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7 Allora anch’io mi meraviglia di me, poiché […] [vedevo] qualcosa oltre agli oggetti esterni.
[…] Non osai parlarne ad alcuno […] fino al mio quarantesimo anno. […] Queste cose
comunicai a un monaco che mi era maestro… Stupito, mi comandò di scrivere di nascosto
queste cose […]. Comprendendo infine che venivano da Dio, […] e da allora con grande
entusiasmo collaborò con me in questo [scrivere]. […] I miei scritti furono recati a papa
Eugenio […] mandandomi con una lettera la sua benedizione, mi comandò di affidare allo
scritto qualsiasi cosa vedessi o udissi nella visione, in modo ancor più completo di prima>>.
Per via del suo dono, Ildegarda si vede chiamata al ruolo di profeta. Ella lo vede come un
compito affidatole da Sapienza, la femminile emanazione divina celebrata nei libri
“sapienziali” del Vecchio Testamento. Ildegarda avverte che non si tratta solo della sua
personale esperienza, ma che è Sapienza a parlare attraverso di lei. Ildegarda usa visio per
designare tre cose correlate: 1- la sua particolare facoltà o capacità di avere visioni; 2-
l’esperienza di questa facoltà; 3- il contenuto dell’esperienza, tutto ciò che vede nella sua
visio. Il mondo della sua visione è del tutto inconsueto: vede “nell’anima” mentre gode di
tutti i poteri della normale percezione. In tutta la sua trilogia visionaria, Ildegarda vede
immagini che si presentano come figure e segni; è illuminata dalla voce spirituale che le
spiega il significato figurale o allegorico delle immagini che vede. Dopo aver descritto la visio
e la malattia che la squassa, inizia la frase seguente con <<Da tutto ciò sfiancata…>>, non è
chiaro se intenda sfiancata della malattia o dalla visio. L’ambiguità potrebbe essere
intenzionale. Ildegarda è conscia del dono che la rende unica, al tempo stesso ha paura di
sembrare presuntuosa o ridicola. Il primo passo verso la sicurezza è dato dall’amicizia per
una insegnante: Jutta di Sponheim. La natura e la portata dell’aiuto di Volmar (monaco di cui
si fidava) sono state molto discusse: Ildegarda accolse di buon grado le correzioni sintattiche
e grammaticali che Volmar poteva offrirle, non consentì alcun mutamento del lessico o del
contenuto, poiché le venivano date profeticamente. Nel suo quarantesimo anno, Ildegarda
avvertì una irresistibile pressione a non celare il proprio dono. Possiamo immaginare che il
fatto di essere stata eletta badessa, l’anno precedente (1136), per succedere alla maestra
Jutta, le abbia dato più sicurezza. Il sinodo di Treviri (1147-1148) vide la ratifica papale degli
scritti visionari di Ildegarda. Papa Eugenio aveva precedentemente approvato un’altra opera
molto originale, la “Cosmographia” di Bernardo Silvestre. Che tanto la “Cosmographia”
quanto “Scivias” abbiano ricevuto la benedizione di questo papa è di particolare importanza
per la storia intellettuale del XII secolo. Due scrittori che si mostravano tanto audaci nelle
loro concezioni, non fosse stato per papa Eugenio, avrebbero potuto essere perseguitati e le
loro opere messe sotto accusa. A partire quindi dal 1147, Ildegarda, approvato il suo ruolo
profetico, è spesso chiamata a dare consigli dalle maggiori autorità secolari e religiose (papi,
sovrani, ecc.). II. Gli anni che precedono il trasferimento di Ildegarda sul Rupertsberg,
vedono l’esitazione dell’abate Kuno a lasciarla partire dal Disibodenbeg. Ildegarda fu
esaudita solo dopo aver fatto appello ad alte autorità come l’arcivescovo di Magonza e alla
marchesa von Stade. Il luogo della libertà viene descritto da Ildegarda, come un luogo di
stento fisico. Passato il primo anno, Ildegarda esprime il senso miracoloso del cambiamento
per il meglio, l’improvviso giungere di ricchezza e abbondanza là dove prima era mera
indigenza (assoluta mancanza di mezzi di sostentamento). Ildegarda non conseguì una
totale sicurezza interiore. Fu sconvolta da quel che giudicò slealtà all’interno della comunità:
chi lamentava i disagi della nuova sistemazione, chi partiva per una vita meno esigente;
soprattutto, fu sopraffatta dalla partenza della diletta Richardis, la cui defezione (venir meno
alla parola data) Ildegarda attribuisce solo a futili motivi. Così Ildegarda menziona la precoce
morte di Richardis come se si trattasse di una conseguenza della sua ostinazione. Ildegarda
è simile ad Abelardo nella continua applicazione di paralleli desunti dai personaggi
dell’Antico Testamento al proprio destino. Conduce la sua piccola comitiva al Rupertsberg
come Mosè aveva condotto Israele nei deserti. Combatté per l’indipendenza finanziaria e
amministrativa della sua fondazione; combatté i monaci, non solo per questioni di
proprietà, ma anche perché volevano trattenere con sé il monaco Volmar che era stato a
lungo suo segretario. III. È nella perdita di Richardis che avvertiamo come Ildegarda potesse
fare un uso selvaggio e arrogante del suo ruolo profetico. Nella sua prima lettera al
proposito, in cui fa appello alla marchesa, madre di Richardis e nonna di Adelaide, non c’è
alcun tentativo di legiferare nel nome del Dio di Mosè, solo 10 un senso di ansietà umana,
seguito dalla violenta convinzione di essere nel giusto. Ciononostante, le due giovani
accettarono la nomina a badesse. Per Adelaide, non sappiamo di ulteriori resistenze da
parte di Ildegarda; ma non consentì a Richardis di partire per assumere il suo nuovo
compito. Quando l’arcivescovo di Magonza scrisse a Ildegarda per chiederle di lasciar
andare Richardis, ella rispose – asserendo di parlare con la voce di Dio – in una scatenata
denuncia dell’arcivescovo stesso. Per Ildegarda perdere Richardis significava perdere la sua
stretta collaboratrice, cui più profondamente era legata. La sua più elaborata invettiva
(discorso violento), rivolta contro il clero motivato dall’interesse finanziario, implicherebbe
che ci sia stata qualche irregolarità nell’elezione di Richardis. Ciò potrebbe forse essere
corroborato dal fatto che la nipote della marchesa, Adelaide, fu eletta badessa dalla
fondazione di Gandersheim, quando ancora era in età scolare. Ciò suggerisce che coloro che
elessero Adelaide – e forse anche Richardis – siano stati influenzati dalla speranza di ricche
generosità della famiglia von Stade a compenso di tali elezioni (la madre di Adelaide era
stata anche regina di Danimarca). Con Richardis la faccenda è più complessa: Ildegarda
suggerisce che Richardis stessa fosse ansiosa di avere una posizione consona al suo rango
mondano. Ildegarda si appellò quindi al fratello di Richardis, l’arcivescovo Hartwig: ella
sembra accusare Richardis di avere deliberatamente comperato la sua carica. Le accuse di
Ildegarda sono alquanto sconcertanti. Talvolta sono orientate contro Richardis, talvolta
contro la sua famiglia, talvolta contro l’abate di Disibodenberg o l’arcivescovo di Magonza.
Ildegarda avvertiva una cospirazione contro di sé. E probabilmente non si trattava di mera
fantasia persecutoria. C’è uno sconcertante accenno di megalomania, che non sembra
sfuggire al papa Eugenio, al quale ella scrisse in ultimo tentativo di stroncare la posizione di
badessa di Richardis. Il testo non ci è rimasto, ma la risposta di Eugenio, ancorché colma di
lodi di Ildegarda, contiene una sfumatura minacciosa: coloro che sono grandi spesso
cadono grandemente. Ildegarda dinanzi a questa sconfitta, cercò di trarne frutti significativi:
così scrisse alla giovinetta Richardis. Il linguaggio usato in questa lettera è insieme intimo e
gremito di echi biblici. Le parole d’apertura: <<Figlia, ascoltami>>, suggeriscono che solo
dandole retta e rinunciando al mondo della famiglia, Richardis diventerà una sposa del Re
celeste. Non si indirizza a Richardis come a una sua pari, una badessa: è ancora la figlia
spirituale, che deve ascoltare la madre. Tuttavia la madre ora non esplicita un comando, ma
un pianto. Esprime la propria sensazione d’esser stata tradita. Dopo l’improvvisa morte di
Richardis, il fratello Hartwig scrisse nuovamente a Ildegarda, dicendole che alla fine,
piangendo, con tutto il cuore Richardis desiderava tornare. Ildegarda risponde a questa
lettera con un superbo volo di magnanimità, sublimazione e perdono. Ildegarda era arrivata
a capire e ad accettare la giovane donna che aveva desiderato andare per la propria strada
invece che rimanere un’allieva. IV. Nella successiva nota autobiografica della Vita, Ildegarda,
descrivendo le sue ricorrenti malattie, parla di <<tormenti aerei>> che pervadevano il suo
corpo, asciugando le vene e il sangue, le ossa e il midollo. Senza potersi muovere, giace al
suolo; tutti sono raccolti attorno a lei, convinti che stia per morire. Udiva un angelo buono
che l’invitava a morire e riguadagnare così il cielo. L’angelo l’esorta in un linguaggio affine a
quello degli inviti del Cantico dei Cantici: viene chiamata “aquila”. Maligni spiriti aerei
attaccavano anche alcune delle sue nobili figlie del convento. Quando Ildegarda tenta di
richiamarle a una vita più devota, alcune la calunniano in segreto, dicendo che la forma di
vita monastica che vuole imporre è intollerabile. Nel mezzo di tali conflitti Dio le rivelò la sua
seconda opera visionaria, il “Liber vitae meritorum”. Successivamente, Ildegarda ebbe una
visio di cui racconta di diversi edifici e parti di edifici, di gente che accoglie un messaggio
divino, in modi diversi, e di altri che lo respingono. (1) La prima torre, con le sue tre stanze,
potrebbe stare simbolicamente per “Scivias”, con i suoi tre libri. Le parole di Ildegarda
raggiungono le sue consorelle, giovani e anziane, nelle prime due stanze, ma vanno anche al
popolino, a quelli tra loro che riconoscono in Ildegarda un profeta e sono pronti a vederla
come loro princeps. (2) La torre seguente potrebbe riferirsi in qualche modo al “Liber vitae
meritorum”. Che due delle tre stanze siano aride e piene di nebbia, può forse rispecchiare il
fatto che in quest’opera, l’enfasi principale è sul male e sul peccato. Tuttavia non c’è
corrispondenza fra stanze e libri: il “Liber vitae meritorum”, almeno nella forma in cui resta
in tutti i manoscritti più antichi, si divide in sei libri, non tre, quindi l’interpretazione deve
restare aperta. 11 (3) Lo stesso dicasi della terza torre, con i suoi tre bastioni. Questa torre
potrebbe ben essere immagine del trattato scientifico di Ildegarda, le “Subtilitates
naturarum diversarum creaturarum”. Questo comprendeva sia “Causae et curae” che la
“Physica”. Tre parti delle “Physica” – i libri sugli alberi, le pietre preziose, e le piante –
potrebbero corrispondere al triplo bastione di questa torre. La convinzione che la sua opera
maggiore dovesse ancora venire aumenta nella successiva visione del quarto edificio
incompleto: (4) Questo è un inequivocabile riferimento al futuro “Liber divinorum operum”
che può dirsi il suo capolavoro. V. Verso il 1167, Ildegarda fu colta da sei mesi di mortale
infermità, originata dal soffiare del vento del sud (il Fohn). È durante questa malattia che
Ildegarda viene a sapere di Sigewize, una giovane nobildonna del basso Reno, che era stata
assalita da un demone. Ildegarda desiderava sapere l’esatto modo in cui un demone può
influenzare gli esseri umani. In una visione Ildegarda vede che esso non può entrare in una
persona, tuttavia può avvolgere e oscurare gli umani con fumo scuro. Cioè, può assediare
od ossessionare una persona, anche se non si tratta di un possesso demoniaco. Dio tollera
che i demoni provochino vari disastri nel mondo: possono vomitare una pestilenza o
causare inondazioni e guerre e ostilità tra gli uomini. A Ildegarda chiedono di aiutare
Sigewize, perché il demone ha gridato che solo una certa vecchia dell’alto Reno può farlo.
Quel che emerge dal racconto di Ildegarda è che, dopo un rifiuto iniziale, cercò di guarire la
ragazza, servendosi di una complessa messa in scena (simile al suo testo teatrale “Ordo
virtutum”) per scacciar via il demone, ma Ildegarda chiarisce che tutto ciò ha solo un effetto
passeggero. In ogni caso, l’abate di Brauweiler volle intercedere presso Ildegarda perché
ricevesse Sigewize e tentasse di aiutarla di persona. Benché Ildegarda e le monache di
Rupertsberg fossero terrorizzate dalla prospettiva, l’accettarono, e le settimane di preghiere
comuni e di pratiche ascetiche ebbero come risultato prima spasmi fisici, quindi la graduale
convalescenza di Sigewize. Un’altra dolorosa malattia seguì la liberazione di Sigewize.
Ildegarda vede spiriti maligni che si burlano della sua malattia. Nella visione le era stato
mostrato che doveva intraprendere un altro viaggio di predicazione. I dolori corporali non
cessarono finché non obbedì. La rinnovata salute la mise in grado di completare il “Liber
divinorum operum” (1173-74). Per testimonianze personali sugli ultimi anni della sua vita,
dobbiamo ora riferirci alle lettere. Sembrerebbe che Ildegarda interpreti retrospettivamente
tutte le proprie malattie come attacchi dei demoni. Istintivamente, quando dà voce ai suoi
demoni, adotta un registro inferiore o comico, che comprende esclamazioni in volgare. Al
tempo stesso non consente che quest’abbassamento di tono scalfisca l’esperienza centrale:
implicitamente, con <<quaranta giorni e quaranta notti>>, paragona la sua malattia al
periodo passato da Cristo nel deserto. VI. Tengswindis, magistra di una fondazione di
canonichesse sul Reno, scrisse a Ildegarda una lettera che era sia un’indagine, sia una sfida.
Chiese se era vero che nei giorni di festa le monache di Ildegarda portavano anelli, veli e
tiare tempestate di immagini simboliche (A). Inoltre, Tengswindis è stupita che Ildegarda
ammetta tra le sue compagne solo donne di nobili natali, rammentandole che nella Chiesa
primitiva, il Signore scelse i pescatori, gli umili e i poveri (B). Il tono pacato di Tengswindis
diviene ironia più palpabile verso la fine, in una richiesta di ulteriore illuminazione. A) Nella
risposta Ildegarda comincia col distinguere tra il ruolo della donna sposata e quello della
vergine: - La prima non deve pavoneggiarsi; non deve chiedere l’esaltazione della tiara o
dell’oro, eccetto che per volere del marito; - La virgo, invece può ancora avanzare pretese di
perpetua primavera. B) La risposta al secondo punto, riguardo l’elitarismo del suo convento,
chiama in causa Dio: è Lui che si incarica dello scrutinio delle diverse classi. Quale contadino
metterebbe buoi, asini, pecore e capre nello stesso recinto? Si mescolerebbero. Così deve
esserci differenziazione tra la gente. Dio ha diviso i suoi angeli in nove gerarchie, e li ama
tutti. Qui Ildegarda si è ingannata pensando che il mito politico della classe dominante del
suo tempo fosse una verità divina e che tutto ciò sia coerente con gli insegnamenti di Cristo.
I diademi finemente lavorati indossati dalle donne del Rupertsberg suscitarono anche la
curiosità dell’ardente monaco vallone Gilberto di Gembloux, che cominciò come remoto
ammiratore di Ildegarda e da ultimo divenne suo intimo amico. Da completo estraneo le
scrisse due lettere colme di ammirazione e di domande. 12 Quel che è insolito nella lettera è
la teoria di Ildegarda sulla volontà, con cui ella sostiene il tentativo di dissuadere Hazzecha.
Per Ildegarda la voluntas umana dev’essere intesa in modo del tutto negativo: appartiene al
corpo, non all’anima, e il corpo e l’anima sono sempre in guerra. L’argomento di Ildegarda
che la volontà sta dalla parte del corpo, e che quello è il lato sbagliato, è un altro esempio
del suo inconscio manicheismo. Comunque, fatto sta che Ildegarda non usa sempre
voluntas in senso cattivo, né l’associa solo al corpo. - Di nuovo, scrivendo a un uomo
ossessionato dalla propria sensualità, Ildegarda usa il linguaggio dualistico della battaglia di
carne e spirito. La sua frase iniziale, riconosce che gli impulsi celesti e la loro frustrazione
attraverso desideri terreni hanno radici nello stesso essere umano. Ma Ildegarda continua:
<<E così, trascurando ... i desideri della tua anima celeste, spessissimo fai quel che vuole il
tuo corpo>>. Quindi quest’uomo dovrebbe divenire un “coraggiosissimo cavaliere
combattente” contro i suoi desideri e piaceri fisici. - Infine c’è un gruppo di lettere in cui,
Ildegarda si vale della propria reputazione di indovina. Si rivolge a una vedova che le aveva
scritto per interpellarla circa il destino del marito nell’altro mondo, e di far pronostici anche
per lei. La risposta di Ildegarda è curiosa: improvvisamente afferma di aver visto le precise
condizioni del marito morto nell’aldilà, e avere una conoscenza speciale dei suoi pensieri e
intenzioni nascosti, quelli che non aveva rivelato o manifestato in vita. Così, mentre
comincia disconoscendo ogni propria nozione del futuro destino della vedova, alla fine dice
di conoscere il risultato finale: che sia la donna sia il marito guadagneranno infine il
paradiso. IX. In conclusione bisogna dedicare una particolare attenzione a due lettere di un
tipo più complesso. La prima è, nella raccolta berlinese, una delle poche di cui si possa
identificare il corrispondente. La seconda, ai prelati di Magonza, è forse la sua lettera più
grande. - Nel 1173 l’amato segretario di Ildegarda, Volmar, moriva. Ildegarda scrisse allora al
suo amico Ludovico a Treviri, lamentandosi che, a causa della morte di Volmar, lei sola, non
era ancora riuscita a terminare il suo nuovo libro, il “Liber divinorum operum”. - La seconda
lettera dovrebbe essere intesa come “lettera d’accompagnamento”, quella cioè con cui
Ildegarda inviava la copia della sua ultima grande opera. È una lettera elaborata, nei concetti
e nel linguaggio. Negli ultimi anni di vita, si vede come Ildegarda abbia acquistato la capacità
di costruire periodi complessi, scorrevoli e fluidi. Dapprima Ildegarda traccia una serie di
parallelismi reciprocamente interconnessi tra macrocosmo e microcosmo. Il giorno del
mondo, è come le età dell’uomo, dall’infanzia alla vecchiaia. Quando Ildegarda applica
questi concetti all’amico, è particolarmente interessante che insista sul temperamento
cortese della giovinezza di lui. Ricordandogli la loro stretta amicizia, in cui lei, era stata la sua
maestra, Ildegarda ritorna infine al favore che gli sta chiedendo: leggere attentamente il
manoscritto del suo ultimo, enorme libro. Lo avverte anche di non perdere il manoscritto.
Se quello che ella inviava a Treviri con questa lettera era il codice – privo di correzioni – esso
sarebbe stato particolarmente prezioso, perché non era ancora stata fatta un’altra bella
copia. La lettera, notevole per il suo scopo, spazia fra sincerità e umorismo, richieste
personali e informali. X. L’anno prima di morire, Ildegarda fronteggiò lo scontro più amaro
della sua vita, che giunse quasi a determinare la tragica distruzione sua e della sua
comunità. Due volte, nella Vita, parla delle assegnazioni derivanti alla sua fondazione dal
fatto che <<molta gente ricca vi seppelliva membri della famiglia, con i debiti onori>>. Nel
1178, Ildegarda aveva acconsentito a far seppellire in terra consacrata al Rupertsberg un
gentiluomo. Ma l’innominato gentiluomo sepolto al Rupertsberg, era stato un tempo
scomunicato, benché prima di morire si fosse riconciliato con la Chiesa. I prelati di Magonza,
a nome del loro arcivescovo, sostenendo che l’uomo era morto da scomunicato, ordinarono
a Ildegarda di disseppellire il cadavere e gettarlo via. La pena, in caso contrario, sarebbe
stata la scomunica sua e delle sue monache. Ildegarda rispose facendo il segno della croce
sulla tomba con il suo baculus (il bastone emblema della sua autorità di badessa), ed
eliminando tutti gli indizi che avrebbero potuto portare all’identificazione della tomba e alla
sua sconsacrazione. Le sue lettere non offrono appigli, forse Ildegarda era pronta a
sopportare il ripudio spirituale perché la sua luce vivente le diceva che obbedire ai prelati,
violare il corpo sepolto in terra consacrata, sarebbe stato disobbedire a Dio. 15 L’ultima
parte della lettera va ben oltre. L’interdetto aveva specificamente proibito la musica in
convento. Sappiamo quel che la musica significasse per Ildegarda, autrice della “Sinfonia
dell’armonia delle rivelazioni celesti” ed è facile intuire quanto la colpisse come persona.
Ildegarda elabora la propria filosofia della musica: la musica diviene un modo di
comprendere la storia e un modo in cui gli uomini possono ancora incarnare la divina beltà
sulla terra. I prelati non prestarono ascolto alla lettera di risposta di Ildegarda, e
persistettero nell’interdetto; ma nel marzo del 1179, sei mesi prima che la Badessa morisse,
l’arcivescovo di Magonza le scrisse da Roma, rendendo possibile la rimozione del bando. Per
lui si trattava di una questione di legalità: se si potevano trovare affidabili testimonianze
della avvenuta riconciliazione tra l’uomo sepolto al Rupertsberg e la Chiesa, allora non c’era
bisogno di dissotterrare il cadavere. Per Ildegarda, invece, si trattava del primato della
conoscenza, della sua luce vivente. Ciò che Ildegarda non intende tollerare è qualsiasi
affronto a quella sinfonia del cielo e della terra che era divenuta consustanziale con il suo
modo di vedere la verità. MANICHEISMO Il manicheismo è una religione radicalmente
dualista: due principi, la Luce e le Tenebre, coevi, indipendenti e contrapposti influiscono in
ogni aspetto dell'esistenza e della condotta umana. Altre caratteristiche rilevanti sono: -
originale e coerente universalismo - pacifismo e vita povera e missionaria dei suoi adepti -
scrittura e arte del libro fondamentali per il patrimonio delle Sacre Scritture redatte da Mani
stesso - Sigillo dei Profeti: la rivelazione di Mani vista come conclusione delle profezie
redentrici (non legislative come Mosè) da Adamo a Noè e soprattutto Zoroastro, Buddha e
Gesù - doppia morale: rigida e inflessibile quella dei religiosi, più tollerante quella dei laici. Il
manicheismo fonde in modo originale elementi cristiani di derivazione giudaico-cristiana
(Elcasaiti) e gnostica, in particolare di Bardesane e di Marcione, assieme a una
riformulazione del dualismo zoroastriano e di elementi della morale e dell'organizzazione
simile a quella dei buddisti. Essa si diffuse molto rapidamente nell'Impero sasanide e, grazie
allo spirito missionario dei suoi seguaci, si diffuse sia a Occidente nell'Impero Romano, a
cominciare dalla Siria e l'Egitto per diffondersi a Roma, nel Nord Africa e poi in tutto
l'Impero, sia a Oriente nelle regioni dell'Asia centrale, popolate da tribù turche, fino all'India,
alla Cina e alla Siberia. Trovò raramente supporto e tolleranza dai governi e fu
frequentemente e duramente perseguitato in ogni dove dai governi e dalle altre religioni. In
Occidente scomparve verso il V secolo, nel Medio oriente verso il X secolo, mentre
sopravvisse più a lungo in Estremo Oriente (XIV secolo) anche per la capacità di adattarsi e
di mascherarsi con le credenze locali. Diversi piccoli gruppi continuano oggigiorno a
praticare il Manicheismo. In Occidente le leggi contro i manichei furono utilizzate per secoli
per combattere eresie cristiane basate su un dualismo di origine gnostica (si veda Manichei
medievali). 16

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