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La Prima Prova – Il Tema

A) Come svolgere la prima prova - Il tema »5


1. Su quali materie verte la prima prova »5
2. Cosa occorre studiare per ogni argomento »6
2.1 Come scrivere la definizione »6
2.2 Come scrivere la sintesi dei principali autori »7
2.3 Come scrivere la teoria approfondita »8
2.4 Come scrivere strumenti e metodi di indagine »9
2.5 Tecnica per ricavarsi gli ambiti applicativi »9
3. Tipologie di traccia e schemi di svolgimento » 11
3.1 Tema “classico” » 11
3.2 Varianti del tema classico » 13
3.3 Temi doppi » 15
3.4 Temi incrociati » 17
3.5 Temi “non convenzionali” » 18
3.6 Osservazioni sullo svolgimento dei temi » 21
4. Quanto deve essere lungo il tema » 21
5. Con che stile bisogna scrivere » 22
6. Libri per prepararsi alla prima prova » 22
7. Speciale Messina, Palermo, Pavia: il tema “applicativo” » 23

B) Temi di Psicologia Generale (2 teorie per ogni tema) » 27


1. Memoria » 27
2. Apprendimento » 32
3. Motivazione » 38
4. Emozione » 43
5. Linguaggio » 48
6. Comunicazione » 52
7. Comunicazione non verbale » 57
8. Intelligenza » 60
9. Coscienza » 65

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10. Attenzione » 69
11. Percezione » 72
12. Pensiero » 77
13. Ragionamento » 80
14. Giudizio e decision-making » 82
15. Problem-solving » 85
16. Personalità » 88
17. Sviluppo della Personalità » 92
18. Meccanismi di difesa » 95
19. Apprendimento e memoria » 99
20. Apprendimento e motivazione » 102
21. Emozione e cognizione » 105
22. Emozioni e memoria » 108
23. Pensiero e linguaggio » 112
24. Motivazioni ed emozioni » 115

C) Temi di Psicologia dello Sviluppo » 117


25. Sviluppo cognitivo » 117
26. Sviluppo morale » 123
27. Sviluppo emotivo » 125
28. Sviluppo affettivo » 128
29. Sviluppo comunicativo e linguistico » 132
30. Sviluppo sociale » 135
31. Famiglia » 137
32. L’adolescenza » 139
33. L’identità » 144
34. Il bullismo » 148
35. L’invecchiamento » 151

D) Temi di Psicologia Sociale » 155


36. Conflitto » 155
37. Stereotipi e pregiudizi (cognizione sociale) » 157
38. Atteggiamenti » 159

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39. Gruppo » 162
40. Gruppo dei pari » 166
41. Frustrazione e aggressività » 168
42. Aggressività » 172
43. Cooperazione e conflitto » 175
44. Un esperimento sociale: la Stanford Prison » 177
45. Lo stress » 180

E) Temi di Metodologia, ricerca e professione » 183


46. La ricerca in psicologia » 183
47. I test » 188
48. Confronto tra 2 test » 194
49. Un test approfondito – Il disegno della figura umana » 197
50. Uno strumento – Il DSM-IV-R » 200
51. L’osservazione » 202
52. Il colloquio » 204
53. Il focus-group » 208
54. Un esperimento recente: L’ “Effetto Spettatore” » 211
55. Un modello – Il modello psicoanalitico » 213
56. Confronta due modelli - Comportamentale e cognitivo » 221
57. Tema sulla professione – Lo psicologo e i suoi strumenti » 224
58. Tema sulla professione – La Psicologia di Comunità » 228
59. Tema sulla professione – Lo psicologo in équipe » 232

F) Argomenti ulteriori - Jolly » 235


60. Una teoria – L’attaccamento » 235
61. Un argomento – Le interazioni madre-bambino » 239
62. Una patologia – La depressione post-partum » 241
63. Una tematica recente – La metacognizione » 244
64. Una tematica socio-lavorativa – Clima e cultura organizzativa » 249
65. Una procedura diagnostica – La diagnosi dei DSA » 251
66. Un fenomeno sociale – Droga e tossicodipendenze » 255
67. Tra biologia e psicologia – Il cervello » 262

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68. Un tema originale – La curiosità e il comportamento esplorativo » 266
69. Un tema attuale - La salute » 269

G) Sintesi autori » 272


70. Bruner » 272
71. Vygotsky » 277
72. Winnicott » 279
73. Erikson » 281
74. Brofenbrenner » 283
75. Bandura » 285

Tracce anni precedenti: ipotesi di svolgimento » 289

ATTENZIONE: questo testo contiene dati criptati per identificare l’acquirente


legittimo. Questo testo è protetto da copyright. Vietata la cessione, rivendita,
divulgazione e riproduzione. In caso di violazione, l’autrice conferirà mandato al
proprio legale per avviare causa risarcitoria presso il tribunale di Latina
mediante atto di citazione diretta a giudizio dell’autore della violazione affinché risarcisca il
danno e le spese legali. L’illecito in questione è punito con sanzioni amministrative pecuniarie e
con carcerazione fino a 4 anni.

Violare il copyright è anche contro la deontologia e l’etica, è atteggiamento poco consono ad un


futuro professionista e non è affatto benaugurante né per l’Esame, né per il successivo lavoro.

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A) Come svolgere la prima prova - Il tema

1. Su quali materie verte la prima prova

La prima prova è un tema. È la prova più vasta e imprevedibile, dove può uscire di
tutto. Statisticamente, sono più frequenti i temi di psicologia generale, dunque questa è
la materia a cui dedicare maggiori attenzioni, studiando almeno 2 teorie per ogni
argomento. Tuttavia, è opportuno non trascurare psicologia dello sviluppo, psicologia
sociale, metodologia della ricerca, deontologia e professione dello psicologo, perché
escono molto frequentemente anche temi su queste materie.
Inoltre, soprattutto nelle sedi del Nord Italia, in particolare Milano, Torino, Padova,
Trieste, sono molto frequenti anche temi “non convenzionali”, che non rientrano in
queste materie e che riguardano invece tematiche e problematiche di ricerca, di
deontologia oppure psicosociali (verranno spiegate nel paragrafo 3.5). Può persino
capitare, come qualche anno fa a Trieste, che invece del tema la prima prova sia
costituita da un progetto, come la seconda prova.
Dunque, per affrontarla ed essere pronti a svolgere qualsiasi traccia, può essere
opportuno focalizzarsi su psicologia generale, ma non trascurare le altre materie e
sviluppare quella flessibilità che consente di riorganizzare le teorie studiate e adattarle
alla specifica richiesta della traccia. La preparazione richiesta dovrà essere ampia, ma
non dispersiva: non occorre studiare decine di teorie per ogni argomento, ma è più
strategico individuare argomenti che riescano a “coprire” un ampio spettro di possibili
tracce.
Un errore frequente in chi si appresta a preparare la prima prova è cercare di
memorizzare una sfilza di teorie per ogni argomento (percezione, apprendimento,
intelligenza, ecc), finendo per imparare poche cose per ciascuna teoria e di non
svilupparne nessuna in modo completo e approfondito, con tutti gli elementi necessari. In
questo manuale sono stati selezionati e strutturati argomenti altamente riutilizzabili, nel
senso che quello che apprendi ad esempio per il tema sull’apprendimento o sulla
percezione, puoi riciclarlo per numerose altre tracce, poiché si presta ad essere trattato da
più punti di vista.

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2. Cosa occorre studiare per ogni argomento

Per ogni argomento di psicologia generale, sviluppo, sociale, metodologia, ecc., è


opportuno focalizzare almeno questi elementi:
- definizione
- sintesi degli autori di riferimento
- teoria approfondita
- esperimento
- test
- ambiti applicativi

Dunque, il lavoro da fare per prepararsi alla prima prova è raccogliere materiale
relativo a questi elementi necessari, integrando più libri e ricerche in internet. Non vi
sono libri che focalizzano esattamente questi elementi basilari. Ogni libro ne contiene
alcuni, ma non altri. Studiando soltanto da un libro, si rischia di avere una visuale
incompleta, di lasciare alcuni argomenti a metà, come se avessi un puzzle dove mancano
alcuni pezzi.
Oppure, si rischia di studiare una serie di teorie, ma neppure una in modo molto
approfondito, con tanto di esperimento. Ad esempio, siccome la psicologia è una scienza,
per ogni teoria è opportuno sapere almeno un esperimento, mentre spesso si tende a
studiare 10 teorie in modo sintetico, ma senza includere in nessuna l’esperimento.
In questo manuale il lavoro di integrazione tra più fonti è stato già svolto, così da
ottimizzare il tempo e lo sforzo di apprendimento e di memoria e da avere una trattazione
per ogni argomento, dotata di tutti gli elementi necessari, che poi occorrerà adattare,
modificare o ampliare in base alle richieste della traccia.
Vediamo cosa è opportuno sapere per ogni argomento, elemento per elemento.

2.1 Come scrivere la definizione

Per ogni argomento, occorre imparare una definizione. La definizione dovrà essere
precisa e rigorosa, come se dovesse essere sottoposta ad una verifica sperimentale. A
volte infatti si leggono definizioni poetiche, ad esempio “la memoria è l’arte di
ricordare”, ma questo stile letterario non è adatto ad un tema da Esame di Stato, che
invece richiede un approccio scientifico.

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Dunque è preferibile una definizione chiara, specifica, tecnica, ad esempio “la
memoria è un processo di immagazzinamento, ritenzione e recupero di informazioni”: in
questo modo si distinguono le fasi del processo e si utilizzano termini neutri.

2.2 Come scrivere la sintesi dei principali autori

Oltre alla definizione, può essere utile imparare una breve panoramica degli autori
e delle teorie di riferimento che hanno trattato l’argomento. “Breve” vuol dire che non
devi necessariamente sapere tutte le teorie alla perfezione, ma è sufficiente menzionarle e
accennarle. Ad esempio, riguardo all’apprendimento, puoi imparare bene una teoria,
come quella del condizionamento classico, ma preparare anche una sintetica trattazione
degli altri autori che si sono occupati di apprendimento, menzionando i loro nomi e
dicendo molto concisamente quello che hanno detto e fatto.
In alcune tracce è utile proprio seguire questo schema: definizione, breve
panoramica degli autori, poi trattazione di una teoria approfondita. Può capitare però che
non ricordi i vari autori che si sono occupati di un argomento, ma ricordi solo la teoria
che hai studiato approfonditamente. Ad esempio, se esce una traccia sull’apprendimento,
può capitare che ricordi bene la teoria del condizionamento, ma non ricordi la breve
sintesi di tutti gli altri autori e teorie sull’apprendimento. In questo caso, puoi ricavartele.
Generalmente, infatti, ogni argomento è stato studiato in ambito psicodinamico,
analizzando le dinamiche intrapsichiche che lo caratterizzano, i conflitti, gli affetti, le
angosce, le fantasie, le motivazioni profonde; in ambito comportamentista, attraverso
osservazioni, piani rinforzo differenziale, modellamento che ne spiegano acquisizione,
mantenimento ed estinzione; in ambito cognitivista, analizzando gli schemi di pensiero,
ragionamento, problem-solving.
Ad esempio, applicando questo mini-schema all’aggressività, si può dire che è stata
studiata in ambito psicoanalitico, analizzando le pulsioni, i conflitti, gli affetti, le angosce
che motivano una reazione aggressiva e distruttiva verso l’oggetto; in ambito
comportamentista, individuando rinforzi che sono stati somministrati ai comportamenti
aggressivi e che quindi spiegano come sono stati acquisiti e perché vengono mantenuti;
in ambito cognitivista, analizzando gli schemi di pensiero distruttivo e la loro traduzione
in comportamenti pianificati e intenzionali.
Se, quindi, non ricordi di preciso autori e teorie di riferimento per scrivere le poche
righe di sintesi, si possono tenere presenti almeno questi tre ambiti e dedurre il modo con

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cui hanno affrontato l’argomento. Ovviamente, questo schema non è fisso e rigido, ad
esempio in un tema sulla famiglia non si può applicare molto.
A volte poi non è neanche necessario inserire questa breve e sintetica panoramica
nel tema, anche perché dipende da quello che ti chiede la traccia. In alcuni temi di
psicologia dello sviluppo, è possibile saltare questa parte: ad esempio lo sviluppo
cognitivo è stato super-approfondito da Piaget e non è stato studiato in molti altri
approcci come ha fatto lui, quindi si può sviluppare direttamente la sua ricca teoria con
tanto di esperimenti, senza prima fare la breve panoramica.
In ogni caso, nel prepararti alla prima prova, è opportuno che memorizzi per ogni
argomento una breve sintesi degli autori o che sai ricavarla se non la ricordi, anche se poi
inserirla o meno nel compito dipenderà dalle specifiche richieste della traccia. Occorre
quindi essere sempre flessibili.

2.3 Come scrivere la teoria approfondita

Nel prepararti alla prima prova, oltre a imparare una definizione scientifica per
ogni argomento e una breve panoramica di autori e teorie, è opportuno investire i tuoi
sforzi per studiare una teoria molto approfondita, con autori, teorie, esperimenti, punti di
forza e di debolezza. Per gli argomenti di psicologia generale, è opportuno studiare bene
almeno due teorie, ciascuna dotata di esperimento, perché spesso escono temi che
chiedono, ad esempio, “confronta due teorie sulla percezione”. Per gli altri argomenti, è
necessario studiare bene una teoria, ma non è male se se ne conosce anche un’altra.
La teoria approfondita generalmente occupa la maggior parte del tema, poiché deve
essere ben illustrata e completa. Dovrà contenere autori, spiegazioni di un fenomeno e
soprattutto un esperimento, proprio per evitare l’errore e l’ingenuità frequente, di
studiare 10 teorie sull’apprendimento e non sapere neanche un esperimento su nessuna.
Se infatti le teorie sono puramente astratte, finisce per essere un tema di filosofia, mentre
la psicologia supporta le sue teorie attraverso esperimenti, dunque citarli nel tema è
altamente opportuno, se non addirittura obbligatorio.
La teoria approfondita è dunque il cuore di ogni tema ed è opportuno focalizzare i
propri sforzi nell’apprenderla.

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2.4 Come scrivere strumenti e metodi di indagine

Oltre a definizione, panoramica sintetica degli autori, teoria approfondita, è


opportuno studiare gli strumenti di valutazione per ogni argomento, ad esempio ti est per
misurare quella certa funzione. È opportuno anche che questi test siano coerenti con la
teoria che è stata approfondita.
Ad esempio, in un tema sulle emozioni, se hai approfondito una teoria
psicodinamica, è opportuno elencare e descrivere test psicodinamici. O almeno elencare
per primi i test psicodinamici, conformi alla teoria approfondita, e poi passare descrivere
ulteriori test di altro approccio. I test potranno essere menzionati e spiegati brevemente,
dunque non è necessario conoscere perfettamente e puntigliosamente il modo di
somministrazione, siglatura e interpretazione, ma neppure è bene “buttare là” solo il
nome. È opportuno trovare una via di mezzo, menzionando il test e poi fornendo una
breve descrizione e spiegazione.
Oltre ai test, è utile individuare anche eventuali altri metodi di indagine, cioè
paradigmi sperimentali usati per studiare una funzione, come nel caso del paradigma
dello still face per studiare l’interazione madre-bambino.

2.5 Tecnica per ricavarsi gli ambiti applicativi

Per ogni argomento è opportuno infine sapere gli ambiti applicativi in cui possono
trovare utilizzo concreto le teorie. Questa parte preoccupa molti studenti. In effetti, è
impossibile memorizzare tutti gli ambiti specifici di tutti gli infiniti argomenti che
possono uscire. D’altronde, sarebbe uno sforzo inutile, perché gli ambiti applicativi, più
che saperli a memoria, occorre saperseli “ricavare”. A questo proposito, c’è una
tecnica. Occorre infatti considerare che ci sono ambiti frequenti, utilizzabili un po’ per
tutti i temi. Basta saperli e adattarli a ciascun argomento.
Ecco gli ambiti-jolly da riciclare per ogni traccia.
1) Generalmente, ogni teoria può essere applicata in ambito clinico. Infatti per
ogni funzione, sia essa la memoria, l’apprendimento, ecc., ci saranno i relativi disturbi:
ad esempio, se si parla dell’apprendimento, si può dire che un ambito applicativo è la
psicologia clinica dell’età evolutiva, per i disturbi specifici dell’apprendimento. Riguardo
alla memoria: un ambito applicativo è la psicologia clinica, per la diagnosi e il
trattamento dei disturbi della memoria. Riguardo alla percezione, un ambito applicativo è

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quello clinico, per la diagnosi e valutazione dei i disturbi della percezione, che si
presentano spesso nelle psicosi (allucinazioni, deliri, ecc). Dunque, considera che per
quasi tutti gli argomenti, un ambito applicativo è quello clinico, per la diagnosi,
valutazione e trattamento dei relativi disturbi e delle patologie.
2) Altro ambito applicativo è la psicologia dello sviluppo, che analizza come si
evolve quel costrutto nel ciclo di vita, attraverso l’interazione tra fattori psicologici,
biologici e sociali. Qualunque funzione può essere applicata all’ambito dello sviluppo:
l’apprendimento, per comprendere le varie modalità di apprendimento dall’infanzia
all’età adulta, la percezione, per comprendere come si evolve dall’infanzia all’età adulta,
ecc.
3) Ambito della psicologia generale e sperimentale, per fare ricerche su quel
costrutto. Qualunque costrutto può essere applicato nell’ambito della ricerca, per
approfondire il suo funzionamento attraverso esperimenti in laboratori o in contesti
ecologici.
4) Ambito della neuropsicologia, che analizza le funzioni cognitive, valutandole
attraverso strumenti validati, predisponendo programmi individualizzati per la
riabilitazione in seguito a traumi, lesioni, degenerazione. Ad esempio, ogni processo
cognitivo, come memoria, linguaggio, ecc, avrà dei possibili interventi per valutarlo,
riabilitarlo, potenziarlo.
5) Ambito della psicologia sociale: tutti i costrutti vengono utilizzati dove ci sono
aggregazioni di persone oppure in interventi per migliorare un particolare lavoro in
gruppo (elaborazione delle info in gruppo, percezione in gruppo, apprendimento in
gruppo cioè cooperative-learning, ecc.)
6) Ambito della psicologia del lavoro: ogni costrutto può essere applicato nelle
organizzazioni, nei contesti produttivi, nei gruppi di lavoro.

Questi sono ambiti pressoché fissi! Ma ce ne sono altri sempre molto frequenti e
sfruttabili:
7) la psicologia scolastica, poiché si possono formulare interventi per potenziare
alcune funzioni (apprendimento, memoria, motivazione, socializzazione, ecc)
8) la psicologia del marketing, che utilizza le conoscenze relative al costrutto per
impostare analisi di mercato, ricerche su quanto influisca sui comportamenti di acquisto.
Esempio per la memoria: le persone acquistano se si ricordano la marca, allora come
rendere la marca facilmente memorizzabile? Ci sono fattori della confezione di un

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prodotto che motivano all’acquisto?
9) un ambito molto nuovo è l’ergonomia dei siti internet e del materiale
multimediale. Si stanno facendo molte ricerche per valutare come migliorare la
navigabilità dei siti web. Questo è un ambito applicativo utilizzabile per gli argomenti di
psicologia generale, perché questo ambito si serve delle teorie sull’apprendimento, sulla
percezione, ecc, per facilitare l’apprendimento dei contenuti multimediali, la percezione
delle interfacce dei siti web, l’elaborazione delle informazioni multimediali, ecc.

Quindi, se non ricordi nello specifico i vari ambiti applicativi per ogni argomento,
puoi ricavarteli, ricordando gli ambiti frequenti appena elencati e deducendo in che modo
possono utilizzare le conoscenze relative a quel costrutto.

3. Tipologie di traccia e schemi di svolgimento

3.1 Tema “classico”

Nella prima prova, possono capitare varie tipologie di temi. Sono piuttosto
frequenti i temi “classici” di psicologia generale, che chiedono di sviluppare una
funzione come memoria, intelligenza, pensiero. Un esempio di traccia classica è questo:

Il candidato/a esponga una teoria sul tema della MEMORIA, illustrando:


- i lineamenti generali della teoria e gli autori più significativi
- i principali costrutti e le variabili prese in considerazione
- le metodologie di indagine
- i risvolti applicativi

In questo caso, lo schema di svolgimento può essere questo:


- definizione (circa 5 righe)
- sintesi degli autori di riferimento (5 righe)
- teoria approfondita (una pagina)
- esperimento (mezza pagina)
- test e metodi di indagine (5 righe)
- ambiti applicativi (10 righe)
Come puoi vedere, si tratta dello stesso schema utilizzabile per organizzare lo

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studio, poiché contiene gli elementi necessari per ogni argomento, nell’ordine classico,
più logico e frequente. La dicitura “costrutti e variabili” corrisponde all’esposizione
della teoria approfondita, che va illustrata in tutti i suoi aspetti: autori, teorie, metodi,
esperimenti. Infatti, i costrutti sono i “concetti” psicologici, quindi memoria,
apprendimento, aggressività, ecc, e si definiscono costrutti perché non sono osservabili e
quantificabili con precisione come i dati fisici, né sono ben visibili e misurabili, ma sono
ri-costruiti e teorizzati a partire da osservazioni, deduzioni, ipotesi.
Le variabili sono le dimensioni dei costrutti, i loro aspetti che variano, cioè che
possono assumere valori diversi. Esempio: un costrutto è l’aggressività, la variabile è una
dimensione dell’aggressività che può essere misurata e che dipende dalla definizione di
aggressività. Se si definisce l’aggressività come “comportamento violento che si esprime
attraverso gesti delle mani o del corpo finalizzati a sopraffare su un altro”, allora la
varabile è l’azione di malmenare, schiaffeggiare, dare un pugno e quant’altro, visto che si
possono contare quanti schiaffi, quanti pugni sono stati dati. La variabile è ciò che può
concretizzarla la definizione in azioni particolari e misurabili.
Altro esempio: Hebbingaus ha studiato l’oblio (costrutto) e ha misurato, attraverso
esperimenti, quante sillabe ricordava di una lista di 10 sillabe, quante ne dimenticava
dopo un’ora o dopo un giorno, quali riusciva a ricordare meglio o peggio, se le prime o le
ultime. Le sillabe dimenticate o ricordate possono essere contate (ha ricordato dieci
sillabe, due sillabe, ecc) dunque forniscono una misura oggettiva dell’oblio. In sintesi,
costrutti e variabili è un’espressione generale per invitare ad esporre tutto quello che sai
di una teoria e in particolare i suoi aspetti non solo teorici, ma anche metodologici e
sperimentali, dunque descrivendo anche gli esperimenti.
Seguendo anche le indicazioni sul numero di righe, si può scrivere un tema di circa
due pagine. A volte infatti, la commissione pone un limite di pagine, ad esempio fino a 2
anni fa, a Roma spesso si chiedeva di contenere la trattazione proprio entro le due pagine.
Negli ultimi anni invece, questo limite non è più presente, anche se le commissioni
spesso invitano a limitarsi ad un foglio protocollo, potendo quindi scrivere un massimo
di 4 pagine. Poiché le commissioni cambiamo di anno in anno, è opportuno attenersi alle
indicazioni della propria commissione e chiedere eventualmente se c’è un limite di
pagine.
È preferibile infatti non scrivere meno di due pagine, altrimenti la trattazione
sarebbe troppo povera e schematica. Si può ampliare e arricchire con osservazioni e
collegamenti, per renderla più completa e occupare un foglio protocollo intero, ma è

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altrettanto preferibile non andare oltre, per evitare di risultare prolissi e di andare fuori
tema. Seguendo lo schema classico, si può procedere in questo modo. Il tema può essere
iniziato con una breve introduzione seguita da una definizione del costrutto o dei
costrutti.
Segue la breve panoramica di autori e teorie, che può essere introdotta così:
“Storicamente, sono state formulate diverse teorie relative a questo costrutto”, “Il
costrutto xxxx è stato studiato in diversi ambiti” oppure “è stato analizzato da diversi
autori” oppure “Diversi autori hanno formulato una teoria su questo costrutto”, ecc ecc
ed elencare di seguito gli autori e le teorie, facendo brevi cenni per ognuna. Questo breve
paragrafo panoramico serve a dimostrare che oltre alla teoria approfondita conosci anche
le altre teorie sull’argomento.
Poi, si passa ad illustrare una teoria molto approfondita. Si può introdurre la teoria
approfondita con frasi come “Una delle teorie che ha approfondito questo costrutto è
stata …” oppure “Una teoria che ha analizzato questo costrutto, anche attraverso
esperimenti e realizzando strumenti per misurarlo è stata…”, ecc.
Dopo aver illustrato la teoria, si passa ai test e strumenti di valutazione. Si può
introdurre questa parte con frasi come “Per valutare questo costrutto, esistono diversi
strumenti” oppure “Gli strumenti più utilizzati per misurare questo costrutto sono…”,
“Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione”, ecc.
Infine, si conclude con gli ambiti applicativi, dicendo “Questo costrutto è
applicabile in diversi ambiti”, ecc.

3.2 Varianti del tema classico

Negli ultimi anni, il tema classico sembra che stia tramontando in tutte le sedi.
Difficilmente infatti le commissioni chiedono una trattazione così lineare e “ovvia” e
inerente le solite funzioni psicologiche. Stanno invece introducendo varianti. Ad
esempio, chiedono di scegliere un ambito applicativo e collocarlo all’inizio, per poi
proseguire secondo lo schema classico. Un esempio è questo:

Il/la candidato/a presenti un’analisi sintetica di un contesto o di un fenomeno sociale, clinico,


organizzativo o di ricerca nel quale il tema della memoria sia particolarmente rilevante.
Il/la candidato/a fornisca una descrizione del contesto o del fenomeno mostrando i nessi con il tema
della memoria. Il particolare il/la candidato/a illustri:

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− una teoria di riferimento, i suoi lineamenti generali e gli autori che hanno contribuito
maggiormente al suo sviluppo.
− I principali costrutti e le variabili che la teoria prende in considerazione.
− I nessi che collegano il contesto o il fenomeno selezionato con la teoria, mostrando in che modo
la teoria illustrata contribuisce a spiegare il contesto o il fenomeno considerato.
− Illustrare quali aspetti del contesto o del fenomeno sono spiegabili attraverso l’adozione della
posizione teorica prescelta.
− Un possibile intervento sul contesto o fenomeno che la teoria consente di ipotizzare

Si tratta in realtà del tema classico, con l’unica differenza che l’ambito applicativo
occorre dichiararlo all’inizio, proseguire poi nel solito modo e concludere ipotizzando un
intervento. Quando è stato introdotto questa piccola deviazione dallo schema classico,
che consisteva soltanto nell’invertire l’ordine di esposizione, mettendo all’inizio gli
ambiti che tradizionalmente venivano messi alla fine, molti studenti sono entrati in crisi.
È bastato infatti un piccolo cambiamento di posizione per suscitare ansia e percepire la
prova come “impossibile da affrontare, totalmente diversa da quella degli anni passati”.
Alcuni non sono stati in grado di adeguarsi ed hanno svolto il tema riproponendo in
modo meccanico lo schema classico, senza attenersi alle richieste.
Questo può rivelare un modo di studiare rigido, rischioso perché ogni minima
deviazione variante rischia di destare smarrimento. È consigliabile invece essere pronti a
queste varianti, sia minime sia più radicali, perché è impossibile prevedere con certezza
le richieste della traccia e riempire uno schema fisso e preconfezionato, così come nella
pratica professionale è impossibile prevedere le richieste del paziente/cliente o limitarsi a
incasellarlo in una griglia fissa e prestabilita, lasciandosi prendere dallo sconforto e dallo
smarrimento se il suo racconto non è riconducibile perfettamente allo schema che si
aveva in mente.
Altre varianti possono essere di iniziare con un fenomeno e poi illustrare una teoria
che lo spieghi, ad esempio in un tema sulla memoria, si può iniziare con un fenomeno
che accade spesso a scuola o all’università, quando una persona che ha studiato non
ricorda comunque quello che ha imparato e non sa rispondere alle domande. Si prosegue
illustrando la teoria tripartita di Atkinson e Shiffrin, che descrive il modo in cui i
contenuti appresi passano dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine,
presupposto per renderli stabili e rievocarli sotto esame. Quindi si illustrano i
presupposti, gli esperimenti, ecc., e alla fine il fenomeno iniziale viene chiarito.
Oppure, un’altra variante può consistere nel chiedere di descrivere i cambiamenti

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di una funzione del corso di vita, ad esempio come si evolve o decade la memoria
dall’infanzia alla vecchiaia, servendosi di una teoria utile a spiegarli. Si tratta dunque si
esporre i consueti punti (definizione, panoramica, teoria approfondita, ecc.), ma
arricchendoli oppure riorganizzando i contenuti.
Uno studio flessibile e ragionato consente di affrontare qualsiasi traccia,
rispettando le richieste e l’ordine di esposizione di volta in volta contenuto nella traccia.

3.3 Temi doppi

Un’altra tipologia di traccia richiede di confrontare due teorie, ad esempio due


teorie sulla percezione, sull’apprendimento, sulla personalità, ecc. Si tratta dei temi
“doppi”, basati appunto sul confronto. Ecco un esempio:

Il/la candidato/a ponga a confronto due modelli teorici recenti della motivazione esaminando:
1. i lineamenti generali delle teorie e i relativi costrutti teorici
2. i metodi di indagine di ciascuno
3. i risvolti applicativi di ognuno dei due.
Il/la candidato/a confronti criticamente i punti di forza e di debolezza di entrambi i modelli

Anche in questo caso si può applicare lo schema classico, inserendo i punti


consueti e basilari relativi all’argomento, ma trattando due teorie invece che una.
Attenzione! Non è consigliabile sviluppare prima una teoria e poi l’altra e alla fine fare
un confronto. Non è uno schema totalmente sbagliato, ma non rispetta pienamente la
traccia, che chiede un confronto continuo tra le due teorie. Quindi occorre dare una
definizione, poi illustrate la prima teoria e l’altra, poi illustrare i metodi di indagine
dell’una e dell’altra, e così via.
Inoltre, è importante riflettere sui punti di forza e debolezza di entrambe le teorie,
poiché non si tratta di un tema compilativo, dove le teorie vengono semplicemente
esposte, ma è richiesto uno sforzo in più, di comparazione e riflessione. Il confronto può
essere concluso dicendo che nessuna delle teorie è esaustiva o può dirsi superiore
all’altra, perché ciascuna evidenzia un aspetto della tematica, dunque possono essere
integrate per fornire una visione complessiva del costrutto analizzato.

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Ci sono alcuni “abbinamenti” che si prestano a fare confronti, poiché basati su
teorie “opposte”.
1) Memoria: teoria tripartita di Atkinson e Shiffrin + teoria della profondità di
elaborazione di Craik e Lockart
2) Apprendimento: apprendimento per condizionamento (Classico e Operante) e
apprendimento per insight (Kohler)
3) Motivazione: teoria di McClelland e teoria di Maslow
4) Emozioni: teoria di Ekman e teoria cognitivo-attivazionale di Schachter
5) Linguaggio: teoria di Vigotsky e teoria di Skinner (Oppure: Chomsky e Skinner)
6) Comunicazione: teoria della scuola sistemica di Palo Alto con gli assiomi (che è
circolare, perché ha i feedback) + teoria matematica della comunicazione di Shannon e
Weaver (che è lineare)
7) Intelligenza: teoria psicometrica di Binet + teoria di Guilford
8) Coscienza: inconscio psicodinamico di Freud e inconscio cognitivo dei
cognitivisti
9) Attenzione: teorie del filtro confrontate tra loro oppure teorie del filtro e teoria di
Neisser (distinzione processi automatici e controllati. In questo caso ci sono molte
somiglianze più che grandi differenze)
10) Percezione: teoria della gestalt + teoria empirista di Helmotz
11) Pensiero: teoria della gestalt + teoria dello Human Information processing
12) Personalità: teoria del Big Five e teoria di Freud

Puoi trovare sia le teorie numero 1 che le numero 2 in questo manuale. Per
approfondimenti ulteriori, puoi trovare materiale nella cartella di approfondimento della
prima prova.

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3.4 Temi incrociati

A volte, nella traccia del tema si chiede di analizzare la relazione tra due costrutti,
ad esempio motivazione e apprendimento, apprendimento e memoria, cooperazione e
conflitto, frustrazione aggressività, ecc. Questi temi “incrociati” si possono sviluppare
principalmente in due modi, perché possono verificarsi due circostanze: 1) esiste una
teoria che ingloba entrambi i costrutti 2) non esiste una teoria che inglobi entrambi i
costrutti.

Schema di svolgimento 1 – Se esiste una teoria che racchiude entrambi i costrutti:


- Breve frase introduttiva che sottolinea come le due funzioni o i due costrutti siano
complessi e connessi in diversi ambiti
- definizione del primo costrutto
- definizione del secondo costrutto
- teoria che spiega entrambe i costrutti, dotata di esperimento (esempio: teoria di
Ricci Bitti e Caterina per la coppia o la terna emozioni-motivazione-pensiero. La teoria
di Schachter e Singer per emozioni e cognizione)
- strumenti che indagano entrambe i costrutti (o ciascuno singolarmente)
- ambiti applicativi della coppia di costrutti

Schema di svolgimento 1 – Se non esiste una teoria che racchiuda entrambi i


costrutti, si può procedere combinando i temi semplici, quelli riferiti singolarmente a
ciascun costrutto (tema sull’apprendimento + tema sulla motivazione, ecc.).
- Breve frase introduttiva che sottolinea come le due funzioni o i due costrutti siano
complessi e connessi in diversi ambiti
- definizione del primo costrutto
- definizione del secondo costrutto
- scelta di un modello teorico (cognitivo comportamentale, psicodinamico, ecc) o
di un contesto (scolastico, lavorativo, clinico, ecc). Serve a dare un inquadramento
comune, un filo logico alla trattazione.
- trattazione dei due costrutti ed esperimento su uno di essi
- discussione dei risultati dell’esperimento, ipotizzando come sarebbe cambiato il
risultato considerando anche l’altro costrutto oppure come interpretarlo alla luce
dell’altro costrutto.

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Esempio con memoria ed emozioni: Ebbinghaus ha compiuto esperimenti di
memorizzazione su sillabe, cioè su materiale privo di senso e di significato emotivo. Se
però li avesse compiuti su materiale e emotivamente significativo, forse avrebbe ottenuto
risultati diversi, perché l’emozione può influenzare la memoria. Oppure: intelligenza ed
emozioni. Facendo un test di intelligenza si può ottenere un risultato, ma se quel test
viene somministrato quando il soggetto è reduce da un’esperienza emotiva intensa, il
risultato può essere falsato, ecc.
- Ulteriori riflessioni sulla relazione tra i costrutti
- strumenti che indagano entrambe i costrutti (o ciascuno singolarmente)
- ambiti applicativi della coppia di costrutti

I modi di impostare il tema incrociato sono infiniti, può essere importante però
inserire in ogni caso tutto l’essenziale: definizione, teoria, esperimento, test, ambiti. E
poi uno studio flessibile dei temi di psicologia generale ti consente di combinare i vari
costrutti ottenendo i temi incrociati.

3.5 Temi “non convenzionali”

Un’ulteriore tipologia di traccia è quella che non rientrano in nessuna delle


categorie menzionate e che richiede una ricerca recente, una problematica, un contesto,
un aspetto della professione dello psicologo e…tanto tanto altro, che è impossibile
prevedere.
Le tracce non convenzionali sono più difficili, non basta “sapere”, ma serve
“problematizzare”. Escono spesso a Padova, Trieste, Milano Bicocca, Torino. Mettono in
crisi un po’ tutti perché non contengono un argomento specifico da trattare, come nelle
tracce classiche come “la personalità”, “l’apprendimento”, ecc., dove è chiaro ed
esplicito l’argomento. Le tracce non convenzionali sono un po’ come le tavole del
Rorschach: stimoli ambigui, destrutturati, che ciascuno può interpetare in modo
abbastanza libero, scegliendo su cosa focalizzarsi, stimoli vaghi su cui ciascuno può
proiettare se stesso, purché risponda ovviamente alle richieste. Non ci sono risposte
giuste o sbagliate, come nel test di Rorschach, ma ci sono diversi modi di svilupparle.
Questo diventa un punto a favore, perché la commissione non ha uno schema predefinito
di svolgimento, ma lascia al candidato la scelta.
Ecco un esempio, con annessi 4 possibili svolgimenti.

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Lo stato dei rapporti tra progresso scientifico e attività operativa nell’ambito del settore psicologico.
Segnali le acquisizioni scientifiche che – a suo parere – si sono dimostrate maggiormente fruttuose sul
piano operativo all’interno del settore, specifichi eventuali fattori che impediscono una integrazione
ottimale tra le due componenti (progresso scientifico e pratica operativa), suggerisca in base alla propria
competenza ed esperienza idee concrete per un miglioramento dell’interazione tra le componenti
medesime.

Questa è una traccia tosta, in perfetto stile padovano. Però come tutte le tracce non
convenzionali, dopo l’infarto iniziale, si riescono a trovare gli argomenti, perché è
sufficiente utilizzare quelli appresi per psicologia generale, sviluppo, sociale e
metodologia e riorganizzarli oppure adattarli. Non c’è uno schema di svolgimento da
usare come riferimento, ma occorre crearselo di volta in volta. Ad esempio, questa
traccia richiede di sviluppare 3 punti ed essi sono vincolanti, qualunque argomento di
scelga di trattare:

- segnalare un’acquisizione scientifica fruttuosa


- fattori che ne hanno impedito una piena applicazione pratica
- suggerimenti per migliorare

Ecco 4 svolgimenti possibili:

Svolgimento 1:
1) - acquisizione scientifica fruttuosa: i test. Hanno elevate potenzialità applicative,
sono strumenti standardizzati ed esclusivi dello psiclogo, consentono di definire con
chiarezza i costrutti e di misurarli, quantificando un fenomeno (nei limiti del possibile).
promuovo quindi la conoscenza, aiutano nella diagnosi, nel monitoraggio e verifica degli
interventi, ecc. Insomma molte applicazioni in clinica, selezione del personale, ecc.
Quindi in sostanza gli parli un po’ dei test, prendendo spunto dal tema sulla ricerca, da
quello sui test, sul confronto tra test, sullo psicologo e i suoi strumenti.
- fattori che ne hanno impedito una piena applicazione pratica: purtroppo, non
sempre tutte le potenzialità dei test sono state applicate per vari motivi. La scarsità delle
risorse finanziare, che impedisce di aggiornare e ritarare il test, fornendo dati su
campioni diversificati, ecc. Un altro fattore è che richiedono un addestramento specifico,
lungo, ecc, altrimenti la loro somministrazione non è valida. Altro fattore è la resistenza
di alcuni pazienti, che si sentono sottoposti a giudizio, non sono onesti nelle risposte (per

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pregiudizi, stereotipi e questioni di desiderabilità sociale), ecc.
- suggerimenti per migliorare: intervenire sulla formazione degli psicologi con
appositi training, intervenire sulla formazione alla relazione per facilitare l’alleanza con
il paziente e la sua collaborazione, stanziare fondi per la ricerca per rendere più affidabili
i test ritarandoli, ecc.

Svolgimento 2:
- un’acquisizione scientifica fruttuosa: il costrutto della metacognizione. Vedi
tema. Costrutto con elevate potenzialità applicative in ambito scolastico, promuove
l’autoefficacia degli studenti. Per applicarlo, è stato realizzato anche il questionario
MQS.
- fattori che ne hanno impedito una piena applicazione pratica: la didattica
scolastica troppo direttiva, nozionistica, che non dà spazio alla riflessione sul metodo
- suggerimenti per migliorare: motivare i docenti, modernizzare obiettivi e
programmi, prevedere seminari e progetti per sviluppare un metodo di studio efficace ed
un apprendimento autoregolato.

Svolgimento 3:
- un’acquisizione scientifica fruttuosa: la figura stessa dello psicologo! Come dice
la legge 56, istitutiva di questa figura, può promuover eil benessere, con appositi metodi
e strumenti validati, ecc ecc. E si possono mettere cose del tema sulla ricerca e sugli
strumenti
- fattori che ne hanno impedito una piena applicazione pratica: pregiudizi verso
questa figura, confusione con la figura dello psicoterapeuta e del medico, ecc
- suggerimenti per migliorare: promuovere la conoscenza delle potenzialità di
questa figura, con interventi di prevenzione, divulgazione, informazione, ecc

Svolgimento 4:
- acquisizione scientifica fruttuosa: la definizione dei disturbi dell’apprendimento
come disturbi specifici, dovuti all’architettura neuropsicologica del bambino
- fattori che ne hanno impedito una piena applicazione pratica: pregiudizi, molti
prof scambiano le difficoltà di studio come negligenza, ecc
- suggerimenti per migliorare: formazione docenti e famiglie, progetti prevenzione,
ecc.

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Dunque, si tratta degli stessi argomenti già sviluppati per i temi classici, già
strutturati in questo manuale e riutilizzabili anche per tracce “fuori dagli schemi”.

3.6 Osservazioni sullo svolgimento dei temi

Per prepararsi alla prima prova, è quindi utile fissare i 5 punti essenziali per ogni
argomento (definizione, panoramica, teoria approfondita con esperimento, test, ambiti
applicativi) e poi adattare questo schema, in quanto occorre attenersi alla traccia,
rispettando sia i contenuti richiesti che l’ordine di svolgimento.
I 5 punti essenziali non devono essere esposti rigidamente, ma flessibilmente.
Quando si legge la traccia, non occorre “partire” subito ricalcando pedissequamente lo
schema consueto, perché a volte è aderente alla traccia, altre volte, come nel caso dei
temi non convenzionali di Padova, si rischia di tralasciare quegli aspetti critici di
problematizzazione spesso richiesti in queste sedi, con esiti non positivi. Quindi è utile
focalizzare i concetti essenziali e utilizzabili sempre, ma non considerarli come un
protocollo da applicare meccanicamente.
In ogni tema, è sempre utile scrivere una definizione introduttiva, indicare teorie di
riferimento, approfondire una teoria, citare gli strumenti poiché che lo psicologo è uno
scienziato e utilizza test rigorosi, indicare gli ambiti applicativi per dimostrare che le
teorie non sono fini a se stesse, ma possono essere utilmente applicate. Poi però tutto va
organizzato e integrato in base alle richieste della specifica traccia.

4. Quanto deve essere lungo il tema

Non c’è una lunghezza fissa e prestabilita, poiché varia di sede in sede. Ad
esempio, a volte, nella sede di Roma hanno posto un limite di due facciate di foglio
protocollo (due pagine), oppure nella sede di Padova hanno consegnato un foglio
protocollo autorizzando a riempirlo anche per intero e con la possibilità di richiedere un
ulteriore foglio. Quindi varia da sede a sede, da commissione a commissione, di anno in
anno. Nel dubbio, meglio chiedere alla commissione!
Mediamente, come già indicato, è consigliabile non scendere sotto le due pagine e
non eccedere oltre le 4. In ogni caso, ciò che conta sono i contenuti, cioè una
strutturazione coerente e ordinata, uno stile scientifico, evitando sia i temi striminziti, sia
dispersivi, prolissi e fuori traccia, e sicuramente un minimo di fortuna.

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5. Con che stile bisogna scrivere

È opportuno scrivere il tema uno stile scientifico e chiaro, quindi evitando


espressioni come “Per intelligenza intendiamo…”, “Possiamo definire l’intelligenza
come…”. Possiamo...chi? Chi è che sta parlando? Il plurale maiestatis, cioè l’utilizzo del
noi, non è proprio di uno stile scientifico. È preferibile una trattazione impersonale, ad
esempio “si può definire…”.

6. Libri per prepararsi alla prima prova

Non vi sono libri “obbligatori” per l’Esame di Stato poiché, a differenza degli
esami universitari, non c’è un professore che stabilisce quali libri studiare, quali capitoli
fare, quali argomenti sono da sapere meglio, ecc. Esiste una bibliografia di riferimento,
costituita da libri generalmente utilizzati da chi si appresta a preparare le prove, ma
occorre fare alcune considerazioni in proposito.
I libri più frequentemente acquistati sono:

Moderato, P., Rovetto, Canestrari, R., Godino, Atkinson, W., Hilgard,


F. Psicologo verso la Psicologia scientifica. E. Introduzione alla
professione. Milano: Nuovo trattato di psicologia. Padova:
McGraw-Hill. psicologia generale. Piccin.
Bologna: Clueb.

Nessuno dei tre è sufficiente, nello stesso tempo tutti e 3 sono una spesa inutile.
Infatti, Moderato tratta alcuni argomenti in modo approfondito, riportando esperimenti
ed ambiti applicativi, mentre altri meno dettagliatamente. Dunque occorrerebbe
sintetizzare le parti dettagliate, poiché non tutto è funzionale alla preparazione della
prima prova, e usare un altro dei tre testi per integrare quelle parti mancanti. Lo stesso
vale per il Canestrari: alcuni argomenti sono trattati, altri mancano di alcune parti che
occorre integrare da altri libri e da internet.

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Lo stesso per Atkinson, che in più ha diverse illustrazioni per facilitare la memoria
visiva, anche se è distribuito soprattutto nel Nord Italia (a Roma spesso non lo conoscono
e non si trova facilmente). Inoltre questi manuali sono panoramici ed enciclopedici, nel
senso che espongono tutte le teorie sull’apprendimento, ma non si soffermano su
nessuna, strutturandola con gli elementi essenziali da sapere all’esame (spesso mancano
test e ambiti). Dunque si utilizzano come base da cui selezionare alcuni materiali da
arricchire con altri libri e con altre fonti e il materiale così prelevato da diverse fonti va
organizzato e strutturato in modo poi da essere rielaborato in base alla traccia.
In questo manuale, trovi già svolto questo lavoro di integrazione e strutturazione.
Inoltre, su internet sono reperibili gratuitamente i riassunti sia di Canestrari che di
Moderato. Purtroppo, qualcuno cerca anche di venderli, scaricandoli da internet e poi
vendendoli sui forum e sulle bacheche, quindi occorre stare molto attenti.
Il lavoro da fare per prepararsi è dunque di consultare Canestrari o Moderato come
un’enciclopedia, da cui trarre materiale da integrare con i propri testi universitari, ad
esempio il proprio testo di psicologia generale, e organizzare un tema secondo i punti
essenziali, con tanto di esperimento, così da avere uno schema di riferimento con parti
coerenti e collegate, individuando argomenti “riciclabili” per qualsiasi traccia e studiarli
con flessibilità per adattarli alla richiesta della traccia. Oltre a psicologia generale,
occorre fare lo stesso lavoro con psicologia sociale, dello sviluppo e metodologia,
utilizzando come punto di partenza i propri testi universitari. In questo manuale il lavoro
di integrazione è stato già compiuto, per ottimizzare tempi e sforzi della preparazione.

7. Speciale Messina, Palermo, Pavia: il tema “applicativo”

Un particolare tipo di tema è quello “applicativo”, utilizzato in alcune sedi come


Palermo, Pavia e Messina (nelle prime due sessioni in cui anche quest’ultima città è
diventata sedi di Esame di Stato). Il tema applicativo non viene proposto come prima
prova, bensì come seconda prova, al posto del progetto, anche se ultimamente la sede
di Palermo ha optato anch’essa per il progetto. Nell’eventualità che comunque questa
tipologia di tema si ripresenti o continui ad essere presente a Messina, è utile sapere
come può essere impostata.
Essendo un tema applicativo, come indica il nome, è costituito (generalmente) da
due parti: una teorica e una pratica, “sperimentale”. Nella parte teorica si possono
riassumere le conoscenze sull’argomento, attraverso una definizione e una teoria

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approfondita. Nella seconda parte pratica, possono essere importanti 3 elementi: un
ambito applicativo, uno strumento e un esperimento. Infatti in questa seconda parte,
che è il cuore del tema applicativo, occorre documentare in che modo la teoria esposta è
stata verificata e poi utilizzata. Dunque, lo schema di svolgimento generale può essere
questo:

Parte teorica:
- definizione
- teoria

Parte pratica:
- ambito applicativo: clinico, evolutivo, scolastico, lavoro, ricerca, ecc.
- strumento: test o metodo di indagine del costrutto
- esperimento sul costrutto oppure progetto di intervento

Ecco un esempio di svolgimento riferito alla traccia messinese “la Motivazione


applicata a un settore a tua scelta”.

Prima parte teorica: definizione di motivazione, differenze tra motivazione e


costrutti simili (bisogni, pulsioni), differenze interne alla motivazione (intrinseca-
estrinseca e primarie-secondarie, così come spiegato nel tema sulla motivazione
contenuto in questo manuale). Eventualmente si può aggiungere anche una breve breve
panoramica sulle varie teorie della motivazione. Infine, si focalizza una teoria e la si
spiega.
Seconda parte applicativa:
- Ambito di applicazione: nel caso della motivazione, si può scegliere quello
scolastico, per la motivazione allo studio, che può essere estrinseca o intrinseca poiché
gli studenti possono impegnarsi o per obiettivi di prestazione, cioè avere voti alti da
esibire magari ai genitori, oppure obiettivi di competenza, cioè studiano per migliorarsi,
per accrescere le loro conoscenze e capacità. Si possono discutere brevemente le
conseguenze di queste due motivazioni, poiché quella estrinseca tende ad essere meno
stabile.
- Strumento: è il test che può servire a valutare la motivazione in ambito
scolastico, ad esempio il QMS, questionario metacognitivo sullo studio di Cornoldi e del

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Gruppo MT di Padova. Si può descrivere brevemente sottolienando che tutti i costrutti
misurati, cioè la motivazione, il metodo di studio, ecc, sono connessi tra loro e
concorrono a formare la prestazione nei compiti scolastici.
- Esperimento: qui sarebbe ideale conoscere un esperimento che è stato fatto con il
test descritto. Ad esempio, il gruppo MT di Padova ha realizzato questo strumento e lo
ha somministrato a studenti ed ha visto che chi aveva una prestazione migliore nei
compiti scolastici era perché aveva sviluppato una maggiore metacognizione. Infatti
prima si pensava che per andare bene a scuola bisognasse avere un “buon metodo di
studio”, quindi conoscere delle tecniche da applicare per schematizzare, memorizzare,
ecc, tanto che in america sono stati realizzati anche vari corsi negli anni 70 sul metodo di
studio, ma poi i risultati furono scarsi perché i ragazzi non applicavano le strategie e le
percepivano come un peso in più. Le loro prestazioni quindi non migliorarono affatto. Le
somministrazioni del MQS da parte dei ricercatori di Padova evidenziarono invece come
l’elemento importante per la riuscita negli studi fosse la metacognizione. Questa è una
novità che ha fatto progredire molto questo campo di ricerca e ha consentito di applicarla
concretamente, per migliorare il successo scolastico.

Altri esempi di tracce uscite:


Esempio 1: Le dipendenze. Nella parte teorica si parla delle varie dipendenze,
nella parte pratica si parla dei test utilizzati per la diagnosi e si struttura un progetto di
sostegno ai tossicodipendenti (il test in genere si studia per la prova clinica, il progetto
per la seconda prova progettuale).
Esempio 2: L’intelligenza e i test di intelligenza. Parte teorica: teorie
sull’intelligenza. Parte pratica: descrizione di un test di intelligenza con caratteristiche e
limiti, esperimento (il tutto è riportato nel tema sull’intelligenza in questo manuale).
Esempio 3: Apprendimento e disturbi dell’apprendimento. Parte teorica: cosa
sono i disturbi dell’apprendimento, le cause, i criteri diagnostici, ecc. Parte pratica: test
sui disturbi dell’apprendimento e interventi di prevenzione dei disturbi
dell’apprendimento a scuola.

Per prepararsi al tema applicativo è opportuno, quindi:


- conoscere le teorie su psicologia generale, sociale, sviluppo, metodologia e test
(riportate anche in questo manuale);
- sapere come impostare i progetti, conoscere dunque la loro struttura (spiegata nel

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manuale sui progetti, dedicato a quella che nelle altre sedi è la seconda prova);
- conoscere i principali disturbi o dell’età evolutiva o adulta (spiegati nei manuali
per la terza prova, quella dedicata al caso clinico).

Dunque, questo tipo di tema (se a Messina e nelle altre sedi verrà confermato nella
prossima sessione) richiede di preparare contemporaneamente le prime tre prove. Non è
possibile infatti procedere come per le altre sedi, dove si tende a focalizzare i propri
sforzi sulla prima prova e poi, se essa viene superata, si pensa alla seconda e alla terza
prova. Infatti il tema applicativo richiede anche le conoscenze che generalmente sono
oggetto di seconda e terza prova.

Hai altri dubbi, richieste di informazioni, ecc? Scrivi a tutor@110elode.net

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B) Temi di Psicologia Generale (2 teorie per ogni tema)

1. Memoria

Definizione La memoria non è un deposito di dati, ma è un complesso processo di


immagazzinamento, ritenzione e recupero di informazioni, che richiede un’attiva
rielaborazione dei contenuti piuttosto che una passiva ricezione di essi. Questo implica
che il contenuto recuperato sia una ricostruzione, piuttosto che un’accurata e fedele
rievocazione dell’informazione originaria.
Sintesi dei Storicamente, le teorie sulla memoria sono state formulate in ambito
principali associazionista da Ebbinghaus, che ha condotto i primi esperimenti di memorizzazione di
autori e teorie
sillabe senza senso, per valutare i tempi di ritenzione e la facilità di recupero nel tempo
di riferimento
delle informazioni acquisite; in ambito strutturalista, con Barlett, che ha evidenziato le
strategie attive di rielaborazione dell’informazione, rilevando come la rievocazione di
narrazioni fosse influenzata dagli schemi culturali della persona e fosse caratterizzata da
alterazioni, omissioni, distorsioni; in ambito psicodinamico, con Freud, che ha
evidenziato i meccanismi difensivi che rimuovevano dalla coscienza pulsioni, esperienze
e vissuti traumatici o proibiti; nell’ambito dello Human Information processing, che
assimila la mente ad un computer e formula teorie sul suo funzionamento, progettando
anche software capaci di simularlo.
Teoria In particolare, nell’ambito delle HIP, Atkinson e Shiffrin hanno elaborato una
approfondita
teoria tripartita della memoria, analizzando la dimensione strutturale, quantitativa e
(con autori,
funzionale di questo processo. Infatti, sostengono che la memoria sia articolata in tre
esperimenti,
ecc.)
magazzini dotati di differente ampiezza e durata e contenenti specifiche tipologie di
contenuto.
Il primo magazzino è il Sistema Sensoriale, che riceve gli input provenienti dai
sensi e li trattiene per pochi secondi: si distingue in memoria iconica per gli stimoli
visivi, ecoica per quelli uditivi, olfattiva, tattile, gustativa. Sono stati compiuti anche
esperimenti per studiarla: Sperling cercò di valutare quanti elementi visivi potessero
essere visti in un breve intervallo di tempo, utilizzando un “procedimento a resoconto
totale”. Presentò ai soggetti una tabella 3x3, con 3 righe e 3 colonne, per un totale di 9
riquadri all’interno dei quali c’era una lettera dell’alfabeto. Mostrò la tabella per 50ms,
poi chiese ai soggetti quante lettere riuscissero a ricordare. I soggetti riuscivano a
nominarne solo 4 o 5, ma riferivano di averle “viste” tutte e 9. Sperling concluse, quindi,

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che in un breve tempo si poteva vedere un’intera immagine, ma non si riusciva a
conservarla abbastanza a lungo da ripeterla.
Poi riprovò l’esperimento attraverso un “procedimento a resoconto parziale”, cioè
chiedendo ai soggetti di rievocare soltanto una delle 3 righe della tabella, indicata da un
apposito segnale acustico. Il numero di lettere rievocate dipendeva dall’intervallo tra la
presentazione della tabella e l’emissione del segale acustico: se il segnale veniva emesso
subito dopo la presentazione della tabella, i soggetti ricordavano tutte e tre le lettere della
riga, se invece aumentava l’intervallo, diminuivano proporzionalmente le lettere
nominate. Da queste ricerche, Sperling confermò l’esistenza di un sistema sensoriale ad
elevata capacità e a rapido decadimento, dove l’informazione è codificata nella stessa
forma dello stimolo originario (stimolo visivo = informazione iconica, stimolo uditivo =
informazione uditiva, ecc).
Il secondo magazzino è costituito dalla Memoria a Breve Termine, dotata di
limitata capienza, dove le informazioni permangono per un periodo breve, assimilabile a
circa 30s. La capienza è stata quantificata dall’esperimento dello “span di cifre” di
Ebbinghaus, che osservò come dopo aver ascoltato una lista di sillabe, fosse possibile
ricordarne mediamente 7, e poi ulteriormente approfondita da Miller, secondo il quale la
Memoria a Breve Termine può trattenere da 5 a 9 cifre: egli definì questa quantità come
“il magico numero sette”, proprio perché mediamente i contenuti trattenuti erano “7 più o
meno 2” ed erano da intendersi non come elementi singoli, ma anche come chunks, cioè
coppie, terne o raggruppamenti di elementi. La velocità di recupero dipende dal numero
di informazioni, poiché se ci sono poche informazioni, la velocità di recupero aumenta,
se ci sono molte informazioni, si impiega di più a memorizzarle e recuperarle. Ciò è stato
confermato anche da un esperimento di Sternberg, che ha proposto a gruppi di soggetti
liste di cifre (da 1 a 6) e poi una cifra di controllo. I soggetti dovevano dire se la cifra di
controllo era contenuta nella lista di cifre precedentemente comunicata. Se la lista
precedente era breve, il riconoscimento avveniva più velocemente.
I contenuti possono passare dalla Memoria Sensoriale a quella a Breve Termine se
sono sottoposti a reiterazione, cioè se vengono ripetuti più volte.
Il terzo magazzino è la Memoria a Lungo Termine, dotata di capienza e durata
estesa, forse illimitata, poiché le informazioni contenute probabilmente non scompaiono
mai, benché possano diventare più difficilmente accessibili. Si distinguono, al suo
interno, due differenti tipologie di informazione: quella dichiarativa, costituita da
proposizioni, pensieri e ricordi espliciti, e quella procedurale, costituita da modalità di

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esecuzione di un’azione (andare in bicicletta, guidare la macchina, ecc).
All’interno della Memoria a Lungo Termine, le informazioni sono distribuite sotto
forma di rete, con numerosi nodi: ogni informazione attiva un’altra informazione ad essa
collegata e si propaga finché non si attiva l’intera rete.
La teoria tripartita di Atkinson e Shiffrin ha consentito di illustrare in modo
dettagliato e completo i processi di memoria, tuttavia, secondo alcuni studiosi, presenta
criticità, in quanto formalizza eccessivamente il processo di memoria e soprattutto
presuppone il passaggio da un magazzino all’altro attraverso una modalità meccanica e
passiva qual è la ripetizione. Invece, secondo Craik e Lockhart, è possibile rafforzare il
ricordo attraverso la “profondità di elaborazione”: se un’informazione nuova è connessa
con quelle già acquisite, se è emotivamente significativa, se è ben organizzata, chiara,
ordinata, facilmente e velocemente passerà alla Memoria a Lungo Termine, senza la
necessità di ripetizione, ma grazie alle sue caratteristiche strutturali.

Strumenti
Tra gli strumenti per misurare la memoria, c’è il Test Wais che, tra gli altri fattori,
valuta anche la memoria di numeri, il ragionamento aritmetico, il ricordo di concetti
precedentemente appresi e la memoria immediata di informazioni appena presentate. Per
l’esame della memoria di soggetti adulti, può essere utile il Profilo di Rendimento
Mnestico di Rey, che valuta anche i deficit dovuti al deterioramento. Invece, il Test di
Memoria Comportamentale di Rivermead consente di evidenziare i deficit di memoria
del quotidiano e di seguire l’evoluzione di deficit mnestici di pazienti cerebrolesi, quindi
può essere utile per impostare percorsi di riabilitazione.
Per quanto riguarda memorie specifiche, ad esempio quella verbale, si può
utilizzare la Lista di 15 parole di Rey (Rey Auditory Verbal Learning Test), dove viene
letta una lista di parole e si chiede al soggetto di rievocarne il più possibile, subito dopo
la lettura della lista (rievocazione immediata) e dopo un breve intervallo (rievocazione
differita). Questo test consente di ottenere sia dati quantitativi che qualitativi sulla
memoria verbale, perché conteggia il numero delle parole ricordate, ma anche la loro
posizione nella lista. Infatti, con questo test si può notare come siano frequenti l’effetto
primacy e l’effetto recency, poiché i soggetti tendono a ricordare più facilmente le prime
parole di una lista oppure le ultime. Per la memoria uditivo-verbale, si utilizza il test
della memoria di prosa o “raccontino” di Spinnler e Tognoni, incluso in un test per il
deterioramento cognitivo di nome MODA (Milan Overall Dementia Assessment),
costituito da diversi subtest. Nel “raccontino”, si legge una breve storia e si chiede al
soggetto di rinarrarla, conteggiando i particolari che ricorda, che omette o che trasforma.

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Per la memoria visuospaziale si utilizza il Test di Corsi, costituito da una tavoletta con 9
cubetti di legno. L’esaminatore tocca con una bacchetta i diversi cubetti, secondo una
sequenza prestabilita, e il soggetto deve ripeterla, toccando i cubetti nello stesso ordine.
La memoria è direttamente implicata nella psicologia scolastica, che si occupa
Ambiti anche di metodologie di studio: la teoria di Atkinson e Shiffrin suggerisce infatti di
applicativi memorizzare i contenuti da studiare ripetendoli, così da farli passare dalla Memoria a
Breve Termine a quella Lungo Termine, mentre le osservazioni di Craik e Lockhart
suggeriscono di approfondire il materiale, di organizzarlo gerarchicamente, di ordinarlo,
di integrarlo con conoscenze pregresse, di rielaborarlo e di connotarlo emotivamente, per
ottenere una memorizzazione a lungo termine in modo meno meccanico e passivo
rispetto alle ripetizione.
Esistono anche mnemotecniche specifiche per ricordare nomi, liste di elementi,
date storiche, volti, parole. Ad esempio, la tecnica dei Loci di Cicerone consente di
ricordare discorsi suddividendoli in porzioni e collocandone ciascuna, nella propria
immaginazione, in stanze o tappe di luoghi familiari e conosciuti: percorrendo
idealmente il tragitto, si raccoglie in ogni tappa la porzione di discorso collocata. La
memorizzazione di materiale di studio non riguarda soltanto soggetti in età evolutiva, ma
anche adulti, in una prospettiva di Lifelong learning che implica un continuo
aggiornamento delle proprie conoscenze e competenze durante tutta la vita professionale:
la memoria viene dunque continuamente sollecitata anche in ambito lavorativo.
Un’ulteriore applicazione della memoria è la neuropsicologia, che studia le
funzioni cognitive, le valuta attraverso strumenti psicometrici, predispone percorsi di
riabilitazione per deficit di memoria dovuti al deterioramento, a traumi o lesioni
cerebrali. I deficit di memoria possono essere retrogradi, quando il soggetto non ricorda
quanto è avvenuto prima dell’incidente, o anterogradi, quanto non ricorda i momenti
successivi. Attraverso appositi memory training è possibile recuperare parzialmente o
totalmente i deficit o quantomeno organizzare le proprie abitudini così da minimizzare
l’impatto delle amnesie sulla propria quotidianità.
Nella psicologia clinica e in quella del benessere, la memoria è alla base di terapie
autobiografiche che consistono nel ricordare e riscrivere episodi della propria vita,
ricostruendoli e rielaborandoli per conciliarsi con il passato e ritrovare una continuità del
Sé, in quanto tali approcci considerano la memoria del passato e la connessione con il
presente come la base di un’identità integrata.

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1 bis. Ulteriore teoria sulla Memoria

Questa teoria è utile se dovesse uscire il tema “Confronta due teorie sulla
Memoria”.

Teoria della profondità di elaborazione di Craik e Lockart. La teoria della


“profondità di elaborazione” o “profondità della codifica” di Craik e Lockhart è
un’alternativa alla teoria tripartita di Atkinson e Shiffrin. Entrambe le teorie cercano di
capire in che modo il ricordo può fissarsi nella mente, quali siano i requisiti che
consentono ad un contenuto di essere memorizzato più facilmente. Mentre per Atkinson
e Shiffrin la risposta sta nella ripetizione, poiché solo ripetendo più volte il contenuto,
esso si fisserà in memoria, poiché la sua traccia sarà più incisiva e indelebile, secondo la
teoria della profondità di elaborazione ci sono altri requisiti.
Se un’informazione nuova è connessa con quelle già acquisite, se è emotivamente
significativa, se è ben organizzata, chiara, ordinata, facilmente e velocemente passerà alla
Memoria a Lungo Termine, senza la necessità di ripetizione, bensì per sue caratteristiche
strutturali. A questo proposito, Craik e Tulving hanno compiuto un esperimento a
sostegno. Hanno presentato ai soggetti tre tipi di compito: un compito ortografico, in cui
si mostrava una parola e si chiedeva se fosse scritta in maiuscolo; un compito fonetico,
in cui si mostrava una parola e poi si chiedeva con che parola potesse fare rima; un
compito semantico, in cui mostravano una parola e poi chiedevano se un’altra parola
fosse legata a quella precedentemente mostrata. Successivamente e inaspettatamente,
tutti i soggetti vennero sottoposti ad un compito di riconoscimento: vennero loro
mostrate diverse parole, chiedendo quale di queste era stata già incontrata nei compiti
precedenti.
I soggetti riconoscevano maggiormente le parole sottoposte a compito semantico,
poiché questo compito richiede un’elaborazione maggiore, che non si limita alla forma o
al suono della parola, ma la approfondisce e richiede di capirne anche il significato.
Dunque il compito semantico attiva processi più complessi e profondi di elaborazione
dello stimolo, grazie ai quali poi lo stimolo viene memorizzato meglio. Dunque, per
memorizzare un contenuto, occorre che sia sottoposto ad una profonda elaborazione e
rielaborazione, poiché solo le conoscenze approfondite, rielaborate, riorganizzate,
strutturate organicamente e integrate con il proprio patrimonio culturale, possono essere
facilmente ricordate.

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2. Apprendimento

L’apprendimento è un complesso processo di acquisizione e cambiamento di


Definizione
contenuti o schemi, risulta dalla compenetrazione di motivazione, emozione, memoria, è
motivato e orientato e non è dunque riducibile ad uno sterile meccanismo di
assimilazione di contenuti privi di un significato emotivo e adattivo. L’apprendimento
differisce dalla maturazione, che indica un cambiamento dovuto ad un programma
geneticamente prestabilito, benché suscettibile di modulazione da parte dell’ambiente.
Infatti, anche la maturazione richiede un apprendimento, cioè un intervento che stimoli,
inibisca o regoli tempi e modalità del manifestarsi di un genotipo, soprattutto nella
specie umana, neurologicamente più plastica rispetto ad altre specie strutturalmente e
funzionalmente preadattate a specifici ambienti.
L’apprendimento umano è darwinianamente adattivo, in quanto consente di
sopravvivere in diversi ambienti: può essere incidentale, cioè avvenire spontaneamente,
oppure intenzionale, se viene pianificato. In questo secondo caso, l’apprendimento
implica non solo l’assimilazione passiva di contenuti, ma anche l’elaborazione attiva di
strategie, la loro applicazione flessibile, il mantenimento dello sforzo attentivo fino al
raggiungimento del risultato.

Sintesi dei
Storicamente, si sono susseguite diverse teorie, che hanno cercato di fornire
principali definizioni operazionalizzate dell’apprendimento, per renderlo misurabile con strumenti
autori e teorie validati. In ambito comportamentista, Watson assimila l’apprendimento ad un processo
di riferimento
meccanico di associazione tra stimoli; Thorndike sottolinea la funzione dei rinforzi, cioè
degli effetti positivi conseguenti ad un’azione, che inducono a ripetere l’azione stessa; il
gestaltista Kohler ha evidenziato l’apprendimento per insight, che avviene attraverso
intuizioni improvvise, anche se risultanti da un processo di osservazione, assimilazione,
creatività; Tolman, precursore del cognitivismo, ha evidenziato l’apprendimento latente,
che avviene senza apparenti indicatori esterni e consiste nella strutturazione di mappe
cognitive che vengono poi applicate quando necessario; Harlow ha studiato
“l’apprendere ad apprendere”, procedendo al di là e di specifiche abilità e contenuti e
analizzando il meta-apprendimento, cioè l’acquisizione di un metodo trasversale e
applicabile a diversi contenuti; infine, dagli anni Settanta, con Flavell, si è iniziata ad
approfondire la metacognizione, che include i processi di controllo, supervisione,
monitoraggio dell’apprendimento, che procedono oltre l’acquisizione di un metodo da
applicare e valutano l’attitudine alla flessibilità, la selezione dei metodi, la gestione delle

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risorse attentive e temporali, la persistenza in un compito fino al conseguimento di un
obiettivo.
Una teoria dell’apprendimento storicamente importante per l’estensione dei suoi
Teoria
approfondita
ambiti applicativi è il condizionamento, sia classico che operante. I primi studi
(con autori, sistematici sull’apprendimento risalgono alla metà del secolo scorso e sono stati condotti
esperimenti, in ambito riflessologico e comportamentista, osservando il comportamento di animali in
ecc.)
laboratorio. Si supponeva, infatti, che i processi di apprendimento fossero uguali
nell’uomo e negli animali: in realtà, l’uomo dispone di strumenti linguistici e simbolici,
cognitivi ed emotivi, che rendono unici i suoi processi psichici. Questo però non invalida
totalmente i primi studi sull’apprendimento, perché alcuni principi scoperti sono ritenuti
tuttora validi.
Precisamente, il primo filone di studi in laboratorio è stato inaugurato da Pavolv e
denominato “condizionamento classico”. Pavlov era un fisiologo russo, i suoi
esperimenti risentono di questa specializzazione: misurano infatti indici fisiologici e
gastrici, e precisamente le “risposte salivari” dei cani da laboratorio. Quando la
presentazione del cibo veniva regolarmente preceduta dal suono della campanella, il cane
metteva in relazione le due circostanze e rispondeva al suono (Stimolo Condizionato)
allo stesso modo in cui rispondeva al cibo (Stimolo Incondizionato). Questo significa che
non bisognava aspettare la presentazione del cibo per rilevare nei cani una risposta
salivare, poiché essa si presentava ancora prima, già al suono che annunciava il cibo. Il
cane aveva compiuto un’associazione suono-cibo, dunque rispondeva al suono con la
stessa reazione suscitata dal cibo (la salivazione). Questa risposta venne chiamata
“risposta condizionata”, perché non era attivata direttamente da uno stimolo naturale (il
cibo), bensì da uno stimolo diverso (il suono), associato per lungo tempo allo stimolo
naturale.
Se l’associazione suono-cibo veniva sospesa, la risposta condizionata si estingueva,
ma si ripresentava intensificata qualora l’associazione venisse ripristinata. Il recupero
spontaneo e il riapprendimento rapido dimostrano la difficoltà di eliminare gli effetti del
condizionamento: una volta condizionati ad attuare un comportamento, è difficile
eliminarlo. Pavlov rilevò come la velocità di apprendimento dipendesse da diversi fattori
quali la quantità di cibo, l’intensità del suono, la relazione di contiguità temporale tra SC
e SI: l’apprendimento ha la massima efficacia quando lo SC precede leggermente lo SI,
invece la presentazione simultanea peggiora il condizionamento, infine la presentazione
dello SC dopo lo SI risulta la meno efficace.

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Quando l’animale apprende ad associare una risposta incondizionata (salivazione) ad
uno stimolo condizionato (suono della campanella), la risposta incondizionata verrà
generalizzata, cioè estesa anche ad altri stimoli simili a quello condizionato, invece
quando si addestra l’animale a non rispondere a questi ultimi, si parla di addestramento
alla “discriminazione”. Pavlov sperimentò anche un condizionamento di secondo ordine:
associando un ulteriore stimolo condizionato al suono della campanella, anche questo
secondo stimolo riusciva ad evocare una risposta incondizionata.
Successivamente, Skinner continuò gli studi di laboratorio, inaugurando il filone del
“condizionamento operante”. Egli osservò il comportamento delle cavie in gabbia:
premendo una leva, avrebbero ottenuto del cibo. Il “meccanismo di ricompensa”, cioè la
ricezione del cibo al momento di premere la leva, poteva essere scoperto accidentalmente
dalle cavie, premendo per caso la leva, oppure dopo diversi tentativi. Una volta scoperto,
la cavia riproponeva più frequentemente il comportamento che dava luogo alla
ricompensa, cioè premeva più frequentemente la leva.
Il cibo rinforzava l’azione di premere la leva, cioè la rendeva più frequente e intensa.
Se la ricompensa veniva offerta non tutte le volte che il comportamento veniva attuato,
ma solo di tanto in tanto, la cavia premeva la leva ancor più insistentemente. Per questo,
Skinner studiò diversi schemi di rinforzo: a intervallo fisso, a intervallo variabile, a
rapporto fisso, a rapporto variabile. Quest’ultimo è lo schema più efficace: se la
ricompensa non viene erogata ad intervalli regolari e fissi, ma casuali, ciò comporta
ostinazione nel soggetto a ripetere l’azione, fino ad instaurare una dipendenza.
Thorndike continuò questi studi e osservò anche la reazione delle cavie alla
punizione, cioè all’esposizione a “rinforzi negativi” : quando le cavie premevano la leva
per ottenere cibo, ricevevano anche una scossa elettrica. La punizione faceva scomparire
il comportamento, ma solo temporaneamente, perché quel comportamento si ripresentava
intensificato e accompagnato da emozioni negative come rabbia e aggressività. La
punizione infatti estingue solo momentaneamente il comportamento negativo, poi lo
rafforza. Per eliminare un comportamento è più efficace non rinforzarlo o rinforzare i
comportamenti incompatibili con esso.
Il sistema premi-punizioni ha ricevuto però diverse critiche, in quanto può risultare
manipolatorio e spingere ad agire in una certa direzione non per una convinzione
interiore, ma per ottenere la ricompensa ed evitare la punizione. Dunque incentiva
comportamenti inautentici, basati sulla compiacenza e può trasformarsi in un mezzo di
strumentalizzazione degli altri, che vengono indotti a compiere i comportamenti che

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magari loro non sentono come propri. Può risultare manipolatorio e intrusivo.
Quanto agli strumenti, gli studi sul condizionamento hanno fornito metodologie per
Strumenti
l’apprendimento di contenuti o di comportamenti: lo schema dei rinforzi, il
modellamento per rinforzi successivi, l’osservazione e l’imitazione sono procedure che
consentono l’acquisizione, il mantenimento e la correzione dei comportamenti, specie dei
bambini, attraverso il rinforzo dell’esecuzione corretta. Anche i test di profitto, utilizzati
a scuola e all’università, verificano l’assimilazione di contenuti prestabiliti e forniscono
rinforzi positivi o negativi.
Esistono però anche strumenti, come il Questionario Metacognitivo sul Metodo di
Studio di Cornoldi, che analizzano le componenti emotive, motivazionali, strategiche
dell’apprendimento. Vi sono anche strumenti clinici come l’IPDA, che consente di
identificare precocemente le difficoltà di apprendimento, l’ABCA, che è il Test delle
abilità di calcolo aritmetico, le prove MT, che consentono di valutare l’apprendimento
della lettura dalla prima classe della scuola elementare alla terza classe della scuola
media, rilevando i livelli di apprendimento raggiunti dai bambini in diversi momenti
dell’anno scolastico.
Gli ambiti di applicazione del condizionamento e in generale delle teorie
Ambiti
dell’apprendimento sono numerosi: comprendono, innanzitutto, l’ambito educativo e
applicativi
scolastico, in quanto sia in famiglia che a scuola, si possono utilizzare tecniche
comportamentali di rinforzo; la clinica dell’età evolutiva, dove si approfondisce lo studio
dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, che consistono in cadute circoscritte nelle
abilità strumentali basilari di lettura, scrittura e calcolo, in situazioni di intelligenza nella
media e di funzionamento globale integro.
In ambito clinico, le tecniche di apprendimento attraverso rinforzi o
desensibilizzazione sono utilizzate nel trattamento di diversi disturbi come le fobie
specifiche, poiché attraverso l’esposizione graduale allo stimolo fobico e un rinforzo
degli atteggiamenti funzionali e adattivi è possibile sostenere il paziente; anche in altri
disturbi, le tecniche comportamentiste consentono di motivare il paziente e rinforzare i
progressi. In ambito lavorativo, le strategie di apprendimento sono utili sia
nell’aggiornamento professionale, poiché in una prospettiva di lifelong learning si
apprende costantemente per ampliare il repertorio delle competenze e delle conoscenze,
oppure nella gestione delle risorse umane, per pianificare incentivi e carriere.

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2 bis. Altre teorie dell’Apprendimento

Queste ulteriori teorie sono utili se dovesse uscire il tema “Confronta due teorie
sull’apprendimento” oppure “Confronta la principali teorie sull’Apprendimento”.
Come prima teoria si può mettere quella appena esposta, cioè la teoria del
condizionamento classico e operante, come ulteriori teorie si possono mettere la
teoria dell’apprendimento latente di Tolman oppure la teoria dell’insight di Kohler.

Teoria dell’Apprendimento latente di Tolman. Può esservi apprendimento anche


in assenza di una performance che lo riveli: questo tipo di apprendimento viene definito
“latente”, cioè nascosto, ed è stato studiato da Tolman, neocomportamentista e
precursore del cognitivismo. Egli aveva osservato il comportamento di topolini chiusi in
un labirinto e lasciati per 10 giorni liberi di trovare l’uscita. I topolini compivano diversi
tentativi all’interno, esplorando i corridoi del labirinto, pur senza mostrare di trovare
l’uscita. L’undicesimo giorno venne posto del cibo all’uscita e dal dodicesimo giorno in
poi i topi raggiungevano speditamente l’uscita senza commettere errori, rivelando una
grande padronanza del labirinto: nel frattempo infatti, si erano formati una “mappa
cognitiva”, cioè una rappresentazione mentale interna del luogo e l’avevano prontamente
utilizzata al momento opportuno. Così anche l’uomo, apprende in quanto si forma mappe
cognitive di significati, comportamenti, esperienze, pur senza poter dimostrare subito
l’avvenuto apprendimento: si tratta infatti di schemi che applica quando occorrono.

Teoria dell’insight di Kohler. Esiste una forma di apprendimento basato


sull’insight (“illuminazione”), studiato dal gestaltista Kohler. Egli osservò il
comportamento di scimpanzè posti davanti a problemi di “aggiramento”: erano infatti
chiusi in gabbia e dovevano recuperare delle banane situate al di là delle sbarre.
Dopo un’iniziale nervosismo, gli scimpanzè afferravano con decisione due
ramoscelli e li conficcavano uno nell’altro, formando un ramo più lungo con cui
avvicinavano le banane: ciò significa che avevano individuato nel loro spazio un
elemento che serviva ad altri scopi, ma poteva prestarsi per risolvere il problema. Fecero
cioè dei ramoscelli un uso diverso da quello naturale e li trasformarono in strumenti
risolutori. In un analogo esperimento egli appese le banane al soffitto della gabbia, ma in
modo che gli scimpanzé, da soli, non sarebbero riusciti ad afferrarle. Inoltre, lasciò nella
gabbia alcune cassette della frutta vuote. Gli scimpanzé cercavano di protendersi e

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allungare le mani per prendere le banane, ma non ci riuscivano, poi dopo vari tentativi,
guardandosi intorno, avevano l’intuizione di collocare le cassette vuote una sopra l’altra,
così da creare una sorta di scala, salirvi e così riuscire a prendere le banane. Anche in
questo caso si trattava di un apprendimento per insight, che si manifesta dopo un periodo
di “incubazione” in cui si valutano le risorse a disposizione e si inventa un modo creativo
di utilizzarle, al di là della loro funzione originaria. inizialmente impazienti di
L’apprendimento può infatti scaturire da lampi improvvisi, che risultano dall’uso
originale e creativo di strumenti in proprio possesso.

Confronto tra Apprendimento per condizionamento, apprendimento latente,


apprendimento per insight. Il condizionamento è una forma di apprendimento di tipo
associativo e meccanico che osserva il cambiamento nel comportamento esterno, il
cognitivismo analizza invece i processi mentali interni compiuti per apprendere, anche in
assenza di una prestazione esterna, l’insight identifica l’apprendimento come
un’intuizione immediata, anche se conseguente ad un periodo di gestazione e di
ricognizione delle risorse del contesto.
Dalle 3 teorie illustrate, in particolare dal confronto tra condizionamento e insight,
emergono due concezioni dell’apprendimento: apprendimento continuo e discontinuo.
Secondo una concezione “continua”, l’apprendimento è un percorso per gradi, un lento
processo di accumulo di conoscenze. Secondo una concezione “discontinua”,
l’apprendimento è subitaneo e creativo, consiste nell’insight, nel cogliere
immediatamente i nessi chiave delle cose, come a seguito di un’illuminazione.
Il conflitto tra apprendimento continuo e discontinuo è risolvibile distinguendo gli
ambiti di applicazione: la gradualità è più tipica dell’apprendimento, l’insight del
problem-solving, cioè della soluzione di problemi. Storicamente, la concezione continua
è stata sostenuta dai Comportamentisti (psicologi di approccio associazionista e
meccanicista), quella discontinua dai Gestaltisti (psicologi con un approccio “olistico”,
cioè globale, ai processi psichici). Attualmente si adotta una linea integrata:
l’apprendimento è un processo continuo e progressivo, che tuttavia non esclude atti
creativi ed essi sono resi possibili dalla qualità degli apprendimenti precedenti. Allo
stesso modo, il problem-solving, cioè la soluzione di problemi, sembra un processo
subitaneo, ma prevede una scansione in fasi, perché l’atto risolutorio non nasce
all’improvviso, ma rappresenta la conclusione di un percorso di analisi.

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3. Motivazione

La motivazione è il “movente” del comportamento, la causa che determina una


Definizione
reazione o una scelta, la spinta a compiere un’azione per raggiungere un obiettivo. I
comportamenti sono innescati da motivazioni spesso inconsce e sovradeterminate: non è
possibile isolare un solo elemento, ragionando secondo una logica lineare di causa-
effetto, poiché sono sempre numerosi, diversi e interconnessi i fattori che spingono ad
un’azione anche semplice.
Le motivazioni si distinguono dagli istinti, che sono tendenze comportamentali
specie-specifiche: un esempio è l’imprinting delle oche selvatiche, cioè la tendenza
innata, studiato dall’etologo Lorenz, a inseguire il primo oggetto in movimento; le
motivazioni si distinguono poi dai bisogni, che sono deviazioni da uno stato di equilibrio
organismico, e dalle pulsioni, che indicano la dimensione psicologica di un bisogno
fisiologico.
Le motivazioni si dividono in due macrocategorie: primarie e secondarie. Le
motivazioni primarie sono legate alla soddisfazione di bisogni fisiologici fondamentali;
le motivazioni secondarie sono quelle apprese culturalmente e derivate
dall’apprendimento e dall’influenza sociale. Queste ultime non sono dunque legate a
dimensioni biologiche, ma sono connesse al mantenimento di un’immagine di sé,
all’autostima, alla realizzazione delle proprie aspirazioni, al conseguimento di una
posizione sociale. Si tratta dunque di motivazioni non innate, ma apprese.
Inoltre si distinguono motivazioni intrinseche ed estrinseche. Un’attività
intrinsecamente motivata si autoalimenta, poiché è compiuta in quanto gratificante in se
stessa, invece un’attività estrinsecamente motivata viene svolta per ottenere
qualcos’altro, ad esempio un premio, una forma di ricompensa, o per evitare una
punizione.
Storicamente, si sono susseguite diverse teorie sulla motivazione: Hull aveva un
Sintesi dei
modello omeostatico, secondo cui le deviazioni dallo stato di equilibrio di un organismo
principali
autori e teorie
producono pulsioni che sono alla base di comportamenti diretti a ripristinare l’equilibrio.
di riferimento Un altro studioso, A. Maslow, ha elaborato un modello gerarchico delle motivazioni,
delineando la “piramide dei bisogni”, dove i bisogni al vertice compaiono soltanto dopo
la soddisfazione dei bisogni sottostanti. Infatti, i bisogni avvertiti per primi sono quelli
connessi alla sopravvivenza dell’organismo, poi gradualmente emergono bisogni
connessi alle dimensioni affettive, sociali e di autorealizzazione.

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In ambito psicodinamico, Freud sosteneva che le motivazioni fossero investimenti
energetici spesso inconsci, in quanto la spiegazione autentica e profonda di un
comportamento spesso risultava occultata da razionalizzazioni e intellettualizzazioni
difensive. In ambito comportamentista, le motivazioni sono spinte verso un’azione
determinate da rinforzi ricevuti dall’ambiente. Infine, in ambito cognitivista, Miller,
Galanter e Pribram hanno introdotto l’unità TOTE, cioè test-operate-test-exit, che
rappresenta la sequenza di azioni che costituiscono un comportamento: essi ritengono
che le motivazioni siano complessi processi di individuazione di una meta, ricognizione
dei mezzi disponibili per raggiungerla, valutazione dei risultati, verifica del cambiamento
ottenuto.
Un autore in particolare che ha formulato una teoria sulle motivazioni ed ha condotto
esperimenti per verificarne specifiche dimensioni è stato McClelland (1985), che ha
Teoria
innanzitutto chiarito come le dinamiche motivazionali siano causate dalla necessità di
approfondita
(con autori,
mantenere un rapporto ottimale tra organismo e ambiente: i comportamenti premiati
esperimenti, dall’ambiente tendono a ripetersi, poiché la persona, prima di agire, anticipa il risultato
ecc.) probabile e la sensazione di gratificazione o spiacevolezza associata. Le motivazioni
sono dunque propositi derivati dalla connessione tra incentivi naturali e sociali e stati
affettivi e sono capaci di attivare l’organismo per raggiungere una meta oppure evitare
una situazione spiacevole. McClelland ha isolato tre aree motivazionali dominanti:
l’affiliazione, il successo, il potere. L’affiliazione consiste infatti nel ricercare, stabilire e
mantenere relazioni interpersonali, di amicizia e di intimità. Chi ha un forte bisogno di
affiliazione tende ad evitare situazioni di conflitto e ad assumere atteggiamenti di
accondiscendenza.
Il bisogno di successo consiste nella ricerca di affermazione, di perfezione e di
eccellenza. Chi è motivato dal bisogno di successo tende a porsi obiettivi elevati, ma
realistici. A questo proposito, egli ha condotto un esperimento, sottoponendo bambini al
compito di infilare anelli in un piolo: i bambini con elevato bisogno di successo si
ponevano ad una distanza intermedia dal piolo; quelli con basso bisogno si ponevano ad
una distanza molto vicina, così che il compito risultasse molto semplice, oppure
esageratamente lontani, così che il compito diventasse impossibile.
La motivazione al successo si forma durante l’infanzia, a contatto con figure di
accudimento che nutrono aspettative elevate, ma realistiche verso il bambino e
sollecitano in lui esperienze di autonomia. Infatti, anche secondo studi recenti di Rosen e
D’Andrade (1959), i bambini con elevato bisogno di successo tendevano ad avere madri

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che li incoraggiavano all’indipendenza e premiavano le loro prestazioni con
manifestazioni di affetto, mentre i bambini con basso bisogno di successo generalmente
avevano madri che li svalutavano e li criticavano, mentre i padri si intromettevano
maggiormente nelle loro decisioni e risultavano irritati quando il bambino non riusciva in
un compito. Questi atteggiamenti sono stati osservati dagli stessi Rosen e D’Andrade in
un esperimento in cui affidavano a bambini un compito impegnativo, che doveva essere
svolto alla presenza dei genitori. Quando le aspettative sono troppo elevate e
irrealistiche, o troppo basse e svalutanti, il bambino sviluppa una modesta motivazione al
successo, quando invece sono realistiche, il bambino sviluppa un’elevata motivazione e
si pone obiettivi altrettanto realistici.
Il bisogno di potere consiste, infine, nell’aspirazione ad occupare posizioni di
comando, ad avere il controllo su cose e persone o a possedere oggetti che indichino una
posizione sociale superiore. Può scaturire da insicurezza, disagio e mancanza di una
solida identità e si placa strumentalizzando persone che, accettando una posizione di
dipendenza e di sottomissione, rassicurino chi ha l’esigenza di potere e gli offrano un
riconoscimento delle sue capacità.
La teoria di McClelland ha orientato la costruzione del TOM, il Test di
Strumenti
Orientamento Motivazionale di Borgogni, Petitta e Barbaranelli (2004), un questionario
self-report che consente di delineare un profilo motivazionale in ambito organizzativo e
di individuare le situazioni lavorative più adatte ad esprimere il proprio potenziale.
Ulteriori strumenti per valutare le motivazioni sono il Test di Appercezione
Tematica di Murray, di ambito psicodinamico, che attraverso tavole raffiguranti soggetti
fa emergere le motivazioni profonde; lo SDI (Storie da Inventare), anch’esso proiettivo,
utilizzato soprattutto con i bambini; i metodi statistici di Cattell, che si serve dell’analisi
fattoriale per l’estrazione delle dimensioni in grado di spiegare la maggior quantità di
varianza in un dato insieme di misurazioni. In ambito scolastico, si utilizza il
Questionario Metacognitivo sul Metodo di Studio di Cornoldi, che esplora la
motivazione nello studio.

Ambiti
La motivazione presenta potenzialità applicative in diversi ambiti: ad esempio quello
applicativi formativo e professionale, poiché valutare le motivazioni può risultare utile per interventi
di orientamento scolastico o professionale, per sostenere i soggetti nella scelta dei
percorsi più consoni alle proprie potenzialità.
Oppure, l’ambito della psicologia scolastica, poiché la motivazione è uno dei fattori
che incidono sull’apprendimento, infatti uno studente intrinsecamente motivato,

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conseguirà un apprendimento più solido e riuscirà a superare i momenti di
scoraggiamento e difficoltà. In ambito clinico, la motivazione è utile per favorire la
compliance del paziente rispetto al percorso di sostegno o di psicoterapia, poiché se
motivato, potrà tollerare più facilmente le eventuali frustrazioni ed essere più
collaborativo e recettivo. Nel marketing, le motivazioni consentono di comprendere i
comportamenti di acquisto dei consumatori. In ambito criminologico, lo studio delle
motivazioni è importante per capire i moventi di delitti o azioni criminali.

3 bis. Altre teorie sulla Motivazione

La Piramide dei bisogni di Maslow. Un esponente della psicologia umanistica,


Maslow, ha elaborato un modello gerarchico delle motivazioni, delineando la “piramide
dei bisogni”, illustrata nella figura:

(ovviamente la piramide non va disegnata sul compito, qui è stata inserita solo per
facilitare la visualizzazione dei diversi bisogni, ndr). I bisogni al vertice piramidale
compaiono soltanto dopo la soddisfazione dei bisogni sottostanti. Infatti, i bisogni
avvertiti per primi sono quelli connessi alla sopravvivenza dell’organismo. Se soddisfatti,
compaiono i bisogni superiori, quelli di sicurezza, che consistono nel cercare protezione
e stabilità, evitando pericoli e imprevedibilità.
I bisogni successivi sono quelli di appartenenza, come il bisogno di stabilire
relazioni intime, di partecipazione, di affiliazione. Al di sopra, vi sono i bisogni di stima,
connessi all’essere rispettati, apprezzati e approvati e al sentirsi competenti. Infine, al
vertice della piramide, vi sono i bisogni di autorealizzazione, cioè di crearsi un’identità

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propria, di realizzare le proprie aspettative e dare un senso alla propria vita. Secondo
Maslow, i bisogni alla base della piramide sono “bisogni di carenza”, poiché
scaturiscono da una situazione di indigenza e di necessità, invece, salendo, si incontrano
bisogni di crescita, connessi al desiderio di migliorare il benessere psicologico e sociale.
Questa teoria è stata utilizzata, tra le altre, per capire la motivazione al lavoro. A
questo proposito, Herzberg ha intervistato due categorie di lavoratori, cioè ingegneri e
contabili, per comprendere le cause della soddisfazione e insoddisfazione sul lavoro, in
quanto avrebbero influito sulla produttività. Emerse come al lavoro si chiede di
soddisfare soprattutto il bisogno di autorealizzazione, dunque non soltanto di fornire un
guadagno per nutrirsi, acquistare una casa e avere una stabilità e una sicurezza
economica, ma anche di offrire opportunità di crescita e riconoscimento sociale.
Il lavoro soddisfacente, che risponde a questi molteplici bisogni, è basato sia su
fattori definiti “igienici”, l’amministrazione, le condizioni di lavoro (orario, riposo
settimanale, stipendio), le relazioni con i superiori ei colleghi, sia su fattori propriamente
“motivanti”. I fattori igienici, da soli, non sono motivanti e non creano soddisfazione, ma
se non ci sono o risultano poco chiari e poco organizzati, creano insoddisfazione. I fattori
motivanti sono appunto quelli legati al vertice della piramide di Maslow, connessi
all’autorealizzazione, cioè riconoscimento, la responsabilità, la crescita professionale,
risultati ottenuti, il lavoro in sé, l’avanzamento nella carriera. Sono queste le leve per
motivare un lavoratore e renderlo più produttivo.

Teoria TOTE di Miller. In ambito cognitivista, è stata formulata una teoria che
considera le motivazioni non tanto come moventi, ma come obiettivi che creano
aspettative e guidano il comportamento. Miller, Galanter e Pribram hanno introdotto a
questo proposito l’unità TOTE, cioè test-operate-test-exit, che rappresenta la sequenza di
azioni che costituiscono un comportamento. Infatti, innanzitutto ci si pone un obiettivo,
quindi si verifica se un comportamento è funzionale a raggiunger e quell’obiettivo; se il
risultato non è positivo, si formula una seconda modalità operativa e se risulta efficace, il
processo è concluso in quanto la meta è raggiunta. In altre parole, i cognitivisti ritengono
che le motivazioni siano complessi processi di individuazione di una meta, ricognizione
dei mezzi disponibili per raggiungerla, valutazione dei risultati, verifica del cambiamento
ottenuto.
A questo punto si inseriscono le osservazioni sugli stati d’animo che seguono il
raggiungimento di una meta: infatti, sin da bambini, si cerca di ottenere un controllo su

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di sé e sull’ambiente e di raggiungere una competenza, poiché ad essa è associata un
senso di efficacia, di controllo e di soddisfazione. Si possono compiere attività ed
esperienze per il solo fatto che offrono l’opportunità di sentirsi capaci, di sperimentarsi
come competenti, cioè per il “piacere funzionale” di compierle, anche se non prevedono
un riconoscimento esterno.
Il TOTE contiene in sé la nozione di feed-back, cioè di retroazione, che implica un
tipo di comunicazione e di interazione circolare, dove non c’è un soggetto che parla e
uno che ascolta, ma due soggetti che interagiscono, alternando i loro ruoli di parlante e di
ascoltatore. Inoltre, questa teoria, oltre a dare l’avvio agli studi sulla comunicazione
circolare, che saranno approfonditi dalla Scuola di Palo Alto (vedi tema sulla
Comunicazione), ha contribuito all’evoluzione della cibernetica e dell’intelligenza
artificiale, poiché dopo questa teoria sono stati costruiti diversi “simulatori”, cioè robot,
calcolatori e macchine utilizzati poi dalla psicologia sperimentale per studiare i processi
mentali, elaborare e testare nuovi modelli di funzionamento del comportamento.

4. Emozione

Le emozioni sono esperienze soggettive complesse, accompagnate da


Definizione
modificazioni cognitive, comportamentali, espressive e fisiologiche, intense, ma
generalmente di breve durata. Svolgono una funzione adattiva, in quanto costituiscono
una risposta immediata ad una sollecitazione ambientale.
Ogni componente della risposta emozionale interagisce con le altre ed è funzionale
ad un obiettivo: la componente cognitiva consente di valutare lo stimolo, l’attivazione
fisiologica predispone l’organismo ad affrontare la situazione, la componente espressiva
modula l’esibizione esterna dei vissuti provocati, infine la componente comportamentale,
legata anche alle motivazioni, induce l’organismo a reagire. L’emozione presuppone
dunque una valutazione, un monitoraggio dell’azione, una regolazione della relazione tra
organismo e ambiente, dunque, si configura come un processo integrato e in parte
controllato, piuttosto che come un’eccitazione caotica, irrazionale e imprevista come
presuppone il senso comune. Le emozioni non sono infatti “turbolenze intercorrenti”
dell’esperienza individuale, ma fenomeni costanti che accompagnano ogni momento
dell’esperienza personale e svolgono una funzione adattiva.
Storicamente, si sono susseguite diverse teorie delle emozioni: la prima, in ambito
scientifico, è stata la teoria periferica di James, secondo cui le emozioni sono intensi

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Sintesi dei cambiamenti neurovegetativi che si manifestano prima a livello viscerale e motorio, poi
principali
ricevono una valutazione cognitiva; invece secondo Cannon, i visceri hanno una
autori e teorie
sensibilità scarsa, una risposta lenta e una motilità troppo indifferenziata per essere
di riferimento
considerate come il luogo di origine delle emozioni, che invece nella sua teoria è centrale
e si identifica con la regione talamica, poiché per prima riceve i segali e li trasforma in
manifestazione espressiva e motoria. Invece, secondo Schachter, l’attivazione fisiologica
e la percezione soggettiva dei cambiamenti interagiscono e sono entrambe condizioni per
il manifestarsi dell’emozione, ma non sufficienti: occorre un’attribuzione causale, cioè
un etichettamento che spieghi la reazione con un evento emotigeno pertinente. Vi sono
poi le teorie evoluzioniste, secondo cui le emozioni sono meccanismi naturali di
adattamento all’ambiente, le teorie dell’appraisal, secondo cui sono risposte scaturire
dall’interazione tra conoscenze, valori, desideri, aspettative e altre componenti culturali
del soggetto.

Teoria
Uno studioso che ha elaborato una teoria delle emozioni completa e sottoposta a
approfondita verifiche sperimentali è stato Ekman. Egli definisce le emozioni secondo alcuni criteri
(con autori, fondamentali: i segnali espressivi distinti e universali, la presenza in altri primati, le
esperimenti,
caratteristiche fisiologiche, gli antecedenti situazionali distinti e universali, la coerenza
ecc.)
tra i vari aspetti della risposta emozionale, la rapida insorgenza, la breve durata, la
valutazione cognitiva automatica, l’occorrenza spontanea, cioè il suo manifestarsi
immediatamente. Si tratta di criteri prevalentemente empirici, che non pretendono di
essere esaustivi.
Il primo criterio distintivo fa riferimento all’ambito di indagine prediletto da
Ekman, cioè l’espressione facciale, il secondo rivela la connessione della teoria di
Ekman con le teorie evoluzioniste. Anche la rapida insorgenza dell’emozione dopo la
comparsa dello stimolo ha un valore evoluzionista e funzionale alla sopravvivenza,
poiché attiva l’organismo in vista di un adattamento con l’ambiente. La valutazione
cognitiva e altrettanto rapida presupposta da Ekman è molto semplice e basilare, consiste
nello stabilire se lo stimolo è positivo, e quindi ci si può avvicinare, oppure cattivo, e
quindi richiede misure difensive.
Ekman ha approfondito in particolare l’espressione facciale delle emozione, già
studiata da Darwin, che aveva rilevato come nei primati superiori si potesse osservare
una mimica universale e simile a quella della specie umana. Insieme a Friesen (1969),
Ekman ha conferito maggiore sostegno sperimentale a questa ipotesi, raccogliendo
numerosi dati che confermano l’universalità delle espressioni facciali delle emozioni

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basilari (Felicità, Sorpresa, Disgusto, Rabbia, Paura, Tristezza).
L’esperimento più noto a questo proposito è stato compiuto nel 1972 ed è stato di
tipo interculturale: sono state selezionate 6 fotografie, ciascuna associata ad
un’espressione di Felicità, Sorpresa, Disgusto, Rabbia, Paura, Tristezza. Sono state
mostrate a 21 gruppi di soggetti sperimentali, ciascuno residente in un diverso paese, di
cui soltanto 11 stati erano occidentali. Ogni soggetto doveva associare la foto del viso ad
una delle 6 emozioni elencate. Il risultato è stato che in tutti gli Stati i soggetti avevano
associato allo stesso modo felicità, tristezza e disgusto e ed erano in maggioranza
d’accordo anche per le altre tre emozioni . Le espressioni facciali delle emozioni sono
inoltre risultate non del tutto simmetriche: ad esempio, le emozioni negative producono
un’espressione più intensa ed evidente nell’emifaccia sinistra e sarebbe da attribuire ad
una dominanza dell’emisfero destro.
Ekman e Friesen hanno comunque dato importanza anche alle componenti culturali
delle emozioni, sottolineando come le circostanze di attivazione e le regole di esibizione
fossero influenzate dalle pratiche e dai costumi, poiché alcune società incoraggiano
l’esteriorizzazione delle emozioni, altre un precoce controllo. Un altro esperimento di
Ekman (1973) mostrò infatti che i soggetti giapponesi più di quelli americani cercavano
di controllare la loro espressione facciale relativa ad emozioni negative se erano in
presenza di un connazionale.
Strumenti I metodi per lo studio dell’espressione facciale delle emozioni possono essere
ricondotti essenzialmente a due: metodo delle componenti e metodo del giudizio (o
riconoscimento). Nel primo metodo di cerca di individuare in modo analitico i
movimenti mimici che contribuiscono a determinare una certa espressione; nel metodo
del riconoscimento si sottopone alla valutazione di “giudici” una espressione emozionale
per ottenere da essi l’interpretazione e il riconoscimento della emozione manifestata. Fra
i metodi analitici, il più noto è il FACS (Facial Action Coding System) realizzato proprio
da Ekman e Friesen (1978).
Le teorie delle emozioni trovano applicazione in ambito clinico: vi sono infatti
Ambiti
applicativi
specifici disturbi, quali l’alessitimia, dove è presente una difficoltà a verbalizzare le
emozioni, che quindi vengono vissute soltanto sul piano fisiologico, senza riuscire ad
etichettarle linguisticamente. Nei disturbi dell’umore, sono presenti in prevalenza
emozioni negative come tristezza e malinconia, oppure stati estremi come mania ed
eccitazione incontrollata.

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Nei disturbi d’ansia, possono presentarsi emozioni incontrollabili o anticipazioni
disfunzionali di emozioni o di situazioni che provocano un’iperattivazione fisiologica
anche in assenza di uno stimolo. In particolare, nel disturbo post-traumatico da stress le
emozioni connesse al trauma sono costantemente attive a livello fisiologico e cognitivo,
attraverso flashback intrusivi e improvvisi. Anche in alcuni disturbi psicotici, come la
schizofrenia, le emozioni sono esperite in modo specifico: si può verificare un
appiattimento emotivo, uno stato di apatia e di indifferenza, oppure oscillazioni
dell’umore. Nel disturbo di personalità istrionico può manifestarsi un’accentuazione
dell’espressione emotiva, scenografica e caricaturale.
Anche in ambito psicosomatico, le teorie delle emozioni possono essere utili a
comprendere la conversione di alcuni disagi, in quanto si esprimono soprattutto
attraverso la componente fisiologica delle emozioni, piuttosto che quella cognitiva. Un
ulteriore ambito applicativo può essere la psicologia dell’età evolutiva, poiché studia lo
sviluppo emotivo e le sue connessioni con quello cognitivo e sociale, oppure la
psicologia sociale, per lo studio delle regole di esibizione culturale.

4 bis. Ulteriore teoria sulle emozioni

La seguente teoria è utilizzabile sia per il tema “Confronta due teorie sulle
emozioni”, sia per il tema incrociato “pensiero ed emozioni”.

Teoria cognitivo-attivazionale Schachter e Singer. Vi è una teoria in particolare


che connette emozione e pensiero ed è la teoria cognitivo-attivazionale Schachter e
Singer, detta anche “teoria dei due fattori”. Secondo questa teoria, l’emozione risulta
dall’interazione di due componenti: una di natura fisiologica, costituita dall’attivazione
diffusa del’organismo, cioè di un’eccitazione generalizzata ed emozionalmente non
specifica, e l’altra componente di natura psicologica, che consiste nel percepire lo stato di
attivazione fisiologica e nel ricollegarlo ad un evento che possa spiegarla e averla
provocata.
Queste componenti sono necessarie, basilari, ma non sufficienti per produrre
un’emozione: occorre infatti un ulteriore intervento, di tipo cognitivo, costituito dal
“labelling”, cioè dall’etichettamento dell’esperienza emotiva effettuato attraverso
un’elaborazione cognitiva di essa, un ragionamento, un’attribuzione causale. L’emozione
è dunque l’atto finale di un lungo e articolato processo di percezione e interpretazione

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dello stato dell’organismo e anche del contesto esterno con cui interagisce.
L’emozione presuppone dunque una valutazione, un monitoraggio dell’azione, una
regolazione della relazione tra organismo e ambiente, dunque, si configura come un
processo integrato e in parte controllato, piuttosto che come un’eccitazione caotica,
irrazionale e imprevista come presuppone il senso comune. Le emozioni non sono infatti
“turbolenze intercorrenti” dell’esperienza individuale, ma fenomeni costanti che
accompagnano ogni momento dell’esperienza personale e svolgono una funzione
adattiva.
Schachter trasse anche una conclusione da questa teoria: se ad un soggetto viene
provocata artificialmente un’attivazione fisiologica (arousal), ad esempio
somministrando a sua insaputa una sostanza chimica eccitatoria, e poi egli viene indotto
a collegare questa esperienza ad una situazione emotivamente pertinente, la sua reazione
sarà emotiva, nonostante appunto la causa dell’attivazione fisiologica sia artificiale. Per
spiegare meglio e avvalorare questa affermazione, egli ha compiuto un esperimento.
Ha somministrato ai soggetti dell’esperimento epinefrina per 20 minuti, una
sostanza che stimola reazioni autonome simpatico-mimetiche come aumento della
pressione arteriosa, del battito cardiaco e della frequenza respiratoria. I soggetti sono stati
divisi in tre gruppi: ad un gruppo sono state date spiegazioni corrette, dicendo appunto
che quello stato eccitatorio era dovuto all’epinefrina; ad un altro gruppo fu data una
spiegazione erronea: ad un altro gruppo non venne data alcuna spiegazione.
Successivamente, i soggetti sono stati portati in diversi ambienti per compilare un
questionario di autovalutazione. In un ambiente era presente un complice dello
sperimentatore, che mostrava un atteggiamento molto euforico; in un altro il complice
mostrava un atteggiamento autoritario, aggressivo e frustrante. I soggetti del gruppo che
non avevano ricevuto spiegazioni, si fecero influenzare dal contesto per valutare la loro
attivazione fisiologica: quelli a fianco dello sperimentatore euforico, riferirono
contentezza; quelli a fianco dello sperimentatore frustrante, mostrarono collera. Non
basta dunque l’attivazione fisiologica per provocare un’emozione: interviene anche il
pensiero, che raccoglie indizi dal contesto e si fa influenzare dal contesto per etichettare e
spiegare l’esperienza fisiologica, dando così all’emozione un nome coerente con il
contesto, condizionato da esso. Tuttavia, ricerche successive non hanno confermato
completamente questo risultato o l’hanno confermato solo in parte. Se poi l’arousal
rimane inspiegato, non ha un effetto neutro, ma genera emozioni negative come ansia e
paura.

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5. Linguaggio

Il linguaggio è una competenza distintiva della specie umana, consiste nella capacità
Definizione
di associare suoni e significati mediante regole grammaticali ed è fondato su una
relazione convenzionale, stabilita dagli uomini, tra parole e realtà. Le componenti di base
del linguaggio sono:
a) i fonemi: sono le più piccole unità di suono pronunciate dai parlanti, le emissioni
sonore di base. L’articolazione della voce umana potrebbe produrre fino a 500 varianti,
tuttavia i fonemi prodotti sono circa 200 ed ogni lingua ne utilizza soltanto una trentina,
combinandoli in modi infiniti.
b) morfemi: è la più piccola unità linguistica dotata di significato, la combinazione
di base tra lettere dell’alfabeto, poiché le sillabe di base, unendosi, formano le parole.
c) lessico: è l’insieme delle parole che costituiscono una lingua.
Il linguaggio possiede due fondamentali proprietà: la produttività e la costruttività.
Il linguaggio è produttivo in due sensi: in primo luogo, poiché con il lessico di una
lingua è possibile creare un numero infinito di frasi, in secondo luogo perché la stessa
frase espressa in una lingua può essere tradotta in qualunque altra lingua. Il linguaggio è,
invece, costruttivo in vari sensi: in primo luogo, i fonemi possono essere combinati tra
loro in modo infinito, creando un numero infinito di parole; in secondo luogo, le parole
sono convenzionali, cioè anche il loro significato è costruito: gli uomini, inventano una
combinazione di fonemi, formando una parola, e assegnano ad essa un significato
arbitrario, in quanto la riferiscono ad un oggetto o ad una realtà e le attribuiscono la
capacità di rappresentare quell’oggetto o quella realtà. In terzo luogo, le parole possono
essere combinate tra loro formando un numero infinito di frasi.
Le parole costituiscono la struttura superficiale del linguaggio, cioè l’insieme degli
elementi che si utilizzano per costruire frasi e discorsi pronunciabili o esprimibili per
iscritto, dunque visibili o udibili. Il loro significato costituisce, invece, la struttura
profonda, invisibile e astratta.
Il parlante possiede una doppia competenza: di comprensione e di esecuzione. Nel
bambino, possono differire anche di molto: il bambino di due anni, ad esempio, ha una
competenza di comprensione superiore a quella di esecuzione, poiché può capire un
numero molto ampio di parole, benché ne utilizzi ancora poche per esprimersi.
Le teorie sull’acquisizione del linguaggio e sulle sue funzioni sono state formulate in
diversi ambiti: comportamentista con Skinner, innatista con Chomsky, culturalista con

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Sintesi dei Vygotsky. L’approccio comportamentista di Skinner riconduce l’acquisizione del
principali
linguaggio a 3 meccanismi: imitazione, condizionamento, rinforzo. Invece, secondo il
autori e teorie
linguista Chomsky, il meccanismo associazionista risulta riduttivo e insufficiente a
di riferimento
spiegare l’acquisizione di strutture sintattiche complesse come quelle delle lingue. Egli
sostiene infatti l’esistenza innata di un dispositivo di acquisizione del linguaggio, il LAD
(Language Acquisition Device), che non è un organo specifico, ma rappresenta una
predisposizione a comprendere e produrre proposizioni.
Una teoria che invece procede oltre questa contrapposizione ed approfondisce lo

Teoria
studio del linguaggio, predisponendo anche esprimenti, è quella formulata in ambito
approfondita culturalista. Nell’ambito della scuola storico-culturale fondata dallo psicologo russo
(con autori, Vygotsky, l’acquisizione della competenza linguistica non avviene né
esperimenti,
deterministicamente, seguendo stati programmati geneticamente, né si compie
ecc.)
meccanicamente mediante catene di associazioni, cioè mediante un condizionamento
bastato su premi e punizioni.
Alla base di ogni atto cognitivo, come il linguaggio e il pensiero, vi è l’interazione
sociale, che vede il soggetto né completamente passivo come nel comportamentismo né
completamente attivo, ma membro di un gruppo, di una cultura e di una società.
L’acquisizione del linguaggio avviene dunque per interiorizzazione, poiché inizialmente
il bambino ascolta gli altri, comprende i loro discorsi e si sforza di appropriarsi delle
parole e delle espressioni che usano per comunicare e interagire. Quindi il linguaggio
inizialmente è sociale ed è uno strumento di comunicazione, poi viene assimilato.
L’adulto sostiene questi apprendimenti, aiuta il bambino a progredire, rispettando la
sua “zona di sviluppo prossimale”, cioè costruendo nuovi apprendimenti su quelli ormai
assimilati e fornendo gli strumenti per il passo successivo.
Verso i sei-sette anni, il linguaggio è ormai ricco e viene utilizzato anche quando il
bambino è solo, per ordinare i pensieri e guidare le azioni, commentando la sequenza di
comportamenti messi in atto, come quando gioca da solo e “descrive” a se stesso ad alta
voce tutte le operazione compiute. Il linguaggio utilizzato con questa funzione,
intermedia tra la comunicazione e il pensiero, si definisce “linguaggio egocentrico” o
“linguaggio normativo”. Gradualmente, il linguaggio diventa silenzioso, si interiorizza e
diviene pensiero vero e proprio: il linguaggio cioè viene pronunciato solo mentalmente e
supporta le attività psichiche come memoria, attenzione, ragionamento.
A questo proposito, Levina, collaboratore di Vygotsky, fece una ricerca con bambini
di 4/5 anni che dovevano raggiungere un dolce, ma non potevano arrivarci direttamente.

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Osservò che i bambini utilizzavano il linguaggio per elaborare possibili soluzioni,
evocando strumenti che non giacevano nel loro campo visivo, per poi agire, a differenza
delle scimmie, che invece si limitano al proprio campo visivo. Se ai bambini veniva
proibito di parlare, privandoli del linguaggio come strumento “normativo” e di
pianificazione dell’azione, ciò inibiva l’azione stessa. Oppure, i bambini ripiegavano su
forme di linguaggio sociale, come chiedere aiuto allo sperimentatore. Se anche in questo
caso non ricevevano sostegno, interiorizzavano il linguaggio, diventavano assorti come
se stessero parlando a se stessi e spiegando come risolvere il problema.
Secondo Vygotsky dunque, il linguaggio è una competenza sociale, che viene poi
interiorizzata. Invece, secondo Piaget, psicologo ed epistemologo, è una competenza
interiore, che viene poi socializzata. Piaget ipotizza dunque un percorso inverso,
dall’interno all’esterno: tuttora ci sono dibattiti su quale delle due ipotesi possa risultare
più plausibile.
Sempre nell’ambito della scuola storico-culturale, il medico Aleksander Lurija ha
approfondito il rapporto tra linguaggio, pensiero e comportamento, sostenendo che il
linguaggio non soltanto è uno strumento per ragionare, ma condiziona il comportamento
e le modalità di rapportarsi alla realtà, poiché attribuisce ad essa sfumature e
caratteristiche che predispongono a compiere una certa esperienza o a predisporsi con un
certo atteggiamento.
Un altro studioso, B. Whorf, riflette ulteriormente su questo dato, ampliando il
livello di influenza: non solo il linguaggio condiziona la percezione della realtà di un
individuo, ma di tutto un popolo. Egli formula così l’ipotesi della “relatività linguistica”.
Ad esempio, il popolo eschimese possiede centinaia di parole per indicare la neve, poiché
è a contatto con essa e riesce a coglierne tutte le sfumature e a distinguere una neve più
soffice, più bianca, ecc. Il lessico di un popolo rispecchierebbe dunque l’esperienza che
ha quel popolo della realtà, i suoi modi di ragionare, i costrutti che utilizza per
interpretare il mondo. Questa ipotesi è stata poi respinta nella sua forma originale
assoluta e accettata nella versione debole, che riconosceva un’influenza, ma non
determinante, né assoluta, né totale, della lingua nel concettualizzare la realtà.
Strumenti Gli strumenti per la valutazione del linguaggio molto utilizzati sono: il questionario
sullo sviluppo comunicativo e linguistico dal II anno di vita, utile in età evolutiva per
valutare lo sviluppo delle competenze del bambino; le prove di comprensione di
Rustioni; il TVL, Test di valutazione linguistica di Cianchetti e Faciello; il Test di
Fluenza Verbale, incluso nella batteria di valutazione delle afasie, per una rapida

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valutazione della capacità di evocazione di parole.
Le teorie del linguaggio possono trovare applicazione in diversi ambiti: ad esempio,
Ambiti
la psicologia dell’età evolutiva, che studia le connessioni tra sviluppo linguistico e
applicativi
cognitivo, emotivo, sociale. Oppure, la psicologia clinica e la neuropsicologia, per la
diagnosi e la riabilitazione dei disturbi del linguaggio sia in età infantile, ad esempio con
il disturbo dell’articolazione, della comprensione, dell’espressione o il disturbo misto
della comprensione e dell’espressione; oppure, nelle afasie, quella non fluente di Broca o
fluente di Wernicke. Un’altra applicazione è la psicologia clinica, dove si utilizza il
colloquio, scambio linguistico finalizzato ad un obiettivo, che rispetta determinate
regole: ad esempio Semi suggerisce la “regola del linguaggio”, che invita il terapeuta ad
adeguarsi al linguaggio del paziente.
Nei disturbi psicotici, possono presentarsi sintomi linguistici come confusione,
deragliamento, linguaggio privo di senso e assimilato ad un”insalata di parole”. Oppure,
un altro ambito applicativo sono gli studi sull’efficacia degli interventi, dove si
registrano le sedute e si analizzano le narrazioni, poiché in base allo stile e alle
connessioni linguistiche, si monitora il processo terapeutico: un indicatore di progresso è
rilevabile attraverso il codice multiplo della Bucci, che valuta l’integrazione tra le
componenti cognitive ed emotive che emergono dalla trama linguistica. Anche l’Adult
Attachment Interview si basa sulla trama linguistica per valutare lo stato della mente
dell’adulto rispetto all’attaccamento.

5 bis. Ulteriori teorie del Linguaggio

Per il tema “confronta due teorie sul linguaggio”, è consigliabile studiare come
seconda teoria quella di Bruner, esposta nel tema n° 65, poiché può essere utilizzata
anche per il tema sul pensiero oppure per il tema incrociato “linguaggio e
pensiero”. Altrimenti si possono mettere a confronto Skinner e Chomsky: è il
confronto più classico e più ovvio, mentre Bruner/Vygotsky è più originale e
consente più osservazioni meno “scontate” e di rendere il tema più corposo.

Teoria comportamentista di Skinner e Teoria innatista di Chomsky. Skinner


riconduce l’acquisizione del linguaggio a 3 meccanismi: imitazione, condizionamento,
rinforzo. Ad esempio, la madre pronuncia il nome di un oggetto presente nella stanza e il
figlio prova a ripeterlo (imitazione), tuttavia non vi riesce, quindi la madre lo ripete

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nuovamente; quando il bambino riproduce perfettamente il nome, la madre lo premia con
un sorriso, un grido di gioia, una caramella (rinforzo). Il gioco si ripete finché
l’associazione tra parola ed oggetto venga completamente assimilata (condizionamento).
Invece, secondo Chomsky, il meccanismo associazionista risulta riduttivo e
insufficiente a spiegare l’acquisizione di strutture sintattiche complesse come quelle delle
lingue. Egli sostiene l’esistenza innata di un dispositivo di acquisizione del linguaggio, il
LAD (Language Acquisition Device), che con consiste in un organo specifico, ma
rappresenta una predisposizione a comprendere e produrre proposizioni.

6. Comunicazione

Nei primi decenni del Novecento si approfondirono le ricerche sulla


Definizione
comunicazione, coinvolgendo studiosi di varie provenienze: linguisti, psicologi,
sociologi, economisti e matematici. L’atto comunicativo venne modellizzato come
passaggio di contenuti da un’emittente ad un ricevente. Oggi invece la comunicazione
viene considerata come un fenomeno complesso, che non si esaurisce nel passaggio di
informazioni e non prevede una registrazione meccanica di contenuti, ma mobilita risorse
di natura, cognitiva, emotiva e sociale. La comunicazione costituisce non soltanto una
condivisione, una partecipazione e un collegamento, come già rilevabili dall’etimologia
della parola (comunicare = mettere n comune), ma implica una costruzione attiva della
conoscenza, mediante inferenza, negoziazione e feedback.
Le principali teorie che hanno illustrato le dinamiche della comunicazione sono: il
Sintesi dei
modello di Lasswell, la teoria dell’informazione di Shannon e Weaver, il modello di
principali
autori e teorie
Jerbner, il modello di Jacobson, infine quello sistemico della scuola di Palo Alto, che
di riferimento verrà approfondito nel proseguimento di questo elaborato.
Secondo il sociologo americano Lasswell, l’atto comunicativo è descrivibile
rispondendo a cinque fondamentali domande: Chi? Che cosa? Attraverso quale canale? A
Chi? Con quale effetto? Negli stessi anni in cui opera Lasswell, i matematici Claude
Shannon e Warren Weaver formulano la “teoria matematica della comunicazione”,
considerando la comunicazione come un processo di elaborazione di informazioni: non si
occupano del contenuto del messaggio, ma rivolgono l’attenzione è all’accuratezza della
trasmissione e alla qualità della ricezione. Per qualsiasi contenuto, si ipotizzano gli stessi
meccanismi di elaborazione, cioè codifica e decodifica. Il modello di Shannon e Weaver
è stato successivamente ampliato dallo studioso americano George Gerbner: egli ipotizza

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che il processo di comunicazione consista nella percezione di un evento da parte di un
soggetto: se il soggetto è costituito da una macchina, la sua percezione selezionerà gli
aspetti tecnici dell’evento; se invece è costituito da un individuo, risentirà di esperienze
personali, le opinioni soggettive, le caratteristiche della cultura di appartenenza. Il
linguista russo Roman Jacobson preserva lo schema emittente-canale-ricevente, ma
procede oltre, specificando 6 diverse possibili funzioni assolte dalla comunicazione:
emotiva, fàtica, poetica, metalinguistica, referenziale, conativa.
Tuttavia, un’analisi più approfondita degli effetti della comunicazione sarà
Teoria
approfondita
compiuta soltanto successivamente, nell’ambito della Pragmatica della comunicazione
(con autori, della Scuola di Palo Alto, che elabora un modello di comunicazione circolare. Palo Alto
esperimenti, è una piccola città a Sud di San Francisco dove, nella seconda metà del Novecento, si
ecc.)
riuniscono un gruppo di studiosi di varie discipline come antropologi, linguisti, sociologi,
matematici, psichiatri, che fanno capo all’antropologo e filosofo Gregory Bateson, a
Ervng Goffmann ed Hedward Hall e agli psichiatri Don Jackson, Albert Scheflen e Paul
Watzlavick.
Le loro attività di ricerca si svolgono all’interno del Mental Research Institute e si
focalizzano sulla comunicazione: qui si sviluppa un nuovo modello definito “sistemico”.
Secondo questo modello, è impossibile isolare il soggetto dal contesto di relazioni
in cui è inserito. Ciascuno vive infatti all’interno di reti di relazioni che lo influenzano e a
sua volta influenza gli altri con cui entra in contatto. Ogni comportamento produce un
comportamento sugli interlocutori, per cui risulta riduttivo considera la comunicazione
come un processo unidirezionale e lineare. Occorre trattarla come un processo circolare,
che parte da un soggetto, giunge ad un altro e torna nuovamente al soggetto di partenza
(feedback). Nel 1967 è stata pubblicata un’opera importante nello studio delle interazioni
e delle modalità di comunicazione, scritta da Paul Watzlavick, Janet Beavin e Don
Jackson, intitolata “Pragmatica della comunicazione umana”.
La pragmatica è la disciplina che studia il rapporto tra il linguaggio e chi lo usa.
All’interno dell’opera sono posti gli assiomi della comunicazione, che sono “verità
autoevidenti”, cioè principi che non richiedono ulteriori dimostrazioni in quanto sono
essi stessi fondanti. Essi sono, cioè, i presupposti basilari, i fondamenti della
comunicazione. Gli assiomi sono 5.
Primo Assioma: “È impossibile non comunicare”. Anche quando non si utilizzano
parole, attraverso il comportamento si inviano comunicazioni agli altri, poiché il fatto
stesso di non voler parlare, è un modo di rivelarsi, in quanto rivela la volontà di non

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rivelarsi. Il primo assioma inizia a sottolineare dunque l’ampliamento dei canali di
comunicazione utilizzabili per esprimere un messaggio, non riducibili quindi al solo
canale verbale.
Secondo Assioma: “Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di
relazione, in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi “metacomunicazione”. Il
contenuto del messaggio non è sufficiente per la comprensione da parte
dell’interlocutore. Affinché il messaggio risulti chiaro, deve essere accompagnato da una
specifica intonazione, un’espressione del viso, che possa specificare l’intenzione di colui
che parla. Il contenuto è l’informazione che si vuole trasmettere, mentre la modalità con
cui lo si comunica è definita metacontenuto: letteralmente significa “che va oltre il
contenuto”, include cioè l’insieme delle modalità con cui viene espresso e possono
variare sensibilmente il significato del messaggio.
Terzo Assioma: “La natura della comunicazione dipende dalla punteggiatura delle
sequenze di comunicazione fra i comunicanti”. Come nel linguaggio, senza
l’interpunzione, risulta difficile strutturare e cogliere il significato del testo, allo stesso
modo, una comunicazione chiara è una comunicazione con una punteggiatura condivisa
dagli interlocutori, che individui con chiarezza l’inizio del discorso e distingua le cause
dagli effetti. Senza una punteggiatura precisa, cioè senza un accordo tra i messaggi da
considerare come premesse e le conseguenze, tra le cause e gli effetti, tra il prima e il
dopo, la comunicazione è ambigua e conflittuale. Tuttavia, risulta molto difficile
punteggiare le sequenze in modo unanime: questo problema si contestualizza all’interno
della più ampia questione del “feedback” o “retroazione”, cioè dell’effetto che ha la
risposta dell’interlocutore su colui che aveva posto la domanda, cioè l’utilizzo
dell’informazione di ritorno: tutte le comunicazione effettuate, poi ritornano al mittente,
influendo sui suoi successivi comportamenti. Dopo aver espresso un contenuto, si
esamina l’effetto prodotto e quindi si regolano in base a ciò le iniziative successive:
ciascuno influenza ed è a sua volta influenzato, per cui risulta difficile fissare delle
punteggiature rigide.
Quarto Assioma: “Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico sia con
quello analogico”. Il “modulo numerico” è il linguaggio verbale, invece il modulo
“analogico” è il linguaggio non verbale. Ciascuno comunica ricorrendo in varia misura e
in base alle circostanze a ciascuno dei due canali, quello linguistico e quello corporeo. Le
emozioni si esprimono prevalentemente attraverso il canale non verbale. Tuttavia,
occorre sottolineare come il linguaggio non verbale sia “privo di semantica”: il

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linguaggio parlato e scritto segue una sintassi, regole grammaticali precise, ogni parola
possiede un significato condiviso, invece il linguaggio del corpo è ambiguo ed equivoco,
i gesti non sono riconducibili ad un unico significato e non sono facilmente decifrabili.
Risulta inoltre una modalità espressiva meno controllabile.
Quinto Assioma: “Gli scambi comunicativi sono simmetrici o complementari, a
seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza”. Gli interlocutori occupano
un grado gerarchico diverso: le comunicazioni simmetriche avvengono tra persone di
pari grado, come tra amici, compagni di classe, colleghi di lavoro, invece le
comunicazioni asimmetriche avvengono tra soggetti che non si trovano sullo stesso piano
per quanto riguarda il potere, l’autorità.
Gli studiosi di Palo Alto analizzarono anche i contesti comunicativi patologici, ad
esempio le famiglie in cui erano presenti soggetti gravemente disturbati. In particolare,
Bateson sosteneva che nella genesi della schizofrenia fossero implicati meccanismi di
interazione e di comunicazione disfunzionali e paradossali, come il “doppio legame”.
Questo meccanismo si presenterebbe soprattutto nella relazione madre-figlio,
consiste nell’inviare un messaggio composto da due proposizioni, di cui una è il
contrario dell’altra, oppure un messaggio in cui un livello comunicativo, ad esempio
quello del contenuto, contraddice un altro livello, ad esempio quello non verbale
costituito da gesti, postura, tono di voce. Bateson cita l’esempio di una madre che, dopo
un certo tempo, rivede il figlio, ricoverato per disturbi mentali. Il figlio, in un gesto di
affetto, tenta di abbracciare la madre, ma lei si irrigidisce; lui, a questo punto si ritrae, e
la madre commenta: “Non devi aver paura ad esprimere i tuoi sentimenti”.
Nel doppio legame, il destinatario della comunicazione viene paralizzato di fronte
all’incongruenza del messaggio, al contempo non può non reagirvi, dunque anche la sua
reazione risulterà altrettanto paradossale e incongruente. Bateson ipotizzava che la
schizofrenia potesse risultare da un’esposizione ripetuta a meccanismi di doppio legame
come quello illustrato. Successivamente, questa ipotesi è stata respinta, in quanto
risultata riduttiva, anche se tutt’oggi si riconosce che, nella famiglie disturbate, possano
strutturarsi pattern di comunicazione disfunzionali che vengono rinforzati nel tempo,
fino ad autoalimentarsi, contribuendo a generare la patologia. Di per sé, tuttavia, non
sono sufficienti a determinarla, poiché la causa è da ricercarsi nell’interazione tra
diversi fattori, sia biologici, sia psicologici, sia familiari, sia sociali.
Gli strumenti più utilizzati nell’ambito della comunicazione sono l’analisi del
discorso, che rileva le tipologie di interazione e di interpretazione dei messaggi

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Strumenti scambiati da interlocutori; l’analisi della conversazione, che rileva i turni, le sequenze,
le tecniche di negoziazione attuate durante una conversazione; l’analisi della
comunicazione, che consiste in una ricognizione delle tecniche, delle strategie, dei
canali di diffusione, degli obiettivi di un messaggio. Tutte e tre appartengono alla
metodologia di ricerca qualitativa.
Un ulteriore strumento è il colloquio, sia clinico, sia di selezione del personale, sia
di sostegno, in quanto sono modalità di comunicazione con obiettivi specifici e dove è
importante rilevare sia la comunicazione verbale che non verbale.

Ambiti
Uno degli ambiti di applicazione delle teorie sulla comunicazione sono i mass-
applicativi media e la pubblicità, in quanto queste teorie possono essere utili per comprendere il
comportamento dei consumatori, formulare messaggi persuasivi, prevedere gli effetti dei
discorsi sugli ascoltatori e i telespettatori. Un altro ambito è la psicologia sociale, data la
centralità della comunicazione nelle relazioni e nelle interazioni, nonché la psicologia
interculturale, in quanto la comunicazione risente di una matrice etnica e antropologica.
Studiare le modalità di comunicazione verbale e non verbale consente di predisporre
interventi per l’integrazione sociale, l’immigrazione, la cooperazione internazionale. Un
altro ambito è quello clinico: il modello sistemico è indirizzo psicoterapeutico
specializzato nella presa in carico di piccoli gruppi, come le coppie o le famiglie, ma
anche singoli, e procede osservando e migliorando le comunicazione all’interno dei
sistemi.

6 bis. Ulteriore teoria sulla Comunicazione

Teoria lineare di Shannon e Weaver. I matematici Claude Shannon e Warren


Weaver formulano la “teoria matematica della comunicazione” e considerano la
comunicazione come un processo di elaborazione di informazioni. I due teorici sono
impiegati presso i Bell Telephone Laboratories, dunque il loro interesse verso la
comunicazione è dettato da motivazioni pratiche: il loro obiettivo era migliorare la rete di
cavi telefonici, per assicurare una corretto invio e ricezione del segnale, dunque non si
occupano del contenuto del messaggio, ma rivolgono l’attenzione è all’accuratezza della
trasmissione e alla qualità della ricezione.
Il modello di comunicazione proposto è valido indifferentemente per qualsiasi
contenuto, dunque contenuti anche diversi, come una poesia o una stringa alfanumerica,
sono trattati alla stessa stregua e si ipotizzano per entrambi gli stessi meccanismi di

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elaborazione. In questo modello, il processo di comunicazione prevede due fondamentali
passaggi: la codifica e la decodifica. La codifica consiste nella traduzione, da parte
dell’emittente, dei contenuti, delle idee, di ciò che ha in mente, in un codice condiviso,
ad esempio il linguaggio. La decodifica è il processo svolto dal destinatario, di
riconversione del messaggio dal codice linguistico in cui viene veicolato in idee,
contenuti, pensieri.
Secondo il modello di Shannon e Weaver, la comunicazione avviene nella misura in
cui sono correttamente svolti questi atti complementari di cifratura e decifratura. Un
ulteriore fattore che incide sull’efficacia della trasmissione e ricezione di informazioni è
costituito dal “rumore”, cioè dalle interferenze che alterano il processo di invio e
ricezione. Questo modello di comunicazione risulta utile per misurare l’efficienza della
comunicazione tra macchina, ma riduttivo se applicano ai flussi di comunicazione tra
uomini, poiché i codici linguistici sono difficilmente formalizzabili e presentano
ambiguità, fonti di errore e vie intermedie che un modello matematico non è in grado di
cogliere. La comunicazione tra persone non si riduce ad un procedimento meccanico, ma
risente di variabili soggettive e contestuali difficilmente oggettivabili e prevedibili.

7. Comunicazione non verbale

Definizione La comunicazione non verbale è un oggetto di studio multidisciplinare, è trattata


dalla linguistica, dall’antropologia, dalla sociologia, dalla psicologia ed inoltre varia in
base alla cultura di appartenenza. La comunicazione verbale è logica ed esplicita, si
presta a trasmettere grandi quantità di informazioni, è strutturata secondo precise regole
sintattiche e il significato è generalmente chiaro, poiché ad ogni parola corrispondono
uno o più significati prestabiliti e condivisi, dunque non vi è arbitrarietà
nell’assegnazione di senso. Invece la comunicazione non verbale non rispetta una
grammatica rigida, è difficile ricondurla un significato univoco, è meno controllabile per
cui veicola messaggi viscerali e reazioni immediate, come emozioni e stati d’animo.

Teoria
La scuola sistemico-relazionale di Palo Alto ha approfondito lo studio del modulo
approfondita analogico, cioè del linguaggio non verbale, individuandone le funzioni e i contesti di
(con autori, utilizzo. La comunicazione non verbale può assolvere, infatti, differenti funzioni:
esperimenti,
enfatizzare un concetto espresso verbalmente, contraddirlo, sostituire la comunicazione
ecc.)
verbale. La comunicazione non verbale avviene attraverso tre principali modalità: la
paralinguistica, la cinesica, la prossemica.

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La paralinguistica è l’insieme delle caratteristiche non linguistiche del parlato, che
differenziano i parlanti: ad esempio, ciascuno, pur condividendo con gli altri parlanti lo
stesso vocabolario e le stesse regole sintattiche, pronuncia le parole con tono
caratteristico, con una propria velocità, con un tono di voce più elevato o più basso, ha
un’inflessione dialettale, utilizza determinati intercalari, locuzioni o esclamazioni
preferenziali, gestisce a modo suo il ritmo, le pause, i silenzi.
La paralinguistica risente della circostanza e dell’interlocutore: ad esempio, durante
un’interrogazione, si può essere ansia ed assumere un tono più basso o un ritmo più lento
o più veloce, mentre quando si conversa con un’amica si è maggiormente “sé stessi” e si
utilizza un tono e un ritmo più usuale, oppure un bambino che viene rimproverato dalla
madre può assumere un tono più dimesso o balbettante. Inoltre, vi sono differenti
paralinguistiche associate a specifici ruoli o circostanze: ad esempio, vi è una
paralinguistica tipica dell’oratore durante un comizio, in cui enfatizza alcune parole o le
pronuncia in modo deciso e le scandisce a intervalli come i rintocchi sacri delle campane.
La cinesica comprende invece i movimenti del corpo, i gesti e la mimica facciale.
Il volto è la parte del corpo più espressiva. In particolare, lo sguardo è l’area
portatrice di più significati. Il fatto stesso di guardare è una forma di comunicazione, che
assume diversi significati: può dimostrare attenzione e quindi essere gradita, ma, se
prolungata, può suscitare imbarazzo, fastidio o spavento, come quando un estraneo ci
fissa ripetutamente. Vi sono anche meccanismi incontrollati che coinvolgono lo sguardo,
come la dilatazione delle pupille in situazioni di benessere emotivo, come tra due
innamorati. Per quanto riguarda la gestualità, essa compare sin dal primo anno di vita,
per indicare un oggetto lontano (gesto dittico), per indicare un’azione (gesto referenziale,
come il fare ciao con la mano), per condividere l’attenzione. Gradualmente il bambino
impara ad utilizzare gesti sempre più simbolici, astratti o associati alla propria cultura.
Infine vi sono i messaggi non verbali inviati attraverso la postura: vi sono gesti
convenzionali come l’inchinarsi in segno di deferenza, oppure gesti più generali come il
protendere il busto in avanti per mostrare interesse e coinvolgimento oppure all’indietro
per mantenere le distanze.
La terza modalità di comunicazione non verbale è la prossemica, cioè il
comportamento spaziale, la distanza più o meno ampia da un interlocutore. Lo studio
della prossemica è stato introdotto dallo studioso americano Edward Hall, per analogia al
concetto di territorialità dell’etologia: anche gli animali “marcano” il proprio territorio
per preservarlo da animali invasori. Anche l’uomo regola il suo territorio attraverso

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“marcature”. Hall ha rilevato quattro gradi di distanza:
- la distanza intima (da 0 a 45 cm): nelle relazioni intime, la distanzia viene abolita;
- distanza personale (da 45 a 120 cm): vi è una distanza ravvicinata, ma non
eccessivamente, per cui è possibile interagire con l’altro prendendo la sua mano o
accompagnandolo;
- distanza sociale (da 120 a 360 cm): è la distanza delle situazioni lavorative o
scolastiche come un’interrogazione. Spesso la distanza e la differenza di ruoli sono
marcate dalla frapposizione di una barriera tra i due interlocutori, come un tavolo o la
cattedra;
- distanza pubblica (oltre 360 cm): vi è una marcata differenzia di ruoli e gli
interlocutori non hanno modo di osservare precisamente il volto dell’altro, come in
teatro, in un concerto, in un tribunale. Anche in questo caso, sono presenti dispositivi e
sopraelevazioni come palco o una tribuna.
I modelli prossemici variano comunque da cultura a cultura: i popoli mediterranei e
sudamericani sono a loro agio anche a distanze più ravvicinate, mentre i popoli nordici
stabiliscono maggiore distanza dagli interlocutori.
Sono stati effettuati anche esperimenti sulla comunicazione non verbale. Molto
celebre è quello di Maherabian, “Non-verbal communication” (1972): egli ha mostrato
che la comunicazione viene influenzata per il 55% dai movimenti del corpo, in
particolare dalle espressioni facciali, per il 38% dall’aspetto vocale, che include tono
della voce, ritmo, volume, per il 7% dalle parole. Anche quando un soggetto invia un
messaggio ambiguo, in cui a parole esprime un concetto e in modo non verbale esprime
il suo contrario, l’interlocutore viene maggiormente colpito dall’aspetto non verbale, che
quindi risulta quello più influente nella comunicazione. Tuttavia, questi esperimenti non
erano sostenuti da una metodologia molto rigorosa, dunque occorrerebbe effettuarne di
ulteriori per comprendere più chiaramente il fenomeno.
Strumenti
Per valutare la comunicazione non verbale, si può utilizzare l’osservazione,
eventualmente predisposta attraverso griglie apposite per conteggiare la frequenza e la
tipologia dei vari gesti e movimenti.
La comunicazione non verbale presenta possibilità di applicazione: nella psicologia
Ambiti clinica, poiché il colloquio è influenzato dal non verbale; nella psicologia dell’età
applicativi
evolutiva, poiché i bambini, non avendo ancora un linguaggio sviluppato, si esprimono
spesso con il non verbale; nel marketing, poiché attraverso immagini, volti e posture si
veicolano messaggi persuasivi; nella psicologia sociale, poiché ciascun gruppo possiede

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proprie convenzioni non verbali.

PS: sulla comunicazione non verbale non vi è una seconda teoria, poiché la
teoria della scuola di Palo Alto include sia il modulo verbale che non verbale.
Inoltre è difficile che esca una traccia del tipo “confronta due teorie sulla
comunicazione non verbale”. Può essere invece più probabile una traccia come
“confronta la comunicazione verbale e non verbale”.

8. Intelligenza

Definizione In ambito scientifico e psicologico, la concezione di intelligenza si è evoluta nel


tempo, da una originaria concezione statica, quantitativa, cognitiva e generale a una
moderna concezione qualitativa, specifica, modulare. L’intelligenza non si riduce ad
un’abilità intellettiva generale, ma si configura come una competenza cognitiva
complessa, connessa con componenti sociali, emotive, pratiche, che consente di eseguire
operazioni mentali sofisticate, elaborando, integrando e organizzando dati.
La prima definizione scientifica di intelligenza è stata formulata da Spearman nel
Sintesi dei
1923, che considerava l’intelligenza come un “fattore G”, cioè una capacità generale,
principali
autori e teorie
astratta, non specifica, al di sopra di altre abilità più specifiche e poteva essere misurata
di riferimento attraverso test di Logica: proprio questa misurabilità rendeva scientifica questa
definizione di intelligenza. La teoria di Spearman è definita “teoria monofattoriale” ,
poiché riconduce l’intelligenza ad un’unica dimensione omogenea, invece la teoria
successiva, di Thurstone, ipotizza 7 abilità primarie: anche se questa teoria aumenta il
numero di abilità considerate primarie, la loro natura rimane prevalentemente logica e
razionale, come se tali abilità in realtà fossero una specificazione del fattore G di
Spearman. Non c’è ancora posto per le qualità di tipo emotivo, corporeo, pratico.
Una successiva teoria moltiplica ulteriormente le abilità: si tratta della teoria
multifattoriale di Guilford, che differenzia ed elenca 120 abilità primarie, autonome tra di
loro, che scaturiscono dall’interazione tra tre variabili: operazioni, contenuti, prodotti.
Poi, Cattell distinse tra intelligenza fluida e cristallizzata: l’intelligenza fluida è la
componente strutturale e funzionale “innata” dell’intelligenza, cioè la capacità di cogliere
relazioni tra elementi, di ordinare, di percepire, indipendentemente da un addestramento
e da un apprendimento precedente; l’intelligenza cristallizzata è un’abilità mentale che
scaturisce dall’esperienza e include conoscenze, abilità, comportamenti che sono stati

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appresi nella vita, assimilati e diventano parte del patrimonio personale. Infine, nel 1985,
Sternberg formula la “teoria triarchia”, distinguendo tre dimensioni dell’intelligenza:
contestuale, empirica, componenziale.
Oggi, l’intelligenza è considerata modulare: la teoria modulare della mente è stata
formulata in ambito filosofico da Fodor nel 1983, ma è stata validata anche in ambito
neuropsicologico, poiché studi sulla struttura e sulle funzioni del cervello sembrano
documentare la presenza di specifici “moduli” nel cervello, cioè aree e funzioni
relativamente indipendenti dagli altri. Un’applicazione della teoria modulare è la teoria
delle 7 Intelligenze di Gardner, che riprende il numero 7 da Thurstone, ma elenca abilità
modulari di diversa natura, non solo cognitiva. Una tipologia di intelligenza attualmente
molto studiata è l’Intelligenza Emotiva, formulata da Salovey e Mayer nel 1990 e
divulgata da Goleman. Consiste nella capacità di riconoscere e regolare le proprie
emozioni, di motivarsi, di essere empatici.

Teoria
Uno storico autore che unì teoria sull’intelligenza e strumenti psicometrici per
approfondita misurarla fu il francese Binet. Nel 1905, su commissione delle autorità scolastiche
(con autori, francesi, realizzò il primo reattivo di intelligenza per “differenziare” i bambini e indicare
esperimenti,
tra loro chi avrebbe avuto bisogno di un insegnamento di sostegno. Binet elaborò così
ecc.)
una scala dell’età cronologica e associò, ad ogni età, una serie di prove che generalmente
i bambini di quell’età riuscivano a risolvere. Infatti, un bambino intelligente, nelle prove
di Binet, era un bambino che risolveva correttamente le prove mediamente risolte dai
bambini della sua età, risolveva molto bene le prove tipiche delle età inferiori e non
poteva risolvere le prove di un’età superiore. Il bambini che invece non risolvevano
compiti in cui mediamente riuscivano bene i suoi coetanei, venivano classificati come
“ritardati”.
L’americano Stern, su queste premesse, fondò il concetto di Quoziente intellettivo,
cioè Q.I.: il Q.I. è il rapporto tra età mentale ed età cronologica moltiplicato per 100.
Quini Q.I = E.M / E.C x 100. Venne poi realizzata una scala per misurare il QI, la scala
di Stanford-Binet, utilizzata in America, tarata in base ad un campione di
standardizzazione estratto tra la popolazione americana e ritarata nel 1937, 1960, 1972.
Tarare un test vuol dire selezionare un campione rappresentativo di una popolazione
(“campione di standardizzazione”), in questo caso americana, somministrare il test e
organizzare una scala di intelligenza in base al punteggio medio ottenuto da questo
campione, che diventa il punteggio di riferimento. Ogni volta che si fa un test di
intelligenza, quindi, non viene calcolato il proprio punteggio in assoluto, ma viene

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confrontata la propria prestazione con la prestazione media del campione di riferimento
usato per la standardizzazione.
I test di intelligenza misurano quindi il rendimento solo in compiti specifici che
richiedono abilità logiche diverse da quelle richieste dalla vita quotidiana e dai problemi
aperti che pone una società complessa, e infine hanno un’elevata relatività culturale,
perché il risultato è sempre relativo alla cultura di appartenenza e alla generazione di
appartenenza. Quando si sottopone un bambino o un adulto a un test di intelligenza,
occorre conoscere il campione di standardizzazione, altrimenti si rischia di rendere
ancora più inattendibile il test. Oggi il QI non è una misura totalmente affidabile, proprio
per i limiti dovuti ai test che lo misurano e alla concezione stessa di intelligenza, che è
cambiata. Soprattutto, oggi ci si chiede: il QI è in grado di predire il successo scolastico e
il successo professionale?
Le ricerche finora effettuate dimostrano che: 1) il QI ha una correlazione,
comunque moderata, con il profitto scolastico, ma non con altri ambiti di vita (emotivo,
sociale, professionale); 2) il QI non può predire il successo al di fuori della scuola, che
risulta più influenzato dallo status socio-economico della famiglia; 3) riguardo alla
correlazione tra QI e successo lavorativo: più alto è il QI e migliore è la prestazione
professionale nei lavori intellettuali, che richiedono logica e ragionamenti sequenziali,
ma non in lavori creativi o che richiedano competenze sociali. Proprio per il limite del
Q.I, oggi si stanno elaborando test per valutare il Q.E., cioè il Quoziente Emotivo, che
indica le capacità introspettive, intuitive e relazionali. Secondo le attuali ricerche, il Q.I
incide per il 20% sulle prestazioni lavorative e in percentuale ancora minore su quelle
non professionali. Non sono ancora disponibili test standardizzati ed affidabili per il Q.E.
e, in ogni caso, risulta pericoloso affidarsi soltanto al test per valutare o predire le
competenze, il successo o il benessere di una persona.
Strumenti Attualmente, il test di intelligenza più usato è la WAIS (Weschler Adult
Inelligence Scale) per gli adulti, con media 100 e deviazione standard 15: ciò vuol dire
che un soggetto con un’intelligenza media (cioè con capacità di comprensione verbale,
ragionamento logico e matematico nella media) ottiene un punteggio compreso tra 100
più o meno 15, cioè tra 85 e 115. In realtà, spesso si tende ad ottenere punteggi molto più
elevati (“effetto tetto”) o molto bassi (“effetto pavimento”) poiché gli item dei test o sono
troppo facili in quanto l’istruzione media si è elevata, oppure troppo difficili poiché
riguardano contenuti ormai obsoleti, culturalmente sorpassati.
Di questo test, esiste anche una versione per bambini, la WISC (Weschler

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Intelligence Scale Children) e una versione per bambini prescolari, la WIPPSI (Weschler
Intelligence Prescolar Scale Intelligence). Questi test contengono due scale, Scala
verbale e Scala di Perfomance, poiché includono due tipologie di quesiti: logici,
matematici e verbali oppure “pratici” (ordinamento di figure, assemblaggio di pezzi,
composizione con cubetti). Si possono ottenere anche due sotto-punteggi, uno per
ciascuna delle sue scale. Generalmente, però , i due sotto-punteggi sono simili, se invece
c’è grande differenza tra le due scale si può sospettare una difficoltà intellettiva o
comportamentale.
Questi test risentono però dell’istruzione, della cultura e della conoscenza della
lingua, per questo sono stati formulati anche test “culture free”, che contengono prove
logiche “pure”, dove l’influenza di fattori culturali come il grado di istruzione sono
ridotti al minimo. Il test culture free più utilizzato e conosciuto sono le Matrici di Raven,
una sorta di “puzzle” a difficoltà crescente, dove manca un tassello e il soggetto deve
individuare, tra quelli proposti, quale completi la figura, che in genere è costituita da
segni geometrici. Esiste anche una versione per bambini, le Matrici Progressive Colorate.
Oltre al Raven, un altro test culture free è il Culture Free Test Intelligence di Cattell.
Il concetto di intelligenza presenta molte applicazioni sia nella clinica, sia nella
Ambiti
ricerca generale sul funzionamento mentale dei soggetti, sia nella psicologia dell’età
applicativi
evolutiva, sia nella psicologia dell’arco di vita, per confrontare l’evoluzione delle abilità
intellettive nell’infanzia, nell’età adulta, nella vecchiaia. Un ambito di applicazione è il
ritardo mentale. I test di intelligenza “classificano” i soggetti: quelli con intelligenza
nella media hanno un punteggio compreso tra 85 e 115. Tra 85 e 70 c’è un
funzionamento intellettivo limite tra 70 e 50-55 c’è un ritardo lieve, tra 50-55 e 35-40 un
ritardo moderato, tra 35-40 e 20-25 un ritardo grave. Al di sotto di 20-25 un ritardo
gravissimo. Se il livello intellettivo è presumibilmente inferiore a 70, ma il soggetto non
può essere esaminato attraverso test standardizzati, si utilizza la dicitura “Gravità non
specificata”.
Nella psicologia clinica dell’età evolutiva, sono studiati i Disturbi Specifici
dell’Apprendimento, cioè Dislessia, Disgrafia e Discalculia, tipici di soggetti che
presentano cadute specifiche e circoscritte nelle abilità di lettura, scrittura o calcolo,
nonostante un funzionamento intellettivo preservato. Per diagnosticare i DSA, si utilizza
una batteria di test che include anche i test di intelligenza, eventualmente
somministrandoli attraverso specifici supporti per non sforzare il bambino a leggere,
visto che la sua lettura è difficoltosa, lenta e non corretta, come se non riuscissero ad

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automatizzarla. Poi si somministrano test specifici per valutare il disturbo di
apprendimento. In genere, in questi bambini l’intelligenza è nella norma, mentre i test sui
disturbi di apprendimento riportano un risultato clinico, cioè un punteggio di almeno due
deviazioni standard al di sotto della media di lettura.
Un ulteriore ambito di applicazione è la psicologia dell’arco di vita, che segue i
cambiamenti psicologici nel tempo: ad esempio, negli anziani, per quanto riguarda
l’evoluzione dell’intelligenza, occorre precisare come non segua il classico schema di
sviluppo-culmine-decadimento. Ciascuna componente dell’intelligenza subisce uno
specifico destino: sono soggette ad un rapido decadimento le capacità di memoria e le
capacità che richiedono prontezza e agilità, poiché le operazioni vengono svolte con più
lentezza. Tuttavia, si mantengono stabili le capacità verbali e linguistiche, che risultano
meno soggette a deterioramento.

8 bis. Ulteriore teoria dell’intelligenza

Teoria multifattoriale di Guilford. Mentre la teoria psicometrica considera


l’intelligenza come una facoltà prevalentemente cognitiva, riconducibile ad una
generale capacità di elaborazione mentale, successivi teorici moltiplicano le
componenti di cui ritengono costituita l’intelligenza e ne introducono alcune di tipo
non logico e non cognitivo, bensì emotivo e creativo. Uno di questi autori è Guilford.
Egli elabora una “teoria multifattoriale”, che differenzia ed elenca 120 abilità
primarie, tutte dello stesso valore, autonome tra di loro e ciascuna adatta per svolgere
uno specifico compito.
Queste 120 abilità scaturiscono dall’interazione tra tre variabili: operazioni,
contenuti, prodotti. Infatti, secondo Guilford il funzionamento intellettivo consiste in
una serie di operazioni compiute su contenuti di varia natura che danno luogo a
specifici prodotti. Le operazioni possono essere di valutazione, memorizzazione,
produzione; si possono effettuare su contenuti figurativi, simbolici, semantici, ecc;
danno luogo a prodotti quali classificazioni, sistemi, trasformazioni.
Questa teoria è dunque complessa e dinamica, poiché non si limita a individuare
una serie di abilità, ma ipotizza un meccanismo di funzionamento mentale più
generale. Guilford, inoltre, pone un’ulteriore distinzione: pensiero convergente e
pensiero divergente. L’intelligenza comunemente intesa è quella convergente, cioè il
ragionamento logico e razionale e consiste in un procedimento sequenziale e

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deduttivo, nell’applicazione meccanica di regole apprese, nell’analisi metodica di
dati. Si adatta a problemi “chiusi” che prevedono un’unica soluzione giusta, come le
operazioni matematiche, i problemi e i vari esercizi matematici. Corrisponde al
pensiero sollecitato anche dalla scuola, che generalmente pone appunto problemi
“chiusi”, in quanto spiega una regola e assegna esercizi che addestrano ad applicarla
in modo meccanico, controllando poi se il risultato ottenuto coincide con quello
esatto.
Il pensiero divergente è, invece, il pensiero creativo, alternativo e originale. È
sollecitato da situazioni “aperte”, come quelle sociali, e che ammettono più soluzioni
alternative. Secondo Guilford il pensiero divergente è misurato da 3 indici: Fluidità:
parametro quantitativo basato sull’abbondanza delle idee prodotte; Flessibilità:
capacità di cambiare strategia ed elasticità nel passare da un compito ad un altro,
Originalità: capacità di formulare soluzioni uniche e personali che si discostano dalla
maggioranza. Guilford inizia così ad introdurre una tipologia di intelligenza non
cognitiva, non basata sull’analisi, ma sulla sintesi, non basata sull’applicazione di
algoritmi prefissati, ma sulla ricerca creativa di strategie flessibili e originali.

9. Coscienza

Definizione Il termine “coscienza” è stato originariamente utilizzato in ambito filosofico e


morale, dove veniva inteso come capacità di distinguere il bene dal male, applicando
criteri assoluti e spesso metafisici. In ambito scientifico e psicologico, la coscienza è
invece una qualità dei processi e dei contenuti mentali, in quanto indica il livello di
chiarezza e di consapevolezza con cui si presentano.
Storicamente, si sono susseguite diverse definizioni e metodologie di studio della
Sintesi dei coscienza. Wundt la identificava con i contenuti della propria esperienza, riferibili
principali
attraverso l’introspezione. Anche Titchener, strutturalista, cercò di scomporre, con il
autori e teorie
metodo introspettivo, i contenuti della mente. Il comportamentismo, con Watson, escluse
di riferimento
la coscienza dalle ricerche psicologiche, poiché lo considerava un termine vago,
difficilmente operazionalizzabile: occorreva limitarsi a studiare il comportamento
osservabile e analizzare la relazione tra stimoli e risposte, senza ipotizzare l’elaborazione
mentale che la produceva. In ambito cognitivista, la coscienza indica i processi dotati di
un’elevata vigilanza, mentre quelli inconsci sono gli schemi automatizzati, divenuti
rapidi grazie alle ripetute esperienze e quindi attuati in modo meccanico, quasi senza

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richiedere risorse attentive.
Con la psicoanalisi, invece, la coscienza assume centralità nella riflessione
metodologica e terapeutica. Si tratta di una teoria approfondita e ricca di applicazioni
cliniche. Freud infatti propone un modello della psiche che procede oltre le concezioni
cartesiane tradizionali, secondo le quali la mente è un meccanismo chiaro, evidente,
basato sulla logica, sulla consequenzialità, sul rigore, rivoluzionando il modo di
concettualizzare la normalità e la patologia. Quando studiò il problema dell’eziologia
delle nevrosi, ipotizzò che la causa dei sintomi di conversione somatica caratteristici
delle pazienti isteriche risiedesse in un conflitto tra pulsioni inconsce, cioè tra forze
operanti al di sotto della soglia della coscienza, in una vasta e caotica zona d’ombra della
psiche, l’inconscio.
Egli propone una “topica”, cioè un modello spaziale della mente, che distribuisce i
Teoria
contenuti in tre diverse “province”. Questo modello è descritto da Freud nel 7° Capitolo
approfondita
(con autori,
dell’Interpretazione dei sogni del 1899-1900. Il conscio è definito come lo spazio
esperimenti, mentale che contiene i pensieri e i sentimenti accessibili al soggetto e facilmente
ecc.) verbalizzabili. Il preconscio è uno spazio intermedio, in cui di svolgono processi
provvisoriamente inconsci, ma che possono risalire ad un livello cosciente grazie ad uno
sforzo di attenzione: ad esempio la respirazione, non è cosciente, ma può facilmente
diventarlo se ci concentriamo su di essa. Infine l’inconscio è uno spazio ampio, che
racchiude esperienze, pensieri e sentimenti stabilmente inaccessibili alla coscienza
oppure respinti in quanto traumatici e dolorosi. I traumi rimossi sono sospinti sotto la
soglia di consapevolezza, per evitare che la sofferenza collegata ad essi possa continuare
a turbare il presente. Affinché i contenuti rimossi possano salire alla coscienza, non è
sufficiente uno sforzo attentivo, ma sono necessarie tecniche che indeboliscano le
resistenze.
Storicamente, i primi due metodi utilizzati da Freud per raggiungere questo scopo
sono stati l’ipnosi e successivamente le associazioni libere. L’ipnosi consisteva, come già
in Charcot e Breuer, nel suggestionare i pazienti che presentavano sintomi isterici, cioè
“somatizzazioni” di esperienze traumatiche vissute nell’infanzia e rimosse
nell’inconscio. Poiché il paziente entrava in uno stato di “trance”, risultava più facile
risalire al trauma in quanto le difese, con cui il trauma era stato rimosso, risultavano
abbassate. Tuttavia, spesso, le esperienze riferite dai pazienti sotto ipnosi non risultavano
veritiere e realmente accadute, ma erano il frutto delle fantasie incestuose dei pazienti
stessi. Freud decise dunque di abbandonare questo metodo, nonostante svolgesse una

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funzione “catartica”, cioè di liberazione emotiva a cui seguiva una remissione di sintomi.
Optò per un nuovo metodo, quello delle “associazioni libere”. Questo metodo
rilassava il paziente e consisteva nel lasciare che lui si abbandonasse al flusso dei
pensieri spontaneamente collegati ad una parola-stimolo pronunciata dal terapeuta, ad
esempio “bianco>sposa”. È attraverso le catene associative liberamente prodotte dal
paziente che si poteva rendere conscio il materiale inconscio, risalire all’origine di un
trauma, soprattutto sessuale. Freud sosteneva che ogni evento psicologico avesse un
significato e se una parola portava ad un’altra parola, una ragione doveva esserci.
Attraverso le catene di parole, il pazienti risalivano spesso a ricordi sessuali infantili:
all’inizio, Freud pensava fossero vere, poi capì che poteva trattarsi di fantasie. Un
ulteriore metodo per far emergere contenuti inconsci era l’interpretazione dei sogni.
Freud lo considerava indica una “via maestra verso l’inconscio” e definiva il sogno come
“l’appagamento camuffato di un desiderio rimosso”. Quando il soggetto ha un desiderio
irrealizzabile sul piano reale, cerca una soddisfazione sul piano onirico. I sogni risultano
quindi da un tentativo di soddisfare desideri e pulsioni inconsce.
Tuttavia l’espressione di questi desideri risulta talvolta irriconoscibile nel sogno, in
quanto sottoposti alla censura del Super-Io, operante anche di notte, benché in misura
notevolmente minore. Nel sogno si distinguono, quindi, un contenuto manifesto,
rappresentato dalla scena onirica, e un contenuto latente, costituito da desideri che danno
luogo ad essa. Il contenuto manifesto deriva da una trasformazione dei desideri inconsci
attraverso il cosiddetto “lavoro onirico”. Per interpretare psicoanaliticamente il sogno,
occorre ripercorrere a ritroso il processo di trasformazione del contento latente in quello
manifesto, servendosi degli stessi principi che presiedono a questa traslazione
(condensazione, spostamento, ecc.).
Inoltre, una forma di riattivazione di rappresentazioni e modalità relazionali passate
e inconsapevoli è il transfert. Nella seduta analitica, il paziente riattiva tipologie di
relazioni che aveva stabilito con figure importanti, in genere i sui genitori (l’analista può
ricordargli il padre). Infatti, questo modo di relazionarsi può essere radicato nel paziente
e dunque riattualizzarsi anche di fronte all’analista. È utile per la guarigione, poiché
consente di capire l’infanzia, la somiglianza tra passato e presente.
Negli anni Venti, Freud elaborò un nuovo modello di psiche, non spaziale, ma
dinamico. Suddivideva la psiche in tre istanze: l’Es, l’Io, e il Super-io. L’aggettivo
“dinamico” si riferisce al conflitto tra le tre istanze, che conferisce movimento alla
psiche. Es, in tedesco, è il pronome neutro di terza persona singolare, corrispondente

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all’id in latino. Nel modello dinamico, rappresenta il “polo pulsionale” dell’uomo:
racchiude gli impulsi, soprattutto aggressivi e sessuali, che obbediscono al “principio del
piacere”, cioè cercano una scarica immediata. Freud definisce l’Es “un calderone di
impulsi ribollenti”. Il Super-io consiste nell’insieme regole morali e sociali interiorizzate
nell’infanzia e che tendono a porre un freno e a regolamentare l’espressione dei desideri
e degli impulsi provenienti dall’Es, talvolta inibendo completamente la loro
soddisfazione. Infine l’Io è un mediatore fra l’Es e il Super-io: si sforza di conciliare
bisogni provenienti da queste due istanze servendosi del “principio di realtà”, cioè della
valutazione realistica delle situazioni e della capacità di procrastinare l’appagamento del
desiderio. L’Io, infatti, fornisce parziali appagamenti all’Es, ma senza violare gli
imperativi e le proibizioni provenienti dal Super-io. L’Io, il Super-io e l’Es non
corrispondono completamente al conscio, inconscio e preconscio della prima topica, in
quanto tutte e tre le istanze della seconda topica possono avere contenuti sia consci, sia
inconsci, sia preconosci.
Strumenti I metodi di indagine della coscienza, in ambito psicoanalitico, sono quindi l’ipnosi,
le associazioni libere, l’interpretazione dei sogni, l’analisi del transfert per risalire alle
componenti inconsapevoli delle proprie modalità di relazione, il colloquio clinico. Altri
metodi attuali possono essere quelli utilizzati in psicologia fisiologica per realizzare, ad
esempio, tracciati sul sonno per individuare le fasi di attività mentale e onirica, ad
esempio la fase REM, caratterizzata da rapidi movimenti oculari, durante la quale
probabilmente il soggetto sta sognando: la polisonnigrafia consiste proprio nel
monitoraggio di parametri elettrofisiologici durante il sonno come EEG,
elettrooculografica, elettromiografia. Le tecniche di meditazione, come il training
autogeno o il biofeedback, possono allenare a rendere consapevoli funzioni generalmente
spontanee, come la respirazione, la pressione sanguigna, la temperatura corporea. Ciò
può essere utile anche per controllare il dolore, come può avvenire nel parto, infatti
l’applicazione del training autogeno appositamente rielaborato da Piscicelli per le
gestanti e partorienti ha dimostrato di ridurre il dolore durante il travaglio e le doglie del
parto.
Ambiti Gli ambiti applicativi della coscienza sono numerosi. Innanzitutto quello clinico: in
applicativi molti disturbi, soprattutto psicotici, si verificano alterazioni della coscienza, sia
quantitative, modificando il livello di consapevolezza di sé e del mondo esterno, dalla
vigilanza all’ottundimento, oppure qualitativi, provocando delirio, confusione, stato
crepuscolare, stato sognante, stato stuporoso. Nell’ambito delle sostante psicoattive, si

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studiano gli effetti di alterazione indotti da droghe e alcool. Nella medicina e nella
psicofisiologia, si studiano i livelli di coscienza connessi a stati patologici come il coma.

9 bis. Ulteriore teoria sull’inconscio

L’inconscio cognitivo. L’inconscio psicodinamico è conflittuale, ricco di pulsioni


rimosse, caratterizzato da vissuti, angosce, traumi che il soggetto non è consapevole di
possedere, benché lo influenzino. Inoltre, è concettualizzato da Freud come un topos,
cioè un luogo simbolico della psiche in cui si addensano contenuti repressi. Invece,
l’inconscio cognitivo non è un luogo, un deposito, una riserva di pensieri, sentimenti,
angosce, ma è una qualità dei processi cognitivi.
Infatti, ogni soggetto possiede schemi cognitivi che utilizza per formulare la
valutazioni di uno stimolo e quindi predisporre una reazione: ad esempio, se lo stimolo
viene giudicato pericoloso, il soggetto si predispone alla fuga. Si tratta di schemi che si
sono formati, modificati e ampliati con l’esperienza e che spesso hanno ricevuto rinforzi,
dunque persistono nel soggetto e formano il repertorio dei suoi processi cognitivi.
Alcuni di questi schemi però non sono sempre consapevoli, ma spesso sono utilizzati
così frequentemente da diventare automatizzati: per questo, formano un “inconscio
cognitivo”, che risiede appunto nell’utilizzo rapido ed economico di griglie di
interpretazione della realtà acquisite e rinforzate dall’esperienza (Eagle, 1987). L’esito di
tali analisi interagisce, infine, con l’attivazione emozionale determinando la reazione
comportamentale visibile.

10. Attenzione

L’attenzione è un atto di focalizzazione, ottenuto selezionando specifici stimoli su


Definizione
cui convogliare risorse cognitive ed escludendone altri. Esistono tre specifici fenomeni
attentivi: l’attenzione selettiva è un processo in cui il soggetto circoscrive una quantità di
stimoli, come accade nel “cocktail party”, quando si trova ad una festa e percepisce in
sottofondo le voci dei partecipanti e la musica, ma si concentra sulla conversazione con il
proprio interlocutore; l’attenzione divisa, dove il soggetto svolge contemporaneamente
più compiti; l’attenzione sostenuta, definita anche “vigilanza”, dove il soggetto persiste
per lungo tempo nel compito attentivo, come è richiesto ai lavoratori turnisti.
Sono state formulate diverse teorie per ciascuno di questi fenomeni attentivi. La

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teoria del filtro consente di spiegare sia l’attenzione selettiva che quella divisa, è stata
formulata in tre versioni ed è corredata da esperimenti.
La prima versione è stata sviluppata da Broadbent, secondo il quale l’attenzione è
un filtro, dunque una capacità limitata, che trattiene soltanto poche informazioni per
volta, registrando quelle provenienti da una fonte e perdendo quelle provenienti da altre
Teoria fonti. Tutti gli stimoli vengono rilevati dal sistema sensoriale (S), ma solo una parte
approfondita
raggiungono il sistema percettivo (P). Di questi, solo una minoranza vengono elaborati
(con autori,
cognitivamente nel sistema cognitivo. A questo proposito, ha elaborato il paradigma
esperimenti,
ecc.)
dell’ascolto dicotico: il soggetto sperimentale aveva una cuffia e riceveva un messaggio
all’orecchio destro ed un altro all’orecchio sinistro, quando poi gli si chiedeva di riferire
entrambe i messaggi, sapeva rispondere solo relativamente ad uno, poiché non riusciva
ad ascoltarli contemporaneamente e mentre conferiva attenzione ad un messaggio, non
poteva registrare anche l’altro.
Secondo la Treisman, il filtro non blocca gli stimoli, ma li attenua. Infatti, anche gli
stimoli che non raggiungono il sistema cognitivo e quindi non ricevono un’elaborazione
approfondita, sono comunque recepiti, con un’intensità ridotta, ma sufficiente ad attivare
una reazione in determinate circostanze. Ad esempio, nella situazione del cocktail-party,
anche se il soggetto si sofferma sulla conversazione in cui è impegnato, registra anche le
altre voci intorno e se qualcuna di esse pronuncia il proprio nome, il soggetto si vòlta in
quella direzione: il proprio nome è uno stimolo così significativo che si riesce a
percepirlo anche quando l’attenzione è focalizzata su altro.
Secondo Deutch e Deutch, il filtro non esercita alcuna selezione, poiché il sistema
attentivo registra tutti gli stimoli, benché a diversi livelli di intensità e di consapevolezza.
Queste tre versioni della stessa teoria si collocano lungo un continuum che pone ad un
estremo la selezione precoce dell’informazione e all’altro una selezione tardiva.
Neisser ha sintetizzato queste teorie, distinguendo processi attentivi, che richiedono
molte risorse cognitive e sono svolti con la consapevolezza di ogni movimento, come
avviene quando si apprende a guidare la macchina, e processi pre-attentivi e automatici,
che non richiedono risorse e possono essere svolti in modo meccanico, come avviene nel
guidare la macchina dopo molti anni di esperienza. I processi automatizzati possono poi
essere svolti contemporaneamente ad altri, come dimostrato dal paradigma del doppio
compito in cui un soggetto è impegnato a svolgere nello stesso tempo due attività, di cui
una pre-attentiva, proprio perché non sottraggono risorse. Due processi attentivi invece,
se svolti contemporaneamente, interferirebbero tra loro, quindi la prestazione in uno

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riduce la prestazione nell’altro.
Gli strumenti per valutare l’attenzione sono diversi. Nei test di Intelligenza come la
Strumenti
WAIS, sono inclusi item che valutano l’attenzione. Oppure, vi sono il Trail Making Test,
inserito nella batteria di test che costituiscono l’Esame Neuropsicologico Breve, oppure
il test dell’attenzione selettiva e il Test del controllo dell’attenzione. Ai bambini, si
somministra spesso la prova delle campanelle, costituita da una tavola su cui sono
disegnati diversi oggetti (alberi, animali, ecc) e 35 campanelle da individuare, confuse tra
gli altri disegni. Poi vi è anche il test di Toulose e di Pieron in cui si presenta una pagina
con simboli astratti e si chiede al soggetto di cancellare i simboli uguali a quelli indicati
all’inizio del test. Tra i test più utilizzati per valutare l’attenzione vi è il test di Stoop, che
rileva anche la difficoltà nel soprimere una risposta automatica. E’ costituito da tre
tavole, ciascuna con 100 stimoli. La prima tavolta contiene 100 nomi di colori, scritti in
nero su sfondo bianco, e il soggetto deve leggere questi nomi. La seconda riporta 100
quadrati di vari colori. La terza riporta nomi di colori, scritti in colori incongruenti, ad
esempio il colore "giallo", è scritto in verde. In queste ultime due tavole, il soggetto deve
denominare il più velocemente possibile i colori, ma questo lo posta spesso a sbagliare,
perché invece di denominare il colore, legge i nomi dei colori. nella sua mente, si registra
infatti un’interferenza tra nome del colore e colore con cui è scritto.
L’attenzione presenta diverse possibilità di applicazione. Ad esempio, in soggetti
Ambiti in salute, è ridotta durante il sonno, il sogno, l’affaticamento, la noia e la trance ipnotica.
applicativi In ambito psicopatologico, l’attenzione può essere ridotta sia in alcuni stati organici
(traumi e intossicazioni, ecc.) che in alcune condizioni psicogene o in alcune
psicopatologie come la schizofrenia, i disturbi dissociativi, i disturbi dell’umore.
Un altro ambito applicativo è la neuropsicologia, che predispone strumenti e
percorsi di valutazione dell’attenzione, di potenziamento e riabilitazione dopo un trauma
o una lesione cranica. Nella psicologia clinica dello sviluppo, l’attenzione è una
componente deficitaria di alcune patologie infantili, come il disturbo da deficit di
attenzione e iperattività. In questo disturbo, il bambino non riesce a mantenere attenzione
su un compito per un tempo sufficiente a portarlo a termine, dunque interrompe
continuamente le sue attività, appare distraibile e questo compromette il suo
funzionamento scolastico e sociale, nonostante le sue potenzialità intellettive.
Un altro ambito applicativo è la psicologia dello sviluppo, che analizza
l’evoluzione e le differenze nell’attenzione tra bambini e adulti. nei bambini, infatti,
l’attenzione ha dei limiti Si quantitativi, a causa di una minore disponibilità di risorse, e

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qualitativi, per il ricorso a strategie di selezione e di elaborazione dei dati ancora poco
efficaci. Allo stesso modo, nell’anziano l’attenzione diminuisce e spesso questo
compromette anche il funzionamento quotidiano. In ambito clinico e psicodinamico,
l’attenzione è stata trattata da Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana, dove ha
descritto il fenomeno delle “sbadataggini”, cioè distrazioni, dimenticanze e operazioni
compiute in modo diverso da quanto pianificato. Seondo l’autore, queste azioni rivelano
un significato inconscio e sono dovute ad un conflitto tra l’Io del soggetto, che cerca di
svolgere quell’attività, e i conflitti che interferiscono inconsapevolmente con quelle
azioni.

10 bis. Ulteriori teorie sull’Attenzione

In questo caso, le teorie sono state tutte già trattate nel tema.

11. Percezione

Secondo il senso comune, la percezione è una fedele registrazione sensoriale e gli


Definizione
organi di senso forniscono informazioni oggettive sulla realtà (“realismo ingenuo”).
Invece, nella psicologia scientifica, la percezione è una complessa interpretazione della
realtà. Infatti, mentre la sensazione consiste nel ricevere stimoli come suoni, immagini,
ecc, la percezione risiede nel cogliere i rapporti tra di essi o tra le caratteristiche di
ciascuno, attribuendovi un significato. La percezione è quindi un processo di costruzione
di senso, consiste nel mettere in relazione stimoli isolati e nell’attribuire un significato
attraverso processi di elaborazione degli indizi sensoriali, di classificazione, di
“aggiustamento” rispetto all’immagine degli oggetti fornita dai sensi.
I meccanismi di aggiustamento sono denominati “costanze percettive”: ad
esempio, nonostante le immagini viste possano variare di grandezza in base alla distanza
in cui si trovano, l’osservatore sa che le dimensione reali rimangono stabili. Ad esempio,
le montagne, viste da lontano, appaiono piccole, ma la mente sa che ciò è dovuto alla
distanza (costanza di grandezza), il suo colore tende all’azzurro man mano che ci si
allontana, ma anche questo è dovuto alla prospettiva da cui si osservano (costanza
cromatica), un oggetto visto di fronte, percepito come bidimensionale, in realtà ha anche
uno spessore (costanza di forma): la mente dunque mantiene stabile la rappresentazione
dell’oggetto, integrandola con i dati non rilevabili dai sensi.

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Sono state formulate diverse teorie sulla percezione.
Secondo la teoria empirista di Helmholtz, formulata nel 1870, la percezione è la
Sintesi dei
somma di sensazioni elementari, integrate dalle informazioni apprese in precedenza.
principali
autori e teorie
Secondo il movimento del New Look of Perception, che si affermò intorno al 1960, la
di riferimento percezione è influenzata dal significato emotivo dello stimolo. Secondo la teoria
ecologica di Gibson, formulata nel 1966, in un ambiente vengono colti di preferenza
stimoli che si prestano al raggiungimento di un fine, cioè proprietà strumentali di un
oggetto, come “commestibilità”, “percorribilità”, ecc., definite “affordances”, cioè
disponibilità e suggerimenti ambientali.
Teoria Una teoria completa di esperimenti è quella della Gestalt. È stata formulata nel
approfondita 1935 e sostiene un approccio globalistico alla realtà, rifiutando la frammentarietà di
(con autori,
Helmholtz. Secondo la Gestalt, la percezione non è cumulativa e non è influenzata dal
esperimenti,
passato, ma si compie all’istante in base alla distribuzione degli stimoli, ai loro rapporti
ecc.)
e ai “fattori di unificazione”.
I fattori unificazione sono criteri attraverso cui stimoli isolati vengono percepiti
come fossero un tutt’uno. Sono stati individuati da Max Wertheimer e sono: 1)
prossimità, in quanto vengono percepiti come un tutt’uno stimoli isolati, ma vicini; 2)
somiglianza, poiché vengono unificati elementi simili tra loro; 3) buona continuazione,
ad esempio in un incrocio di segmenti, vengono considerati come una linea continua i
segmenti che hanno la stessa direzione e curvatura; 4) chiusura: si considerano uniti gli
elementi che tendono a disporsi secondo una configurazione chiusa; 5) destino comune:
si unificano elementi che si muovono solidarmente; 6) articolazioni senza resti:
emergono le soluzioni che inglobano più elementi; 7) direzionalità e orientamento: un
insieme di punti equidistanti, orientati nella stessa direzione, vengono considerati come
una figura; 8) esperienza passata, che orienta la percezione verso soluzioni familiari,
facendole prevalere su altre.
I gestaltisti sottolineano il carattere autoctono, cioè innato, dei principi di
organizzazione degli stimoli, poiché essi non scaturiscono dall’esperienza
dell’osservatore, ma sono intrinseci e non influenzati dalla conoscenza pregressa,
generatrice di attività inferenziale. Infatti, vi sono soluzioni percettive che si impongono
con forza, impedendo l’attribuzione di altre configurazioni. Ad esempio, secondo Kohler,
il sistema visivo è predisposto a funzionare in base al principio del minimo, a privilegiare
la configurazione più semplice ed economica. Questo modo di categorizzare gli stimoli
“semplificandoli” è una tendenza innata e automatica, non mediata da ragionamenti e

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processi.
I gestaltisti hanno studiato anche il fenomeno percettivo delle illusioni. Le illusioni
percettive sono percezioni di oggetti costruiti mentalmente, ma in realtà inesistenti,
come avviene nel triangolo di Kanizsa: si tratta di tre cerchi privi di un settore circolare,
disposti ai vertici di un triangolo immaginario. Osservando questa figura, si percepisce
un triangolo con i vertici sovrapporti ai cerchi. Ciò, secondo i gestaltisti, avviene perché
la mente applica i principi di organizzazione degli stimoli, che tendono alla semplicità e
al completamento. Dunque, anche avendo a disposizione stimoli isolati, la mente tende a
“completarli”, aggiungendo parti “mancanti”, e a “chiuderli”, percependoli in modo
continuo e organizzandoli in una forma.
Ci sono altri tipi di configurazioni non propriamente illusorie, ma caratterizzate da
un effetto sorpresa, come il cubo di Necker: fissando il parallelepipedo di Necker, dopo
qualche secondo, apparirà alternativamente concavo e convesso. Le persone rigide hanno
più difficoltà a percepire la seconda prospettiva e sono più lente nell’alternare concavità
e convessità. Un altro tipo di illusione, studiata da Wertheimer, è il movimento
stroboscopico: si tratta di un movimento apparente, prodotto dal ritmo con cui si alterna
l’accensione di stimoli di per sé statici. Se una serie di punti luminosi vengono
programmati per accendersi e a spegnersi con pochi secondi di differenza tra di loro, il
ritmo con cui si alterna l’accensione dei punti induce a percepire un movimento, come se
lo stesso stimolo luminoso si spostasse da un punto all’altro.
Strumenti Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione della percezione, in ambito
gestaltico è stato realizzato il Bender Gestalt Test, adattato poi da Hutt, costituito da 9
disegni geometrici che vengono presentati al soggetto, per essere poi riprodotti a mano e
serve a rilevare sia lo sviluppo della funzione visuo-motoria che le eventuali regressioni
o deviazioni in tale sviluppo. Un altro strumento è il Test della figura nascosta di Witkin,
dove il soggetto deve rintracciare figura precedentemente mostrata all’interno di un
disegno più vasto.
Poi vi è lo Street’s Completion Test, che misurala capacità gnosico-appercettiva
del soggetto, dunque la sua abilità ad unificare dei frammenti di stimolo in un’unità
sovraordinata dotata di senso. È costituito da una tavola con alcuni disegni “degradati”,
cioè sagome sfumate, di cui non è immediatamente riconoscibile il soggetto ritratto (se si
tratti di un animale, di una persona, di un oggetto, ecc). Il soggetto deve osservare queste
sagome e risalire all'oggetto rappresentato, a partire dalle parti presenti e immaginando
quelle mancanti. Viene calcolata sia la velocità che la correttezza di riconoscimento.

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Anche il test delle Matrici di Raven, che è un test di intelligenza culture-free, presenta
stimoli percettivi, in quanto occorre identificare quale “tessera” completa la tessitura
delle varie tavole.

Ambiti
La percezione presenta diverse possibilità di applicazione. In psicologia clinica, in
applicativi alcune patologie psicotiche come la schizofrenia, sono presenti dispercezioni e
compromissioni nell’esame di realtà. Le dispercezioni possono presentarsi anche nei
disturbi dell’umore, nei disturbi d’ansia, in particolare nel disturbo post-traumatico da
stress oppure nel lutto, ma in quest’ultimo caso sono transitorie. Inoltre, in queste
patologie può essere alterata la percezione del tempo. Nell’ansia generalizzata spesso si è
riscontrata una rigidità percettiva e un’intolleranza all’ambiguità del percetto.
In esperimenti di deprivazione sensoriale, condotti da Bonaiuto su soggetti in
isolamento, nelle carceri, nelle navicelle spaziali, nei sottomarini, nei monasteri o in
alcuni laboratori specifici, è risultato come la percezione subisse cambiamenti, in quanto
il soggetto tendeva a sviluppare uno stile cognitivo e percettivo analitico, frammentato,
per arricchire artificialmente l’ambiente monotono, spesso giungendo ad allucinazioni.
Infine, il movimento “stroboscopico” è il meccanismo alla base del cinema, che consiste
nel susseguirsi a ritmo veloce di fotogrammi statici. Un altro ambito è la psicologia del
marketing, che analizza la combinazione di forme e colori di immagini, confezioni e
prodotti, per motivare maggiormente all’acquisto.

11 bis. Ulteriori teorie sulla Percezione

Teoria empirista di Helmholtz. Secondo la teoria empirista di Helmhotz,


formulata nel 1870, la percezione è la somma di sensazioni elementari, integrate dalle
informazioni apprese in precedenza. Gli stimoli attuali vengono quindi interpretati in
base alle esperienze passate e uno stimolo nuovo viene assimilato ad uno analogo.
Infatti, ritiene che nella percezione siano presenti inferenze inconsce, cioè deduzioni,
scaturire dalla passata esperienza, in base a cui viene calcolata la probabilità che un
oggetto, percepito parzialmente, possa avere una certa forma.
La percezione viene dunque aiutata da queste deduzioni. Helmholtz, per questi
presupposti, è l’autore più criticato dai gestaltisti: infatti, mentre secondo Helmholtz
l’atto percettivo è influenzato dalle esperienze passate, per i gestaltisti l’atto percettivo è
immediato, si compie grazie alla struttura intrinseca degli stimolo e al modo in cui si
propongono all’osservatore. È proprio sulla questione innato/derivato dall’esperienza che

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
gestaltisti ed Helmholtz si trovano maggiormente in disaccordo.
Helmotz ha compiuto esperimenti sul sistema visivo, per spiegare come esso sia
fondato sulla sintesi degli stimoli, a differenza del sistema uditivo, che agisce per analisi
degli stimoli. Il sistema visivo, infatti, compie una fusione tra gli stimoli che giungono
contemporaneamente alla retina e la colpiscono in un diverso punto. Il soggetto non
riesce a comprendere ciascun singolo stimolo, ma li somma ed ottiene l'immagine
complessiva. Invece nel sistema uditivo non avviene la fusione, perché il soggetto
analizza i singoli suoni e li combina in un'unica melodia, ma i singoli suoni riescono a
generare una sensazione di armonia anche isolatamente, in quanto ciascuno è completo in
sé, riconoscibile.

Teoria ecologica di Gibson. Secondo la teoria ecologica di Gibson, formulata nel


1966, la percezione non è atomistica, né globalistica, né motivazionale. In un ambiente
vengono colti di preferenza stimoli che si prestano al raggiungimento di un fine, cioè
proprietà strumentali di un oggetto, come “commestibilità”, “percorribilità”, ecc,
definite “affordances”, cioè disponibilità e suggerimenti ambientali: «l’acqua dice
“bevimi”, la torta dice “mangiami”». Gibson interviene anche in un dibattito molto
accesso all’epoca, tra studiosi che sostenevano la superiorità del tatto sulla vista o
viceversa.
Alcuni studiosi ritenevano infatti che il tatto non fosse sempre affidabile e veridico,
come dimostra il caso dell’arto “fantasma”. Infatti, soggetti con un arto mutilato,
continuavano a percepire sensazioni provenienti da quell’arto, anche quando erano
stimolati in un’altra zona del corpo, come il viso o le mani. Infatti, queste zone inviano
informazioni alle aree cerebrali confinanti con quelle a cui afferivano i nervi provenienti
dall’arto. Invece, in soggetti senza traumi, si presenta i fenomeno del “coniglio cutaneo”,
cioè la sensazione di un formicolìo esteso, anche quando la zona di stimolazione è
circoscritta. Infatti, la localizzazione percepita è più estesa di quella in cui effettivamente
avviene la stimolazione.
Gli esperimenti di Gibson sul precipizio sono basati su un conflitto tra vista e tatto:
la percezione di precipizio visivo è ottenuta ponendo una lastra di vetro tra due tavoli, in
modo che per passare da un tavolo all’altro, un bambino avrebbe dovuto gattonare anche
sulla lastra trasparente, il cui pavimento al di sotto era a scacchiera. Si voleva osservare
come avrebbe reagito il bambino alla vista del “vuoto”, se si fosse fidato del tatto e
avesse continuato il gattonamento in base alla percezione di continuità inviata dal tatto.

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Invece, il bambino si fermava e procedeva soltanto se la madre lo rassicurava, dunque
non è il tatto a educare la vista, come sosteneva Berkley.

Movimento del New Look. Secondo il movimento del New Look of Perception,
degli anni ‘60, la percezione è influenzata dal significato emotivo dello stimolo. I
bambini poveri percepivano come più grande una moneta rispetto ad un disco di carta di
pari dimensioni, perché la loro condizione economica difficoltosa li portava a
sopravvalutare stimoli in contrasto con essa (moneta) rispetto a quelli neutri (disco).

12. Pensiero

Il pensiero è l’attività mentale di elaborazione di informazioni, di riflessione, di


Definizione
sviluppo di relazioni tra dati. Il pensiero opera mediante concetti, cioè classificando la
realtà e le esperienze. I concetti sono categorie che racchiudono oggetti o fenomeni
simili, cioè che condividono attributi salienti. Secondo Bruner i concetti si ottengono
attraverso un processo di astrazione e generalizzazione delle caratteristiche salienti di un
oggetto. Consentono quindi di semplificare la realtà, classificandola in base a pochi
indicatori rappresentativi. A questo proposito, la psicologa contemporanea Eleanor
Rosch ha elaborato il principio dell’ “economia cognitiva”, secondo il quale il pensiero
cerca di operare in modo efficiente, non moltiplicando i concetti e creandone uno per
ogni esemplare, ma servendosi dei concetti più inclusivi, più prototipici, per risparmiare
risorse.
Il pensiero è stato studiato nell’ambito dello Human Information Processing, che ha

Sintesi dei
cercato di analizzare i processi di elaborazione delle informazioni, di modellizzarli e
principali simularli al computer; in ambito cognitivista, con l’analisi degli schemi, delle credenze,
autori e teorie delle convinzioni, degli stili attributivi; nell’ambito della psicologia sociale, per
di riferimento
analizzare il processamento delle informazioni sociali; invece in ambito
comportamentista, i processi mentali sono stati equiparati ad una black-box, considerati
non analizzabili poiché non osservabili.
Teoria Un orientamento psicologico che ha approfondito i processi di pensiero e formulato
approfondita esperimenti al riguardo è stata la gestalt. Una prima distinzione è stata operata da Max
(con autori,
Wertheimer tra pensiero produttivo e riproduttivo. Il pensiero riproduttivo, o meccanico,
esperimenti,
è bastato sulla ripetizione di un contenuto già esistente, sull’assimilazione di teorie
ecc.)
formulate nel passato e di conoscenze già disponibili, che vengono memorizzate e

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riprodotte. È anche definito “pensiero cieco”, in quanto non aggiunge alcun nuovo
elemento a ciò che già si conosce o si fa. Il pensiero produttivo è invece l’elaborazione di
nuove teorie e conoscenze o la rielaborazione di materiale già noto, ma osservato da
angolature diverse, penetrato nei suoi elementi meno esplorati, utilizzato in modo
originale e inconsueto.
Un’ulteriore distinzione è stata operata da Duncker, che ha illustrato le
caratteristiche del pensiero analitico e di quello sintetico. Il pensiero analitico tende a
spezzettare in elementi, a cogliere i particolari, a ragionare in modo logico e graduale,
facendo scaturire conclusioni da premesse già date. Il pensiero sintetico consiste
nell’avere una visione d’insieme, connettere in modo originale gli elementi, far scaturire
nuove conclusioni, senza seguire percorsi rigidi e logici. Il pensiero sintetico di avvicina
all’ “insight”, cioè all’intuizione, alla scoperta di proprietà implicite, di idee innovative,
di soluzioni che procedano oltre gli schemi già conosciuti.
L’insight è stato invece approfondito da un altro gestaltista, Kohler, attraverso
esperimenti. Nell’isola di Tenerife, egli osservò il comportamento di alcuni scimpanzè
posti davanti a problemi di “aggiramento”: erano infatti chiusi in gabbia e dovevano
recuperare delle banane situate al di là delle sbarre. Dopo un iniziale nervosismo, gli
scimpanzè afferravano con decisione due ramoscelli e li conficcavano uno nell’altro,
formando un ramo più lungo con cui avvicinavano le banane: ciò significa che avevano
individuato nel loro spazio un elemento che serviva ad altri scopi, ma poteva prestarsi per
risolvere il problema. Fecero cioè dei ramoscelli un uso diverso da quello naturale e li
trasformarono in strumenti risolutori. L’apprendimento la soluzione dei problemi
possono infatti scaturire da lampi improvvisi, che risultano dall’uso originale e creativo
di strumenti in proprio possesso.
Ciò che ostacola l’insight come anche la soluzione dei problemi, è la “fissità
funzionale”, studiata sempre da Dunker. Essa consiste nell’inerzia, in abitudini troppo
radicate e automatizzate, nella tendenza ad applicare rigidamente lo stesso schema a
problemi che richiederebbero invece un approccio diverso e a situazioni che invece
richiedono di essere inquadrate mediante concetti nuovi e flessibili. Per trovare la
soluzione occorre uscire dai consueti schemi ed esplorare percorsi nuovi.
A questo proposito egli ha condotto un esperimento, proponendo a dei soggetti di
fissare una candela alla parete, avendo a disposizione solo una scatola di puntine da
disegno e una bustina di fiammiferi. Solo la metà dei soggetti comprese che la scatola
poteva essere utilizzata come porta-candela. Soltanto se la scatola veniva presentata

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
vuota, con le puntine sparse sul tavolo, la soluzione diventava più facile.
Ciò perché la scatola piena di puntine comporta uno spazio del problema in cui la
scatola non è disponibile ed è difficilmente immaginabile come strumento di supporto
per la candela, poiché prevale con evidenza la sua funzione di contenitore, mentre vuota
comporta uno spazio del problema più appropriato e flessibile e che la rende utilizzabile
come strumento.
La rappresentazione del problema e la creatività nell’assegnare funzioni diverse ad
oggetti concepiti per altri fini più specifici consente di affrontare i problemi e di
elaborare efficacemente i dati della realtà in modo funzionale e adatttivo.
Strumenti Gli strumenti utilizzati per valutare il pensiero sono di tipo quantitativo e qualitativo.
Ad esempio, il test Wais include alcuni item che esplorano le modalità di svolgimento di
alcune operazioni di pensiero e forniscono un confronto tra la prestazione del soggetto e
quella del campione di riferimento, invece l’Echelle de développement de la pensée
logique è ispirata agli stadi cognitivi piagettiani e individua il livello di sviluppo
cognitivo raggiunto, indicando le operazioni mentali prevalenti.
Il pensiero presenta diversi ambiti applicativi. Innanzitutto, quello scolastico, che
Ambiti
però sollecita soprattutto il pensiero convergente, poiché allena alla soluzione di
applicativi
problemi prestabiliti che prevedono una specifica configurazione, mentre i problemi
quotidiani spesso sono più complessi e imprevedibili. La psicologia dello sviluppo studia
i processi di sviluppo cognitivo e quindi le operazioni mentali che il bambino
mediamente riesce a compiere in base all’età. La neuropsicologia studia le disfunzioni
mentali che possono verificarsi per trauma, lesione o deterioramento, prospettando
percorsi di riabilitazione e sostegno con appositi training. La psicologia clinica studia i
disturbi del pensiero, che possono presentarsi in quadri psicotici: ad esempio, il delirio è
un pensiero irrealistico e bizzarro che denota una compromissione nell’esame di realtà.

12 bis. Ulteriori teorie sul pensiero

Puoi utilizzare Bruner oppure Vygotsky oppure approfondire il discorso, utilizzando


i seguenti temi su ragionamento, giudizio, decision-making e problem-solving.

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NB: i temi sul pensiero, ragionamento, giudizio, decision-making e problem-
solving possono essere accorpati e formare un unico tema

13. Ragionamento
Definizione

Il ragionamento è un processo mentale che consiste nel concatenare i pensieri, per


derivare nuove conoscenze da quelle che già si possiedono, porre premesse per giungere
a una conclusione, formulare un giudizio verificare un’ipotesi o prendere una decisione.
Si distinguono diverse tipologie di ragionamento, induttivo, deduttivo e quotidiano.
Tipologie di Il ragionamento induttivo procede da proposizioni particolari a generali, dunque
ragionamento
non sempre risulta affidabile, in quanto derivando una legge a partire da un episodio, è
teorie ed
frequente commettere errori. Ad esempio, se uno studente ha avuto un conflitto con
esperimenti
un’insegnante di matematica, compiendo un ragionamento induttivo, giunge alla
conclusione che tutti gli insegnanti di matematica si pongono in modo conflittuale con
gli studenti e alla previsione che avrà un conflitto anche con tutti i successivi insegnanti
di matematica che conoscerà. Si tratta di generalizzazioni di una singola contingenza, che
dunque non sempre si rivelano esatte.
Il ragionamento deduttivo procede dal generale al particolare, in quanto si basa su
leggi universali che poi vengono applicate a casi specifici. Ad esempio, la legge di
gravitazione universale stabilisce che tutti i corpi, privati di un sostegno, cadono a terra
dunque anche un oggetto come una penna, un libro, che si tengono in mano, se non
sostenuti cadranno in terra. In questo caso la previsione è corretta, in quanto la legge di
gravitazione, che è universale, si applica a tutti i corpi particolari. Una tipica forma di
ragionamento deduttivo è il sillogismo, già studiato dal filosofo greco Aristotele, formato
da tre proposizioni concatenate e tali che, accettando come vere le premesse, non si
possono non accettare come formalmente valide anche le conclusioni, poiché
scaturiscono rigorosamente dalle premesse. Un esempio di sillogismo è: “Tutti gli
uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Socrate è mortale”. Il termine medio è
“uomini”, compare nelle prime due proposizioni e serve a connetterle, ma non compare
nella conclusione. Quest’ultima non aggiunge ulteriori informazioni rispetto alle
premesse, ma le esplicita.
Il sillogismo può essere valido, se la concatenazione tra premesse e conclusione è
ottenuta correttamente, a prescindere dalla realtà o irrealtà di quanto affermato dalle

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singole proposizioni, oppure può essere invalido se, anche affermando la realtà, le
proposizioni non sono connesse secondo regole logiche corrette. Le proposizioni del
sillogismo possono essere universali affermative o universali negative, particolari
affermative o particolari negative e possono essere combinate in diversi modi, che
vengono studiati dalla logica formale.
La psicologia si è interessata invece soprattutto ai processi mentali implicati nei
sillogismi. Alcuni esperimenti di Wilkins (1928) hanno rilevato come i soggetti riescano
a seguire più facilmente sillogismi con materiale concreto e familiare piuttosto che con
materiale scientifico, astratto o simbolico, mentre Janis e Frick (1943) hanno analizzato
l’atteggiamento verso la conclusione, rilevando che quando i soggetti ascoltano un
sillogismo, formulano un loro giudizio a partire dalla conclusione: se sono d’accordo con
essa, tendono ad accettare anche sillogismi invalidi, cioè non corretti dal punto di vista
logico, se invece non sono d’accordo con la conclusione, tendono a non accettare il
sillogismo, anche se è corretto e rigoroso. A questo proposito, Politzer (1986) ha
proposto una “teoria del conflitto” per spiegare gli errori di questo tipo: infatti, l’uomo
non sempre, quando ragiona, tiene conto delle rigorose regole della logica. Da bambino,
apprende un modo di ragionare pratico e veloce, da adolescente e da adulto apprende la
logica formale che però è in contrasto con i principi pragmatici appresi in precedenza.
Avviene dunque un conflitto tra il sistema formale, rigoroso e preciso e quello più
informale, generalmente più approssimativo, che viene maggiormente utilizzato nella
vita quotidiana.
La differenza tra le regole logico-formali e quelle pragmatiche di ragionamento è
stata analizzata da Barlett (1958), che infatti ha approfondito un terzo di tipo di pensiero
e di ragionamento, quello “quotidiano”. Nella vita quotidiana, i soggetti non si sforzano
di essere logici e di rispettare le regole formali del ragionamento, ma tendono a ragionare
su pochi dati, ritenendoli sufficienti per trarre una conclusione, spesso inoltre giungono
ad un’affermazione perentoria ricavandola da premesse non vere, spesso costituite da
proposizioni approssimative, da credenze, stereotipi e pregiudizi, che vengono
Test e
strumenti di
erroneamente assunti come verità assolute e incontestabili.
indagine Se il ragionamento è gravemente compromesso, disorganizzato e svincolato dai
dati reali, può sfociare nel delirio, che è un grave disturbo del pensiero, presente in
diversi quadri clinici psicotici. Per questo, in alcune situazioni cliniche è utile analizzare
il pensiero e il ragionamento. Il ragionamento può essere valutato nell’ambito di una più
ampia valutazione cognitiva che può includere colloqui, test cognitivi come la Wais,

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Ambiti oppure l’Echelle de Development de la Pensee Logique (EDPL) di Longeot.
applicativi
Il ragionamento è un processo che trova applicazione in diversi ambiti, quello
clinico in quanto in alcuni disturbi psichiatrici è compromesso, in quello evolutivo in
quanto alcune psicopatologie possono rendere difficoltoso il ragionamento e l’accesso
alla dimensione simbolica, nella neuropsicologia in quanto l’invecchiamento può
contribuire a provocare disturbi del pensiero e del ragionamento, come avviene per le
demenze senili, dove spesso il paziente tende a delirare, in ambito sociale in quanto in
alcuni periodi storici è possibile che una collettività possa ragionare in modo irrazionale,
assumendo atteggiamenti disfunzionali verso alcuni fenomeni come l’immigrazione,
nell’ambito della psicologia del marketing in quanto l’analisi dei processi di
ragionamento induttivo, deduttivo e quotidiano può essere utilizzata per anticipare e
influenzare le decisioni di acquisto.

Definizione
14. Giudizio e decision-making

Il giudizio è l’atto conclusivo di un ragionamento e può consistere nell’esprimere


una valutazione su un evento o nella stima della sua probabilità. Per formulare un
giudizio, è possibile effettuare due principiali tipologie di elaborazione delle
Tipologie di
giudizio,
informazioni: l’algoritmo e l’euristica.
teorie ed L’algoritmo è una procedura precisa, rigorosa, basata su calcoli statistici e
esperimenti matematici sintetizzati nel Teorema di Bayes, che richiede dati esatti e completi e
comporta un notevole dispendio cognitivo. Infatti, non sempre il soggetto riesce a
ragionare in modo così perfetto, rispettando le regole formali e logiche, anche perché le
situazioni quotidiane sono complesse, imprevedibili e non sempre quantificabili.
L’algoritmo è dunque un modello normativo ideale di ragionamento, che però
viene attuato più dalle macchine che dell’uomo, il quale tende a preferire strategie di
inferenza cognitivamente più semplici, anche se meno precise, cioè le euristiche. Esse
sono “scorciatoie” cognitive che consentono di giungere a una conclusione in modo
rapido, efficiente, benché non garantiscano una soluzione ottimale. Sono state
approfondite dagli anni ‘70 da due studiosi israeliani, Kahneman e Tversky, che
rilevarono come l’uomo, nella vita quotidiana, tende a ignorare, sottovalutare o
sopravvalutare alcuni dati, ad essere influenzato dalle emozioni, dal modo in cui è
strutturato un problema, ad attivare ragionamenti a partire da pregiudizi e poi cercare
conferme.

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Si distinguono diversi tipi di euristiche. L’euristica della disponibilità consiste nel
formulare un giudizio basandosi sulla facilità con cui si evoca un’informazione,
sull’impatto emotiva che ha sul soggetto. Ad esempio, si tende a credere che sia più a
rischio di incidenti guidare per 800 km o prendere un aereo per un viaggio di 800 km,
quando invece le statistiche dimostrano che è più probabile avere un incidente in
macchina che in aereo. Tuttavia l’immagine dell’incidente aereo ha una risonanza
emotiva più profonda, sconvolge di più e questa impressione porta a sovrastimare la sua
probabilità.
L’euristica della simulazione riguarda i cosiddetti “ragionamenti controfattuali”,
quelli che iniziano con il “se”, ad esempio “se quella persona non fosse passata in quella
strada a quell’ora, non sarebbe rimasta coinvolta nell’incidente stradale”. Quando si
possono formulare molti scenari alternativi a un evento tragico accaduto, questo aumenta
l’intensità della reazione emotiva negativa e modificare la stima della probabilità di un
evento.
L’euristica della rappresentatività è un modo di stimare la probabilità di un evento
in base al suo grado di tipicità rispetto alla categoria cui appartiene. In un esperimento di
Tversky e Kahneman (1983) è stato chiesto a studenti della University of British
Columbia di dire a quale profilo corrispondesse questa descrizione: “Linda ha 31 anni,
single, intraprendente e molto intelligente. Si è laureata in filosofia. Come studentessa
era molto interessata agli argomenti di discriminazione e di giustizia sociale, ed ha anche
partecipato a una dimostrazione antinucleare”. Le opzioni erano: 1) È una cassiera di
banca; 2) È una cassiera di banca attivamente impegnata nel movimento femminista.
L’85% rispose con l’opzione 2, perché la descrizione corrispondeva di più al prototitpo
della lavoratrice attiva socialmente e questo ha portato a sovrastimare la probabilità.
Questo comporta anche l’euristica dell’ancoraggio, sempre studiata da Kanhneman
e Tversky, 1974, secondo cui le persone tendono a crearsi una prima impressione in base
a pochi elementi e facendo minimi aggiustamenti graduali, dunque non si sforzano di
approfondire la prima impressione, piuttosto tendono a confermarla, anche quando gli
elementi di partenza sono errati.
Un’altra conseguenza dell’euristica della rappresentatività è la “fallacia del
giocatore d’azzardo”, secondo cui si sovrastima la probabilità di un evento in base alla
sua prototipicità. Ad esempio, se si chiede di lanciare una moneta chiedendo se uscirà
“testa o croce”, le probabilità che esca una faccia o l’altra sono sempre rispettivamente

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del 50%. Se dopo 5 lanci, è sempre uscito “testa”, si tenderà a pensare che al 6° lancio
sia più probabile che esca “croce”, come se in questo modo si potesse ristabilire un
equilibrio, in realtà le probabilità restano lo stesso rispettivamente del 50%. Così anche
nel gioco del lotto, si tende a pensare che se un numero non è uscito dopo varie
settimane, diventa più probabile che esca e questa sovrastima errata porta ad un
comportamento di gioco che può sfociare nella compulsione. In realtà le probabilità
restano sempre 1/90, cioè 1 sulla totalità dei numeri che possono essere estratti.
Gli stessi errori probabilistici si riscontrano nel processo di presa di decisione, che
non sempre si basa su criteri logici, poiché l’uomo non è un decisore razionale e perfetto
come una macchina, ma un economizzatore di risorse cognitive. La scelta logica e
razione si basa su dati precisi e su assiomi, ma da alcuni esperimenti, tra cui quelli di
Simon (1977) è stato dimostrato come vengano ignorati, in quanto l’uomo nel prendere
decisioni è influenzato dalle emozioni e da variabili contestuali, come ad esempio
l’Effetto framing, studiato sempre da Tversky e Kahneman (1981), secondo cui si tende a
osservare la realtà in modo focalizzato e limitato, e la teoria del prospetto, formulata
dagli stessi autori, secondo cui secondo cui le persone decidono valutando lo scarto
rispetto a punto di riferimento costituito dal valore soggettivo di una scelta.
Le persone sono motivate più dal desiderio di evitare un dolore che di raggiungere
un piacere, l’avversione per la perdita influisce di più dunque sulla decisione. A questo
proposito, recentemente, due studiosi, Savadori & Rumiati (2005) hanno teorizzato
l’illusione di focalizzazione, secondo cui le persone si concentrano su un solo particolare
situazionale, e su questo basano l’intero processo decisionale. Ad esempio, la parola
estate richiama alla mente della maggior parte delle persone un’immagine positiva, e non

Test
anche i possibili rischi connessi al caldo come i colpi di calore, gli incendi, la siccità.
Per valutare il decision-making, Scott e Bruce hanno elaborato il General Decision
Making Style, poi ci è anche lo Style of Learning and Thinking, o infine il Maximization
Scale, uno strumento per misurare le differenze tra chi tende a massimizzare le proprie
scelte e chi tende ad “accontentarsi”. Giudizio e problem-solving possono essere
analizzati anche all’interno di una più ampia valutazione del quadro cognitivo della
persona, con test di livello come la Wais, ad esempio integrando la somministrazione con
osservazioni e annotazioni qualitative su come la persona affronti la prova e le difficoltà
degli item.
Ambiti
Giudizi e decision-making sono processi importanti in diversi ambiti. Ad esempio
applicativi
nella scelta della facoltà universitaria e della professione, spesso avvengono distorsioni

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nella valutazione delle opzioni, che conducono a decisioni errate. Oppure nella
psicologia del lavoro, ragionamento e stile decisionale del leader è importante soprattutto
in periodi di difficoltà, perché dalle sue valutazioni dipende l’andamento
dell’azienda.Nella psicologia sociale si studiano processi decisionali dei politici o dei
leader d’opinione. Nel marketing si studiano i comportamenti di giudizio e di decisione
dei consumatori.

15. Problem-solving

Definizione Il problem-solving è un processo di soluzione dei problemi, cioè di situazioni ed


eventi psicologici, sociali o pratici per i quali non risultano efficaci i metodi fino ad
allora utilizzati o sembra che non si possiedano strumenti e risorse per raggiungere un
obiettivo. Il problem-solving si configura, dunque, come un atto mentale complesso,
dove confluiscono modalità di elaborazione delle informazioni, di valutazione dei dati e
formulazione di un giudizio, di pianificazione dell’azione e anticipazione delle
conseguenze e si articola.
Nella letteratura psicologica, Havelock (1970) articola questo processo in 5 fasi,
Breve
dunque la definizione del problema, l’individuazione degli obiettivi, la scelta della
panoramica
delle teorie
soluzione, la sua applicazione e infine la verifica della sua efficacia. Delbecq e Van
DeVen (1971) lo riducono a 3 fasi, dunque esplorazione del problema, individuazione
delle priorità e pianificazione della sequenza di azioni. Kolnberg e Bagnall (1974) lo
ampliano in 7 fasi, dal riconoscimento di avere un problema, all’analisi dei suoi aspetti,
per pervenire ad una definizione chiara della situazione, che consente di ideare varie
opzioni di soluzione, sceglierne una, applicarla e valutare gli effetti. Queste suddivisioni
focalizzano l’attenzione sugli aspetti cognitivi e logici del problem-solving,
rappresentandolo come una sequenza di azioni che si conclude con un feedback, il quale
a sua volta può riavviare l’intera sequenza.
Si distinguono infatti problemi chiusi, che prevedono una soluzione esatta, come
quelli matematici, che sono risolvibili mediante algoritmi, cioè procedure rigorose
basate su regole che consentono di individuare la soluzione corretta, e problemi aperti,
come quelli psicosociali, che invece ammettono diverse soluzioni, non individuabili
attraverso procedure prestabilite e fisse, richiedono cooperazione, integrazione di
approcci in contesti imprevedibili e incerti che proprio per la loro complessità, vengono
analizzati attraverso euristiche, cioè procedure di semplificazione della complessità, più

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economiche, anche se non matematicamente perfette.
Per questo, per risolvere problemi, spesso non sono sufficienti valutazioni oggettive
e procedure logiche, tipiche di un pensiero convergente, ma occorre anche una sintesi
creativa dei dati, che implica un approccio creativo e intuitivo.
Teoria A questo proposito, gli autori che hanno studiato la soluzione creativa dei problemi
approfondita sono quelli della Gestalt, che hanno anche compiuto esperimenti sull”insight”, che
con
consiste nel risolvere un problema in modo innovativo, spesso inaspettato, procedendo
esperimenti
oltre gli schemi già conosciuti.
L’insight è stato invece approfondito da un altro gestaltista, Kohler, attraverso
esperimenti. Nell’isola di Tenerife, egli osservò il comportamento di alcuni scimpanzè
posti davanti a problemi di “aggiramento”: erano infatti chiusi in gabbia e dovevano
recuperare delle banane situate al di là delle sbarre. Dopo un iniziale nervosismo, gli
scimpanzè afferravano con decisione due ramoscelli e li conficcavano uno nell’altro,
formando un ramo più lungo con cui avvicinavano le banane: ciò significa che avevano
individuato nel loro spazio un elemento che serviva ad altri scopi, ma poteva prestarsi per
risolvere il problema. Fecero cioè dei ramoscelli un uso diverso da quello naturale e li
trasformarono in strumenti risolutori. L’apprendimento la soluzione dei problemi
possono infatti scaturire da lampi improvvisi, che risultano dall’uso originale e creativo
di strumenti in proprio possesso.
Ciò che ostacola l’insight come anche la soluzione dei problemi, è la “fissità
funzionale”, studiata sempre da Dunker. Essa consiste nell’inerzia, in abitudini troppo
radicate e automatizzate, nella tendenza ad applicare rigidamente lo stesso schema a
problemi che richiederebbero invece un approccio diverso e a situazioni che invece
richiedono di essere inquadrate mediante concetti nuovi e flessibili. Per trovare la
soluzione occorre uscire dai consueti schemi ed esplorare percorsi nuovi.
A questo proposito egli ha condotto un esperimento, proponendo a dei soggetti di
fissare una candela alla parete, avendo a disposizione solo una scatola di puntine da
disegno e una bustina di fiammiferi. Solo la metà dei soggetti comprese che la scatola
poteva essere utilizzata come porta-candela. Soltanto se la scatola veniva presentata
vuota, con le puntine sparse sul tavolo, la soluzione diventava più facile.
Ciò perché la scatola piena di puntine comporta uno spazio del problema in cui la
scatola non è disponibile ed è difficilmente immaginabile come strumento di supporto
per la candela, poiché prevale con evidenza la sua funzione di contenitore, mentre vuota
comporta uno spazio del problema più appropriato e flessibile e che la rende utilizzabile

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come strumento.
La rappresentazione del problema e la creatività nell’assegnare funzioni diverse ad
oggetti concepiti per altri fini più specifici consente di affrontare i problemi e di
elaborare efficacemente i dati della realtà in modo funzionale e adatttivo.
Tuttavia, l’insight non sempre di configura come un atto intuitivo repentino, ma può
costituire una fase di un più ampio processo che prevede la preparazione della soluzione,
la sua incubazione, infine la sua manifestazione attraverso l’insight, seguita dalla
verifica. L’incubazione può durare diversi mesi, indica un’elaborazione silente delle
informazioni, che poi sfocia nella soluzione creativa, rilevando però come quest’ultima
non sia improvvisa, ma derivi da un precedente e lungo lavoro di analisi. Allo stesso
modo, un’analisi razionale di numerosi dati può esitare in una sintesi creativa, rilevando
come, dunque, i procedimenti logici e quelli creativi possano integrarsi proficuamente.
Test
Il problem-solving può essere valutato attraverso il Problem Solving Inventory di
Heppner, strumento di autovalutazione, composto da 35 item che valutano l’autoefficacia
nell’affrontare l’attività di problem-solving,la tendenza generale della persona ad
affrontare o evitare le attività di problem-solving e il grado in cui una persona ritiene di
poter controllare le proprie emozioni e reazioni durante la risoluzione dei problemi.
Anche all’interno di test di livello più ampi, come la Wais, sono contenuti item di
ragionamento e soluzione di problemi aritmetici.
Ambiti Il problem-solving possiede ampie possibilità di applicazione. In ambito
applicativi neuropsicologico, le lesioni al lobo frontale e ai sistemi di controllo causano difficoltà di
problem-solving e pianificazione dell’azione, che possono essere stimolate attraverso
appositi training di riabilitazione. In ambito evolutivo, la scuola è un contesto che
sottopone gli alunni a frequenti compiti di problem-solving, anche per stimolare
l’acquisizione di questa abilità che poi potrà essere trasferita ad altri ambiti della vita.
Anche in alcune psicopatologie dello sviluppo, come l’Adhd, spesso risultano deboli
le abilità di pianificazione dell’azione, che vengono valutate attraverso il test della Torre
di Londra e potenziate attraverso appositi training individuali e di gruppo. Nell’ambito
del lavoro e delle organizzazioni, spesso sorgono problemi che richiedono sia soluzioni
razionali, come l’ottimizzazione dei processi produttivi per migliorare l’efficienza e le
perfomance, sia creativi, per adattarsi in un mercato che si evolve e dunque rende
rapidamente obsolete gli approcci alle problematiche.

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16. Personalità

Definizione
Il termine “personalità” deriva dal latino “persona”, che vuol dire “maschera”:
indicava, appunto, la maschera indossata dagli attori in teatro, che copriva il loro volto,
lasciando una grande apertura attraverso la quale (“per”) potevano diffondere la voce
(“sona”). Nel tardo stoicisimo, il termine “persona” iniziò ad indicare non più la
maschera, ma l’attore che la indossava. Oggi il termine “personalità” viene utilizzato in
diversi contesti, con numerosi significati, spesso ambigui: Gordon Allport, vissuto nella
prima metà del Novecento, uno dei padri dei moderni studi sulla personalità, ha contato
almeno cinquanta differenti accezioni del termine.
Attualmente, in psicologia, la personalità è considerata un’organizzazione
tendenzialmente stabile di modalità cognitive, emotive e sociali, che si delinea attraverso
l’interazione di componenti biologiche, psicologiche e sociali. La personalità è quindi
l’insieme dei tratti, delle caratteristiche stabili di ciascuno.
Il termine personalità è spesso confuso con altri termini affini:
- carattere, che indica le caratteristiche della persona più conformi ai valori e agli
standard sociali: si dice infatti “hai un buon carattere”, “un pessimo carattere”,
sottolineando l’adesione ad un criterio sociale ed etico condiviso;
- temperamento, che è la componente innata della personalità, benché, almeno in
parte, modificabile nell’interazione con l’ambiente. Il temperamento è dunque il
substrato biologico, il livello medio di attivazione medio dell’organismo.
- costituzione, che è la configurazione esteriore e anatomica della persona.

Sintesi dei
Sono state formulate diverse teorie sulla personalità. Gordon Allport ha formulato la
principali teoria dei tratti: il “tratto” è una caratteristica stabili della personalità, differente dallo
autori e teorie “stato”, che invece è una condizione transitoria. Gli studiosi dei tratti utilizzano metodi
di riferimento
psicometrici, cioè test e inventari, per rilevare la presenza di essi. In ambito
psicodinamico, con Freud, lo studio della personalità si focalizza invece sulle dimensioni
profonde ed inconsce. Le teorie comportamentiste tralasciano l’indagine sulle
motivazioni e sulle dimensioni inconsce e focalizzano invece l’attenzione soltanto sui
comportamenti visibili ed esteriori, considerati frutto di un apprendimento per
condizionamento, associando stimoli a risposte.
Per Erik Erikson, la personalità è il risultato dell’interazione tra individuo e ambiente
e i tratti che emergono si formano all’interno delle relazioni sociali. Infine, lo psicologo

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americano George Kelly considera la personalità come l’insieme dei costrutti personali:
ciascuno possiede dei costrutti, cioè degli schemi, con cui interpreta la realtà, ottenuti
dalle proprie esperienze personali, per questo differiscono da una persona all’altra.

Teoria
Una teoria approfondita della personalità, che ha dato luogo a numerose ricerche e
approfondita alla realizzazione di strumenti psicometrici, è stata la teoria dei Big Five (“Cinque
(con autori, Fattori”) di Costa e McCrae, che rappresenta la confluenza degli studi lessicali, basati
esperimenti,
sull’analisi linguistica dei termini comunemente utilizzati per descrivere la personalità e
ecc.)
sviluppati da Cattell, e degli studi fattorialisti, basati su complessi calcoli ed
estrapolazioni statistiche, sviluppati da Eysenck. Il modello dei cinque fattori è
caratterizzato da una elevata comprensività, economicità ed accessibilità. Esso individua
cinque fattori di personalità, i cosiddetti “Big Five”, cioè Estroversione, Gradevolezza,
Coscienziosità, Stabilità Emotiva e Apertura all’Esperienza, che dalle ricerche sono
risultati presenti trasversalmente in numerose culture.
L’Estroversione indica la qualità e l’intensità delle relazioni interpersonali, il livello
di attività, il bisogno di stimoli, la capacità di provare gioia.
La Gradevolezza indica la modalità di relazionarsi con gli altri, l’essere gentili,
cortesi e curati.
La Coscienziosità indica il grado di organizzazione degli individui, di perseveranza,
di diligenza. Contrappone le persone sicure ed esigenti a quelle impulsive e indolenti.
La Stabilità emotiva indica la capacità di gestire lo stress, preservando il proprio
equilibrio, senza lasciarsi travolgere da eventi esterni.
L’Apertura all’esperienza indica la ricerca proattiva, l’esperienza spontanea,
tolleranza, il piacere di esplorare ciò che non è familiare.

Strumenti
Il più conosciuto degli strumenti per la valutazione dei Big Five è il NEO-PI-R di
Costa e McCrae, questionario strutturato attraverso una Scala Likert, ormai collaudato,
tradotto ed impiegato in numerosi contesti linguistici e culturali. Questo strumento ha
mostrato buone relazioni con altre misure di personalità ed elevata concordanza nelle
diverse fasi evolutive e tra autovalutazione ed eterovalutazione, cioè tra come le persone
si descrivono e come vengono valutate, percepite, descritte da altre persone. È
caratterizzato da una buona validità transculturale, in quanto è stato tradotto, validato ed
è abitualmente utilizzato in tedesco, spagnolo, francese e in altri contesti. È stata
realizzata recentemente anche una versione per l’età evolutiva, il Big Five Questionnaire
per bambini (BFQ-C). Altri strumenti per valutare la personalità sono poi il questionario
MMPI-II, il CPI, il 16 PF di Cattell, il Millon.

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La psicologia della personalità può essere applicata in diversi contesti applicativi,
Ambiti
storicamente ha prodotto sia teorie esplicative sia strumenti come test e questionari di
applicativi
immediata praticità. Ad esempio, può essere applicata nei contesti educativi, sia familiari
che scolastici, per sostenere gli educatori nel valorizzare le risorse e le differenze di
ciascun bambino, predisponendo le condizioni ottimali di sviluppo cognitivo, sociale,
affettivo.
Nei contesti lavorativi, l’uso dei test come il Big Five può essere utile in diverse fasi:
dall’orientamento professionale, all’assunzione, per valutare le potenzialità dei candidati,
alla predisposizione di piani di avanzamento. Nei contesti clinici, i test di personalità
possono fornire un quadro completo del soggetto, anche sano, affiancandosi a test
diagnostici, per delineare il profilo del paziente e prevedere come reagirà ad una cura o
quale trattamento è più indicato, ad esempio quale psicoterapia. Nei contesti mediatici,
studiare la personalità di un consumatore può aiutare a progettare un prodotto o un
servizio che soddisfi un bisogno e si armonizzi con le preferenze o le tendenze del target.

16 bis. Ulteriori teorie della personalità

Teorie dei tratti. La teoria dei tratti è stata formulata da Gordon Allport. Il “tratto” è
una caratteristica stabile della personalità, differente dallo “stato”, che invece è una
condizione transitoria. Ad esempio, esiste un’ansia “di stato” e un’ansia “di tratto”:
l’ansia di stato è la preoccupazione che insorge in determinate circostanze, come possono
essere e interrogazioni scolastiche, il doversi esibire di fronte ad un pubblico il
partecipare ad un importante concorso. L’ansia di tratto invece è un’ansia costante,
intrinseca al quadro di personalità, una caratteristica presente anche in circostanze che
non la giustificherebbero.
Vi sono inoltre tratti superficiali e tratti profondi. I tratti profondi costituiscono il
substrato, la caratteristica basilare che si manifesta in differenti modi, ad esempio, la
sottomissione è un tratto profondo, una struttura affettiva, cognitiva e sociale di base, che
può assumere varie forme in base ai contesti: compiacenza in un gruppo, obbedienza,
docilità, passività.
I tratti risentono dell’influenza dell’ambiente sociale, che infatti può permettere di
esprimerli o meno oppure modularne la manifestazione oppure orientarla verso una
specifica forma. Gli studiosi dei tratti utilizzano metodi psicometrici, cioè test e
inventari, per rilevare la presenza di essi.

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Teorie comportamentiste. Le teorie comportamentiste tralasciano l’indagine sulle
motivazioni e sulle dimensioni inconsce e focalizzano l’attenzione soltanto sui
comportamenti visibili ed esteriori: essi sono considerati frutto di un apprendimento per
condizionamento, cioè associando stimoli a risposte, cioè si presentano determinati
comportamenti perché sono quelli che hanno ricevuto più rinforzi.
Allo studio del comportamento si associa dunque uno studio dei rinforzi, cioè del
sistema di premi e punizioni con cui si incoraggiano specifici comportamenti o si
cercano di eliminarne altri. L’indagine sulla personalità consiste dunque in una
rilevazione dei comportamento emessi più frequentemente, nel repertorio di reazioni
tipiche, nelle modalità con cui ciascuno tende a rispondere ad un determinato stimolo.
L’indagine della personalità avviene attraverso l’osservazione in laboratori o nei
contesti naturali e la misurazione di indici oggettivi come con l’elettroncefalogramma,
l’elettrocardiogramma o il galvanometro (strumento che misura le variazioni dell’attività
elettrica della cute e dunque valuta le reazioni ad uno stimolo spaventante, ecc).

Teorie psicodinamiche. Lo studioso e precursore delle teorie psicodinamiche è


Sigmund Freud. Le teorie psicodinamiche hanno in comune l’indagine sulle dimensioni
profonde della personalità e sostengono che non vi sia una relazione diretta e
immediatamente riconoscibile tra comportamento esteriore e motivazione interiore: è
possibile ricostruire questo collegamento soltanto attraverso uno scandaglio approfondito
dell’inconscio della persona.
Infatti, una persona sottomessa, può in realtà non essere una persona passiva e
dipendente, ma aggressiva, per cui la sottomissione può rivelarsi come un modo di
gestire rabbia e rancore. Occorre dunque procedere oltre l’apparenza e comprendere la
dinamica spesso non logica e lineare celata dalle manifestazioni comportamentali
esteriori.
Freud si focalizza sulle dimensioni profonde ed invisibili della personalità, poiché
solo in parte è visibile ed anche comportamenti apparentemente inspiegabili, attraverso
un’approfondita anamnesi, che ripercorre il passato e il rapporto con le figure
significative dell’infanzia, fornisce indicazioni per attribuirne un significato. La
personalità si formerebbe infatti nei primi cinque anni di vita e si evolverebbe secondo
varie fasi, che rappresentano le vicissitudini della libido, cioè dell’energia psicosessuale
che, in base all’età, si genera da una specifica area del corpo. Se la persona non riesce a

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superare uno stadio, si ha una fissazione, se invece, in presenza di stress o traumi, torna
indietro allo stadio precedente, si ha una regressione. Gli allievi di Freud hanno cercato
di analizzare soprattutto l’interazione tra la persona e l’ambiente: Freud infatti aveva
focalizzato l’attenzione sullo sviluppo intrapsichico e pulsionale, trascurando l’influenza
delle interazioni sociali oltre i primi anni di vita, quando la persona può compiere
esperienze che possono modificare anche radicalmente la sua personalità (per
approfondire: vedi tema seguente).

17. Lo sviluppo della personalità

Definizione Secondo Freud, la personalità si formerebbe nei primi cinque anni di vita e si
evolverebbe secondo varie fasi, che rappresentano le vicissitudini della libido, cioè
dell’energia psicosessuale che, in base all’età, si genera da una specifica area del corpo.
Uno degli aspetti storicamente più rivoluzionari della psicoanalisi di Freud è infatti
proprio la teoria della sessualità: nella Vienna e in tutta l’Europa tardo ottocentesca, la
sessualità veniva identificata con la genialità, quindi riservata agli adulti. Freud la
estende anche al bambino, fino ad allora considerato come una creatura angelicata, ora
invece la psicoanalisi ne fa un essere “polimorfo e perverso”: polimorfo in quanto
persegue il piacere in varie modalità, perverso in quanto il piacere è fine a se stesso. Non
si tratta dunque di un erotismo vero e proprio, ma di una energia psicofisica disponibile
dalla nascita e che subisce, nella crescita, varie vicissitudini, collocandosi di volta in
volta in specifiche aree del corpo.
Teoria
Freud elabora una teoria dello sviluppo della persona, distinguendo fasi psicosessuali
approfondita
progressive: ciascuna fase prende il nome dalla regione del corpo in cui si concentra la
libido (“zona erogena”). La libido è dunque l’energia psicosessuale dell’individuo, una
sorta di “carburante” naturale per svolgere attività che producano piacere oppure
“convertibile” per essere utilizzato in lavori artistici, intellettuali o religiosi
(“sublimazione”).
Alla nascita, la zona erogena è rappresentata dalla bocca e per questo la prima fase
dello sviluppo psicosessuale è denominata “fase orale”: attraverso la bocca, il neonato
non solo si nutre, ma prova piacere, conosce il mondo. È frequente osservare un
bambino che porta alla bocca tutti gli oggetti: quando la maturazione neuronale e la
coordinazione oculo-manuale si sviluppano, egli inizia a portare le proprie manine alla
bocca, poi si sforza di avvicinarvi i piedini, infine mette in bocca tutto ciò che afferra.

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Talvolta l’esplorazione degli oggetti attraverso la bocca viene bruscamente interrotta
dalla madre, preoccupata che il piccolo possa contaminarsi con germi e batteri e quindi
sottrae precipitosamente l’oggetto al bambino. Oppure, il gesto di portare tutto alla bocca
può essere scambiato come un segnale di fame, oppure come un tentativo di massaggiare
le gengive dolenti allo spuntare dei primi dentini. Si tratta invece di una prima e
importante modalità di conoscersi e conoscere il mondo.
La fase orale è caratterizzata da un rapporto di dipendenza dalla figura di
accudimento, dalla ricerca del soddisfacimento dei bisogni primari come il mangiare e
dura tutto il primo anno di vita.
Se il bambino vi persiste oltre, Freud definisce questa evenienza come “fissazione
orale”. Si può verificare anche un’altra evenienza, la “regressione orale”: quando il
bambino o l’adulto accedono alle fasi successive dello sviluppo, in presenta di forti stress
possono tornare indietro, riutilizzando modalità di relazione e di comportamento
caratteristiche di fasi precedenti. Alcune patologie come l’obesità sono considerate forme
di regressione orale.
Da uno a tre anni, il bambino entra nella fase anale, che ha come zona erogena la
regione anale: è la fase caratterizzata da importanti conquiste di sviluppo, come il
linguaggio, la locomozione, il pensiero simbolico, cioè strumenti che emancipano il
bambino dall’adulto e gli consentono di affermarsi come individuo separato e
indipendente. Il bambino riesce a controllare gli sfinteri e prova orgoglio nell’esercitare
questa competenza, talvolta utilizzando il trattenimento delle feci come strumento di
imposizione della propria volontà e talvolta rilasciando le feci per farne dono alla madre,
in quanto “prodotto” che ha realizzato da sé e che comprova la sua autonomia. La fase
anale è caratterizzata da uno sforzo di controllo di sé e del contesto che innesca conflitti
di potere con i genitori.
Anche rispetto alla fase anale possono verificarsi fissazioni o regressioni in
occasione di particolari stress: ad esempio il bambino può aver iniziato ad usare il vasino
e a controllare gli sfinteri, ma quando nasce un fratellino, torna momentaneamente
indietro, perde queste competenze appena acquisite e recede a comportamenti più
infantili, come l’utilizzo del ciuccio caratteristico della fase orale o la necessità di
riutilizzare i pannolini. Alcuni tratti di personalità dell’adulto sono considerati forme di
fissazione o regressione anale: la ricerca maniacale della pulizia e dell’ordine, il controllo
esasperato, il perfezionismo.
Da tre a sei anni, il bambino accede alla fase fallica, che ha come zona erogena

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l’area genitale. È il periodo della scoperta delle differenze anatomiche tra maschio e
femmina e del conseguente timore di perdere il pene: il maschietto pensa infatti che alle
femminucce possa essere stato amputato ed è dunque assalito da un “complesso di
castrazione”. La fase fallica è anche la fase del complesso di Edipo: il bambino è infatti
attratto dalla madre e vorrebbe sostituirsi al padre (e viceversa la bambina), come
accadde all’eroe del mito e della tragedia greca Edipo che, inconsapevolmente e
involontariamente, uccise il padre e sposò la madre.
Il bambino, attraverso l’ammirazione e la gelosia per il genitore dello stesso sesso e
per evitare il conflitto con lui e piacere alla madre, si identifica con il padre, mentre la
bambina, per evitare il conflitto con la madre e piacere al padre, si identifica con la
madre. Attraverso questa dinamica di colpa, timore e identificazione, il bambino
acquisisce la consapevolezza dell’appartenenza al genere sessuale, consolida cioè la sua
“identità di genere”.
Le fasi orale, anale e fallica sono caratterizzate da una “pulsione di appropriazione”:
con la fase genitale, i comportamenti saranno improntati a una “pulsione di scambio”.
Prima dell’ingresso nella fase genitale, che avviene durante la pubertà, la libido si ritrae e
il bambino investe le sue energie nei rapporti con i pari e in attività motorie e sociali,
senza mostrare molto interesse verso il sesso opposto.
Si tratta del periodo di latenza, dai sei agli undici anni, dove si osservano spesso
bambini maschi giocare tra loro in sport tipicamente maschili e bambine femmine
impegnate in giochi simbolici che ricreano attività domestiche e ruoli femminili, come
cucinare con pentoline, giocare a “mamma e figlia”, animare bambole facendole
dialogare tra loro. La fase genitale compare dopo l’intervallo costituito dalla fase di
latenza, verso i dodici anni, in concomitanza con la maturazione dell’apparato sessuale. È
caratterizzata da un ritrovato interesse verso il sesso opposto e dall’inizio di relazioni di
coppia simili a quelle adulte.

Ps: strumenti e ambiti applicativi sono gli stessi della personalità

17 bis. Ulteriore teoria sullo sviluppo della personalità

Puoi utilizzare il tema su Erikson (n° 68).

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18. Meccanismi di difesa

Definizione
I meccanismi di difesa sono processi psicologici, spesso seguiti da una reazione
comportamentale, attuati per affrontare le situazioni di difficoltà, per gestire le
conflittualità, per preservare il proprio funzionamento dalle interferenze di pensieri,
sentimenti ed esperienze disturbanti, dolorose e inaccettabili. Sono generalmente, ma non
necessariamente, automatici, poiché spesso funzionano senza uno sforzo consapevole, in
quanto sono uno strumento preferenziale per affrontare un pericolo reale o percepito.
Sintesi dei I meccanismi di difesa sono stati analizzati da diversi autori. In ambito
principali psicoanalitico, sono stati studiati inizialmente da Freud, che dapprima li considera come
autori e teorie
operazioni inconsce a scopo difensivo e li definisce complessivamente come
di riferimento
“rimozione”, poi nel 1925 specifica che sono tecniche di gestione del conflitto e ne
individua 4 principali: rimozione, sublimazione, spostamento, formazione reattiva. Sua
figlia, Anna Freud, dopo trent’anni di lavoro clinico e teorico, redige una classificazione
ampia, benché non esaustiva, dei meccanismi di difesa, nota come Indice Hampstead. Per
Hartmann, esponente della psicologia dell’Io, le difese sono operazioni attuate dall’Io
utilizzando energia aggressiva parzialmente neutralizzata, cioè de-pulsionalizzata.
Kernberg sottolinea poi la funzione dei meccanismi difensivi, non solo rivolta alla
gestione dei conflitti, ma anche alla costruzione e allo sviluppo del Sé, alla
rappresentazione degli oggetti e alla regolazione delle relazioni oggettuali. Kohut
sostiene il ruolo adattivo delle difese, in quanto salvaguardano l’integrità del Sé. Infine,
la Fraiberg studia i meccanismi difensivi dei bambini deprivati: evitamento della madre,
freezing, fighting (attacco, lotta) trasformazione affettive.
Teoria Il padre della moderna classificazione dei meccanismi di difesa, autore di una delle
approfondita più importanti sistematizzazioni teoriche ed empiriche, è invece Vaillant. Egli sostiene
(con autori,
che, affinché un’operazione possa definirsi difensiva, è necessario che sia stata
esperimenti,
consolidata con il tempo ed abbia assunto una funzione adattiva. Le difese più adattive
ecc.)
sono quelle che consentono una gratificazione delle pulsioni, riducendo al minimo la
distorsione della realtà, mentre quelle disadattive sono utilizzate al prezzo di una grande
distorsione della realtà.
A questo proposito Vaillant, insieme a Perry, gerarchizzano le difese in 7 livelli
distinti per maturità e adattività. Il potenziale disadattivo di una difesa dipende
dall’esclusività, in quanto una specifica difesa viene impiegata in modo ripetitivo, rigido

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e ristretto; dall’intensità, cioè dall’impatto quantitativo della difesa; dall’adeguatezza
all’età, poiché le difese possono risultare più o meno funzionali in base all’età del
soggetto e alla fase del ciclo di vita; dall’adeguatezza al contesto.
Il settimo livello difensivo è quello altamente adattivo e include difese come
l’altruismo, l’affiliazione, la repressione, l’umorismo, la sublimazione. Queste difese
promuovono comportamenti funzionali, equilibrati e socialmente utili, consentono una
gratificazione e presuppongono spesso una consapevolezza dei sentimenti e delle loro
conseguenze.
Al di sotto di questo livello compaiono difese ossessive, come l’annullamento
retroattivo, l’intellettualizzazione, l’isolamento dell’affetto. In queste difese, viene
preservato il contenuto intellettivo dei pensieri e delle azioni, ma si interviene sull’affetto
ad essi collegato, minimizzandolo o neutralizzandolo, senza però distorsioni della realtà
esterna. Ad esempio, l’annullamento retroattivo è un comportamento agìto o simbolico
che ha lo scopo di “riparare” un altro comportamento non corretto o inaccettabile per il
soggetto, come nel caso di un uomo che tradisce la sua donna e poi la ricopre di doni,
fiori e attenzione per compensare il gesto compiuto; l’intellettualizzazione consiste
nell’esprimersi in modo astratto e generale, per evitare di rendere consapevoli sentimenti
disturbanti; l’isolamento dell’affetto consiste nell’incapacità di sperimentare
contemporaneamente la componente cognitiva e affettiva di un’esperienza, dunque
comporta la rimozione della componente affettiva.
Al di sotto di questo livello ci sono le difese nevrotiche, come rimozione,
dissociazione, formazione reattiva, spostamento: esse escludono dalla coscienza pensieri
e sentimenti conflittuali che interferiscono con il funzionamento globale.
La dissociazione è una temporanea alterazione delle funzioni integrative della
memoria, della coscienza, della percezione di sé, che consente di immagazzinare il
ricordo in archivi separati, come può avvenire nelle esperienze di abuso, soprattutto
infantile, dove il trauma è talmente elevato che la coscienza si dissocia dal corpo e la
persona ha la sensazione di osservarsi dall’alto come se non stesse subendo l’esperienza
e non le appartenesse. La rimozione consiste nel respingere fuori dalla consapevolezza
contenuti troppo dolorosi, ad esempio dimenticare una persona che ci ha offeso o
un’esperienza traumatica. Tali contenuti possono riemergere nei sogni oppure nelle
associazioni libere oppure sotto ipnosi o infine disturbare in qualche modo il
comportamento. La formazione reattiva è invece un meccanismo con cui l’Io trasforma
un sentimento nel suo opposto: ad esempio, una madre che non voleva un bambino e

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dunque prova avversione per lui, maschera questo sentimento trasformandolo nel suo
opposto, cioè in una eccessiva premura e affettuosità. Lo spostamento consiste nel
dirottare un sentimento per un oggetto verso un altro oggetto meno temuto.
Al di sotto di questo livello, ci sono le difese narcisistiche come idealizzazione,
onnipotenza e svalutazione, che implicano una distorsione nell’immagine di sé o degli
altri, per salvaguardare la propria autostima. Ad esempio, con l’idealizzazione si
attribuiscono a se stessi caratteristiche positive, con l’onnipotenza ci si comporta come se
ci si ritenesse superiori o speciali, con la svalutazione si sminuiscono le caratteristiche
degli altri.
Al di sotto di questo livello ci sono le difese di disconoscimento, come diniego,
proiezione, razionalizzazione, che escludono dalla coscienza esperienze, sentimenti,
pensieri che sono fonte di disagio, con o senza un’attribuzione di essi a cause esterne. La
proiezione consiste nell’attribuire ad altri contenuti minacciosi che provengono da se
stessi, così da espellerli fuori, ad esempio “sono invidioso di lui” diventa “lui è invidioso
di me”. Il diniego consiste nel negare un evento o un sentimento e può avere valore
adattivo in determinate circostanze: ad esempio, se si riceve la diagnosi di una malattia
mortale, oppure la notizia di un evento tragico, la prima reazione può essere quella di
negarlo, ma ciò è funzionale ad una riorganizzazione delle risorse per affrontarlo. La
razionalizzazione consiste nello spiegare un evento o un comportamento in modo
rassicurante, sofisticato o funzionale al proprio benessere. Ad esempio, quando una
persona muore dopo una lunga agonia dovuta ad un tumore, si dice “ha smesso di
soffrire”, come a giustificare razionalmente un evento doloroso come il lutto.
Al di sotto di questo livello ci sono le difese borderline, come identificazione
proiettiva e scissione, che implicano una percezione distorta, grossolana, primitiva della
realtà e di sé, che però consente di preservare un senso del Sé coerente ed evitare la
frammentazione. La scissione consiste nel percepire gli oggetti come interamente e
nettamente buoni o cattivi, senza riuscire a integrare questi due aspetti in un’immagine
intera. L’identificazione proiettiva consiste nel proiettare su qualcuno un impulso
inaccettabile e interpretare il proprio comportamento come una reazione giustificata al
comportamento dell’altro. Ad esempio, si commette un’azione malvagia verso un altro
dicendo che lo si è fatto perché l’altro era stato minaccioso e provocatorio, quando
invece l’atteggiamento di minacciosità e provocazione è stato attribuito all’altro perché è
il soggetto stesso che lo provava.
Al di sotto di queste difese, c’è il livello dell’acting, definito anche “agìto”, che

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consiste nell’affrontare lo stress con un’azione diretta e spesso impulsiva, attuata senza
preoccuparsi delle conseguenze. È il caso di uno studente che, dopo aver preso un brutto
voto all’interrogazione, scaglia con violenza i libri.
Vi è poi un ulteriore livello delle difese, il livello zero, che indica una condizione di
fallimento della regolazione difensiva fino ad una rottura con la realtà. Include il diniego
psicotico, la distorsione psicotica, la proiezione delirante, tutti meccanismi che rivelano
una destrutturazione grave del pensiero e del comportamento e una compromissione
dell’esame di realtà.

Strumenti
Basandosi su questa gerarchia, Perry ha elaborato la Defense Mechanism Rating
Scale, una scala di valutazione delle difese. Oltre a questo strumento, per l’assessment
delle difese si possono utilizzare il Defense Mechanism Inventori di Gleser e Ihilevich, il
Defense Style Questionnaire di Bond, il Life Style Index di Plutchick.
Ambiti
I meccanismi di difesa presentano diverse potenzialità applicative. Innanzitutto nella
applicativi
psicologia clinica e nella psicoterapia, in quanto la loro strutturazione può causare
resistenza al trattamento e impedire l’emergere di contenuti profondi: per superare queste
censure, occorre stabilire un’alleanza terapeutica, basata sulla fiducia e sull’empatia, che
rassicuri il paziente sul fatto che non verrà giudicato moralmente o colpevolizzato, ma
ascoltato. Aggredire i meccanismi di difesa, per estirparli più velocemente, può sortire
l’effetto opposto di rinforzarli e priva comunque il paziente di una risorsa che si è
costruito per affrontare un disagio, per quanto possa essere primitiva. Occorre invece
rispettarla e mettere il paziente nelle condizioni di liberarsene gradualmente, grazie alla
fiducia, al rispetto e alla comprensione che trova nel setting.
Inoltre, vi è correlazione tra personalità e meccanismi di difesa, dunque si possono
utilizzare le scale di difesa insieme ai test di personalità per delineare un profilo preciso
del paziente. Infatti, si è rilevato che i soggetti con disturbi di personalità tendono a usare
difese immature e disadattive, ad esempio il borderline utilizza scissione, acting-out,
identificazione proiettiva, invece soggetti senza diagnosi di disturbi di personalità
utilizzano in modo flessibile un maggior numero di difese e in modo adattivo.
Attualmente, in ambito psichiatrico e scientifico, è in discussione l’opportunità di
inserire nel DSM un asse specifico, il VI, dedicato alle difese.

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19. Apprendimento e memoria

NB: questo e i prossimi temi “incrociati” sono svolti basandosi sulle teorie
contenute nei temi “semplici”: tema sulla motivazione, sul pensiero, sull’apprendimento,
ecc. Basta infatti combinarli e riorganizzarli e si ottengono facilmente i vari temi
incrociati. Leggi anche le indicazioni su come svolgere i temi doppi e incrociati, descritte
nel primo capitolo di questo manuale. Per fare i temi incrociati, l’importante non è tanto
conoscere tutte le eventuali teorie che inglobano più costrutti, ma saper impostare un
tema incrociato, combinando due temi semplici. Per farlo, c’è appunto la scaletta
contenuta nel paragrafo sui temi doppi e incrociati. I seguenti temi sono due esempi di
applicazione. Applicando la scaletta puoi ottenere tutti gli incroci possibili (che sono
infiniti!).

Breve frase Apprendimento e memoria sono due funzioni complesse e fortemente connesse in
introduttiva diversi ambiti e si rafforzano reciprocamente, in quanto a loro volta interagiscono con
ulteriori dimensioni come motivazione, emozione, pensiero.
L’apprendimento è un complesso processo di acquisizione e cambiamento di
Definizione
del primo
contenuti o schemi, risulta dalla compenetrazione di motivazione, emozione, memoria, è
costrutto motivato e orientato e non è dunque riducibile ad uno sterile meccanismo di
assimilazione di contenuti privi di un significato emotivo e adattivo.
La memoria non costituisce semplicemente un deposito di dati, ma è un complesso
Definizione
processo di immagazzinamento, ritenzione e recupero di informazioni, che implica
del secondo
costrutto
un’attiva rielaborazione e riconfigurazione dei contenuti piuttosto che una passiva
ricezione di essi. Ciò implica che il contenuto recuperato sia una ricostruzione, piuttosto
che un’accurata e fedele rievocazione dell’informazione originaria.
La relazione tra apprendimento e memoria è stata analizzata in diversi approcci, ad
Scelta di un
esempio quello cognitivista, che ha studiato sperimentalmente non solo le funzioni
modello
teorico
cognitive, ma dagli anni Settanta con Flavell anche quelle metacognitive, che consistono
(cognitivo nel coordinare, guidare e monitorare il proprio percorso di apprendimento, nel valutarsi
comport., indipendentemente dal giudizio di un’autorità esterna, nel pianificare ed eseguire le
psicodinamico
operazioni cognitive, compiendo i necessari aggiustamenti, nel disporre ed allocare il
, ecc)
giusto quantitativo di risorse attentive e mnemoniche, nel prevedere la propria
performance.

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Sono quindi competenze di regolazione della propria attività di apprendimento,
Trattazione
sovraordinate a quelle cognitive, per questo sono state definite “metacognitive”. Oggi si
dei due
pensa che siano esse a dover essere rafforzate per rendere l’apprendimento più efficace,
costrutti,
esperimento
più che il mero dotare gli studenti di tecniche da applicare ritualisticamente e quasi
su uno di essi, “liturgicamente”. La metacognizione, infatti, è stata particolarmente approfondita dopo
discussione l’insuccesso dei programmi sul metodo di studio impostati in modo direttivo ed è oggi
sulla loro
considerata come la competenza-chiave per un apprendimento efficace, che ottimizza
relazione
tempi e metodi di apprendimento. Infatti, negli ultimi trenta anni, per aiutare gli studenti
a organizzare il loro studio, che spesso comprendere grandi quantità di discipline anche
differenti tra loro da apprendere in tempi veloci, sono stati elaborati alcuni “metodi di
studio”, cioè procedure di apprendimento sia specifiche sia globali.
Sono state elaborate strategie per memorizzare alcune nozioni come date, nomi,
parole straniere, oppure per prendere appunti durante la lezione, per leggere un testo
traendone concetti e parole-chiavi, per riassumere e schematizzare il materiale, per
gestire l’ansia da interrogazione. Si è quindi iniziato a riflettere sul fatto che apprendere
efficacemente potesse non dipendere dal possedere un presunto “buon metodo di studio”,
ma derivasse dall’attitudine alla flessibilità, dalla capacità di variare l’approccio allo
studio, di alternare i metodi e le operazioni da compiere, di adattarsi elasticamente alla
materia, di regolarsi in base ad un’autovalutazione delle proprie conoscenze iniziali e
della previsione del tempo e dello sforzo richiesto da un compito.
Lo studente efficiente è dunque oggi considerato uno studente metacognitivo,
quindi autoregolato, flessibile e motivato verso l’apprendimento. Una volta che ha
acquisito un apprendimento efficace, ciò sarà preliminare anche alla memorizzazione,
che scaturisce proprio dal modo in cui le fasi di comprensione state compiute,
strutturando il materiale, rielaborandolo attivamente, acquisendo un contenuto ordinato,
chiaro e completo. L’apprendimento infatti deve persistere a lungo, così da poterlo
rievocare quando è necessario.
Il passaggio da una fase di acquisizione, quindi di apprendimento vero e proprio,
ad una di rievocazione, che presuppone la persistenza del ricordo, viene articolato da altri
due autori, Atkinson e Shiffrin, che operano nell’ambito dello Human Information
processing, approccio di derivazione cognitivista che assimila la mente ad un computer e
formula teorie sul suo funzionamento, progettando anche software capaci di simularlo.
Essi hanno specificato come il percorso compiuto dai contenuti appresi si
suddivida in tre fasi, perché questi vengono trasposti in tre diversi vasi. Questi autori

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hanno infatti elaborato una teoria tripartita della memoria, analizzando la dimensione
strutturale, quantitativa e funzionale di questo processo. Infatti, sostengono che la
memoria sia articolata in tre magazzini dotati di differente ampiezza e durata e contenenti
specifiche tipologie di contenuto.
Il primo magazzino è il Sistema Sensoriale, che riceve gli input provenienti dai
sensi e li trattiene per pochi secondi. Il secondo magazzino è costituito dalla Memoria a
Breve Termine, dotata di limitata capienza, dove le informazioni permangono per un
periodo breve, assimilabile a circa 30s. La capienza è stata quantificata dall’esperimento
dello “span di cifre” di Ebbinghaus, che osservò come dopo aver ascoltato una lista di
sillabe, fosse possibile ricordarne mediamente 7, e poi ulteriormente approfondita da
Miller, secondo il quale la Memoria a Breve Termine può trattenere da 5 a 9 cifre: egli
definì questa quantità come “il magico numero sette”, proprio perché mediamente i
contenuti trattenuti erano “7 più o meno 2” ed erano da intendersi non come elementi
singoli, ma anche come chunks, cioè coppie, terne o raggruppamenti di elementi. I
contenuti possono passare dalla Memoria Sensoriale a quella a Breve Termine se sono
sottoposti a reiterazione, cioè se vengono ripetuti più volte.
Il terzo magazzino è la Memoria a Lungo Termine, dotata di capienza e durata
estesa, forse illimitata, poiché le informazioni contenute probabilmente non scompaiono
mai, benché possano diventare più difficilmente accessibili. Si distinguono, al suo
interno, due differenti tipologie di informazione: quella dichiarativa, costituita da
proposizioni, pensieri, ricordi espliciti, e quella procedurale, costituita da modalità di
esecuzione di un’azione (andare in bicicletta, guidare la macchina, ecc).
L’apprendimento può dirsi memorizzato quando accede a quest’ultimo magazzino,
diventando un patrimonio culturale personale, tendenzialmente stabile. L’ingresso nella
memoria a lungo termine, che finisce per strutturare l’identità della persona, avviene
grazie a uno sforzo di ripetizione del materiale, di rafforzamento della sua presenza,
rendendola incisiva anche con l’utilizzo di mnemotecniche per nomi, liste di elementi,
date storiche, volti, parole. Ad esempio, la tecnica dei Loci di Cicerone consente di
ricordare discorsi suddividendoli in porzioni e collocandone ciascuna, nella propria
immaginazione, in stanze o tappe di luoghi familiari e conosciuti: percorrendo
Ulteriori idealmente il tragitto, si raccoglie in ogni tappa la porzione di discorso collocata.
riflessioni
Da un lato quindi, la memorizzazione è un processo controllabile e pianificabile,
sulla
che presuppone un apprendimento chiaro, così come l’apprendimento, per diventare
relazione tra i
solido e duraturo, evitando di ridursi ad un’estemporanea comprensione dei contenuti,

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costrutti deve essere seguito dalla memorizzazione. La relazione tra processi di apprendimento e
di memorizzazione si rivela dunque circolare.
Strumenti che
Sono stati realizzati anche strumenti che valutano contemporaneamente sia
indagano
entrambe i
memoria che apprendimento, oltre ad altre funzioni, come il Questionario Metacognitivo
costrutti sul Metodo di Studio di Cornoldi, che analizza le componenti emotive, motivazionali,
strategiche dell’apprendimento scolastico, oppure il Test TEMA - Test di memoria e
apprendimento di Reynolds.
I contesti in cui Apprendimento e memoria trovano un’applicazione congiunta
Ambiti
applicativi di
sono numerosi, ad esempio includono l’ambito scolastico, educativo, lavorativo. Infatti,
compresenza in ambito scolastico, la prestazione nei test di profitto viene migliorare se il soggetto
della coppia ottiene una comprensione profonda del materiale, attraverso un apprendimento solido
di costrutti
acquisito con un metodo sistematico e critico e se oltre a comprendere, sa trattenere a
lungo i contenuti assimilati, grazie ad una ritenzione mnemonica e ad un’attenta
vigilanza sulle cause che provocano l’oblio o interferiscono con l’immagazzinamento o il
recupero delle informazioni memorizzate.
In ambito lavorativo, data l’attuale prospettiva di life long learning che implica una
formazione continua dei professionisti, apprendimento e memoria supportano questi
processi, promuovendo il costante aggiornamento delle conoscenze e delle competenze.
In ambito educativo, l’apprendimento consente di acquisire regole per pianificare il
comportamento, mentre la memoria interviene per rievocarle, segnalando al bambino il
contesto e la modalità della loro applicazione.

20. Apprendimento e motivazione

Breve frase Apprendimento e motivazione sono due funzioni complesse e fortemente connesse
introduttiva in diversi ambiti e si rafforzano reciprocamente, inoltre a loro volta interagiscono con
ulteriori dimensioni come memoria, emozione, pensiero.
L’apprendimento è un complesso processo di acquisizione e cambiamento di
Definizione
del primo
contenuti o schemi, risulta dalla compenetrazione di motivazione, emozione, memoria, è
costrutto motivato e orientato e non è dunque riducibile ad uno sterile meccanismo di
assimilazione di contenuti privi di un significato emotivo e adattivo.
La motivazione è il “movente” del comportamento, la causa che determina una
Definizione
reazione o una scelta, la spinta a compiere un’azione per raggiungere un obiettivo. Alla
del secondo
base dei comportamenti e delle attività vi possono infatti essere motivazioni estrinseche o

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costrutto intrinseche. Un’attività intrinsecamente motivata si autoalimenta, poiché è compiuta in
quanto gratificante in se stessa, invece un’attività estrinsecamente motivata viene svolta
per ottenere qualcos’altro, ad esempio un premio, una forma di ricompensa, o per evitare
una punizione.
Scelta di un Una teoria storicamente importante che ha analizzato la relazione tra
modello apprendimento e motivazione è il condizionamento, soprattutto quello operante elaborato
teorico
da Skinner, che compì studi di laboratorio. Egli osservò il comportamento delle cavie in
(cognitivo
gabbia: premendo una leva, avrebbero ottenuto del cibo. Il “meccanismo di ricompensa”,
comportamen
tale,
cioè la ricezione del cibo al momento di premere la leva, poteva essere scoperto
psicodinamico accidentalmente dalle cavie, premendo per caso la leva, oppure dopo diversi tentativi.
, ecc) Una volta scoperto, la cavia riproponeva più frequentemente il comportamento che dava
luogo alla ricompensa, cioè premeva più frequentemente la leva. Il cibo rinforzava
l’azione di premere la leva, cioè la rendeva più frequente e intensa. Se la ricompensa
Trattazione
dei due
veniva offerta non tutte le volte che il comportamento veniva attuato, ma solo di tanto in
costrutti, tanto, la cavia premeva la leva ancor più insistentemente. Per questo, Skinner studiò
esperimento diversi schemi di rinforzo: a intervallo fisso, a intervallo variabile, a rapporto fisso, a
su uno di essi,
rapporto variabile. Quest’ultimo è lo schema più efficace: se la ricompensa non viene
discussione
erogata ad intervalli regolari e fissi, ma casuali, ciò comporta ostinazione nel soggetto a
sulla loro
relazione
ripetere l’azione, fino ad instaurare una dipendenza.
Thorndike continuò questi studi e osservò anche la reazione delle cavie alla
punizione, cioè all’esposizione a “rinforzi negativi” : quando le cavie premevano la leva
per ottenere cibo, ricevevano anche una scossa elettrica. La punizione faceva scomparire
il comportamento, ma solo temporaneamente, perché quel comportamento si ripresentava
intensificato e accompagnato da emozioni negative come rabbia e aggressività. La
punizione infatti estingue solo momentaneamente il comportamento negativo, poi lo
rafforza. Per eliminare un comportamento è più efficace non rinforzarlo o rinforzare i
comportamenti incompatibili con esso.
Il sistema premi e punizioni viene utilizzato ogni qual volta si cerca di indurre un
comportamento desiderabile, allettando con un premio se si compie quel comportamento
e minacciando di punizione se non lo si compie. Anche il sistema scolastico è basato sui
rinforzi positivi e negativi: si ricevono bei voti quando si studia, si sta attenti in classe, si
fanno i compiti e brutti voti, note sul registro o rimproveri quando non si studia o si
disturba la lezione.
Il sistema premi-punizioni e anche il suo utilizzo scolastico hanno però ricevuto

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diverse critiche, in quanto può risultare manipolatorio e spingere un alunno ad agire in
Ulteriori
una certa direzione non per una convinzione interiore, ma per ottenere la ricompensa ed
riflessioni
evitare la punizione. Dunque il premio per l’apprendimento motiva spesso a
sulla
relazione tra i
comportamenti inautentici basati sulla compiacenza e può trasformarsi in strumento di
costrutti manipolazione.
Ad esempio, sempre riguardo l’ambito scolastico, motiverebbe l’alunno
all’impegno nello studio per ottenere il bel voto, inorgoglire i genitori, ricevere un regalo
a fine anno, non perché apprendere sia di per sé utile, stimoli la mente e consenta di
sviluppare nuove abilità, attribuire un senso alla realtà, arricchire l’esperienza. Non
sollecita quindi motivazioni instrinseche ed autentiche.
Un alunno intrinsecamente motivato è uno studente che prova interesse per gli
argomenti che studia, si sente gratificato dal fatto di apprendere, di crescere e di
progredire, invece uno studente estrinsecamente motivato studia per il voto, cioè per una
ricompensa esterna, oppure per compiacere i genitori o per ricevere un premio promesso
dai genitori se raggiunge determinati risultati scolastici. Da alcuni esperimenti su
motivazione e apprendimento è stato confermato che introdurre motivazioni estrinseche,
ad esempio, come riferisce Darley, prevedendo una ricompensa, diminuisce la
motivazione intrinseca: ad esempio, persone pagate per aiutare gli altri, in seguito li
aiutavano meno volentieri, oppure bambini premiati per giocare con un certo bambino, in
seguito giocavano meno volentieri con lui.
Motivare intrinsecamente all’apprendimento significa invece motivare
all’autoefficacia, a sperimentarsi, a misurarsi con se stessi nell’apprendere. Infatti, chi si
sperimenta competente in un’attività tende a ripeterla per la gratificazione intrinseca che
comporta. Ciò ha delle ricadute anche in ambito didattico: se infatti uno studente è
demotivato verso lo studio o verso una specifica materia, offrendogli l’opportunità di
sperimentarsi efficace in un compito, può iniziare a rimotivarsi, poiché dall’esperienza di
successo, che disconferma l’immagine di sé come persona incapace, può trarre energia
per impegnarsi e rivalutarsi.
Per quanto riguarda gli strumenti, ve ne sono alcuni che esplorano
Strumenti che contemporaneamente sia motivazione che apprendimento. Un esempio è il Questionario
indagano Metacognitivo sul Metodo di Studio di Cornoldi, che analizza le componenti emotive,
entrambe i
motivazionali, strategiche dello studio. Un altro esempio è il Test AMOS - Abilità e
costrutti
motivazione allo studio, che valuta le strategie di apprendimento, gli stili cognitivi, le
credenze che influiscono sulla motivazione.

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Gli ambiti in cui la relazione tra apprendimento e motivazione è più evidente sono
diversi. Uno è quello educativo, sia in famiglia che a scuola, in quanto l’apprendimento
Ambiti
consente di acquisire conoscenze e comportamenti e la motivazione facilita sia
applicativi di
compresenza
l’acquisizione che il mantenimento, rinforzando la perfomance e rendendola così più
della coppia frequente. In ambito clinico, le tecniche di apprendimento attraverso rinforzi o
di costrutti desensibilizzazione sono utilizzate nel trattamento di diversi disturbi come le fobie
specifiche, poiché con l’esposizione graduale allo stimolo fobico e un rinforzo degli
atteggiamenti funzionali e adattivi è possibile incoraggiare il paziente a modificare i
comportamenti inefficaci; anche in altri disturbi, le tecniche di apprendimento
comportamentiste consentono di motivare il paziente e rinforzare i progressi. In ambito
lavorativo, il lifelong learning pianifica l’apprendimento ma anche la progressione delle
carriere, che si effettua proprio attraverso l’acquisizione di nuove competenze, e il
soggetto è motivato a questo apprendimento sia estrinsecamente, dalla prospettiva di un
maggiore prestigio e guadagno, sia intrinsecamente, per la propria crescita personale.

21. Emozione e cognizione (o “Emozione e pensiero” o “Sentimento e


ragionamento”)

Breve frase
Emozione e pensiero sono funzioni complesse, che sembrano opposte, in realtà si
introduttiva integrano e si rafforzano reciprocamente, anche interagendo con ulteriori funzioni come
motivazione, apprendimento, linguaggio.
Le emozioni sono esperienze soggettive complesse, accompagnate da
Definizione
modificazioni cognitive, comportamentali, espressive e fisiologiche, intense, ma
del primo
costrutto
generalmente di breve durata. Svolgono una funzione adattiva, in quanto costituiscono
una risposta immediata ad una sollecitazione ambientale. Ogni componente della risposta
emozionale interagisce con le altre ed è funzionale ad un obiettivo: la componente
cognitiva consente di valutare lo stimolo, l’attivazione fisiologica predispone
l’organismo ad affrontare la situazione, la componente espressiva modula l’esibizione
esterna dei vissuti provocati, infine la componente comportamentale, legata anche alle
motivazioni, induce l’organismo a reagire.
Il pensiero è l’attività mentale di elaborazione di informazioni, di riflessione, di
Definizione
sviluppo di relazioni tra dati. Il pensiero opera mediante concetti, cioè classificando la
del secondo
realtà e le esperienze. I concetti sono categorie che racchiudono oggetti o fenomeni
costrutto
simili, cioè che condividono attributi salienti. Secondo Bruner i concetti si ottengono

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attraverso un processo di astrazione e generalizzazione delle caratteristiche salienti di un
oggetto. Consentono quindi di semplificare la realtà, classificandola in base a pochi
indicatori rappresentativi. A questo proposito, la psicologa contemporanea Eleanor
Rosch ha elaborato il principio dell’ “economia cognitiva”, secondo il quale il pensiero
cerca di operare in modo efficiente, non moltiplicando i concetti e creandone uno per
ogni esemplare, ma servendosi dei concetti più inclusivi, più prototipici, per risparmiare
risorse.
Vi è una teoria in particolare che connette emozione e pensiero ed è la teoria
Scelta di un
modello
cognitivo-attivazionale Schachter e Schachter, detta anche “teoria dei due fattori”.
teorico e Secondo questa teoria, l’emozione risulta dall’interazione di due componenti: una di
trattazione natura fisiologica, costituita dall’attivazione diffusa del’organismo, cioè di
della teoria
un’eccitazione generalizzata ed emozionalmente non specifica, e l’altra componente di
con autori ed
natura psicologica, che consiste nel percepire lo stato di attivazione fisiologica e nel
esperimenti
ricollegarlo ad un evento che possa spiegarla e averla provocata. Queste componenti
sono necessarie, basilari, ma non sufficienti per produrre un’emozione: occorre infatti un
ulteriore intervento, di tipo cognitivo, costituito dal “labelling”, cioè dall’etichettamento
dell’esperienza emotiva effettuato attraverso un’elaborazione cognitiva di essa, un
ragionamento, un’attribuzione causale. L’emozione è dunque l’atto finale di un lungo e
articolato processo di percezione e interpretazione dello stato dell’organismo e anche del
contesto esterno con cui interagisce.
L’emozione presuppone dunque una valutazione, un monitoraggio dell’azione, una
regolazione della relazione tra organismo e ambiente, dunque, si configura come un
processo integrato e in parte controllato, piuttosto che come un’eccitazione caotica,
irrazionale e imprevista come presuppone il senso comune. Le emozioni non sono infatti
“turbolenze intercorrenti” dell’esperienza individuale, ma fenomeni costanti che
accompagnano ogni momento dell’esperienza personale e svolgono una funzione
adattiva.
Schachter trasse anche una conclusione da questa teoria: se ad un soggetto viene
provocata artificialmente un’attivazione fisiologica (arousal), ad esempio
somministrando a sua insaputa una sostanza chimica eccitatoria, e poi egli viene indotto
a collegare questa esperienza ad una situazione emotivamente pertinente, la sua reazione
sarà emotiva, nonostante appunto la causa dell’attivazione fisiologica sia artificiale. Per
spiegare meglio e avvalorare questa affermazione, egli ha compiuto un esperimento.
Ha somministrato ai soggetti dell’esperimento epinefrina per 20 minuti, una

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sostanza che stimola reazioni autonome simpatico-mimetiche come aumento della
pressione arteriosa, del battito cardiaco e della frequenza respiratoria. I soggetti sono stati
divisi in tre gruppi: ad un gruppo sono state date spiegazioni corrette, dicendo appunto
che quello stato eccitatorio era dovuto all’epinefrina; ad un altro gruppo fu data una
spiegazione erronea: ad un altro gruppo non venne data alcuna spiegazione.
Successivamente, i soggetti sono stati portati in diversi ambienti per compilare un
questionario di autovalutazione. In un ambiente era presente un complice dello
sperimentatore, che mostrava un atteggiamento molto euforico; in un altro il complice
mostrava un atteggiamento autoritario, aggressivo e frustrante. I soggetti del gruppo che
non avevano ricevuto spiegazioni, si fecero influenzare dal contesto per valutare la loro
attivazione fisiologica: quelli a fianco dello sperimentatore euforico, riferirono
contentezza; quelli a fianco dello sperimentatore frustrante, mostrarono collera. Non
basta dunque l’attivazione fisiologica per provocare un’emozione: interviene anche il
pensiero, che raccoglie indizi dal contesto e si fa influenzare dal contesto per etichettare e
spiegare l’esperienza fisiologica, dando così all’emozione un nome coerente con il
contesto, condizionato da esso. Tuttavia, ricerche successive non hanno confermato
completamente questo risultato o l’hanno confermato solo in parte. Se poi l’arousal
rimane inspiegato, non ha un effetto neutro, ma genera emozioni negative come ansia e
paura.
Strumenti che Per quanto riguarda gli strumenti, ve ne sono alcuni che esplorano
indagano contemporaneamente sia cognizioni che emozioni, oltre ad altri costrutti. Due esempi
entrambe i
utilizzati in ambito scolastico sono: il Questionario Metacognitivo sul Metodo di Studio
costrutti
di Cornoldi, che analizza le componenti emotive, motivazionali, strategiche dell’attività
cognitiva e dell’apprendimento: il Test AMOS - Abilità e motivazione allo studio, che
valuta le strategie di apprendimento, gli stili cognitivi, le credenze cognitive.
Ambiti I contesti in cui questa coppia di costrutti è compresente sono molteplici. Uno è
applicativi di
proprio quello scolastico, in quanto l’apprendimento risente sia delle funzioni cognitive,
compresenza
come la memoria, l’attenzione, il linguaggio, l’elaborazione dei dati, sia di componenti
della coppia
di costrutti
emotive, come la paura dell’interrogazione, l’ansia da prestazione, che in una quota
media possono migliorare la prestazione, ma in misura eccessivamente alta o
eccessivamente bassa, perturbano l’esecuzione del compito e la peggiorano, come
riportato da Yerkes e Dodson.
Un altro ambito è quello clinico, poiché intraprendere un percorso di sostegno
psicologico o di psicoterapia richiede sia un’attivazione cognitiva e linguistica, in quanto

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il paziente verbalizza i vissuti, riflette, rielabora, sia una partecipazione emotiva, anche
perché la stessa relazione con il professionista attiva diverse emozioni e spesso riattiva
quelle vissute con le figure genitoriali, come sostiene la psicoanalisi con il transfert.
Un altro contesto è quello lavorativo, soprattutto per professionisti a contatto
diretto con un’utenza, specie se disagiata, come educatori, assistenti sociali, infermieri.
Queste categorie devono attivare processi di pensiero e di ragionamento per svolgere con
attenzione le loro mansioni, ma sono anche emotivamente molto coinvolte nel loro
lavoro, e devono sempre tenere equilibrati gli aspetti cognitivi ed emotivi, per non
rischiare il burn-out, una condizione di stress psicofisico, di esaurimento emotivo e
demotivazione, che danneggia loro stessi e la loro utenza.

22. Emozioni e memoria

NB: questo tema può essere impostato anche parlando del trauma e del
disturbo post-traumatico da stress, così come è trattato nel manuale sul progetto
(quello per la seconda prova). Qui viene fornita una trattazione basata invece sulla
psicologia della testimonianza.

Breve frase
Emozione e memoria sono funzioni complesse, che sembrano opposte, perché una
introduttiva rinvia ad una dimensione affettiva, l’altra ad una dimensione cognitiva, in realtà si
integrano e si rafforzano reciprocamente, anche interagendo con ulteriori processi come
motivazione, apprendimento, linguaggio.
Definizione
Le emozioni sono esperienze soggettive complesse, accompagnate da
del primo
costrutto
modificazioni cognitive, comportamentali, espressive e fisiologiche, intense, ma
generalmente di breve durata. Svolgono una funzione adattiva, in quanto costituiscono
una risposta immediata ad una sollecitazione ambientale.
Ogni componente della risposta emozionale interagisce con le altre ed è funzionale
ad un obiettivo: la componente cognitiva consente di valutare lo stimolo, l’attivazione
fisiologica predispone l’organismo ad affrontare la situazione, la componente espressiva
modula l’esibizione esterna dei vissuti provocati, infine la componente comportamentale,
legata anche alle motivazioni, induce l’organismo a reagire. L’emozione presuppone
dunque una valutazione, un monitoraggio dell’azione, una regolazione della relazione tra
organismo e ambiente, dunque, si configura come un processo integrato e in parte
controllato, piuttosto che come un’eccitazione caotica, irrazionale e imprevista come

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presuppone il senso comune. Le emozioni non sono infatti “turbolenze intercorrenti”
dell’esperienza individuale, ma fenomeni costanti che accompagnano ogni momento
dell’esperienza personale e svolgono una funzione adattiva.
La memoria non costituisce semplicemente un deposito di dati, ma è un complesso
Definizione processo di immagazzinamento, ritenzione e recupero di informazioni, che richiede
del secondo un’attiva rielaborazione e riconfigurazione dei contenuti piuttosto che una passiva
costrutto
ricezione di essi. Ciò implica che il contenuto recuperato sia una ricostruzione, piuttosto
che un’accurata e fedele rievocazione dell’informazione originaria.
Le connessioni tra memoria ed emozione sono presenti in diversi contesti, ad
esempio quello scolastico, poiché le dimensioni emotive influiscono sulle prestazioni
cognitive e mnemoniche, oppure nel contesto psicologico giuridico e in particolare nelle
teorie e negli esperimenti sulla psicologia della testimonianza.
La memorizzazione di un evento e la sua rievocazione in tribunale in funzione di
Scelta di un
modello
testimoni è un processo soggetto a deformazioni: infatti, al momento dell’accaduto, la
teorico e codifica può essere condizionata da aspettative, intenzioni, sesso del soggetto, emotività,
trattazione così il mantenimento del ricordo può dar luogo a rielaborazione, infine il momento della
della teoria
rievocazione può essere influenzato da timori, aspettative, pressioni dovute alla condotta
con autori ed
scorretta di un interrogante. Queste deformazioni entrano in atto dubito, infatti si è visto
esperimenti
come già due ore dopo un fatto criminoso, il ricordo di un testimone è già molto
approssimativo e le tracce sono già in decadimento. Così anche il riconoscimento di
criminali è soggetto a deformazioni, come avvenne per Sacco e Vanzetti, che furono
riconosciuti colpevoli da molte persone, ma in realtà perché erano volti noti che le
persone avevano già visto molte volte raffigurati, Infatti, si può individuare come
colpevole una persona che però la si è vista in un contesto diverso da quello criminoso.
In laboratorio sono stati compiuti test per misurare l’attendibilità dei testimoni,
oppure gli effetti dello stress sul ricordo e la rievocazione, gli effetti del clima
dell’interrogatorio, della formulazione delle domande che può essere suggestiva, i metodi
dell’interrogatorio (meglio una narrazione spontanea che domande dirette). Per una
testimonianza attendibile, è necessario un alto livello di attivazione e la riproposizione
del contesto, nonché l’uso del linguaggio sia della polizia che per prima interroga il
testimone, sia poi del giudice: spesso si rilevano “asserzioni implicative”, cioè domande
che, per come sono formulate, fanno presupporre come vero un fatto che in realtà non è
accaduto o sul cui accadimento ci sono dubbi.
Oppure, gli avvocati di parte possono “addestrare” il loro cliente e far assumere

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come vere delle prove che in realtà sono costruite. Oppure, le domande in aula possono
essere fuorvianti: ad esempio, se si chiede “ha visto un faro rotto?” oppure “hai visto il
faro rotto?”, nel secondo caso è più probabile che si risponda di sì.
Sono molto insidiose le domande che richiedono una scelta: “la giacca era nera o
marrone?” poiché il ricordo può essere sfumato e il testimone si sente costretto a
scegliere. Inoltre, il giudice che interroga può avere in mente una sua versione dei fatti e
raccogliere anche inconsapevolmente prove per confermarla. Sono preferibili domande
dirette e imparziali: “ci dica che aspetto avevano i due”, oppure “provi a ricordare se vi
erano altre persone”. I giudici spesso presuppongono che la memoria funzione molto
bene, abbi immagazzinato tutto e possa rievocarlo con accuratezza, non hanno un’idea
corretta di quante deformazioni e processi possono interferire, dunque lo psicologo
esperto della testimonianza deve illustrargli le ricerche a tal proposito e assisterlo nella
formulazione delle domande. Anche l’arousal, cioè l’attivazione fisiologica (battito
cardiaco per ansia, sudorazione, tremore, ecc) rende inattendibile la testimonianza. Sono
stati fatti esperimenti, il livello di attivazione più utile è raffigurato come una curva ad
“U”: se l’attivazione è troppo bassa o troppo alta, è devastante e impedisce una corretta
codifica degli eventi, mentre se è intermedia porta a testimonianza più affidabili. Chi ha
subito un trauma o ha assistito ad un crimine violento, spesso ha un’amnesia relativa a
tutto ciò che è accaduto immediatamente prima o dopo, a causa dello shock, dunque non
di dovrebbe assumere come affidabile la prima deposizione, quella successiva ai fatti,
come invece speso avviene.
Ciò accade soprattutto quando il testimone ha assistito ad una scena criminale in cui
si usava un’arma: l’arma catalizza su di sé l’attenzione e il timore per la propria
sopravvivenza rende molto nebuloso e inattendibile il ricordo. Ciò è stato dimostrato
anche con un esperimento con due gruppi che dovevano memorizzare una scena in cui il
proprietario di un fast food veniva minacciato con o senza pistola. Il gruppo che vedeva
la scena con pistola si focalizzava sull’arma e ciò è stato dimostrato registrando i loro
movimenti oculari. Al momento di riconoscere, tra una serie di volti e persone, quello del
criminale, come accade nei confronti “all’americana” (detti line-up) questo gruppo ebbe
la prestazione peggiore. La presenza di un’arma ostacola la percezione del volto del
criminale: l’arma attrae potentemente l’attenzione, anche se i soggetti venivano invitati a
osservare altri particolari.
Si è ripetuto l’esperimento “minacciando” i soggetti direttamente: infatti in un
esperimento, Maas e Kohnken convocarono soggetti dicendo di farli partecipare ad un

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esperimento su sport e benessere psicologico e vennero lasciati soli in una stanza. Lì
venne fatto entrare un medico con una siringa contenente un liquido che con aria
aggressiva voleva fargli fare una puntura. La siringa catalizzò verso di essa l’attenzione, i
soggetti poi interrogati ricordavano poco il volto del medico e di più i particolari delle
sue mani. Inoltre, si è rilevato un effetto dovuto al pregiudizio razziale, per cui si
riconoscono più frequentemente criminali se le persone mostrate sono neri.
Per quanto riguarda gli strumenti che indagano entrambe i costrutti, riguardo
Strumenti che
all’ambito giuridico, non vi sono veri e propri test, ma procedure di valutazione, perizie
indagano
entrambe i
complesse che prevedono colloqui, test di personalità, test che valutano le funzioni
costrutti specifiche e che, insieme, consentono di stilare un profilo e valutare l’attendibilità di un
testimone, anche se essa difficilmente può essere accertata al 100%. In altri ambiti, come
quello scolastico, uno strumento che indaga contemporaneamente memoria ed emozioni
è il Questionario Metacognitivo sul Metodo di Studio di Cornoldi, che analizza le
componenti emotive, motivazionali, strategiche dell’attività cognitiva e
dell’apprendimento.
Ambiti Altri contesti di applicazione sono quelli clinici, poiché disturbi della memoria
applicativi di
possono provocare un abbassamento dell’autostima o dell’autoefficacia e provocare
compresenza
dunque problemi emotivi, o viceversa, disturbi emotivi possono interferire con le
della coppia
di costrutti
prestazioni mnemoniche. Ad esempio, nella depressione senile, l’umore triste e la perdita
di interessi può riflettersi sulla memoria e provocare un decadimento che può essere
erroneamente interpretato come principio di una demenza come l’Alzheimer, mentre
può essere dovuto proprio alla depressione.
Un altro contesto è quello lavorativo, in particolare nelle professioni intellettuali e
manageriali, poiché le pressioni per il raggiungimento di obiettivi possono provocare
un’iperattivazione nei professionisti che altera la valutazione delle informazioni e
interferisce con il loro utilizzo e la loro rievocazione per le negoziazioni, le decisioni e le
altre attività cognitive e mnemoniche in cui essi sono impegnati.
Anche nello studio dei traumi son importanti le connessioni tra emozioni e memoria,
poiché il trauma è così intenso e sconvolgente emotivamente che destabilizza anche le
funzioni cognitive, impedendo di rievocare l’evento e di integrarlo nelle memorie
personali e causando una memorizzazione frammentata che richiede di essere
riorganizzata per poter affrontare e superare questa esperienza.

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23. Pensiero e linguaggio

Pensiero e linguaggio sono funzioni complesse, che interagiscono e si influenzano

Breve
reciprocamente.
introduzione Il pensiero è l’attività mentale di elaborazione di informazioni, di riflessione, di
sviluppo di relazioni tra dati. Il pensiero opera mediante concetti, cioè classificando la
Definizione
realtà e le esperienze. A questo proposito, la psicologa contemporanea Eleanor Rosch ha
del primo
elaborato il principio dell’ “economia cognitiva”, secondo il quale il pensiero cerca di
costrutto
operare in modo efficiente, non moltiplicando i concetti e creandone uno per ogni
esemplare, ma servendosi dei concetti più inclusivi, più prototipici, per risparmiare
risorse.
Il linguaggio è una competenza distintiva della specie umana, consiste nella capacità
Definizione
di associare suoni e significati mediante regole grammaticali ed è fondato su una
del primo
costrutto
relazione convenzionale, cioè stabilita dagli uomini, tra parole e realtà. Le parole
costituiscono la struttura superficiale del linguaggio, cioè l’insieme degli elementi che si
utilizzano per costruire frasi e discorsi pronunciabili o esprimibili per iscritto, dunque
visibili o udibili. Il loro significato costituisce, invece, la struttura profonda, invisibile e
astratta.
La relazione tra pensiero e linguaggio è stata studiata da diversi autori. Secondo
Panoramica Vygotsky, per quanto riguarda l’acquisizione del linguaggio, essa avviene per
degli autori interiorizzazione, poiché inizialmente il bambino ascolta gli altri, comprende i loro
che hanno
discorsi e si sforza di appropriarsi delle parole e delle espressioni che usano per
analizzato la
comunicare e interagire a sua volta: il linguaggio inizialmente è sociale ed è uno
relazione tra i
due costrutti
strumento di comunicazione. Gradualmente, il linguaggio diventa silenzioso, si
interiorizza e diviene pensiero vero e proprio: il linguaggio cioè viene pronunciato solo
mentalmente e supporta le attività psichiche come memoria, attenzione, ragionamento.
Secondo Vygotsky dunque, il linguaggio è una competenza sociale, che viene
interiorizzata. Invece, secondo Piaget, psicologo ed epistemologo, è una competenza
interiore, che viene socializzata. Piaget ipotizza dunque un percorso inverso, dall’interno
all’esterno. Un altro studioso, B. Whorf, formula l’ipotesi della relatività linguistica,
secondo cui il linguaggio condiziona la percezione della realtà di un individuo e di tutto
un popolo. Ad esempio, il popolo eschimese possiede centinaia di parole per indicare la
neve, poiché è a contatto con essa e riesce a coglierne tutte le sfumature e a distinguere
una neve più soffice, più bianca, ecc. Il lessico di un popolo rispecchia dunque

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
l’esperienza che ha quel popolo della realtà, i suoi modi di ragionare, i costrutti che
utilizza per interpretare il mondo. Questa ipotesi è stata poi respinta nella sua forma
originale assoluta e accettata nella versione debole, che riconosceva un’influenza, ma
non determinante, né assoluta, né totale, della lingua nel concettualizzare la realtà.
Un altro autore, Bruner, ha formulato una teoria che include pensiero e linguaggio.
Bruner approfondisce la tesi di Vygotsky, secondo cui l’apprendimento e l’acquisizione
Teoria che
di competenze avviene interiorizzando funzioni sociali e appropriandosi di concetti e
ingloba i due
strumenti presenti nell’ambiente sociale e culturale. Bruner riformula questo processo,
costrutti
specificando che consiste in un “prestito di coscienza” dalla persona più competente al
soggetto che impara: un esempio è l’acquisizione del linguaggio, che avviene
mimeticamente, assorbendo le parole e le modalità di comunicazione delle persone con
cui si interagisce o degli strumenti che si utilizzano.
L’apprendimento graduale di strutture sempre più complesse consente al bambino e
all’adulto di uscire dall’egocentrismo: a differenza di Piaget, che considerava
l’egocentrismo una caratteristica del pensiero infantile, Bruner lo estende anche agli
adulti poiché lo fa dipendere non dall’età, ma dalle esperienze e dagli apprendimenti
acquisiti. In ogni periodo della vita si può essere incapaci di assumere il punto di vista di
un altro e di collocarsi in una visuale differente per osservare un fenomeno, e si rimane
imprigionati nelle proprie opinioni: l’arricchimento strumentale e concettuale che
avviene attraverso l’apprendimento offre invece ulteriore materiale per rivedere i propri
schemi e renderli flessibili.
Bruner approfondisce la natura dei processi cognitivi e dei risultati
dell’apprendimento identificandoli nei concetti, che sono gli elementi base di ogni
processo cognitivo, della memoria, dell’apprendimento, della pianificazione del
comportamento, della presa di decisione. I concetti sono categorie che racchiudono
oggetti o fenomeni simili, cioè che condividono attributi salienti.
Ad esempio, il concetto di “casa” comprende diverse tipologie di case, sia le ville,
che gli appartamenti condominiali, che le baite di montagna, poiché pur differenziandosi
nelle dimensioni o nell’aspetto esteriore, sono tutte strutture in cui si abita. Oltre agli
attributi salienti, detti anche ricorrenti, vi sono attributi irrilevanti, come il fatto di avere
il giardino, il doppio bagno o il garage.
Secondo Bruner i concetti si ottengono attraverso un processo di astrazione e
generalizzazione delle caratteristiche salienti, processo che però risulta impegnativo e
non sempre chiaro. Anche l’inclusione di un oggetto nel relativo concetto può risultare

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
faticosa: non tutti i fenomeni hanno contorni netti, caratteristiche salienti subito
rilevabili, anzi possono risultare ambigui o incomprensibili e il soggetto può non disporre
di un concetto con cui classificarlo.
L’istruzione allarga la mente differenziando e moltiplicando i concetti a
disposizione, per comprendere e padroneggiare più aspetti della realtà: chi acquisisce più
concetti, si esprime con più ricchezza e pianifica con più razionalità il comportamento.
Bruner considera infatti il linguaggio come il sistema simbolico più efficace, che
offre il supporto più funzionale al pensiero: il linguaggio è “amplificatore” del pensiero e
del comportamento, poiché moltiplica le possibilità di comprendere a realtà, di ordinare
una sequenza di comportamento oltre che di interagire.
Per quanto riguarda il comportamento, il sostegno offerto dal linguaggio è evidente
sin dalla fanciullezza, quando il bambino descrive ad alta voce le azioni che compie, per
avere più chiara la sequenza dei movimenti. Poi questa descrizione viene svolta
mentalmente. Per quanto riguarda le interazioni, la maggior parte di esse sono mediate
proprio dal linguaggio poiché avvengono mediante discorsi: gli adulti raccontano storie
dotate di un inizio, uno svolgimento e una fine, riflettono sugli epiloghi, verbalizzano
sentimenti. La narrazione struttura l’identità, permette di stabilire relazioni, dà forma al
pensiero e organizza il comportamento. Per questo, secondo Bruner vi è uno stretto
legame tra pensiero, linguaggio e comportamento.
Uno strumento che valuta sia pensiero che linguaggio è la Wais, un test di
Strumenti di intelligenza che incluse sia prove di vocabolario, sia prove di ragionamento.
valutazione
Gli strumenti per la valutazione del linguaggio molto utilizzati sono: il questionario
dei due
sullo sviluppo comunicativo e linguistico dal II anno di vita, utile in età evolutiva per
costrutti
valutare lo sviluppo delle competenze del bambino; le prove di comprensione di
Rustioni; il TVL, Test di valutazione linguistica di Cianchetti e Faciello; il Test di
Fluenza Verbale, incluso nella batteria di valutazione delle afasie, per una rapida
valutazione della capacità di evocazione di parole. Gli strumenti utilizzati per valutare il
pensiero sono di tipo quantitativo e qualitativo. Ad esempio, il test Wais include alcuni
item che esplorano le modalità di svolgimento di alcune operazioni di pensiero e
forniscono un confronto tra la prestazione del soggetto e quella del campione di
riferimento, invece l’Echelle de développement de la pensée logique è ispirata agli stadi
cognitivi piagettiani e individua il livello di sviluppo cognitivo raggiunto, indicando le
operazioni mentali prevalenti.
Pensiero e linguaggio sono compresenti in diversi ambiti applicativi. Ad esempio,

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
l’ambito educativo e scolastico, poiché nelle attività di apprendimento sono coinvolti sia
Ambiti di
processi linguistici, di ricezione e produzione orale e scritta, sia processi di pensiero,
applicazione
ragionamento, elaborazione delle informazioni. Anche in ambito lavorativo, soprattutto
dei due
costrutti
nelle professioni intellettuali, sono coinvolti processi di interazione, linguaggio e
pensiero, per l’elaborazione delle informazioni, la presa di decisione e il problem-
solving. Anche in ambito clinico, nei setting di sostegno o di psicoterapia, intervengono
in modo simultaneo il linguaggio e il pensiero, l’espressione di sé e l’elaborazione della
propria esperienza.

Ps: per svolgere questo tema si può utilizzare anche Vygotsky oppure Piaget.

24. Motivazioni ed emozioni

Motivazioni ed emozioni sono due costrutti complessi, che si influenzano


Breve reciprocamente.
introduzione La motivazione è il “movente” del comportamento, la causa che determina una
reazione o una scelta, la spinta a compiere un’azione per raggiungere un obiettivo. I
Definizione
comportamenti sono innescati da motivazioni spesso inconsce e sovradeterminate: non è
del primo
costrutto
possibile isolare un solo elemento, ragionando secondo una logica lineare di causa-
effetto, poiché sono sempre numerosi, diversi e interconnessi i fattori che spingono ad
un’azione anche semplice.
Le emozioni sono esperienze soggettive complesse, accompagnate da
modificazioni cognitive, comportamentali, espressive e fisiologiche, intense, ma
Definizione
del primo
generalmente di breve durata. Svolgono una funzione adattiva, in quanto costituiscono
costrutto una risposta immediata ad una sollecitazione ambientale.
Dunque, la motivazione spiega soprattutto il perché di un’azione, indicando la
direzione verso cui è orientata, invece l’emozione descrive soprattutto il come, cioè la
modalità e l’intensità con cui l’azione viene compiuta, indicando i cambiamenti
fisiologici, psicologici e comportamentali che si registrano.
Storicamente, infatti i due costrutti erano considerati opposti, poiché mentre la
motivazione è logica, scaturisce da una scelta e si accompagna alla pianificazione del
comportamento, l’emozione irrompe improvvisamente, sconvolgendo le condizioni
dell’organismo e spingendolo ad un’azione impulsiva. Dunque, mentre la motivazione
era ritenuta una “eccitazione disorganizzata”, un piano di azione funzionale ad un

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obiettivo, l’emozione era vista come una “eccitazione disorganizzata”, improvvisa,
intensa, rapida, ma poco coordinata. Questa opposizione non ha però ricevuto
fondamento scientifico, anzi sono state elaborate teorie che inglobano entrambe i

Teoria che
costrutti, evidenziandone la reciproca interazione. Una di queste teorie è stata formulata
ingloba i due da Ricci Bitti e Caterina. Il loro modello non isola motivazione ed emozione ma
costrutti presuppone un unico sistema motivazionale-cognitivo-emotivo, che presiede alla
valutazione cognitiva dell’antecedente situazionale, all’attivazione di un organismo per
rispondere allo stimolo e alla modulazione della risposta in base alle caratteristiche
personali del soggetto. Questo sistema presiede dunque al comportamento, regolandone i
vari aspetti: il movente che spinge ad un’azione, la modulazione dell’intensità emotiva,
la tipologia della risposta. Dunque i processi emotivi e motivazionali sono visti in modo
molto interconnesso.
Questo sistema agisce a tre livelli gerarchici. A livello filogenetico, perché ogni
specie è dotata di un repertorio di risposte costituite da elementi emotivi e
comportamentali, sia essa una specie animale, oppure animali che vivono in gruppi
oppure la specie umana. A livello ontogenetico, poiché ciascuno, crescendo, sviluppa dei
pattern personali di reazione agli eventi, possiede istinti primitivi, motivazioni primarie e
infine motivazioni secondarie derivate dalla cultura, dall’esperienza e dalla
socializzazione. Infine a livello situazionale, nel senso che di volta in volta vengono
dosati i vari ingredienti dell’esperienza: a volte si reagisce in modo più istintivo, a volte
esprimendo emozioni primarie, altre volte emozioni secondarie “sociali”.
I metodi per lo studio delle emozioni si sono soffermati soprattutto sull’analisi
delle espressioni facciali e possono essere ricondotti essenzialmente a due tipi: metodo
Strumenti di
valutazione
delle componenti e metodo del giudizio (o riconoscimento). Nel primo metodo di cerca
dei due di individuare in modo analitico i movimenti mimici che contribuiscono a determinare
costrutti una certa espressione; nel metodo del riconoscimento si sottopone alla valutazione di
“giudici” una espressione emozionale per ottenere da essi l’interpretazione e il
riconoscimento della emozione manifestata. Fra i metodi analitici, il più noto è il FACS
(Facial Action Coding System) realizzato proprio da Ekman e Friesen (1978).
Gli strumenti per valutare le motivazioni sono il Test di Appercezione Tematica di
Murray, di ambito psicodinamico, che attraverso tavole raffiguranti soggetti fa emergere
le motivazioni profonde; lo SDI (Storie da Inventare), anch’esso proiettivo, utilizzato
soprattutto con i bambini; i metodi statistici di Cattell, che si serve dell’analisi fattoriale
per l’estrazione delle dimensioni in grado di spiegare la maggior quantità di varianza in

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un dato insieme di misurazioni. In ambito scolastico, si utilizza il Questionario
Metacognitivo sul Metodo di Studio di Cornoldi, che esplora la motivazione nello studio.
Emozioni e motivazione sono compresenti in diversi ambiti. In ambito scolastico,

Ambiti di
poiché l’apprendimento è influenzato da componenti motivazioni, in particolare facilitato
applicazione da obiettivi di competenza piuttosto che di prestazione, e da componenti emotive, come
dei due la gestione dell’ansia, che se non controllata può interferire con la prestazione. Oppure,
costrutti
sono compresenti in ambito lavorativo, poiché anche nella scelta professionale o nello
svolgimento delle mansioni produttive intervengono fattori motivazionali ed emotivi,
come il desiderio di fare carriera, di aquisire identità e prestigio insieme però alla paura,
alla rabbia, alla frustrazione e all’insicurezza che si possono sperimentare in contesti
lavorativi, soprattutto se precari. Oppure, sono evidenti in ambito clinico, dove per
intraprendere un percorso psicoterapeutico di elaborazione delle proprie emozioni
occorre una forte motivazione che aiuta a tollerare le possibili frustrazioni, a saper
costruire pazientemente i risultati e modificare in modo stabile le proprie modalità
disadattive.

C) Temi di Psicologia dello Sviluppo

25. Sviluppo cognitivo

Lo sviluppo cognitivo è la sequenza di cambiamenti che si verificano nelle capacità


Definizione
di processamento dell’informazione e di acquisizione di conoscenza attraverso
l’esperienza: partendo da un determinato livello, attraverso l’interazione tra potenzialità
genetiche e stimolazione ambientale, si accede ad un livello di superiore, che include
nuove operazioni mentali differenti quantitativamente o qualitativamente da quelle dei
livelli precedenti.
Lo studioso che ha maggiormente approfondito le tappe dello sviluppo cognitivo è il
Teoria
ginevrino Piaget: egli è un biologo ed epistemologo e sottolinea la specificità della sua
approfondita
(con autori,
preparazione collegando le fasi dello sviluppo biologico con le tappe di acquisizione
esperimenti, della capacità logica. Fonda, infatti, una nuova disciplina, l “epistemologia genetica”, che
ecc.) studia le connessione tra dotazione genetica e sviluppo cognitivo. Le tappe cognitive che
caratterizzano lo sviluppo individuale (“ontogenesi”) rispecchiano le tappe seguite dallo
sviluppo dell’intera umanità: dunque l’ontogenesi ricapitola la filogenesi.
La maturazione dell’organismo e del sistema nervoso è condizione per l’emergere di

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strutture cognitive sempre più evolute. La loro comparsa segue degli stadi,
corrispondenti a specifici intervalli di età e a corrispondenti strutture cognitive. I metodi
utilizzati per studiare la successione degli stadi sono stati: l’osservazione, il colloquio
clinico e il metodo clinico, che consisteva nell’impegnare il bambino in determinati
compiti con materiale malleabile o che attraeva il suo interesse, per far sì che producesse
un determinato comportamento rivelatore della presenza di uno stadio di sviluppo.
Piaget inizia osservando come il bambino sia un “esploratore”, un soggetto attivo,
che osserva l’ambiente e cerca di farne esperienza. L’interazione tra il bambino e
l’ambiente comporta due processi: l’assimilazione e l’accomodamento. L’assimilazione è
il processo mediante il quale le nuove esperienze e le nuove informazioni vengono
selezionate e modificate per adattarle a quelle già in proprio possesso. L’accomodamento
è il processo opposto, di acquisizione di nuove conoscenze ed esperienze che modificano
gli schemi fino ad allora posseduti ed utilizzati. Il bambino dunque ricava dall’esperienza
nuovi contenuti che include nelle categorie già possedute, se invece non vi rientrano, ne
crea di nuove. Ciò equivale anche a dire che, attraverso l’esperienza, il bambino crea
nuovi schemi mentali, da applicare alle esperienze successive, da cui però può trarre
nuovi elementi che agiscono su quegli schemi e li modificano. Vi è dunque un’influenza
costanze e circolare, un dialogo, una dialettica tra il bambino e l’ambiente. L’intelligenza
rappresenta la forma più elevata di adattamento dell’uomo all’ambiente, un equilibrio
riuscito tra assimilazione e accomodamento.
Secondo Piaget, lo sviluppo cognitivo avviene per stadi: ha un carattere lineare e
progressivo, in quanto procede da modalità di pensiero semplici e concrete a modalità
gradualmente più complesse e astratte.
I quattro stadi dello sviluppo cognitivo del bambino sono: Stadio senso-motorio (0-2
anni), Stadio pre-operatorio (2-6 anni), Stadio operatorio concreto (6-12 anni), Stadio
operatorio formale (da 12 anni in poi)
Lo Stadio sensomotorio (0-2 anni) è suddiviso in 6 sottostadi.
1) Riflessi innati: dalla nascita a 1 mese. Il bambino, alla nascita, non agisce sulla
realtà, ma si aspetta che la realtà intervenga a soddisfare i suoi bisogni, attende che il
quadro visivo desiderato si materializzi ad ogni suo richiamo. Si esprime mediante
reazioni innate: pianto, suzione, vocalizzo. L’esercizio frequente di questi riflessi, in
risposta a stimoli provenienti dall’organismo o dall’ambiente, conduce all’instaurarsi di
“abitudini”.
2) Reazioni circolari primarie: da 2 a 4 mesi. Si verifica un passaggio dal

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comportamento reattivo a quello intenzionale: casualmente può accadere di far cadere un
oggetto, provocando un rumore, e questo effetto stupisce il bambino, che si scopre
“agente”, cioè causa di un’azione, dunque inizia a ripeterla, ad esempio gettando
ripetutamente i giocattoli che la madre gli porge: si innesca un circolo di lancio di
oggetti, raccolta da parte della madre, nuovo lancio da parte del bambino, per il piacere
di essere causa. Grazie alla ripetizione, l’azione originaria si consolida e diventa uno
schema che il bambino è capace di eseguire anche in altre circostanze.
3) Reazioni circolari secondarie: da 4 a 8 mesi. Il bambino dirige la sua attenzione al
mondo esterno oltre che al proprio corpo: ora prende l’iniziativa, segue gli oggetti con lo
sguardo, si sforza di afferrarli.
4) Coordinazione mezzi-fini: da 8 al 12 mesi. Il bambino, che dapprima eseguiva
schemi d’azione isolati, adesso li coordina, formando sequenze d’azione più complesse.
Ad esempio, tirare via una coperta per prendere il giocattolo sottostante. In questo modo,
inizia a servirsi di mezzi per raggiungere uno scopo. Iniziano a comparire anche i gesti
deittici, con cui il bambino indica all’adulto un oggetto lontano per farselo consegnare.
5) Reazioni circolari terziarie: da 12 a 18 mesi.
Il bambino inizia a variare le modalità di raggiungere uno scopo, inizia a risolvere
problemi mediante “prove ed errori”, corregge e adatta le sequenze d’azione avviate se
non risultano efficaci.
6) Comparsa della funzione simbolica: dai 18 mesi in poi.
Il bambino passa dalle azioni manifeste alle rappresentazioni mentali: il bambino,
prima dei due anni, non ha rappresentazioni mentali degli oggetti, la sua conoscenza è
legata solo a ciò che egli fa e percepisce attraverso i sensi. Pensa che un oggetto cessi di
esistere quando scompare alla sua vista, in quanto ancora non è capace di raffigurarsi
internamente l’oggetto e pensarlo anche quando è materialmente assente.
La capacità di rappresentazione interna della realtà, fondata sulla comprensione che
l’oggetto continua ad esistere anche oltre il tempo in cui lo si percepisce, è definita
“permanenza dell’oggetto” e compare verso di due anni.
Il passaggio dallo stadio senso-motorio allo stadio pre-operatorio (2-6 anni) è sancito
dall’acquisizione delle rappresentazioni mentali: il bambino è in grado di raffigurarsi
mentalmente un oggetto, anche quando non è presente alla sua vista. È in grado infatti di
sostituirlo con l’immagine mentale di esso, cioè con il simbolo, che consiste
nell’interiorizzazione dell’oggetto o di un’azione.
Gli indici che dimostrano l’accesso alla dimensione simbolica sono l’imitazione

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
differita, il gioco simbolico e il linguaggio. L’imitazione differita è l’esecuzione di un
comportamento che il bambino ha precedentemente osservato e che è in grado di
mantenere in memoria e di riprodurre a distanza di tempo; il gioco simbolico consiste
nell’assegnare a oggetti comuni funzioni immaginarie, come far finta che una foglia
galleggiante sia una nave, mettere in fila le sedie come a formare un treno e guidarlo,
cucinare con ingredienti immaginari, ecc. Attraverso la drammatizzazione di situazioni e
oggetti, il bambino dimostra di costruire una realtà alternativa a quella concretamente
percepita; il linguaggio è infine un insieme di simboli, uno strumento di rappresentazione
della realtà e di presentificazione di oggetti e persone assenti.
La mente del bambino nello stadio pre-operatorio riesce tuttavia a focalizzarsi solo
su un singolo dato alla volta e un singolo aspetto della realtà. Il bambino ha un pensiero
egocentrico, in quanto riesce a valutare la realtà soltanto dal suo punto di vista. Ciò è
stato confermato da diversi esperimenti condotti da Piaget, come l’ “esperimento delle tre
montagne”: il bambino viene posto di fronte ad un plastico di tre montagne che
differiscono per qualche particolare (ad esempio aventi sulla cima, rispettivamente, una
croce, una casetta, della neve) e viene collocata una bambola in una certa posizione.
Al bambino viene presentato un gruppo di illustrazioni che raffigurano come si vede
il plastico da diverse angolature e gli viene chiesto di scegliere quella che rappresenta ciò
che vede la bambola. Da ripetute prove è risultato che la maggioranza dei bambini sotto
ai 6-7 anni sceglie il proprio punto di vista e continua a non saper rispondere
correttamente anche ad 8-9 anni. Il superamento dell’egocentrismo cognitivo avviene
attraverso le esperienze sociali che sviluppano la capacità di cooperare con gli altri.
Un’altra caratteristica del suo pensiero è l’animismo: il bambino ipotizza
connessioni magico-fenomeniche tra gli eventi, ad esempio non distingue la realtà dalla
fantasia, crede a poteri e forze magiche, ha una causalità rudimentale e irrazionale. Il
bambino ha un pensiero unidirezionale e irreversibile in quanto coglie, nella realtà, gli
aspetti percettivamente più rilevanti, come quelli materiali quali la grandezza o l’altezza,
mentre pone in secondo piano gli aspetti logici. Ad esempio, può attribuire ad una
persona un’età maggiore in base a quanto è alta. Questa rigidità ostacola la comprensione
di una proprietà degli oggetti, la conservazione, cioè la comprensione del fatto che alcune
caratteristiche fisiche di base di un oggetto, come la quantità, rimangono stabili anche se
l’oggetto cambia forma.
Anche ciò è stato confermato da diversi esperimenti di Piaget: prendendo una
quantità di plastilina e dandole una forma spessa e corta e poi una forma sottile e lunga,

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
quando chiedendo gli veniva chiesto quale delle due forme richiedesse più plastilina, il
bambino si faceva influenzare dalla lunghezza, non capendo che si trattata della stessa
quantità di plastilina; oppure, travasando l’acqua da un contenitore ad un altro di diversa
forma e chiedendo quale dei due contenitori avesse più acqua, benché l’acqua fosse stata
la stessa, il bambino si faceva influenzare dalla forma del contenitore, pensando che
quello basso e largo ne dovesse contenere di meno di quello alto e stretto.
Inoltre, il bambino coglie soltanto una relazione alla volta: se infatti si mostra una
sequenza di figure A, B e C, commentando che B è a destra di A e a sinistra di C, potrà
avere difficoltà a concepire come B possa stabilire contemporaneamente due relazioni
diverse con le figure ai suoi lati, poiché tende a concepirle come reciprocamente
escludentisi, come se un oggetto posto alla destra, non possa simultaneamente trovarsi
alla sinistra di un altro. Egli utilizza in modo rigido le analogie nel senso che generalizza
alcuni categorie includendovi anche elementi simili per pochi aspetti, ad esempio, può
chiamare “cane” qualsiasi animale con quattro zampe, oppure, avendo una pallina che
suona in quanto dotata di un sonaglio interno, si aspetta che tutte le palline suonino.
Possiede dunque una percezione della realtà semplificante.
Segue lo stadio operatorio-concreto (6-12 anni). La caratteristica principale del
pensiero operatorio-concreto è la reversibilità: ad ogni azione mentale ne corrisponde
una inversa e ciò consente di coordinare azioni e assumere diversi punti di vista.
Il pensiero si attrezza, dunque, per fronteggiate le nuove tipologie di compiti
richiesti al bambino e per affrontare i problemi che sorgono nei diversi contesti in cui il
vive: l’osservazione della realtà risente in misura minore di dettagli percettivi e risulta
capace di cogliere anche dettagli, senza lasciarsi guidare da analogie superficiali, di
considerare contemporaneamente più aspetti dello stesso problema, di categorizzare i
fenomeni con maggior precisione. Inoltre, il bambino coglie i rapporti spaziali: nei suoi
disegni introduce la prospettiva, cercando di conferire ad essi la dimensione della
profondità. Calcola tempi e distanze con maggior realismo. In sintesi, il diviene capace di
compiere azioni logiche mediante:
- la conservazione ossia la capacità di riconoscere le stesse quantità;
- la classificazione ossia la capacità di catalogare e raggruppare gli oggetti all’interno di
specifiche categorie;
- la seriazione, ossia la capacità di elencare gli elementi in ordine crescente o decrescente
(importante per sviluppare il concetto di numero);
- l’inferenza transitiva, operazione per cui se A è maggiore di B e B è maggiore di C, A è

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
maggiore di C;
- la numerazione, capacità che è dipendente dalla seriazione e dall’inferenza transitiva.
Segue lo Stadio operatorio-formale (dai 12 anni in poi). Il pensiero è ora diventato
ipotetico-deduttivo: l’adolescente è capace di pensare per ipotesi, riflettendo sui nessi di
causa-effetto, sulla logica implicita negli eventi oltre alla loro apparenza materiale,
considera simultaneamente vari aspetti di una situazione, concepisce possibilità, ragiona
in modo complesso, mediante principi, leggi generali, concetti astratti.
Famoso è l’”esperimento del pendolo”: al soggetto viene presentato un pendolo,
formato da una cordicella con un piccolo solido appeso. Il compito è di scoprire quali
fattori determinano la frequenza delle oscillazioni. Variando a suo piacere la lunghezza
della corda, il peso del solido, l’ampiezza di oscillazione, la spinta data al peso,
lavorando su tutte le combinazioni possibili in maniera logica e ordinata, il soggetto
arriverà a capire che la frequenza del pendolo dipende dalla lunghezza della sua
cordicella. L’adolescente possiede dunque capacità di astrazione, categorizzazione e
simbolizzazione della realtà molto sofisticate: si svincola dal pensiero concreto della
fanciullezza, centrato sul presente, ed allarga la prospettiva temporale, diventando capace
di elaborare il passato e di prefigurarsi il futuro.
Il modello di sviluppo delineato da Piaget è stato tuttavia criticato: innanzitutto
perché isola il bambino dal suo ambiente, trascurando i condizionamenti e gli stimoli che
riceve e che possono incidere sui tempi e le modalità di sviluppo; inoltre, il bambino è
visto come un “piccolo scienziato”, trascurando le dimensioni affettive e motivazionali
dello sviluppo. A questo proposito, gli esperimenti di Piaget sono stati replicati con
materiale più interessante per i bambini e simulazioni si situazioni più concrete e vicine
alla loro vita quotidiana ed i risultati sono stati differenti, per cui si ipotizza che molti
bambini abbiano fallito nei compiti proposti da Piaget non perché non possedessero
determinate strutture cognitive, ma perché la tipologia di compito risultata per loro molto
astratta e poco coinvolgente. Infine, sono stati avanzati modelli di sviluppo non studiali e
lineari, ma circolari: ad esempio, secondo Siegel, lo sviluppo cognitivo assumerebbe un
andamento sinusoidale, cioè ondulatorio e fluttuante, alternando innalzamenti e
abbassamenti. Il bambino potrebbe utilizzare strategie appartenenti a diversi stadi anche
nell’arco della stessa giornata, in base ala tipologia di compito richiesto, alla motivazione
nell’eseguirli, agli obiettivi da raggiungere. In alcune situazioni ricorre al pensiero
concreto, in altre si serve di ragionamenti logici.

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Lo strumento di valutazione dello sviluppo cognitivo, direttamente ispirato alla
Strumenti
teoria di Piaget e agli stadi da lui individuati, è l’Echelle de Development de la Pensee
Logique (EDPL), di Longeot, realizzata negli anni Settanta. E’ costituita da cinque prove
simili a quelle già previste da Piaget, come ad esempio le prove di conservazione e la
prova del pendolo. Ulteriori strumenti, anche se non ispirati a Piaget, sono: le Bayley
Scales III, che comprendono scale di Sviluppo Cognitivo, Linguistico, Motorio,
Socioemozionale e del Comportamento Adattivo.
Lo sviluppo cognitivo assume rilievo in numerosi ambiti, in particolare quello

Ambiti
dell’età evolutiva, poiché le teorie e gli strumenti consentono di monitorare lo sviluppo
applicativi di un bambino e confrontarlo con gli altri, eventualmente predisponendo interventi di
stimolazione. Anche la psicologia scolastica deve tener conto delle tappe di sviluppo, per
predisporre programmi che siano adeguati alle capacità di un bambino per ogni fascia di
età. La psicologia clinica dell’età evolutiva può servirsi di queste teorie per avere un
quadro qualitativo delle funzioni mentali, per non limitarsi alla misurazione statistica di
singole abilità oppure per valutare gli effetti di programmi di riabilitazione.

26. Sviluppo morale

Lo sviluppo morale consiste nel cambiamento dei criteri con cui il bambino giudica
Definizione un comportamento buono o cattivo.
Lo sviluppo morale è stato studiato in diversi ambiti: nella sociobiologia, si
riconduce il comportamento morale a motivazioni genetiche ed evoluzioniste, in ambito
comportamentista, si attribuisce all’apprendimento di modelli morali, in ambito
Sintesi dei
principali
psicoanalitico, il senso morale presuppone la strutturazione di un Io e di un Super-Io che
autori e teorie pongono limiti e prescrivono regole per gestire le pulsioni dell’Es. Anche Piaget studiò
di riferimento lo sviluppo morale e le sue osservazioni vennero riprese ed ampliate da Kohlberg.
Piaget distingue due fasi dello sviluppo morale: la morale eteronoma e quella
autonoma. La prima, chiamata da Piaget anche “realismo morale”, inizia intorno ai 5
anni, ed è caratterizzata da un assolutismo morale, per cui le regole sono assolute ed
Teoria immutabili, e da una giustizia immanente, secondo cui ad una infrazione segue sempre il
approfondita giusto castigo. Inoltre, il giudizio “buono-cattivo” è da lui considerato indipendente dalle
(con autori,
motivazioni: il bambino giudica, cioè, un comportamento in base ai vantaggi o agli
esperimenti,
svantaggi che produce, cioè giudica soltanto i fini, ma non i mezzi per raggiungerli.
ecc.)
Inoltre è motivato a compiere un’azione se questa viene premiata e ad evitarla se questa

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viene punita. Il bambino rapporta il comportamento a criteri esterni e non è in grado di
riflettere sul comportamento in sé, basandosi su indici esteriori e percettivamente più
evidenti piuttosto che sull’intenzionalità: ritiene più grave rompere 10 bicchieri per
errore piuttosto che uno intenzionalmente. Valuta le conseguenze, non le motivazioni.
Verso i 7 anni, inizia a svilupparsi una moralità diversa, definita “autonoma” o
“della reciprocità”. Le regole del gioco non sono più immutabili, purché tutti siano
d’accordo nel cambiarle: compaiono i giochi di regole, cioè giochi simbolici allargati,
dove ciascuno ha un ruolo, assegnato prima del gioco e dove tutti rispettano specifiche
regole, concordate tra i bambini stessi. Il bambino comincia a giudicare le azioni in base
alle motivazioni, non solo agli effetti.
Kohlberg invece suddivide lo sviluppo morale in 3 livelli: il livello pre-
convenzionale dai quattro ai dieci anni, il livello convenzionale dai dieci ai tredici anni, il
livello post-convenzionale dai tredici anni in poi.
Nel livello pre-convenzionale, il bambino non utilizza criteri strettamente morali, ma
giudica un comportamento in base ai vantaggi o agli svantaggi che produce, cioè giudica
soltanto i fini, ma non i mezzi per raggiungerli. Inoltre è motivato a compiere un’azione
se questa viene premiata e ad evitarla se questa viene punita. Rapporta il comportamento
a criteri esterni e non è in grado di riflettere sul comportamento in sé, basandosi su indici
esteriori e percettivamente più evidenti piuttosto che sull’intenzionalità: ritiene più grave
rompere 10 bicchieri per errore piuttosto che uno intenzionalmente. Valuta le
conseguenze, non le motivazioni.
Nel livello convenzionale, il bambino continua ad adeguarsi a criteri esterni e
stabiliti dagli altri e risente dell’autorevolezza di chi detta le regole: dà più valore a ciò
che impone un adulto più che un suo pari e ricorre all’autorità esterna per dirimere le
questioni tra pari.
Nel livello post-convenzionale, l’adolescente, capace di ragionamento astratto,
giudica i comportamenti in base a criteri ideali e universali, sui diritti umani, procedendo
anche oltre il piano legale, discutendo di principi generali, cogliendo eventuali
imparzialità e disuguaglianze dovute a normative e legislazioni specifiche.
Dagli studi di Kohlberg emerge che non tutti raggiungono lo stato post-
convenzionale. Lo sviluppo morale viene facilitato dai modelli di comportamento
presenti nell’ambiente di vita del bambino: egli infatti non è in grado di capire le
motivazioni di tutte le regole che deve rispettare e delle restrizioni che riceve ed impara il
comportamenti morali attraverso l’osservazione e l’imitazione.

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Per valutare lo sviluppo morale, può essere utile l’osservazione dei comportamenti
messi in atto dai bambini. Anche attraverso test proiettivi o grafici è possibile trarre
alcuni indicatori delle motivazioni sottostanti ai comportamenti, anche se devono essere
Strumenti
integrati da colloqui e osservazioni.
Conoscere le tappe dello sviluppo morale è utile in diversi ambiti applicativi.
Innanzitutto, nella psicologia dello sviluppo, per valutare come si rapporta lo sviluppo
morale allo sviluppo cognitivo, affettivo, sociale. Poi, nella psicopatologia dell’età
Ambiti
evolutiva, poiché in alcuni disturbi, come il disturbo della condotta, sembrano non essere
applicativi
presenti criteri di comportamento che presuppongono un senso morale, anzi il bambino
infrange principi etici ed esercita violenza. Lo stesso accade nella psicopatologia dell’età
adulta, nel disturbo antisociale di personalità. Anche in alcuni fenomeni come il
bullismo, si evince un’assenza del rispetto degli altri e del senso morale nei bambini
prevaricatori che vittimizzano i bambini più deboli.

27. Sviluppo emotivo

Lo sviluppo emotivo è un percorso di acquisizione e cambiamento di modalità di


espressione e di regolazione delle emozioni e di ampliamento del repertorio di emozioni
Definizione
provate. Esistono tre principali teorie sullo sviluppo emotivo del bambino: la teoria della
differenziazione, l’approccio differenziale, l’approccio funzionale.
Secondo la teoria della differenziazione, il neonato non prova emozioni specifiche e
distinguibili, ma uno stato globale di malessere o benessere, quindi alla nascita non ci
sarebbero configurazioni psicomotorie associate a ciascuna emozione, ma configurazioni
Sintesi dei
principali
generali, ampie, non corrispondenti a una precisa emozione. Soltanto con lo sviluppo, le
autori e teorie singole emozioni si differenziano rispetto ad uno sfondo omogeneo e ciascuna emozione
di riferimento si caratterizza per una specifica configurazione espressiva, comportamentale e
vegetativa. Invece secondo l’approccio differenziale, il neonato prova emozioni distinte
e specifiche sin dalla nascita, per cui è possibile distinguere la gioia il disgusto, la
tristezza, più tardi anche la paura e la rabbia. L’approccio funzionale consiste in una
sintesi delle due precedenti teorie e sostiene che il neonato provi emozioni distinte sin
dalla nascita, ma le configurazioni associate a ciascuna emozione sono ancora imperfette
e rudimentali, con lo sviluppo diventano più precise e differenziate.
Dagli anni’80, lo sviluppo emotivo è stato approfondito dall’Infant Research, che ha
analizzato lo sviluppo emotivo nei primi anni di vita ed ha sottolineato come le emozioni

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siano centrali nello sviluppo del Sé.
Le esperienze affettive strutturano l’identità del bambino: egli, infatti, interiorizza le
sensazioni provate nella relazione con la madre, memorizzandole, tanto che già durante il
Teoria
approfondita
primo anno di vita si forma prototipi di interazione, caratterizzati da specifici temi
(con autori, affettivi: come sostiene Emde, essi formano il nucleo affettivo del Sé e saranno
esperimenti, riutilizzati nelle successive esperienze di relazione. Attraverso il rispecchiamento e la
ecc.)
condivisione emotiva, la madre contribuisce a “validare” le emozioni del bambino, in
particolare quelle positive, che assumono un ruolo fondamentale nel suo sviluppo
psicologico: esse costituiscono un sistema separato rispetto alle emozioni di segno
negativo e si manifestano spontaneamente sin dalle prime settimane di vita, ad esempio
attraverso il “sorriso endogeno precoce”, che rivela la ricerca, da parte del bambino, di
emozioni positive sin dalle prime fasi del suo sviluppo.
Anche secondo Stern, le emozioni positive guidano ed organizzano l’esperienza
relazionale, poiché la madre si sintonizza con il bambino (attunement) e riecheggia le sue
espressioni di gioia attraverso canali comunicativi diversi da quelli utilizzati dal
bambino, evitando così la riproduzione dei comportamenti esterni, che potrebbe
infastidire il bambino e soffocarlo: ella comunica la condivisione del suo stato d’animo e
la straformazione degli stati emotivi negativi, che non vengono negati, ma accolti e
rielaborati.
Le ricerche recenti, sempre nell’Infant Research, confermano che il bambino
possiede una duplice competenza, di espressione e di riconoscimento delle emozioni,
resa possibile dalla precoce capacità di imitare il volto umano servendosi di uno schema
corporeo trasmodale, basato su informazioni provenienti da diversi canali sensoriali e
sulla coordinazione tra propriocezione e percezione del movimento altrui: infatti, già nel
primo anno di vita, esprime gli affetti a livello multimodale, mediante vocalizzazioni,
postura, gesti, mimica facciale.
Si mostra anche capace di riconoscere le emozioni della madre, distinguendo le sue
espressioni, rispondendo al suo sorriso con il sorriso, reagendo alla rabbia con
l’aggrottamento delle sopracciglia, manifestando disagio di fronte ad espressioni di
tristezza. A sua volta, la madre tende a imitare le espressioni del figlio, evitando il
rispecchiamento delle emozioni negative e impegnandosi così in un’operazione di
selezione e monitoraggio degli stati mentali del bambino.
Lo sviluppo emotivo non riguarda però soltanto l’espressione e il riconoscimento
delle emozioni, ma anche l’acquisizione della capacità di modularne l’intensità. Tronick

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(1989) evidenzia l’esistenza di condotte autoregolatorie molto precoci nel bambino, che
lo rendono capace di modulare la tensione causata da eventi nuovi o stressanti. Una delle
più precoci modalità di difesa consiste nel distogliere lo sguardo: quando il bambino è
stanco dell’interazione, gira lo sguardo, riuscendo a sottrarsi all’eccesso di stimoli,
prendendo respiro per poi eventualmente riprendere l’interazione.
Una madre empatica rispetta il bisogno del bambino di riposarsi ed aspetta che egli
decida di rientrare nel gioco, senza forzarlo. Altri meccanismi di difesa compaiono a 2-3
mesi e consistono in comportamenti autoconsolatori come succhiare il dito o manipolare
parti del proprio corpo: ad esempio, mettere il pollice in bocca, toccarsi i capelli o le
orecchie, manipolarsi i vestiti. Mettendo in atto queste tecniche, il bambino riesce ad
essere in parte autonomo nella regolazione delle emozioni, in particolare di quelle
negative.
Poi la madre lo aiuta nell’elaborarle, svolgendo una funzione trasformativa, oltre
alla funzione di rispecchiamento, così da sostenere il bambino nella gestione di eventi
stressanti.
Il modello di Tronick non è però condiviso da tutto i ricercatori. Secondo Sroufe
(1996), il bambino non possiede un’innata competenza autoregolatoria delle emozioni,
ma la acquisisce nel tempo, attraversando fasi di sviluppo specifiche: la prima fase si
verifica nei primi due mesi di vita, quando la madre regola soprattutto l’omeostasi del
figlio, facilitando la regolazione dei processi fisiologici come il ciclo sonno-veglia, la
frequenza cardiaca, la termoregolazione, attraverso interventi sensomotori, nutritivi e
termici.
Dai tre ai sei mesi, il bambino entra nella la fase della “regolazione guidata”: il
bambino e la madre collaborano, formando un sistema di regolazione reciproca delle
emozioni. In questa fase, madre e bambino sono impegnati a lungo nel gioco faccia a
faccia, durante in quale si esercitano a coordinarsi, alternando aumento e diminuzione
della tensione emotiva. Infine, nel secondo semestre di vita, si presenta la fase della
“regolazione diadica”, con il consolidamento del legame stabilito.
Ciò evidenzia come Sroufe consideri la relazione madre-bambino come una
relazione innanzitutto emozionale, che non provvede solo all’aspetto strumentale di
soddisfazione dei bisogni fisiologici: attraverso le emozioni, si stabilisce un legame
all’interno del quale il bambino sviluppa fiducia nella disponibilità della madre e
apprende modalità di regolazione emotiva autonome e diadiche.
Proseguendo nello sviluppo, a otto-nove mesi, nel bambino compare anche una

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particolare paura, la “paura dell’estraneo”: il bambino scoppia a piangere quando viene
una persona non familiare e ciò non è dovuto a particolari caratteri somatici della
persona, ma al fatto che il bambino ha ora interiorizzato i volti familiari per cui teme
l’estraneo perché la sua presenza può significare assenza delle figure conosciute.
Verso i due anni compaiono invece le emozioni sociali, che variano da cultura a
cultura e sono risposte comportamentali a stimoli di tipo sociale più che biologico: la
vergogna, il senso di colpa, l’imbarazzo, l’invidia sono collegate al mancato
raggiungimento di un obiettivo apprezzato socialmente. Il bambino di due anni, grazie
allo sviluppo cognitivo compiuto, è ora in grado di capire le aspettative dei familiari e
dell’ambiente e valutare l’adeguatezza del proprio comportamento.
Un’emozione sociale particolare è l’empatia, che costituisce la capacità di
decentrarsi e immedesimarsi negli altri, comprendendo le emozioni provate dagli altri.
Essa è alla base dei comportamenti prosociali, cioè dei comportamenti di aiuto e
condivisione.
Per valutare lo sviluppo emotivo, è possibile utilizzare alcuni test proiettivi come
Strumenti Rorshach, TAT e CAT, che consentono di far emergere contenuti inconsci e nuclei
emozionali profondi.
Conoscere le tappe dello sviluppo emotivo è utile per promuovere il benessere del

Ambiti
bambino nei diversi contesti di vita, per progetti di sostegno alla genitorialità, per
applicativi interventi di inserimento in asili o in gruppi di bambini. Lo sviluppo emotivo è
importante anche per interventi di sostegno agli adulti, poiché possono non aver
sviluppato competenze di regolazione delle emozioni, dunque alcune difficoltà
relazionali potrebbero risalire a queste carenze. Anche nella coppia e nella famiglia, è
importante esprimere le emozioni, gestire i propri eccessi emotivi per negoziare e
rinegoziare i patti affettivi.

28. Sviluppo affettivo

Gli affetti sono stati psicofisiologici complessi, che includono sia l’esperienza
Definizione soggettiva, sia componenti cognitive e fisiologiche. Lo sviluppo affettivo è quindi la
progressiva evoluzione degli schemi cognitivi, psicologici, sociali utilizzati nelle
relazioni e dovuta all’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali.
Lo sviluppo affettivo è stato studiato da Freud che ha elaborato la teoria degli stati
psicosessuali; da Fairbairn che ha evidenziato come libido fosse adesiva, cioè attaccata

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Sintesi dei all’oggetto, anche se questo era distruttivo nei propri confronti; da Winnicott, che ha
principali
analizzato gli affetti presenti nella relazione madre-bambino; da Bowlby, che ha
autori e teorie
individuato pattern affettivi tra il bambino e la figura di accudimento.
di riferimento
Una teoria approfondita sullo sviluppo affettivo è quella di Sigmund Freud, che
distingue fasi psicosessuali progressive: ciascuna fase prende il nome dalla regione del
corpo in cui si concentra la libido (“zona erogena”). La libido è l’energia psicosessuale
Teoria
dell’individuo, una sorta di “carburante” naturale per svolgere attività che producano
approfondita
piacere oppure “convertibile” per essere utilizzato in lavori artistici, intellettuali o
(con autori,
esperimenti,
religiosi. Alla nascita, la zona erogena è rappresentata dalla bocca e per questo è
ecc.) denominata “fase orale”: attraverso la bocca, il neonato non solo si nutre, ma prova
piacere, conosce il mondo. È frequente osservare un bambino che porta alla bocca tutti
gli oggetti che afferra: quando la maturazione neuronale e la coordinazione oculo-
manuale si sviluppano, egli inizia a portare le proprie manine alla bocca, poi si sforza di
avvicinarvi i piedini, infine mette in bocca tutti gli oggetti che afferra. Talvolta
l’esplorazione degli oggetti attraverso la bocca viene bruscamente interrotta dalla madre,
preoccupata che il piccolo possa contaminarsi con germi e batteri e quindi sottrae
precipitosamente l’oggetto al bambino.
Oppure, il gesto di portare tutto alla bocca può essere scambiato come un segnale di
fame, oppure come un tentativo di massaggiare le gengive dolenti allo spuntare dei primi
dentini. Si tratta invece di una prima e impostante modalità di conoscersi e conoscere il
mondo. La fase orale è caratterizzata da un rapporto di dipendenza dalla figura di
accudimento, dalla ricerca del soddisfacimento dei bisogni primari come il mangiare e
dura tutto il primo anno di vita.
Se il bambino vi persiste oltre, Freud definisce questa evenienza come “fissazione
orale”. Si può verificare anche un’altra evenienza, la regressione orale: quando il
bambino o l’adulto accedono alle fasi successive dello sviluppo, ma in presenta di forti
stress tornano indietro, riutilizzando modalità di relazione e di comportamento
caratteristiche di fasi precedenti. Alcune patologie come l’obesità sono considerate forme
di regressione orale.
Da uno a tre anni, il bambino entra nella fase anale, che ha come zona erogena la
regione anale: è la fase caratterizzata da importanti conquiste di sviluppo, come il
linguaggio, la locomozione, il pensiero simbolico, cioè strumenti che emancipano il
bambino dall’adulto e gli consentono di affermarsi come individuo separato e
indipendente. Il bambino riesce a controllare gli sfinteri e prova orgoglio nell’esercitare

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questa competenza, talvolta utilizzando il trattenimento delle feci come strumento di
imposizione della propria volontà e talvolta rilasciando le feci per farne dono alla madre,
in quanto prodotto che ha realizzato da sé e che comprova la sua autonomia. La fase
anale è caratterizzata da uno sforzo di controllo di sé e del contesto che innesca conflitti
di potere con i genitori.
Anche rispetto alla fase anale possono verificarsi fissazioni o regressioni in
occasione di particolari stress: ad esempio il bambino può aver iniziato ad usare il vasino
e a controllare gli sfinteri, ma quando nasce un fratellino, torna momentaneamente
indietro, perde queste competenze appena acquisite e torna indietro, a comportamenti più
infantili come l’utilizzo del ciuccio caratteristico della fase orale o la necessità di
riutilizzare i pannolini. Alcuni tratti di personalità dell’adulto sono considerati forme di
fissazione o regressione anale: la ricerca maniacale della pulizia e dell’ordine, il controllo
esasperato, il perfezionismo.
Da tre a sei anni il bambino accede alla fase fallica, che ha come zona erogena l’area
genitale: è il periodo della scoperta delle differenze anatomiche tra maschio e femmina e
del conseguente timore di perdere il pene: il maschietto pensa infatti che alle femminucce
possa essere stato amputato ed è dunque assalito da un complesso di castrazione.
La fase fallica è anche la fase del complesso di Edipo: il bambino è infatti attratto
dalla madre e vorrebbe sostituirsi al padre e viceversa la bambina. L’ammirazione e la
gelosia per il genitore dello stesso sesso culminano nell’identificazione del bambino con
il padre e della bambina con la madre, che conduce al consolidamento della propria
identità di genere.
Le fasi orale, anale e fallica sono caratterizzate da una pulsione di appropriazione:
con la fase genitale, i comportamenti saranno improntati a una pulsione di scambio.
Prima dell’ingresso nella fase genitale, che avviene durante la pubertà, la libido si ritrae e
il bambino investe le sue energie nei rapporti con i pari e in attività motorie e sociali,
senza mostrare molto interesse verso il sesso opposto.
Si tratta del periodo di latenza, dai sei agli undici anni, dove si osservano spesso
bambini maschi giocare tra loro in sport tipicamente maschili e bambine femmine
impegnate in giochi simbolici che ricreano attività domestiche e ruoli femminili, come
cucinare con pentoline, giocare a “mamma e figlia”, animare bambole facendole
dialogare tra loro.
La fase genitale compare dopo l’intervallo costituito dalla fase di latenza, verso i
dodici anni, in concomitanza con la maturazione dell’apparato sessuale. È caratterizzata

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da un ritrovato interesse verso il sesso opposto e dall’inizio di relazioni di coppia simili a
quelle adulte.
Per valutare lo sviluppo affettivo, è possibile ricorrere all’osservazione dei pattern

Strumenti
interattivi tra madre e bambino, ad esempio con la Strange Situation di Mary Ainsworth,
oppure attraverso il disegno, ad esempio con il disegno della famiglia, oppure con il
CAT, test proiettivo per bambini che sollecita l’emergere di conflitti psicoaffettivi, nel
caso di adulti, effettuando colloqui o servendosi del DSM-Iv per effettuare una diagnosi
descrittiva in casi di disturbi che compromettono gli schemi di interazione, come il
disturbo schizoaffettivo.
Conoscere e valutare lo sviluppo affettivo presenta divrse potenzialità applicative
Ambiti sia nell’infanzia che nell’età adulta, poiché consente di intervenire in situazioni di
applicativi
interazione disfunzionale che interferiscono con lo sviluppo del bambino. Oppure, nel
caso degli adulti, ricostruire gli schemi affettivo-cognitivi consente di comprendere i
prototipi seguiti dal paziente nell’interazione sociale, di capire le tendenze generali nella
regolazione delle emozioni e del comportamento, di prevenire alcuni disturbi affettivi, il
cui rischio si innalza se gli schemi sono disfunzionali.

PS: per il tema sullo sviluppo affettivo, in alternativa, si può approfondire la


teoria dell’attaccamento di Bowlby – cioè il tema n° 55.

29. Sviluppo comunicativo e linguistico

Vi è differenza tra sviluppo del linguaggio e della comunicazione, benché si tratti di


dimensioni strettamente connesse. La comunicazione consiste nella trasmissione di
Definizione informazioni da un emittente ad un ricevente attraverso vari canali (“medium”), sia
verbali che non verbali. La comunicazione è quindi un processo più ampio del
linguaggio, che è solo uno dei possibili medium attraverso cui trasmettere messaggi. La
comunicazione è l’insieme delle varie modalità di espressione, sia linguistiche che
comportamentali, gestuali, mimiche, prossemiche (relative alla distanza o vicinanza tra
due interlocutori).
Il linguaggio rappresenta, dunque, una forma di comunicazione più specifica, di tipo
verbale, benché sia costituito non soltanto da parole, ma anche da caratteristiche
prosodiche come il ritmo, l’intonazione, le pause. Infatti, anche se gli interlocutori
parlano la stessa lingua e quindi applicano le stesse regole sintattiche, si differenziano tra

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di loro per le caratteristiche prosodiche: parlare più in fretta, utilizzare un tono più basso,
alzare la voce per esporre le proprie ragioni, enfatizzare alcune parole, ecc.
Il neonato comunica emettendo suoni vegetativi, come gorgoglii, eruttazioni,
deglutizioni, lamenti, pianti. Essi esprimono uno stato generale, di benessere o di disagio,
ma non sono intenzionali, benché suscitino risposte nella madre, che interviene quando il
Teoria figlio piange, calmandolo o soddisfacendo i suoi bisogni. Quando il bambino inizia ad
approfondita
associare un comportamento al proprio pianto, inizierà anche a ad utilizzarlo
(con autori,
intenzionalmente per richiamare la madre e a modularlo fino a ricevere l’intervento
esperimenti,
ecc.)
desiderato.
Il neonato affina dunque il suo pianto: inizialmente è indifferenziato e gradualmente
si specifica in pianto per fame, per sonno, per sovraccarico di stimoli, per desiderio di
interazione, ecc. A due mesi inizia a sperimentare vocalizzazioni più specifiche, mentre
nel terzo mese compare il cooing, cioè l’eco dei suoni vocalici pronunciati dagli adulti.
Nel quarto mese i suoni vocali sono associati a quelli consonantici, quindi il neonato
pronuncerà sillabe come «ma», «pa», «ta» (“fase del balbettìo”) per poi ripeterle in
sequenza: «ma-ma-ma», «pa-pa-pa», «ta-ta-ta» (“fase della lallazione”). La
comunicazione intenzionale inizia generalmente verso gli 8 mesi, formulando all’adulto
una richiesta o coinvolgendolo nelle sue attività.
Il periodo linguistico inizia generalmente verso gli otto-nove mesi, con la comparsa
delle prime parole, ottenute combinando sillabe precedentemente esercitate ed assimilate
e imitando le pronunce degli adulti: si tratta di parole elementari, che sintetizzano una
richiesta o una descrizione più ampia e che l’adulto riesce a desumere completandola con
elementi del contesto, con i gesti e la prosodìa del bambino e interagendo con lui: ad
esempio, quando il bambino pronuncia «palla», sorridendo e agitando le mani come per
giocare, può intendere «voglio prendere la palla», e l’adulto allarga l’espressione dicendo
«vuoi prendere la palla? Prendiamo la palla e giochiamo insieme», per facilitare lo sforzo
comunicativo e linguistico del bambino.
In questa fase infatti l’adulto svolge un ruolo di scaffolding (sostegno), rispondendo
alle richieste del bambino ed offrendogli ulteriori stimoli per progredire nel suo sviluppo.
Lo scaffolding viene spesso attuato parafrasando i desideri del bambino attraverso un
linguaggio speciale, che usa parole semplici, scandite, ripetute ed enfatizzate (baby-talk).
A un anno, il bambino utilizza frasi formate da un’unica parola (“olofrasi), a un anno
e mezzo – due anni utilizza frasi telegrafiche (frasi formate da due o poche parole, prive
di articoli e congiunzioni, che però esprimono un significato più ampio: «Gioco palla!»,

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per commentare l’atto di giocare mentre lo sta svolgendo o per esprimere il desiderio di
giocare. Lo scaffolding è un elemento che incide sull’età di sviluppo del linguaggio, che
infatti varia da bambino a bambino anche in funzione delle sollecitazioni degli adulti: se
infatti l’adulto esegue scrupolosamente i desideri che il bambino esprime a gesti, ad
esempio porgendogli una caramella quando il bambino la indica con il dito, il bambino
non avvertirà il bisogno di comunicare in modo diverso i suoi desideri e di sforzarsi per
imparare a parlare e persisterà nel canale gestuale.
Se invece riceve vive in un ambiente stimolante, viene esposto a stimoli linguistici e
coinvolto nelle interazioni verbali, sarà più motivato ad acquisire ed utilizzare il
linguaggio, altrimenti persiste il primato gestuale su quello linguistico, cioè la tendenza e
la preferenza a servirsi del canale non verbale per esprimersi e comunicare.
Procedendo nello sviluppo linguistico, verso di due anni e mezzo si verifica nel
bambino un’ “esplosione del vocabolario”, con un notevole e rapido aumento del numero
di parole conosciute, l’aumento della lunghezza dell’enunciato e l’apprendimento delle
regole grammaticali. Dunque, oltre al linguaggio recettivo, costituito dall’insieme di
parole comprese, si amplia il linguaggio produttivo, cioè il numero delle parole
utilizzate. Iniziano a notarsi anche sovrageneralizzazioni delle regole stesse, che vengono
applicate indiscriminatamente, producendo gli ipercorrettismi: «soffrito» al posto di
«sofferto», «aprito» al posto di «aperto», ecc.
Attraverso il linguaggio, il bambino impara a comunicare secondo significati
condivisi, a percepire l’ambiente, a differenziare gli oggetti, a compiere associazioni, a
svincolarsi dal contesto in cui si esprime, rievocando un oggetto o una persona assente
attraverso il nome corrispondente: consente, in sintesi, di accedere ad una dimensione
simbolica, rappresentativa, astratta. Per le possibilità di categorizzazione, chiarificazione
e strutturazione aperte dal linguaggio, esso è definito dallo psicologo dello sviluppo
Jerome Bruner come un “amplificatore del pensiero”, cioè uno strumento che regola e
struttura il ragionamento.
Un esempio di questa funzione è rappresentato dal “linguaggio normativo”, così
definito dallo psicologo e linguista russo Lëv Semënovič Vygotsky: è il linguaggio
parlato dai bambini impegnati in giochi o attività autonome, che descrivono ad alta voce
le azioni compiute e non ha funzioni di comunicazione, ma di strutturazione del pensiero
e dell’azione.
Verso la fine del periodo prelinguistico, a dodici-quattordici mesi, il bambino inizia
ad utilizzare due particolari gesti, che fungono da anticipatori della funzione simbolica

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svolta successivamente dal linguaggio: essi sono il gesto dittico e il gesto referenziale.
Per indicare il desiderio di impossessarsi di un oggetto o l’avvenuta comprensione di una
frase pronunciata dall’adulto, il bambino si serve del gesto dell’indicare, definito “gesto
deittico”: esso consiste nel mostrare con un l’indice l’oggetto desiderato o la direzione
dell’azione richiesta dall’adulto. Il gesto referenziale è invece svincolato dal contesto e
consiste in un gesto collegato ad un’azione: “fare ciao” con la mano, ruotare il dito sulla
guancia per indicare la bontà del cibo che sta mangiando, alzare ed abbassare la mano
tenendo il braccio teso per dire “vieni qui”, piegare gli avambracci tenendo i palmi della
mani rivolti in alto per significare “non c’è più”.
Un ulteriore forma di comunicazione e interazione è rappresentata dall’attenzione
condivisa: il bambino indica e guarda alternativamente l’oggetto e l’adulto, come a
comunicare all’adulto la sorpresa o l’emozione suscitata dall’oggetto e renderlo
partecipe. Anche l’attenzione condivisa inizia a comparire verso il primo anno di vita e
costituisce, insieme ai gesti deittici e ai gesti referenziali, un precursore dello sviluppo
del linguaggio e della comunicazione.
Per quanto riguarda gli strumenti, molto utilizzato è il questionario sullo sviluppo
comunicativo e linguistico dal II anno di vita, utile in età evolutiva per valutare lo
Strumenti
sviluppo delle competenze del bambino; le prove di comprensione di Rustioni; il TVL,
Test di valutazione linguistica di Cianchetti e Faciello; l’osservazione delle interazioni
per rilevare dimensioni comunicative non verbali.
Conoscere le tappe dello sviluppo comunicativo e linguistico consente di valutare se
Ambiti
siano presenti ritardi oppure, qualora vengano a mancare alcune tappe previste, ciò può
applicativi
costituire un possibile indicatore di patologie, da approfondire con ulteriori strumenti.
Ad esempio, in alcune patologie infantili, come l’autismo, non è presente
l’attenzione condivisa, dunque se manca e contemporaneamente si presentano altri
sintomi che possono essere riconducibili a questo quadro, può essere opportuno
effettuare approfondimenti diagnostici. Lo sviluppo linguistico e comunicativo è
importante anche in ambiti educativi, come l’asilo nido, dove si possono predisporre
progetti di stimolazione linguistica e comunicativa.

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30. Sviluppo sociale

Lo sviluppo sociale consiste nell’acquisizione e nella modulazione di abilità di

Definizione
interazione e di relazione nei contesti di vita.
È stato studiato dalla sociologia, che ha analizzato l’assimilazione dei modelli
culturali da parte di individui attraverso agenzie di socializzazione primarie e secondarie;
Sintesi dei
dal comportamentismo, che fa derivare lo sviluppo sociale dal modellamento attraverso
principali
rinforzi e punizioni; dalla psicoanalisi, in particolare da Freud, che ha assunto la società
autori e teorie
di riferimento
come una sorta di Super-Io collettivo, frustrante in quanto limita l’espressione delle
pulsioni, ma necessario per evitare una situazione dannosa di aggressività reciproca.
Un autore che ha approfondito lo sviluppo sociale nell’arco di vita è stato Erik
Erikson. Egli ha formulato una teoria che abbraccia tutte le età della vita, dalla nascita
Teoria
alla vecchiaia, individuando per ciascuna di esse uno specifico compito, un “dilemma
approfondita
(con autori,
psicosociale”, che nasce dalla relazione tra l’individuo e l’ambiente: l’individuo deve
esperimenti, affrontarlo e superarlo per poter accedere allo stadio successivo. Questi dilemmi
ecc.) consistono in una coppia di due termini opposti: uno indica una conquista, l’altro il
fallimento.
Nell’infanzia, dalla nascita a un anno, l’antitesti è tra fiducia-sfiducia: il bambino
vive in un ambiente affettivo costante e prevedibile, che risponde ai suoi bisogni, su cui
può fare affidamento e da cui riceve protezione. Egli acquista sicurezza in se stesso e
fiducia di poter influenzare gli eventi. Un fallimento in questo stadio struttura un senso
del sé fragile e vulnerabile.
Nella fanciullezza, da due a tre anni, l’antitesti è tra l’antitesti è tra autonomia-
dubbio/vergogna: le acquisizioni di sviluppo come il linguaggio, il pensiero e la
locomozione rendono fiero e autonomo il bambino, ma lo espongono anche a fallimenti,
goffaggini, errori, da cui scaturisce la vergogna e il dubbio sulle proprie possibilità di
riuscita, con possibile tendenza a nascondere verità attraverso bugie e sotterfugi per non
essere scoperto e deriso. Un fallimento in questo stadio può sviluppare tratti paranoici del
carattere, come sospetti e modi di essere inautentici.
Nell’età del gioco, da quattro a cinque anni, l’antitesi è tra iniziativa-senso di
colpa: il bambino consolida le competenze acquisite e spesso le applica in modo irruento,
rompendo gli oggetti o facendo del male a fratelli e compagni di giochi. La sua
esuberanza può non essere tollerata, specie in ambito scolastico, oppure scambiata per
aggressività intenzionale, per questo il bambino può ricevere continui richiami,

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disapprovazioni e punizioni che suscitano sensi di colpa. Un fallimento in questo stadio
può comportare una tendenza all’inibizione, alla repressione e alla somatizzazione della
rabbia.
Nell’età scolare, dai sei ai dodici anni, l’antitesti è tra industriosità-senso di
inferiorità: il bambino fa il suo ingresso a scuola, dove si misura con gli altri e si cimenta
in compiti di apprendimento. Egli prova a rispondere a queste nuove richieste e se
incontra difficoltà, può sentirsi inferiore e mediocre, sentirsi demotivato oppure
comportarsi in modo meccanico e distaccato.
Un fallimento in questo stadio può innescare rassegnazione, passività e
conformismo.
Nell’adolescenza, dai tredici ai diciotto anni, l’antitesti è tra identità-diffusione
dell’identità: il ragazzo deve elaborare le molteplici trasformazioni corporee, cognitive e
sociali ed emanciparsi dalla famiglia delineando una propria identità. Una difficoltà in
questo compito può portare ad esperienze estreme o a identificazioni con modelli
numerosi e contraddittori, fino a sfociare nel delirio.
Nel giovane adulto, dai diciannove ai venticinque anni, l’antitesti è tra intimità-
isolamento: l’identità risulta delineata e dunque si cerca un’altra identità in cui
rispecchiarsi, che offra una validazione di se stessi, con cui stabilire una relazione intima.
Difficoltà in questo compito possono portare ad esperienze impulsive, che alternano
idealizzazioni a svalutazioni, oppure all’isolamento, allorché si evita di mettersi in gioco
nelle relazioni per paura dei fallimenti e ci si chiude in se stessi.
Nell’età adulta, dai ventisei ai quaranta anni, l’antitesti è tra generatività-
stagnazione: si ha il desiderio di creare, non solo sul piano familiare, nel senso di
generare figli, ma anche sul piano lavorativo, e più generalmente sociale. Si desidera
sentirsi utili e mettere a disposizione la propria esperienza. Altrimenti insorge la classica
domanda: «cosa ho fatto nella mia vita?» e si prova un senso di sterilità e
insoddisfazione.
Nella maturità e vecchiaia, dai quaranta anni in posi, l’antitesti è tra integrità
dell’Io-disperazione: il tempo e le energie rimanenti sono minori di quelle già spese, per
cui viene a diminuire la progettualità a favore di riflessioni sul passato e bilanci. Se non
si giunge all’accettazione della propria vita, può scaturire senso di disperazione,
accentuato dalla paura della morte.
Per valutare lo sviluppo sociale, nell’ottica di Erikson, occorre valutare se è
Strumenti
avvenuto il superamento del relativo dilemma psicosociale. Altrimenti, si possono

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
utilizzare colloqui, osservazioni, test di personalità per valutare le componenti sociali
degli schemi di sé.
Lo sviluppo sociale è importante in diversi ambiti, quali quello familiare,

Ambiti
scolastico, lavorativo e delle relazioni. Conoscere le tappe dello sviluppo sociale
applicativi consente di formulare interventi di sostegno all’individuo e al gruppo, di mediazione e
integrazione interculturale, di attivazione di risorse di rete e di empowerment delle
comunità.

31. Famiglia

La famiglia è un’aggregazione di membri connessi da legami biologici, affettivi,


Definizione
sociali ed economici. È stata studiata da diverse discipline: la sociologia ha analizzato le
configurazioni empiriche, il potere, i ruoli dei membri; l’antropologia ha rilevato le
diverse strutture familiari nelle numerose etnie, comunità e tribù; la psicologia dinamica
ha studiato i vissuti relazionali, le fantasie, le proiezioni e le identificazioni tra genitori e
figli.
In ambito psicologico, un modello familiare studiato è quello di Olson e colleghi
Sintesi delle
(1979), definito modello circomplesso di adattabilità familiare, basato sui concetti di
teorie e degli
autori
coesione, l’adattabilità e comunicazione e su una classificazione della flessibilità e della
rigidità dei legami familiari. Un altro modello familiare è quello di Beavers (1981), che
analizza anche il ruolo delle famiglie di origine dei coniugi nella strutturazione della
famiglia, dunque si apre ad una prospettiva intergenerazionale.
Teoria
Lo studio della famiglia è stato molto approfondito in epoca recente ambito
approfondita
(con autori,
sistemico. Il concetto di “sistema”, studiato dalla Scuola di Palo Alto, successivamente
esperimenti, viene applicato da psicologi e clinici anche alla famiglia. Secondo Minuchin (1974),
ecc.) anche la famiglia è assimilabile ad un sistema, in quanto costituita da un insieme di
elementi che interagiscono. Le interazioni osservabili in una famiglia si svolgono
secondo modalità costanti, definite “transazioni”. Esse sono modelli di interazione stabili
mantenuti nel tempo da due sistemi di costrizione.
Il primo è costituito da regole generali sull’organizzazione familiare, l’altro
scaturisce dalle reciproche aspettative di comportamento. Le regole, una volta negoziate
implicitamente o esplicitamente, tendono a rimanere stabili, resistendo ai tentativi di
rinegoziazione provenienti da componenti familiari o dal contesto extra-familiare.
Infatti, quando un componente familiare introduce elementi di trasformazione, se il

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livello di cambiamento proposto supera una soglia di tolleranza, variabile da famiglia a
famiglia, gli altri rispondono richiamandolo al suo “dovere”, facendo appelli alla lealtà
o innescando meccanismi di colpevolizzazione. In base alle regole e alla loro
flessibilità, si distinguono famiglie rigide, in cui le aspettative reciproche sono
prescrittive, e famiglie più elastiche che riescono ad adattarsi agli stimoli al
cambiamento provenienti dall’esterno o dall’interno, pur preservando una continuità.
Sempre secondo Minuchin, il sistema familiare è divisibile in sottosistemi,
costituiti da un numero di membri accomunati dal sesso, dal ruolo o dalla funzione e
sono regolati da specifiche norme. Ad esempio, vi è il sottosistema genitoriale, oppure
quello dei figli, oppure si può creare un sottosistema madre-figlio che mantiene distante
il padre. La caratteristica più rilevante per diagnosticarne il funzionamento dei
sottosistemi è la chiarezza dei confini: si distinguono famiglie disimpegnate, dove i
sottosistemi hanno confini eccessivamente rigidi, che impediscono il contatto con
componenti di altri sottosistemi; famiglie dai confini chiari, sufficientemente delineati
da garantire una differenziazione e sufficientemente aperti da garantire una
comunicazione; famiglie invischiate, dai confini diffusi, che comportano
un’interferenza tra i ruoli. I confini consentono di prevedere la reazione della famiglia
agli stimoli alla trasformazione: le famiglie disimpegnate rispondono con velocità e
intensità, mentre quelle invischiate li ignorano. Minuchin ha applicato il suo modello
nella terapia delle famiglie delle pazienti anoressiche. Queste famiglie risultavano
caratterizzate da invischiamento tra i membri e confini interni labili, in quanto il sistema
dei genitori invade quello dei figli attraverso un atteggiamento iperprotettivo, vigilante e
preoccupato per il loro buon funzionamento.
La paziente, da piccola, può reagire sviluppando un perfezionismo ossessivo,
incrementando l’attenzione su di sé e sui segnali del suo corpo, preoccupandosi di
ricevere l’approvazione dei genitori e di rispondere alle loro esigenze. La bambina viene
socializzata a comportarsi come si aspettano i genitori, spesso trascurando le relazioni
tra pari al di fuori dell’ambito familiare. Da adolescente, può vivere un conflitto tra
l’attrazione per i gruppi di coetanei nel contesto extra-familiare e il dovere di lealtà e di
fedeltà al sistema familiare, sentendosi inibita, controllata e trattenuta all’interno della
famiglia. Risulta complesso il processo di svincolo, in quanto i genitori rafforzano i
confini familiari rispetto all’esterno e non sollecitano l’acquisizione di un’autonomia. Il
ruolo del terapeuta familiare è quello di sostenere la famiglia nel ridisegnare i confini,
sfidando l’invischiamento, l’iperprotettività, la rigidità, l’evitamento del conflitto, così

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da favorire il processo di separazione-individuazione tra i membri.
Gli strumenti più noti per lo studio delle famiglie e per la clinica delle famiglie sono
Strumenti
il triangolo di Losanna, basato sull’osservazione delle interazioni nella triade madre-
padre-bambino, il Faces III, questionario basato sul modello di Olson, il genogramma,
che consiste nel ricostruire i legami genealogici, l’ecomappa, che consiste nell’esplorare
nel risorse accessibili alla famiglia in un contesto territoriale, il Disegno simbolico dello
spazio di vita familiare, che consiste nell’esplorare la reciproca collocazione spaziale e
affettiva tra i membri, il disegno della famiglia, che è un test grafico somministrato
soprattutto in età evolutiva, il Test della doppia Luna, che analizza i confini e le
appartenenze familiari.
Lo studio della famiglia presenta diverse potenzialità applicative. Innanzitutto, nella
Ambiti
psicologia dell’età evolutiva, per valutare l’influenza dei sistemi educativi familiari sullo
applicativi
sviluppo; nella clinica dell’età evolutiva, la famiglia partecipa alla terapia del bambino,
in quanto il bambino è inserito in essa e i suoi sintomi sono spesso indicatori di un
disfunzionamento familiare; anche le patologie dell’età adulta possono risentire di
modalità di comunicazione disfunzionali in famiglia; nella psicologia giuridica, si stanno
sviluppando interventi di valutazione dell’idoneità familiare sia per adozioni sia per
affidamenti in caso di divorzio e tecniche di mediazione familiare per conflitti tra ex-
coniugi.

32. L’adolescenza

Non in tutte le società è previsto uno stadio intermedio tra il bambino e l’adulto, qual

Definizione
è l’adolescenza. Nelle società pre-industriali, la suddivisione delle epoche di vita non
includeva una fase di transizione dall’infanzia alla maturità: già durante l’infanzia, i
bambini imparavano rudimentali abilità pratiche per aiutare la famiglia e verso i dodici
anni venivano inseriti come apprendisti presso artigiani per imparare un mestiere. Le
bambine imparavano a cucinare, ricamare e occuparsi della casa, per poi essere date in
matrimonio prima dei venti anni. Tuttora, in alcune tribù, il passaggio dall’infanzia
all’età adulta è immediato e ufficializzato attraverso rituali di transizione che prevedono
specifiche tipologie di prove, il superamento delle quali sancisce l’inclusione nel mondo
degli adulti e l’assunzione di specifici compiti e ruoli. Soltanto nel ‘700, in Occidente,
inizia a delinearsi un nuovo soggetto sociale, l’adolescente.
Lo sviluppo industriale, economico e culturale inizia a diversificare le esperienze nel

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corso della vita e ad isolare un’epoca esistenziale dedicata alla scolarizzazione e
all’addestramento ai mestieri. La letteratura di fine settecento-ottocento inizia a porre
attenzione verso questo fenomeno e fioriscono romanzi aventi come protagonisti
adolescenti: “I dolori del giovane Werter” di W. Goethe, “Le ultime lettere di Jacopo
Ortis” di U. Foscolo, “Il giovane Holden” di J. Salinger.
In psicologia, la trattazione dell’adolescenza inizia nel 1904, con la pubblicazione
dello studio di Stanley Hall intitolato “Adolescenza, sua psicologia e sua relazione con la
fisiologia, antropologia, sociologia, sesso, crimine, religione ed educazione”.
Teoria
approfondita
L’adolescenza è stata analizzata anche da Freud, che l’ha inclusa una fase genitale dello
(con autori, sviluppo psicosessuale, successiva alla fase di latenza, dunque un periodo in cui riemerge
esperimenti, la libido e si stabiliscono le prime relazioni di coppia e di intimità; da Erikson, che ha
ecc.)
individuato, come compito evolutivo dell’adolescenza, l’acquisizione di un’identità,
differenze da quella infantile; da Piaget, che l’ha identificata come una fase dello
sviluppo cognitivo in cui compare il pensiero ipotetico-deduttivo, che rende capace la
persona di ragionare in modo astratto, universale, sofisticato.
Nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva, sono state formulate teorie e
compiute osservazioni e ricerche sull’adolescenza, giungendo a delineare le
caratteristiche cognitive, affettive, sociali di questa età.
L’adolescenza è considerata come l’epoca della vita intermedia tra fanciullezza e
giovinezza e comprende l’intervallo tra i 13-19 anni. È preceduta da una fase
preparatoria, la preadolescenza, che coincide con gli 11-13 anni, periodo culturalmente
coincidente in Italia con la frequentazione delle scuole medie. Nella preadolescenza si
compie lo sviluppo puberale, cioè la maturazione dell’apparato sessuale e la comparsa
dei caratteri sessuali secondari (allargamento dei fianchi, crescita del seno e dei peli
pubici per le femmine e raucizzazione della voce, crescita dei peli pubici nei maschi).
Iniziano le trasformazioni corporee che preludono ad ulteriori trasformazioni e generano
apprensioni e insicurezze: il proprio schema corporeo cambia rapidamente, mentre
accettarne i cambiamenti richiede più tempo.
Talvolta la crescita delle varie parti del corpo può comportare goffaggini oppure
sproporzioni: mani e piedi assumono le dimensioni adulte prima del resto del corpo, per
cui si incontra difficoltà ad integrare caratteristiche ancora infantili e caratteristiche
adulte e si prova timore ed imbarazzo a mostrarsi. Il preadolescente e l’adolescente ora
impegnano più tempo nel cercare strategie per aggiustare quelli che vengono percepiti
come difetti e a migliorare il proprio aspetto, scegliendo con più accuratezza

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l’abbigliamento, trascorrendo più tempo davanti allo specchio, controllando talvolta in
modo ossessivo come calza un vestito, come appare una certa pettinatura o se il viso
presenta imperfezioni: basta un brufolo per far saltare lo schema corporeo, provocare
angoscia e innescare meccanismi compulsivi di cura e occultamento con creme e prodotti
vari.
Occorre infatti elaborare una nuova identità corporea, integrando le modifiche che
compaiono di volta in volta, poiché la configurazione corporea non è ancora definitiva e
sospende il ragazzo in uno stato di apprensione, impegnandolo sia psicologicamente
nell’immaginarsi adulto sia materialmente in manovre di aggiustamento, miglioramento
e osservazione della propria immagine.
Oltre alle modifiche anatomiche, lo sviluppo corporeo presenta modifiche e
instabilità ormonali, con eventi che sorprendono i ragazzi, che li colgono di sorpresa e di
cui non si comprende la funzione, per questo suscitano un senso di perdita del controllo
su se stessi e al contempo aprono la possibilità di compiere nuove esperienze di tipo
sessuale. Lo sviluppo sessuale talvolta non procede in concomitanza con lo sviluppo
sociale, quindi l’adolescente può trovarsi a compiere esperienze precoci sotto la
pressione delle modifiche corporee, delle insicurezze psicologiche e dell’entusiasmo per
l’acquisizione di una nuova funzionalità che si vuole mettere alla prova.
Tutto ciò in assenza di un completo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale che
consente di elaborare l’esperienza ed affrontarla con consapevolezza. La discrepanza tra
sviluppo sessuale e sociale, unita ad una non completa conoscenza dei meccanismi
sessuali, può condurre a comportamenti impulsivi ed esperienze a rischio (malattie a
trasmissione sessuale, gravidanze indesiderate, ecc).
Un’ulteriore trasformazione avviene sul piano cognitivo: l’adolescente di svincola
dal pensiero concreto della fanciullezza, centrato sul presente, ed allarga la prospettiva
temporale, diventando capace di elaborare il passato e di prefigurarsi il futuro. Entra
nello stadio piagettiano operatorio-formale e il suo pensiero diventa ipotetico-deduttivo:
è capace di pensare per ipotesi, riflettendo sui nessi di causa-effetto, sulla logica implicita
negli eventi oltre alla loro apparenza materiale, considera simultaneamente vari aspetti di
una situazione, concepisce possibilità, ragiona in modo complesso, mediante principi,
leggi generali, concetti astratti. Il raggiungimento del pensiero ipotetico-deduttivo è
facilitato dalla stimolazione culturale e dall’assimilazione dei precedenti apprendimenti
strumentali (linguistici, cognitivi, sociali), in mancanza di ciò un adolescente può
persistere in modalità cognitive operatorio-concrete come quelle di un fanciullo.

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Anche sul piano emotivo avviene un notevole cambiamento, anch’esso facilitato dal
superamento dei compiti emotivi e dalle esperienze compiute nell’età della fanciullezza:
l’adolescente inizia ad investire in modo intenso soggetti esterni alla propria cerchia
familiare, disinvestendo parzialmente i genitori e impegnandosi in relazioni intime.
Il suo orizzonte affettivo si amplia ed acquisiscono centralità i rapporti d’amicizia e
d’amore autonomamente scelti e coltivati. La possibilità di sperimentarsi in questo nuovo
tipo di relazioni è facilitata dall’aver potuto coltivare relazioni con i pari nella
fanciullezza, dall’aver acquisito in famiglia una fiducia in se stessi e un’autostima tale da
superare timidezze e timori del fallimento, di tollerare la maggiore frustrazione che può
scaturire da incomprensioni e di saper negoziare con equilibrio. Le competenze sociali ed
emotive acquisite ed esercitate nel gruppo dei pari ora infatti sono concentrate in
relazioni più ristrette ed intime con il proprio miglior amico e con la fidanzata.
A questo proposito, avviene una straformazione sul piano sociale: assumono
centralità le relazione esterne alla famiglia e il mondo diventa un mondo sempre più
sociale, dove il proprio status e la propria identità vengono costruite in modo autonomo e
negoziate con gli altri. L’adolescente trascorre più tempo all’esterno che a casa: a scuola,
in palestra, dandosi appuntamento con gli amici in un luogo specifico della città,
“colonizzato” dal proprio gruppo di appartenenza.
Il punto di riferimento diventa infatti il gruppo, la cerchia di amici che si frequenta
abitualmente dove si elaborano regole condivise e diverse da quelle familiari. Le
relazioni sono gestite autonomamente: i conflitti che insorgono, i problemi di lealtà, la
pianificazione delle uscite, tutto viene organizzato e risolto autonomamente e al di fuori
della sfera familiare. Le trasformazioni cognitive, emotive e sociali dell’adolescente
comportano in sostanza la definizione di un’identità: sono tutte componenti del processo
di seprarazione-individuazione in cui l’adolescente è impegnato.
Egli infatti si separa dalla famiglia ampliando il raggio di relazioni e attività esterne
e gestite autonomamente e si individua in quanto delinea sempre più chiaramente i propri
interessi, i propri principi di interpretazione della realtà e la propria personalità.
L’individuazione avviene per antitesi rispetto alle ingiunzioni ricevute e alle autorità da
cui si è dipeso nell’infanzia: ciò produce una contestazione dei modelli ricevuti e una
messa in discussione dell’autorità genitoriale, scolastica e sociale e lo sforzo di ricavare
margini sempre più ampi di scelta.
La reazione familiare alla “dichiarazione d’indipendenza” del figlio può essere
punitiva e critica, nel tentativo di preservare l’equilibrio e le modalità di relazione

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stabilite nell’infanzia, poiché l’adolescente introduce nella famiglia spinte centrifughe e
bisogno di ridefinire i ruoli e creare nuove condizioni diverse da quelle stabile per
l’infanzia e più funzionali alla presenza di un soggetto con bisogni diversi da quelli di un
bambino. La difficoltà di rivedere un ordine ormai consolidato e al contempo
l’impazienza dell’adolescente di vedersi riconosciuta maggiore autonomia aumentano la
conflittualità nella famiglia.
A questo proposito, l’oppositività dell’adolescente ha dato luogo al mito del
“turmoil”, cioè dell’adolescenza come periodo turbolento, inquieto, ribelle. Oggi si
sottolinea invece l’ambivalenza dell’atteggiamento dell’adolescente, che non si esaurisce
nel negativismo e nella provocazione, in quanto contesta l’autorità, ma al contempo è
capace di apprezzare indicazioni e avverte il bisogno di punti di riferimento solidi. Non
cerca di demolire tutto ciò che ha ricevuto, per il puro gusto di distruggere e di edificare
qualcosa di radicalmente nuovo, ma cerca di acquisire una visione più realistica della
realtà, priva dell’onnipotenza infantile e di proporsi come soggetto attivo e collaborativo
e non più passivo e dipendente.
L’adolescenza può concludersi con differenti esiti.
- Esito ottimale: anche alternando momenti di regressione all’infanzia, il soggetto
vive il processo di crescita, allargando i propri orizzonti sociali, emotivi e cognitivi;
- Adolescenza ritardata: di fronte alle difficoltà, l’adolescente evita ogni forma di
conflitto con gli adulti, persistendo in una posizione di dipendenza, nella convinzione che
allontanandosi dalla strada indicata dagli adulti andrebbe incontro al fallimento. Non si
cimenta in nuovi compiti, non vive conflitti con i genitori (“adolescenza bianca”), anzi
cerca di comportarsi da “bravo bambino” e compiacerli, precludendosi esperienze di
crescita e di emancipazione.
- Adolescenza abbreviata: risiede nell’impossibilità di vivere i conflitti e le
esperienze caratteristiche dell’adolescente e nel dover assumete stili di vita precocemente
adulti, per far fronte alle difficoltà concrete (iniziare subito a lavorare per sostenere la
famiglia).
- Esito dissociale: è caratteristico di adolescenti che non pervengono a una visione
realistica, poliedrica e complessa della realtà, ma ragionano secondo categorie
dicotomiche come quelle fanciullesche, mantenendo una rigida scissione tra buoni e
cattivi, idealizzando ciò che la società e i genitori disapprovano e opponendosi senza
costruirsi alternative costruttive.
Esistono strumenti di valutazione delle differenti dimensioni adolescenziali: ad

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esempio, i test proiettivi come il Rorshach possono far emergere conflitti e temi affettivi
inconsci, il TAT consente di far emergere motivazioni e bisogni, i test grafici come il test
Strumenti
dell’albero di Koch consentono di valutare la forza dell’Io, i Test di personalità come
l’MMPI-II delineano un profilo completo, eventualmente da integrare con l’Adjective
Check List (ACL), una lista di circa 300 aggettivi. L’High School Personality
Questionnaire forma A (H.S.P.Q.) è un questionario di personalità specifico per
adolescenti, l’Eating Disorders Inventory (EDI 2) è un test di personalità specifico per
disturbi alimentari, che spesso insogono nell’adolescenza. le Matrici di Raven o la scala
Wais sono test di intelligenza somministrabili nella tarda adolescenza. Poi vi sono test
per l’orientamento scolastico e professionale, come l’Inventario degli interessi
professionali di Kuder, somministrabili nelle fasi in cui gli adolescenti si apprestano a
scegliere l’università o a entrare nel mondo del lavoro.
Il costrutto dell’adolescenza trova applicazione nella psicologia dello sviluppo, nella
psicologia clinica, in quanto alcuni disturbi sono statisticamente molto frequenti in
adolescenza, come i disturbi alimentari, oppure nella psicologia della famiglia, poiché è
Ambiti un periodo di riorganizzazione delle relazioni tra i membri, un periodo in cui
applicativi
l’adolescente acquisisce maggior potere di negoziazione rispetto all’infanzia, dunque la
genitorialità può aver bisogno di essere sostenuta in questa transizione. In ambito
educativo e scolastico, si possono attuare progetti rivolti ad adolescenti, di prevenzione
di dipendenza da alcool, droga, fumo, di promozione delle abilità sociali, di educazione
sessuale, di orientamento scolastico-professionale, che rivestono anche una funzione
sociale. In molti consultori, inoltre, è stato istituito un centro adolescenti dove opera uno
staff multidisciplinare per promuovere la salute psicofisica degli adolescenti.

33. L’identità

NB: puoi accorpare anche il precedente tema sull’adolescenza e questo sull’identità,


togliendo alcune parti o integrandone altre, in base alla traccia.

L’acquisizione dell’identità scaturisce dall’interazione tra fattori psicologici,


Definizione familiari e sociali. Per comprendere questo processo, è opportuno effettuare una
distinzione preliminare tra identità e personalità.
La personalità è un’organizzazione tendenzialmente stabile di schemi cognitivi,
emotivi e sociali, che si delinea attraverso l’interazione di componenti biologiche,

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psicologiche e sociali (Caprara, Cervone, 2003). Invece, l’identità è un processo
evolutivo, che promuove la consapevolezza della propria struttura, la pianificazione delle
proprie tendenze operative e la partecipazione nella definizione di se stessi nel proprio
contesto (Tonolo, 1999).
Sono state compiute numerose ricerche sul processo di acquisizione dell’identità
Teoria nell’adolescenza, la maggior parte delle quali assume come punto di partenza le
approfondita
concettualizzazioni di Erikson (1968) e le successive rielaborazioni di Marcia (1966;
con
1980). Erikson (1968) formula una teoria che abbraccia tutte le età della vita, dalla
esperimento
nascita alla vecchiaia, individuando per ciascuna di esse uno specifico compito, un
“dilemma psicosociale”, che nasce dalla relazione tra l’individuo e l’ambiente.
L’individuo deve affrontarlo e superarlo per poter accedere allo stadio successivo. Questi
dilemmi sono formulati come una coppia di termini opposti, di cui uno indica una
conquista, l’altro il fallimento. In particolare, il dilemma psicosociale tra identità e
diffusione dell’identità si registra in adolescenza, poiché occorre elaborare le molteplici
trasformazioni corporee, cognitive e sociali ed emanciparsi dalla famiglia delineando una
propria identità.
Secondo Erikson (1950; 1968), questo processo di acquisizione di un’identità
scaturisce dalla percezione dell’uguaglianza di sé, dalla continuità della propria esistenza
nello spazio e nel tempo e dal riconoscimento da parte degli altri di tale continuità.
Dunque, risulta necessario sia un nucleo coerente, unitario e distinguibile nonostante i
cambiamenti e sia l’identificazione soggettiva e oggettiva di questo nucleo, poiché non è
sufficiente la consapevolezza della propria identità, ma è opportuno che gli altri
attribuiscano alla persona la stessa configurazione che si è creata.
Dopo la prima formulazione del costrutto eriksoniano di identità e diffusione,
Marcia (1966) ha proceduto ad una operazionalizzazione, fornendo definizioni chiare,
rigorose e misurabili degli stati di identità. Secondo questo autore, l’identità è “una
struttura del sé, un’organizzazione interna, autocostruita e dinamica di bisogni, abilità,
credenze e storia individuale” (Marcia, 1980).
Gli elementi costitutivi dell’identità sono il riconoscimento del proprio genere
sessuale, la maturazione fisica, l’utilizzo adulto e responsabile della propria sessualità, la
modalità di ragionamento astratto e la competenza a rispondere adeguatamente e in modo
funzionale alle regole sociali. Questi elementi non sono “dati”, ma costruiti attraverso
l’esperienza, cioè attraverso gli “assaggi” compiuti dall’adolescente in ambito scolastico,
sociale, sentimentale, identificandosi di volta in volta con modelli diversi.

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Egli, infatti, dopo un’esperienza riceve un feedback per orientare l’esperienza
successiva e gradualmente giungere, nell’età adulta, a scegliere un modello non tanto
definitivo, ma tendenzialmente più stabile e rispondente alle proprie attese.
Inoltre, Marcia ha riformulato la dicotomia eriksoniana nei termini di due processi
fondamentali implicati nella formazione dell’identità, quali l’esplorazione e impegno.
L’esplorazione è la fase di valutazione delle opzioni in previsione dell’assunzione di una
decisione e può essere presente, quando l’adolescente è impegnato nel vaglio delle
alternative, passata se ha compiuto una scelta, assente se non esprime alcun interesse
verso le opzioni. L’impegno è un ambito in cui l’adolescente sceglie di investire energie,
può essere di tipo scolastico, professionale, sociale, sportivo, ideologico, assume un
significato sociale e al contempo consente una definizione di sé (Bourne, 1978).
Combinando esplorazione ed impegno, si ottengono 4 possibili “stati di identità”,
che consistono in “modalità di far fronte alle questioni dell’identità proprie dei tardo-
adolescenti” (Marcia, 1980, p. 161) e rappresentano l’operazionalizzazione dei possibili
esiti del dilemma eriksoniano tra identità e diffusione. Questi stati sono il
raggiungimento dell’identità, la moratoria, la preclusione e la diffusione. Il
raggiungimento indica l’avvenuta acquisizione di un’identità, a seguito della scelta di
un’opzione verso la cui realizzazione si destinano le risorse personali, in quanto la scelta
comporta l’assunzione di un impegno.
La preclusione indica il blocco del processo di acquisizione dell’identità, che può
essere dovuto alla precoce assunzione di un impegno spesso assegnato da figure
significative, senza una scelta autonoma, oppure in presenza di una scelta libera, ma
compiuta senza una preliminare fase di esplorazione dovutamente accurata.
La moratoria equivale al posticipare il momento della scelta, permanendo a lungo
nella fase esploratoria. Infine, la diffusione indica il mancato avvio della fase
esploratoria, che non sembra né interessare, né preoccupare l’adolescente. La mancata
acquisizione di un’identità si accompagna spesso ad uno stato di malessere, al contrario
dell’avvenuto compimento, che invece si accompagna al benessere (Bishop, Weisgram,
Holleque, Lund, Wheeler-Anderson 2005).
In Italia, sono state compiute ricerche per validare il modello di Marcia e per
analizzare la relazione tra stile decisionale degli adolescenti e gli stati di identità appena
illustrati. In particolare, il Cospes (1995) ha svolto studi dai quali sono emersi 5
principali gruppi di stili decisionali, a loro volta significativamente correlati con tempi e
modalità di acquisizione dell’identità in adolescenza.

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
Il primo gruppo è costituito dai succubi, cioè degli adolescenti che cedono alle
pressioni familiari e gruppali. Sono dunque influenzabili, facilmente suggestionabili
dalle mode e spesso si sentono inadeguati. Il secondo gruppo è costituito dagli
aggressivi, che si sentono rifiutati, dunque tendono a rifiutare a loro volta, polemizzando
con genitori e gruppi dei pari. Il terzo gruppo è costituito dagli impulsivi, che non
stabiliscono una linea coerente da seguire, ma si lasciano guidare dalle impressioni, dalle
eccitazioni e dalle emozioni del momento. Il quarto gruppo è costituito dagli
autorealizzati, che pianificano la loro crescita, valutando approfonditamente le opzioni,
sanno posticipare la soddisfazione di un bisogno, si dedicano ad attività costruttive e
pensano al futuro. Il quinto gruppo è costituito dai prosociali, che orientano le loro scelte
verso la solidarietà e la cooperazione, cercano di rendersi utili alla comunità e
partecipano alla vita familiare e sociale, impegnandosi per trovare accordi e preservare la
tranquillità.
Studi cross-culturali evidenziano infine la maggiore difficoltà nel processo di
acquisizione dell’identità da parte di adolescenti appartenenti a minoranze etniche
(Berry, 2001). Essi sembrano persistere nello stato di moratoria molto a lungo prima di
assumere un impegno, poiché devono confrontare più modelli spesso contrastanti, che
scaturiscono sia dalla tradizione della famiglia, sia dalla cultura del paese in cui vivono.
Il modello di Marcia ha aperto un dibattito, coinvolgendo diversi autori e
ricercatori, nel tentativo di valorizzarne i punti di forza, ma anche di individuarne i punti
di debolezza. Waterman (1999) approfondisce il modello degli stati, inserendolo in una
prospettiva evolutiva, in quanto propone una ricostruzione della sequenza delle
transizioni che prelude alla stabilizzazione di una configurazione identitaria e che è
disseminata di progressioni e regressioni. Berzonsky (1990; 1992; 2004) non condivide
invece l’assimilazione della formazione dell’identità ad una sequenza di assunzione di
stati identitari, ma lo ritiene un percorso a lungo termine che risente degli “stili di
identità” di ciascuno.
Gli “stili di identità” consistono in differenze interindividuali stabili nei processi a
breve termine, dunque indicano le modalità preferenziali con cui gli individui realizzano,
preservano o modificano la loro identità (Berzonsky, 1992). Gli individui con uno stile
informativo, tendono a prolungare la fase di esplorazione. Gli individui con uno stile
normativo calcolano invece l’effetto degli impegni sugli “altri significativi”, cioè sulle
figure a cui sono legati da relazioni familiari, sociali o affettive. Gli individui con uno
stile evitante o “diffuso” tendono a ritardare le scelte, senza adottare un criterio di

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riferimento né autonomo né esterno, finché stimoli piacevoli non determinano il corso
degli eventi.
Berzonsky (1992) ha realizzato anche l’Identity Style Inventory (ISI), una scala per
rilevare lo stile preferenziale, disponibile anche in versione italiana (Crocetti, Rubini,
Test Berzonsky, Meeus, 2009). Gli stili di identità di Berzonsky sono significativamente
correlati agli stati di identità di Marcia, come rilevano alcune ricerche recenti
(Berzonsky, 2004). Infatti, gli adolescenti con uno stile informativo si trovano in un
ostato di acquisizione o di moratoria, quelli con uno stile normativo si trovano in uno
stato di preclusione, infine quelli con uno stile evitante sono in una condizione di
diffusione.
Il costrutto dell’identità presenta diverse possibilità di applicazioni, nella
psicologia dell’età evolutiva per monitorare i processi di sviluppo del soggetto, nella
Ambiti
psicologia clinica poiché la mancata acquisizione dell’identità può comportare un disagio
applicativi
psicologico che richiede un sostegno, nella psicologia sociale per lo studio dell’identità
dei popoli, nella psicologia del lavoro per analizzare l’intersezione tra identità personale
e identità professionale.

34. Il bullismo

I bambini in età scolare (6-11 anni) strutturano la loro l’identità attraverso il gruppo
dei pari, che facilita l’emancipazione dagli adulti attraverso identificazioni reciproche,
Introduzione
confronti, attività condivise. Interagire con altri bambini stimola le abilità sociale, offre al
e definizione
bambino la possibilità di sperimentarsi in ruoli diversi da quelli di figlio e di iniziare a
definire una personalità autonoma, acquisendo anche uno “status”, cioè una posizione
all’interno del gruppo che lo fa riconoscere e apprezzare per le sue caratteristiche, i suoi
interessi e le sue competenze. Infatti, nel rapporto con i pari, il bambino non è accettato
aprioristicamente come in famiglia, ma deve conquistare le simpatie degli altri,
condividere e collaborare, oltre a modulare la sua impulsività, negoziare e rispettare
regole condivise.
Tuttavia, alcuni bambini cercano di affermare se stessi in modo coercitivo,
prevaricando ripetutamente e intenzionalmente i coetanei. Questa modalità di interazione
sta aumentando sia nelle scuole primarie italiane che all’estero. Il fenomeno delle
prevaricazioni tra bambini è stato definito bullismo, adattamento dall’inglese bullying,
che indica un comportamento aggressivo, vessatorio e intimidatorio. Lo studioso più

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importante del bullismo è stato lo psicologo norvegese Olweus, che ha compiuto ricerche
sulla diffusione del fenomeno, ha ideato un questionario anonimo sulle prepotenza subìte
e agìte a scuola e ha predisposto una serie di interventi per contrastarlo.
Olweus (1986; 1991; 1993) ha spiegato che “uno studente è oggetto di azioni di
Teoria bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel
approfondita corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni”
Le tre caratteristiche che distinguono il bullismo sono: l’intenzionalità, che implica la
volontà deliberata di recare offesa; la sistematicità, che indica una continuità nel tempo
delle azioni di sopraffazione; l’asimmetria di potere, che indica la presenza di
differenze fisiche o psicologiche tra bullo e vittima, tali da definire due ruoli, quello del
prepotenze che sottomette e della vittima che subisce, spesso senza denunciare, per paura
di ritorsioni del bullo.
La sopraffazione del bullo può essere esercitata in diversi modi: diretti, con
attacchi manifesti, fisici e/o verbali, alla vittima, come avviene spesso tra maschi;
indiretta, sotto forma di isolamento sociale, pettegolezzo, calunnie, coalizioni tese a
svalutare la vittima, come avviene spesso tra femmine.
Il bullismo non riguarda solo il bullo e la vittima, ma coinvolge un intero gruppo di
pari, ciascuno con un suo ruolo. Infatti, il bullo è generalmente il bambino aggressivo,
favorevole alla violenza, spesso impulsivo, dominatore, insofferente alle regole,
scarsamente empatico e poco sensibile verso la sofferenza delle vittime, che sminuiscono
colpevolizzandole o deumanizzandole. Poi vi sono i sostenitori, che sono suoi seguaci
del bullo, lo incitano e lo approvano, senza però prendere parte alle azioni violente.
Osservando e incitando, rinforzano il comportamento violento, legittimandolo. I bambini
che assumono questo ruolo sono definiti anche “bulli passivi”, sono spesso insicuri e
ansiosi e si sentono protetti dalla potenza del bullo.
Poi vi sono le vittime, che spesso sono bambini insicuri e ansiosi, che non
reagiscono agli attacchi, ma piangono oppure si isolano. Sono spesso più fragili dei bulli,
fisicamente ed emotivamente, meno capaci nelle attività di gioco, sportive e di lotta.
Spesso hanno una bassa autostima, sono timidi e hanno paura di chiedere aiuto o non
vogliono chiederlo, perché si vergognano o temono vendette da parte dei bulli o derisioni
dai compagni per non essere coraggiosi. Infine vi sono i sostenitori della vittima, che
danno il loro appoggio, e i soggetti neutrali, che sanno ma non riferiscono nulla agli
adulti, cercano di rimanere estranei, per timore o indifferenza, ma con la loro omertà
avvalorano le prepotenze.

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Sia bulli che vittime presentano spesso difficoltà nel riconoscimento delle
emozioni: il bullo non sa immedesimarsi nella vittima, ne disconosce i segnali di
sofferenza, non è consapevole delle sue e delle altrui emozioni perché non sa leggerne i
segnali sul volto o nel comportamento. La vittima a sua volta non sa riconoscere le
espressioni di rabbia del bullo, dunque non sa intuire che possa trasformarsi in
aggressore e talvolta finisce anche inavvertitamente per provocarlo.
I bulli, se persistono nel loro atteggiamento e comportamento, rischiano di
strutturare disturbi della condotta e successivamente disturbi antisociali della personalità,
mentre le vittime possono sviluppare depressione anche molto grave, sentirsi vulnerabili
e privi di valore. Gli atti di bullismo infatti non sono da liquidare come semplici
“ragazzate”, ma possono diventare pericolosi. È opportuno quindi agire con la
prevenzione, con un incremento della conoscenza del fenomeno nella scuola, con la
promozione di abilità sociali tra i bambini.
Il metodo più utilizzato per prevenire o intervenire sul bullismo che integra
educazione socio affettiva e peer-education. L’educazione socio-affettiva è un metodo
educativo di sviluppo della conoscenza di sé e delle proprie emozioni e di miglioramento
delle relazioni di gruppo, sviluppando abilità di comunicazione, negoziazione, tolleranza,
cooperazione, che sono fondamentali in ambito educativo, affettivo, sociale, lavorativo.
La tecnica più indicata per raggiungere questi obiettivi è il circle-time, che consiste
nel disporsi in cerchio, con la consegna di esprimere a turno la propria opinione o
emozione relativa ad un problema e la consegna di non giudicare ciò che dicono gli altri,
imparando il rispetto dei turni, la tolleranza e la collaborazione. La peer-education è un
metodo di apprendimento e insegnamento che vede protagonisti i bambini o gli
adolescenti, divisi in piccoli gruppi, all’interno dei quali ciascuno assume un ruolo ed ha
la responsabilità di trasmettere un contenuto agli altri. In questo modo si attiva uno
scambio reciproco, gli studenti diventano attivi, imparano non soltanto a recepire
passivamente i contenuti, ma anche a gestire in modo autonomo l’apprendimento,
collaborando e mettendo in comune esperienze, conoscenze, emozioni.
Per effettuare uno screening e rilevare la presenza di bullismo in una scuola si
Strumenti di utilizzano generalmente il questionario “la mia vita a scuola”, che rileva le prepotenze
valutazione subìte e il questionario di Olweus per rilevare numero e tipologie di violenze agìte e
subite, relazioni con i pari e gli insegnanti, consapevolezza del problema.
I progetti di prevenzione e intervento sul bullismo sono oggetto di applicazione
soprattutto della psicologia scolastica, dell’età evolutiva, dell’educazione, anche se la

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riduzione di questo fenomeno interessa anche la psicologia di comunità, date le
implicazioni sociali di tali violenze.

35. L’invecchiamento

In termini medici, l’invecchiamento consiste in una progressiva degenerazione dei


tessuti che può portare alla demenza e all’invalidità; dal punto di vista sociologico
Definizione
rappresenta l’uscita dai contesti produttivi e l’ingresso in quelli assistenziali e sanitari;
dal punto di vista psicologico, l’invecchiamento si caratterizza per una ridotta efficienza
delle funzionalità percettive, mestiche e attentive, ma anche come una possibilità di
riconfigurare positivamente la propria personalità. Infatti, gli studi psicosociali sugli
anziani hanno soffermato l’attenzione sul “funzionamento” dell’anziano, valutando le
sue competenze cognitive e sociali, programmando interventi di potenziamento delle
abilità residue.
Finora gli approcci all’invecchiamento sono stati spesso guidati da una visione
meccanicista dell’anziano, orientata prevalentemente a quantificare il deterioramento e
Panoramica
preoccupata di fornire un sostegno alle funzionalità mnemoniche, comportamentali,
delle teorie
“tecniche”. Sono stati sottolineati soprattutto gli aspetti negativi e le situazioni
patologiche come la depressione, restituendo quindi un profilo dell’anziano quasi
costitutivamente affetto da disturbi dell’umore, tendente alla passività e alla nostalgia,
ripiegato malinconicamente su se stesso e sul passato, in modo non dissimile dalle
olografie fornite dalla letteratura e dagli stereotipi presenti nell’immaginario collettivo.
L’approfondimento dei guadagni, delle trasformazioni positive, delle acquisizioni
dell’età senile, non ha ricevuto altrettante attenzioni rispetto agli aspetti di decadimento e
perdita. Sono state meno esplorate le risorse positive, in grado di prolungare
indefinitamente il ruolo attivo dell’anziano e trasformare il suo benessere da “assenza” di
elementi negativi a presenza di risorse positive.
In ambito psicosociale, un autore in particolare, Erik Erikson, si è soffermato sui
compiti evolutivi caratteristici della vecchiaia, cioè dai 65 anni circa. Secondo Erikson,
nella vecchiaia, l’uomo è posto di fronte a due alternative: integrità dell’Io contro
disperazione. Il tempo e le energie rimanenti sono minori di quelle già spese, per cui
viene a diminuire la progettualità a favore di riflessioni sul passato e bilanci. Se non si
giunge all’accettazione della propria vita e delle scelte compiute, può scaturire senso di
disperazione, accentuato dalla paura della morte.

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Infatti, l’età senile coincide con il ritiro dall’attività lavorativa, che può suscitare
senso di vuoto e richiede una riorganizzazione totale della propria giornata: vengono a
mancare routine stabilizzate da lungo tempo, contatti sociali e opportunità di sentirsi
produttivi. Ciò costituisce uno stress nell’attuale società basata sulla produttività e sul
consumo, poiché all’anziano vengono a mancare dunque due elementi che strutturavano
la sua identità, cioè l’immagine corporea e lo status sociale conferito dalla professione.
Si riduce il suo ruolo sociale e familiare e si dilata il tempo libero: la giornata, prima
freneticamente occupata da attività lavorative e frequentazioni sociali, diventa
improvvisamente vuota e si ha difficoltà a riempirla, poiché la precedente professione
spesso assorbiva tutto il tempo disponibile, senza concedere la possibilità di coltivare
hobby che possano compensare il vuoto.
Tra le variabili sociali e lavorative, che pongono l’anziano a rischio di strutturare un
disturbo dell’umore, una delle più importanti è il pensionamento, che costituisce anche
un problema economico e comporta un maggior controllo delle spese, che vengono ad
essere unicamente rivolte a beni alimentari ed assistenza medica, precludendo la
possibilità di coltivare interessi e concedersi gratificazioni, per cui si chiude l’accesso ad
esperienze potenzialmente creative che possano compensare il ritiro dalle attività
produttive.
Le occasioni di contatto sociale si riducono poiché l’anziano vive ripetutamente
esperienze di lutto e di perdita di persone che frequentava, divenute anziane o ammalate.
La riduzione della rete sociale è fonte di solitudine reale (l’essere soli) e di quella
psicologica (il sentirsi soli). Le difficoltà emotive e sociali, l’essere ancorati al passato e
avere difficoltà ad aggiornarsi e ad accettare i costumi e i valori delle generazioni più
giovani, generano senso di inadeguatezza, sfiducia e disadattamento. A ciò può seguire il
rifugio nei valori religiosi, le cui pratiche danno una nuova scansione alle giornate e
infondono speranza, modulando la paura e il pensiero ricorrente della morte.
Gli stereotipi e gli studi psicosociali e medici sull’invecchiamento, quando hanno
evidenziato i deficit, non hanno sottolineato le strategie di compensazione delle perdite,
cioè i “guadagni”, i compensi e le sostituzioni: quando decade un’abilità, l’organismo,
inteso come unità biopsicofisica, può sviluppare mezzi compensativi o sostitutivi per
adattarsi, creare nuove abilità che rimpiazzano quelle divenute inefficienti o ricorrere a
diversi mezzi di esecuzione di un compito, quando quelli tradizionali sono divenuti
precari.
Anche gli interventi rivolti agli anziani erano spesso rivolti alla riabilitazione, cioè al

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sostegno di deficit, mentre si può ipotizzare come una stimolazione rivolta alla parte
emotiva e un arricchimento affettivo possano contribuire a compensare le perdite di
status e di funzionalità. L’affettività costituisce un fattore di protezione dalla depressione
senile, poiché rappresenta una risorsa compensativa rispetto alle perdite cognitive, può
essere stimolata maggiormente rispetto alle funzionalità cognitive che comunque
risentono della degenerazione neurologica e dunque può candidarsi come leva per
mantenere la vitalità, sostenere l’autostima e variegare uno stile di vita che può condurre
alla noia, essendo meno ricco di eventi esteriori. Dunque, vi è una tendenza, che può
essere opportunamente stimolata, a trasformarsi e generare un nuovo repertorio di azioni
che, senza la perdita, non avrebbe avuto modo di prodursi.
Oggi la ricerca sull’affettività è sostenuta da una diversa filosofia del benessere e
degli anziani, che si propone di valorizzare l’emotività positiva e promuovere uno stile di
Teoria
vita attivo (active aging). L’invecchiamento di successo non è compromesso dalla perdita
approfondita
di abilità, quanto dalla mancanza di flessibilità nel reagirvi: la crisi della vecchiaia non
esita fatalmente nel decadimento e nel disimpegno, ma può costituire un’opportunità di
trasformazione positiva, di rinnovamento creativo del proprio armamentario di abilità e
abitudini e di ridefinizione del Sé altrettanto soddisfacente. Poiché a declinare sono
principalmente i processi mnestici, la velocità e l’accuratezza dell’esecuzione, le risorse
affettive possono compensare le perdite cognitive e la riduzione delle competenze
esecutive.
Il Modello SOC sintetizza le procedure di aggiustamento e compensazione che
consentono di ricostruire uno stile comportamentale equilibrato, calcolando e bilanciando
perdite e guadagni: l’acronimo sta per “selezione, ottimizzazione e compensazione”. La
selezione consiste nel ridurre lo spettro di attività, anche in ragione della diminuita
resistenza fisica, scegliendone alcune a cui dedicarsi più intensivamente e in cui dunque
è possibile mantenere alti livelli di rendimento. L’ottimizzazione consiste nell’elaborare
nuove strategie per affrontare i compiti, servendosi anche di “protesi” tecnologiche che
consentano di dispensare l’anziano da alcuni sforzi e risparmiare energia da investire
sugli ambiti selezionati. Infine la compensazione consiste nella sostituzione di mezzi, nel
dosaggio bilanciato di attività, stabilendo diversi obiettivi in luogo di vecchi standard.
La sintesi si queste tre procedure può essere identificata nell’ottimizzazione selettiva
con compensazione. Il modello è stato esemplificato anche dal pianista Rubistein in
un’intervista televisiva, dove dichiarò di aver ridotto il repertorio musicale (selezione),
concentrando i suoi sforzi nell’eseguire perfettamente alcuni pezzi (ottimizzazione),

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eseguendo più lentamente i pezzi più lenti, per dare un’illusione di maggiore velocità ai
pezzi veloci (compensazione).
Si definisce “invecchiamento riuscito” l’invecchiamento che seleziona gli obiettivi
da raggiungere, ottimizza le risorse a disposizione e compensa la perdita di risorse. Il
Censis ha compiuto un’indagine nel 2005 tra gli ultrasessantenni italiani per rilevare le
caratteristiche di una buona vecchiaia: una fonte di soddisfazione può essere il rapporto
con i nipoti, l’aprirsi alle relazioni con gli altri frequentando circoli, tenere allenata la
mente leggendo libri e giornali, fare gite, avere fede, coltivare un hobby per riqualificarsi
e sentirsi creativi.
A questo proposito, è stata effettuata da Smith e Baltes (1993) una ricerca su un
campione di anziani, per valutare le autodefinizioni del Sé più o meno adattive. Gli
anziani hanno fornito immagini positive, fornendo scenari variegati di possibili Sé futuri,
dichiarando di sentirsi psicologicamente più giovani, di essere aperti a nuove esperienze
e di intrattenere relazioni positive con gli altri. I risultati contrastano con gli stereotipi,
sono stati confermati da altri studi del settori, dunque non sono stati interpretati come
risposte difensive di negazione, ma come autentica espressione positiva della propria
immagine.
Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione delle funzioni dell’anziano, vi è il

Strumenti
Test Neuropsicologico Breve, che è un protocollo sintetico ma completo che consente di
avere una prima valutazione orientativa dell’efficienza delle funzioni cognitive, da
approfondire poi con test specifici. Per i disturbi dell’umore, si possono utilizzare i test
dell’IPAT, Insitute for Personality and Ability Testing, cioè l’ASQ per l’ansia e il CDQ
per la depressione. Per valutare la qualità della vita, si può utilizzare lo Psychological
General Well Being Index, questionario sviluppato negli anni ‘80 negli USA ed
utilizzato in studi di tipo epidemiologico e clinico in tutto il mondo.
L’età senile è oggi al centro di numerosi progetti sia istituzionali , sia privati, volti a
sviluppare le risorse residue degli anziani, a promuovere uno stile di vita attivo (active
Ambiti
aging) e a migliorare la qualità della loro quotidianità, non soltanto attraverso sostegni
applicativi
pratici, medici e assistenziali, ma anche sociali.

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D) Temi di Psicologia Sociale

36. Conflitto

Nel senso comune, il termine “conflitto” spesso assume un’accezione negativa,


poiché è colto soltanto nella sua dimensione distruttiva e aggressiva, invece, in ambito
Definizione
psicologico e sociale, il conflitto può assumere un’accezione positiva, di dialettica che
attiva un meccanismo, oppure neutra. Il conflitto è una situazione di antagonismo,
opposizione, differenza tra elementi di varia natura, cognitivi, emotivi, comportamentali,
sociali, che richiede uno sforzo attivo di adattamento e riconfigurazione.
Il conflitto è stato inteso in modo specifico in diversi ambiti. In ambito sociale, il
conflitto è la competizione tra gruppi per aggiudicarsi le risorse; in ambito
Sintesi dei
comportamentista, risiede nell’interferenza reciproca tra risposte comportamentali
principali
autori e teorie
incompatibili; in ambito cognitivo, il conflitto è il contrasto tra percezioni, atteggiamenti,
di riferimento credenze contrastanti tra di loro oppure dissonanti rispetto alla realtà; in ambito
psicoanalitico freudiano, il conflitto avviene tra pulsioni, come eros e thanatos, oppure
istanze, come Es, Io e Super-Io, dunque è intrapsichico.
Uno dei teorici che ha formulato una teoria sul conflitto ed ha svolto esperimenti è
Kurt Lewin, legato all’orientamento gestaltico. Egli intende il conflitto come una
situazione in cui nel soggetto operano due forze dotate di uguale intensità e di opposta
Teoria direzione. In base alla combinazione di forze appetitive, che promuovo un
approfondita
comportamento di avvicinamento al soggetto, e forze avversive, che promuovono
(con autori,
l’allontanamento, si configurano 4 tipi di conflitto:
esperimenti,
ecc.)
1) conflitto tra due tendenze appetitive;
2) conflitto tra l’attrazione e l’avversione per lo stesso oggetto;
3) conflitto tra due tendenze avversative;
4) conflitto tra più tendenze appetitive ed avversative.
Il primo conflitto è di tipo attrazione-attrazione, è il più innocuo, in quanto
comporta la scelta tra due opzioni ugualmente ambite. È il caso del leggendario “asino di
Buridano” che, posto di fronte a due mucchi di fieno, indeciso su quale dei due mangiare,
si bloccò e morì di fame. Anche se entrambe le opzioni sono piacevoli, è comunque una
situazione che genera tensione, per questo, una volta effettuata una scelta, il soggetto
esalta l’opzione scelta e denigra quella trascurata o viceversa, per difendersi dal ritorno
del conflitto. Nella realtà, è pero difficile che due scelte di equivalgano perfettamente.

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Il secondo conflitto è di tipo attrazione-avversione. Questo implica che l’oggetto
possieda sia caratteristiche attraenti che repulsive, dunque il soggetto non sa se
avvicinarsi, ma ricevendo così un danno, oppure evitarlo, rinunciando però alla
componente positiva. Si può verificare quando uno studente deve scegliere una facoltà
che risponde ai suoi interessi, ma non offre sbocchi lavorativi. Questo può comportare il
rimanere sospesi e non riuscire a prendere una decisione.
Il terzo conflitto è di tipo avversione-avversione. Il soggetto si trova di fronte a due
situazioni negative, tende a difendersi con la ritirata, ma quando non è possibile, ripiega
sull’opzione meno dannosa.
Il quarto conflitto è di tipo più-attrazioni e più-avversioni. Il soggetto si trova di
fronte a oggetti o situazioni che evocano contemporaneamente sia attrazione sia
avversione. E’ il più frequente nella vita quotidiana.
Lewin ha applicato questi concetti in ricerche sull’educazione dei bambini, che
spesso vengono posti in situazioni di conflitto quando si cerca di convincerli a fare o non
fare qualcosa con la promessa di un premio o la minaccia di una punizione. Sia il
premio che la punizione sono utilizzati per evitare un allontanamento del bambino da una
meta a lui sgradita o l’avvicinamento ad un obiettivo per lui desiderabile, ma
inopportuno. Lewin ha rilevato che, quando l’adulto ricorre alla minaccia di punizione, il
bambino cerca di evitare sia il compito spiacevole sia il castigo, mettendo in atto una
fuga. Invece, quando promette un premio, il bambino eviterà comunque di compiere
un’azione per cui spiacevole, cercando di ottenere il premio senza ottemperare alla
prescrizione.
Attualmente, strumenti utilizzati e tipici dell’ambito gestaltista per far emergere i
conflitti percettivi, sono alcune figure geometriche o illustrate, come le figure ambigue, i
Strumenti chiaroscuri o i profili di Rubin, poiché consentono due possibilità di lettura: il soggetto,
se fissa a lungo queste figure, alterna le due percezioni conflittuali sempre più
velocemente, finché l’immagine non si scotomizza. Ulteriori strumenti per analizzare i
conflitti, non di derivazione gestaltista, sono i test proiettivi, come il Rorschach, per far
emergere conflitti profondi, o il TAT, per far emergere conflitti tra bisogni e motivazioni.
Il costrutto del conflitto presenta diversi ambiti applicativi. I conflitti possono
presentarsi in ambito educativo, affettivo, sociale. Un ambito applicativo è la psicologia
della coppia e della famiglia, poiché alcuni eventi paranormativi, quali la separazione e il
Ambiti
divorzio, stanno aumentando statisticamente, tanto da diventare normativi: per
applicativi
affrontarli, si stanno affermando modalità di mediazione familiare, che consentono di

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elaborare il conflitto, riconfigurare le relazioni per evitare aggressività tra ex-coniugi. In
ambito sociale, si verificano spesso i conflitti tra ruoli, soprattutto nella donna, che
ricopre contemporaneamente più funzioni, da quelle di accudimento e cura in famiglia, a
quelle manageriali sul lavoro, a quelli sociali e affettivi: per questo, si stanno
diffondendo tecniche di work-life balance, per conciliare tempi e spazi di vita familiare e
professionale.

37. Stereotipi e pregiudizi (o “Cognizione sociale”)

Stereotipi e pregiudizi sono studiati nell’ambito della cognizione sociale, che


consiste nello studio dei processi implicati nell’elaborazione dell’informazione sociale e
consente di analizzare in che modo si creano le prime impressioni, come si modificano,
Definizione
come si semplifica la percezione delle categorie sociali e dei gruppi, come vengono
valutati i fenomeni interpersonali.
Per quanto riguarda lo stereotipo, esso consiste nell’attribuzione di un numero
ridotto di tratti a un insieme più ampio e complesso di elementi, racchiudendoli in
un’unica macrocategoria. Lo stereotipo si ottiene quindi semplificando la realtà, in sé
Sintesi dei
poliedrica e sfuggente, schematizzandola e forzandola in uno schema univoco, da
principali
autori e teorie
utilizzare per inquadrare rapidamente un problema, una questione o un individuo.
di riferimento La scelta della caratteristica da assolutizzare e da assumere come esaustiva ricade
sugli aspetti storici o su quelli percettivamente più evidenti e materiali: per questo è
simile al pensiero operatorio-concreto come quello dei fanciulli, che ragionano per
categorie grossolane e visivamente più rilevanti. Lo stereotipo economizza dunque la

Teoria
comprensione della realtà, risparmiando lo sforzo di coglierne tutte le sue sfumature, e
approfondita svolge una doppia funzione:
(con autori, - cognitiva: di semplificazione della realtà, distorcendola;
esperimenti,
- valoriale, di rinforzo della propria identità sociale attraverso la differenziazione
ecc.)
da quella degli altri.
Una volta appreso, lo stereotipo si autoalimenta mediante specifichi processi
cognitivi: la selezione delle informazioni: si colgono preferenzialmente gli elementi della
realtà che collimano con lo stereotipo e si trascurano quelli che lo disconfermerebbero;
l’attribuzione causale: quando si incontrano elementi che contraddicono lo stereotipo,
essi vengono attribuiti a fattori situazionali, cioè considerati come eccezioni, eventi
fortuiti, casualità; le profezie che si autoavverano: si pensa che una persona possieda le

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caratteristiche dello stereotipo, quindi la si tratta di conseguenza, stimolando risposte che
finiscono per confermare lo stereotipo.
Lo stereotipo può degenerare in pregiudizio, cioè in una valutazione negativa o
positiva verso una categoria di persone, basata non su dati di fatto o su una conoscenza
diretta, ma su generalizzazioni. Il pregiudizio presuppone infatti l’attribuzione di una
caratteristica ad una persona, ancor prima di conoscerla e di ricevere informazioni
sufficienti a formulare un’opinione, dunque consiste nell’affrettare un giudizio prima di
avere una visione completa della questione.
Lo psicologo contemporaneo Allport sostiene che alla base del pregiudizio vi siano
due processi: categorizzazione e generalizzazione. La categorizzazione è la creazione di
categorie all’interno delle quali collocare le informazioni: si tratta dunque della creazione
di uno strumento cognitivo che semplifichi la percezione della realtà, classificando e
assegnando ogni suo aspetto sotto un unico concetto. La generalizzazione è l’estensione
di un aspetto a tutti gli elementi di un gruppo. Ad esempio, se ascolta la notizia di un
immigrato che ha compiuto un furto, tutti gli immigrati vengono classificati come ladri.
Il pregiudizio può essere negativo o positivo: un caso specifico di pregiudizio è l’
“effetto Pigmalione”, dal nome del mitico re di Cipro che scolpì una statua che
rappresentava il suo ideale di donna e se ne innamorò. La dea Venere diede poi vita alla
statua. In una classe, quando un insegnante nutre aspettative positive verso gli studenti,
si comporta in modo da tale facilitarne la realizzazione e gli studenti stessi si
impegneranno per corrispondere all’immagine positiva che l’insegnate ha di loro.
In un celebre esperimento sul pregiudizio positivo, gli psicologi contemporanei
Rosenthal e Jacobson, all’inizio dell’anno scolastico sottoposero i bambini a test,
facendo credere che misurassero la rapidità dello sviluppo cognitivo e segnalando alle
maestre i nominativi dei bambini con un punteggio più elevato. In realtà i nominativi
erano stati scelti a caso, ma la segnalazione cambiò l’atteggiamento delle maestre nei
loro confronti, tanto che questi registrarono rapidi miglioramenti come aveva predetto il
test. Le maestre avevano creato ciò che pensavano di trovare.
Gli strumenti e i metodi di indagine di stereotipi e pregiudizi sono quelli
Strumenti caratteristici della ricerca psicosociale, dunque metodi qualitativi come interviste e
questionari, analisi del discorso e della conversazione, osservazione, esperimenti
psicosociali.
Stereotipi e pregiudizi presentano diversi ambiti applicativi, innanzitutto inerenti la
psicologia sociale. Infatti, studiarli consente di progettare interventi per l’integrazione

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sociale, per la mediazione interculturale, per l’immigrazione. E’ utile studiarli anche per
Ambiti
interventi che riducano le eventuali discriminazioni basate sul genere, sulla religione,
applicativi
sulla razza, sui costumi oppure per eliminare pregiudizi in ambito scolastico,
professionale, sociale.

38. Atteggiamenti

Gli atteggiamenti sono stati studiati in psicologia sociale e consistono in valutazioni


di un oggetto, di una persona o di un evento, si collocano lungo un continuum
favorevole-sfavorevole, sono impregnati di emozioni e sono associati a tendenze
Definizione comportamenti di avvicinamento-allontanamento verso l’oggetto stesso.
Secondo Rosenberg e Hovland (1960), l’atteggiamento è costituito da tre elementi
fondamentali:
- cognitivi, come convinzioni, credenze, e conoscenze su una questione;
- emotivi, come l’interesse verso un settore, o anche la noia o la fatica evocate da
Teoria determinate azioni;
approfondita
- conativi, come la volontà di azione, e modalità di intervento, i comportamenti con
(con autori,
cui si affronta una situazione. Gli atteggiamenti sono tanto più stabili e resistenti al
esperimenti,
ecc.)
cambiamento quanto più sono coerenti e legate tra loro le componenti che li strutturano.
La psicologia sociale ha analizzato anche come si formano gli atteggiamenti. In
particolare, un atteggiamento favorevole si forma con la soddisfazione di un bisogno. I
bisogni dipendono dalla personalità: la valutazione positiva di un comportamento
sportivo, di un hobby, di una moda, può essere dovuta a un bisogno di affiliazione che
quella oggetto consente di soddisfare.
La stabilità degli atteggiamenti dipende da vari fattori:
1) Multilateralità, ossia da quanti elementi, di natura cognitiva, emotiva e
comportamentale, compongono l’atteggiamento.
2) Coerenza tra elementi cognitivi, emotivi e comportamentali: un atteggiamento è
tanto più stabile quanto più gli elementi che lo costituiscono sono tutti positivi o tutti
negativi. Per questo, può essere utile enumerane tutte le componenti, contarle e valutare
quanto sono realmente coerenti tra loro o quanto risultino tali in seguito allo sforzo di
conformale artificiosamente alla tonalità positiva, pur di preservare un quadro coerente
(teoria della dissonanza di Festinger).
3) Interconnessione: un atteggiamento è tanto più stabile quanto più sono

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interconnessi i vari elementi dell’atteggiamento. Un eccesso di interconnessione è
dannoso perché crea un’ideologia, ossia un sistema di credenze resistente al
cambiamento, anche quando è esposto a informazioni contrarie (teoria dell’equilibrio di
Heider).
4) Numero dei bisogni soddisfatti e relativa priorità: un atteggiamento è stabile se
soddisfa bisogni numerosi e se tali bisogni sono gerarchicamente importanti per la
persona. Se si ambisce a una professione cui si guadagna bene, l’atteggiamento verso la
professione di medico sarà stabile. Se cambia la gerarchia dei bisogni e guadagnare bene
non è più sentito come prioritario, anche l’atteggiamento verso la carriera di medico non
sarà più altrettanto positivo.
Gli atteggiamenti cambiano quando:
- si acquisiscono informazioni aggiuntive;
- cambiano le motivazioni del comportamento: ad esempio, quando cambia il gruppo
di riferimento, ci si trasferisce in una nuova città o si diventa autonomi, diminuisce il
condizionamento esercitato dai vecchi amici, genitori e cultura locale;
- gli atteggiamenti cambiano se erano determinati da una moda passeggera o
soddisfacevano pochi bisogni e non prioritari.
Il cambiamento degli atteggiamenti può essere congruente o incongruente:
- congruente se si accresce la valenza, per cui un atteggiamento positivo diventa più
positivo: gli atteggiamenti hanno la spontanea tendenza a intensificarsi.
- incongruente se c’è una conversione da positivo a negativo.
Questa è una circostanza molto più rara, in genere dovuta ad atteggiamenti motivati
da mode, come il voler intraprendere una carriera musicale, perché colpiti dal successo di
un giovane cantante. È più facile quindi cambiare opinione in senso congruente che
incongruente: quando si ha un’opinione positiva su un argomento, aumentando le
informazioni, l’opinione tende a rafforzarsi e a diventare più positiva, oppure, se
negativa, tende a diventare più negativa.
L’acquisizione di informazioni ulteriore non cambia automaticamente gli
atteggiamenti: per questo, è spesso più facile crearsi un’opinione che cambiarla. Per
cambiarla occorre indebolire le resistenza che la mente oppone per difendere la sua
stabilità. Cambiare opinione significa rompere un equilibrio, cadere nel caos e dover
faticosamente ricreare un nuovo equilibrio. Una volta creata un’opinione, la mente si
affezione ad essa e cerca in tutti i modi di preservarla.
Non basta quindi incrementare la quantità di informazioni su un dato argomento per

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cambiare opinione su di esso, perché la mente non è permeabile a tutte le informazioni e
non è predisposta a riceverle tutte indistintamente: seleziona solo quelle che confermano
l’opinione che già si possedeva e non si fa condizionare da quelle contrarie. La persona si
può irrigidire su una posizione, fissarsi su una scelta, anche se non è realistica né
autentica, ma frutto di condizionamento o mode transitorie. Anche quando sarebbe
opportuno cambiarla, la persona tenderà a preservarla, quindi anche se si espone a
informazioni che ne discutono l’attendibilità, che evidenziano come sia inopportuna, si
irrigidisce ulteriormente e si oppone cercando argomentazioni a proprio sostegno.
La persona può fissarsi su una posizione, convincersi che sia quella giusta e cercare
inconsciamente conferme alla sua validità. Spesso si cade in posizioni rigide e
intransigenti anche per la confusione indotta dall’alto numero di opzioni, confusione che
rende la persona più seducibili da mode e predispone verso soluzioni-ancoraggio a cui
aggrapparsi per uscire da un caos intollerabile.
È più facile che si compia una scelta ottimale, che si agisca con equilibrio, se si parte
da una posizione di neutralità piuttosto che da una posizione già molto marcata, sia in
senso negativo che positivo. Le posizioni di partenza di tipo marcatamente negativo, che
mirano a escludere categoricamente un’ipotesi, possono derivare da una dinamica
difensiva dovuta a un bisogno di sicurezza. In questo caso per cambiare opinione o
renderla più realistica occorre riflettere sul proprio bisogno di sicurezza.
In sintesi, la quantità delle informazioni non è sufficiente a cambiare atteggiamento,
le informazioni sono filtrate emotivamente e si tende a coglierne gli elementi più
suggestivi o quelli in linea con atteggiamenti pre-esistenti. Si può verificare l’ipotesi che
altri cerchino intenzionalmente di cambiare i nostri atteggiamenti.
Cambia inoltre la sensibilità verso le fonti di informazione: persone più colte
tendono ad attribuire più credibilità alle informazioni lette su giornali o siti di settore,
mentre quelle meno colte tendono a reperirle informazioni da fonti informali o ad
affidarsi preferibilmente alla televisione più che ai giornali. Varia anche la sensibilità
anche verso informazioni: vengono utilizzate per creare o cambiare un atteggiamento le
informazioni che la persona cerca attivamente piuttosto che quelle ricevute passivamente.
Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione degli atteggiamenti, è possibile
misurare l’atteggiamento sia complessivamente, come una totalità coerente e strutturata,
Strumenti
sia scomponendolo nei suoi elementi fondanti, cioè l’elemento cognitivo, emotivo e
comportamentale, e misurarne uno in particolare di essi: infatti, si studia più
frequentemente lì elemento emotivo e cognitivo, anche perché non sempre un

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atteggiamento si traduce in un comportamento osservabile.
Le misure dirette includono il resoconto soggettivo, stilato dal soggetto, benché non
sempre sia attendibile e valido, oppure le scale, che chiedono di graduare le affermazioni
relative ad un certo atteggiamento, consentendo di ottenere un punteggio confrontabile
con quello di altri. Le scale sono composte da serie di affermazioni su un oggetto e sulle
quali il soggetto deve esprimere il suo accordo o disaccordo. Nella scala di Likert i
soggetti quantificano l’intensità del loro accordo dando un punteggio da 1 a 7. La scala di
Guttnam è strutturata in modo che se un soggetto risponde affermativamente ad un item,
avrà risposto allo stesso modo anche a quelli precedenti. La scala di Thurstone ipotizza
una distribuzione a campana intorno alle singole affermazioni.
Poi vi sono le stime di grandezza e intensità, che consento non soltanto di rilevare la
presenza-assenza di un atteggiamento, ma anche di graduarne l’intensità, assegnando un
punteggio ad una lista di stimoli. Infine, vi è il differenziale semantico, che consente di
graduare l’intensità dell’atteggiamento collocandosi in un continuum che prevede due
estremi opposti (bello-brutto, buono-cattivo, ecc).
Ci sono poi misure indirette che aggirano la consapevolezza del soggetto, dunque, a
differenza delle scale, sono meno soggette alla “desiderabilità sociale”, secondo cui il
soggetto risponde non quello che pensa, ma quello che ritiene possa compiacere il
somministratore. Le misure indirette sono utilizzate meno frequentemente, anche perché
possono richiedere specifiche apparecchiature elettrofisiologiche: infatti si basano su
indicatori corporei, come la risposta galvanica della pelle, la dilatazione della pupilla,
l’accelerazione del battito cardiaco.
Gli atteggiamenti presentano diversi ambiti applicativi: la ricerca e l’indagine
statistica, la psicologia del marketing per valutare gli atteggiamenti dei consumatori, le
Ambiti campagne di prevenzione di comportamenti a rischio, oppure per valutare scelte
applicativi politiche, cliniche, oppure relative all’orientamento scolastico e professionale o scelte
comportamentali applicate ad ogni settore.

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39. Gruppo

Il gruppo è un insieme di persone che interagiscono con regolarità, è regolato da

Definizione
norme, è caratterizzato da specifiche modalità di comunicazione e di relazione e presenta
un determinato grado di coesione tra i membri.
Una caratteristica che definisce un gruppo è lo status: esso indica la posizione
occupata da ciascun membro nel gruppo. In ogni gruppo, infatti, ciascuno occupa una
Teoria
specifica posizione rispetto agli altri, che può essere di leadership, paritaria o subalterna:
approfondita
(con autori,
chi occupa una posizione più elevata è la persona che detiene maggior potere, assume
esperimenti, decisioni, coordina il gruppo e verifica il raggiungimento degli obiettivi. La persona che
ecc.) occupa lo status più elevato è il leader: detiene maggior potere, esercita maggior
influenza e fa rispettare le norme.
Il leader svolge due funzioni principali: socioemozionale, in quanto motiva i membri
del gruppo a raggiungere un risultato, pacifica i conflitti, regola le interazioni;
organizzativa, in quanto assegna compiti, fissa scadenze, coordina il lavoro dei membri.
Le ricerche di Lewin hanno rilevato diversi stili di leadership:
1) leadership autoritaria: presuppone una distribuzione non omogenea del potere e
relazioni asimmetriche e bidirezionali, in quanto vi è un “capo” che impartisce ordini e
dei dipendenti che li eseguono. Ciò comporta aggressività, escamotage per sfuggire al
controllo e disaffezione al proprio compito, svolto meccanicamente;
2) leadership democratica: è caratterizzata dalla capacità di delegare alcuni compiti
ad altri, distribuire le responsabilità e di concordare insieme ai membri le decisioni da
seguire;
3) leadership permissiva: la leadership è nominale, ma non sostanziale, in quanto
consistente in funzioni di sola rappresentanza. I membri del gruppo vengono lasciati alla
deriva, poiché non ricevono alcuna indicazioni, né hanno una visione chiara degli
obiettivi e dei mezzi. Ciò produce malumore e scarso rendimento.
A questo proposito, Lewin, insieme a Lippit e White, nel 1939, ha condotto
esperimenti per confrontare quale stile fosse più efficace: ha diviso bambini di 10 anni in
vari gruppi, con il compito di costruire maschere teatrali per tre mesi nel doposcuola.
Ciascuno dei gruppi veniva gestito da un adulto che adottava uno specifico stile di
leadership. Poi ogni leader cambiava gruppo e stile: queste rotazioni servivano a
minimizzare l’influenza delle personalità dei leader e conferire rilievo allo stile adottato.
I 3 ricercatori hanno alla fine valutato la produttività del gruppo, il gradimento,

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l’aggressività connesse a ciascuno stile. Lo stile democratico risultò il più produttivo, il
più gradito, quello in cui si manifestavano meno comportamenti ostili.
Oltre al leader, il gruppo è costituito da membri che adottano uno specifico
comportamento e sono chiamati a svolgere uno specifico compito: un’altra caratteristica
che definisce il gruppo è infatti il ruolo. Ciascun membro è un “attore sociale” che recita
un ruolo. Il ruolo è dunque l’insieme dei compiti e dei comportamenti riferiti ad uno
status, l’insieme delle aspettative condivise riguardanti il modo di esprimersi e di agire di
chi occupa una posizione all’interno di un gruppo. I ruoli cambiano nel tempo e al
cambiare della composizione dei gruppi: l’uscita di vecchi membri e l’ingresso di nuovi
produce una revisione nelle gerarchia stabilite, una ridistribuzione dei compiti e una
conseguente riassegnazione di ruoli.
Il gruppo è regolato da norme: ciascun membro si attiene a regole condivise, che
servono a costruire un sistema di riferimento comune, a organizzare i rapporti tra i
membri e a definire l’identità del gruppo rispetto all’esterno. Le norme circoscrivono lo
spazio di libertà di espressione dei membri e individuano contenuti e modalità autorizzati
o punibili. Il gruppo è caratterizzato dalla comunicazione intragruppo, che avviene tra i
membri del gruppo e può seguire un modello centralizzato o distribuito, in base al fatto
che gli atti comunicativi si dipartano da un unico centro e raggiungano gli altri membri
oppure siano equamente distribuiti e tutti i membri si rapportino direttamente con tutti.
Il gruppo può essere più o meno coeso, in base all’intensità del legame tra i membri
e alla disponibilità di ciascuno a sacrificare la propria individualità per raggiungere gli
obiettivi del gruppo. Il gruppo può essere più o meno ampio: le dimensioni danno vita al
fenomeno dell’ “inerzia sociale”, poiché l’essere in molti a svolgere un compito induce
alcuni a defilarsi. Inoltre, quando si è in molti a compiere un’azione, si osserva un
fenomeno di deresponsabilizzazione del singolo e di attribuzione delle colpe all’entità-
gruppo.
Nel gruppo si verifica un fenomeno specifico studiato anche sperimentalmente: il
conformismo. Infatti, nel momento di prendere decisioni, di esprimere valutazioni, di
elaborare progetti, all’interno dei gruppi si presenta una particolare tendenza a
uniformarsi alle decisioni e alle opinioni di un gruppo e tale tendenza si definisce
“conformismo sociale”. Il gruppo esercita infatti un’influenza: spinge il singolo
individuo a cambiare comportamenti, atteggiamenti e opinioni quando non sono uniformi
a quelli della maggioranza. Quando l’influenza è esercitata in modo continuo e invadente
o l’individuo la percepisce come tale, vive un conflitto acuto tra le sue opinioni e quelle

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del gruppo, e l’influenza diventa vera e propria pressione sociale.
A questo proposito, lo psicologo contemporaneo americano di origine polacca
Salomon Asch ha condotto un esperimento per studiare la pressione sociale di un gruppo
sull’individuo. Radunò gruppi di studenti per studiare la percezione e fece osservare loro
due tavole con delle linee disegnate, come queste:

Una contenente una linea retta A, l’altra tre rette A, B, C, di varie altezze, delle quali
la C aveva altezza pari alla linea retta della prima tavoletta. Ai soggetti venne chiesto di
indicare quale delle tre linee della tavola B fosse della stessa misura della linea della
tavola A. Tutti i soggetti, d’accordo con lo sperimentatore, rispondevano in modo
sbagliato, indicando la «A», tanto che l’ultimo soggetto, pur titubante, si adeguava alla
risposta sbagliata della maggioranza. Oppure, interpellato per primo, forniva la risposta
esatta, ma successivamente, poiché tutti gli altri, d’accordo con lo sperimentatore,
fornivano una risposta diversa, egli iniziava a sentirsi imbarazzato, fino a dichiarare di
essersi sbagliato. Questo semplice esperimento dimostrava che spesso le persone si
uniformano alla maggioranza, anche se in realtà pensano il contrario e disporrebbero di
dati oggettivi che invalidano quella specifica opinione. Asch sostiene che il soggetto
dell’esperimento si trovava a fronteggiare un conflitto tra l’evidenza percettiva, cioè le
informazioni visive, e l’opinione del gruppo. In questa situazione, la persona esprime la
propria opinione non liberamente, ma tenendo conto delle opinioni della maggioranza,
fino a scartare le proprie, anche in presenza di elementi che le convaliderebbero. Asch ha
rilevato i fattori che modulano la tendenza al conformismo e che sono:
1) le dimensioni del gruppo: se il gruppo è più vasto, il conformismo diminuisce. Si
riesce quindi a sostenere un’opinione contraria all’interno di gruppi ristretti, quando si
rischia di contrariare pochi altri membri, piuttosto che in gruppi ampi dove chi sostiene
un’idea divergente è solo di fronte a una grande maggioranza;
2) l’interazione futura: se la persona non avrà ulteriori occasioni di incontro con il
gruppo, avrà più coraggio a sostenere le sue opinioni, altrimenti tenderà ad adeguarsi;
3) ambiguità dello stimolo: se non ci sono chiare evidenze per sostenere l’una o
l’altra tesi, la persona tenderà ad appoggiarsi alla tesi sostenuta dalla maggioranza;
4) l’attrazione verso il gruppo: se il soggetto vuole inserirsi in un nuovo gruppo,

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tenderà a minimizzare le divergenze per integrarsi ed essere accettato più facilmente.
Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione del gruppo, è piuttosto diffuso il
Strumenti
sociogramma di Moreno, strumento di osservazione indiretta che consente di visualizzare
graficamente la centralità o la perifericità di ciascun membro di un gruppo e le relazioni
di attrazione e repulsione tra i membri.
Il gruppo presenta diverse possibilità di applicazione. Ad esempio, nella psicologia
Ambiti
dell’età evolutiva, si studia il gruppo dei pari, che dall’infanzia all’adolescenza assume
applicativi
centralità per la costruzione della personalità poiché fornisce, psicodinamicamente,
modelli di identificazione reciproca e, dal punto di vista sociale, consente di sperimentare
le prime tecniche di negoziazione, cooperazione, mediazione dei conflitti. In ambito
familiare, la famiglia stessa è un gruppo dove i ruoli possono essere imposti o negoziati,
possono esserci coesione, comunicazione, regole.
Nella psicologia del lavoro, si studia il gruppo di lavoro, spesso predisponendo corsi
di team building, leadership, comunicazione, negoziazione, per migliorare la
cooperazione e l’efficienza. Oppure, nella selezione del personale, spesso si convocano i
candidati in gruppi per capire il ruolo che tendono ad assumere in gruppo. In psicologia
sociale, si studiano varie tipologie di gruppi linguistici, culturali, etnici, per predisporre
anche progetti di integrazione, per promuovere la tolleranza della diversità, la
cooperazione.

40. Gruppo dei pari

Il gruppo dei pari è costituito da individui della stessa età o di analogo status sociale

Definizione
o professionale.
È stato studiato soprattutto dalla psicologia dello sviluppo poiché assume centralità
nell’acquisizione di abilità sociali. Infatti, nella fanciullezza, il bambino amplia il
Sintesi dei
contesto di relazioni: esce dalla cerchia familiare e fa il suo ingresso nel sistema
principali
scolastico, caratterizzato da regole e relazioni con figure autoritarie; partecipa ad attività
autori e teorie
di riferimento
sportive o ricreative, dove stabilisce relazioni con i pari; si unisce e forma gruppi
spontanei, come i gruppi di compagni di giochi; si inserisce in gruppi strutturati come
squadre sportive.
L’ampliamento delle occasioni formali e informali di incontro, così come la
Teoria
frequentazione e condivisione delle attività con i suoi pari, offrono al bambino la
approfondita
possibilità di sperimentarsi in ruoli diversi da quelli di figlio e di assumere un’identità

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(con autori, autonoma, uno “status”, cioè una posizione all’interno del gruppo che lo fa riconoscere e
esperimenti,
apprezzare per le sue caratteristiche, i suoi interessi e le sue competenze: nel rapporto
ecc.)
con i pari, il bambino non è accettato aprioristicamente come in famiglia, ma deve
conquistare le simpatie degli altri, condividere e collaborare, oltre a modulare la sua
impulsività, negoziare e rispettare regole condivise.
Il gruppo dei pari struttura l’identità del bambino, facilitando l’emancipazione dagli
adulti attraverso identificazioni reciproche, confronti, attività condivise. Inizia ad
assumere una visione realistica di sé, correggendo eventuali distorsioni dovute alla
proiezione di aspettative irrealistiche da parte di membri familiari e a stili educativi
disfunzionali che hanno autorizzato il bambino a tiranneggiare ed essere prontamente
esaudito per ogni desiderio espresso. Attraverso il confronto con gli altri ha l’opportunità
di “ritrattare” la sua immagine, costruirne una più autentica e svincolarsi dalle
attribuzioni genitoriali.
Nel gruppo dei pari, il bambino stabilisce relazioni “orizzontali”, differenti da quelle
“verticali” stabilite con i genitori o le maestre, in quanto non fondate sulla gerarchia e
sulla dipendenza e non squilibrate dal punto di vista dell’età e delle esperienze come
nelle relazioni con gli adulti. Nel gruppo dei pari il bambino ritrova persone simili a sé,
con problemi ed esperienze analoghe e per questo impara a condividere emozioni e
risolvere autonomamente conflitti.
Sherif e collaboratori hanno condotto un esperimento per valutare le relazioni
cooperative o competitive tra i gruppi di pari. L’esperimento si intitola “la caverna dei
ladri” o “il campo estivo”: in un campeggio estivo vennero formati due gruppi di
soggetti, di circa 12 anni. Il primo gruppo venne ulteriormente diviso in due sottogruppi,
facendoli gareggiare in giochi in cui solo uno dei due gruppi poteva vincere. La
situazione competitiva generava ostilità verso i membri dell’altro sottogruppo e
solidarietà intragruppale. Nell’altro gruppo, vennero invece introdotti scopi sovraordinati
e comuni e questo ridusse gli atteggiamenti ostili e promosse quelli cooperativi. Le
attività e la gestione di un gruppo influiscono dunque sulle relazioni tra i membri.
Talvolta i gruppi di pari si organizzano come “bande”, formulando un proprio codice
linguistico, norme di comportamento, assegnando ruoli e compiti. Alcune bande sono più
autoritarie e prevedono un leader che prende decisioni per il gruppo, altre sono più
democratiche e i membri concordano i programmi e le decisioni. Attraverso le piccole
bande, il bambino prova un senso di appartenenza che infonde sicurezza.
I bambini che non godono di opportunità sociali oppure i bambini che trascorrono

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molto tempo da soli suppliscono all’assenza di relazioni con i pari dialogando o giocando
con un “amico immaginario”, invenzione normale verso i tre-cinque anni e frequente
soprattutto tra i figli unici.
Uno strumento per valutare le relazioni all’interno del gruppo dei pari è il
sociogramma di Moreno, strumento di osservazione indiretta che consente di visualizzare
Strumenti graficamente la centralità o la perifericità di ciascun membro di un gruppo e le relazioni
di attrazione e repulsione tra i membri. Nei progetti di prevenzione del bullismo, si
utilizzano anche il questionario di Olweus e il questionario “La mia vita a scuola”.
Ambiti applicativi del gruppo dei pari sono principalmente quelli legati all’età
evolutiva: progettazione di interventi per promuovere lo sviluppo e il benessere a scuola,
Ambiti nei gruppi sportivi, nei centri ludici; studio delle tappe dello sviluppo e della loro
applicativi
interconnessione; progetti di integrazione di bambini immigrati.

41. Frustrazione e aggressività

La frustrazione è una reazione psicologica e comportamentale, accompagnata da


sintomi vegetativi, che si presenta quando un ostacolo interferisce nel raggiungimento di
un obiettivo, oppure quando viene minacciata la propria autostima, oppure quando non è
Definizione
possibile gratificare un bisogno. La rabbia generata dai fattori personali, materiali o
ambientali che provocano la frustrazione può scaricarsi sulla causa reale che ha prodotto
l’impedimento oppure trasferirsi su un altro oggetto o un’altra persona. Talvolta la
frustrazione non conduce ad un atto aggressivo esplicito, ma anche a covare rancori
oppure a rivolgere la rabbia contro se stessi.
La frustrazione è stata studiata in ambito gestaltico, con Lewin, che ha analizzato
attraverso esperimenti gli effetti di agitazione e ansia dovuti all’interruzione o ad una
sospensione di un compito; in ambito psicoanalitico, dove Freud ha analizzato le reazioni
Teoria
successive alla mancanza di una gratificazione dell’Es; in ambito psicoevoluzionista,
approfondita
dove si è sottolineato come una quantità minima di frustrazione possa essere adattiva, in
(con autori,
esperimenti,
quanto stimola l’organismo a riorganizzarsi, ad affinare le proprie strategie di soluzione
ecc.) dei problemi, a intensificare gli sforzi e a sostituire eventualmente gli obiettivi mancati.
Quando però risulta eccessiva, può suscitare aggressività.
A questo proposito, sono stati condotti esperimenti dal “Gruppo di Yale”, un gruppo
di cinque giovani ricercatori che, nel 1939, hanno formulato la teoria frustrazione-
aggressività, riscuotendo consensi sia in ambiente accademico, dove ha ispirato

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numerose ricerche, sia in nel senso comune, essendo vicina alle opinioni formulate
spontaneamente dagli individui. I cinque ricercatori sono Dollard, Miller, Dood, Mower,
Sears. La loro teoria enuncia che un comportamento aggressivo presuppone sempre una
frustrazione ed una frustrazione conduce sempre all’aggressività.
Tuttavia, la teoria non ha ricevuto conferme sperimentali ed è stata critica in quanto
eccessivamente rigida, si è infatti iniziato ad attenuarne le affermazioni, modificandola in
quanto non sempre e non necessariamente la frustrazione conduce all’aggressività e non
sempre e non necessariamente l’aggressività deriva da una frustrazione.
Le osservazioni sulla teoria frustrazione-aggressività non hanno comunque portato a
discofermarla, ma hanno determinato il delinearsi di due filoni di studio, uno volto a
saggiare la prima parte della teoria e determinare in quali condizioni la frustrazione
motivi un comportamento aggressivo, l’altro finalizzato a chiare se qualsiasi attivazioni
emotiva possa favorire l’aggressività.
Il primo filone di studi mira ad indagare i fattori facilitanti, cioè gli indizi del
contesto e le variabili che intervengono nel far sì che la frustrazioni degeneri in
aggressività ed ha in Leonard Berkowitz il suo principale esponente, mentre il secondo
filone è definito dell’ “arousal-aggressività”, in quanto volto ad esplorare il rapporto tra
attivazione fisiologico-emotiva (“arousal”) ed aggressività, per valutare se qualsiasi
configurazione possa favorisce l’aggressività oppure ce n’è una in particolare che la
determini.
Per quanto riguarda il primo filone, sono state compiute ricerche volte ad individuare
elementi contestuali che favorissero l’evolvesi di uno stato di frustrazione in
comportamento aggressivo. Berkowitz ha soffermato l’attenzione sugli “indizi
aggressivi”, cioè gli oggetti presenti nell’ambiente e che rinviano alla violenza e
finiscono per suggerire un’azione distruttiva e quasi a “legittimarla” in quanto “idonea”
al contesto. In un esperimento di Berkowitz e La Page, alcuni soggetti sperimentali
vennero divisi in due gruppi: ciascun soggetto veniva addestrato da un complice dello
sperimentatore a svolgere un compito e riceveva una scossa quando non lo eseguiva
correttamente.
Su uno dei due gruppi si cercò di indurre uno stato di frustrazione attraverso
continue provocazioni, e somministrando più scosse per punire gli errori. In una seconda
fase dell’esperimento, i ruoli venivano invertiti, dunque doveva essere il soggetto
sperimentale ad insegnare al complice dello sperimentatore punirlo con le scosse in caso
si errore. I soggetti vennero ridistribuiti formando 3 gruppi: il primo gruppo operava in

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un contesto privo di armi, il secondo in un contesto dove erano presenti armi, il terzo in
un contesto dove erano presenti armi appartenenti al complice dello sperimentatore che
prima aveva somministratole scosse.
I soggetti di quest’ultimo gruppo si rivelarono i più aggressivi: da qui si teorizzò
“l’effetto arma”. Quando esistono pregresse condizioni di frustrazione e risentimento, le
armi in vista si prestano a trasformare questo stato emotivo in comportamento
aggressivo, offrendo un appiglio per innescare una sequenza distruttiva. Ciò si osserva,
ad esempio, nei casi di disordini pubblici, quando la sola vista dei poliziotti e l’avere a
portata di mano manganelli o bastoni può scatenare una reazione di attacco da parte di
manifestanti già ribelli e adirati.
Per quanto riguarda il secondo filone, si è cercato di capire se qualsiasi attivazione
emotiva possa predisporre una reazione aggressiva: ad esempio, la visione di un film di
violenza, l’esposizione a stimoli violenti, a immagini e notizie drammatiche, può
costituire un terreno privilegiato per la maturazione di risposte violente? Può rendere più
suscettibile un soggetto di reagire violentemente?
Dalle ricerche è emerso come non sia sufficiente una generica attivazione motiva per
provocare un atto aggressivo. Soltanto quando il soggetto è eccitato e non sa a quale
causa ricondurre l’eccitazione e dunque la attribuisce a risentimento e collera, allora
scatta la risposta aggressiva.
Zillmann ha condotto un esperimento a questo proposito: ha selezionato un gruppo
di soggetti, sottoponendoli a provocazioni e offese da parte di complici.
Successivamente, gli stessi soggetti venivano fatti pedalare su una cyclette, così da
indurre un’attivazione fisiologica, dopodiché vennero divisi in due gruppi: un gruppo
poteva infliggere scosse al complice che li aveva offesi subito dopo l’esercizio fisico,
l’altro gruppo doveva aspettare 6 minuti prima di potersi “vendicare”.
Il primo gruppo, che poteva somministrare le scosse subito dopo la pedalata, non
risultò molto aggressivo, poiché attribuiva l’eccitazione all’esercizio fisico appena svolto
mentre il gruppo che dove aspettare, aveva il tempo di riposarsi e allentare la tensione
emotiva. La tensione residua non veniva dunque più attribuita all’esercizio fisico, proprio
perché la pausa aveva consentito di ristorarsi, dunque la causa veniva individuata nelle
provocazioni e nelle offese subìte e ciò li portava ad infliggere scosse maggiore, ad
essere cioè più aggressivi.
Dunque, il fatto che la frustrazione si trasformi in aggressività dipende dalle
motivazioni a disposizione del soggetto per spiegare la tensione fisiologica che prova: se

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può attribuirla ad un film, all’attività fisica o ad una circostanza ben precisa, essa non si
trasforma in aggressività. Se invece il soggetto non sa a cosa attribuirla e la ricollega ad
un torto subito, allora ci sono più probabilità che degeneri in aggressività.
In sintesi, gli esperimenti hanno attenuato il rigore della prima formulazione della
teoria frustrazione-aggressività, dimostrando che la frustrazione non è un agente
specifico e scatenante l’aggressività, ma che occorre la mediazione di altri fattori, in
primo luogo contestuali, affinché lo stato di tensione di tramuti in atto lesivo. La
presenza di indizi aggressivi, ad esempio, induce a pensare che in quel contesto
l’aggressività sia appropriata. Dunque, vi è sempre un processo di interpretazione che
interviene a mediare tra stimolo attivante e risposta aggressiva.
Uno degli strumenti per valutare la relazione tra frustrazione e aggressività è il PFS,
Picture Frustration Study di Rosenzweig, costituito da 24 vignette con scene di
frustrazione, che il soggetto deve completare. Il presupposto è che il soggetto possa

Strumenti
identificarsi con i protagonisti delle vignette e quindi esprimere il suo modo di reagire
alle frustrazioni. Oppure, si conducono esperimenti basati sul “paradigma dell’
insuccesso indotto”, in cui si affida un compito ai soggetti, si impedisce loro di
concluderlo e si valutano le loro reazioni e le loro verbalizzazioni. Nel caso dei bambini,
si valuta la frustrazione anche attraverso l’osservazione del loro comportamento in
situazioni di mancanza di gratificazioni.
Il costrutto della frustrazione presenta diversi ambiti applicativi, sia nella psicologia
generale, nella psicologia dello sviluppo, nella psicologia sociale e in quella del lavoro.
Ambiti
La frustrazione può essere sperimentata in diversi contesti: in quelli familiari ed
applicativi
educativi, le regole e i limiti possono frustrare il bambino e interferire con li suo bisogno
di esplorazione; in ambito professionale, svolgere una mansione al di sotto delle proprie
competenze può generare frustrazione e insoddisfazione, riducendo anche la produttività;
in ambito clinico, alcuni percorsi psicoterapeutici profondi possono produrre frustrazione
poiché il paziente può non tollerare l’attesa di vedere risultati e non collaborare più,
facendo fallire l’intervento stesso. Conoscere le cause della frustrazione e le reazioni che
suscita è quindi utile per prevenire conseguenze negative, rimuovere ostacoli e
predisporre le condizioni per la crescita, preservando quel grado ottimale di frustrazione
che stimola il miglioramento.

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42. Aggressività

Negli anni ‘60, sono stati compiuti sforzi teorici e metodologici per

Definizione
operazionalizzare il costrutto di aggressività, cercando di individuarne le componenti
osservabili e misurabili, così da circoscriverlo e da compiere esperimenti scientifici.
Tuttavia non si è pervenuti a conclusioni unanimi, poiché tuttora l’aggressività è una
categoria ampia e difficilmente circoscrivibile.
Tuttavia, l’etologo Hinde, nel 1974, ha elaborato la formulazione attualmente
molto adoperata del concetto di aggressività, individuando il «nocciolo centrale
universalmente riconosciuto di aggressività» nel comportamento teso a danneggiare
qualcuno. Dunque, un comportamento aggressivo equivale ad un comportamento
intenzionalmente lesivo. Eppure, molte azioni arrecano danno anche non essendo
intenzionamente pianificate. Per questo, altri studiosi, quali Buss nel 1961 e Ebling nel
1964, hanno proposto di considerare come aggressivo qualsiasi atto che danneggi
qualcuno, indipendentemente dal fatto che derivi o meno da un proposito intenzionale.
Infine, nel 1983, Ferguson e Rule hanno specificato tre criteri per valutare un atto come
aggressivo: il danno, l’intenzione di arrecarlo, la violazione di norme sociali.
Sono state elaborate anche classificazioni delle tipologie di aggressività: si

Sintesi dei
distingue innanzitutto un’aggressività pura, fine a se stessa, da un’aggressività
principali strumentale, funzionale a raggiungere uno scopo; un’aggressività eterodiretta, dunque
autori e teorie rivolta verso gli altri, da una autodiretta, rivolta contro se stessi, come nel suicidio o in
di riferimento
atti le sionistici di lieve o di grave entità; aggressività attiva, cioè compiuta attraverso un
gesto dannoso, oppure attiva, dovute al sottrarsi a un’azione, come nell’omissione di
soccorso; aggressività diretta, cioè attuata personalmente contro la vittima, oppure
indiretta, mediata da altri soggetti o da mezzi tecnologici.
Storicamente, si sono susseguite diverse teorie sull’aggressività: quelle di ambito
comportamentale saranno qui approfondite in quanto corredate da numerosi esperimenti.
Le prime concezioni dell’aggressività sono state quelle istintiviste, formulate in
ambito etologico, secondo le quali l’aggressività ha una base biologica. In ambito
Teoria psicoanalitico, gli studiosi che hanno elaborato teorie sull’aggressività sono Freud, la
approfondita Klein, Fornari, Adler, Fromm. Per quanto riguarda Freud, inizialmente, non si interessò
(con autori,
dell’aggressività, ma teorizzò l’esistenza di due pulsioni primarie, quella sessuale e
esperimenti,
quella all’autoconservazione. L’aggressività era considerata reattiva: soltanto quando la
ecc.)
soddisfazione degli impulsi sessuali e autoconservativi veniva impedita ciò generava la

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frustrazione che conduceva all’aggressività. La Prima Guerra Mondiale ha indotto Freud
ha rivedere la sua posizione: nel saggio Al di là del principio del piacere, pubblicato nel
1920, Freud raggruppa la pulsione sessuale e quella di autoconservazione sotto la
categoria di Eros, cioè della pulsione di vita, a cui oppone Thanathos, cioè la pulsione di
morte, anch’essa primaria, ma non costruttiva, bensì distruttiva.
La psicoanalista Melanie Klein ha rispettato le idee originarie freudiane,
concordando sul fatto che l’aggressività sia innata, che sin dalla nascita operi un istinto
di morte. Nel bambino, assume la forma dell’invidia del seno: il bambino infatti viene
soddisfatto dal seno che possiede tutto ciò di cui ha bisogno, dunque egli prova, secondo
la Klein, il desiderio di possederlo e di goderne esclusivamente. Per quanto riguarda lo
psicoanalista italiano Franco Fornari, in Psicoanalisi e guerra, pubblicato nel 1966, egli
formula una teoria esplicativa delle guerre come forme di terapia dell’angoscia:
permettono infatti di scaricare all’esterno una pulsione di morte continuamente operante
all’interno. Questo nemico oscuro e interno viene definito “il Terrificante”: per poterlo
affrontare e sconfiggere, esso viene proiettato all’esterno, su un nemico concreto e
aggredibile.
Alfred Adler è un allievo di Freud, che ne respinge le tesi. Sostiene infatti che
nell’uomo non operi un istinto di morte inteso come forza distruttiva, ma come tendenza
costruttiva, ad affermarsi nella realtà. Questa spinta è la volontà di potenza, cioè lo sforzo
di realizzarsi, di conquistare l’autonomia e di superare la condizione di inferiorità del
bambino. Infine, anche Erich Fromm nel Novecento formula una teoria dell’aggressività.
influiscono sull’aggressività non tanto presupposti biologici, quanto le condizioni
storico-sociali in cui l’uomo si trova a vivere. Secondo i comportamentisti, l’aggressività
viene appresa mediante condizionamento e rinforzi e mediante l’osservazione e
l’imitazione di modelli violenti.
Negli anni Sessanta si sono poi sviluppati gli studi sull’apprendimento sociale che
hanno realizzato anche esperimenti per verificare le teorie. Il principale esponente è stato
Bandura, che nel 1973 pubblicò l’opera Aggression: a social learning analysis,
sintetizzando gli studi fino ad allora compiuti sull’aggressività e riportando esperimenti
condotti da lui e dai collaboratori dall’inizio degli anni ‘60. Bandura, con la teoria social-
cognitiva, ha superato il modello strettamente comportamentista, sottolineando il ruolo
cognitivo attivo del soggetto nell’assimilare e riprodurre condotte aggressive e
l’interazione con il contesto sociale.
Il principio esplicativo alla base della sua posizione teorica è il determinismo

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triadico reciproco: si tratta di una teoria dell’agenticità, cioè di una teoria che studia la
capacità del soggetto di considerarsi responsabile delle sue azioni e degli eventi che
accadono, la sua percezione di averne il controllo e poterli influenzare o determinare.
Bandura osserva che esistono tre tipi di elementi che si influenzano reciprocamente e
spiegano la condotta: cognitivi, comportamentali, sociali. I fattori cognitivi sono
costituiti dalle strutture di pensiero, di pianificazione, di elaborazione del soggetto; i
fattori comportamentali sono rappresentati dai pattern di azione attuati; quelli contestuali
sono costituiti dalle influenze sociali provenienti dal contesto in cui il soggetto è inserito.
Tali fattori agiscono l’uno sull’altro in varia misura, in base alle attività e alle
circostanze, dunque il soggetto non agisce isolatamente, ma è inserito in una rete in cui è
causa ed effetto del suo comportamento.
Secondo Bandura, l’interazione tra strutture cognitive, comportamento e contesto
determina l’acquisizione dei comportamenti, inclusi quelli aggressivi, in tre modi: il
primo modo è il modellamento, cioè l’osservazione e l’imitazione di comportamenti
degli adulti o dei pari o di modelli trasmessi dai mass-media. In secondo luogo,
attraverso l’approvazione o la disapprovazione sociale riferita ad una scelta, poiché le
reazioni sociali sono una fonte di chiarificazione nell’elaborare le distinzioni di genere.
Infine, il terzo modo è l’intuizione, cioè la comprensione dell’adeguatezza e
dell’efficacia di un comportamento, in assenza di un’esplicita valutazione, basandosi
sulla generalizzazione di episodi specifici. I comportamenti aggressivi sono quindi
appresi attraverso questi processi, che includono osservazione, modellamento, rinforzo
sociale.
Bandura per verificare queste ipotesi, ha condotto, tra gli altri, il celebre
esperimento con il bambolotto gonfiabile Bobo Doll.
Un gruppo si bambini di scuola materna osservava uno sperimentatore picchiare e
offendere Bobo, il secondo gruppo osservava lo sperimentatore giocare tranquillamente,
il terzo non osservava alcun modello. Ciascun gruppo di bambini venne poi
accompagnato in un una stanza per giocare, dove avrebbero trovato diversi giochi e un
Bobo Doll: il gruppo che aveva osservato il gioco violento, lo riproponeva sul
bambolotto gonfiabile, il gruppo che aveva osservato il gioco tranquillo e quello che non
aveva ricevuto alcun modello, giocavano in modo meno aggressivo. Bandura aggiunge
come i modelli aggressivi vengano tanto più imitati quanto più risultano premiati. Inoltre,
egli collega la teoria dell’apprendimento dell’aggressività con la teoria frustrazione-
aggressività, sostenendo che la frustrazione si traduce in aggressività soltanto se il

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soggetto ha precedentemente appresso modelli di risposta aggressivi.
Uno strumento per valutare l’aggressività può essere l’MMPI, in quanto presenta la
Strumenti
sottoscala della deviazione psicopatica e dunque consente di contestualizzare questo
comportamento in un quadro più completo di personalità. Oppure, l’HDHQ (Hostility
and Direction of Hostility Questionnaire) valuta in particolare la tendenza all’acting-out,
l’ostilità, la critica e l’autocritica, l’ostilità proiettata all’esterno. Per valutare le diverse
modalità espressive dell’ostilità-aggressività si può ricorrere al BDHI (Buss-Durkee
Hostility Guilt Inventory).
Il costrutto dell’aggressività presenta un’estesa applicabilità in diversi ambiti: ad
Ambiti esempio, nella psicologia sociale, per analizzare i fenomeni aggressivi nei contesti di
applicativi interazione, nei contesti politici, nelle diverse culture. Nel contesto scolastico, si sta
diffondendo una specifica modalità di aggressione e prevaricazione tra bambini, il
“bullismo”, che risulta ripetuta, intenzionale e dannosa psicologicamente e socialmente.
In ambito clinico, l’aggressività, intesa come violenza e violazione delle norme è
un sintomo di diversi disturbi in età evolutiva, come il disturbo della condotta, o in età
adulta, come il disturbo antisociale di personalità. In ambito criminologico, si sta
diffondendo una specifica forma di aggressività agìta attraverso persecuzioni,
appostamenti e insistenze moleste verso le donne, definita “stalking”.

43. Cooperazione e conflitto

Cooperazione e conflitto sono due fenomeni opposti che possono verificarsi in


ambito organizzativo, sociale ed educativo, ma anche intrapsichico e psicodinamico, se si
Breve
introduzione
intende il conflitto come competizione tra istanze o pulsioni.
Nel senso comune, il termine “conflitto” spesso assume un’accezione negativa,
poiché è colto soltanto nella sua dimensione distruttiva e aggressiva, invece, in ambito
psicologico e sociale, il conflitto può assumere un’accezione positiva, di dialettica che
Definizione
attiva un meccanismo, oppure neutra. Il conflitto è una situazione di antagonismo,
del primo
costrutto
opposizione, differenza tra elementi di varia natura, cognitivi, emotivi, comportamentali,
sociali, che richiede uno sforzo attivo di adattamento e riconfigurazione.
La cooperazione è invece una modalità di collaborazione, di unione delle forze in
Definizione
vista del raggiungimento di un obiettivo comune.
del secondo
Cooperazione e conflitto sono dunque fenomeni che si presentano soprattutto in
costrutto
contesti gruppali, dove sono compresenti diverse volontà, che possono entrare in

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contrasto l’una con l’altra oppure collaborare. Un autore che ha studiato queste
dimensioni nei gruppi è stato Tajfel, che ha formulato la teoria dell’identità sociale.
Prima di approdare a questa teoria, Tajfel studiò il comportamento all’interno dei

Teoria
gruppi minimali: egli infatti convocava soggetti sperimentali, si suddivideva in gruppi
approfondita che differivano per particolari del tutto insignificanti (come la predilezione estetica per i
ed dipinti di Klee rispetto a quelli di Kandinskij, o simili minuzie), ma notava che
esperimento
l’assegnazione ad un gruppo, seppur “minimale”, già faceva scattare nei membri di
ciascun gruppo la tendenza ad autopercepirsi come “gruppo diverso, migliore e
contrapposto all’altro”. Questo senso di appartenenza promuoveva dunque
comportamenti di sostegno con i membri del proprio gruppo e di competizione e rivalità
rispetto ai membri dei gruppi esterni.
Questo evidenzia come le persone tendano rapidamente a stabilire differenze tra un
“noi” e un “loro”, ad essere cooperativi con le persone della propria cerchia e diffidenti,
se non ostili, con gli altri, nonostante spesso non differiscano molto da questi ultimi.
Da questi esperimenti, Tajfel iniziò a formulare una più complessa teoria sulle
modalità di auto ed etero-categorizzazione intergruppi e sul gruppo come luogo di
elaborazione di un’identità sociale che attiva favoritismi verso i membri del proprio
ingroup (gruppo di appartenenza) e viceversa rispetto all’outgroup. Questa identità basata
sul senso di appartenenza, si costruisce attraverso 3 processi:
1. Categorizzazione, perché la persona classifica gli altri, raggruppandoli per età,
genere sessuale, posizione sociale o lavorativa, religione, appartenenza politica, ecc. e
tende ad accentuare le somiglianze tra i soggetti all’interno della categoria e minimizzare
le differenze con le categorie opposte.
2. Identificazione: la persona si colloca poi in una o più categorie, percependosi
solidale con gli altri appartenenti e rivolgendosi a loro come “alleati”.
3. Confronto Sociale: l’individuo confronta il proprio ingroup con l’outgroup e
tende a considerare il proprio gruppo come migliore, ad esaltarlo, difenderlo e assumere
un atteggiamento di disponibilità e favore.
Cooperazione e conflitto sono dunque conseguenze della categorizzazione effettuata
dalle persone, dai gruppi che si creano e dalle operazioni di massimizzazione delle
relative somiglianze o differenze. Basta dunque delineare un gruppo per far sì che al suo
interno prevalga la cooperazione e si manifestino conflitti con un outgroup.
Quest’ipotesi è stata avvalorata anche da altri esperimenti.

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
Sherif e collaboratori hanno condotto un esperimento nel campo di Robbers Cave,
vicino a Oklahoma City, sede di un campo estivo per bambini, per valutare le relazioni
cooperative o competitive tra i gruppi di pari. L’esperimento si intitola “la caverna dei
ladri” o “il campo estivo”: in un campeggio estivo vennero formati due gruppi di
soggetti, di circa 12 anni. Il primo gruppo venne ulteriormente diviso in due sottogruppi,
facendoli gareggiare in giochi in cui solo uno dei due gruppi poteva vincere. La
situazione competitiva generava ostilità verso i membri dell’altro sottogruppo e
solidarietà intragruppale. Nell’altro gruppo, vennero invece introdotti scopi sovraordinati
e comuni e questo ridusse gli atteggiamenti ostili e promosse quelli cooperativi. Le
attività e la gestione di un gruppo influiscono dunque sulle relazioni tra i membri.
Uno strumento per valutare la cooperazione o il conflitto in ambito sociale ed
Strumenti di
educativo è il sociogramma di Moreno, un grafico che consente di mappare le relazioni
valutazione
tra bambini in una classe o in un gruppo, individuando eventuali bambini isolati e
periferici e altri centrali nella rete di relazioni tra pari. Uno strumento per l’ambito
organizzativo è invece il Il ROCI –I, che misura il conflitto intrapersonale, intragruppo e
intergruppo, e il ROCI –II, ideato da Rahim per valutare il modo di affrontare tali
conflitti. Gli strumenti per analizzare i conflitti intrapsichici possono essere i test
proiettivi, come il Rorschach, per far emergere conflitti profondi, o il TAT, per far
emergere conflitti tra bisogni e motivazioni.
Gli ambiti di applicazione di cooperazione e conflitto sono quelli educativi, sociali,
Ambiti etnici, politici, familiari.

44. Un esperimento sociale: la Stanford Prison

Un esperimento recente della psicologia sociale, che ha destato interesse e


perplessità tra ricercatori e psicologi, è stato svolto a Stanford e rivela come anche
persone insospettabili e moralmente impeccabili possano commettere atti distruttivi
inaspettati e gravi. Zimbardo e collaboratori (1973) pubblicarono un annuncio sul
giornale, per reperire soggetti per una ricerca sulla vita nelle prigioni. I soggetti
avrebbero ricevuto 15 dollari al giorno per la partecipazione all’esperimento, che sarebbe
dovuto durare due settimane.
Risposero 75 giovani, frequentanti i college di Palo Alto, che vennero selezionati
somministrando una batteria di test, per escludere quelli con psicopatologie,
comportamenti antisociali, atteggiamenti discriminatori. Vennero scelti 24 soggetti

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
maschi, di ceto medio, di istruzione elevata, risultati più equilibrati e meno attratti da
comportamenti devianti. Furono loro assegnati casualmente i ruoli di guardie e di
detenuti, attraverso il lancio di una moneta.
I detenuti furono obbligati ad indossare divise, con un numero identificativo
stampato davanti e dietro, un berretto, una catena alla caviglia. Le guardie indossavano
uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai detenuti di guardarli
negli occhi, erano dotati di manganello, fischietto e manette e fu concessa loro ampia
discrezionalità riguardo alle regole da stabilire per preservare l’ordine nel carcere.
Questo abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di de
individuazione, privandoli di caratteristiche distintive e identificative della loro
personalità. Guardie e detenuti vennero poi condotti in una prigione simulata, allestita nel
seminterrato dell’Università di Stanford, dove le porte dei laboratori erano state sostituite
con sbarre, erano stati posti microfoni per registrare i discorsi dei detenuti e megafoni per
comunicare avvisi.
I detenuti vennero prelevati dalle loro case, simulando un arresto per rapina e furto
con scasso e coinvolgendo nella retata anche poliziotti della città, così da facilitare nei
soggetti l’assunzione del ruolo di arrestati. Invece le guardie vennero convocate nel
Dipartimento di Psicologia con i ricercatori, per raccogliere le loro aspettative
sull’esperimento e ricevere le uniformi. In questo incontro di orientamento, molti
soggetti riferirono di sentirsi in difficoltà ad assumere il ruolo di carcerieri, dichiarandosi
pacifisti, rispettosi e non aggressivi, dunque non riuscivano a immaginarsi nel ruolo di
sorveglianti.
Entrambi i gruppi avrebbero dovuto permanere all’interno della prigione per turni di
8 ore. Il primo giorno trascorse tranquillamente, ma già dal secondo, i detenuti
organizzarono una rivolta, denunciando un atteggiamento sadico delle guardie, che li
avrebbero svegliati nella notte per costringerli ad eseguire una serie di flessioni e di
azioni umilianti, inaspettate da un gruppo di coetanei che partecipava, come loro, ad un
esperimento. La rivolta viene sedata con l’arrivo delle guardie del turno successivo, ma
le dinamiche aggressive continuarono, le guardie imposero altre regole rigide, rituali
sadici, mostrando atteggiamenti ostili e punitivi, che provocarono scompensi emotivi nei
detenuti, tanto che alcuni vennero liberati per evitare danni alla loro salute psichica.
I metodi arbitrari delle guardie persistettero, diventando sempre più ostili, umilianti e
crudeli. La psicologa Maslach, esperta di stress e burnout, incaricata di svolgere
interviste ai partecipanti, restò sconvolta dagli abusi a cui assistette e intercesse per la

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
sospensione dell’esperimento, che venne anticipatamente interrotto dopo 6 giorni.
Nonostante il ruolo fosse stato assegnato casualmente, i soggetti impiegarono poco
tempo ad assumerne i valori, trasformandosi rispettivamente in aguzzini persecutori e in
prigionieri depressi e impotenti. Nonostante si trattasse di una simulazione, le identità dei
partecipanti vennero rimodellate dalla situazione, che fu sufficiente ad esercitare una
pressione in direzione dell’acquisizione di un diverso atteggiamento e comportamento.
La propensione ad assumere condotte lesive della dignità altrui venne facilitata dalla
de individuazione a cui erano stati sottoposti i partecipanti, che consisteva nella
spoliazione dei tratti identitari. Questo meccanismo di anonimizzazione influenza il
funzionamento cognitivo, limitando le funzioni di pianificazione del comportamento,
focalizzando l’attenzione sul “qui ed ora”, riducendo il senso di responsabilità personale.
Anche a livello neurofisiologico, la de-individuazione comporta una riduzione
dell’attivazione di aree prefrontali, sede del pensiero e del ragionamento, e un
incremento dell’attività del sistema limbico, in particolare dell’amigdala, porzione
primitiva del cervello, preposta all’attivazione dell’organismo in risposta ad uno stimolo
minaccioso e all’attuazione di comportamenti aggressivi e difensivi di attacco e fuga.
Un altro fattore che ha reso più probabili le condotte lesive nella prigione simulata fu
il conformismo, che può essere sia di tipo informazionale che normativo. Infatti, in un
contesto nuovo, che non riattiva schemi di percezione e di azioni già sperimentati, il
soggetto utilizza gli altri per ricevere informazioni su cui regolare il proprio
comportamento (conformismo informazionale) oppure agisce secondo le norme sociali
del gruppo, anche se contrarie ai propri principi morali, pur di riceverne l’approvazione e
soddisfare il bisogno di affiliazione (conformismo sociale). Il conformismo risulta più
intenso nei piccoli gruppi che assumono importanza per il soggetto (Latanè, 1981).
Anche per i partecipanti all’esperimento di Zimbardo, il contesto risultava nuovo e
indefinito, tanto da indurre qualcuno a reagire con durezza all’ambiguità e alla
frustrazione per la mancanza di istruzioni, producendo negli altri l’imitazione delle
proprie azioni, in quanto forniva l’unico modello disponibile. Gli altri si adeguarono,
anche perché se non procedevano allo stesso modo, rischiavano di essere disapprovati dal
gruppo, in quanto ribelli.
Dunque, le variabili che hanno causato le condotte sadiche e aggressive non erano
tratti di personalità pre-esistenti, quanto il ruolo assunto, il potere esercitato sugli altri, la
situazione in cui si trovavano inseriti, che simulava un’istituzione totale e costituiva uno
scenario inconsueto, che non poteva attivare schemi di comportamento abituali.

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
Dopo questo esperimento, Zimbardo (2007) formulò l’”Effetto Lucifero”,
sottolineando la forza delle situazioni nel determinare le reazioni aggressive, rovesciando
gli assunti tradizionali della psicologia e della sociologia, che avrebbero commesso un
errore fondamentale di attribuzione, sovrastimando le influenze disposizionali e
sottovalutando le variabili contestuali.

45. Lo stress

Nel senso comune il termine “stress” assume generalmente un’accezione negativa,


Definizione in quanto indica un stato psicofisico di affaticamento, disagio e tensione; in ambito
psicobiologico esso è invece considerato una reazione adattiva su base evolutiva,
funzionale alla sopravvivenza, benché la sua persistenza possa comportare conseguenze
negative. Nell’ambito della letteratura scientifica di riferimento, come evidenziato da
Cassidy (1999), le ricerche sullo stress sono state condotte secondo tre principali
approcci metodologici:
1) modello fondato sullo stimolo o “epidemiologico”, che identifica lo stress con le
Panoramica
richieste che l’ambiente pone all’individuo. Gli studi relativi a questo modello
delle teorie
individuano le fonti di stress definite da Selye (1973) “stressor”, distinguendole dallo
stress inteso come disagio della persona e difficoltà di rispondere alle pressioni esterne;
2) modello fondato sulla risposta, che analizza le modificazioni temporanee o
permanenti subite dall’organismo sottoposto a stress. Questo modello è diffuso in ambito
psicosomatico, in quanto riconduce alcune anomalie funzionali e strutturali degli organi
a disagi psicologici (Cariota Ferrara e La Barbera, 2006);
3) modello transazionale, che analizza l’interazione tra individuo e contesto,
valutando la relazione tra risorse individuali e richieste socio-ambientali.
Attualmente in ambito psicologico e scientifico prevale il modello transazionale, in
linea con l’affermazione dei modelli biopsicosociali della salute in ambito medico e
psicologico. Anche nel presente lavoro si prediligerà l’approccio transazionale, valutando
la costante interazione tra stimolo stressogeno e mediatori fisiologici, psicologici e
sociali che modulano l’entità e la persistenza delle risposte.
Secondo Cannon (1932), l’individuo, attraverso meccanismi di feedback, tende a
preservare l’omeostasi, cioè a mantenere costanti le condizioni interne nonostante il
variare di quelle esterne. Pertanto, quando l’individuo è sottoposto ad una minaccia,
risponde mediante una “reazione d’emergenza” che provoca modificazioni fisiologiche

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
quali un rapido rifornimento di energia ai muscoli, l’aumento della frequenza cardiaca,
della pressione arteriosa, della ventilazione polmonare e della sudorazione.
Conseguentemente l’individuo è pronto a reagire attraverso un comportamento

Teoria
difensivo di attacco o fuga. Selye (1936) fu tra i primi ricercatori ad aver introdotto in
approfondita medicina il termine “stress”. Egli definì “Sindrome generale di adattamento” la somma di
tutte le reazioni che si manifestano nell’organismo in seguito alla prolungata esposizione
ad uno stress. Questa sindrome genera una risposta aspecifica e generale di adattamento,
la cui funzione è quella di preparare l’organismo ad una reazione adattiva (attacco o fuga
secondo il modello di Cannon); si definisce “aspecifica” perché è prodotta da stimoli che
pur essendo vari attivano lo stesso pattern di modificazioni; “generale” perché coinvolge
diversi organi e distretti corporei; “adattiva” perché permette all’organismo, posto di
fronte a stressor di varia natura, di mettere in atto risposte fisiologiche che tendono a
ristabilire l’equilibrio omeostatico. Tali considerazioni risultarono innovative per
quell’epoca storica dominata dal paradigma deterministico e riduzionista, che ipotizzava
un nesso causale diretto tra agenti patogeni e sintomi.
Selye, (1973) descrisse due modelli distinti ed antitetici di stress: l’”eustress” o
“stress positivo” e il “distress” o “stress negativo”. L’eustress consiste in una situazione
di pressione in cui l’organismo non subisce danni ma riceve effetti positivi per il suo
benessere. La fonte di stress non è così intensa da sconvolgere l’individuo, né così
prolungata da esaurire le sue energie, ma tale da generare una stimolazione di media
intensità e di breve durata, in grado di attivarlo per promuovere un riassetto. Il distress si
configura invece come lo stress con effetti nocivi. Alcuni studiosi identificano il distress
con lo stress cronico (Di Nuovo, 2006), mentre altri ritengono che anche uno stress
momentaneo, ma acuto, possa costituire distress.
La risposta allo stress dipende dunque non solo dalle caratteristiche oggettive
dell’evento stressante, ma anche dalle risorse psicologiche del soggetto. Riguardo alle
Esperimento
variabili psicologiche che riducono gli effetti nocivi dello stress, è stata effettuata
recentemente una meta-analisi, attraverso la quale sono stati esaminati e confrontati i
risultati di una serie di esperimenti. In particolare, sono stati analizzati 66 articoli di
ricerche effettuate sottoponendo soggetti sperimentali a stress di laboratorio e
misurandone poi il livello di cortisolo. Si è riscontrato che il principale fattore cognitivo
che sembra ridurre gli effetti dello stress è il possesso di strategie di coping (Denson,
Spanovic and Miller, 2009). Il termine coping indica particolari meccanismi di difesa
che consentono al soggetto di fronteggiare situazioni pericolose. To cope, infatti,

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significa “far fronte” e comporta una serie di tentativi messi in atto da ciascun individuo
per fronteggiare gli eventi considerati difficili in modo da limitarli, ridurli o tollerarli
(Cariota Ferrara e La Barbera, 2006). Gli schemi cognitivi con cui gli individui
affrontano gli eventi stressanti possono essere modificati attraverso appositi programmi
cognitivo-comportamentali (training), basati sull’apprendimento di tecniche di
autocontrollo dei pensieri e dei comportamenti.
In ambito clinico e di ricerca, lo stress è misurato attraverso valutazioni biologiche
e clinico-comportamentali. Per quanto riguarda la valutazione biologica, si utilizzano
Test e
strumenti di
indicatori come la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la tensione muscolare, la
indagine temperatura cutanea e la conducibilità elettrica cutanea. Inoltre, per una misurazione
biologica dello stress, si utilizzano anche parametri plasmatici, come la rilevazione di
cortisolo, ACTH e prolattina.In letteratura sono riportate ulteriori tecniche di indagine
quali la misurazione dell’attività elettroencefalografica, dell’aggregazione piastrinica e la
pupillometria, che tuttavia sono poco frequenti.
Per quanto riguarda le valutazioni clinico-comportamentali, dagli anni ‘70 sono
stati utilizzati questionari standardizzati specifici e liste che associano un valore
numerico crescente a eventi ritenuti stressanti, fornendo una stima di entrambe le
dimensioni dello stress, sia quella oggettiva che soggettiva. Il primo strumento
sviluppato è stato la Schedule of Recent Experiences (SRE) di Rahe e Holmes (1967),
molto utilizzato negli anni ‘70 soprattutto in medicina psicosomatica, poi rivista e
ridenominata Social Readjustment Rating Scale (SRRS), mentre lo strumento da essa
derivato per l’uso clinico è stato denominato Schedule of Recent Experiences (SRE). La
SRE risulta dunque costituita da un questionario di 43 item, successivamente ridotti a 42,
compilato dal paziente stesso, facendo riferimento agli eventi stressanti che ha vissuto
nel periodo precedente la malattia, generalmente da sei mesi a tre anni prima.
In molte ricerche cliniche in Italia e all’estero è frequentemente utilizzato il Life
Experience Survey (Sarason, Johnson, Siegel, 1978), anch’esso somministrato attraverso
un’intervista semistrutturata, nella quale la persona stessa stabilisce l’impatto dell’evento
graduandolo da lieve a grave. In Italia alla fine degli anni ‘70, Biondi e Pancheri hanno
introdotto una versione unificata della SRE e della LES, denominata Avvenimenti della
Vita. Infine, un ulteriore strumento, di tipo esclusivamente descrittivo, è costituito
dall’Asse IV del DSM-IV-TR (American Psychiatric Association, APA, 2000), dedicato
ai problemi psicosociali e ambientali, che prevede una ricognizione generale delle fonti
di stress del soggetto esaminato, senza però presumere alcuna relazione causale con la

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psicopatologia.
Lo stress è un concetto che trova numerosi campi di applicazione. Attualmente,
nella psicologia del lavoro e delle organizzazioni, è obbligatorio per legge valutare lo
Ambiti
applicativi
stress lavoro-correlato e per una ricognizione completa di questo aspetto, è utile
includere anche indicatori psicologici e comportamentali. Nella psicologia clinica, lo
stress può essere un fattore che contribuisce a causare alcune patologie, soprattutto
psicosomatiche. In ambito di ricerca, vengono approfonditi i fattori che provocano stress
e comfort e la loro influenza sui processi cognitivi e comportamentali. Nella psicologia
dell’età evolutiva, si studia l’impatto dei fattori stressanti sulla genitorialità, perché un
genitore sottoposto a stress, privo di un sostegno, può avere difficoltà ad esercitare un
caregiving funzionale verso il figlio.

E) Temi di Metodologia, ricerca e professione

46. La ricerca in psicologia (o “Metodo sperimentale”)

Il metodo sperimentale, su cui si basa la ricerca scientifica, è un modo di procedere


sistematico, differente dall’improvvisazione e dallo spontaneismo. La ricerca non è
Definizione
soltanto quella che si fa nei grandi istituti, nelle università, nei dipartimenti di grandi
centri di formazione, ma è una forma mentis, cioè una mentalità, un modo di approcciarsi
alla realtà che non si affida alle supposizioni, che non si fa condizionare
dall’autorevolezza di chi espone una tesi, ma formula ipotesi di spiegazioni e le
sottopone sempre a verifica. La ricerca nasce quando si presenta un problema oppure
quando ci si pone intenzionalmente l’obiettivo di migliorare una situazione o di capire
meglio il funzionamento di un processo.
Teoria La prima fase di una ricerca è quella della rassegna letteraria.
approfondita
Per “letteratura” si intendono i resoconti degli esperimenti e sono generalmente
consultabili in appositi archivi scientifici. Il ricercatore, prima di pianificare un
esperimento, si documenta sui risultati ottenuti delle ricerche già effettuate, per evitare di
ripetere un esperimento già organizzato e raccogliere dati in realtà già disponibili. La
ricerca infatti deve andare oltre ciò che si conosce già, comprendere meglio un
fenomeno, individuare aspetti da migliorare. La documentazione deve essere accurata,
ma non maniacale ed eccessiva, poiché un ricercatore troppo imbevuto di teorie già
formulate, rischia di trovare difficoltà ad abbandonare i vecchi schemi e vedere oltre.

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La seconda fase è la formulazione delle ipotesi: è la fase più creativa, dove il
ricercatore rileva un problema o un fatto e ipotizza una spiegazione, servendosi delle sue
conoscenze, dei dati ottenuti da precedenti esperimenti e della sua intuizione.
Poi, elabora un disegno di ricerca per confermare o disconfermare la sua ipotesi: si
tratta di individuare le tecniche e le procedure che possano testare la validità e la
correttezza della spiegazione ipotizzata, di progettare, cioè, un esperimento, individuano
le variabili da controllare.
In un qualsiasi esperimento, il ricercatore manipola una variabile indipendente. La
variabile dipendente è un aspetto del problema esaminato e influenza altri aspetti.
Modificando la variabile dipendente, si osserveranno effetti a cascata su altri aspetti del
problema. Ad esempio, se un ricercatore ipotizza che la posizione reciproca tra insegnate
e studenti in una classe incida sull’apprendimento, assumerà la disposizione reciproca
come variabile indipendente e l’apprendimento come variabile dipendente, in quanto
influenzata dalla disposizione reciproca.
Manipolare la variabile indipendente vuol dire misurare gli effetti
sull’apprendimento delle varie posizioni reciproche, dunque recluterà 2 gruppi composti
da un insegnante e 5 studenti: il primo gruppo farà lezione in modo frontale, con
l’insegnate alla cattedra e gli studenti allineati di fronte a lui; il secondo gruppo si
disporrà in modo circolare, con gli studenti a ferro di cavallo e l’insegnante a chiudere il
cerchio.
Il ricercatore misurerà il livello di apprendimento di ingresso nei due gruppi,
attenderà un periodo stabilito i due gruppi facciano lezione, al termine misurerà
nuovamente l’apprendimento raggiunto e confronterà i risultati dei due gruppi, per
verificare in quale dei due si è registrato un maggiore apprendimento e dunque
confermare o respingere l’ipotesi iniziale, secondo cui la disposizione reciproca incide
sull’apprendimento: se infatti l’apprendimento finale sarà omogeneo tra i due gruppi,
l’ipotesi è da respingere, poiché la variabile indipendente non ha influito
sull’apprendimento.
Oppure, il ricercatore può valutare in quale illuminazione incida maggiormente sulla
produttività degli impiegati di un ufficio. Quindi assume il grado di illuminazione come
variabile indipendente e la produttività come variabile che dipende dall’illuminazione.
Poi manipola l’illuminazione, facendo lavorare gli impiegati per un periodo di tempo
con un grado elevato di illuminazione, per un analogo periodo con un grado medio e
infine con un grado di illuminazione basso e misura la produttività in tutti e tre i periodi,

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per verificare quale grado di illuminazione abbia influito di più.
Tuttavia, occorre fare attenzione, poiché la variabile indipendente e quella
dipendente non sono le uniche presenti in un fatto: può risultare che, nel primo
esperimento, la disposizione circolare sia risultata più funzionale all’apprendimento e,
nel secondo esperimento, può risultare che il grado di illuminazione elevato migliori la
produttività, tuttavia sarebbe rischioso trarre conclusioni causali lineari. Nel primo caso,
può esserci un’ulteriore variabile, detta “interveniente”, come la silenziosità della stanza,
oppure il periodo dell’anno, oppure il numero degli studenti, che può frapporsi tra
variabile dipendente e indipendente, quindi un maggior apprendimento può essere
attribuito ad una di queste variabili, invece che alla posizione reciproca. Il ricercatore
deve tenere sotto controllo tutte le altre variabili di disturbo o di mediazione, anche se
spesso è difficile.
Inoltre, i gruppi sottoposti all’esperimento devono differire per un solo aspetto,
altrimenti risulta difficile attribuire con sicurezza un cambiamento ad una specifica
variabile, poiché vi sono molti aspetti che interagiscono tra di loro.
I soggetti da sottoporre ad esperimento sono generalmente divisi in due gruppi:
gruppo sperimentale e gruppo di controllo. Ad esempio, se si vuole misurare l’efficacia
di un nuovo farmaco su un sintomo, si somministra il farmaco al gruppo sperimentale,
mentre il gruppo di controllo procede la cura con un farmaco tradizionale. Si confrontano
poi i risultati sui sintomi. Vi può essere un terzo gruppo, a cui viene somministrato un
placebo, cioè uno pseudofarmaco, costituito da eccipienti, cioè “riempitivi”, neutri, privi
di affetti, dicendo tuttavia al gruppo che si tratta del farmaco vero e proprio: ciò per
escludere che il miglioramento dei sintomi non sia dovuto ad un fattore di suggestione
psicologica, all’attribuire al farmaco proprietà curative, attribuzioni puramente
psicologiche, ma in grado di incidere sulle condizione dell’organismo e di attenuare i
sintomi.
Oltre ad un esperimento vero e proprio, è possibile fare ricerca attraverso le
inchieste, cioè somministrando questionari con domande standardizzate e analizzare i
dati raccolti, compiendo su di essi operazioni statistiche o utilizzandoli per formulare
ipotesi. Tuttavia, è impossibile somministrare un questionario a tutta la popolazione: si
sceglie, quindi, all’interno di essa, un “campione”.
Il campione può essere estratto in modo causale oppure scelto in base a determinati
requisiti: infatti, se si vogliono sondare le aspettative dei giovani che dovranno iscriversi
all’università, il campione dovrà essere rappresentativo della categoria, quella dei

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giovani che stanno completando gli studi superiori, dunque dovranno avere un’età
compresa in un certo range, ad esempio tra 18 e 20 anni, frequentare l’ultimo anno di
una scuola superiore, ecc. Il campione si forma dunque in base alla tipologie di
esperimento, in modo tale che sia composto da una minoranza di individui
rappresentativi di una specifica categoria, per poter generalizzare i risultati all’intera
categoria.
Negli esperimenti e nelle ricerche che implicano un coinvolgimento diretto dei
soggetti e un dialogo tra ricercatore e soggetto sperimentale, le modalità di
somministrazione delle prove possono influenzare i risultati, disturbando l’andamento
dell’esperimento. Le modalità di somministrazione devo essere standardizzate, cioè
uniformi, per questo le prove o i test da somministrare sono accompagnati da un manuale
di istruzioni sull’atteggiamento da tenere e sull’ambiente in cui occorre effettuare la
somministrazione: se il ricercatore non si attiene scrupolosamente a questi dettami, i
risultati possono essere falsati e non generalizzabili.
La standardizzazione serve a garantire replicabilità agli esperimenti, fare in modo da
poterli ripetere per confrontare i dati e ciò è possibile soltanto se ogni volta che si esegue
un esperimento si rispettano le stesse regole di somministrazione. La standardizzazione è
volta a tenere sotto controllo le varabili di disturbo, come l’influenza del ricercatore sul
soggetto e del soggetto sul ricercatore: infatti, il ricercatore può inibire il soggetto e
viceversa, il soggetto può non risultare gradito al ricercatore o risultare troppo simpatico,
tanto che il ricercatore gli viene incontro in caso di difficoltà nel comprendere la prova,
dando ulteriori spiegazioni, che però comprometterebbero la validità della prova stessa.
Quando un soggetto non comprende un’istruzione, è opportuno rileggerla con calma,
senza modificarla: se invece si ricorre a sinonimi e perifrasi per renderla più chiara,
bisogna annotarlo e tenerlo in considerazione in fase di elaborazione dei risultati. Il
ricercatore rischia, infatti, di “suggerire” le risposte, di utilizzare termini suggestivi, di
condizionare in qualche modo il soggetto.
Vi sono poi variabili emotive che disturbano lo svolgimento di prove cognitive: ad
esempi, esperimenti che misurino la concentrazione o le competenze intellettive possono
risentire dell’ansia, dell’umore o della stanchezza del soggetto, dunque occorre valutare
anche il momento opportuno in cui somministrarle e scegliere un ambiente luminoso e
silenzioso, privo di fonti di distrazione.
Per questo, quando occorre somministrate più tipologie di prove, è opportuno
iniziare da quelle cognitive, per sfruttare la concentrazione che inizialmente è maggiore,

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poi procedere con le prove creative o di personalità, che beneficiano dell’abbassamento
delle difese e delle inibizioni che segue al fatto di aver già sostenuto una prova e di aver
familiarizzato con l’ambiente.
I dati raccolti vanno annotati in apposite griglie e poi conteggiati o elaborati: quando
le griglie sono numerose, se vengono controllate da un ricercatore, vi è il rischio di
saltare dei dati, a causa del calo di attenzione, dovuto al compito meccanico e monotono,
compromettendo il risultato dei calcoli statistici. Attualmente, tuttavia, questo problema
non è più avvertito, poiché i dati vengono generalmente annotati su un modulo a lettura
ottica e quindi elaborati direttamente dai computer. Nel caso di esperimenti di
laboratorio, i comportamenti dei soggetti possono essere filmati e poi rivisti insieme a
tutti i membri dell’équipe di ricerca, in modo da confrontare più punti di vista ed
minimizzare le interpretazioni arbitrarie. Nel caso di colloqui, possono essere invece
registrati e sbobinati, per analizzare collegialmente eventuali momenti di difficoltà del
ricercatore coinvolto.
Una volta che i dati sono stati raccolti è possibile compiere su di essi semplici
elaborazioni statistiche. Le operazioni basilari sono: la media aritmetica, la mediana, la
moda. La media aritmetica è il valore che rappresenta la ripartizione egualitaria di una
variabile (caratteristica) quantitativa tra le unità del collettivo. Si calcola sommando i
singoli dati, dividendo il risultato per il n° di essi. La mediana è il valore che divide in
due gruppi i dati, situando metà di essi al di sotto e metà di essi al di sopra. Per calcolare
la mediana, occorre innanzitutto ordinare in senso crescente i dati disponibili, poi
individuare il valore che compare al centro. La moda è il valore che si presenta con
maggiore frequenza nella distribuzione. Se nessun valore si presenta più frequentemente
degli altri, la distribuzione è senza moda.
I dati raccolti da un’intervista, un questionario, un sondaggio o una ricerca, possono
essere inseriti in tabelle o rappresentati graficamente. Quando si raccolgono dati relativi
alla distribuzione di una variabile all’interno della popolazione, rileviamo che
generalmente si distribuisce in modo gaussiano, cioè secondo una curva a campana,
come quella sottostante. Tale distribuzione è detta “normale”. La curva gaussiana è
costituita da una branca ascendente, un apice, una branca discendente. Se una variabile si
distribuisce in modo normale all’interno della popolazione vuol dire che la maggioranza
dei soggetti della popolazione ricade nell’area dei valori medi, invece una minoranza
ricade nei valori estremi. Ad esempio, assumendo come variabile l’altezza degli italiani,
si noterà che la maggior parte abbia un’altezza media, quindi cade all’interno dell’area

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centrale della curva, occupata da valori intermedi. Il valore medio è quello
corrispondente all’apice. Una minoranza di italiani sarà invece più bassa della media,
dunque si distribuirà nell’estrema sinistra della branca ascendente, occupata da valori più
bassi rispetto alla media; un’altra minoranza avrà un’altezza superiore a quella media,
dunque occuperà lo spazio all’estrema destra della branca discendente, costituito
dall’insieme dei valori superiori alla media.
La ricerca può servirsi di strumenti validati standardizzati, come scale, test,
Strumenti
questionari. La ricerca può compiersi in diversi ambiti, da quello generale, a quello dello

Ambiti
sviluppo, a quello clinico, a quello lavorativo e in ciascuno, i risultati delle ricerche
applicativi possono avere applicazione per risolvere problemi, migliorare le pratiche, valutare aspetti
della realtà.

47. I Test

I test costituiscono uno strumento standardizzato e validato utilizzabile dallo


Definizione psicologo a scopi clinici o di ricerca, ma benché forniscano una misurazione oggettiva di
un campione di comportamento, non è possibile affidarsi unicamente ad essi per
formulare una diagnosi: non sostituiscono infatti il colloquio, ma lo completano, poiché
il test, soprattutto proiettivo, è focalizzato su processi meno evidenti, ed è proponibile al
soggetto solo dopo aver instaurato un buon clima e un rapporto di fiducia.
La somministrazione di un test può suscitare ansia da valutazione, poiché il
Teoria
soggetto può assimilarla ad un esame, oppure ammantare la figura dello psicologo di un
approfondita
alone magico, come di uno stregone che legge magicamente nei meandri della mente,
(con autori,
esperimenti,
carpendone i segreti. È opportuno quindi proporre un test facendo capire al soggetto che
ecc.) non si tratta di un lavoro “su di lui”, ma “con lui”.
Lo psicologo deve conoscere approfonditamente i presupposti teorici dei test che
sceglie di somministrare, calcolando non solo l’età del soggetto, ma anche aspetti
cognitivi quali affaticabilità e concentrazione e di personalità come tratti paranoici, che
posso suscitare diffidenza e sospetto, ed avere sempre chiare quali informazioni intenda
ottenere e quali ipotesi emerse dal colloquio intenda verificare.
I test sono caratterizzati da diverse misure di validità e attendibilità.
La validità è la capacità del test di misurare ciò che effettivamente si propone di
misurare e non costrutti simili che si possono confondere con quello da misurare. Si
distinguono una validità di contenuto, che è la capacità dello strumento di cogliere le

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manifestazioni del costrutto, la validità di costrutto, che riguarda la precisione della
definizione del costrutto, distinta in discriminante e convergente; la validità di criterio,
cioè il grado di associazione tra la misura ed un criterio di riferimento, divisa in
concorrente e predittiva; la validità esterna, che valuta se i risultati di un test siano
estendibili ad altri luoghi e soggetti; la validità interna, che riguarda la relazione tra le
due variabili. La validità può essere minacciata da interferenze di eventi esterni, come i
processi di maturazione in casi di studi longitudinali; dagli effetti delle prove, poiché il
risultato della prima somministrazione influenza le successive; dall’effetto della
regressione, poiché estraendo un sottoinsieme di soggetti coincidenti con gli estremi,
facendo altre prove, quelli con punteggi più alti hanno valutazioni inferiori che tendono
al valore centrale del gruppo; dalla selezione casuale dei soggetti; dalla mortalità, cioè
abbandono dell’esperimento.
Per ridurre queste minacce, è opportuno fare ricerca in situazioni naturali, evitando
artefatti e selezionando soggetti rappresentativi, controllando gli effetti del pre-test che
può aver familiarizzato i soggetti, non indicare il vero motivo della ricerca per non
condizionare il loro comportamento e fare misurazioni non intrusive.
L’affidabilità, o attendibilità, è invece la capacità di un test di dare un risultato
stabile. Può essere valutata attraverso vari metodi: il test - retest, cioè risomministrando il
test a distanza di tempo, lo Split-half, cioè dividendo il tes in due subtest, il metodo delle
forme parallele, che consiste nel somministrare forme simili del test, l’Alpha di
Cronbach, coefficiente che equivale alla media di tutti i coefficienti possibili di split-half.
Esistono diverse tipologie di test.
I test di sviluppo rilevano le competenze motorie, linguistiche, emotive, cognitive e
Strumenti
sociali del bambino e ne monitorano l’evoluzione. In particolare, le Bayleys Scale
rilevano lo stadio di sviluppo e le eventuali deviazioni dallo sviluppo normale. Le scale
di Utgiris e Hunt, seguendo una concezione stadiale piagetiana dello sviluppo, osservano
le sequenze comportamentali del periodo sensomotorio, rilevando l’avvenuta
acquisizione delle abilità cognitive sottostanti: ad esempio osservano l’abilità di cercare
un giocattolo nascosto dietro uno schermo per rilevare se è stata acquisita la sottostante
“costanza dell’oggetto”. I test di sviluppo si servono di materiali ludici e
dell’allestimento di situazioni-stimolo, preferibilmente in un ambiente familiare. Vi è poi
il delicato periodo prescolare, valutato con specifici test come il Gesell, che registra su
schede i comportamenti percettivi, linguistici e motori del bambino, coinvolgendo i
genitori per l’anamnesi dei comportamenti sociali, mentre il Miller calcola 5 indici di

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performance per la prevenzione dei disturbi di apprendimento. La Scala di Sviluppo del
pensiero logico, ideata da Longeot, teorico della psicologia differenziale, combina la
psicologia genetica piagettiana e la psicologia delle differenze individuali. Infatti,
mediante il costrutto di “stile cognitivo”, Longeot si propose di evidenziare non soltanto i
dati intellettivi oggettivi, ma anche le strategie di risposta del soggetto, fornendo non
soltanto un resoconto oggettivo e quantitativo della prestazione intellettiva, ma uno
“spaccato” qualitativo delle modalità di pensiero preferenziali.
Poi vi sono i test di intelligenza. Storicamente, il primo test di intelligenza, che
oggi ha più un valore “simbolico” e “documentario” piuttosto che validità clinica, fu la
scala di Binet, sollecitata dall’esigenza didattica di differenziare i curricula scolastici
francesi per riservare programmi differenziati a bambini segnalati come “in ritardo”
rispetto alla media dei coetanei. Attraverso una serie di prove, la scala di Binet
confrontava l’età cronologica con l’età mentale, confronto poi divenuto più oggettivo
introducendo il concetto di Quoziente Intellettivo: non forniva quindi un profilo come la
Wais, né distingueva le abilità mentali da quelle di performance. Subì inoltre varie
revisioni, l’ultima, del 1984 sostituì il termine “intelligenza” con “sviluppo cognitivo”,
così come il QI e l’età mentale con un punteggio standard di età.
Il primo test di intelligenza venne elaborato da Weschler senza la pretesa di fornire
una definizione assoluta e definitiva di intelligenza, ma limitandosi a
un’operazionalizzazione che la indicava come «la capacità globale dell’individuo» di
agire, di pensare e di gestire l’ambiente. Era suddiviso in un una scala verbale e in una
scala di performance, successivamente riveduto e rinominato Wais, anch’esso poi
riveduto e rinominato Wais-r, attualmente il più diffuso e utilizzato. Ad esso si
affiancano due versioni adattate per l’età evolutiva: la Wisc, poi riveduta e divenuta
Wisc-r, e la Wippsi, appositamente pensata per un importante periodo di transizione per
lo sviluppo intellettuale, quello dell’ingresso a scuola, che richiede al bambino nuovi
compiti adattivi, sia cognitivi che sociali. Queste scale forniscono pattern e profili di
dispersione che consentono di rilevare le caratteristiche del funzionamento intellettuale,
eventuali aree specifiche di abilità o di deficit, nonché il divario tra QI verbale e di
performance, che, se elevato, può costituire un indicatore di psicopatologia.
Tuttavia, l’interpretazione dei risultati può assumere anche una forma qualitativa,
che si concentra sulle modalità di emissione della risposta, poiché gli item attivano
diverse funzioni: attentive, percettive e di coordinazione nel manipolare oggetti, di
memoria e motivazione nel recuperare contenuti appressi, mobilita ansie, angosce e

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affetti che possono interferire con le funzioni cognitive e infine risente della soggettiva
soglia di saturazione agli stimoli, nonché e della destrezza motoria. Il soggetto è quindi
posto di fronte a una prova complessa, suscettibile di meccanismi di proiezione.
Osservando infatti il comportamento nell’esecuzione, le esitazioni, i turbamenti, si
può completare il prospetto cognitivo con notazioni psicodinamiche. Vi sono poi le
Matrici di Raven che rilevano l’intelligenza non verbale, sottoponendo il soggetto a
prove di completamento percettivo sempre più complesse, definite “matrici” in quanto
ciascuna prova è origine di una modalità di pensiero. L’intento di Raven era di realizzare
un reattivo “cultur-free”, benché successive analisi abbiano dimostrato che, in qualche
misura, il test sia comunque influenzato da fattori culturali, anche se stimola gli aspetti
non verbali in misura maggiore di altri test come Wais. Tuttavia, a differenza di
quest’ultimo, non fornisce un profilo cognitivo, né ipotesi sui meccanismi di risposta.
Esiste sia nella versione per adulti, sia in una versione avanzata per adulti di intelligenza
superiore (Matrici Progressive), sia per bambini (matrici colorate), con tavole colorate
per rendere più piacevole la prova.
I test proiettivi sono invece basati sul costrutto di “proiezione”, non intesa in senso
freudiano più stretto, come meccanismo di difesa, ma in senso transferale più ampio, di
attribuzione di vissuti conflittuali, edipici e fanstamatici a un oggetto esterno. I test
proiettivi consistono infatti nel presentare al soggetto tavole con stimoli non strutturati da
disambiguare, come le macchie d’inchiostro del Rorschach, o stimoli tematici su cui
costruire storie, come le illustrazioni del Tematic Apperception Test. I test proiettivi
consistono, cioè, in un compito di ristrutturazione percettiva, il cui prodotto finale, come
anche il processo di esecuzione, secondo l’ottica psicanalitica, risulta da un
compromesso tra principio di realtà, che impone al soggetto di attenersi allo stimolo
presentato, e il principio di piacere, che invita invece all’immaginazione.
Il soggetto vive quindi un conflitto, perché regredisce, ma al contempo
intellettualizza: in soggetti normali, le funzioni dell’Es, dell’Io e del Super-Io riescono a
integrarsi; in soggetti patologici, dal nevrotico allo psicotico, può verificarsi un
sovrainvestimento dell’Es, con un prodotto eccessivamente fanstasmatico o al contrario
un’eccessiva secondarizzazione dell’Io che risponde, ad esempio, a una scena del TAT,
con una descrizione statica o riconducendo tutto a un banale fatto di cronaca.
I più diffusi test proiettivi appositamente pensati per l’età evolutiva sono invece il
Cat, variante del Tat e caratterizzata da illustrazioni di figure animali in cui il bambino
può più facilmente identificarsi; il Patte Noir, con il maialino dal piedino “marchiato” da

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una macchiolina; il Blacky Pictures con il cagnolino nero: essi esplorano i vissuti
fantasmatici più propri dell’infanzia, come i bisogni orali, il complesso edipico, la
rivalità tra fratelli, le angosce abbandoniche e, nelle serie aggiuntive del Cat, anche
l’esperienza della malattia e di ingresso a scuola.
Tuttavia, gli psicometristi più ortodossi squalificano come un ossimoro
l’espressione “test proiettivi”, per la loro ridotta validità e la difficile standardizzazione
delle norme interpretative, rimesse alla soggettività dello psicologo che finisce per
“proiettare” tanto quanto il paziente. Anche i clinici tuttavia, più che affidarsi ad essi
come strumento diagnostico, ne riconoscono maggiori potenzialità nell’utilizzabilità
come uno strumento di interazione, come una sorta di “oggetto transizionale”
winnicottiano.
In età evolutiva, sono molto utilizzati i test grafici, poiché impegnano il bambino in
un’attività a lui consueta come il disegno, specie di oggetti familiari in cui il bambino si
cimenta già spontaneamente, come la figura umana, l’albero, la casa e la famiglia,
minimizzando così la soggezione nel sentirsi valutati e l’angoscia di essere sottoposti a
una prova, sentimenti facilmente indotti nei bambini dal setting clinico.
I test grafici rappresentano un utile sussidio per “monitorare” lo sviluppo
cognitivo, poiché alcuni aspetti grafici compaiono o scompaiono parallelamente
all’acquisizione di nozioni concettuali come le relazioni topologiche ed euclidee o la
maturazione corticale, che permettono maggiore controllo e coordinazione visuo-
motoria: ad esempio la trasparenza della casa, normale nel bambino, nell’adulto è
segnale di scarso esame di realtà.
Quanto all’interpretazione, in tutti i disegni si osservano innanzitutto gli aspetti
grafico-formali, cioè i pattern psicomotori come il tratto, le linee, le proporzioni, le
dimensioni, la collocazione del disegno nel foglio. Quanto ai contenuti, il test della figura
umana della Goudenhoug, il primo test grafico, secondo l’analisi di Hammer sollecita 3
tipi di rappresentazione: il sé reale, il sé ideale, la percezione del sé parte di figure
significative. In particolare, occhi e orecchie della figura rilevano modalità di contatto
sociale, così come braccia e mani protese verso l’esterno piuttosto che rigidamente
allineate lungo il tronco. Il collo è la linea di demarcazione tra razionale e istintuale, se
eccessivamente lungo può indicare difficoltà nella gestione delle pulsioni. Il tronco, se
accentuato nella sua linea mediana con una fila di bottoni, può rilevare una dipendenza
affettiva, mentre le gambe rappresentano il movimento e l’autonomia.
La Koppiz propone l’utilizzo della figura umana anche per valutare l’identità

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psicosessuale, osservando ad esempio la differenza tra figura maschile e femminile,
mediante la presenza di accessori femminili come borse e cappelli o maschili come
pistole e sigari, nell’accuratezza del disegno, nella differenza tra le dimensioni e le
proporzioni delle due figure.
Il test del disegno dell’albero di Koch, essendo l’albero una figura primitiva,
vegetale, con una posizione eretta, si presta a sollecitare aspetti più profondi e stabili,
aggirando le convenzionalità spesso difensivamente apportate sul disegno della figura
umana. Le radici rappresentano l’Es, il tronco l’Io, la chioma l’apertura verso il sociale,
analogamente alle braccia nel disegno della figura umana. Il disegno della famiglia rileva
invece i sentimenti rispetto al proprio contesto familiare. La consegna può attenersi più o
meno all’esame di realtà, può infatti essere richiesto di disegnare la propria famiglia,
“una famiglia”, oppure di trasformare la famiglia inizialmente disegnata in oggetti o in
animali.
Lo psicologo deve conoscere preliminarmente la composizione della famiglia del
soggetto per confrontarla con la famiglia disegnata, poi rilevare la posizione del soggetto
rispetto alle altre figure e infine i meccanismi di svalutazione o valorizzazione delle
figure, espressi attraverso una maggiore accuratezza dei tratti, le dimensioni, il situare
una figura al centro o in disparte. Il disegno della casa rinvia alle relazioni famigliari, con
genitori e fratelli, oppure, nel caso di adulti sposati, al rapporto con il partner: il tetto
indica la ricchezza fanstasmatica, le mura sono analoghe al tronco nel test dell’albero e
rappresentano l’io, porte e finestre indicano le modalità di rapportarsi con gli altri e con
Ambiti
l’ambiente. E’ preferibile una consegna multipla che inviti il soggetto a disegnare figura
applicativi
umana-albero-casa, per avere una visione più completa, che sopperisca, almeno in
(già indicati
nella
qualche misura, alla già scarsa affidabilità di questo tipo di test.
descrizione I test possono essere utilizzati in ambito di ricerca, nei progetti, nella clinica, nel
dei test) lavoro.

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48. Confronto tra 2 test

Traccia: Nell’ambito di uno specifico campo di intervento, il candidato metta


a confronto, criticamente, due diversi strumenti di valutazione.

In ambito clinico, lo psicologo può impostare un intervento di sostegno dopo aver


Definizione
ottenuto informazioni sul paziente attraverso specifici strumenti di valutazione, come ad
esempio i test.
Il test è uno strumento di misura di costrutti psicologici, che si distinguono dalle
caratteristiche fisiche di un oggetto in quanto non sono osservabili direttamente, ma
ricavabili compiendo un’inferenza probabilistica. Infatti, una volta operazionalizzato un
costrutto, fornendo una definizione chiara e precisa che lo renda misurabile, si
predispone uno strumento che possa rilevarlo e, per quanto possibile, quantificarlo. Il test
va sottoposto ad una serie di procedure per aumentarne validità e attendibilità,
accertandosi, nei limiti, che riesca a misurare effettivamente il costrutto che si propone di
misurare e non altri con cui può confondersi.
Occorre anche fare in modo che ripetendone la somministrazione a distanza di
tempo, si ottenga un punteggio analogo, per quanto possa contenere sempre una quantità
di errore. Il punteggio medio ottenuto da un campione rappresentativo a cui è stato
sottoposto il test nella sua versione definitiva costituisce la norma di riferimento, con cui
confrontare la prestazione del paziente per valutare se si collochi o meno nella norma.
Infatti, il punteggio raggiunto ad un test non è mai una misura assoluta del costrutto, ma
un confronto tra la prestazione del paziente e quella del campione assunto come

Teoria
normativo.
approfondita I test si dividono in due grandi categorie: cognitivi, che includono test di profitto,
di abilità, di intelligenza, attitudinali e test non cognitivi, che includono scale di
atteggiamenti e test di personalità. I test possono avere diverse strutture e fornire
indicazioni sia quantitative che qualitative.
In ambito clinico, è possibile affiancare due tipi di test diverso, come i test
proiettivi, ad esempio il test di Rorschach, e i test di livello, ad esempio la scala Wais,
così da integrare i dati provenienti dall’uno e dall’altro.
Il Rorschach è un test molto utilizzato in ambito psicodinamico, poiché consente di
esplorare le dimensioni profonde del Sé, quali l’affettività, i conflitti, le angosce. Si basa
sul meccanismo della proiezione. Infatti, la macchia è uno stimolo ambiguo,

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destrutturato, a cui il soggetto cerca di dare un significato, assimilandolo a forme, figure,
situazioni suggeritegli dal proprio inconscio. Il Rorschach è costituito da 10 tavole su cui
sono rappresentate macchie di inchiostro simmetriche, ottenute originariamente colando
inchiostro su un foglio bianco e piegandolo a metà, così che la macchia potesse
imprimersi allo stesso modo su entrambe le facciate.
Si presuppone che per interpretarle, il soggetto attinga alle proprie risorse più
profonde, consentendo al materiale rimosso di svelarsi, anche se in una forma ancora
mascherata. Il soggetto non ha limiti di tempo per rispondere cosa veda nella macchia,
anche se tempi di latenza prolungati costituiscono “shock” e possono rivelare angosce.
Oltre al contenuto della risposta, è importante rilevare le comunicazioni non verbali del
paziente, come le espressioni del viso, l’impazienza, l’incertezza, i commenti alle tavole,
il fatto di girarle per leggerle da diverse angolature, ecc. Tutto rivela qualcosa di lui,
dunque il somministratore deve annotarlo e tenerlo in considerazione. Non esistono
risposte giuste o sbagliate.
Alla complessa fase di siglatura, segue l’altrettanto complessa fase di
interpretazione, che può avvenire in diversi modi, sempre dopo un lungo e impegnativo
percorso di formazione e supervisione: in ambito europeo, prevalgono metodi di matrice
psicoanalitica come quello della scuola francese, oppure il metodo svizzero-italiano o
ancora il metodo Rizzo della scuola romana. In ambito anglosassone, prevale il
cosiddetto metodo comprensivo di Exner, di matrice psicometrica, in quanto si basa su
statistiche e conteggi numerici.
I dati relativi all’attendibilità e alla validità del Rorschach sono molto controversi,
spesso alimentati da polemiche, dunque vi sono sia studi che lo ritengono uno strumento
affidabile, altri che lo considerano un modo di esplorare alcune dimensioni qualitative, di
stimolare l’emersione di contenuti inconsci, senza poter effettuare una valutazione
valida, poiché risulta difficile controllare tutte le variabili e limitare la soggettività
nell’interpretazione. Infatti, il somministratore rischia di proiettare tanto quanto il
soggetto testato.
Il test Wais è invece un test di livello, dunque nella struttura, nella
somministrazione, nella valutazione della prestazione è completamente diverso dai test
proiettivi. È una scala di intelligenza, che si propone di misurare l’abilità cognitiva
generale e altre specifiche abilità che si riferiscono sia ad un’intelligenza di tipo
cristallizzato, dipendente in parte dall’istruzione, come il vocabolario, la cultura
generale, ecc, e altre riferite ad un’intelligenza più fluida e culture-free, come il

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completamento di figure, riordinamento di storie, ecc.
Il test è diviso in due subscale, quella verbale e quella di perfomance, e fornisce sia
un QI (Quoziente intellettivo) generale, ottenuto dividendo età mentale per età
cronologica e moltiplicando per 100, sia punteggi differenziati per le due subscale. Il QI
medio è a 100, con deviazione standard di 15, quindi i soggetti con punteggi compresi tra
85 e 115 sono nella norma, al di sotto di 85 hanno un funzionamento intellettivo limite
oppure, in base ai punteggi, possono presentare ritardo lieve, medio, grave, gravissimo.
In questo test, viene calcolata la precisione, la correttezza delle risposte, la velocità
di esecuzione. Si tratta dunque di un compito, che prevede risposte giuste o sbagliate, in
base alle quali si acquisisce punteggio. Il punteggio consente di confrontare le prestazioni
tra soggetti, di categorizzarli, di ottenere sia una misura quantitativa, sia un profilo
qualitativo del funzionamento cognitivo globale, individuando i compiti che ciascuno
riesce a svolgere correttamente e quelli in cui trova più difficoltà. Anche la
somministrazione è ben standardizzata, il metodo di valutazione è rigoroso, meno
soggetto all’arbitrio del somministratore e ottenuto attraverso calcoli matematici, spesso
effettuabili anche in modo computerizzato, ottenendo grafici.
Certo, questo non basta ad affidarsi completamente a questo test per un
inquadramento cognitivo del soggetto, perché non fornisce una misura assoluta, ma un
punteggio comunque influenzabile da diverse variabili, anche di tipo emotivo o clinico,
ad esempio l’ansia. Dunque, non è detto che disporre di un protocollo univoco, rigoroso,
oggettivo, garantisca da interferenze e sia perfettamente replicabile e affidabile, come
non è detto che la mancanza di procedure maggiormente universali e standardizzate,
come accade per i test proiettivi, sia per forza un punto di debolezza: anche i proiettivi
forniscono indicatori utili e importanti per un inquadramento del soggetto, aggirando
anche le sue difese e stimolando contenuti affettivi che comunque modulano il
funzionamento anche cognitivo.
Attraverso un punteggio secco come quello del QI, è possibile classificare i
soggetti, ma c’è anche il rischio di discriminarli, attraverso etichettamenti che inibiscono
le potenzialità, soprattutto nel caso dei bambini a cui si rileva un ritardo: si abbassano
spesso le aspettative verso di lui, stimolandolo di meno e quindi portandolo
effettivamente ad avere prestazioni inferiori a quelle che potrebbe, come in una profezia
che si autoavvera. Il punteggio secco non permette di apprezzare le sfumature, le
euristiche, lo stile cognitivo specifico di ciascun soggetto, si limita a verificare abilità
assunte come rappresentative dell’universo delle attività cognitive generali, che però non

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necessariamente sono anche quelle centrali in altri contesti di vita, come quello affettivo,
sociale, lavorativo. Soggetti con ritardo lieve hanno spesso carriere di successo, poiché
pur non possedendo un’intelligenza di tipo scolastico e generale, sono intuitivi e creativi,
dunque riescono con successo nelle loro attività.
I dati provenienti dai test, siano essi strutturati e non strutturati, dunque proiettivi o
di performance, devono comunque essere integrati tra di loro, senza assumerli come
verità certe e immodificabili, nonché contestualizzati, per valutare le altre risorse
intrapsichiche e interpersonali che il soggetto dispone e che possono stimolarlo. Sono in
entrambe i casi strumenti utili, da completare anche con colloqui, anamnesi,
osservazioni, e servono a fondare empiricamente diagnosi e interventi, ma senza
Ambiti pretendere di essere esaustivi.
applicativi
I contesti di applicazioni dei test sono molteplici: oltre all’ambito clinico, vi è
quello peritale, educativo, lavorativo, con obiettivi non solo di valutazione fine a se
stessa, che sentenzia definitivamente una realtà, ma come strumenti che si perfezionano
attraverso continue ricerche, aggiornamenti e tarature e consentono di dirigere lo
sguardo, evitando sia che divaghi dispersivamente, sia che si fissi pericolosamente.

49. Un test approfondito – Il disegno della figura umana

Il test della figura umana è un test grafico, generalmente utilizzato per stimolare
una problematica prevalentemente non cognitiva, poiché tre autori, separatamente ma
Definizione e
nello stesso tempo, hanno riconosciuto come il concetto di persona sia il più
teoria
intensamente investito di tematiche emotive (Buck, 1947, 1981; Levy, 1950; Machover,
approfondita
1953).
Per somministrarlo, si chiede al soggetto «Disegna una persona», «Disegna una
figura umana», «Disegna qualcuno», e dopo l’esecuzione della prima figura, viene
chiesto «Adesso, per piacere, disegna una persona dell’altro sesso», ottenendo così due
forme parallele del test, nonché un confronto tra figura femminile e maschile.
Segue un’inchiesta che varia secondo gli autori e generalmente consiste nel
chiedere al soggetto di commentare età, atteggiamenti, relazioni delle figure disegnate.
Anche la valutazione dei disegni risente di una molteplicità di approcci, che si
suddividono in globali-intuitivi, i più diffusi tra i clinici, e analitici, che esaminano una
lista di indicatori sia contenutistici che formali.
L’attendibilità risulta tuttavia inadeguata, è maggiore per criteri contenutistici

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
ampi (adattamento, aggressività, etc.), minore per indici contenutistici specifici (altezza,
ombreggiatura, etc.): ciò costituisce un notevole difetto, soprattutto se si aggiunge il fatto
che sono state raccolte scarse conferme della corrispondenza tra caratteristiche della
figura e tratti psicologici e psicopatologici, né vi è accordo nell’indicare quali siano le
caratteristiche più significative, né di quali aspetti siano rivelatrici.
Anzi, vi è la tendenza tra i clinici a valutare i disegni secondo correlazioni illusorie,
privilegiando analogie intuitive e stereotipate tra caratteristiche delle figure e
sintomatologia: studi di Swensen (1968) hanno anche rilevato che clinici esperti e
giovani inesperti non differivano in questo. Risulta inoltre difficile controllare l’influsso
dell’abilità artistica.
Comunque, nonostante la debolezza psicometria, il disegno ha il pregio della
trasversalità, nel senso che può essere somministrato a soggetti di varie fasce d’età,
bambini ma anche anziani, e di varie patologie, da nevrotici a psicotici, e per i bambini in
particolare può attenuare i fattori di stress connessi sia al setting clinico: li fa cimentare
in un’attività per loro consueta, li invita a focalizzare l’attenzione sul sé, specie in
momenti di transizione come l’ingresso a scuola, che comporta l’uscita dal legame
spesso simbiotico ed esclusivo con la madre, l’adesione a norme e convenzioni sociali,
l’apertura al rapporto con i pari e con figure autoritarie diverse dai genitori, oppure può
essere utile in momenti di stress come interventi chirurgici, dove può essere messo in
crisi il senso della continuità del sé corporeo, offrendo un monitoraggio, per quanto
parziale, dell’immagine che il bambino ha o sta costruendo di sé.
Riguardo gli aspetti più propri e contenutistici del disegno della figura umana, la
Machover ha cercato di sistematizzare il significato simbolico dei diversi organi del
corpo, di cui si riporta una sintesi, tenendo conto comunque dei limiti di tali
corrispondenze:
Volto: è il centro delle relazioni, del contatto emotivo e sensoriale con la realtà
sociale. Tratti facciali omessi possono rivelare un ritiro ostile, difficile inserimento o
rifiuto di partecipazione sociale. Tratti facciali curati eccessivamente o aggiunta di
dettagli accentuati possono rivelare autostima scarsa e poca fiducia in sé, bisogno di
fingere di essere ciò che non si è.
Bocca: è sede di impulsi erotico-orali ed aggressivo-orali. Se è omessa o disegnata
con una linea breve, semplice, con labbra serrate, è segno di repressione dell’aggressività
orale o di desideri erotici che suscitano sensi di colpa e bisogno di autopunizione. Se la
linea è curva rivolta verso l’alto, indica invece desiderio di essere approvato e gratificato.

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Occhi: organi del contatto intimo con il mondo esterno. Un bambino sorvegliato,
criticato, disegna occhi grandi, minacciosi, con aspetto terrifico. Occhi vuoti senza
pupilla significano immaturità emotiva, dipendenza. Occhi chiusi sono disegnati da
soggetti narcisistici, chiusi nel proprio mondo, centrati sul proprio Io. Occhi piccoli,
magari con un solo puntino, da bambini che non vogliono vedere, che vogliono aprirsi il
meno possibile alla realtà.
Naso: in alcuni disegni infantili ha la forma del pene, in quanto è un organo fallico,
evidenzia problemi e preoccupazioni di natura sessuale, specie se è eccessivamente
grande. La sola presenza delle narici indica aggressività accentuata, così come quando
sono sottolineate
Collo: se omesso è segno di scarso controllo razionale degli impulsi. Collo lungo e
sottile, è indizio di rigidità, specie in soggetti con difficoltà nella gestione dei propri
impulsi
Braccia: come le mani, sono strumenti di esplorazione dell’ambiente. Braccia
assenti indicano ritrazione del soggetto da un ambiente frustrante, timidezza, passività.
Lunghe, sentimenti di efficienza, di contatto con l’ambiente, che non spaventa, ma
stimola l’ambizione. Braccia corte esprimono carenza di energia nella lotta contro le
difficoltà, riservatezza eccessiva, paura del confronto. Può trattarsi di un bambino che
cerca di comportarsi bene per le pressioni educative.
Mani: se nascoste nelle tasche o dietro la schiena indicano sensi di colpa generali o
riferiti ad attività colpevoli che si possono compiere con esse (furto, masturbazione,
ecc.). Omesse, senso di inadeguatezza sociale. Ombreggiate o guantate, aggressività
ansiosa e repressa
Gambe: simbolo di ciò che si riferisce al movimento, del senso di autonomia, del
sostegno che il soggetto è in grado di dare a se stesso per muoversi. Omesse, indicano
soggetti con un senso di castrazione, incapaci di muoversi in qualsiasi direzione perché
intimoriti. Troppo lunghe indicano forte desiderio di autonomia, mentre troppo corte
indicano immobilismo psicofisico.
Piedi: con la loro posizione indicano la direzione del soggetto, che può avanzare,
retrocedere, fuggire, essere fermo, bloccato nella indecisione.
Tronco: sede dell’affettività, dell’istintualità e delle problematiche orali, sessuali
e aggressive. Se accentato nella linea mediana, può rivelare dipendenza affettiva. Se
diviso da una cinta o altro tra torso e zona pelvica, separazione tra impulsi sessuali ed il
loro controllo oppure, non integrazione tra sessualità ed affettività.

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
Il test del disegno della figura umana può essere utilizza nell’età evolutiva, per
valutare in modo orientativo gli aspetti cognitivi, affettivi e dinamici sollecitati
Ambiti
dall’esecuzione pittorica e per esprimere l’organizzazione del sé, l’autostima, il vissuto
applicativi
corporeo, l’ideale dell’Io, e la propria immagine sociale. Oppure può essere utilizzata
nell’età adulta, poiché insieme a Rorschach, MMPI, Wais compone una batteria di base
per delineare un profilo di personalità utili a fini clinici o peritali.

50. Uno strumento – Il DSM-IV-R

Per formulare una diagnosi in ambito psichiatrico, attualmente è molto utilizzato il


Definizione e DSM-IV-R, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quarta Edizione
teoria
Revisionata, redatta nel 1994 dall’APA, American Psychiatric Association.
approfondita
Si tratta di uno strumento di classificazione categoriale, come quello
tradizionalmente utilizzato in ambito medico, in quanto suddivide le patologie in classi
distinte e fornisce una lista di criteri riconducibili a ciascuna di esse. Tali criteri sono di
tipo descrittivo, in quanto costituiscono sintomi manifesti, osservabili e quantificabili. Se
il professionista ne rileva un certo numero, assegna il paziente alla corrispondente
categoria. Non è necessario, infatti, che il paziente presenti l’intera lista di sintomi, ma è
sufficiente un numero inferiore, prefissato e riportato nel DSM-IV stesso.
Le categorie nosologiche del DSM-IV sono, infatti, prototipi, dunque
formalizzazioni e schematizzazioni di configurazioni patologiche empiriche più
complesse e sfumate, dunque si valuta la somiglianza del paziente rispetto al prototipo,
nella consapevolezza che difficilmente sarà riscontrabile una perfetta corrispondenza tra
patologia così come viene descritta nel manuale e così come si presenta nel paziente. Per
questo, gli autori del manuale invitano ad utilizzarlo in modo flessibile, come un punto di
riferimento condiviso, ma non come un testo sacro e assoluto da applicare rigidamente.
Oltre ad essere categoriale e descrittivo, il DSM-IV è ateoretico, in quanto la sua
stesura si è proposta di essere il più possibile imparziale, indipendente da approcci teorici
e clinici specifici quali possono essere quello psicoanalitico, cognitivo-comportamentale
o sistemico. Questo manuale non ipotizza le cause di una patologia, ma si limita a
rilevare soltanto i segni e i sintomi manifesti. La dimensione opposta a quella categoriale
è quella dimensionale, che invece colloca la patologia lungo un continuum, senza isolare
entità cliniche discrete e presupponendo una differenza quantitativa tra sano e malato.
Il DSM-Iv è un sistema multi assiale, in quanto articolato in 5 assi:

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Asse I - Disturbi Clinici. Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione.
Asse II - Disturbi di Personalità. Ritardo Mentale.
Asse III - Condizioni Mediche Generali.
Asse IV - Problemi Psicosociali ed Ambientali.
Asse V - Valutazione Globale del Funzionamento.
Si riportano anche le possibili variazioni culturali delle psicopatologie.
Il DSM-IV presenta punti di forza e di debolezza.
Un punto di forza è la possibilità, per gli psichiatri e gli psicologi, di condividere lo
stesso strumento e lo stesso linguaggio, confrontandosi e comunicando con chiarezza.
L’essere ateoretico lo rende inoltre trasversale, utilizzabile da professionisti appartenenti
a diversi orientamenti, superando i conflitti tra “scuole” nel superiore interesse del
paziente, della ricerca e della clinica. Altrimenti, si poteva rischiare di procedere
intuitivamente, caoticamente, proiettando sui dati i propri schemi, senza il rigore e la
prudenza necessaria per effettuare una diagnosi.
Inoltre, ha ancorato la diagnosi psichiatrica a costrutti statistici come media,
frequenza, moda, mediana, varianza, correlazione, sottraendola all’arbitrio dei singoli
professionisti e conferendo empiricità ad una dimensione, come quella psicologica, che
storicamente è stata criticata dagli scienziati poiché svalutata come ineffabile, non
misurabile, non scientifica. La valutazione multiassiale consente di delineare un quadro
completo, olistico, del paziente, non limitandosi ad annotare in quale categoria rientri,
ma osservandolo da più punti di vista e integrando i sintomi con informazioni relative al
suo contesto, così da comprendere più ampiamente la sua condizione.
Un punto di debolezza è, ugualmente, l’ateoreticità, in quanto, secondo studiosi
come Millon e Carson, l’assenza di una teoria di riferimento rende difficoltosa
l’attribuzione di un significato ai sintomi e la comprensione contestualizzata di essi, oltre
al fatto che la teoria sia considerata un elemento inevitabile ed essenziale per le
tassonomie. Anche non prendere in considerazione l’eziologia o il trattamento, potrebbe
renderlo incompleto, lasciando il clinico con una diagnosi, ma senza indicazioni per la
terapia. Non considera poi la prospettiva evolutiva, ma risulta statico, restituendo un
quadro clinico che in realtà può subire evoluzioni. Non distingue a sufficienza gli stati,
cioè le condizioni momentanee, dai tratti, cioè dalle configurazioni stabili, né
l’esperienza soggettiva del paziente, facendo riferimento in modo riduzionistico e
restrittivo soltanto alla dimensione oggettiva e rilevabile della sofferenza.
Inoltre, suddivide in modo netto le patologie, entificandole artificialmente, quando

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invece nell’esperienza non sono presenti in modo netto e distinguibile, come dimostra il
fatto che spesso sia necessario effettuare diagnosi doppie o multiple, individuando le
patologie compresenti, poiché è raro che un paziente possa rientrare perfettamente in una
sola patologia. Le categorie sono infatti trattate come fossero una distinta dall’altra,
senza considerare le numerose interconnessioni. Il numero dei sintomi prefissati come
soglia, cioè come cut-off che stabilisce se il paziente è affetto o meno da una patologia,
risultano arbitrari, risultato di un accordo non proponibile come assoluto e oggettivo. In
sintesi, le persone risultano più complesse e stratificate di quanto la psichiatria descrittiva
lasci talvolta supporre.
Tuttavia, il DSM-IV resta uno strumento utile per chiarire c condividere pareri
Ambiti clinici ed è applicabile in diversi contesti: dalla ricerca clinica ed epidemiologica, alla
applicativi
ricerca sui processi e sugli esiti delle cure farmacologiche e psicoterapeutiche, alla
psicodiagnosi in contesti istituzionali o privati, favorendo il lavoro d’équipe, in quanto la
sua conoscenza è diffusa presso diversi operatori della salute, dagli psichiatri, ai medici,
agli psicologi, agli assistenti sociali.

51. L’osservazione

In ambito scientifico e psicologico, occorre effettuare una distinzione preliminare


Definizione tra “vedere”, “guardare” e “osservare”: vedere è un’azione ingenua, spontanea, che
consiste nell’assistere ad una scena, cogliendone gli aspetti soggettivamente più rilevanti
o empiricamente più evidenti. Guardare significa soffermarsi con lo sguardo, analizzando
con cura la scena, ma senza rigore e categorie scientifiche. Osservare, invece, è una
procedura sistematica e controllata, che avviene in un contesto di ricerca o di clinica,
controllato o manipolato dallo sperimentatore, che analizza la scena servendosi di
strumenti validati come griglie o check-list. L’osservazione come procedura scientifica è
quindi pianificata e condotta da esperti, dopo un apposito training che consente di ridurre
le possibili fonti di errore e rendere l’osservazione quanto più rigorosa possibile.
Si differenziano diversi tipi di osservazione: naturalistica o etologica, se avviene in
Sintesi delle contesti di vita quotidiana come la scuola o la casa; documentaria, quando non prevede
principali alcun coinvolgimento dell’osservatore e intende esplorare un evento piuttosto che
tipologie di
raccogliere materiale finalizzato ad un obiettivo prestabilito; diretta o indiretta, in base
osservazione
alla presenza o meno dell’osservatore; partecipante, se l’osservatore si fa coinvolgere
nelle attività degli osservati, oppure non partecipante, se invece preferisce evitare

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interferenze.
Nella psicologia dell’età evolutiva, vengono affrontati diversi aspetti
Teoria
dell’osservazione. Prima di predisporre un’osservazione, occorre individuare chi, cosa,
approfondita
(con autori,
come, dove e quando osservare.
esperimenti, Riguardo al chi, frequentemente si osservano bambini, perché eticamente e
ecc.) deontologicamente è preferibile fare ricerche sull’infanzia senza coinvolgere i soggetti in
esperimenti stressanti. A questo proposito, si possono osservare un bambino alla volta,
oppure fare una rapida scansione passando in rassegna i bambini in un intervello di
tempo, oppure osservare la relazione tra bambini, o i bambini coinvolti in un gioco.
Riguardo al cosa, si possono osservare eventi, ad esempio contando quante volte un
bambino vocalizza o alza la mano, oppure “stati”, cioè intervalli con un inizio, uno
svolgimento e una fine, come per le osservazioni del sonno nelle 24 ore.
Possono rilevarsi misure di frequenza, contando il numero di occorrenze, cioè
quante volte compare un comportamento, oppure la durata, cioè per quanto tempo
persiste un comportamento, oppure la latenza, cioè l’intervallo in cui è assente un
comportamento, prima di ricomparire, oppure l’intensità, dunque assegnando un
punteggio su una scala, infine la densità, valutando quanto predomini un comportamento
sugli altri.
Riguardo al dove, le osservazioni possono essere condotte in contesti naturali o di
laboratorio, dove possono avvenire situazioni strutturate o non strutturate e si possono
svolgere compiti naturali oppure appositamente predisposti per sollecitare una reazione.
Riguardo al come, si può osservare effettuando registrazioni dal vivo, oppure annotare
gli eventi con carta e matita, benché in questo modo potrebbe risultare un resoconto non
attendibile, oppure eventualmente facendosi guidare da una check-list, oppure si può
posizionare una telecamera, anche se in questo caso la visuale rischia di essere fissa.
Il materiale raccolto con l’osservazione, essendo qualitativo, dovrà poi essere
trasformato per poterlo valutare e confrontare. Per questo obiettivo, occorre predisporre
le categorie di codifica, che dipendono dalla teoria di riferimento. In ogni caso, le
categorie di codifica, secondo Gottman, devono essere sufficientemente vicine ai dati
così da descriverli e sufficientemente lontane da comprenderli e interpretarli.
Le categorie di codifica possono differenziarsi per livello di astrazione, in quanto
alcune prevedono indicatori fisici, altre sociali, oppure per ampiezza, poiché possono
essere molari o molecolari, cioè cogliere piccoli o grandi segmenti di azioni, possono
essere mutualmente esclusive, nel senso che includendo l’evento in una, si esclude da

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un’altra (se il bambino corre, non può contemporaneamente stare seduto) oppure
includere contemporaneamente più eventi (se sta seduto, può contemporaneamente
sorridere, alzare la mano, ecc).
La codifica può avvenire senza informazioni temporali, contando quante volte si
verificano gli eventi, oppure in sequenza, rilevando la successione di eventi, oppure con
informazioni temporali, rilevando l’ordine e la durata dei compiti.
Gli strumenti con cui si può effettuare un osservazione sono numerosi. Possono
Strumenti
essere utilizzate le check-list, cioè liste di comportamenti predefiniti, che occorre
spuntare quando vengono osservati, eventualmente annotando anche la durata, la
situazione o altri elementi utili; le scale di valutazione, che non sono descrittive, ma
basate sull’interpretazione e comunque possono essere utili per valutare le differenze
individuali; strumenti tecnologici come telecamere, che consentono di registrare una
scena e quindi poterla riosservare molte volte, confrontandosi tra colleghi; strumenti
carta e matita, poco affidabili.
Poi vi sono anche vere e proprie procedure osservative più complesse, utilizzate in
ambito sperimentale e clinico, come la Strange situation, per analizzare la reazione dei
bambini a separazione e ricongiungimento con la madre così da inquadrare il pattern di
attaccamento; oppure l’Infant Observation, metodo di osservazione diretta della diade
madre-bambino, utilizzata soprattutto in ambito psicoanalitico.
L’osservazione può essere utilizzata in diversi ambiti, soprattutto relativi all’età
Ambiti evolutiva. Infatti, lo psicologo che si occupa di bambini, spesso non può utilizzare un
applicativi
colloquio come si fa con gli adulti, poiché i bambini non riescono a verbalizzare con
completezza i loro vissuti, dunque può svolgere delle osservazioni, del gioco o di altri
momenti della giornata del bambino. L’osservazione si può utilizzare anche nell’ambito
di ricerca sociale, per analizzare le interazioni tra soggetti, in contesti naturali o di
laboratorio, oppure in ambito lavorativo, per valutare anche in questo caso le dinamiche
psicosociali di un’équipe di lavoro.

52. Il colloquio

Sin dalle origini della storia della psicologia e dei metodi clinici, l’intervento
Definizione
psicologico si è configurato come una “talking cure”, cioè una terapia effettuata
attraverso la parola. Oggi il colloquio non è più soltanto uno strumento clinico,di cura,
ma è polivalente, differenziabile in base agli obiettivi e agli ambiti applicativi come

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quello clinico, del lavoro, di ricerca. Il colloquio è un contesto relazionale che coinvolge
almeno due soggetti i quali nutrono fantasie e aspettative reciproche, collaborano
fornendo materiale per raggiungere un obiettivo condiviso e utilizzano, per mettersi in
contatto, non soltanto la verbalizzazione, ma anche la comunicazione non verbale.
Il colloquio può essere di diversi tipi: può essere diagnostico e quindi finalizzato a
Tipologie inquadrare i sintomi in una categoria nosologica; può essere di selezione e quindi
finalizzato a valutare il candidato più idoneo a svolgere una mansione professionale; può
essere di sostegno e quindi finalizzato a supportare il cliente nell’affrontare una
problematica circostanziata, senza fornire una soluzione prestabilita, senza giudicare, ma
attivando le risorse del cliente stesso; può essere un colloquio clinico e terapeutico,
finalizzato a intervenire su disagi più pervasivi e strutturati, che spesso richiedono una
riorganizzazione più profonda e globale del Sé. Esistono dunque diverse tipologie di
colloqui, che in ogni caso non sono mai assimilabili ad una “chiacchierata”, come può
essere percepito dal senso comune, ma sono strutturati e finalizzati ad un obiettivo che
richiede specifiche competenze professionali per essere gestito e portato a termine. Nel
colloquio, il professionista procede con prudenza, senza azzardare ipotesi e interventi in
modo affrettato e definitivo: per questo, spesso sono necessari una serie di colloqui prima
di prendere una decisione.
Una tipologia in particolare di colloquio è quello clinico. Benché ciascun
orientamento lo strutturi in modo relativamente autonomo, indicando metodi e d obiettivi
Teoria propri e coerenti con i suoi assunti teorici, vi sono alcuni elementi e regole comuni a tutti
approfondita
gli orientamenti e sono stati indicati dallo studioso Antonio Alberto Semi.
Il colloquio presenta elementi materiali, costituiti dalla stanza in cui si svolge: è
opportuno che sia isolata dal resto dello studio, per garantire la privacy del paziente e
sostenerlo nel percepire lo spazio del colloquio come uno spazio dai confini chiari, dove
vigono specifiche regole d ove può affrontare con fiducia e sicurezza anche tematiche
molto personali. La porta deve dunque essere ben chiudibile, delimitata e non
trasparente.
È opportuno che lo spazio sia arredato in modo equilibrato, senza eccessi e senza
armadietto dei medicinali in vista, qualora il colloquio si svolga nell’ambulatorio di un
medico. Le poltroncine dovranno essere sufficientemente comode, per trasmettere il
messaggio che lo psicologo sa che per esprimere alcuni bisogni, occorre sentirsi a
proprio agio, poter essere sostenuti, ma non rigidamente, bensì con calore ed empatia.
Alcuni orientamenti, come quello psicoanalitico, utilizzano il divano, affinché il paziente

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possa distendersi e rilassarsi, alleviando le tensioni che può produrre il parlare dei propri
disagi profondi. La luce dovrà essere soffusa, né abbagliante, né fioca.
Le pareti né troppo spoglie e disadorne, né eccessivamente vivaci, aggressive o
eccitanti, bensì colorate in modo tenue, eventualmente con quadri appesi, così da rendere
l’ambiente accogliente. Fa parte della cornice materiale anche l’atteggiamento posturale
dello psicologo, poiché l’essere rigido oppure rilassato è una forma di comunicazione
non verbale che può esprimere chiusura o accoglienza.
Il colloquio rispetta tre regole fondamentali. La regola del linguaggio suggerisce
allo psicologo di adeguare il proprio lessico a quello del paziente, evitando termini
tecnici, che servono per riflettere sul caso o per dialogare con i colleghi, ma non per
esibire al paziente la propria competenza. Con il paziente dovrà adeguare il suo registro,
e questo sforzo mimetico dovrà essere chiaro nelle riformulazioni, che sono interventi
empatici, dove lo psicologo esprime il contenuto comunicato dal paziente, senza
aggiungere pressoché nulla, come svolgendo una funzione di specchio, senza
interpretazioni e senza valutazioni personali. Questa regola non si applica ai
tossicodipendenti o ai delinquenti, in quanto queste due categorie utilizzano le parole in
modo seduttivo, falso e manipolatorio.
La seconda regola è quella della frustrazione. Lo psicologo non dovrà colludere
con i bisogni del paziente, in quanto il paziente può delegare allo psicologo una
decisione, può chiedergli una soluzione immediata e magica, ma il professionista non
dovrà intervenire e fornirgliela in modo direttivo, ma dovrà ascoltare, sostenere il
paziente nel suo sforzo di consapevolezza e chiarimento, senza subito e impazientemente
“illuminarlo” con le sue intuizioni o salvarlo con le sue ricette, altrimenti svilupperà
dipendenza e ostilità. Ciò non vuol dire essere sadici, ma saper gestire l’ansia che
possono suscitare le richieste, talvolta, insistenti dei pazienti di avere una soluzione
miracolistica, affinché riescano a tollerare la situazione e ad attivare le proprie risorse.
La terza regola è la reciprocità, in quanto in ciascun colloquio, ciascuno deve dare
e ricevere: anche nel primo colloquio, in cui lo psicologo non può ancora formulare una
diagnosi poiché i dati sarebbero insufficiente, deve però offrire un suo contributo al
paziente, ricambiandolo per il materiale esposto. Ad esempio, può effettuare una mini-
restituzione finale, riepilogare i contenuti emersi senza interpretarli, ma riformulandoli
per verificare se li abbia compresi o se il paziente voglia aggiungere altro.
Il colloquio, inoltre, è impostato secondo una sequenza di fasi, che non sono fisse,
ma possono adattarsi flessibilmente. La prima fase, preliminare, è la richiesta di un

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appuntamento, che preferibilmente deve essere fatta dal paziente interessato. Anche
quando inizialmente sono i parenti a contattare lo psicologo, è opportuno fissare
l’appuntamento direttamente con il paziente. Già al momento della telefonata si attivano
fantasie e aspettative reciproche, valutazioni basate sulla voce e sulle parole.
Nel colloquio vero e proprio, il momento iniziale è il riconoscimento, in cui lo
psicologo fa accomodare il paziente e lo invita a parlare. Può svolgere un colloquio
libero, lasciando il paziente spaziare, oppure un colloquio semi-strutturato, indagando
specifiche aree, oppure strutturato, ponendo una serie di domande prestabilite, qualora
eventualmente non si tratti di colloquio clinico, ma di ricerca.
Dopo questa fase di riconoscimento, vi è quindi la vera e propria esposizione da
parte del paziente, costellata anche da silenzi, che devono essere rispettati e accolti,
poiché sono anch’essi una forma di comunicazione. Lo psicologo potrà intervenire con
riformulazioni o espressioni che comunicano empatia, per mettere a suo agio il paziente.
Segue la valutazione della fase libera, in cui lo psicologo riassume quanto è emerso
per verificare che abbia ben compreso cosa volesse dire il paziente ed eventualmente
propone anche una possibile ipotesi di lavoro personalizzata, che non consiste nella
diagnosi, ma solo in una guida da seguire e rivedere passo dopo passo. Anzi, può essere
costituita anche dall’invito ad effettuare ulteriori colloqui così da avere maggiori dati.
Poi, vi è la conclusione clinica del colloquio, poiché negli ultimi 10 minuti il
paziente potrà esprimere il suo accordo o meno con l’ipotesi di lavoro.
Infine, vi è la conclusione reale, quella vera e propria del distacco.
Psicologicamente, il colloquio continua, sia nella mente del paziente che ne conserverà il
ricordo attraverso immagini e sensazioni, sia nello psicologo, che elaborerà il materiale,
le osservazioni, le ipotesi e analizzerà anche il suo stesso comportamento,
predisponendosi a lavorare sul caso.
Ogni colloquio dovrà però adeguare queste fasi, sia nella lunghezza, sia nella
tipologia di interventi del terapeuta. Inoltre, è parte di un percorso generalmente più
lungo, è l’esito di un lavoro che gradualmente si raffina, poiché il colloquio è un breve
intervallo in cui però di addensano elementi professionali e tecnici, elementi umani e
relazionali, si riattivano vissuti, si elaborano trasformazioni.
Strumenti Vi sono strumenti per valutare il colloquio: ad esempio, con il consenso del
paziente, si possono audio registrare e poi trascrivere, come iniziò a fare Rogers, così da
confrontarsi con i colleghi sul caso, evitando un resoconto personalizzato e filtrato dalla
propria esperienza; si possono anche filmare, così da osservare la comunicazione non

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verbale; si può allestire l’ambiente in modo da poter osservare il colloquio attraverso uno
specchio unidirezionale, sempre con il consenso del paziente, così che altri colleghi
possano seguirlo, come spesso accade nelle terapie familiari oppure per gli psicologo in
tirocinio.
Il colloquio ha diversi ambiti applicativi, poiché è uno strumento flessibile. È
Ambiti utilizzabile nella ricerca, sia scientifica, sia di marketing, sia politica, sia sociale,
applicativi
soprattutto utilizzando, spesso, griglie prestabilite di domande, così da standardizzarle,
oppure in ambito clinico, dove si configura come uno strumento di cura, come fu definito
sin dagli esordi della psicoanalisi; può essere utilizzato in ambio aziendale, per la
selezione del personale, la valutazione del potenziale, la motivazione; oppure può essere
utilizzato nell’orientamento scolastico e professionale; in contesti istituzionali, come
consultori, per il sostegno di genitori, coppie, famiglie, soggetti in età evolutiva.

53. Il focus-group

Il focus group è una tecnica di indagine qualitativa. In ambito sperimentale, le


tecniche di indagine sono state ricondotte a due paradigmi di ricerca, qualitativo e
Definizione e
quantitativo: il primo è conseguenza di una concezione positivista della conoscenza, che
teoria
approfondita
mira a classificare e quantificare gli elementi di un fenomeno, mentre il secondo
promuove un’osservazione naturalistica e incontrollata, presupponendo l’impossibilità di
quantificare fenomeni intrinsecamente qualitativi e non riconducibili a numeri, come
quelli sociali e culturali. Invece, le tecniche qualitative si prestano maggiormente ad
un’osservazione libera dei soggetti coinvolti, dando a questi ultimi l’opportunità di
esprimersi e raccogliendo direttamente da loro definizioni, in quanto portatori di un
punto di vista interno alla situazione e conoscitori di aspetti non ancora visibili
dall’esterno.
Il focus group rientra nella più ampia categorie delle interviste di gruppo ed è
utilizzato nelle fasi esplorative di ricerca, in quanto risulta funzionale all’individuazione
delle variabili e delle aree tematiche che potranno servire per la costruzione di un
questionario o per incanalare le successive ricerche verso una direzione più ristretta.
Occorre tuttavia differenziare le “interviste in gruppo” e le “interviste di gruppo”:
nel primo caso, un gruppo ristretto di persone risponde a turno alle domande
dell’intervistatore che assume un ruolo centrale, in quanto dirige il gruppo, ponendo
domande prestabilite e orientando l’intervista nella direzione che egli decide. Si tratta di

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una situazione più strutturata, dove le parti sono assegnate e relativamente codificate e
rigide. Invece, nell’intervista di gruppo, non si parla in termini di “intervistatore”, ma di
“facilitatore” che propone spunti di discussione, promuovendo l’interazione tra i soggetti,
i quali discutono anche tra loro, confrontandosi e approfondendo la questione nella
direzione suggerita dalla loro esperienza. Il facilitatore può assumere anche funzioni di
moderazione, stimolando i partecipanti più riservati o ponendo un freno a quelli che
monopolizzano la discussione, garantendo dunque un equilibrio nell’apporto di ciascuno
e impedendo che una discussione degeneri o che si focalizzi eccessivamente l’attenzione
su un unico aspetto. Precisamente, la funzione del moderatore è quella di “indurre al
dialogo restando comunque sempre neutro” .
Il focus group può differire per durata, numero di sessioni, struttura, ruolo del
facilitatore. Generalmente, la composizione del gruppo deve tenere conto di due
esigenze: i partecipanti devono sia costituire un insieme omogeneo, per facilitare lo
scambio di opinioni e la reciproca comprensione, scaturita dalla condivisione della stessa
esperienza, sia differire in qualche misura, per evitare che tutti si fossilizzino sulla stessa
posizione, privando di dinamicità la discussione, che anzi si alimenta proprio dai
contributi riferiti allo stesso ambito, ma con un grado di eterogeneità né troppo ridotto né
eccessivo, così da impedire sia una divergenza assoluta sia un conflitto.
Anche Krueger suggerisce sia un certo grado di similitudine per ricavare
percezioni confrontabili, ma di evitare un’eccessiva omogeneità, poiché in ogni gruppo si
auspica quel tanto di differenza interna da consentire l’emergere di posizioni differenti e
anche in opposizione. Tutti i componenti dovrebbero condividere una variabile e differire
lievemente per le altre, come quelle culturali, ad esempio il titolo di studio, oppure
anagrafiche, così da ottenere una stratificazione. Il focus è tipicamente composto da 6-10
partecipanti, ma può variare da 4 a 12, in base a due fattori: deve essere sia
sufficientemente piccolo perché ciascuno abbia lo spazio e il tempo per esprimersi, sia
sufficientemente ampio da permettere di diversificare le percezioni .
I partecipanti possono considerarsi come “testimoni qualificati” , cioè persone-
chiave, direttamente implicate nella situazione, detentori di informazioni sugli argomenti
rilevanti, oppure “campione di esperti” , dove per “esperti” si intendono soggetti
competenti sul problema oggetto della ricerca, dunque intervistandoli si ottengono
informazioni significative quanto quelle ricavabili da un gruppo più ampio, anche se nel
focus group essi numericamente non possono costituire un campione statistico altamente
rappresentativo, essendo numericamente ristretto.

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Tra i partecipanti si crea un’interazione che costituisce il valore aggiunto del focus
group rispetto alle interviste in gruppo e a quelle in profondità: come sostiene anche
Corrao, il vantaggio dell’interazione è riprodurre realisticamente il processo che presiede
alla formazione delle opinioni e ciò è facilitato quando l’interazione è personale e meno
strutturata, come nel focus group.
I piccoli gruppi di 4-5 partecipanti offrono più opportunità di esprimere le proprie
idee, tuttavia il numero ristretto limitata la quantità totale di idee differenti. Comunque,
presenta altri vantaggi, come logistici, come una maggiore possibilità di conciliare gli
orari, specie se i partecipanti svolgono una loro attività lavorativa, inoltre essere sistemati
in ristoranti, case private e in altri ambienti dove lo spazio è più confortevole e il clima è
più rassicurante, abbassando le difese e le inibizioni e compensando con una maggiore
libertà espressiva la ristrettezza del numero dei partecipanti .
Un focus group ha una durata media di circa due ore, ma si possono avere focus
molto lunghi oppure più brevi, in base ai partecipanti e dall’interazione che creano. Se,
infatti, non si avvia un dibattito e il clima è rigido, il focus group vira verso l’”intervista
in gruppo” in cui ciascuno risponde singolarmente alle domande. Se invece vi è molta
interazione, come quando si esprimono opinioni molto contrastanti, si possono avere
focus interminabili. Si tratta di due situazioni-limite che un abile moderatore deve saper
impedire. Anche il numero di sessioni può variare in base agli obiettivi della ricerca.
La traccia di intervista prevede domande aperte, la cui formulazione è flessibile,
anzi, talvolta le domande non vengono poste in forma interrogativa, ma come richiamo
ad argomenti e si configurano piuttosto come “stimoli”, che vengono dati secondo un
ordine “ad imbuto”: dagli argomenti più generali si giunge a quelli più specifici, mentre i
temi più importanti, che costituiscono il cuore della questione, sono affrontati verso il
centro della discussione . Può accadere di passare da domande generali a specifiche,
approfondire alcuni aspetti precisi e poi riprendere un aspetto generale dell’argomento
trattato. Tutto dipende comunque dal tipo di argomento, dall’obiettivo di ricerca e dal
clima della discussione . Questo conferma l’importanza del ruolo del facilitatore e del
suo controllo della situazione, poiché anche non dirigendo, deve saper mantenere i
confini della discussione e renderla feconda, valorizzando il contributo dei partecipanti e
sintonizzandosi emotivamente, pur non lasciandosi travolgere dalla discussione e
mantenendo comunque un distacco.
La discussione viene generalmente registrata su supporto audio, previo consenso
dei partecipanti. Negli ultimi tempi si è diffusa anche la videoregistrazione, che consente

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di rivedere la discussione, ponendo attenzione anche al linguaggio non verbale, aspetto
che in precedenza veniva rilevato da un assistente del moderatore . Può essere utile anche
la presenza di uno o più verbalizzatori non partecipanti, per prendere appunti sui
contenuti della discussione, facendo una sintesi degli interventi e riportando le frasi-
citazioni significative. Dopo la discussione, il moderatore provvede a stendere un
resoconto dei contenuti emersi (issues), corredato da citazioni (quots) e
dall’interpretazione dei dati .
Si tratta comunque di documenti narrativi e qualitativi, su cui non è possibile
effettuare analisi statistiche, ma questo non svaluta la strategicità del focus group, che
fornisce indicazioni su variabili insospettate e da approfondire successivamente.

54. Un esperimento recente: l’ “Effetto Spettatore”

Le recenti ricerche nell’ambito della psicologia sociale hanno cercato di


Introduzione comprendere i cambiamenti del comportamento di un soggetto quando assiste da solo ad
e definizioni un evento rispetto a quando invece si trova insieme ad altri. In praticola, due psicologi,
Darley e Latanè (1968) approfondirono le condizioni che spiegano perché i soggetti che
si trovano in gruppo tendano spesso a restare indifferenti in situazioni di emergenza,
provocando così un danno evitabile se non avessero assistito passivamente, ma si fossero
mobilitati per soccorrere le vittime.
I due ricercatori condussero diversi esperimenti per dimostrare come le
Teoria
informazioni utilizzate da un soggetto per definire un evento insolito e per decidere quale
approfondita
comportamento attuare non derivino soltanto dall’osservazione diretta del contesto, ma
con
esperimento
anche dal comportamento delle altre persone che assistono alla stessa scena. Infatti,
variando il numero dei presenti, varia anche il comportamento attuato da un soggetto,
soprattutto quando si verifica una situazione di emergenza che richiede un’operazione di
soccorso.
Il primo esperimento prevedeva la convocazione di studenti in una sala d’attesa,
per compilare un questionario. L’esperimento è stato ripetuto con un solo soggetto, con
più soggetti ignari di quanto sarebbe accaduto successivamente e con un soggetto ignaro
e due complici. Mentre i partecipanti erano impegnati a rispondere alle domande, veniva
fatto uscire fumo da una fessura sotto la porta. Quando nella sala era presente un solo
soggetto, entro i primi minuti usciva in corridoio per dare l’allarme, nel 75% dei casi.
Nei casi in cui erano presenti più soggetti, soltanto il 38% di loro cercava di avvisare

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qualcuno entro i primi 6 minuti, così come nel terzo caso, dove erano presenti un
soggetto sperimentale ignaro e due complici con il compito di fingere disinteresse su
quanto avveniva.
Questo primo esperimento condusse alla formulazione della “Teoria dell’ignoranza
pluralistica” o “effetto spettatore”, che spiega come i soggetti siano propensi ad
intervenire in situazioni di emergenza quando sono soli, invece se sono in presenza di
altri e se questi ultimi non mostrano segni di preoccupazione, possono supporre che tutto
proceda regolarmente e quindi astenersi da un intervento.
La tesi è stata confermata da un successivo esperimento, dove una studentessa è
stata convocata nel Dipartimento di Psicologia della New York University dagli stessi
ricercatori Darley e Latané (1970), con il pretesto di partecipare ad un’indagine sulle
difficoltà degli studenti universitari. La studentessa è stata fatta accomodare in una
cabina e dotata di cuffia e microfono, le è stato comunicato che nelle altre cabine erano
presenti altri 5 partecipanti, altrettanto isolati per evitare l’imbarazzo di esprimere
problemi personali davanti ad altri. La studentessa era ingrata tuttavia di essere in realtà
l’unica partecipante, mentre le voci degli altri studenti erano state preregistrate.
Quando venne il turno di uno dei partecipanti virtuali, la sua voce simulò una grave
crisi epilettica, invocando disperatamente aiuto, ma la studentessa, nonostante attimi di
concitazione e spavento, vedendo che nessuno interveniva, si astenne fino alla
conclusione dell’esperimento. Dai test somministrati, non presentava una personalità
autoritaria o patologica, ma perfettamente nella norma.
L’esperimento fu ripetuto variando il numero di partecipanti e risultò che, quando i
soggetti credevano che solo un’altra persona partecipasse all’esperimento, l’85% di loro
interveniva; quando credevano che 2 persone partecipassero all’esperimento, il 62%
interveniva; quando, infine, credevano che 4 persone partecipassero all’esperimento,
soltanto il 31% dei soggetti interveniva.
Dunque, aumentando il numero dei partecipanti, diminuiva la percentuale di
soggetti che intervenivano, come se l’inerzia del gruppo ritardasse o inibisse la
consapevolezza che stesse accadendo qualcosa di grave o di anomalo, tranquillizzando il
soggetto e rendendo meno probabile il suo aiuto. La presenza di più soggetti, infatti,
deresponsabilizza ciascuno di essi, inducendo ad attribuire agli altri l’onere
dell’intervento.
L’indifferenza non è dunque attribuibile ad un tratto di personalità, cioè ad una
causa disposizionale fissa, quanto anche a variabili situazionali, in particolare alla

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dimensione del gruppo, poiché più è ampia e più facilita da “diffusione della
responsabilità”, cioè la sua ripartizione tra i soggetti presenti. La diffusione di
responsabilità consiste nel ripartire le colpe tra i partecipanti ad un’azione, ad esempio
suddividendo i compiti, così da far perdere una visione complessiva dell’azione e delle
sue conseguenze nocive e indurre ciascuno a focalizzarsi sulla funzione a lui affidata
(Kelman, 1973). In questo modo, la responsabilità si dissolve, può essere attribuita al
resto del gruppo, mettendo al riparo il singolo partecipante.
Inoltre, prestare soccorso è un comportamento complesso, che prevede diverse fasi
di elaborazione cognitiva: occorre, innanzitutto, accorgersi dell’evento, rendendosi conto
che sta accadendo qualcosa di grave; quindi, occorre comprendere che la situazione
richiede un intervento e soprattutto se spetta a lui attuarlo. Per prendere questa decisione,
egli effettua un calcolo tra costi e benefici, valutando anche il possibile danno, il
coinvolgimento in interrogatori, la perdita di giornate di lavoro, l’imbarazzo,
l’insicurezza. Anche qualora propenda per l’intervento, egli deve decidere come
intervenire, traducendo la decisione in una serie di azioni adatte alle circostanze che,
essendo ambigue, non sempre riescono ad attivare schemi di intervento adeguati o
collaudati.
A modulare ulteriormente questo processo cognitivo contribuiscono anche variabili
culturali, come i presupposti, presente nelle culture occidentali, che è bene non
interferire nelle vicende altrui, soprattutto se coinvolgono persone tra loro conosciute.
Infatti, i soggetti che assistono ad una lite, intervengono con più probabilità a pacificare i
contendenti quando capiscono che si tratta di estranei, astenendosi in caso contrario.

55. Un modello – Il modello psicoanalitico

Il modello psicoanalitico è un modello teorico, metodologico e clinico risalente a


Freud. Egli definisce la sua impostazione come “una sorta di economia dell’energia
Definizione
nervosa”. Questa energia viene denominata in diversi modi. Energia psichica, energia
pulsionale, libido, tensione. Segue le stesse leggi dell’energia fisica: non si distrugge, ma
si trasforma. L’energia tende a scaricarsi su un oggetto, e questa scarica produce piacere,
cioè alleviamento della tensione.
L’energia pulsionale tende ad una scarica immediata e totale (principio di piacere).
Ci possono essere però anche scariche parziali, indirette e diluite nel tempo (principio di
realtà). Questa energia ha un’origine corporea: infatti, gli istinti eccitano degli organi che

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producono un bisogno e una tensione per soddisfarlo. Le due principali pulsioni sono:
l’eros, cioè la pulsione di costruzione, detta anche libido, e la pulsione di distruzione (per
la quale non c’è un termine opposto a libido). In particolare, Freud analizza la pulsione
sessuale: ha origine nel corpo, ha lo scopo di scaricarsi su un oggetto, tende dunque
cercare un oggetto su cui investirsi ed ha una pressione, cioè può essere più o meno
intensa.
Le pulsioni possono essere fuse: ad esempio, giocare a calcio soddisfa sia la pulsione
aggressiva che quella cooperativa. Possono sublimarsi, ad esempio una carica sessuale
Teoria
approfondita
può desessualizzarsi ed essere investita in attività spirituali, intellettuali ed elevate; è
(con autori, suscettibile di compensazione, per cui se si verifica un fallimento in un settore, si può
esperimenti, trovare una gratificazione sostitutiva in un altro. Come nella teoria di Piaget, anche in
ecc.)
quella di Freud è importante il concetto di squilibrio-equilibrio-squilibrio.
Freud ha elaborato anche modello topografico della psiche, definito “topica”, in
quanto rappresenta un modello spaziale, che distribuisce i contenuti mentali in tre diverse
zone. Questo modello spaziale della mente è descritto da Freud nel 7° Capitolo
dell’Interpretazione dei sogni: qui il conscio è definito come lo spazio mentale che
contiene i pensieri e i sentimenti accessibili al soggetto e facilmente verbalizzabili.
Il preconscio è uno spazio intermedio, in cui di svolgono processi provvisoriamente
inconsci, ma che possono risalire ad un livello cosciente grazie ad uno sforzo di
attenzione: ad esempio la respirazione, non è cosciente, ma può facilmente diventarlo se
ci concentriamo su di essa.
Infine l’inconscio è uno spazio ampio, che racchiude esperienze, pensieri e
sentimenti stabilmente inaccessibili alla coscienza oppure respinti in quanto traumatici e
dolorosi.
Freud ha sperimentato diversi metodi per far emergere i contenuti inconsci:
- Associazioni libere: questo metodo rilassava il paziente e consisteva nel lasciare
che lui si abbandonasse al flusso dei pensieri spontaneamente collegati ad una parola-
stimolo pronunciata dal terapeuta, ad esempio “bianco”“sposa”. È attraverso le catene
associative liberamente prodotte dal paziente che si poteva rendere conscio il materiale
inconscio, risalire all’origine di un trauma, soprattutto sessuale. Infatti, Freud sosteneva
che ogni evento psicologico avesse un significato e se una parola portava ad un’altra
parola, una ragione doveva esserci. Attraverso le catene di parole, il pazienti risalivano
spesso a ricordi sessuali infantili: all’inizio, Freud pensava fossero vere, poi capì che
poteva trattarsi di fantasie.

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- Analisi dei sogni. Per poter salire all’inconscio, Freud indica ora una “via maestra”,
costituita dal sogno, che definiva come “l’appagamento camuffato di un desiderio
rimosso”: quando il soggetto ha un desiderio irrealizzabile sul piano reale, cerca una
soddisfazione sul piano onirico. I sogni risultano quindi da un tentativo di soddisfare
desideri e pulsioni inconsce.
Tuttavia l’espressione di questi desideri risulta talvolta irriconoscibile nel sogno, in
quanto sottoposti alla censura del Super-Io, operante anche di notte, benché in misura
notevolmente minore. Nel sogno si distinguono, quindi, un contenuto manifesto,
rappresentato dalla scena onirica, e un contenuto latente, costituito da desideri che danno
luogo ad essa. Il contenuto manifesto deriva da una trasformazione dei desideri inconsci
attraverso il cosiddetto “lavoro onirico”. Per interpretare psicoanaliticamente il sogno,
occorre ripercorrere a ritroso il processo di trasformazione del contento latente in quello
manifesto, servendosi degli stessi principi che presiedono a questa traslazione
(condensazione, spostamento, ecc.).
- Transfert. Nella seduta analitica, il paziente riattiva tipologie di relazioni che aveva
stabilito con figure importanti, in genere i sui genitori (l’analista può ricordargli il padre).
Infatti, questo modo di relazionarsi può essere radicato nel paziente e dunque
riattualizzarsi anche di fronte all’analista. È utile per la guarigione, poiché consente di
capire l’infanzia, la somiglianza tra passato e presente.
Successivamente, ha elaborato una seconda topica, di tipo strutturale, suddividendo
la psiche in tre istanze: l’Es, l’Io, e il Super-io. L’aggettivo “dinamico” si riferisce al
conflitto tra le tre istanze, che conferisce movimento alla psiche.
Es, in tedesco, è il pronome neutro di terza persona singolare, corrispondente all’id
in latino. Nel modello dinamico, rappresenta il “polo pulsionale” dell’uomo: racchiude
gli impulsi, soprattutto aggressivi e sessuali, che obbediscono al “principio del piacere”,
cioè cercano una scarica immediata. Freud definisce l’Es “un calderone di impulsi
ribollenti”.
Il Super-io consiste nell’insieme regole morali e sociali interiorizzate nell’infanzia e
che tendono a porre un freno e a regolamentare l’espressione dei desideri e degli impulsi
provenienti dall’Es, talvolta inibendo completamente la loro soddisfazione.
Infine l’Io è un mediatore fra l’Es e il Super-io: si sforza di conciliare bisogni
provenienti da queste due istanze servendosi del “principio di realtà”, cioè della
valutazione realistica delle situazioni e della capacità di procrastinare l’appagamento del
desiderio. L’Io, infatti, fornisce parziali appagamenti all’Es, ma senza violare gli

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imperativi e le proibizioni provenienti dal Super-io. Quando c’è un’angoscia molto forte
che l’Io non riesce a gestire, si attivano meccanismi di difesa, cioè strategie di controllo
dell’angoscia che producono distorsioni sulla realtà. Esistono molti meccanismi di difesa,
tra cui:
- Rimozione. Consiste nel respingere fuori dalla consapevolezza contenuti troppo
dolorosi, ad esempio dimenticare una persona che ci ha offeso o un’esperienza
traumatica. Tali contenuti possono riemergere nei sogni oppure nelle associazioni libere
oppure sotto ipnosi o infine disturbare in qualche modo il comportamento.
- Formazione reattiva. L’io trasforma un sentimeno ne suo opposto: una madre che
non voleva un bambino e dunque prova avversione per lui, maschera questo sentimento
trasformandolo nel suo opposto, cioè in una eccessiva premura e affettuosità. La castità
può celare desideri sessuali inaccettabili, ecc.
- Proiezione. Consiste nell’attribuire ad altri contenuti minacciosi che provengono da
se stessi: “voglio ucciderlo” diventa “lui vuole uccidermi”. Ciò consente di espellerli da
sé.
- Regressione. In condizioni di stress e angoscia, si può tornar indietro, a fasi di
sviluppo precedenti.
- Fissazione: come per la regressione, c’è una situazione stressante, ma invece di
regredire, si rimane fissati ad un certo livello di sviluppo.
I meccanismi di difesa sono un male necessario, consentono di controllare
l’angoscia, eppure comportano una dispersione di energia. L’Io può allearsi con l’Es o
con il Super-Io. Non ha energia proprio, ma la deriva dall’Es. Le tre istanze non sono
però rigidamente distinte.
Freud sostiene che i primi anni di vita sono i più importanti, sono quelli in cui si
costruisce il destino. Sia il comportamento normale che patologico, hanno le loro radici
nei primi anni, quando si pone la struttura di base della personalità. Infatti, quando aveva
pazienti disturbati, risalendo alla loro infanzia, notava che si erano verificati traumi,
soprattutto sessuali. Lo sviluppo si articola in stadi, qualitativamente diversi come in
Piaget, e ciascuno stadio è caratterizzato da una zona erogena, cioè da una zona dove si
origina il piacere e dipendono dalla maturazione biologica. Gli stadi seguono un ordine
invariante, ma a differenza di Piaget, non si accede ad uno stadio solo dopo aver superato
quello precedente. Sono possibili regressioni e fissazioni, inoltre nessuno stadio viene
mai completamente abbandonato.
Alla nascita, la zona erogena è rappresentata dalla bocca e per questo la prima fase

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dello sviluppo psicosessuale è denominata “fase orale”: attraverso la bocca, il neonato
non solo si nutre, ma prova piacere, conosce il mondo. È frequente osservare un
bambino che porta alla bocca tutti gli oggetti: quando la maturazione neuronale e la
coordinazione oculo-manuale si sviluppano, egli inizia a portare le proprie manine alla
bocca, poi si sforza di avvicinarvi i piedini, infine mette in bocca tutto ciò che afferra.
Talvolta l’esplorazione degli oggetti attraverso la bocca viene bruscamente interrotta
dalla madre, preoccupata che il piccolo possa contaminarsi con germi e batteri e quindi
sottrae precipitosamente l’oggetto al bambino. Oppure, il gesto di portare tutto alla bocca
può essere scambiato come un segnale di fame, oppure come un tentativo di massaggiare
le gengive dolenti allo spuntare dei primi dentini. Si tratta invece di una prima e
importante modalità di conoscersi e conoscere il mondo.
La fase orale è caratterizzata da un rapporto di dipendenza dalla figura di
accudimento, dalla ricerca del soddisfacimento dei bisogni primari come il mangiare e
dura tutto il primo anno di vita.
Se il bambino vi persiste oltre, Freud definisce questa evenienza come “fissazione
orale”. Si può verificare anche un’altra evenienza, la “regressione orale”: quando il
bambino o l’adulto accedono alle fasi successive dello sviluppo, in presenta di forti stress
possono tornare indietro, riutilizzando modalità di relazione e di comportamento
caratteristiche di fasi precedenti. Alcune patologie come l’obesità sono considerate forme
di regressione orale.
Da uno a tre anni, il bambino entra nella fase anale, che ha come zona erogena la
regione anale: è la fase caratterizzata da importanti conquiste di sviluppo, come il
linguaggio, la locomozione, il pensiero simbolico, cioè strumenti che emancipano il
bambino dall’adulto e gli consentono di affermarsi come individuo separato e
indipendente. Il bambino riesce a controllare gli sfinteri e prova orgoglio nell’esercitare
questa competenza, talvolta utilizzando il trattenimento delle feci come strumento di
imposizione della propria volontà e talvolta rilasciando le feci per farne dono alla madre,
in quanto “prodotto” che ha realizzato da sé e che comprova la sua autonomia.
La fase anale è caratterizzata da uno sforzo di controllo di sé e del contesto che
innesca conflitti di potere con i genitori. Anche rispetto alla fase anale possono
verificarsi fissazioni o regressioni in occasione di particolari stress: ad esempio il
bambino può aver iniziato ad usare il vasino e a controllare gli sfinteri, ma quando nasce
un fratellino, torna momentaneamente indietro, perde queste competenze appena
acquisite e recede a comportamenti più infantili, come l’utilizzo del ciuccio caratteristico

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della fase orale o la necessità di riutilizzare i pannolini. Alcuni tratti di personalità
dell’adulto sono considerati forme di fissazione o regressione anale: la ricerca maniacale
della pulizia e dell’ordine, il controllo esasperato, il perfezionismo.
Da tre a sei anni, il bambino accede alla fase fallica, che ha come zona erogena
l’area genitale. È il periodo della scoperta delle differenze anatomiche tra maschio e
femmina e del conseguente timore di perdere il pene: il maschietto pensa infatti che alle
femminucce possa essere stato amputato ed è dunque assalito da un “complesso di
castrazione”.
La fase fallica è anche la fase del complesso di Edipo: il bambino è infatti attratto
dalla madre e vorrebbe sostituirsi al padre (e viceversa la bambina), come accadde
all’eroe del mito e della tragedia greca Edipo che, inconsapevolmente e
involontariamente, uccise il padre e sposò la madre.
Il bambino, attraverso l’ammirazione e la gelosia per il genitore dello stesso sesso e
per evitare il conflitto con lui e piacere alla madre, si identifica con il padre, mentre la
bambina, per evitare il conflitto con la madre e piacere al padre, si identifica con la
madre. Attraverso questa dinamica di colpa, timore e identificazione, il bambino
acquisisce la consapevolezza dell’appartenenza al genere sessuale, consolida cioè la sua
“identità di genere”.
Le fasi orale, anale e fallica sono caratterizzate da una “pulsione di appropriazione”:
con la fase genitale, i comportamenti saranno improntati a una “pulsione di scambio”.
Prima dell’ingresso nella fase genitale, che avviene durante la pubertà, la libido si ritrae e
il bambino investe le sue energie nei rapporti con i pari e in attività motorie e sociali,
senza mostrare molto interesse verso il sesso opposto.
Si tratta del periodo di latenza, dai sei agli undici anni, dove si osservano spesso
bambini maschi giocare tra loro in sport tipicamente maschili e bambine femmine
impegnate in giochi simbolici che ricreano attività domestiche e ruoli femminili, come
cucinare con pentoline, giocare a “mamma e figlia”, animare bambole facendole
dialogare tra loro.
La fase genitale compare dopo l’intervallo costituito dalla fase di latenza, verso i
dodici anni, in concomitanza con la maturazione dell’apparato sessuale. È caratterizzata
da un ritrovato interesse verso il sesso opposto e dall’inizio di relazioni di coppia simili a
quelle adulte. La sessualità adulta, oltre alla soddisfazione del piacere, consente la
riproduzione.
Il caso del piccolo Hans è uno dei più celebri trattatola Freud nel testo L’analisi

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della fobia di un bambino di 5 anni (1908). Fu l’unica analisi condotta da Freud su un
bambino, attraverso lettere scambiate col padre ed è importante per lo sviluppo di uno dei
più importanti concetti freudiani, l’identificazione.
Il piccolo Hans aveva angoscia, fobia e una fantasia con contenuti così angosciosi
che gli impedivano di uscire di casa. Aveva paura che un cavallo lo mordesse oppure
cadesse, temeva soprattutto i cavalli bianchi con museruola nera oppure con paraocchi.
La fantasia concerneva questa scena: nella sua stanza egli immaginava che ci fossero due
giraffe, una grande, una sgualcita. Quella grande urlava poiché Hans le aveva rubato
quella sgualcita. Poi ha smesso di urlare ed Hans si è seduto su quella sgualcita. Questa
era la fantasia che lui provava frequentemente. Freud vi individuò 3 temi. Il conflitto di
Edipo, la rivalità coi fratelli, il timore di essere punito per la masturbazione.
Nella fobia, il cavallo era il padre di Hans (che aveva gli occhiali, cioè i paraocchi, e
i baffi, cioè la museruola nera). Temeva che il padre lo castrasse perché provava
desiderio sessuale per la madre. Al contempo, temeva che il cavallo cadesse, cioè che il
padre morisse, come tra l’altro lui desiderava per avere la madre tutta per sé.
La fantasia della Giraffa potrebbe essere espressione del desiderio di possedere la
madre, infatti alla fine Hans si immaginava seduto sulla giraffa sgualcita. La Giraffa, col
il suo collo lungo, è un simbolo fallico. Hans aveva anche un’altra fantasia: che un carro
rovesciasse il suo contenuto, cioè che la madre partorisse di nuovo. Infatti, la giraffa
piccola su cui Hans si siede nella precedente fantasia, potrebbe rappresentare il desiderio
di distruggere la sorellina più piccola. Hans in seguito si identificò con il padre,
superando la sua fobia.
I meccanismi che spingono il bambino a progredire negli stadi sono simili a quelli di
Piaget, cioè sono gli elementi disturbanti constatati nell’ambiente e che inducono a
riconfigurare un nuovo equilibrio, ma per Piaget tali elementi disturbanti erano aspetti
oggettivi, incoerenze logiche, mentre per Freud erano emozioni ed energie libidiche.
Inoltre, in Piaget il sistema di equilibrio è aperto, costituito da accomodamento e
assimilazione, invece in Freud c’è maggiore resistenza al cambiamento. In particolare, in
Freud ci sono 4 fonti di conflitto e di spinta allo sviluppo: la maturazione, cioè la crescita
fisica e puberale; le frustrazioni esterne, che insegnano al bambino a limitare le sue
pulsioni e tollerare una soddisfazione non immediata, ma differita; i conflitti interni, tra
Io Es e Super-Io; l’angoscia, che sorge in situazioni di pericolo o di perdita. Questi 3
aspetti producono uno stato di tensione che induce il bambino a riorganizzarsi e
riassestarsi su un uovo equilibrio.

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Oltre allo sviluppo individuale, Freud estende le sue riflessioni all’intera società,
ravvisando anche in essa una struttura dinamica, costituita da un Super-Io collettivo, che
pone un freno all’Es dei singoli componenti della collettività.
La civiltà ha dunque un “costo”, rappresentato dalla rinuncia, da parte dei singoli, ad
esprimere liberamente i propri impulsi e alla necessità di irretirli in norme e regole. Ciò
comporta il “disagio della civiltà”, ma al contempo costituisce il male minore, perché in
assenza di norme, ciascuno sarebbe autorizzato ad esprimere ogni impulso aggressivo,
mettendo in pericolo la sopravvivenza dell’altro. Anche la religione riflette questa
struttura, poiché Dio si configura come una sopra di Super-Io e di simulacro della figura
di Padre.
Le teorie di Freud non sono state da lui formalizzate e sistematizzate perfettamente.
Ci hanno provato i suoi successori, soprattutto Rapaport. Freud di per sé aveva un
obiettivo pragmatico, raccoglieva dati, anche se procedeva oltre, formulando ipotesi.
Attualmente, la teoria psicoanalitica freudiana incontra l’interesse della cultura
popolare e talvolta il discredito degli ambienti di ricerca: soprattutto in ambito
sperimentale, spesso non è molto apprezzata, a causa della difficoltà di verificare e
falsificare i suoi presupposti. Ha comunque dei punti di forza da valorizzare.
Innanzitutto, il primo punto di forza è la scoperta dell’inconscio come plasmatore
dello sviluppo. Le pulsioni sessuali e gli aspetti irrazionali della personalità sono motori
dello sviluppo, attivano le funzioni dell’Io, hanno stimolato anche molti successori a
riflettere sulle dinamiche affettive e motivazionali. Un altro punto di forza sono i
contributi duraturi alle ricerche sullo sviluppo. La teoria stadiale, l’importanza dei primi
anni di vita, il complesso edipico, hanno stimolato riflessioni sulla tipizzazione sessuale,
sullo sviluppo morale, ecc. Poi, vi è la rilevanza per le ricerche contemporanee sullo
sviluppo cognitivo. La concezione freudiana ha cambiato la visione piagettiana del
bambino, considerato come piccolo scienziato, elaboratore di informazioni, razionale. Il
bambino viene arricchito di conflitti, di una vita interiore intensa, con pulsioni spesso
distruttive e con desideri sessuali. Il pensiero del bambino freudiano contiene sogni e
fantasie, non solo ragionamenti razionali. Ciò ha promosso ricerche sulla cognizione
sociale e sulla metacognizione.
Vi sono però anche punti di debolezza.
Il primo è la metodologia inadeguata all’identificazione dei processi di sviluppo. Le
ricerche scientifiche presuppongono che le metodologie possano essere verificate, ma
con le affermazioni di Freud ciò è piuttosto difficile, per vari motivi: per adottare i

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metodi freudiani come le associazioni libere, l’interpretazione dei sogni, ecc, occorre
aver seguito un training psicoanalitico lungo e costoso, che pochi possono permettersi e
che spesso conduce ad aderire ai presupposti psicoanalitici come se fossero una fede,
impedendo una raccolta oggettiva dei dati. Poi, l’analista non è affidabile ed oggettivo: lo
stesso Freud annotata le sedute, facendo una relazione dopo qualche ora dalla loro
conclusione, dunque il ricordo era soggetto a distorsioni. Infine, i resoconti dei pazienti
sulla loro infanzia sono inaffidabili, mescolano realtà e fantasie.
Il secondo punto di debolezza è la poco sicura verificabilità delle affermazioni
cruciali concernenti lo sviluppo. Freud adotta talvolta una terminologia vaga, intuitiva,
imprecisa, che impedisce di accordarsi sui significati che intendeva attribuire alle parole.
Inoltre, utilizza costrutti, come l’inconscio, i meccanismi di difesa, ecc, che sono molto
lontani dal comportamento osservabile e ciò contribuisce a renderli poco scientifici, poco
rilevabili oggettivamente. Certo, dalle sue affermazioni generali si possono ricavare
ipotesi di spiegazioni di comportamenti più circoscritti, come è stato fatto, ma non basta.
D’altronde, lui aveva un concetto di scientificità diverso da quello del resto della
comunità accademica. Per verificare un’ipotesi, Freud cercava più indizi convergenti. Se
ad esempio, in un paziente, sia i sogni, che i lapsus, che i contenuti del sogno e delle
verbalizzazioni alludevano alla stessa tematica, questo era un indicatore che il paziente
stesse vivendo un certo conflitto.
Il terzo punto di debolezza è l’eccessiva enfasi sulla sessualità infantile. Freud operò
nell’età vittoriana, fatta di repressione e puritanismo, dunque l’enfasi sulla sessualità può
avere una funzione di provocazione e di opposizione critica, ma scientificamente è stata
disconfermata: si è visto, ad esempio, da osservazioni recenti, che il bambino è più che
solo Es, è un essere competente, automotivato, predisposto alle relazioni sociali, dunque
non un piccolo narcisista spinto dalle sole pulsioni, come riteneva Freud. Nonostante le
debolezze, la teoria freudiana è stata comunque produttiva, continua a far discutere e a
dividere, e ci ha dato una nuove prospettiva sulla psiche.
Alla base di questa teoria sono stati realizzati anche molti test proiettivi, basati
appunto sul meccanismo della proiezione, che stimolano l’emergere di contenuti
Strumenti inconsci, aggirando i meccanismi di difesa e di censura.
Il modello psicoanalitico trova applicazione della psicologia dello sviluppo, nella
psicologia clinica, nella psicologia sociale. Attualmente si è frammentato in diversi sotto-
orientamenti, che hanno revisionato gli assunti originari pulsionali per valorizzare
Ambiti
soprattutto gli elementi relazionali, assumendoli come centrali per la terapia.

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applicativi NB: negli approfondimenti del tema, c’è la cartella Approfondimenti –
Modelli, dove puoi trovare la trattazione del modello cognitivo-comportamentale e
di quello sistemico, per metterli a confronto con quello psicoanalitico (se dovesse
uscire un tema tipo “Confronta due modelli”).

56. Confronta due modelli – Comportamentale e cognitivo

Comportamentismo e cognitivismo sono due paradigmi complessi, che


inizialmente erano in lotta tra di loro, poiché partivano da assunti opposti, oggi invece si
Breve sono integrati nell’approccio cognitivo-comportamentale che è uno dei più accreditati
introduzione scientificamente.
Storicamente, il comportamentismo parte dall’esclusione della mente dall’attività
di indagine scientifica. La mente viene infatti considerata come una black-box, una

Primo
scatola nera all’interno della quale è impossibile vedere e verificare cosa accade. Tutto
paradigma che quello che si osserva è la sequenza tra stimolo e risposta, tra input che entra nella
con autori ed scatola e output che fuoriesce, tra azione e reazione. Per rendere scientifico lo studio
esperimenti
della psicologia, occorre quindi limitarsi ad analizzare la sequenza stimolo-risposta,
l’unica osservabile e verificabile. Il cognitivismo nasce invece dall’assunto opposto, dal
desiderio di esplorare i contenuti mentali e soprattutto i processi, ad esempio il processo
di elaborazione delle informazioni, di presa di decisione, di soluzione dei problemi, di
comprensione di un testo, di pianificazione del comportamento. È possibile studiare
scientificamente questi processi formalizzandoli attraverso il computer, cioè ipotizzando
gli algoritmi seguiti dal cervello e approntando simulazioni che li possano testate e
verificare.
Tra il comportamento e il cognitivismo vi è però un intermezzo costituito dal
neocomportamentismo, che funge da ponte tra l’uno e l’altro. Infatti, dapprima, nel
comportamentismo, emergono le figure di Watson, Skinner e Thornidike che studiarono
ad esempio l’apprendimento e lo assimilarono ad un’associazione tra stimolo e risposta.
Successivamente, Skinner continuò gli studi di laboratorio, inaugurando il filone del
“condizionamento operante”. Egli osservò il comportamento delle cavie in gabbia:
premendo una leva, avrebbero ottenuto del cibo. Il “meccanismo di ricompensa”, cioè la
ricezione del cibo al momento di premendo la leva, poteva essere scoperto
accidentalmente dalle cavie, premendo per caso la leva, oppure dopo diversi tentativi.
Una volta scoperto, la cavia riproponeva più frequentemente il comportamento che

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dava luogo alla ricompensa, cioè premeva più frequentemente la leva. Il cibo rinforzava
l’azione di premere la leva, cioè la rendeva più frequente e intensa. Se la ricompensa
veniva offerta non tutte le volte che il comportamento veniva attuato, ma solo di tanto in
tanto, la cavia premeva la leva ancor più insistentemente. Per questo, Skinner studiò
diversi schemi di rinforzo: a intervallo fisso, a intervallo variabile, a rapporto fisso, a
rapporto variabile. Quest’ultimo è lo schema più efficace: se la ricompensa non viene
erogata ad intervalli regolari e fissi, ma casuali, ciò comporta ostinazione nel soggetto a
ripetere l’azione, fino ad instaurare una dipendenza.
Thorndike continuò questi studi e osservò anche la reazione delle cavie alla
punizione, cioè all’esposizione a “rinforzi negativi” : quando le cavie premevano la leva
per ottenere cibo, ricevevano anche una scossa elettrica. La punizione faceva scomparire
il comportamento, ma solo temporaneamente, perché quel comportamento si ripresentava
intensificato e accompagnato da emozioni negative come rabbia e aggressività. La
punizione infatti estingue solo momentaneamente il comportamento negativo, poi lo
rafforza. Per eliminare un comportamento è più efficace non rinforzarlo o rinforzare i
comportamenti incompatibili con esso.
Tuttavia, può esservi apprendimento anche in assenza di una performance che lo
riveli: questo tipo di apprendimento viene definito “latente”, cioè nascosto, ed è stato

Paradigma
studiato da Tolman, neocomportamentista e precursore del cognitivismo. Egli aveva
intermedio osservato il comportamento di topolini chiusi in un labirinto e lasciati per 10 giorni liberi
con autori ed di trovare l’uscita. I topolini compivano diversi tentativi all’interno, esplorando i corridoi
esperimento
del labirinto, pur senza mostrare di trovare l’uscita.
L’undicesimo giorno venne posto del cibo all’uscita e dal dodicesimo giorno in poi i
topi raggiungevano speditamente l’uscita senza commettere errori, rivelando una grande
padronanza del labirinto: nel frattempo infatti, si erano formati una “mappa cognitiva”,
cioè una rappresentazione mentale interna del luogo e l’avevano prontamente utilizzata al
momento opportuno. Così anche l’uomo, apprende in quanto si forma mappe cognitive di
significati, comportamenti, esperienze, pur senza poter dimostrare subito l’avvenuto
apprendimento: si tratta infatti di schemi che applica quando occorrono.
Questo discorso è approfondito da Neisser, iniziatore del cognitivismo. Egli sostiene
che l’uomo, muovendosi nel suo ambiente, trattiene nella mente “icone delle cose” che
Secondo
vede, cioè immagazzina delle sagome, delle configurazioni di oggetti o di esperienze
paradigma
dette anche “pattern”. L’operazione mentale fondamentale diviene dunque il
riconoscimento di pattern, cioè il confronto (“matching”) tra le sagome immagazzinate e

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quelle degli oggetti di volta in volta esperiti e l’analisi delle caratteristiche, cioè
l’astrazione degli aspetti fondamentali di un oggetto, in modo da comprendere anche
oggetti di cui non si è fatta mai esperienza: ad esempio, un individuo può conoscere la
mela, la fragola, l’arancia, creandosi il pattern mentale di frutto, una sorta di categoria
che include i tre frutti elencati, nonostante le loro diverse forme e colori.
Questa stessa persona può non sapere come sia fatta una papaia, tuttavia, se gli si
spiega che è un frutto, egli sa attribuirvi alcune caratteristiche (si ottiene da una pianta o
da un albero, è commestibile, ecc) e dunque, grazie al matching, non gli risulta
completamente estraneo pur non avendone mai fatto esperienza diretta. Questo modello è
stato criticato in quanto risulta difficile astrarre le caratteristiche generali di un oggetto.
In questo modo si è passati dal comportamentismo, al neocomportamentismo, al
cognitivismo. Mentre il comportamentismo cerca di studiare le condotte osservabili, il
cognitivismo ipotizza e formalizza i processi mentali non osservabili. Entrambi, però,
Osservazioni
e commenti
sostengono la necessità di rendere scientifica la psicologia, basandola sul paradigma
sperimentale, promuovendo esperimenti che verifichino ipotesi. L’uno integra l’altro.
Oggi infatti la loro applicazione congiunta risulta efficace ed efficiente in ambito
educativo e terapeutico. Ad esempio, per affrontare una problematica come l’ansia, si
attua un intervento cognitivo, procedendo ad una ristrutturazione dei pensieri
disfunzionali, catastrofici, assoluti, per sostituirli con pensieri funzionali, flessibili,
realistici, ma si attua al contempo anche un intervento comportamentale, basato
sull’esposizione graduale alle situazioni ansiogene, sul rinforzo positivo dei
comportamenti non ansiogeni e sul rinforzo negativo delle condotte di evitamento,
migliorando così sia i processi mentali che quelli operativi e concreti.

57. Tema sulla professione – Lo psicologo e i suoi strumenti

Traccia: Individui, gruppi, istituzioni intesi come clienti dello psicologo. Il


candidato, facendo obbligatoriamente riferimento ad un approccio metodologico,
evidenzi quali sono gli strumenti necessari allo psicologo per attuare interventi
efficaci rispetto ad almeno una categoria di possibili clienti

Uno degli ambiti in cui lo psicologo dispone di competenze e strumenti è quello


clinico, che include progetti e interventi di prevenzione o sostegno per pazienti con
diagnosi di disturbi di livello nevrotico, borderline e psicotico. Ad esempio, attualmente

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Definizioni sono diffusi i disturbi d’ansia, che non sempre compromettono gravemente il
funzionamento cognitivo, sociale, affettivo, lavorativo dei pazienti, poiché si collocano
entro un livello nevrotico, tuttavia possono interferire notevolmente in questi ambiti.
Un approccio teorico e metodologico che consente di inquadrare questa
problematica e fornire strumenti efficaci e validati empiricamente per affrontarla, è
quello cognitico-comportamentale, che analizza e modifica pensieri e comportamenti
disfunzionali attraverso un repertorio di tecniche cognitive e comportamentali. Si tratta di
Spiegazione
un approccio che trae, in parte, le sue origini dalla riflessologia pavloviana e dal
del modello
teorico come
comportamentismo watsoniano, due orientamenti che si svilupparono rispettivamente in
richiesto dalla Russia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in America nel primo ventennio
traccia del Novecento e che studiarono l’apprendimento attraverso il condizionamento, cioè
associando stimoli condizionati a stimoli incondizionati, affinché questi ultimi
elicitassero la stessa risposta degli stimoli incondizionati.
Gli autori che appartenevano a questi orientamenti compiuto esperimenti sugli
animali per studiare le risposte comportamentali automatiche e per condizionare i
soggetti sperimentali ad emettere determinate risposte. Ad esempio nel condizionamento
operante di Skinner sono stati testati diversi programmi di rinforzo, attraverso cui
rendere frequente l’emissione di una risposta oppure estinguerne una disfunzionale. Ne è
risultato che un rinforzo somministrato a rapporto variabile, che non segue una regola
fissa né nell’intervallo tra un rinforzo e quello successivo, né nel numero dei rinforzi,
risulta più efficace, incrementando il comportamento rinforzato, mentre la punizione,
cioè la somministrazione di uno stimolo aversivo, inizialmente sopprime il
comportamento, poi questo si ripresenta rinforzato.
Dunque per rinforzare un comportamento, è opportuno rinforzarne l’emissione e
non rinforzare comportamenti incompatibili, piuttosto che punirli. Il comportamentismo
si evolve con Tolman, esponente del neocomportamentismo e teorico dell’apprendimento
latente, secondo cui si attua un apprendimento anche quando non è osservabile attraverso
una risposta esterna. Questo nuovo modello inizia ad introdurre la componente cognitiva
nello studio del comportamento umano, dapprima bandita dai comportamentisti in
quanto considerata non osservabile, non oggettivabile, non misurabile. Questa
componente sarà sviluppata dai cognitivisti, a partire da Neisser nel 1967, fino a
giungere a Beck, che formula teorie cognitiviste per spiegare e intervenire sui disturbi
psicopatologici.
Secondo questo approccio, i soggetti ansiosi presentano pensieri irrazionali,

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catastrofici, assoluti, che possono ridurre le loro prestazioni, condizionare il loro
Strumenti
comportamento, rinforzando condotte di evitamento e rendendo meno efficaci la
dello
comunicazione e l’interazione nei contesti in cui essi agiscono. Quando si presentano allo
psicologo e
interventi
psicologo, spesso vengono inviati dai medici, in quanto il trattamento con medicinali
possibili verso ansiolitici non risulta efficace oppure crea assuefazione. In questo caso, lo psicologo
questo target dovrà intervenire con le sue competenze a stabilire una relazione, per suscitare nel
di pazienti
paziente una motivazione intrinseca ad intraprendere un percorso di sostegno, aiutando il
soggetto ad assumere un ruolo attivo e ad uscire dallo schema di relazione medico-
paziente basato su prescrizioni.
Anche quando i pazienti ansiosi si presentano spontaneamente dallo psicologo,
spesso chiedono di essere immediatamente sollevati dai sintomi: anche se questo può
avvenire, non sarebbe sufficiente a stabilire la “guarigione” dal disturbo, poiché lo
psicologo non si limita ad eliminare il sintomo superficiale, ma contribuisce a
promuovere un funzionamento globale più efficiente, che costituisca una risorsa per il
paziente e lo protegga da eventuali ricadute. Dunque, anche in questo caso, il primo
strumento con cui interviene lo psicologo è la relazione, cercando di stabilire
un’alleanza, di motivare il soggetto, di predisporre un percorso che non abbia come
obiettivo il solo sollievo transitorio dei sintomi.
In particolare, lo psicologo che conosca e sappia utilizzare le metodologie
cognitivo-comportamentale, dispone di un repertorio di tecniche per intervenire sia sui
comportamenti sintomatici, sia sui pensieri che li producono. Infatti, può applicare il
modello A-B-C, Antecedenti-Comportamento-Conseguenze, per esplorare i pensieri che
precedono la comparsa di sintomi ansiosi, le strategie attuate per gestirli e le
conseguenze che producono. Si potrà rilevare come spesso questi pensieri siano,
appunto, irrazionali e catastrofici, dunque si concretizzino in comportamenti impulsivi
oppure sensazioni di perdita del controllo su di sé o sulla realtà, che a loro volta si
riflettono in sintomi fisiologici come palpitazioni, tremori, secchezza delle fauci.
Attraverso una ristrutturazione cognitiva, che consiste nel modificare questi pensieri e
sostituirli con pensieri razionali e funzionali, lo psicologo può sostenere il paziente
nell’interrompere questa catena di pensieri e comportamenti e nell’acquisire strategie
coping più efficaci, che consentano di affrontare gli eventi.
Queste strategie potrebbero essere insegnate anche appositi training, che possono
prevedere la rielaborazione degli stili di attribuzione causale, l’acquisizione di tecniche
di respiro e di rilassamento muscolare, la pianificazione di azioni efficaci. Queste

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acquisizioni potranno essere rinforzate, attraverso programmi di rinforzo, così che il
repertorio di pensieri e comportamenti del paziente possa diventare più ampio e
flessibile, superando la rigidità che poteva contribuire a mantenere anche i sintomi. Per
iniziare, monitorare e valutare l’efficacia dell’intervento, lo psicologo potrà
somministrare test all’inizio, in itinere e alla fine del percorso, prevedendo
eventualmente un incontro di follow-up a distanza di qualche mese dalla conclusione, per
rinforzare ulteriormente le acquisizioni e mantenerle nel tempo. È inoltre preferibile che
ci sia coerenza tra approccio utilizzato per la diagnosi e l’intervento e strumenti come i
test, anche se spesso si utilizzano efficacemente anche approcci integrati.
L’approccio cognitivo-comportamentale, a questo proposito, ha elaborato anche un
apposito test, il BAI, Beck Anxiety Inventory, che consente di valutare la gravità della
Strumenti di
sintomatologia ansiosa negli adulti in modo rapido ed efficiente. Il test consiste di 21
misura – test
item, che descrivono i sintomi di ansia somatica, soggettiva o correlata a fobie, da
valutare su una scala a quattro punti (da 0 a 3). Si compone di un modulo di autoscoring
sul quale il soggetto fornisce le proprie valutazioni agli item, e da un modulo di scoring,
riservato all’esaminatore, in cui è riportata la tabella di trasformazione dei punteggi
grezzi in percentili, secondo le norme italiane. E’ importante che lo psicologo si serva i
test validati, preferibilmente su campione rappresentativo della popolazione a cui
appartiene il paziente, così da evitare diagnosi o rilevazioni basate su intuizioni vaghe,
così da ottenere, invece, dati per quanto possibili affidabili, eventualmente da
condividere con altri professionisti per strutturare un lavoro d’équipe.
Le competenze dello psicologo possono comprendere quindi sia il sapere, che
include la conoscenza di teorie e modelli di riferimento con cui organizzare i dati raccolti
sul paziente e formulare un’ipotesi di diagnosi e di intervento, il saper essere, che include
empatia, fiducia, coerenza, comunicazione, il saper fare, che include la conoscenza e
l’applicazione di tecniche e strumenti caratteristici di un approccio, che lo psicologo avrà
appreso attraverso ulteriori corsi di specializzazione, tirocini formativi e supervisioni
continue. Dovrà infatti sempre aggiornarsi per garantire uno standard elevato alle sue
attività in qualunque campo le svolga e rispetto a qualunque target le rivolga.

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58. Tema sulla professione – La Psicologia di Comunità

Traccia: La legge 56/89 individua tra i compiti specifici dello psicologo gli
interventi di sostegno in ambito psicologico rivolti alla persona, ai gruppi, agli
organismi sociali, alle comunità. Il candidato, a partire dal proprio modello di
riferimento e dalla propria esperienza, ne delinei finalità, modalità e strumenti.

Lo psicologo non si rivolge soltanto al singolo, alla coppia, alla famiglia, ma anche

Modello di
a gruppi, comunità e istituzioni. Gli interventi rivolti a queste ultime categorie di utenti
riferimento sono stati definiti e approfonditi dalla Psicologia di Comunità, disciplina intermedia tra
come psicologia, pedagogia, sociologia e medicina, che nasce ufficialmente nel 1965 in
richiesto dalla
America, quando si tiene il primo congresso con questa denominazione e durante il quale
traccia
viene definito questo nuovo ambito di ricerca e di intervento. Gli anni Sessanta sono,
storicamente, anni in cui si sviluppano movimenti collettivi come quello studentesco e
femminista, si rafforza, in ambito industriale, il movimento operaio, dunque si affermano
nuovi soggetti sociali e nuovi paradigmi culturali non più basati sulla soggettività o
sull’oggettività, ma sull’interazione tra queste due variabili.
Questa rivoluzione culturale influenza anche la concezione della malattia e della
salute, che non vengono più intese riduttivamente in senso organico, come disfunzioni da
riparare, ma vengono concepite come espressioni della relazione tra individuo e contesto.
In particolare, Orford definisce l’oggetto della Psicologia di Comunica come “la persona
nel contesto”. Si assiste inoltre a diverse riforme del sistema sanitario, anche italiano,
dove si decentrano i servizi sanitari e si introducono obiettivi di sviluppo e di
prevenzione, non soltanto di cura.
I modelli teorici di riferimento degli interventi di Psicologia di Comunità sono
principalmente tre: il modello di Lewin, la psicologia ecologica di Kelly, le teorie
sistemiche. Lewin appartiene alla Gestalt analizza il comportamento della persona,
individuandone una formula matematica secondo cui C = f (P,A), dunque il
Comportamento è una funzione della Persona e dell’Ambiente: non è prevedibile in base
a tratti stabili della personalità, ma dipende dal contesto, che stimola l’emergere delle
dimensioni individuali più consone al contesto in cui si è inseriti. Questo evidenzia
l’interdipendenza tra persona e contesto, la necessità di leggere l’interazione per
comprendere e affrontare il disagio, che non è un’affezione dell’individuo, ma
espressione di una disfunzione nella relazione con l’ambiente. Tale interdipendenza è

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evidente nei gruppi, costituiti da membri che interagiscono tra loro, creando così una
sovra-individualità con proprietà differenti dai singoli membri.
Dunque, il gruppo è una sorta di gestalt, di struttura unitaria e coesa, dove la
qualità emergente non corrisponde alla somma delle singole parti. Per affrontare un
intervento rivolto a gruppi e comunità, lo stesso Lewin definisce la metodologia della
ricerca-azione, che non assume i destinatari come recettori passivi dell’intervento, ma
come partecipanti attivi, che contribuiscono alla definizione degli obiettivi e al loro
raggiungimento, rafforzando la loro competenza di autogestione. Infatti, nella ricerca-
azione, che è una delle metodologie di intervento proprie della Psicologia di Comunità,
viene superata la scissione tra teoria e pratica, tra progettazione ed erogazione di un
intervento, poiché si procede parallelamente, definendo l’intervento mentre viene
eseguito, adattandosi flessibilmente alle risorse che emergono.
A proposito di risorse, anche queste sono un costrutto centrale nella Psicologia di
Comunità e consistono in conoscenze, competenze, dotazioni disponibili ad una persona,
sui cui far leva per apportare un miglioramento alle due condizioni. Infatti, gli obiettivi
della Psicologia di Comunità sono di empowerment: questo altro costrutto principale
indica sia un processo di acquisizione di competenze, conoscenze e strategie flessibili di
coping, sia un risultato, cioè il repertorio di risorse di cui la persona dispone e che
devono essere stimolate ed accresciute. Porre obiettivi di empormerment vuol dire
emanciparsi da una prospettiva medicalizzante, tesa a riparare un deficit, per collocarsi
un’ottica di sviluppo, tesa a prevenire il disagio.
La Psicologia di Comunità attua infatti soprattutto interventi di prevenzione, che
può essere primaria, evitando che si manifestino segnali di disagio; secondaria, qualora il
disagio sia già manifestato, dunque occorre attenuarlo affinché non si aggravi; terziaria,
quando il disagio è conclamato ed è opportuno modularne l’intensità, anche qualora non
sia possibile rimuoverlo, come nel caso di malattie gravi e terminali.
Il secondo modello teorico è la psicologia ecologica di Kelly, che propone quattro
principi di analisi della comunità: interdipendenza, in quanto ciascuna parte è
strettamente connessa con le altre; ciclicità delle risorse, che subiscono un’evoluzione,
possono diminuire e spesso sono limitate, dunque bisogna ottimizzarne la distribuzione;
adattamento, in quanto gli individui si sforzano di adattarsi alla nicchia sociale in cui
vivono; successione, in quanto i contesti comunitari e gruppali sono dinamici, dunque
occorre individuarne le direzioni di sviluppo, così da monitorarle efficacemente. Un altro
autore appartenente alla prospettiva ecologica è Brofenbrenner, che ha concettualizzato i

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contesti sociali come cerchi concentrici che si influenzano reciprocamente.
Il terzo modello teorico è la teoria dei sistemi, che nasce in ambito cibernetico e
viene applicata in ambito psicologico e sociologico. Il concetto di “sistema” è stato
dapprima formulato da Von Bertanlaffy e poi approfondito dalla scuola di Palo Alto,
città a Sud di San Francisco (USA), dove nella seconda metà del Novecento, si riunirono
studiosi di diversa provenienza disciplinare, quali antropologi, linguisti, sociologi,
matematici, psichiatri, che facevano capo agli antropologi e filosofi Gregory Bateson,
Erving Goffmann ed Hedward Hall e agli psichiatri Don Jackson, Albert Scheflen e Paul
Watzlavick. Secondo questi autori, il sistema è un insieme di parti interrelate, con
determinate caratteristiche:
- totalità, in quanto le parti del sistema sono connesse tra loro, tanto che un
cambiamento in una parte di esso, genera un cambiamento anche nelle altri parti e in
tutto il sistema
- non sommatività, in quanto il sistema, globalmente considerato, è più della
somma delle sue singole parti: costituisce una “gestalt”, una struttura che deve essere
assunta nella sua interezza, poiché scomponendola nelle parti e analizzandole
singolarmente, non si ottiene una comprensione globale ed esplicativa del sistema stesso;
- retroazione, in quanto non vi è unidirezionalità nell’influenza di un elemento su
un altro, secondo una sequenza lineare, ma vi è circolarità, dunque uno stimolo modifica
un altro che a una volta reagisce modificando la parte da cui ha ricevuto in origine lo
stimolo. La retroazione può essere positiva, innescando un cambiamento, oppure
negativa, rinforzando la staticità del sistema.
- equifinalità, poiché il raggiungimento di un determinato fine, partendo da un
determinato stato iniziale, implica che i risultati finali siano determinati non tanto dalle
condizioni iniziali, quanto dalla natura del processo: gli stessi risultati possono essere
raggiunti attraverso strategie diverse oppure la stessa strategia può comportare esiti
diversi.
Strumenti di
I contesti gruppali, comunitari e sociali sono sistemi, dunque le loro parti sono
valutazione
interdipendenti, dinamiche, rendendo impossibile prevedere con certezza l’esito di
un’azione. E’ presumibile però che un intervento rivolto ad una parte del sistema si
ripercuote anche sulle altre, proprio in virtù delle proprietà appena elencate. Prima di
intervenire nelle comunità, può essere opportuno valutarle, attraverso specifici strumenti,
come l’AOM della Francescato e l’Analisi di Comunità di Martini e Sequi.
L’analisi di Comunità implica l’individuazione di 7 dimensioni o profili:

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1. Profilo territoriale. Comprende tutti i dati relativi al territorio: estensione,
conformazione fisica, clima, risorse naturali, zone verdi o paesaggistiche, ecc;
2. Profilo demografico. Riguarda il numero di abitanti, diversi per fasce di età,
sesso, scolarizzazione, incremento/ decremento della popolazione, flussi migratori e
mobilità;
3. Profilo delle attività produttive. Valga la presenza e lo sviluppo di attività
primarie, secondarie e terziarie; il tasso di una civiltà ambientale;
4. Profilo dei servizi. Si esaminano i servizi socio-sanitari, socio-educativi,
sportivi, ricreativo-culturali, pubblici e privati;
5. Profilo delle istituzioni. Riguarda l’organizzazione politico-amministrativa, i
riferimenti ideologici, la presenza di particolari istituzioni;
6. Profilo antropologico. Indaga sulla storia della comunità, i suoi valori,
atteggiamenti sociali, in grado di coesione;
7. Profilo psicologico. Dinamiche affermative, senso di appartenenza,
identificazione collettiva, grado di apertura/ chiusura dei sottogruppi, livello di
partecipazione, collaborazione, sicurezza affettiva. Una volta ottenuti e discussi questi
dati con gli appartenenti alla comunità, si può procedere a delineare l’ottavo profilo,
quello futuro, individuando le direttrici di sviluppo della comunità.
L’AOM di Francescato è l’Analisi Organizzativa Multidimensionale, un piano per
individuare e valutare diversi aspetti della comunità: strategico-strutturale, concernente
l’organigramma, i regolamenti, le modalità amministrative, economiche e giuridiche che
la caratterizzano; funzionale, concernente le attività e gli obiettivi strategici;
psicodinamica, che concerne la cultura organizzativa, le collusioni, le simbolizzazioni
emozionali condivise, le relazioni di potere tra membri, che spesso contraggono patti
psicologici oltre a quelli giuridici; dimensione psico-ambientale, riferita alle relazioni tra
membri. Una volta compiuta questa analisi, servendosi anche di test specifici,
osservazioni, interviste, sopralluoghi, simulazioni, si possono rilevare punti di forza e
debolezza, per riconfigurare l’organizzazione.
Un intervento frequente di Psicologia di Comunità è l’educazione socio-affettiva
nelle scuole, organizzata attraverso circle-time: gli studenti si dispongono in cerchio,
esprimendo le loro opinioni, disagi, dubbi, con la consegna di rispettare i turni e non
esprimere giudizi su quanto espresso dagli altri. Lo psicologo assume il ruolo di
facilitatore, analizzando con loro le modalità con cui affrontano le relazioni affettive,
senza “ammaestrare” o trasmettere direttivamente indicazioni e consigli, promuovendo la

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loro consapevolezza e autonomia.
Comunicando con gli studenti, si utilizzano i messaggi-Io, concettualizzati da
Gordon, che implicano l’espressione delle proprie emozioni e preoccupazioni piuttosto
che consigli, consolazioni, svalutazioni, che sono “barriere” della comunicazione, della
negoziazione e della comprensione reciproca. La Psicologia di Comunità può occuparsi
anche di tematiche psicosociali come tossicodipendenza, alcolismo, AIDS: in questi casi
invita a intervenire anche sulle situazioni in cui vivono i soggetti colpiti da questi
problemi. Oppure, si occupa di povertà, emarginazione, difficoltà di integrazione sociale,
e in questo caso invita a ridistribuire le risorse, in quanto ritiene che possa trattarsi di
squilibri nella loro allocazione. Oppure, interviene in comunità scolastiche, per anziani,
per diversamente abili, per pazienti psichiatrici, organizzando interventi di empowerment
e prevenzione.

59. Tema sulla professione – Lo psicologo in équipe

Traccia: Opportunità e criticità dell’integrazione dello psicologo con altre


figure professionali

Lo psicologo clinico interagisce con altri operatori della salute, come il medico, lo
Lo psicologo e psichiatra, l’infermiere. Quando invece si occupa dell’età evolutiva, interagisce con il
le altre figure: neuropsichiatra infantile, il logopedista, l’educatore. Infine lo psicologo del lavoro
introduzione
interagisce con il committente, che è generalmente il manager dell’azienda che gli affida
un intervento di selezione, formazione o valutazione del potenziale, oppure con i
dipendenti dell’azienda, con altri professionisti come il giurista d’impresa, il consulente
del lavoro o il commercialista che curano gli aspetti amministrativi, giuridici e contabili
dell’azienda.
Dunque, in qualunque contesto in cui effettua le sue prestazioni, sia esse cliniche,
educative o formative, lo psicologo lavora in équipe, predisponendo interventi
multidimensionali e integrando le sue competenze con quelle di altre discipline spesso
anche molto critiche verso la psicologia. Come specifica Carli, lo psicologo non deve
però colludere con le aspettative magiche, con la svalutazione dei suoi strumenti che può
derivare da una conoscenza limitata da parte di altri operatori, portatori di pregiudizi o di
ingenuità, che simbolizzano emozionalmente la psicologia come una disciplina esoterica
e vana piuttosto che come una scienza e ne hanno una rappresentazione spesso mistica.

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Il professionista deve anche saper evitare competizioni con altre figure, negoziare
in caso di conflitti e promuovere un’idea di psicologia scientificamente fondata, in
Discussione
quanto costituita da strumenti validati empiricamente e da conoscenze risultati da
su
opportunità e
esperimenti. In particolare, sarà ora approfondito il lavoro d’équipe dello psicologo in
criticità, come ambito clinico. Lo psicologo clinico spesso riceve pazienti che gli vengono inviati dal
richiesto dalla medico: infatti di frequente le persone che avvertono un disagio, che si sentono ansiose o
traccia
depresse e non riescono a condurre tranquillamente la loro vita, perché questi sintomi
interferiscono con il loro funzionamento, si rivolgono primariamente al medico, che
dopo aver escludo l’origine fisica del disagio, può inviarlo ad uno psicologo o ad uno
psicoterapeuta.
Per ottenere la fiducia del medico, lo psicologo dovrà quindi spiegargli le sue
attività, spesso avvolte dal mistero, banalizzate come sterili chiacchierate o sfoghi, per
avvalorarne la scientificità, descrivendo gli strumenti che utilizza, i modi di intervenire,
gli obiettivi raggiungibili. Alla base di una relazione con il medico, vi è quindi una
comunicazione chiara ed efficace del proprio lavoro e delle proprie metodologie.
Il paziente che arriva inviato da un medico, può avere a sua volta aspettative
magiche oppure non corrette, assimilando lo psicologo ad un altro medico che cura il
disagio attraverso medicine: anche con il paziente, lo psicologo clinico dovrà impostare
una comunicazione efficace, sgombrando il campo psicologico da pregiudizi e
sviluppando una motivazione intrinseca che lo renda attivo e protagonista di un percorso
diverso e non asimmetrico, basato sull’alleanza terapeutica e sulla promozione del
benessere, non solo sulla cura del malessere, valorizzando le sue potenzialità e non
soltanto rimuovendo sintomi.
Anche la relazione dello psicologo con lo psichiatra dovrà essere impostata sul
rispetto reciproco, sulla fiducia, sulla comunicazione chiara: psicologo e psichiatra
possono spesso trovarsi a collaborare nelle comunità psichiatriche, con pazienti
schizofrenici, che per i loro sintomi gravi, persistenti e invalidanti, richiedono
innanzitutto un intervento farmacologico. Lo psichiatra potrebbe ritenere poco utile
l’intervento dello psicologo o dello psicoterapeuta con queste patologie, in realtà una
volta soppressi, anche se temporaneamente, i sintomi floridi, lo psicologo può lavorare
sui sintomi negativi, come l’appiattimento affettivo, facilitando la socializzazione,
promuovendo attività di discussione e di confronto attraverso ad esempio laboratori sulle
autonomie personali o gruppi di lettura del giornale.
Lo psicologo può quindi seguire questi pazienti sviluppando le loro abilità residue

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nel socializzare, interagire e gestire il proprio comportamento. L’intervento potrà essere
impostato preferibilmente con un approccio cognitivo-comportamentale, ad esempio
effettuando training sul problem solving poiché gli psicotici non riescono a gestire
interventi psicodinamici ed espressivi basati sull’interpretazione. I pazienti psichiatrici,
inoltre, spesso sono impulsivi, non riescono a pianificare un’azione e non possiedono
molte abilità di coping.
Lo psicologo, relazionandosi con educatori e tecnici della riabilitazione
psichiatrica, può condurre incontri di gruppo con i pazienti per apprendere il problem-
solving, definendo con chiarezza il problema, individuando le soluzioni, attuandole e poi
valutandone gli effetti oppure incontri per apprendere a gestire sé e il proprio contesto la
cura di sé, imparare l’igiene personale e la gestione dei propri oggetti, recuperando così
autonomie personali spesso compromesse. Prendersi cura di sé e del proprio corpo ha
inoltre una ricaduta psicologica, poiché spesso questi pazienti non hanno percezione dei
confini del proprio sé, dunque hanno l’opportunità di acquisire maggiore consapevolezza
e controllo sulle proprie funzioni.
Anche in questi casi dunque si relaziona efficacemente con altre figure,
nell’interesse primario del paziente, distinguendo ambiti e strumenti propri di ciascuno e
nel contempo integrandoli per offrire un servizio multidisciplinare. Anche nelle strutture
residenziali per soggetti con handicap, oppure tossicodipendenti, lo psicologo interagisce
con altri professionisti, tra cui medici, infermieri, educatori e animatori, e persino
esponenti ecclesiastici, stabilisce con gli ospiti sia relazioni di gruppo, poiché può
condurre gruppi che sviluppino le loro soft-skills e rendano più efficaci i loro processi di
decisione, comunicazione e socializzazione, sia relazioni individuali, curando
l’accoglienza, predisponendo percorsi personalizzati e fissando colloqui individuali sia
prima, che durante la permanenza, che dopo la dimissione e il reinserimento nella
società, così da guidarli, senza giudicarli.
Coordinarsi con una molteplicità di figure è complesso e spesso comporta conflitti,
ambiguità, sovrapposizioni talvolta indebite, per questo occorre che lo psicologo si
aggiorni costantemente, garantendosi una formazione non solo sugli aspetti tecnici del
suo lavoro, ma anche su quelli trasversali, come appunto la comunicazione, la
negoziazione, il lavoro di gruppo.

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F) Argomenti ulteriori – Jolly

60. Una teoria – L’attaccamento

Lo sviluppo del bambino avviene entro una cornice costituita dalla “relazione di
Teoria attaccamento”, formulata da John Bowlby alla fine degli anni Sessanta. Egli acquisì una
approfondita
formazione etologica, medica e cognitivista e osservò che nei cuccioli di uomo, come nei
(con autori,
cuccioli di animale, si manifesta una tendenza radicata biologicamente a stabilire una
esperimenti,
ecc.)
relazione preferenziale con la figura di accudimento: il neonato la insegue, è confortato
dalla sua vicinanza, la cerca in momenti di stress.
L’attaccamento dunque è il rapporto con la figura di accudimento primaria, che
fornisce una “base sicura” da cui il bambino si allontana per esplorare con fiducia
l’ambiente e a cui sa di potersi rivolgere quando incontra un ostacolo. La figura di
attaccamento non fornisce soltanto cure strumentali come nutrizione, protezione dal
freddo, ma anche sicurezza, comprensione, calore fisico. Il nutrimento non è infatti
l’unico bisogno per la sopravvivenza, ma si rivela di vitale importanza la presenza di
figure amorevoli che forniscano anche una stimoli e affetto.
Ogni bambino stabilisce una specifica relazione di attaccamento in base alla
disponibilità del caregiver: per studiare i modelli di attaccamento che i bambini
stabiliscono con il genitore durante il primo anno di vira, Mary Ainsworth ha ideato una
procedura specifica, la Strange Situation.
Si tratta di una osservazione strutturata, per bambini tra i dodici e i diciotto mesi,
durante la quale il bambino vive una situazione di stress in quanto si trova in un ambiente
non familiare, in presenza di un estraneo (appartenente all’équipe dei ricercatori) e vive
due separazioni dal caregiver di tre minuti ciascuna, seguite dal ricongiungimento. La
sessione viene videoregistrata e classificata rispetto alle reazioni mostrate dal bambino
alla separazione e al ricongiungimento con la madre: infatti, i fattori di stress ambientale
e situazionale attivano i pattern di attaccamento, consentendo di valutare se il bambino
tollera l’allontanamento della madre ed ha fiducia nel suo ritorno.
Attraverso questa procedura, Ainsworth e collaboratori hanno inizialmente
classificato tre principali modelli di attaccamento: sicuro, insicuro-evitante, insicuro-
ambivalente.
I bambini sicuri utilizzano la loro madre come base sicura, esplorando l’ambiente
senza timore e accedendo alla madre per ricevere un rifornimento affettivo prima di

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tornare ad esplorare l’ambiente. Durante la separazione, esprimono un disagio, ma
tollerano l’assenza della madre, poi quando torna, la accolgono con sorrisi e
vocalizzazioni. Questo modello si struttura quando, nel primo anno di vita, il bambino ha
sperimentato sicurezza, poiché la madre si è mostrata responsiva, intervenendo quando il
bambino aveva bisogno.
I bambini con attaccamento insicuro-evitante non si relazionano frequentemente
con la madre, non temono neppure l’estraneo, appaiono concentrati sull’ambiente e
interessati ad esplorarlo autonomamente, senza rivolgersi alla madre in caso di disagio.
Anche se la madre si allontana, non esprimono disagio, e quando ritorna, la ignorano e si
concentrano su altro. Questo modello di attaccamento si costruisce quando il bambino ha
sperimentato rifiuti rispetto alle sue richieste di aiuto, ha dovuto provvedere
autonomamente a risolvere le sue difficoltà, senza contare su un sostegno esterno. Egli,
dunque, finisce per “disattivare” il sistema di attaccamento, iper-attivando quello di
esplorazione.
I bambini con attaccamento insicuro-ambivalente non riescono ad esplorare
tranquillamente l’ambiente e non riescono neppure ad usare la madre come base sicura:
quando entrano nella stanza, appaiono turbati. Durante la separazione dalla madre, sono
angosciati e, quando la madre torna, non riescono lo stesso a tranquillizzarsi. Presentano
comportamenti ambivalenti: cercano il contatto con la madre, ma poi lo rifiutano,
scalciando; sono interessati ai giocattoli, ma poi li gettano via quando qualcuno glieli
offre; stringono la madre, ma esprimono rabbia e agitazione.
Questo modello di attaccamento si definisce quando il bambino sperimenta una
madre incoerente e imprevedibile, talvolta rifiutante rispetto ai bisogni, talvolta
invadente: il bambino, quindi, non sapendo, di volta in volta, quale reazione avrà la
madre, vigila costantemente su di lei, attivando eccessivamente il sistema di
attaccamento rispetto a quello di esplorazione.
Ricerche successive condotte da Lyons-Ruth e collaboratori su soggetti
appartenenti a gruppi ad alto rischio sociale e con figure genitoriali incoerenti nella loro
funzione di cura e accudimento hanno portato all’identificazione, sia nell’infanzia che
nel periodo prescolare, di ulteriori modelli d’attaccamento atipici, ovvero insieme di
comportamenti messi in atto dai bambini in situazioni stressanti, che non rientravano nei
criteri tradizionali stabiliti per un modello di attaccamento sicuro (B), insicuro-evitante
(A) e insicuro-ambivalente (C).
Questi risultano più frequentemente correlati con patologie psichiatriche nelle

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figure genitoriali, con situazioni di abuso fisico e sessuale, separazioni precoci o ripetute
della figura materna, crisi familiari, danni neurologici, violenza, lutti e trauma irrisolti
nella storia della figura di attaccamento. I modelli di attaccamento atipici più
frequentemente riscontati sono di tipo disorganizzato/disorientato.
L’attaccamento disorganizzato/disorientato è caratterizzato da comportamenti
interrotti o indirizzati in modo errato, sterotipie, posture anomale, immobilità, fino a
indici diretti di paura o di preoccupazione nei confronti del genitore. In campioni ad alto
rischio, questo pattern di attaccamento è stato collegato al maltrattamento infantile,
mentre nei campioni a basso rischio sembra essere in relazione a lutti e traumi irrisolti
nella storia del genitore che si esprime nelle interazioni con il bambino attraverso
espressione di paura, che risultano spaventanti per il bambino stesso.
Questa situazione crea nel bambino un conflitto irrisolvibile tra la tendenza a
rivolgersi al genitore come fonte di rassicurazione di fronte a uno stimolo spaventate e il
fatto che è lo stesso genitore a suscitare paura; la tendenza ad avvicinarsi e quella di
allontanarsi si inibiscono l’un l’altra travolgendo la capacità del bambino di organizzare
Strumenti un comportamento coerente.
Per lungo tempo, la Strange Situation è stata il principale strumento di valutazione
dell’attaccamento, tuttavia dalla fine degli anni Novanta, il suo utilizzo ha suscitato
perplessità: Cassibba rileva come le classificazione si basino su indicatori
comportamentali, dunque soltanto quantitativi. Inoltre, risulta impossibile effettuare
rilevazioni ripetute nello stesso periodo di tempo, la procedura è utilizzabile soltanto in
bambini di circa un anno poiché successivamente, attraverso lo sviluppo affettivo,
cognitivo, sociale, i il bambino riesce a diversificare ed ampliare le strategie di
regolazione della vicinanza rispetto alla figura di attaccamento e la procedura di
separazione-riunione non è più in grado di elicitare con evidenza il sistema di
attaccamento.
Per questo, verso gli anni Novanta è stato costruito da Everett e Water un ulteriore
strumento, l’Attachment Q-sort per bambini da 1 a 5 anni, validato in Italia da Cassibba
e D’Odorico nel 2000: è una procedura basata su item che descrivono i comportamenti
del bambino a casa e nella vita di quotidiana e prevede che la misura venga effettuata
dalla madre o da un osservatore esterno. E’ utilizzabile con bambini da 1 a 3 anni e
consente quindi di valutare l’attaccamento su un arco temporale più esteso. A 3 anni, si
può utilizzare anche l’Attachment Story Completion Task, test basato sul completamento
di storie.

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Per valutare, invece, lo stato mentale attuale del genitore rispetto all’attaccamento è
stata elaborata da Mary Main un’intervista semistrutturata, l’Adult Attachment Interview:
essa consiste in una serie di domande intese a far emergere nel modo più completo
possibile la storia delle esperienze di attaccamento infantile dell’individuo e le
valutazioni degli effetti di tali esperienze sul suo funzionamento attuale. La modalità con
cui queste esperienze vengono narrate, più che la natura delle esperienze stesse, porta ad
una classificazione generale dell’attuale stato mentale dell’adulto rispetto all’
attaccamento.
La valutazione finale prevede l’inclusione del soggetto in una delle tre principali
categorie che distinguono differenti modelli di attaccamento. Il modello sicuro/libero-
autonomo (F) è caratterizzato dalla capacità del soggetto di presentare un quadro
coerente e ben integrato delle relazioni d’attaccamento, nonché dal riconoscimento
dell’influenza delle prime relazioni sullo sviluppo della personalità. Il modello
distanziante (Ds) è caratterizzato da distanziamento e svalutazione delle relazioni
d’attaccamento oppure da idealizzazione dei genitori e mancanza di ricordi specifici
relativi alle esperienze infantili con i caregiver. Il modello preoccupato/invischiato (E)
indica un attuale coinvolgimento nelle passate relazioni di attaccamento di tipo passivo o
conflittuale.
Ai tre modelli di attaccamento principali sono state aggiunte altre due categorie di
classificazione. La prima è inerente a un modello irrisolto/disorganizzato (U) che
evidenzia la presenza di processi mentali disorganizzati relativamente a un lutto o a un
evento traumatico, la seconda categoria è stata denominata Cannot Classify (CC) e
riguarda interviste in cui emergono stati mentali contradditori e incompatibili tra loro o

Ambiti
una combinazione di stati mentali scissi e non integrati rispetto all’attaccamento.
applicativi La teoria dell’Attaccamento può avere implicazioni in diversi ambiti. Innanzitutto,
nella psicologia dell’età evolutiva, poiché consente di comprendere e valutare la
relazione tra caregiver e bambino sia in situazioni normali, in un’ottica di promozione
del benessere e di sostegno alla genitorialità, sia in un’ottica di intervento, per bambini
che hanno subito lutti, traumi o abusi, così da valutare l’impatto disorganizzante di
queste esperienza sulle relazioni e sullo sviluppo del bambino. Valutare l’attaccamento
può essere utile, dunque, in ambito peritale, per ottenere ulteriori indicatori in previsione
di valutazioni dell’idoneità genitoriale o mediazione familiare in caso di separazione o
divorzi. Un ulteriore ambito può essere la psicologia della coppia, poiché i modelli di
attaccamento vengono interiorizzati e riproposti nelle relazioni successive, incluse quelle

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con il partner, quindi comprendere, attraverso l’Adulth Attachment Interview, il propri
ostato mentale rispetto all’attaccamento, può chiarire dinamiche e scelte di coppia.

61. Un argomento - Le interazioni madre-bambino

Dagli anni Ottanta, in ambito psicologico è iniziata a cambiare notevolmente la


Definizione
concezione del bambino, grazie ai contributi dell’Infant Research, prospettiva teorico-
empirica che ha individuato competenze comunicative e sociali nel bambino,
attribuendogli una precoce motivazione a stabilire relazioni diadiche e a raggiungere una
reciprocità relazionale.
Gli studiosi appartenenti a questa prospettiva focalizzano l’attenzione
Teorie (con
sull’interazione tra madre e bambino e sulle competenze emotive del bambino sin dai
autori,
primi mesi di vita. Queste osservazioni rappresentano il superamento di una concezione
esperimenti,
ecc.)
autistica del bambino, considerato come narcisista e concentrato sui suoi bisogni,
approfondita in ambito psicodinamico da Freud e poi dalla Mahler, e implicano una
diversa modalità di compiere ricerche sulla psicologia dello sviluppo, che non possono
focalizzarsi esclusivamente sul bambino, ma devono includere anche la madre o la
persona che se ne occupa (caregiver), assumendo come oggetto di osservazione la
relazione caregiver-bambino. Secondo l’Infant Research, infatti, il bambino è predisposto
a interagire con persone e ambienti, ha delle aspettative nei confronti del caregiver, è
predisposto a sintonizzarsi con lui e risente della sua inespressività.
Anche Stern (1985) descrive un bambino precocemente capace di interagire
attivamente con l’ambiente circostante e di attivare scambi con la madre, all’interno di
un sistema interattivo caratterizzato da sincronia, reciprocità e intenzionalità: il bambino
quindi dialoga con la madre dai primissimi momenti di vita, utilizzando il canale non
verbale.
Gli schemi interattivi precoci che risultano da queste interazioni sono chiamati
“involucri proto-narrativi”, poiché contengono gli elementi di una narrazione, come la
trama, la sequenza di eventi, l’obiettivo. Gli involucri vengono codificati e archiviati dal
bambino come schemi non dichiarativi, formando una memoria implicita ricca di
prototipi di interazione, cioè di sequenze tipiche. Tali prototipi verranno poi estesi anche
alle relazioni successive, diventando rappresentazioni di interazioni generalizzate (RIG)
e influenzando il funzionamento affettivo e sociale della persona.
Anche Trevarthen (1998) ha evidenziato come il bambino, a due mesi, stabilisca

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
con la madre “protoconversazioni” faccia a faccia, formate da sorrisi, vocalizzazioni e
imitazioni delle espressioni mimiche ed emotive, mostrando di saper rispettare i turni
conversazionali (turn-talking). Questa modalità precoce e reciproca di comunicazione tra
il bambino e i suoi partner è stata definita da Trevarthen come “intersoggettività
primaria”: essa svolge una funzione di regolazione emotiva ed è basata sulla capacità
innata del bambino di intuire le intenzioni comunicative degli interlocutori e sulla loro
responsività verso il bambino.
Beebe e Stern (1977) hanno però sottolineato la possibilità che, nel corso
dell’interazione, il ritmo condiviso tra bambino possa essere interrotto, determinando un
fallimento dell’interazione, a cui seguono però tentativi di riparazione. Se alle rotture
seguono le riparazioni o quantomeno i tentativi di riparazione, il bambino si formerà uno
schema di relazione che può attraversare momenti di difficoltà, ma vengono affrontati e
superati, dunque sviluppa la fiducia che dopo l’incomprensione, sarà ripristinata la
condivisione affettiva. Anzi, una quota lieve di rotture consente di vivacizzare la
relazione, poiché un rispecchiamento perfetto e costante potrebbe risultare intrusivo e
impedire al bambino di emergere e differenziarsi. Il livello ottimale di coordinazione
interattiva non è, quindi, quello perfetto, ma quello che prevede sia una prevalenza di
scambi sintonizzati, sia alcune interazioni interrotte e poi riparate. A questo proposito,
Beebe e Lachman (1994) hanno formulato il “principio di rottura e riparazione”
(disruption and repair) che si riferisce alla violazione delle aspettative nell’interazione e
agli sforzi per ripararle. La “rottura” indica fenomeni di diversa gravità, dalla violazione
delle aspettative (mismatch), allo scacco interattivo (disjunction), alle rotture interattive
vere e proprie.
Se la riparazione è un elemento regolare e prevedibile dell’interazione diadica, non
si trasforma dunque in un’esperienza negativa, ma consente al bambino di rappresentarsi
l’interazione come prevalentemente efficace. Se invece si ripetono fallimenti a cui non
seguono riparazioni, la rottura diventa un elemento caratteristico dell’interazione, quindi
il bambino perde fiducia nella responsività e nell’empatia del caregiver e ricorre sempre
di più all’autoregolazione, rischiando di cadere anche in stati di impotenza
(helplessness), in cui si rassegna che ogni sforzo di riparazione sarebbe inutile
(Seligman, 1975) .
Le interazioni madre-bambino sono state studiate anche sperimentalmente
Strumenti
attraverso il paradigma del volto immobile (Still Face), elaborato da Cohn e Tronick
(1983), che dimostrano come il reagisca in modo attivo ad eventuali distorsioni

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comunicative. Si tratta di una procedura basata su tecniche di osservazione
microanalitica, che ha consentito di analizzare sequenze comunicative tra madre e
bambino e consiste nell’esporre bambini di pochi mesi al volto immobile e inespressivo
della madre, per qualche minuto. Se il volto della madre non risponde alle stimolazioni
del bambino, egli inizialmente intensifica i suoi sforzi, accentuando il sorriso, le
vocalizzazioni, l’intensità dello sguardo. Poi, se non ottiene risultati, ripiega su
comportamenti di autoconsolazione, per gestire il suo disagio, ad esempio distogliendo lo
sguardo e assumendo anche lui una mimica inespressiva, oppure ricorrendo alla
stimolazione di parti del proprio corpo e alla manipolazione dei propri indumenti: queste
sono forme precocissime di difesa che emergono nell’ambito di interazioni disfunzionali
tra bambino e caregiver.
Ambiti
Le interazioni madre-bambino sono un elemento importante in diversi ambiti
applicativi
applicativi. Innanzitutto, nella psicologia dello sviluppo, poiché sollecitano lo sviluppo
del bambino e gli offrono un ambiente affettivo e sociale stimolante; osservare le
interazioni precoci può essere utile per valutare la relazione madre-bambino, per
impostare progetti di intervento o di supporto alla maternità, per cogliere indicatori
disfunzionali che possono presagire un disturbo della relazione o una sintomatologia
materna come quella depressiva.

62. Una patologia – La depressione post-partum

Diventare madri è un processo psicologico complesso, che può offrire l’opportunità


Definizione
di rivedere i propri legami infantili, rielaborando i conflitti passati e prefigurando un
nuovo assetto identitario maturo e integrato, ma può anche destrutturare una personalità
fragile, esponendola al rischio di psicopatologie.
Se la relazione con la propria madre è stata positiva, la donna in gravidanza può
identificarsi con un’immagine di fertilità e protezione e contemporaneamente con se
stessa da bambina, ricordando il bisogno di affetto che manifestava e la fiducia che
sarebbe stato soddisfatto, riuscendo quindi a calarsi nel ruolo di madre e a comprendere i
bisogni del figlio; invece se la relazione con la propria madre è stata conflittuale, la
donna ri-sperimenta con il proprio figlio la fusione dolorosa vissuta da bambina con la
propria madre, sentendo di aver fallito nel suo processo di individuazione e riducendo la
sua disponibilità ad occuparsi del figlio
Se non è sostenuta ed ha conflitti psicologici irrisolti, lo sforzo intenso di

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Teoria adattamento psicologico, fisiologico e sociale richiesto dalla maternità può esporla al
approfondita
rischio di quadri clinici, soprattutto depressivi, di diversa intensità e gravità.
(con autori,
Il primo e più lieve dei quadri clinici depressivi del post-partum è il baby-blues o
esperimenti,
ecc.)
maternity blues, lieve disturbo emozionale transitorio di cui soffre più della metà delle
donne occidentali e che insorge nei giorni immediatamente successivi al parto. Il “blues”
è un momento di abbassamento dell’umore, con sensazione di stanchezza, di tristezza e
di sfiducia, crisi di pianto, che si accentua intorno al quarto-quinto giorno dopo il parto,
cioè in corrispondenza della montata lattea, dura alcune ore o alcuni giorni e poi si
risolve spontaneamente. Se però persiste e si aggrava, può strutturarsi in una vera e
propria depressione post-partum e, in alcuni casi limite, diventare una psicosi puerperale.
Il DSM-IV riporta una specifica depressione ad esordio nel post-partum, con sintomi
quali tono dell’umore depresso per la maggior parte del giorno, disturbi del sonno quali
insonnia o ipersonnia, agitazione o rallentamento psicomotorio, senso di spossatezza
conseguente a mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi e
inappropriati, netta riduzione della capacità di pensare, concentrarsi o prendere decisioni.
La psicosi puerperale è invece il quadro depressivo post-partum più grave, poiché
comporta una destrutturazione delle funzioni psichiche, una compromissione dell’esame
di realtà e l’insorgenza di sintomi psicotici come deliri e allucinazioni.
La depressione post-partum non è soltanto uno stato di disagio per la madre, ma si
ripercuote anche sulla salute del bambino, con modalità ed esiti non prevedibili con
precisione, in quanto la depressione stessa comporta una fluttuazione dell’umore materno
e delle modalità di interazione con il bambino.
Lo stile interattivo delle madri depresse non è uniforme, tuttavia Cohn e Tronick
(1989) hanno rilevato 4 principali pattern:
- Stile materno intrusivo. Lo stile di queste madri è invadente, in quanto non
rispetta i ritmi del bambino, ma tende a forzarli, intervenendo anche quando il bambino
manifesta il bisogno di ritirarsi dall’interazione per riprendere energia. La stimolazione è
eccessiva e inopportuna, è compiuta con un tono di voce irritato, manovre di
accudimento concitate e maldestre che suscitano rabbia e ostilità nel bambino.
- Stile materno ritirato. Queste madri si mostrano non disponibili all’interazione,
dunque i tentativi di coinvolgimento da parte dei bambini nei loro confronti
generalmente falliscono, generando un senso di incompetenza nei bambini stessi, che
sviluppano un nucleo affettivo negativo, dominato dalla tristezza e dalla rassegnazione.
- Stile materno positivo. Queste mamme assomigliano a quelle non depresse,

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poiché sono sufficientemente responsive e coinvolte nell’interazione, consentendo al
bambino di sviluppare un nucleo affettivo prevalentemente positivo. Tuttavia,
differiscono dalle mamme non depresse per la quantità e la frequenza degli scambi
interattivi, che risulta sensibilmente inferiore.
- Stile materno misto. Queste madri oscillano tra uno stile intrusivo, ritirato e uno
stile positivo, in base alle variazioni dell’umore e a situazioni contingenti. Anche nei
bambini si osserva un’analoga oscillazione con un rischio di disorganizzazione emotiva,
poiché non riescono a prevedere con stabilità la risposta della madre.
Il quadro sintomatologico depressivo materno si riproduce nel figlio, che
sperimenta una microdepressione, con ritardo psicomotorio, prevalenza di stati d’animo
malinconici, inespressività facciale e posturale.
A questo proposito, Stern (1995) ha individuato 4 tipi di esperienza soggettiva del
bambino con madre depressa:
- Microdepressione. Il bambino non riesce a coinvolgere la madre, quindi cerca di
entrare in contatto con lei attraverso l’identificazione e l’imitazione.
L’imitazione implica l’assunzione di espressioni e comportamenti simili a quelli
osservati nella madre: poiché il volto materno è inespressivo e triste, la sua voce ha un
tono basso e la sua postura sembra molle, anche il bambino riprodurrà questa
configurazione, diventando silenzioso e inespressivo. Poi, attraverso l’identificazione,
modella il suo stato d’animo su quello della madre, provando le stesse sensazioni di
sofferenza, di perdita e di sfiducia.
- Rianimazione della madre. Il bambino che non riceve risposta dalla madre ai suoi
inviti, attiva strategie che catturino la sua attenzione, ad esempio inarca le sopracciglia,
apre la bocca, vocalizza più frequentemente e con un tono più alto. Spesso,
intensificando gli sforzi di coinvolgere la madre, il bambino ottiene una risposta, poiché
la madre si accorge della propria indisponibilità emotiva e cambia il suo atteggiamento,
avvicinandosi al figlio e interagendo con lui.
- Ricerca di auto-stimolazione. Se il bambino non riceve risposta dalla madre,
nonostante gli sforzi, desiste dal “rianimarla” e ripiega sulla ricerca di stimolazioni e di
gratificazioni nell’ambiente esterno.
- Falsa stimolazione. Quando le madri si accorgono di non aver offerto stimoli al
bambino, cercano di riparare, ricorrendo ad una stimolazione intensa e forzata, che risulta
intrusiva e inappropriata. Tuttavia, essendo l’unica stimolazione disponibile, il bambino
la accetta, accontentandosi. Si assiste, quindi, ad un’interazione forzata, dove la madre

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attua una falsa stimolazione e il bambino risponde con un falso sé compiacente, stando al
gioco, pur di soddisfare il suo bisogno di interazione.
Uno strumento molto utilizzato per valutare la depressione post-partum è
Strumenti
l’Edinburgh Postnatal Depression Scale e procedere con l’osservazione delle interazioni
madre-bambino. una scala self-report specifica per la depressione postpartum costruita da
Cox nel 1987, costituita da 10 item che le neomamme compilano in base a come si sono
sentite negli ultimi 7 giorni. Poi vi è il Blues Questionnaire, scala di 28 item, da
somministrare entro la sera del terzo e quinto giorno postpartum, nei quali spesso si
verificano picchi nella sintomatologia depressiva. In ambito cognitivista, si utilizza il
Postpartum Depression Predictors Inventory-Revised (Pdpi-R), strumento self-report
costruito da Beck nel 2001. Poi vi è anche il Contextual Assessment Of Maternity
Experience (Came), per valutare fattori di rischio psicosociale per lo sviluppo di disturbi
dell’umore durante la gravidanza e nel post-partum.

Applicazioni
Conoscere la depressione post-partum ha ricadute applicative nell’ambito materno-
infantile e più ampiamente sociale, poiché consente di promuover e progetti di sostegno
alla genitorialità e all’infanzia e di prevenzione del malessere. Per offrire un sostegno
alle donne a rischio di depressione post-partum oppure alle madri che hanno già
sviluppato una sintomatologia depressiva, non è sufficiente l’intervento degli operatori
che lavorano nei reparti di ostetricia e ginecologia. Sono strategici gli interventi
preventivi, diversificati e specifici, che includono progetti educativi sulla genitorialità e
sullo sviluppo del bambino, supporto basato sull’ascolto attivo, interventi rivolti alla
coppia per preparare i partner all’assunzione del ruolo genitoriale e alle eventuali
difficoltà poste dall’accudimento e dallo sviluppo del bambino, infine sostegno
individuale e home-visiting, cioè assistenza domiciliare alle neomadri.

63. Una tematica recente – La metacognizione

La metacognizione è un costrutto introdotto negli anni Settanta da Flavell e

Definizione
attualmente tra i più studiati nell’ambito della ricerca cognitiva e della psicologia
scolastica. Flavell indicò, con questo termine, la consapevolezza delle strategie attuate
nello svolgimento dei processi cognitivi come memoria, apprendimento, attenzione,
elaborazione delle informazioni. Infatti, al di sopra di queste attività cognitive specifiche,
vi è un metaprocesso di controllo, supervisione e coordinamento, che consiste appunto
nella metacognizione.

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I processi metacognitivi consistono dunque nel coordinare, guidare e monitorare il
proprio percorso di apprendimento, nel valutarsi indipendentemente dal giudizio di
Teoria
un’autorità esterna, nel pianificare ed eseguire le operazioni cognitive, compiendo i
approfondita
(con autori,
necessari aggiustamenti, nel disporre ed allocare il giusto quantitativo di risorse attentive
esperimenti, e mnemoniche, nel prevedere la propria performance. Queste dimensioni sono trasversali
ecc.) ai diversi settori disciplinari, poiché non consistono in tecniche da applicare, il cui
mancato possesso da parte dello studente giustificherebbe un calo nel rendimento
specifico, ma risiedono nell’abilità di riflettere sul funzionamento mentale e in
particolare sul proprio funzionamento. Sono quindi competenze di regolazione della
propria attività cognitiva, sovraordinate a quelle cognitive, per questo sono state definite
“metacognitive”. Oggi si pensa che siano esse a dover essere rafforzate per rendere
l’apprendimento più efficace, più che il mero dotare gli studenti di tecniche da applicare
ritualisticamente e quasi “liturgicamente”.
La metacognizione, infatti, è stata particolarmente approfondita dopo l’insuccesso
dei programmi sul metodo di studio impostati in modo direttivo ed è oggi considerata
come la competenza-chiave per un studio efficace, che ottimizza tempi e metodi di
apprendimento. Infatti, negli ultimi trenta anni, per aiutare gli studenti a organizzare il
loro studio, che spesso comprendere grandi quantità di discipline anche differenti tra loro
da apprendere in tempi veloci, sono stati elaborati alcuni “metodi di studio”, cioè
procedure di apprendimento sia specifiche sia globali. Sono state elaborate strategie per
memorizzare alcune nozioni come date, nomi, parole straniere, oppure per prendere
appunti durante la lezione, per leggere un testo traendone concetti e parole-chiavi, per
riassumere e schematizzare il materiale, per gestire l’ansia da interrogazione.
Il più noto metodo strutturato, di organizzazione globale dello studio, è stato
elaborato da Robinson nel 1961, poi perfezionato e denominato PQ4R, acronimo delle 6
fasi in cui si articola: scorrere il testo (preview), porsi delle domande (questions), leggere
(read), riflettere sui contenuti, (reflect), ripetere oralmente (recite), ripassare il tutto
(review). Benché, di per sé, possano risultare efficaci, dunque aiutare effettivamente lo
studente a organizzare lo studio autonomo, non hanno sortito risultati incoraggianti, né
duraturi. Anzi, tali metodi hanno presentato due fondamentali limiti: il “trasfert”, ossia la
difficoltà nel generalizzarli a tutte le materie, al di fuori dei contesti e dei contenuti su cui
sono stati applicati inizialmente, e la “decadenza”, in quanto dopo un iniziale ed
entusiastica applicazione, venivano inesorabilmente abbandonati, per tornare alle vecchie
abitudini di studio, dispendiose quanto radicate.

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Questi metodi comunicano poi implicitamente un concetto disfunzionale
dell’apprendimento, presupponendo che possa esserci una strategia standard valida
sempre e comunque, applicabile a tutti i contesti e contenuti, ignorando le diverse
operazioni richieste dalle varie materie nelle varie fasi del percorso di apprendimento,
non rispettando le modalità preferenziali di studiare (tempi, luoghi, modalità), non
valorizzando le attitudini personali. Risultavano dunque un’imposizione dall’alto, al pari
dei contenuti, perciò venivano percepiti come limitanti e costrittivi, invece di essere
considerati una facilitazione. Si è quindi iniziato a riflettere sul fatto che apprendere
efficacemente potesse non dipendere dal possedere un presunto “buon metodo di studio”,
ma derivasse dall’attitudine alla flessibilità, dalla capacità di variare l’approccio allo
studio, di alternare i metodi e le operazioni da compiere, di adattarsi elasticamente alla
materia, di regolarsi in base ad un’autovalutazione delle proprie conoscenze iniziali e
della previsione del tempo e dello sforzo richiesto da un compito.
Lo studente efficiente è dunque oggi considerato uno studente metacognitivo,
quindi autoregolato, flessibile e motivato verso l’apprendimento. Attualmente, il Gruppo
MT di Padova sta studiando approfonditamente la metacognizione ed ha realizzato anche
uno strumento per valutarla, il Questionario Metacognitivo sul Metodo di Studio. Questo
gruppo di ricerca ha analizzato anche alcune componenti costitutive della
metacognizione.
La prima è l’elaborazione profonda: si presuppone che l’apprendimento e la
memorizzazione non siano una meccanica archiviazione di dati, ma richiedano
l’’interiorizzazione dei contenuti, l’attivazione di collegamenti con conoscenze
precedenti o la modifica di preconoscenze ingenue su un argomento. La presenza di
elaborazione attiva indica un approccio critico, non puramente assimilativo, alle
conoscenze trasmesse, poiché il loro apprendimento è ottenuto attraverso strategie di
rielaborazione, non mediante l’applicazione rigida di tecniche prestabilite o prescritte.
A questo proposito, Rohwer e colleghi (1984) hanno individuato nella
“generatività” la caratteristica che rende efficace una strategia di studio: quanto più un
metodo implica la riformulazione a parole proprie di un’informazione, nonché un
arricchimento mediante l’integrazione di informazioni desunte dalla propria esperienza,
tanto più risulta efficace, cioè conduce ad un apprendimento solido e duraturo.
L’elaborazione profonda sottolinea anche l’importanza di esercitare un controllo
sul proprio apprendimento, di svincolarsi dalla relazione di dipendenza dall’insegnante
per sviluppare un pensiero autonomo e critico, utilizzando la propria crescita non tanto

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per compiacere una figura autoritaria, quanto per emanciparsi intellettualmente e rendersi
“generatori” di nuovi costrutti.
La seconda dimensioni della meta cognizione è l’organizzazione: consiste
nell’abilità di calcolare e predisporre il tempo necessario a portare a termine il carico di
studio assegnato, conciliandolo con altre attività extrascolastiche ed evitando lo studio
massivo, concentrato nei giorni precedenti l’interrogazione, indice di una
disorganizzazione e di mancanza di pianificazione ed autoregolazione dell’attività. Lo
studente organizzato sa evitare carichi eccessivi o troppo concentrati nel tempo,
riconoscendo la tipologia di approccio appropriata al materiale, il tempo richiesto per
portare a termine un compito e rispetta le scadenze di consegna, senza procrastinare le
incombenze.
La terza dimensione concerne le credenze sul funzionamento intellettivo:
comprende informazioni sui costrutti esplicativi che lo studente si è formato nel percorso
scolastico, per cercare di comprendere le operazioni richieste dall’attività mentale di
apprendimento e per spiegare successi e insuccessi. Lo studente può possedere teorie
“statiche”, secondo cui le abilità di osservazione, riflessione, memoria, siano “talenti
naturali”, dunque donate alla nascita e non modificabili con l’esperienza e
l’apprendimento; oppure, può possedere teorie incrementali, che considerano il
funzionamento modificabile e migliorabile attraverso l’apprendimento. In questo caso, lo
studente è portato ad impegnarsi, perché fiducioso nella possibilità di rendere più
efficiente il proprio funzionamento e di poter raggiungere un buon rendimento, a
differenza di chi possiede teorie statiche, che favoriscono un atteggiamento di
constatazione di una difficoltà e rassegnazione a non poter intervenire per risolverla.
La quarta dimensione riguarda le teorie dell’intelligenza. Si tratta di una
specificazione della dimensione precedente: mentre quest’ultima indagava le convinzioni
sul funzionamento mentale in generale, in questo caso di analizzano le concezioni
dell’intelligenza, che può essere intesa come una dote superiore, un livello intellettivo
concesso soltanto a rari casi privilegiati, oppure una qualità che può essere migliorata
con l’esercizio: questa seconda concezione è più funzionale all’apprendimento.
La quinta dimensione riguarda gli obiettivi di apprendimento. Si distinguono
obiettivi di prestazione e di padronanza, come si è detto nei precedenti paragrafi: quando
lo studente intende soltanto “ottenere la sufficienza” o comunque mira ad uno specifico
voto per compiacere le autorità genitoriali, si tratta di obiettivi di prestazione; quando
invece vuole apprendere per migliorare le proprie conoscenze e competenze, si tratta di

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obiettivi di padronanza e sono più strategici per perseverare nello studio.
La sesta dimensione concerne l’ansia: si tratta di un fattore emotivo, che può essere
transitorio o stabile. L’ansia di tratto è una caratteristica stabile della personalità, nonché
pervasiva, poiché si riflette in tutte le attività, incluso lo studio. Si pone attenzione al
momento della valutazione, non riuscendo a gestirlo, ma facendosi sopraffare dal
turbamento e dall’agitazione. Richiede un intervento terapeutico profondo, dunque
possono non essere sufficienti tecniche specifiche di controllo e rilassamento.
Quando, invece, si è in presenza di un’ansia di stato, essa consiste in una
condizione di agitazione transitoria, che si presenta in determinate circostanti, come
appunto l’interrogazione o il compito in classe: non sempre è dannosa, anzi, un
quantitativo di ansia consente di mobilitare energie per affrontare più prontamente un
compito. Quando invece l’ansia è eccessiva, diventa paralizzante, producendo confusione
anche in studenti preparati e vanificando gli sforzi profusi nell’apprendimento.
La settima dimensione è l’autoefficacia: unisce percezione di efficacia e resilienza.
Chi ha un alto livello di autoefficacia è convinto di poter riuscire in un compito, dunque
è portato ad impegnarsi con fiducia, tollerando anche eventuali frustrazioni dovute alle
rinunce che può comportare lo studio e persistendo nel compito, senza arrendersi di
fronte alle difficoltà. Al contrario, chi ha basse aspettative di autoefficacia,
eventualmente rinforzate da precedenti esperienze di insuccesso, non investe in un
compito, poiché sin dall’inizio è convinto di non poterlo affrontare. Ciò si risolve
facilmente in una profezia che si auto-avvera.
Poi vi sono ulteriori dimensioni come le motivazioni, gli stili cognitivi, in quanto
ciascuno ha una predilezione per un approccio analitico ai contenuti di apprendimento,
altri ad un approcci sintetico, poi vi sono le relazioni con i compagni e con gli insegnanti,
l’organizzazione del materiale scolastico. La metacognizione è quindi un costrutto molto
complesso che include componenti di diversa natura: cognitiva, emotiva, motivazionale,
strategica.
Una ridotta attivazione metacognitiva comporta difficoltà nello svolgimento delle
attività scolastiche che richiedono una costante autovalutazione delle proprie prestazioni,
una pianificazione delle operazioni mentali da compiere, una selezione di strategie per
affrontar ei diversi compiti. Ciò può scaturire da un disinvestimento dell’attività mentale,
fonte di sofferenza, poiché conduce alla consapevolezza di conflitti e cambiamenti
difficili da affrontare: infatti, i processi metacognitivi implicano la riflessione sul proprio
sé, sui propri limiti, sul proprio mondo interiore, inducendo ad elaborare emozioni

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dolorose e relazioni conflittuali. L’area metacognitiva è condizionata, infatti, da fattori
motivazionali e dalla percezione di sé, dunque per riattivarla è opportuno predisporre
interventi rivolti al rafforzamento di questi concetti.
Il Gruppo MT di Padova ha realizzato il questionario Metacognitivo sul Metodo di
Strumenti Studio ed ha predisposto anche programmi di empowerment metacognitivo. Si tratta di
strumenti e metodi utili dalle elementari all’università, per progetti di sostegno
all’apprendimento, prevenzione della dispersione, promozione delle abilità e
valorizzazione delle attitudini.
Gli studi sulla metacognizione hanno non soltanto applicazioni dirette in ambito
educativo e scolastico, ma anche implicazioni sociali, in quanto aiutare gli studenti a
Ambiti tenersi al passo con gli apprendimenti può prevenire la dispersione scolastica,
applicativi
l’abbandono degli studi, in sintesi il destino di marginalità e devianza che spesso attende
lo studente che si allontana dal percorso scolastico regolare, senza trovare alternative nel
contesto sociale e senza aver acquisito la capacità di autoregolazione e flessibilità che
invece può essere sviluppata con l’apprendimento.

64. Una tematica socio-lavorativa – Clima e cultura organizzativa

L’organizzazione è un sistema di individui che interagiscono per raggiungere un


Definizione fine. Benché non possa essere considerata indipendentemente dall’apporto di tali
individui, può essere utile euristicamente considerarla come un soggetto dotato di una
personalità, cioè di schemi cognitivi, emotivi e sociali sostanzialmente stabili,
conoscendo i quali è possibile prevedere la reazione dell’organizzazione ad un evento.
L’organizzazione è governata da regole, procedure e obiettivi espliciti ed è
caratterizzata da ambienti, postazioni e strumenti, tuttavia, il modo di presentarsi
oggettivamente di queste dimensioni può differire dal modo in cui sono percepite
soggettivamente. Infatti, i lavoratori di un’organizzazione elaborano sensazioni e
rappresentazioni proprie dell’ambiente e della metodologia del lavoro, attribuendo
specifici significati a molti degli aspetti visibili e di quelli psicosociali: l’insieme di
queste percezioni è definito clima, che è appunto il modo in cui ciascuno si sente
all’interno dell’organizzazione, il modo personale di viverla, anche se spesso è
condiviso.
Il clima è stato studiato in diversi approcci. Per l’approccio strutturale, il clima è
una caratteristica dell’organizzazione, che esiste indipendentemente dalle percezioni

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Sintesi dei individuali dei membri. Gli autori di riferimento più recenti sono Moran & Volkwein
principali
(1988). Nell’approccio percettivo, il clima origina invece dall’individuo e dagli aspetti
autori e teorie
che per lui sono significativi. Gli autori attuali sono James, Hater, Gent, Bruner (1978).
di riferimento
Nell’approccio interattivo, il clima scaturisce dall’interazione tra soggetti, relazioni,
contesto. Questa posizione è sostenuta da Gavin (1975) e George e Bishop (1971).
Attualmente, prevale una visione integrata del clima.
Il clima è considerato l’insieme di significati e fantasie implicite, informali, spesso
inconsapevoli, da parte dei membri di un’organizzazione, che possono essere esplorate e
raccolte attraverso interviste, questionari, scale di valutazione. Una volta raccolte e
classificate queste percezioni, si ottiene una sorta di profilo dell’organizzazione che è
equivalente alla personalità per un soggetto: si rilevano gli schemi di pensiero e di
comportamento abitualmente seguiti e relativamente stabili, che consentono di
relazionarsi con più efficacia con l’organizzazione e di prevedere come reagirà rispetto
ad un cambiamento.
La cultura è invece un concetto più antropologico che psicologico, poiché è
Teoria l’insieme di miti, simboli, significati e principi tipici di un’organizzazione, che si sono
approfondita
sviluppati e sedimentati nel tempo e poi sono stati trasmessi ai nuovi lavoratori. Si tratta
(con autori,
di un patrimonio spesso irrazionale, fatto di ideologie e preconcetti, che però
esperimenti,
ecc.)
l’organizzazione conserva e preserva dal cambiamento: infatti, può cambiare il suo
aspetto più esteriore e visibile, ma è molto più faticoso e difficile modificare l’ideologia
di fondo. La cultura è stata approfondita da Schein, secondo il quale essa si articola su
più livelli: quello più esteriore, osservabile, è relativo agli artefatti, cioè agli attrezzi e
procedure esplicite e oggettivamente descrivibili, rilevabili e misurabili. Essi spiegano
come opera un’organizzazione, ma non dicono perché opera in quel modo.
Poi vi sono i valori dichiarati, cioè gli obiettivi perseguiti ufficialmente, spesso
formulati attraverso slogan suggestivi, oppure sono le strategie, le regole e tutto ciò che è
esplicito. Eppure, ciò non corrisponde all’autentico spirito di quell’azienda, che invece si
cela al di sotto ed è espresso dagli assunti di base: si tratta di presupposti, spesso
infondati e inconsci, che però influenzano i comportamento esteriori e i valori dichiarati,
spesso sono risalenti al fondatore, si sono rivelati adatti ed efficaci nei primi anni
dell’azienda e poi, anche quando non erano più adeguati, hanno comunque continuato ad
operare, modulando gli strati superiori della cultura.
Gli assunti di base sono molti resistenti al cambiamento, anzi per questo diversi
interventi di formazione e consulenza possono fallire: modificano gli artefatti o i valori

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dichiarati, ma non riescono ad arrivare in profondità “nell’anima” delle organizzazioni,
che viene protetta da qualsiasi attacco o minaccia, mentre spesso è in essa che si
annidano pregiudizi e presupposti irrazionali e responsabili di eventuali difficoltà e
fallimenti dell’organizzazione.
Anche la cultura, inclusi gli assunti di base, può essere rilevata con strumenti come
questionari, scale, nonché ricerche longitudinali che seguono l’evoluzione
dell’organizzazione oppure l’eventuale persistenza degli assunti di base, nonostante il
cambiamento negli artefatti e nei valori dichiarati. I metodi di esplorazione in questo
caso possono essere anche etnografici, poiché la cultura, come si è detto, è un concetto
antropologico, mente il clima è psicologico ed è costituito dalle percezioni soggettive.
Per valutare il clima e la cultura di un’organizzazione, è possibile utilizzare
strumenti come L’M-DOQ, questionario per la diagnosi organizzativa, oppure il Majer-
D’Amato Organizational Questionnaire, oppure il Questionario per il Benessere
Strumenti
Organizzativo, realizzato da un gruppo di ricercatori coordinato da Avallone e
Paplomatas.
I costrutti di clima e cultura organizzativa hanno ricadute applicative soprattutto
Ambiti
nella psicologia del lavoro, in quanto consentono di effettuare profili organizzativi e
applicativi
intervenire per migliorare sia le condizioni oggettive di lavoro, sia soprattutto il
benessere di quanti operano in un contesto. Può essere applicato sia in contesti lavorativi
privati che istituzionali, agevolando i passaggi intergenerazionali nelle imprese, la
comunicazione tra leader e lavoratori, il team-building.

65. Una procedura diagnostica – La diagnosi dei DSA

La procedura diagnostica è un procedimento clinico che documenta la presenza di


Definizione un deficit in grado di spiegare le problematiche di un paziente. Un esempio di procedura
diagnostica complessa è quella relativa ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento.
Tali disturbi sono intrinseci all’individuo, legati a disfunzioni del sistema nervoso
centrale e dunque risultano persistenti. La loro caratteristica principale è la “specificità”,
intesa come un disturbo che compromette significativamente uno specifico dominio di
abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Sono 3 in particolare:
dislessia, disgrafia, discalculia.
Secondo il DSM-IV, la dislessia, o disturbo della lettura, è una compromissione
significativa nell’apprendimento della lettura, nonostante istruzione adeguata, in assenza

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Teoria di deficit intellettivi, neurologici e sensoriali e con adeguate condizioni socioculturali.
approfondita
La disgrafia, o disturbo specifico della scrittura, consiste in una specifica e
(con autori,
rilevante compromissione dello sviluppo delle capacità di scrittura e compitazione, in
esperimenti,
ecc.)
assenza di una storia di disturbo specifico della lettura e non derivato da una ridotta età
mentale, da problemi di acutezza visiva o da inadeguata istruzione scolastica. Sono,
dunque, presenti, difficoltà a sillabare oralmente e a trascrivere correttamente le parole.
La discalculia, o disturbo specifico del calcolo, consiste nella compromissione
delle abilità aritmetiche non riconducibile ad un ritardo mentale, a istruzione inadeguata,
a deficit sensoriali. Il deficit riguarda le abilità di calcolo di base, cioè il
padroneggiamento delle quattro operazioni fondamentali dell’aritmetica (addizione,
sottrazione, moltiplicazione, divisione), non riguarda invece le abilità di calcolo più
astratte implicate nell’algebra, nella geometria e nella trigonometria.
Prima di illustrare la procedura diagnostica, è opportuno tracciare una
demarcazione tra difficoltà e disturbo. Con il termine “difficoltà”, si fa riferimento a una
problematica generica, vissuta in ambito scolastico, che impedisce, ostacola o rallenta il
processo di apprendimento. Tressoldi e Vio (2008) affermano che la “difficoltà” si
traduce in una prestazione scolastica , inferiore ai livelli attesi per età o per scolarità,
come si evidenzia dalla somministrazione, collettiva o individuale di prove
standardizzate.
I disturbi di apprendimento sono invece compromissioni dominio-specifiche,
strutturate e significative dell’abilità di scrittura, lettura e calcolo, presenti in soggetti con
adeguate abilità cognitive, visive e uditive e non dipendenti da deficit neurologici o
sensoriali.
Talvolta risulta difficile distinguerle, per questo occorre una procedura diagnostica
complessa, prudente e svolta da un’équipe multidisciplinare.
innanzitutto, prima di procedere all’utilizzo di strumenti, in un contesto scolastico è
possibile rilevare l’emergere di tre aspetti che possono destare nelle maestre il sospetto di
DSA: benché esse non possano fare diagnosi, perché non rientra nelle loro competenze e
mansioni, possono però essere sensibilizzate ad osservare e segnalare alcuni possibili
casi.
Tressoldi e Vio hanno, infatti, individuato tre criteri che rendono riconoscibili i
DSA e consentono di iniziare a differenziarli dalle difficoltà: condizione innata,
resistenza all’intervento, resistenza all’automatizzazione.
- Innato verso non innato. Il disturbo dell’apprendimento, a differenza della

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difficoltà, deriva da una condizione innata: molti studi hanno confermato l’ipotesi che i
soggetti con DSA presentano caratteristiche neurofunzionali specifiche sin dalla nascita,
quindi hanno un’architettura neurospicologica che non si presta all’espressione di alcune
abilità, nonostante un insegnamento efficace. La maestra può notare come, nonostante gli
sforzi e l’attenzione nell’esecuzione, il bambino non riesce ripetutamente ad imparare.
- Resistenza all’intervento. la risposta degli alunni con DSA risposta a un
insegnamento generalmente efficace, a cui a cui la maggior parte degli alunni risponde, è
infatti particolarmente inferiore ai loro pari. La maestra può notare come alcuni bambini
non riescano a stare al passo con gli altri e quindi dovrà procedere a personalizzare
l’insegnamento.
- Resistenza all’automatizzazione. Se anche dopo la personalizzazione della
didattica non si ottengono risultati, si può parlare di «resistenza» al cambiamento e si può
quindi sospettare la presenza di un disturbo. A questo punto, è possibile procedendo ad
una valutazione con strumenti clinici, che richiede un intervento specialistico.
L’approccio interdisciplinare è, comunque, la prassi clinica maggiormente
auspicabile date le caratteristiche dei DSA e delle loro implicazioni sul funzionamento
scolastico, affettivo, sociale: dunque ogni professionista dell’équipe fornisce il suo
contributo, seguendo metodologie la cui validità è sostenuta da prove empiriche ed
evitando al bambino lo stress di sottoporsi ad eccessive indagini psicometriche presso
diverse strutture.
La valutazione clinica ha come obiettivo una diagnosi, si articola in due fasi e si
pone l’obiettivo di rilevare gli indicatori di inclusione o esclusione da una categoria
nosografica. La prima fase consiste nell’anamnesi, nella somministrazione di test per
l’individuazione del livello cognitivo generale e di test specifici per l’accertamento di un
disturbo dell’apprendimento. I dati ottenuti si integrano con quelli di provenienza
pediatrica, come i bilanci di salute, giungendo alla formulazione di un’ipotesi
diagnostica. Nella seconda fase vengono predisposte indagini cliniche per confermare
tale ipotesi, escludendo la presenza di patologie o anomalie sensoriali, neurologiche,
cognitive e di gravi psicopatologie. Il tutto viene esposto in un referto scritto.
Esistono molte batterie di valutazione, ad esempio le prove del Gruppo di esperti
Strumenti MT di Padova oppure la Batteria per la valutazione della dislessia e della disortografia
evolutiva. Benché la scelta sia a discrezione del diagnosta, si auspica che ricada su
strumenti maggiormente attendibili, standardizzati e validati. Essi anno sostenuto come
sia necessario somministrare prove standardizzate di lettura che includono lettere, parole,

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
non-parole, brani, per valutare la difficoltà su più livelli di lettura. Inoltre, occorre
valutare la rapidità, l’accuratezza, la comprensione della lettura. Infine, stabilire un
indicatore psicometrico di riferimento: la perfomance è indicativa di un disturbo se si
discosta significativamente dai valori medi attesi per la classe frequentata dal bambino:
convenzionalmente la soglia di disturbo è fissata a -2ds dalla media per la velocità e al di
sotto del 5° percentile per l’accuratezza.
Per quanto riguarda il Disturbo della Scrittura, si condivide la ripartizione del
compito in una componente di natura linguistica, identificata nel deficit nei processi di
cifratura, e in una di natura motoria, consistente nel deficit nei processi di realizzazione
grafica. Occorre somministrare prove standardizzate e valutare, per la disortografia il
criterio di correttezza, costituito dal numero di errori e dalla relativa distribuzione
percentilare (al di sotto del 5° centile), mentre per la disgrafia, valutare la fluenza (- 2
dev. stand) e l’analisi qualitativa delle caratteristiche del segno grafico.
Tipicamente, il Disturbo di Scrittura si presenta in comorbilità con la dislessia o
con altri DSA: proprio per sottolineare la compresenza di questi due disturbi, si adotta la
denominazione integrata di “Disturbo Specifico di Apprendimento della Lettura e/o della
Scrittura (grafia e/o ortografia) e/o del Calcolo”.
Per quanto riguarda la discalculia, attualmente viene distinta dai profili connotati
da debolezza nella strutturazione cognitiva delle componenti di cognizione numerica,
quali sono l’intelligenza numerica basale, includente il subitizing, i meccanismi di
quantificazione, comparazione, la seriazione, le strategie di calcolo a mente, oppure altri
processi che implicano procedure esecutive come la lettura, la scrittura e la messa in
colonna dei numeri ed il calcolo, come il recupero dei fatti numerici e gli algoritmi del
calcolo scritto. Nella procedura diagnostica occorre, come nei precedenti due DSA,
somministrare prove standardizzate ed applicare il criterio di –2ds dai valori medi attesi
per l’età e/o classe frequentata nelle prove specifiche. Nei compiti di cognizione
numerica si raccomanda di valutare soprattutto la rapidità: già in età prescolare sono
rilevabili ritardi nell’intelligenza numerica, indici di possibili difficoltà di calcolo in età
scolare.
Tuttavia, è opportuno procedere oltre una diagnosi categoriale, formulando anche
una diagnosi funzionale. La Diagnosi funzionale è una procedura volta a delineare un
profilo completo del paziente, qualitativo, corredato dall’indicazione delle risorse e non
soltanto dei deficit; è più ampia, include l’esplorazione di abilità linguistiche, percettive,
prassiche, visuomotorie, attentive, mestiche, dei fattori ambientali e delle condizioni

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emotive e relazionali; è utile per la presa in carico globale e per la definizione di un PEI
(Piano Educativo Individualizzato) o un progetto riabilitativo.
Le procedure diagnostiche e funzionali sono poi completate dall’esame delle
comorbilità, per valutare la co-occorrenza di altri disturbi specifici dell’apprendimento e
la compresenza di altri disturbi evolutivi. La pratica clinica evidenzia, infatti, un’elevata
comorbilità, sia fra i disturbi specifici dell’apprendimento, sia tra tali disturbi e altre
condizioni cliniche come disprassie, disturbi del comportamento e dell’umore, ADHD,
disturbi d’ansia.
Dopo la diagnosi categoriale e funzionale di DSA, si procede con la presa in
carico, consistente in un processo integrato, continuativo e coordinato di interventi per
favorire la riduzione del disturbo e il funzionamento scolastico, sociale e affettivo del
paziente, nonché orientato allo sviluppo delle sue potenzialità.
Questa procedura così lunga e approfondita dimostra come, prima di etichettare un

Ambiti
paziente, soprattutto se si tratta di un soggetto in età evolutiva, occorre adottare la
applicativi massima prudenza, collaborare tra professionisti, individuare non soltanto i deficit, ma
anche le risorse, delineando un quadro completo del paziente. Le procedure diagnostiche
trovano applicazione soprattutto nella clinica, nella ricerca, nei contesti di valutazione
privati o istituzionali. La prudenza, la competenza e l’utilizzo di strumenti standardizzati,
consentono di intervenire precocemente per migliorare il benessere del soggetto.

66. Un fenomeno sociale: Droga e tossicodipendenze

NB: questo tema può essere “riciclato” anche per il caso clinico: qualora uscisse il
caso di un soggetto tossicodipendente, nel paragrafo iniziale sulla discussione del caso si
possono citare teorie che spiegano il fenomeno della tossicodipendenza, ne illustrano le
caratteristiche e aiutano a comprendere le motivazioni del consumo.

Il termine “droga” deriva dall’olandese “droog”, che vuol dire “cosa secca” e

Definizione
indica prodotti di origine vegetale essiccati. Nella lingua italiana, droga indica sia le
sostanze psicotrope sia le spezie per condire cibi e i negozi che le vendono (“drogherie”).
Nel linguaggio medico, la droga, insieme alla nicotina, è considerata una sostanza
psicostimolante, in quanto agisce sul sistema nervoso centrale, e psicotropa, in quanto
induce cambiamenti nei comportamenti e nei processi psicologici.
Nel linguaggio giuridico si utilizzano termini come “sostanza stupefacente” o

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
“narcotico”, che tuttavia risultano imprecisi, in quanto l’aggettivo “stupefacente” fa
Sintesi delle
riferimento all’alterazione della coscienza che tuttavia è attribuibile soltanto ad alcune
teorie
droghe (hashish, marijuana e allucinogeni), mentre narcotico fa riferimento all’effetto
anestetizzante, anch’esso proprio soltanto di alcune sostanze (morfina). Nel linguaggio
psichiatrico, si preferisce il termine “sostanze di abuso”, che include tutte quelle
sostanze, dai farmaci alle droghe illegali, che conducono a quadri clinici analoghi.
Le droghe agiscono sul sistema nervoso centrale, modificano l’equilibrio
neurotrasmettitoriale. I neurotrasmettitori sono i mediatori chimici del cervello, che
Teoria
approfondita
intervengono negli scambi comunicativi tra i neuroni. Gli effetti variano da droga a
con droga, generalmente la loro assunzione produce un iniziale effetto euforizzante, a cui
esperimento segue uno stadio di “down”, caratterizzato da improvviso abbassamento dell’umore, di
fiaccamento fisico, di stato confusionale, per alcune droghe anche deliri e allucinazioni
simili a quelle di una psicosi. Gli effetti ricercati dai consumatori variano da droga a
droga: ad alcune droghe essi chiedono alterazioni della coscienza, esperienze
allucinatorie e intensificazione delle sensazioni, ad altre chiedono euforia e disinibizione
sociale e sessuale e provano disagio quando compaiono effetti allucinatori.
Tuttavia, gli effetti indotti dalle droghe non sono dovuti soltanto ad un’alterazione
chimica e metabolica, ma sono mediati da processi psicologici: sono influenzati dalle
aspettative riguardo una droga, maturate attraverso l’informazione e i racconti di altri
consumatori; gli effetti variano inoltre in base alla situazione in cui le droghe vengono
assunte, poiché, ad esempio, i consumatori di hashish, marijuana e allucinogeni tendono
a preferire ambienti tranquilli oppure occasioni di gruppo. A questo proposito, vi sono
veri e propri “rituali” di assunzioni, costituiti da scambi e legami sociali con gli altri
consumatori.
Becker ha condotto una ricerca sul rapporto tra effetti delle droghe e fattori sociali
e culturali, osservando come, in un gruppo di consumatori, i più esperti guidino i
principianti come in un rito di iniziazione e i principianti imparano a percepire gli effetti
e a valutarli in base alle indicazioni dei “tutor”. Infatti, tra gli effetti di alcune droghe
compaiono vertigini, ronzii, giramenti di testa e sensazioni di svenimento, che possono
non risultare affatto piacevoli, ma il nuovo consumatore impara a interpretarli come
positivi e piacevoli.
Un’analoga ricerca è stata condotta tra i bevitori di alcool, rilevando una differenza
tra bevitori solitari e bevitori in compagnia: i solitari tendevano a sottolineare gli effetti
sgradevoli come perdita di lucidità e sonnolenza, mentre i bevitori in gruppo non

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percepivano questi effetti, ma percepivano soltanto sensazioni di maggiore disinibizione,
socievolezza e allegria.
Il DSM-IV, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, classifica i
disturbi dovuti all’assunzione di droghe in due gruppi: disturbi da uso e disturbi indotti.
I disturbi da uso sono la dipendenza e l’abuso. La dipendenza è una condizione
psicologica di asservimento alla sostanza, della quale non si riesce più a fare a meno e
che diventa il centro ossessivo della propria vita, ponendo in secondo piano tutto il resto
e interferendo pesantemente con l’integrazione familiare, sociale e professionale della
persona, che finisce per autoannientarsi. La dipendenza può essere fisica, psichica o
entrambe: la dipendenza fisica è dovuta all’interazione della sostanza con elementi
metabolici e neurotrasmetittoriali; la dipendenza psichica è dovuta al carattere costrittivo
del comportamento di assunzione, che si autorinforza, aumentando il desiderio della
sostanza. Si parla, a questo proposito, di “craving”, cioè “voglia”: gli stessi
tossicodipendenti dicono «mi ha ripreso la voglia» «è la voglia che mi rovina».
La dipendenza è caratterizzata da due fenomeni: assuefazione e crisi di astinenza.
L’assuefazione consiste nell’abitudine, da parte dell’organismo, alla sostanza, che spinge
ad aumentare progressivamente la dose per ottenere lo stesso livello di effetti; la crisi di
astinenza è un quadro sintomatologico caratterizzato da febbre, sudorazione, tachicardia,
tremori, che insorge quando si interrompe l’assunzione, che compare quando si
sospende, si interrompe o di diminuisce l’assunzione della droga, che aveva riconfigurato
l’equilibrio dell’organismo. La sindrome di astinenza può generare una grave
depressione che può condurre al suicidio.
L’abuso è un grave disagio legato al consumo di droghe, persistente e al di fuori
del controllo della persona, che interferisce gravemente con la sua vita consueta e lo isola
dal tessuto scolastico e sociale in cui la persona è inserita, per esporlo a contatto con la
magistratura e con la criminalità, poiché provoca problemi con le autorità giudiziarie e
legami sempre più intensi e frequenti con gli spacciatori che forniscono la sostanza.
I disturbi indotti sono di natura medica e psichiatrica e includono l’intossicazione,
l’astinenza e altri disturbi tossici. L’intossicazione è la compromissione dell’organismo
dovuta all’assunzione di una droga e si esprime mediante sintomi come la sonnolenza o
l’apatia. In genere si verifica dopo l’assunzione di una dose eccessiva, dovuta al fatto che
il principiante sbaglia la misurazione o si confronta con consumatori più abituali che
quindi aumentano il dosaggio in conseguenza dell’assuefazione oppure può essere
dovuta alla composizione della “droga di strada”, spesso mescolata a sostanze inerti o

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nocive.
L’astinenza è un quadro sintomatologico opposto all’intossicazione e costituito da
sintomi come irrequietezza, insonnia, disturbi dell’umore, scaturiti dalla sospensione del
consumo di droga. Gli altri disturbi sono di tipo psicotico, come deliri, demenze, disturbi
dell’umore, disfunzioni sessuali.
Oltre ai disturbi, le droghe generano rischio di:
- incidenti, poiché c’è alterazione nella coscienza e nella prontezza dei riflessi che
può condurre, ad esempio, a guidare pericolosamente un’automobile oppure a compiere
movimenti non controllati, esponendosi a cadute e traumi.
- Suicidio, sia dovuto alla grave depressione che può insorgere ad esempio dolo la
sospensione dell’assunzione di cocaina oppure in conseguenza delle distorsioni
percettive che inducono a credere di vedere una scena o di avere dei poteri inconsueti e
dunque gettarsi da una finestra pensando di poter volare.
- Infezioni, dovute all’utilizzo di materiale infetto attraverso cui si può contrarre
l’AIDS, il tetano o l’epatite.
- Morte improvvisa, per incidenti cardiovascolari, frequenti specie con le
amfetamine;
- Coinvolgimento in attività criminali, poiché per approvvigionarsi si droga è
necessario stabilire contatti con il mondo dell’illegalità oppure è il consumatore stesso
che compie atti criminali per procurarsi il denaro con cui acquistare la droga.
Esistono varie modalità di consumo della droga:
- il consumo episodico, caratteristico degli “sperimentatori”, che assumono
sostanze in poche occasioni particolari, come una festa o una serata;
- il consumo regolare, più costante e programmato;
- l’abuso, più eccessivo e persistente.
Nel senso comune, si ipotizza frequentemente che un consumo episodico porti ad
un abuso, cioè che la sperimentazione rappresenti l’instradarsi in un percorso che
conduce inevitabilmente alla tossicodipendenza. Per il senso comune, questo passaggio
ha il carattere temibile incontrollabile della necessità, mentre dalle ricerche scientifiche
emerge come il legame sia presente, ma abbia il carattere di probabilità: ogni passo
compiuto dal consumo sporadico a quello più programmato facilità l’instauransi di una
dipendenza sempre più grave, tuttavia, ad ogni passo è possibile sia fermarsi, sia
procedere oltre, sia tornare indietro. Le decisioni risentono di fattori non solo individuali,
ma anche culturali e sociali. Inoltre, un fattore che espone al rischio di percorrere tutto il

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cammino è dato dalla precoce iniziazione, poiché chi assume per la prima volta droghe a
15 anni ha più probabilità di sviluppare una dipendenza rispetto a chi le sperimenta a 20
anni.
Le teorie che presuppongono un cammino obbligato dalla sperimentazione
all’abuso sono definite “teorie dell’escalation”, cioè dell’ “intensificazione” e sono state
elaborate inizialmente e principalmente negli Stati Uniti, dove però sono state compiute
anche le prime ricerche ch hanno disconfermato questa ipotesi.
È noto in particolare uno studio di Kandel del 1980, da cui è emerso come il
progredire dalla sperimentazione all’abuso abbia un carattere di probabilità e inoltre che
vi è una sequenza nell’assunzione di droghe, poiché chi assume droghe più pesanti e
pericolose generalmente ha già assunto droghe leggere e ancor prima ha assunto nicotina
o alcool, mentre è raro che si giunga direttamente alle droghe più pesanti senza prima
essere transitati per quelle più leggere. Questa sequenza si può spiegare con il fatto che le
droghe più leggere introducano nel giro delle sostante illecite, dunque rendano più
accessibili anche quelle più pesanti. Inoltre, i ragazzi che fumano e devono spesso
frequentano altri ragazzi che sono consumatori di droghe leggere e che a loro volta
conoscono ragazzi consumatori di droghe più pesanti, dunque le categorie di consumatori
vengono a stare in contatto e a “contagiarsi”, favorendo la curiosità e facilitando
l’accesso agli altri tipi di droga.
È difficile oggi stimare il numero dei consumatori di droga. Essendo sostanze
illecite, difficilmente è possibile compiere indagini intervistando direttamente i
consumatori: i dati a disposizione sono quelli diffusi dalle autorità giudiziarie, dai centri
e dalle comunità terapeutiche che prendono in carico di tossicodipendenti, dagli ospedali
che hanno conteggiato i decessi dovuti ad abuso, oppure i dati risultanti da rilevazioni a
sorpresa, come le analisi effettuate sulle urine dei ragazzi in visita per la leva militare,
che hanno documentato tracce di sostanze. Per avere una stima più completa e
rappresentativa delle dimensione del fenomeno, occorre moltiplicare i dati disponibili,
per cinque e, secondo alcuni osservatori, anche per dieci.
Il Italia, il consumo di droga si è diffuso più tardi rispetto agli Stati Uniti ed oltre
ad essere cresciuto negli anni, si è modificato qualitativamente. Negli anni Sessanta, il
consumo rientrava in un movimento più ampio di contestazione e di utopia ed era
limitato alla marijuana, all’hashish e agli allucinogeni. Negli anni Settanta, con il declino
dei movimenti ideologici e il venir meno dei progetti rivoluzionari, la droghe assumono
un altro significato sociale, di fuga e di autoterapia rispetto ai problemi concreti, come i

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conflitti familiari, la confusione di identità o l’inserimento lavorativo.
Oggi la droga non viene assunta prevalentemente da persone con disagio, ma da
giovani spesso benestanti e comunque senza particolari problemi, che vogliono
“provare”.
Quando il consumo di droga coinvolgeva una ristretta minoranza di persone, le
teorie che cercavano di spiegare e di controllare il fenomeno erano di tipo “medico”, in
quanto si sforzavano di individuare una vulnerabilità e un disturbo che predisponessero
al rischiosi diventare tossicodipendenti. In ambito psicologico clinico, si formularono
diverse teorie che risentono dell’orientamento in seno al quale nacquero: gli studi
psicoanalitici insistevano su componenti affettive, sostenendo che il potenziale
tossicodipendente fosse una persona fragile, priva di un Super-Io solido e di un Io
differenziato, ancora dipendente dalla madre, narcistica e tendenzialmente regressivo.
Gli esponenti della corrente sistemico-relazionale individuavano nella famiglia il
contesto chiave di genesi del disturbo e nei problemi di comunicazione e di interazione i
fattori determinanti per il rischio di assunzione di droga. Infatti, in ogni famiglia,
ciascuno assume un “ruolo” e nelle famiglie conflittuali e a rischio di disgregazione, il
figlio può svolgere la funzione di tenere unito il nucleo familiare, concentrando
l’attenzione su di sé per distoglierla dai conflitti coniugali: un figlio tossicodipendente è
un figlio problematico, che richiede attenzioni, dunque invischiarsi nella droga può
essere un modo per diventare un elemento problematico e in quanto tale attrarre le
energie verso di sé tenendo unita una famiglia in procinto di separarsi.
Anche in psichiatria sono stati raccolti dati sull’incidenza delle patologie in
campioni di tossicodipendenti che risulta superiore a quella riscontrata nella popolazione
normale. Tuttavia, queste tesi non sono state confermate e, riguardo le statistiche
psichiatriche, la metodologia con cui sono stati raccolti e analizzati i dati non risulta
valida poiché il campione su cui sono state effettuate le indagini non era rappresentativo
dell’intera popolazione di tossicodipendenti, ma constata di pazienti ambulatoriali,
provenienti in prevalenza dalla fasce di popolazione svantaggiate, dunque l’incidenza è
da correlare anche con questo fattore sociale.
Negli anni Settanta e Ottanta si diffusero quindi teorie alterative, che rifiutavano la
concezione di tossicodipendenza come malattia da curare e la considerazione dei
tossicodipendenti come persone affette da un disturbo che le esponeva al rischio di
drogarsi. Ciò anche perché, nel frattempo, il fenomeno della droga era diventato di
massa, dunque culturalmente e socialmente trasversale: coinvolgeva giovani di tutte le

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estrazioni sociali, anche delle classi più elevate e benestanti. Tutti dunque, potevano
essere a rischio di diventare tossicodipendenti poiché i fattori che conducevano a ciò
erano soprattutto di natura sociale e situazionale, legati alla cerchia delle frequentazioni,
delle amicizie, del luogo in cui rivive, nonché dei periodi di stress. Ciò non vuol dire che
tutti abbiano la stessa probabilità di cadere nell’abuso: vi sono infatti anche fattori
protettivi, come una personalità forte, autocontrollo, senso di autonomia ed autoefficacia,
resistenza allo stress, che rendono meno vulnerabili e meno influenzabili.
Si svilupparono dunque le “teorie del disadattamento”, che riconducevano la
tossicodipendenza ad una disfunzione del rapporto tra l’individuo e il suo ambiente.
All’interno di questo approcci si mossero Marcos e Bahr, che hanno formulatola teoria
del controllo, secondo la quale un giovane cede al consumo di droga poiché non dispone
di un autocontrollo tale da non cedere alle pressioni degli amici o dell’ambiente. Marlatt
invece sostiene che la droga consista in un modo di affrontare disagi, di rispondere ad
eventi stressanti. Infine Kaplan elabora la teoria della “difesa del sé”, secondo cui le
esperienze che minano l’immagine di sé rendano allettante il consumo di droga, poiché si
configurerebbe come un gesto di ribellione e un’occasione di rivalutazione.
Sia le teorie cliniche sia quelle del disadattamento sono affette da psicologismo, in
quanto tendono a ricondurre le motivazioni esclusivamente all’individuo e a insistere
sulle dinamiche interiori, e da patologismo, in quanto assumono come presupposto che ci
sia un funzionamento sano e un funzionamento malato da curare. Vi sono ulteriori teorie
che procedono oltre lo psicologismo e il patologismo.
Sutherland, nel 1936, nel saggio Principi di criminologia, ha esposto la
“differential association theory”, secondo cui si giunge ad assumere droga poiché si entra
in una subcultura in cui assumere droga è la norma, dunque assumerla è considerato
normale e non assumerla deviante. L’assunzione di droga non è detta
dall’anticonformismo, ma dal conformismo, dal fatto di volersi e doversi adeguare alle
norme dettate da un gruppo: non c’entrano disturbi di personalità o disagi psicosociali,
ma il fatto di appartenere o voler appartenere ad un gruppo coeso.
Nella scuola sociologica di Chicago, Becker si è soffermato sull’ “etichettamento”,
cioè sul processo sociale di categorizzazione e spesso di stigmatizzazione di un
fenomeno, formulando la “labeling theory”. Non ci sono propriamente fenomeni devianti
in sé, ma diventano tali quando la società inizia a giudicarli tali, dunque anche la
tossicodipendenza è temuta e stigmatizzata come forma di devianza poiché la società ha
attribuito ad essa questo significato.

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L’assegnazione di una categoria può risultare pericolosa e condizionare le modalità
di approccio al fenomeno, nonché i modi di percepirsi di un soggetto che rientra in una
certa categoria di comportamenti. L’etichettamento può suscitare reazioni ostili e
condurre al fallimento di interventi di prevenzione e repressione perché non sentiti dai
soggetti coinvolti come appropriati e legittimi.
Attualmente si privilegiano modelli di spiegazione multifattoriali, che non
restringono il focus attentivo su singoli elementi, ma ragionano sulle interconnessioni di
più aspetti.

67. Tra biologia e psicologia – Il cervello

Il cervello dell’uomo riepiloga l’evoluzione della specie: in esso convivono, infatti,


strutture recenti, come la corteccia cerebrale (o “neoencefalo”, cioè “cervello nuovo”),
Definizione
dove si svolgono processi di pensiero evoluti e razionali, caratteristici dell’Homo
Sapiens-Sapiens, e nuclei arcaici e profondi (o “paleonecefalo”, cioè “cervello antico”),
che costituiscono il “sistema libico” e controllano i comportamenti emotivi, istintuali e
viscerali, e che per questo è spesso definito anche “cervello emotivo”.
La parte più esterna del cervello è formata da una massa di neuroni ricca di

Teoria
circonvoluzioni, la “corteccia”, dove hanno luogo i processi cognitivi più avanzati, di
approfondita elaborazione delle informazioni e di pianificazione del comportamento razionale. È
(neurofisiolog divisa in “lobi”, cioè aree, ciascuna delle quali è specializzata in una funzione. La
ica)
corteccia è distribuita in due emisferi, interconnessi da un fascio di neuroni, il “corpo
calloso”: i due emisferi, infatti, collaborano strettamente tra di loro.
Al di sotto della corteccia, vi sono due grosse “uova” interconnesse, che formano il
talamo, il quale è una stazione di transito dell’informazione. Al di sotto del talamo, vi è
un insieme di nuclei arcaici: l’ipotalamo e la formazione reticolare. L’ipotalamo è un
bulbo che, come un termostato, regola funzioni vitali come la temperatura, la fame, la
sete, il livello di glucosio nel sangue, in sintesi, regola “l’omeostasi”, cioè l’equilibrio
dell’organismo. Insieme alla formazione reticolare, che è uno strato di neuroni, regola il
ritmo sonno-veglia e gli stati di eccitazione e di calma.
Sotto l’ipotalamo, vi è l’ipofisi, controllata in parte dall’ipotalamo stesso e che non
fa parte del sistema nervoso, ma del sistema endocrino: a differenza del sistema nervoso,
che invia messaggi elettrici, il sistema endocrino invia messaggi chimici. L’ipotalamo
dunque è un intermediario tra sistema nervoso ed endocrino.

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Nella parte più profonda dell’encefalo, vi è il sistema limbico, formato da
ippocampo ed amigdala, sua parte terminale, che regolano le emozioni,
l’immagazzinamento dei ricordi, la fissazione degli apprendimenti: per questo si
ricordano più a lungo esperienze ad alto contenuto emotivo, sia esso positivo che
negativo, piuttosto che esperienze neutre e si imparano più in fretta contenuti che
implicano un coinvolgimento emotivo, piuttosto che conoscenze neutre.
Il cervello è irrorato da una capillare rete di vasi sanguigni, che lo alimentano con
glucosio e ossigeno. Tuttavia, il cervello è dotato di un ulteriore sistema circolatorio
supplementare, costituito da quattro serbatoi, i ventricoli, ripieni di liquido, il liquor
cerebro-spinale. I primi due ventricoli sono speculari, il terzo è sottostante ai primi due e
infine il quarto è ulteriormente in basso, collegato da una cannula in cui scola il liquido
proveniente dagli altri 3 ventricoli (“acquedotto del silvio”). I ventricoli alimentano
ulteriormente il tessuto cerebrale e contribuiscono ad eliminare le scorie. Oltre al
cervello, nell’incavo tra la protuberanza del cranio e la nuca è contenuto il cervelletto,
una sorta di cervello in miniatura, che regola l’equilibrio e il movimento.
Le cellule di base del cervello sono i neuroni. I neuroni variano moltissimo per
forma e dimensioni. Nella figura sottostante si può osservare la struttura di un neurone-
tipo: La sagoma di un neurone somiglia ad un albero: ha delle radici, dette “terminali
assonici”, terminanti con dei “bottoni”. Le estremità delle radici presentano infatti piccoli
rigonfiamenti, all’interno dei quali “galleggiano” vescicole contenenti neurotrasmettitori,
cioè sostanze chimiche che fungono da “messaggeri” in quanto, alterando i potenziali
elettrici della membrana dell’assone, trasportano informazioni da un neurone all’altro.
L’informazione consiste infatti in un impulso elettrico.
Il tronco del neurone è definito “assone” ed è rivestito da una guaina lipidica, la
“mielina”, che si forma durante l’infanzia e velocizza la tramissione dell’impulso. La
mielina, come si osserva nell’illustrazione, non copre interamente l’assone, ma presenta
“strozzature”, detti “nodi”, in corrispondenza dei quali l’impulso elettrico alimenta la sua
corsa, cioè riceve un’ulteriore spinta, viaggiando venti volte più speditamente e
raggiungendo in tempi brevi l’altra estremità dell’assone, poiché acquista un andamento
a impulsi, non continuo (“conduzione saltatoria”).
La testa del neurone è definita “soma” e contiene il nucleo della cellula. Il soma del
neurone si arborizza, formando sottili terminazioni che interagiscono con i bottoni
terminali di un altro neurone, cedendo o ricevendo neurotrasmettitori: i punti di
interazione tra neuroni sono detti “sinapsi”.

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Non si tratta di punti di contatto, in quanto tra un bottone e un dendrite persiste una
fessura in cui ciascuno rilascia neurotrasmettitore o assorbe il neurotrasmettitore
rilasciato dall’altro. Questi scambi chimici innalzano o abbassano l’attività elettrica dei
neuroni, per questo le sinapsi possono essere di due tipi, “eccitatorie” o “inibitorie”.
I neuroni possono essere di tre tipi: sensoriali, motori o interneuroni. I neuroni
sensoriali ricevono informazioni dagli organi di senso e li trasmettono al cervello.
I neuroni motori formano connessioni tra muscoli e cervello Gli interneuroni
ricevono segnali da alcuni neuroni e li ritrasmettono ad altri, come in una staffetta.
Nel cervello, oltre ai neuroni, vi è anche un altro tipo di cellule: le cellule gliari.
Questo nome deriva da un sostantivo greco che vuol dire “colla”, poiché in passato si
pensava che queste cellule servissero a “legare” i neuroni, oggi invece si ha una
maggiore comprensione del loro funzionamento. Le cellule gliari, infatti, svolgono
diverse attività: rimpiazzano il vuoto lasciano dai neuroni morti; ne “digeriscono” i resti,
contribuendo dunque al metabolismo del sistema nervoso; offrono un supporto
all’arborizzazione del soma dei neuroni, spianando la strada per consentire al dendrite di
allungarsi e raggiungere nuovi neuroni con cui stabilire sinapsi; sono responsabili della
mielinizzazione dei neuroni.
Alla nascita, nel cervello sono presenti tutti i 10 miliardi circa di neuroni: si formano
tutti nei 9 mesi di gestazione, dopodiché non sono più in grado di moltiplicarsi. Eppure,
dopo la nascita, in cervello continua a cresce, passando dai circa 350 grammi del neonato
a 1,5 kg dell’adolescente. Poi, subisce modificazioni.
Innanzitutto, molti neuroni presenti alla nascita, muoiono e non vengono rimpiazzati.
Nel posto vuoto si inseriscono le cellule gliari, che aumentano, poiché, a differenza dei
neuroni, continuano a moltiplicarsi. Dunque l’aumento della massa cerebrale è dovuto
anche all’aumento del numero delle cellule gliari. Inoltre, i neuroni presenti alla nascita
subiscono due importanti modifiche: gradualmente si mielinizzano, cioè i loro assoni
vengono rivestiti da una guaina lipidica isolante che moltiplica la velocità di trasmissione
dell’impulso. In secondo luogo, si arborizzano, moltiplicando le interconnessioni tra
neuroni.
Alcuni neuroni muoiono. Si formano connessioni? In particolare, muoiono i neuroni
“inutili”, cioè quelli inadatti a rispondere all’ambiente, e si rafforzano quelli sollecitati
dagli stimoli ambientali: sono dunque le esperienze che forniscono impulsi
all’arborizzazione dei dendriti e alla creazione di nuove sinapsi, sono dunque le
sollecitazioni esterne a pungolare i neuroni a moltiplicare le ramificazioni e intensificare

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la comunicazione tra di loro, creando proprio quei circuiti che servono ad adattarsi e a
interagire con un determinando ambiente, predisponendo le risposte più appropriate.
L’ambiente non è inteso in senso letterale, come “natura”, ma in senso sociale, come
contesto di vita, che richiede dei compiti: il cervello risponde prontamente,
concentrandosi nel formare circuiti più rispondenti a specifiche richieste.
L’esperienza incide sulla struttura anatomica del cervello: anche la tua attività di
studio stimola la creazione di sinapsi e rende efficiente il tuo cervello, più complessa la
sua architettura, arricchendola di reticoli nuovi e complessi, rispetto all’infanzia in cui i
circuiti erano meno numerosi, più semplici e chiusi e coinvolgevano meno neuroni.
Questo si traduce in più possibilità di scelta, maggiore complessità nel ragionamento e
nell’interpretazione della realtà, più sensibilità nel coglierne le sfumature. In ciò risiede
anche la plasticità del cervello, cioè l’adattamento all’ambiente, che avviene
neurologicamente mediante l’aggiornamento e la creazione di sempre più numerose
connessioni sinaptiche. Il cervello, nel temo, si trasforma dunque in senso qualitativo,
diventando sempre più efficiente e adattabile, poiché non vi è un limite al numero di
sinapsi che è possibile creare. Con il tempo e l’interazione con l’ambiente, dunque, il
cervello, che alla nascita è una massa relativamente omogenea, si differenzia sempre di
più. Dunque, è difficile isolare le componenti di un comportamento, distinguerne gli
aspetti ereditati e genetici, poiché risultano inestricabilmente connessi.
Per valutare l’attività elettrica e chimica del cervello, si possono utilizzare vari
Strumenti di strumenti. L’EEG (elettroencefalogramma) rileva l’attività elettrica dell’encefalo,
valutazione
attraverso elettrodi posizionati sullo scalpo, ottenendo un tracciato. Il Test WADA, che
consiste nell’inattivazione di una certa area cerebrale con la somministrazione di un
barbiturico, per valutare a quale emisfero cerebrale corrisponda una funzione cognitiva;
l’EcortG (elettrocorticogramma), che è la registrazione dell’attività elettrica cerebrale;
l’OIS, cioè la visualizzazione di come viene rifatta all’infrarosso l’immagine del
parenchima; la Stimolazione Elettrica Diretta, che consiste nel posizionare sullo scalpo
una bobina che stimola un’area cerebrale, creando una “lesione virtuale” che
compromesse l’esecuzione di compiti.
Poi vi è la PET, tomografia ad emissione di positroni, che localizza una sostanza
somministrata al paziente per via endovenosa e marcata con isotopi radioattivi, per
visualizzare il cambio di afflusso sanguigno attraverso la misurazione della
concentrazione dell’emettitore di positroni iniettato e visualizzare così le aree in cui si
svolgono le varie attività; la fMRI, risonanza magnetica funzionale” con cui si creano

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campi magnetici nel cranio e si misurando i segnali emessi, traducendoli su una scala
“morfologica”, che assegna una forma alle aree del cervello attraversate dal campo
magnetico, dovuta alla quantità di ossigeno consumato dai neuroni.
Lo studio del cervello presenta ancora molti aspetti sconosciuti. Le conoscenze
attuali sono utili però in diversi ambiti, da quello medico e psichiatrico, per studiare
Ambiti l’effetto chimico dei farmaci, nell’età evolutiva, per studiare lo sviluppo e l’interazione
applicativi
con l’ambiente, nella clinica e nella neuropsicologia, per valutare eventuali anomalie
associate alle psicopatologie o alle disfunzioni.

68. Un tema originale - La curiosità e il comportamento esplorativo

In psicologia, la curiosità è un comportamento di ricerca attiva di informazioni,


motivato da uno stato di incertezza. Quando, infatti, non si possiedono informazioni su
Definizione
un argomento che stimola l’interesse, ci si attiva per procurarsele.
I comportamenti esplorativi sono stati classificati anche da Berlyne nel saggio
Conflitto, attivazione, creatività, pubblicato nel 1960, dove vengono distinti i
comportamenti esplorativi percettivi e i comportamenti esplorativi epistemici: i primi
sono rivolti ad esplorare l’ambiente fisico, quelli epistemici ad aumentare le conoscenze.
Affinché l’incertezza attivi la curiosità, è necessario che non sia né troppo alta né
troppo bassa, poiché se l’incertezza è eccessiva, scoraggia la ricerca di informazione,
Teoria invece se è tropo bassa, dunque se gli stimoli sono tropo vicini a quelli comunemente
approfondita
recepite, non sono in grado di innescare la curiosità. Inoltre, anche a quantità di stimoli
con
nuovi non deve essere né eccessiva, poiché sommergerebbero il soggetto e renderebbe
esperimento
faticosa la comprensione, né troppo ridotta, poiché non sarebbe sufficiente per incrinare
le certezze e le abitudini. Dunque, affinché la curiosità venga destata, gli stimoli forniti
non devono sovrabbondare, altrimenti il soggetto entra in uno stato di stress, né devono
essere troppo pochi, altrimenti il soggetto si annoia. È necessario dunque mantenere un
livello ottimale di stimolazione.
Il comportamento esplorativo consiste nell’osservare e curiosare in un ambiente
nuovo: in psicologia e in etologia si sottolinea come ciò possa sfociare nel
comportamento ludico, poiché scoprire è un’attività gratificante per il soggetto. Tuttavia,
non tutti i comportamenti esplorativi sono fini a se stessi, ma possono essere strumentali:
si può ispezionare un luogo non solo per spirito di avventura, ma anche per individuarne
vie di uscita, angoli sicuri, raccogliere informazioni per scopi pratici. In quest’ultimo

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
caso, il comportamento esplorativo non scaturisce dalla curiosità, ma è un
comportamento strumentale: si differenzia dal comportamento esplorativo di curiosità,
poiché in quest’ultimo è presente una componente di rischio e di avventura, che induce
anche ad abbandonare lo svolgimento di attività produttive per dedicarsi all’esplorazione.
La curiosità è una motivazione innata a base biologica: è presente nei mammiferi
superiori, per i quali l’adattamento all’ambiente avviene attraverso la conoscenza e
l’utilizzo di strumenti oppure negli animali che cambiano spesso habitat. Quando il
comportamento esplorativo e la curiosità vengono inibite, possono esservi conseguenze
disfunzionali a livello percettivo: sono stati compiuti esperimenti di “deprivazione
sensoriale”, isolando per alcuni tempi soggetti sperimentali in condizioni di povertà di
stimolazioni e sono state valutate le modalità percettive e gli stili cognitivi di soggetti che
naturalmente si trovano a vivere in ambienti poveri, che limitano la possibilità compiere
esperienze variegate: ad esempio, le carceri, le navicelle spaziali, la vita nei sottomarini,
le lunghe permanenze degli speleologi nelle grotte per motivi scientifici. Rimanere a
lungo in un ambiente monotono e isolato rende il pensiero più analitico e orientato ai
dettagli, la percezione, satura della monotonia, cerca compensazioni creando da se stessa
gli stimoli, attraverso allucinazioni e talvolta visioni misticheggianti.
Tuttavia, anche se la curiosità è una motivazione innata a base biologica: è presente
nei mammiferi superiori, per i quali l’adattamento all’ambiente avviene attraverso la
conoscenza e l’utilizzo di strumenti oppure negli animali che cambiano spesso habitat.
Quando il comportamento esplorativo e la curiosità vengono inibite, possono esservi
conseguenze disfunzionali a livello percettivo: sono stati compiuti esperimenti di
“deprivazione sensoriale”, isolando per alcuni tempi soggetti sperimentali in condizioni
di povertà di stimolazioni e sono state valutate le modalità percettive e gli stili cognitivi
di soggetti che naturalmente si trovano a vivere in ambienti poveri, che limitano la
possibilità compiere esperienze variegate: ad esempio, le carceri, le navicelle spaziali, la
vita nei sottomarini, le lunghe permanenze degli speleologi nelle grotte per motivi
scientifici. Rimanere a lungo in un ambiente monotono e isolato rende il pensiero più
analitico e orientato ai dettagli, la percezione, satura della monotonia, cerca
compensazioni creando da se stessa gli stimoli, attraverso allucinazioni e talvolta visioni
misticheggianti.
Un altro esperimento di Berline e Frommer del 1966 supporta empiricamente il
presupposto di base della curiosità e del comportamento esplorativo, secondo cui se non
si possiedono informazioni su un argomento che stimola l’interesse, ci si attiva per

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procurarsele. I bambini di una scuola elementare vennero divisi in due gruppi. Al primo
gruppo venne raccontata la favola della volpe e del corvo, al secondo gruppo la stessa
favola, ma sostituendo gli animali noti con animali sconosciuti, come la tayra e l’alca. Al
termine della favola, i bambini che aveva ascoltato questa seconda versione inconsueta
della favola poneva più domande dei bambini che avevano ascoltato la versione
tradizionale, come se i nomi strani avessero destato la loro attenzione e stimolato la loro
partecipazione.
Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione, poiché la curiosità e il
comportamento esplorativo sono motivazioni, essi possono emergere dai test proiettivi
come il Tat, oppure il Rorschach, oppure da inventari sugli interessi come quelli di
Kuder o da batterie per l’orientamento scolastico e professionale, dove emergono le
attitudini, le motivazioni, gli interessi e l’approccio allo studio di argomenti nuovi.
Curiosità e comportamento esplorativo hanno diversi ambiti di applicazione.
In ambito scolastico, sono importanti sia per sostenere la motivazione ad
Ambiti apprendere, sia in progetti di orientamento scolastico e professionale. In ambito sociale,
applicativi la curiosità è un motore che può influenzare e innescare cambiamenti. Deutsch e Gerard
hanno introdotto a questo proposito una distinzione tra influenza normativa e influenza
informativa. L’influenza normativa è quella esercitata dalla maggioranza, che tende a
stabilire una linea d’azione e di pensiero e a reprimere gli oppositori, per mantenere lo
status quo, cioè preservare lo stato di cose esistenti. L’influenza informativa è quella
delle minoranze, che sono portatrici di una visione alternativa e originale, che spesso
incrina la solidità della maggioranza e stimola al rinnovamento e alla revisione della
situazione esistente per trasformarla e aggiornarla. In ambito lavorativo, la curiosità e la
sperimentazione verso nuove attività e metodi, sostiene il life-long learning, cioè il
percorso di formazione e aggiornamento continuo delle competenze che è vitale
nell’attuale società dominata dai cambiamenti.

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69. Un tema attuale - La salute

Traccia. La salute psicologica: collocandosi all'interno di uno specifico ambito


della psicologia, si chiede al candidato di definire tale concetto e, successivamente,
di illustrare un modello di riferimento che ne specifichi gli aspetti teorico-
metodologici sia le problematiche applicative

NB: se preferisci sviluppare il tema in un’ottica più individuale, puoi adattare


opportunamente il tema sulla psicologia di comunità dove si evince un concetto di salute
biopsicosociale.

Attualmente, il concetto di salute psicologica sta assumendo sempre maggiore


centralità nell’ambito del lavoro e delle organizzazioni, dove storicamente è stata definita
Scelta
dell’ambito
in modi diversi. Negli anni ’30 e ’40, l’attenzione era focalizzata sugli infortuni e sui
applicativo e modi di prevenirli, negli anni ’50 e ’60 il concetto di salute si estende alle dimensioni
definizione psicologiche, negli ’70 a quelle psicosociale. Negli anni ’80 si procede oltre la salute
intesa come assenza di malattia e si delinea un nuovo concetto di Wellness, cioè di
benessere organizzativo. Negli anni ’90 si afferma il costrutto dell’Empowerment, che
procede oltre il benessere e provvede a potenziarlo, valorizzando e incrementando le
risorse delle organizzazioni.
In sintesi, storicamente, si procede da un concetto medico di salute, intesa come
prevenzione e cura delle malattie, alla conservazione attiva della salute, infine agli
interventi di formazione per promuovere stili di comportamento salutari negli ambienti di
lavoro. Inoltre, la salute, da concetto fisico-medico, diventa psicosociale, dunque non è
soltanto la medicina ad occuparsi di salute delle organizzazioni, ma è opportuno un
approccio interdisciplinare. Tale prospettiva riflette la definizione di salute dell’OMS del
1998, secondo cui la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale,
non semplicemente l’assenza di malattia o infermità”.

Teoria
Tra gli autori che oggi in Italia stanno compiendo studi e ricerche sulla salute
approfondita organizzativa, figurano Avallone e Paplomatas, che definiscono la “salute organizzativa”
con come “l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che
esperimento
animano la convivenza nei contesti di lavoro e promuovono il benessere dei lavoratori
che vi operano”. La salute organizzativa si articola in 14 dimensioni, desunte dalla
letteratura internazionale e dai resoconti di dipendenti di organizzazioni pubbliche e

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private. L'ambiente lavorativo è salubre innanzitutto se rispettare le norme igieniche,
dotando eventualmente il personale di specifiche protezioni, qualora agisca in contesti
ospedalieri o chimici che possano esporlo a sostanze nocive. In secondo luogo, “pone
obiettivi espliciti e chiari ed è coerente tra enunciati e prassi operative”, dunque adotta un
registro comunicativo chiaro e coerente, così da facilitare lo svolgimento delle mansioni,
prevenendo fraintendimenti o conflitti dovuti a messaggi ambigui o contraddetti dai fatti.
In terzo luogo, l’organizzazione salubre “riconosce e valorizza le competenze e gli
apporti dei dipendenti e stimola nuove potenzialità”: in questa dimensione si evidenzia la
promozione del collaboratore da soggetto esecutivo a soggetto attivo e creativo, da
valorizzare e non soltanto da utilizzare strumentalmente.
La quarta dimensione è l’ascolto delle istanze dei dipendenti: anche in questo caso
si elevano i lavoratori da dipendenti sottomessi, come in una logica di potere dialettica,
di tipo “schiavo-padrone”, ad interlocutori, con cui si prospetta una relazione interattiva,
dove il potere non è inteso come detenzione esclusiva del comando, ma come azione
congiunta e creativa tra collaboratori. La quinta dimensione “consiste nel mettere a
disposizione le informazioni pertinenti al lavoro”. È una logica conseguenza dello
stabilirsi di relazioni circolari e negoziali, basate sull’attiva partecipazione dei dipendenti
ai processi decisionali. La sesta dimensione prevede che l’organizzazione adotti tutte le
azioni per prevenire gli infortuni e i rischi professionali: in questa dimensione si rievoca
il concetto di sicurezza sul lavoro. La settima dimensione incoraggia l’organizzazione a
stimolare un ambiente relazionale franco e collaborativo.
L’ottava dimensione ritiene che un’organizzazione salubre debba assicurare
scorrevolezza operativa e rapidità di decisione, supportando l’azione verso gli obiettivi,
tipica di un’organizzazione orientata al problem-solving, predisposta ad adottare
soluzioni flessibili ai problemi, superando le fissità funzionali e le rigidità codificate. La
nona dimensione mantiene lo stesso tono prescrittivo: l’organizzazione assicura equità di
trattamento a livello retributivo, di assegnazione, di responsabilità e di promozione del
personale. Dunque, tutti i collaboratori hanno pari opportunità di fare carriera e sono
trattati allo stesso modo, in quanto sono stabiliti criteri chiari di avanzamento di status, di
distribuzione di compiti e di retribuzione.
La decima dimensione prevede un’organizzazione che stimoli, nei dipendenti, il
senso di utilità sociale, contribuendo a dare senso alla giornata lavorativa dei singoli e al
loro sentimento di contribuire ai risultati comuni. L’undicesima dimensione ritiene che
l’organizzazione moderna debba essere aperta all’ambiente esterno e all’innovazione

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tecnologica e culturale. La dodicesima dimensione concerne fattori di stress, in quanto
l’organizzazione deve mostrarsi capace di modulare tali fattori, impedendo carichi
eccessivi di fatica sia fisica che psicosociale. La tredicesima e penultima dimensione
descrive le caratteristiche del compito, ribadendo l’opportunità di definire con chiarezza
il contenuto del lavoro da svolgere, comunicandolo senza ambiguità e prestando ascolto
alle valutazioni di chi deve svolgerlo. L’ultima dimensione è la conflittualità: anche in
questo caso di richiama l’atteggiamento di problem-solving, nonché il ricorso alla
negoziazione, piuttosto che all’autorità, per la soluzione dei conflitti.
Queste dimensioni possono essere rilevate attraverso il Questionario
Test Multidimensionale della Salute Organizzativa, realizzato a partire da ulteriori strumenti
già esistenti, in particolare 15 questionari autocompilati e lo Stress Incident Record,
basato sullo studio del caso. Il questionario si divide in 9 parti: dati socio-anagrafici,
comfort dell’ambiente di lavoro, dimensioni della salute organizzativa, sicurezza del
lavoro, caratteristiche del lavoro, indicatori positivi e negativi di benessere lavorativo,
disturbi psicosomatici, apertura all’innovazione, suggerimenti di intervento.
Il questionario è stato somministrato a impiegati del settore privato e di quello
pubblico nell’ambito del programma “Cantieri”, a cui hanno inizialmente aderito 8
comuni, 2 ministeri, l’Inpdap, nel 2002 e 2003. Il campione è stato di 3197 soggetti con
istruzione medio-alta, età media di 44 anni, equidistribuiti sul territorio. Le dimensioni
percepite come più positive sono risultate il significato lavorativo, i rapporti con i
colleghi, l’efficienza; quelle più problematiche sono risultate l’ambiente poco
confortevole e poco sicuro, la scarsa equità, lo scarso ancoraggio delle carriere al merito
e lo scarso riconoscimento dell’impegno che spesso sfocia nello stress. Inoltre, nel
personale dei Ministeri, si aggiunge la percezione di un ambiente rigido, regolamentato,
con mansioni ripetitive.
Studi e ricerche sulla salute organizzativa rilevano come oggi la salubrità in
ambienti di lavoro riguardi la rete di relazioni che si vengono a creare tra i lavoratori,
poiché l’organizzazione non è più concepita strumentalmente solo come struttura
orientata al profitto, ma anche come contesto di autorealizzazione ed espressione delle
proprie risorse. Il concetto di salute è dunque oggi multidimensionale, non si riduce
all’assenza di disagio, ma fa riferimento alla promozione del benessere del lavoratore dal
punto di vista fisico, psicologico, sociale: questo implica una riflessione non soltanto su
questioni burocratiche e pratiche come i mansionari, quanto su questioni interpersonali e
individuali come la responsabilità, la soddisfazione e la comunicazione.

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G) Sintesi autori

70. Bruner

Jerome Bruner nacque a New York nel 1915, è caposcuola della “psicologia culturale” divulgatore in
Occidente delle tesi di Lev Vygotsky. Studiò prima alla Duke University, poi alla Harvard University di
New York, dove conseguì la laurea in Psicologia nel 1941. Nel 1945 divenne professore ad Harvard.
Studiò e pubblicò i studi sulla motivazione e sulla percezione. Nel 1956 Bruner, insieme a Goodnow ed
Austin publicò “A study of thinking”, opera di approccio cognitivista.
Nel 1966 pubblicò “Studies in cognitive growth”. Nel 1983 è stata pubblicata anche la sua
autobiografia, intitolata “In search of mind: essay in autobiography”.

Bruner approfondisce la tesi di Vygotsky, secondo cui l’apprendimento e


l’acquisizione di competenze avviene interiorizzando funzioni sociali e appropriandosi di
concetti e strumenti presenti nell’ambiente sociale e culturale. Bruner riformula questo
processo, specificando che consiste in un “prestito di coscienza” dalla persona più
competente al soggetto che impara: un esempio è l’acquisizione del linguaggio, che
avviene mimeticamente, assorbendo le parole e le modalità di comunicazione delle
persone con cui si interagisce o degli strumenti che si utilizzano. Precisamente,
l’interiorizzazione teorizzata da Vygotsky avviene quindi attraverso la mediazione di
sistemi simbolici, come il linguaggio, e di artefatti, come libri o attrezzi concreti: il
bambino amplia il suo vocabolario quanto più ascolta e dialoga con gli altri e, crescendo
e avanzando sul confine della propria zona di sviluppo prossimale, si appropria di
espressioni e concetti sempre più complessi per interpretare la realtà. Inizialmente quindi
un genitore o un insegnante fungerà da sostituto della consapevolezza, pre-organizzando
gli apprendimenti con graduale complessità. Successivamente colui che apprende
subentrerà all’insegnante, riuscendo alla fine ad imparare da solo.
L’apprendimento graduale di strutture sempre più complesse consente al bambino e
all’adulto di uscire dall’egocentrismo: a differenza di Piaget, che considerava
l’egocentrismo una caratteristica del pensiero infantile, Bruner lo estende anche agli
adulti poiché lo fa dipendere non dall’età, ma dalle esperienze e dagli apprendimenti
acquisiti. In ogni periodo della vita si può essere incapaci di assumere il punto di vista di
un altro e di collocarsi in una visuale differente per osservare un fenomeno, e si rimane
imprigionati nelle proprie opinioni: l’arricchimento strumentale e concettuale che

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avviene attraverso l’apprendimento offre invece ulteriore materiale per rivedere i propri
schemi e renderli flessibili.
L’apprendimento non si riduce infatti a un accumulo quantitativo di nozioni, ma
consiste in un cambiamento qualitativo dei concetti con cui si interpreta la realtà, che
divengono più differenziati e sofisticati, rispetto a quelli primitivi più dicotomici e rigidi:
il bambino ancora all’inizio del suo percorso di apprendimento, possiede poche categorie
in cui fa rientrare grandi blocchi di realtà, ragiona cioè in senso prevalentemente
dicotomico, bene-male, brutto-bello, bianco-nero. Procedendo, la sua visione diviene più
sfumata e variegata, in quanto le categorie si moltiplicano ed arrivano a cogliere
sfumature sempre più precise dei fenomeni.
Il risultato di un processo di apprendimento non è dunque identificato
meccanicisticamente nella conoscenza, cioè nell’aumento del numero di dati incamerati,
ma nella metaconoscenza, cioè nella differenziazione delle strutture cognitive. Per questo
l’apprendimento non avviene soltanto mediante recezione passiva di materiale trasmesso
dall’insegnante o dai libri. A questo proposito, Bruner analizza quattro modelli della
mente da cui derivano altrettante pratiche educative.
Il primo modello della mente è quello collegato all’apprendimento per imitazione: il
maestro mostra “come si fa” concretamente qualcosa e il bambino lo riproduce finché,
attraverso la ripetizione, esegue correttamente l’operazione.
Questo si verificava spesso quando gli apprendimenti legati ai mestieri erano pratici
e consistevano nel saper fare, anche senza avere coscienza degli atti, dei significati e dei
meccanismi applicati: il produrre un oggetto avveniva automaticamente, l’unica
dimensione considerata era quella pratica e non vi era una profonda riflessione
concettuale.
Il secondo modello della mente è collegato al metodo di insegnamento attraverso la
lezione d’aula: la mente del bambino si considera un contenitore vuoto, da riempire
“travasando” il contenuto da un serbatoio già pieno. La conoscenza è vista come un
corpus di nozioni da trasmettere, chiaramente individuabili, quantificabili e valutabili. La
funzione dell’insegnate è quindi di illustrare questi contenuti e il compito dello studente
è memorizzarli per poi ripeterli all’interrogazione.
Il limite risiede della concezione della conoscenza come un dato di fatto, già definito
e disponibile, che quindi passivizza il soggetto, rendendolo destinatario di un sapere fisso
e prestabilito e non attivo costruttore della conoscenza.
La terza teoria considera il soggetto che apprende non come un recipiente vuoto, ma

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come persona che arriva alla lezione avendo già acquisito pre-concezioni ingenue e
spontanee di alcune problematiche e fenomeni, formate dall’esperienza, che filtrano le
nuove concezioni e talvolta ne bloccano l’accesso: il fallimento delle lezioni d’aula,
spesso pur interessanti e chiare, risiederebbe nell’ignorare le concezioni e le modalità di
ragionamento già possedute in partenza, benché talvolta disfunzionali ed errate.
La lezione presuppone che la mente dello studente sia vuota e in essa possono essere
riversate nuovi contenuti, mentre questi trovano già “lo spazio occupato” e scivolano via.
Per far posto a nuovi apprendimenti, occorrere, secondo Bruner, rivedere e incrinare
i pre-apprendimenti derivati dall’esperienza, per integrarli o ricostruirli in modo più
complesso e funzionale: il metodo di apprendimento si basa quindi sul confronto, sullo
scambio e sul dialogo per revisionare schemi ormai irrigiditi e consolidati e ricostruire
collettivamente e in modo collaborativo nuove conoscenze. Fonte di apprendimento è il
gruppo dei pari e non l’autorità del maestro, che genera dipendenza.
I limiti di questo approccio sono l’arbitrarietà e l’eccessivo peso conferito ala
soggettività.
La quarta prospettiva continua a basarsi sullo scambio, ma non tra compagni e
insegnante, bensì con “i grandi del passato”, cioè avviene tra le conoscenze maturate
dalle esperienze e quelle sedimentate storicamente, rinvenibili in classici della letteratura,
opere artistiche e teorie particolarmente profonde che invitano il bambino ad andare oltre
le proprie sensazioni immediate e a dialogare con esperienze più complesse. Il bambino
in questo caso non apprende dunque attraverso l’interazione tra pari, che sono portatori
di esperienze simili, ma attraverso il dialogo con il passato.
Bruner conclude che non vi è, tra questi, un metodo d’insegnamento in assoluto
migliore degli altri, ma tutti possiedono aspetti utili ed auspica un’integrazione tra di
essi, cioè un approccio educativo che preveda in varia misura la lezione di un insegnante,
l’interazione con i pari, l’analisi delle teorie del passato, la pratica di alcune attività.
Purché colui che apprende sia sempre un soggetto attivo, uno scopritore più che un
passivo recettore. Egli insiste infatti sull’opportunità, nella scuola, di predisporre
occasioni di scoperta autonoma, per bilanciare una tradizione di insegnamento
rigidamente direttiva e basata quasi esclusivamente sulla trasmissione di nozioni,
impartite dall’alto, che lo studente è chiamato a leggere e saper ripetere.
L’apprendimento per scoperta richiede tempi più lunghi di quelli di una lezione
didattica e una strutturazione del percorso di apprendimento più complessa rispetto alla
routine bastata su spiegazione e interrogazione, ma produce acquisizioni più durature e

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promuove l’autoregolazione rispetto alla sottomissione e alla dipendenza dall’autorità.
I punti di forza attribuiti all’apprendimento per scoperta sono diversi.
Esso fa giungere a una conoscenza più autentica e indelebile: la scoperta, il
raggiungere autonomamente una soluzione ad un problema inizialmente produce
smarrimento rispetto all’avere una risposta già pronta e rassicurante, ma lo sforzo
maggiore conduce a vivere in modo più partecipato il processo e il prodotto
dell’apprendimento, che viene ricordato più facilmente e più a lungo rispetto ad
operazioni più meccaniche e mnemoniche come la ripetizione.
L’apprendimento per scoperta è basato su un ragionamento induttivo: non parte
dall’illustrazione formale ed esplicita di una regola, per poi applicarla, ma dalla raccolte
e riflessione sui dati, per poi ricavarne il principio generale. Questo diverso
procedimento svilupperebbe una maggiore capacità di osservazione rispetto alle pratiche
educative consuete e basate sulla spiegazione di un regola e la fissazione attraverso
esercizi prestabiliti, che sviluppano l’esecuzione meccanica. L’allenamento al
ragionamento induttivo risulterebbe più funzionale alla realtà in quanto non costituita da
cornici prestabilite in cui applicare una regola fissa, ma da situazioni ambigue da capire
analizzando e riflettendo.
L’apprendimento per scoperta sviluppa una forma mentis basata sul problem-
solving, cioè sollecita a interrogarsi e ingegnarsi per comprendere e risolvere una
situazione. Inoltre fa crescere una motivazione intrinseca: la scoperta è gratificane di per
sé, dunque l’entusiasmo per l’apprendimento non è determinato dal voto o da forme di
ricompense esterne che possono suscitare ansia e inibire la creatività, favorendo modalità
di pensiero e di comportamento di compiacenza, ma sarebbero interne e si
autoalimentano, riattivando il gusto della scoperta caratteristico dei bambini.
L’importanza conferita alle motivazioni, in special modo a quelle intrinseche, pone
Bruner in antitesi al comportamentismo, che considera gli atti cognitivi come
meccanismi basati sull’associazione e i comportamenti come plasmati da premi e
punizione e non attivati in virtù di uno stimolo interno a scoprire e apprendere. Bruner
approfondisce la natura dei processi cognitivi e dei risultati dell’apprendimento
identificandoli nei concetti, che sono gli elementi base di ogni processo cognitivo, della
memoria, dell’apprendimento, della pianificazione del comportamento, della presa di
decisione. I concetti sono categorie che racchiudono oggetti o fenomeni simili, cioè che
condividono attributi salienti. Ad esempio, il concetto di “casa” comprende diverse
tipologie di case, sia le ville, che gli appartamenti condominiali, che le baite di

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
montagna, poiché pur differenziandosi nelle dimensioni o nell’aspetto esteriore, sono
tutte strutture in cui si abita. Oltre agli attributi salienti, detti anche ricorrenti, vi sono
attributi irrilevanti, come il fatto di avere il giardino, il doppio bagno o il garage.
Secondo Bruner i concetti si ottengono attraverso un processo di astrazione e
generalizzazione delle caratteristiche salienti, processo che però risulta impegnativo e
non sempre chiaro. Anche l’inclusione di un oggetto nel relativo concetto può risultare
faticosa: non tutti i fenomeni hanno contorni netti, caratteristiche salienti subito
rilevabili, anzi possono risultare ambigui o incomprensibili e il soggetto può non disporre
di un concetto con cui classificarlo. L’istruzione allarga la mente differenziando e
moltiplicando i concetti a disposizione, per comprendere e padroneggiare più aspetti
della realtà: chi acquisisce più concetti, si esprime con più ricchezza e pianifica con più
razionalità il comportamento. Bruner considera infatti il linguaggio come il sistema
simbolico più efficace, che offre il supporto più funzionale al pensiero: il linguaggio è
“amplificatore” del pensiero e del comportamento, poiché moltiplica le possibilità di
comprendere a realtà, di ordinare una sequenza di comportamento oltre che di interagire.
Per quanto riguarda il comportamento, il sostegno offerto dal linguaggio è evidente
sin dalla fanciullezza, quando il bambino descrive ad alta voce le azioni che compie, per
avere più chiara la sequenza dei movimenti. Poi questa descrizione viene svolta
mentalmente. Per quanto riguarda le interazioni, la maggior parte di esse sono mediate
proprio dal linguaggio poiché avvengono mediante discorsi: gli adulti raccontano storie
dotate di un inizio, uno svolgimento e una fine, riflettono sugli epiloghi, verbalizzano
sentimenti. La narrazione struttura l’identità, permette di stabilire relazioni, dà forma al
pensiero e organizza il comportamento. Per questo, secondo Bruner vi è uno stretto
legame tra pensiero, linguaggio e comportamento.
Bruner attribuisce centralità alla narrazione, tanto da teorizzare due differenti stili di
pensiero, uno definito narrativo, l’altro paradigmatico. Secondo Bruner, infatti, «esistono
due tipi di funzionamento cognitivo, due modi di pensare, ognuno dei quali fornisce un
proprio metodo particolare di ordinamento dell’esperienza e di costruzione della realtà.
Questi due modi di pensare, pur essendo complementari, sono irriducibili l’uno all’altro.
Qualsiasi tentativo di ricondurli l’uno all’altro o di ignorare l’uno a vantaggio dell’altro
produce inevitabilmente l’effetto di farci perdere di vista la ricchezza e la varietà del
pensiero». Lo stile di pensiero paradigmatico è quello di tipo logico-scientifico, che
procede per gradi, è strutturato secondo sequenze logiche ricavate da passaggi necessari e
principi assoluti, è basato su una causalità lineare. È oggettivo e astorico.

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
Lo stile narrativo non mira a raggiungere una verità, ma una verosimiglianza, è
sensibile alle sfumature soggettive dell’esperienza e si esprime attraverso storie
particolari, creative, che non rispettano necessariamente le implicazioni logiche.

71. Vygotsky

Lëv Vygotsky nasce nel 1896 a Gomel, in Bielorussia. Studia e si laurea a Mosca nel 1917 in
Giurisprudenza e poi in Psicologia dell’arte. A Mosca fonda un istituto per bambini disabili e formula le
sue teorie sullo sviluppo e sul rapporto tra linguaggio, pensiero e comportamento, che pubblica nel 1934 in
Pensiero e Linguaggio. Questa sua opera principale venne messa all’indice dal regime stalinista, in quanto
non conforme alle concezioni psicologiche imperanti, di stampo comportamentista e pavloviano. Vygotsky
sottolinea l’importanza dell’interazione tra individuo e ambiente e inaugura l’orientamento psicologico
noto come “Scuola storico-culturale”. Muore di tubercolosi a Mosca nel 1934.
Dopo la morte, vennero pubblicate ulteriori sue opere: Psicologia dell’arte nel 1965 e Teoria delle
emozioni nel 1982. Le sue tesi vennero divulgate in occidente da Bruner.

La tesi centrale di Vygotsky risiede nell’influenza dei fattori socio-culturali sullo


sviluppo linguistico, cognitivo e motivazionale. Le competenze e le conoscenze vengono
quindi acquisite interagendo con gli altri e interiorizzando i modelli, i comportamenti e le
modalità di comunicazione a cui il bambino viene esposto, cioè assimilando ciò che vede
e sente all’esterno. Lo sviluppo, dunque, non si svolge deterministicamente, seguendo
stadi programmati geneticamente, né si compie meccanicamente mediante catene di
associazioni, cioè mediante n condizionamento bastato su premi e punizioni.
Alla base di ogni atto cognitivo vi è l’interazione sociale, che vede il soggetto né
completamente passivo come nel comportamentismo né completamente attivo, ma
membro di un gruppo, di una cultura e di una società. Il suo sviluppo rappresenta un
prodotto culturale, in quando risulta dall’incontro con persone, strumenti e concezioni.
Per questo non è possibili indicare competenze di base per ciascuna età, in quanto le
acquisizioni risentono della diversa stimolazione ricevuta e delle condizioni ambientali in
cui si cresce. L’apprendimento, inoltre, non avviene solo all’interno dei percorsi guidati e
strutturati come la scuola, ma in tutte le occasioni di scambio, di incontro e di
esposizione a uno stimolo, in quanto alla base degli apprendimenti vi è sempre un atto di
interiorizzazione di un qualcosa osservato, percepito e imitato dall’esterno.
A questo proposito Vygotsky identificò nei 3 anni uno spartiacque tra gli
“apprendimenti spontanei”, che avvengono esplorando liberamente l’ambiente e

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
interagendo in contesti informali, e l’”apprendimento reattivo”, cioè programmato
dall’esterno stabilendo in anticipo conoscenze e competenze da acquisire.
Compito del maestro è conciliare l’esigenza di continuare ad apprendere “per
scoperta”, sperimentando liberamente e creativamente come nella prima infanzia, e il
compiere un percorso strutturato per apprendere i contenuti del programma.
Vygotsky ha poi formulato un concetto che ha avuto ampio risalto in ambito
didattico: la zona di sviluppo prossimale.
Il bambino, con i suoi soli sforzi, raggiunge un livello di prestazione in un compito.
Per imprimere un miglioramento alle sue competenze, occorre “trainarlo” agganciandolo
direttamente alle abilità possedute: più che impartire subito un insegnamento, occorre
individuare il livello e le tipologie di conoscenze di ingresso e procedere gradualmente,
partendo dalla conoscenza più prossima a quella già posseduta e fornendo gli strumenti
per il passo successivo. Il fallimento negli insegnamenti deriverebbe da un mancato
aggancio alle giuste conoscenze di base, cioè da una mancata rilevazione del modo
spontaneo e attuale di rapportarsi del bambino a un compito.
Soltanto individuando un punto di partenza vicino alle attuali conoscenze, il
bambino può progredire: se infatti si ignorano le sue preconoscenze, vi è il rischio di
partire da un punto per lui troppo facile, quindi otterrebbe una prestazione eccellente, ma
senza apprendimento, o c’è il rischio di partire da troppo lontano, dando per scontati
alcuni prerequisiti che il bambino non ha, quindi la sua prestazione sarà scadente oppure
meccanica, cioè eseguita senza intergare la nuova conoscenza con quella già posseduta.
L’insegnamento di nuovi concetti deve perciò collocarsi in una zona intermedia tra
quella attualmente padroneggiata e quella padroneggiabile attraverso un piccolo aiuto.
Per quanto riguarda l’acquisizione del linguaggio, essa avviene per interiorizzazione,
poiché inizialmente il bambino ascolta gli altri, comprende i loro discorsi e si sforza di
appropriarsi delle parole e delle espressioni che usano per comunicare e interagire a sua
volta: il linguaggio inizialmente è sociale ed è uno strumento di comunicazione. Verso i
sei-sette anni, esso viene utilizzato anche quando il bambino è solo, per ordinare i
pensieri e guidare le azioni, commentando la sequenza di comportamenti messi in atto,
come quando un bambino gioca da solo e “descrive” a se stesso ad alta voce tutte le
operazione compiute: il linguaggio utilizzato con questa funzione, intermedia tra la
comunicazione e il pensiero, si definisce “linguaggio egocentrico” o “linguaggio
normativo”.
Gradualmente, il linguaggio diventa silenzioso, si interiorizza e diviene pensiero

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qualsiasi vendita, riproduzione, cessione, divulgazione. Ogni violazione sarà denunciata alla Polizia Postale
vero e proprio: il linguaggio cioè viene pronunciato solo mentalmente e supporta le
attività psichiche come memoria, attenzione, ragionamento.
Secondo Vygotsky dunque, il linguaggio è una competenza sociale, che viene
interiorizzata, mentre secondo Piaget, psicologo ed epistemologo, è una competenza
interiore, che viene socializzata. Piaget ipotizza dunque un percorso inverso, dall’interno
all’esterno: tutt’oggi ci sono dibattiti su quale delle due ipotesi possa risultare più
plausibile.

72. Winnicott

Donald Winnicott nasce nel 1896 nella provincia inglese del Devon. Studia Medicina a Cambridge e
si specializza in Pediatria. Nel 1923 si avvicina alla psicoanalisi e nel 1956 assume la carica di presidente
della Società Psicoanalitica inglese. I suoi studi riguardano principalmente la psicologia infantile e la
relazione diadica madre-bambino, nell’ambito della quale il sé del bambino inizia a strutturarsi. Le sue
opere più importanti sono: Il bambino e il mondo esterno (1957), Dalla pediatria alla psicoanalisi (1958),
Sviluppo affettivo e ambiente (1965), Gioco e realtà (1971), Colloqui terapeutici con i bambini (1971).
Muore a Londra nel 1971.

Donald Winnicott focalizza l’attenzione sulla diade madre-bambino, osservando la


relazione che si stabilisce tra il bambino e la principale figura che lo accudisce,
generalmente la madre. La madre, sin dalla gravidanza, “regredisce” temporaneamente
per predisporsi all’accudimento del figlio, che occuperà, per diversi mesi, la maggior
parte delle sue energie e dei suoi pensieri. Sin dal quarto mese di gravidanza, quando
riesce ad avvertire i primi movimenti del feto, la sua attenzione inizia a rivolgersi
esclusivamente sulla vitalità del figlio.
Quando il bambino nasce, diventa il centro delle preoccupazioni e delle cure della
madre, che si pone completamente al servizio dei bisogni del figlio, organizza la propria
giornata intorno ai momenti della pappa, del cambio e del bagnetto, predispone la casa in
modo funzionale ad accogliere il bambino e tutto ciò che serve alla sua cura. Gli interessi
che coltivava, le attività consuete, la sua soggettività, tutto viene posto in secondo piano.
Il bambino diventa il centro di ogni pensiero e la madre diventa ipersensibile ad ogni
segnale, ad ogni vagito, al minimo accenno di pianto o di disagio.
Questa particolare condizione psicologica della madre è definita “preoccupazione
materna primaria”: le consente di cogliere i bisogni specifici del neonato, di anticiparli,
interpretarli e soddisfarli tempestivamente. La preoccupazione materna primaria è

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dunque la profonda partecipazione della madre all’esperienze del bambino appena nato.
La madre, inoltre, predispone l’ambiente in modo da renderlo funzionale al
contenimento del bambino e alla soddisfazione dei suoi bisogni. Questo ambiente
accogliente, sia sul piano materiale che affettivo, si definisce “holding”, dall’inglese “to
hold”, “abbracciare”.
Il bambino può vivere così in uno stato di “onnipotenza soggettiva”: quando vuole il
seno, questo subito appare, come se fosse il suo desiderio a crearlo; quando ha freddo,
subito la temperatura si alza, poiché la madre aggiunge una copertina. Il bambino, in
sostanza, si illude che sia lui stesso a creare il mondo.
Tuttavia, affinché il bambino cresca in modo equilibrato, non è necessario che la
madre sia “perfetta”, accorra sempre ad ogni richiamo, riesca sempre a decifrare il
bisogno del figlio e a soddisfarlo: Winnicott formula, anzi, il concetto di “madre
sufficientemente buona”, disponibile e responsiva, ma non in modo ossessivo e
maniacale. Sperimentare minime frustrazioni consente al bambino di uscire dal senso di
onnipotenza in cui si trova immerso, dall’illusione che ad ogni bisogno segua una
soddisfazione piena e immediata, dunque inizierà a formarsi una visione più realistica del
mondo: nello spazio che inizia a crearsi tra manifestazione del bisogno e sua
soddisfacimento, il bambino acquisisce consapevolezza che non era lui a creare il
soddisfacimento, ma la sensibilità della madre.
Il bambino inizia così ad intuire che oltre alla realtà soggettiva, vi è una realtà
oggettiva, che vi sono altri soggetti con cui “contrattare” e si predisporrà ad acquisire
autonomia e controllo. Gradualmente, anche la madre uscirà da quello stato psichico di
preoccupazione primaria, che rappresenta una forma di follia temporanea, funzionale
all’accoglienza del bambino.
Inoltre, il bambino acquisisce competenze linguistiche, cognitive, emotive e motorie
che possono completare fino quasi a sostituire il contatto fisico continuo e il controllo
prossimale della madre con un controllo più distale, cioè da lontano, lasciando il
bambino muoversi nell’ambiente e la madre ritrovare spazi anche per se stessa.
È importante tuttavia che la madre non esca troppo precocemente dalla
preoccupazione primaria e che il bambino non sperimenti troppo precocemente la
disillusione. Se non può attraversare una prima fase di onnipotenza ed è costretto a una
precoce vigilanza dell’ambiente esterno, non riuscirà ad espandersi, in quanto sarà
concentrato sull’ambiente, sperimentando preoccupazioni e tensioni, dovendo negoziare
con la realtà esterna e adattarsi prematuramente a condizioni non funzionali al suo

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benessere. Un holding carente rischia di sviluppare un “falso sé” su base compiacente: il
bambino che deve preoccuparsi di affrontare subito la realtà, che è sottoposto a pressioni,
sviluppa atteggiamenti inautentici, finisce per negare se stesso e i suoi bisogni, pur di
farsi accettare dal suo ambiente.
Quando la madre è sufficientemente buona, l’holding è funzionale, il bambino
dunque prenderà consapevolezza gradualmente di una realtà oggettiva. Quando questo il
processo di consapevolezza di sé come persona autonoma, separata dalla madre, inizia a
consolidarsi, nel bambino si osservano alcuni comportamenti particolari: alcuni bambini
si affezionano a una coperta e la portano sempre con loro, protestando se viene sottratta o
semplicemente lavata a causa della perdita dell’odore assunto, oppure toccano le
orecchie della madre prima di prendere sonno, oppure abbracciano un particolare peluche
per tranquillizzarsi e addormentarsi.
Si tratta di fenomeni transizionali, cioè comportamenti che si collocano in una zona
intermedia tra il mondo interno e il mondo esterno e rivelano che il bambino sta
acquisendo consapevolezza del suo essere separato dalla madre e dal mondo e ricorre a
gesti oppure oggetti che lo accompagnino in questo passaggio da essere dipendente ad
essere autonomo. L’oggetto transizionale è uno oggetto speciale, una coperta o un
pupazzo con cui il bambino rende concretamente presente la madre anche quando questa
è assente e da cui trae sicurezza quando non c’è, imparando a stare momenti sempre più
lunghi senza di lei.

73. Erikson

Erik Erikson nasce a Francoforte nel 1902. Studia l’arte, viaggia molto, lavora come insegnante
privato presso famiglie americane trasferitesi a Vienna. Entra nel circolo freudiano, poi viene
ammessoall’Istituto Psicoanalitico Viennese. Ha come insegnante lo stesso Freud.
Nel 1933, a causa del Fascismo, si trasferisce negli Stati Uniti, diventando il primo psicoanalista
infantile di Boston. Assume ruoli di rilevanza di rilievo presso famose istituzioni: Yale, Barkeley, la
Menninger Foundation, Behavioral Sciences di Palo Alto. Erikson dimostra molteplici interessi: studia le
gravi cdei reduci dalla guerra, creando gruppi psicoterapeutici; studia l’educazione dei bambini Sioux e
Yuok; il gioco dei bambini normali e disturbati; gli adolescenti e le loro crisi di identità; il comportamento
sociale in India. Muore nel 1994.

Secondo Erikson, lo sviluppo procede lungo tutta la durata dell’esistenza.


Egli formula una teoria che abbraccia tutte le età della vita, dalla nascita alla

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vecchiaia, individuando per ciascuna di esse uno specifico compito, un “dilemma
psicosociale”, che nasce dalla relazione tra l’individuo e l’ambiente: l’individuo deve
affrontarlo e superarlo per poter accedere allo stadio successivo. Questi dilemmi
consistono in una coppia di due termini opposti: uno indica una conquista, l’altro il
fallimento.
Gli stadi non sono, come per Freud, radicati nello sviluppo biologico, ma sono
definiti da particolari modalità sociali: Erikson ha sottolineato l’importanza della
relazione individuo-ambiente e ha ipotizzato che le psicopatologie o i tratti di personalità
disfunzionali degli adulti possano avere origine nel fallimento dei compiti caratteristici
delle diverse età della vita.
Nell’infanzia, dalla nascita a un anno, l’antitesti è tra fiducia-sfiducia: il bambino
vive in un ambiente affettivo costante e prevedibile, che risponde ai suoi bisogni, su cui
può fare affidamento e da cui riceve protezione. Egli acquista sicurezza in se stesso e
fiducia di poter influenzare gli eventi. Un fallimento in questo stadio struttura un senso
del sé fragile e vulnerabile.
Nella fanciullezza, da due a tre anni, l’antitesti è tra l’antitesti è tra autonomia-
dubbio/vergogna: le acquisizioni di sviluppo come il linguaggio, il pensiero e la
locomozione rendono fiero e autonomo il bambino, ma lo espongono anche a fallimenti,
goffaggini, errori, da cui scaturisce la vergogna e il dubbio sulle proprie possibilità di
riuscita, con possibile tendenza a nascondere verità attraverso bugie e sotterfugi per non
essere scoperto e deriso. Un fallimento in questo stadio può sviluppare tratti paranoici del
carattere, come sospetti e modi di essere inautentici.
Nell’età del gioco, da quattro a cinque anni, l’antitesi è tra iniziativa-senso di colpa:
il bambino consolida le competenze acquisite e spesso le applica in modo irruento,
rompendo gli oggetti o facendo del male a fratelli e compagni di giochi. La sua
esuberanza può non essere tollerata, specie in ambito scolastico, oppure scambiata per
aggressività intenzionale, per questo il bambino può ricevere continui richiami,
disapprovazioni e punizioni che suscitano sensi di colpa. Un fallimento in questo stadio
può comportare una tendenza all’inibizione, alla repressione e alla somatizzazione della
rabbia. Nell’età scolare, dai sei ai dodici anni, l’antitesti è tra industriosità-senso di
inferiorità: il bambino fa il suo ingresso a scuola, dove si misura con gli altri e si cimenta
in compiti di apprendimento. Egli prova a rispondere a queste nuove richieste e se
incontra difficoltà, può sentirsi inferiore e mediocre, sentirsi demotivato oppure
comportarsi in modo meccanico e distaccato.

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Un fallimento in questo stadio può innescare rassegnazione, passività e
conformismo.
Nell’adolescenza, dai tredici ai diciotto anni, l’antitesti è tra identità-diffusione
dell’identità: il ragazzo deve elaborare le molteplici trasformazioni corporee, cognitive e
sociali ed emanciparsi dalla famiglia delineando una propria identità. Una difficoltà in
questo compito può portare ad esperienze estreme o a identificazioni con modelli
numerosi e contraddittori, fino a sfociare nel delirio.
Nel giovane adulto, dai diciannove ai venticinque anni, l’antitesti è tra intimità-
isolamento: l’identità risulta delineata e dunque si cerca un’altra identità in cui
rispecchiarsi, che offra una validazione di se stessi, con cui stabilire una relazione intima.
Difficoltà in questo compito possono portare ad esperienze impulsive, che alternano
idealizzazioni a svalutazioni, oppure all’isolamento, allorché si evita di mettersi in gioco
nelle relazioni per paura dei fallimenti e ci si chiude in se stessi.
Nell’età adulta, dai ventisei ai quaranta anni, l’antitesti è tra generatività-
stagnazione: si ha il desiderio di creare, non solo sul piano familiare, nel senso di
generare figli, ma anche sul piano lavorativo, e più generalmente sociale. Si desidera
sentirsi utili e mettere a disposizione la propria esperienza. Altrimenti insorge la classica
domanda: «cosa ho fatto nella mia vita?» e si prova un senso di sterilità e
insoddisfazione.
Nella maturità e vecchiaia, dai quaranta anni in posi, l’antitesti è tra integrità dell’Io-
disperazione: il tempo e le energie rimanenti sono minori di quelle già spese, per cui
viene a diminuire la progettualità a favore di riflessioni sul passato e bilanci. Se non si
giunge all’accettazione della propria vita, può scaturire senso di disperazione, accentuato
dalla paura della morte.

74. Brofenbrenner

Lo psicologo americano contemporaneo Urie Bronfenbrenner delinea un modello


ecologico dello sviluppo che pone l’accento sull’interazione individuo-ambiente,
cercando di rilevare i fattori che influenzano il percorso di crescita e che appartengono
ad ambiti sociali e fisici più remoti rispetto a quelli immediatamente esperiti, come la
famiglia o la scuola.
Bronfenbrenner sostiene che il bambino che cresce non sia una “tabula rasa”
plasmata dall’ambiente, ma neppure un soggetto la cui crescita è regolata da spinte

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endogene e che segue tappe di crescita fisse e uguagli agli altri: il bambino risente invece
di una molteplicità di influenze, in quanto è inserito in più contesti di vita. L’insieme dei
contesti di vita è raffigurabile come quattro cerchi concentrici:
- il microsistema: è l’ambiente di sviluppo prossimale, cioè le situazioni che il
bambino vive in famiglia o a scuola, a contatto con le figure che si prendono cura di lui;
- il mesosistema è la relazione tra gli ambienti di sviluppo prossimali, cioè il
rapporto tra scuola, famiglia, gruppo dei pari.
- l’esosistema si riferisce a situazioni in cui il bambino non è direttamente coinvolto
ma da cui viene comunque influenzato.
- il macrosistema, che ingloba tutto gli altri sistemi ed è rappresentato dalla cultura,
dalla politica e dalle istituzioni: anche questo sistema condiziona lo sviluppo del
bambino, in quanto uno stato può attivare o meno politiche si sostegno alla famiglia,
mediante bonus economici oppure servizi sanitari e assistenziali che vengono incontro ai
bisogni della famiglia, come gli asili nidi. Anche questo influirà sulle scelte compiute dai
genitori e si ripercuoterà sull’organizzazione delle avita del bambino.
L’approccio ecologico ha modificato l’impostazione lineare causa-effetto che ha
caratterizzato la ricerca nella prima metà del secolo scorso, assumendo una prospettiva di
tipo circolare, che sottolinea l’importanza del contesto da cui non può essere isolato
alcun soggetto. Ciascun soggetto è inserito contemporaneamente in più microsistemi e,
nel corso della vita, entra ed esce da nuovi sistemi, come illustrato sotto:
I microambienti prossimali di un bambino possono essere la scuola, la famiglia e il
gruppo dei pari, poiché in essi trascorre più tempo e da essi viene influenzato di più e più
direttamente. Vi è inoltre una parziale sovrapposizione tra cerchio delle a scuola e del
gruppo dei pari poiché gli amici che costituiscono il gruppo dei pari possono coincidere
in parte con i compagni di classe. Anche i cerchi dell’esosistema dell’ambiente di lavoro
materno e paterno si sovrappongono parzialmente con il macrosistema istituzionale in
quanto gli orari di lavoro e il salario sono influenzati dalle politiche economiche e
ricadono sul mesosistema di relazioni tra scuola e famiglia in quanto, ad esempio,
condizionano il tempo trascorso in casa.
Lo sviluppo del bambino risulta dunque dall’interazione con soggetti che
assumono diversi ruoli: il bambino struttura la sua personalità entrando in contatto con
diverse figure e compiendo una gamma di esperienze. I cambiamenti di ruolo e di
situazione ambientale che modificano la posizione di un soggetto nel contesto in cui vive
si definiscono “transizioni ecologiche”: ad esempio, un bambino, crescendo e divenendo

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adulto e poi genitore, modifica il suo ruolo, poiché da accudito, diviene accudente;
inoltre, esce dal microsistema famigliare originario per crearne uno nuovo proprio ed
entra in un mesosistema nuovo, quello professionale; infine modifica anche il suo
rapporto con il macrosistema, in quanto può scegliere di usufruire di alcuni servizi
oppure di accettare o rielaborare alcuni assunti culturali.

75. Bandura

Bandura è un esponente dell’approccio social-cognitivo, una delle principali teorie


attuali che ha cercato di includere l’analisi delle situazioni nella psicologia della
personalità. Questo sforzo era stato prima compiuto dall’interazionismo simbolico di
Mead (1934), secondo cui le persone contribuiscono a definire attivamente la situazione
in cui si trovano. Le situazioni, infatti, non esercitano un’influenza diretta sulla persona,
ma i loro effetti sono mediati dall’elaborazione simbolica svolta dagli individui coinvolti
nell’azione e inseriti in un contesto sociale.
Anche la teoria social-cognitiva di Bandura sottolinea la vicendevole influenza tra
soggetto e contesto. Il principio esplicativo alla base della sua posizione è il
“determinismo triadico reciproco” (Bandura, 1978, 1986): si tratta di una teoria
dell’agenticità, cioè di una teoria che studia la capacità del soggetto di considerarsi
responsabile delle sue azioni e degli eventi che accadono, la sua percezione di averne il
controllo e poterli influenzare o determinare.
L’agenticità è propria sia degli individui che dei gruppi. Bandura osserva infatti
che esistono tre tipi di elementi che si influenzano reciprocamente e spiegano la
condotta: la persona, il suo comportamento, l’ambiente in cui agisce. Tali fattori
agiscono l’uno sull’altro in varia misura, in base alle attività e alle circostanze, dunque il
soggetto non agisce isolatamente, ma è inserito in una rete in cui è causa ed effetto del
suo comportamento.
Il contesto è l’insieme delle strutture sociali esistenti, che tende a regolamentare
l’azione dei singoli, ma a loro volta sono ideate e gestite dai soggetti che vengono a
interagire con altri soggetti. I soggetti con elevato grado di agenticità riescono a cogliere
le opportunità offerte dalle strutture sociali, ad introdurre una variabilità personale nella
rete, che innesca un circolo triadico di risposte e influenze, pur rimanendo all’interno
delle coordinate già date. Le persone con bassa agenticità tendono a comportarsi
passivamente, farsi guidare totalmente dalle strutture e incolparle in caso di insuccesso

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personale. Essere un agente attivo implica compiere scelte autonome (in ambito affettivo,
formativo, professionale), riconoscere che il risultato scaturisce dal proprio impegno,
monitorare la propria attività, adattando flessibilmente le strategie per raggiungere un
obiettivo, incidendo sugli eventi ed esercitando un controllo sulle fasi di un’attività, più
che lasciandosi condizionare e guidare da fattori esterni.
Bandura ha approfondito anche un altro concetto, l’autoefficacia, differente sia
dall’autostima, che dal Sé. Infatti, il concetto di Sé è di natura comparativa, scaturisce dal
confronto con gli altri e dalla constatazione delle reciproche differenze e competenze,
l’autostima è il senso globale del proprio valore (Coopersmith, 1967), infine
l’autoefficacia è l’autovalutazione della propria possibilità di riuscita in un compito
specifico. L’autoefficacia dipende dall’esperienza passata, dalle aspettative,
dall’attribuzione di causalità (se si attribuisce la responsabilità di un evento alla propria
responsabilità o a forze esterne non controllabili), da un’esperienza di riuscita in compiti
di crescente difficoltà. L’autoefficacia influenza la scelta di un’attività, la pianificazione
delle azioni, la perseveranza nell’eseguirle e nel regolare i propri sforzi per conseguire un
obiettivo. La persona con elevata autoefficacia sa prevedere le sue prestazioni in un
compito, poiché è consapevole delle sue risorse e dei suoi limiti, dunque comprende in
quali attività può riuscire con successo e in quali rischia di fallire. La scelta di un
soggetto di aderire ad un modello si comportamento deriva dall’interazione tra fattori
cognitivi, comportamentali e contestuali. I fattori cognitivi sono costituiti dalle strutture
di pensiero, di pianificazione, di elaborazione del soggetto; i fattori comportamentali
sono rappresentati dai pattern di azione attuati; quelli contestuali sono costituiti dalle
influenze sociali provenienti dal contesto in cui il soggetto è inserito.
A questo proposito, occorre precisare come il contesto non sia concettualizzato
come un ambiente che si impone unidirezionalmente al soggetto, ma si distinguono tre
tipi di contesto: imposto, selezionato e costruito. Il tipo di contesto di ciascun soggetto
dipende dal grado di agenticità del soggetto stesso e dal grado di prescrittività delle
norme vigenti. Infatti, i contesti imposti sono caratterizzati da leggi sociali rigide che
possono escludere le donne da determinate carriere, richiedere specifiche prestazioni ai
due generi, instradarli rigidamente verso percorsi prestabiliti, indipendentemente dalle
potenzialità dei soggetti. I contesti selezionati concedono margini di scelta ai soggetti,
consentendo di regolare il proprio contesto e “crearlo” in varia misura attraverso il
proprio comportamento. Infine, il contesto costruito è una potenzialità che ciascuno si
prefigura ed eventualmente cerca di realizzare, come accade nel gioco simbolico dei

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bambini, dove si formulano opzioni di comportamento che poi si sperimentano in un
momento successivo (Maccoby, 1990). Il contesto effettivo in cui il soggetto è inserito è
un misto di contesto imposto, selezionato e costruito.
Secondo Bandura, l’interazione tra strutture cognitive, comportamento e contesto
determina l’acquisizione dei comportamenti in tre modi: il primo modo è il
modellamento, cioè l’osservazione e l’imitazione di comportamenti degli adulti o dei pari
o di modelli trasmessi dai mass-media. In secondo luogo, attraverso l’approvazione o la
disapprovazione sociale riferita ad una scelta, poiché le reazioni sociali sono una fonte di
chiarificazione nell’elaborare le informazioni. Infine, il terzo modo è l’intuizione, cioè la
comprensione dell’adeguatezza di un comportamento in un contesto, in assenza di
un’esplicita valutazione sociale, basandosi sulla generalizzazione di episodi specifici.
Di questi tre modi, il modellamento è presente sin dalla nascita, invece l’utilizzo
della valutazione sociale è presente nell’infanzia, quando il bambino sperimenta un
comportamento e registra la reazione degli adulti, ripetendolo se viene rinforzato e
utilizzandolo per predire l’adeguatezza di successive scelte. Invece, l’intuizione si
sviluppa nel tempo, quando il bambino ha un repertorio ricco di episodi osservati e che
può utilizzare come base per fare generalizzazioni.
Inoltre, l’imitazione di un comportamento osservato è più semplice, invece la
comprensione degli effetti di un comportamento richiede un processo di astrazione più
lungo e laborioso. Inoltre, si è rilevato come le istruzioni verbali dirette siano meno
efficaci nel produrre un comportamento rispetto al modellamento (Rosenthal &
Zimmerman, 1978).
Tuttavia, diversi soggetti, esposti agli stessi stimoli, producono comportamenti
differenti, poiché l’osservazione, la ritenzione, la pianificazione sono guidati da strutture
cognitive differenti nei vari soggetti, nonché dalla motivazione (Bandura, 1986).
L’imitazione scaturisce dopo l’osservazione di ripetuti modelli di comportamento
approvati socialmente. E benché il modellamento sia considerato la fonte primaria di
apprendimento dei comportamenti, non è sufficiente un’unica esposizione, ma sono
necessarie ripetute osservazioni di molteplici modelli coerenti, combinando molteplici
fonti di informazione e modalità di elaborazione. Dunque, l’imitazione non è un
comportamento passivo, ma rivela un processo attivo e interattivo.
Una volta compresi e acquisiti, i comportamenti vengono mantenuti attraverso
ulteriori processi. Uno di questi è costituito dalle sanzioni sociali, dunque
dall’approvazione di comportamenti tradizionalmente connessi ad un genere e dalla

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punizione di comportamenti discordanti, influenzando la motivazione a riprodurli.
Crescendo, il bambino approfondisce la conoscenza delle regole sociali e dei modelli
presenti in un contesto, ma risente meno dell’approvazione sociale, affidandosi sempre di
più a standard personali che sono stati creati interagendo con figure significative in
contesti familiari, sociali e occupazionali.
Nella teoria social-cognitiva di Bandura, il soggetto non è, dunque, un meccanico
imitatore di ciò che osserva, ma è dotato di agenticità, filtra le informazioni, elaborando
criteri personali di azione e regola il suo comportamento autonomamente, senza farsi
plasmare totalmente dalle influenze esterne. Da ciò si deduce che si può interrompere la
trasmissione acritica di stereotipi, aumentare il senso di autoefficacia in vari modi, ad
esempio consentendo esperienze di successo, offrendo modelli che attestino la possibilità
di realizzarsi attraverso le proprie capacità, mostrando fiducia e infine riducendo le fonti
di stress. Questa operazione di innalzamento dell’autoefficacia ha ricadute anche sociali,
poiché può motivare ad una scelta formativa e professionale rispondente alle proprie
potenzialità, più che aderente agli stereotipi. L’autoefficacia si rivela, dunque, un
mediatore nella trasmissione o nell’interruzione degli stereotipi. Questo fattore non è
riferito soltanto al soggetto, ma anche alla collettività che può essere più o meno dotata
di senso di autoefficacia, influenzando le pratiche educative, sociali, politiche e familiari.
Secondo Bandura, l’estensione della prospettiva socio-cognitiva alla società
conferma come anche le differenze di genere siano un fatto sociale, non intrapsichico. Il
sommarsi di influenze cognitive e sociali accelera il passaggio dalla categorizzazione di
genere (constatazione dell’esistenza di due differenti sessi) alla differenziazione che
invece attiene alle aspettative e alle attribuzioni sociali riferite ai due sessi. Le pratiche
sociali di differenziazione si rilevano in famiglia nella scelta dell’abbigliamento e dei
giocattoli, soprattutto da parte dei padri che risultano più intolleranti rispetto alle madri
(Siegal, 1987), poi si manifestano nel gioco simbolico tra pari e sono costantemente
rinforzate dall’approvazione sociale. Anche la società contribuisce a diversificare il
grado in cui agisce il modellamento, poiché, ad esempio, richiede maggiore aderenza agli
stereotipi da parte del genere maschile rispetto a quello femminile (Slaby & Frey, 1975):
i maschi sono maggiormente motivati a comportarsi secondo gli stereotipi,
probabilmente perché ciò fa raggiungere loro uno status sociale e un potere superiore
rispetto a quello a cui possono ambire le donne.
Crescendo, aumentano le fonti di influenza e di stereotipizzazione, ma al contempo
diviene più sofisticata la struttura cognitiva che consente di opporsi ad un adeguamento

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passivo e di rielaborare criticamente i modelli, con la possibilità di discostarsi da essi,
poiché la conoscenza degli stereotipi non si traduce automaticamente in una
riproduzione, ma viene mediata dall’agenticità.

Tracce anni precedenti: ipotesi di svolgimento

Ora verranno dati suggerimenti per impostare alcune tracce “particolari”, che non
rientrano nei classici temi “Descrivi una teoria dell’Apprendimento”, ecc. Si tratta di
indicazioni generali, di possibilità, ma ovviamente possono esserci altri infiniti modi di
svolgere queste tracce. Questi temi “non convenzionali” escono spesso nelle sedi di
Padova, Milano Bicocca e Trieste, per questo ci si soffermerà sulle tracce uscite qui, ma
non è detto che questo tipo di tracce non escano anche in altre sedi. Anzi, negli ultimi
anni si tende sempre meno a dare le tracce classiche (Apprendimento, Memoria, ecc) e
sempre più a richiedere maggiori elaborazioni, combinazioni e analisi di vari argomenti.
Riorganizzando e adattando i contenuti studiati in questi 70 temi, puoi coprire anche
questo tipo di tracce.

Milano Bicocca – Tracce estratte e non estratte

In un ambito della psicologia generale il candidato ponga a confronto le principali teorie


discutendone gli aspetti applicativi

Scegliere un tema di psicologia generale. Esempio: Apprendimento. Esporre e confrontare teoria del
condizionamento classico e operante, teoria neocomportamentista dell’apprendimento latente di Tolman,
teoria dell’insight di Kholer. Sono i tre principali approcci all’apprendimento: il condizionamento osserva
il cambiamento nel comportamento esterno, il cognitivismo analizza invece i processi mentali interni
compiuti per apprendere, anche in assenza di una prestazione esterna, l’insight identifica l’apprendimento
come un’intuizione immediata, anche se conseguente ad un periodo di gestazione e di ricognizione delle
risorse del contesto.

Una teoria della psicologia generale. il candidato la descriva analiticamente nei suoi aspetti
teorici, metodologici ed applicativi e ne discuta gli aspetti critici.

Tema a scelta in cui si può scegliere uno qualunque degli argomenti di psicologia generale:
Apprendimento, Memoria, Percezione, ecc (i primi 15 temi di questo manuale).

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Nell’ambito della psicologia dello sviluppo il candidato ponga a confronto due
teorie rilevanti e ne illustri le metodologie adottate e le possibili applicazioni

Confronto tra due teorie dello sviluppo: la teoria dell’attaccamento di Bowlby, che analizza le
dinamiche affettive, la teoria psicosociale di Erikson, che analizza le dinamiche sociali. Gli ambiti
applicativi sono gli stessi, ma Bowlby osserva i fenomeni dal punto di vista della relazione di
attaccamento, cioè di una relazione affettiva privilegiata con la figura di accadimento, mentre Erikson
osserva i fenomeni dal punto di vista sociale, analizzando le interazioni tra soggetto e contesto esterno,
dove sono presenti diverse figure.

Il candidato illustri e confronti criticamente due modelli teorici nell’ambito della psicologia
generale

Si può scegliere uno qualsiasi dei temi di psicologia generale (i primi 12 di questo manuale).
Esempio: Apprendimento. Si possono mettere a confronto la teoria dell’apprendimento latente di Tolmann
e la teoria dell’insight di Kohler.

Il candidato presenti e discuta criticamente una teoria o una ricerca psicologica che abbia
dato un contributo significativo sul piano scientifico

Si può scegliere la teoria dell’attaccamento in quanto ha consentito di operazionalizzare i pattern di


relazione affettiva tra caregiver e bambino, rendendo tali pattern osservabili e valutabili anche con appositi
strumenti. Si può quindi citare l’esperimento della Ainsworth.
Oppure si può parlare dell’esperimento di Darley e Latanè sull’Effetto Spettatore che consente oggi
di comprendere le cause dei comportamenti sociali.
Oppure si può parlare della Metacognizione.
In realtà questa è una traccia molto libera, si può scegliere uno qualsiasi dei temi di psicologia
generale poiché in tutti viene riportata una teoria e un esperimento importante che ha chiarito funzioni,
processi, dinamiche, ecc. (esempio: la teoria tripartita della Memoria con i relativi esperimenti, la Teoria
dell’Apprendimento sociale di Bandura con l’esperimento di Bobo Doll, ecc).

Il candidato illustri lo sviluppo scientifico della disciplina psicologica relativamente a un


ambito specifico.

Questa traccia chiede di descrivere come si è evoluta la psicologia in un ambito. Ad esempio si


possono descrivere le teorie dell’apprendimento sottolineando come si è evoluta la concezione
dell’apprendimento, da esteriore ed osservabile, a cognitivo, a intuitivo, fino ad una concezione attuale
integrata. Oppure come si è sviluppata l’intelligenza, da una concezione metrica e unitaria, ad una
differenziata e pluralistica. Anche qui basta scegliere uno dei primi 12 temi esponendo sia la teoria
descritta approfonditamente sia le altre teoria riportate.

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Lo sviluppo cognitivo del bambino: prospettive a confronto

In questa traccia si possono confrontare: lo sviluppo di Piaget con lo sviluppo secondo Vigotsky:
mentre Piaget si sofferma su uno sviluppo genetico, predeterminato, Vigotsky evidenzia l’influenza della
cultura, del contesto e delle interazioni. Volendo, si può riportare anche la teoria di Bruner dei concetti.

Padova – Tracce estratte e non estratte

La psicologia studia e opera su individui e su sistemi di individui, che sono tipicamente


strutture di carattere dinamico, soggette a costante evoluzione nel corso della loro esistenza. La
candidata/Il candidato illustri in generale l’importanza della dimensione temporale (diacronica,
longitudinale, evolutiva) nella scienza psicologica: Scelga poi uno specifico settore della psicologia
(ad esempio, processi di conoscenza e di apprendimento, oppure strutture e dinamiche sociali,
oppure paradigmi di psicologia clinica, ecc.), ed in rapporto ad esso richiami determinati problemi
e/o risultati significativi che coinvolgano in posizione critica i concetti di cambiamento, dinamicità,
sviluppo.

Qui si poteva utilizzare il tema sull’invecchiamento o sull’adolescenza oppure su Erikson.

Quella seguente è una citazione da un manuale di psicologia generale: “La ricerca psicologica
– che viene svolta prevalentemente in contesti accademici – è in larga misura protesa all’ideazione di
strumenti d’indagine che aiutino lo psicologo ad isolare le sorgenti mentali di un certo
comportamento. In ambito applicativo – ovvero, in contesti prevalentemente extra - accademici – gli
sforzi degli operatori sono indirizzati ad un utilizzo coerente degli strumenti d’indagine a loro
disposizione con l’obiettivo d’individuare le modalità più efficaci per intervenire sul comportamento,
correggendolo se deviante, indirizzandolo e plasmandolo in modo appropriato se in fase di
formazione, operandone qualche forma di selezione sulla base di criteri aziendalistici,e così via.” Il/la
candidato/a, assumendo la prospettiva d’analisi così indicata, e facendo riferimento a qualcuno dei
settori caratteristici dell’intervento psicologico (ad es.: settore di psicologia clinica, oppure settore di
psicologia dello sviluppo e della formazione, oppure settore di psicologia del lavoro, o qualsiasi altro
settore di propria scelta), descriva in forma breve ma documentata lo stato dei rapporti tra
progresso scientifico e attività operativa nell’ambito di tale settore psicologico, segnali le acquisizioni
scientifiche che – a suo parere – si sono dimostrate maggiormente fruttuose sul piano operativo
all’interno del settore, specifichi eventuali fattori che impediscono una integrazione ottimale tra le
due componenti (progresso scientifico e pratica operativa), suggerisca in base alla propria
competenza ed esperienza idee concrete per un miglioramento dell’interazione tra le componenti
medesime.

Qui si poteva utilizzare il tema sulla ricerca psicologica, quello sul confronto tra test oppure
psicologo e i suoi strumenti.

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Nella psicologia applicata a casi o situazioni reali, i concetti di “presa di coscienza del
problema” e di “intervento operativo sul problema” identificano due momenti fondamentali
dell’attività caratteristica di uno psicologo. Il/la candidato/a faccia riferimento ad uno dei settori
tipici di intervento della psicologia (ad es.:età evolutiva, oppure psicologia clinica, oppure
problematiche sociali, oppure contesti lavorativi, o altro settore rilevante di propria scelta), e in
rapporto ad esso spieghi il significato concreto dei due momenti suddetti (ossia, presa di conoscenza
del problema e intervento operativo sul problema), analizzi l’interdipendenza tra i due momenti,
descriva in maniera sintetica ma documentata le difficoltà implicite all’uno e all’altro, le categorie
dei metodi e strumenti disponibili, i criteri per la valutazione del successo e dell’insuccesso
dell’attività psicologica nei suddetti due momenti

Come sopra

La relazione tra paradigmi teorici e metodi di valutazione e di intervento in psicologia


costituisce un tema permanente e rilevante di dibattito all’interno della generale comunità di quanti
si dedicano alla ricerca e di quanti sono impegnati in attività professionali di competenza psicologica.
Succede che approcci teorici diversi tendono a distanziarsi anche sul piano dei metodi proposti per
l’indagine e l’intervento psicologici entro identici settori applicativi.
Il/la candidato/a scelga due prospettive teoriche distinte che siano risultate rilevanti per uno
stesso ambito di intervento psicologico (uno qualsiasi degli ambiti caratteristici, riguardanti processi
di sviluppo, oppure strutture e dinamiche sociali, oppure processi di conoscenza, oppure
problematiche psicologico – cliniche, ecc.), descriva in forma breve ma documentata origine e profilo
delle due prospettive scelte, si soffermi sulle differenze tra l’una e l’altra prospettiva che conducono
di fatto alla proposta di metodiche diverse per l’analisi di processi psicologici e per l’intervento
operativo sugli stessi.

Confronto tra approccio psicodinamico e approccio cognitivo comportamentale eventualmente


indicando la loro applicazione nella clinica.

1. Perché è difficile l’apprendimento di nuove conoscenze? Il/la candidato/a indichi i fattori


che possono facilitare od ostacolare l’apprendimento, facendo possibile riferimento ad uno dei
settori psicologici, ossia quello generale o evolutivo o sociale o clinico

Questo tema può essere sviluppato come un tema incrociato apprendimento/motivazione/emozione


riflettendo sull’influenza di questi due fattori sull’apprendimento

La psicologia ha fornito diversi e importanti contributi in merito ai processi di costruzione


della conoscenza da parte del soggetto, rispetto a se stesso, agli altri e al mondo. Tali attività
cognitive permettono al medesimo soggetto di interpretare, analizzare e ricordare l’informazione

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proveniente da vari contesti di vita. Il candidato scelga un determinato processo cognitivo, ne illustri
i fondamenti teorici, la metodologia d’indagine, i principali risultati conseguiti e le loro eventuali
ricadute applicative.

Qui ci si poteva soffermare sull’apprendimento, sulla memoria, sul pensiero oppure fare un tema
incrociato e combinato di questi tre, oppure svolgerlo con approccio più sociale, parlando si atteggiamenti,
pregiudizi e stereotipi

Il candidato presenti brevemente il suo settore di interesse e individui alcuni temi cruciali
teorici e\o applicativi, ancora insufficientemente indagati, che potrebbero essere oggetto di indagine
e sviluppo nei prossimi anni

Si può trattare la metacognizione, che è un costrutto molto “promettente” in ambito scientifico


psicologico, ma ancora da studiare approfonditamente

Tracce Trieste – Estratte e non estratte

Il candidato scelga uno specifico contesto (scolastico, organizz..ecc) e al suo interno situi un
progetto di valutazione dell’efficacia degli interventi diretti a sviluppare le potenzialità personali.

Ebbene, questa è proprio una traccia uscita alla prima prova! In pratica, invece che un tema, è uscito
anche alla prima prova un progetto! Per questo è utile comunque prepararsi contemporaneamente anche sul
progetto e sul caso clinico e non aspettare di iniziare solo dopo l’esito della prima prova. In questo caso,
da questo manuale puoi trarre il contenuto relativo alla ricerca psicologica e quindi alla necessità di
operazionalizzare i costrutti e di seguire impostazioni rigorose e verificabili (vedi tema sulla ricerca), dal
Manuale sui progetti puoi trarre l’importazione del progetto e la teoria sulle like skills)

La psicologia ha elaborato molteplici modelli e teorie. Il candidato illustri una teoria con gli
sviluppi recenti indicando limiti e ambiti applicativi.

Qui si poteva descrivere l’approccio psicodinamico oppure quello cognitivo-comportamentale,


analizzando punti di forza e di debolezza

Descrivere un metodo in psicologia.

Si poteva utilizzare il tema sulla ricerca svolto in questo manuale, oppure quello sul colloquio,
oppure sui test.

Illustrare una ricerca psicologica che ha particolare rilievo ed indicare: descrizione,


motivazioni dell’importanza, ulteriori studi che richiederebbe

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Ricerca di Darley e Latanè, oppure ricerca di Bandura su Bobo Doll o quelle sull’aggressività (tutte
riportate in questo manuale)

Il candidato evidenzi l’importanza del metodo nella ricerca e nell’intervento psicologico.

Anche qui, tema sulla ricerca e sui test

Metodo sperimentale e metodo clinico a confronto. Il candidato si soffermi sull’uno o


sull’altro metodo e ne individui i rispettivi punti di forza e di debolezza.

Per il metodo sperimentale, utilizzare le nozioni dei temi sui metodi quantitativi, quindi il tema sul
metodo sperimentale, sui test e sul confronto tra due test. Per il metodo clinico, utilizzare i temi sui metodi
qualitativi, quindi sul colloquio, l’osservazione, il focus group.

Hai segnalazioni, dubbi, suggerimenti? Scrivi a tutor@110elode.net


Buono Studio e in Bocca al Lupo per l’Esame di Stato!

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