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ROBERTO SIRIGU

ARCHEOLOGIA COME
“SEMIOTICA DELLA REALTÀ MATERIALE”

18
2001

Estratto da
QUADERNI DELLA SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DI
CAGLIARI E ORISTANO
1
JIIA & ADR "Journal of Intercultural and Interdisciplinary Archaeology" & "Archaeological Disciplinary Repository"
Direttore Responsabile: Antonella D’Ascoli - URL: http://www.jiia.it - e-mail: dascolia@tiscalinet.it
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(pp. 163-217)

ARCHEOLOGIA COME “SEMIOTICA DELLA REALTÀ MATERIALE”

ROBERTO SIRIGU

PREMESSA.(∗)

L’archeologia moderna è una grande Chiesa che comprende numerose differenti


«archeologie», le quali però sono unite tra loro dai metodi e dagli approcci che
condividono.1

Questa efficace descrizione della disciplina archeologica, tratta dall’introduzione al manuale

scritto dagli archeologi Colin Renfrew e Paul Bahn, intitolato: “Archaeology. Theories, Methods

and Practice”, riflette chiaramente la convinzione degli Autori che l’archeologia moderna possa

ormai essere considerata una disciplina che si riconosce finalmente in un “paradigma” unitario.

Il termine “paradigma” è entrato ormai a far parte del linguaggio abituale utilizzato

nell’ambito della riflessione filosofica sui presupposti epistemologici della conoscenza e

rimanda al concetto elaborato dal filosofo della scienza Thomas Kuhn, secondo il quale:

[…] Il termine paradigma [...] da un lato, [...] rappresenta l’intera costellazione di


credenze, valori, tecniche, e così via, condivise dai membri di una data comunità.
Dall’altro, esso denota una sorta di elemento di quella costellazione, le concrete
soluzioni-di-rompicapo che, usate come modelli o come esempi, possono sostituire regole
esplicite come base per la soluzione dei rimanenti rompicapo della scienza normale.2

Il processo innescato dalla “rivoluzione” concettuale che Clarke ha efficacemente definito

come “perdita dell’innocenza”,3 ovvero la presa di coscienza del fatto che non esistano

metodologie “neutrali” o totalmente oggettive se non all’interno del quadro concettuale

delimitato dagli strumenti di analisi interpretativa scelti ed utilizzati per condurre la ricerca,

avrebbe quindi finalmente trovato soluzione in un soddisfacente paradigma disciplinare,

certamente complesso e articolato, ma unitario.

In realtà la fiducia espressa da parte di Renfrew e Bahn trova, a nostro avviso, solo parziale

riscontro nella realtà dei fatti. Come hanno significativamente ribadito recentemente Daniele

Manacorda e Nicola Terrenato nelle rispettive relazioni introduttive al “X Ciclo di Lezioni sulla

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Ricerca Applicata in Campo Archeologico”, dedicato al tema: “Archeologia teorica”,4 si avverte

ancora la necessità di giungere ad una sintesi organica tra “teoria” e “metodo”. Bisogna infatti

riconoscere che la riflessione teorica e quella metodologica hanno finora intrapreso strade per

molti versi indipendenti, così come bisogna ammettere che i risultati della ricerca sviluppata sul

piano teorico e su quello metodologico trovano ancora difficoltà a tradursi nella pratica

quotidiana di ricerca “sul campo”.

Occorre allora sforzarsi di giungere all’elaborazione di un modello paradigmatico della

disciplina archeologica che non sia il risultato della somma meccanica (simile ad una

giustapposizione) di “teorie”, “metodi” e “pratica”, ma che sia il frutto di una effettiva sintesi

organica tra questi tre ambiti concettuali e operativi.

Per raggiungere questo obbiettivo, occorre, a nostro avviso, affrontare il problema

dell’individuazione degli strumenti concettuali che rendono esplicita la specificità del “punto di

vista” archeologico. Il presente lavoro intende offrire un contributo in questa direzione,

affrontando il problema della definizione del “paradigma archeologico” da un punto di vista

semiotico.

Come ha infatti efficacemente dimostrato il linguista e semiologo Luis Prieto, la semiotica:

[...] non è una teoria della conoscenza, di cui i filosofi si sono già occupati, bensì una
teoria della ragion d’essere della conoscenza e, più esattamente, della ragion d’essere
della conoscenza della realtà materiale. Questa semiologia si costituisce attorno al
principio che la validità di una siffatta conoscenza dipende non soltanto, come viene
solitamente ammesso, dalla sua verità, ma anche dalla sua pertinenza. La sua pertinenza
appare persino come un criterio di validità logicamente anteriore a quello costituito dalla
verità poiché la questione della verità di una conoscenza si pone soltanto per una
conoscenza già considerata come pertinente. Ora, se la verità è un rapporto tra la
conoscenza e l’oggetto, la pertinenza è invece un rapporto tra la conoscenza e il soggetto,
per definizione storico sociale, che la costruisce e se ne serve. La semiologia che prende
come punto di partenza il principio secondo cui verità e pertinenza concorrono alla
validità di una conoscenza può perciò essere caratterizzata anche come lo strumento delle
conoscenze della realtà materiale che tiene conto del soggetto e che le considera quindi in
ciò che esse comportano di storico sociale.5

Il presente lavoro intende assumere queste considerazioni come un invito alla riflessione sui

presupposti cognitivi dell’indagine archeologica, nei quali si manifesta il profondo rapporto che

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intercorre tra questa disciplina e quella che Luis Prieto ha definito semiotica della realtà

materiale.6

1. Il paradigma cognitivo-processuale come paradigma archeologico unitario.

Il nostro tentativo di individuazione dei fondamenti semiotici della disciplina archeologica

intende adottare, come sfondo concettuale, la proposta di archeologia cognitivo-processuale

elaborata dagli archeologi inglesi Colin Renfrew e Paul Bahn e presentata, nella sua forma più

esplicita, nel già citato manuale: “Archaeology. Theories, Methods and Practice”.

La scelta compiuta da Renfrew e Bahn di utilizzare la forma manualistica per la

presentazione della loro proposta non è casuale. Come infatti ha dimostrato Thomas Kuhn, il

manuale scientifico è il genere di pubblicazione che la scienza normale utilizza come strumento

di trasmissione e codifica del proprio paradigma.7 Da questo punto di vista, la scelta di Renfrew

e Bahn mostra esplicitamente l’intenzione di far assumere alla propria proposta il valore di

nuovo paradigma archeologico che soddisfi appieno la definizione kuhniana.

Ma vi sono anche altri motivi che spingono a prendere in esame questo manuale con

attenzione. La scelta dei titoli dati ai singoli capitoli, per esempio, appare senza dubbio

innovativa. Come precisato dagli stessi Autori nell’introduzione,8 ciascun capitolo è stato

chiaramente concepito e organizzato come risposta ad una specifica domanda, coerentemente

con l’impostazione teorica proposta dalla New Archaeology.9 Questa scelta è stata compiuta allo

scopo di evitare che la trattazione dei problemi affrontata nel manuale assuma il carattere di

descrizione dogmatica della disciplina archeologica, dei problemi che essa intende risolvere e

delle pratiche operative di cui essa fa uso. In tal modo l’insieme di tali domande acquista il

valore di “spazio cognitivo” delimitato dal rapporto intercorrente tra i concetti di pertinenza e di

oggettività.

Un altro aspetto che differenzia questo manuale dai manuali tradizionali è la struttura stessa

del manuale. Questa differenza non si coglie immediatamente: infatti, se sottoposto ad un esame

superficiale, il manuale sembra seguire un impianto tradizionale, caratterizzato da una

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disposizione sequenziale delle domande che l’archeologo “rivolge” alla realtà, corrispondenti ad

altrettanti approcci specifici di indagine. Se esaminiamo però il manuale con più attenzione,

notiamo che:

[…] il lettore non deve sentirsi obbligato a percorrere queste pagine nell’ordine in cui
esse si presentano. I libri in genere richiedono un percorso sequenziale ben definito, o
perché raccontano storie che hanno uno sviluppo temporale, o perché fanno derivare
ciascuna idea dall’idea precedente. Ma nessuna storia lineare potrebbe mai descrivere una
struttura vasta come la mente umana, così come non sarebbe possibile cogliere il carattere
di una cattedrale, di una città o di una civiltà osservandone un solo aspetto o seguendo un
solo itinerario. Se questo libro fosse un romanzo o un libro di testo, bisognerebbe
cominciare con la prefazione e continuare ordinatamente sino alla fine. Ma poiché è un
libro diverso dagli altri, è forse meglio gironzolarci dentro. Se una sezione sembra troppo
semplice o troppo difficile, si può passare ad altro e poi tornare indietro.10

Questo passo descrive con efficacia l’uso che è possibile fare del manuale di Renfrew e

Bahn, ma non è tratto da questo manuale. Proviene da un altro testo, scritto da uno dei massimi

studiosi nel campo delle scienze cognitive e delle ricerche sull’Intelligenza Artificiale, lo

studioso Marvin Minsky. Nelle intenzioni di Minsky la lettura del libro dal quale abbiamo tratto

questo brano deve riprodurre l’attività mentale umana.11 La manifestazione tipica di tale attività

è il frame, che Minsky descrive come:

[…] una sorta di scheletro, qualcosa che assomiglia un po’ ad un modulo di domanda, con
spazi e caselle da riempire. Chiameremo questi spazi i terminali del frame; noi li usiamo
come punti di collegamento ai quali collegare altri tipi di informazione.12

Il frame è quindi una “rappresentazione basata su una serie di terminali ai quali possono

essere collegate altre strutture”,13 una sorta di modello mentale dell’attività cerebrale. Il testo di

Minsky si propone quindi come una “macchina testuale” capace di riprodurre le modalità di

funzionamento di un frame: i singoli capitoli (o paragrafi) corrispondono ai terminali del frame,

e i percorsi alternativi di lettura, corrispondenti ad altrettanti percorsi mentali, consentono di

“sperimentare” le modalità di funzionamento del cervello umano.

Come il libro scritto da Minsky, anche il testo di Renfrew e Bahn consente di sperimentare

molte possibili sequenze di lettura oltre quella che si sviluppa dal primo all’ultimo capitolo in

successione lineare. Il manuale può così essere letto partendo da uno qualunque dei capitoli che

lo compongono, senza che la coerenza interna dell’opera risulti minimamente alterata.

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Utilizzando il manuale come un modello di “macchina cognitiva”, si ha la possibilità di

sperimentare i possibili percorsi operativi che caratterizzano l’attività di ricerca

dell’archeologo. Come esempio, presentiamo due percorsi di lettura simmetrici: il primo seguirà

il percorso sequenziale dei capitoli così come li troviamo disposti nel manuale, nella loro

successione dal primo all’ultimo capitolo; il secondo partirà dall’ultimo capitolo per tornare al

primo, in successione ancora lineare ma invertita.

Il manuale, nella sua struttura originaria, presenta questa successione di capitoli:

Introduzione. Natura e obbiettivi dell’archeologia.


PARTE I. LA STRUTTURA DELL’ARCHEOLOGIA.
1) I ricercatori. Storia dell’archeologia.
2) “Che cosa è rimasto?” La varietà delle testimonianze archeologiche.
3) “Dove?” Ricognizione e scavo di siti e di elementi archeologici.
4) “Quando? Metodi di datazione e cronologia.
PARTE II. ALLA SCOPERTA DELLA VARIETÀ DELL’ESPERIENZA UMANA.
5) “Com’erano organizzate le società?” L’archeologia sociale.
6) “Qual era l’ambiente?” L’archeologia ambientale.
7) “Che cosa mangiavano?” Sussistenza e dieta.
8) “Come costruivano e usavano gli strumenti?” La tecnologia.
9) “Quali contatti avevano?” Il commercio e li scambi.
10) “Che cosa pensavano?” Archeologia cognitiva, arte e religione.
11) “Chi erano?” “Che aspetto avevano?” L’archeologia delle persone.
12) “Perché le cose sono cambiate?” La spiegazione in archeologia.
PARTE III. IL MONDO DELL’ARCHEOLOGIA.
13) Archeologia in azione.
14) “A chi appartiene il passato?” L’archeologia e il pubblico.

Proviamo ora ad invertire simmetricamente la numerazione e la disposizione dei capitoli.

PARTE I. IL MONDO DELL’ARCHEOLOGIA.


1) “A chi appartiene il passato?” L’archeologia e il pubblico.
2) Archeologia in azione.
PARTE II. ALLA SCOPERTA DELLA VARIETÀ DELL’ESPERIENZA UMANA.
3) “Perché le cose sono cambiate?” La spiegazione in archeologia.
4) “Chi erano?” “Che aspetto avevano?” L’archeologia delle persone.
5) “Che cosa pensavano?” Archeologia cognitiva, arte e religione.
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6) “Quali contatti avevano?” Il commercio e li scambi.
7) “Come costruivano e usavano gli strumenti?” La tecnologia.
8) “Che cosa mangiavano?” Sussistenza e dieta.
9) “Qual era l’ambiente?” L’archeologia ambientale.
10) “Com’erano organizzate le società?” L’archeologia sociale.
PARTE III. LA STRUTTURA DELL’ARCHEOLOGIA.
11) “Quando? Metodi di datazione e cronologia.
12) “Dove?” Ricognizione e scavo di siti e di elementi archeologici.
13) “Che cosa è rimasto?” La varietà delle testimonianze archeologiche.
14) I ricercatori. Storia dell’archeologia.
Conclusione. Natura e obbiettivi dell’archeologia.

Nonostante entrambe le sequenze siano costituite dall’insieme delle stesse singole

prospettive di indagine, notiamo che il ribaltamento della prospettiva che caratterizza la seconda

sequenza non la rende affatto meno coerente e legittima rispetto alla sequenza originale.

L’esperimento può essere ripetuto creando altri possibili percorsi operativi (le singole

“letture”), ad esempio aprendo a caso il manuale per 14 volte (il numero dei capitoli).

L’esperimento funziona anche se sottoponiamo il manuale a letture parziali, se cioè anzichè

ripetere l’esperimento prendendo in considerazione tutti i capitoli ne accorpiamo solo due, tre,

quattro e così via. Ciò rende il modello cognitivo proposto da Renfrew e Bahn ancora più vicino

alla realtà operativa della ricerca, mostrando una via d’uscita ai problemi contingenti (come i

problemi di natura economica o la scarsità di mezzi e di tempo) che spesso condizionano

pesantemente le possibilità di programmazione della ricerca. Assumendo come sfondo

paradigmatico il modello indicato da Renfrew e Bahn, diventa possibile programmare i singoli

interventi come parti di un progetto organico più ampio che potrà essere portato a compimento

in un arco di tempo compatibile con le risorse di volta in volta disponibili.14

In questo senso il manuale assume il valore di vero e proprio modello cognitivo,

coerentemente con la proposta teorica dell’archeologia cognitivo-processuale:

Una delle aspirazioni dell’archeologia cognitivo-processuale è […] sviluppare modelli


formali più efficaci, all’interno dei quali le percezioni umane e il lato simbolico della
società avranno un ruolo significativo […]. L’archeologia cognitivo-processuale offre un
sistema di riferimento appropriato per lo sviluppo di queste spiegazioni: si tratta di un
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sistema di riferimento nel quale le qualità specificamente umane dell’uomo – ovvero i
simboli – svolgeranno un ruolo centrale.15

La “svolta cognitiva” suggerita dal manuale di Renfrew e Bahn ci spinge ora ad affrontare in

maniera esplicita un interrogativo fondamentale: se è infatti lecito concepire “l’archeologia

moderna [come] una grande Chiesa che comprende numerose differenti «archeologie»”, occorre

chiarire che cosa trasformi questo insieme di singoli approcci in una disciplina unitaria. Renfrew

e Bahn rispondono sostenendo che queste differenti “«archeologie» […] sono […] unite tra loro

dai metodi e dagli approcci che condividono”.16 Ciò, a nostro avviso, è vero solo in parte.

Dal momento che il problema della pertinenza del punto di vista archeologico come

specifico approccio cognitivo non può essere ovviamente risolto con l’assunzione di uno degli

specifici punti di vista che caratterizza ciascuna delle singole discipline che concorrono a

formare il paradigma archeologico, nè attraverso un generico approccio interdisciplinare,

cercheremo ora di rendere più chiaro in che cosa consista la specificità del punto di vista

archeologico e come tale specificità si traduca in prassi analitica.

2. L’archeologia come semiotica della realtà materiale.

Il punto di vista adottato dalla disciplina archeologica per giungere ad una conoscenza del

passato considera la realtà materiale come fonte primaria. Questa scelta è basata sulla

convinzione che la realtà materiale sia il prodotto fisico (e quindi il riflesso materiale) di una

serie di processi storici che coinvolgono anche il presente. Questo presupposto rende

concepibile la possibilità di raggiungere una conoscenza (intesa come comprensione) del

passato anche in totale assenza di fonti scritte.

Ciò non implica, ovviamente, che l’archeologia debba ignorare, qualora esistano, le

informazioni che possono essere desunte dalle fonti scritte, ma più semplicemente che le fonti

scritte devono essere utilizzate, all’interno dell’approccio archeologico, come fonte secondaria:

in questo senso è possibile accettare come legittimo l’approccio assunto dalla disciplina

archeologica senza rinunciare alla possibilità di utilizzare anche le fonti scritte per cercare

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eventuali conferme alle proprie ipotesi interpretative, superando quindi il timore che ciò

sminuisca la validità di una lettura autonoma della realtà materiale.

Nel rapporto cognitivo che lega l’archeologo alla realtà materiale, gli oggetti svolgono

ovviamente un ruolo fondamentale; ma, se proviamo a proporre una definizione del concetto di

“oggetto” il cui uso possa risultare soddisfacente in ambito archeologico, ci accorgiamo che la

situazione si complica. Anche da un punto di vista strettamente scientifico si è giunti infatti a

mettere seriamente in discussione la certezza dell’esistenza stessa di entità fisiche definibili

come “oggetti”:

Da tempo si è cominciato a sospettare che non il mondo in sé sia diviso in cose, ma che
sia la mente umana a effettuare quell’operazione sul mondo delle percezioni sensibili. È
stata soprattutto la psicologia della forma (Gestalt) a elaborare il concetto. Non è vero –
stando a questa teoria – che noi da prima percepiamo una serie di punti giustapposti e
solo in seguito li colleghiamo nella costruzione di una forma. No, la forma viene subito
sintetizzata e percepita tutta intera dalla nostra psiche, in modo immediato e involontario.
È stata l’evoluzione naturale a dotarci di questa formidabile facoltà, la quale
indubbiamente ci aiuta a vivere.17

Questa difficoltà riguardo alla possibilità di indicare criteri cognitivi che consentano di

accertare l’effettiva esistenza degli “oggetti” investe quindi ogni aspetto del nostro rapporto con

il mondo fisico, anche in ambito scientifico. Per superare tale difficoltà, in fisica è stata

elaborata una definizione di “oggetto fisico” che può essere considerata un’evoluzione della

definizione elaborata dal logico Bertrand Russell:

Ora la fisica ha trovato empiricamente possibile raccogliere i dati dei sensi in serie,
considerando ciascuna serie come appartenente ad una «cosa» e avente un
comportamento, riguardo alle leggi della fisica, che non avrebbero serie non appartenenti
a quella cosa. Se non vogliamo ambiguità riguardo al fatto che due apparenze
appartengano o non alla stessa cosa, vi deve essere un modo di raggruppare le apparenze
per far sì che le cose che ne risultano obbediscano alle leggi della fisica […] Possiamo
così porre la seguente definizione: «Cose» sono quelle serie di apparenze che
obbediscono alle leggi della fisica. Che tali serie esistano è un fatto empirico che
costituisce la verificabilità della fisica.18

Questa definizione, per molti versi soddisfacente, ha lasciato però irrisolti alcuni problemi

del tipo: “come si fa a decidere che due classi di equivalenza diverse si riferiscono allo stesso

oggetto, senza avere prima l’idea dell’oggetto?”19

Una efficace soluzione a questo tipo di difficoltà logiche sembra offerta dalla definizione di

“oggetto” inteso come nodo di invarianti, intendendo per invariante l’espressione della materia
9
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ad una legge fisica.20 L’efficacia di questa definizione dipende proprio dal fatto che essa

abbandona una delle caratteristiche che, sulla base del senso comune, siamo soliti attribuire al

concetto di “oggetto”, ovvero: “la «dura e corpulenta» materialità dei corpi che siamo usi vedere

e la sostituisce con un insieme di enti astratti”.21

Qualunque sia la definizione che intendiamo assumere del concetto di “oggetto”, dobbiamo

in ogni caso rinunciare al conforto di una definizione univoca ed “oggettiva”. L’aver assunto

consapevolezza del fatto che un certo carattere di soggettività condiziona in qualche misura ogni

tipo di osservazione, ci suggerisce la strada da seguire per giungere ad una definizione del

concetto di “oggetto” che possa risultare funzionale nel nostro specifico campo di indagine:

[…] un oggetto infatti non è altro che un frammento della realtà materiale che il soggetto
riconosce appunto come tale ossia come un frammento di questa realtà.22

Assumere tale definizione significa però anche riconoscere che:

Tutti gli oggetti e gli eventi sono potenzialmente o effettualmente semiotici. Perché
agendo fisicamente, direttamente o indirettamente, sui nostri organismi e sugli organi
sensoriali e sul nostro sistema nervoso centrale, mettono in moto in noi un processo di
risposta e di interpretazione, di percezione e di giudizio: insomma una semiosi. Fra noi e
tutti gli oggetti e gli eventi vi è dunque una potenziale e attuale dialettica di segnità.
Oggetti ed eventi lasciano segni sui nostri corpi e noi intenzioniamo e diamo senso agli
oggetti e agli eventi.23

Tutto ciò implica allora un ribaltamento del nostro percorso cognitivo. È vero infatti che:

L’universo semiotico può essere considerato come un insieme di testi e di linguaggi


separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà formato da singoli
mattoni. È però più feconda l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può
considerare infatti come un unico meccanismo (se non come un organismo). Ad avere
allora un ruolo primario non sarà questo o quel mattone ma il «grande sistema» chiamato
semiosfera. La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile
l’esistenza della semiosi.24

Partendo da tali presupposti, è chiaro che l’atto semiotico di frammentazione della realtà

materiale in unità significative deve essere evidentemente regolata da un principio di pertinenza

che renda ragione dei criteri di frammentazione della realtà adottati dal soggetto. Infatti:

[…] ogni conoscenza della realtà materiale è sempre provvista di una sua pertinenza[…].
Ora la pertinenza di cui è provvista la conoscenza della realtà materiale, che non viene
imposta dal suo oggetto, deriva dall’interesse storicamente e socialmente condizionato col
quale il soggetto abborda tale oggetto.25

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Da questa prima serie di considerazioni potremmo essere tentati di dedurre che, essendo la

conoscenza intrinsecamente soggettiva, non esiste alcuna possibilità che le asserzioni che il

soggetto formula nei riguardi della realtà sulla base delle sue osservazioni siano, almeno in

qualche misura, oggettive. In realtà:

Il fatto di essere “parziale” non costituisce per nulla, per una conoscenza, una specie di
tara conseguente alla limitatezza dell’intelligenza che l’ha costruita: anzi, il considerare
nell’oggetto solo quello che conta per i propri interessi, ossia solo ciò che fa sì che
l’oggetto realizzi o meno il concetto pertinente per tali interessi, costituisce il fondamento
stesso della conoscenza.26

Affermare che ogni conoscenza è il prodotto di un atto cognitivo generato da un interesse

specifico di un soggetto nei confronti di un oggetto, ribaltando la prospettiva logica da cui deve

essere affrontato il problema dell’oggettività delle nostre osservazioni sulla realtà, significa

allora affrontare il problema della conoscenza da un punto di vista semiotico, trasformando così

la soggettività, da elemento negativo, in principio fondante, e quindi positivo, dell’attività

cognitiva.

Appare allora legittimo definire l’archeologia come una semiotica della realtà materiale

rivolta all’analisi delle tracce fisiche lasciate in passato dall’uomo su tale realtà. Per

comprendere come la frammentazione cognitiva del reale effettuata in una prospettiva di analisi

archeologica del reale si traduca in concreti strumenti di analisi concettuale della realtà

materiale, seguiremo un percorso cognitivo che parte dalla percezione della realtà materiale,

concepita come un “tutto” ancora cognitivamente indistinto, per giungere, attraverso la

frammentazione concettuale della realtà, alla definizione e quindi alla conoscenza degli oggetti.

3. La realtà materiale come testo.

La frammentazione concettuale della realtà materiale è evidentemente un atto cognitivo di

primaria importanza per il soggetto: è in seguito a tale atto che i “frammenti” di questa realtà,

percepita inizialmente come un “tutto” ancora indistinto, possono essere concepiti come

“oggetti”.

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Il frazionamento della realtà materiale non è però il primo atto semioticamente e

cognitivamente rilevante che il soggetto compie nei confronti della realtà materiale. Prima di

giungere ad una frammentazione della realtà materiale, il soggetto deve già possedere una

qualche forma di conoscenza di tale realtà, senza la quale la stessa frammentazione della realtà

non può essere concepita.

L’atto semiotico fondamentale non consiste dunque nella produzione di segni, ma nella
comprensione di un senso. Questo non significa innanzitutto ricondurre un oggetto
significante (o representamen) a una legge generale di tipo ipotetico (se c’è questo allora
quello) ma semmai porlo come un testo e cioè interrogarsi sul perché di quell’oggetto,
dunque innanzitutto sulla sua differenza rispetto al contesto (differenza sintagmatica),
sulla sua differenza rispetto a quel che potrebbe essere al suo posto (differenza
paradigmatica) e sulla ragione di queste differenze – che sono sempre ragioni, rete di
ipotesi principali e accessorie che costituiscono la testualità dell’oggetto.27

Porre la realtà come testo, immaginarla cioè come un “tutto” dotato di “senso”, è quindi il

primo atto cognitivo che il soggetto compie nei confronti del mondo che lo circonda.

Spesso, quando si parla di “testo”, si cade nell’equivoco di considerare questo termine come

sinonimo di “testo linguistico”. Troviamo un chiaro esempio di questo modo di utilizzare il

termine “testo”, per restare in ambito archeologico, nella proposta avanzata dall’archeologo Ian

Hodder. Secondo tale proposta, i rapporti intercorrenti tra gli oggetti sarebbero assimilabili a

quelli che intercorrono tra le parole che compongono un testo: da ciò consegue il suo invito a

concepire l’analisi dei dati materiali in termini di lettura del passato.28

Ora, è evidente che il “testo archeologico”, inteso come realtà materiale vista nella sua

totalità, concepita come riflesso e, al tempo stesso, come parte integrante della realtà culturale

che l’ha prodotta, non è altro che quel «grande sistema» chiamato “semiosfera”, inteso come lo

“spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi”.29 La

“semiosfera” è però un’entità distinta dal “testo linguistico”, anche se il “testo linguistico” è

parte integrante della “semiosfera”. Per questo motivo, pur condividendo l’invito di Hodder ad

imprimere al problema dell’interpretazione della realtà materiale in ambito archeologico una

“svolta testuale”, faremo riferimento non al concetto di “testo linguistico”, ma al concetto di

testo semiotico.

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Abbiamo detto che il primo atto semioticamente rilevante che il soggetto conoscente compie

nei confronti della realtà materiale è l’attribuzione del valore cognitivo di “testo semiotico”;

come secondo passaggio dell’azione semiotica esercitata dal soggetto nei confronti di tale realtà

abbiamo indicato la frammentazione concettuale della realtà in “oggetti”. In realtà però ciò non

è del tutto esatto, come l’analisi dei concetti di “testo e “contesto” ci consentirà di mostrare.

4. Testo e contesto: il rapporto oppositivo come strumento concettuale nel processo di


frammentazione della realtà materiale.

In semiotica il termine “contesto” svolge diverse funzioni. Nell’ambito dell’analisi testuale

del “testo linguistico”, ad esempio:

[…] il contesto è apparso via via come l’orizzonte di riferimento di un testo; come
l’ambiente, soprattutto culturale, entro cui un testo nasce e opera; come il circuito della
comunicazione che consente al testo di circolare; e come l’insieme dei testi, o delle
porzioni di testo, che co-occorrono con una porzione data.30

Il “contesto” svolge anche altre fondamentali funzioni:

Da un lato il contesto pertinentizza il testo: segnala che cosa della situazione


comunicativa è testo (in una conferenza, la richiesta di un bicchier d’acqua da parte
dell’oratore non fa parte pienamente della sua esposizione). Dall’altro il contesto
categorizza il testo: segnala quale funzione assumono nella situazione comunicativa
questo o quell’elemento testuale (in una conversazione formale, un colpo di tosse può
significare la fine dello scambio di battute.31

Come si evince chiaramente da queste definizioni, non è possibile un utilizzo dei concetti di

“testo” e “contesto” senza che ciò implichi un continuo rimando reciproco. In realtà però la

dinamica tra i concetti di “testo” e “contesto” è il riflesso di una più generale esigenza cognitiva:

il soggetto può infatti giungere alla conoscenza di frammenti distinti di realtà solo instaurando

(e quindi cogliendo) nel reale relazioni di tipo oppositivo. Questo principio regola anche il

rapporto cognitivo tra il soggetto e gli “oggetti”:

Dell’identità estensionale di ogni oggetto materiale […] il soggetto riesce a riconoscere,


tramite il contatto sensoriale con esso, soltanto determinazioni negative. Il soggetto riesce
in altri termini non a riconoscere quale oggetto è in quanto individuo un oggetto col quale
si trova in contatto sensoriale bensì a riconoscere soltanto che esso non è in quanto
individuo uno o più altri oggetti.32

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È quindi solo in un secondo momento che il soggetto, superando la fase di percezione della

realtà intesa come un “tutto”, giunge alla definizione dell’oggetto in termini positivi, sulla base

cioè dell’individuazione di quelle caratteristiche che contraddistinguono ogni singolo oggetto

come realtà individuale.

L’interpretazione in termini semiotici della realtà materiale, concepita come un “tutto”

testuale da scomporre in frammenti concettuali, ci pone allora davanti ad un serio problema. Se

infatti inizialmente la realtà materiale ci appare come un “tutto” indistinto significa che noi, nel

nostro primo impatto cognitivo con la realtà, non siamo ancora in grado di dire che cosa sia la

realtà materiale, al di là del fatto che essa ci appare, appunto, reale in quanto materiale.

Ora, il problema sorge nel momento in cui dobbiamo uscire da questa condizione cognitiva

iniziale per addentrarci nelle operazioni di frammentazione della realtà. Infatti, dal momento che

la realtà materiale concepita nella sua totalità non è solo un tutto ma è il tutto, al di fuori del

quale non c’è nulla, sembrerebbe che la realtà materiale sia un testo privo di contesto: da ciò

dovremmo dedurre che il principio oppositivo non sia lo strumento logico adatto a modificare il

nostro rapporto iniziale con la realtà materiale. Questa impressione è però errata: il concetto di

realtà intesa come “totalità dell’esistente” trova il suo contesto concettuale nel concetto di nulla,

inteso come ciò che non c’è rispetto a ciò che c’è.33 È quindi logicamente legittimo concepire la

realtà materiale come un “testo” che c’è a cui si oppone contestualmente ciò che non c’è.

È evidente, alla luce di queste considerazioni, per quali ragioni il concetto di contesto abbia

assunto un ruolo così importante in ambito archeologico:

Nel discorso archeologico il termine contesto ha avuto una gamma di accezioni piuttosto
vasta ed è stato spesso impiegato per denotare vari concetti specifici della disciplina. In
generale, si intende per contesto la situazione o le circostanze in cui un oggetto, o un
gruppo di oggetti, è stato rinvenuto. […] In termini generali, si può concludere che […]
l’oggetto dell’indagine archeologica viene sempre visto sullo sfondo di tutti quelli che gli
sono vicini nello spazio o nel tempo, o che presentano caratteristiche analoghe. […]
Comunque esso [il contesto] sia inteso, lo studio dei contesti produce sempre
interpretazioni più ampie e attendibili dei resti indagati e merita quindi un posto di primo
piano fra i metodi dell’archeologia.34

Se è vero quindi che il “contesto” svolge la funzione di “orizzonte di riferimento”

concettuale del “testo archeologico”, è chiaro però che fare genericamente riferimento a tale
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concetto non è sufficiente per risolvere tutti i problemi interpretativi che l’archeologo deve

affrontare.

5. Le pratiche di frammentazione della realtà materiale.

In ambito archeologico il principio oppositivo trova molte ed evidenti applicazioni. I concetti

di base della moderna metodologia di scavo, ad esempio, sono stati elaborati proprio utilizzando

come strumento logico fondamentale il principio oppositivo. La descrizione che Andrea

Carandini propone dell’attività di scavo archeologico è in questo senso particolarmente

eloquente:

Passare dalla terra da scavare alla terra scavata significa passare da una realtà di partenza
inerte, indistinta e sconosciuta a una sua rappresentazione divisa in parti, relazionata nello
spazio e nel tempo. Le parti sono quelle che riteniamo essere azioni basilari
materialmente riconoscibili o riconosciute, e cioè le unità stratigrafiche. Una azione o
unità stratigrafica diventa interpretabile solo se inserita nel sistema di rapporti che la lega
alle altre. Tali relazioni si presentano in un primo momento come rapporti fisici, i quali
possono essere ricondotti semplificando e astraendo a rapporti relativi nel tempo entro
una sequenza stratigrafica. Prima vediamo il «copre/coperto» e solo in seguito
realizziamo il «dopo e il prima» che ne procede.35

È evidente che l’archeologo, individuando nella “realtà di partenza”, che gli appare

inizialmente “inerte, indistinta e sconosciuta”, “parti” fisiche legate tra loro da un “rapporto

fisico” che interpreta come riflesso materiale di “rapporti relativi nel tempo”, ossia come segni

di “azioni basilari materialmente riconoscibili o riconosciute, cioè le unità stratigrafiche”,

compie una serie di operazioni di frammentazione sul piano concettuale della realtà materiale

che poi si tradurranno, sul piano fisico, nella frammentazione materiale prodotta dallo scavo.

La frammentazione della realtà materiale, concepita come “testo archeologico”, trova la sua

prima manifestazione nella definizione di quelle “porzioni di testo” che l’archeologo chiama

siti. Il dibattito intorno al tentativo di definizione del concetto di “sito archeologico” è

sufficientemente noto da consentirci di evitare di riassumerlo.36 Ci limitiamo a ricordare che tale

dibattito, in perfetta sintonia con ciò che abbiamo detto sinora, ha consentito di acquisire

consapevolezza del fatto che concetti come “sito archeologico”, “città”, “area urbana”,

“villaggio”, ecc., di cui comunemente ci si serve per “descrivere” la realtà archeologica già a

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questo livello analitico di frammentazione del reale, corrispondono ad altrettante forme di

“frammentazione concettuale” elaborate sulla base di un approccio soggettivo, e non ad entità

fisiche dotate di valore in sé.

Anche i confini fisici di un “sito archeologico” sono quindi il riflesso dei “confini

concettuali” all’interno dei quali il soggetto rende espliciti i propri interrogativi di indagine. È

questa la principale ragione che giustifica la scelta della strategia di scavo “per grandi aree”. Se,

per fare un esempio concreto, vogliamo comprendere realmente le dinamiche spaziali (e quindi

culturali) che hanno caratterizzato la vita di un edificio o di monumento, non possiamo

ovviamente limitarci allo scavo dell’interno del monumento, così come non è sufficiente

indagare l’area esterna al monumento trascurandone l’interno. Per questo motivo il “nostro” sito

avrà limiti fisici che non coincidono, se non per motivi contingenti, con i “confini” che in

passato possono aver delimitato delle aree specifiche di quella porzione di territorio. Concetti

come “limite” e “confine” sono quindi anch’essi entità concettuali prodotte ed utilizzate per

soddisfare specifiche esigenze e come tali devono essere utilizzati.

Dopo essere giunto ad una definizione del “sito archeologico”, l’archeologo porta avanti la

frammentazione della realtà materiale utilizzando sostanzialmente due approcci di indagine “sul

campo”:

1) la ricognizione di superficie;

2) lo scavo.

La ricognizione sistematica di superficie cerca di adottare pratiche di indagine quanto più

possibile non invasive, limitandosi ad esempio alla raccolta dei materiali visibili in superficie o

al solo rilevamento delle emergenze materiali (reperti e/o monumenti). Dobbiamo però ricordare

che, per quanto limitato, l’intervento cognitivo dell’archeologo lascia delle tracce anche in

questo caso: l’asportazione sistematica e ripetuta nel tempo di materiali rinvenuti in superficie

altera ovviamente le percentuali dei materiali presenti sul terreno.37

Lo scavo è invece una pratica che modifica profondamente e irreversibilmente la forma

materiale del sito. Per questo motivo si è giunti alla definizione concettuale preventiva delle

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entità fisiche che l’archeologo dovrà “riconoscere” durante le operazioni di scavo e,

conseguentemente, alla definizione delle operazioni necessarie per giungere a tale

riconoscimento.38

Particolarmente importante è stata in questo senso l’elaborazione del concetto di unità

stratigrafica, intesa come:

[…] la traccia materiale di un singolo evento; si tratta di un’entità fisica con


caratteristiche proprie, relativamente omogenea e diversificata dalle altre. I rapporti di
antecedenza e successione che intercorrono tra le diverse unità (strati ed interfacce) messe
in luce dallo scavo archeologico consentono di stabilire la sequenza degli eventi che
hanno portato alla formazione della stratigrafia (sequenza stratigrafica) e quindi di
determinare la storia del sito archeologico. Un insieme di strati che sia delimitato da
interfacce risultanti dalla somma totale delle superfici di strato e superfici in sé, in uso
durante un identico momento, può essere riunito in una superunità denominata fase, il cui
significato è paragonabile a quello della formazione della stratigrafia geologica.39

Questa definizione mostra con chiarezza che le “unità stratigrafiche” sono entità concettuali

definite sulla base dell’individuazione di rapporti oppositivi reciproci, regolati dalle leggi della

stratigrafia archeologica. Occorre però sottolineare che anche nell’individuazione di queste

entità fisiche il ruolo svolto dal principio di pertinenza è fondamentale. Vediamo perché.

Secondo Carandini esiste una importante differenza logica tra il percorso che conduce

all’acquisizione dei dati durante lo scavo e il percorso interpretativo dei dati stessi. L’insieme di

operazioni che dalla scelta del luogo da sottoporre ad indagine conduce fino all’identificazione

delle unità stratigrafiche (ricognizioni di superficie, scavi, ecc.) è definito da Carandini come

processo analitico; le operazioni che vanno dall’interpretazione dei dati emersi durante le

ricerche sul campo alla loro pubblicazione è invece un processo sintetico.40

Da tale distinzione Carandini fa derivare il differente grado di oggettività che caratterizza i

due tipi di percorso logico. Infatti, per quanto riguarda il processo di tipo analitico:

[...] l’aspetto soggettivo sta solo nel fatto che distinguendo le unità lo scavatore può non
essere stato ‘sufficientemente’ analitico rispetto al fine di identificare tutte le azioni
‘significative’ di una stratificazione.41

Il processo di tipo sintetico è invece destinato a subire un progressivo “slittamento verso la

soggettività interpretativa”. Per tale ragione le fasi interpretative (sintetiche) presenterebbero un

grado di oggettività minore rispetto alle fasi di ricerca sul campo (analitiche).

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Tutto ciò è senza dubbio vero, ma dalle osservazioni di Carandini emerge con chiarezza una

sottovalutazione del grado di soggettività che caratterizza le operazioni di tipo analitico,

soprattutto se posto in relazione alle successive fasi di tipo sintetico. L’introduzione del concetto

di “microstratigrafia” e il conseguente dibattito sulla effettiva possibilità ed utilità di utilizzo di

tale concetto dimostra che le scelte effettuate all’interno del percorso analitico non sono meno

soggettive di quelle che caratterizzano il percorso sintetico.

Troviamo un’altra prova delle conseguenze pratiche che possono derivare dall’utilizzo di

parametri più o meno analitici nell’attribuzione della caratteristica designata dall’espressione

“persistenza morfologica” ai reperti di “ceramica comune” prodotti in età romana (sul quale abbiamo

avuto modo di riflettere in altra sede).42 Con questa espressione si fa riferimento al fatto che le forme

vascolari inserite nella classe denominata “ceramica comune” sembrano conservare molto a lungo le

proprie caratteristiche morfologiche, rispetto evidentemente ad altre classi in cui sembrerebbe più

evidente una certa tendenza al mutamento.

Si è soliti cercare una spiegazione a tale fenomeno nel fatto che tali oggetti sono destinati ad un

uso quotidiano: per questo motivo le caratteristiche morfologiche di questi manufatti sarebbe

soggetta ad un condizionamento funzionale più forte di quanto non avvenga per i manufatti

ascrivibili ad altre classi. Ora, anche lasciando da parte sia le difficoltà di definizione della

“ceramica comune” come classe autonoma, sia i problemi legati all’inquadramento cronologico dei

reperti classificabili come “ceramica comune”, è evidente che, per poter determinare fino a che

punto i reperti di “ceramica comune” mostrino una persistenza morfologica più accentuata rispetto ai

reperti di, ad esempio, “sigillata africana”, occorre che la misurazione di questa caratteristica sia

stata effettuata utilizzando lo stesso tipo di parametro analitico.

Se però confrontiamo i sistemi di classificazione tipologica utilizzati per l’analisi di queste due

classi, ci rendiamo subito conto che tali criteri seguono parametri di analiticità differenti: nel caso

della “sigillata” sono stati adottati criteri molto più analitici di quelli abitualmente utilizzati per la

classificazione tipologica delle “ceramiche comuni”, grazie anche al fatto che per le “sigillate” si

dispone di una quantità di informazioni di carattere stratigrafico decisamente maggiore di quanto

non accada invece nel caso delle “ceramiche comuni”.

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Il risultato finale di un’analisi condotta con questi criteri non può che essere l’impressione che la

classe analizzata con strumenti meno analitici mostri una maggiore tendenza al conservatorismo

morfologico, mentre l’altra sembrerà caratterizzata da una maggiore tendenza all mutamento, e tutto

ciò senza che venga meno in entrambi i casi il carattere di “oggettività” delle osservazioni.

È un po’ come se, per intenderci, presentassimo i risultati di un’indagine sul campo condotta con

i metodi della ricognizione sistematica di superficie in due siti diversi o in uno stesso sito in due

differenti periodi dell’anno senza precisare né il numero di osservatori impegnato nella ricerca né la

distanza mantenuta tra gli osservatori nel corso delle operazioni, né le condizioni di visibilità

presentate dal terreno esaminato al momento della ricognizione.

È quindi evidente che, se il soggetto concepisce la realtà materiale come un “testo”, la

comprensione del senso di questo testo non potrà avvenire senza l’ausilio di criteri di

decodifica, cioè senza la definizione di un codice interpetativo. La prima regola di questo codice

non può che essere, è chiaro, il principio di relazione oppositiva, utilizzato come strumento per

la percezione dell’esistente. Partendo da tale principio, il soggetto conoscente “costruisce” il

proprio codice di “lettura” del reale, sulla base dei propri interessi specifici. Ogni codice di

“lettura” del reale è, in questo senso, un codice semiotico.

6. Il concetto di codice semiotico.43

Il codice è l’insieme di regole che strutturano le associazioni tra le unità di un sistema di

significazione. Le unità fondamentale di ogni sistema di significazione sono i segni. Secondo la

definizione elaborata da Saussure, il segno è “il totale risultante dall’associazione di un

significante a un significato”.44 Il significante esprime la dimensione materiale del segno, il

significato la dimensione immateriale. Entrambe le dimensioni possono essere a loro volta

scomposte su due piani: il piano dell’espressione e il piano del contenuto.45 Il processo della

significazione consiste nell’unione tra significante e significato, il cui risultato è la produzione

di un segno.46

Caratteristica fondamentale del segno è l’arbitrarietà, nel senso che non c’è un rapporto di

necessità o motivazione che leghi un dato significante ad un determinato significato. Secondo


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Saussure, l’arbitrarietà è totale nel caso del segno linguistico, mentre per quanto riguarda gli

altri generi di segni può essere parziale, può cioè esistere (come nel caso dei simboli) un

qualche legame naturale tra il significante e il significato che concorrono a formare un dato

segno.47

Peirce attribuisce agli indici e alle icone (che, insieme ai simboli, rappresentano, nella sua

codificazione, i tre principali tipi di segni) una qualche motivazione che giustifichi il loro

‘essere segno’ rispetto al proprio referente.48 Eco ha dimostrato che in realtà il problema

dell’arbitrarietà del segno è più complesso di quanto Saussure e Peirce non avessero supposto, e

che il carattere di convenzionalità è presente, in qualche misura, in tutti i tipi di segni.49

Qualunque sia l’importanza data al carattere di arbitrarietà dei segni, tale carattere non va

mai confuso con la possibilità di un uso arbitrario dei segni stessi da parte dei singoli soggetti, i

quali sono sempre sottoposti ai vincoli stabiliti dalle convenzioni sociali. Proprio l’arbitrarietà

del segno spinge il sistema a rafforzare i vincoli entro cui un segno può essere correttamente

impiegato.50

I rapporti tra i segni si sviluppano su due piani: il piano del sintagma e il piano del

paradigma.

Il rapporto sintagmatico è in praesentia; esso si basa su due o più termini egualmente


presenti in una serie effettiva. Al contrario il rapporto associativo [paradigmatico] unisce
dei termini in absentia in una serie mnemonica virtuale.51

Detto in altri termini, “il sintagma è una combinazione di segni che ha come supporto

l’estensione”;52 il paradigma è invece un insieme di “campi associativi [ognuno dei quali] è una

riserva di termini virtuali (giacchè solo uno di essi è attualmente nel discorso presente)”.53

In linguistica, il piano sintagmatico è quello della catena parlata, cioè quello su cui si

articola l’uso dei segni. Il paradigma è invece il piano delle associazioni:54 “[…] al di fuori del

discorso (piano sintagmatico) le unità che hanno qualcosa in comune si associano nella memoria

e formano così dei gruppi in cui dominano rapporti diversi”.55

Un altro importante attributo dei segni è espresso dal concetto di valore. Esso indica la

relazione esistente tra il singolo segno e tutti gli altri segni appartenenti ad uno stesso sistema.

In una frase, ad esempio, capiremo se una parola ha valore di “soggetto” o di “complemento


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oggetto” dalla sua posizione rispetto alle altre parole, in particolare rispetto al verbo. Ciò

avviene perché i segni si trovano in una duplice relazione tra loro, che si articola, come già

ricordato, su due livelli: quello sintagmatico e quello paradigmatico, livello di rapporto fisico e

livello di rapporto associativo.56

Chiariamo ora il concetto di denotazione, tenendo ben presente che questa funzione nei

codici semiotici appare strettamente connessa ad un’altra funzione, quella connotativa. Così

Roland Barthes spiega il significato dei concetti complementari di denotazione e connotazione:

Abbiamo visto che ogni sistema di significazione comporta un piano di espressione (E) e
un piano di contenuto (C), e che la significazione coincide con la relazione (R) dei due
piani: E R C. Supporremo ora che un tale sistema E R C divenga a sua volta il semplice
elemento di un secondo sistema, che gli sarà così estensivo; in questo modo ci troveremo
di fronte a due sistemi di significazione che si innestano l’uno nell’altro e che nondimeno
sono «sganciati». Tuttavia, lo «sganciamento» dei due sistemi può effettuarsi in due modi
completamente diversi, a seconda del punto di inserimento del primo sistema nel
secondo, dando così luogo a due insiemi opposti. In un caso il primo sistema (E R C)
diviene il piano di espressione o significante
del secondo sistema:

2 E R C
1 ERC

o anche: (E R C) R C. Ciò si verifica nella semiotica connotativa, così chiamata da


Hjelmslev; il primo sistema costituisce allora il piano di denotazione e il secondo sistema
(estensivo al primo) il piano di connotazione. Si dirà quindi che un sistema connotato è
u n sistema il cui piano di espressione è esso stesso costituito da un sistema di
significazione [...] Nel secondo caso (opposto) di sganciamento, il primo sistema (E R C)
diviene non già il piano d’espressione, come nella connotazione, ma il piano di contenuto
o significato del secondo sistema:

2 E R C
1 ERC

o ancora: E R (E R C). É il caso di tutti i meta-linguaggi: un metalinguaggio è un sistema


in cui il piano del contenuto è esso stesso costituito da un sistema di significazione; o
anche, è una semiotica che tratta di una semiotica.57

In sintesi, possiamo dire che il concetto di denotazione si riferisce ad un segno in cui il

significante non sia a sua volta costituito da un altro segno; quello di c onnotazione fa

riferimento al caso in cui il significante di un segno sia un altro segno, cioè il caso in cui si

sovrapponga ad un segno un nuovo significato (che “assimila” il significato precedente, senza

sostituirlo); quello di metalinguaggio indica la possibilità che un sistema di significazione

‘parli’ di un altro sistema di significazione o anche di sé stesso (un chiaro esempio di


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“metalinguaggio” ci viene offerto dalla linguistica, in quanto azione autoriflessiva del

linguaggio su stesso).

Nel passaggio dal livello denotativo (in cui la quantità di informazione trasmessa, intesa

“come la capacità di ridurre l’incertezza sul mondo”, è massima)58 al livello connotativo (in cui

l’informazione trasmessa segue un criterio più qualitativo che quantitativo) si manifesta un

progressivo aumento di complessità semantica. Il semiologo Ugo Volli ha descritto

efficacemente questa situazione:

[…] esisterebbero due regimi di denominazione. Uno, quello denotativo, sarebbe diretto,
preciso, informativo, oggettivo e coglierebbe l’essenza del suo oggetto, intesa come una
totalità concettuale o addirittura un riferimento materiale esistente o inesistente. L’altro,
quello connotativo, sarebbe vago, sfumato, emotivo, coglierebbe solo una parte del
concetto o si focalizzerebbe non sull’oggetto esistente o inesistente ma sulla sua molto
più elusiva definizione linguistica o concettuale.59

Il codice stabilisce quindi le regole combinatorie dei segni tra loro, codifica cioè le modalità

secondo cui i segni di un dato sistema possono combinarsi sia sul piano sintagmatico che su

quello paradigmatico. Il codice fissa inoltre, attraverso l’impiego di dizionari concettuali, la

corrispondenza tra significanti e significati, codificando la corrispondenza tra la forma dei

singoli segni e i loro significati. Le regole che concorrono a formare un codice sono quindi di

natura convenzionale: per questo motivo la strutturazione di un codice avviene a livello sociale e

le regole che lo caratterizzano non sono modificabili dal singolo soggetto.

Ciò non significa che i singoli soggetti non abbiano alcuna influenza sulle operazioni di

strutturazione e modificazione del codice. Significa piuttosto che si può parlare realmente di

mutamenti del codice solo nel caso che sia la comunità che utilizza un dato sistema di

significazione ad accettare e ad assumere come propri tali mutamenti. Le variazioni all’interno

del sistema si manifestano quindi nel corso del tempo come conseguenza del rapporto dinamico

tra tendenza conservatrice, propria del livello paradigmatico, e propensione al mutamento,

caratterizzante il piano sintagmatico.

Questa breve descrizione delle principali proprietà che caratterizzano tutti i codici semiotici

e delle modalità di funzionamento di tali codici è sufficiente per comprendere perché e come,

nel momento in cui il soggetto proietta la propria attenzione cognitiva sulla realtà materiale, dà
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un senso alla realtà utilizzando tutte le prerogative che il codice utilizzato gli offre come

strumento descrittivo, e quindi cognitivo, del reale. È per questa ragione che i rapporti tra gli

elementi in cui la realtà materiale viene frammentata dal soggetto appaiono il riflesso dei

rapporti che caratterizzano strutturalmente il codice utilizzato per descriverla, e ciò a

prescindere da quale tipo di codice venga concretamente utilizzato. In questo senso è possibile

affermare che il significato di un “oggetto” non è altro che “la somma di tutti gli atti diretti

verso l’oggetto”.60

7. La traduzione del testo archeologico: il codice verbale, il codice grafico, il codice fotografico.

Questi principi valgono per ogni tipo di codice semiotico elaborato dal soggetto per giungere

ad una conoscenza della realtà materiale in quanto espressione dei suoi interessi cognitivi. In

particolare valgono per il codice linguistico, in quanto “istituzione sociale sovraindividuale”,61

di cui il soggetto si serve per descrivere e categorizzare i frammenti di realtà materiale da lui

stesso identificati come tali, giungendo così a dare un senso alla realtà.

Oggetti, immagini, comportamenti possono, in effetti, significare, e significano


ampiamente, ma mai in modo autonomo: ogni sistema semiologico ha a che fare col
linguaggio. La sostanza visiva, per esempio, conferma le sue significazioni facendosi
accompagnare da un messaggio linguistico (come avviene per il cinema, la pubblicità, i
fumetti, la fotografia giornalistica [e, possiamo aggiungere, per la documentazione grafica
e fotografica utilizzata dall’archeologo per descrivere la realtà materiale], cosicchè
almeno una parte del messaggio iconico si trova in un rapporto strutturale di ridondanza o
di ricambio con il sistema della lingua. Dal canto loro, gli insiemi di oggetti (vestito,
cibo) non accedono allo statuto di sistema se non passando attraverso la mediazione della
lingua, che ne isola i significanti (sotto forma di nomenclature) e ne nomina i significati
(sotto forma di usi o di ragioni) […]. In genere, poi, sembra sempre più difficile
concepire un sistema di immagini o di oggetti i cui significati possano esistere fuori del
linguaggio: per percepire ciò che una sostanza significa, si deve necessariamente ricorrere
al lavoro di articolazione svolto dalla lingua: non c’è senso che non sia nominato, e il
mondo dei significati non è altro che quello del linguaggio. 62

Tutto ciò dovrebbe essere sufficiente a far comprendere quanto sia necessario intraprendere

un approfondito e sistematico esame del problema linguistico in ambito archeologico che finora

non è stato ancora affrontato, come dimostra l’esiguità di scritti che affrontino, anche solo

marginalmente, questo problema. Appaiono in questo senso significative le sollecitazioni

proposte da archeologi quali Michael Shanks e Christopher Tilley, i quali hanno da tempo

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sottolineato la necessità di affrontare il problema del linguaggio archeologico, sia per superare

l’ingannevole, o quanto meno eccessivo, carattere di oggettività che gli archeologi troppo spesso

attribuiscono al linguaggio adottato, sia per giungere all’elaborazione di un linguaggio più

comunicativo e ‘leggibile’ di quello impiegato in molte pubblicazioni.63 Il punto di vista

adottato da Shanks e Tilley può essere visto come un invito ad affrontare una seria riflessione

sul valore di atto linguistico che occorre attribuire ad ogni scelta linguistica anche in ambito

archeologico.64

Anche tra gli studiosi italiani l’analisi del problema linguistico non ha suscitato finora grande

interesse. Una iniziativa significativa in questo senso è stata l’esperienza del congresso svoltosi

a Lido di Camaiore del 26-29 marzo 1998, dedicato esplicitamente al tema dei “Criteri di

nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del

Neolitico/Eneolitico e del Bronzo/Ferro”.65 La lettura degli atti di questo convegno, oltre ad

offrire molti importanti spunti di riflessione, consente di toccare con mano quanti e quali

problemi debbano ancora essere superati per poter giungere ad un uso rigoroso dei concetti che

rientrano nell’ambito dell’analisi della “nomenclatura” e della “terminologia”.

Questo approccio ci può aiutare a superare alcune difficoltà legate alla scelta di una

terminologia e di una nomenclatura adeguate a descrivere la realtà materiale all’interno di una

prospettiva di analisi archeologica. Dal momento che l’archeologia (come del resto la storia)

non dispone, “come la matematica o la chimica, di un sistema di simboli staccato dalle diverse

lingue nazionali”,66 è parsa in certi casi una buona soluzione ricorrere alla “terminologia del

passato” sperando così di poter ripristinare il rapporto denotativo che doveva originariamente

legare tale linguaggio alla realtà materiale che esso descriveva.

In realtà però l’assunzione di forme linguistiche mutuate dal passato è una soluzione per

molti versi ingannevole. Infatti, come afferma lo storico Marc Bloch, la storia (come

l’archeologia):

[... ] riceve la maggior parte del suo vocabolario dalla materia stessa del suo studio. Lo
accetta, già consunto e deformato da un prolungato uso; peraltro ambiguo, sovente sin
dalle origini, come ogni sistema di espressioni che non sia nato dallo sforzo severamente
concertato dei tecnici.67
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Dal fatto che “i documenti tendono ad imporci la loro nomenclatura”,68 non è perciò scontato

dedurre che assecondare tale tendenza sia inevitabile. Come lo stesso Marc Bloch ci ricorda, vi

sono infatti diverse buone ragioni per contrastarla: innanzi tutto il fatto che “i cambiamenti delle

cose [...] quasi mai portano con sé cambiamenti paralleli dei loro nomi”;69 in secondo luogo, il

fatto che altre volte “avviene che i nomi mutino, nel tempo e nello spazio, indipendentemente da

una qualsiasi variazione delle cose”;70 infine, il fatto che “altre volte, sono le condizioni sociali a

opporsi all’istituzione o alla conservazione di un vocabolario uniforme”.71

Se anche però fosse possibile utilizzare senza ambiguità termini e nomi con cui in passato

venivano descritti e definiti gli oggetti, anche in questo caso la funzione di queste entità

linguistiche sarebbe comunque non più denotativa ma connotativa.

Facciamo un esempio concreto e immaginiamo di dover decidere che nome utilizzare per

designare un certo oggetto prodotto in età romana, ad esempio l’oggetto che comunemente

viene designato dal termine “dolium”. Immaginiamo di scegliere, appunto, il termine “dolium”

perché siamo certi che quel termine designava in età romana un tipo di oggetto identico a quello

al quale noi stiamo cercando di assgnare un nome. Ebbene, anche in questo caso l’elemento

connotato (il segno linguistico “dolium” nella sua accezione moderna) avrà così inglobato, nel

suo piano di espressione, un altro sistema di significazione (il segno linguistico “dolium” nella

sua accezione antica). La funzione che noi attribuiremo al termine “dolium” sarà quindi

connotativa, perché il nostro “concetto” di “dolium” avrà assimilato il valore semantico del

“concetto” antico aggiungendovi però il nuovo significato di “reperto di età romana”. Dovremo

così ammettere che l’oggetto “da interpretarsi” (ciò che noi abbiamo deciso di chiamare dolium)

si è effettivamente “accresciuto di tutto l’apporto dell’attività interpretativa”.

Il linguaggio è quindi una delle manifestazioni più chiare della distanza,72 cronologica e

culturale, che ci separa dal passato che ha prodotto la realtà materiale su cui si orienta il nostro

interesse cognitivo. Un settore di ricerca di grande interesse da questo punto di vista è quello

che affronta l’analisi del linguaggio cercando di coglierne appieno la sua valenza di

testimonianza culturale; tale approccio vede impegnati in uno sforzo di indagine comune
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archeologi linguisti e studiosi di genetica. Secondo tale prospettiva d’indagine, il linguaggio

viene analizzato, come oggetto di conoscenza, accanto ai dati materiali e al codice genetico

umano, nella convinzione che sia possibile giungere così ad una restituzione “tridimensionale”

della complessità culturale umana. È questo un esempio particolarmente significativo, anche per

gli esiti che questo tipo di analisi sta producendo nei rispettivi ambiti di indagine da cui

provengono gli studiosi impegnati in questo sforzo congiunto, di approccio cognitivo “globale”

all’analisi della “semiosfera”.73

Il linguaggio verbale non è però l’unico tipo di codice semiotico utilizzato in ambito

archeologico per tradurre la realtà materiale: infatti, accanto (e oltre) al linguaggio verbale,

l’archeologo fa uso di codici grafici e fotografici per mezzo dei quali tenta di restituire in forma

documentaria la realtà materiale sottoposta ad indagine, trasformando cioè “[…] un ‘oggetto’ in

‘dato’ attraverso convenzioni scientificamente condivise, o scientificamente valutabili in quanto

esplicitamente espresse”.74

Sia i codici grafici che quelli fotografici appartengono infatti a quella categoria di codici

semiotici denominati codici iconici. Si tende spesso a credere che i codici iconici, che utilizzano

cioè come segni le immagini, siano dotati di una o più di queste caratteristiche:

i) hanno LE STESSE PROPRIETÀ DELL’OGGETTO;


ii) sono SIMILI ALL’OGGETTO;
iii) sono ANALOGHI ALL’OGGETTO;
iv) sono MOTIVATI DALL’OGGETTO; […]
v) […] sono ARBITRARIAMENTE CODIFICATI; […]
vi) i cosiddetti segni iconici, sia arbitrari che motivati, sono ANALIZZABILI IN UNITÀ
PERTINENTI codificate e soggetti a una ARTICOLAZIONE multipla, come accade
per i segni verbali.75

In realtà, come ha dimostrato Umberto Eco, queste proprietà delineano un concetto

“ingenuo” e dogmatico” di “segno iconico” che va sostanzialmente modificato:

In altri termini, si può assumere che i segni detti iconici sono CULTURALMENTE
CODIFICATI senza necessariamente implicare che sono ARBITRARIAMENTE
CORRELATI al loro contenuto e che la loro espressione sia analizzabile in modo
DISCRETO.76

Questo discorso vale anche per i codici fotografici, verso i quali si manifesta una forte

tendenza, fonte peraltro di ulteriori problemi ed equivoci, all’attribuzione di un carattere


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connotativamente “oggettivo”, che porta a sottovalutare le forti potenzialità di strumento di

persuasione retorica che la fotografia è in grado di sviluppare. Infatti:

[…] tutte queste «arti» imitative comportano due messaggi: un messaggio denotato, che è
l’analogon stesso, e un messaggio connotato, che è il modo in cui la società fa leggere, in
una certa misura, ciò che essa pensa in proposito. la dualità dei messaggi è evidente in
tutte le riproduzioni che non sono fotografiche: non c’è disegno, per quanto «esatto», la
cui stessa esattezza non venga piegata in direzione dello stile («verista»); non c’è scena
filmata, la cui oggettività non venga letta alla fine come il segno stesso dell’oggettività.77

Ora, tutto ciò dovrebbe spingere ad un uso assai prudente e rigoroso dei codici iconici come

strumenti di documentazione “oggettiva”. In realtà una sottovalutazione del carattere

convenzionale di tali codici spinge non di rado ad un uso “personalizzato” dei codici grafici da

parte dei singoli studiosi, che non si preoccupano di “farsi capire” dai propri colleghi e

utilizzano in maniera anomala o inusuale singole convenzioni grafiche come esplicito tentativo

di caratterizzare il proprio lavoro con un impronta personale che, in realtà, non può che

danneggiare il lavoro stesso.

A volte si giunge persino a considerare come “opinabili” le regole del disegno tecnico che

sta alla base del disegno archeologico, rendendo in tal modo non solo poco chiara la resa grafica

finale, ma anche poco attendibile il valore informativo e scientifico del disegno stesso. Manca

inoltre una adeguata definizione dei rapporti che devono intercorrere tra i vari tipi di codice:

così, a volte, descrizioni verbali, disegni e foto, utilizzati parallelamente, assumono un carattere

reciprocamente ridondante; altre volte il rapporto tra il testo e le immagini appare ambiguo o

poco chiaro; altre volte ancora si utilizzano solo i codici iconici in assenza di un adeguato

commento verbale, facendo leva sulle presunte capacità esplicative di tali codici.78

Da tutto ciò consegue la necessità di una seria riflessione critica sulle reali potenzialità dei

vari tipi di codice utilizzati in ambito archeologico e sulle implicazioni traduttive che l’utilizzo

di tali codici comporta.79 Questa riflessione dovrà finalmente concretizzarsi in una reale

formalizzazione delle convenzioni grafiche e fotografiche da adottare nell’ambito della

documentazione archeologica.

8. La teoria delle classi e il concetto logico di CLASSE.80

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Cercheremo ora di comprendere come le entità concettuali di cui l’analisi archeologica si

serve abitualmente possano assumere il valore di entità tassonomiche. Poiché ogni attività

tassonomica è regolata dalle leggi della logica, intesa come la disciplina che “si occupa della

relazione di deducibilità, (o inferibilità, o conseguenza)”,81 dobbiamo quindi affrontare il

problema dei fondamenti logici delle categorie tassonomiche elaborate e/o utilizzate in ambito

archeologico per giungere a categorizzare della realtà. Per tale motivo faremo riferimento in

particolare a quella branca della logica conosciuta come “teoria delle classi”.

Il concetto di “classe” è una delle entità logiche di cui l’analisi archeologica si serve più

comunemente. Vediamo quindi innanzi tutto che significato venga attribuito in logica al termine

“classe” e quali siano le norme logiche che regolano l’utilizzo di questo concetto.

Come è noto, la teoria delle classi rappresenta una delle parti più importanti della logica.

Nell’ambito di tale teoria, e della logica in generale, il concetto di CLASSE svolge la funzione

di entità tassonomica fondamentale. Una delle definizioni più chiare e più comunemente

adottate del concetto di CLASSE è quella proposta dal logico Alfred Tarski:

Oltre che di oggetti individuali, separati, che chiameremo anche per brevità INDIVIDUI,
la logica si occupa di CLASSI di oggetti; nel linguaggio comune come anche in
matematica si usa chiamare le classi INSIEMI. […] le classi di individui vengono
chiamate CLASSI DEL PRIMO ORDINE. Ci interessiamo talvolta, anche se in confronto
più raramente, delle CLASSI DEL SECONDO ORDINE, cioè di classi che sono formate
non da individui, ma da classi del primo ordine. Talvolta abbiamo anche a che fare con
CLASSI DEL TERZO, QUARTO, … ORDINE.82

Un’altra importante definizione di CLASSE o insieme è quella elaborata da George Cantor,

il logico che ha creato la teoria degli insiemi:

«Con “insieme” intendiamo ogni riunione in un tutto M di oggetti (che vengono detti
“elementi” di M) della nostra intuizione o del nostro pensiero» (Cantor [1895], p. 85).
Così, un insieme è costituito per esempio dalla “riunione in un tutto” dello zio Federico e
del Monte Bianco. Un insieme siffatto viene denotato scrivendo tra parentesi graffe i
nomi dei suoi elementi: {lo zio Federico, il Monte Bianco}. Più in generale, dati m
oggetti - chiamiamoli a1, …, am - indichiamo con “{ a1, …, am}” l’insieme costituito dalla
riunione in un tutto degli oggetti a 1, …, a m. in particolare sono insiemi anche le “riunioni
in un tutto” di un solo oggetto, dette singoletti.83

Pur tenendo presente che le CLASSI possono essere costituite da elementi che non

condividono alcuna proprietà, va detto che:

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Un modo più naturale per formare un insieme consiste nel riunire in un tutto oggetti che
hanno in comune una data proprietà.84

Quindi le CLASSI, secondo l’uso più frequente che si fa di tale concetto, risultano essere

insiemi di elementi che condividono una (o più) proprietà. Questo concetto può essere espresso

anche utilizzando la seguente definizione:

“[…] una classe è l’insieme degli oggetti che soddisfano una qualsiasi funzione
predicativa”. Solitamente si distinguono in logica due tipi di funzioni predicative
basandosi sulle condizioni cui un oggetto deve sottostare per soddisfarle. Si ha a che fare
con una funzione predicativa relazionale o direlazione quando ciò da cui dipende che un
oggetto la soddisfi o meno è il fatto che tale oggetto si trovi o meno, si sia o meno trovato
o possa o meno trovarsi in una certa relazione rispetto a un altro oggetto o rispetto ad altri
oggetti. […] Si ha invece a che fare con una funzione predicativa d’inerenza – ovvero,
come si dice pure, con una funzione predicativa attributiva – quando la condizione cui
deve adempiere un oggetto per soddisfarla è la presenza in esso di certe caratteristiche
ossia di certe particolarità inerenti. […] L’insieme degli oggetti che soddisfano una
funzione predicativa e che formano quindi una classe viene anche chiamato l’estensione
di tale funzione predicativa, funzione predicativa che viene chiamata a sua volta
l’intensione oppure la comprensione di tale classe.85

Da ciò si deve dedurre che:

[…] col termine «intensione» si può designare soltanto un’insieme di caratteristiche. Ora,
solo una funzione predicativa d’inerenza viene definita da un insieme di caratteristiche e
cioè dall’insieme delle caratteristiche la cui presenza in un oggetto è, come abbiamo
visto, la condizione necessaria e sufficiente perché questo la soddisfi. Ne risulta che una
funzione predicativa può essere considerata l’intensione di una classe soltanto se tale
funzione predicativa è una funzione predicativa d’inerenza.86

Tra le CLASSI si possono instaurare relazioni di vario tipo:

Può capitare per esempio che ogni elemento della classe K sia nello stesso tempo
elemento della classe L, nel qual caso l’insieme K è detto essere una SOTTOCLASSE
DELLA CLASSE L o essere INCLUSO NELLA CLASSE L o ESSERE NELLA
RELAZIONE D’INCLUSIONE CON LA CLASSE L ; e la classe L è detta
CONTENERE LA CLASSE K COME SOTTOCLASSE. […] Dicendo che K è
sottoclasse di L non si intende escludere la possibilità che anche L sia sottoclasse di K. In
altre parole K e L potrebbero essere sottoclassi l’una dell’altra e così avere tutti gli
elementi in comune; in tal caso segue da una legge delle classi […] che K e L sono
identiche. Se invece non vale la relazione conversa, cioè se ogni elemento della classe K è
elemento della classe L ma non ogni elemento della classe L è elemento della classe K,
allora quest’ultima è detta essere una SOTTOCLASSE PROPRIA O PARTE DELLA
CLASSE L e L è detta CONTENERE K COME SOTTOCLASSE PROPRIA O COME
PARTE. […] si dice che due classi K e L sono SOVRAPPOSTE O SI INTERSECANO
quando hanno per lo meno un elemento in comune e, nello stesso tempo, ciascuna
contiene elementi non contenuti nell’altra. Se due classi contengono ciascuna almeno un
elemento (cioè non sono vuote), ma se non hanno alcun elemento in comune, vengono
dette MUTUAMENTE ESCLUSIVE O DISGIUNTE. […] [Tali] relazioni […] possono
venir chiamate RELAZIONI FONDAMENTALI TRA CLASSI.87

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Oltre alle relazioni tra le classi, esiste la possibilità di compiere

[…] certe operazioni che, se applicate a classi date, generano nuove classi. Prese due
classi qualunque, K e L, si può formare una nuova classe M che contiene come propri
elementi quegli oggetti e solo quelli che appartengono almeno ad una delle classi K e L; si
può dire che la classe M risulta dalla classe K aggiungendole gli elementi della classe L.
Quest’operazione è chiamata ADDIZIONE DI CLASSI e la classe M viene considerata la
SOMMA O UNIONE DELLE CLASSI K E L […]. Un’altra operazione su due classi, K
e L, chiamata MOLTIPLICAZIONE DI CLASSI, consiste nel formare una nuova classe
M i cui elementi sono quegli oggetti e solo quelli che appartengono sia a K sia a L; tale
classe M viene chiamata il PRODOTTO O INTERSEZIONE DELLE CLASSI K e L
[…]. Vogliamo ricordare anche un’altra operazione, che differisce da quelle di addizione
e di moltiplicazione per il fatto che viene usata non su due classi, ma su una sola. È
l’operazione che consiste nel formare da una data classe K il cosiddetto
COMPLEMENTO DELLA CLASSE K, cioè la classe di tutti gli oggetti che non
appartengono alla classe K.88

Va infine sottolineato il fatto che le osservazioni riferite alle CLASSI del primo e del

secondo ordine “[…] potrebbero venir estese senza grossi mutamenti, a classi di ordine

qualsivoglia”.89

Cercheremo ora di comprendere, alla luce di questa sintetica presentazione della “teoria delle

classi”, come tali principi possano trovare applicazione nella pratica d’analisi del “testo

archeologico”.

9. Il testo archeologico come CLASSE di oggetti e la sua articolazione in SOTTOCLASSI.

La ricognizione e lo scavo portano al rinvenimento di quei frammenti di realtà materiale che

comunemente chiamiamo “oggetti”. Ora, nonostante si sia portati a credere che la prima fase di

studio dei manufatti consista in uno studio analitico delle caratteristiche dei singoli oggetti, in

realtà, da un punto di vista cognitivo, la prima esigenza che l’archeologo cerca di soddisfare è

quella di riunire questi oggetti in CLASSI o di inserirli in CLASSI già note.

Ancora una volta il principio che guida questa prima forma di classificazione dei reperti è il

principio oppositivo:

Fra i tanti materiali che l’uomo ha lavorato dal neolitico sino alla rivoluzione industriale,
la ceramica è l’unico, ad eccezione della pietra, che si conserva intatto nel sottosuolo
senza dissolversi. Di quasi tutte le civiltà del passato abbiamo infatti perduto gli oggetti
che erano usati nella vita di tutti i giorni, dai canestri, agli oggetti in legno, ai tessuti, alle
pelli, in quanto sono stati distrutti (come tutti i materiali organici) dagli agenti chimici del
terreno. I metalli spesso vengono trovati corrosi e deformati, ma nell’antichità, come
d’altronde oggigiorno, gli oggetti metallici e vetrosi venivano rifusi in nuovi manufatti.
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Parimenti, l’uomo, dal neolitico ad oggi, ha fabbricato, usato, rotto e gettato via
quotidianamente quantità incalcolabili di ceramiche, dal vasellame domestico alle giare
ed alle anfore usate per trasportare il vino e l’olio e che, una volta svuotate, venivano
buttate nelle discariche dei rifiuti. Nei luoghi che sono stati abitati dall’uomo, i frammenti
di quelle ceramiche, accumulatisi nel tempo assieme ai residui di cucina (ossa di animali,
ceneri dei focolari) ed a tutto ciò che non serviva più nella vita domestica, costituiscono
oggi per noi archivi preziosi ed insostituibili di conoscenze della vita di epoche passate.
La ceramica, perciò, s’impone sempre più come «fossile guida» della storia dell’uomo:
grazie alle tecniche archeologiche, essa rivela la presenza di insediamenti sepolti, ne offre
datazioni spesso precise, è lo specchio delle condizioni economiche e della ricettività
commerciale degli abitanti, aiuta a capire brandelli di storia che nessun documento ha mai
registrato. Ciononostante, la ceramica è anche opera d’arte, qualora essa sia anche
prodotto eccezionale, spesso irripetibile, di ingegno e di maestria tecnica di vasai e di
pittori.90

In questo brano troviamo un chiaro esempio di organizzazione del “testo archeologico” sulla

base di principi generali di classificazione. Esso presenta una descrizione della realtà materiale

concepita come insieme di manufatti eterogenei, sia dal punto di vista delle materie prime

impiegate per la fabbricazione delle singole categorie di oggetti, che delle funzioni per svolgere

le quali tali oggetti sono stati prodotti. In questo senso, possiamo affermare che questa

descrizione della realtà materiale mostra chiaramente un concetto di “testo archeologico”

concepito appunto come “insieme di oggetti”: descrive cioè il “testo archeologico” come una

CLASSE.

Il “testo archeologico”, concepito come la CLASSE comprendente “l’insieme dei reperti

archeologici”, verrà così sottoposto ad una prima serie di possibili articolazioni in

SOTTOCLASSI, utilizzando vari criteri distintivi, come ad esempio la cronologia: si può così

ottenere la creazione di CLASSI come quelle che riuniscono da una parte i “reperti preistorici” e

dall’altra i “reperti di età storica”. Ciascuna di queste CLASSI verrà a sua volta scomposta,

sempre sulla base di criteri cronologici, in altre SOTTOCLASSI più analitiche: nascono così le

CLASSI che separano i “reperti del Paleolitico” dai “reperti del Neolitico”, e così via.

Parallelamente all’articolazione tassonomica che utilizza il criterio cronologico come

criterio pertinente per la creazione delle singole CLASSI, il “testo archeologico” può essere

però sottoposto ad altre articolazioni utilizzando altri criteri distintivi, come la materia prima

utilizzata per fabbricare i vari manufatti (argilla, osso, legno, pelle, ecc.).

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Criteri di articolazione differenti possono essere utilizzati per creare un unico sistema

gerarchico, a seconda degli interessi specifici che muovono il ricercatore. Se, ad esempio,

prendiamo in esame la CLASSE “ceramica”, costituita dall’insieme dei reperti ceramici, creata

quindi utilizzando come criterio distintivo la materia prima utilizzata per la fabbricazione dei

manufatti, osserviamo che tale CLASSE può essere suddivisa in un’altra serie di

SOTTOCLASSI utilizzando questa volta il criterio cronologico: si arriva così all’identificazione

di CLASSI come la “ceramica nuragica” o la “ceramica romana”.

È evidente che la creazione di ciascuna di queste CLASSI determina una immediata

riorganizzazione logica dell’intero “testo archeologico”. Se, ad esempio, prendiamo in

considerazione la MACROCLASSE “ceramica”, intendendo con tale termine l’insieme degli

oggetti che soddisfano tutti la funzione predicativa d’inerenza “l’oggetto x è stato fabbricato

utilizzando come materia prima l’argilla”, notiamo che la creazione di tale CLASSE produce,

come immediata conseguenza, la creazione di un’altra CLASSE, ad essa complementare,

costituita dall’insieme di reperti prodotti utilizzando altri materiali diversi dall’argilla.

Questo fenomeno si manifesta in tutti i livelli tassonomici, come possiamo dedurre, ad

esempio, dall’analisi della prima esplicita definizione di “ceramica comune” adottata nel 1973

per la pubblicazione dei materiali degli scavi di Ostia:

Il termine ‘ceramica comune’ è improprio e convenzionale in quanto indica un insieme di


recipienti che non hanno caratteristiche costanti di argilla e vernice. Viene quindi
utilizzato per classificare tutto quel materiale che non rientra in produzioni e classi
ceramiche precise. In generale la ceramica comune comprende la suppellettile domestica
di uso quotidiano e corrente, prodotta localmente.91

Tale definizione di “ceramica comune”, intesa come CLASSE autonoma, è stata raggiunta

partendo da una CLASSE concepita come SOMMA LOGICA delle singole classi ceramiche già

definite nell’ambito degli studi sulle produzioni vascolari di età romana; successivamente,

partendo dall’assunto logico che “una classe è l’insieme degli oggetti che soddisfano una

qualsiasi funzione predicativa”,92 è stata creata una CLASSE, complementare alla prima,

costituita da tutti gli oggetti che soddisfano la seguente funzione predicativa di relazione: “x è

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l’insieme di oggetti che non appartengono a nessuna delle altre classi ceramiche di età romana

note”.

Questo stesso criterio logico può essere impiegato anche nel passaggio da questo livello

tassonomico ai livelli tassonomici successivi. Se prendiamo in esame la CLASSE “ceramica” ed

utilizziamo come criterio pertinente per la suddivisione di questa CLASSE in SOTTOCLASSI

il criterio tecnologico, noteremo che la creazione della SOTTOCLASSE “ceramica tornita”

creerà automaticamente la SOTTOCLASSE “ceramica non tornita” ad essa complementare.

Possiamo constatare che, se prendiamo in esame le singole caratteristiche intensionali che

concorrono a definire un oggetto come individuo, è possibile creare una serie infinita di

tassonomie, tante quante sono le caratteristiche materiali di tale oggetto. Il numero di

tassonomie possibili risulta ulteriormente amplificato dalla possibilità, che abbiamo appena

visto applicata, di incrociare criteri tassonomici differenti. È chiaro quindi che la tassonomia è

uno strumento cognitivo molto potente, ma anche molto insidioso. Infatti:

Poiché riconoscere che un oggetto materiale è provvisto di certe caratteristiche non è altro
che riconoscerlo come realizzazione di un certo concetto, si può anche dire che l’identità
intensionale che viene riconosciuta ad un oggetto materiale è costituita da un concetto di
cui tale oggetto è riconosciuto come una realizzazione e dire quindi che si riconosce a due
oggetti una stessa identità intensionale quando ambedue vengono riconosciuti come
realizzazione dello stesso concetto. Un oggetto materiale è provvisto certo – salvo errori –
dell’identità intensionale che gli viene riconosciuta dal soggetto ma, poiché un oggetto
materiale presenta un’infinità di caratteristiche - almeno nel senso che non si può mai
affermare che gli sono state riconosciute tutte -, un siffatto oggetto è provvisto di
un’infinità di altre identità intensionali diverse:93 quella che un soggetto riconosce a un
oggetto materiale è determinata dall’insieme delle caratteristiche che egli gli riconosce e
che sono quelle che ritiene pertinenti riguardo a un suo interesse col quale abborda il
frammento della realtà materiale che costituisce tale oggetto – interesse che, come
abbiamo visto, può essere simboleggiato con una funzione predicativa di relazione.
D’altro canto, una caratteristica che presenta un oggetto materiale è sempre suscettibile di
figurare tra quelle che presenta un altro oggetto - ossia un oggetto provvisto di identità
estensionale distinta -, donde consegue che ognuna delle infinite identità intensionali
diverse di cui è provvisto un oggetto materiale può ritrovarsi in un’infinità di altri
oggetti. È certamente perché l’entità d’un oggetto materiale non risiede in nessuna
identità intensionale bensì nella sua identità estensionale che uno stesso oggetto può
essere provvisto di un’infinità di identità intensionali diverse e che può d’altro canto
essere distinto in quanto individuo da un altro oggetto per quanto numerose e ricche siano
le identità intensionali che essi possiedono in comune.94

Vediamo ora di tradurre in esempi concreti questa lucida analisi propostaci da Luis Prieto.

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Scegliamo, come CLASSE esemplificativa, la CLASSE comprendente l’insieme dei reperti

ceramici classificati come “ceramica romana”. Come abbiamo detto, in logica “ una classe è

l’insieme degli oggetti che soddisfano una qualsiasi funzione predicativa”, sia essa di relazione

o di inerenza. Chiediamoci allora quale tipo di funzione predicativa debba soddisfare un oggetto

per poter rientrare tra gli elementi che compongono la CLASSE denominata “ceramica

romana”.

Possiamo innanzi tutto affermare che ciascuno degli oggetti che compongono tale CLASSE

soddisfa certamente una funzione predicativa di relazione del tipo: “l’oggetto x è stato prodotto

nella fase cronologica circoscritta tra i due eventi y e z”, traducibile, nel caso specifico,

nell’enunciato: “l’oggetto x è stato prodotto all’interno dell’arco cronologico che va dalla data

di fondazione della città di Roma a quella della caduta dell’Impero Romano d’Occidente”.

Questa funzione predicativa di relazione rappresenta il primo criterio distintivo che un oggetto

deve possedere per poter essere classificato come “ceramica romana”. In tal modo abbiamo

elaborato un concetto che rappresenta tutti gli oggetti che soddisfano tale funzione predicativa:

abbiamo cioè riconosciuto una certa identità intensionale a tali oggetti.

Ora, è evidente che ognuno degli oggetti che abbiamo classificato come “ceramica romana”

possiede però anche molte altre caratteristiche che lo identificano come individuo, oltre quella

che abbiamo utilizzato come pertinente per definire la CLASSE “ceramica romana”. È allora

legittimo chiedersi se esistano, tra le proprietà intensionali che determinano l’identità

individuale degli oggetti classificati come “ceramica romana”, qualche altra proprietà che sia

condivisa da tutti gli oggetti che compongono tale CLASSE: se tale ipotesi trovasse riscontro

oggettivo, potremmo allora estendere il valore semantico della CLASSE “ceramica romana”,

inglobando in tale concetto tutte le altre eventuali identità intensionali condivise dagli oggetti

inseriti in tale CLASSE.

Se proviamo ad identificare anche solo un’altra caratteristica comune a tutti gli oggetti

classificati come “ceramica romana” oltre quella che abbiamo scelto come pertinente per la

definizione della CLASSE, siamo presto costretti ad ammettere che nessuna delle caratteristiche

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che caratterizzano gli oggetti classificati come “ceramica romana” soddisfa questa condizione.

Tra i manufatti classificati come “ceramica romana” troviamo infatti ceramiche tornite e

ceramiche fatte ancora a mano; ceramiche prodotte “in serie” (come le sigillate) ed altre ancora

legate a schemi produttivi non seriali (come alcune produzioni di “ceramica comune”); impasti

estremamente raffinati e altri decisamente grossolani; temperature di cottura eterogenee; ecc..

Possiamo inoltre constatare che nessuna delle caratteristiche rilevabili negli oggetti

classificati come “ceramica romana” - né la serialità della produzione,95 né la tornitura, né le

modalità di commercio e circolazione dei manufatti, per citare alcune delle principali

caratteristiche delle produzioni ceramiche di età romana - può essere indicata come caratteristica

peculiare ed esclusiva delle sole produzioni classificabili come “ceramica romana”.

Possiamo quindi concludere che nel “concetto” di “ceramica romana” l’unica proprietà

discriminante che un oggetto deve dimostrare di possedere per poter essere inserito in tale

CLASSE è il fatto di essere stato prodotto in un arco di tempo circoscritto tra i due eventi storici

«fondazione della città di Roma» e «caduta dell’Impero Romano d’Occidente».

Se anziché la CLASSE denominata “ceramica romana”, prendiamo poi in esame altre

CLASSI, la situazione si complica ulteriormente. Nel caso, ad esempio della CLASSE

denominata “ceramica nuragica”, notiamo che per la definizione di questa CLASSE (per la

quale vale interamente il discorso fatto per la CLASSE “ceramica romana” riguardo ai problemi

legati alla possibilità di individuare caratteristiche intensionali che accomunino tutti gli oggetti

inseriti in tale CLASSE) si pone anche il problema dell’individuazione dei due fenomeni storici

che possano svolgere in maniera soddisfacente il ruolo di spartiacque cronologico per la

“comparsa” e la “scomparsa” di questa CLASSE: si pone cioè il problema dell’identificazione

sia del limite cronologico più antico che del limite cronologico più recente. Partendo da tali

presupposti, è chiaro che gli elementi che compongono la CLASSE denominata “ceramica

nuragica” non potranno che essere caratterizzati da un elevato grado di eterogeneità e che

utilizzare tale CLASSE come entità tassonomica rigorosamente definita da un punto di vista

scientifico non potrà che rivelarsi problematico sul piano logico.96

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Citiamo, per mostrare concretamente a quali conseguenze può portare sul piano applicativo

la sottovalutazione di questo genere di problemi di natura logica, il caso della cosiddetta

“ceramica grezza” rinvenuta in siti sardi. Come è stato dimostrato da una recente analisi di

alcuni materiali ascrivibili a tale categoria di manufatti,97 la ceramica “grezza” rinvenuta in

Sardegna è stata a lungo classificata erroneamente come “nuragica”. Ciò che ha generato tale

errore di attribuzione cronologica non è stata tanto la somiglianza tra le caratteristiche

tecnologiche e morfologiche di questa categoria di manufatti rispetto a quelle che caratterizzano

produzioni la cui attribuzione all’ambito nuragico appare certa (somiglianza che, alla luce di

analisi più rigorose, oggi appare molto meno marcata di quanto non si ritenesse un tempo),

quanto piuttosto il fatto che la presenza di alcune caratteristiche (assenza di tracce di tornitura;

impasti grossolani; caratteristiche morfologiche) sia stata giudicata a priori come tipica ed

esclusiva di alcune produzioni di età nuragica.

Questo genere di problemi si fanno sentire con ancora più forza nell’ambito

dell’elaborazione degli strumenti tassonomici di carattere scientifico adottati in ambito

archeologico.

10. Gli strumenti tassonomici di analisi degli oggetti.

Gli archeologi manifestano nei confronti degli strumenti tassonomici essenzialmente due tipi

di atteggiamento: da un lato si percepisce una tendenziale diffidenza nei confronti del grado di

oggettività che questi strumenti di analisi della realtà materiale sono in grado di raggiungere;

dall’altro si manifesta l’atteggiamento opposto di forte fiducia nella possibilità che proprio

l’utilizzo degli strumenti tassonomici sia l’unica strada percorribile per effettuare un’analisi

oggettiva delle testimonianze materiali. Questo secondo tipo di atteggiamento è basato sulla

convinzione che:

Ogni tassonomia ha una sua strategia globale, incentrata su di un modello di base che la
ancora alla realtà, togliendo giustificazione all’accusa consueta per molte classificazioni,
quella cioè di essere un’operazione fine a se stessa, dunque arbitraria.98

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In realtà, se da un lato è certamente condivisibile la convinzione che ogni tassonomia sia in

qualche modo “ancorata alla realtà”, cioè, in qualche misura, “oggettiva”, dall’altro non appare

così scontato che ciò sia sufficiente a renderle meno arbitrarie. Una prova eloquente di questo

fatto ci viene offerto dallo strumento tassonomico più usato nell’ambito dell’analisi

archeologica dei reperti, ovvero la classificazione tipologica.99

La classificazione tipologica dei reperti appartiene a quell’insieme di tassonomie denominate

etnoscientifiche, ossia quelle tassonomie che “prend[ono] in considerazione fattori di

classificazione non solo intrinseci all’oggetto (forma, colore, ecc.), ma anche culturali (uso

dell’oggetto, credenze ad esso collegate, ecc.)”.100

Se ci limitiamo a prendere in esame i sistemi più comunemente adottati nell’ambito

dell’analisi dei reperti ceramici, ci rendiamo immediatamente conto delle differenze esistenti tra

i vari sistemi di classificazione: notiamo infatti che questi sistemi non adottano lo stesso numero

di livelli tassonomici, né la stessa terminologia, né gli stessi criteri tassonomici. Si pone allora il

problema di comprendere fino a che punto tali differenze possano essere ricondotte alle

differenze di carattere “oggettivo” rilevate nell’analisi degli oggetti classificati.

Proviamo ad esaminare questo problema adottando come punto di vista specifico l’analisi

funzionale degli oggetti, partendo dalle considerazioni generali espresse su questo argomento da

André Leroi-Gourhan nel 1943 (che riproporremo seguendo l’aggiornamento terminologico

proposto dall’archeologo Pascal Ruby). Secondo Leroi-Gourhan l’insieme di azioni che

caratterizzano l’attività umana può essere suddiviso in:

[...] due ordini di fenomeni di nature distinte: fenomeni di tendenze che dipendono dalla
natura stessa dell’evoluzione e fatti che sono indissolubilmente legati all’ambiente nel
quale avvengono. La tendenza ha un carattere inevitabile, prevedibile, rettilineo; spinge la
selce tenuta in mano ad acquisire un manico, il carico tirato da due pertiche a provvedersi
di ruote [...]. Il fatto, al contrario della tendenza, è imprevedibile e particolare. Può essere
l’incontro della tendenza e di mille coincidenze dell’ambiente, cioè l’invenzione, come
anche il prestito puro e semplice da un altro popolo. É unico, inestensibile, è un
compromesso instabile che si pone tra le tendenze e l’ambiente.101

Il concetto di tendenza, assimilato da Ruby a quello di funzione, designa la presenza negli

oggetti di caratteristiche che non dipendono da scelte individuali e in questo senso prescindono

da fattori contingenti. Le caratteristiche funzionali sono quindi, secondo Leroi-Gourhan, il


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riflesso di quel “fenomeno di determinismo evolutivo” che condiziona la produzione di

manufatti. Il concetto di fatto, assimilabile al concetto di uso, copre invece la vasta gamma di

possibilità contingenti di impiego offerte all’uomo dall’insieme di tutte le caratteristiche

presenti negli oggetti.

La classificazione degli oggetti sulla base dell’identificazione delle funzioni/tendenze

generali (“inevitabili, prevedibili, rettilinee”) che regolano la produzione dei manufatti dovrebbe

essere la premessa logica di una corretta interpretazione, anche sulla base dei dati contestuali di

rinvenimento, degli usi/fatti (“imprevedibili e particolari”) a cui gli oggetti sono stati sottoposti.

Se, passando dal piano teorico a quello operativo, cerchiamo di organizzare l’articolazione

tassonomica sulla base dell’identificazione delle tracce fisiche presenti sui manufatti

interpretabili come segni delle funzioni/tendenze o degli usi/fatti, ci rendiamo conto però che

tale operazione non è affatto semplice. Se è vero infatti che la struttura morfologica degli oggetti

può essere analizzata come riflesso dei condizionamenti funzionali (più pertinenti probabilmente

al livello di codificazione sociale delle funzioni), è però al tempo stesso vero che tale struttura

viene di fatto modificata anche dalle forze condizionanti che rientrano più specificatamente

nell’ambito degli usi (pertinenti al livello delle scelte individuali di utilizzo degli oggetti).

Dal momento che le scelte di articolazione tassonomica producono differenti interpretazioni

dell’articolazione funzionale degli oggetti, è chiaro che nell’ambito di ciascun tipo di struttura

tassonomica deve essere evidente a quale livello di interpretazione funzionale debbano essere

ricondotti i vari livelli tassonomici identificati all’interno di ciascun sistema e quale sia il

rapporto intercorrente tra i caratteri morfologici e l’interpretazione funzionale degli oggetti.

Conseguentemente, i criteri di analisi tassonomica devono essere adeguati a queste premesse.

Il sistema tassonomico elaborato da Renato Peroni, per esempio, utilizza esplicitamente i

“caratteri morfologico-funzionali” come criteri tassonomici, mostrando così di adottare un

criterio misto per l’identificazione dei singoli livelli.102 Jean-Paul Morel utilizza criteri

esclusivamente tassonomici per articolare in generi, specie, serie e tipi la classe “ceramica

campana”, concepita come “ […] un insieme di vasi prodotti da un atelier o da un gruppo


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d’ateliers. [...] La classe potrà presentare un’omogeneità di caratteristiche tecniche più o meno

grande”.103 Andreina Ricci identifica invece i vari livelli tassonomici utilizzando, per il livello

designato dal termine classe criteri misti (tenendo cioè in considerazione sia i caratteri

morfologici che tecnologici in base ai quali determinare la macrofunzione, come “ceramica da

mensa”, che accomuna gli oggetti riuniti in questo tipo di insieme tassonomico), per i livello

designato dal termine forma, criteri morfologici e funzionali, infine, per il livello designato dal

termine tipo, un criterio esclusivamente morfologico.104

Ora, nonostante le caratteristiche utilizzate come pertinenti per definire i vari livelli

tassonomici all’interno di ciascun sistema siano assolutamente oggettive, è evidente che i criteri

adottati per selezionare le caratteristiche ritenute pertinenti da ciascuno di questi sistemi

presenteranno un certo carattere di arbitrarietà. Prendiamo come esempio concreto la

definizione dell’oggetto “ciotola” proposta da Peroni, che descrive le ciotole come:

“vasi di forma aperta, larga e ben articolata, utilizzati soprattutto per bere, ma spesso
anche per mangiare, diffusi più che altro nell’età del bronzo. Per lo più presentano
un’ansa verticale (nell’età del bronzo media e recente spesso fornita di appendice
sopraelevata – ansa ad ascia, cornuta, cilindro-retta, ecc.) o un manico. L’articolazione
del profilo è definita dall’alternarsi di convessità e concavità, ovvero di veri e propri
flessi, rispettivamente inferiori (ad es. le carene) o superiori ai 180 gradi (ad es. le gole e
gli orli distinti). La ciotola si distingue dalla tazza solo per il diametro più largo (il valore-
limite tra ciotola e tazza si aggira attorno ad un rapporto altezza/diametro pari a 1:2);
dalla scodella soprattutto per l’assenza nel profilo di quest’ultima di concavità sensibili o
flessi superiori ai 180 gradi. Le principali classi di ciotole sono quelle carenate, quelle
con orlo ad imbuto, quelle a corpo sinuoso, e quelle a collo distinto.105

Notiamo che, nonostante la descrizione delle caratteristiche morfologiche corrisponda a

caratteristiche oggettivamente rilevabili sugli oggetti presi in esame, l’indicazione esplicita della

funzione “per bere” come caratteristica di questo tipo di oggetto non sempre si adatta a tutti gli

oggetti che possono essere definiti “ciotole” sulla base delle caratteristiche morfologiche. Vi

sono, ad esempio, alcuni tipi di “ciotole carenate” che, sulla base della sola descrizione

morfologica, rientrano perfettamente nella descrizione elaborata da Peroni, ma che

nell’articolazione della parete presentano angoli talmente accentuati da rendere pressochè


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impossibile bere con quel tipo di oggetto senza rovesciarsi addosso tutto o in parte il liquido in

esso contenuto.

Se prendiamo in considerazione il sistema di Morel, notiamo analogamente che, se le

caratteristiche selezionate come pertinenti appaiono senza dubbio oggettive, non per questo i

criteri scelti per selezionate tali caratteristiche appaiono meno arbitrari. Identico discorso si può

fare per il sistema elaborato dalla Ricci.

La scelta di aumentare i numero di livelli tassonomici sperando così di cogliere più

facilmente negli oggetti le tracce dell’articolazione funzionale non risolve la questione:

estremizzare la tendenza all’articolazione tassonomica complica semmai ulteriormente le cose,

perché costringe ad indicare un criterio di pertinenza che spieghi il nostro interesse per ciascuna

caratteristica evidenziata e può provocare, come risultato estremo, l’effetto tautologico di

rendere pertinente ogni singola caratteristica morfologica presente in un oggetto senza spiegare

il perchè.

Anche le scelte terminologiche e di nomenclatura producono un ulteriore condizionamento

sull’analisi interpretativa degli oggetti. Oltre al problema della proliferazione di termini differenti,

come: “categoria”, “foggia”, “famiglia tipologica”, “genere”, “specie”, “serie”; “forma”,

“classe”, “tipo”, ecc., si pone anche il problema dell’uso di termini identici con valore

semantico e funzione logica differenti all’interno di ciascuna tassonomia. Possiamo così notare

che il termine “classe” designa uno stesso livello tassonomico all’interno delle tassonomie di

Morel e della Ricci, ma che tale livello non appare omologabile al livello tassonomico designato

da questo termine nella tassonomia di Peroni.106 L’uso del termine “classe” va poi incontro

anche ad altre ambiguità:

Per definire una classe si usano in genere criteri diversi che tengono conto: 1) della
funzione degli oggetti (lucerne, anfore), 2) di particolari caratteristiche tecniche (ceramica
comune, vasi a pareti sottili), 3) della provenienza, anch’essa a sua volta indicata con
precisione variabile (ceramica africana, ceramica sud-gallica, ceramica di Lezoux), 4) del
materiale con cui sono fabbricati gli oggetti (metallo), 5) di più criteri insieme fra i quali
anche quello cronologico (sigillata tardo-italica).107

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Identiche considerazioni possiamo fare per i termini “categoria” e “forma”, oltre che, come

vedremo meglio più avanti, per il termine “tipo”:

Di fronte a talune edizioni di materiali si resta colpiti dalla confusione, che spesso si
riscontra, tra tipi e forme. Alcune cosiddette tipologie risultano essere non tanto
successioni di tipi, quanto piuttosto di forme, nell’ambito di ciascuna delle quali si
potrebbero individuare un numero a volte considerevole di tipi morfologici diversi.108

Questa situazione di potenziale ambiguità semantica viene solo apparentemente attenuata

dall’utilizzo dei vari sistemi tassonomici solo in un certo ambito di studi. In tal modo la

necessità di dialogo tra i diversi ambiti di ricerca viene seriamente messa in discussione, mentre

soddisfare tale necessità dovrebbe essere una delle premesse su cui si basa la possibilità stessa

di giungere alla definizione di un “paradigma” archeologico unitario.

Ai problemi generali di tipo terminologico si sommano infine i problemi legati alle scelte di

nomenclatura: per avere degli esempi in proposito è sufficiente rimandare alle annose discussioni

intorno a quale debba essere l’uso più appropriato di nomi come “ciotola”, “tazza”, “scodella”,

“brocca”, “anfora”, “coppa”, ecc. Una seria e approfondita analisi dei presupposti linguistici delle

scelte di nomenclatura dovrebbe essere il punto di partenza di queste discussioni, mentre in realtà si

assiste spesso a dibattiti in cui ci si interroga, ad esempio, su che cosa sia una “ciotola” o una

“scodella”, come se “essere una ciotola” o “una scodella” fossero proprietà dell’oggetto esaminato.

Una situazione analoga troviamo d’altronde nell’ambito specifico di analisi dei reperti litici, dove

l’introduzione di criteri tassonomici statistici e analitici da parte di studiosi come François Bordes e

Georges Laplace a partire dagli inizi degli anni ’50 del secolo scorso non ha comunque impedito che

il dibattito intorno alla scelta dei criteri tassonomici perduri tuttora con una vivacità non certo

inferiore a quella registrabile nell’ambito dell’analisi dei reperti ceramici.109

Ora, è chiaro, alla luce di queste considerazioni, che questo genere di problemi non ha nulla a che

fare con la questione dell’oggettività dell’osservazione: se dovessimo infatti esprimere un giudizio

sui vari sistemi tassonomici sinora elaborati nell’ambito della classificazione dei reperti, dovremmo

constatare che tutti i sistemi, nella misura in cui segnalano caratteristiche effettivamente rilevabili

sugli oggetti classificati, sono oggettivi. Il fatto che una certa caratteristica sia oggettivamente
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rilevabile non rende però automaticamente pertinente tale caratteristica, né il fatto che un certo

oggetto sia stato sempre designato con un certo termine rende quel termine più idoneo per svolgere o

per continuare a svolgere quel compito all’interno di una tassonomia scientifica.

Una concreta via d’uscita da questa situazione di “babele” concettuale può derivare proprio

dall’assunzione di consapevolezza della subordinazione logica del principio di oggettività rispetto al

principio di pertinenza e, conseguentemente dall’accettazione di questo fatto come conquista

positiva. Abbandonare il comodo scudo dell’oggettività consentirebbe così di creare sistemi di

classificazione basati su criteri dichiaratamente convenzionali e quindi “parziali”. Pur non volendo

escludere in assoluto la possibilità di un inserimento di livelli funzionali intermedi,110 sembra in

questo senso più utile perseguire l’obbiettivo di una semplificazione delle strutture

tassonomiche: assumendo come presupposto logico l’inevitabile arbitrarietà dei livelli

funzionali identificati, ci si troverebbe costretti a rendere più esplicite le ragioni che hanno

condotto all’identificazione di tali livelli, portando conseguentemente ad una identificazione più

chiara dei livelli funzionali e ad una maggior chiarezza concettuale dell’intero sistema..

Un sistema tassonomico di questo tipo, almeno per quanto riguarda l’analisi dei reperti

ceramici, è quello “a tre livelli” elaborato da Andreina Ricci: questo sistema, che già da tempo

ha mostrato la sua validità operativa nell’ambito dello studio dei reperti di età romana, potrebbe

offrire, a nostro avviso, ottime prospettive di utilizzo anche in altri ambiti.

Seguendo tale schema, la “classe”, intesa come insieme di oggetti che mostrano

caratteristiche tecniche omogenee, con funzioni analoghe, provenienti dallo stesso centro di

produzione, designa il livello funzionale più generale, facendo riferimento a funzioni generali

definibili, nel caso della ceramica, con espressioni come “ceramica da mensa”, “da cucina”, “da

dispensa”. La “forma”, intesa come “insieme di tipi, più ampi dei precedenti insiemi (cioè dei

tipi), che presentano, rispetto ad essi, un campo più limitato di caratteristiche comuni”,111

designa un livello funzionale più analitico rispetto alla “classe”, corrispondente alle categorie di

oggetti identificati da termini come “brocche”, “bottiglie”, “coppe”, ecc. I “tipi morfologici”

infine, intesi come “insiemi di oggetti ‘reali’ con caratteristiche comuni che rientrano in

parametri prestabiliti”,112 identificano variazioni morfologiche interpretabili non più come


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riflesso di differenti funzioni ma riconducibili, ad esempio, agli usi specifici a cui gli oggetti

inseriti all’interno di ciascun livello funzionale potevano essere stati sottoposti.

Questo modello tassonomico offre anche il vantaggio, a nostro avviso, di poter essere

utilizzato come strumento di analisi non solo dei reperti di età storica, nel quale ambito è stato

elaborato e ha trovato finora applicazione, ma anche nell’ambito dell’analisi dei reperti

preistorici e protostorici (ovviamente con un appropriato adeguamento dei criteri necessari per

definire i tre livelli tassonomici alle specifiche esigenze sollevate dai manufatti pertinenti a tale

ambito di studi), contribuendo così a creare un linguaggio comune tra ambiti paradigmatici

differenti.

Resta ora da affrontare l’analisi del concetto su cui fanno perno le classificazioni tipologiche,

ovvero il concetto di tipo.

11. I l concetto di tipo.

I sistemi di classificazione tipologica dei manufatti fanno riferimento, essenzialmente, a due

differenti concetti di “tipo”:

1) il primo, elaborato da Renato Peroni, intende per “tipo” “un’immagine mentale stabile,

investita di una certa forza socialmente normativa, che si trasmette in vari modi e per vie

diverse da individuo a individuo, da gruppo a gruppo”;113 da ciò viene dedotta la

conclusione che “i tipi sono delle astrazioni che teoricamente non si possono illustrare, se

non scegliendo in modo arbitrario tra le diverse possibilità aperte dalla variabilità del

tipo”;114

2) la seconda definizione di “tipo”, elaborata da Andreina Ricci, si propone come

esplicitamente alternativa al concetto elaborato da Peroni: secondo tale definizione infatti, il

“tipo morfologico […] non coincide con l’ideal-tipo o modello mentale del ceramista […]

ma rappresenta un insieme di oggetti ‘reali’ con caratteristiche comuni che rientrano in

parametri prestabiliti”.115
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Vediamo ora quali conseguenze logiche e quindi operative comporta l’assunzione di

ciascuna delle due definizioni. Prendiamo in esame la prima definizione e partiamo da una

giusta osservazione formulata da Giuseppe Pucci. Se “ i tipi sono delle astrazioni che

teoricamente non si possono illustrare”,:

[...] un problema viene a porsi con forza. Le figure che compaiono nelle tavole di Morel
(e che rappresentano la sua tipologia) sono iconiche rispetto ai singoli individui concreti e
non rispetto al modello astratto, se quest’ultimo deve non coincidere integralmente con
l’esemplare concreto. [...]”. 116

A nostro avviso, questa osservazione critica può essere estesa in generale a tutti i sistemi di

classificazione che adottano il concetto di “ideal-tipo” come concetto di base. La difficoltà

dimostrata da questi sistemi a definire in maniera rigorosa dal punto di vista logico il rapporto

tra il “modello mentale” (il tipo) e le singole occorrenze (i reperti) sembra sottintendere un

equivoco di fondo, che è bene rendere esplicito.

L’impossibilità di porre in relazione precisa gli oggetti reali (intesi come singole

occorrenze di un “tipo”) con il “tipo” (inteso come “modello mentale”) di cui si ritiene siano le

occorrenze reali, nasce dalla convinzione che il “modello mentale” debba coincidere con

l’“identità intensionale «assoluta» di un oggetto e cioè quella definita dalla «totalità» delle sue

caratteristiche”. Ora, questa convinzione ci sembra infondata, per le ragioni che Luis Prieto

indica chiaramente e lucidamente in questo brano:

Un’idea che sembra sottintesa nelle discussioni sull’identità degli oggetti materiali e che
tende a cancellare la distinzione tra identità estensionale e identità intensionale è che
l’identità estensionale di un oggetto materiale non sia altro che la sua identità intensionale
«assoluta» e cioè quella definita dalla «totalità» delle sue caratteristiche. L’idea è a mio
avviso doppiamente assurda: da una parte, non ha senso parlare della totalità delle
caratteristiche di un oggetto materiale dal momento che in nessun caso si può affermare
che tale totalità sia stata stabilita; dall’altra, non c’è bisogno di riconoscere identità
intensionali distinte per rendersi conto che un oggetto materiale col quale ci si trova in
contatto sensoriale è estensionalmente distinto dal proprio corpo ovvero che due oggetti
coi quali ci si trova in contatto sensoriale simultaneo sono estensionalmente distinti tra
loro. Ammettiamo tuttavia che abbia un senso il parlare di «totalità» delle caratteristiche
di un oggetto. Ogni caratteristica di cui un oggetto materiale è provvisto può comunque
ritrovarsi in altri oggetti materiali. Due oggetti estensionalmente distinti possono di
conseguenza condividere un’unica caratteristica, o due, o tre e così via fino a tutte tranne
una? E, in questo caso, tranne quale? Tranne una qualsiasi? Si può d’altro canto
argomentare che quel che io chiamo «identità estensionale» di un oggetto sia una
caratteristica e che sia appunto perché in nessun caso due oggetti possono condividere la
caratteristica che costituirebbe per ognuno di essi la rispettiva identità estensionale che
due oggetti non hanno mai la stessa identità intensionale «assoluta». Ma allora, da una
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parte, l’affermazione che due oggetti non possono mai essere provvisti della stessa
identità intensionale «assoluta» non sarebbe altro che un corollario del fatto che in nessun
caso possono essere provvisti della stessa identità estensionale; dall’altra, per accertare la
coincidenza o la distinzione estensionale tra un oggetto col quale si ha a che fare in un
certo momento e un oggetto col quale si ha a che fare in un altro momento basterebbe
tenere conto della «caratteristica» che costituirebbe la rispettiva identità estensionale: ora
è evidente che non è per nulla così che si procede nei fatti […].117

È quindi errato credere che l’artigiano che ha creato un manufatto avesse in mente un

“modello mentale” di oggetto che possa essere considerato come la “somma di tutte le sue

caratteristiche”: l’artigiano avrà semmai fatto riferimento ad un “modello mentale”, ossia ad un

“concetto” (nel senso attribuito a questo termine da Prieto), che coincide con l’insieme di quelle

caratteristiche morfologiche e tecnologiche che l’artigiano stesso ritiene necessario conoscere e

tenere presenti per giungere alla realizzazione concreta dell’oggetto, cioè di quelle

caratteristiche (e solo di quelle) che egli reputa pertinenti. Per questo motivo possiamo definire

il rapporto tra “tipo” e “occorrenza” come una “type/token-ratio”, ossia un rapporto tra tipi e

repliche:118

Nelle repliche il tipo è diverso dall’occorrenza. Il tipo presenta solo le proprietà essenziali
che l’occorrenza deve realizzare per essere giudicata una replica soddisfacente,
indipendentemente da altre sue caratteristiche. Quindi le occorrenze di un tipo
posseggono caratteristiche individuali che sono irrilevanti ai fini del giudizio di replica,
purchè siano state rispettate le proprietà pertinenti fissate dal tipo.119

L’utilità del carattere statistico delle osservazioni fatte attraverso l’impiego di strumenti

tassonomici di analisi sta proprio nella capacità di evidenziare negli oggetti quelle caratteristiche

che, essendo presenti in due o più esemplari, possono essere interpretate come il riflesso di

scelte non casuali dal parte dell’artigiano.

È ovviamente possibile, se non addirittura probabile, che i nostri “tipi” non coincidano

totalmente con i “modelli mentali” ai quali facevano riferimento gli artigiani per la creazione dei

manufatti che noi analizziamo; ciò però non dipende dal fatto che tali “modelli” non coincidono

con le loro occorrenze concrete, ma dal fatto che, essendo gli oggetti dotati di un numero

infinito (o, quanto meno, indefinito) di “identità intensionali”, non possiamo essere del tutto

certi che ogni caratteristica che noi reputiamo significativa lo fosse anche per l’artigiano che ha

creato l’oggetto o per coloro che lo hanno utilizzato.


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Né d’altro canto il fatto che noi non siamo in grado di appurare con certezza se ogni

caratteristica presente in un oggetto dipende da una scelta volontaria dell’artigiano che ha

prodotto l’oggetto, ci impedisce di ritenere pertinente tale caratteristica dal nostro punto di vista.

Molte delle caratteristiche tecnico-fisiche degli oggetti che le analisi archeometriche sono oggi

in grado di mettere in risalto non potevano certo essere frutto di conoscenze scientifiche di cui

solo oggi è possibile disporre; ciò nonostante molto spesso tali caratteristiche possono essere

interpretate come il riflesso di altre conoscenze più empiriche di cui anticamente si disponeva e

che consentivano comunque di attribuire ai manufatti le caratteristiche tecnico-fisiche che noi

siamo in grado di rilevare scientificamente.

Per questa serie di ragioni, risulta, per noi, più rigorosa sul piano logico la definizione di

“tipo” inteso come “ insieme di oggetti ‘reali’ con caratteristiche comuni che rientrano in

parametri prestabiliti”, proprio perché rende esplicito il valore convenzionale delle entità

concettuali così definite, senza che questo infici in nessun modo il valore di oggettività delle

singole osservazioni.

Di grande interesse appare, in quest’ottica, la proposta avanzata dal semiologo Giampaolo

Proni di utilizzare nell’analisi semiotica degli oggetti due nuovi concetti: il concetto di utente

modello o implicito, inteso come “l’utente ideale che, sfruttando le caratteristiche del manufatto

nel modo migliore, può produrre il risultato per il quale l’oggetto è costruito”, e produttore

modello o implicito, inteso come “il sistema e il ‘modo di produzione’ dal quale risulta”.120

L’utilità dell’impiego di questi concetti anche in ambito archeologico in associazione al

concetto di “tipo” inteso come insieme di oggetti ‘reali’ con caratteristiche comuni che

rientrano in parametri prestabiliti è evidente e apre molte interessanti prospettive di analisi dei

manufatti.

Giunti a questo punto del nostro discorso è opportuno prendere posizione riguardo alla

questione se siano da preferire le tassonomie di tipo emico o quelle di tipo etico.121 Il termine

“etico” designa un punto di vista che, postulando l’impossibilità di giungere ad una conoscenza

delle categorie concettuali elaborate in antico, privilegia un’attenzione esplicita per i problemi

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classificatori dei reperti senza preoccupazioni riguardo alla rispondenza dei criteri tassonomici

adottati rispetto a quelli utilizzati al momento della creazione e/o della fruizione degli oggetti

nelle società antiche; è il punto di vista adottato da Binford e, più in generale, dall’approccio

“processualista”, in base al quale:

[…] le considerazioni sulla testimonianza archeologica sono contemporanee e non


contengono nessuna informazione sul passato. Il reperto archeologico non è costituito da
simboli, parole o concetti, ma da oggetti materiali.122

Il punto di vista “emico”, ben rappresentato dalle posizioni teoriche di Hodder, parte da

considerazioni di carattere opposto e si pone perciò come obbiettivo prioritario proprio la

conoscenza dei modelli sociali di classificazione della realtà materiale adottati nelle società e

nelle culture antiche, e ritiene quindi necessario che le categorie concettuali elaborate dagli

studiosi per la classificazione della realtà materiale riflettano in qualche modo le categorie

antiche.

Ora, il problema che i sostenitori del punto di vista “emico” devono comunque risolvere è di

natura simile a quello che Jean-Pierre Vernant ha affrontato in questo brano:

“I testi scritti e i documenti figurati [e, possiamo aggiungere, gli oggetti] non sono
immediatamente trasparenti. Per comprenderli, bisogna aver assimilato […] le tecniche
che permettono di decifrarli. Leggere uno di questi testi presuppone l’essersi a poco a
poco formato il modo di pensare simile a quello di un Greco, nell’ambito delle categorie e
del quadro mentale che gli erano propri. Leggere una di queste immagini implica anche
che si sia acquisito il modo di guardare greco, sforzandosi di penetrare il codice visuale
che forniva alle molteplici raffigurazioni, agli occhi dei contemporanei la loro immediata
leggibilità […]”.123

Secondo la prospettiva suggerita da Vernant, che appare chiaramente in sintonia col punto di

vista “emico”, il processo cognitivo è quindi, come lui stesso lo definisce, un processo di

“assimilazione”.

L’assunzione di una prospettiva semiotica di analisi del reale ci spinge però a rifiutare questa

visione della conoscenza. Conoscere infatti, a nostro giudizio, non significa assimilare, rendere

cioè simili tra loro punti di vista culturalmente diversi. Scopo dell’analisi storica non può essere

cioè arrivare a “pensare la realtà” come un antico greco o come un antico romano, ma semmai

arrivare a comprendere come e perché un antico greco o un antico romano o un uomo del

neolitico “pensavano”, e quindi modellavano, la realtà in un determinato modo, così come lo


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scopo dell’indagine archeologica non è quello di arrivare ad “usare” gli oggetti imitando le

modalità di impiego di coloro che li hanno creati e/o utilizzati in antico, ma di riuscire a

comprendere il “testo archeologico” come riflesso materiale delle categorie concettuali

utilizzate in antico da coloro che hanno realizzato tale testo.

Conoscere non significa perciò annullare la distanza che ci separa da ciò che è diverso da

noi, ma semmai esaltarla percorrendo lo spazio fisico e mentale che ci separa dall’oggetto delle

nostre osservazioni, arrivando così a conferire a tale oggetto una propria identità.

Ciò significa che il nostro interesse per la comprensione delle categorie concettuali con cui

in passato “concepiva” la realtà non implica quindi necessariamente l’adozione di tali categorie

come nostro strumento cognitivo. Infatti, se anche decidessimo (come abbiamo visto con

l’esempio del termine “dolium”) di adottare una di queste categorie come strumento di analisi,

non potremmo in nessun modo evitare di accrescere il valore semantico, e quindi concettuale, di

tale categoria proprio attraverso la nostra scelta di assumerlo come strumento cognitivo.

In quest’ottica, chiedersi quale dei due approcci sia più idoneo per lo studio della realtà

materiale concepita come riflesso delle società antiche diventa un quesito, in buona sostanza,

privo di senso: non esiste infatti atteggiamento più “etico” di chi ritiene di poter assumere un

punto di vista autenticamente “emico”.

12. Il “testo archeologico” come ipertesto: dalla realtà materiale agli oggetti.

Superata la soglia concettuale rappresentata dal concetto di “tipo”, il passo successivo (e,

nell’ambito del presente lavoro, conclusivo) del nostro percorso di analisi delle categorie

concettuali impiegate in ambito archeologico come strumenti di frammentazione della realtà

materiale ci riconduce al concetto di “oggetto”. Al termine di tale percorso, le ragioni per cui

l’idea di “oggetto” suggeritaci dal senso comune non può essere utilizzata come strumento

concettuale adeguato ad un analisi scientifica della realtà materiale appaiono ora più chiare.

Al tempo stesso, siamo ora in grado di indicare con maggior lucidità le ragioni per cui

abbandonare l’apparentemente sicuro rifugio dell’oggettività dell’osservazione non significhi

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automaticamente assumere un approccio relativistico al problema della conoscenza, ma implichi

semmai l’adozione di una prospettiva di indagine che àncori saldamente i presupposti cognitivi

che caratterizzano l’analisi archeologica della realtà materiale a presupposti cognitivi più

generali.

Abbiamo visto che è possibile assimilare il concetto di testo archeologico a quello di testo

semiotico, assumendo il concetto di “testo semiotico” come concetto-base nella descrizione

della realtà materiale. Tale modello offre il grande vantaggio di poter essere applicato sia alla

realtà materiale concepita come un “tutto” ancora indistinto, sia ai singoli frammenti di realtà

materiale che l’osservazione analitica è stata capace di individuare.

Ciò consente di unificare gli strumenti concettuali di lettura e di analisi dei singoli frammenti

di realtà materiale (a prescindere dal livello tassonomico di frammentazione in cui ci troviamo

ad agire) in un percorso coerente di analisi testuale in cui ogni singolo frammento di realtà

materiale viene isolato (concettualmente e fisicamente) dalla nostra attenzione, assumendo così

il valore di testo autonomo e trasformando contemporaneamente ciò che gli sta attorno in

“contesto”.

In assenza della possibilità di cogliere nella realtà materiale i segni inconfondibili di una

strategia testuale unitaria riferibile ad un unico “autore empirico”, l’analisi della realtà materiale

concepita come un “tutto” può avvalersi con profitto degli strumenti di analisi di tipo

ipertestuale, intendendo per ipertesto:

[…] un documento nel quale qualsiasi parte del testo può essere legata a qualsiasi altra
del documento stesso o di un altro documento [...] In questo modo la lettura non è
sequenziale, ma può offrire percorsi personalizzati a seconda di quale aspetto ci interessa
di più.124

L’ipertesto è quindi un modello testuale che offre al lettore la possibilità di seguire al suo

interno una serie di percorsi di lettura differenti, spesso alternativi tra loro, ma tutti legittimi. La

scelta del percorso dipenderà dalle preferenze e dalle conseguenti scelte compiute da ogni

singolo lettore, ossia da ciò che ciascun lettore vuole chiedere o sapere dal testo.

Una lettura ipertestuale del “testo archeologico” non può però fare a meno di ricondurre

l’insieme di azioni eterogenee che vari tipi di agenti (antropici o naturali) esercitano verso la
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realtà materiale all’interno di un concetto unitario di “autore”. Anche in ambito archeologico

può quindi essere utilizzato con profitto il concetto di Autore Modello, inteso, nel caso specifico

del “testo archeologico”, come l’“ipotesi interpretativa” che il Lettore Empirico (l’archeologo)

deduce dai dati di cui può disporre in seguito alle proprie indagini riguardo all’insieme degli

agenti che hanno prodotto la forma specifica di un determinato “testo”, traducendo i dati in un

insieme di strategie di lettura identificabili col concetto di Lettore Modello (il “paradigma”

archeologico).

I concetti di Autore e Lettore Modello (parallelamente a quelli di Autore e Lettore Empirico)

possono così essere utilizzati anche in ambito archeologico con la funzione di strategie testuali

che consentono di organizzare all’interno di un concetto unitario (e, quindi, coerente) azioni

eterogenee che altrimenti rischierebbero di disarticolare la lettura del “testo archeologico” in

una serie di rivoli interpretativi.125 Il tentativo compiuto da Harris di rendere ragione delle

molteplici forme che la realtà materiale può assumere riconducendo tale molteplicità all’interno

di un unico sistema interpretativo costituito dall’insieme delle “leggi della stratigrafia

archeologica”, è un esempio lucidamente concreto di strategia di lettura unitaria del “testo

archeologico”.

L’assunzione del modello ipertestuale consente inoltre di superare altre difficoltà che la

particolare forma materiale del “testo archeologico” pone all’archeologo dal punto sia

procedurale che interpetativo. L’assenza, ad esempio, di linearità nella disposizione delle

singole unità significanti (i manufatti o le unità stratigrafiche), se da un lato offre all’archeologo

la possibilità di scegliere il percorso di lettura che egli preferisce seguire in base a ciò che

intende mettere in evidenza, dall’altro lo obbliga ad indicare preventivamente i criteri in base ai

quali verrà poi scelto il percorso interpretativo di analisi (coerentemente col principio che la

teoria o, meglio, il paradigma precede sempre la lettura e l’interpretazione dei dati e ne è quindi

il presupposto).

Anche in questo caso il modello ipertestuale sembra il modello testuale che consente di

gestire più facilmente questo genere di difficoltà. All’interno di tale modello infatti oggetti e/o

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strutture che, per le loro caratteristiche o per ragioni co-testuali (cioè sulla base dei rapporti

intercorrenti con altri elementi della dimensione testuale di riferimento), appaiono

particolarmente significativi e meritevoli di un’indagine più approfondita, assumono la funzione

di link (o “puntatori”), cioè di altrettante “finestre” la cui apertura può consentire varie

possibilità di approfondimento dell’indagine. All’interno del modello ipertestuale, anche

l’interazione attiva tra l’archeologo e il “testo archeologico” risulta, benchè arbitraria, non più

connotata negativamente, in quanto motivata e strutturalmente organizzata dal modello stesso.

In questo modo il “testo archeologico” assume connotati simili a quelli di un’opera aperta,

cioè un’opera che presuppone la “possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza

che la sua irriproducibile singolarità risulti alterata”,126 ma che, al tempo stesso, è soggetta ai

“limiti dell’interpretazione”.127

Adottando questo modello anche per l’analisi dei singoli oggetti, da un lato essi perdono

certamente la monolitica solidità delle loro proprietà “oggettive”, ma, dall’altro, essendo

anch’essi concepibili e quindi analizzabili come “microtesti”, si aprono alla lettura delle

“infinite identità intensionali” che li caratterizzano: gli strumenti di analisi archeometrica, ad

esempio, consentono all’archeologo di estendere la propria indagine fino all’ambito di

frammentazione testuale della realtà materiale rappresentato dalla dimensione microscopica

della materia.

Questa definizione concettuale degli oggetti ci aiuta inoltre a strutturare in maniera più

coerente ed organica anche il rapporto tra le varie potenzialità funzionali che gli oggetti sono in

grado di esprimere. Se infatti la funzione pratica degli oggetti occupa senza dubbio il livello

primario della dimensione semantica all’interno della quale si muovono gli oggetti, occorre,

come giustamente ricorda Hodder criticando la tendenza al riduzionismo mostrata

dall’archeologia processuale, estendere la gamma di potenzialità semantiche loro attribuibili

all’ambito delle funzioni simboliche. Per interpretare il valore semantico degli oggetti bisogna

allora ricordare che:

Questi significati degli oggetti dipendono da regole depositate nel bagaglio di una cultura.
Se non si conosce questa cultura è difficile trovare il significato. Sono perciò detti talvolta
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simboli: in essi il rapporto tra oggetto e significato finisce per dipendere da un abito
convenzionale benchè non arbitrario, a differenza del simbolo verbale, che si presenta
come retto da convenzione arbitraria.128

È con questa avvertenza logica che il concetto di arbitrarietà che caratterizza i segni in

generale appare efficacemente applicabile, in una certa misura, anche all’interpretazione

funzionale degli oggetti.

Se da un lato occorre riconoscere che è a livello sociale che avviene, attraverso i vincoli

stabiliti dalle convenzioni sociali, la codifica funzionale delle varie tipologie di manufatti (che

diventano così espressione culturale della società che li ha prodotti e/o impiegati), dall’altro

però non bisogna dimenticare che, a livello individuale, è sempre possibile un uso arbitrario

degli oggetti, intendendo per “arbitrario” un uso non rispondente alle funzioni specifiche per cui

un determinato oggetto è stato creato.

Per questo motivo oggetti che possono svolgere identiche funzioni pratiche possano

presentare un elevato grado di variabilità morfologica (come dimostrano molti lavori di

classificazione tipologica) che, in molti casi, non può essere giustificata facendo riferimento

esclusivamente a condizionamenti deterministici di natura pratica. Da ciò consegue la difficoltà

che caratterizza i tentativi di creare classificazioni tipologiche basate su criteri esclusivamente

funzionali o su criteri morfologico-funzionali, in cui non appare sempre chiaro il rapporto di

dipendenza logica, e quindi gerarchica, tra il criterio morfologico e quello funzionale.

Categorizzando la gamma di possibilità funzionali che, partendo dall’individuazione delle

“tendenze”, giunge a cogliere i segni materiali dei “fatti”, tenendo conto delle potenzialità di

rifunzionalizzazione connotativa che le funzioni simboliche possono proiettare sugli oggetti,

l’archeologia può costruire una struttura concettuale che riesca a rendere ragione sia delle

specifiche manifestazioni materiali riconducibili a dinamiche sociali sia del contributo che gli

individui possono portare nella messa in atto concreta di tali dinamiche.

Gli oggetti, inseriti in concreti e specifici “testi archeologici”, risultano così connessi tra loro

da rapporti semiotici che si snodano sia su un piano sintagmatico che su un piano

paradigmatico. Come in linguistica il rapporto tra le unità del linguaggio si può sviluppare sul

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piano sintagmatico, che è quello della catena parlata, e sul piano paradigmatico, che è il piano

delle associazioni, così il rapporto tra gli oggetti si sviluppa sul piano sintagmatico

rappresentato dalla loro collocazione reale nei singoli contesti d’uso e, contemporaneamente,

sul piano paradigmatico, definibile come l’insieme di rapporti classificatori e, più in generale,

associativi che lega tra loro gli oggetti.

Infine, utilizzando anche il concetto semiotico di valore, che esprime la relazione esistente

tra il singolo segno e tutti gli altri segni appartenenti ad uno stesso sistema, è possibile

comprendere ed interpretare correttamente le differenti e, spesso, complesse dinamiche che

determinano il valore semantico degli oggetti, e ciò sia nel caso che tale valore si esaurisca nelle

sole funzioni pratiche (ammettendo che una tale ipotesi possa effettivamente e concretamente

verificarsi), sia ogni qual volta vengano attribuite agli oggetti valenze semantiche che vanno al

di là della semplice funzione primaria. Ogni oggetto, definibile come “il totale risultante

dall’associazione di un significante a un significato” assume così realmente il valore di

frammento della realtà materiale dotato di senso.

Lo stesso modello paradigmatico proposto da Renfrew e Bahn può ora assumere il senso più

compito di modello di lettura ipertestuale della realtà materiale.

CONCLUSIONI.

Giunti, finalmente, al termine del presente lavoro, può forse risultare utile riproporre in

forma sintetica il percorso che abbiamo voluto seguire.

Siamo partiti dalla constatazione che l’archeologia non pare, a nostro avviso, essere ancora

giunta alla definizione di un paradigma unitario. In questo senso è quindi lecito affermare che

essa si trova ancora in quella fase che Kuhn ha definito scienza straordinaria, cioè quella fase di

crisi in cui l’archeologia tradizionale (cioè la scienza normale e con essa il vecchio paradigma)

è entrata in seguito alla rivoluzione processualista.

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Tra le diverse proposte paradigmatiche che si confrontano nell’ambito dell’attuale panorama

teorico, il modello paradigmatico che ci è parso rispondere meglio alla definizione di paradigma

unitario è quello proposto dagli archeologi Colin Renfrew e Paul Bahn col nome di

“archeologia cognitivo-processuale”.

Tale modello concepisce l’indagine archeologica come un dialogo tra l’archeologo e la realtà

materiale, regolato da due principi fondamentali:

1) principio di pertinenza, in base al quale devono essere definite le “domande” che

l’archeologo intende porre alla realtà materiale;

2) il principio di oggettività, in base al quale si potrà stabilire se le “risposte” ottenute sono

vere o false rispetto alla realtà stessa.

Il principio di pertinenza regola il rapporto tra conoscenza e soggetto della conoscenza, il

principio di oggettività quello tra conoscenza e oggetto della conoscenza.

Essendo la semiotica la disciplina che ha assunto come problema specifico il problema della

pertinenza della conoscenza, inteso come il problema della conoscenza considerato dal punto di

vista del soggetto che esercita l’atto conoscitivo, ci è parso legittimo affermare che anche

l’archeologia, nella misura in cui “prende come punto di partenza il principio secondo cui verità

e pertinenza concorrono alla validità di una conoscenza”,129 può ed anzi deve essere concepita

come una semiotica della realtà materiale. Il ribaltamento della priorità logica tra i principi di

pertinenza e di oggettività deve assumere quindi un ruolo fondamentale nel tentativo di giungere

ad una definizione chiara e rigorosa degli strumenti concettuali da impiegare per condurre

un’analisi archeologica della realtà materiale.

Partendo da tali presupposti, abbiamo cercato di mostrare quali vantaggi possano derivare da

un approccio unitario all’interpretazione della realtà materiale, che renda ragione della

complessità semantica di cui tale realtà è dotata. Giudicando inadeguata la proposta di “svolta

testuale” avanzata da Ian Hodder, abbiamo cercato di giungere ad una più coerente definizione

di testo archeologico utilizzando, come modello testuale unitario, l’ipertesto. Abbiamo quindi

cercato di mostrare come tale modello possa essere utilizzato per sottoporre ad una lettura

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testuale tutti i livelli di frammentazione concettuale che, in questo modo, possono essere

concepiti sia come frammenti di una realtà più complessa (la realtà materiale concepita come un

“tutto”), sia come “testi” individuali dotati di senso e struttura autonomi.

Il principio cognitivo secondo cui “oggetti ed eventi lasciano segni sui nostri corpi e noi

intenzioniamo e diamo senso agli oggetti e agli eventi” diventa così un principio fondante per

l’indagine archeologica ed è sulla base di questo presupposto cognitivo che è possibile

concepire l’approccio tra l’archeologo e la realtà materiale nei termini di analisi indiziaria.130

Concludiamo citando una riflessione sul concetto e sul valore del metodo, espressa dal

sociologo Edgar Morin, nella quale abbiamo trovato una sintesi efficace delle motivazioni che ci

hanno guidato durante l’elaborazione e la stesura del presente lavoro:

All’origine la parola metodo significa cammino. Qui, bisogna accettare di camminare


senza sentiero, di tracciare il sentiero nel cammino. […] Il metodo non può costituirsi che
nella ricerca: non può venire alla luce e formularsi che in seguito, nel momento in cui
l’arrivo torna ad essere un nuovo punto di partenza, questa volta dotato di metodo.131

NOTE

(∗)
Desidero ringraziare la Redazione della Rivista, per aver accolto questo mio contributo nei “Quaderni”
e per aver atteso, con grande pazienza e cortesia, che ne portassi a termine la revisione. Un
ringraziamento particolare va inoltre alla Prof.ssa Andreina Ricci, per aver accettato, con grande
disponibilità, di sottoporre ad un esame critico la prima stesura del presente lavoro: le sue osservazioni
sono state per me determinanti nel tentativo di giungere a dare a questa mia “fatica” una struttura logica
più coerente.
1
RENFREW/BAHN 1991, trad. it. 1995, p. 3.
2
KUHN 1970, trad. it. 1978, p. 212. È necessario ricordare che Kuhn, nel suo post scriptum del 1969,
ammette di aver attribuito al termine “paradigma” 34 significati diversi.
3
CLARKE 1973.
4
TERRENATO 2000b.
5
PRIETO 1989, pp. 9-10. La consapevolezza del rapporto intercorrente tra archeologia e semiotica si è da
tempo manifestata nella produzione scientifica di studiosi quali Giuseppe Pucci (si vedano, in particolare:
PUCCI 1983, 1993, 1994, 1996), in cui è sempre presente un’esplicita attenzione per le implicazioni
semiotiche della ricerca archeologica, o Stanislaw Tabaczynski e, più in generale, di vari esponenti della
scuola archeologica polacca (particolarmente significativi in tal senso: PALUBICKA/TABACZYNSKI
1986; TABACZYNSKI 1998, 2000). Va inoltre affermandosi, nell’ambito dell’archeologia classica, un
interessante settore di ricerca che utilizza la semiotica come strumento di analisi dell’arte greca e romana:
significativi, in questo senso, i contributi di alcuni esponenti dell’Università di Amburgo: Burkhard Fehr
e Lambert Schneider in particolare (editori, insieme ad altri studiosi della stessa Università, della rivista
Hephaistos), “[…]su aspetti della scultura greca […] o gruppi di monumenti […], giovandosi di teorie e
metodi dell’antropologia storica e della semiotica” (MAISCHBERGER 2000, p. 76), così come i lavori di
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Tonio Hölscher e Richard Brilliant nell’ambito dell’analisi dell’arte romana (si vedano, in particolare:
HÖLSCHER 1987, 1994; BRILLIANT 1984).
6
Col termine “semiotica” vogliamo fare riferimento “[…] a una disciplina del tutto contemporanea, che
risale a Peirce per il suo lato filosofico, e a Saussure per quello linguistico” (CALABRESE 2001, p. 8). È
però necessario ricordare che, a circa cento anni dalle prime proposte di definizione della semiotica in
termini di disciplina autonoma (formulate in campo linguistico da Ferdinand de Saussure e in campo
filosofico da Charles Sanders Peirce), non esiste ancora oggi accordo unanime sulla riuscita di tale
operazione, né sulla sua opportunità. Ancora nel 1975 Umberto Eco poneva, come domanda preliminare
al suo tentativo di “esplorare le possibilità teoriche e le funzioni sociali di uno studio unificato di ogni
fenomeno di significazione e/o comunicazione”, l’interrogativo “se la semiotica sia una DISCIPLINA
specifica col proprio oggetto e i propri metodi o un CAMPO di studi, un repertorio di interessi non ancora
unificato e forse non del tutto unificabile” (ECO 1975, p. 13). A questo interrogativo non è stata data una
risposta univoca. Anche il dibattito su quale valore semantico debba essere attribuito ai termini
‘semiotica’ e ‘semiologia’ non si è ancora del tutto spento: se da un lato infatti abbiamo il
pronunciamento della carta costitutiva della International Association for Semiotic Studies-Association
Internationale de Sémiotique, che si è espressa in favore dell’uso del termine ‘semiotica’ come
equivalente a ‘semiologia’ (ECO 1975, p. 13), secondo l’opinione di autorevoli studiosi, quali ad esempio
Hjelmslev (1943) e Greimas (1970), ai due termini deve essere attribuito un differente valore semantico.
Il presente lavoro intende assumere come valida questa seconda opzione: al termine “semiotica” verrà
quindi attribuito il valore cognitivo originariamente assegnato da Peirce a tale concetto (per un
approfondimento della “semiotica cognitiva” di Peirce, si veda: PEIRCE 1980). Utilizzato in questo
senso, il termine “semiotica” circoscriverà quindi un ambito semanticamente più ampio rispetto a quello a
cui fa riferimento il termine “semiologia”, intesa come “scienza della comunicazione” (MOUNIN 1970).
7
KUHN 1962, trad. it. 1995, pp. 29-42.
8
RENFREW/BAHN 1991, trad. it. 1995, pp. 1-7.
9
Per una “teorizzazione della ricerca di informazione attraverso domande”, si veda, in particolare:
HINTIKKA/HINTIKKA 1983.
10
MINSKY 1989, p. 20.
11
Ricordiamo che, secondo Minsky, la mente è “semplicemente ciò che fa il cervello” (MINSKY 1989,
p. 20).
12
MINSKY 1989, p. 478.
13
MINSKY 1989, p. 651.
14
È opportuno precisare che l’analisi strutturale del manuale di Renfrew e Bahn che abbiamo voluto
proporre non è stata esplicitamente suggerita dagli Autori, ma è frutto di un nostro autonomo esame
critico del testo. Il fatto che la lettura da noi proposta possa andare al di là delle stesse intenzioni espresse
dagli stessi Autori non solo non la rende, a nostro avviso, meno legittima, ma esalta semmai le
potenzialità e il valore della “macchina testuale” creata da Renfrew e Bahn.
15
RENFREW/BAHN 1991, trad. it. 1995, p. 442.
16
RENFREW/BAHN 1991, trad. it. 1995, p. 3.
17
DALLA CHIARA/TORALDO DI FRANCIA 2000, p. 167.
18
RUSSELL 1966, cit. in: DALLA CHIARA/TORALDO DI FRANCIA 2000, pp. 170-171.
19
DALLA CHIARA/TORALDO DI FRANCIA 2000, p. 171. Per una riflessione sullo “statuto di
certezza” che si tende ad attribuire alle convinzioni dettate dal “senso comune”, si veda il fondamentale:
WITTGESTEIN 1969.
20
DALLA CHIARA/TORALDO DI FRANCIA 2000, pp. 171-172.
21
DALLA CHIARA/TORALDO DI FRANCIA 2000, p. 172.
22
PRIETO 1995, p. 72.
23
BONFANTINI 2000, p. 8.
24
LOTMAN 1985, p. 58.
25
PRIETO 1995, pp. 239-240.
26
PRIETO 1989, pp. 11-12. Nel suo ultimo saggio (ECO 1997), Umberto Eco propone un esame
articolato e stimolante delle implicazioni cognitive dell’approccio semiotico al problema della
conoscenza, ponendo particolare attenzione ai problemi legati alla categorizzazione del reale. Per
un’introduzione al problema della definizione del ruolo dell’osservatore in fisica, settore cruciale della
riflessione epistemologica contemporanea, si veda: HEISENBERG 1958. Per un approfondimento delle
implicazioni cognitive dell’assunzione del carattere intrinsecamente soggettivo della conoscenza come
elemento peculiare della “funzione cognitiva in generale”, si veda il fondamentale:
MATURANA/VARELA 1980.
27
VOLLI 2000, pp. 13-14.
56
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deve essere comprensiva di link all'URL.

28
Per un esame approfondito della proposta di Hodder, comunque ricca di stimoli di indubbio interesse, si
rimanda alla lettura di: HODDER 1986, trad. it. 1992. Segnaliamo la presa di posizione espressa
dall’archeologo danese Klavs Randsborg contro la validità di un approccio testuale all’analisi
archeologica della realtà materiale. Randsborg sostiene che “l’utilizzo in archeologia di termini e concetti
presi a prestito da [discipline che si basano su dati testuali], come per esempio è il caso recente
dell’archeologia ispirata alle teorie e ai metodi dell’antropologia storica, rappresenta un serio e
fondamentale problema” e che “dovrebbe essere un dogma dell’archeologia evitare l’uso di termini
derivati da discipline di tipo testuale, anche se questo è poco realistico quando si arriva allo stadio
dell’interpretazione e dell'integrazione delle informazioni storiche” (RANDSBORG 2000, p. 186). Ora,
se da un lato pare anche a noi necessario mettere in guardia dall’uso metodologicamente scorretto,
indiscriminato o inappropriato in ambito archeologico di strumenti concettuali elaborati in altri ambiti,
dall’altro ci pare altrettanto scorretto mostrare un atteggiamento di chiusura pregiudiziale nei confronti di
qualunque possibilità di approccio testuale all’analisi interpretativa del dato materiale.
29
LOTMAN 1985, p. 58.
30
CASETTI 1994, p. 99.
31
CASETTI 1994, p. 105.
32
PRIETO 1995, p. 81.
33
Troviamo una acuta riflessione sul tema filosofico del rapporto intercorrente tra i concetti di “essere” e
“nulla” in: ECO 1997, pp. 1-42.
34
TERRENATO 2000a, pp. 90-92.
35
CARANDINI 1991, pp. 61-62.
36
Per un esame dei problemi legati alla definizione del concetto di “sito archeologico, si vedano:
BARKER 1977, HARRIS 1979, CARVER 1983, CARANDINI 1991, BERNARDI 1992,
CAMBI/TERRENATO 1994.
37
Per un esame dei principi teorici e delle pratiche che caratterizzano la cosiddetta “archeologia del
paesaggio”, si vedano: BERNARDI 1992, CAMBI/TERRENATO 1994.
38
Per un esame dei problemi legati alla scelta delle pratiche di scavo, si vedano: BARKER 1977,
HARRIS 1979, CARVER 1983, CARANDINI 1991.
39
CREMASCHI 2000, p. 142.
40
CARANDINI 1991, p. 135.
41
CARANDINI 1991, p. 137.
42
Sul quale abbiamo già avuto occasione di riflettere in: SIRIGU 1999, p. 137-138.
43
Per quanto riguarda la definizione del concetto di “codice semiotico”, faremo riferimento in particolare
alla definizione di “codice” proposta da Umberto Eco in: ECO 1975, pp. 54-57.
44
SAUSSURE 1922, trad. it. 1991, pp. 85-86.
45
Per un approfondimento analitico del significato di tale concetto, si vedano: HJELMSLEV 1943, trad.
it. 1968, pp. 52-65; BARTHES 1964, trad. it. 1992, pp. 34-44; ECO 1975, pp. 76-81.
46
BARTHES 1964, trad. it. 1992, p. 45.
47
SAUSSURE 1922, trad. it. 1991, pp. 85-88.
48
PEIRCE 1931-1935, trad. it. 1980, pp. 139-141.
49
ECO 1975, pp. 256-284.
50
SAUSSURE 1922, trad. it. 1991, p. 87.
51
SAUSSURE 1922, trad. it. 1991, p. 150.
52
BARTHES 1964, trad. it. 1992, p. 53.
53
BARTHES 1964, trad. it. 1992, p. 64.
54
BARTHES 1964, trad. it. 1992, p. 53.
55
SAUSSURE 1922, trad. it. 1991, pp. 149-150.
56
Per chiarire la natura di questo rapporto, Saussure utilizza l’esempio del foglio di carta. Se prendiamo
un foglio di carta e lo ritagliamo in pezzi, otterremo degli elementi (i singoli pezzi, che simboleggiano i
singoli segni). Ciascun elemento ottenuto in seguito a questo atto di frammentazione del foglio avrà un
valore, dipendente dal suo rapporto con gli altri pezzi di carta; nonostante ciò, in ciascuno di essi rimarrà
invariato il rapporto interno esistente tra il diritto e il rovescio del foglio (cioè il rapporto tra
“significante” e “significato”) (SAUSSURE 1922, trad. it. 1991, pp. 136-148).
57
BARTHES 1964, trad. it. 1992, p. 79.
58
VOLLI 2000, p. 10.
59
VOLLI 1994, p. 55.
60
STAROBINSKI 1974, trad. it. 1981, p. 206.
61
HJELMSLEV 1943, trad. it. 1961, p. 6.
62
BARTHES 1964, trad. it. 1992, pp. 13-14.
57
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63
SHANKS/TILLEY 1987.
64
Per un’analisi del concetto di “atto linguistico” si vedano: AUSTIN 1975 e SEARLE 1969; per un
approccio più generale all’analisi del problema linguistico come tema centrale della riflessione filosofica
e scientifica del ‘900, si vedano, in particolare: WITTGENSTEIN 1953; FREGE 1988.
65
COCCHI GENICK 1999.
66
BLOCH 1959, trad. it. 1969, p. 140.
67
BLOCH 1959, trad. it. 1969, p. 137.
68
BLOCH 1959, trad. it. 1969, p. 137.
69
BLOCH 1959, trad. it. 1969, p. 138.
70
BLOCH 1959, trad. it. 1969, p. 139.
71
BLOCH 1959, trad. it. 1969, p. 140.
72
Troviamo stimolanti esempi di analisi del concetto di “distanza” visto come elemento positivo e/o
negativo dell’approccio conoscitivo al passato in: LÉVI-STRAUSS 1983; BAXANDALL 1985, SETTIS
1989, GINZBURG 1998, BETTINI 2000.
73
Per un esame approfondito dei presupposti e dei risultati raggiunti in questo stimolante e complesso
campo d’indagine, si vedano: RENFREW 1987; CAVALLI-SFORZA/MENOZZI/PIAZZA 1994;
ALINEI 1996, 2000.
74
LEONARDI 1991, p. 5.
75
ECO 1975, p. 257.
76
ECO 1975, p. 257. Per una “critica dell’iconismo”, si rimanda a: ECO 1975, pp. 256-284.
77
BARTHES 1982, trad. it. 1985, p. 7. Per un approfondimento di questo genere di problemi, si rimanda
alla lettura integrale del fondamentale articolo di Roland Barthes, ancora attualissimo, pubblicato per la
prima volta nel 1961 e ora disponibile in: BARTHES 1982, trad. it. 1985, pp. 5-21.
78
Si veda in proposito la critica mossa da Giuseppe Pucci nei confronti dell’assenza di descrizioni verbali
dei tipi nella tipologia della ceramica campana elaborata da Jean-Paul Morel e del conseguente uso
esclusivamente e ambiguamente ostensivo dei disegni (PUCCI 1983, p. 277).
79
Sui “pericoli” impliciti in ogni atto di traduzione, formalizzati nel “principio di indeterminatezza della
traduzione” elaborato dal filosofo W. V. O. Quine, si veda il fondamentale: QUINE 1960.
80
Per evitare possibili equivoci terminologici, si precisa che nel presente lavoro si è fatto uso della forma
grafica CLASSE per designare il concetto di “classe” così come viene definito in logica, riservando la
forma grafica “classe” ad un uso meno tecnico e più generale di tale concetto.
81
BECCARIA 1994, p. 456.
82
TARSKI 1978, p. 97.
83
MONDADORI/D’AGOSTINO 1997, p. 21.
84
MONDADORI/D’AGOSTINO 1997, p. 21.
85
PRIETO 1995, pp. 67-68.
86
PRIETO 1995, pp. 68-69.
87
TARSKI 1978, pp. 104-106.
88
TARSKI 1978, pp. 107-108.
89
TARSKI 1978, p. 97. Il semiologo Luis Prieto ha mosso serie critiche a questo assunto. In particolare
egli sottolinea il fatto che tra le CLASSI del 1o ordine e le CLASSI che vanno dal 2o ordine in poi esiste
una fondamentale differenza “[…] che separa da una parte le classi del 1o ordine o classi di oggetti
materiali, i cui membri spettano ad una realtà distinta da quella a cui spettano le classi stesse e,
dall’altra, le classi di classi di oggetti materiali, le classi di classi di classi di oggetti materiali ecc., i cui
membri spettano invece alla stessa realtà - la realtà mentale - alla quale appartengono tali classi”
(PRIETO 1995, p. 64).
90
ALIPRANDI/MILANESE 1986, pp.19-20.
91
OSTIA III, 2, p. 421.
92
PRIETO 1995, p. 67.
93
“Occorre tuttavia accennare fin d’ora che il fatto che un oggetto materiale sia provvisto di un’infinità di
identità intensionali diverse non vuol per nulla dire che esso sia provvisto di ogni identità intensionale: un
oggetto non può in particolare presentare identità intensionali contraddittorie, almeno, per quanto
riguarda gli oggetti puramente spaziali e dotati quindi della continuità nel tempo, nello stesso momento.
Da osservare che questo ci garantisce fra l’altro l’esistenza della realtà materiale indipendentemente da
ogni sua rappresentazione mentale – e ci garantisce che quest’ultima è proprio una rappresentazione: c’è
qualcosa che viene rappresentato mentalmente e che impone dei limiti quanto alla maniera in cui può
essere rappresentato” (PRIETO 1995, pp. 88-89, nota).
94
PRIETO 1995, pp. 88-89.

58
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95
Citiamo, per la sua pertinenza, il monito di Moses Finley ad evitare un uso delle generalizzazioni come
strumenti di analisi della storia antica, spesso erroneamente assiomatico e non sufficientemente attento al
rigore terminologico. L’assenza di tale rigore è causa in particolare dell’eccessiva facilità con cui certi
termini, nati per esprimere concetti ben precisi in ambiti storici e cronologici determinati, vengono invece
impiegati in altri ambiti e in riferimento ad altri concetti (come nel caso del termine schiavo, usata per
indicare sia i douloi greci che i servi romani, ignorando pericolosamente le profonde differenze esistenti
tra le figure sociali a cui questi tre termini fanno riferimento) (FINLEY 1971, 1975, trad. it. 1981, pp. 84-
106). L’uso di concetti come “standardizzazione” o “produzione su scala industriale”, riferiti, ad esempio,
ad alcune produzioni di età romana, come le sigillate, dovrebbe essere guidato proprio da questi criteri di
cautela suggeriti da Finley. Tenendo quindi a mente questo monito, segnaliamo un interessante filone di
ricerca teso alla verifica della possibilità che, anche in ambito preistorico e, soprattutto, protostorico,
potessero esistere esempi di produzioni in qualche misura “standardizzate”. In proposito segnaliamo
l’intervento presentato da Carlo Lugliè al convegno “La civiltà nuragica: nuove acquisizioni” (Senorbì
[CA], 14-16/12/2000), dal titolo: Analisi archeometriche preliminari su elementi ceramici del Bronzo
recente dal Campidano Meridionale, in cui si affronta un esame critico dei problemi legati all’ipotesi di
“standardizzazione” e commercio nell’ambito della produzione di ceramica “grigio ardesia” in Sardegna,
anche sulla base di dati provenienti da analisi archeometriche.
96
Va segnalato il fatto che l’assunzione di entità concettuali pertinenti a questo livello di articolazione
della classificazione della realtà materiale come entità tassonomiche nel senso scientifico del termine
caratterizza soprattutto le strutture tassonomiche adottate nell’ambito dello studio di manufatti prodotti in
età preistorica e protostorica. Un esempio dell’assunzione dell’entità concettuale “ceramica nuragica”
come entità tassonomica ci viene offerto dalla “tipologia della ceramica nuragica” pubblicata
recentemente (CAMPUS/LEONELLI 2000).
97
Per un esame approfondito delle problematiche legate all’analisi di questa categoria di manufatti
rinvenuti in “contesti” nuragici, si veda: BACCO 1997.
98
PERONI 1994, p. 25.
99
Ricordiamo l’utile distinzione terminologica e concettuale tra “tipologia”, “classificazione tipologica” e
“ordinamento tipologico”, elaborata da Andrea Carandini, il quale “[…] definisce «tipologia» una
raccolta di tipi di una determinata classe, risultante da una valutazione tendenzialmente complessiva della
classe stessa (questo è possibile, ad esempio, per le sigillate o le lucerne […]); parla di «classificazione
tipologica» quando la raccolta del materiale ha un carattere strumentale e provvisorio, valido, tutt’al più,
per uno scavo o per un sito […]; infine impiega l’espressione «ordinamento tipologico» per quelle
situazioni nelle quali la frammentarietà del materiale costringe a suddividere i manufatti solo in base ad
alcuni elementi significativi […]” (PAVOLINI 2000, p. 28, nota 83. Per un esame più dettagliato della
proposta terminologica elaborata da Carandini, si veda: CARANDINI 1970, p. 10 e s.). Nel presente
lavoro l’espressione “classificazione tipologica” verrà utilizzata, salvo indicazioni contrarie, col valore
semantico di definizione genericamente designante ogni tipo di struttura tassonomica basata su criteri
tipologici.
100
BECCARIA 1994, p. 711.
101
LEROI-GOURHAN 1993, pp. 21-22.
102
PERONI 1994.
103
MOREL 1981, p. 22.
104
RICCI 1985a.
105
PERONI 1994, p. 107.
106
Nel sistema tassonomico elaborato da Peroni in realtà non troviamo un livello tassonomico che, come
la “classe” nelle tassonomie adottate nell’ambito dello studio delle ceramiche di età storica, riunisca
insiemi di oggetti utilizzando, come criterio funzionale pertinente, l’individuazione di “macrofunzioni” in
qualche modo simili a quelle designate da espressioni del tipo: “ceramica da mensa”, o “ceramica da
cucina”.
107
RICCI 1985a, p. 11.
108
RICCI 1985a, p. 12.
109
Per un esame dei principali sistemi tassonomici delle industrie litiche, si vedano, in particolare:
BORDES 1950, 1961; BRÉZILLON 1968; LAPLACE 1957, 1964, 1968.
110
Come quello che identifica “gruppi di tipi” intesi come insiemi di “[…] due o più tipi [che] presentano
un elevato grado di contiguità morfologica” (PAVOLINI 2000, p. 31).
111
RICCI 1985a, p. 12.
112
RICCI 1985a, p. 11.
113
PERONI 1967, pp. 156-157.
114
MOREL 1983, p. 306.
59
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115
RICCI 1985a, p. 11.
116
PUCCI 1983, p. 277.
117
PRIETO 1995, p. 89, nota.
118
ECO 1975, p. 246.
119
ECO 1975, p. 245.
120
PRONI 1999, p. 18.
121
Si vedano in proposito: CAZZELLA 1999, BIETTI SESTIERI 1999, COCCHI GENICK 1999. Per un
esame dei problemi sollevati dall’approccio tassonomico all’analisi del reale anche nell’ambito delle
scienze naturali, si veda: ECO 1997.
122
BINFORD 1983, trad. it. 1990, p. 24.
123
VERNANT 1984, pp. 6-7; cit. in: D’AGOSTINO/CERCHIAI 1999, p. XVI.
124
D’AURIA 1996, p. 52.
125
Per un primo approccio all’analisi dei concetti di “Autore Modello”, “Autore Empirico”, “Lettore
Modello”, Lettore “Empirico”, si veda, in particolare: ECO 1979.
126
ECO 1962, ed. 1993, p. 34.
127
ECO 1990.
128
PRONI 1999, p. 18. L’analisi semiotica degli oggetti sta conquistando uno spazio sempre più
autonomo e deciso nei suoi connotati di ricerca, come dimostrano ricerche di grande interesse come:
GREIMAS 1976, SEMPRINI 1995, BONFANTINI/ZINGALE 1999, FIORANI 2000, alle quali si
rimanda per un approfondimento su questo specifico ambito della riflessione semiotica.
129
PRIETO 1989, p. 9.
130
Per un approfondimento delle prospettive aperte dall’introduzione del cosiddetto “paradigma
indiziario” in vari campi di ricerca, si vedano, in particolare: GINZBURG 1979; ECO/SEBEOK 1983;
ECO 1990; CARANDINI 1991; PUCCI 1994.
131
MORIN 1977, trad. it. 2001, p. 19.

60
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collegato Repository (MyOPIA Repository o Eprints Repository). La citazione dell’e-print OA deve comprendere, per la finalità di un’eventuale analisi citazionale, quindi, l’indicazione di questa testata
"Journal of Intercultural and Interdisciplinary Archaeology" (JIIA) e collegato archivio digitale "Archaeological Disciplinary Repository" (ADR), detto anche MyOPIA Repository (o Eprints Repository), e
deve essere comprensiva di link all'URL.

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JIIA & ADR "Journal of Intercultural and Interdisciplinary Archaeology" & "Archaeological Disciplinary Repository"
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