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Aleksandr Valentine Kilian Alaric Drakan Ilyathad Miðiras Avitus von Zwernitz

Avitus nacque in un villaggio senza nome dei Carpazi, nella notte di Natale dell’anno 1000. Morì 6 giorni
dopo, alle prime luci dell’alba del 1001.
Il Freddo sterminò la sua famiglia, nutrendosi del loro sangue. Dopo aver spolpato i genitori, due fratelli e
tre sorelle, il Freddo era sazio. Ma il sangue d’infante è particolarmente dolce, succulento. Il Freddo sollevò
Avitus dal pagliericcio in cui piangeva e anziché aprirgli la gola, gli morse il collo bevendo poche gocce di
sangue.
Il bambino morì, poiché il morso di un vampiro uccide. La quantità di sangue risucchiato, invece, non era
tale da trasformarlo in una progenie vampirica — un non morto in perenne ricerca di sangue.
No, il bambino sarebbe dovuto morire, semplicemente.
Il Freddo lo prese, dispiegò le ali e tornò alla sua tana. Aveva appena generato il suo primo figlio.

Miðiras era un vampiro giovanissimo. Era un mezzelfo, in origine. In 20 anni di vita aveva conosciuto solo
l’istinto, la fame e la sete. Il Freddo gli spiegò la sua natura, il suo essere creatura oscura, il suo appartenere
alla notte.
Quella regione dei Carpazi potevano sostenere un solo vampiro con il corpo di un umanoide adulto. Miðiras
non era ancora abbastanza forte, saggio e potente per poter sopraffare il suo creatore. Il primo giorno
dell’anno del Signore 1021 volò a ovest, verso le zone civilizzate. Lì, scoprì l’esistenza delle casate nobiliari
vampiriche, in Transilvania. Venne accolto, ricevette un’istruzione. D’altronde era l’unico discendente di un
Freddo, un vampiro antico. Assunse un nuovo nome, più moderno.

Ilyathad lasciò la Transilvania nel 1040 per fondare la sua casata. Viaggiò ancora verso ovest, fino ad arrivare
in Bohemia.
Nonostante l’istruzione – culturale e magica – ricevuta, Ilyathad era inesperto. La seconda parte della sua
breve vita trascorse nella sicura Transilvania, dove non c’erano pericoli per i vampiri. Ma ad ovest iniziavano
le grandi foreste del centro europa, quelle che ai tempi dell’impero romano erano popolate dai barbari. In
quelle foreste nacquero i licantropi.
Ilyathad alloggiava in una locanda nel villaggio di Skryje, ad ovest di Praga. Stava decidendo le sorti della
fanciulla svenuta nella sua camera — la figlia del locandiere, per la precisione. Sorseggiava il suo syrah
rosso sangue, del quale si era portato diversi otri dalle terre transilvaniche, mentre immaginava le delizie
dell’altro rosso sangue che attendeva sul suo letto. All’ultimo sorso, prese la candela che illuminava
fiocamente il suo tavolo e si diresse verso le scale.
Sotto la porta filtrava la luce della luna. Era notte di luna piena, il momento perfetto per banchettare e
rinvigorirsi di sangue giovane, sangue vergine. Soffiò sulla candela, l’appoggiò a lato: i suoi occhi vedevano
perfettamente anche al buio.
Arrivato di fronte alla porta il suo naso captò un odore ferroso e familiare, che solitamente gli faceva venire
la bava alla bocca. Ma non questa volta, questa volta era diverso. Nessun uomo sarebbe potuto entrare in
camera senza che lui se ne accorgesse. L’unico accesso era la finestra, e comunque al primo piano sarebbe
servita almeno una scala.
Ilyathad sostava immobile, di fronte alla porta. Non respirava, per concentrare i suoi sensi all’interno della
stanza. Percepiva una sola creatura all’interno: che la ragazza si fosse svegliata e si fosse ferita? Impossibile,
l’incantesimo era abbastanza potente da mettere fuori gioco un energumeno, mentre la giovane era minuta
e graziosa. Rimaneva solo un’altra possibilità. Aprì la porta di scatto.
Sul letto giaceva ancora la ragazza, ma non più viva — non più intera.
La sua testa era stata strappata dal resto del corpo ed era rotolata sul pavimento lasciando una macabra scia
di sangue e cervella sulle lenzuola candide e il legno. Gli occhi erano spalancati, ancora fissi su
quell’espressione di orrore che aveva preceduto la sua morte: bellissimi occhi verdi, contornati da lunghe
ciglia. La bocca era deformata dal muto grido di terrore: le labbra carnose invogliavano ancora Ilyathad, la
sensazione morbosa avviluppava il suo sesso.
Lo sguardo del vampiro si spostò al resto del corpo della ragazza. La creatura, l’animale che le stava sopra
stava profanando il cadavere, sodomizzandolo. La sottoveste avvolgeva ancora la figlia del locandiere, ma
era stata strappata dagli artigli della creatura: un seno bianco come il latte, sodo, e un capezzolo roseo,
turgido, erano illuminati dalla luce della luna.
«Ti stavo aspettando, Freddo. Sono giorni che seguo la tua maleodorante scia, da quando hai lasciato Praha»
ringhiò.
La creatura era enorme. In piedi, estesa nella sua altezza, avrebbe superato i due metri. Il corpo era quello di
un umanoide, irsuto e afromegalico. Le braccia erano lunghe, muscolose; le mani avevano dimensioni
abnormi, terminavano con affilati artigli.
La creatura si voltò. Il viso… quello non era umano. Non era nemmeno un viso: era un muso. Un muso
lupoide, con fauci che avrebbero potuto spezzare il collo di un uomo adulto in un solo colpo. I denti aguzzi
erano incrostati del sangue della ragazza.
«Volevi far diventare anche questa fanciulla una figlia della notte, Freddo?» Il lupoide uscì da lei, il grosso
cazzo ancora eretto, pulsante. Sollevò il corpo con una mano, senza fatica, e lo buttò ai piedi di Ilyathad.
«Sei in ritardo. Sai – continuò, passando la lingua sui denti – se non le avessi staccato la testa sarebbe
diventata una di noi, adesso. Ma se l’avessi lasciata intera, avresti potuto contaminarla. Meglio uno in meno
di noi, che uno in più di voi»
Il licantropo inspirò a fondo: «Meglio uno in più di noi, e uno in meno di voi». L’agilità con cui si mosse era
insensata per un corpo come il suo: in una frazione di secondo era alla giugulare di Ilyathad e gliela avrebbe
strappata se questi non fosse diventato fumo.
«Codardo!» ruggì.
Ilyathad riprese forma corporea a fianco dei suoi averi, estrasse la spada e con un movimento fluido la
conficcò nella bocca spalancata del licantropo in carica. La lama attraversò palato, ugola e cervello, per
uscire sulla nuca. Il lupo perse immediatamente le forze e si accasciò sul pavimento della stanza, in
ginocchio.
«Non sottovalutarmi, animale. Solo perché sono più astuto e potente di te, non vuol dire che io sia un
codardo» gli sibilò il vampiro ed estrasse la spada dal cranio tagliandolo a metà.
Dopo il suo primo incontro con un licantropo, il vampiro continuò il suo viaggio. La Bohemia era un
territorio inospitale per la sua razza e le possibilità di incontrare altri mannari aumentavano ogni giorno. Il
suo odore di Freddo era troppo intenso e il loro olfatto acuto l’avrebbe stanato molto presto.
Valicò il confine delle montagne, le Fichtel, ed arrivò in quella che doveva ancora diventare la futura
Baviera. Attraversato il ramo Rosso del Meno, incontrò il villaggio di Bayreuth.

Era la notte di Natale del 1046. Drakan entrò nella navata della Chiesa di Pietro dietro il Rex Romanorum
Heinrich di Franconia. Di lì a poco sarebbe diventato l’Imperatore del Sacro Romano Impero.
Lui, invece, avrebbe assunto il titolo di Drakan von Zwernitz, margravio di Bayreuth. Aveva ottenuto in poco
meno di cinque anni tutto quello per cui aveva lasciato la Transilvania: stava per fondare la sua casata. A
tempo debito, sarebbero arrivati anche una consorte e dei discendenti; nel frattempo, avrebbe richiamato a
sé altri vampiri dei Carpazi, suoi compagni di istruzione e vita in Transilvania.
Ancora poche ore, e il suo disegno avrebbe preso forma. Ore di sopportazione malcelata dei riti della Chiesa
di Roma, durante le quali evitò accuratamente qualsiasi contatto con l’ecclesia. Essere smascherato,
marchiato come immondo e bannato dalla Terra direttamente dal Vicario di Cristo non rientrava nei suoi
piani. Per quelle ore, avrebbe recitato il ruolo di uno dei tanti cavalieri di Re Enrico il Nero che si erano
distinti in battaglia e in onore e che ora venivano ricompensati con titoli e terre.
[...]
Aleksandr è un vampiro. E, in quanto vampiro, è immortale.
Lungo gli 800 anni della sua vita dannata, il mezzelfo ha portato tanti nomi — e tanti stili. Ora, nell’alba
degli anni 20 del XIX secolo, Aleksandr si presenta come un uomo alto, probabilmente un metro e novanta,
dal fisico snello, asciutto e scolpito. Dimostra 32, forse 34 anni.
Il viso è sottile, allungato come quello del padre elfo, ma con i lineamenti delicati della madre. Gli occhi
sono grandi, profondi, dello stesso colore del ghiaccio perenne e contornati da ciglia lunghe e nere. La pelle,
ovviamente pallida, ha sfumature grigio e viola che ricalcano elegantemente le forme del vampiro.
Nonostante l’eredità mezzosangue, non porta tratti distintivi dei mezzelfi come barba e capello corto. Al
contrario, i capelli di Aleksandr gli scendono ben oltre le spalle arrivando quasi a metà schiena. I capelli
sono color dell’argento, portati sciolti e tali che ricadano sia davanti, sul petto, che dietro.
Aleksandr cura moltissimo la sua persona. Negli ultimi anni ha poi trovato utile, se non necessario, apparire
il più umano possibile. Eventuali escoriazioni, graffi e logorii della pelle vengono curati immediatamente
dal suo fattore rigenerante. Inoltre, il vampiro è sempre impeccabilmente pulito: mani curate e bocca
sempre tersa, i canini che non vengono mai estratti in pubblico.
Il vestiario del marchese è vario ed elegante, come si confà ad un nobile del suo rango. Ultimamente, è
avvezzo ad una particolare mise: pantalone di tessuto morbido e leggero, tenuto in cintura da una fascia alta
mezza spanna; camicie nere, borgogna o avorio col polsino riverso e appuntito. Infine, frac di colore scuro
(nero, ma non solo) con corsetto a doppio petto e coda al ginocchio.

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