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ITALIANO

NATURA - DOPPIO – TEMPO – MODERNO - DECLINO DELL’UOMO

Al centro della riflessione di Leopardi si pone un motivo pessimistico, l’infelicità dell’uomo. Egli identifica la
felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l’uomo non desidera un piacere, bensì il piacere: aspira cioè
a un piacere che sia infinito, per estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri goduti
dall’uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto
incolmabile dell’anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che è sempre gli sfugge
nasce per Leopardi l’infelicità dell’uomo, il senso della nullità di tutte le cose
L’uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice per la sua stessa costituzione.
Ma la natura, che in questa prima fase concepita da Leopardi come madre benigna e attenta al bene delle
sue creature, ha voluto offrire un rimedio all’uomo: le illusioni e l’immaginazione, grazie alle quali ha
velato agli occhi della misera creatura le sue effettive condizioni. La prima fase del pensiero Leopardiano è
tutta costruita sull’antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni.
Il progresso della civiltà, opera della ragione, ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata e ha
messo crudamente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso infelice. Il progresso della civiltà e della ragione,
spegnendo le illusioni, ha spento ogni slancio magnanimo, arreso i moderni incapaci di azioni eroiche, ha
generato viltà, meschinità, corruzione dei costumi. Dunque, la colpa dell’infelicità presente è attribuita
all’uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna.
Leopardi da un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata dall’inerzia e dal tedio.
Questa fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula pessimismo storico: allontanamento
progressivo da una condizione originaria di felicità e pienezza vitale. Ma non bisogna mai dimenticare che si
trattava pur sempre di una felicità relativa, e che Leopardi, era consapevole che la felicità antica era solo
frutto di illusione.
Leopardi si rende conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della
specie, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Ne deduce che il
male non è un semplice accidente, ma rientra nel piano stesso della natura. Si rende conto inoltre del fatto
che la natura che ha messo nell’uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo.
Leopardi attribuisce la responsabilità del male al fato; propone quindi una concezione dualistica, natura
benigna contro fato maligno. Per questo ben presto arriva la soluzione delle contraddizioni rovesciando la
sua concezione della natura. Leopardi concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente,
ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature; meccanismo anche crudele, in cui la
sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, perché gli individui devono perire per
consentire la conservazione del mondo (ad esempio gli animali devono servire da cibo ad altri animali). È
una concezione meccanicistica e materialistica, dunque la colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso,
ma solo della natura. L’uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà. Leopardi ama però
rappresentare la natura come una sorta di divinità malvagia, che opera deliberatamente per far soffrire e
distruggere le sue creature e le due rappresentazioni sono ben visibili proprio nel dialogo della natura e di
un Islandese.
Dialogo della natura e di un islandese (LA DUPLICE VISIONE DELLA NATURA)
L’operetta fu scritta nel 1824. Lo spunto fu offerto dalla storia di Jenni di Voltaire, dove, si parla delle
terribili condizioni degli islandesi, minacciati dal gelo e dal vulcano Hekla. Di qui probabilmente è venuta a
Leopardi l’idea di assumere un islandese come esempio dell’infelicità dell’uomo e dei mali che lo affliggono
per colpa della natura. L’operetta segna una fondamentale svolta nel pensiero leopardiano: proprio il
passaggio dalla concezione di una natura benefica e provvidente a quella di una natura nemica e
persecutrice. Qui l’infelicità è fatta dipendere materialisticamente dai mali esterni a cui l’uomo non è in
grado di sfuggire. L’islandese è portavoce di Leopardi, ne fa un elenco puntiglioso: i climi avversi, le
tempeste, i cataclismi, le bestie feroci e infine, il più terribile di tutti i mali perché non risparmia nessuno, la
decadenza fisica e la vecchiaia. Ricollegandoci al piano della natura e alla distruzione, indispensabile per
conservazione del mondo, l’islandese nella chiusa costituisce il cibo che permette a due leoni sfiniti dalla
fame di sopravvivere.
Si può osservare che risultano due diverse concezioni della natura due punti per l’islandese e se come
un’entità malvagia che perseguita deliberatamente le sue creature; la natura stessa invece obbietta che fa
del male senza accorgersene, in obbedienza a leggi oggettiva. In questa duplice immagine si rispecchiano
due diversi atteggiamenti dello scrittore: quello filosofico scientifico e quello poetico.
Viene così superato il dualismo che si creava tra la natura e il fato: alla natura vengono attribuite le
caratteristiche che prima erano del fato, malvagità crudele e persecutoria. Muta anche il senso
dell’infelicità umana prima concepita come assenza di piacere, ora l’infelicità è dovuta soprattutto ai mali
esterni, a cui nessuno può sfuggire. Se causa dell’infelicità è la natura stessa tutti gli uomini, in ogni tempo,
in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, in ogni tipo di società, sono necessariamente infelici; anche gli
antichi, pur essendo capaci di illudersi, erano vittime di quei terribili mali. Al pessimismo storico della prima
fase subentra così un pessimismo cosmico: nel senso che l’infelicità non è più legata ad una condizione
storica e relativa dell’uomo, ma ad una condizione assoluta, diventa un dato eterno e immutabile di natura.

La ginestra o fiore del deserto


.."Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de'
mortali madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e ...
tutti fra sè confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune."...

In questo canto il tema è quello della lotta contro la Natura. Leopardi ora esce dalla sua solitudine e ritrova
una presenza fraterna nel desolato universo: gli uomini devono guardare in faccia il destino, accettare
consapevolmente la "filosofia dolorosa ma vera", costruire un mondo fondato sulla solidarietà nel dolore, e
combattere uniti contro la natura maligna.
Come per Schopenhauer, anche per Leopardi l'uomo vive in una situazione di ignoranza e di "inganno". Il
principio sconosciuto e imperscrutabile che ha originato il cosmo, da un lato, pone l'uomo in una
condizione di strutturale dolore, dall'altro, lo vincola alla vita suscitando in
lui continue illusioni prive di fondamento e destinate a risolversi nella delusione e nel pessimismo. Che la
vita dell'uomo sia consegnata al dolore è per Leopardi conseguenza del conflitto che il soggetto sperimenta
tra l'infinitezza delle sue aspirazioni e la finitezza insuperabile delle sue possibilità di realizzazione. L'uomo,
infatti, non solo non è in grado di dominare la natura, ma è anzi succube del suo dominio che lo limita, lo
condiziona, lo fa soffrire e può annientarlo in ogni momento. L'unica possibilità di riscatto del soggetto
umano risiede, per Leopardi, nella capacità di comprendere lucidamente la propria condizione, rinunciando
a ogni illusione. Ciò significa, paradossalmente, che la sola grandezza dell'uomo consiste nel riconoscere la
propria miseria, la propria insuperabile nullità; e, infatti, l'unico vero rimedio alla sofferenza consiste per
Leopardi nella morte, cioè nell'annullamento dell'uomo

La teoria del piacere è il punto d’avvio della sua poetica, della sua concezione della poesia. Se nella realtà il
piacere infinito è irraggiungibile, l’uomo può figurarsi piaceri infiniti mediante l’immaginazione. Di
conseguenza, La realtà immaginata costituisce l’alternativa una realtà vissuta che non è che infelicità e noia.
Ciò che stimola l’immaginazione a costruire questa realtà parallela, in cui l’uomo trova illusorio a
pagamento al suo bisogno di infinito, e tutto ciò che è vago e indefinito, lontano e ignoto. Si viene a
costruire una vera e propria teoria della visione, Leopardi passa minuziosamente in rassegna tutti gli aspetti
della realtà sensibile che per il loro carattere indefinito possiedono questa forza suggestiva (perché quando
il luogo della vista, lavora l’immaginazione, il fantastico sottentra al reale. A questo punto della meditazione
leopardiana si verifica la svolta fondamentale: l’elaborazione della teoria filosofica dell’infinito. Leopardi
osserva: ‘’Quello che ho detto altrove degli effetti della luce, del suono ed altre tali sensazioni circa l’idea
dell’infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte
dalla pittura, dalla musica, dalla poesia. Dunque, il bello delle arti consiste nella scelta d tali sensazioni
indefinite da imitare.
L’infinito
Pubblicato per la prima volta con gli altri idilli (èidos, “immagine”, “quadro” ), titolo complessivo con cui
Leopardi designò alcuni componimenti, come espressione di sentimenti, affezioni; L’infinito è la
rappresentazione di uno di quei momenti privilegiati, in cui l’immaginazione strappa la mente al reale, che
è il brutto, e la immerge nell’infinito.
L'infinito di cui parla è temporale e spaziale e viene evocato tramite il limite fisico (la siepe, il fruscio del
vento) che porta il poeta da una dimensione fisica e sensoriale ad una "metafisica".
I sensi, in questo caso la vista e l'udito, conducono alla intuizione di qualcosa che è al di là.
Il paesaggio, la natura, la fisicità vengono interiorizzati ed entrano a far parte dello "spirito" del poeta, o
meglio: il poeta riesce a calarsi nell'infinito.
Parte da una visione familiare, la vista del colle, il Monte Tabor, ermo,  ma caro,  ovvero solitario ma già
appartenente alla esperienza personale del poeta, spettatore ma anche compartecipe della sua vita, così
come familiare è la siepe.
Una siepe che diventa un limite, che evoca il desiderio, l'immaginazione di ciò che il guardo esclude,  di ciò
che non si può raggiungere con il solo ausilio dei sensi. Da un connotato fisico di realtà, si risveglia
l'immaginazione di uno spazio ben più intimo.
Il poeta siede e guarda, in uno spazio senza tempo, e la sua immaginazione coglie e crea (io nel pensier mi
fingo) irterminati spazi, sovrumani silenzi  e profondissima quiete.
Leopardi ha colto, ha intuito l'infinito spaziale, che viene visto nella negazione della realtà fisica a cui è
sempre abituato. Infatti gli spazi sono interminati, i  silenzi sono sovrumani,  la quiete è profondissima.
Anche la disposizione nel verso, con l'enjambemant tra interminati  e spazi  e tra sovrumani  e silenzi  e la
dieresi su quiete  danno la sensazione di una vastità infinita;
Leopardi ha colto, ha intuito l'infinito spaziale, e questa intuizione gli dà un senso di paura (ove per poco il
cor non si spaura),  un senso di smarrimento in una dimensione mai conosciuta prima.
Il senso della vita terrena si rianima nel vento, e con esso il limite temporale dell'uomo, la morte.

La critica di Leopardi si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso; bersaglio
polemico sono inoltre le tendenze di tipo spiritualistico e neo cattolico che, tramontato l’Illuminismo, si
vanno sempre più affermando nel periodo della Restaurazione. A queste ideologie Leopardi contrappone le
proprie concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione umana, affermando
che l’infelicità e la sofferenza sono dati di natura, eterni e immodificabili. Allo spiritualismo di tipo religioso,
Leopardi contrappone il suo duro materialismo, che nega ogni speranza in un’altra vita, bollando queste
credenze come favole infantili e sciocche, al tempo stesso vili e superbe.
Le canzoni ( come Ad Angelo Mai) sono componimenti di impianto classicistico che affrontano tematiche
civili e patriottiche. La base di pensiero è costituita da quel pessimismo storico che caratterizza la visione
leopardiana in questo momento. Sono animate da aspri spunti polemici contro l’età presente, inerte e
corrotta, incapace di azioni eroiche, affogata in una nebbia di tedio; a questa polemica si contrappone
un’esaltazione dell’età antiche generose e magnanime. Il poeta comprende che questa decadenza non è
dovuta alle vicende politiche ma all’oblio da parte dei moderni. Davanti a questa situazione storica, il poeta
assume atteggiamenti titanici. Il contrasto tra antichi e moderni tocca un tema centrale del pensiero
leopardiano: l’antichità è vista come la giovinezza dell’umanità e la civiltà Moderna ha spento la ragione e
ha dissolto l’immaginazione e ha tolto all’umanità ogni slancio ogni energia.

Ultimo canto di Saffo


È un monologo lirico attribuito a Saffo, l’antica poetessa greca, Il personaggio diviene portavoce delle idee
leopardiane. A tal proposito il poeta dichiara la sua intenzione di rappresentare fare l’infelicità di un animo
delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane.

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