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Luca Caminati

Una cultura della realtà.


Rossellini
documentarista

To Masha,
the forward-thinking kind of gal
Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia Sommario

Presidente Direttore generale 7 Ringraziamenti


Francesco Alberoni Marcello Foti
13 Prefazione
Consiglio di amministrazione Collegio dei revisori dei conti Laboratori rosselliniani e cinema del pensiero
Francesco Alberoni Natale Monsurrò (presidente) di Marco Bertozzi
Giuseppe Avati Andrea Mazzetti
Giancarlo Giannini Marco Mugnai 19 La produzione documentaria alla fine degli anni ’30
Giorgio Tino Il “documentario narrativo”
Dario Edoardo Viganò La maniera di Rossellini
Comitato scientifico 27 I primi esperimenti di documentario narrativo
Francesco Alberoni «Fantasia sottomarina»
Pino Farinotti
«Il ruscello di Ripasottile»
Marco Müller
«La vispa Teresa»
Andrea Piersanti
Rubino Rubini
«Il tacchino prepotente»
Sergio Sciarelli Il documentario romanzato

35 «India Matri Bhumi»: la forma documentaria incontra l’alterità


La nuova libertà
Divisione Editoria Il perturbante postcoloniale
Rossellini a Parigi
Direttore Editing e Redazione Passaggio in India
Gabriele Antinolfi Laura Gaiardoni «India Matri Bhumi»

Ufficio Coordinamento, Progetto grafico e impaginazione 45 I documentari televisivi sull’India


Amministrazione e Attività Promozionali Alberto Guerri, Maria Romana Nuzzo «L’India vista da Rossellini»
della Divisione Editoria «J’ai fait un beau voyage»
Mario Militello (Responsabile) Il volume è illustrato prevalentemente con
Charmane Spencer (Segreteria organizzativa) fotogrammi tratti da pellicole conservate 59 I documentari d’occasione
presso la Cineteca Nazionale. Le altre «Torino nei cent’anni»
immagini, foto di scena, foto di set, foto di
«Torino tra due secoli»
© 2011 Fondazione Centro Sperimentale di viaggio e una selezione di fotografie della
«“Idea di un’isola”»
Cinematografia, Roma famiglia Rossellini, provengono dal Fondo
Rossellini, custodito presso la Fototeca
«Intervista a Salvatore Allende»
http://www.fondazionecsc.it
della Cineteca Nazionale.
«Rice University»
in collaborazione con Carocci Editore, Roma I fotogrammi di titoli provengono dai «A Question of People»
http://www.carocci.it seguenti archivi: «Concerto per Michelangelo»
«Le Centre Georges Pompidou»
ISBN La Fondazione è disponibile a riconoscere ai
Prima edizione: dicembre 2011 legittimi detentori il copyright relativo alle 71 Postfazione
fotografie delle quali non è stato possibile Rossellini documentarista?
In copertina: reperire gli aventi diritto. di Adriano Aprà

107 Filmografia
di Adriano Aprà

107 Bibliografia
Ringraziamenti

Questo lavoro è nato grazie all’incoraggiamento, all’entusiasmo e al-


l’amicizia di Francesco Casetti, da poco professore alla Yale University,
che unitamente a Dario Edoardo Viganò e Gabriele Antinolfi, si è fatto
promotore del progetto presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di
Roma. Al Centro Sperimentale ha subito trovato l’incondizionato appog-
gio di Mario Militello, responsabile del coordinamento per la Divisione
Editoria, dove ha preso l’attuale forma di libro grazie agli occhi attenti
dell’editor Laura Gaiardoni. È stata Laura a suggerire il titolo Una cultura
della realtà, che coglie in pieno lo spirito del volume. Per la ricca parte ico-
nografica e l’elegante impaginazione del testo ringrazio Alberto Guerri
(reparto grafico).
La gran parte della ricerca e della scrittura di questo volume è avvenuta
a Roma, grazie alla borsa di studio Paul Mellon/NEH (National Endowment
for the Humanities) della American Academy per l’anno accademico
2009/2010. Il soggiorno in Accademia mi ha permesso di condurre la ri-
cerca su fonti spesso rare o sconosciute, e ho potuto godere dell’apporto
anedottico di molti studiosi e testimoni. In particolare, ho avuto la fortuna
di accedere all’archivio privato di Adriano Aprà, che mi ha generosamente
messo a disposizione materiale inedito o parzialmente edito e che si è gen-
tilmente prestato a scrivere un suo intervento per questo volume. Per
l’aspetto bibliografico ho avuto l’incondizionato aiuto di Laura Ceccarelli,
della Biblioteca “Luigi Chiarini” del Centro, e di Anna Maria Licciardello,
dello staff di Enrico Magrelli, Conservatore della Cineteca Nazionale. È
grazie ad Antonella Felicioni (archivio fotografico della Cineteca Nazio-
nale) che ho potuto consultare le immagini appartenenti al Fondo Ros-
sellini. A Roma mi è stata di grandissimo aiuto la collega e amica Ivelise
Rossellini in India

Perniola, che mi ha immediatamente messo a disposizione il suo archivio


privato e mi ha permesso, attraverso le nostre conversazioni, di trovare la
giusta via per continuare questo studio. Ivelise è stata anche lettrice at-
tenta del primo capitolo. Marco Bertozzi si è gentilmente prestato a leg-
gere il manoscritto, e i suoi commenti sono stati essenziali. Sua è la bella
< prefazione a questo volume, di cui gli sarò sempre grato. Ringrazio Giuzzo
5
Barbaro, figlio di Umberto, attraverso i cui aneddoti siamo riusciti a rico- Laboratori rosselliniani e cinema del pensiero
struire pezzi mancanti della storia del cinema italiano. Alfredo Baldi mi di Marco Bertozzi
ha generosamente aperto le porte del suo ufficio privato per permettermi
di consultare materiale inedito. Il giovane novantenne Vittorio Carpi-
gnano, studente al Centro nel biennio 1938-1939, ha permesso di rico-
struire alcuni momenti iniziali della carriera di Rossellini. Viva Paci si è
generosamente prestata a leggere una versione primitiva del testo. Vero-
nica Pravadelli e Paolo Bertetto hanno offerto il loro aiuto e la loro ami-
cizia durante il mio soggiorno romano. E, last but not least, Renzo
Rossellini, che in un terso giorno di febbraio mi ha concesso un incontro
nei suoi uffici romani, non sapendo che non sarebbe più riuscito a libe-
rarsi di me. A Renzo e alla sua amicizia questo volume deve tantissimo in
termini sia accademici che personali.
Un grazie sentito va alla Concordia University di Montreal, e alla Faculty
of Fine Arts che mi ha generosamente garantito i fondi necessari per fi-
nire il lavoro. Un grazie particolare ai miei colleghi della Mel Hoppen- Il libro di Luca Caminati traccia un percorso emblematico per la rifles-
heim School of Cinema, che mi hanno accolto fin da subito con grande sione sul cinema del reale. Almeno per tre motivi. Il primo, naturalmente,
simpatia e calore. È grazie a loro e ai nostri entusiasti studenti se la mia sta nell’immersione dell’autore nel Rossellini documentarista. Caminati
ricerca scientifica trova sempre nuovi stimoli. corre pienamente i rischi del confronto con un cinema più volte definito,
La lettrice più attenta di questo libro, e che ne ha seguito lo sviluppo dal in toto e semplificando molto, “documentario”. All’ambiguità del termine
suo incipit, è stata, come sempre, Masha Salazkina, che con le sue uniche in sé si aggiunge l’incertezza teorica di una critica che vedeva nel neo-
qualità “transnazionali” ha potuto liberare Rossellini dalla palude italiana, realismo un movimento ontologicamente documentario: come se fra il
e inquadrarne l’opera in una più corretta dimensione europea e interna- mondo e la sua messa in forma filmica non esistessero scarti, aporie, de-
zionale. A lei, e ai rosselliniani di ieri e di oggi, dedico questo lavoro. ragliamenti. Ecco, la riflessione sul rapporto fra “realtà” e “finzione” in
Rossellini ci obbliga invece ad affinare gli sguardi: ad attraversamenti
lenti, nell’osservazione minuziosa di alcune derive dell’idea documenta-
ria, fra cinema antropologico e divulgazione televisiva, documentario di
creazione e film saggio, cortometraggio ludico-espressivo e documenta-
rio scientifico. Il motto rosselliniano «per pensare bisogna sapere»1 illu-
mina un cinema con aspirazioni saggistiche, un cinema per esprimersi,
un cinema che “sbanda” nell’ascolto/incontro con il mondo. Un campo
aperto, irrorato da idee libere da preconcetti – uno, fra tutti, il documen-
tario come “genere” – in cui emerge il laboratorio di uno sperimentatore
capace di ibridare diversi campi cinematografici.
Per questo il bel libro di Caminati ha una ricaduta importante sul docu-
mentario contemporaneo. Osservando la molteplicità degli approcci ros-
selliniani, ci impone una riflessione sulle forme cinematografiche del
presente e spinge a confondere gli sguardi fra “osservazione documenta-
ria” e “finzione realistica”. Trasferte scopiche garantite dall’accoglienza
dell’epifanico: nella capacità, per il cinema di Rossellini, di aprirsi all’ac-
cadimento, all’imprevisto, all’intrusione del fato. Atti di accoglienza per
una ricostruzione del mondo baciata dal pensiero figurale ma lontana
dagli agonismi intellettuali della cultura istituzionale. Un insegnamento
per l’oggi, l’idea che lo sguardo documentario non garantisca certezze ma
solo ricchezza, e deragliamento, di punti di vista. Proprio osservando i
suoi documentari su popoli e culture – penso, ad esempio, a India Matri
Bhumi (1957-1959) o a “Idea di un’isola” (1967), sulla Sicilia e i siciliani
6 7
– l’inizio giornalistico, fortemente descrittivo, viene via via abbandonato gendo altri autori: cito, ad esempio, le opere documentarie di Pier Paolo
a favore di un tempo dell’attesa e dell’introspezione, in cui la dimensione Pasolini, sino a pochi anni fa ritenute minori, quei meravigliosi film in
socio-antropologica perde i suoi connotati “scientifici” – Gianni Celati di- forma di appunti “ridotti” a semplici sopralluoghi per opere narrative a ve-
rebbe “amministrativi” – per irrorare il film di sguardi perduti sulla vita nire.
quotidiana dell’uomo in quanto tale. È quel «paziente lavoro di rammendo Alfine, il libro di Caminati illustra un percorso esemplare per un cinema
della specie umana»2 che Rossellini amava ricordare. E che solo il tempo del pensiero. L’idea di una realtà non esplicabile si confronta con scarti
dell’attesa riusciva a saturare. dalla visione documentaria, ritenuta, di volta in volta, ammissibile. Un li-
Un altro importante aspetto del libro di Caminati riguarda il “racconto” vello di sorveglianza tenero – che rifiuta la dittatura della sceneggiatura
dell’esperienza realistica antecedente il neorealismo. Come per Michelan- chiusa – in cui l’ammissione dell’inatteso illumina una poetica senza
gelo Antonioni, l’esempio di Rossellini è probante e costituisce un preci- scampo. Una ricerca costante, di un autore dalla vocazione multimediale,
pitato dell’avanguardia documentaria al neorealismo. Una emergenza attratto da un visibile mai domo.
necessaria, che accomuna tutto il miglior cinema italiano del periodo: uno
sguardo che non è solo questione di occhi, ma che pervade, congiunta-
mente, etica ed estetica. Un attacco all’ammissibilità del realismo di regime 1. Roberto Rossellini, Islam. Impariamo a conoscere il mondo mussulmano, Don-
che, ben prima del crollo di Mussolini e della disfatta bellica, trova isti- zelli, Roma, 2007, p. 4.
tuzioni e intellettuali fascisti opporsi all’invisibilità del “paese reale” per 2. Ivi, p. 3.
incontrare ambienti dal vero e attori sociali, professioni nascoste e lingue
regionali, tragedie locali e drammi nazionali. Uno sguardo intriso di at-
tenzione agli aspetti della realtà fenomenica che parte dal documentario
e, in Rossellini, informa la serie di opere “ibride” della trilogia della guerra,
La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942), L’uomo dalla croce (1943).
Si tratta di film di finzione girati in piena guerra ma privi di facili tenta-
zioni retoriche o direttamente propagandistiche, permeati piuttosto da un
evidente stile documentaristico. Caminati, inserendosi in un percorso sto-
rico-critico recentemente suffragato anche da altre ricerche, evidenzia il
fiume carsico di esperienze capaci di instaurare quel nuovo modo di guar-
dare il mondo. Esperienze che, ben prima del neorealismo, correggono, in
maniera quasi dimessa, il compito di glorificazione chiesto loro dalla re-
torica del regime.
Il terzo motivo d’interesse del libro di Caminati riguarda l’espansione cri-
tica verso opere normalmente dimenticate dai tradizionali studi di storia
del cinema. La scarsa considerazione critica dei documentari – a parte rari
casi, in cui la rilevanza dell’oggetto indagato sembra obbligare, di per sé,
la necessità della riflessione – conduce la non-fiction a una assurda pe-
nombra storiografica (non essere nemmeno inserita nelle filmografie degli
autori). Indegni di una specifica analisi filmica. Una serie di partiti presi
– l’associazione del documentario all’idea di breve durata; il ritenerlo pa-
lestra di formazione per ambire poi al “vero” film, quello narrativo; l’in-
tenderlo poco più di una mera osservazione del mondo e molto meno di
una sua messa in forma originale – riduce questo cinema, soprattutto negli
studi italiani, a un ruolo ancellare del “cinema che conta”. Eppure le cose
sono andate diversamente e senza autori come Dziga Vertov o Vittorio De
Seta, Joris Ivens o Frederick Wiseman, Raymond Depardon o Artavazd
Pelesjan la storia del cinema sarebbe stata un’altra storia. Caminati, in
sintonia con la recentissima nouvelle vague storiografica, allarga dunque
le maglie del visibile per consegnarci una importante revisione del per-
corso rosselliniano. Un allargamento che, congiuntamente, sta coinvol-
8 9
La produzione documentaria alla fine degli anni ’30

L’importanza del dibattito sulla natura del rea-


lismo nell’arte e nella cultura di massa del re-
gime fascista, più in particolare sul ruolo dei
film e della narrativa (fiction e non-fiction)
nella formazione della cultura del Ventennio,
recentemente intrapreso da alcuni critici nor-
damericani – tra cui spicca il lavoro di Ruth
Ben-Ghiat, Fascist Modernities – costringe gli
studiosi a rivalutare il ruolo del documentario
nello sviluppo della modernità italiana1. Do-
cumentari e cinegiornali giocarono un ruolo
chiave nel processo di modernizzazione por-
tato avanti dal regime, sia come documenta-
zione del successo delle iniziative governative
(l’immagine del duce come guida in ogni
campo del processo è uno dei segni iconici di quest’epoca) sia come parte

Milizie della civiltà


integrante di una spinta verso un più diretto contatto con la realtà2. L’idea
che il realismo (il “neorealismo”) fu un’opzione solo postbellica sembra
ormai un ipotesi svalutata della cui genesi sono responsabili molti critici
cinematografici ed esponenti culturali del dopoguerra (quelli che per primi
scrissero la storia del cinema italiano). Essi s’impegnarono a fondo a dif-
ferenziare il “nuovo” cinema (e loro stessi) da ogni prodotto culturale con-
taminato dall’ideologia dell’era fascista3. E infatti per quel che riguarda il
neorealismo, invece di guardare indietro al cinema di quegli anni, tutti
gli intellettuali guardarono sul piano geografico fuori dall’Italia e sul
piano cronologico a un periodo antecedente, allo scopo di localizzare in
un mitico altrove il milieu culturale del nuovo cinema del dopoguerra4.
Inoltre gli storici del cinema hanno associato la produzione documenta-
ristica prebellica con i cinegiornali dell’Istituto Nazionale LUCE, conosciuti
Acciaio

per le loro implicazioni didattiche e propagandistiche, senza prendere in


considerazione la ricca produzione di altri tipi di film non-fiction5. A un
< livello ideologico-culturale più complesso, quest’omissione può riflettere
11
il pregiudizio culturale, stabilito dal criticismo crociano, contro il docu- flessioni critiche e storiche e le esperienze pratiche» e ad «assorbir le pra-
mentario come prodotto “non artistico”. E una volta attribuito al neorea- tiche realiste» del documentario in Italia12.
lismo lo status di cinema modernista (sia in senso storico, come cinema A dire il vero una retorica “realista” era già parte della discussione sul
del pre-boom, sia in senso estetico, come fa Gilles Deleuze quando pro- realismo nel cinema degli anni ’30, come ampiamente provato da Gian
prio nel neorealismo identifica la frattura tra cinema-movimento e il mo- Piero Brunetta e Ben-Ghiat13. Riviste letterarie come «L’Universale», «La
derno cinema-tempo6), quest’omissione può rispecchiare una particolare Libra» e «Occidente», e personalità del calibro di Berto Ricci, Ottone Rosai
lettura “liberal” del neorealismo come cinema d’arte, non contaminato da e Dino Garrone erano coinvolte in questo dibattito. E tra loro spiccava
forme basse come il documentario. L’insistenza dei primi storici del ci- certamente Barbaro, il cui ruolo nel dispensare una poetica realista è già
nema italiano (come Umberto Barbaro nelle sue recensioni, o Carlo Liz- stato investigato in profondità da Brunetta.
zani nella sua Storia del cinema italiano) sulle fonti letterarie e pittoriche Il ruolo del film di non-fiction nella tarda era fascista è evidenziato, pro-
indigene riflette proprio quest’ansia verso il métissage e l’ibridazione ar- prio nel primo numero di «Bianco e Nero», dalla traduzione di un’ampia
tistica7. selezione tratta da Movie Parade di Paul Rotha del 193614, e l’interesse del
La mia ricerca mostra infatti come negli anni ’20 e ’30 ci fosse in realtà Centro Sperimentale per il “documentario narrativo” sembra essere un
una vitale cultura cinematografica italiana che generò un interessante – nesso mancante intenzionalmente trascurato nella storia del neorealismo.
sebbene piccolo – corpus di documentari, e un dibattito culturale molto Questa connessione tra cinema “dal vero” e neorealismo può ora essere ri-
vivace sulla questione del realismo nelle arti e nel cinema in particolare. condotta a un momento precedente. Quando il termine “neo-realismo”
Sebbene il dibattito sorto intorno al documentario scompaia con il fiorire venne applicato per la prima volta in Italia – prima della sua più tarda
del neorealismo dopo il 1945, esso era stato in realtà molto animato dal comparsa nelle riviste di cinema intorno al 1948 – fu nel contesto di un
1935 circa sino alla fine della guerra. Molti degli autori di «Cinema» (cul- riferimento al documentario. Nella sua genealogia del termine, Stefania
turalmente gravitante intorno all’Istituto LUCE sotto la direzione di Vitto- Parigi afferma che, dalla metà degli anni ’30, i critici italiani applicarono
rio Mussolini, figlio del duce) e di «Bianco e Nero» (pubblicata dal Centro questa definizione a esperienze estetiche diverse, per esempio al docu-
Sperimentale di Cinematografia di Roma a partire dal gennaio 1937) – le mentario del GPO (General Post Office) capitanato da Grierson15. Era la
due più influenti riviste di cinema dell’epoca – discutono l’impatto avuto stessa parola che Cavalcanti avrebbe suggerito a Grierson di utilizzare per
dai registi documentaristi John Grierson, Alberto Cavalcanti, Joris Ivens, il suo lavoro documentaristico16. Il fatto che “neorealismo” sia un termine
Robert Flaherty e dal fotografo Walter Evans sul cinema italiano, eviden- elastico degli anni ’30 è allora significativo di una generale tendenza fi-
ziando l’importanza di questo genere per lo sviluppo del cinema contem- losofica e sociale al ritorno a un più rigoroso impegno con la realtà. Il
poraneo. Tra le varie discussioni sul documentario come genere, quel che neorealismo storico (l’effettivo movimento cinematografico del dopo-
più spicca è il dibattito sul “documentario narrativo” (come Cavalcanti guerra) è il culmine di un lungo processo di ravvicinamento tra arte e re-
definisce questo tipo di film alla Flaherty che mescola fiction e non-fic- altà nella Weltanschauung italiana ed europea.
tion)8. Le serie discussioni critiche generate dal cinema documentario pos-
sono fornire un grande contributo alla storia – sempre in evoluzione – Il “documentario narrativo”
del cinema documentaristico italiano e alla altrettanto complessa rela- Anche un’occhiata superficiale ai documentari prodotti durante la seconda
zione tra fiction e “modi” del documentario9. Senza dimenticare un fatto decade del regime fascista (1933-1943 ca.), fatta eccezione per i cine-
molto pratico: è infatti del 1926 (Regio Decreto Legge n. 1000) la legisla- giornali propagandistici LUCE, mostra come questo nuovo genere straniero
zione che impone ai teatri di mostrare cinegiornali e documentari prima presentasse stimolanti possibilità per i registi italiani. Su riviste e giornali
di ogni proiezione di un lungometraggio10. Non è dunque un caso che la del tempo, la grande popolarità delle indagini sociali di Grierson (The
fine degli anni ’30 veda fiorire nuove compagnie di produzione (come per Drifters, 1929), i documentari narrativi di Flaherty (Nanook of the North
esempio la Dolomite Film per cui lavoreranno sia Roberto Rossellini che [Nanuk l’esquimese, 1922], Moana [L’ultimo eden, 1926] e Man of Aran
Luciano Emmer, tra gli altri). La volontà propagandistica mussoliniana [L’uomo di Aran, 1934]), insieme con esperimenti simili di docu-fiction
trova pronti mercanti della prima e dell’ultima ora. Vittorio Carpignano, come Tabu (Tabù, 1931) di Friedrich Wilhelm Murnau, stimolò un gruppo
allievo del Centro Sperimentale nel biennio 1938-1939, ricorda come «si di registi italiani attivi su simili linee di lavoro “ibride”. Mino Argentieri,
facessero film in fretta e furia, tanto da venderli ai distributori» e ottenere nel suo L’occhio del regime, ricorda che Sandro Pallavicini negli Stati Uniti
così i fondi pubblici11. Ma prima di addentrarci nella storia della pratica scopre The March of Time (nel 1934)17, il cinegiornale di Louis de Roche-
documentaristica e della sua ricezione in Italia, dobbiamo confrontare la mont, in seguito produttore anche di semidocumentari dalle tinte narra-
sua assenza dalla maggior parte delle storiografie del neorealismo e il con- tive noir, come per esempio Boomerang (Boomerang, l’arma che uccide,
testo storico di questa importante omissione. In breve, per dirla con 1947) diretto da Elia Kazan. Questo “genere” era stato vagheggiato in Ita-
Adriano Aprà, è stato proprio il “realismo” neorealista a far fuori «le ri- lia principalmente da chi disquisiva di un cinema che si liberasse dall’ar-
12 13
tificiosità degli studios, dalle manipolazioni drammaturgiche, dalle con-
Camicia nera

taminazioni letterarie e teatrali e dal divismo, avendo come paradigma i


film di Flaherty e della cinematografia sovietica muta. Ma a caldeggiarlo
erano stati anche i propugnatori di un cinema che fosse più stretto alla
ideologia e alla “rivoluzione culturale” fasciste. Forse il primo caso italiano
di fiction/non-fiction è Palio (1932), diretto da Alessandro Blasetti con
Anchise Brizzi come direttore della fotografia (lo ritroveremo nello stesso
ruolo in “Sciuscià” [Ragazzi], 1946, di Vittorio De Sica). Il film viene de-
scritto da Barbaro come «misto di documentario e di narrativo […], nemico
degli stacchi rapidi e del montaggio alla russa, [Blasetti] usa spesso car-
rello e panoramica teso com’è all’intenzione di dare consistenza narra-
tiva e fluidità ai suoi film»18. Un simile esperimento viene condotto l’anno
successivo: è Camicia nera di Giovacchino Forzano, prodotto dal LUCE e di- dina che dipinge ventiquattro ore nella vita del Lumpenproletariat pari-

Milizie della civiltà


stribuito nel marzo del 1933. Girato parzialmente in Maremma con attori gino. Nel 1934 Cavalcanti si unì all’Empire Marketing Board di Grierson
non professionisti, impressionò i recensori dell’epoca, tra cui “V. L.” che e poi alla Film Unit del GPO, divenendo una delle forze trainanti del mo-
scrive: «Antiletterario e antintellettuale, non curante dei dettagli, sprez- vimento documentaristico britannico e lavorando ad alcuni dei capolavori
zante di ogni sottigliezza tecnica, nemico giurato del decorativismo e del GPO come Coalface (1935). Egli aveva inoltre regolari contatti con la scuola
calligrafismo, totalmente devoto alla descrizione [...], fondamentalmente del Centro Sperimentale e collaborò con regolarità a «Bianco e Nero». Un
disinteressato alla fotografia e agli effetti di luce, il film ha un carattere articolo intitolato Documentari di propaganda, pubblicato nel 1938, co-
naturalista e positivista, tutto sostanza e niente forma. Cosa si può dire, struisce una genealogia per il “documentario narrativo”, da non confon-
in una parola, è che è opera di ingegno [...]. La luce dominante del film è dersi, nella tassonomia di Cavalcanti, con il “documentario puro” di
[...] l’oscurità. Tutte le inquadrature sono sommerse nell’ombra, in oscure Grierson. Il “documentario narrativo”, soprannominato a volte “docu-
e grigie zone d’ombre, così che c’è dunque un tono antielegante ma di mentario poetico”, ebbe i suoi precursori in Nanuk l’esquimese e L’ultimo
genuina spontaneità. La fotografia è verista, senza eccessiva morbidezza, eden, Grass: A Battle for Life (1925) e Chang: A Drama of the Wilderness
poco lavorata e assolutamente mancante di ogni pulitura finale»19. (1927) di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper e in La croisière noire
Per avere un vero spostamento di attenzione verso più interessanti forme (1927) di Léon Poirier. Il ruolo di Cavalcanti come intermediario tra Lon-
di documentario bisogna però aspettare la figura cosmopolita di Caval- dra e Roma e come partecipante attivo alla vita del Centro è attestata da
canti. Questo intellettuale di origini italiane, nato in Brasile ed educato in una breve nota non firmata apparsa su «Bianco e Nero» nel 1940: «Ab-
Francia, si trasferì a Parigi alla fine degli anni ’20 e iniziò la carriera nel biamo visto privatamente alcuni documentari prodotti in Gran Bretagna
cinema come scenografo. Il suo primo lungometraggio è un documenta- da Alberto Cavalcanti. Cortimetraggi che sono costati poco, ma realizzati
rio sperimentale, Rien que les heures (1930), una sorta di sinfonia citta- da persone di vivo entusiasmo e dotate di uno spiccato senso del cinema.
14 15
vidua una questione chiave del rapporto Cavalcanti-Grierson. Mentre
Grierson si dimise dal GPO nel giugno 1937, Cavalcanti vi rimase: è a que-
sto punto che Cavalcanti conduce la GPO Film Unit lontano dalle discus-
sioni teoriche su educazione pubblica e arte e verso film fortemente
dipendenti dalle tecniche narrative dell’industria dei film commerciali... Lo
story-documentary fece la sua prima apparizione quando Grierson era an-
cora al Post Office23. In questo stesso nuovo tono populista Harry Watt
produsse The Saving of Bill Blewitt (1936). Questo film aveva dialoghi
scritti, scenografie e, la cosa più significativa, era costruito intorno a una
storia completamente immaginaria. Esso, tuttavia, era anche realizzato in
gran parte in esterno e con attori non professionisti, persone reali che re-
citavano in eventi che avrebbero potuto molto probabilmente accadere
nel corso della loro esistenza quotidiana. Come Swann non manca di in-
dicare, questo film «anticipa per alcuni aspetti le tecniche di produzione
e l’estetica del neorealismo italiano»24. Bill Blewitt fu infatti un rifiuto
della precedente tradizione griersoniana del didatticismo a favore di un
approccio molto più umanistico, che intimoriva meno quanto a soggetti
filmici e vicinanza allo spettatore. «Lo story-documentary, in contrasto

Milizie della civiltà


con la tradizione griersoniana, conta in primo luogo sulla continuity di
montaggio del convenzionale film in esterno. In questo tipo di produzione
cinematografica, il peso del film era portato entro la narrazione e le per-
formance degli attori. Watt aveva imparato come gestire i non-attori nei
film dal suo apprendistato sotto Robert Flaherty»25. La nuova direzione
del GPO da parte di Cavalcanti si manifestò
anche nell’insistenza su attori non profes-
sionisti impegnati a recitare una sceneggia-
tura26.
L’influente figura di Cavalcanti nello svi-
luppo del “documentario narrativo”, o story-
documentary, deve aver trovato un pubblico
entusiasta tra gli studenti, gli insegnanti e i
Quello che soprattutto ci ha interessato è stato il modo con cui è stato seguaci del Centro27. In un articolo su «Ci-
Acciaio

impiegato il sonoro: rumori, parole, musica. Invece, nei documentari ita- nema» del 1939, Barbaro ammonisce contro
liani che di rado si proiettano nei nostri cinema, non accade mai di me- il mero didatticismo nel documentario, e
ravigliarsi per l’impiego del sonoro. Quasi sempre è una musichetta promuove invece L’uomo di Aran come
generica che commenta il susseguirsi delle immagini. Del resto, la mag- esempio di arte e documentazione28. In senso
gior parte dei documentari italiani è prodotta da individui il cui nome è più generale, i registi e i critici cinematogra-
taciuto sulle didascalie dei film»20. fici italiani aderirono all’interesse mondiale
La posizione di Cavalcanti come modernizzatore della scena documenta- per il nuovo genere del documentario, come provato dall’insistita pubbli-
ristica italiana non è stata ancora pienamente apprezzata. Sembra tutta- cazione degli interventi di Rotha su «Bianco e Nero» e dalla pubblicazione,
via chiaro che fosse spesso in Italia e a Roma fino al 1942, quando non nella sua interezza, della traduzione di Raymond Spottiswoode, A Gram-
poté più entrare in Italia perché il suo passaporto brasiliano fu ritenuto so- mar of the Film, nel 193829. E i documentari del GPO trovano posto anche
spetto21. La questione del suono sollevata dai redattori di «Bianco e Nero» a Venezia: Night Mail (1936) di Basil Wright e Watt (prodotto da Grierson)
punta in direzione di un suo “uso creativo” e in particolare della gestione viene presentato nel 1936. North Sea (1938) di Watt (prodotto da Caval-
di elementi diegetici e non diegetici. L’enfasi di Grierson su “suoni” e “pa- canti) nel 193830. Ne sono un esempio tutti i documentari dell’epoca che
role” impressionò i registi italiani probabilmente per il loro realismo22. In facevano riferimento alle varie tendenze europee, come la sinfonia della
The British Documentary Film Movement, 1926-1946, Paul Swann indi- città, o gli studi umanistici di eventi o località specifiche31. È il caso di Ac-
16 17
ciaio (1933) di Walther Ruttmann, ispirato da un testo di Luigi Pirandello
(e da questi sconfessato), Il canale degli angeli (1934) di Francesco Pasi-
netti, Il ventre della città (1933) di Francesco Di Cocco, Cantieri del-
l’Adriatico (1932) di Barbaro e Il pianto delle zitelle (1939) di Giacomo
Pozzi Bellini. Non è dunque difficile immaginare che Cavalcanti trovò nel
Centro un terreno fertile. L’intervento su «Cinema» di Pietro Francisci, do-
cumentarista autore di Armonie di primavera (1940) e Sosta d’eroi (1941),
e direttore artistico sotto Sandro Pallavicini alla INCOM (Industrie Corti Me-
traggi), polemicamente intitolato Del “puro” e del “romanzato” nel docu-
mentario, e aspramente critico della nuova classificazione, testimonia del
vivo interesse e partecipazione di critici e autori32.

La maniera di Rossellini
Anche se la via italiana verso il “documentario narrativo” non raggiunse
i risultati di altri paesi né in termini di qualità né in termini di quantità, il
modo fu certamente visto come un possibile campo di espressione, esplo-
rato da alcuni registi già nei primi anni ’30. Piuttosto che parlare di veri
documentari narrativi, possiamo dire che troviamo delle istanze narrative
in molti dei documentari dell’epoca. Ne sono un esempio due brevi docu-
mentari sullo stesso soggetto: Comacchio
(1940-1942) di Fernando Cerchio e Gente di
Chioggia (1940) di Basilio Franchina da un
soggetto di Giovanni Comisso. La gente e la
vita del delta del Po – di lì a pochi anni ri-
presi prima da Michelangelo Antonioni nel
suo Gente del Po (1943-1947), e poi da Ros-
sellini nell’ultimo episodio di Paisà (1946) –
vengono descritti focalizzando l’interesse
dello spettatore su microstorie (un pesca- struita attorno ad alcune vignette strappalacrime: il soldato che apre la let-

Gente di Chioggia
tore, un bambino, una famiglia ecc.) all’in- terina inviata dal figlio (contiene una foto del bimbo con impresso «per il
terno di un arco narrativo relativamente mio papà»), l’altro che segretamente ritaglia immagini di dive da attaccare
tradizionale, accompagnato da musica dal alla parete (potrebbe anche essere una forma di autopubblicità dell’indu-
sapore modernista e immagini a tratti anche stria cinematografica), la radio che dà voce a uno dei figli dei soldati fe-
leziose, in cui si investigano i diversi aspetti riti. Il film è ovviamente “scritto”: infatti non sembra affatto girato su un
dell’attività della pesca. Interessante in que- treno ma in studio, con fondali a riproporre il movimento attraverso i pa-
sto senso l’incipit di Gente di Chioggia. Mentre la prima scena ci mostra una norami europei. Sempre di Carpignano è da segnalare Noi mondine (1941),
Comacchio

barca di pescatori al largo in preda a una tempesta (visivamente vicino a film di 10 minuti dall’assetto narrativo tradizionale, ma narrato in prima
The Drifters), subito dopo una triste colonna sonora accompagna la pano- persona da una “mondina”. La voce femminile, rara all’epoca, invoca com-
ramica di una donna con i bambini in ovvia attesa al porto. Piuttosto al- passione per il duro lavoro delle risaie, e per certe immagini ricorda ov-
lora che l’oggettivismo griersoniano, qui diventa più evidente come viamente tutta la produzione seguente sul tema, da Riso amaro (1949) di
modello North Sea, dove il documentarista segue e modella con parti scritte Giuseppe De Santis a La risaia (1955) di Raffaello Matarazzo. Un precur-
la vita di un gruppo di pescatori scozzesi33. I due film, di soggetto simile, sore del genere narrativo potrebbe essere il film di Francisci Neve sull’Ap-
mostrano la grande differenza di approccio tra il GPO di Grierson e di Ca- pennino (1935). Il film è un lungo infomercial per la stazione sciistica del
valcanti, e l’ovvio effetto di quest’ultimo sugli italiani. Un altro interes- Terminillo: ma il tutto è mostrato attraverso il colpo di fulmine di due va-
sante esempio è il melodrammatico T.O. [Treno Ospedale] 34 (1941) di canzieri. Francisci girerà anche nel Sosta d’eroi sulle navi ospedale. Il film
Carpignano. Il film, di 12 minuti, segue un gruppo di soldati di ritorno dal è costruito intorno a una serie di sketch che coinvolgono, neanche a dirlo,
fronte russo dentro il loro vagone ospedale. Ma la narrazione è tutta co- mamme, lettere, messaggi radio ecc.
18 19
di André Bazin in relazione al neorealismo nel suo Un’estetica della re-
altà36) come in Roma città aperta (1945) di Rossellini e Ladri di biciclette
(1948) di De Sica, si presta certamente a deviazioni che non hanno una
primaria motivazione narrativa. È interessante il fatto che mentre il film
ha una chiara impostazione teleologica (le navi salveranno i nostri eroi?),
i molti “a parte” arricchiscono l’umanità della storia, aumentando il va-
lore documentario del film. Un episodio di questo tipo è la scena nella
quale la madre di uno dei marinai intrappolati nel sottomarino è ritratta
mentre conversa con un ufficiale della
Marina. La donna afferma che il suo
sesto senso le dice che suo figlio è morto
e che la Marina le sta nascondendo in-
formazioni. Questa scena esemplifica il
modus operandi di De Robertis. Da una
parte l’ostentazione del grande pro-
gresso tecnologico della Marina e la sua
assoluta dedizione ai marinai nelle cir-
costanze più difficili, dall’altra l’inseri-
mento di un tono melodrammatico e
quasi comico (l’effettiva conversazione
tra madre e figlio). Analogamente, in
Roma città aperta vediamo Don Pietro
recitare un ruolo insieme comico e
drammatico (come nella ricerca dei ri-
belli in casa di Pina, che si conclude con
Don Pietro che sferra una padellata sulla testa di un vecchio). Come già

Roma città aperta


notato da Franco Venturini nel suo articolo del 1950, Uomini sul fondo
scomparve dalla storia ufficiale del neorealismo, per essere sostituito,
Il “documentario narrativo” più vicino alla sua definizione europea, e come abbiamo visto, da ben più illustri predecessori letterari37. Compren-
Uomini sul fondo

anche quello che incontrò maggior successo di critica e pubblico, è Uo- dere la teoria che sottende la pratica della produzione cinematografica
mini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis. Prodotto dal Centro Ci- non-fiction in Italia nei tardi anni ’30 è inoltre vitale per capire il feno-
nematografico del Ministero della Marina Militare Italiana, utilizza solo meno delle origini confuse e composite del neorealismo nel dopoguerra.
attori non professionisti per raccontare la storia del salvataggio di un sot- Ogni storia del cinema italiano mancherebbe certamente di un pezzo
tomarino militare presso la costa di La Spezia. Se da un lato esso fu in- molto importante del puzzle senza l’animata scena del documentario ita-
teso come vetrina per la Marina allo scopo di impressionare, con il suo liano dei tardi anni ’30.
equipaggiamento tecnologico d’avanguardia, il pubblico italiano all’inizio È questa dunque l’atmosfera culturale che accoglie il giovane Rossellini,
della guerra, il film si trasforma molto rapidamente in un’avvincente sto- cineasta autodidatta e sperimentatore di forme nuove di narrazione. Ri-
ria di valori umani. Rossellini è stato presente sul set del film, secondo Tag sulta insomma chiaro come il cinema documentario di Rossellini non
Gallagher, almeno per qualche giorno34, e certo vi sono molte affinità tra nasca da una intuizione privata ma da una complessa rete di motivi sto-
questo film e quelli realisti del dopoguerra35. La combinazione di momenti rici, commerciali e artistici. Ma a questo milieu, Rossellini aggiunge fin da
altamente drammatici (le navi troveranno il sottomarino nella nebbia?) si subito un soggetto inaspettato: il mondo animale.
alternano a lunghe riprese dove la sofferenza dei marinai per la mancanza
di ossigeno e la pressione nel sottomarino affondato è ritratta con insi-
stenza. I marinai sono al tempo stesso anonimi (hanno tutti gli stessi abiti 1. Sulla questione del realismo in ambito fascista, oltre al citato seminale vo-
e la stessa espressione) e identificati da alcune qualità specifiche: l’ac- lume di Ben-Ghiat, Fascist Modernities. Italy, 1922-1945, University of Califor-
cento, la foto della madre, il cibo nascosto nei pantaloni. La struttura nar- nia Press, Berkeley, 2001, si veda anche il primo capitolo del volume di Nicoletta
rativa, sebbene non così episodica ed “ellittica” (per usare la terminologia Misler, La via italiana al realismo. La politica culturale artistica del P.C.I. dal 1944
20 21
al 1956, Mazzotta, Milano, 1963, in cui si possono trovare le indicazioni di al- tra il pubblico prima della guerra e quello del dopoguerra. Cfr. Mariagrazia Fan-
cuni interessanti saggi di Mario Mafai, Renato Guttuso, e altri sulla questione chi, Elena Mosconi (a cura di), Spettatori. Forme di consumo e pubblici del ci-
realista. Interessante, anche se limitato al mondo dell’arte, il saggio di Curzio nema in Italia 1930-1960, Edizioni di Bianco & Nero-Marsilio, Roma-Venezia,
Maltese, Vicende e problemi del realismo in Italia, «La Biennale di Venezia», 46- 2002, p. 9.
47, dicembre 1962. Si veda anche il mio Alberto Cavalcanti e il “documentario 5. Sull’Istituto LUCE e la propaganda fascista si veda Mino Argentieri, L’occhio
narrativo”: il ruolo della tradizione documentaristica nella formazione del ci- del regime, Bulzoni, Roma, 2003 (I ed. L’occhio del regime. Informazione e pro-
nema neorealista, «Bianco e Nero» n.s., 567, maggio-agosto 2010, versione an- paganda nel cinema del fascismo, Vallecchi, Firenze, 1979).
teriore del presente capitolo. 6. Cfr. Gilles Deleuze, Oltre l’immagine-movimento, in Id., Cinema 2. L’imma-
2. Come recentemente ha fatto notare Francesco Casetti, il cinema rappresenta gine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989.
il vero occhio del XX secolo, non semplicemente come mezzo di rappresenta- 7. Nel recensire Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Barbaro scrive: «Il
zione, ma – aspetto più importante – nella maniera di influenzare il modo in cui filone aureo della tradizione cinematografica italiana, non per fattori esterni ma
le arti guardano alla realtà. Sulla relazione tra cinema e modernità, fuori da per complesse determinanti storiche, è rappresentato dal racconto popolare di
una possibile lunghissima bibliografia, suggerisco Francesco Casetti, L’occhio intrigo intrecciato e condotto con un realismo di carattere prevalentemente vi-
del Novecento. Cinema esperienza modernità, Bompiani, Milano, 2005; Tom sivo; tendenza legata alla tradizione della narrativa e del teatro meridionale
Gunning, The Cinema of Attraction. Early Film, Its Spectator and the Avant- dell’800, i cui più alti campioni sono naturalmente Verga e Di Giacomo, ma la
Garde, «Wide Angle», 3-4, autunno 1986, pp. 63-70; Miriam Hansen, America, cui origine potrebbe farsi risalire fino alla pittura del Seicento, istaurata nel-
Paris, the Alps: Kracauer (and Benjamin) on Cinema and Modernity, in Leo Char- l’Italia Meridionale dal genio fulmineo di Caravaggio e dai suoi grandi seguaci
ney, Vanessa R. Schwartz (a cura di), Cinema and the Invention of Modern Life, Velasquez Preti e Battistello e volgarizzata, attraverso ai Ribera e alle presciate
University of California Press, Berkeley, 1995, pp. 362-402. di Luca Giordano, fino agli Aniello Falcone, Micco Spadaro, e magari Dullino, De
3. Si veda Ennio Di Nolfo, Intimations of Neorealism in the Fascist Ventennio, in Nittis e Toma». Umberto Barbaro, La VII Esposizione di Venezia, «Bianco e Nero»,
Jacqueline Reich, Piero Garofalo (a cura di), Re-Viewing Fascism. Italian Cinema 9, settembre 1939, pp. 6-7.
1922-1943, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 2002, p. 83. 8. Cfr. Alberto Cavalcanti, Documentari di propaganda, «Bianco e Nero», 10, ot-
4. Sui molti elementi di continuità politica e ideologica tra periodo pre e post tobre 1938, pp. 3-7.
bellico, gli storici hanno scritto ampiamente negli ultimi tempi. Lo studio più ap- 9. Sul nesso fiction/non-fiction si vedano le bibliografie in Gary Don Rhodes,
profondito e perspicace resta probabilmente ancora quello di Claudio Pavone, John Parris Springer (a cura di), Docufictions. Essays on the Intersection of Do-
Una Guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Borin- cumentary and Fictional Filmmaking, McFarland & Co., London, 2006, e in Ale-
ghieri, Torino, 1991. Sulla questione della mancata epurazione della classe in- xandra Juhasz, Jesse Lerner (a cura di), F Is for Phony. Fake Documentary and
tellettuale e dirigente nel paese si veda Lamberto Mercuri, L’epurazione in Italia, Truth’s Undoing, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2006.
L’Arciere, Cuneo, 1988, e Hans Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in 10. Riassume bene questo momento storico Steven Ricci, Cinema and Fascism:
Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 2008. Per quanto riguarda gli studi sul ci- Italian Film and Society, 1922-1943, University of California Press, Berkeley,
nema, Alan O’Leary ha brillantemente riassunto le questioni in gioco: «L’asser- 2008, p. 60, citando da Il cinematografo e il teatro nella legislazione fascista, Co-
zione di una definitiva rottura tra il cinema dell’epoca fascista e quello che lombo, Roma, 1936.
seguì la guerra è stata regolarmente messa in dubbio a partire dagli anni Set- 11. Da un’intervista con Vittorio Carpignano, Roma, maggio 2010.
tanta. La percezione di una rigida divisione tende tuttavia a riaffermarsi. Si po- 12. Adriano Aprà, Primi approcci al documentario italiano, in A proposito del
trebbe suggerire che il breve spazio assegnato al Neorealismo nella Storia del film documentario, Annali I, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e De-
cinema italiano, vol. VII (1945-1948), diretta da Lino Miccichè, separa inevita- mocratico, Roma, 1998, p. 40.
bilmente il momento neorealista da quello che lo precede. Più generalmente, 13. Cfr. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone del-
molti mantengono con tenacia queste radici ideologiche nell’insistere che il ci- l’amore” a “Ossessione”, Laterza, Bari-Roma, 2009, p. 353, e Ben-Ghiat, Fascist
nema della nascente democrazia e repubblica è eticamente ed esteticamente di- Modernities. Italy, 1922-1945, cit., p. 47.
stinto da quello prodotto da o sotto il Fascismo. Al contrario, l’affidare al 14. Cfr. Paul Rotha, Movie Parade, «Bianco e Nero», 1, gennaio 1937, pp. 107-
Neorealismo la posizione di cuore del cinema italiano ha l’effetto paradossale 110 (traduzione della prefazione di Movie Parade, The Studio Ld., London, 1936).
di sostenere che qualunque cosa di qualità, compreso ciò che venne prima, sia 15. Cfr. Stefania Parigi, Le carte d’identità del Neorealismo, in Bruno Torri (a
derivata per moto centrifugo da esso». Alan O’Leary, After Brunetta: Italian Ci- cura di), Nuovo Cinema (1965-2005). Scritti in onore di Lino Miccichè, Marsilio,
nema Studies in Italy, 2000 to 2007, «Italian Studies», 2, autunno 2008, p. 284. Venezia, 2005, pp. 82-83.
Questa continuità è riaffermata in modo convincente dallo scrupoloso studio di 16. Così Elizabeth Sussex riporta le parole di Cavalcanti: «L’unica differenza fon-
Mariagrazia Fanchi ed Elena Mosconi sul pubblico italiano, nel quale si sostiene damentale era che io sostenevo che documentario fosse una denominazione
l’esistenza di un continuum “spettatoriale”, nei termini di esperienza visuale, sciocca [...]. Ebbi una conversazione molto seria con Grierson nei primi, rosei
22 23
giorni a proposito dell’etichetta documentario poiché io ritenevo che andasse «Bianco e Nero», 6, giugno 1938 (ed. or. A Grammar of the Film. An Analysis of
chiamata, in modo abbastanza divertente (è solo una coincidenza, ma ha fatto Film Technique, Faber and Faber, London, 1935). Una nota di colore: il capitolo
fortuna in Italia), Neorealismo. La risposta argomentata di Grierson – e me lo ri- intitolato Origin of the Documentary Movement in the Class Struggle è tradotto
cordo davvero bene – fu giusto ridere e dire: “Tu sei un personaggio davvero in- in italiano omettendo il riferimento alla lotta di classe, e nel testo, in luogo
nocente. Devo accordarmi con il Governo, e la parola documentario li impressiona della sigla URSS, si impiega il vocabolo Russia.
come qualcosa di serio”». Elizabeth Sussex, Cavalcanti in England, «Sight and 30. Cfr. Giulio Cesare Castello, Claudio Bertieri (a cura di), Venezia 1932-1939.
Sound», 4, autunno 1975, poi in Ian Aitken (a cura di), The Documentary Film Filmografia critica, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1959, p. 120.
Movement: an Anthology, Edinburgh University Press, Edinburgh, 1998, p. 188. 31. Per un’analisi di questi filoni rimando senz’altro all’esaustivo capitolo Un re-
17. Cfr. Argentieri, L’occhio del regime, cit., p. 198. gime in luce dal volume di Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano.
18. Umberto Barbaro, Neorealismo e realismo II. Cinema e teatro, a cura di Gian Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia, 2008.
Piero Brunetta, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 474. 32. Cfr. Pietro Francisci, Del “puro” e del “romanzato” nel documentario, «Ci-
19. V. L., Camicia nera, «Scenario», 3, marzo 1933, poi in Elaine Mancini, Strug- nema», 159, 10 febbraio 1943.
gles of the Italian Film Industry during Fascism, 1930-1935, UMI Research Press, 33. È interessante che Brunetta scriva: «Uomini sul fondo ricalca nella sua strut-
Ann Arbor, Michigan, 1985. tura iniziale – forse senza saperlo – i documentari inglesi del GPO realizzati negli
20. An., Note, «Bianco e Nero», 2, febbraio 1940, p. 67. anni ’30 sotto la direzione di John Grierson (tipo North Sea by H. Watt)». Bru-
21. Cfr. Ian Aitken, Alberto Cavalcanti. Realism, Surrealism and National Ci- netta, Il cinema italiano di regime, cit., p. 137. Credo che grazie al ruolo di Ca-
nema, Flick Books, Trowbridge (Wiltshire), 2000. valcanti si possa limare quel forse.
22. Aprà nota giustamente che è proprio «l’assenza di commento [...] il segnale 34. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films,
di un’ambizione d’autore». Aprà, Primi approcci al documentario italiano, cit., p. Da Capo Press, New York, 1998, p. 67.
44. In una conversazione con chi scrive, Carpignano ricordava il senso di op- 35. E bisogna anche ricordare che il direttore della fotografia del film, Ivo Pe-
pressione provato ascoltando lo “speakeraggio” dei cinegiornali LUCE. rilli, fu a seguito nel team degli autori sia di Riso amaro sia di Europa ’51 (1952)
23. Cfr. Paul Swann, The British Documentary Film Movement, 1926-1946, Cam- di Rossellini.
bridge University Press, Cambridge, 1989, pp. 85-86. 36. Cfr. André Bazin, Che cosa è il cinema?, a cura di Adriano Aprà, Garzanti, Mi-
24. Ivi, p. 86 (mia traduzione). lano, 1973 (ed. or. Qu’est-ce que le cinéma?, 4 voll., Éditions du Cerf, Paris, 1958-
25. Ivi, p. 88 (mia traduzione). 1962).
26. «Cavalcanti una volta contattò via cablogramma David MacDonald, un re- 37. Cfr. Franco Venturini, Origini del neorealismo, «Bianco e Nero», 2, febbraio
gista “commerciale” che era stato portato alla direzione di Men of the Lightship 1950.
(1940), per dirgli di rigirare l’intero metraggio “per nulla convincente” in cui
aveva impiegato attori professionisti, mentre quello che aveva girato con per-
sone reali era “splendido”». Ivi, p. 163 (mia traduzione).
27. La lista di studenti iscritti o affiliati al Centro Sperimentale nel 1940 è piut-
tosto interessante: Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Stefano Van-
zina (Steno), Gabriel García Márquez, Pasqualino De Santis, Gianni Di Venanzo,
Pietro Germi, Dino De Laurentiis, Pietro Ingrao, Francesco Pasinetti. Tra gli in-
segnanti: Barbaro, Blasetti e Pietro Sharoff.
28. «L’uomo di Aran, per citare uno dei migliori documentari che si conoscano,
non vale tanto per l’illustrazione delle condizioni di vita che ci offre di un certo
conglomerato umano, o per la conoscenza che ci comunica della struttura geo-
logica di una certa isola; ma per il valore artistico di questa, diciamo pure, do-
cumentazione. Come converrà chi ricordi, in esso, la scena del bambino che si
avvicina allo strapiombo sul mare della cui profondità ci fa indirettamente av-
vertiti il grido del gabbiano, o le scene straordinarie della faticosa raccolta di
un po’ di terra per le future povere culture. Tali che la visione dell’isola e dei suoi
abitanti merita per noi la qualifica non di trattato ma di lirica». Umberto Bar-
baro, Piccola storia del film documentario in Italia, «Quadrivio», 45, 7 settembre
1936, p. 366.
29. Cfr. Raymond Spottiswoode, Una grammatica del film, numero speciale di
24 25
I primi esperimenti di documentario narrativo

Sugli inizi del cinema di Roberto Rossellini nella Roma fascista si è scritto
ampiamente e in maniera esaustiva soprattutto grazie alle biografie degli ul-
timi anni. Gianni Rondolino e Tag Gallagher, tra gli altri, hanno ricostruito
puntigliosamente gli esordi non proprio nobili di un giovane un po’ scape-
strato che sembra avvicinarsi all’industria cinematografica quasi per caso. In
pochi però notano che la carriera di Rossellini inizia e finisce con il cinema
documentario. Dall’ultimo, elegiaco e realista, film documentario sul museo
Beaubourg di Parigi, ai primissimi esperimenti con il cinema della natura,
Rossellini mostra un continuo interesse per questo genere, percepito come
una via didattica di investigazione della realtà parallela al lavoro di finzione.
Se è vero, come scrive Adriano Aprà, che il documentario italiano ha sofferto
la pesante eredità documentaristica del neorealismo, lo stesso non si può
dire per Rossellini, che abbandona il provincialismo della scena romana fin
da subito. Con Viaggio in Italia (1954) comincia l’avventura modernista del
cinema, almeno secondo André Bazin, che allinea il film di Rossellini al
primo lungometraggio di Agnès Varda, La Pointe-Courte (1955), nella loro
«semplicità avanguardistica»1, ma anche l’avventura del regista fuori dal ci-
nema italiano, che comincia con la scoperta graduale dell’alterità. E proprio
la comprensione dell’altro, i conflitti provocati da questa dialettica psicolo-
gica e ideologica sono al centro del suo cinema a venire. Affrontati sia in ter-
mini comici, come il soldato afroamericano ubriaco di Paisà (1946) o i
fraticelli di un altro mondo nel Francesco giullare di Dio (1950), sia nei
drammi del rapporto di coppia di Stromboli (1950) o Europa ’51 (1952). Il
lungo viaggio di Rossellini alla scoperta dell’altro trova nel documentario un
Fantasia sottomarina alleato importante. Soprattutto nel momento in cui il regista decide di dedi-
carsi interamente al cinema come caméra-stylo, e, insieme ai suoi amici pa-
rigini, l’etno-antropologo Jean Rouch e il suo giovane assistente François
Truffaut per primi, di portare la macchina da presa in giro per il mondo.

«Fantasia sottomarina»
La carriera documentaristica di Rossellini comincia a Ladispoli, nella villa
< di famiglia, dove il regista fa costruire un acquario in cui inventa una fa-
27
vola di pesci innamorati. Fantasia sottomarina, prodotto dalla INCOM (In-
dustrie Corti Metraggi), esce sugli schermi romani in anteprima il 12 aprile
1940, ma è senz’altro da attribuirsi agli anni precedenti: del ’38, secondo
Gallagher e Rondolino (e di sicuro non sono valide le tesi di un film ante-
riore dato che la INCOM di Sandro Pallavicini fu fondata proprio nel 1938).
La compagnia di Pallavicini era non solo interessata a svecchiare il docu-
mentario tradizionale LUCE, con la sua pesante e didattica voce narrante, ma
anche a promuovere i nuovi documentari narrativi. Mentre per lo spetta-
tore contemporaneo Fantasia sottomarina sembra in effetti eccessivamente
“parlato”, la critica dell’epoca ne aveva percepito una storia fatta di «og-
getti, animali, paesaggi»2. Situazione a dire il vero paradossale se si pensa
che l’INCOM era stata voluta da Luigi Freddi nel 1938 proprio perché non
soddisfatto «dello spirito non totalmente allineato del Luce»3.
Fantasia sottomarina inizia a pieno ritmo con l’orchestrazione di Edoardo
Micucci; la musica non è particolarmente originale, più un pastiche di
motivetti tra il classico e il pop. I titoli di testa scorrono sull’inquadratura
fissa di un fondale marino (in realtà sappiamo che si tratta dell’acquario
costruito sul tetto della casa della compiacente Zia Forzù). «C’era una
volta, così cominciano tutte le fiabe, e così possiamo cominciare anche
noi…», racconta lo speaker Guido Notari con voce allenata nell’italiano
standard dell’epoca, ma senza l’enfasi fascista così comune nei cinegior-
nali. Il tono è infatti quello familiare, e amichevole, di chi si rivolge a un
gruppo di bambini. Le prime inquadrature di pescetti che si muovono qua
e là sono accompagnate da sviolinate con tocchi ad archetto ampio. Com-
pare poi «un saraghetto giovane e vivace» che va a fare la sua passeg-
giata per incontrare la sua bella. Ma appare uno scorfano e la musica si
fa più rapida. Poi compare «un’insidia gastronomica», è l’esca di un pe-
scatore. Il saraghetto «sventa l’insidia con un colpo di coda», soprattutto
per salvare i suoi compagni meno scaltri. L’accompagnamento musicale si È stato proprio Vittorio Carpignano, in un colloquio con chi scrive, a

Fantasia sottomarina
fa cupo: appare un polpo (ed entra in inquadratura dall’alto, probabil- far notare la grande rivoluzione INCOM in termini di suono, e in parti-
mente lanciato dentro la vasca senza troppi complimenti). Comincia la colare l’uso della voce narrante. O addirittura, come nel suo T.O. [Treno
danza macabra e il sarago è agguantato da un tentacolo. Si libera, ma in- Ospedale] 34 (1941) la totale assenza del commento, lasciando invece
vece di allontanarsi provoca il polpo: «vuole avere l’ultima parola», ci dice la storia alle voci dei protagonisti. Lo stesso si può vedere nel suo suc-
la voce narrante. Il sarago si allea con una murena, che attacca il polpo. cessivo Noi mondine, sempre del 1941, in cui la voce narrante è quella
Qui comincia una cruenta battaglia, la musica si fa più rapida e concitata, di una mondina (o presunta tale) che parla con toni dialettali in prima
ma il combattimento è reale. Ne risulta un momento voyeuristico abba- persona del duro lavoro nei campi. La sensibilità INCOM dei vari Dome-
stanza forte, che l’effetto favolistico generale non basta ad attenuare. Bi- nico Paolella, Pallavicini, Pietro Francisci, si vede anche nel cortome-
sogna organizzare i rinforzi: il montaggio già molto veloce si fa ora traggio di Corrado D’Errico Milizie delle civiltà (1941), film
incalzante, il sarago usa le antenne dell’aragosta per mandare il suo mes- assolutamente celebrativo del regime, dedicato alla costruzione della
saggio. Accorre una seconda murena «che si getta a pesce» contro il polpo. Terza Roma, il quartiere EUR, in cui pur nel delirio di carrelli riefensta-
È solo con l’assalto di gruppo che il polpo molla la presa e cerca di scap- hliani il regista riesce a infilare un toccante momento di realismo dando
pare, «poi esausto non vede un roccione, vi picchia la testa e cade esau- voce ai vari dialetti degli operai del cantiere. La scelta di Notari per il
sto». Finita la battaglia si ritorna sul saraghetto, ora «triste perché è solo». film di Rossellini è da considerarsi una strategia doppiamente interes-
E il suo dolore è ancora più cocente alla vista di due seppie che amoreg- sante. Da una parte questa è la voce ufficiale dei cinegiornali LUCE prima
giano. Ma ecco che ritrova la sua innamorata. I violini riprendono il loro e de La Settimana Incom poi. Dagli anni ’20, e poi per tutto il venten-
andamento romantico e lo speaker può affettuosamente dichiarare che nio del regime, è questa voce cadenzata ma senza alcun riconoscibile
anche questa «come tutte le fiabe si conclude serenamente». accento dialettale a rappresentare sul serio la voce del padrone: affa-
28 29
regno animale e una fascinazione mesmerica di fronte alla pura bellezza
dei corpi acquatici in movimento. In Rossellini questa gioia dell’investiga-
zione è invece solo il primo passo verso la costruzione della storia, le con-
catenazioni della narrazione e, non ultima, l’allegoria favolistica.
Un altro grande precursore di cinema del regno animale, anch’egli mai
accostato a Rossellini, è Roberto Omegna, figura interessantissima del
panorama italiano d’inizio secolo e ancora poco studiata. Nato a Torino
nel 1876, cugino di Guido Gozzano, fonda prima il cinema Edison a To-
rino e poi la casa di produzione Ambrosio. Nel 1926 si unisce al LUCE
dove continua la sua produzione di film scientifici: il suo Uno sguardo al
fondo marino (1936) è premiato alla Mostra di Venezia. Sul ruolo sen-
z’altro poco ortodosso di Omegna, ancora anni dopo la sua morte nel
1948, si dibatteva sul valore della sua opera. Se Fernando Cerchio (grande
innovatore “realista” del cinema italiano) elogia nel 1940 Il pioniere Ome-
gna7, nel 1948 «Cinema» nuova serie ne pubblica L’ultima intervista8, sot-
bile, paterna, ma allo stesso tempo stentorea e sicura di sé. Notari è il tolineandone però l’estrosità piuttosto che lo spirito innovatore di
Fantasia sottomarina

golden standard dell’italiano fascista. filmmaker, la stranezza di una bizzarra carriera piuttosto che il realismo
Di sicuro Fantasia sottomarina rientra in pieno nel filone che si è creato con magico dei suoi film.
i nuovi documentari di ispirazione anglosassone (tra Robert J. Flaherty e il Con la INCOM nasce, come si è detto, il cortometraggio piuttosto che il do-
GPO [General Post Office] di Alberto Cavalcanti). Ma altre chiare matrici sono cumentario. Sotto la direzione di Pallavicini e del suo assistente Paolella,
visibili. Una storia di pesci antropomorfizzati non può non ricordare i film l’INCOM prende una strada nuova e interessante: negli anni che vanno dal
“biologici” di Jean Painlevé, di cui forse Rossellini aveva avuto occasione ’38 fino al ’43, si fa carico di svecchiare il documentario italiano, in dire-
di vedere qualcosa. I film di Painlevé erano infatti spesso alla Mostra Inter- zione di una forma più aperta dal punto di vista ideologico, e introduce
nazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: nel ’35 il suo capolavoro la narrativa di fiction alla Flaherty e Cavalcanti. Insomma, il documenta-
L’hippocampe (1934), il film sui cavallucci marini che gli donò la prima rio narrativo, che conta anche i primi lavori di Rossellini, rientra dal punto
grande popolarità, poi nel 1936 Voyage dans le ciel e nel 1938 Barbe-bleue4. di vista ideologico in quel filone di “realismo fascista” identificato da Ruth
Come Painlevé, Rossellini aveva una naturale passione per le innovazioni Ben-Ghiat nel suo Fascist Modernities di cui abbiamo parlato nel primo
tecnologiche in campo cinematografico (tutti ricordano l’invenzione per capitolo di questo volume9.
Era notte a Roma, 1960, del pancinor, un sistema di zoom telecomandato Ma torniamo al film, Fantasia sottomarina. È una metafora politica, come
che permetteva al regista di zoomare senza guardare in macchina). La so- dice Renzo Rossellini jr., in cui il polpo è il fascismo e il saraghetto e gli
miglianza tra le antropomorfizzazioni di Painlevé e quelle di Rossellini, sia altri pesci che vengono in suo soccorso sono l’opposizione antifascista?
in Fantasia sottomarina che nei successivi Il ruscello di Ripasottile – rea- O è solo una metafora sulla prepotenza? O forse l’opposto, un’allegoria sui
lizzato probabilmente nel 1940, uscito in sala nel maggio 19415 e recente- tentacoli del comunismo? O una storiella d’amore con sfondo gangstere-
mente ritrovato dalla Cineteca di Bologna – e La vispa Teresa (sempre del sco, un’americanata “animalesca” dove ai bassifondi di New York si so-
’40), è notevole. Rimane comunque interessante notare come lo stigma cro- stituiscono i fondali marini dell’acquario di Ladispoli? Un’influenza forte
ciano di non-arte per quel che riguarda Painlevé resista in Italia ben oltre su questo e altri corti biologici successivi è senz’altro l’allora già domi-
il dopoguerra. Glauco Viazzi non solo nega ogni valore artistico ai suoi nante modello disneyano di antropomorfizzazione animata. In un certo
film, ma li accusa di vero e proprio fallimento anche nel puro ambito della senso Rossellini rinegozia il valore del cartoon americano sostituendo il
ricerca scientifica6. Data l’atmosfera, non sorprende che nessuno, forse ne- segno stilizzato e quindi reso innocuo da Walt Disney con la cosa vera (gli
anche Rossellini, fosse interessato a genealogie pericolose, e senz’altro poco animali in carne e ossa). Qui la realtà dei corpi animali aggiunge un certo
nobili. Di sicuro non troviamo traccia di Painlevé nei suoi scritti, né il re- elemento perturbante alla storia. Che dovrebbe essere solo una favola, ma
gista francese viene menzionato nelle numerose biografie rosselliniane. diventa un dramma di animali veri. Non c’è un the making of di questi
Piuttosto che giocare troppo sulle ipotesi storiche, si possono notare delle film, un breve “dietro le quinte” come succede nei DVD oggi giorno, ma esi-
differenze importanti: Painlevé era un regista subacqueo, e le riprese erano stono aneddoti che, anche se inevitabilmente si concentrano sui fatti fol-
tutte realizzate in mare aperto con macchine da presa appositamente pre- klorici (la zia Forzù, proprietaria della villa, il “domatore” di uccellini,
parate e adattate. Il motore artistico in Painlevé è la forte curiosità biolo- protagonista umano di Ripasottile ecc.), mostrano interesse verso aspetti
gica nel materiale filmato, un’ossessione certosina per i dettagli bizzarri del del mondo animale rinchiuso, diciamo così, nella prigione degli uomini.
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Se questo aspetto in Fantasia sottomarina e in Ripasottile si rivela al pub- da notare inoltre che questa volta Rossellini lavora con la Excelsior-SACI
blico solo grazie alle note di produzione, ne La vispa Teresa diventa pa- (Società Anonima Cinematografica Italiana). Grazie al successo di Luciano
lese. Rossellini è solo parzialmente interessato al mondo animale, quanto Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, a cui Rossellini aveva colla-
piuttosto alle zone di incontro tra animale e umano. Ciò si vedrà bene borato come sceneggiatore e aiuto regista, il produttore Franco Riganti
molti anni dopo, nel biennio 1957-1958, durante il suo viaggio in India, (già patron dell’ACI [Anonima Cinematografica Italiana]), fonda a nome
in cui l’elemento di discontinuità animale-umano diventa il catalizzatore della sorella Elisabetta Riganti la casa di produzione Excelsior. Il film
della poetica “biologica” di Rossellini. Se Disney è interessato ad antro- segue nelle modalità il lavoro di Fantasia sottomarina, anche se è certa-
pomorfizzare, Rossellini “animalizza” la vita dell’uomo portando alla luce mente più complesso non tanto nella struttura narrativa (mantiene infatti
le zone e il modo del contatto. In Fantasia e in Ripasottile questo aspetto il tono da favola disneyana), ma nei più complicati passaggi tecnici. Piut-
rimane solo al livello di produzione, con il trasporto del mare nell’acqua- tosto che in un semplice acquario, il film è stato girato in esterni, e com-
rio sul terrazzo e gli effetti speciali dentro l’Istituto Ittiogenico, ma si fa pare anche un personaggio umano, il pescatore (ritroveremo gli umani ne
più chiaro con La vispa Teresa (la presenza fisica dell’essere umano come La vispa Teresa).
invasore) e ne Il tacchino prepotente (1940), che ha come set l’aia di una Con il sottotitolo Una favola cinematografica di Elisabetta Riganti e con
fattoria. Non sorprende allora la grande passione di Rossellini per la pesca il marchio Excelsior-SACI, il film è accompagnato da disegni di animali
e per le immersioni. Tra i vari aneddoti su questo c’è l’incontro nel 1929 (un coniglio, un uccello sul ramo), da musiche di Gino Filippini (erronea-
con tre biologi giapponesi che lavoravano nella baia di Napoli10 e che mente identificato da Gallagher come “Ugo” Filippini, e tralasciato da
Rossellini segue per un certo periodo nelle loro immersioni. Roncoroni, che accredita Umberto Mancini) e dalla fotografia di Rodolfo
Lombardi.
«Il ruscello di Ripasottile» L’incipit ricorda quello di Fantasia sottomarina: «C’era una volta un ru-
Muovendoci con rispetto cronologico, si assegna a Il ruscello di Ripasot- scello…». Si comincia subito con un informatore: la rana, che racconta a
tile il secondo posto tra i primi documentari biologici di Rossellini (esclu- una cornacchia i misteri di ciò che succede in fondo al ruscello. La coppia
dendo da questo conteggio il mai completato Dafne/Prélude à l’après-midi di persici ha deposto le uova, e la rana è felicissima di darne notizia. La mu-
d’un faune). Per anni considerato perduto, ne è stata ritrovata una parte sica si fa jazzata e qui abbiamo una serie di inquadrature di uccelli sugli
(m. 228 su m. 314) nella cabina e nella platea di una sala cinematografica alberi. Secondo i biografi Rossellini aveva assunto un artista di strada in
abbandonata di Palmi, in Calabria. Il film era stato separato in un centi- piazza Vittorio a Roma, che lavorava con degli uccelli ammaestrati13 al
naio di spezzoni ora molto danneggiati dall’umidità. Secondo Stefano rivo nei pressi di Palidoro, non lontano dalla villa di Ladispoli. Dorme il pe-
Roncoroni, Il ruscello di Ripasottile è stato girato in esterni in un ruscel- scatore, e la voce narrante ricorda che «gli uomini svegli sono pericolosi».
letto vicino a Palidoro, località situata nel retroterra di Ladispoli, e in in- Ma il vero problema sorge quando «la perfida trota» riesce a catturare una
terni all’Istituto Ittiogenico di Roma. La storia è questa: a monte del conversazione tra un uccellino e una tartaruga un po’ sorda. Le trote si
ruscello di Ripasottile sono nate delle trote, il documentario comincia ap- precipitano, vincendo la corrente contraria. È questa la scena girata in una
punto con una scena delle uova che si aprono ed escono fuori dei pe- vasca dell’Istituto Ittiogenico, con un interessante trucco. Nato nel 1895
sciolini, girata all’Istituto Ittiogenico; la notizia si diffonde tra tutti gli nell’immobile di un antico saponificio, lo stabilimento romano era un cen-
animali del ruscello e anche tra quelli del bosco e della campagna circo- tro specializzato in pescicoltura con un interessante percorso museale tra
stanti. La cornacchia lo dice ad altri uccellini che lo dicono alla tartaruga, vasche e vetrine sull’allevamento dei pesci. Per girare la scena delle trote
alle anitre, alle lepri e così via fino a che lo vengono a sapere anche le tigri che in massa si precipitano verso il pranzo, Rossellini – secondo Ronco-
del ruscello, quei voraci pesci di acqua dolce che sono le trote, le quali co- roni14 – creò una forte corrente nelle vasche, istigando le trote a “risalire”,
minciano a risalire il ruscello per andare a mangiare i piccoli nati. Se- come di loro natura, la corrente. Questi piccoli trucchi sono forse poca cosa
nonché, pentiti di aver dato con la loro gioia quella ghiotta notizia alle di fronte agli effetti speciali attuali, eppure funzionano a meraviglia! La
trote, tutti gli animali dell’acqua, del bosco, della campagna si ribellano lepre diffonde l’allarme dell’attacco, e tutti accorrono, incluse la lumaca e
ed «organizzano una spedizione contro questi pescecani»11. «Tutti gli abi- la coccinella. Forse proprio a questa scena si riferisce Federico Fellini15
tanti dell’acqua, della terra e del cielo si coalizzano per impedire tale ec- quando racconta di aver visto Rossellini, in studio (Fellini parla di Cinecittà,
cidio. Un pescatore, che si è addormentato sulle rive del ruscello, viene ma si trattava invece degli studi Excelsa), girare un film di insetti. Gli ul-
destato dagli uccellini proprio in tempo, perché, tirando la rete, possa cat- timi metri del film sono profondamente mutilati: capiamo che gli uccellini
turare tutte le trote. La pace ritorna nella famiglia dei persico, con grande svegliano il pescatore sperando nel suo aiuto per mettere fine alla strage
giubilo della natura circostante»12. degli innocenti. Il film si interrompe bruscamente, ma come già per Fan-
Gallagher riporta che il film era nato con alcuni titoli provvisori: Anche tasia sottomarina, il buon fine sembra assicurato. Addirittura con l’inter-
i pesci parlano (troppo “fotoromanzo”), I pesci a congresso (troppo dotto); vento, forse inconsapevole, di un essere umano.
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«La vispa Teresa» come Romoletto a capo della sua ghenga di
Il tono da favola per bambini de La vispa Teresa è immediatamente chiaro monelli-partigiani. L’inquadratura è una pa-
dai titoli di testa, scritti in bella calligrafia su una lavagna, accompagnati noramica da sinistra a destra e poi dal basso in
da disegni infantili: la fotografia di Mario Bava è identificata da una sti- alto di circa 50 secondi (la più lunga del fim),
lizzata telecamera, la regia di Rossellini da un megafono. È questo il se- dove è evidente, oltre alla storiellina raccon-
condo cortometraggio per la Scalera Film, realizzato proprio negli studi tata dalla voce di commento, un vero interesse
della casa di produzione sulla circonvallazione Appia. Si comincia su per il movimento dell’insetto, la sua lotta per
primi piani di insetti mentre la solita voce di commento quasi sussurra che arrivare a risalire una protuberanza del ter-
«un praticello... è una folta foresta per i minuscoli insetti»16. Come nei reno, la fatica di muoversi tra i sassi. La voce
corti precedenti, la pace dello status quo è rotta da un intervento esterno. lascia campo a momenti di bella poesia:
In questo caso «è il rombo del passo spietato di un uomo». Si tratta di un quando il coleottero entra in scena (l’inqua-
commento in versi, letto a mo’ di poesia per bambini, e la scelta lingui- dratura ravvicinata lo fa sembrare un piccolo
stica vuole ovviamente prefigurare le rime della poesiola che porta lo rinoceronte) una nota bassa del pianoforte è
stesso titolo. Il polpo prima, le trote poi, qui l’intervento umano: sembra l’unico commento offerto.
che i film di Rossellini vivano nel terrore dell’intrusione e dell’invasione Ma ecco la bambina Teresa vista dalla pro-
di un mondo altrimenti edenico e perfetto. È chiaro che questi sono gli spettiva degli insetti: è un mostro altissimo e
echi della guerra allora alle porte, e non è una sorpresa che la trilogia incomprensibile. È proprio il coleottero a diri-
della guerra fascista – La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e gere l’attacco verso le scarpe della bambina, e
L’uomo dalla croce (1943) – riprenda di lì a poco proprio questo modello gli insetti assumono formazioni di guerra. In
narrativo. Alla catastrofe subentra un’azione collettiva che ristabilisce un momento surreale le scarpe gigantesche
l’ordine, almeno temporaneo. della bambina sono viste dalla prospettiva
Nel 1940 Rossellini sta ovviamente sperimentando con forme narrative degli insetti (come nel museo irreale di Ilya ed
diverse, ma senz’altro tese al cinema della realtà. La semplicità narrativa Emilia Kabakov). La farfalletta supplica di es-
di questi primi documentari, se da una parte riduce la possibile comples- sere liberata, la filastrocca dice «Deh, lasciami,
sità della trama e l’ipotesi di ogni enigma narrativo, dall’altra apre la porta anch’io sono figlia di Dio», mentre un coro di
al cinema dal vero, cioè all’analisi e alla contemplazione della natura. Si bambini ripete che Teresa lasciò la presa e
nota infatti, tra Fantasia sottomarina e La vispa Teresa, un diverso rap- quella «fuggì, fuggì, fuggì». Il film appare
porto con l’antropomorfizzazione del regno animale, allora di moda, se si monco della parte finale, ma si è giusto in
pensa alla favola disneyana allora (come ora) così popolare. Mentre Fan- tempo per una serie di primi piani dei prota-
tasia usa gli animali come controfigure di personaggi in carne e ossa (o gonisti: lumaca, farfalla, bruco, coleottero
disegnati!), e l’antropomorfizzazione è al cuore della vicenda, qui vediamo hanno la loro passerella finale. La vispa Teresa è senz’altro il più surrea-

La vispa Teresa
una comunità di animali certo ancora alle prese con problemi umani (il lista dei primi film di Rossellini, e anche il più complesso sia per realiz-
ratto degli innocenti, o qualcosa del genere), ma a cui sembra data più li- zazione che per ambizione artistica. L’uso del suono, pur essendo sempre
bertà d’azione. Mentre in Fantasia sembra proprio che sia la voce nar- doppiato, si muove con più scioltezza tra voce di commento e colonna
rante a fare da padrona, qui, nonostante questa rimanga essenziale per sonora grazie al riff sulla poesiola per bambini che ispira la storia.
l’avanzamento della trama, le inquadrature si fanno più mosse (frequenti
le panoramiche che accompagnano gli animali nei loro movimenti natu- «Il tacchino prepotente»
rali) e si allungano oltre i pochi secondi di Fantasia. I titoli sono scritti con pallini neri, e la scopa che dovrebbe spazzarli via
Come per esempio quando si scopre che «il nostro uomo è in questo caso fa sì che invece, grazie a un trucco, li faccia comparire. La scopa prefigura
una bambina che corre con uno strano aggeggio in mano». Ricomincia il quella che servirà per liberarsi del tacchino prepotente. La formula è la so-
gioco della comunicazione con le antenne: prima erano le aragoste, qui lita: «C’era una volta un tacchino che tiranneggiava galli, galline, anatre,
sono le chiocciole a tecnicizzarsi per avvertire del pericolo imminente. Il oche». La scena comincia nell’aia, con il tacchino che «ordina la ritirata».
tema della comunicazione dei messaggi è naturalmente al cuore sia della La voce narrante si fa qui più creativa e mima in una specie di stile “li-
trilogia della guerra fascista sia della trilogia della Resistenza (Roma città bero indiretto” (cioè assumendo i toni del soggetto parlante) la voce stessa
aperta, 1945, Paisà, Germania anno zero, 1948). Come la cattura del pri- del tacchino, con un piccolo cambio di tono. Il tacchino manda a letto
gioniero. Teresa ha infatti catturato nella sua rete una farfalletta, e un tutti, incluso il cavallo, «e a una gallina ritardataria dà una severa le-
bruco si incarica di organizzare la resistenza. È il meno atletico del gruppo, zione». Ma la sedizione è dietro l’angolo: due galli si coalizzano e comin-
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saggio dal cinema fascista a quello neorealista è stato meno avventuroso
e catartico di quello che i primi commentatori, ansiosi di pericolose ge-
nealogie, ci hanno voluto far credere20, il passaggio dal cinema biologico
a quello con attori in carne ossa è stato per Rossellini una normale evo-
luzione che ha visto ripetersi temi, tecniche e strategie ben orchestrate.
Come scrive Rondolino, «i documentari animali sono in dialogo con la
propaganda, o meglio si pongono in alternativa dialettica al discorso ege-
monico fascista. Allo stesso modo in cui l’antropomorfizzazione tende a
scemare, e aumenta l’interesse biologico negli animali, così l’aspetto ideo-
logico si fa più forte. Questo si vede bene nel primo lungometraggio La
nave bianca e nella finzione debole del documentario narrativo»21. E così
chiosa Aprà: «A ben vedere, il tema dei tre film di guerra di Rossellini è
analogo a quello dei tre cortometraggi [...]. Si tratta della lotta fra un Da-
vide (la coppia di saraghetti, le farfalle e gli insetti, gli animali da cortile,
le larve dei pesci persico; ovvero il marinaio ferito, il pilota catturato, il
ciano a spiare il tacchino. Scoprono così che di notte, mentre dorme, si cappellano inerme) e un Golia (il polipo, Teresa, il tacchino, le trote; ov-
Il tacchino prepotente

sgonfia e perde la sua imponenza: «È una fatica stare sempre gonfi come vero la violenza della guerra, più che i nemici specifici). I Davide ricercano
un tacchino», commenta la voce. Il mattino dopo il piano, che ha accom- solo la serenità di tutti i giorni attraverso la solidarietà e la tolleranza,
pagnato fino a ora il film con ritmi delicati, si fa nervoso e più jazzato nel- contro chi agisce egoisticamente»22.
l’arrangiamento. Il tacchino è nervoso perché nessuno sembra più Ma è a questo punto che Rossellini incontra Francesco De Robertis. Nato
ascoltarlo. Appena il tacchino molesta una gallina, uno dei galletti lo at- nel 1902, il “comandante” De Robertis, come viene spesso definito, era
tacca. La sedizione e la battaglia hanno inizio. Anche l’altro gallo si av- all’epoca tenente di vascello (poi, dal settembre 1942, capitano di cor-
vicina a dar man forte all’amico. Il tacchino spennato deve ritirarsi. Tutti vetta) e direttore del Centro Cinematografico del Ministero della Marina
gli animali «banchettano inneggiando alla sconfitta dell’oppressore». Ora Militare Italiana, collegato sia al LUCE che alla Scalera Film23. La prima le-
i galli sono i nuovi padroni dell’aia, «e il tacchino è diventato il loro umile zione da De Robertis, Rossellini, almeno secondo Gallagher, l’ha avuta
servitore». nella sua visita sul set di Uomini sul fondo (1941). Di certo possiamo dire
La storia come metafora politica era già presente nel titolo alternativo del che tra i due vi erano già a priori delle consonanze di poetica: interesse
film, La perfida Albione17. Ma a dire il vero basta poco a leggere quel wor- per il gruppo e la comunità, rapporto tra vita civile e vita militare, inte-
king title come una forma di difesa preventiva. Il tacchino gonfio e pen- resse nella tecnologia. Se Uomini sul fondo non è il primo film di Rossel-
nuto può fare riferimento a personaggi più vicini a casa, incluso il lini (come erroneamente qualcuno ancora sostiene), è forse interessante
pettoruto e gonfissimo Capo che allora imperversava nei cinegiornali, che notarne le caratteristiche che poi convoglieranno nel realismo rosselli-
con l’approssimarsi della guerra si facevano ossessivamente monocordi niano.
nella loro perenne celebrazione della nazione guerriera e del suo indi- La nave bianca non è un documentario, e neanche un documentario nar-
scusso leader18. Ma il film, anche nella sua forma allegorica, termina su rativo (e per questo non trova posto in questo volume), ma senz’altro in-
note alquanto tradizionali. I galli, a rappresentare l’ordine naturale delle corpora molti degli elementi che abbiamo incontrato nei film dei vari
cose, riprendono il potere e riportano, come nelle precedenti favole ani- Carpignano, Francisci, D’Errico, e del primo Rossellini documentarista.
mali, lo status quo. Quindi, un fortissimo interesse per il set. Il film è girato quasi interamente
Ai corti realizzati si aggiungono un po’ di titoli che vari commentatori, in esterni, e gli spazi reali sono incorporati nella storia. Da qui deriva
Rondolino e Gallagher in particolare, citano come possibili film, incom- anche l’interesse per il dettaglio, a volte astruso e incomprensibile per il
piuti, o solo progettati. Del 1937 sarebbe Prélude à l’après-midi d’un profano. Questa potrebbe essere una scelta di Rossellini di stare dalla parte
faune, e ci sono alcuni titoli di cui ben poco si sa: La foresta silenziosa, dei sottoposti, i marinaretti che obbediscono agli ordini degli ufficiali a
Primavera, Re Travicello, La Merca. volte senza comprenderne il contenuto. Ma possiamo anche offrirne delle
letture alternative: come in molte serie televisive che infestano i nostri
Il documentario romanzato schermi, dettagli scientifici (che siano medici, legali, burocratici, legisla-
In un’intervista con Mario Verdone, senza remore Rossellini afferma: «Io tivi o scientifici) vengono usati per aumentare l’autenticità dell’esperienza
vedo la nascita del neorealismo […] in certi documentari romanzati di spettatoriale. Il linguaggio da iniziati è un significante dell’accuratezza,
guerra, dove anche io sono rappresentato con La nave bianca»19. Se il pas- dell’oggettività, insomma del “realismo” di quanto vediamo. Ma il lin-
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guaggio oracolare ed esoterico dei personaggi aumenta il livello di aura 11. Stefano Roncoroni, Il “primo Rossellini”, in Edoardo Bruno (a cura di), Ro-
religiosa della diegesi. Siamo, in fondo, nel pieno della mistica fascista berto Rossellini. Il cinema, la televisione, la storia, la critica, Atti del convegno
della macchina, che altro non è che una forma di credo tecnologico nel (16-23 settembre 1978), Città di Sanremo, Assessorato per il Turismo e le Ma-
mito progressivo della modernità. Il mondo del film ci è completamente nifestazioni, Sanremo, 1980, pp. 55-56.
accessibile, e allo stesso tempo assolutamente precluso. Questo sembra es- 12. Piesse, Il ruscello di Ripasottile (Corto metraggio), «Rivista del Cinemato-
sere in linea con gli intenti del film di propaganda: da una parte fare par- grafo», 6, 20 giugno 1941, p. 92.
lare le cose (quale gerarca non ordinava di fare propaganda coi fatti!), 13. Cfr. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, cit., p. 57, e Roncoroni,
dall’altra creare una mistica fascista attorno all’esercito italiano. Si tratta Il “primo Rossellini”, cit., p. 55.
in fondo di quel codice che Roland Barthes, in S/Z, chiama «effetto gno- 14. Cfr. Roncoroni, Il “primo Rossellini”, cit., p. 52.
mico»24, cioè quella conoscenza basata su informazioni pseudocondivise 15. Cfr. Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p. 71.
da un gruppo o una comunità. Questo codice fa parte della narrazione (ne 16. La sceneggiatura desunta de La vispa Teresa è ora in Perduti e ritrovati. Due
parla, per quel che riguarda il cinema, Annette Kuhn25), è un resoconto cortometraggi di Rossellini. “La vispa Teresa” e “Il tacchino prepotente”, sceneg-
degli attributi convenzionali della narrazione cinematografica classica. giature desunte a cura di Marta Teodoro, «Il Nuovo Spettatore. Cinema Video Te-
Quello che impressiona senz’altro ora nel rivedere La nave bianca è l’in- levisione Storia», 1, novembre 1997, pp. 117-145.
teressante tentativo di creare davvero una tensione tra l’immagine docu- 17. Il titolo La perfida Albione non è registrato in alcuna fonte d’epoca, ma
mentaria (come la partenza delle navi all’inizio del film) e la più viene citato come titolo del corto da Massimo Ferrara Santamaria, all’epoca di-
tradizionale storia d’amore che occupa la narrazione. rettore generale della Scalera Film, in una intervista inedita di Aprà realizzata
Sarà nel dopoguerra, e per la precisione nel periodo Bergman, che la dia- il 10 maggio 1987.
lettica dell’Altro, già qui presente, assumerà forme conflittuali: gli oppo- 18. Come ben scrive Mino Argentieri in L’occhio del regime, Bulzoni, Roma,
sti inclusione/esclusione, individuo/comunità, sé/altro diventeranno il 2003, p. 87.
centro dell’analisi artistica, psicologica e ideologica del suo cinema. È in- 19. Roberto Rossellini, Mario Verdone, Colloquio sul neorealismo, «Bianco e
fatti la straniera Ingrid Bergman ad aprire a Rossellini il dubbio sulla na- Nero», 2, febbraio 1952, ora in Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e inter-
tura “immaginata” delle comunità (per usare la definizione di Benedict viste, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, Venezia, 1987, p. 85.
Anderson26) e la sua attuazione. Questi sintomi di sbriciolamento della 20. Si veda su questo il mio saggio Alberto Cavalcanti e il “documentario nar-
nazione come grande famiglia, promossa dal regime, avrà nei film mo- rativo”: il ruolo della tradizione documentaristica nella formazione del cinema
dernisti di Rossellini il suo più chiaro sintomo. Almeno, fino al viaggio in neorealista, «Bianco e Nero» n.s., 567, maggio-agosto 2010.
India. 21. Rondolino, Roberto Rossellini, cit., p. 44.
22. Adriano Aprà, Storie di guerra: De Robertis e Rossellini, in Centro Sperimen-
tale di Cinematografia, Storia del cinema italiano 1940/1944, vol. VI, a cura di
1. André Bazin, Agnès et Roberto, «Cahiers du Cinéma», 50, agosto-settembre Ernesto G. Laura, con la collaborazione di Alfredo Baldi, Marsilio-Edizioni di
1955, p. 36. Bianco & Nero, Venezia-Roma, 2010, p. 87.
2. Gianni Rondolino, Roberto Rossellini, UTET, Torino, 2006, p. 29, dove si cita la 23. Sul cinema di De Robertis si veda Fabio Prencipe (a cura di), In fondo al
recensione al film de Il Cronista, Documentari italiani, apparsa in «Cinema», 89, mare... Il cinema di Francesco De Robertis, Edizioni dal Sud, Modugno (Bari),
10 marzo 1940, pp. 150-151. 1996.
3. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore” 24. Cfr. Roland Barthes, S/Z, Einaudi, Torino, 1981.
a “Ossessione”, Laterza, Bari-Roma, 2009, p. 95. 25. Cfr. Annette Kuhn, The Cinema Book, a cura di Pam Cook, British Film In-
4. Cfr. Giulio Cesare Castello, Claudio Bertieri (a cura di), Venezia 1932-1939. stitute, London, 1987.
Filmografia critica, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1959, p. 64. 26. Cfr. Benedict Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma, 2009.
5. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films,
Da Capo Press, New York, 1998, p. 689.
6. Cfr. Glauco Viazzi, Assassini d’acqua dolce confortati dal jazz, «Cinema» n.s.,
53, 30 dicembre 1950, pp. 364-366.
7. Fernando Cerchio, Il pioniere Omegna, «Cinema», 92, 25 aprile 1940, pp. 270-271.
8. M. V., L’ultima intervista con Omegna, «Cinema» n.s., 4, dicembre 1948, p. 111.
9. Cfr. Ruth Ben-Ghiat, Fascist Modernities. Italy, 1922-1945, University of Ca-
lifornia Press, Berkeley, 2001.
10. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, cit., p. 55.
38 39
«India Matri Bhumi»:
la forma documentaria incontra l’alterità

Sarà [...] la grande [civiltà] indiana [...] a prendermi la mano e a trac-


ciare il soggetto per il quale non mi è imposto nulla1.

Hindostan is an Italy of Asiatic dimension, the


Himalayas for the Alps, the Plains of Bengal for the
Plains of Lombardy, the Deccan for the Appennines, and
the Isle of Ceylon for the Island of Sicily. The same
rich variety in the products of the soil, and the same
dismemberment in the political configuration. Just as
Italy has, from time to time, been compressed by the
conqueror’s sword into different national masses, so do
we find Hindostan, when not under the pressure of the
Mohamedan, or the Mogul, or the Briton, dissolved into as
many indipendent and conflicting states as it numbered
towns, or even villages2.

Mi è sembrato tuttavia di trovarci [in India] delle cose familiari [...]


un po’ come la casa paterna
alla quale si ritorna per Natale [...]. Ho avuto
l’impressione di ritrovare Napoli3.

La nuova libertà
Ci sono voluti complessi preparativi, un anno di riprese in 16 e 35mm,
grandi fatiche e lunghi viaggi perché Rossellini completasse J’ai fait un
beau voyage par Roberto Rossellini (1957-1958), il suo equivalente ita-
liano L’India vista da Rossellini (1957-1958) e il lungometraggio India
Matri Bhumi (1957-1959). Oltre a essere accurati ritratti dell’India, que-
sti film sono anche fedeli diari dell’irrisolvibile problema estetico, politico
e ideologico che si propone all’artista messo a confronto con il compito
Sul set di India Matri Bhuni
di rappresentare la realtà “altra”. La scoperta di un territorio inesplorato,
sia in senso geografico – il continente indiano – sia in senso artistico – la
possibilità di sperimentare lontano dalle acrimonie che avevano accom-
pagnato l’uscita dei suoi ultimi film in Europa – si accompagna all’inevi-
tabile spaesamento psicologico che assale il viaggiatore e narratore
occidentale di fronte all’Oriente (ne parlo ampiamente nel mio Orientali-
smo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo, rifacendomi
a Orientalismo di Edward W. Said e alla lettura psicanalitica di Homi Bha-
< bha ne I luoghi della cultura4). L’investigazione della vita e dei problemi
41
della gente comune, l’analisi del rapporto tra classi sociali, la rinegozia-
zione di identità individuali all’interno della società, l’investigazione delle
reazioni psicologiche degli individui di fronte al trauma, l’analisi dei con-
flitti tra cultura e culture, e, dopo “il periodo Bergman”, l’anatomizza-
zione dei rapporti di coppia, insomma tutte le tematiche al cuore del
mondo narrativo rosselliniano, sono messe alla prova dal nuovo contesto
transnazionale.
Il confronto con l’altrove produce un rinnovato desiderio di raccontare
storie partendo dalle nuove realtà incontrate, ma anche molte domande:
come superare la banale tradizione orientaleggiante di tanta letteratura
coloniale? Come essere auteur senza imporre una visione univoca e su-
perficiale dell’altro? I film indiani rivelano, nella loro ambiguità di ge-
nere (fiction, documentario storico, diario di viaggio, film sperimentale),
la difficoltà della scelta rosselliniana. Ma offrono anche un’interessante ri-
sposta: invece di cercare una esperienza “autentica”, Rossellini si lancia in
una vera e propria sfida alla tradizione orientalista. Ecco allora che i suoi
film indiani si offrono come fusione di fiction e documento proprio per
destabilizzare il potenziale messaggio colonialista. Quindi non la storia
hollywoodiana che prevede l’invisibilità dello stile e la narrazione
“chiusa”, certo, ma neanche le storie neorealiste del dopoguerra, dove la
nota dominante è una teleologia (se non una vera e propria teologia) della
liberazione (l’attesa e la speranza della certa “primavera in Italia”), e per

Rossellini in India
molti aspetti neppure quel cinema modernista autoriale inaugurato con il
periodo Bergman. La narrazione rosselliniana viene manomessa, fram-
mentata, rifratta tra diversi generi, stili, media, per porsi come resistenza
viva ai modelli narrativi colonialisti, e apre nuove possibilità di esplora-
zione dei limiti del realismo cinematografico.

Il perturbante postcoloniale e commosso, come Pier Paolo Pasolini, altre metodico e raziocinante, come
Said definisce l’Oriente come «in un certo senso un’invenzione dell’Occi- Alberto Moravia, oppure un po’ malaticcio e millantatore, come Guido
dente, sin dall’antichità luogo di avventure, popolato da creature esotiche, Gozzano, che fa finta di essere stato ovunque per mandare dei resoconti
ricco di ricordi ricorrenti e paesaggi, di esperienze eccezionali»5. L’800 eu- su cose e posti mai visti alle rivistucole che pubblicavano i suoi scritti. O
ropeo, sia in letteratura che nelle arti visive, è segnato dall’Oriente in- magari spirituale posthippie, come Sandra Petrignagni, coinvolta in un
ventato dai vari Rudyard Kipling e Pierre Loti, da John Singer Sargeant e corso di elevazione trascendentale in un’università hindi. O ancora il più
Jean-Léon Gérôme, da Emilio Salgari e Francesco Hayez6. Forse nel corso divertente di tutti, Giorgio Manganelli, professore sovrappeso, che arriva
degli ultimi anni è mutato l’apprezzamento dell’Oriente, la televisione ha in India sprezzante, ma si ritrova poi al limite del suicidio a metà del viag-
riempito i salotti di tutto il mondo di immagini esotiche, accessibili fino gio8.
a pochi decenni orsono solo a una minuscola élite di intellettuali e viag- Certo l’Oriente è un significante fortissimo e profondamente radicato nel-
giatori. Certo non sono cambiati i temi dei racconti, e soprattutto non è l’immaginario italiano e occidentale, e tale forza segnica affascina tutte le
cambiato l’orizzonte delle aspettative degli spettatori. Come se fosse una parti coinvolte in questo processo mitopoietico, dal narratore al lettore. È,
ricetta non modificabile, tutti i racconti, i film, le memorie e i documen- mi sembra, quel fenomeno “perturbante” che Sigmund Freud analizza nel
tari annoverano un Oriente fatto di una tigre, un santone, qualche fiume saggio del 1917 Die Unheimlich. Come spiega Freud, Unheimlich è quello
sacro (basta anche una pozza d’acqua stagnante), un funerale con tanto che è familiare e non dovrebbe esserlo; ciò che dovrebbe rimanere re-
di pira, donne colorate, qualche smagrito vegliardo, nani, scimmie am- presso e invece riemerge a livello inconscio. La traduzione italiana “per-
maestrate, panorami mozzafiato, e, al centro di tutto, imperturbabile, il turbante” coglie solo parte del concetto. Se Heimlich è ciò che è familiare,
viaggiatore7. A volte in sahariana, come si fa sempre ritrarre il rubicondo noto, Unheimlich definisce il quasi familiare, il quasi noto, ed è legato a
Rossellini durante il lungo anno passato nella giungla, a volte partecipe un sentimento di disagio, al non sentirsi completamente a proprio agio,
42 43
Occidente e Oriente. Chi ha viaggiato in India riconosce immediatamente
in India che la lunga e profonda dominazione coloniale ha prodotto una vita quasi
occidentale, in cui le vestigia dell’impero interpellano il viaggiatore a ogni
passo, tra alberghi, strade, country club e luoghi di villeggiatura, il tutto
calato in un contesto tropicale del tutto “perturbante”. Il fattore destabi-
lizzante del viaggio fuori dalla casa occidentale e nel mondo postcolo-
niale pone il viaggiatore/narratore di fronte alla necessità di ridefinirsi. In
particolare, nota Bhabha, «questi spazi “inter-medi” (in-between spaces)
costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come sin-
golo o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e [a] luoghi in-
novativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto
stesso in cui si definisce l’idea di società»12.
In India il viaggiatore/narratore si trova a interagire con questa materia
nuova, traumatica, in due modi: abbracciandola in una fusione mistica,
oppure dando vita a un processo di normalizzazione e stereotipizzazione
fondato psicologicamente sulla negazione del represso (Verleugnung). Que-
sto processo, il senso di questa Verleugnung, è ambiguo, e spiegabile solo
per mezzo delle leggi che regolano l’inconscio. Bhabha e altri studiosi del
postcolonialismo individuano nel meccanismo psicologico responsabile
della creazione dello stereotipo gli stessi principi che sono alla base della
nozione freudiana di feticismo: il feticismo e lo stereotipo sono processi
originati dallo stesso tipo di negazione. Per usare le parole di Giorgio
Agamben, «la fissazione feticista nasce dal rifiuto del bambino di prendere
coscienza dell’assenza del pene nella donna (nella madre)»13. La scelta
viene risolta in una sostanziale ambiguità: «Nel conflitto fra la percezione
della realtà, che lo spinge a rinunciare al suo fantasma, e il contro-desi-
derio, che lo spinge a negare la sua percezione, il bambino non fa né una
cosa né l’altra, o, piuttosto, fa simultaneamente le due cose, giungendo a
all’essere eppure non sentirsi a casa. Traducendo il concetto di Unheim- uno di quei compromessi che sono possibili solo sotto il dominio delle
lich in inglese, Bhabha utilizza il termine unhomeliness, letteralmente, il leggi dell’inconscio. Da una parte, con l’aiuto di un meccanismo partico-
non sentirsi a casa (diverso da homeless, senza casa), che in italiano pos- lare, smentisce l’evidenza della sua percezione; dall’altra, ne riconosce la
siamo rendere con il concetto di “spaesamento” (il sentirsi a disagio, di- realtà e, per mezzo di un sintomo perverso, assume su di sé l’angoscia di
sorientati)9. Il senso di extraterritorialità, il confronto serrato con l’alterità, fronte a esso. Il feticcio è quindi [...] nello stesso tempo la presenza di quel
costringe il viaggiatore a una revisione dei concetti di spazio e territorio nulla che è il pene materno e il segno della sua assenza»14.
familiari; ed è questo processo che induce il senso di spaesamento. Qual Sia il feticismo che lo stereotipo hanno una struttura comune: l’ansia per
è infatti la peculiarità del viaggio nelle zone di recente decolonizzazione l’ignoto, il tentativo di sostituzione metonimica, la necessità di colmare
come per esempio l’India, rispetto al classico viaggio esotico? L’Altro po- l’assenza/differenza. Questo collegamento tra i due concetti è chiarito da
stcoloniale è percepito come Altro, non io, non occidentale, non razionale, Bhabha: «Quanto al legame funzionale tra la fissazione del feticcio e lo ste-
e allo stesso tempo come Sé imperfetto («almost the same but not quite», reotipo (o lo stereotipo come feticcio), si tratta di un aspetto ancor più ri-
cioè «quasi la stessa cosa ma non esattamente»)10. Mentre l’alterità è radi- levante: in effetti il feticismo è sempre un “gioco” o un’oscillazione tra
cale in quelle zone del mondo in cui l’Occidente non ha segnato – politi- l’affermazione arcaica di pienezza/somiglianza – in termini freudiani:
camente e culturalmente – il territorio, nelle “zone di contatto” i confini “Tutti gli uomini hanno un pene”; nei nostri: “Tutti gli uomini hanno la
diventano ambigui: l’alterità è mascherata da somiglianza, la dicotomia stessa pelle/razza/cultura” – e l’ansia che si associa alla mancanza e alla
netta diventa friabile11. Questa osmosi tra i due mondi è evidente nel mo- differenza – di nuovo, per Freud “alcuni non hanno peni”; per noi “alcuni
mento in cui il viaggiatore occidentale avverte un senso di straniamento non hanno la stessa pelle/razza/cultura”»15.
causato dal vedere certi segni occidentali riprodotti nel cuore stesso del- Il rapporto che Bhabha stabilisce è utile per capire la persistenza e la re-
l’alterità. L’India è un esempio paradigmatico di confusione semiotica tra sistenza di fenomeni razzisti, per lo meno a livello della rappresentazione.
44 45
Porre feticismo e razzismo sullo stesso piano psicanalitico permette di

India Matri Bhuni


spiegare perché questi temi siano onnipresenti nella letteratura di viaggio
occidentale, e come si colleghino con l’ansia del viaggiatore vittima di
questo Unheimlich postcoloniale.
Il cinema di Rossellini si confronta con l’India con la sua arma preferita,
quella del realismo, definito qui non nella sua cifra meramente stilistica
ma, in maniera più ampia, nel senso di un realismo inteso come ideolo-
gia e prassi del cinema. Solo così si capiscono l’enfasi sulla materialità del-
l’esperienza che si concretizza nei tempi lunghi dei sopralluoghi e delle
riprese (più da antropologo impegnato in una ricerca sul campo che da fil-
mmaker), l’attenzione portata verso il dispositivo cinematografico mi-
schiando finzione e documento, l’interesse a coinvolgere sceneggiatori e
manodopera locali, la volontà di far interagire le microstorie del film con
gli eventi epocali della modernizzazione indiana.
Come già notava Adriano Aprà, Rossellini si distingue dagli altri registi as-
sociati con il neorealismo (Vittorio De Sica in particolare) per una carat-
teristica che va oltre il testo filmico di per sé, e che è di “metodo”:
«superamento della finzione romanzesca e dello “spettacolo”, proposta di
nuovi modi di produzione, modernità del discorso d’autore (sua incidenza
sulla vita moderna piuttosto che sulla “cultura”: cinema di esperienza per
lo spettatore oltre che di sperimentazione espressiva)»16.
In particolare Rossellini anticipa la battaglia a livello di produzione con-
tro quella che Guy Debord definisce “la società dello spettacolo”, cioè con-
tro la realtà ridotta a immagine-merce nell’era della riproducibilità tecnica.
Insomma, contro quella che di lì a pochi anni Pasolini definirà “l’irrealtà”
della civiltà dei consumi17. Questo rifiuto dei sistemi di produzione tradi-
zionale (in particolare il rapporto complesso con lo star system e la fin-
zione romanzesca dei suoi film) porta Rossellini verso la creazione di un
nuovo rapporto tra immagine e informazione in cui il cinema è reale come
lo sono i giornali e la televisione.
L’esperimento con l’India, nella sua antispettacolarità – budget limitato,
attori non professionisti, approccio antropologico e sceneggiatura “aperta”
– rappresenta la creazione di un controsistema alla rappresentazione
orientalista.

Rossellini a Parigi
Il capolavoro di Rossellini del 1954, Viaggio in Italia, fu un sonoro fiasco
al botteghino sia nazionale che internazionale, e allo stesso tempo fu odia-
tissimo dai critici italiani. Tullio Kezich lo chiama «inadeguato, dilettan-
tesco», Fernaldo Di Giammatteo poco chiaro e pretenzioso, e secondo
Marino Onorati la sola possibilità rimasta a Rossellini è quella di ritirarsi
definitivamente dallo schermo e di cambiare professione18. Questa l’at-
mosfera ostile verso il maestro del neorealismo, macchiatosi dell’onta di
avere abbandonato la torva via del realismo in favore di borghesi estetiz-
zazioni autoriali. Nonostante Nikita Chruš ëv avesse “sciolto dal giura-
mento” gli intellettuali europei, liberandoli dalle direttive di Mosca (e
Guido Aristarco ha riprodotto nel volume Sciolti dal giuramento il dibat-
46 47
tito apparso su «Cinema Nuovo»), Rossellini non rientra nel nuovo modello manzo, in favore della confessione e del diario»21. Questo stile confessio-

India Matri Bhuni


India Matri Bhuni

di realismo critico lukacsiano proposto proprio dal comitato editoriale di nale e diaristico, già identificato come caméra-stylo da Alexandre Astruc
«Cinema Nuovo» (che indica in Senso, 1954, di Luchino Visconti il vero nel suo provocatorio saggio del 1948 Nascita di una nuova avanguardia
modello di poetica realista infusa di critica storica). E non basterà la Di- (e Truffaut lo mette alla base del suo saggio del 1954, Una certa tendenza
fesa di Rossellini licenziata da André Bazin sempre sulle pagine di «Ci- del cinema francese), teorizza la necessità da parte del regista non solo di
nema Nuovo»19. essere metteur en scène, ma di diventare autore responsabile nel controllo
Se a Roma l’appello di Bazin non trova ascolto, Parigi sembra cogliere del proprio lavoro dall’inizio alla fine22. Astruc propone, con il concetto
questa novità: i «Cahiers du Cinéma», in consonanza con Bazin, salutano della camera-penna, cioè della capacità della macchina da presa di scrit-
il film come un capolavoro: Jacques Rivette scrive che con l’apparire di tura diretta, di liberare il cinema dalle richieste concrete dello spettacolo
Viaggio in Italia tutti i film sono improvvisamente invecchiati dieci anni, tout court e dagli intrecci della trama per permettere alle immagini di di-
e François Truffaut che Viaggio in Italia è qualcosa di mai tentato prima ventare un modo per esprimere i propri pensieri tanto flessibili e arguti
al cinema. Quello che aveva colpito l’immaginazione dei giovani critici è quanto la lingua scritta23. Astruc nota inoltre speranzosamente come il
reso chiaro da questa frase di Rivette: «Si tratta di un’estetica televisiva, 16mm e la televisione permetteranno una totale democratizzazione delle
un’estetica diretta […]. Realismo non è una tecnica di scrittura, né uno immagini, e come il cinema non sarà più solo intrattenimento e spettacolo
stile di regia, ma un modo di pensare: che la linea retta è la strada più ma mezzo fondamentale di comunicazione umana, tanto è vero che non
breve tra due punti»20. In breve, sono la trama semplice e diretta e lo stile si potrà più parlare di cinema ma “des cinémas”, un concetto ripreso più
minimalista delle tecniche di ripresa rosselliniane che dicono qualcosa volte da Rossellini nella sua teorizzazione di un cinema “espanso”, e che
agli emergenti filmmaker francesi. Sarà questa trama semplice e diretta a nel nostro mondo digitale è realtà quotidiana24. Ma la parte del saggio di
portare il cinema francese nelle strade di Parigi. Truffaut cattura bene que- Astruc forse più rilevante per il cinema di Rossellini riguarda la sua op-
sto sentimento: «I registi di tutto il mondo smetteranno di imitare il ro- posizione alle metafore visuali. Astruc contrappone alla pesantezza di Ser-
48 49
Flaiano sembra sollevato quando, all’uscita di Stromboli, 1950, può fi-
nalmente scrivere che Rossellini è arrivato sull’isola con la macchina da
presa e basta, senza sollecitazioni letterarie e utopiche come Flaherty, che
era arrivato ad Aran grazie a John Millington Synge26). Di Renoir Rossel-
lini conosceva il progetto di The River (Il fiume, 1951): si tratta della sto-
ria di una famiglia inglese trapiantata in India, in cui l’interesse del regista
è focalizzato non sulla società indiana, ma sulla giovane figlia della fa-
miglia britannica. Il film è una rigorosa esplorazione dell’esperienza ex-
traterritoriale della giovane inglese. L’India entra solo in relazione alle
paure, alle ansie, e più in generale alla crescita psicologica della giovane
di fronte all’alterità che la circonda. Per molti versi, Renoir fa con Il fiume
quello che Rossellini farà con Viaggio in Italia: filtrare l’esperienza dello
spaesamento attraverso la soggettività femminile (il libro omonimo da cui
il film è tratto e la sceneggiatura portano la firma di Rumer Godden, au-
trice inglese cresciuta in Bengala). La critica non è mai stata troppo be-
nevola verso questo film: a parte alcuni commenti sull’uso spettacolare del
colore (il primo film in Technicolor in India), Il fiume viene accusato di
teatralità e soprattutto di incapacità di investigare in maniera appropriata
il contesto sociale circostante.
L’altra fondamentale influenza arriva a Rossellini da un giovane antropo-
logo visuale alle prime armi, Rouch, che afferma: «Non avrei mai girato
Moi un noir [1958] se Roberto non mi avesse incitato a farlo»27. È a Parigi
che Rossellini incontra il filmmaker che più influenzerà i suoi film sull’In-
dia e che a sua volta verrà da questi influenzato. Il primo incontro tra i due
è, per così dire, virtuale. Il film di Rouch Au pays des mages noirs (1947)
viene proiettato alla Cinémathèque Française insieme a Stromboli nel
gej Ejzenštejn o Henri-Georges Clouzot la leggerezza fatta dallo scrivere 195028. L’amicizia tra Rouch e Rossellini diventa vera collaborazione quando
India Matri Bhuni

direttamente le idee sulla pellicola, e Truffaut nel ’54 asserisce il ruolo del insieme formano un piccolo gruppo di studio, l’Atelier Collectif de Créa-
regista come autore, l’equivalente cinematografico del romanziere, capace tion, frequentato dai futuri nouvellevaguisti29. Rouch nel ’56 era già al la-
di esprimersi attraverso elementi tematici, modi personali di creare per- voro su Jaguar, girato in Niger tra il ’54 e il ’67, e completato e distribuito
sonaggi, e, soprattutto, attraverso il movimento e lo sfruttamento di at- solo nel 197130. Jaguar racconta la storia di tre giovani della savana del
tori e oggetti dentro il tempo e lo spazio dell’inquadratura. Non è un caso Niger che lasciano la loro terra in cerca di fortuna e di avventure. I tre viag-
che sia proprio Astruc, in un suo breve saggio del 1946, a notare come il giano insieme per mesi lungo la costa e nelle città del Ghana, poi si sepa-
documentario romantico sviluppato tanto in Inghilterra quanto in Fran- rano per lavorare in città diverse e infine, diventati giaguari, uomini esperti
cia e negli Stati Uniti con la scuola di Alberto Cavalcanti sia diventato della vita e della città, fanno ritorno a casa. L’investigazione di Rouch è
l’estetica del cinema europeo contemporaneo, una formula piena di pos- parte finzione, parte documentario e parte esplorazione sociologica. Il film
sibilità25, ricollegando il nuovo cinema diaristico alla tradizione del do- fu girato senza l’utilizzo del suono sincrono, ancora non disponibile, lungo
cumentario narrativo della scuola di Cavalcanti e Robert Flaherty (di cui il corso di molti anni di riprese. Rouch convinse due dei tre protagonisti, Da-
parlo nel primo capitolo di questo volume). Insomma, Rossellini a Parigi mouré Zika e Lam Ibrahima Dia (il terzo era Tallou Mouzzourane), a rag-
si ritrova maestro di una generazione. È in queste circostanze che nasce giungerlo a Parigi alla fine del montaggio per commentare le immagini che
l’idea del viaggio in India. gli venivano proiettate davanti. Il suono del film è perciò fatto di conver-
Rossellini ha visto e ammirato tre autori molto diversi che si sono raf- sazioni ricostruite a memoria dai protagonisti, scherzi, battute, domande e
frontati con l’alterità non-occidentale: Flaherty, Jean Renoir e Jean Rouch. risposte su quanto succede sullo schermo. Jaguar colpì subito l’attenzione
«Mio padre amava Flaherty, si ispirava molto a lui», ricorda il figlio Renzo di Rossellini per alcuni interessanti accorgimenti tecnici: era stato girato in
Rossellini, e certo l’indiscusso maestro della fiction documentaristica è vi- 16mm, gli attori erano tutti non professionisti, sfruttava esclusivamente il
sibile nei film di Rossellini nel modo in cui documentario e fiction si in- locale africano e soprattutto offriva una mistura di finzione e documento
tersecano a diversi livelli della narrazione (anche se il perfido Ennio sprezzante di ogni classificazione.
50 51
Come scrive Rouch: «For me, as an ethnographer and filmmaker, there is
almost no boundary between documentary film and films of fiction. The
cinema, the art of the double, is already the transition from the real world
to the imaginary world, and ethnography, the science of the thought sy-
stem of others, is a permanent crossing point from one conceptual uni-
verse to another; acrobatic gymnastics, where losing one’s footing is the
least of the risks»31.
«The thought system of others», il sistema di pensiero dell’altro, ben concet-
tualizza quel vedere “con” descritto da Bazin nella sua “difesa”, e accomuna
il modo di vedere i personaggi dei due registi. Che Rouch e Rossellini si fre-
quentassero era già noto, da quanto afferma Truffaut (ma Truffaut, da de-
voto discepolo, afferma che il giovane Rouch aveva preso il suo meglio dal
maestro Rossellini)32. Ma è stato proprio un suggerimento di Rossellini a con-
vincere Rouch ad abbandonare la voce di commento, e a sostituirla con la
voce degli “attori” che riraccontavano la storia (secondo una dichiarazione
India Matri Bhuni

di Alain Bergala, critico dei «Cahiers du Cinéma»33). La rivoluzione rouchiana


va ben al di là del campo dell’etnografia visuale, e si diffonde attraverso
tutta la storia del cinema europeo. Questo cambio stilistico portò anche un
cambio ideologico. Finalmente si dava voce al soggetto della ricerca scien-
tifica, rivoltando la consolidata episteme gerarchica dell’antropologia che
prevedeva una distanza “oggettiva” tra
osservato e osservatore. Con Jaguar, Moi
un noir e i film successivi Rouch svi-
luppò un’attitudine rivoluzionaria nel-
l’approccio alla rappresentazione
dell’alterità. Nonostante le critiche che
fin dall’inizio fioccarono contro il suo
metodo, l’impulso verso un cinema ri- essere una imposizione dall’esterno – le voci dei “nativi” che “parlano”

India Matri Bhuni


flessivo (che a tratti diventa tout court idee occidentali – i due registi usano in effetti la voce di commento in
diaristico) e verso una forma più parteci- maniera rivoluzionaria. La “voce di dio” del narratore onnisciente è so-
pata di etnografia (che vedrà poi un suo stituita dalle voci – doppiate e false quanto si voglia – che offrono una
completo sviluppo nelle opere dei meta- pluralità e una polifonia al tempo nuova nel cinema: certo un passo in
antropologi Clifford Geertz e James Clif- avanti per il cinema etnografico-sperimentale di quegli anni. Potremmo
ford) scardinerà il discorso antropologico riassumere il diverso approccio dei due artisti così: Rouch fa delle inve-
dalla semplice idea di traduzione di modi stigazioni etnologiche usando il genere della fiction filmica, mentre Ros-
e costumi di una cultura per l’altra (secondo la definizione di David Mac- sellini fa della fiction filmica usando il metodo dell’investigazione
Dougall) verso la “thick description” (descrizione densa) teorizzata da Ge- etnologica. E questo si spiega non solo guardando il loro diverso retroterra
ertz34, dove l’analisi dell’altro etnico e il metodo d’investigazione sono (Rouch è in primis un etnografo), ma anche l’obiettivo che si prefigge-
studiati riflessivamente come parte della stessa formazione discorsiva: l’og- vano. Rossellini è un filmmaker che fa della natura umana il suo oggetto
getto, l’analisi e il soggetto della ricerca antropologica vanno guardati in- d’indagine, mentre Rouch è un etnografo che scopre il potere della cine-
sieme in quanto contemporaneamente coinvolti nella ricerca. presa e la adatta alle sue esigenze scientifiche.
Da Rouch, a sua volta, Rossellini ruba senz’altro il metodo per usare il so- Al di là di un generalmente definibile “modo rouchiano” che deve avere
noro senza la possibilità della presa diretta. Dalla sua idea iniziale di fare pervaso la comunità artistica parigina dell’epoca (e non solo grazie a
sentire la voce dei protagonisti che raccontano in prima persona le loro Rouch, naturalmente, ma a tutti i prodromi della Nouvelle Vague e di quel
esperienze, Rossellini intuisce la possibilità di raccontare storie semplici e grupo più radicale di filmmaker come Agnès Varda e Chris Marker, poi noti
prevedibili di vita locale. Storie – sia per Rouch sia per Rossellini – basate come Rive Gauche35), vi sono alcuni aspetti di India Matri Bhumi che fanno
su frammenti raccolti sul luogo, e anche se questa, naturalmente, potrebbe diretto riferimento al nuovo modo antropologico. Le voci dei quattro pro-
52 53
mente imbarazzate dalla visita della famosa attrice, e belli sono i gesti
delle protagoniste di questo che altro non è che un filmino amatoriale. Ai
rosselliniani non può sfuggire la potenza cinematografica del corpo del-
l’attrice, colto qui cronologicamente tra Stromboli ed Europa ’51 (1952),
ma usato in funzione fantasmatica a evocare uno tra i suoi più famosi
ruoli hollywoodiani, quello della sorella Mary Benedict nel melodramma
The Bells of St. Mary’s (Le campane di Santa Maria, 1945) di Leo McCa-
rey, in cui, in coppia con Bing Crosby, la Bergman salva una scuola cat-
tolica schiacciata da ristrettezze finanziarie. Uno dei film preferiti di mia
nonna, se mi si permette l’inciso personale. Se Santa Brigida fosse mai
stato concluso e distribuito con il suo intento di pubblicizzare gli sforzi
della Croce Rossa, sarebbe stato di sicura presa popolare.
Probabilmente parte di una ricerca sull’uso degli attori liberati da schemi
tradizionali e in preparazione a una recitazione improvvisata, è il film Le
psychodrame (1956). Rossellini riprende Jacov Levi Moreno e Anne An-
celin-Schützenberger che dirigono gli attori a cui chiedono di mettere in
scena i propri conflitti interni. Si noti la complessità del progetto. Non si

tagonisti della storia, indiani che in realtà abitavano in Italia e quindi par-
Santa Brigida

lavano italiano con un accento indiano (ma solo nella versione italiana, la
versione francese non presenta accenti), sono usati da Rossellini per leg-
gere la sceneggiatura. Il suono del film non è sincronizzato, ma era stato
interamente registrato durante le riprese (il cosiddetto suono d’ambiente):
infatti possiamo dire che il suono originale è uno degli aspetti più interes-
santi del film, in cui si intuiscono per esempio anche le voci degli extra tratta infatti dell’originario psicodramma (sviluppato in quegli anni pro-

Santa Brigida
sulla scena e l’uso sistematico di musica tradizionale indiana. prio da Moreno a Parigi) in cui un gruppo di pazienti prosegue la cura psi-
Prima di passare all’analisi dei film sull’India, vanno ricordati due brevi coterapeutica attraverso una messa in scena dei traumi e dei conflitti
lavori di documentazione. Dell’incontro tra Rossellini e Ingrid Bergman psicologici che li hanno portati a scegliere la terapia di gruppo. Qui ci tro-
molto si è detto, tanto nelle riviste accademiche quanto nei fogli scanda- viamo in una bizzarra inversione di ruolo tra attore e paziente, in cui è il
listici, e non è compito di questo libro occuparsi della loro vita personale. primo a dover usare le tecniche recitative per mettere in scena la propria
Ci interessano invece i pochi metri di girato raccolti sotto il titolo Santa psiche, annichilendo così la separazione tra teatro e realtà. Di sicuro do-
Brigida (1951, 9 minuti circa). Nel convento di Santa Brigida in Piazza vremmo catalogare questo film di Rossellini come antesignano del cinema
Farnese a Roma vediamo delle riprese che ritraggono l’attrice svedese or- di avanguardia, alla ricerca di punti d’incontro tra cinema, teatro e psi-
ganizzare, con le suore sue connazionali, il materiale di soccorso da in- cologia. Purtroppo il film è irreperibile, e di esso ci rimane solo la testi-
viare alle vittime dell’alluvione del Polesine avvenuta nell’ottobre 1951. Le monianza di Zerka Toeman Moreno, riportata per intero da Aprà nella
immagini sono solo una copia di lavorazione (l’arrivo al convento è gi- filmografia di questo volume. La stranezza della scelta rosselliniana, a
rato due volte) e non hanno certo altro interesse che quello di puro do- meno che non la si voglia pensare solo come una commissione per la te-
cumento. Si vede l’arrivo della Bergman, le sue conversazioni con la levisione francese, sembra ricollocare Rossellini in un ambiente di avan-
madre superiora e l’aiuto prestato alle altre sorelle nell’imballare abiti e guardie europee a cui la critica nostrana non ci ha abituato. E a cui il suo
scarpe da spedire nelle zone colpite. Belli sono i visi delle suore allegra- soggiorno parigino ha senz’altro contribuito.
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Passaggio in India

India Matri Bhuni


Con l’aiuto di Renoir, Rossellini incontra Jawaharlal Nehru a Londra. In
un’intervista a «Cinema Nuovo», Rossellini dichiara: «I produttori non vo-
gliono più farmi lavorare, il mio discorso non li interessa più. Ecco per-
ché ho accettato l’offerta che il cinema indiano mi ha fatto. Mi è stata
data carta bianca: in India potrò studiare l’atmosfera, analizzare i pro-
blemi maggiori, porne in evidenza qualcuno che possa permettermi di va-
lorizzare la tradizione magica, fachiristica e filosofica contrapponendola
alle voci attuali, a quelle nuove che sorgono, a quelle che già si vanno im-
ponendo. Sarà, insomma, la grande città [forse si intende civiltà] indiana
con la sua grandezza, il suo passato e il suo futuro, a prendermi la mano
e a tracciare il soggetto per il quale non mi è imposto nulla»36.
In queste frasi troviamo riassunti i capisaldi della poetica rosselliniana. Il
desiderio di scoprire e sfruttare il luogo delle riprese, il rifiuto del set in
favore della scoperta del luogo. Prendendo in prestito l’espressione «radi-
cal empiricist» («empiristico radicale»), usata da Paul Stoller per definire
l’approccio di Rouch, e a sua volta usata da William James, possiamo de-
finire Rossellini – in maniera ossimorica – come un fenomenologo stori-
cista: se l’empirista radicale è qualcuno che «recognizes blatant
incongruities, confounding ambiguities, and seemingly intolerable con-
tradictions – the texture of life as it is experienced in the field»37, il Ros-
sellini postneorealista sottolinea il vissuto attraverso gli occhi dei
personaggi. Per questo al Rossellini fenomenologo si deve sempre ricor-
dare di aggiungere quella spinta antropologica tesa alla scoperta del con-
testo storico-materialista, più tipica caso mai di un sociologo: insomma
dobbiamo convivere, noi spettatori, con queste due vene apparentemente
contrastanti della poetica rosselliniana, storicizzazione e investigazione
fenomenologica-esistenziale. In questo senso India Matri Bhumi non è
un Paisà indiano, le cose non sono più presentate sotto un’egida oggetti-
vista: la mappa dell’Italia all’inizio della versione americana del film del
’46 (Paisan) potrebbe essere un po’ la cifra di questa attitudine, che poi ve-
diamo replicata sul piano stilistico nel rifiuto del punto di vista e nelle
linee di collegamento dello sguardo. Ora invece sono i personaggi che ve-
dono ed esperiscono i grandi cambiamenti epocali: il vecchio e il nuovo,
modernizzazione e natura, tecnologia e tradizione. È in questo senso che
dobbiamo interpretare Jean-Luc Godard quando scrive che «India c’est la
création du monde»38. Vorrei invertire l’iperbole godardiana, e scrivere che
“India è brutto come la creazione del mondo”. India è un contenitore im-
barazzante di modi, stili, e addirittura di diversi passi di pellicola, è un dia-
rio di un’esperienza indiana piuttosto che un’opera conchiusa, è
registrazione di un anno passato in India da antropologo.
Non è un caso infatti che l’esperienza indiana abbia aperto nuove possibi-
lità alla ricerca di diversi modi di esprimersi – e di educare – attraverso i
film. Dichiara infatti Rossellini al suo ritorno dall’India: «Ho un grande pro-
getto per l’America del Sud, in particolare per il Brasile e il Messico. Man-
derò dei gruppi di giovani in ognuno dei due paesi: faranno un primo
sopraluogo. Ne faranno parte uno scrittore, un fotografo, un tecnico del
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suono e un cineasta capo-gruppo. Ecco come procederò: faccio un indice
per ogni paese e con i miei collaboratori studio i problemi che si pongono:
alimentazione, agricoltura, allevamento, idiomi, habitat ecc. Come potete
vedere, un lavoro da geografo e da etnologo, che non rimane un mero la-
voro scientifico ma dà a ogni spettatore la possibilità di una scoperta. L’arte
non sarà che il punto d’arrivo di questi lavori preliminari. Il mio lavoro
consisterà nel fare un’opera che sia una
sintesi poetica per ogni paese. In fondo si
tratta di neorealismo. Sono andato a cer-
care questo metodo all’estero ma potrei
utilizzarlo anche in Europa. Sono tor-
nato dall’India con uno sguardo nuovo.
Non sarebbe interessante fare film etno-
logici su Parigi o su Roma? Prendiamo
la cerimonia del matrimonio: il rito,
come espressione profonda dell’uomo,
sparisce dietro l’abitudine. Ebbene, biso-
gna riscoprire i riti sui quali si basa la
nostra società con lo sguardo nuovo del-
l’esploratore che descrive i costumi di
una popolazione cosiddetta primitiva»39.
Questa nuova spinta antropologica non è colta dalla critica militante della
India Matri Bhuni

sinistra italiana, come Pio Baldelli, che accusa il film di mancare di «do-
cumentazione e di verità storica» per non avere affrontato i veri temi del-
l’India moderna: «Manca l’India dove si muore di fame a torme, l’India
spaccata in caste, l’India della superstizione religiosa e dell’analfabetismo,
infine l’India dominata da una classe dirigente capitalistica particolar-
mente dispotica ed esosa»40. Neanche il titolo di produzione del film, India
58, un chiaro riferimento alle precedenti esperienze filmiche di visione associata dallo spettatore occidentale con l’India, per ri-raccontare “due o

India Matri Bhuni


panoramica su una società e una cultura, sembrano sufficienti a indiriz- tre cose su di lei”: il tono kiplingiano di certe storie è un metodo usato da
zare il critico41. Rossellini per superare l’impasse imposto all’esploratore occidentale nel mo-
La difficolta, mi sembra, di India Matri Bhumi sta nel fatto che il film pro- mento in cui si accinge a raccontare l’India. Rossellini aveva passato molto
blematizza la società indiana non con la forma della denuncia o del mani- tempo, prima e durante il film, a documentarsi sulle tradizioni e i costumi
festo – o dell’appello, come farà Pasolini ne Le mura di Sana’a (1971-1974), indiani42; nonostante questo il progetto di India non tenta di mostrare i pro-
breve documentario-denuncia rivolto all’UNESCO (United Nations Educatio- blemi “direttamente”, come forse ci aspetteremmo se ci trovassimo di fronte
nal, Scientific and Cultural Organization) per salvare l’architettura dell’an- a un Paisà indiano. Rossellini si impossessa dello sguardo colonizzante e lo
tica città yemenita –, ma sotto l’egida dello sguardo etnografico-autoriale sfrutta per penetrare “il sentimento della realtà indiana” enfatizzando il pro-
per cui la rappresentazione di una cultura, gli usi e i costumi dei “nativi”, prio sguardo occidentale.
sono colti con uno sguardo contemplativo nel loro ambiente naturale. E in-
fatti tipicamente rosselliniani sono i temi scelti: la morte, l’effetto dei cam- «India Matri Bhumi»
biamenti culturali e sociali sugli individui, il contrasto tra “il vecchio” e “il Il film India Matri Bhumi inizia con uno sguardo dall’alto: una serie di in-
nuovo”, natura e ragione, cultura e culture. Mentre molti critici si sono con- quadrature panoramiche della folla di Bombay. Ma questa visione dal-
centrati sulla quantità di realtà presente nel film, quasi soppesandola per va- l’alto si trasforma velocemente in una serie di zoom che ci immergono
lutarne se raggiungeva un livello sufficiente per garantirgli il “bollino blu” nella folla, e tra questa massa indistinta – sottolineata dal commento che
necessario alla critica italiana (così come è tristemente necessaria per su- narra: «migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia che come un
perare l’esame dei postcolonialisti dell’ultima ora), nessuno si è concentrato fiume riempiono la città» – la macchina da presa comincia a soffermarsi
sull’aspetto atipico del film, che usa la narrazione fiabesca, inevitabilmente su alcuni individui, mentre la voce narrante li identifica attraverso la loro
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professione, la religione, la casta di appartenenza. Poi si passa alla mac- nale amministra identità e conoscenza, Rossellini sembra presentarsi senza

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India Matri Bhuni

china a mano nelle strade, in un ulteriore approfondimento di questo pro- pretese scientifiche. I critici contemporanei non avevano colto il tentativo
cesso di “singolarizzazione”. Dopo la “prima impressione” – lo sguardo rosselliniano di combattere l’India perenne, fissata in un non-tempo a-
generale e l’insistere del commento sulla massa indiana – scendiamo a storico tipico della rappresentazione orientalista43.
individuare le diverse componenti della società indiana. Questo movi- Mentre, come vedremo nell’analisi dei singoli episodi, le varie storie che
mento di restringimento, dal generale al particolare, è la tecnica narrativa compongono il testo hanno un tono decisamente favolistico e orienta-
con cui Rossellini ci introduce ai quattro episodi che compongono il film. leggiante, l’approccio da cinegiornale di questo incipit – così come la
Tutte e quattro sono storie esemplari, nel senso che rappresentano una chiusura, dello stesso tipo – si offre allo spettatore con una forte com-
determinata casta, un determinato strato sociale – con una densità da per- ponente didattica: l’uso della voce di commento, il ritmo veloce del
sonaggio lukacsiano – che però non nega la propria individualità grazie montaggio, l’insistenza sulla folla cittadina, formano un netto contra-
all’enfasi che il regista pone sulla libertà dell’individuo dentro – e nono- sto con gli altri episodi marcati dal montaggio lento, lunghe sequenze
stante – la società e – dal punto di vista stilistico – grazie all’enfasi do- ininterrotte che saranno lo stile del Rossellini televisivo di lì a pochi
cumentaristica del materiale girato. anni. Un altro evidente contrasto è nel soggetto della narrazione: i primi
India Matri Bhumi sarà l’occasione per proseguire in questo esperimento minuti del film sono dedicati alla voce del narratore che enfatizza la
di allineamento dell’occhio del regista con quello dei personaggi “esem- massa indiana, le decine, centinaia, migliaia di persone che popolano
plari della storia”, in cui la visione del regista e quella del personaggio si Bombay. Le aspettative dello spettatore sono a questo punto dirette verso
identificano per vedere “come se”/“dal punto di vista di”, senza per que- uno sviluppo urbano della storia: a sorpresa – e per contrasto –, al mul-
sto negare l’influsso autoriale. Mentre lo sguardo antropologico tradizio- tiforme popolo cittadino si contrappongono la pace e il silenzio del lento
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della storia la giovane donna e l’elefante saranno incinte.
Dichiara Rossellini a giustificare la semplicità della trama: «Nel film, in-
vece [rispetto al documentario L’India vista da Rossellini] la materia è ela-
borata per la rappresentazione. Ho cercato di esprimere il sentimento
dell’India, il calore interiore della gente dell’India. Ho cercato, se posso
dirlo senza paura del ridicolo, di rendere poeticamente le mie sensazioni
di reporter»44. Come si esprimono le sensazioni di reporter “poeticamente”?
(e non si può non pensare a Professione: reporter, 1975, di Michelangelo
Antonioni). Il paesaggio indiano rivive di fronte alla macchina da presa
grazie allo stile lento del montaggio – che segue la “lentezza” degli ele-
fanti al lavoro – e i personaggi, apparentemente niente più che burattini
di una brutta narrazione orientalista, trovano profondità grazie allo “stare
addosso” dello stile delle riprese, che li seguono nelle loro operazioni non
drammatiche del lavoro e negli incontri della vita di tutti i giorni. Ros-
sellini aveva teorizzato l’uso di questi “tempi morti”, di attesa, che pro-
ducono nel testo filmico la tensione necessaria per l’esplosione della scena
successiva, e allo stesso tempo aveva sottolineato l’aspetto documentario

lavoro degli elefanti, nella sequenza più lunga del film (6 minuti e 30 se-
India Matri Bhuni

condi). Questa tecnica di contrapposizione è ideata da Rossellini per gio-


care con la “prima impressione” dell’India, sia quella dello spettatore
occidentale dis-educato dai molti documentari sul “formicolante”
Oriente (che è tuttora visibile: quante volte un evento di massa in un
luogo non occidentale è accompagnato da termini come “turba”, che del suo cinema. «Ogni soluzione nasce dall’attesa. È l’attesa che fa vivere,

India Matri Bhuni


non solo definisce la quantità ma anche la qualità dei partecipanti: ir- l’attesa che scatena la realtà, l’attesa che – dopo la preparazione – dà la
rispettosi, rissosi, selvaggi, rumorosi, incivili), sia quella del viaggiatore liberazione. Si prenda ad esempio l’episodio della tonnara, in Stromboli.
occidentale che arriva in India via nave o aereo ed è per prima cosa È un episodio che nasce dall’attesa. Si viene creando, nello spettatore, una
messo di fronte al caos di Bombay. curiosità per ciò che dovrà succedere: poi è l’esplosione della mattanza dei
Dopo la confusione e il montaggio veloce del prologo su Bombay ci tro- tonni. L’attesa è la forza di ogni avvenimento della nostra vita: è così
viamo nella foresta del Khanapur vicino a Mysore, nel Karnataka (le ri- anche per il cinema»45. I tempi morti46 però in India non sono più prolu-
prese cominciano proprio qui il 15 marzo del 1957), a seguire il lavoro di sione all’evento, ma diventano evento in sé. Sono l’attuazione del doppio
un gruppo di elefanti: l’attesa è rotta dal racconto in prima persona del intento ideologico del film, investigare e raccontare. Rossellini esplora le
mahout, il giovane indiano proprietario di un elefante, che cavalca il pa- forme di quel “cinema contemplativo” che, dai film di Apichatpong Wee-
chiderma nel lavoro quotidiano di abbattimento e trasporto dei tronchi. La rasethakul a quelli di Pedro Costa, trova tanto successo nei circuiti dei fe-
storia è molto semplice, e nella sinopsi acquista ancora di più un tono da stival dei giorni nostri. Da una parte Rossellini vuole liberare lo spettatore
favola. Il mahout una mattina vede arrivare una troupe di burattinai e si dal sistema di “sutura” della fiction, sia a livello di stile (campo/contro-
innamora della figlia del capocomico. Convoca il padre da un villaggio vi- campo, colonna sonora ecc.) sia a livello di contenuto (motivazione,
cino per chiedere la mano dell’innamorata. L’innamoramento dei due è trama, identificazione con lo spettatore). Le lunghe pause che lasciano lo
raccontato in parallelo con la stagione dell’amore degli elefanti. Alla fine spettatore di fronte al lavoro degli elefanti trovano il loro culmine nella
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scena, anche esteticamente, più bella dell’episodio: dopo la mattina di la-
voro gli elefanti vengono portati al fiume e qui lavati dai loro mahout.
Mentre nel terzo episodio vedremo all’opera i devastanti effetti della mo-
dernità industriale imposta sul mondo premoderno del villaggio, il bagno
degli elefanti, con il suo pesante simbolismo edenico e ritualistico e con
il “grado zero” di montaggio – niente commento e solo il suono d’am-
biente come accompagnamento sonoro – a catturare il “realismo” del-
l’evento, diventa il momento per investigare il rapporto simbiotico
all’interno di una economia precapitalistica tra uomo e animale. Rossel-
lini usa questi momenti di pura osservazione per enfatizzare l’aspetto me-
tacinematico – rappresentazionale – delle immagini. Così facendo,
«forzando – come nota Aprà – la continuità realistica, spazio-temporale,
[egli] non si affida all’immagine ma all’idea che sta dietro l’immagine»47.
O, per dirla con Rossellini stesso: «Oggetto vivo del film realistico è il
“mondo”, non la storia, non il racconto»48. Invece di imporre una visione
dell’India, raccontarci attraverso dati e statistiche, documentazione e ve-
rità storica (come voleva Baldelli), la situazione socio-economica del sub-
continente, Rossellini frammenta la trama da favola orientalistica del suo
racconto, rompendone lo schematismo strutturale e stilistico, per mostrare

il materiale non manipolato, i lunghi momenti di attesa»50. L’attesa cattu-

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rata attraverso la forma documentaria, che lascia il lento procedere dei
fatti svilupparsi di fronte alla macchina da presa, rappresenta questo mo-
mento concesso allo spettatore di “sentire” il Reale – nell’accezione di cui
parla Žižek – senza il filtro del montaggio che impone significato alla ma-
teria informe.
in “forma documentaria” il mondo rappresentato. Un concetto molto si- Mentre il primo episodio ha come soggetto la tradizione e la ripetizione,
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mile è espresso in senso lacaniano da Slavoj Žižek: abbiamo in Rossellini con il secondo episodio, quello della costruzione della diga di Hirakud in
un costante movimento dalla realtà al reale («from reality to real»49), cioè Orissa (girato dal 19 al 26 aprile 1957), Rossellini si sposta dalla foresta
quello che è al di sotto della realtà – il vulcano di Stromboli, la santità del Sud alle grandi pianure dell’Est. L’episodio inizia proprio con la de-
folle di Irene in Europa ’51 e i monumenti (Pompei e Napoli) di Viaggio scrizione della fine dei lavori, costati molti anni e molta fatica. La storia
in Italia –, in cui Rossellini vede attraverso gli occhi della “straniera” (Ber- segue le meditazioni di un operaio che ha contribuito ai lavori: a opera
gman) «una spaccatura della sostanza simbolica» (se pensiamo al Simbo- terminata è costretto a trasferirsi in cerca di un’altra occupazione con la
lico come un strato superimposto alla realtà). Quindi Rossellini supera, sua famiglia. È questo lo sguardo sull’India che si modernizza, raccontata
secondo Žižek, il programma realista interessato a rappresentare la realtà non enfaticamente – in quello che potrebbe essere un inno alla nuova
esterna, ma si impegna a mostrare quell’invisibile “verità” che si cela die- tecnologia occidentale – né pateticamente – come una sorta di triste me-
tro le cose, dietro l’ordine simbolico che dà forma alla realtà. Žižek con- ditazione sull’occidentalizzazione del Terzo Mondo –.
cepisce la forma documentaria, che si presenta alternata alla fiction in La prima scena è una cameracar tra una lunga fila di operai che si stanno
molti progetti rosselliniani, come il progetto «modernista di incorporare il preparando ad abbandonare l’enorme cantiere della diga. La lunga carrellata
fallimento all’interno del prodotto finale, dove per fallimento si intende dalla macchina è in realtà una soggettiva dal punto di vista dell’operaio
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(senza nome) protagonista della storia. È infatti sua la voce fuori campo che sione dell’intellettuale occidentale e dell’intellettuale indiano la si vede nel

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comincia il racconto dei lavori: «Eravamo in trentacinquemila, sette anni di sottile gioco del primo episodio: la maniera documentaria di Rossellini si
lavoro». L’operaio scende dalla jeep per recarsi dal capo cantiere per l’ultimo fonde con il tono trasognato della favola. Nell’episodio della diga l’approc-
stipendio. Il resto dell’episodio segue l’operaio che fa un ultimo nostalgico cio è molto più rigido e didattico. Il flusso di coscienza del protagonista
sopralluogo dei lavori. Le meditazioni che accompagnano le riprese sono sembra preso direttamente da qualche commento sulla modernizzazione in-
quelle del dibattito tra modernizzazione e tradizione nel tentativo di rendere diana in un giornale occidentale dell’epoca.
i sentimenti che accompagnavano i grandi cambiamenti dell’India di Nehru. L’episodio trova una sua coerenza grazie all’insistere delle immagini sui
Ancora una volta la decisione di Rossellini di girare il film da un rigoroso dati concreti della produzione della diga e delle risorse necessarie per co-
punto di vista del personaggio rappresenta il problema centrale per una in- struirla. È infatti l’enfasi di Rossellini sugli strumenti del lavoro che rende
terpretazione postcoloniale dell’opera. Ne è un esempio la scena centrale l’episodio particolarmente efficace. Questa spinta realista del cinema di
dell’episodio, in cui l’operaio decide di fare un bagno rituale nelle acque Rossellini si evidenzia proprio in simili circostanze, in cui ogni volta che
del nuovo lago artificiale. Trattando il nuovo bacino artificiale come se fos- la storia sembra portarci verso la fiction intervengono certi elementi ma-
sero le rive di un antico lago, l’operaio, ripreso con un’inquadratura fissa da teriali – l’insistere su riprese “inutili” alla trama (i tempi morti, che nien-
dietro, entra nell’acqua per lavarsi. Il simbolismo della scena – passato e pre- t’altro sono se non registrazioni del mondo), sui primi piani di oggetti
sente, modernità e tradizione – sembra ridondante e di gusto eccessiva- della vita quotidiana o sugli strumenti di lavoro, come in questo caso, su
mente orientalista. Il problema fondamentale – e mi sembra qui il caso di tutto quello insomma che rientra nell’archivio della forma documentaria
affrontarlo – è quello della voce fuori campo. Chi parla? Di chi sono le pa- – a riportarci indietro verso il cinema come registrazione automatica del
role delle voci che accompagnano le immagini del film? Prima di partire per mondo. In una interessantissima intuizione Giuseppe Ferrara stabilisce un
l’India Rossellini ha letto molto51, e in India si avvale del contributo di So- rapporto tra le tecniche brechtiane e Rossellini: «Lo straniamento (Ver-
nali Senroy DasGupta e di Fereydoun Hoveida. La perfetta fusione della vi- fremdung) infatti ha la funzione di far leva sulla irrealtà, sulla implicita
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contare l’India con il doppio approccio del documentario e della fiction. È
Orissa, la diga interessante notare come la visione del documentario L’India vista da Ros-
sellini aiuti alla comprensione di certi momenti di grande ingenuità poli-
tica di India Matri Bhumi. Un esempio è proprio l’episodio della diga:
nell’ottava puntata de L’India vista da Rossellini rivediamo la diga di Hi-
rakud. Senza la scusa della storia o dell’accompagnamento musicale, per
quasi un’ora lo spettatore è messo davanti alla nudità dei dati. Il commento
di Rossellini è scarno e si limita ai fatti: numeri, statistiche, numero delle
vittime e del denaro necessario all’impresa. Ma anche India Matri Bhumi
offre chiavi di lettura meno semplici di quello che sembra. Proprio per evi-
tare di rimanere dietro la maschera (o il mascherino della macchina da
presa), Rossellini si immerge nello stereotipo per riuscirne dall’altra parte.
Non cerca di evitare l’orientalismo, ma lo riusa come uno degli elementi in
gioco. Ecco allora “la soluzione del problema” a cui Rossellini accenna
nella citazione: così come Brecht ottiene lo straniamento, la riflessione sto-
rica dello spettatore, attraverso il ricorso all’essenza del teatro, così l’in-
contro con l’India apre a Rossellini la nuova strada del film didattico che
svilupperà negli anni successivi nei film per la televisione.
In termini psicologici possiamo parlare del documento, della materialità
di India Matri Bhumi, come una forma di ritorno del represso. Un simile
effetto ha, nell’episodio della diga, la scena del bagno nel lago artificiale:
astrazione della “mimesis” teatrale per togliere lo spettatore dalla sua con- il simbolismo “orientalista” con cui sembra presentarsi allo spettatore ac-
dizione di succube di una illusione [...]. Se [Bertold] Brecht esigeva che il quista altre possibili letture grazie alle tecniche e ai tempi di ripresa. Un
teatro fosse il più possibile teatrale, mettesse in mostra i suoi artifici (la lungo piano sequenza (2 minuti e 30 secondi) in cui la cinepresa fissa im-
sua essenza), per arrivare all’“effetto di straniamento”, in definitiva per mobile, di spalle, la svestizione dell’operaio, il suo entrare in acqua, la-
evidenziare l’oggetto in senso storico, Rossellini ottiene la stessa rileva- varsi, pregare, uscire, rivestirsi. Il simbolismo e la forma documentaria si
zione storicistica sfruttando al massimo l’oggettività, l’estraneità propria fondono per fare sentire allo spettatore – senza maschere – il dramma in-
dell’immagine, il suo valore di freddo specchio delle cose, di assoluto pre- dividuale del giovane, il dramma collettivo dell’industrializzazione impo-
sente»52. sta e anche, metacinematicamente, la presenza della macchina da presa.
Se il Rossellini postneorealista introduce il sentimento dei personaggi, lo Ma questa volta l’attesa, a differenza della scena della tonnara di Strom-
fa mantenendo parte di quel cinema come “freddo specchio delle cose”, e boli, non produce una rivelazione. All’operaio rimangono solo i pochi atti
la tensione tra didatticismo brechtiano e etnografia creativa è cosciente- che precedono la sua partenza, e la ricerca di un altro lavoro.
mente colta proprio da una dichiarazione dello stesso Rossellini: «Le ma- Nel terzo episodio (girato dall’8 al 16 giugno nel National Park of India
schere vanno bene, sono favorevole, ma sono favorevole nella misura in nei pressi di Bombay) Rossellini racconta la storia di un vecchio pastore
cui bisogna togliersi le maschere. È come i marinai del Potiomkin che in un remoto villaggio: l’arrivo di un gruppo di cercatori di ferro irretisce
stanno per fucilare i loro compagni ammutinati: è perché essi hanno il una tigre che assalta e uccide un uomo. Mentre comincia la caccia, il vec-
volto nascosto da un telone che si accorgono che sono loro fratelli. Per me chio si avventura solo nella foresta per cercare di allontanare la tigre e sal-
l’India fu come questo telone immaginato da Eisenstein; come la solu- varla dai cacciatori. La vicinanza alla natura è il tema della storia: in
zione di un problema. Uno cerca giorni e giorni senza trovare; poi, al- contrapposizione con l’episodio della diga, gli aspetti distruttivi della mo-
l’improvviso, ecco la soluzione. Ti fora gli occhi»53. dernizzazione sono condannati.
La metafora del “telone” e della “maschera” dietro cui non essere visti rende Il momento più interessante dal punto di vista stilistico e ideologico è l’ef-
chiaramente il problema ideologico del narratore occidentale a confronto fettivo incontro con la tigre. Il montaggio accosta lo sguardo del vecchio
con l’alterità. L’Oriente rappresenta per eccellenza il posto in cui “vedere” indiano con un’inquadratura della tigre, ripresa in 16mm e girata non in
per non essere visti, per “raccontare” senza essere raccontati, per porsi in continuità con il resto dell’episodio: tigre e uomo non solo non sono mai
un artificiale “al di là” – luogo previlegiato e inattaccabile – da cui imporre nella stessa inquadratura, ma il campo/controcampo rivela un montaggio
una visione sul sottoposto, l’inferiore economicamente e culturalmente. povero e superficiale. Il 16mm gonfiato è scolorito e sgranato, il fondale
Rossellini è conscio del problema, e per questo affronta la difficoltà di rac- è visibilmente diverso dal luogo in cui si trova il vecchio che guarda. Ros-
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India Matri Bhuni
sellini tradisce insomma una delle regole fondamentali del realismo cine-
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matografico baziniano, quelle che il critico francese descrive in Montag-


gio proibito54. Scrive infatti Bazin a proposito di Where No Vultures Fly
(Gli avvoltoi non volano, 1951, di Harry Watt, la storia di una famiglia in-
glese che crea un rifugio per animali durante la seconda guerra mondiale
in Africa), già a suo dire “mediocre”, che il film procede con banali mon-
taggi in parallelo e suspence ingenua e convenzionale. Fino a quando il
figlioletto è pericolosamente vicino a una leonessa: «Ma ecco che con no-
stro stupore il regista abbandona i piani ravvicinati che isolano i prota-
gonisti del dramma, per offrirci simultaneamente nello stesso totale i
genitori, il bambino e la belva. Questa sola inquadratura, in cui ogni
trucco diventa inconcepibile, autentica immediatamente e retroattiva-
mente il banalissimo montaggio che lo precedeva»55.
Sempre nello stesso saggio Bazin ricorda il momento di The Circus (Il circo,
1928) di Charles Chaplin, in cui Charlie e il leone sono nella stessa gabbia.
Insomma, è con l’uso del totale e del piano sequenza, del mantenimento
della fluidità spazio-temporale dell’azione che il film «ci porta d’un colpo
verso il massimo dell’emozione cinematografica»56. Come scrive Serge
Daney a proposito di questo aspetto di Bazin, alla base del realismo c’è il
divieto del montaggio nel momento in cui due oggetti possono essere nella

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della presenza fisica lì e allora diventa un’arma di decostruzione del sistema
della narrazione che allarga la comprensione della scena: la meditazione
del vecchio pastore indiano sul bel tempo andato, preindustriale e naturale,
di cui la tigre è in questo episodio il simbolo, se da una parte perde di in-
tensità emozionale nel momento in cui viene negato allo spettatore il pia-
cere di perdersi nella diegesi, dall’altra aumenta la coscienza politica e
intellettuale di chi si trova costretto a negoziare la narrazione con la natura
inevitabilmente fittizia del cinema come forma rappresentazionale. La tigre
di celluloide fa forse meno paura della creazione computerizzata di Juras-
sic Park (id., 1993) di Steven Spielberg, o di Charlie in gabbia con il leone,
ma di sicuro si propone come riflessione antiorientalista: ancora una volta
Rossellini usa il cinema e il suo dispositivo per creare una distanza tra la vi-
sione imposta dal narratore e la realtà sullo schermo. Il cinema interviene
a spodestare ogni forma di imposizione – e interpretazione – della realtà per
mostrare «l’idea che sta dietro l’immagine»60.
Una scimmia ammaestrata e il suo padrone sono in cammino da villag-
gio a villaggio. Il quarto e ultimo episodio del film (girato a Mumbra,
presso Bombay, dal 18 al 22 maggio) comincia proprio con la morte del-
l’uomo: la scimmia continua il suo viaggio e si esibisce sola a una fiera.
Senza nessuno a prendersi cura di lei, tenta di rientrare nel suo ambiente
naturale, ma le scimmie selvatiche la rifiutano. Finalmente la rivediamo
nell’ultima sequenza in un circo.
Il film si chiude con lo stesso tono da cinegiornale con cui era iniziato.
Questa volta senza voce di commento, ma solo con il suono delle tablas
e le immagini di Bombay del principio.
Nella letteratura esotica esistono chiari topoi degli animali selvaggi. Come
nota Isabella Pezzini, «la crudeltà e l’irriducibile ferocia degli animali di
stessa inquadratura, e soprattutto, una forma di sado-esteticismo per cui queste contrade sono palesi antropomorfizzazioni, e, per contiguità, molto
India Matri Bhuni

bisogna morire per le proprie immagini: «Questo è l’erotismo per Bazin», spesso passano a connotare i loro connazionali umani»61. Anche Rossel-
chiude sarcasticamente Daney57. La scelta rosselliniana mi sembra offrire lini sembra in un certo senso vittima di questa facile antropomorfizza-
sul piano metacinematico una riflessione sul dispositivo già in atto nei primi zione62. Come abbiamo già visto nell’episodio della tigre, se India Matri
film neorealisti, e poi sempre più evidente nel periodo Bergman. Proprio il Bhumi rifiuta la stereotipizzazione esposta da Pezzini per usare gli animali
momento simbolicamente più carico del film, e cioè l’incontro con la belva come personaggi della storia, non si può non notare come la scimmietta
attorno a cui l’intero episodio sembra costruito, a causa della discrepanza è vittima della solitudine e del disadattamento alla società che la circonda,
tecnica, si propone “staccato”, come un “tra parentesi” o forse una sottoli- quella degli umani e quella degli animali, proprio come le protagoniste di
neatura della finzione del cinema. Da notare come invece gran parte del- Stromboli ed Europa ’51. Gli animali – e la scimmia di questa storia in
l’episodio sia stilisticamente orientato verso lunghi piani sequenza, rifiuto particolare – fanno parte della poetica rosselliniana. La semplicità di que-
del campo/controcampo, totali, carrellate e campi lunghi. Ancora una volta sto ultimo episodio, senza parole, vuole raggiungere la forza espressiva ed
attraverso un trucco di smascheramento Rossellini sgancia lo sguardo dello emotiva della parabola evangelica. Da che parte sta la libertà? Dove si
spettatore dalla diegesi per ridirigerlo verso l’artificialità del cinema: il di- trova la vera vita? Ecco le domande che Rossellini si pone nel corso della
verso passo – 16 e 35mm – con cui la scena è costruita, anziché presentare sua carriera e che chiudono l’avventura indiana.
l’arrivo della tigre come climax drammatico lo “abbassa” alla sua realtà di Al suo ritorno in Italia Rossellini dichiara alla stampa: «Mi è sembrato
ripresa documentaristica58. Il tono favolistico e moraleggiante della storia si tuttavia di trovarci [in India] delle cose familiari [...] un po’ come la casa
disintegra: al suo posto rimane il dubbio della presenza fisica della mac- paterna alla quale si ritorna per Natale [...]. Ho avuto l’impressione di ri-
china da presa. Come nota Roland Barthes, il tempo della fotografia non è trovare Napoli»63. La casa paterna è simbolica della casa occidentale, del
quello del «ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato [...]. qui contrapposto all’altrove, del posto Heimlich dove tutto è chiaro e de-
Ogni fotografia è un certificato di presenza»59. La negazione del documento, finito – in particolare i ruoli domestici che toccano ai due sessi. Napoli è
72 73
invece l’altro dell’altro, l’alterità interna dell’Italia, la città “porosa” – se- mente separati entrano in contatto gli uni con gli altri e stabiliscono solidi rap-
condo la definizione di Walter Benjamin – che rifiuta l’assimilazione al porti che in genere includono condizioni di coercizione, radicali ineguaglianze
modello occidentale della nuova Italia postunitaria. La percezione del con- e irrisolvibili conflitti» (mia traduzione).
tinente indiano è per Rossellini stretta nella definizione di questi due pa- 12. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 12.
rametri: luogo dell’ordine e dell’affermazione del simbolico, la culla del 13. Giorgio Agamben, Stanze: la parola e il fantasma nella cultura occidentale,
mondo e quindi luogo per eccellenza del Grande Altro – come spiega Žižek Einaudi, Torino, 1977, p. 39.
– che controlla con il suo rigido sistema di caste e di regole la vita di tutti 14. Ibid.
i giorni (religione, Stato, cultura), ma è allo stesso tempo l’«almost the 15. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 109.
same but not quite»64, il vero luogo dell’Unheimlich, cioè di ciò che do- 16. Adriano Aprà, Rossellini oltre il neorealismo, in Lino Miccichè (a cura di), Il
vrebbe essere familiare e non lo è. Ma la menzione di Napoli ci riporta a neorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1999, p. 289.
Viaggio in Italia come film cardine della carriera rosselliniana. Se là Ros- 17. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 72.
sellini abbandonava il neorealismo per entrare nel cinema d’autore, con 18. Cfr. Tullio Kezich, Viaggio in Italia, «Sipario», 102, ottobre 1954, p. 34; Fer-
India Matri Bhumi supera l’esperimento modernista per dedicarsi al ci- naldo Di Giammatteo, Viaggio in Italia, «Rassegna del Film», 24, ottobre 1954;
nema educativo. Come ben ci spiegherà in Illibatezza (1963), episodio di Marino Onorati, Viaggio in Italia, «Film d’Oggi», 41, 14 ottobre 1954.
Ro.Go.Pa.G. 19. Il dibattito “Sciolti dal giuramento”, avviato dall’articolo di Renzo Renzi,
Sciolti dal “Giuramento”, apparso su «Cinema Nuovo» nel numero 84, 10 giugno
1956, e protrattosi sulle pagine della stessa rivista per circa due anni, ha rac-
1. Roberto Rossellini, Il mio dopoguerra, «Cinema Nuovo», 70, 10 novembre colto i contributi di intellettuali come Paolo Gobetti, Umberto Barbaro, Italo
1955, p. 346. Calvino, Vittorio Spinazzola, che sono stati tutti successivamente riuniti da
2. Karl Marx, The British Rule in India, «New York Daily Tribune», 25 giugno 1853, Guido Aristarco in Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul ci-
poi in Shlomo Avineri, Karl Marx on Colonialism and Modernization: His Dispat- nema degli anni Cinquanta, Dedalo, Bari, 1981; la Difesa di Rossellini di André
ches and Other Writings on China, India, Mexico, the Middle East and North Bazin è apparsa su «Cinema Nuovo», 63, il 25 agosto 1965, pp. 147-149.
Africa, Doubleday & Company, Garden City, New York, 1968, p. 85. 20. Jacques Rivette, Lettre sur Rossellini, «Cahiers du Cinéma», 46, aprile 1955,
3. Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di Adriano Aprà, p. 14.
Marsilio, Venezia, 1987, p. 185. 21. François Truffaut, Rossellini: Je ne suis pas le père du néoréalisme, «Arts», 16
4. Cfr. Luca Caminati, Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del giugno 1954, p. 3.
Terzo Mondo, Mondadori, Milano, 2007; Edward W. Said, Orientalismo, Feltri- 22. Cfr. Alexandre Astruc, Nascita di una nuova avanguardia: la caméra stylo, in
nelli, Milano, 1999 (ed. or. Orientalism, Pantheon Books, New York, 1978); Homi Andrea Martini (a cura di), Utopia e cinema. Cento anni di sogni, progetti e pa-
Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 2001 (ed. or. The Location of Cul- radossi, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Marsilio, Venezia, 1994, pp.
ture, Routledge, London-New York, 1994). 57-61 (originariamente pubblicato, col titolo Du stylo à la caméra et de la ca-
5. Said, Orientalismo, cit., p. 11. méra au stylo, su «L’Écran Française», 144, 13 marzo 1948); e François Truffaut,
6. Si veda su questo il bel volume curato da Rossana Bossaglia, Gli orientalisti Une certaine tendance du cinéma français, «Cahiers du Cinéma», 31, gennaio
italiani. Cento anni di esotismo 1830-1940, Marsilio, Venezia, 1998. 1954, pp. 15-29; trad. it. Una certa tendenza del cinema francese, in Id., Il pia-
7. Come ben scrive Caren Kaplan in Questions of Travel. Postmodern Discourses cere degli occhi, Marsilio, Venezia, 1989.
of Displacement, Duke University Press, Durham, 1996, p. 50. 23. Nota bene Laura Rascaroli, in The Personal Camera: Subjective Cinema and
8. Si veda su questo argomento il bel volume di Rossana Dedola, La valigia delle the Essay Film, Wallflower, London, 2009, p. 194, come la metafora della penna
Indie e altri bagagli. Racconti di viaggiatori illustri, Mondadori, Milano, 2006. fosse già stata adottata da Cesare Zavattini in un suo saggio apparso su «Ci-
In particolare su Manganelli si veda Grazia Menechella, Il felice vanverare. Iro- nema», 92, 25 aprile 1940, ora in Id., Neorealismo ecc., a cura di Mino Argen-
nia e parodia nell’opera narrativa di Giorgio Manganelli, Ravenna, Longo, 2002. tieri, Bompiani, Milano, 1979.
9. Il traduttore del volume di Bhabha non coglie la genealogia freudiana del ter- 24 Un’analisi dell’avveramento delle teorie di Astruc è condotto da Bjørn Sø-
mine, che così va completamente persa per il lettore italiano. Cfr. Bhabha, I luo- rensen, Digital Video and Alexander Astruc’s caméra-stylo: the new avant-garde
ghi della cultura, cit., p. 22. in documentary realized?, «Studies in Documentary Film», 2, 2008, pp. 47-59.
10. Bhabha, The Location of Culture, cit., p. 86. 25. Cfr. Alexandre Astruc, Renaissance du cinéma Italie: Rome, ville ouverte,
11. Per il concetto di “zone di contatto” si veda il saggio di Mary Louise Pratt, «Combat», 16 novembre 1946, p. 5.
Imperial Eyes. Travel Writing and Transculturation, Routledge, London, 1992, p. 26. Cfr. Ennio Flaiano, L’isola di Rossellini, «Il Mondo», 25 marzo 1950, ora in Id.,
4, dove l’autrice definisce le zone postcoloniali come una «contact zone», «lo Lettere d’amore al cinema, a cura di Cristina Bragaglia, Rizzoli, Milano, 1978, p.
spazio di incontri coloniali, lo spazio dove popoli storicamente e geografica- 159.
74 75
27. Jean Rouch, La ricerca della verità, in Edoardo Bruno (a cura di), Roberto 47. Adriano Aprà, intervento in un dibattito in Gianni Menon (a cura di), Di-
Rossellini. Il cinema, la televisione, la storia, la critica, Atti del convegno (16-23 battito su Rossellini, Partisan, Roma, 1972, p. 40.
settembre 1978), Città di Sanremo, Assessorato per il Turismo e le Manifesta- 48. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 88.
zioni, Sanremo, 1980, p. 47. 49. Slavoj Žižek, Rossellini: Woman as Symptom of Man, «October», 54, autunno
28. Cfr. Joram Brink (a cura di), Building Bridges. The Cinema of Jean Rouch, 1990, p. 40.
Wallflower, London, 2007, p. 14. 50. Ivi, p. 44 (mia traduzione).
29. Come riporta Dirk Nijland, Jean Rouch: A Builder of Bridges, in Brink (a cura 51. Cfr. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, cit., pp. 453-456.
di), Building Bridges, cit., p. 30. 52. Giuseppe Ferrara, L’opera di Roberto Rossellini, in Piero Mechini, Roberto
30. Cfr. Mick Eaton (a cura di), Anthropology, Reality, Cinema. The Films of Jean Salvadori (a cura di), Rossellini, Antonioni, Buñuel, Marsilio, Padova, 1973, p.
Rouch, bfi Publishing, London, 1979, p. 22. 32.
31. Jean Rouch, Ciné-ethnography, University of Minnesota Press, Minneapo- 53. Gianni Rondolino, Roberto Rossellini, utet, Torino, 2006, p. 20.
lis, 2003, pp. 20-21. 54. Montaggio proibito è raccolto in André Bazin, Che cosa è il cinema?, a cura
32. Cfr. François Truffaut, in Mario Verdone, Roberto Rossellini, Seghers, Paris, di Adriano Aprà, Garzanti, Milano, 1973.
1963, p. 199. 55. Bazin, Montaggio proibito, cit., p. 71.
33. Cfr. Ian Mundell, “Rouch Isn’t Here, He Has Left”: A Report on Building Bridges: 56. Ibid.
The Cinema of Jean Rouch, French Institute, London, 2004 (rintracciabile sul sito 57. Serge Daney, L’Écran du fantasme (Bazin et les bêtes), in Id., La Rampe. Ca-
<http://www.senseofcinema.com/2005/festival-reports/jean_rouch_conference>). hiers critique 1970-1982, Cahiers du Cinéma, Gallimard, Paris, 1983, p. 34 (mia
34. Cfr. Clifford Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bo- traduzione).
logna, 1990. 58. Una tecnica simile viene impiegata da Rossellini nel momento più dram-
35. Cfr. Eaton (a cura di), Anthropology, Reality, Cinema, cit., p. 8. matico di Roma città aperta (1945), la morte di Pina. Mentre lo spettatore è cat-
36. Rossellini, Il mio dopoguerra, cit., p. 346. turato nel gioco di campo e controcampo motivato dallo scambio di sguardi
37. Così Paul Stoller, in The Cinematic Griot. The Ethnography of Jean Rouch, disperati tra Pina e Francesco, Rossellini introduce una terza inquadratura che
The University of Chicago Press, Chicago, 1992, p. 213, definisce Rouch. oggettivizza e de-drammatizza la scena. Ringrazio Patrick Rumble per il sug-
38. Jean-Luc Godard, India, «Cahiers du Cinéma», 96, giugno 1959, p. 41. gerimento.
39. Uomini drappeggiati e uomini cuciti, intervista di François Tranchant e Jean- 59. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino,
Marie Vérité, in Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 189. 1980, p. 86.
40. Pio Baldelli, Roberto Rossellini. I suoi film (1936-1972) e la filmografia com- 60. Aprà, in Menon (a cura di), Dibattito su Rossellini, cit., p. 40.
pleta. Dibattiti e intervista al regista, Samonà e Savelli, La Nuova Sinistra, Roma, 61. Isabella Pezzini, Asia teatro dell’immaginario. Viaggi letterari, avventure,
1972, p. 148. gusto e divulgazione fra Ottocento e Novecento, in Oriente: storie di viaggiatori
41. È interessante notare come molti film di Rossellini abbiano nel titolo un italiani, Nuovo Banco Ambrosiano, Milano, 1985, p. 245.
nome geografico (Roma, Germania, India). C’è la fascinazione per il locale (di de- 62. Nell’eccellente volume India. Rossellini et les animaux, a cura di Nathalie
rivazione neorealista; è il posto che detta il film) e il tentativo idealista di co- Bourgeois e Bernard Bénoliel, con Alain Bergala, Cinémathèque Française, Paris,
gliere lo Zeitgeist del luogo, l’essenza della realtà, «lo splendore del vero», come 1997, una serie di critici mette in rilievo il ruolo fondamentale del mondo ani-
lo definisce Godard. Ma dobbiamo ricordare anche molti film dedicati a perso- male nella poetica di Rossellini.
naggi famosi (Socrate, Luigi xiv, Francesco), tributo di Rossellini all’iniziativa 63. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 185.
personale e alla sua fede nella libertà personale, e, ancora, la presenza di una 64. Bhabha, The Location of Culture, cit., p. 86.
data esplicita (Europa ’51, India 58) o implicita (legata a un nome che è rap-
presentativo di un’era). Più in generale, c’è il tentativo di rappresentare oltre il
soggettivismo dell’autore e la soggettività dei personaggi.
42. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films,
Da Capo Press, New York, 1998, pp. 465-473.
43. Per il concetto di “fissità” («fixity») si veda Bhabha, The Location of Culture,
cit., p. 66.
44. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 169.
45. Ivi, p. 91.
46. Su questo aspetto si veda l’articolo di John Hughes, Recent Rossellini, «Film
Comment», 4, luglio-agosto 1974.
76 77
I documentari televisivi sull’India

Le magique ne m’attire pas [...] c’est la réalité qui m’intéresse1.

Se c’è un film liminale per contenuto e forma all’interno dell’opera rossel-


liniana, questo è senz’altro Illibatezza, episodio di Ro.Go.Pa.G. (1963), film
a episodi diretti in ordine da Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pa-
solini e Ugo Gregoretti. In Illibatezza siamo in una falsissima Bangkok (ri-
creata in studio a Roma) dove una sorridente Rosanna Schiaffino interpreta
Anna Maria, hostess dell’Alitalia, la quale, piuttosto che scrivere noiose
lettere al fidanzato a Roma, preferisce inviargli filmini in super8 dai vari
posti del mondo in cui si trova. Nell’epoca di Facebook si vive la norma-
lità della condivisione delle immagini, e il diventare ogni giorno protago-
nisti del film della propria vita non fa impressione. Ma nel 1963 questo
commercio di immagini (benché assolutamente innocenti) fa innamorare
perdutamente Joe, un commesso viaggiatore americano un po’ sovrappeso
e d’incipiente calvizie, non lontano nell’aspetto fisico dal regista del film.
E Joe, che di professione vende programmi televisivi (I Love Lucy e Perry
Mason sono il suo forte), ha pure lui la stessa arma segreta: una piccola
macchina da presa con cui segretamente segue Anna Maria e un proiettore
portatile con cui riproduce le immagini della bella sulle pareti della ca-
mera d’hotel. Come notano giustamente Stefano Masi ed Enrico Lancia, il
mediometraggio è un vero trattatello sul cinema, sul ruolo globalizzante
della televisione e sul problema dell’autenticità delle immagini2. Illibatezza
è un attacco al presunto oggettivismo del cinema (film quanto mai falso,
fatto di fondali, veline e specchi a ricreare un improbabile Oriente) e una
virulenta accusa al feticismo dell’immagine e del dispositivo cinematogra-
fico allora in auge tra i giovani della Nouvelle Vague. Con largo anticipo
rispetto alle teorie debordiane, Illibatezza ironizza sulla società dello spet-
tacolo in cui la realtà è diventata immagine, e l’immagine è diventata
merce. Il mondo virtuale riesce a mercificare la vita quotidiana (Pasolini la
Orissa, la diga

battezza senza mezzi termini “irrealtà”!) e a trasformare anche la coscienza


individuale. L’americano finisce così, dopo l’ennesimo rifiuto di Anna
Maria, a smaniare contro il muro della camera d’albergo su cui proietta
immagini della bella hostess: nell’era della pornografia in web, Rossellini
< sembra essere stato profetico nella sua analisi.
79
Il film di Rossellini si rivela altrettanto interessante se letto in parallelo a un

Rossellini sul set


saggio del filosofo americano Stanley Cavell3, che analizza una scena di
Adam’s Rib (La costola di Adamo, 1949) di George Cukor. Cavell si sofferma
sulla scena del picnic in cui la coppia protagonista mostra agli amici un
filmino autoprodotto. Adam e Amanda (Spencer Tracy e Katharine Hep-
burn) proiettano un home movie ante litteram, proprio come il protagoni-
sta di Illibatezza. Il film amatoriale è in entrambi i casi una parodia del tema
del film esterno, ne La costola di Adamo la lotta tra i sessi, in Illibatezza lo
smanioso e maniacale corteggiamento dell’uomo non più per la donna in
carne e ossa ma per la sua immagine proiettata. Ma soprattutto, come tipico
dell’opera modernista, i due film sottolineano la loro autoreferenzialità, cioè
l’opera d’arte cita la propria stessa materialità, la natura del proprio essere
oggetto artistico. Basta questo a identificare il film nel film come un mo-
mento di confronto con quello che lo stesso Cavell, in The World Viewed,
definisce «the automatism», cioè «a succession of automatic world projec-
tions»4 che forma la base materiale dell’arte cinematografica. I “mondi pro-
iettati” dai due film sono però alquanto diversi: quello de La costola di
Adamo è ancora avvolto nel sogno teleologico liberal-democratico della so-
cietà americana, tesa verso un’unione migliore e in perenne lotta verso una
vera uguaglianza (in questo caso quella tra i due sessi). Illibatezza, film di
un decennio successivo, presenta al contrario un mondo globalizzato divo- Organization) a Parigi, dove si proiettano La punition (1962) di Jean
rato dai nuovi “non luoghi” della incipiente postmodernità (aeroporti, hotel, Rouch e Showman (1963) dei fratelli Albert e David Maysles, ed entrando
uffici) in cui anche l’esotico esiste in forma mediata (per prendere in pre- vede un gruppo di giovani assiepato attorno a un nuovo modello di mac-
stito la terminologia di Marc Augé5). I filtri e i trucchi a buon mercato di china da presa a mano. Rossellini è indispettito da questo «mito della mac-
Rossellini riflettono a livello di messa in scena il messaggio del film, teso a china da presa come se fossimo su Marte [...]. La macchina da presa è una
mostrare la perdita dell’autenticità della società mediatica. La macchina a penna a sfera, una scemenza qualsiasi, non ha alcun valore se non si ha
mano funziona più da scudo che da medium per (non) vedere il mondo, o, qualcosa da dire»7. La macchina da presa per Rossellini deve essere una
peggio, per vederlo sotto l’egida protettiva dello status di turista (cioè non possibilità di cinema alternativo, di cinema esteso che può sopperire ai
veramente coinvolto, non veramente lì, ma solo osservatore esterno). Se il bisogni umani (Anna Maria usa le video lettere per comunicare con l’in-
film nel film di Cukor era un gesto artistico e democratico, in Illibatezza namorato), e infine di cinema come esplorazione: esplorazione del mondo,
film interno ed esterno si confrontano su un ben più duro campo di batta- esplorazione dei sentimenti ed esplorazione della rete ideologico-sociale.
glia: realtà contro fantasmi, finzione contro documentario. I filmini ama- Se Tracy ed Hepburn finiscono il film pronti a continuare la loro batta-
toriali, ai nostri giorni onnipresenti grazie alla videocamera digitale, glia tutta americana contro i diritti negati, Anna Maria e Joe (e Rossellini
rappresentano il primo caso di cinema diffuso, e per la precisione di docu- con loro) si avviano verso la fine del cinema come apparato novecente-
mentario privato atto a creare un archivio visivo personale. Ma cosa sono sco (la sala cinematografica), muovendosi dal semplice cinema d’esplora-
i progetti di Rossellini per la televisione, se non tentativi di portare l’im- zione alla vera esplorazione del cinema.
mediatezza dell’amatoriale sullo schermo televisivo? La caméra-stylo al cen-
tro del nuovo cinema democratico? «L’India vista da Rossellini»
Da un punto di vista ideologico Illibatezza offre un altro piano di lettura I due documentari indiani non sono solo complementari al lungometrag-
autobiografico. Rossellini critica la società dello spettacolo e l’immagine gio India Matri Bhumi, ma anche l’inizio di un nuovo modo di pensare
diffusa (e ne è prova il suo operare al di fuori del sistema), e allo stesso l’immagine televisiva in relazione all’ideologia dello spettacolo e all’in-
tempo rifiuta il “culto del dispositivo”. Insomma, l’autoreferenzialità del- formazione. In questi due esperimenti con la televisione vediamo il primo
l’opera diventa critica dell’immagine reificata e de-umanizzante e con- tentativo da parte di Rossellini di raggiungere un ben più ampio numero
danna di chi feticizza il medium. È dell’aprile 1963 la polemica di di spettatori attraverso un medium allora nuovo. L’India vista da Rossel-
Rossellini contro i giovani registi del cinéma vérité6, e vale la pena ripor- lini venne registrato negli studi RAI a bassissimo costo. In sala, a interlo-
tare l’aneddoto. Rossellini è invitato dall’amico Enrico Fulchignoni a una quire con Rossellini, un giornalista già del settimanale comunista «Vie
conferenza UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Nuove» ma sdoganato dai democristiani e dal Vaticano, Marco Cesarini
80 81
Sforza. La cifra più evidente della trasmissione è proprio il profondo

Sopralluoghi in India
sprezzo che il regista prova per questo mezzo busto e la bizzarra discre-
panza di carattere: Rossellini curioso, umile di fronte alla maestosità del
subcontinente indiano, desideroso di capire e far capire; il giornalista sac-
cente, untuoso, desideroso di compiacere l’intervistato, contenitore amorfo
di ogni tipo di banalità orientalistica in circolazione nell’Italia della fine
degli anni ’50. Certo il tipo di spettatore che più disgustava Rossellini8.
Il programma di dieci puntate di circa 20 minuti l’una (per un totale di 251
minuti di trasmissione) prevede un alternarsi di due inquadrature: una
frontale che riprende i due protagonisti mentre discutono “amabilmente”,
e una da dietro le spalle, che sfuma nelle immagini in 16mm fotografate
da Aldo Tonti durante il viaggio indiano. L’impostazione della scenogra-
fia e della regia televisive è dunque da salotto, piuttosto che da lezione di
antropologia.
Dopo una breve introduzione sull’argomento della serata, parte il film. Nella
prima puntata, India senza miti, Cesarini Sforza ci informa che «sono i tac-
cuini di viaggio di un viaggiatore con gli occhi aperti alla realtà che lo cir-
conda», che «ha usato la macchina da presa come un inviato speciale di un
giornale adopera la sua penna», e inoltre che «il narrato non sarà una nar-
razione ma sarà una conversazione». Ma a questa dichiarazione pronta-
mente Rossellini aggiunge che «forse Salgari è il più onesto, è il più vero»,
stabilendo fin da subito la sua piena coscienza della tradizione orientalista
occidentale. Citando Salgari Rossellini affronta di petto, piuttosto che na-
scondere, il suo fardello di uomo bianco. Ponendo Salgari in posizione di
prominenza ideologica («il più onesto»), Rossellini intende semplicemente
dire che lo scrittore non si faceva scrupolo di mettere nella sua arte, di-
ciamo senza filtri ideologici (oggigiorno diremmo political correctness),
un’India inventata di sana pianta, frutto di elaborazioni di altri narrati
orientalisti, un mondo di visioni, una proiezione occidentale di un Oriente di convivenza religiosa è interrotta. La sequenza comincia con un gruppo
decadente, ozioso e sensuale. Ma dopo avere accettato la visione esotica di di persone seduto a gambe incrociate “all’indiana”, intento nella lettura.
Salgari, subito Rossellini impone il suo programma di investigazione so- L’impavido giornalista con cui Rossellini conversa chiede: «Stanno pre-
ciale, politica e antropologica. L’India è «un paese straordinario perché sta gando?». Con un abile colpo di teatro si cambia inquadratura e Rossellini
facendo una grossa battaglia per il suo sviluppo», e di se stesso dichiara che risponde: «No, siamo alle corse dei cavalli!». I “libri sacri” che le persone
«lo sforzo che [ha] fatto è di vedere un’India assolutamente reale». Nella viste in precedenza tengono in grembo sono i programmi delle corse su cui
tradizione del viaggiatore scrupoloso, “illuminista”, Rossellini si impegna a scommettere. Rossellini sfrutta in maniera efficace uno dei primi trucchi
sfatare i miti, gli stereotipi, attraverso quella che per lui è un’analisi dei fatti del cinema, quello che Siegfried Kracauer, riferendosi a The Immigrant
sociali ed economici del paese. Se in India Matri Bhumi l’aspetto antropo- (L’emigrante, 1917) di Charles Chaplin, chiama debunking9. All’inizio del
logico è sussunto all’interno della narrazione, qui l’intento politico e didat- film, un passeggero sembra vittima del mal di mare, quando un cambio del-
tico del film è chiaro fin da subito: «Quello che mi ha più sorpreso in India l’angolo dell’inquadratura ci mostra che in realtà sta pescando. Debunking,
– dichiara Rossellini – è il loro spirito profondamente razionale». E infatti cioè “sfatare” o “distruggere” (la traduzione italiana di Paolo Gobetti, nel-
in India senza miti organizza un agguato allo spettatore per prevenire ogni l’edizione a cura di Guido Aristarco, parla di “palloni sgonfiati”), è per il fi-
possibile deriva esotica. Si comincia alla Banganga Tank, la piscina sacra del losofo tedesco uno dei principi fondamentali del cinema realistico, cioè del
tempio di Walkeshwar sulla collina di Malabar a Bombay. Da qui si passa a cinema che registra e rivela il vero aspetto del mondo. Rossellini attacca,
un tempio Parsi, mentre Rossellini spiega come le diverse religioni convi- sfruttando le proprietà del dispositivo, sia la sufficienza e superficialità di
vano pacificamente, e non sia inusuale vedere fedeli di religioni diverse re- una visione banalmente orientalista, che ci fa vedere il sacro dove non c’è,
carsi nel tempio altrui. Vediamo così immagini di una chiesa cattolica sia, dal punto di vista metacinematico, la presupposizione dello spettatore,
frequentata da donne musulmane e hindu. Ma subito l’atmosfera elegiaca che spesso dimentica l’inevitabile illusorietà del realismo cinematografico
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che ci fa vedere causa ed effetto dove non ci sono.
L’agguato mediatico ci ha liberato dal dovere di parlare di religione, e così
Rossellini ci porta in giro per i luoghi di ricreazione, una partita di cric-
ket di bambini in una scuola, l’hockey su prato in un parco di Bombay, e
poi i giocolieri di strada, con una povera scimmia ammaestrata che mima
un combattimento con un bastone (ovvia ispirazione per l’ultimo episo-
dio di India Matri Bhumi). Si passa poi a un incantatore di serpenti (siamo
su Marine Drive a Bombay), ma Rossellini commenta: «Il vero spettacolo
ero io che stavo proprio qui dove mi trovo». L’incantatore è povera cosa,
e i ragazzini indiani sono più interessati alla troupe occidentale.
La seconda puntata, Bombay, la porta dell’India, è dedicata alla tolleranza
etnico-religiosa, indicata da Rossellini come un modello da seguire: «L’In-
dia è un enorme stomaco, ha digerito tutto quello che veniva da fuori»,
proclama. L’episodio più significativo del film è senz’altro il finale sui due
funerali, l’interramento musulmano e la pira del funerale hindi. Proprio su
una pira funebre Pasolini, nel 1967, durante le riprese di Appunti per un
film sull’India (1968), decide di chiudere il film. Ma se Pasolini sovracca-
rica questo momento con la voce di commento che offre le sue conside-
razioni finali sull’esperienza indiana, Rossellini decide di lasciare lo
spettatore a contemplare in silenzio le immagini.
La terza puntata è dedicata ad Architettura e costumi di Bombay, e qui si
percorre in macchina tutta la città. Ma non prima di un siparietto molto
rosselliniano: a Chowpatty Beach le immagini si dilungano a mostrare
gente che si riposa un po’ ovunque: sui marciapiedi, sui muretti, ai piedi
di qualche statua di generale inglese. Rossellini ricorda come nella sta-
tuaria romana spesso i soggetti sono rappresentati nello stato di ozio. Così
questi distinti impiegati che fanno un pisolino sulle scale della stazione at- resiste, sembra, senza problemi. Dato che la grande maggioranza di que-

Orissa, la diga
traggono l’attenzione del “pigro” Rossellini, ma fanno anche scattare la sta massa operaia è analfabeta, sia i vestiti che i pranzi sono classificati
voglia di vedere la comune innervatura dell’essere umano occidentale e con un sistema di colori. Orgogliosamente Rossellini afferma che le con-
orientale, una comune umanità che Rossellini usa per dimostrare che gli segne avvengono sempre puntuali e senza alcun errore!
indiani infine sono come noi. Anzi, meglio: «Guardi cosa ha fatto l’India Nella quarta puntata siamo a Varsova, villaggio di pescatori a nord di
in dieci anni» commenta Rossellini. Le riprese indagano acutamente il pa- Bombay, con una popolazione maharashtra. Qui ci viene mostrato come
linsesto postcoloniale: un cambio di fuoco dell’obiettivo ci mostra imma- il pesce viene usato sia come cibo che come fertilizzante, e qui «nelle co-
gini di vele greche presso la riva, e all’orizzonte una nave container, a munità dei pescatori si trovano i cattolici». Questo episodio ci introduce
ribadire la coesistenza tra tradizione e modernità. «In India c’è la con- a un modello che vedremo ripetuto nel corso delle varie puntate del do-
temporaneità della storia: si è immersi nel passato e si è nel presente», e cumentario (e tipico dello spirito didattico rosselliniano, che ritroveremo
un po’ ingenuamente Rossellini commenta: «Loro non hanno il senso della in molti suoi film per la televisione), in cui l’intero ciclo della produzione
storia», in questo senso non conscio del particolare percorso delle nazioni industriale viene studiato e analizzato nei dettagli: dall’uso delle barche
postcoloniali, in particolare di quelle soggette alla forzata modernizza- ai metodi di seccatura del pesce, al trasporto, le riprese a tratti sembrano
zione postpartizione come l’India. Le immagini che seguono sono oggi ti- un infomercial per la politica di modernizzazione delle tecniche di pesca
piche del turista in India (chi scrive è stato oggetto dello stesso trattamento introdotte da Jawaharlal Nehru.
da parte dello zelante autista), ma nel 1957 erano una novità (in un’Ita- Ad alleggerire la serietà dell’argomento, la quinta puntata è ampiamente
lia in cui la tv era arrivata da pochi anni, e le immagini dell’alterità non dedicata alla cucina e si esordisce con Rossellini stesso che legge una ri-
erano ancora parte del quotidiano televisivo). Si passa così dalla lavan- cetta per una zuppa di lenticchie. Anche se in questo frammento il regi-
deria a cielo aperto di Dhobi Ghat ai facchini con il loro carico di scalda- sta non appare del tutto avverso ai prodotti locali, le testimonianze di chi
pranzi, e così via. Quello che entusiasma Rossellini è la precisione e la era in viaggio con lui ci dicono di un Rossellini alla disperata ricerca di
razionalità di queste immense operazioni, un incubo logistico che invece pasta e parmigiano. Ma per il pubblico italiano, di cui egli ben conosce il
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trovare in due volumi, allora molto popolari. Il primo è la biografia cul-
turale del proprio paese di Nehru, The Discovery of India, memorie scritte
nel forte di Ahmednagar, lì imprigionato dagli inglesi dal 1942 al 1945, e
originariamente pubblicato nel 1946, e l’altro è l’intervista di Tibor Mende,
Conversations with Mr. Nehru, pubblicato nel 195611.
La bibliografia (se Rossellini fosse stato più pedante avrebbe messo la lista
dei volumi nei titoli di testa) è protagonista della sesta puntata, Le lagune di
Malabar. Il solito impossibile Cesarini Sforza esordisce, nella sua totale neb-
bia storico-geografica: «Ci siamo spinti fino alla costa sud-occidentale, a
Malabar [...]. La vita è più facile o più difficile?». Rossellini spiega: «Sono
molto più poveri. Ma devo dare dei cenni storici sugli ultimi duecento anni
di storia dell’India [...]. È a causa delle barriere commerciali istituite dagli in-
glesi per proteggere le fabbriche tessili di Manchester che il paese si depau-
pera. Gli artigiani devono tornare a vivere sulla terra. Si sono sviluppate
monocolture a fini strettamente industriali». Le lagune di Malabar segue con
attenzione la pesca e la lavorazione del pesce, e la raccolta del cocco. Per for-
tuna non vediamo il volto di Rossellini quando, in riferimento ai raccogli-
tori di cocco, Cesarini Sforza commenta che «si arrampicano come mosche»
o quando, di fronte a immagini di giovinette dravide agghindate, il giorna-
lista prontamente replica che sono «piacevolmente differenti». Anche Ros-
sellini non scherza quando si parla di stereotipi. Il suo documentario prodotto
per la NBC “Idea di un’isola” (1967) è evocato qui, quando afferma: «Come
tutti gli uomini del Sud sono molto più esuberanti [...]. Sono cattolici, quindi
mangiano il pesce». Il tono delle immagini, lunghi piani sequenza ad ac-
compagnare le barche nella laguna, sembra ispirare una certa rêverie di am-
bedue i narratori. Siamo nello stato del Kerala, e ora ci si sofferma sui villaggi
provincialismo culturale e l’orgoglio culinario, fa buon viso a cattivo nei boschi di cocco, sul colore della giungla e sulle imbarcazioni («sembra
Rossellini sul set

gioco, e si dilunga in grandi elogi della cucina indiana. Si prosegue con una barca fenicia»). Ma finalmente l’aspetto tecnico e pragmatico riprende il
le immagini, e Verso il sud ci porta in un villaggio musulmano, per poi sopravvento e la puntata continua con la fabbricazione della stuoia (ricor-
continuare verso Madurai e il barocchissimo tempio di Alagorkoil (siamo diamo che il protagonista inglese de Il fiume era proprio un magnate della
nello stato del Tamil Nadu). L’episodio si avvale della buona conoscenza stuoia), e la fabbrica di fiammiferi ci offre un interessante momento cine-
di Rossellini dell’architettura locale e della storia politica, sociale e reli- matico con il metodo di asciugatura, un gruppo di persone che cammina
giosa di questa vitalissima regione dell’India. E Rossellini non manca di avanti e indietro come in un cerchio dantesco. «Un paese dove si può sognare
promuovere uno dei punti ideologici chiave di questo viaggio indiano: la di andare a vivere», chiude Rossellini, mentre le immagini mostrano barche
tolleranza e la civile convivenza di persone di lingua e cultura diverse, in che trasportano la copra, il mallo della noce di cocco.
una nuova e armoniosa democrazia. Sembra evidente dalle parole del re- Nella settima puntata, Kerala, rimaniamo nel Malabar e questa volta Ros-
gista che non si tratta di banale naïveté culturale, ma di un progetto cul- sellini si sofferma sulle malattie endemiche della regione, e sui grandi
turale, se si vuole, in linea con la politica di Nehru. Il futuro dell’India passi avanti compiuti dal governo indiano. Così dopo averci informato
dipende anche dal suo passato (vero o presunto) di tolleranza e armonia, della diffusione pandemica della malaria e dell’elefantiasi, si sofferma sui
e Rossellini, con sagacia prospettivista, si adegua a questo progetto. La programmi di vaccinazione ormai diffusissimi. Quindi si dilunga in una
passione di Rossellini per il futuro politico dell’India postcoloniale è da delle sue favorite generalizzazioni, quella sul carattere dei popoli. Tema
trovare nel suo incontro personale con Nehru avvenuto a Londra nel giu- ancora oggi in voga, anche se ritenuto meno scientifico di qualche de-
gno del 1955, insieme al ministro degli Esteri Raghvan Pillai, con cui Ros- cennio fa, era all’epoca molto diffuso: «Recentemente ho letto il libro di
sellini aveva parlato del suo progetto di film indiano10, e nell’incontro con Roger Caillois, Les jeux et les hommes12. Caillois divide il gioco in quat-
Mahatma Gandhi nel 1931 a Roma (il governo fascista era entusiasta di tro gruppi: la fortuna, l’abilità, la mascherata, la vertigine (il parossismo).
ospitare un così forte alleato nella competizione con la perfida Albione). Vi sono dunque civiltà che si basano su fortuna e abilità (è il caso del ba-
Ma i principi teorici alla base della visione rosselliniana dell’India sono da cino del Mediterraneo), o l’Africa che si identifica con la mascherata. In
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Rossellini sul set

Sopralluoghi in India
India non esiste nessuno di questi momenti ludici, e soprattutto manca il vazione del pesce gestita dai norvegesi con indosso tute polari, quindi di
senso della fortuna. Forse è perché da loro esiste la lotta, nella loro reli- un’altra fabbrica di tubi di cemento, e infine le belle immagini di un
gione c’è la lotta tra distruzione e conservazione, quindi hanno un ap- gruppo di bambini norvegesi pallidissimi e indianini gioiosi che fanno il
proccio molto concreto e razionale di fronte alla vita» ci spiega Rossellini. bagno insieme in un incantato mare cristallino.
Intanto con le immagini siamo arrivati in Kerala, «sulle onde lunghe del Con l’ottava puntata, Hirakud, la diga sul fiume Mahadi [Mahanadi], siamo
riff i polinesiani hanno inventato i giochi d’acqua, qui invece è solo la- in pieno territorio Nehru, per così dire: a occidente del Bengala, nello stato
voro», commenta Rossellini, che come sappiamo ama più elogiare l’ozio di Orissa, il fiume Mahanadi sta per essere deviato con la costruzione della
meridiano che la fatica. grande diga di Hirakud. Questa puntata, come la seguente, è dal punto di
Le immagini tra le più bizzarre del documentario sono quelle del gruppo vista cinematografico la più interessante, probabilmente perché qui si svolge
di norvegesi in Kerala, nel quadro degli aiuti internazionali dell’Indo-Nor- l’episodio del film India Matri Bhumi sull’operaio della diga. La puntata co-
wegian Project impegnati a migliorare la tecnologia delle barche. Rossel- mincia con un cameracar con lento arrivo verso la diga di cui si vedono i
lini, che è sempre pronto a difendere la saggezza popolare e l’acume lavori. Segue una delle solite gag involontarie: «Nel mezzo – commenta
locale, fa notare come le barche dei norvegesi, troppo grandi, si bloccano Rossellini – ci sono le cime dei monti ora diventati isole, e hanno creato dei
coi monsoni, a differenza delle agili imbarcazioni locali. Anche il nostro sanctuaries, dei santuari per animali e soprattutto uccelli». L’inglese animal
Cesarini Sforza, dopo ore di rieducazione rosselliniana, deve ammettere sanctuaries si traduce come riserva naturale, ma questo sfugge a Cesarini
che «l’India è molto più razionale di quello che pensavamo». A cui un Sforza: «In riferimento alla santità dell’animale?». Rossellini (quasi avvilito
esausto Rossellini risponde: «Mi fa piacere che mi dia ragione». L’episodio a questo punto): «Mah, non so», e continua con qualche notizia: «In questo
si chiude con le immagini degli operai indiani nella ghiacciaia di conser- lago sono stati sommersi 275 villaggi [...], sono stati impiegati 35.000 la-
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morto mio padre. Uomo d’azione, rapidissimo, svelto come un furetto.
Nehru è più un santo, vuole creare la democrazia in India». Si apre la pun-
tata con il titolo Il pandit Nehru, e questa volta vediamo Hirakud dal-
l’alto, con Nehru che guarda in basso dal finestrino dell’aereo. Per certi
aspetti l’inizio di questa puntata sembra più un cinegiornale ufficiale, con
l’inaugurazione della diga e la doverosa rassegna militare. Rossellini com-
menta: «Questo 13 di gennaio 400.000 persone sono venute da 2-3-400
miglia di distanza». Ma la scena si chiude velocemente, e la troupe segue
il pandit a Nalanda, l’università buddista. I tibetani sono venuti a ripor-
tare i resti di un cinese buddista (la scena è rovinata da un’altra involon-
taria battuta; Rossellini: «Ecco i pellegrini tibetani»; Cesarini Sforza: «Sono
mongoli, mongoloidi»; Rossellini, alzando la voce: «Mongoli, mongoli»).
L’incontro di Nehru con il giovane Dalai Lama permette a Rossellini di
sfoggiare la sua conoscenza del buddismo: «Sa come finiva le sue predi-
che Buddha? Questo è quello che vi suggerisco. Provatelo, e se vi conviene
adottatelo». Passiamo quindi all’Università Visva-Bharati, fondata dal
poeta Rabindranath Tagore a nord di Calcutta, e dedicata all’integrazione
di testi occidentali e orientali e alla tolleranza politica e religiosa: «Uno dei
libri di testo è L’estetica di Benedetto Croce», commenta estatico Rossel-
lini, per continuare: «Sotto quella tettoia Tagore e Gandhi si incontra-
vano».
La decima puntata è dedicata a un argomento carissimo a Rossellini, Gli
animali in India. Il ruolo degli animali in Rossellini è stato senz’altro poco
affrontato, se non per l’interessante volume curato da Nathalie Bourgeois,
Bernard Bénoliel e Alain Bergala, India. Rossellini et les animaux13. Sia nei
documentari per la televisione che nel film India Matri Bhumi, gli animali
addomesticati e selvaggi vengono messi a confronto e analizzati sia per
la loro presenza fisica e sociale all’interno della comunità sia per il loro
voratori [...]. Il lavoro è solenne, si fa in silenzio», a cui pronto Cesarini valore simbolico. Gli animali sono presentati, nel cinema di Rossellini,
Rossellini sul set

Sforza aggiunge: «Silenziose formiche attive. Che nobiltà di portamento, come esseri da osservare in quanto tali (e da amare, nello spirito dei fra-
che tranquillità!». Per fortuna la sala di proiezione è buia e non vediamo il ticelli di Francesco), e figure metaforiche da leggere in relazione alla so-
volto di Rossellini di fronte alle affermazioni di tale banale razzismo. Vi cietà degli umani che li circonda. È il caso, in India Matri Bhumi, della
sono poi lunghi silenzi sulle belle panoramiche dei lavori, e quindi un car- tigre del terzo episodio, che diventa una figura della modernizzazione for-
rello laterale sul cimitero dei mezzi meccanici, seguito da un movimento in zata, e della scimmietta ammaestrata del quarto episodio, metafora della
avanti sul monumento ai caduti sul lavoro, e poi uno zoom indietro, e fi- solitudine umana. In questa decima puntata de L’India vista da Rossellini
nalmente Rossellini può affermare: «E questa è l’opera compiuta! E questa ci sono due momenti rosselliniani, raccontati con ovvio compiacimento.
è una ragazza dell’Orissa che guarda con compiacimento all’opera che lei e Il primo ha a che fare con un elefante. La troupe si accinge a fotografarlo,
i suoi compagni hanno compiuto». ma il mahout smonta dall’animale e si lamenta. L’offerta di denaro non lo
La nona puntata è interamente dedicata al pandit Nehru, per Rossellini il calma, invece dalla sacca tira fuori due zanne posticce, le attacca alla
vero uomo della provvidenza che coraggiosamente tenta di risolvere il gi- bocca dell’animale, torna indietro e a questo punto lascia che lo si foto-
gantesco problema di modernizzare la più grande democrazia al mondo. grafi. Per Rossellini questo «amore e rispetto