti in sé il mistero
della molteplicità delle creature, in cui solo può esprimersi in modo iconico
l’infinita ricchezza dell’Uno-Trinità di Dio. È qui che risiede il fondamento
teologico del simbolo e dell’icona, che è manifestazione visibile di una Paro-
la e di una Verità che è trans-razionale, trans-logica e quindi veramente tra-
scendente. Per Florenskij il visibile deve diventare in tal modo una manife-
stazione dell’Invisibile, anche nella sua apparente contraddittorietà. E questo
è appunto il senso del simbolo e dell’icona, capaci di comprendere tutta la
creazione come una epifania di Dio, e come una manifestazione visibile del-
la sua Parola creatrice e redentrice.

8.20. Icona ed estetica metafisica

In questo contesto teologico la stessa verità metafisica non consisterà


allora solamente in una relazione logica o puramente concettuale, ma essa,
per essere “verità” deve poter essere iconicamente un monogramma di Dio:
«la forma della verità è in grado di contenere il proprio contenuto, che è la
“Verità” solo quando in qualche modo, almeno simbolicamente, ha in sé
qualcosa che proviene dalla Verità. In altre parole, la verità deve essere ne-
cessariamente l’emblema di una qualche proprietà fondamentale della Verità
e, infine, esistendo hic et nunc deve essere simbolo dell’eternità. Benché data
nella creatura, la verità deve essere un monogramma della divinità; benché al
di qua, deve essere in qualche modo al di là; con i colori del relativo deve
disegnare l’assoluto; il fragile vaso delle parole umane deve contenere il
diamante infrangibile della Divinità»132.
Il linguaggio simbolico manifesta così il carattere iconico della mani-
festazione della verità di Dio, che pur rivelandosi nel creato, resta tuttavia
nascosto nella sua trascendenza, ovvero in una dimensione di assoluta liber-
tà e di amore con cui Egli si rapporta alla creazione intera ed all’uomo. Ecco
perché il rapporto con il simbolo-icona significa per l’uomo un rapporto di
contemplazione e non di possesso, perché significa un rapporto con Dio
fondato sulla libertà e sull’assoluta trascendenza di Colui che si manifesta
nella creazione, nella libertà e nell’amore. Il simbolo dell’icona diviene epi-
fania di un Dio-Trino che è assolutamente trascendente, nel senso che il
Suo rapporto con la creazione è libero, fondato sull’amore e richiede
                                                                                                               
132 P. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 192-193.
264   Phronesis

dall’uomo una contemplazione della Sua manifestazione senza desiderio di


possesso, al di là della ragione strumentale dell’epoca moderna, e fondato su
una contemplazione disinteressata e libera. È questo il senso della bellezza
come luogo non solo teologico, ma autenticamente metafisico, in cui il rap-
porto tra l’uomo e Dio, disinteressato e puro, contemplativo e amante,
esclude l’interesse, il possesso, la strumentalizzazione e persino la violenza
di una concettualizzazione irrispettosa della sacralità del mistero. L’icona di-
viene insieme luogo teologico di questo rapporto con Dio fondato sulla bel-
lezza, e diviene anche la scala metafisica per l’uomo per salire a Dio, perché
a sua volta il simbolo stesso dell’icona è una manifestazione della bellezza
stessa di Dio e una qualche partecipazione e rivelazione della sua suprema
bellezza. La dimensione metafisica della bellezza consiste così nel manifesta-
re la teofania della creazione come manifestazione dell’invisibile nel visibile,
e in questo senso la bellezza è icona e anche simbolo del rapporto tra il
Creatore e la creatura, e manifestazione della suprema verità.
Ne consegue che la conoscenza simbolica e iconica del reale non è
arbitraria e puramente convenzionale, come i segni di una lingua, ma è fon-
data su questa manifestazione dell’Uno-Trinità, da cui l’assimilazione tra co-
noscenza simbolica e contemplazione iconica del reale. L’Incarnazione rive-
la per Florenskij il carattere della relazione fondamentale tra Dio e il mondo,
da cui anche l’esigenza di rivalutare tutto il corpo dell’uomo come manife-
stazione dello spirito attraverso la quale anche il corpo-icona si rapporta alla
totalità del creato e lo sacralizza. L’uomo, anche attraverso il proprio corpo,
diventa un’icona di Dio. Ed è chiamato a leggere la realtà tutta come
un’icona dell’Uno-Trinità di Dio, e quindi come un’epifania dell’assoluta tra-
scendenza di Dio e della sua inesauribile fonte di significati per tutto
l’essere.
La conoscenza simbolica della realtà, per Florenskj, apre l’uomo ad
una interpretazione infinita del reale come epifania di Dio, e il rapporto che
si instaura tra questa interpretazione simbolica della realtà e Dio stesso, es-
sendo un rapporto fondato sulla libertà e sull’amore, è un rapporto che può
essere qualificato solo come un rapporto di bellezza, ma che, a motivo della
sua fondazione ontologica, potremmo definire di “estetica metafisica”. La
bellezza è l’epifania della verità. Florenskij raggiunge qui una tesi della filo-
sofia bonaventuriana secondo cui “pulchrum est splendor veri”, il bello è lo
splendore del vero. La restaurazione del bello significherà allora la restaura-
zione dell’originario e primigenio rapporto dell’uomo con la creazione inte-
ra, e questa è nel suo significato profondo l’icona, e questo significa la cono-
scenza simbolica del reale.
Simboli, immagini, icone 265  

8.21. La maschera e il volto

Ma se l’uomo è icona di Dio, egli deve riconoscere che è anche dato


da Dio come sua icona e deve riuscire a rendere trasparente in sé lo sguardo
originario di Dio. Ancor prima di Lévinas, Florenskij sostiene che il volto «è
sinonimo della parola manifestazione»133, nel senso che il volto è manifesta-
zione iconica di Dio e in quanto tale si contrappone alla maschera, perché la
maschera è volto vuoto di Dio, è volto incapace di riflettere come un’icona
lo sguardo di Dio: «La maschera, o larva, è qualcosa che ha una certa somi-
glianza con il volto, che si spaccia per volto ed è preso per tale ma che den-
tro è vuoto, sia nel senso materiale, sia quanto a sostanza metafisica. Il volto
è la manifestazione di una certa realtà e si apprezza appunto come mediato-
re fra conoscitore e conosciuto, come l’aprirsi alla nostra vista e alla nostra
intelligenza della realtà conosciuta […] Ma il suo significato diventa negati-
vo, quando in luogo di svelarci l’immagine di Dio, non solo non offre niente
per questo verso, ma altresì ci inganna, indicandoci con frode delle cose ine-
sistenti. In questo caso è una maschera»134.
Il volto è la manifestazione iconica dello sguardo con cui Dio guarda
l’uomo, così che guardare il volto nudo dell’uomo, come per Lévinas, signi-
fica guardare un’icona di Dio. E il volto dell’uomo diventa “sguardo” quan-
do è capace di riflettere in sé, come un’icona, lo sguardo stesso di Dio. «Lo
sguardo è la somiglianza a Dio resa presente sul volto. Allorché vicino a noi
c’è somiglianza a Dio, ci è dato di dire: ecco l’immagine di Dio, ma
l’immagine di Dio significa che c’è il Raffigurato da quell’immagine, il suo
Archetipo. Lo sguardo, di per sé, in quanto contemplato, essendo la testi-
monianza di questo Archetipo e trasfigurando il suo volto in sguardo an-
nuncia i misteri del mondo invisibile senza parole, con il suo stesso aspet-
to»135. In questo senso, per Florenskij, l’ascesi stessa cristiana dovrebbe con-
durre a guardare il mondo come un’icona del divino, che distacca l’uomo
dagli interessi, dalle passioni, ossia deve condurre l’uomo a guardare il mon-
do come un’icona e l’altro uomo come un’icona di Dio. Perché la vera asce-
si cristiana non è ascesi neoplatonica di fuga dal mondo, di “fuga del solo
verso il solo”136, ma è capacità di contemplare il mondo e la stessa corporei-
tà e la stessa carne come un’epifania di Dio, come manifestazione della sua
bellezza e come partecipazione del suo amore.
L’icona allora, nella tradizione dell’arte russa, diviene quel tipo di arte
capace di spingere l’uomo verso una contemplazione simbolica della realtà e
                                                                                                               
133 P. FLORENSKIJ, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelfi, Roma 1977.
134 Ivi, p. 211.
135 Ivi, p. 210.
136 PLOTINO, Enneadi, VI, 9 11, 50.
266   Phronesis

capace altresì di suscitare santità e bellezza, mostrando come la bellezza o il


rapporto iconico con Dio sia un rapporto di bellezza, e che la santità non
può esserci senza la bellezza. Il concetto di Soloviev di un’“unitotalità del
reale” viene ripreso da Florenskij per mostrare che ogni uomo, in qualsiasi
realtà si trovi, è legato all’Uno-Trinità attraverso un rapporto di amore e di
bellezza, e che la vera conoscenza della verità non consiste in un afferra-
mento razionale del reale, ma nella contemplazione di questo originario
rapporto d’amore e di bellezza, e quindi nella capacità di vedere,
nell’unitotalità del tutto, una manifestazione dell’infinita ricchezza della fon-
tale creatività di Dio.
Anche nella raffigurazione pittorica l’icona manifesta infatti una luce
che le viene dall’alto e non da se stessa. Manifesta, nei suoi colori dorati,
l’assenza dell’ombra e dell’oscurità, manifesta soprattutto una sovraesposi-
zione della luce, quasi che essa sia ascolto di una luce che viene dall’alto.
Ecco perché anche nella tradizionale produzione dell’icona l’ascesi
dell’artista non è fine a se stessa ma è contemplazione, amore e bellezza. Es-
sa è finalizzata a condurre anche lo sguardo dello spettatore dell’icona alla
dimensione trasfigurativa della realtà e quindi alla visione originaria del crea-
to come manifestazione iconica e teofanica dell’Uno-Trinità. L’icona vede
realizzarsi, attraverso la creatività dell’artista, un momento dello stesso atto
creativo divino, e concretizzarsi il vero tipo di conoscenza della verità, non
attraverso un processo puramente razionale, ma attraverso un cammino di
conoscenza e di pensiero simbolico, capace di unire la teologia con la meta-
fisica e l’estetica; ma anche con un’antropologia capace di vedere l’uomo
come un creatore d’icone ed egli stesso come un’icona divina. Attraverso
l’icona, in altri termini, e attraverso la conoscenza simbolica, l’uomo si ri-
scopre nuovamente in Dio, si riappropria in qualche modo dello sguardo
con cui Dio vede il mondo, e si introduce nuovamente nella visione con-
templativa della realtà. Perché il fondamento del simbolo, dell’immagine e
dell’icona è la grande rivelazione biblica del Logos incarnato, la Parola consu-
stanziale a Dio, l’Unigenito Figlio del Padre che si è fatto uomo, e che è,
nella nostra povera storia, «vera immagine del Dio invisibile»137.

                                                                                                               
137 Col 1,15.

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