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Bruno Nardini

Vita di
LEONARDO
ISBN 9788809753105

© 2004 Giunti Editore S.p.A., Firenze - Milano


Prima edizione digitale: 2010
PARTE PRIMA
Leggenda e verità

È PRIMAVERA, ANCHE in Francia. Intorno a Clos-Lucé, nel territorio di


Amboise, le colline sono fiorite all’improvviso dopo l’ultimo e innaturale
gelo d’aprile: le prode della Loira sono punteggiate di mughetti arrivati in
tempo all’appuntamento di calendimaggio.
Alto, nel cielo turchino, un nibbio vola ad ali aperte.
In una grande camera dal soffitto dorato un vecchio, immobile e bianco, sta
morendo. Lo assistono alcuni familiari; il suo trapasso è lungo e difficile.
All’improvviso, per le scale, una voce grida:
– Il Re! Il Re!
Il vecchio sembra riprendersi dal torpore e tenta di sollevarsi sui cuscini.
Qualcuno gli mette sulle spalle una veste di broccato, un altro lo aiuta a tirarsi
su. Il Re entra nella camera e subito, premuroso, accorre al capezzale del
vecchio.
«... Sopraggiunsegli il Re, che spesso e amorevolmente lo soleva visitare;
per il che egli per riverenza, rizzatosi a sedere sul letto, contando il mal suo...
mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio e gli uomini, non avendo operato
nell’arte come si conveniva. Onde gli venne un parossismo, messaggero della
morte. Per la qual cosa il Re, presogli la testa per aiutarlo e porgergli favore,
acciocché il male lo alleggerisse, lo spirito suo che divinissimo era,
conoscendo non potere aver maggiore conforto, spirò in braccio a quel Re,
nell’età di anni settantacinque».
È il 2 di maggio dell’anno 1519. Un disegno di Ingres illustra il momento
cruciale di questa leggenda. Perché la morte di Leonardo da Vinci tra le
braccia di Francesco I, re di Francia, come l’ha diligentemente descritta il
Vasari, è leggenda.
Ma anche per i suoi contemporanei Leonardo fu spesso mistero e leggenda.
Poco o nulla si seppe di lui, perché egli non concesse nulla di sé alla curiosità
degli altri. Scrisse ininterrottamente e di tutto; eppure non aprì che rari spiragli
sulla cronaca della propria esistenza.
Era un uomo di mondo, si direbbe oggi; elegante e stravagante, bello e forte
– «... torceva un ferro di cavallo come se fussi piombo...» – raffinato nelle
parole e nei gesti, ricercato nel vestire, «... e tanto piacevole nella
conversazione, che tirava a sé gli animi delle genti...»: eppure era solo, senza
un amico, senza un amore.
Di fronte alle tragiche vicende del suo tempo s’impose di restare
imperturbabile come un filosofo stoico; e davanti alle vicissitudini quotidiane
mantenne sempre una calma olimpica, un distacco dalla realtà che lo turbava,
per esserne, al tempo stesso, imparziale osservatore.
– È un mago – dicevano con ammirazione, ma non senza un oscuro timore,
molti suoi contemporanei.
Leonardo fu consapevole di questo mito. Fra sé e gli altri eresse
volutamente una barriera di mistero, fatta di conoscenze occulte, di sapienza
non attinta dai libri ma conquistata, quasi clandestinamente, con l’esperienza;
e dietro la maschera del mago nascose a tutti, perfino a se stesso, il suo volto
d’uomo bisognoso di presenze umane e di calore di affetti.
Leonardo fu una vivente contraddizione. In un secolo ricco d’impulsi
innovatori e di altissime testimonianze, egli fu l’uomo che meglio impersonò
le istanze dell’Umanesimo e del Rinascimento; ma voltò anche le spalle al suo
secolo per guardare molto più lontano, anticipando un’epoca ancora
inesistente: la nostra, il duemila.
Tutti i suoi grandi contemporanei, dal Verrocchio al Botticelli al Perugino,
hanno per noi una precisa fisionomia, un carattere chiaro e definito.
Sappiamo chi era il Bramante, o il Sangallo, o Raffaello. Di Michelangiolo
conosciamo tutto: egli scrisse sui muri, nel marmo e sulla carta il suo dramma
interiore; la sua solitaria esistenza è tutta una confessione dolorosa, gridata,
urlata.
Di Leonardo ci sfugge l’essenziale. Non misantropo come il Buonarroti, né
sereno come Raffaello, egli si nascose nella stessa dispersione delle proprie
energie dietro a quelli che il Vasari chiamò «ghiribizzi e capricci»: la sua
segreta tragedia fu di non poter accettare un sentimento – emozione o
ispirazione – senza tradurlo in concetto razionale, senza «farne anatomia».
Nihil humani a me alienum puto aveva scritto anticamente Terenzio; e
anticipando di due secoli Galileo, Leonardo diceva che «la sapienza è figlia
dell’esperienza» e «la conoscenza dea tempo preferito e del sito attuale della
terra e degli esseri sono il solo ornamento e cibo delle menti non vagabonde».
Era un ricercatore di verità, dunque; a qualsiasi prezzo ed a costo di
qualunque rinuncia.
«Il Re Francesco – scrisse nelle sue memorie il Cellini – pigliava tanto
piacere a sentirlo ragionare, che poche giornate dell’anno si spiccava da
lui...».
Leggenda anche questa? O non, più verosimilmente, una realtà che sembra
leggendaria per la sua singolare bellezza? L’amore di Francesco I per
Leonardo giustificò, appunto, la versione del Vasari sugli ultimi istanti del
grande solitario di Vinci.
Se Leonardo non morì fra le braccia del Re fu soltanto perché il sovrano,
all’oscuro delle gravi condizioni in cui versava il suo vecchio amico, era con
tutta la corte a Saint Germain-en-Laye per festeggiare la nascita del suo
secondogenito.
Altrimenti sarebbe accorso, come un figlio, al capezzale di Leonardo; e la
leggenda sarebbe stata verità.
Buon sangue non mente

C OME OGGI, ANCHE nel Quattrocento la dichiarazione dei redditi prevedeva


alcune detrazioni; anzi, più giustamente, distingueva in ogni nucleo
familiare le «bocche da sfamare», cioè le donne, i vecchi, i figli minori e la
servitù.
Nel 1457 il notaio ser Antonio da Vinci dichiarò al catasto che in casa sua,
tra le bocche da sfamare, c’era anche «Lionardo, figliuolo di ser Piero, non
legiptimo, nato di lui et della Chaterina, al presente donna d’Acchattabriga di
Piero del Vaccha da Vinci, di anni 5».
Ma gli uomini di quel tempo avevano anche la buona abitudine di annotare
nel libro di famiglia gli avvenimenti più importanti, e ser Antonio non fece
eccezione alla regola:
«1452. Nacque un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15
d’aprile, in sabato, a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo. Batizollo prete Piero
di Bartolomeo da Vinci, Papino di Nanni Banti, Meo di Tonino, Piero di
Malvolto, Nanni di Venzo, Arrigo di Giovanni tedesco, monna Lisa di
Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Niccolosa del
Barna, monna Maria, figliuola di Nanni di Venzo, monna Pippa di Previcone».
Il battesimo ebbe luogo nella chiesetta di Santa Croce in Vinci la domenica
in Albis; cinque uomini e cinque donne, scrupolosamente elencati per nome
cognome e patronimico, avallarono il legittimo ingresso in famiglia del
figliolo «illegiptimo» di ser Piero da Vinci.
E la madre? Chi era questa Caterina che il più antico e autorevole biografo
di Leonardo – il cosiddetto Anonimo Gaddiano – definisce «di bon sangue»,
diventata poi la moglie di un certo Accattabriga da Vinci?
«Bon sangue», in Toscana, non significa affatto, come vorrebbero alcuni,
«buon lignaggio», ma indica, piuttosto, una certa qualità fisica e soprattutto
morale.
«Buono» come sano, non soltanto nella salute del corpo, ma anche in
quella dell’anima. Caterina, dunque, sarà stata una ragazza del contado, sana,
onesta e bella, alla quale il primogenito di ser Antonio, «sere» anche lui e per
giunta giovane e bello, avrà fatto molti discorsi e qualche incauta promessa di
matrimonio.
Nel borgo di Vinci, in quelle poche case raggruppate intorno al Càssero –
così era chiamata la vetusta torre del castello – la qualifica di «sere» conferiva
una dignità particolare: «sere» era stato, nel Trecento, un Michele da Vinci, e
«sere», cioè notaio, ogni suo discendente diretto fino all’intraprendente e
imprudente figlio d’Antonio.
Nato nel 1427, ser Piero aveva venticinque anni quando la Caterina mise al
mondo Leonardo; e subito il vecchio Antonio, per levare ogni grillo dal capo
della ragazza e qualche rimorso dalla propria coscienza, fece sposare al figlio,
in quello stesso 1452, una giovanissima fiorentina di nome Albiera, della
famiglia degli Amadori, e convinse a suon di scudi il turbolento figliolo di
Piero del Vacca, soprannominato Accattabriga, a portarsi in casa come moglie
la bella e delusa Caterina.
Sistemate così le faccende domestiche – con una nuora che aiutava la
suocera e faceva da mamma al piccolo bastardo, e con l’altro figlio Francesco
«che sta in villa e non fa nulla» – il vecchio Antonio poté continuare a
stendere i contratti ed a giocare a tavola reale coi contadini di Anchiano,
mentre l’impaziente ser Piero prendeva in affitto una casa a Firenze, deciso a
fare strada e quattrini con l’appoggio dei Medici e dei Servi della Santissima
Annunziata.
Il nibbio

«...N culla, chericordazione


E LA PRIMA della mia infanzia mi parea che, essendo io in
un nibbio venissi a me, e mi aprissi la bocca colla sua
coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra».
Questo sogno straordinario, pieno di significazioni simboliche, impressionò
non soltanto la memoria, ma l’anima stessa – oggi diremmo, più esattamente
l’inconscio – di Leonardo, come un oscuro presagio del proprio destino.
Era dunque naturale che Freud, nell’euforia della sua recente scoperta,
analizzasse fino all’esasperazione questo sogno, ricorrendo addirittura
all’antichissimo mito egizio della dea Muth, la «madre» dalla testa d’avvoltoio,
per identificare nel nibbio nientemeno che la povera Caterina. Senonché il
nibbio è una cosa e l’avvoltoio un’altra; il nibbio, per Leonardo, era un
uccello casalingo, che volava su Vinci e sui castelli limitrofi tra l’Arno e il
monte Albano, e che lo zio Francesco gli additava spesso per mostrargli la
caratteristica coda biforcuta e il cosiddetto «volo circonvolubile».
– Lo vedi? – diceva lo zio, sdraiandosi nell’erba accanto al nipote per
meglio osservare il volo del rapace. – Quando il vento, come ora, regna in
alto, il nibbio sta in alto; quando il vento regna in basso, il nibbio non ha
paura di scendere fin sotto il Càssero. Perché il nibbio è di quegli uccelli che
batton poco le ali e cercano sempre il corso del vento.
Il piccolo Leonardo ascoltava ed osservava. La sua scuola erano i campi e i
prati intorno al casolare di Anchiano, il bosco che scendeva dal monte fin
quasi al borgo di Vinci, e il suo maestro era il giovane zio Francesco che
aveva soltanto diciassette anni più di lui.
Quello zio filosofo e fannullone trasmetteva al nipote una sua personale
teoria sulla natura, fatta di osservazioni, di prove e di verifiche, ma soprattutto
di amore per tutte le cose create.
«Filosofando delle cose naturali – dice il Vasari – attese ad intendere le
proprietà delle erbe».
Infatti lo zio Francesco gli svelava ogni giorno la meravigliosa saggezza
della natura. Scendeva spesso col nipote fino al fiume e di fronte all’acqua
gl’insinuava l’immagine di una realtà che sempre appare e trascorre;
camminava nel bosco e gli mostrava le metamorfosi degli insetti; gli faceva
toccare con le mani la zolla, quando il grano incominciava a spuntare,
chiedendosi quale forza misteriosa aiutasse quel tenero filo d’erba ad aprirsi
un varco nella terra indurita dal gelo; quindi, alla stagione calda, seguivano
insieme con lo sguardo le formiche che trascinavano chicchi di granaglie più
grossi di loro. Lo zio, a volte, gli raccontava una favola, come quella del patto
segreto fra una formica e un chicco di grano...
– Che patto, zio Francesco?
«Tu mi lasci qui – disse allora il chicco di grano alla formica – e mi fai
ritornare nella terra che è il mio elemento, e io, fra un anno, ti darò non uno,
ma cento chicchi come me».
– E la formica?
– Era stanca e accettò. Ma non ci credeva molto in quel patto. L’anno dopo,
invece...
– La spiga, zio Francesco! Il chicco era diventato una spiga!
Luminosa infanzia, presto conclusa e mai dimenticata, quella trascorsa tra
Anchiano e Vinci nella casa del nonno, in attesa del sabato e del ritorno di ser
Piero da Firenze.
Una donna, nel borgo, spiava i suoi passi dall’uscio socchiuso; uno sguardo
triste e dolce lo seguiva, indugiava clandestino su di lui...
– Babbo – disse una sera il giovane ser Piero – ho preso a pigione una casa
da Michele Brandolini, in via della Prestanza dietro al palazzo della Signoria.
Col vostro permesso porterei a Firenze l’Albiera e Leonardo. Questo ragazzo
deve incominciare a studiare, non può restare nei campi dalla mattina alla
sera.
Ser Antonio guardò in silenzio il nipote ed annuì. Lo zio Francesco provò a
sorridergli per fargli coraggio. L’Albiera domandò:
– Quando?
– Il mese venturo – rispose ser Piero: e avvicinandosi a Leonardo gli alzò il
viso verso di sé, lo guardò negli occhi e gli disse:
– Vedrai Firenze, ragazzo mio: il mondo!
Fu quella notte, forse, che il fanciullo sognò il nibbio. Gli sembrava
d’essere in culla, piccolo, indifeso, e il rapace, col suo volo circonvolubile, gli
piombava improvvisamente addosso e con la coda forcuta cercava di aprirgli
la bocca.
Firenze

M USICA E GRAMMATICA, il flauto e il «donatello» furono il pane quotidiano


del piccolo Leonardo dopo il suo arrivo in città. L’ultima immagine di
Vinci, mentre il cavallo scendeva per la strada tortuosa e sassosa, era stata
quella dello zio Francesco, rimasto all’uscio di casa a guardarlo partire.
Al silenzio della campagna si era sostituito il frastuono della città. Le
botteghe degli artigiani aprivano i battenti all’alba, e fino al tramonto si
riversava nella strada il rumore degli attrezzi, dall’ascia al martello, dagli
argani ai mantici: era come un immenso respiro, un affanno collettivo,
interrotto ogni tanto dal fragore di un crollo, che segnava la distruzione delle
vecchie case-torri per far posto ad una nuova architettura «residenziale».
Era piccola Firenze. Il Brunelleschi aveva appena incominciato a costruire
una dimora per Luca Pitti alle falde del poggio di Boboli, al di là dell’Arno, e
Michelozzo aveva terminato da poco il palagio-fortezza per Cosimo de’ Medici
in via Larga.
La città stava riprendendo fiato e coraggio, dopo il crollo economico delle
sue compagnie mercantili che avevano perso, sui mercati della lana e della
seta, un monopolio tenuto da secoli: la nuova produzione straniera aveva
paralizzato molte attività e fatto fallire diverse banche.
La sfiducia nell’investimento commerciale, o imprenditoriale, stimolava
investimenti diversi, apparentemente più stabili, fatti di proprietà immobiliari;
e la gente, non appena poteva, trasformava il denaro in terreni agricoli o in
case: se queste erano vecchie, la demolizione e la riedificazione costituivano
una seconda e più ardita operazione, non solo economica, ma anche artistica e
sociale.
Tutti gli artefici dello splendore di quel secolo vivevano e operavano in
Firenze: Donatello, il Brunelleschi, fra’ Filippo Lippi, Benozzo, il Rossellino,
Michelozzo, Paolo Uccello, i due Pollaiuolo, Luca della Robbia, Mino da
Fiesole, Luca Signorelli. Erano morti da poco il Ghiberti e Andrea del
Castagno. E su tutti, vigile e presente, il vecchio Cosimo governava senza
governare, distruggendo i nemici con «le gravezze», ossia con le altissime
imposte sul reddito, e scegliendo di persona gli «accoppiatori» che
soprintendevano all’«imborsazione» e all’estrazione a sorte dei candidati alle
cariche pubbliche.
Come un’epidemia era scoppiata all’improvviso quella febbre di studi e di
ricerche che si chiamò Umanesimo. Un greco-rumeno, Giorgio Gemisto
Pletone, aveva fondato l’Accademia Platonica sull’esempio e nel ricordo
dell’antica scuola ateniese. Altri dotti erano accorsi a Firenze, chiamati da
Cosimo, per insegnare la lingua greca: si formarono e si affermarono, così,
uomini come Marsilio Ficino – che si proponeva di conciliare la dottrina
cristiana con quella platonica – Cristoforo Landino, Agnolo Poliziano,
Giovanni Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti che, per il suo
competente amore per l’architettura classica, era chiamato il Vitruvio
fiorentino.
In questo «clima» Leonardo visse gli anni preziosi della sua fanciullezza,
ebbe il primo contatto con una cultura ed un ambiente che certamente
influirono, in maniera determinante, sulle sue scelte.
«Nell’abbaco – scrisse il Vasari – egli in pochi mesi ch’e’ v’attese, fece tanto
acquisto, che movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che
gl’insegnava, bene spesso lo confondeva».
Ma la vocazione era un’altra. Ser Piero era convinto di farne un notaio, un
«sere» come tutti i primogeniti della famiglia, a partire da quel ser Guido di
ser Michele da Vinci che aveva rogato un atto pubblico nel 1339, al tempo del
duca d’Atene; e in tale convinzione seguiva poco o punto la formazione
culturale del figlio.
Leonardo, invece, incominciava a scoprirsi e a riconoscersi.
Quasi sempre solo, curiosava nelle botteghe degli artisti e in quelle degli
artigiani, ugualmente attratto dalla bellezza di un quadro o dall’ingegnosità di
un attrezzo, mentre avvertiva un’avversione sempre più viva per l’abbaco e
per le nozioni scolastiche. Incominciava a sollevare obiezioni e a contraddire
il maestro, in nome di quel sapere naturale ricevuto dallo zio Francesco,
opponendo alla nozione astratta dei libri, fondata soltanto sulle remote
affermazioni di Aristotele, i dati concreti e inoppugnabili dell’esperienza.
Continuava anche da solo le ricerche nel regno animale e in quello vegetale:
negli orti e nei giardini di Firenze, lungo l’Arno e il Mugnone, catturava
insetti, pesci, uccelli, raccoglieva piante e fiori, e per non perderne il ricordo e
fissarne in modo duraturo certe caratteristiche, incominciò a disegnare.
Ecco il segreto. Il distratto e indaffarato genitore sapeva che il figlio
studiava matematica, oltre all’abbaco e alla musica, ma non sospettava
nemmeno che il suo Leonardo si avventurasse clandestinamente sulla strada
dell’arte.
L’Albiera, forse, sarà stata la discreta confidente di qualche ammissione, ma
non osò dirlo al marito, uomo di spirito pratico e soprattutto collerico.
Del resto, in quegli anni, bastava entrare in una chiesa per trovare i pittori al
lavoro; non c’era che da voltarsi intorno per vedere gli scultori e gli architetti
all’opera. Leonardo aveva soltanto l’imbarazzo della scelta.
Da un po’ di tempo, e sempre per iniziativa di Cosimo, in certe botteghe di
pittori, e specialmente in quelle di Attavante e di Gherardo, si miniavano libri
nuovi d’argomento profano: la Biblioteca dei Medici si arricchiva di
documenti preziosi, in concorrenza con quella del potente e colto re
d’Ungheria Mattia Corvino.
Poi, all’improvviso, nell’estate del 1464, la notizia della morte di Cosimo,
nella villa di Careggi.
Un vento di fronda investì la città; i notabili del Poggio incominciarono a
congiurare contro quelli del Piano. I fiorentini seguivano, con apprensione e
paura, il riformarsi delle fazioni.
E morì, nel 1465, anche Albiera degli Amadori, la «mamma» e compagna di
Leonardo.
L’anno dopo i congiurati – con alla testa Luca Pitti, Agnolo Acciaiuoli,
Niccolò Soderini e un certo Diotisalvi Neroni, che era stato il più fidato
collaboratore di Cosimo – decisero di passare all’azione contro Piero il
Gottoso radunando i loro partigiani armati alla periferia di Firenze, ai quali
avrebbe dato manforte un esercito partito da Ferrara al comando del duca
Ercole d’Este.
Avvertito all’ultimo momento, Piero, benché malato, si fece portare in
barella dalla villa di Careggi a Firenze. Ma i suoi avversari, prevedendo questa
mossa, gli avevano teso un’imboscata. Se ne accorse in tempo suo figlio
Lorenzo, di diciassette anni, che precedeva con pochi armati il piccolo corteo.
Senza tornare indietro, per non mettere in sospetto i sicari nascosti dietro ai
cespugli, fece avvertire suo padre, che raggiunse il palazzo di via Larga per
un’altra strada. E subito, sostenuti dal popolo, quelli del Piano passarono al
contrattacco: i capi della congiura furono condannati a morte e poi
generosamente graziati da Piero. I fiorentini tirarono un sospiro di sollievo.
In quello stesso anno, ser Piero sposò una fanciulla di sedici anni,
Francesca Lanfredini, e la portò in casa a far da madre al figlio tredicenne.
A bottega

L A «BOTTEGA» DI un maestro del Rinascimento non aveva nulla in comune


con lo studio di un artista dei nostri tempi.
La bottega, prima di tutto, era un’officina il cui titolare, molto spesso,
faceva il pittore, lo scultore, l’ingegnere, il fabbro e il falegname. Il nome
dell’artista figurava come insegna di un’impresa commerciale, a mezza strada
fra l’artigianato e l’industria: i garzoni della bottega facevano vita in comune
col Maestro, mangiavano e dormivano sotto il suo tetto, costituivano un
gruppo, o una scuola, con precise e rigorose gerarchie.
Donatello, per esempio «era un uomo liberalissimo – a quanto afferma il
Vasari – e per gli amici migliore che per sé medesimo: mai stimò danari,
tenendo quegli in una sporta con una fune al palco appiccati, onde ogni suo
lavorante ed amico pigliava il suo bisogno, senza dirgli nulla».
Non diversamente dovevano star le cose alla bottega di Andrea di Cione,
detto il Verrocchio. Gli allievi si distribuivano i compiti, da quelli più umili
come lo spazzare o il correre per commissioni, a quelli più specifici come la
preparazione dell’intonaco e la macinatura dei colori, fino alla «dipintura»
vera e propria di un particolare della tavola sulla precisa traccia del cartone
disegnato dal Maestro.
La bottega del Verrocchio comprendeva più locali: uno stanzone dal soffitto
altissimo, con la forgia e il mantice da un lato, e l’incudine per lavorare col
martello il ferro e il bronzo; e da un altro lato, sotto un lucernario aperto nel
soffitto, gli enormi trespoli e le impalcature per modellare statue più grandi
del naturale; nelle altre stanze, ancora più vaste, i forni per la fusione, le tavole
e i banchi da falegname, un deposito di gessi e di cere, un angolo per i
mosaici e per l’intaglio.
Andrea era orefice, «prospettivo», scultore, intagliatore, pittore e musico.
Inoltre, da giovane, aveva studiato le scienze e particolarmente la geometria,
che comprendeva, allora, anche la geologia e l’astronomia.
Teneva con sé un gruppo di giovani, fra cui si distinguevano due aiutanti
dotati di sicuro talento: Pietro Vannucci da Perugia, detto il Perugino e Sandro
Filipepi, detto il Botticelli; fra i ragazzi di bottega si facevano già notare
Lorenzo di Credi, Francesco Botticini e Francesco di Simone.
Ser Piero da Vinci, notaio della Signoria, aveva avuto più volte a che fare
col Verrocchio per la stesura e la firma di vari contratti di allogazione.
Possiamo dunque credere che fosse in buoni rapporti con l’artista se un
giorno, appunto, si recò da lui per una faccenda privata e personale.
– Maestro, per favore, aiutatemi a risolvere un difficile caso di coscienza.
– Volentieri, ser Piero; di che si tratta?
– Del mio figliolo Leonardo. Guardate questi disegni, sono suoi, e ditemi
francamente il vostro parere. Se c’è della stoffa, bene. Se no, farà il notaio
come me, lo dovessi costringere con la forza.
Il Verrocchio prese i disegni dalle mani di ser Piero e li guardò a lungo, in
silenzio.
– Chi avrebbe mai immaginato che quel ragazzo covasse questa passione? –
seguitò il notaio. – È pieno d’interessi, è vero, si perde dietro a mille
quisquilie: ora studia gli animali, ora le piante; mi riempie la casa d’insetti, e
intanto trascura il latino, tradisce «il donatello», discute coi maestri: e ieri, in
camera sua, che ti trovo? Un fascio di disegni. Ne ho presi un po’, a caso.
– Ser Piero, portatemi il vostro figliolo – disse grave e solenne il
Verrocchio. Verrà a vivere qui, con questi altri ragazzi. Portatelo quando
volete, anche subito. Ne farò qualcosa di buono.
Ser Piero non mise tempo in mezzo. Se doveva rinunciare a farne un
notaio, tanto valeva incominciare subito a farne un pittore.
Tornò a casa, andò nel suo studio e disse alla giovane moglie di mandargli
Leonardo.
Poco dopo il ragazzo entrò, salutò il padre ed attese.
– Leonardo – lo affrontò subito ser Piero – che cosa intendi fare, il notaio o
il pittore?
– Il pittore.
– Ne sei sicuro? Sei certo di averne la stoffa? Voglio dire, di avere del
talento per non essere l’ultimo, ma il primo?
Ser Piero squadrò il figlio con occhio inquisitore, e in cuor suo dovette
convenire che quel ragazzo non solo era straordinariamente bello ma si
distingueva per qualcosa di singolare e di speciale che proveniva, oltre che
dallo sguardo, da tutta la persona.
– Sì – rispose Leonardo.
– Allora prepara la tua roba. Dopo desinare ti accompagnerò da maestro
Andrea Verrocchio, vicino al ponte alle Grazie; ti assumerà come apprendista,
andrai subito ad abitare in casa sua.
Era il 1469. Da pochi mesi, a Vinci, era morto il vecchio ser Antonio. Nella
grande casa era rimasta la nonna Lucia con lo zio Francesco e la sua giovane
moglie Alessandra. L’ultima volta che aveva visto il nipote, poco prima di
sposarsi, lo zio filosofo gli aveva raccomandato di non prendere mai decisioni
affrettate, ma di ascoltarsi dentro.
– Poi – aveva concluso – non fare ciò che vuoi, ma ciò che senti.
Maestro e discepolo

N ON POSSIAMO E non dobbiamo immaginare gli allievi del Verrocchio


diversamente da quello che erano e furono: una brigata di ragazzi pieni
di vita, vogliosi di divertirsi, pronti alla burla e allo scherzo, lesti di mano e di
lingua, uniti tuttavia da un comune interesse, o meglio, da un comune amore
per l’arte.
Impegnato ciascuno di loro nel compito assegnatogli, sapevan tacere per
non disturbarsi a vicenda, si giudicavano e si correggevano reciprocamente
senza alterigia, obbedendo, semmai, a una specie di spirito di corpo che si
manifestava nel lavoro di gruppo e nell’opera portata a termine col concorso
di tutti, che aveva per sigillo non il nome di Andrea Verrocchio, ma quello
della sua bottega.
«... Essendosi finita di murare la cupola di Santa Maria del Fiore, fu
risoluto, dopo molti ragionamenti, che si facesse la palla di rame, che aveva a
esser posta in cima a quell’edifizio», riferisce il Vasari; e il lavoro «fu
assegnato ad Andrea».
Anche, Leonardo, in qualche modo, partecipò all’esecuzione della palla.
Come ultimo arrivato si accollò tutti i lavori dei novizi, dalla ramazza al
pestello, ma percorse in un tempo notevolmente più breve l’itinerario
dell’apprendista.
L’amico «più amico» era Lorenzo di Credi.
Disegnavano insieme, andavano a studiare in Santa Croce gli affreschi di
Giotto, al Carmine quelli di Masaccio; si cimentavano nella costruzione di
strumenti e di attrezzi per sollevare e spostare i pesi, in vista della collocazione
della palla in cima alla lanterna della cupola; aiutavano volentieri maestro
Andrea a ricalcare col gesso il volto dei morti. Il Verrocchio, infatti, aveva
scoperto la proprietà di quel gesso speciale che, impastato con l’acqua tiepida,
diventava malleabile come la cera, e poi, seccando, induriva come un sasso; e
aveva incominciato a prendere il calco del viso dei defunti – la cosiddetta
maschera – per memoria e devozione dei vivi. La sua bottega era letteralmente
assediata di postulanti, e tutti per un lavoro urgente e non dilazionabile.
Leonardo e Lorenzo lo aiutavano con entusiasmo, attenti ad ogni suo gesto,
pronti ad ogni suo cenno.
«E a dì 27 di maggio 1471, si tirò su la palla di rame dorata in su la lanterna
della cupola di Santa Maria del Fiore, in lunedì».
La notizia è di Luca Landucci, speziale al canto dei Tornaquinci e testimone
oculare. Era venuto dunque il momento, per il Verrocchio, di mostrare ai
concittadini la sua bravura d’ingegnere, issando fino in cima alla cupola del
Brunelleschi una sfera di metallo, capace di contenere molte persone,
«appoggiandola – come precisa il Vasari – sur un bottone, e incatenandola di
maniera da potervi metter sopra sicuramente la croce».
Corde di canapa e catene, ruote, leve, cerniere, soppalchi ed argani, insieme
ad altri originali e complicati meccanismi, furono messi in moto per sollevare
la palla. Leonardo, affascinato dallo spettacolo, tirava spesso fuori dalla tasca
un libro d’appunti per disegnare quelle macchine, prender nota di certi
ingranaggi, eseguire dei calcoli, controllare certe misure.
Con stupore i suoi compagni lo vedevano adoprare la mano mancina,
scrivendo le lettere in senso contrario, da destra a sinistra. Anche Lorenzo di
Credi restava impressionato di fronte a quei segni misteriosi, vergati con
mano veloce e sicura; e Leonardo, senza rispondere alle domande o ai
commenti, segretamente si compiaceva di quell’effetto «magico» che
all’improvviso, come un diaframma, lo separava da tutti: la scrittura alla
rovescia diventava un linguaggio segreto, intelligibile soltanto agli iniziati.
Analogamente il disegno, col tratteggio dell’ombra che andava da sinistra a
destra, acquistava una caratteristica inconfondibile, inimitabile, più efficace di
una firma.
Un giorno Leonardo era intento a dipingere la testa di un angiolo sulla pala
d’altare commissionata al Verrocchio dai frati di Vallombrosa, raffigurante
San Giovanni che battezza Gesù: era l’ora del desinare, e Lorenzo di Credi,
invece di mangiare, stava a guardare estasiato l’amico, coi gomiti sul tavolo e
il viso tra le mani.
Accanto all’angiolo di Leonardo ce n’era un altro già dipinto dal
Verrocchio, e il confronto sorgeva spontaneo sulle labbra di Lorenzo.
– Ma lo sai, Leonardo, che il tuo angiolo è più bello di quello del Maestro?
Leonardo fece finta di non udire.
– Te lo dico io, e te lo direbbe anche lui se fosse qui.
Gli altri allievi, seduti intorno a una tavola sgomberata degli attrezzi,
mangiavano schiamazzando, affacciandosi ogni tanto alla finestra per
scambiare qualche lazzo con le comari e le ragazze che sciacquavano panni al
lavatoio vicino.
Leonardo non riusciva a staccarsi da quella testa. Cercava di rifinire il già
finito, di aggiungere perfezione al già perfetto.
– Leonardo, te lo dico io: il tuo angiolo è più bello di quello d’Andrea! –
gridò Lorenzo.
Leonardo si voltò. Il Verrocchio, a braccia conserte, guardava di sull’uscio
il lavoro del giovane allievo: era arrivato in tempo per udire la frase cocente
di Lorenzo, e ora ne verificava con gli occhi l’esattezza.
Andò vicino alla pala – dicono i biografi – batté affettuosamente la mano
sulla spalla di Leonardo, poi prese il pennello che gli era servito l’ultima volta
che ci aveva lavorato, e lo spezzò, come a significare la sua definitiva rottura
con quell’arte.
«Lionardo da Vinci – scrive infatti il Vasari attingendo probabilmente la
notizia da un memoriale di Francesco Albertini, stampato in Firenze nel 1510,
ossia quando Leonardo era ancora vivo ed avrebbe potuto smentire una
notizia non vera – allora giovanetto e suo discepolo, vi colorì un Angelo di
sua mano, il quale era molto meglio che l’altre cose. Il che fu cagione che
Andrea si risolvette a non voler toccare più pennelli...».
La lezione del Verrocchio

L EGGENDA ANCHE QUESTA, o soltanto fantasia? L’affermazione del Vasari,


secondo la quale il Verrocchio rinunciò alla pittura dopo aver visto la
testa dell’angiolo dipinta dal suo giovanissimo allievo, probabilmente non
corrisponde a verità; e mentre nuoce alla giusta e meritata fama del
Verrocchio, non aggiunge nulla al merito di Leonardo.
Andrea del Verrocchio non era soltanto un maestro di bottega, ma un
caposcuola, un innovatore. Non a caso, ai primi del Cinquecento, il poeta
Ugolino Verini affermava, in limpidi esametri, che tutta la pittura toscana era
figlia del Verrocchio.
D’altronde il Vasari, a proposito di quella pala d’altare, dice che Leonardo
«colorì un Angelo di sua mano». Non dice «disegnò», perché il disegno era
compito e prerogativa del Maestro. Ma il pregio di quella testa consiste
proprio nel disegno. La grazia, la bellezza, la dolcezza di quel volto non
dipendono soltanto dal colore, ma anche, e specialmente, dal segno che ne
definisce i connotati esteriori e soprattutto interiori.
Leonardo era andato a bottega dal Verrocchio proprio nel periodo in cui
quell’artista, col «Battesimo di Gesù», imponeva alla pittura toscana una
svolta innovatrice, instaurando un nuovo rapporto tra figura e natura. Non
che fosse il Verrocchio a scoprire il paesaggio; Benozzo Gozzoli, nel palazzo di
Cosimo in via Larga, ne aveva perfino abusato. Ma i personaggi di Benozzo
non facevano parte di quel paesaggio, potevano anche non averlo, o averne
un altro assolutamente diverso: erano figure isolate, estranee a tutto ciò che le
circondava.
Fu il Verrocchio a realizzare, per primo, una fusione armonica tra le
persone e l’ambiente, quell’unità ineffabile tra figura e natura che raggiunse
ben presto la sua perfezione nella Vergine delle Rocce di Leonardo, con gli
alberi e le pietre al posto del trono e per terra un tappeto d’erba fiorita.
Molti anni dopo, rivivendo forse quelle giovanili esperienze, Leonardo, nel
suo «Trattato della Pittura», ricordò con accenti aspri e severi alcune parole
del Botticelli contro lo studio del paesaggio.
«... Quello non fia universale, che non ama egualmente tutte le cose che si
contengono nella pittura, come se a uno non gli piace li paesi, esso stima
quelli esser cosa di brieve e semplice investigazione, come disse il nostro
Botticella, che quello studio era vano, perché col solo gettare di una sponga
piena di diversi colori in un muro, essa lasciava in esso muro una macchia
dove si vedeva un bel paese...». «E questo tal pittore – aggiunse, non più
chiamandolo affettuosamente nostro, ma sdegnosamente tale – fece tristissimi
paesi». Infine, nel «Codice Atlantico», contestò ancora l’amico scrivendo:
«Sandro! tu non di’ perché tali cose seconde paiono più basse che le terze!».
Il primo disegno di Leonardo pervenuto fino a noi, più che uno studio, è
l’evocazione di un immenso paesaggio.
Porta la data del 5 d’agosto 1473 «il dì della Madonna della Neve».
L’aria sua, che bellissima era

D URANTE LA LAVORAZIONE del Battesimo di Gesù non poterono mancare le


visite, improvvise e inattese, di Lorenzo de’ Medici. Dal dicembre del
’69, con la morte di Piero il Gottoso, egli era diventato, a vent’anni, il capo
della famiglia e della città; sull’esempio del nonno Cosimo, era anche lui
disponibile per tutti, e soprattutto per l’arte. Le botteghe degli artisti erano le
sue mete preferite; e il suo interesse per quella pala, che prometteva di portare
un nuovo e convincente messaggio nel mondo pittorico fiorentino, doveva
essere sicuro e sincero. In nessun altro posto, meglio che nella bottega di
Andrea del Verrocchio, poté dunque avvenire l’incontro del giovane Lorenzo
col giovane Leonardo.
– Leonardo... di chi? – gli avrà chiesto il figlio di Piero de’ Medici,
scrutandolo con benevola attenzione.
– Di ser Piero da Vinci – avrà risposto Leonardo, con la sicurezza di
pronunciare un nome non ignoto.
Erano i giorni, quelli, in cui Lorenzo, per disingannare gli occulti avversari
e i falsi amici, che gli davano i giorni contati a causa della sua «immaturità», si
preparava ad accogliere il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza con la
consorte Bona di Savoia.
Firenze, sotto la sua regìa, si era trasformata a vista d’occhio: in una sola
notte la chiesa di Santa Maria del Fiore ebbe una facciata, fatta di pannelli
intarsiati e dipinti; le strade si addobbarono d’archi di trionfo istoriati a tutto
tondo; ogni finestra ebbe un broccato, ogni porta un festone.
E quando il duca di Milano fece il suo solenne ingresso in città «con un
corteggio da suscitare stupore e meraviglia financo nei fiorentini», Lorenzo gli
fece percorrere un itinerario da fiaba, fino al palazzo di via Larga incantato,
per l’occasione, dalla fantasia del Botticelli. Alla politica sorniona e duttile di
Cosimo, seguiva ora quella prudente e decisa di Lorenzo; al mercante
subentrava il principe; all’occulto potere economico, un volere politico; a una
repubblica, una signoria.
«I Medici mi feciono e mi disfeciono» annotò, da vecchio, amaramente,
Leonardo.
Prima di tutto, dunque, Lorenzo «lo fece»; cioè lo seguì nel lavoro, gli fece
allogare alcune opere, lo volle come consulente, lo scelse come amico, lo
assunse come collaboratore nei giardini di San Marco dove aveva già
incominciato a raccogliere i capolavori dell’arte classica e contemporanea.
Parlò con lui di musica, di filosofia, di poesia e di pittura; lo ascoltò, forse,
parlare di meccanica e di anatomia: ma Leonardo, anche per il futuro
«Magnifico», rimase enigmatico come la sua scrittura alla rovescia, una specie
di «vaso senza manico», un uomo che voleva e sapeva nascondersi, per
difendere la propria libertà interiore.
Chi erano, allora, i suoi amici, fuori dalla cerchia dei compagni di bottega?
Chi frequentava, e che faceva, nel tempo libero?
Segnati uno accanto all’altro nel «Codice Atlantico», alcuni nomi possono
dare un’idea delle relazioni di Leonardo, la sua ricerca di compagnie singolari,
con interessi diversi e addirittura estranei alla pittura.
«Quadrante di Carlo Marmocchi – Messer Francesco Araldo – ser
Benedetto da Cieperello – Benedetto dell’Abbaco – maestro Pagolo medico –
Domenico di Michelino – il Calvo degli Alberti – messer Giovanni
Argiropulo».
Si tratta di persone importanti, sicuramente fra i «notabili» di quel tempo,
compreso l’umanista insegnante di greco Giovanni Argiropulos, che rimase a
Firenze fino al 1472.
«Quadrante»: si parlava dunque d’astronomia, e Carlo Marmocchi, versato
in quella scienza, aveva forse mostrato agli amici, fra cui Benedetto e maestro
Pagolo, il suo strumento. Ma Benedetto Aritmetico, o dell’Abbaco, è noto
ancor oggi fra i maggiori matematici fiorentini del Quattrocento, e Pagolo non
è altro che il vecchio e saggio Paolo Dal Pozzo Toscanelli – astronomo,
geografo, matematico e medico – «amico di tutti gli uomini dotti i quali ebbe
la sua età».
Francesco Filarete è l’Araldo della Signoria, ser Benedetto da Cepperello è
un notaio nobile e colto, Domenico di Michelino è un pittore, il calvo degli
Alberti è un parente di Leon Battista, l’Argiropulos è il traduttore della Phisica
di Aristotele e, secondo il Filelfo, il più dotto di tutti i greci venuti in Italia.
Leonardo era di certo il più giovane, non aveva ancora vent’anni: ma già gli
scienziati lo accoglievano volentieri nelle loro dotte conversazioni, perché egli
sapeva ascoltare e tacere, e «con l’aria sua, che bellissima era, rasserenava
ogni animo mesto».
Ella è cosa divina

L
atti.
ORENZO DI CREDI era un cattolico osservante; un sincero e profondo
sentimento religioso dominava i suoi pensieri e traspariva da tutti i suoi

Sandro Botticelli, invece, contestava la Chiesa in nome di un cristianesimo


primitivo e dimenticato: ora che i suoi amici umanisti gli avevan fatto
conoscere alcuni passi di Giustino e di Origene, egli sosteneva la triplice
costituzione dell’uomo – corpo, anima e spirito – e affermava apertamente la
temporaneità dell’inferno, come allontanamento da Dio, e la redenzione
universale.
Pietro Perugino si proclamava ateo. Irrideva la fede dei due amici negando
apertamente il concetto di un’immortalità dell’anima, ed asseriva che la
maggior parte del clero la pensava come lui.
Per Leonardo erano ignoranti sia i due credenti sia il miscredente, poiché
parlavano obbedendo a un oscuro sentire invece che a un chiaro concetto.
Occorreva conoscere, prima di tutto; investigare non solo la Terra, ma l’intero
universo, perché la vera sapienza è figlia dell’esperienza: prima studiare,
quindi, e poi credere.
Naturalmente queste dispute non restavano circoscritte nei locali della
bottega, ma continuavano anche fuori, per cui, ben presto, il Botticelli fu
considerato un falso profeta, il Perugino un dannato e Leonardo un eretico.
«Ma se noi – insisteva Leonardo specialmente col mite Lorenzo di Credi –
se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi,
maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli ai sensi stessi, come
dell’essenza di Dio e dell’anima». Prima di credere bisogna sapere. Occorre
studiare i corpi, prima di interrogare lo spirito. E se l’architettura dei corpi ti
sembra meravigliosa «pensa questi essere nulla rispetto all’anima, che in tale
architettura abita, e veramente, quale essa sia, ella è cosa divina».
Così, per meglio conoscere i corpi, andava a sezionare i cadaveri nelle
camere mortuarie dell’Ospedale di Santa Maria Nuova. Trascorreva intere
notti al chiarore vacillante di una candela per esaminare un organo, capirne la
funzione, scoprirne l’intima bellezza. Poi lo disegnava nel suo taccuino, con
impressionante verismo, per conservarne precisa memoria.
La bocca della verità

C HIUNQUE, ANCHE NEL Quattrocento, poteva denunziare il prossimo mediante


una lettera anonima. Anzi, sull’esempio di Venezia, molte altre città, fra
cui Firenze, avevano installato apposite cassette nei cortili del palazzo della
Ragione o della Signoria in corrispondenza di una fessura praticata nel muro
esterno.
La fessura si chiamava «buco» o «tamburo»; se poi, per ragioni estetiche,
era mimetizzata nella bocca ridente o ghignante di una faccia graffita o
scolpita in bassorilievo, veniva detta «bocca della verità».
Tutti i rancori, le gelosie e le vendette finivano in quella bocca, e dall’altra
parte gli «uffiziali» provvedevano a ritirare e a classificare le denunce per
sottoporle a regolare giudizio.
Gli «uffiziali di notte e dei monasteri», a Firenze, prendevano in
considerazione soltanto le delazioni relative al buon costume: per tutte le altre,
dai delitti, al furto, alle pratiche magiche, all’usura, altre bocche avidamente si
aprivano nei muri del Bargello.
Il 9 aprile del 1476 Leonardo, insieme ad altri quattro imputati, comparve
davanti a questi «uffiziali di notte» per sentirsi leggere la seguente denuncia:
«Notifico a Voi Signori Officiali, come egli è vera cosa che Jacopo
Saltarelli, fratello carnale di Giovanni Saltarelli... va dietro a molte miserie et
consente compiacere a quelle persone che lo richieggano di simili tristizie...
Tal parte dirò d’alcuni:
Bartolomeo di Pasquino, orafo, sta in Vacchereccia.
Leonardo di ser Piero da Vinci, sta con Andrea del Verrocchio.
Baccino farsettaio, sta da Orto San Michele...
Leonardo Tornabuoni, detto Teri, veste nero».
Se a quell’epoca fossero esistiti i giornali, a Firenze sarebbe scoppiato uno
scandalo clamoroso. A parte l’allievo orafo e quello farsettaio, c’era il figliolo
del rispettabile notaio e procuratore della Santissima Annunziata, e c’era,
soprattutto, il nipote prediletto della pia e devotissima Lucrezia Tornabuoni,
madre di Lorenzo de’ Medici.
La notizia, perciò, non scese né sulla strada né in piazza: serpeggiò,
bisbigliata, per i corridoi, in un frenetico andirivieni di messi e di famigli tra
via Larga, il Bargello e la Signoria. Ser Piero ebbe il suo daffare con gli amici
togati, e il magistrato degli «uffiziali di notte» ebbe i suoi grattacapi. Gli
imputati furono ascoltati, e poi assolti cum conditione ut retamburentur, ossia
con la condizione di essere riesaminati. Due mesi dopo, la sentenza
d’assoluzione diventò definitiva.
«Quando io feci domineddio putto – scrisse molti anni più tardi Leonardo,
rivolgendosi idealmente ai suoi concittadini – voi mi mettesti in prigione; ora,
s’io ’l fo grande, voi mi farete peggio».
Anche se questa frase accorata non si riferisce all’episodio del Saltarelli –
che non era un putto, ma aveva diciassette anni – è sempre una testimonianza
significativa ed emblematica dell’amarezza di Leonardo di fronte
all’incomprensione.
Nella lunga storia di Firenze nessuno è mai riuscito ad affermarsi senza
ricevere addosso, dai suoi malevoli concittadini, il fango della calunnia.
L’invidia e la gelosia, come nel caso di Leonardo, si celavano nelle cosiddette
persone devote, nei timorati di Dio, che ascoltavano scandalizzati quel
giovane parlare con gli amici «tirandoli a sé» e che «nell’animo suo – come
scrisse poi il Vasari – si era fatto un concetto sì eretico, ch’e’ non si accostava
a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo essere filosofo
che cristiano».
Forse Leonardo assisté, con irritata ironia e con eloquente silenzio, alle
convulse manovre messe in atto per attutire, nascondere, soffocare la notizia
della denuncia anonima.
Forse affermò a voce alta, e sotto giuramento, di aver usato il Saltarelli e gli
altri amici come modelli per i suoi disegni; forse mostrò addirittura agli
«uffiziali di notte» i suoi taccuini, le «prove» della sua innocenza. Certamente,
dopo l’assoluzione, non provò letizia, ma sconforto.
Il bisogno di allontanarsi dalla città e dalle persone lo portò probabilmente
a Vinci, dove ser Piero aveva comprato da qualche anno un podere e dove lo
zio Francesco poteva sempre capirlo senza troppe domande.
Forse cercò e ritrovò l’amica natura della sua infanzia, fece lunghe
cavalcate, lunghe soste nel silenzio della campagna; ricominciò a seguire con
gli occhi il volo degli uccelli, con l’orecchio lo scorrere dell’acqua fra i sassi.
Riprese con accanimento lo studio dei paesaggi, facendone ogni volta
un’analisi più minuziosa, scomponendo la realtà nei più minuti particolari, alla
ricerca di una ragione assoluta, di un «ultimo» perché.
«Il pittore deve essere solitario, e considerare ciò che esso vede, e parlare
con seco...».
Al tempo dell’anonima denuncia Leonardo stava per compiere ventiquattro
anni. Era un uomo, ormai. Dopo l’assoluzione preferì allontanarsi anche dalla
bottega del Verrocchio, concludere l’affettuoso sodalizio con i compagni
d’arte.
Prese una casa in affitto – non sappiamo dove – per essere più solo e più
libero.
Lo studio della natura, che egli si era imposto come regola per diventare un
buon pittore, stava prendendo il sopravvento sulla stessa pittura.
La curiosità per la vita naturale diventava necessità di osservazione dei
fenomeni naturali: la scienza, non più al servizio dell’arte, diventava fine a se
stessa, la scienza per la scienza.
O miseri mortali aprite gli occhi
sarai solo tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo
«E compagno
SE TU
sarai mezzo tuo, e tanto meno, quanto sarà maggiore la
indiscrezione della tua pratica».
Pensieri lungamente meditati, prima di definirsi in una frase, condensarsi in
una sentenza solenne come un comandamento, e d’altronde nascosta in un
taccuino dove nessuno sarebbe mai andato a curiosare. Leonardo si dice «tu»,
si sdoppia, come se il suo lo si rivolgesse all’anima, o la ragione al
sentimento.
Solo, nella città sempre più animata, dove c’è lavoro per tutti da quando
Lorenzo ha tolto «ogni gravezza», cioè ogni tassa, a chi costruisce nuovi
edifici, Leonardo passa da una compagnia all’altra senza disertarne alcuna:
l’araldo della Signoria, Francesco Filarete, sta spesso insieme a Manuele
Crisolora, a Teodoro Gaza e a Giovanni Tiptoft, conte di Worcester, venuto
apposta a Firenze per ascoltare le lezioni dell’Argiropulo; e Leonardo impara
da loro le prime nozioni di greco, assapora le primizie dei classici.
Partecipa ai raduni indetti da Lorenzo e Giuliano de’ Medici, con Neri e
Donato Acciaiuoli che trascrivono e commentano le lezioni dell’Argiropulos,
con Alamanno Rinuccini che disserta in greco, con Bartolommeo Sacchi,
detto il Plàtina, che ha lasciato la corte dei Gonzaga per correre a Firenze ad
imparare il greco, col canonico Marsilio Ficino che presiede l’Accademia
Platonica e sta ora riscoprendo le rivelazioni illuminanti delle Enneadi di
Plotino.
Leonardo frequenta, inoltre, un cenacolo di dotti ebrei che lo iniziano ai
segreti degli antichi misteri, alla cabala e all’alchimia; non tradisce la musica,
ma s’incontra spesso con maestro Antonio Squarcialupi, organista in Duomo,
con Alexander Agricola – un musico tedesco sposato con una fiorentina – con
Gerolamo Amazzi, medico e musico, con Bastiano Foresi, celebre fabbricante
di strumenti a fiato.
Però non trascura le corsie dell’ospedale, le stanze mortuarie, l’anatomia;
riprende a studiare geometria e matematica; si dedica a minuziose ricerche di
meccanica e d’idraulica.
Tutto lo interessa e tutto lo entusiasma. Nessuna scienza e nessuna
disciplina gli sono estranee od indifferenti; l’astronomia e la geologia, come la
mineralogia, la zoologia e la botanica. È un argonauta alla conquista del vello
d’oro della conoscenza, che si lascia per sempre alle spalle le sottili astrazioni
del Medioevo.
«La natura è piena d’infinite ragioni che non furono mai in esperienza». E
questo è il suo campo di battaglia e il suo impegno d’uomo moderno: scoprire
quelle infinite ragioni, farne esperienza.
In questo periodo della sua vita, Leonardo è di tutti e di nessuno; è
dovunque, e soltanto con se stesso. Non è più un pittore in cerca d’immagini,
ma un filosofo che ricerca, nella meravigliosa e misteriosa architettura
dell’universo, i connotati del suo grande Artefice. E quando la scienza,
attraverso la contemplazione del reale, provoca in lui un’emozione profonda,
allora, in un lampo di luce, egli intuisce la causa di quelle «infinite ragioni» e
la chiama consapevolmente «Primo Motore». Quindi invita gli altri, tutti, a
«sperimentarla» interiormente, dicendo: «O miseri mortali, aprite gli occhi !».
La rotella

I N CASA VINCI c’era un’altra donna: Margherita, figlia di Francesco di Jacopo


di Guglielmo, terza moglie di ser Piero, dopo l’immatura morte di
Francesca Lanfredini. Margherita era una donna prolifica; aveva già messo al
mondo un «putto» battezzato col nome di Antonio, come il nonno, a cui
seguirono, con un ritmo sempre più accelerato, Giuliano nel 1479, Lorenzo
nell’84, Violante nell’85, Domenico nell’ 86.
Leonardo frequentava abbastanza spesso la casa del padre e s’intratteneva
volentieri a mangiare, perché poteva disegnare a suo agio «i putti piccioli con
atti pronti e storti quando seggono, e nello stare ritti timidi e paurosi...».
Tutta una serie di disegni ci mostra un bambino che gioca con un gatto.
Probabilmente si trattava del piccolo Antonio, o di Giuliano, insomma di uno
dei figli «legittimi» di ser Piero, che molti anni più tardi si coalizzeranno
insieme per contestare al fratello celebre, ma «bastardo», il diritto all’eredità.
Ser Piero, intanto, seguitava a investire i suoi guadagni nel territorio di
Vinci: acquistava nuove case e terreni e si recava sempre più spesso nel borgo
per la caccia o la pesca.
Un giorno che si trovava «in villa» – come riferisce il Vasari – «fu ricercato
domesticamente da un suo contadino, il quale d’un fico da lui tagliato in su ’l
podere aveva di sua mano fatto una rotella». Il contadino, che per l’appunto
era l’accompagnatore di ser Piero nelle battute di caccia, chiedeva al padrone
di fargli dipingere quella ruota da qualche pittore fiorentino.
Ser Piero aderì di buon grado, e tornato a Firenze mandò il legno al figliolo
perché vi decorasse sopra qualcosa.
Leonardo, presa in mano quella rotella, vide subito che era storta e
irregolare, «mal lavorata e goffa»: la dette dunque a un tornitore che la
rimodellò, spianandone le facce e riducendola «pari e delicata». Quindi, col
gesso, Leonardo preparò la superficie da dipingere. Ma che cosa?
Qualcosa di sensazionale, d’impressionante, capace di attirare e di atterrire
come la testa della Medusa.
«Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza – séguita il
Vasari – dove non entrava se non ei solo, lucertole, ramarri, grilli, serpi,
farfalle, locuste, nottole e altre strane spezie di simili animali. Da la
moltitudine de’ quali variamente adattata insieme cavò uno animalaccio molto
orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco. E
quello fece uscire – [ossia lo acconciò e dipinse in modo che pareva uscisse]
– d’una pietra scura e spezzata, buffando veleno da la gola aperta, fuoco dagli
occhi, e fumo dal naso sì stranamente che e’ parea monstruosa e orribil cosa».
Leonardo lavorò intorno alla rotella per parecchi mesi, tanto che suo padre
e perfino il contadino l’avevano scordata.
Fu con sorpresa, perciò, che ser Piero, incontrando un giorno il figliolo, si
sentì dire che la rotella era pronta e che poteva mandare, a suo comodo, a
ritirarla.
– Verrò io – rispose incuriosito ser Piero. Ma lasciamo ancora la parola al
Vasari:
«Andato dunque ser Piero una mattina per la rotella, e picchiato alla porta,
Lionardo li aperse dicendo che aspettasse un poco; e, ritornato nella stanza,
acconciò la rotella al lume in su ’l leggio, e assettò la finestra che facesse lume
abbacinato, poi lo fece passare dentro a vederla. Ser Piero, nel primo aspetto,
non pensando alla cosa, subitamente si scosse, non credendo che quella fosse
rotella, né manco dipinto quel figurato che e’ vi vedeva...».
Leonardo lo tranquillizzò, e ridendo disse: – «Babbo, questa opera serve
per quel che ella è fatta: pigliàtela dunque e portàtela, ché questo è il fine che
dell’opere s’aspetta».
A ser Piero sembrava di sognare: mai vista una cosa tanto straordinaria, un
capolavoro così insolito, senza precedenti!
Elogiò con soddisfazione il figlio, lo ringraziò anche a nome del contadino
e si portò via la rotella. Ma invece di spedirla a Vinci la tenne in casa; quindi
comprò, da un merciaio, un’altra rotella dipinta con un cuore trapassato da
uno strale, e quando tornò «in villa» la consegnò al contadino che gli restò
obbligato per tutta la vita. «Appresso – conclude il Vasari – vendé ser Piero
quella di Lionardo secretamente in Fiorenza a certi mercatanti, cento ducati».
Padre e figlio, ser Piero e Leonardo, sono compiutamente definiti in questo
episodio.
Ser Piero è l’uomo pratico, furbo, che sa coliere al balzo ogni occasione di
guadagno, e si compiace intimamente con se stesso della propria abilità:
prende al figlio la rotella con un elogio, la stima subito per ciò che vale e si
accorge che per il contadino di Vinci è sprecata; sicché ne compra un’altra da
pochi soldi, fa felice il villano, vende quella del figlio a dei mercanti di
passaggio e l’operazione si conclude nel migliore dei modi.
Leonardo è l’ingenuo, il sognatore: il suo premio è la paura del padre
davanti alla rotella. Mentre la dipingeva, aveva sempre immaginato così la
reazione di chi l’avrebbe vista per la prima volta. La mossa atterrita di ser
Piero compensa tutte le sue fatiche. Leonardo ha dipinto per la gioia di creare,
e non c’è prezzo che possa remunerare questa immedesimazione dell’artista
nella sua opera. Perciò dice: – Prendètela pure, portàtela via – «è questo il fine
che dell’opere si aspetta»: non il denaro, dunque, ma la possibilità e la
capacità di trasmettere un’emozione e un messaggio.
Ser Piero, col suo balzo all’indietro, ha pagato, per Leonardo, il giusto
prezzo.
La congiura dei Pazzi

I L 26 APRILE 1478,
di domenica, Lorenzo e Giuliano de’ Medici furono aggrediti
in chiesa, durante la Messa, da un gruppo di amici segretamente congiurati
contro di loro.
La causa apparente era politica; le ragioni vere ed occulte, come spesso in
questi casi, erano economiche.
Un recente decreto della Repubblica – suggerito da Lorenzo – vietava alle
femmine di ereditare dal padre; e questo decreto era stato emanato proprio
quando Giovanni de’ Pazzi, marito dell’unica figlia del ricchissimo Giovanni
Borromei, aveva ricorso contro un cugino della moglie che pretendeva di
spartire con lei l’eredità.
L’immensa fortuna del Borromei, perciò, invece di andare all’unica e
legittima figlia – ma consorte di Giovanni de’ Pazzi – toccò tutta al nipote.
L’affronto non poteva essere più clamoroso: negandogli l’eredità del
suocero, sulla quale Giovanni aveva fatto da un pezzo assegnamento, la
Repubblica «metteva a sedere» come si diceva, ossia tagliava le gambe a un
banchiere che, specie a Roma, stava facendo un po’ troppa concorrenza ai
Medici.
Così la famiglia de’ Pazzi, forte del prestigio di cui godeva in Firenze e delle
potenti parentele – «... erano i Pazzi per ricchezze e nobiltà allora di tutte
l’altre famiglie fiorentine splendidissimi» – incominciò a tramare una
congiura. Dopo le prime riluttanze, vi aderì anche il vecchio Jacopo, capo
della famiglia, esortato dal papa Sisto IV che non perdonava a Lorenzo di
avere ostacolato Girolamo Riario, suo nipote, quando cercava d’impadronirsi
di Imola.
Come primo segno di ostilità, il papa tolse al banco dei Medici la gestione
del tesoro pontificio, affidandola al banco de’ Pazzi. Poi, nonostante il parere
contrario di Lorenzo, nominò Francesco Salviati nuovo arcivescovo di Pisa.
La regia della congiura, e la sua esecuzione materiale, fu assunta da un
terzetto formato dal giovane Francesco de’ Pazzi, da Bernardo Bandini e dal
capitano di ventura Giovan Battista Montesecco, a cui si unirono Guglielmo
de’ Pazzi – marito di Bianca de’ Medici, sorella delle due vittime designate –, i
figlioli di Andrea de’ Pazzi, Renato e Niccolò, e tutta la famiglia Salviati con
l’arcivescovo Francesco in testa.
L’occasione fu data dal viaggio a Firenze del giovanissimo Raffaele Riario,
studente a Pisa e creato proprio allora cardinale dallo zio pontefice.
Lorenzo de’ Medici andò a festeggiarlo nella villa de’ Pazzi a Montughi, poi
lo ospitò nella sua villa sotto Fiesole. Ma le non buone condizioni di salute di
Giuliano costringevano ogni volta i congiurati a rimandare l’attacco, perché
era necessario, indispensabile anzi, colpire simultaneamente i due fratelli.
Lorenzo offrì all’ospite un nuovo ricevimento nel palazzo di via Larga; ma
siccome la presenza di Giuliano non era sicura neanche in casa Medici,
l’arcivescovo Salviati pensò di celebrare una messa solenne in Duomo, nella
speranza che il fratello di Lorenzo, anche se debole, non avrebbe disertato la
mensa eucaristica.
I congiurati decisero quindi di muoversi nel momento più solenne, quando
il sacerdote avrebbe alzato l’ostia sui fedeli prostrati al suono del campanello.
Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini dovevano far fuori Giuliano; a
Lorenzo ci avrebbe pensato, da solo, il Montesecco, uomo d’arme e perciò
pratico di omicidi.
Ma all’ultimo momento il soldato di ventura ebbe uno scrupolo: ammazzare
sì, chiunque, ma non dovunque. In chiesa, per esempio, no, e meno che mai
durante la messa.
Ma il piano, ormai, non poteva essere cambiato. Il Montesecco fu sostituito
da due volontari: un prete, Stefano di Bagnone Bagnoni, e un notaio
apostolico, ser Antonio da Volterra; feroci tutti e due, ma inesperti. Il Duomo,
intanto, s’era riempito di popolo la processione dei canonici, dei diaconi e dei
cantori era già uscita di sagrestia; Lorenzo, circondato dagli amici, ma senza il
fratello, era già entrato in chiesa.
Francesco de’ Pazzi e il Bandini corsero allora al palazzo di via Larga a
chiamare Giuliano, «e con prieghi e con arte – come riferisce il Machiavelli –
nella chiesa lo condussono».
E facendo addirittura finta di abbracciarlo, si assicurarono che non avesse,
sotto i vestiti, cotta o corazza.
Sia Lorenzo che Giuliano conoscevano bene lo stato d’animo dei Pazzi,
sapevano d’averli contro, ma non fino al punto di sentirsi minacciati nella
vita.
Invece, appena l’ostia si alzò, i pugnali calarono. Quello di Bernardo
Bandini, corto e affilato, trapassò il petto a Giuliano che stramazzò dopo
qualche passo; subito Francesco de’ Pazzi gli si gettò addosso per finirlo, e nel
crivellarlo di colpi, accecato dall’odio e dal sangue, si trapassò la coscia da
parte a parte.
I pugnali del prete e del notaio calarono insieme su Lorenzo, ma il giovane,
più svelto, schivò il primo colpo ricevendo soltanto un taglio di striscio al
collo. Difendendosi col mantello arrotolato, sguainò la spada, si svincolò dagli
assalitori, riparò in sagrestia seguito dal Poliziano, mentre il fido Francesco
Nori cadeva pugnalato da Bernardo Bandini che, nel frattempo, era corso a
dare manforte agli altri congiurati rimasti in difficoltà.
Dalla sagrestia, di corsa, Lorenzo raggiunse il suo palazzo uscendo dalla
porta laterale detta «dei Servi», mentre il popolo fuggiva urlando dal Duomo,
propagando così la notizia, da una strada all’altra, per tutta la città.
Intanto l’arcivescovo Salviati, spalleggiato dai suoi parenti e da Jacopo del
Poggio, si presentava al Palazzo Vecchio per impossessarsi della Signoria. Il
gonfaloniere Petrucci, che stava desinando con i membri del governo, fece
entrare soltanto poche persone dalla porticina d’emergenza, e non tardò molto
a capire che si trattava di un tradimento a danno dei Medici. Senza starci
troppo a pensare agguantò per i capelli Jacopo del Poggio e lo fece impiccare.
Subito dopo anche l’arcivescovo Salviati penzolava da una finestra del
Palazzo, ed in meno di un’ora ogni balcone ebbe il suo cadavere a ciondoloni.
Lorenzo, in via Larga prima ancora di farsi medicare, scrisse alla Signoria
di Milano per chiedere aiuto e si preoccupò che nessun congiurato sfuggisse
alla sua vendetta.
Francesco de’ Pazzi, ferito alla coscia, si era fatto portare a casa: fu preso,
nudo e sanguinante com’era, e impiccato. Il vecchio Jacopo, dopo aver
percorso a cavallo la città gridando «Libertà!», ed aver visto il popolo
rispondergli come un sol uomo «Palle! Palle!», prese la via dell’Appennino
per andare in esilio. Fu riconosciuto e catturato al Castagno, sopra San
Godenzo; ricondotto in città, fu impiccato insieme al nipote Renato.
Guglielmo de’ Pazzi, grazie alle lacrime della moglie Bianca, trovò scampo
nientemeno che nelle stanze di Lucrezia Tornabuoni, madre delle vittime della
congiura; Giovan Battista Montesecco ebbe l’onore d’essere decapitato,
mentre altre ottanta persone, più o meno responsabili, ciondolarono dalle
finestre del Bargello e di Palazzo Vecchio.
Soltanto Bernardo Bandini sfuggì alla vendetta; si seppe, poi, che era
riparato in Turchia.
Davanti al palazzo di via Larga la gente acclamava Lorenzo, voleva vederlo,
udirne la voce.
Benché ferito, Lorenzo si affacciò e raccomandò di non eccedere nella
giusta vendetta, ma soprattutto mise in guardia il popolo contro i nemici «di
fuori». Bisognava correre subito ai ripari, fortificare la città, richiamare le
milizie di stanza in Mugello e in Val d’Arno, fare appello urgente a tutti gli
alleati, specialmente agli Sforza di Milano e ai Bentivoglio di Bologna.
Il diciottenne cardinale Riario, prigioniero della Signoria, ebbe salva la vita
per diretta intercessione di Lorenzo, ma restò prigioniero, come un ostaggio in
vista dell’imminente reazione del Papa.
Infatti Sisto IV, saputo del fallimento della congiura e conosciute le misure
difensive della città, scomunicò ipso facto Lorenzo, tutti i Medici nati e da
nascere e tutto il clero fiorentino; impose, inoltre, l’immediato interdetto alle
chiese di Firenze e del contado, di Prato e di Pistoia.
«Et a dì 13 di luglio 1478 – scrisse il diarista Lapini – il Re di Napoli mandò
qui a Firenze alla Signoria un suo trombetto, con la tromba spiegata con
l’arme di detto Re, che subito smontato da cavallo andò in su il palazzo della
Signoria; e notificò loro la guerra a Firenze, se non mandavano via, e fuor
della città, Lorenzo de’ Medici».
Il discorso di Lorenzo

S ER PIERO AVEVA fatto la sua scelta assai prima della congiura de’ Pazzi. Si
può dire che era rimasto sempre fedele al vecchio Cosimo, che lo aveva
introdotto presso i mercanti di sua fiducia e l’aveva aiutato a porre i primi
sigilli e la firma sui rogiti cittadini. Perciò aveva evitato di frequentare quelli
del Poggio, prima, e quelli del Canto – il «canto» dei Pazzi, vicino al Bargello
– dopo.
Ora ser Piero da Vinci apparteneva ai notabili della Repubblica, era tra
coloro che godevano della stima di Lorenzo, e anche lui, dunque, fu
convocato all’improvviso in Palazzo Vecchio, insieme ad altri trecento
cittadini «qualificati».
Le truppe del re di Napoli avevano già varcato il Tronto e quelle del Papa
erano già nel territorio di Perugia. Firenze si preparava a difendersi,
nonostante la scomunica che creava il vuoto intorno alla città; e siccome la
posta in gioco era davvero di vita o di morte, Lorenzo volle vedere in faccia i
suoi concittadini per sapere fino a che punto egli avrebbe potuto fare
assegnamento su di loro.
Non aveva che ventisei anni, Lorenzo de’ Medici, e ad ascoltarlo c’erano
tutte le vecchie volpi della città; ma il suo discorso fu talmente efficace da
diventare subito famoso come e più di quello di Antonio dopo la morte di
Cesare. Vale davvero la pena di riudirlo, in tutta la sua drammatica efficacia,
nella fedele versione che il Machiavelli ci ha tramandato.
«Io non so, eccelsi Signori, e voi, magnifici cittadini – incominciò Lorenzo
– se io mi dolgo con voi delle cose che son seguite o se me ne rallegro. E
veramente quando penso con quanta frode, con quanto odio io sia stato
assalito e il mio fratello morto, io non posso non contristarmi e con tutto il
cuore e con tutta l’anima dolermi. Quando poi considero con che prontezza,
con che studio, con quale amore, con quanto unito consenso di tutta la città il
mio fratello sia stato vendicato e io difeso, conviene non solamente che me ne
rallegri ma che in tutto me stesso esalti e glorii. E veramente se l’esperienza mi
ha fatto conoscere come io avevo in questa città più nemici che io non
pensavo, mi ha ancora dimostro come io ci avevo più ferventi e caldi amici
che io non credevo. Son forzato adunque a dolermi con voi per le ingiurie
d’altri, e rallegrarmi per i meriti vostri...
«Considerate, magnifici cittadini – seguitò Lorenzo – dove la cattiva fortuna
aveva condotta la casa nostra, che fra gli amici, fra i parenti, nella chiesa, non
era sicura.
«Sogliono quelli che dubitano della morte ricorrere agli amici per aiuti,
sogliono ricorrere a’ parenti, e noi gli trovavamo armati per la distruzione
nostra.
«Sogliono rifuggire nelle chiese tutti quelli che per pubblica o per privata
cagione sono perseguitati. Dunque, da chi gli altri sono difesi noi siamo morti,
dove i parricidi, gli assassini sono securi, i Medici trovarono gli ucciditori
loro.
«Ma Iddio che mai non ha abbandonata la casa nostra ha salvato ancora noi
e ha presa la difesa della nostra giusta causa. Perché quale ingiuria abbiamo
noi fatta ad alcuno, da meritarci tanto desiderio di vendetta? E veramente
questi che ci si sono mostrati nemici, mai privatamente non gli offendemmo;
perché se noi gli avessimo offesi e’ non arebbono avuto comodità di
offendere noi. Se essi attribuiscono a noi le pubbliche ingiurie, quando alcuna
ne fosse stata loro fatta, che non lo so, essi offendono più voi che noi, più
questo Palagio e la maestà di questo governo che la casa nostra, dimostrando
che per nostra cagione voi ingiuriate immeritamente i cittadini vostri. Il che è
discosto al tutto da ogni verità; perché noi, quando avessimo mai potuto, e
voi, quando noi avessimo voluto, non lo aremmo fatto: perché chi ricercherà
bene il vero troverà la casa nostra non per altra cagione con tanto consenso
essere stata sempre esaltata da voi se non perché la si è sforzata con la
umanità, liberalità, con i benefizi, vincere ciascuno.
«Se noi abbiamo adunque onorati gli estranei, come avremmo noi ingiuriati
i parenti?
«Se si sono mossi a questo per desiderio di dominare, come dimostra
l’occupare il Palagio, venire con gli armati in piazza, quanto questa cagione sia
brutta, ambiziosa e dannabile, da se stessa si scopre e si condanna.
«Se lo hanno fatto per odio e invidia verso l’autorità nostra, essi offendono
voi, non noi, avendocela voi data.
«E veramente quelle autorità meritano di essere odiate che gli uomini si
usurpano, non quelle che gli uomini per liberalità, umanità e munificenza si
guadagnano.
«E voi sapete che mai la casa nostra salse a grado alcuno di grandezza che
da questo Palagio e dall’unito consenso vostro non vi fosse spinta: non tornò
Cosimo mio avolo dall’esilio con le armi e per violenza, ma con il consenso e
l’unione vostra.
«Mio padre vecchio e infermo non difese già lui contro a tanti nemici lo
stato, ma voi con l’autorità e la benevolenza vostra lo difendesti; non arei io
dopo la morte di mio padre, essendo ancora si può dire un fanciullo,
mantenuto il grado della casa mia se non fossero stati i consigli e favori vostri;
non arebbe potuto né potrebbe reggere la mia casa questa repubblica se voi
insieme con lei non l’avessi retta e reggessi.
«Non so io dunque quale cagione di odio possa essere il loro contro di noi
o quale giusta cagione di invidia...
«Ma concediamo – proseguì Lorenzo – che le ingiurie fatte a loro da noi
sieno grandi e che meritamente essi desiderassero la rovina nostra: perché
venire ad offendere questo Palagio? perché fare lega con il papa e con il re
contro alla libertà di questa repubblica? perché rompere la lunga pace d’Italia?
«A questo essi non hanno scusa alcuna; perché dovevano offendere chi
offendeva loro e non confondere le inimicizie private con le ingiurie
pubbliche: il che fa che, spenti loro, il male nostro è più vivo venendoci per
loro cagione il papa e il re a trovare con le armi; la qual guerra affermano fare
a me e alla casa mia.
«Il che Dio volesse che fosse vero, perché i rimedi sarebbero presti e certi:
né io sarei sì cattivo cittadino da stimare più la salute mia che i pericoli vostri;
anzi volentieri spegnerei l’incendio vostro con la rovina mia.
«Ma perché le ingiurie che i potenti fanno con qualche meno disonesto
colore le ricoprono, essi hanno preso questo modo per ricoprire questa
disonesta ingiuria loro.
«Pure, nondimeno, – e qui Lorenzo scandì bene le parole perché tutti le
udissero – quando voi credessi altrimenti, io sono nelle braccia vostre: voi –
seguitò guardandosi in giro e fissando a uno a uno i suoi concittadini negli
occhi – voi mi avete a reggere o lasciare, voi miei padri, voi miei difensori; e
quanto da voi mi sarà commesso che io faccia, sempre farò volentieri, né
ricuserò mai, quando così a voi paia, questa guerra con il sangue del mio
fratello cominciata di finirla col mio».
«Non poterono i cittadini – aggiunge il Machiavelli – mentre che Lorenzo
parlava tenere le lagrime»; e gli confermarono all’unanimità il loro appoggio,
dicendogli che prima avrebbero perso loro la patria che lui la reputazione e lo
stato.
Leonardo conobbe di certo il discorso di Lorenzo, o dal padre o da qualche
altro amico e testimone; a Firenze, in quei giorni, non si parlava d’altro: e
mentre il Botticelli affrescava sui muri della Dogana le figure dei congiurati
impiccati, il giovane Medici attuava un’altra mossa degna del suo coraggio e
della sua lungimiranza.
Dopo aver assicurato il governo della città nelle mani di Tommaso
Soderini, egli partì segretamente per Pisa. Da San Miniato scrisse poi una
lettera al Senato fiorentino, in cui manifestava la sua ferma intenzione di
recarsi a Napoli «... perché essendo io quello che principalmente sono
perseguitato da’ nemici nostri, potrei forse ancora essere cagione,
andandomene nelle mani loro, di far rendere pace alla nostra città».
Infatti gli eserciti del duca di Calabria, del duca d’Urbino e del Papa
saccheggiavano ormai il territorio fiorentino e più d’un popolano aveva già
gridato a Lorenzo: – Questa città è stracca!
In Palazzo Vecchio, leggendo quella lettera, piansero tutti, come riferisce il
Valori; nemo a lacrymis temperaret, perché avrebbe potuto essere anche
l’ultima.
Invece, a Napoli, il re ed il popolo accolsero Lorenzo con cordialità.
Ferdinando d’Aragona, sorpreso dal coraggio e dall’intelligenza del giovane
Medici, e convertito alla sua tesi politica nonostante le ostili interferenze del
Papa, accettò la proposta di una Lega per la quale Firenze e Napoli avrebbero
tenuto a freno tutte le ambizioni e le smanie guerresche dei principi d’Italia.
Lorenzo era partito da Firenze il 1° dicembre 1479: alla fine del mese,
mentre si trovava ancora in viaggio per andare – non sapeva ancora se come
ospite o come ostaggio – a consegnarsi nelle mani del suo nemico, tornava a
Firenze l’ultimo protagonista della congiura, Bernardo Bandini.
Non veniva di sua volontà, ma ce lo portavano, ben legato, i giannizzeri del
sultano Maometto II, al quale Lorenzo aveva scritto chiedendo, come si
direbbe oggi, l’estradizione di un cittadino fiorentino, reo di alto tradimento,
di omicidio e di strage.
Il berrettino di tanè
– Leonardo sorrise e si voltò. Lorenzo di Credi, alle sue
–L spalle,
EONARDO, CHE FAI?
sbirciava nel taccuino dove l’amico stava disegnando un
impiccato.
Intorno ai due pittori c’era una folla di curiosi col naso in aria: da una
finestra del palazzo di giustizia spenzolava una corda, in fondo alla quale
ciondolava il corpo di Bernardo Bandini de’ Baroncelli, l’assassino di
Giuliano de’ Medici.

«Berrettino di tanè,
farsetto di raso nero,
cioppa nera foderata
giubba turchina fodera[ta] di gole di golpe
e ’l collare della giubba soppannato di velluto appicchiettato nero e rosso,
Bernardo Bandini Baroncigli. Calze nere».

Il disegno non bastava; Leonardo prendeva nota degli indumenti


sottolineandone il colore.
Lorenzo di Credi si fece il segno della croce; ma non avrebbe potuto dire se
quel segno chiedesse misericordia per il Bandini o per Leonardo.
L’amico che aveva dipinto con tanto amore la testa dell’angiolo nella pala
del Verrocchio, ora, con freddo e disumano distacco, osservava un cadavere e
ne prendeva nota come se quell’impiccato non fosse un uomo e un cristiano
come lui.
Leonardo si accorse del turbamento dell’amico e gli batté una mano sulla
spalla.
«Non è anche questo un atto degli uomini? Il pittore è un osservatore della
natura; e c’è la natura esterna, che è il mondo con le sue pietre, le piante e gli
animali, e c’è una natura più segreta, che è quella dell’uomo. Ho visto, pochi
giorni fa, un’Annunciazione, dove l’angiolo, nel suo annunciare, pareva che
volesse cacciar fuori dalla stanza la Madonna, con un gesto ingiurioso, da
nemico. E sembrava che la Madonna, impaurita e disperata, volesse buttarsi
giù dalla finestra. No, Lorenzo – continuò Leonardo – allo stesso modo che
Dio ha fatto l’uomo a propria immagine, il pittore fa le sue figure che sempre
portano l’impronta del loro operatore. Quell’impiccato è il Bandini, ma questo
disegno non è solo il Bandini, è anche me, anche te, noi che stiamo qui a
guardarlo; è anche quelli che l’hanno fatto tornare da Costantinopoli per
finirlo, e il boia che l’ha impiccato, tutti.
«Non so come fare a spiegartelo – seguitò Leonardo guardando negli occhi
l’amico – è difficile. Il pittore che ritrae per pratica e giudizio d’occhio, senza
ragione, è come lo specchio, che in sé imita tutte le cose a sé contrapposte, ma
di nessuna ne ha cognizione. Noi, cerchiamo la conoscenza, perché solo da
quella avremo certezza delle cose».
Intanto i due amici, sempre ragionando, si erano avviati verso la casa del
Verrocchio.
Anche se non ci abitava più, Leonardo continuava a frequentare la bottega
ed accettava anche qualche lavoretto su commissione.
Nella bottega alcuni inviati della repubblica di Venezia parlavano con
maestro Andrea. Gli avevano appena riferito che Bartolommeo Colleoni,
morendo, aveva lasciato centomila scudi alla Repubblica perché gli fosse
eretto un monumento equestre. I messaggeri non dissero che il Colleoni lo
voleva in piazza san Marco, perché l’abilità diplomatica dei veneziani aveva
già trovato il modo di aggirare quell’ostacolo. Il monumento, infatti, sarebbe
stato eretto in campo Santi Giovanni e Paolo, e lo scultore sarebbe stato un
maestro fiorentino come già Donatello, in Padova, era stato l’artefice della
statua del Gattamelata.
Una grande statua a cavallo, a quell’epoca, era il grande sogno e la massima
ambizione di tutti gli scultori.
Subito la bottega del Verrocchio entrò in agitazione. Anche Leonardo,
ormai iscritto da diversi anni alla Compagnia di San Luca, cioè alla
confraternita dei pittori, non si tirò indietro davanti a quest’opera di scultura:
mise anzi a servizio degli amici anche le sue conoscenze matematiche per la
realizzazione di nuovi strumenti di sollevamento e di trasporto. E quando, alla
fine, il grande modello del monumento venne segato a pezzi e spedito a
Venezia dentro enormi casse di legno, Leonardo si ritrovò con un’infinità di
disegni che, riuniti insieme, avrebbero potuto costituire un «trattato»
sull’anatomia del cavallo.
Musi, garretti, criniere; cavalli che s’impennano, che scartano, che cadono;
cavalli al galoppo, liberi e sellati, con o senza cavaliere. Cavalli sul piedistallo,
come un grandioso monumento, in attesa del committente e del destinatario.
Le sottili «difficultà»

A BBANDONATO LO STUDIO del Verrocchio e rifiutata l’ospitalità paterna,


Leonardo è alle prese col pane quotidiano. La sua incontentabilità, che
lo fa passare per volubile ed instabile, nuoce alla sua reputazione creando
sospetti e diffidenze; ed essendo oggi scomparsa la maggior parte dei lavori da
lui eseguiti in quegli anni, non ci rimane che prestar fede alla testimonianza di
chi li vide.
Strana vicenda, questa delle opere di Leonardo. Di quelle giovanili, e
sicuramente sue, ne restano poche, di cui alcune incompiute come
l’Adorazione dei Magi e il San Gerolamo. Quelle della maturità, invece, sono
troppe, per essere tutte sue; e nessuno potrà mai dire dove finisca la mano di
Leonardo ed incominci quella di un allievo.
La prima notizia di «allogazione» si riferisce a una «portiera» da eseguirsi in
Fiandra, con oro e con seta «tessuta», per il re del Portogallo. Si tratta
evidentemente di un arazzo, e il cartone di Leonardo descrive «Adamo ed
Eva, quando nel paradiso terrestre peccano: dove col pennello – precisa il
Vasari – fece Leonardo di chiaro e scuro lumeggiato di biacca un prato di erbe
infinite con alcuni animali, che niuno può dirsi che in diligenza e naturalità al
mondo divino ingegno far non la possa sì simile...».
Il cartone, che fu per lungo tempo in casa di Ottaviano de’ Medici, è
scomparso. La «Testa della Medusa», invece, che fino al secolo scorso si
riteneva fosse conservata agli Uffizi, con un groviglio di serpi sopra un volto
moribondo, è anch’essa scomparsa, dopo essere stata fra le «cose eccellenti»
conservate negli appartamenti del granduca Cosimo I.
E dove sarà la Madonna della Caraffa, in cui «fra l’altre cose v’erano fatte –
è sempre il Vasari che ne dà testimonianza – Leonardo contraffece una caraffa
piena d’acqua, con alcuni fiori dentro, dove, oltre la meraviglia della vivezza,
aveva imitata la rugiada dell’acqua sopra, sì ch’ella pareva più viva che la
vivezza»?
Di questo periodo rimane la grande «Annunciazione» degli Uffizi – oltre
alla piccola Annunciazione del Louvre – incominciata, forse, prima ancora di
lasciare la bottega del Verrocchio, e che Leonardo tiene in casa, forse per
mostrarla agli eventuali committenti di altre opere, come un esempio delle sue
capacità.
Possiamo aggiungere, senza alcuna certezza della data, la Madonna del
Fiore, o Benois, conservata nel museo de L’Hermitage a Leningrado, dove il
bambino fa pensare volentieri ai «putti» disegnati in casa di ser Piero. Poi, di
compiuto, più nulla. Il San Girolamo nel deserto e l’Adorazione dei Magi
sono tavole incompiute. Un’altra tavola, fattagli allogare da Lorenzo il
Magnifico per la cappella di san Bernardo in Palazzo Vecchio, rimane allo
stato di abbozzo ed è poi finita, o meglio, eseguita, da Filippino Lippi, lo
stesso che farà per i monaci di San Donato a Scopeto un’Adorazione dei Magi
in sostituzione di quella incominciata, e non finita, di Leonardo.
Già il Verini, nei suoi esametri in onore degli artisti, lamenta che il Vinci
«pur superando forse tutti gli artisti in Firenze, non sa risolversi a staccare la
destra dal quadro», e il Vasari precisa che «per l’intelligenza dell’arte cominciò
molte cose, e nessuna mai ne finì, parendogli che la mano aggiugnere non
potesse alla perfezione dell’arte nelle cose che egli s’immaginava.».
Ma chi lascia l’opera a mezzo, dopo aver preso l’impegno di finirla, non
solo perde il compenso pattuito, ma rischia addirittura di dover rendere
l’acconto ricevuto.
«... Come vi dissi ne’ dì passati voi sapete che io sono sanza alcuno degli
amici, e il verno... Chi tempo ha e tempo aspetta perde l’amico e denari non
ha mai...»: è l’abbozzo di una lettera per Simone d’Antonio da Pistoia, marito
della zia Violante, figlia del nonno Antonio.
Non si rivolge ancora allo zio Francesco, perché sa che è povero ma pronto
a indebitarsi per lui. Non si rivolge nemmeno a ser Piero, perché il padre ha in
casa altre «bocche da sfamare», o forse perché, andando a disegnare uno di
quei putti, può aver udito, suo malgrado, qualche discorso della Margherita,
preoccupata delle liberalità del consorte a favore del figlio ormai adulto.
I monaci di San Donato a Scopeto gli hanno posto un termine: trenta mesi
per consegnare, finita, la tavola per l’altar maggiore raffigurante l’Adorazione
dei Magi. Leonardo deve essere piuttosto al verde se un mese dopo, ossia
nell’agosto del 1481, accetta di dipingere anche l’oriuolo – o più esattamente
la meridiana – di quel monastero dietro il compenso di una soma di legna
grossa per l’inverno.
Ma dopo sette mesi di studi, di disegni, di prove, di schizzi prospettici e di
calcoli, il temerario Leonardo rinuncia a finire quella grande tavola.
Cinquantasette figure in movimento, sistemate secondo linee avvolgenti
intorno al fulcro della Vergine, sopraffanno e scoraggiano l’artista, il quale «si
formava nell’idea alcune difficultà tanto meravigliose, che con le mani, ancora
ch’elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai».
Eppure, anche se non è pervenuta fino a noi, qualche altra pittura, in questo
periodo di tempo, contribuisce a diffondere la fama di Leonardo.
Firenze non è una città facile e, per distinguersi in mezzo a tanti artisti di
valore, Leonardo deve pure aver fatto qualcosa di eccezionale, meglio di
quanto potrebbe uscire dalle botteghe del Verrocchio o del Ghirlandaio.
Nessuno, purtroppo, può sicuramente affermarlo o negarlo: Leonardo, il
solo che avrebbe potuto lasciarne memoria, almeno nei suoi scritti, come al
solito tace.
Ma c’è Lorenzo de’ Medici, ci sono i dotti amici di via Larga che sanno
apprezzare gli artisti per quello che valgono: e se tutti sono concordi nel
riconoscere al giovane Leonardo da Vinci qualità straordinarie, vuol dire che
ne hanno le prove.
Zoroastro

L ORENZO IL MAGNIFICO aveva fatto costruire, negli orti di san Marco, due
padiglioni per accogliere non soltanto le «anticaglie», ossia le opere
classiche, ma i disegni, i cartoni, i bozzetti e i modelli delle opere più belle
uscite in quegli anni dalle botteghe dei maestri fiorentini.
Bertoldo, l’allievo prediletto di Donatello, presiedeva quella straordinaria
«accademia» dove ciascun allievo riceveva un «salario» adeguato alle sue
personali o familiari necessità.
Il Verrocchio, che vi si recava di quando in quando, era considerato un
maestro occasionale, chiamato soprattutto a spiegare a quegli allievi
d’eccezione il suo metodo per fare i calchi, o quello della fusione a forni
plurimi.
Lorenzo di Credi era tra i frequentatori degli orti, insieme ad un gruppo di
giovani promettenti come Francesco Granacci, allievo del Ghirlandaio,
Giuliano Bugiardini, Pietro Torrigiani e Giacomo della Porta, a cui si univa
volentieri un giovane intagliatore di pietre dure chiamato Giovanni dalle
Corniole e un lavorante in ferri battuti di nome Nicolò Grosso.
Leonardo andava e veniva, secondo l’estro o la curiosità che lo portavano
da Bertoldo o da Marsilio Ficino; frequentava inoltre il poeta e latinista Naldo
Naldi, il filologo Niccolò Michelozzo e il dotto Bartolommeo Fonzio già
maestro di Lorenzo de’ Medici.
Poi bazzicava le officine, dove trovava sempre qualche paziente artigiano
disposto a perder tempo dietro a qualche suo stravagante progetto e lieto di
sognare insieme a lui una macchina miracolosa per trascinare o issare pesi
enormi, o un marchingegno per forare le montagne, un fuso meccanico per
torcere gli spaghi da farne canapi grossi e robusti. Infine trovava il tempo per
impartire lezioni di musica a un ragazzo promettente, di nome Attavante
Migliorotti, illegittimo come lui: spesso suonavano insieme, e talmente bene,
che la notizia si diffuse presto in città ed arrivò perfino alle orecchie del
Magnifico.
Ma l’attrazione di quegli anni era, senza dubbio, la bottega di Zoroastro, al
secolo Tommaso Masini da Peretola, maestro fonditore, meccanico, idraulico,
cesellatore e, a tempo perso, scultore, pittore e negromante.
Più che una bottega, il suo regno era un antro, a cui si accedeva scendendo
molti scalini, e dove la realtà si confondeva con la favola, tanto quella fucina
era piena di simboli, con un maestro capace di operare, col ferro e col fuoco, i
più straordinari incantesimi.
Con mastro Tommaso, appunto, Leonardo cercava di tradurre in realtà le
molteplici intuizioni che ogni giorno gli si affacciavano alla mente.
Avevano già costruito insieme ponti leggerissimi da poter gettare in un
batter d’occhio tra una sponda e l’altra; avevano realizzato e messo a punto
un’idrovora, rielaborando la famosa coclea di Archimede per aspirare l’acqua
dal basso e scaricarla più in alto: dopo molti tentativi avevano ottenuto la
fusione di una speciale bombarda capace di sparare a mitraglia; avevano
realizzato una fortezza semovente, ossia un cono dalla larga base, poggiato su
ruote, entro il quale alloggiavano bombarde e altri strumenti di guerra.
Maso Masini, detto familiarmente Zoroastro, era il fedele interprete e il
felice esecutore dei disegni di Leonardo; per lui tutti i metalli eran docili, tutte
le forme possibili e facili. Insieme avevano progettato anche una
canalizzazione in miniatura applicando il principio, scoperto assai più tardi,
dei vasi comunicanti: allagando artificialmente una zona, erano riusciti a
metterla in comunicazione con una rete di corsi d’acqua, controllando il flusso
mediante portelli di metallo, come quelli oggi in uso nello sbarramento delle
dighe.
Perché «Zoroastro»? Perché, di lui, si vociferava che fosse stato in Medio
Oriente, nella patria del leggendario profeta Zoroastro, e colà avesse appreso,
oltre al culto solare, o di Ahura Màzdao, anche l’arte reale di trasformare il
piombo – simbolo di Saturno – in oro, simbolo del Sole.
Nella sua fucina, oltre al ferro, bruciava spesso anche lo zolfo; le pratiche
della magia, l’evocazione delle forze occulte della natura, facevano parte di
una ricerca non ancora scientifica, ma nemmeno irrazionale; e Leonardo e
Tommaso, come due temerari pionieri, sfidavano l’Inquisizione che non
cercava di meglio che coglierli sul fatto per trascinarli sul banco degli eretici.
Ora anche ser Piero si era fatto guardingo. Quel suo figliolo, di cui tutti
dicevano gran bene, teneva la pittura in second’ordine, come un mestiere di
riserva, per dedicarsi a pratiche che sfuggivano a ogni controllo.
– Babbo – rispose un giorno Leonardo al preoccupato genitore che lo
interrogava – non datevi pensiero per me. Io voglio essere un pittore diverso
da tutti, e per questo mi occorre studiare ciò che gli altri trascurano o
ignorano. Io devo conoscere le cause e non gli effetti, per dipingere quelle,
che sono eterne.
Ser Piero non capiva, ma accettava lo stesso le conclusioni del figlio. Si
limitava a passargli, ormai clandestinamente, un po’ di denaro perché non gli
mancasse il necessario per lavorare, e badava intanto a farsi strada verso la
Signoria che stava per nominare il suo nuovo Procuratore.
Leonardo, dunque, seguitava a frequentare i gruppi, le accademie, le
scuole, le botteghe e gli amici senza trascurare la pittura e nemmeno la musica.
Anzi, insieme al suo giovane allievo Migliorotti si era messo a studiare anche
la lira, e ne aveva disegnata una a forma di teschio di cavallo, per ottenere
dalle corde un nuovo effetto di straordinaria risonanza. Anche quella notizia,
apparentemente di nessuna importanza, arrivò presto agli orecchi del
Magnifico.
I messaggeri di Lorenzo

D UE ANNI PRIMA di quella dei Pazzi, anche Milano ebbe la sua congiura: fu
di Natale, invece che di Pasqua, e si concluse con la morte del duca
Galeazzo Maria, pugnalato in chiesa da tre nobili congiurati.
I tre fratelli del morto si disputarono con la cognata Bona di Savoia il diritto
di tutela sul giovane erede; e la duchessa, consigliata anche da Tommaso
Soderini, ambasciatore dei Medici, rimase padrona del campo e del figliolo.
Ma non trascorse molto tempo che gli Sforza ritornarono in Milano, e la
cognata finì con l’andare in volontario esilio lasciando la città e il piccolo
Gian Galeazzo in balìa di Lodovico Sforza, detto il Moro.
Ora, o perché Lorenzo avesse già dimostrato una scarsa simpatia per il
Moro quand’era venuto a Firenze col sontuoso corteo del fratello, o perché la
repubblica fiorentina, attraverso il Soderini, fosse intervenuta arbitrariamente
negli affari interni di un altro stato, e precisamente ai danni di Lodovico, certo
è che i rapporti tra Firenze e Milano non erano più come una volta e Lorenzo
cercava ogni occasione favorevole per cancellare quest’ombra di sospetto
dall’animo del superbo Lodovico.
Fino dal tempo della visita di Galeazzo Maria, tra Milano e Firenze – o
meglio, tra gli Sforza e i Medici – si era parlato di un monumento equestre da
erigersi in memoria del duca Francesco, padre di Galeazzo, ad opera di un
maestro fiorentino.
Lodovico, nell’assumere la reggenza del governo di Milano, trovò tra le
carte del fratello questa «pratica», iniziata fino dal 1473, e scrisse a Lorenzo
de’ Medici per chiedere il suo consiglio.
Intanto il Verrocchio era partito per Venezia, insieme al fedele Lorenzo di
Credi, per andare a fondere la grande statua equestre del Colleoni; il Perugino
e il Botticelli erano andati a Roma per eseguire gli affreschi nella nuova
cappella di papa Sisto; il Rossellino, Mino da Fiesole e Bertoldo erano vecchi;
l’unico disponibile era Leonardo. E Lorenzo lo mandò a chiamare.
Quando l’artista fu davanti al Magnifico, nel palazzo di via Larga, si sentì
chiedere:
– Che ne diresti, Leonardo, di una grande statua a cavallo del defunto duca
di Milano Francesco Sforza?
Leonardo rivide e rivisse all’improvviso la febbre della bottega del
Verrocchio, tutti gli studi per l’anatomia del cavallo, tutti quei disegni messi da
parte; guardò negli occhi il Magnifico e rispose:
– Direi di sì.
– Te ne senti l’animo?
– Me ne sento l’animo.
– Di portarlo a compimento?
– Questo non lo so, è da vedere.
– Prendi – aggiunse Lorenzo – è un ritratto del duca Francesco: incomincia
a pensarci, poi ne riparleremo.
Qualche tempo dopo, Lodovico Sforza scrisse a Lorenzo per un altro
consiglio: aveva bisogno di un suonatore di lira e sarebbe stato grato al
Magnifico se avesse potuto mandargli da Firenze un musico di sua fiducia.
– Leonardo, a questo punto non ti resta che prepararti a partire – gli disse
Lorenzo. – Il duca di Milano cerca un suonatore di lira, e io so che tu ne
possiedi una d’argento, straordinaria, che tu cederai a me e che io regalerò a
lui. Così, mandandoti a Milano, io gli renderò doppio servizio: gli mostrerò il
tuo talento di suonatore, e tu gli farai la statua del duca suo padre a cavallo.
Erano queste le mosse abili e inimitabili di Lorenzo. Facevano parte del suo
gioco politico, e nessuno meglio di lui sapeva scegliere gli strumenti più
adatti. Insieme ai prodotti dell’arte egli esportava anche gli artisti, mandandoli
volentieri presso le corti d’Italia e d’Europa come inviati speciali di una
cultura e di un’epoca che, in Firenze, si chiamava Umanesimo, e che poi, nel
mondo, si chiamò Rinascimento.
Da porta a San Gallo

È DI NUOVO primavera a Firenze, la primavera del 1482. Con la legna grossa


dei monaci di San Donato a Scopeto il trentenne Leonardo ha passato un
inverno abbastanza confortato. Ora, col ritorno della buona stagione, si
prepara a partire.
Preciso e metodico, egli fa l’elenco degli oggetti che porterà con sé:

«molti fiori ritratti di naturale


una testa in faccia ricciuta
cierti San Girolami
misure d’una figura
disegni di fornegli
una testa del ducha
molti disegni di gruppi
4 disegni della tavola di santo angiolo
una storietta di Girolamo da Figline
una testa di Cristo fatta di penna
8 San Bastiani
molti componimenti d’angioli
un calcidonio
una testa di profilo con bella capellatura
cierti corpo di prospettiva
cierti strumenti per navili
cierti strumenti d’acqua
una testa ritratta d’Attalante che alzava il volto
la testa di Jeronimo da Feglino
la testa di Gian Franciesco Boso
molte gole di vechie
molte teste di vechi
molti nudi integri
molte bracia, gambe, piedi e attitudine
una Nostra Donna, finita
un’altra quasi che in profilo
la testa di Nostra Donna che va ’n cielo
una testa d’un vecchio col volto lungo
una testa di zìngana
una testa col cappello in capo
una storia di passione fatta in forme
una testa di putta con trezie ranodate
una testa con una aconciatura».

Gli potranno servire come documenti di presentazione in quella città ancora


sconosciuta e della quale a Firenze già si fa un gran discorrere.
Si dice, infatti, che il duca Lodovico cerchi dappertutto gente di valore
pagandola a peso d’oro; ossia condottieri e ingegneri per le sue imprese
belliche, consiglieri per le sue ambizioni politiche, artisti e letterati per la sua
corte.
L’elenco di Leonardo è anche un preciso inventario non della sua
produzione, ma di ciò che gli resta prima di lasciare Firenze.
«Una Nostra Donna finita» è una Madonna di cui non sappiamo più nulla.
Fra i «cierti San Girolami» vi è sicuramente quello – l’unico – conservato oggi
in Vaticano, e che fu fortunosamente ritrovato, in tempi e luoghi diversi, da
un cardinale francese di nome Fesh; una metà della tavola faceva da
coperchio a una cassa e l’altra metà era adibita a deschetto nella bottega di un
calzolaio; «una storia di passione fatta in forme» è di certo una serie, forse
completa, di bassorilievi sulla passione di Cristo destinata a qualche chiesa;
«una testa di zìngana» ci ricorda ancora la curiosità di Leonardo che approfitta
del passaggio da Firenze di una carovana di nomadi, discendenti di Attila e
appartenenti a tribù tzigane oriunde della lontana Ungheria, per ritrarre la testa
di una delle loro bellissime donne.
Il giovane Attavante Migliorotti, suonatore di flauto e di lira, allievo e
modello di Leonardo, segue il maestro per esibirsi insieme con lui davanti a
Lodovico il Moro.
Mastro Tommaso Masini, il fedele Zoroastro, fa parte della comitiva,
sicuramente su richiesta di Leonardo che ha bisogno delle mani preziose del
mago di Peretola.
A questo punto, però, una falsa notizia s’inserisce abusivamente nella
vicenda di Leonardo, per farlo uscire da Firenze non da porta a San Gallo,
verso gli Appennini, ma da porta a San Pier Gattolino, per andare a Napoli, ad
imbarcarsi su un vascello diretto a Cipro.
Dopo aver visitato quell’isola, di cui resterebbe nel «Codice Atlantico» una
minuziosa descrizione, Leonardo sarebbe arrivato in Armenia per collaborare
col sultano Kait Bey. Avrebbe preso nota, nei suoi taccuini, dei costumi e della
topografia di quei luoghi, disegnando gli abitanti, le rocce e i monti altissimi,
quindi avrebbe ripercorso e tracciato il corso dell’Eufrate e del Tigri, e
soprattutto avrebbe ascoltato le prediche del «nuovo profeta» che annunciava
inondazioni, distruzioni e morte in segno dell’ira di Dio.
«E que’ pochi che siamo restati – scrive infatti Leonardo – siamo rimasti
con tanto sbigottimento e tanta paura, che appena, come balordi, abbiamo
ardire di parlare l’uno con l’altro. Avendo abbandonata ogni nostra cura ci
stiamo insieme riuniti in certe ruine di Chiese, insieme misti maschi e
femmine, piccoli e grandi, a modo di torme di capre...»
Queste descrizioni fanno parte di un avventuroso romanzo in forma
epistolare, costituito da tante lettere indirizzate al «Diodario del Sacro Soldano
in Babilonia» ossia a un ministro del principe d’Egitto. I nomi dei luoghi e
delle persone sono quelli della letteratura classica e le scene illustrate sono
desunte dalla descrizione dei testi che, proprio in quei giorni, venivano
tradotti, a Firenze, a cura di umanisti come Ermolao Barbaro, Pomponio Leti e
Giovanni Lascari, reduci dall’Oriente dove Lorenzo de’ Medici li aveva
inviati, a sue spese, a caccia di antichi manoscritti.
Più tardi, a Milano, Leonardo ripeterà la finzione letteraria scrivendo
all’amico Benedetto Dei un’epistola semiseria sulla strage effettuata in Libia da
un gigante che sembra uscito dalla fantasia di Rabelais.
La comitiva, perciò, esce da porta a San Gallo, e su per la Lastra, verso il
dosso di Montorsoli, prende la via dell’Appennino.
Alla prima sosta, Leonardo scende da cavallo e guarda verso Firenze, dove
l’Arno luccica al sole e la città sembra vestita d’un velo sottilissimo d’aria
celeste: la palla di rame sulla cupola del Brunelleschi ha riflessi dorati, e il
palazzo della Signoria brilla nell’ocra della sua pietra forte.
Dalla torre di Fiesole, a levante, arriva col vento un suono di campana; un
nibbio ruota, solitario e maestoso, fra il castello di Vincigliata e la rocca del
Montesenario.
Leonardo indugia su questa visione, per serbarla dentro di sé, trasfonderla
nel sangue. Poi, rimontato a cavallo, volta le spalle alla sua città.
PARTE SECONDA
«E sia chi vole»

I N UNA SALETTA del castello di porta Giovia, un segretario aveva incominciato


a leggere una lunga lettera a Lodovico il Moro:
«Avendo, signor mio Illustrissimo, visto e considerato oramai a sufficienzia
le prove di tutti quelli che si reputano maestri e compositori di instrumenti
bellici, e che le invenzione e operazione di ditti instrumenti non sono niente
aliene dal comune uso, mi esforzerò, non derogando a nessuno altro, farmi
intendere da V. Eccellenzia, aprendo a quella li secreti miei, e appresso
offerendoli ad ogni suo piacimento in tempi opportuni, operare con effetto
circa tutte quelle cose che sub brevità in parte saranno disotto notate...».
– Che vorrebbe dire con questo? Che tutti gli strumenti di guerra si
rassomigliano e che gl’inventori non hanno inventato nulla di nuovo?
– Probabilmente sì, Eccellenza – rispose il segretario. E continuò:
«1. Ho modi di ponti leggerissimi e forti, e atti a portare facilissimamente, e
con quelli seguire, e alcuna volta fuggire li inimici, e altri securi e inoffensivi
da foco e battaglia, facili e comodi da levare e porre. E ho modi di ardere e
disfare quelli de l’inimico».
Lodovico ascoltava, interessato; annuì più volte, poi fece cenno al
segretario di proseguire:
«2. So, in la obsidione de una terra, toglier via l’acqua de’ fossi, e fare
infiniti ponti, gatte, scale e altri instrumenti pertinenti a detta espedizione.
«3. Item, se per altezza de argine, o per fortezza di loco e di sito, non si
potesse in la obsidione de una terra usare l’officio de le bombarde, ho modi di
minare omni rocca o altra fortezza, se già non fusse fondata in su el sasso.
«4. Ho ancora modi de bombarde comodissime e facile a portare, e con
quelle buttare minuta tempesta; e con el fumo di quella dando grande
spavento all’inimico, con grave suo danno e confusione.»
Il segretario s’interruppe, alzò gli occhi dal foglio, ma il duca, appoggiato
allo schienale della poltrona, col mento nella mano, gli fece un cenno
imperioso di proseguire.
«5. E quando accadesse essere in mare, ho modi de molti instrumenti
attissimi da offender e defender e’ navili, che faranno resistenzia al trarre de
omni grossissima bombarda, e polvere e fumi.
«6. Item, ho modi, per cave e vie secrete e distorte, fatte senza alcuno
strepito, per venire ad uno luogo certo e disegnato, ancora che bisognasse
passare sotto fossi o alcuno fiume.
«7. Item, farò carri coperti, securi e inoffensivi, e’ quali intrando intra li
inimici con sue artiglierie, non è sì grande moltitudine di gente d’arme che
non rompessino. E dietro a questi potranno seguire fanterie assai, illese e
senza alcuno impedimento...».
– Non è possibile! esclamò Lodovico. – Quest’uomo è un visionario. A
meno che non sia un mago. Avanti! continua a leggere!
«8. Item, occurrendo di bisogno, farò bombarde, mortari e passavolanti di
bellissime e utili forme, fora del comune uso.
«9. Dove mancassi la operazione de le bombarde, componerò briccole,
mangani, trabucchi e altri instrumenti di mirabile efficacia, e fora dell’usato; e,
insomma, secondo la varietà de’ casi, componerò varie e infinite cose da
offender e difendere».
– Ma neanche Vulcano, neanche Marte oserebbero affermare queste cose
con tanta sicurezza! E chi è costui? il nuovo dio della guerra?
Il duca si agitò sulla poltrona, poi si rimise immobile, in ascolto, facendo
cenno di continuare.
«10. In tempo di pace credo satisfare benissimo a paragone de onni altro in
architettura, in composizione di edifici e pubblici e privati, e in conducer
acqua da uno loco ad un altro.
«Item conducerò in scultura di marmore, di bronzo e di terra, similiter in
pittura, ciò che si possa fare a paragone de onni altro, e sia chi vole.
«Ancora si poterà dare opera al cavallo di bronzo, che sarà gloria immortale
e eterno onore de la felice memoria del Signor vostro patre e de la inclita casa
Sforzesca.
«E se alcuna de sopra ditte cose – continuò a leggere il segretario alzando la
voce – a alcuno paresse impossibile e infattibile, me offero paratissimo a
farne esperimento in el parco vostro, o in qual loco piacerà a
Vostr’Eccellenzia, a la quale umilmente quanto più posso me recomando».
Lodovico il Moro, quando il segretario ebbe finito di leggere, rimase in
silenzio ed immobile a riflettere su quanto aveva udito, sorridendo su
quell’«umilmente» che chiudeva, con una formale menzogna, una lettera che
poteva essere anche tutta vera.
– E che cosa dice esattamente – domandò il duca al segretario – quando
parla delle cose d’arte? Che lui può fare architetture sculture e pitture a
paragone dei nostri migliori maestri?
«A paragone de onni altro – rilesse il segretario – e sia chi vole!».
Lodovico si alzò, si avviò verso la porta, ma prima di uscire si voltò verso
il segretario:
– Chiama questo Leonardo – disse. – Fallo venire qui, che gli voglio
parlare.
L’appannaggio

L EONARDO ERA GIÀ stato da Lodovico, e non una volta sola. Poco dopo il suo
arrivo a Milano, era andato a consegnargli il dono di Lorenzo il
Magnifico, insieme a una lettera che lo presentava e raccomandava allo
Sforza; poi, quasi certamente, era tornato per parlare della statua a cavallo,
mostrando magari qualche disegno di quelli eseguiti ancora nella bottega del
Verrocchio. Non è infine da escludere – anzi è probabile – che Leonardo e il
giovane Attavante avessero fatto ascoltare al duca e ai suoi cortigiani qualche
brano musicale sulla famosa lira d’argento che aveva la virtù di ampliare
l’armonia «con maggior tuba e più sonora voce».
Intanto Leonardo seguitava «a guardarsi intorno», mediante una sistematica
esplorazione della città e dei dintorni. Milano, con quei cieli bianchi, la
ricchezza d’acque, le pianure arborate su cui cadeva all’improvviso un fitto
velo di nebbia, doveva apparirgli come un contrappasso di Firenze, eppure in
armonia col suo spirito, per la magia irreale che potevano assumere, da un
momento all’altro, la natura e le cose.
Incominciò a disegnare, a prendere appunti: e finalmente entrò nel vivo
della vita cittadina, conoscendone gli uomini più rappresentativi e facendosi
conoscere.
– Ma non sei tu quel Leonardo musicista e scultore mandatomi da Lorenzo
de’ Medici per quel progetto del cavallo? Prometti molte cose... troppe! Come
faccio a crederti?
– Eccellenza, non vi domando di credere, ma di provare.
– Cecilia, tu che ne dici?
Cecilia Gallerani già conosceva di fama Leonardo. Ne aveva sentito parlare
dagli umanisti di passaggio, ed aveva visto anche alcune opere fra cui la
famosa rotella. Il suo viso dolce e intelligente aveva la grazia sognante e la
gentilezza delle donne lombarde, così diverse dai loro mariti «pratici», rozzi e
sbrigativi.
Il sorriso della fanciulla spense sulle labbra del Moro la brutalità di una
risposta: la sedicenne amante dello Sforza, guardando Leonardo, disse:
– Lo metteremo alla prova, certo, ma non per le macchine da guerra: noi
vogliamo da lui qualcosa di bello, come la fama che l’ha preceduto fin qui.
Leonardo quando fu di ritorno a casa, prese il suo taccuino e scrisse:
«Quando vuoi vedere se la tua pittura ha conformità con la cosa ritratta,
abbi uno specchio e favvi dentro specchiare la cosa viva...».
Nel castello di Porta Giovia, infatti, in uno specchio appeso alla parete, egli
aveva guardato a lungo Cecilia, e ne aveva visto il «ritratto» ideale; ora non gli
restava che aspettare l’occasione per tradurlo fedelmente in pittura.
L’appannaggio di cinquecento ducati l’anno che il Moro gli aveva assegnato
per averlo intanto al suo servizio, gli consentiva di guardare senza eccessive
preoccupazioni al domani: quella somma, corrispondente a circa tre milioni di
lire attuali, costituiva la base economica di tutta la famiglia, di cui facevano
parte, oltre a Zoroastro e Attavante, anche un palafreniere e una donna di
casa.
La sua lettera – di cui aveva fatto non poche stesure prima della versione
definitiva – aveva sortito il suo effetto.
Leonardo non si rendeva nemmeno conto del pericolo corso: egli aveva
osato parlare a tu per tu con un principe, gli aveva elencato le proprie qualità
senz’ombra di modestia, gli aveva dichiarato di non sentirsi secondo a
nessuno, in nessun campo, sfidando lo Sforza a metterlo alla prova.
O l’esaltazione di un pazzo – diremmo noi – o la consapevolezza di un
genio; il quale, essendo tale, non poteva che guardare in faccia, con temeraria
fermezza, il suo illustre interlocutore.
Contento dunque del risultato della sua lettera, Leonardo andò a trovare «i
Preda» di cui era diventato buon amico.
Evangelista De Predis e suo fratello Ambrogio erano considerati, col Foppa
e il Bergognone, due maestri della pittura lombarda. Lavoravano spesso
insieme distribuendosi i compiti: Evangelista dipingeva in prevalenza muri e
tavole per altare, mentre suo fratello Ambrogio si applicava più volentieri al
ritratto e alla miniatura.
Da bravi lombardi, operosi e pratici, non rifiutavano mai un’ordinazione,
anche se questa non era di loro competenza: per favorire il cliente
l’allogavano ad altri, cioè la subappaltavano, beneficando così qualche buon
maestro a corto di lavoro che diventava, da quel momento, un fidato
collaboratore della «ditta».
I fratelli De Predis avevano avuto una proposta interessante da parte della
Confraternita della Concezione della Vergine per la Chiesa di San Francesco:
di studiare il progetto per una grande ancona d’altare, la cui parte centrale
avrebbe dovuto rappresentare la Vergine col Figlio e il Battista ancora bambini
fra due ante coi profeti.
Con umiltà, ed anche con realistico buonsenso, essi pensavano di affidare
ad un maestro, cioè a Leonardo, l’esecuzione della tavola più importante.
E confortato dall’appannaggio del duca, Leonardo era andato dagli amici
De Predis per parlare più distesamente di quella tavola. Egli aveva in mente
una Vergine, non in trono come quelle finora dipinte da tutti gli artisti, da
Cimabue in poi, ma inserita in un mondo fantastico di rocce, con squarci di
luce su paesaggi lontani, e per tappeto ai suoi piedi un umile e glorioso
universo d’erbe e di fiori, come nella sua Annunciazione.
La Vergine delle rocce

I superiore ad ogni previsione. Fino a quel giorno, a Milano,


L RISULTATO FU
non s’era mai visto nulla di simile.
La tradizionale pittura lombarda, legata alle forme statiche e piuttosto
arcaiche del Foppa, del Bergognone e dei De Predis, si allontanava nel tempo
e, da passato prossimo, diventava all’improvviso, a paragone di quella di
Leonardo, passato remoto.
Vestita d’un ampio manto azzurro, la Vergine, al centro della scena,
appoggia la mano destra, come un tenero abbraccio, sulla spalla del piccolo
san Giovanni Battista che s’inginocchia, a mani giunte, davanti al bambino
Gesù seduto per terra. Con la mano destra alzata, e con l’indice e il medio
sollevati in segno iniziatico, Gesù guarda il Battista, mentre la Madre tiene la
mano sinistra sopra il suo capo in un gesto propiziatorio. Un angiolo distoglie
lo sguardo dalla scena, facendo così da ideale congiunzione con gli spettatori.
La Vergine, invece, con le palpebre abbassate, sembra racchiudere in un
solo sguardo i due fanciulli; questa fusione emotiva è accentuata dalla
disposizione triangolare della donna e dei due bambini, mentre tutti i
personaggi, compreso l’angiolo, sono idealmente contenuti in una
circonferenza.
Nello sfondo una visione irreale e fantastica di rocce; in alto, un intrico di
fronde; in lontananza, dentro un paesaggio sempre roccioso, un corso
d’acqua.
Davanti, in primo piano, un tappeto d’erbe, come sulle sponde dei fiumi,
cosparso di fiori. Un momento solenne e sereno, una Madonna familiare,
solenne e maestosa; un senso di misteriosi presagi nella devozione del Battista
e nel gesto del bambino Gesù, confermati dallo sguardo consapevole
dell’angiolo.
Ma di questo capolavoro, di cui tutta Milano parlò, esistono oggi due
versioni, ambedue autentiche: una si trova al Louvre, l’altra nella National
Gallery di Londra.
La ragione è questa: concluso l’accordo nel 1483, Leonardo e Ambrogio De
Predis chiesero ancora alla Confraternita – dopo aver cominciato il lavoro e
valutato meglio le difficoltà – un’altra somma integrativa da stabilirsi e da
versarsi alla consegna dell’opera.
Quando la tavola fu compiuta, la Confraternita mandò i suoi esperti a
giudicarla ed a calcolarne il valore: fu valutata 25 ducati.
Leonardo, senza far parola, aprì la porta e con un gesto invitò i giudici ad
andarsene.
– Questa pittura resta qui – disse poi ad Ambrogio De Predis – e per meno
di cento ducati non l’avranno.
Ma i membri della Confraternita di San Francesco, se non erano disposti a
pagare di più, non erano nemmeno propensi a perdere la tavola; quindi
convocarono in giudizio i due artisti.
A conclusione di un’interminabile causa, durata più di dieci anni, e nella
quale fu più volte, e inutilmente, richiesto l’arbitrato di Lodovico il Moro,
Ambrogio De Predis si offrì di copiare il quadro di Leonardo: ed è probabile,
anzi certo, che Leonardo, consapevole del valore di quella sua opera, aiutasse
notevolmente il De Predis. La prima versione è quella del Louvre; la seconda,
con l’angiolo che punta il dito verso il piccolo San Giovanni, è quella che,
destinata alla litigiosa Confraternita, restò a Milano fino ai primi del
Settecento, ed ora è a Londra.
Ma Leonardo, con quella tavola, dopo neanche un anno dal suo arrivo a
Milano, si era già fatto conoscere; anzi, si era imposto d’autorità alla stima e
all’ammirazione non solo della corte, ma di tutti.
Sull’esempio di Ambrogio De Predis, convertito da «maestro» in scolaro di
Leonardo, tutti i giovani pittori – Bernardino Luini, frate Antonio da Monza,
Giampietrino, Giovanni Antonio Bazzi, Bernardino de’ Conti, Giovanni da
Montorfano, Andrea Solari – subirono il fascino della parola e dell’esempio
di Leonardo, ed abbandonati i vecchi moduli «crudetti e alquanto secchi»,
incominciarono a studiare e perfino a copiare le opere del «maestro
fiorentino», per nutrire di quegli «universali principi» il loro nuovo
linguaggio.
Il primo Bramante

– F Leonardo. – Dopoconoscere!
INALMENTE TI POSSO esclamò il Bramante andando incontro a
aver visto quella Madonna tra le rocce volevo vedere
anche il suo autore, non per dirgli bravo, ma per dirgli grazie.
Donnino Bramante Lazzeri, detto Donato, e più familiarmente Bramante,
era arrivato a Milano pochi anni prima, povero e sconosciuto; e lavorando alla
giornata e saltando più d’un pasto era riuscito a farsi conoscere e stimare, fino
ad ottenere dal duca Lodovico, insieme a importanti compiti d’ingegneria,
l’incarico di ristrutturare la chiesa di Santa Maria delle Grazie, compreso il
convento, i chiostri, la sagrestia e il refettorio.
– Ho udito il Moro parlare di te, e che intende utilizzarti sui navigli con
Antonio Brivio – continuò il Bramante.
– Io sono qui, pronto ai suoi ordini – rispose Leonardo – ma fino ad oggi
nessuno mi ha cercato. Io ho già fatto qualche studio sul naviglio della
Martesana e qualche calcolo circa «la spesa per la cavatura di un naviglio di
trenta metri»; ho percorso più volte le sponde del Ticino, considerando i modi
d’incanalare quell’acqua...
– Ti cercherà presto, vedrai – lo tranquillizzò il Bramante.
Una sicura amicizia unì subito i due artisti, una stima reciproca, un’affinità
d’interessi. Anche il Bramante amava definirsi «illetterato» e «ignorante» di
dottrina umanistica; eppure scriveva poesie, era grande amico del poeta
lombardo Gaspare Visconti, studiava i classici dell’architettura, non soltanto
nei trattati, come quelli del Vitruvio, ma nel vivo dei monumenti.
«Con una masserizia grandissima – narra il Vasari (ossia vivendo con una
parsimonia francecana) – misurava tutte le fabbriche antiche... in Lombardia
prima, a Roma e a Napoli poi, «dovunque e’ sapeva che fossero cose
antiche... se ne servì assai».
Per il Bramante, come per Leonardo, qualunque duomo doveva sorgere dal
centro di una croce greca o dal centro di una struttura molto vicina al circolo:
e il duomo immaginato da Leonardo, e di cui resta il disegno nel «Codice
Atlantico», ha molte affinità e molti elementi in comune col progetto della
Basilica di San Pietro, che Michelangiolo riscattò coraggiosamente dalle
successive deformazioni di Raffaello e del Sangallo.
Sempre in quel periodo Leonardo fece amicizia con un altro architetto,
Giacomo Andrea da Ferrara, per di più scienziato ed amico, a sua volta, dei
famosi medici-astrologi Gabriele Pirovano e Luigi Marliani.
Nello studio di Leonardo, dove il fido Zoroastro aveva impiantato anche la
sua fucina d’alchimista, questi amici si davano spesso convegno per effettuare
insieme esperimenti e ricerche.
Intanto Lodovico – come aveva detto il Bramante – si era fatto vivo: aveva
ufficialmente «allogato» a Leonardo l’esecuzione della statua equestre del
duca Francesco Sforza; poi lo aveva chiamato a far parte – con lo stesso
Bramante, il Brivio ed altri – del collegio degli «ingegnarii ducales»; gli aveva
inoltre assegnato il compito di progettare, insieme col Brivio, una rete di
canali per allacciare le acque del Ticino con quelle della Martesana, e infine gli
aveva ordinato, ma sottovoce, di fare il ritratto alla bella Cecilia Gallerani.
«Amantissima mia Diva»

L ODOVICO SFORZA, QUANDO Leonardo arrivò a Milano, era fidanzato con una
bambina di sette anni, della famiglia d’Este; e in attesa che la futura
consorte diventasse donna, aveva scelto come amante una fanciulla sedicenne,
Cecilia, della nobile famiglia dei Gallerani, la quale, oltre ad esser bellissima,
era anche colta. Tanto erudita, anzi, che il Bandello, più tardi, travedeva per lei
e la rammentava nelle sue novelle come «la moderna Saffo», facendoci sapere
che la bella signora non soltanto scriveva eccellenti versi in italiano, ma anche
in latino.
Una signora, appunto; perché il Moro, dopo averla amata e dopo aver avuto
da lei un figlio di nome Cesare, riconosciuto e legittimato proprio come aveva
fatto ser Piero col piccolo Leonardo, la fece sposare al conte Lodovico
Bergamini, proprio come l’astuto ser Antonio aveva fatto con la povera
Caterina. È vero; Caterina, pur essendo di «bon sangue», era sempre una
contadina di Vinci e non una nobile fanciulla lombarda; e il conte Bergamini,
pur essendo vassallo, oltre che amico, del duca di Milano, non era un
qualunque Accattabriga: ma il frutto del nobile amore di Lodovico fu un
cortigianello di nome Cesare, mentre il frutto degli ardori paesani di ser Piero
era stato un artista di nome Leonardo.
Cecilia, dunque, era bella e soprattutto sensibile, perché la cultura è sempre
un arricchimento interiore. Leonardo era bellissimo; ce lo descrivono alto,
elegante, coi lunghi capelli biondi e ondulati, la barba ben curata, gli occhi
azzurri, lo sguardo penetrante, la parola facile accompagnata da un controllato
gesto delle mani; mentre Lodovico il Moro era il tipico lombardo pervenuto
rapidamente al vertice della piramide, che amava definirsi pratico e concreto,
ignorante e di buonsenso; univa una sensibilità d’elefante a un’ombrosità da
cavallo di razza; era ambizioso, volgare, perfino brutale, e tenacemente
convinto che tutto e tutti si potessero comprare a peso d’oro, anche le
alleanze, le amicizie e gli amori.
Un mediocre poeta toscano, foraggiato dal Moro e nominato, anzi, poeta
ufficiale di corte, conferma in brutti versi la notizia del ritratto di Cecilia fatto
da Leonardo, simulando un dialogo fra il poeta e la natura, alla quale egli
domanda di che si adiri e con chi ce l’abbia, e la natura gli risponde che ce
l’ha col Vinci che ha ritratto una sua stella, Cecilia. Ma il ritratto tace, mentre
la donna vera parla, e allora:
«... Ringratiar dunque Lodovico or poi
Et l’ingegno e la man di Leonardo
Che a’ posteri di lei voglion far parte...».
Isabella Gonzaga, la petulante e taccagna marchesa di Mantova, che si
piccava di scoprire i talenti contemporanei collezionandone i pezzi – purché le
costassero poco o nulla – scrisse nel 1498 a Cecilia Gallerani, diventata
contessa Bergamini, mandando apposta un «cavallaro» da Mantova a Milano,
per chiedere «in visione» il ritratto fattole da Leonardo, al fine, piuttosto
meschino, di confrontarlo con uno di Giovanni Bellini.
«Essendone hogi accaduto vedere certi belli retracti de man de Zoanne
Bellino siamo venuto in ragionamento de le opere di Leonardo cun desiderio
de vederle al parangone di queste havemo, et ricordandone ch’ el v’ha retracta
voi dal naturale, vi pregamo che per il presente cavallaro quale mandiamo a
posta per questo, ne vogliati mandare epso vostro retracto, perché ultra che ’l
ne satisfarà voluntieri il parangone, vederemo anche voluntieri il vostro volto
et subito facta la comparatione ve lo remetteremo...».
Cecilia rispose mandando il ritratto e precisando che, se non era
somigliante, la colpa non era del Maestro; «... et invero credo non se trova a
lui un paro; ma solo è per esser fatto esso ritratto in una età sì imperfetta; et io
poi ho cambiato tutta quella effigie...».
L’età imperfetta era quella, meravigliosa e senza tempo, dell’amore.
Leonardo guardava il delicato volto della fanciulla, per ritrovarlo come gli
era apparso la prima volta in uno specchio, mentre la sua mano evocava con
sapienza i connotati interiori di quell’immagine.
La sala del castello, fastosa e festosa, dava a Leonardo quasi un senso di
euforica sicurezza.
Egli arrivava, ogni giorno, puntuale e si comportava come un perfetto
cortigiano. Era vestito con particolare eleganza, anzi, con raffinatezza, ed era
accompagnato dagli allievi, eleganti, giovanissimi e belli, che a guisa di efebi
lo servivano macinando e pestando i colori, diluendoli nell’olio, porgendogli i
pennelli.
Circondata dalle dame di corte Cecilia, immobile, guardava il pittore; forse
nella sala c’era anche un ermellino, che di quando in quando fuggiva di
gabbia terrorizzando le fanciulle. Ma l’imprevedibile e inesauribile Leonardo
aveva per tutti, e soprattutto per lei, una favola o una leggenda.
«Un ermellino correva sulla neve, sulla cima di un monte, e i cacciatori lo
videro. Allora fuggì per tornare nella sua tana che si trovava assai più in
basso. Ma il sole aveva sciolto la neve intorno alla tana trasformandola in
pantano. L’ermellino si fermò...».
Anche Leonardo interrompeva volutamente il racconto per concentrarsi, in
quell’attimo di silenzio, sopra un particolare del ritratto, creando un momento
di sospensione collettiva, poi, dopo un ultimo tocco di pennello, seguitava
con un sorriso:
«No, l’ermellino non poteva sporcare il suo candido mantello, non se la
sentiva di sguazzare nel fango come una volpe qualsiasi. Rimase lì, sull’ultimo
lembo di neve; vide i cacciatori arrivare di corsa, finché una freccia lo colpì a
morte...».
Cecilia, lei sola, capiva le allusioni del pittore. Meglio la morte che
sporcarsi nel fango di tutti i giorni: la purezza del pensiero e del cuore, come il
manto dell’ermellino, è sacra più della vita.
Ora anche lei incominciava a guardare in Leonardo, a cercare e a ritrovare
in lui qualcosa di se stessa, proprio come l’artista cercava dentro di lei
qualcosa di sé.
La fanciulla dall’età «imperfecta» si scopriva e si riconosceva non nel
dipinto ma nelle parole del pittore; mentre per lui le sedute diventavano vere e
proprie trasfusioni di pensieri.
Cecilia, a volte, si sentiva come creta che prendeva forma e vita dalla voce
di Leonardo; si accorgeva di essere modellata dalle sue parole, diventava una
sua creatura.
– Perché non fate scultura? Ritenete superiore la pittura? Voi siete anche
scultore.
– È vero – rispondeva sorridendo l’artista – e «adoprandomi io non meno
in scultura che in pittura, mi pare potere dare sentenza su quale sia maggiore...
La differenza è che lo scultore conduce le opere sue con maggior fatica di
corpo ed il pittore con maggior fatica di mente...». Poi, con ironia, Leonardo
descriveva a Cecilia lo scultore sudato e sporco, come uno scalpellino o uno
spaccasassi, mentre il pittore «con grande agio siede dinanzi alla sua opera,
ben vestito, e muove il lievissimo pennello con i suoi vaghi colori,
accompagnato da musiche, senza strepito di martelli...».
Cecilia sorrideva incredula. Aveva visitato l’antro di Leonardo, conosceva
la sua fucina, il suo volto assorto nel riverbero della fiamma, aveva visto le
sue sculture e la prima, immensa ossatura metallica del cavallo. Aveva visto i
suoi disegni di anatomia, immaginato la sua solitudine, il suo sgomento
davanti ai cadaveri vinto solamente dalla disperata volontà di conoscere;
sapeva il dramma di quell’uomo solo, intuiva ciò che lui non diceva,
ascoltava ciò che le sue parole nascondevano, perché si era finalmente accorta
di amarlo.
Se non siamo sicuri che sia di Cecilia la frase scritta su uno dei taccuini di
Leonardo, e poi da lui diligentemente lavata, che incomincia con «Lionardo
mio», è certo che Leonardo e Cecilia si davano del tu – quando era d’uso il
voi anche tra coniugi, parenti ed amici – e certissimo, nello stesso taccuino, è
questo scritto di Leonardo, abbozzo di una lettera:
«Magnifica domina Cecilia, Amantissima mia Diva. Lecta la tua
suavissima...».
«Crudele e dispietato mostro»

M A PRIMA DEL ritratto a Cecilia Gallerani, dicono i biografi spalleggiati


anche da una lettera di Lodovico il Moro al re d’Ungheria, Leonardo
dipinse una tavola – una Madonna, per l’esattezza – destinata a quell’umanista
e monarca ungherese «nato a benefizio del mondo» che rispondeva al nome
di Mattia Corvino.
Per Leonardo questo re non era uno sconosciuto: ne aveva sentito parlare a
Firenze dai suoi amici miniatori Gherardo e Attavante; e ora, dopo l’incarico
di Lodovico per una Madonna, c’era Ambrogio De Predis che ogni giorno gli
domandava altre notizie perché stava facendo una miniatura per quel sovrano.
– Io non sono molto addentro in queste vicende – diceva Leonardo ad
Ambrogio. – So che nella lontana Pannonia c’era un monarca di nome
Sigismondo che aveva sulla testa, per modo di dire, cinque corone, essendo re
di cinque nazioni. Però non era un buon generale e fu sconfitto dai Turchi che
gli arrivarono quasi in casa. Fu il padre di questo Mattia, il condottiero
Giovanni Hunyadi, che arrestò i musulmani, e il popolo, per gratitudine,
proclamò re il suo figliolo.
Ambrogio De Predis ascoltava a bocca aperta, ammiccando ogni tanto a
significare che lui non solo capiva, ma sapeva qualcosa di nuovo e di
straordinario.
– Il re Mattia Corvino, figlio di quel Giovanni, ha sposato poi la figlia del re
di Napoli, Beatrice d’Aragona – seguitava Leonardo – che gli ha popolato la
corte di umanisti e di scienziati come Antonio Bonfini, Brandolino Lippo, il
mio amico Naldo Naldi, il medico Giovanni Marliani, Alessandro Cortese e
tanti altri, insieme a una gran passione per i libri. A Firenze abitò per molti
anni un certo Giano Pannonio, amico del re e allievo di Guarino Veronese, il
quale si serviva del libraio Vespasiano da Bisticci per accaparrarsi i codici
antichi: facevano a gara, lui e Cosimo de’ Medici, a chi arrivava prima, e si
diceva che la biblioteca del re Mattia comprendesse già 500 opere, contro
quella di Cosimo che ne aveva solo 200, mentre il papa e il duca di Borgogna
ne avevano, a quel tempo, circa 800 ciascuno.
– E ora ti dirò una cosa straordinaria – disse sottovoce Ambrogio; – il Moro
mi ha chiesto di miniare una pergamena con un epitalamio per le nozze di
Giovanni, figliolo del re Mattia, con la principessa Bianca Maria, figlia del
duca Galeazzo. Queste nozze sono un segreto di stato, perché questa nipote
del Moro è promessa, fin dall’età di due anni, al duca Filiberto di Savoia. E
questo – continuò con orgoglio il De Predis mostrando a Leonardo un ritratto
d’una chiarezza parlante – è il re Mattia, che ho riprodotto sulla pergamena.
– Allora la mia Madonna andrà in buone mani – concluse sorridendo
Leonardo.
Tuttavia, com’era sua abitudine, seguitò ad alternare ai pennelli il calcolo,
all’arte la scienza; e in quel tempo studiò una trasformazione del castello,
proponendo di elevare una torre molto alta, con in cima una cupola, che
sarebbe stata anche uno sfondo ideale per il monumento equestre a Francesco
Sforza. Stese inoltre una dettagliata relazione sul modo d’inondare
artificialmente il fossato di cinta, scavando un canale di raccordo col
Redefossi; e mentre dipingeva il ritratto di Cecilia Gallerani, disegnò una serie
di rinforzi in muratura per consolidare la cerchia difensiva; tracciò infine
l’itinerario di una strada segreta fondandosi sul principio degli ingressi obliqui
del Vitruvio.
E intanto, a Milano, era scoppiata la peste.
Fra il 1484 e il 1485 la città perse più di cinquantamila persone. Meno
celebre, ma non meno micidiale di quella descritta dal Manzoni, la pestilenza
spopolò le case e dilagò nelle campagne.
Leonardo non fuggì. Evitò i rapporti inutili, uscendo di casa il meno
possibile, e si raccolse nella lettura e nella meditazione. Si era reso conto che
la scienza, a differenza della poesia, pretendeva dalle parole non
un’evocazione d’immagini, ma una precisione rigorosa di linguaggio – cosa
che a lui mancava – e perciò si mise a studiare sistematicamente l’uso dei
vocaboli, ripassò il latino e la grammatica di Donato, si mise a ricopiare un
vocabolario «latino-volgare» di Giovanni Bernardo, studiò nomi e prenomi,
verbi ed avverbi.
Fu in questi forzati e fecondi ozi che nacque in lui la determinazione di
scrivere, sull’esempio di Leon Battista Alberti, un trattato scientifico di natura
enciclopedica, e subito si mise a cercare nelle opere dell’antichità, e
soprattutto in quelle del Medioevo, ispirazione e informazione.
Nei suoi quaderni incominciò ad annotare più distesamente, e non solo per
memoria, i suoi pensieri, dando ad essi, specie in quel periodo di biblica
calamità, toni ed accenti da profezia.
«Vedrannosi animali sopra la terra – cioè gli uomini – i quali sempre
combatteranno infra loro e con danni grandissimi e spesso morte di ciascuna
delle parti. Questi non aran termine nella lor malignità... e per la loro
ismisurata superbia si vorranno levare in verso il cielo...
«Nulla cosa resterà sopra la terra, o sotto la terra e l’acqua, che non sia
perseguitata, remossa o guasta...
«O mondo, come non t’apri? e precipita nell’alte fessure de’ tua gran baratri
e spelonche e non mostrare al cielo sì crudele e dispietato mostro...».
Ma questo «mostro», proprio nell’operosa città di Milano, stava già
mostrando al cielo una luminosa selva di guglie e di pinnacoli, lavorando
febbrilmente intorno alla Fabbrica del Duomo.
Una lotta a coltello, anche se senza sangue, era in corso fra gli artisti
tedeschi e quelli italiani. Leonardo, passata la peste, si trovò coinvolto in
questa contesa, proprio nel momento in cui la parte «gotica» subiva una dura
sconfitta che si traduceva nel licenziamento in tronco di Giovanni
Nexempelger di Graz, di Alessandro di Marpach e di altri insigni maestri
d’oltralpe. Al loro posto veniva chiamato il fiorentino Luca Fancelli, perché si
unisse a Pietro da Gorgonzola, a Giovanni Mayer e al Bramante. Leonardo
fece molti sopralluoghi per conto della Fabbrica, effettuò rilevamenti e calcoli,
eseguì un progetto del Tiburio ed avanzò proposte iuxta ordinationem factam
in consilio Fabricae: su e giù per le impalcature, tra lo splendore di tutti quei
marmi che avevano il raro privilegio di entrare in città «a ufo» (da: A.U.F. –
Ad Usum Fabricae), ossia col marchio d’esenzione da ogni dazio, l’artista si
sentiva sicuro di sé e felice d’esserlo; e dall’alto di quell’edificio egli avrà più
volte guardato le casupole in basso e immaginato, «con forte fantasia», la sua
città ideale.
«Dammi potenza...»
spesa si farà che tutte le terre obbediscano ai loro capi».
«…E SENZA TUA

Con questa invocazione apparentemente retorica, in realtà


disperata, Leonardo incomincia un’altra lettera per il duca di Milano, forse
mai recapitata al destinatario, nella quale il suo concetto urbanistico precorre
talmente i tempi da sembrare la fantasia di una mente esaltata.
Non è ancora nato, infatti, nemmeno in questo nostro ventesimo secolo,
l’architetto capace di realizzare una città «razionale» come quella di Leonardo.
Le coraggiose ricerche di un Wright, di un Le Corbusier, di un Niemeyer o di
un Nervi segnano i primi timidi passi verso la concezione di quella «città
nuova» ed organica che Leonardo non soltanto intravide, ma descrisse e
disegnò come realtà storica e necessità sociale.
Basterebbe un impresario coraggioso e danaroso, disposto a edificare la
città del duemila; costui troverebbe il progetto – definito in ogni particolare –
nascosto, addirittura mimetizzato, tra i manoscritti di Leonardo.
Una città vicina a un fiume, le cui acque siano mantenute pulite e sempre
allo stesso livello; strade larghe quanto l’altezza «universale» delle case, grandi
piazze, spazi verdi per inserirvi i vasti edifici – chiese, palagi e scuole – in una
continua circolazione d’acqua per mezzo di canali e di fontane, non solo per
mantenere pulito l’ambiente, ma per assicurare anche un rapporto costante ed
armonico fra natura e città.
«Le strade N sono più alte che le strade PS braccia 6 e ciascuna strada de’
essere larga braccia 20 e avere 1/2 braccio di calo dalle estremità al mezzo –
(ossia devono scendere mezzo braccio verso il mezzo per assicurare lo scolo
dell’acqua piovana) – e in esso mezzo sia, a ogni braccio, uno braccio di
fessura, largo un dito, ove l’acqua che piove debba scolare nelle cave fatte al
medesimo piano di PS, e da ogni stremità della larghezza di detta strada sia
uno portico di larghezza di braccia 6 in su le colonne».
La città organica di Leonardo è fatta a similitudine dell’uomo, secondo una
concezione antropomorfica che separa, senza reciderle, le zone della testa, o
del pensiero, da quelle del corpo, o del ricambio: le case hanno due strade,
una alta, al posto dei tetti, e una bassa; e chi volesse girare tutta la città
percorrendo la strada alta e alberata, lo potrebbe; e lo stesso percorrendo
quella bassa. «Per le strade alte no’ de’ andare carri né altre simili cose: anzi,
sia solamente per li gentili òmini; per le basse deono andare i carri o l’altre
some a l’uso e comodità del popolo».
Popolo, dunque, chiamato anche «popolaglia» e «gentili òmini»: la
distinzione di Leonardo è precisa e inequivocabile; non si tratta di ricchi e di
poveri, ma di una moltitudine che lavora onestamente con le braccia e una
élite che lavora con la mente, per dirigere e organizzare razionalmente il
lavoro manuale.
«L’una casa de’ volgere le schiene a l’altra, lasciando la strada da basso in
mezzo, e da li usci N si mettono le vettovaglie, come legnie, vino e simili cose.
Per le vie socteranee si de’ votare destri, stalle e simili cose fetide. Dall’uno
arco all’altro de’ essere bracci trecento, cioè ciascuna via che riceve il lume
dalle fessure delle strade di sopra; e ogni arco de’ essere una scala a lumaca
tonda... e per detta scala si discenda dalla strada alta alla bassa; e le strade alte
si comincino fori delle porte e, giunte a esse porte, abbino composte l’altezza
di braccia sei. Sia facta decta terra o presso a mare o altro fiume grosso, a ciò
che le bructure, menate dall’acqua, sieno portate via».
Una città su due piani: e come non definirla avveniristica, se ancor oggi
sembra addirittura un’utopia? Eppure non è assurda, né impossibile; anzi, è la
città di cui la nostra terra inquinata ha urgente bisogno per sopravvivere, una
città a misura d’uomo, da rispettarsi come un essere umano, con strade
sopraelevate per il passeggio, strade a fior di terra per il traffico e i commerci,
strade sotterranee per gli scarichi; case alte ed ariose, ciascuna con vasti cortili
interni, piazze e giardini, canali navigabili da cui sono banditi perfino i pesci
che intorbidano l’acqua come la tinca e l’anguilla; edifici maestosi, fontane,
monumenti.
La soluzione «ecologica» dei problemi, o dei delitti, del nostro secolo è
contenuta in queste meravigliose intuizioni, dove il microcosmo dell’uomo è
concepito secondo le leggi e l’armonia che regolano il macrocosmo
dell’universo.
«Dammi autorità... e io ti edificherò cinquemila case con trentamila
abitazioni, e così disgregherai tanta congregazione di popolo, che a
similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno, empiendo ogni parte di
fetore... E la città si fa di bellezza compagna del suo nome, e a te utile di dazi e
fama eterna del suo accrescimento...».
Ma Lodovico, anziché dargli «autorità», non gli passava neanche l’assegno
pattuito, e Leonardo voltava sconsolato le pagine del suo quaderno, dove la
città dell’uomo moriva prima di nascere, tornava ad essere sogno, come un
quadro pensato e non dipinto.
Il duca ha fretta

E RA QUASI MATTINA, quando Leonardo infilò la chiave nell’uscio di casa. Era


stanco, eppure, invece di andare a letto, si diresse verso il tavolo ed aprì
il suo quaderno degli appunti anatomici.
Con la penna in mano, lo sguardo fisso nel vuoto, rivedeva la corsia
dell’ospedale, e quel vecchio tutto bianco, quasi senza più sangue nelle vene,
immobile e solo, ormai vicino a morire.
«... E questo vecchio – scrisse Leonardo – di poche ore innanzi la morte, mi
ha detto lui passare cento anni...». L’artista era rimasto al suo capezzale
cercando di sapere qualcosa di più. Il vegliardo gli diceva di non sentirsi
«alcun mancamento nella persona, altro che debolezza». Infine «dolcemente,
senza altro movimento o segno alcuno d’accidente, è passato di questa vita».
Poi, con lo stesso tono, senza distacco, senza nemmeno una nota
d’involontario contrasto, Leonardo continuò a scrivere: «... E io ne ho fatta
anatomia, per vedere la causa di sì dolce morte...».
Anche a distanza di secoli, possiamo sempre immaginare lo sguardo
affettuoso e commosso dell’artista trasformarsi, all’improvviso, in quello
inesorabile e freddo dell’indagatore. È un’ulteriore conferma della sua
personalità complessa e contraddittoria; la necessità di sapere e di capire
l’aveva spinto ad affondare il coltello nelle membra ancora tiepide di un
povero vecchio al quale, poco prima, aveva pietosamente chiuso gli occhi, per
scoprire – che cosa? – non le forze occulte della malattia, ma la causa «di sì
dolce morte».
Notizie, ricerche: egli interrogava la morte e la vita, il mistero della nascita e
l’esistenza prenatale. Rivedeva le lunghe, interminabili notti accanto ai
cadaveri, quel dialogo assurdo e impossibile con i loro corpi squarciati, «... e
se tu avrai l’amore a tal cosa, tu sarai forse impedito dallo stomaco, e se
questo non ti impedisce, sarai impedito dalla paura di abitare in tempi notturni
in compagnia di tali corpi squartati e scorticati e spiacevoli a vederli...».
Da pochi giorni aveva trovato un modo ingegnoso per studiare «la
meraviglia dell’occhio, finestra dell’anima»: immergeva il bulbo nel bianco
dell’uovo e buttava il tutto nell’acqua bollente; l’albume si cuoceva e l’occhio
diventava sezionabile come un uovo sodo.
La luce del giorno lo sorprese ancora seduto al tavolo. Si alzò, guardò fuori
la neve e vide un messaggio sul cavalletto.
«Il Duca farà il cavallo – c’era scritto con una calligrafia a lui ben nota – ma
ha fretta». Nessuna firma.
Quello stesso giorno Lodovico il Moro lo mandò a chiamare.
– Leonardo, non sono contento di te. In sette anni non sei riuscito a fare
neanche il modello del monumento a cavallo del duca Francesco. Se indugi
dell’altro chiederò al Magnifico Lorenzo che mi cerchi un altro scultore.
– Mi rincresce assai – rispose Leonardo – che le preoccupazioni per
assicurarmi il vitto mi abbiano forzato a interrompere l’opera che la Signoria
Vostra mi aveva commesso. Ma se Vostra Signoria pensava che io fossi ricco,
si sbagliava, perché ho tenuto per cinquantasei mesi sei bocche da sfamare, e
ho avuto dalla Signoria Vostra solo cinquanta ducati.
– Oppure non sai fare questo monumento?
Certe volte la brutalità del Moro era addirittura provocante.
– Ho già detto, e ripeto ora alla Signoria Vostra, che anche nella scultura,
come nelle altre arti, accetto il confronto con chiunque.
– Allora sbrigati, dammi il cavallo.
Il Moro non disse di aver già parlato con Pietro Alamanni, ambasciatore
fiorentino, per lamentarsi di questo ritardo e chiedere un altro maestro; ma
l’Alamanni, com’era suo dovere, aveva già informato il Magnifico:
«... E perché Sua Eccellenza vorrebbe fare una cosa perfetta oltre modo,
m’ha detto ch’io vi scriva per parte sua, che gli mandiate un maestro capace a
tal opera, e benché egli abbia affidata questa opera a Leonardo da Vinci non
mi sembra che sia grandemente persuaso che questi sappia eseguirla».
Ferito nell’orgoglio, Leonardo si rimise al lavoro «poiché il Duca ha fretta».
Riprese gli studi eseguiti a Firenze per l’Adorazione dei Magi, quelli fatti nella
bottega del Verrocchio al tempo del monumento equestre del Colleoni, quelli
compiuti nei primi anni del suo soggiorno a Milano.
Giuliano da Sangallo, giunto poco prima da Firenze per costruire il palazzo
di Lodovico, gli fu vicino in quei giorni febbrili, dandogli preziosi
suggerimenti sulla tecnica della fusione.
Era trascorso solo qualche mese, e già l’artista chiedeva all’oratore e poeta
Platino Plato una frase da porsi, come epigrafe, sotto il monumento.
Era un cavallo immenso, raffigurato nell’atto d’impennarsi, con sopra il
glorioso duca Francesco in atto maestoso e superbo.
Ma all’improvviso, quando il modello in creta era quasi finito, Leonardo
cambiò idea, o meglio, gli balenò l’idea di una nuova versione del cavallo,
non più rampante, ma al passo, fremente in tutti i muscoli sotto una mano
sicura che lo guidava e gli governava il morso...
Leonardo prese un quaderno nuovo e nella prima pagina scrisse: «A dì 23
aprile 1490 cominciai questo libro, e ricominciai il cavallo».
Il Paradiso

P ARLIAMO ANCORA UN po’ di Lodovico, cerchiamo di conoscerlo meglio.


Dopo essere stato esiliato a Pisa dalla cognata Bona di Savoia, egli rientrò
in Milano nel 1479 tra l’incredulità generale e lo sgomento del vero padrone
del ducato, Cieco Simonetta, che era stato segretario del duca Galeazzo.
– Eccellenza – disse il Simonetta alla duchessa – io perderò la testa, e voi lo
Stato.
Difatti, riconciliato con Bona, il Moro non fece aspettare troppo la sua
vendetta: «... nel rivellino del Castello, dalla banda del parco, sopra un panno
nero, fu decapitato Cieco Simonetta l’anno settuagesimo di sua età, e infermo
per dolor di gotta». Sempre in quello stesso 1480 Lodovico fece fuggire
precipitosamente da Milano, minacciandolo di morte, il giovane ferrarese
Antonio Tassino, amante di Bona di Savoia; infine fece rapire il nipote Gian
Galeazzo, di cui la madre era reggente, per metterlo al sicuro nella rocca del
Castello, avvertendo poi la cognata «... noi essere devenuti ad questo acto ad
niuna diminutione del honore et reputatione soa, perché nostro primo
proposito et voluntà immutabile era tenirla et riverirla finché durarla la
vita...».
Ma l’abilità politica del Moro si manifestò proprio con questo sequestro di
persona: egli convinse il nipote, ormai undicenne, a rifiutare la reggenza
materna, costringendo così la cognata a ritirarsi nel castello di Abbiategrasso,
mentre il duca minorenne offriva la tutela di se stesso «all’illustre signor
Lodovico, mio zio», che l’accettò per il bene della famiglia e dello Stato.
Fin dall’età di tre anni, Gian Galeazzo era fidanzato con una lattante, figlia
del re di Napoli Alfonso d’Aragona: tra i bambini c’era stato perfino un
ingenuo scambio di lettere. La piccola Isabella aveva regalato a Giangi un
cavallo pregandolo di «aceptarlo et cavalcarlo per suo amore».
Il primo febbraio 1487 la figlia del re di Napoli, diventata una donna, entrò
in Milano «con inaudito apparato», come legittima consorte del duca Giovanni
Galeazzo Sforza. Il giorno seguente la nuova duchessa e il suo sposo si
recarono in visita all’altare di Maria Vergine nel Duomo, vestiti di bianco
secondo l’uso di corte. Li scortavano «alla staffa» i nobili milanesi, fra cui
s’imponeva «per statura e maestà d’aspetto» Lodovico il Moro, duca di
Calabria.
Dopo la celebrazione delle nozze, ci fu un grande spettacolo allegorico, con
un testo del solito Bellincioni e con la regia di Leonardo.
La rappresentazione ebbe luogo il 13 gennaio 1490, nel castello di Milano:
l’introduzione a quel poema sul «Paradiso» rammenta per la prima volta
Leonardo come tecnico teatrale e scenografo.
«La seguente operetta composta da Messer Bernardo Belinzon a una festa o
vero ripresentazione chiamata Paradiso qual fece fare il signor Lodovico a
laude della Duchessa di Milano; et chiamasi paradiso però che v’era fabricato
con il grande ingegno et arte di maestro Leonardo Vinci Fiorentino il paradiso
con tutti li sette pianeti che girava e li pianeti erano representati da homini in
forma et habito che se descriveno dalli poeti li quali pianeti tutti parlano in
laude della prefata Duchessa Isabella come vederai legendola».
Che cosa succedeva nel paradiso di Leonardo?
Qualcosa di simile a ciò che, settant’anni prima, aveva realizzato a Firenze il
Brunelleschi per la festa dell’Annunziata e di cui ancora si parlava come di un
avvenimento memorabile.
Un emisfero, opportunamente forato per dare l’idea del firmamento, veniva
sollevato in alto, contro il soffitto, per dare l’effetto della volta celeste. Una
solida struttura di ferro, munita di braccia snodate e azionate da speciali
congegni, faceva roteare «un mazzo di otto angioli», come dice il Vasari, ossia
dei bambini sui dieci anni, sistemati in speciali supporti a forma di cucchiaio o
di mandorla; mentre in un supporto più grande saliva e scendeva
verticalmente un giovane travestito da Arcangelo Gabriele.
Il Paradiso di Leonardo – scrisse un testimone oculare – «era facto a
similitudine de uno mezzo ovo, el quale dal lato dentro era tutto messo a horo,
con grandissimo numero de lume ricontro de stelle, con certi fessi dove steva
li sette pianeti, segondo el loro grado alti e bassi. A torno l’orlo de sopra del
ditto mezo tondo era li XIJ signi, con certi lumi dentro del vedro, che
facevano un galante et bel vedere: nel qual Paradiso era molti canti et soni
molto dolci et suavi...».
Un meraviglioso spettacolo di automatismi, insomma; e l’entusiasmo fu
unanime. Gli ambasciatori lo descrissero ai rispettivi governi, da quello di
Venezia a quello di Firenze, di Napoli, di Ferrara, di Parigi e del Papa.
Ma intanto il giovane Gian Galeazzo, per gli strapazzi di quei giorni, fu
costretto a mettersi a letto senza poter consumare il matrimonio; dieci mesi
dopo le nozze, la sposa, ancora fanciulla, minacciava il pigro marito di
tornarsene a casa.
Ecco, ancora una volta, intervenire il reggente: Lodovico, con l’aiuto di un
teologo, fece intravedere al nipote una condanna all’inferno se avesse
continuato a spregiare un sacramento come il matrimonio; e con l’aiuto del
tesoriere di corte gli fece capire che avrebbe dovuto restituire al re di Napoli,
insieme alla moglie, anche la cospicua dote che l’aveva preceduta e seguita.
Nel 1491, finalmente, la duchessa Isabella ebbe un figlio: l’indolente
marito, per salvare l’onore del ducato e per non disobbedire allo zio, aveva
fatto il suo dovere.
Le nozze nel segno di Marte

E D ORA È la volta di Lodovico. La bambina di casa d’Este è cresciuta, ha


quindici anni, e le ragioni politiche per cui, a suo tempo, era stato
combinato questo matrimonio, sono ancora valide.
L’esuberante Lodovico ha già provveduto al futuro dei suoi figli illegittimi:
Leone, nato nel 1476 da madre ignota, è riconosciuto per concessione del
giovane duca Gian Galeazzo; Bianca, nata nel 1482 da un breve intermezzo
d’amore con la nobile fanciulla Bernardina de Corradis, è legittimata con la
stessa concessione ducale e subito «sposata», all’età di 8 anni, a Galeazzo
Sanseverino, condottiero dell’armata sforzesca; infine Cesare, di cui non si sa
la data di nascita, frutto del lungo amore per Cecilia Gallerani, come ne fanno
testimonianza alcuni sonetti del Bellincioni e del Fiesco, è legittimato da Gian
Galeazzo con una cerimonia particolare.
Così, con la coscienza a posto – almeno per quanto riguarda i suoi
burrascosi trascorsi sentimentali – Lodovico manda a Beatrice d’Este una
collana di perle «legate con fiori d’oro e con pendenti di rubini e smeraldi» e
uno scultore, Gian Cristoforo Romano, perché le faccia il ritratto.
Mentre una deputazione guidata dal poeta Gaspare Visconti parte alla volta
di Ferrara per prendere in consegna la sposa, Lodovico chiama a raccolta da
Treviglio, da Novara, da Lodi e da Monza i più noti artisti lombardi e chiede il
ritorno immediato da Pavia di «magistro Leonardo». Infine, cosa non meno
importante, manda a chiamare d’urgenza maestro Ambrogio da Rosate,
astrologo di corte, affinché interroghi gli astri e scelga «per punto
d’astrologia» il giorno e l’ora più propizi a celebrare le nozze.
Accompagnata dalla madre Eleonora d’Aragona, da uno zio cardinale, dalla
sorella maggiore Isabella, moglie di Francesco Gonzaga e marchesa di
Mantova, oltre che da uno stuolo di dame e di gentiluomini, Beatrice
s’imbarca a Ferrara per raggiungere, lungo il corso del Po, il futuro consorte
che l’aspetta a Pavia.
È con lei suo fratello maggiore Alfonso, anch’egli in viaggio di nozze, ma
solo per ricongiungersi con la giovane moglie Anna Sforza, figlia del defunto
Galeazzo e di Bona di Savoia, alla quale era stato sposato tredici anni prima,
quand’era bambino.
Le nozze sono finalmente fissate per il 17 di gennaio 1491, perché questo
giorno, «scelto con grandissimo studio» da maestro Ambrogio, è sotto
gl’influssi diretti di Marte e quindi propizio per un principe che deve avere un
erede maschio.
Nella cappella del palazzo ducale di Pavia la sposa, con un sontuoso abito
bianco tempestato di perle, adorna di gioielli meravigliosi, è accompagnata
all’altare dalla madre, dal fratello, dalla sorella e dallo zio. Lodovico, reggente
del ducato di Milano e duca di Calabria, onorato dalla presenza dei nipoti
Gian Galeazzo e Isabella duchi di Milano, dalla cognata Bona di Savoia e dai
gentiluomini della sua corte, «impalma la sposa», cioè le mette al dito l’anello.
Quindi ha luogo un sontuoso banchetto.
All’alba del giorno dopo un araldo proclama che il matrimonio è stato
felicemente consumato.
Lodovico, dopo essersi assicurato che Leonardo non è più a Pavia, parte la
sera stessa per Milano.
Salaì

I PAVESI STAVANO costruendo la loro cattedrale, quando un dissenso «tecnico»


aveva interrotto all’improvviso i lavori. Allora fu proposto un consulto,
come al capezzale di un malato. Era da poco arrivato a Milano, su richiesta del
duca Gian Galeazzo, il famoso architetto Francesco di Giorgio Martini, per
risolvere l’annoso problema della cupola; e i pavesi, saputa la notizia, avevano
mandato una deputazione ad invitarlo per esprimere un parere. Ma insieme al
giudizio del grande architetto volevano avere anche quello di un artista
altrettanto famoso: Leonardo, appunto.
Ai primi di giugno del 1490, Leonardo e Francesco di Giorgio erano partiti
alla volta di Pavia.
Leonardo aveva trentotto anni, maestro Francesco quasi trenta di più: tutti e
due appassionati di matematica, logici e dialettici; Leonardo più teorico,
maestro Francesco più pratico.
Avevano un numeroso seguito di aiutanti e di servi: Leonardo, per la prima
volta, portava con sé, oltre a Zoroastro, anche i giovani allievi Marco
d’Oggiono e Antonio Boltraffio.
Furono alloggiati all’Hosteria del Moro, a spese della «Fabbrica del
Duomo»; Francesco di Giorgio, che doveva tornare presto a Milano,
incominciò subito i controlli, le verifiche e i rilevamenti per la prosecuzione
dei lavori, mentre Leonardo, non assillato da problemi di tempo né di tecnica
architettonica, si dedicava allo studio della geometria, assistendo l’amico
Francesco, ma solo in sede teorica, ricercando per lui, nella ricca biblioteca
del castello di Pavia, notizie di prospettiva e di matematica.
«In Vitolone è ottantacinque conclusioni in Prospettiva» annotava
diligentemente; e subito dopo, cambiando argomento, fermava un’immagine
di vecchie mura in fondo all’acqua del fiume, chiariva a se stesso,
descrivendola, un’impressione fugace d’acque in movimento; indugiava sulla
riva del Ticino ad osservare il comportamento dei pesci.
Non si era mai sentito così libero e sereno: poteva dedicarsi alla ricerca,
all’esplorazione e alla meditazione, e di sera poteva frequentare, insieme a
Francesco di Giorgio, gli amici come l’architetto Giacomo Andrea da Ferrara,
o il pittore Agostino Vaprio da Pavia, che lo provocava in animate discussioni
di tecnica pittorica.
Francesco di Giorgio, intanto, non si era limitato a dare pareri e
suggerimenti, ma aveva lavorato intorno al modello della cupola portandolo a
buon punto: però era giunto anche il momento di tornare a Milano, dove si
reclamava la sua presenza, sicché dovette abbandonare il lavoro e la città
promettendo, come sempre si dice, di ritornare al più presto. Leonardo,
incaricato dalla «Fabbrica del Duomo» di fare a sua volta un modello della
cupola, restò invece a Pavia.
Fu probabilmente in questo periodo che l’artista incontrò il Salaì.
«Jacomo venne a stare con meco il dì della Maddalena nel 1490; d’età
d’anni dieci.
Il secondo dì li feci tagliare due camicie, uno paro di
calze e un giubone, e quando mi posi i dinari a lato
Ladro bugiardo ostinato
per pagare dette cose, lui mi rubò detti dinari della
ghiotto
scarzella, e mai fu possibile fargliele confessare, ben
ch’io n’avessi vera certezza».
Chi era questo Jacomo? Non lo sappiamo: un ragazzo vissuto allo stato
brado, più selvaggio che selvatico, dal volto bellissimo, verso il quale
Leonardo – nel giorno della Maddalena, ossia il 22 di luglio – si sentì
improvvisamente attratto come da una forza sconosciuta.
– In Oriente – sentenziava Zoroastro – si chiama karma questa legge
misteriosa che a volte ci fa incontrare il demonio col viso d’angiolo, come
questo ragazzo. Il tuo, Leonardo, è un debito, un vecchissimo debito che hai
contratto con lui in qualche precedente incarnazione, e ora è venuto il
momento di pagarlo.
Leonardo ascoltava l’amico negromante e sorrideva senza rispondere.
– Non ci credi? Non importa – seguitava Zoroastro: – il destino non ha
bisogno della nostra approvazione.
«Il dì seguente andai a cena con Giacomo Andrea [l’architetto di Ferrara] e
detto Jacomo cenò per due e fece male per quattro, imperocché ruppe tre
ampolle, versò il vino, e dopo questo venne a cena dove me».
Leonardo, dopo averlo fatto lavare, dirozzare, pettinare e vestire, lo
studiava come un fenomeno della natura, cercando di rimanere spettatore ed
estraneo; ma i suoi trentotto anni, la lunga solitudine, la natura selvaggia e la
bellezza di quel ragazzo tesero un tranello ai suoi sentimenti: senza volerlo, e
forse anche senza saperlo, si sentì responsabile di quella creatura come un
padre di fronte a un figlio ribelle.
«Io t’alevai di latte per mio figliuolo» gli scriverà tanti anni dopo: ma
intanto, mentre virtualmente lo allatta, Leonardo deve continuare, quasi con
monotonia, ad annotarne i furti.
«Item a dì 7 settembre rubò uno graffio di valuta di 12 soldi a Marco
[probabilmente Marco d’Oggiono], che stava co’ meco, il quale era d’argento,
e tolseglielo dal suo studiolo, e poi che detto Marco n’ebbe assai cerco, lo
trovò nascosto in nella cassa di detto Jacomo».
A dicembre, dunque, Leonardo era tornato d’urgenza a Milano, insieme ad
Agostino Vaprio, per obbedire all’ordine di Lodovico. Altri pittori, come
Bernardo di Gennaro e Bernardino de’ Rossi – anch’essi a Pavia – avevano
avuto addirittura la minaccia di una multa di 25 fiorini se non si fossero
presentati in tempo.
Ma Lodovico non poteva chiedere a Leonardo di organizzare uno
spettacolo sul genere del Paradiso; sarebbe parso un’imitazione: gli commise,
perciò, la coreografia della giostra che Galeazzo Sanseverino aveva avuto
l’ordine di bandire ufficialmente fra la nobiltà di tutta Italia.
Il 22 di gennaio la duchessa Isabella, moglie di Gian Galeazzo, uscì dal
Castello, con un seguito imponente, per andare alla chiesa di S. Eustorgio ad
attendere Beatrice.
Il duca Gian Galeazzo e lo zio Lodovico il Moro andarono, invece, incontro
alla sposa a porta Ticinese: quindi il corteo, preceduto da 100 trombettieri,
attraversò la città pavesata a festa fino alla chiesa dove furono ricelebrate le
nozze.
Sulla porta del Castello, ad attendere gli sposi, c’erano la duchessa Bona di
Savoia con le figlie Bianca Maria ed Anna.
Il giorno dopo, in forma privata, fu consacrato con una solenne funzione
religiosa anche il matrimonio di Alfonso d’Este con Anna Sforza.
Una giostra memorabile

L O SPETTACOLO DELLA Giostra superò quello del Paradiso; e Leonardo superò


se stesso. Questa volta gli attori avevano un nome, un cognome e un
titolo, erano il fior fiore dei principi e dei cavalieri italiani che scendevano in
lizza scortati da pittoreschi cortei di armigeri e di paggi.
Leonardo si era installato nella sontuosa dimora di Galeazzo Sanseverino,
con i pittori, i tecnici, i meccanici, i sarti e gl’inservienti, e di lì, come un
mago, muoveva i fili di un gigantesco carosello.
Alfonso Gonzaga, preceduto da dodici lance dorate, con diciannove
cavalieri vestiti di velluto verde e seguito da quindici fanti con corazza
d’argento, apriva la sfilata. Dopo di lui veniva Annibale Bentivoglio di
Bologna, con un elmo «a testa di moro» e un corteo di scudieri in raso verde;
poi Gaspare Sanseverino, detto Fracassa, con dodici staffieri camuffati da
negri sopra un carro trionfale col mappamondo sormontato da un moro e
trainato da tre cavalli, due dei quali camuffati rispettivamente da liocorno e da
cervo.
Ma dove Leonardo sbizzarrì la propria fantasia fu nel corteo di Galeazzo
Sanseverino, sposo nominale della piccola Bianca figlia di Lodovico.
Galeazzo montava un cavallo mostruoso, tutto coperto di scaglie d’oro dipinte
in modo da cangiare colore a ogni passo; aveva in capo un elmo il cui
cimiero, davanti, sembrava la testa di un ariete, mentre di dietro diventava un
serpente: era scortato da staffieri truccati da selvaggi e da trombettieri che
cavalcavano cavalli bradi.
Al termine della sfilata, un cavaliere vestito alla moresca salì su di un podio
per leggere un carme in lode di Beatrice; quindi ebbe luogo la giostra.
«Questo ne pare ben poter affirmare senza sospetto alcuno de iactanza, che
in epsa (giostra) sono rotte tante lanze quanto mai sia stato in Italia da
grandissimo numero di anni in una giostra; e la groseza de le lanze è stata non
solo fora de la qualità usitata, ma sopra onne credulità ad chi non le avesse
vedute», scrisse qualche giorno dopo lo stesso duca di Milano Gian Galeazzo
al suo oratore presso il papa.
Tutti bravi, tutti valorosi, tutti applauditi: ma il drappo d’oro, oggetto della
cavalleresca contesa, toccò a Galeazzo Sanseverino, comandante dell’armata
milanese.
Lodovico il Moro guidò poi gli ambasciatori e le dame a visitare il tesoro
custodito nelle sale della torre Maestra, e pare che facesse un notevole effetto
sulla giovane Isabella, marchesa di Mantova e sorella di Beatrice:
l’ambasciatore di Ferrara descrisse in termini entusiastici questo secondo
spettacolo fatto di ducati d’oro versati a cascata su preziosi tappeti, che
facevano «uno dignissimo et allegro vedere e che furono extimati da molti
essere non mancho quantità de ducati seicentocinquantamillia, licet
vulgarmente se dicesse de octocento millia. Eravi poi tavole longhe su le quali
erano extese le zoglie, cadene et collari d’oro di questi ill.mi Signori et
Madone, che era una bella et pretiosa cosa da vedere».
C’erano inoltre sessantasei santi d’argento a grandezza naturale allineati
lungo le pareti, quattro grandi croci tempestate di gemme, e per terra, negli
angoli delle sale, montagne di monete d’argento che «non le avrebbe saltate
un capriolo».
Sopra la porta d’ingresso era scolpito un Argo dai cento occhi, e la scritta
«Adulterinae abijte claves» ossia, chiavi false state alla larga da qui.
Qualche giorno dopo, nel silenzio della sua stanza, Leonardo scriveva in un
quaderno:
«Item, a dì 26 Genaro essendo io in casa di Messer Galeazzo da
Sanseverino a ‘rdinare la festa della sua giostra, e spogliandosi certi staffieri,
per provare alcune veste d’omini salvatichi, ch’a detta festa accadeano,
Jacomo s’accostò alla scarsella d’uno di loro, la quale era in sul letto con altri
panni, e tolse quelli dinari che dentro vi trovò – Lire 2 s. di L. 4».
Nessuna parola del successo ottenuto, nemmeno un accenno a Beatrice che
in quell’occasione volle conoscerlo: annotò invece, in lire e in soldi,
l’ammontare del furto, che lui risarcì seduta stante.
Leonardo continuava ad osservare quel «fenomeno di natura» con la stessa
distaccata freddezza di uno scienziato.
«Item, essendomi da Maestro Agostino da Pavia donato in detta casa una
pelle turchesca da fare un paro di stivaletti, esso Jacomo, infra uno mese, me
la rubò e vendella a un acconciatore di scarpe per 20 soldi, de’ qua’ dinari,
secondo lui propio mi confessò, ne comprò anici, confetti».
Dai primi ostinati rifiuti ad ammettere l’evidenza, il ragazzo era arrivato a
confessare le sue malefatte, ma non a rinunciarvi.
«Era vaghissimo di grazia e di bellezza – dice il Vasari – avendo belli i
capelli ricci ed inanellati, dei quali Leonardo si dilettò e a lui insegnò molte
cose nell’arte».
Ma nel campo dell’arte non imparò molto, e Leonardo se ne accorse presto.
Seguitò tuttavia ad insegnargli a dipingere, facendo appello a un’infinita
pazienza.
«Item, ancora a dì 2 d’Aprile, lasciando Gian Antonio [Boltraffio] uno
graffio d’argento sopra uno suo disegno, esso lacomo glielo rubò, il quale era
di valuta di soldi 24 = L. 1, s. di L. 4».
Fu in questo tempo, forse, che Leonardo battezzò col nome di Salaì, nel
recente ricordo del Morgante, quel suo pericoloso figlio adottivo.
Infatti Salaì, nel Morgante del Pulci, era il diavolo; e appunto a questo
dovevano paragonarlo anche gli aiuti e gli allievi di casa, dal più anziano
Zoroastro al più giovane Marco d’Oggiono.
Sette anni dopo, annotando minutamente le spese per il ricco guardaroba di
quel ragazzo, diventato ormai un efebo esigente e vanitoso, Leonardo, a piè di
lista, aggiungerà, con laconica amarezza: «Salaì ruba li soldi».
«O matematici fate lume»

T UTTA LA VITA di Leonardo è fondata sui «pare» e sui «si dice», e molto
spesso la scoperta fortuita di una data butta definitivamente per aria un
intero castello di dotte supposizioni.
Così non si può passare con disinvoltura da un fatto all’altro – dal ritratto
di Cecilia Gallerani a quello di Beatrice d’Este, per esempio – senza il dubbio,
o meglio, la certezza, che fra questi due episodi, di cui abbiamo le prove, ce
ne siano tanti altri che non conosciamo, ma che fanno da tessuto connettivo
alla vita quotidiana di questo ermetico personaggio.
Milano, per Leonardo, significa il trapasso dalla giovinezza alla maturità; e
se questo periodo è sempre fondamentale per tutti, è di capitale importanza
per un uomo come lui.
Con gli studi e i progetti per le cupole del duomo di Milano e di quello di
Pavia egli si rivela architetto, con una preparazione scientifica formata non
solo alla fonte classica di Vitruvio, ma a quella moderna di Leon Battista
Alberti e di Francesco di Giorgio Martini. Con la Vergine delle rocce e le altre
Madonne ora perdute, e poi col ritratto di Cecilia, egli impone alla pittura
lombarda un nuovo stile; anzi, la rivoluziona addirittura, e trova subito, com’è
naturale, il consenso dei giovani. A buon diritto, perciò, egli può dire di avere
una sua scuola, che per la vastità degli interessi «umani» su cui essa allarga le
sue ricerche, potrebbe definirsi, sull’esempio di quella fiorentina,
un’«Accademia».
Con i bassorilievi e le teste eseguite a Firenze, e soprattutto con l’immenso
cavallo in preparazione, egli si riconferma come il più valido continuatore
dell’opera del Verrocchio.
Con i suoi scritti, da illetterato che si è fatto da sé, ossia consapevole
dell’efficacia dei propri mezzi espressivi, egli trova un linguaggio e uno stile e
si permette di autodefinirsi, in polemica coi letterati del suo tempo, «omo
senza lettere».
Ma non basta. Sezionando i cadaveri, e proponendosi di scrivere un trattato
di Anatomia, egli anticipa il Vesalio; nel metodo sperimentale applicato alle
ricerche scientifiche, costituito dalle «prove» e dalle «controprove», anticipa
Galileo ; nell’idraulica prepara il terreno ai grandi tecnici del secolo
successivo, nella meccanica precede di almeno quattro secoli le scoperte e le
conquiste della nostra civiltà cosiddetta «tecnologica».
Ma tutto ciò è testimoniato per monosillabi, per accenni, come in un
linguaggio iniziatico, e per di più, come abbiamo già visto, traducibile soltanto
mediante uno sdoppiamento – il riflesso di un’immagine e di un segno in uno
specchio – come un «io» che si proietti oltre e fuori di sé, per riconquistarsi e
riconoscersi.
Alla cronaca e alla storia, nessuna concessione.
E intanto, in questo tempo, è già morto a Venezia Andrea del Verrocchio,
nel 1488, e il fedele Lorenzo di Credi ne ha riportato le spoglie a Firenze; nel
1492 muore a Careggi Lorenzo il Magnifico; in tutta l’Italia si parla già di un
frate riformatore che dal pulpito del duomo di Firenze minaccia la curia di
Roma. Muore il papa Innocenzo VIII e viene eletto al soglio di Pietro un
anticristo di nome Alessandro VI. A Milano Lodovico il Moro sta tramando il
più grande attentato alla libertà territoriale d’Italia invitando il giovane e
ambizioso re di Francia, Carlo VIII, a passare le Alpi per conquistare il regno
di Napoli. Sempre a Milano è in atto una guerra «fredda» fra le due
primedonne del ducato, Isabella d’Aragona e Beatrice d’Este.
Leonardo, estraneo a tutto questo, si dedica allo studio della negromanzia,
con tutti i suoi fenomeni di spiritismo e di metamorfosi; prende parte a sedute
medianiche, cerca le ragioni di quelle virtù, avverte anche qui la presenza di
«fenomeni» oscuri e indistinti: poi rinuncia a proseguire su quel terreno senza
una consistenza reale, torna alla scienza «solare», e con un senso di
liberazione scrive: «La necromanzia, stendardo ovvero bandiera volante,
mossa dal vento, è guidatrice della stolta moltitudine... affermando che li
omini si convertano in gatti, lupi e altre bestie, benché in bestia prima entran
quelli che tal cosa affermano. O matematici – esclama Leonardo alla fine –
fate lume a tale grossolano errore!».
Questi matematici, nel senso più lato, sono i suoi veri amici, con i quali
s’incontra spesso per «investigare» sulla natura visibile ed invisibile delle
cose, e si chiamano Luca Pacioli, Fazio Cardano, Pietro Monti, Giacomo
Andrea da Ferrara, i due medici Marliani.
Il loro sodalizio, nella Milano chiassosa e festaiola di quegli anni, ha
qualcosa di simbolico: ciascuno di questi amici nasconde il proprio sapere
scientifico dietro una maschera d’ignoranza; essi parlano dell’uomo e del suo
divenire, di fisica e di alchimia, di medicina e di matematica, di astrologia e di
meccanica; cospirano insieme contro ogni superstizione in nome della scienza
e della ragione.
La corte di Beatrice

«...G odi, Milan, che dentro a le tue mura


De li uomini excellenti hoggi hai gli honori:
Del Vinci a’ suoi disegni e suoi colori
E i moderni e gli antichi hanno paura...».

Inutile aggiungere che questi versi sono del Bellincioni, che si sentiva quasi
un collaboratore di Leonardo dal momento che intratteneva con le sue
improvvisazioni la bella e giovane duchessa di Calabria, consorte del Moro,
mentre il pittore fiorentino le faceva il ritratto.
Di uomini «excellenti», in verità, ne erano giunti parecchi, su invito del
duca Lodovico, specialmente da quando egli aveva istituito nuove cattedre
universitarie. Il giurista Giasone del Maino richiamava alle sue lezioni studenti
italiani e stranieri; Benedetto Ispano, Demetrio Calcondila e Giorgio Mèrula
facevano altrettanto con le lingue ebraica e greca; un frate francescano di
Borgo a San Sepolcro, Luca Pacioli, rendeva addirittura popolari le scienze
matematiche.
In contraddizione con queste liberalità, ma in logica conseguenza alle spese
pazze per i recenti matrimoni, Lodovico aveva limitato all’osso le spese di
corte, razionando, nell’interno del castello, non solo i viveri, ma anche la
legna e le torce.
Solo quando era «al verde», ossia quando aveva consumato la torcia o la
candela fino alla fascia terminale di color verde, ogni cortigiano poteva
riceverne un’altra, consegnando il mozzicone di quella già utilizzata.
Leonardo, con la sua scelta corte di allievi, a cui ora si aggiungeva il
bellissimo Salaì, ritraeva di profilo la bella e volitiva Beatrice.
Probabilmente era presente, assai spesso, anche il Moro, se è vero ciò che
riferisce un cronista dell’epoca, che «sentendo il Duca i ragionamenti tanto
mirabili di Leonardo, talmente s’innamorò delle sue virtù che era cosa
incredibile».
Leonardo, da bravo regista, sorvegliava prima di tutto se stesso. «Sempre le
parole che non sodisfano all’orecchio dell’auditore, gli danno tedio over
rincrescimento: in segno di ciò vedrai, spesse volte, tali auditori esser copiosi
di sbadigli. Adunque tu, che parli dinanzi a uomini di cui tu cerchi
benevolenza, quando tu vedi tali prodigi di rincrescimento, abbrevia il tuo
parlare, o tu muta argomento...».
Beatrice era appassionata di musica e Leonardo, lo sappiamo, era suonatore
di flauto e di lira; è logico dedurre che il salotto della duchessa, durante le
sedute per il ritratto, si trasformasse spesso in auditorium, se non addirittura
in teatro.
«Spiccarono in Leonardo – precisa il Giovio – pregi di grande compitezza,
accostumatissime e generose maniere, accompagnate da un bellissimo aspetto;
e poscia ch’egli era raro e maestro inventore d’ogni eleganza e singolarmente
dei dilettevoli teatrali spettacoli, possedendo anche la musica, esercitata sulla
lira in canto dolcissimo, divenne caro, in supremo grado, a tutti i principi che
lo conobbero».
Correvano di bocca in bocca, per le sale del castello, le sciarade,
gl’indovinelli, le favole, le facezie e le profezie di maestro Leonardo.
– Chi sono quelli che scorticano la propria madre rovesciandole la pelle
addosso?
– Chi sta, come se fosse morto, sopra le spoglie dei morti?
Alludeva ai contadini che arano la terra, e all’uomo che dorme su letti di
piume.
Fanciulle e gentiluomini di corte si divertivano a risolvere gl’indovinelli del
Vinci, a ripetere i suoi aneddoti e le favole, che uscivano presto dalle mura del
castello per propagarsi in tutta la città.
– Hai sentito che cos’ha detto ieri maestro Leonardo a Sua Eccellenza? Una
favoletta da nulla, eppure il Duca dovrà rifletterci sopra e sciogliere qualche
nodo ai cordoni della borsa.
– E che ha detto?
– Mentre faceva il ritratto alla duchessa, maestro Leonardo è stato pregato
dal Moro di raccontare qualcuna delle sue meravigliose storie, e Leonardo,
senza lasciare i pennelli, ha detto quella dell’aquila reale.
«Un aquilotto sporse il capo fuori del nido e vide molti uccelli che
volavano intorno alle rocce.
– Chi sono? – chiese alla sua mamma.
– Non aver paura, sono nostri amici. L’aquila reale vive solitaria, ma ha
bisogno di una corte: se no, che regina sarebbe? Questi uccelli dalle piume
variopinte sono i nostri cortigiani.
L’aquilotto, soddisfatto della spiegazione della mamma, cercò una posizione
più comoda e si mise ad ammirare la sua corte. Ma ad un tratto gridò:
– Mamma, hanno rubato il mio pasto!
– No – rispose la mamma – non l’hanno rubato, gliel’ho dato io. E
ricordati, anzi, quello che ora ti dico: un’aquila reale non avrà mai tanta fame
da non lasciare una parte della sua preda agli uccelli che le stanno intorno.
Infatti, a quest’altezza, essi non troverebbero di che nutrirsi e dovrebbero
scendere giù per non morire di fame. Chi vuol tenere una corte, deve essere
sempre generoso e liberale, e in cambio dell’amore e dell’ossequio deve
nutrire ogni giorno i suoi fedeli cortigiani».
– E il Moro?
– Si è alzato, è andato vicino a Leonardo, gli ha battuto affabilmente la
mano sulla spalla...
Leonardo abitava poco distante dal castello. Una sera, tornando a casa,
trovò un biglietto senza firma. Era un addio.
Il giorno seguente, a corte, per le solite voci di corridoio, venne a sapere
che la duchessa Beatrice aveva posto al marito un ultimatum:
– O via lei, o via io! In questa casa non c’è posto per due mogli!
La ragion di stato, ma non solo quella, aveva avuto il sopravvento. Cecilia
era il passato, Beatrice, ancora così giovane, il presente: e la dolce Cecilia uscì
com’era entrata, in punta di piedi, dal Castello e dalla vita del Moro, per
diventare la moglie di Lodovico Bergamini, un amico dello Sforza.
Il cavallo

L E NOZZE DI Bianca Maria col figlio di Mattia Corvino erano andate a monte,
perché il Moro aveva trovato più vantaggioso, non per lei ma per sé, un
matrimonio con Massimiliano I, re dei romani e imperatore d’Austria.
Leonardo aveva preso incautamente l’impegno di esporre il modello in
creta del monumento equestre in occasione delle feste nuziali; e questa volta
non poteva lasciare il lavoro a mezzo, era in gioco il prestigio personale del
Moro.
«10 luglio 1493; ginetto grosso di messer Galeazzo, – morel fiorentino di
messer Mariolo, caval grosso, ha bel collo e assai bella testa – ronzino bianco
del falconiere (ha bella cervice di dietro, sta in porta Comasina) – cavallo
grosso del Chermonino, del signor Giulio».
Eccolo, perciò, ancora in cerca di modelli: la sua stanza era cosparsa di
disegni e di appunti: teste, colli, criniere, muscoli, nervi e garretti. Gli allievi lo
aiutavano come potevano, cioè poco o nulla; Maso Masini, il fedele Zoroastro,
preparava le «strutture portanti» per il modello grande, mentre l’artista dava
gli ultimi ritocchi al modellino.
Alla fine di novembre del 1493 arrivarono a Milano gli ambasciatori
dell’imperatore – fra cui il severo vescovo-conte di Bressanone – per
prelevare la sposa. La città era in festa: la grande piazza del Castello era
adornata con «mirabili e belli edifizi» e nel mezzo, maestoso e meraviglioso,
stava il monumento equestre del duca Francesco Sforza. Era soltanto il
modello di creta, ma l’abile Zoroastro gli aveva dato una patina speciale che lo
faceva sembrare non di bronzo ma d’oro. In latino e in volgare i poeti di corte
– il Lazzaroni, il Tacconi, il Curzio e il Bellincioni – dettero il via
all’entusiasmo e alle lodi. Diceva il Tacconi:

«... Vedi che in corte fa far di metallo,


per memoria del Padre un gran colosso.
I’ credo fermamente e senza fallo
che Grezia e Roma mai vide il più grosso.
Guarda pur com’è bello quel cavallo!
Leonardo Vinci a farlo sol s’è mosso.
Statura, bon pictore, bon geometra,
un tanto ingegno rar dal ciel s’impetra.
E se più presto non s’è principiato,
la voglia del Signor fu sempre pronta;
non era un Lionardo ancor trovato,
qual di presente tanto ben l’impronta;
che qualunque ch’el vede sta ammirato;
e se con lui al paragon s’afronta
Fidia, Mirone, Scoppa e Praxitello,
diran che al mondo mai fusse el più bello...».

Segreto ammiratore del Brunelleschi e di Donatello, e discepolo di Andrea


del Verrocchio, Leonardo aveva fatto vedere, anzi, aveva messo in piazza la
prova del suo genio. Ora, anche nella scultura, aveva creato un precedente
nuovo e fino a quel giorno impensabile: un cavallo alto m. 7,13 dalla testa alla
base, che richiedeva per la sua fusione – secondo i complicati calcoli di Luca
Pacioli – 200.000 libbre di bronzo, qualcosa come 653 quintali.
«Travagliò per Lodovico il Moro – scrisse il Giovio – in creta un cavallo
colossale da fondersi sussequentemente in bronzo, e sopra vi doveva figurare
il di lui padre Francesco, celebre guerriero, nella stessa materia».
Ancora una volta, nella piazza del Castello, si allestirono spettacoli, tornei,
parate e trionfi per fare onore agli ospiti d’Oltralpe: la borsa del Moro si riaprì
e sembrava senza fondo.
Il 30 novembre l’arcivescovo di Milano Arcimboldi celebrò in Duomo il
matrimonio per procura, ed ai primi di dicembre la figlia di Galeazzo Sforza e
di Bona di Savoia prese «il cammino per andare al desiderato suo marito in
Alemagna».
Fino a Como la seguì una scorta eccezionale, fra cui la madre, il fratello
duca Gian Galeazzo – detto «il duchetto» – con la consorte Isabella
d’Aragona. Da Como, con una flotta di barche, il corteo arrivò a Bellagio e
quindi, su per la Valtellina, s’inoltrò, a dorso di mulo, nelle Alpi.
Bartolommeo Calco, segretario del Moro e testimone oculare, descrisse i
paesi più interessanti del Lario: la Pliniana, Bellagio, Fiumelatte; e per una
strana coincidenza ritroviamo gli stessi nomi diligentemente trascritti nei
quaderni di Leonardo.
«In testa alla Voltolina è le montagne di Borme sempre piene di nevi. Qui
nascie ermellini».
Poi c’è un appunto sulla Pliniana e una nota su Fiumelatte, detto
dialettalmente Fiumelaccio. Leonardo, infatti, scriveva i nomi come li sentiva
pronunziare: Borme per Bormio e Voltolino per Valtellina, un po’ come gli
emigranti del secolo scorso che chiamavano Brooklyn «Broccolino».
Probabilmente Leonardo faceva parte del corteo d’onore che accompagnò
verso la Germania la giovane sposa di Massimiliano; e con la sposa viaggiava
anche una carovana di muli con una favolosa dote di 400.000 fiorini d’oro.
Era il prezzo dell’ambizione e del potere. Infatti l’imperatore fece subito
pervenire segretamente a Lodovico il brevetto di duca di Milano.
Nella stessa città, ci furono così due corti sontuose, e due duchesse che
incominciarono a guardarsi in cagnesco. Ma Isabella d’Aragona aveva un
marito di pasta frolla e di poca salute, perciò fu costretta dalla rivale a ritirarsi,
sconfitta, nel castello di Pavia.
Nemmeno un anno dopo Gian Galeazzo, febbricitante, pensò di guarire, o
glielo fecero pensare, facendo una scorpacciata di pere annaffiate da un fiasco
di vino. Il giorno dopo morì.
Il Machiavelli e il Guicciardini, interpretando l’opinione generale, parlarono
di veleno. Oggi si pensa, piuttosto, a un’infezione intestinale in un organismo
già minato.
Lodovico accorse a Pavia, fece trasportare la salma del nipote nel duomo di
Milano, vegliò il sarcofago, ordinò funerali solenni.
Poi, convocato nel Castello il Consiglio Segreto, propose il riconoscimento
del figlio di Gian Galeazzo, il piccolo Francesco, come legittimo duca ed
erede.
Il Consiglio Segreto, composto da gente fedele a Lodovico, non ratificò la
proposta.
Il Consiglio, all’unanimità, si oppose, e volle il Moro duca di Milano.
Lodovico tentò di opporsi, poi, ossequioso alla volontà del supremo
consesso, accettò.
Subito dopo, vestito di broccato d’oro, attraversò in corteo la città, per
andare in Sant’Ambrogio a ricevere la spada e lo scettro ducale.
«Catelina»
DÌ 16 LUGLIO
«A Catelina venne a dì 16
di Luglio 1493».

Un’annotazione secca, distaccata. Ma Freud, giustamente, ci trova


un’incrinatura, l’effetto di un’emozione tradita dalla ripetizione del giorno e
del mese. Non è una distrazione, come potrebbe sembrare, ma l’opposto: è
segno di una concentrazione assoluta che si manifesta in inquietudine.
«Venne»: un verbo senza seguito, senza complementi. Per i discepoli o per
gli operai, invece, Leonardo scrive sempre «venne a star meco», «venne con
me», «venne a 4 ducati al mese».
Quel verbo, così solo, può sottintendere molte cose: «venne» dal borgo di
Vinci, da lontano, fino a questa città. E dietro allo stesso foglio, una lista di
nomi familiari, come la conseguenza di un ricordo evocato dalla presenza di
lei:
Antonio
Bartolomeo
Lucia
Piero
Lionardo.
No, quella Catelina a cui Leonardo, il 29 gennaio 1494, dà 10 soldi e ne
prende nota sul quaderno, non è la donna di casa, la serva che fa da mangiare
e la spesa; è una «presenza» racchiusa in un silenzio eloquente, e che
un’annotazione successiva, poco tempo dopo, scioglierà dal mistero che la
circonda.
Leonardo avrà avuto sì e no cinque anni quando incominciò ad accorgersi,
nel borgo di Vinci, di quella donna che lo spiava.
Ogni volta che passava con lo zio Francesco o con l’Albiera davanti alla
casa d’Accattabriga, quella donna si affacciava sull’uscio come se qualcuno
l’avesse chiamata.
– Zio Francesco, chi è quella?
– È la Caterina – rispondeva lo zio.
E Caterina rimase, anche quando Leonardo, a Firenze, venne finalmente a
sapere che la moglie di Accattabriga era sua madre.
Ora, all’improvviso, era giunta a Milano.
E poco dopo, senza una parola di commento, Leonardo annotò sul
quaderno: «spese per la socteratura di Catelina»:

libre 3 di cera s. 27
per lo catalecto s. 8
palio sopra catalecto s. 12
portatura e postura di croce s. 4
per la portatura del morto s. 8
per 4 preti e 4 cerici s. 20
campana, libro, spunga s. 2
per li socterratori s. 16
all’anziano s. 8
per la licenzia a li ufiziali s. 1
--------------------
---
s. 106
--------------------
---
in medico s. 5
zuchero e candele s. 12
s. 123

Ecco il paravento dell’anima: questa breve nota, terribile nella sua


successione puramente economica, difende come una maschera il cuore di
Leonardo da ogni sguardo indiscreto.
Forse era giunta a Milano già malata, o il suo male insorse all’improvviso,
come farebbe credere la modica spesa per il medico.
Ma è la parola «socteratura» che più ci sconcerta. Non «funerale», non
«trasporto» come si fa con i familiari defunti: vien fatto di pensare a un
desolato corteo funebre con la salma – «il morto» – scoperta sul cataletto, lo
stendardo nero che precede la bara, quattro preti e quattro chierici, e i
sotterratori con le torce accese, perché i «trasporti», come ancora in Toscana,
si fanno di sera, e dietro al cataletto un uomo solo, dal volto impenetrabile –
Leonardo.
Nell’annotare le spese, gli tornavano forse alla mente gli ultimi istanti di
Caterina, le candele accese durante l’ultima, lunga notte, lo zucchero per dare
sapore all’ultima goccia d’acqua.
Ma dopo aver sotterrato «Caterina», Leonardo, nel segreto dell’anima, può
fare finalmente posto a una madre che prima non c’era.
Gli amici

L EONARDO E «JACOMO Andrea» erano vecchi amici: si erano conosciuti nel


1482, poco dopo l’arrivo dell’artista a Milano, mentre Giacomo Andrea
da Ferrara era stato invitato alla corte milanese due anni prima. Giacomo, oltre
che architetto e scienziato, era «accuratissimo sectatore delle opere di
Vitruvio».
L’amicizia fra i due si consolidò a poco a poco, diventò familiare, tanto che
Luca Pacioli, più tardi, la definì addirittura «proverbiale».
Nel 1494 Leonardo e Giacomo erano insieme a Vigevano, perché di
quell’anno sono gli appunti sul Ticino e sulle vigne di Vigevano che «la
vernata si sotterrano», sui mulini e sui canali.
Le rive del Ticino erano affollate di cercatori d’oro, e i due amici
osservando il moto «del crivello», idearono un nuovo e più razionale sistema
di scavo, mediante un insieme di bracci di diversa lunghezza, ruotanti intorno
ad un asse, all’estremità dei quali potevano essere applicati ceste o secchi per
lo sgombero del materiale.
E quanti altri problemi, anche filosofici, suscitava il fiume nell’animo
dell’artista.
«Il giglio – scrisse un giorno nel suo taccuino – si pose sopra la ripa del
Tesino, e la corrente tirò la ripa insieme col giglio». Dietro queste parole, egli
nascose l’immagine di un fiore purissimo e solitario – una specie di alter ego
– che si specchiava nell’acqua verde del fiume. Ogni onda portava via con sé
l’improvvisa visione di quel fiore e ne aveva nostalgia. Venne la piena,
torbida di fango, strappò lembi di sponda, finché il giglio fu travolto insieme
alla terra che lo sosteneva.
«Così è di ogni sommossa – diceva fra sé Leonardo – non sorretta da un
ideale; e così fa l’invidia, che acceca».
I due amici ragionavano sulla scienza degli antichi, sull’arte di costruire
mezzi di difesa e di offesa, sui principi della statica e della dinamica, e la
mano sinistra di Leonardo traduceva in chiara immagine ogni concetto, dava
ad ogni intuizione una forma e una struttura.
Così veniva elaborato il progetto della «mitragliera a ventaglio», con nove
bocche da fuoco – la futura «katiuscia» dell’Armata Rossa –; poi il forno per
la fusione di metalli destinati a quelle bocche da fuoco; forse anche il progetto
di un carro semovente, fatto a tronco di cono, azionato da molle e munito di
cannoni e mitragliere girevoli.
Alla nascente industria lombarda, la sua fantasia dedicava la macchina per
fare il liccio, quella per torcere i fili e quella per avvolgerli sul fuso, la
macchina per cimare i panni e infine quella per cardarli.
Quella fraterna amicizia, fra Leonardo e Giacomo, che nulla e nessuno
avrebbe mai potuto distruggere, si concluse tragicamente dopo la caduta di
Milano in mano ai francesi.
Giacomo Andrea, che non era fuggito insieme a Leonardo, collaborò col
cerusico Niccolò della Basula per riaprire le porte della città a Lodovico il
Moro: un segno di fedeltà raro in ogni tempo; ma con la successiva fuga del
Moro i due si trovarono in balìa del Trivulzio, comandante supremo dei
francesi. Furono incarcerati; poi, per intercessione del vescovo, ebbero salva
la vita e la facoltà di passeggiare per la «rocca». Ma qualche giorno dopo,
senza alcuna motivazione, furono decapitati e squartati, e i quarti vennero
esposti alle quattro porte della città.
Leonardo, alla fine della sua vita, ebbe l’incarico di realizzare un
monumento equestre «a Giovanni Jacomo Trivulzio»: l’artista eseguì molti
disegni, ma la morte, provvidenziale, gl’impedì di commettere un gesto, sia
pure involontario, di «lesa amicizia».
Oltre a Giacomo Andrea, era amico di Leonardo uno strano tipo di soldato,
ingegnere e teologo – un certo Pietro Monti – che aveva pubblicato in lingua
spagnola un libro contro la negromanzia dei medici e contro il principio
d’autorità nelle scienze.
«Parla con Pietro Monti di questi modi di trarre i dardi», si legge negli
appunti di Leonardo; e alla corte milanese il Monti preparava un trattato d’arte
militare avvalendosi della consulenza pratica del comandante Sanseverino e di
quella teorica di Leonardo.
Fazio Cardano, invece, era un altro amico, piuttosto difficile, misantropo,
«che aveva notizia di scienze occulte e tanto sapere necromantico da superare
tutti i suoi contemporanei: e pubblicamente si credeva avesse uno spirito
famigliare, come già Socrate, ed egli lo confessava a tutti, amici o nemici,
candidamente».
Il Cardano era un dottissimo giureconsulto, iuris utriusque doctor, medicus
et mathematicus, ed aveva quindi tutti i lumi per entusiasmare un uomo come
Leonardo.
Quando i due si conobbero, Fazio stava pubblicando i «Commentari
Prospettici di Giovanni Peckham», vescovo di Canterbury, e Leonardo li lesse
avidamente e ne trascrisse buona parte nei suoi quaderni.
Leonardo, inoltre, proprio in quel periodo, si era dedicato a studiare gli
effetti della luce e dell’ombra; è quindi possibile che lui stesso cercasse per
primo il Cardano, teorico dell’ottica matematica, e andasse a trovarlo nella
vecchia casa a porta Ticinese.
«Il libro di Giovanni Taverna, che ha messer Fazio», si legge nel «Codice
Atlantico».
Fazio «vestiva di scarlatto, contro l’universal uso dei milanesi, e non
ostante il contrasto che risultava dal suo costante sottabito nero, andava curvo
nelle spalle; biancheggiavano i suoi occhi, capaci nella luce notturna...».
Questo sinistro ritratto è del figlio Girolamo, uno dei più avversati e
ammirati personaggi del XVI secolo, medico e astrologo, scienziato e mago,
fisico e negromante.
Anche Leonardo vestiva «contro l’universal uso», e forse il suggerimento
gli venne proprio dall’amico Fazio, che nella descrizione del figlio sembra la
terrificante apparizione del leggendario mago Merlino.
«Algebra ch’è appresso i Marliani, fatta dal loro padre». Una semplice nota,
dietro alla quale c’è una lunga ricerca dei figli di Giovanni Marliani, medico e
matematico, per avere da loro in prestito l’opera «De proportione motuum in
velocitate», non solo per leggerla, ma per copiarne i passi fondamentali.
Questa insaziabile sete di sapere giustifica anche la grafomania di Leonardo.
Perché Leonardo era davvero un grafomane. Pensava e leggeva con la penna
in mano. E riempiva le pagine dei suoi taccuini movendo da un centro ideale
del foglio, per seguire poi un moto quasi circolare che partiva dall’alto del lato
esterno.
Tutto lo interessava e tutto leggeva: ed essendo autodidatta mancava di
metodo, si ripeteva, perdeva tempo dietro a notizie secondarie o facilmente
reperibili; arrivava, appunto, a ricopiare un vocabolario senza escludere le
parole più comuni, d’uso quotidiano.
Algebra, geometria, prospettiva, idraulica, botanica, scienza delle
costruzioni, ottica, arte militare, meccanica, medicina: quanto diversa questa
fame dell’intelletto da quella del giovane Michelangiolo che, in quel tempo,
partiva da Firenze per Roma con solo tre libri: la Bibbia, Dante e una predica
del Savonarola sull’arte del ben morire!
«Se sarai solo sarai tutto tuo»

–L alla sprovvistapunto
EONARDO, A CHE è il cavallo? – Eccellenza – risponde Leonardo preso
da quella domanda del Moro – sto mettendo a punto un
sistema di crogioli multipli per fare arrivare il metallo fuso in tutte le parti.
– E poi?
Il Moro è sbrigativo, non ha tempo da perdere.
– E poi ho quasi messo a punto alcune leghe, una di bronzo e rame arso e
un’altra di bronzo mescolato con arsenico che promettono di dare ottimi
resultati.
– E quanto bronzo ci vuole?
– Duecentomila libbre.
– E quanti cannoni si potrebbero fare con tutto questo bronzo?
Leonardo, colto di sorpresa anche da questa domanda, guarda il Moro e
non risponde.
– Sarà meglio, Leonardo, che tu vada a dare un’occhiata al convento di
Santa Maria delle Grazie dove il Bramante ha già finito i lavori. Ci sarebbe da
decorare il refettorio di quei padri domenicani, che vorrebbero proprio da te
un’Ultima Cena. Poi, quando avremo calmato i Veneziani, provvederemo al
bronzo per il cavallo, e se i tuoi crogioli saranno pronti lo potrai gettare.
Leonardo si ritrova nel cortile del Castello senza nemmeno accorgersene.
Finché erano gli altri a sollecitarlo e a rimproverargli i ritardi, gli pareva che
tutto fosse ancora normale. Ora, invece, dopo quattordici anni di attesa, è il
Moro che gli dice di aspettare, e gli sembra quasi d’essere defraudato. Ha la
vaga sensazione che quel cavallo non finirà più, non sarà mai gettato in
bronzo. È come se lo spodestassero all’improvviso da un trono invisibile; gli
alambicchi, le storte, i fornelli, tutte le ricerche sulle leghe, adesso gli
sembrano inutili, capisce di aver perduto troppo tempo, anni preziosi, e di
avere abusato della pazienza di tutti.
Non sa a chi dirlo, si accorge d’essere senza un amico vero. Conosce
soltanto la sua disperata necessità di sapere, l’ossessiva processione di
«perché» a cui rispondere, il bisogno insopprimibile di camminare nella notte
con in mano una fiaccola, per far luce dove è ancora tenebra.
Sono egoisti anche gli allievi che vivono sotto il suo tetto, attenti solo alla
sua mano che dipinge, alla sua parola che li corregge. Lontano, al limite fra
l’uomo e l’animale, c’è quel bellissimo ladro del Salaì. Caterina è solamente
un ricordo.
Solo. All’improvviso si sente solo in mezzo alla moltitudine. Forse la colpa
è sua. Si è disperso in mille rivoli, ha rincorso troppe visioni, si è
entusiasmato di troppe cose e ora si trova a vivere in un mondo rarefatto dove
nessuno lo segue.
«E se tutta la mia vita fosse sbagliata perché non ho voluto fare soltanto
pittura?».
Leonardo è giunto a casa, apre l’uscio, entra nel laboratorio: sotto la
finestra c’è il tavolo, siede, apre a caso uno dei suoi quaderni, legge: «Se sarai
solo, sarai tutto tuo...». Lo richiude. Prende un foglio di carta e incomincia a
disegnare un Cristo, solo – anche lui – in mezzo agli apostoli, con la sua
inesprimibile tragedia interiore.
Il Cenacolo

S ULLA PARETE DEL refettorio di Santa Maria delle Grazie il centro «emotivo»,
convergente e irradiante, è ormai una realtà.
Nell’impeto della prima ispirazione Leonardo ha incominciato la grande
pittura – nove metri di base per quattro di altezza – sbozzando, dentro una
rigorosa geometria, le forme dei personaggi.
A differenza di tutti i suoi predecessori – da Giotto a Lorenzetti, da Andrea
del Castagno al Ghirlandaio – che avevano rappresentato la «comunione»
nella mesta dolcezza della cena, Leonardo rievoca il momento drammatico di
un annuncio che scompone, per sempre, l’unità degli apostoli – «Uno di voi
mi tradirà» – e imprime in quelle fisionomie lo stupore, la meraviglia,
l’incredulità, l’indignazione e l’orrore. Tutta la scena si muove intorno a Gesù
scomponendosi in quattro gruppi, ciascuno dei quali esprime un preciso
sentimento nell’espressione dei volti, nel gesto delle mani, nel moto della
persona e perfino nei piedi che spuntano di sotto la tavola.
«Quella figura è più laudabile – aveva scritto l’artista – che con l’atto
meglio esprime la passione del suo animo».
E Cristo, in mezzo a quel vortice di differenti passioni, calmo e triste dopo
il fatale annuncio, non è più soltanto un uomo, ma anche un essere divino,
avvolto in una solitudine irraggiungibile.
Leonardo dipinge e disegna: scompone e ricompone i suoi gruppi in una
serie di studi, riempie le pagine del suo taccuino annotando, anche per la
strada, idee frettolose:
«Uno che bevea e lasciò la zaina [il bicchiere] in lo sito e volse la testa
verso il suo proponitore.
«Un altro tene le dita delle mani insieme e co’ rigide ciglia si volta al
compagno. L’altro, con le mani aperte, mostra le palme [al compagno] e fa la
bocca della meraviglia.
«Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso
lui, e gli porge le orecchie, tenendo un coltello nell’una mano e nell’altra il
pane, mezzo diviso da tal coltello...».
Già nel 1497, come si legge in una lettera di Lodovico il Moro, il lavoro è
molto avanti: «... item de sollecitare Leonardo fiorentino perché finisca
l’opera del Refettorio delle Grazie...».
Ma Leonardo, dopo il primo impulso creativo, si ferma, si distrae, si
propone di cercare nuove tecniche pittoriche. Prepara una «arricciatura» di tre
intonachi diversi e sovrapposti che gli permetterà – almeno crede – di
dipingere a olio nel modo che lui chiama «sfumato», ossia con quella
ricchezza di particolari e quel continuo ripensamento che gli sono necessari.
La tecnica classica dell’affresco, che vuole una stesura del colore veloce e
senza pentimenti sopra il pezzo d’intonaco fresco, non è fatta per lui.
Michelangiolo, pochi anni dopo, affrescherà con pennellate decise come colpi
di mazzuolo tutta la volta della cappella Sistina. Leonardo è un problematico,
sottomette ogni segno, ogni colore – come ogni pensiero – a severe verifiche.
Deve poter correggere senza dover rifare; e l’affresco, invece, consente
soltanto di distruggere per ricominciare.
Matteo Bandello, che in questo tempo è novizio nel convento di S. Maria
delle Grazie, s’imprime nella memoria un’immagine «dal vero» di Leonardo
mentre dipinge la Cena:
«Soleva spesso – scriverà più tardi il novelliere – ed io più volte l’ho
veduto e considerato, andare la mattina a buon’ora a montar sul ponte, perché
’l Cenacolo è alquanto da terra alto: soleva, dico, dal nascente sole sino
all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il
mangiare e il bere di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stati due, tre e
quattro dì, che non v’avrebbe messo mano, e tuttavia dimorava talora una o
due ore del giorno, e, esaminando tra sé, le sue figure giudicava».
«L’ho anche veduto – dirà ancora il Bandello – secondo che il capriccio e
ghiribizzo lo toccava, partirsi di mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da
Corte Vecchia, ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene
dritto alle Grazie, et asceso sul ponte pigliare il pennello, et una o due
pennellate dare ad una di quelle figure, e di subito partirsi, e andare altrove».
Leonardo, anche se non dice nulla a nessuno, si è accorto che la
preparazione del muro è fatta male. I tre strati, composti ciascuno di una
sostanza diversa, non reagiscono in ugual modo all’aria e al calore; è come se
nella parete si nascondesse un cancro. Leonardo scopre, con terrore, una rete
di minutissime fessure ancora quasi invisibili, ma che il tempo accentuerà,
come rughe su di un volto. Cerca di rimediare ridipingendo sopra, ma sente
che questo suo capolavoro è fragile come il cavallo ancora da gettare. Allora
si stacca di nuovo dal lavoro, per studiare i rimedi, cercare una medicina
inesistente: è in uno di questi momenti di sconforto, forse, che lo sorprende il
Bandello – e molti altri frati con lui – immobile davanti a quelle figure.
«Dicesi che il Priore delle Grazie – scrive il Vasari, ampliando un aneddoto
raccontato da Giambattista Giraldi – sollecitava molto importunamente
Leonardo che finisse l’opera, parendogli strano veder talora Leonardo starsi
un mezzo giorno per volta astratto in considerazione; ed avrebbe voluto, come
faceva dell’opere che zappavano nell’orto, che egli non avesse mai fermo il
pennello.
«E non gli bastando questo, se ne dolse col Duca, e tanto lo rinfocolò, che
fu costretto a mandar per Leonardo, e destramente sollecitarli l’opera,
mostrando con buon modo che tutto faceva per l’importunità del Priore.
Leonardo, conoscendo l’ingegno di quel principe essere acuto e discreto volse
(quel che non aveva mai fatto con quel priore) discorrere col Duca largamente
sopra di questo. Gli ragionò assai dell’arte, lo fece capace che gli ingegni
elevati talor che manco lavorano più adoperano, cercando con la mente
l’invenzione, e formandosi quelle perfette idee, che poi esprimono e
ritraggono le mani, da quelle già concepite nell’intelletto. E gli soggiunse che
ancora gli mancava due teste da fare: quella di Cristo, della quale non voleva
cercare in terra, e non poteva tanto pensare, che nella immaginazione gli
paresse poter concepire quella bellezza e celeste grazia, che dovette essere
quella della Divinità incarnata. Gli mancava poi quella di Giuda, che anco gli
metteva pensiero, non credendo potersi immaginare una forma da esprimere il
volto di colui, che, dopo tanti benefizi ricevuti, avesse avuto l’animo sì fiero
che si fussi risoluto di tradire il suo Signore e Creatore del mondo. Pur di
questa seconda ne cercherebbe, ma che alla fine, non trovando meglio, non
gli mancherebbe quella di quel Priore tanto importuno e indiscreto.
«La qual cosa mosse il Duca maravigliosamente a riso, e disse che egli avea
mille ragioni. E così il povero Priore confuso attese a sollecitare l’opere
dell’orto, e lasciò stare Leonardo; il quale finì bene la testa del Giuda, che pare
il vero ritratto del tradimento ed inumanità».
Questo lungo brano conferma la familiarità che si è ormai stabilita fra
Lodovico il Moro e Leonardo. Sempre in questo periodo, l’artista decora per
il Duca la saletta Negra e la sala delle Asse nel Castello, come fa fede una
lettera di Gualtiero di Bescapè indirizzata a Lodovico: «... alla saletta Negra
non si perde tempo e lunedì si disarmerà la camera grande delle Asse cioè
della Torre: Magistro Leonardo promette finirla per questo settembre...»; ed è
in questo stesso tempo – forse al ritorno da Genova dove si era recato in
compagnia di Leonardo a studiare le fortificazioni – che il Duca accede
finalmente a una vecchia richiesta dell’artista, donandogli una vigna di sedici
pertiche fuor di Porta Vercellina, ossia nei pressi dell’attuale San Vittore.
Dono tutt’altro che principesco, perché una pertica misura 600 mq, e tutta la
vigna, perciò, è meno di un ettaro.
Tuttavia Leonardo è contento, possiede anche lui un pezzo di terra, come il
nonno Antonio, e potrà scriverlo al vecchio ser Piero a Firenze. Disegna
subito una grande pianta ed elabora molti progetti di trasformazione che
nessuno farà mai, poi cerca un contadino a cui dare quella terra in affitto
perché la lavori. La prende un certo Giovanni Caprotti da Oreno, padre del
Salaì.
Il frutto dell’ignoranza

U N SANTO E un assassino sono dunque i modelli che Leonardo cerca per le


vie di Milano. Fino a qualche anno fa, certi confessori ammonivano i
ragazzi raccontando che Leonardo, avendo finalmente trovato il modello per
Giuda – un uomo dal volto abbietto come la sua anima – gli chiese, un
giorno, chi fosse. E quello, accennando la figura luminosa e serena di Gesù,
rispose:
– Sono quello lì. Feci da modello a quel viso, prima di diventare quello che
sono.
Naturalmente questo aneddoto, che sa tanto di sacrestia e di controriforma,
non ha nulla a che fare con la verità. Leonardo cerca il suo Giuda nelle
taverne, nelle caserme, nei cantieri, come cerca il suo Gesù fra i giovani
d’ambo i sessi.
«Giovannina, viso fantastico, sta a Santa Caterina, all’Ospedale»,
«Cristofano da Castiglione sta alla Pietà, ha bona testa», «Cristo-Giovan
Conte, quello del Cardinale del Mortaro».
E finalmente, dopo ritrovamenti e pentimenti, illusioni e delusioni, anche
Gesù e il suo discepolo traditore hanno un’anima e un volto. L’opera è quasi
compiuta, ed è gigantesca. Non ha precedenti: è un compendio di pittura e di
prospettiva, un’immagine luminosa e grandiosa della «divina proporzione»; è
la scuola del mondo.
Leonardo ne è consapevole, e sa che solo il tempo, non gli uomini,
congiura contro quella parete orientata dalla parte di tramontana.
Ora che sta portando gli ultimi ritocchi, le visite si moltiplicano: dopo il
Moro e i gentiluomini di corte, anche i diffidenti prelati, che hanno visto
finora soltanto gli sconsolati gesti del Priore, scendono nel Refettorio.
Un giorno – riferisce ancora il Bandello – passando da Milano il vecchio
cardinale Gurcense – Raimondo Térault, vescovo titolare di Gurk – di ritorno
in Germania «volle discendere nel Refettorio per vedere la tanto decantata
opera».
Leonardo gli andò incontro con deferenza e mostrò a lui ed ai gentiluomini
del suo seguito «ciò che aveva fatto fino allora del suo Cenacolo». Ma quella
«pittura moderna» richiamò nell’animo del visitatore, per reazione, il ricordo
delle pitture antiche, e rivolgendosi ai suoi accompagnatori, il cardinale
«lamentò che il tempo e gli avvenimenti avessero distrutti i capolavori dei
primitivi, e tolto così ogni possibilità di fare un confronto dell’arte passata con
quella presente». Poi, bruscamente, domandò a Leonardo quanto ricevesse dal
Duca di Milano per i suoi servigi. «Il Vinci rispose che d’ordinario riceveva
cinquecento ducati all’anno, senza contare i premi e i donativi straordinari,
che di quando in quando il Moro gli faceva munificamente».
Il cardinale, scandalizzato, si alzò e se ne andò via senza nemmeno voltarsi.
– Lo vedete? – disse allora Leonardo ai suoi allievi – Questo è il frutto
dell’ignoranza. Dico ignoranza dei buoni autori classici, che, se li avesse letti,
l’Eminentissimo cardinale avrebbe saputo quanto, anche ai tempi di Gerone di
Siracusa, la pittura fosse tenuta in gran conto. «E raccontò – seguita il
Bandello – un aneddoto di Apelle e un altro di Lippo Lippi fra i turchi che
davano torto agli uomini gretti come quel Gurcense».
Poco tempo dopo, il Priore di Santa Maria delle Grazie annunciò il
compimento dell’opera.
Il Giovio, che la vide ancora intatta, scrisse che tutta Milano andò ad
ammirarla: «In admiratione tamen est Mediolani in pariete Christus cum
discipulis discumbens». Ma già il Lomazzo, cinquant’anni dopo, scriveva che
quella pittura «hoggidì è rovinata tutta, e non si scorge più se non una
macchia abbagliata».
Maestro Luca

L UCA PACIOLI ERA un po’ matto, come tutti i grandi matematici. Era nato a
Borgo San Sepolcro verso la metà del Quattrocento – come Leonardo – e
aveva studiato a Venezia ed a Roma. Ebbe un primo incarico d’insegnante a
Perugia e diventò subito famoso con un trattato d’Algebra. Fu chiamato ad
insegnare a Zara, quindi tornò a Roma dopo aver messo a punto la teoria dei
«poliedri regolari e dipendenti» che trovò in Melozzo da Forlì il primo
seguace, o la prima vittima, pretendendo il pittore di applicarla alla
decorazione dei capitelli del palazzo del giovane cardinale Girolamo Riario.
Nel 1483 Luca si fece francescano, non per vocazione, ma per comodità, ed
andò a Napoli a commentare Euclide. Lì conobbe il condottiero Gian
Giacomo Trivulzio, col quale studiò le applicazioni della matematica nell’arte
della guerra. Di nuovo a Roma, frequentò la casa del medico Pier Leoni che
gli fece conoscere le opere del Cusano ; quindi, nel 1493, stampò ad Urbino la
sua Summa de aritmetica, geometria, proportioni et proportionalità.
Leonardo, da Milano, ne ordinò subito una copia, insieme a una Bibbia e alla
Cronaca di Sant’Isidoro da Siviglia.
Figuriamoci dunque l’incontro fra l’illustre autore e il suo illustre lettore
quando Lodovico il Moro chiamò il francescano ad insegnare matematica a
Milano.
La loro amicizia fu come una malattia galoppante. Da una prima e distaccata
annotazione: «Fatti mostrare al frate di Brera De Ponderibus» si passò presto
al più confidenziale: «Impara la moltitudine delle radici da maestro Luca».
Leonardo portò l’amico alle Grazie e gli mostrò il Cenacolo incompiuto; lo
condusse in Corte Vecchia e gli mostrò il cavallo; lo invitò a casa sua, nel
laboratorio ingombro di carte e di strumenti, e gli mostrò – ultimo segno di
stima e di amicizia – i suoi appunti per il «Trattato di luce ed ombra», quelli
per il volume sulle «Proporzioni e anatomia del corpo umano» e quelli, assai
più numerosi, per il «Trattato del moto locale e delle percussioni e pesi e de le
forze tutte cioè pesi accidentali».
L’ammirazione del frate si trasformò in entusiasmo e non ebbe più limiti: la
Cena, il Cavallo, le «opere inimitabili» di Anatomia, di Prospettiva e di
Meccanica lo convinsero d’essere al cospetto del più grande genio d’ogni
tempo e d’ogni luogo. E mentre Leonardo riconosceva in Luca il suo maestro
e gli esponeva i suoi problemi di proporzione e di calcolo, altrettanto il frate
esponeva a Leonardo il piano di un’opera chiamata «De Divina Proportione»,
contenente non solo le più alte nozioni sui poliedri regolari, ma anche un
riesame analitico delle arti liberali secondo il pensiero di Leonardo.
Fu l’amico Luca a calcolare l’esatto volume del cavallo, la precisa quantità
di bronzo occorrente alla sua fusione ed il peso del monumento.
Fu l’amico Leonardo ad illustrare, con la sua «ineffabile sinistra mano –
come scrisse lo stesso Pacioli – a tutte le discipline matematiche
accomodatissima», il trattato De divina proportione, ossia «li platonici et
matematici corpi regulari et dependenti, che ’n prospectivo disegno non è
possibile al mondo fargli meglio».
I balestrieri guasconi

P RIMA CHE LEONARDO le facesse il ritratto, la bella e volitiva Beatrice aveva


già dato all’impaziente consorte un erede, dapprima chiamato Ercole
come il nonno duca di Ferrara, e poi Massimiliano quando il rammollito
imperatore d’Austria accettò di fargli da padrino.
Anche Beatrice, come il marito, era superstiziosa, e non moveva foglia
senza aver prima sentito il parere di maestro Ambrogio da Rosate il quale,
come sappiamo, aveva una particolare simpatia per il numero 17. Così, dopo
avere interrogato gli astri, il mago autorizzò Beatrice a partire per Venezia alle
ore 17 del 17 maggio 1494, allo scopo di tener buona quella Repubblica in
vista della calata in Italia di Carlo VIII.
– Credi a me – diceva lo sconsolato Ambrogio de Predis a Leonardo,
guardando l’inutile effigie di Mattia Corvino sul mancato epitalamio – la
moglie del «ducheto» ha l’orgoglio dei napoletani e la moglie del Moro è
furba e intrigante come tutti quelli della «bassa» padana: una piangerà col suo
nonno Ferdinando, che è re di Napoli, e l’altra farà lo stesso con suo padre
che è duca di Ferrara – così finirà male per tutti.
Infatti, su invito del Moro, Carlo VIII aveva già passato le Alpi per andare
nominalmente alla conquista del regno di Napoli, in realtà per metter piede in
Italia dove l’interiore discordia, succeduta alla morte di Lorenzo il Magnifico,
poteva sempre offrire insperate possibilità.
Il 2 gennaio 1497, dopo il lutto per l’immatura morte di Bianca, figlia del
Moro e moglie del Sanseverino, fu data una grande festa nel castello di Pavia.
Beatrice, in attesa del terzo figlio, fu colta improvvisamente da malore.
– È un disturbo passeggero – disse il Moro ai convitati – continuate pure a
divertirvi.
Tre ore dopo, la ventiduenne Beatrice metteva al mondo un bambino
morto; dopo un’ora spirava, dissanguata da un’emorragia.
La salma fu portata a Milano e le esequie furono imponenti.
Il Moro, profondamente colpito, sembrava l’ombra di se stesso: dopo la
disperazione fu preso dalla malinconia; dalle lacrime passò al silenzio. Stette
molti giorni chiuso in camera senza vedere nessuno, né familiari né
ambasciatori: andava soltanto in Santa Maria delle Grazie a pregare sulla
tomba della giovane consorte.
Era stato un marito brutale – «di qua non è altro novo degno di scrivere,
salvo ch’el Duca de Milano ha batuto sua moglere» come scriveva un
ambasciatore – ma, a suo modo, anche affezionato.
La tradiva, anche ostentatamente, con una fanciulla della famiglia dei
Crivelli, di nome Lucrezia, amica e coetanea della defunta figlia Bianca, ma
diceva e pensava di amarla più di tutte le altre, non solo perché era la madre
dei suoi figli, Massimiliano di 6 anni e Francesco di 4, ma perché accanto a lei
si sentiva protetto e difeso.
Quando gli dissero che Beatrice, il giorno prima di morire, era rimasta a
lungo inginocchiata a pregare sulla recente tomba di Bianca, il Moro si mise a
singhiozzare «con parole de natura che harieno fatto schiopare li sacxi».
Pochi mesi dopo il Moro chiedeva a Leonardo il ritratto di Lucrezia
Crivelli, alla quale aveva già elargito terre e torri sui laghi di Como e Verbano,
con facoltà di trasferirli al frutto del loro clandestino amore, il piccolo Giovan
Paolo conte di Caravaggio.
Poco dopo, ad Amboise, moriva Carlo VIII.
Lodovico pensò d’essersi finalmente liberato dalla minaccia francese e dal
rimorso di averla provocata, e riprese il solito atteggiamento ostile con la
vicina Venezia.
Luigi XII, successore di Carlo VIII, nominò il Trivulzio suo luogotenente in
Italia. Brutto segno. Filiberto di Savoia si alleò con Venezia, il papa
Alessandro VI partecipò alla Lega contro lo Sforza e il marchese di Mantova
si staccò da Milano, e dal cognato, per tornare al servizio dei Veneziani.
Il Moro era circondato.
Il Sanseverino, gran vincitore di giostre, abbandonò le posizioni prima
ancora d’essere attaccato; Lodovico, sentendo franare il ducato sotto i piedi,
donò i suoi beni al convento di Santa Maria delle Grazie ed affidò i figli al
fratello cardinale; poi, mentre le città limitrofe cadevano come castelli di carte,
prese la via delle Alpi.
Era l’autunno del 1499.
Leonardo, dopo aver versato 600 ducati d’oro sul banco di Giovan Battista
Goro perché glieli accreditasse presso l’Ospedale di Santa Maria Nuova in
Firenze, partì verso Venezia insieme al Salaì, a Zoroastro e a Luca Pacioli.
Quando uscirono dalla città, la mattina all’alba, le truppe del Trivulzio
avevano già saccheggiato il Castello, e nella Corte Vecchia alcuni balestrieri
guasconi si erano messi a tirare al bersaglio contro un immenso cavallo di
gesso.
PARTE TERZA
Da Mantova a Venezia

P RIMA TAPPA, MANTOVA. In quella città c’era una marchesa intelligente, colta,
amica e amante delle arti, ammiratrice di Leonardo: sarebbe stata una
follia non fermarsi da lei, almeno finché la caccia all’uomo dei francesi non
fosse finita.
E Leonardo, con Luca e gli altri, si fermò chiedendo ospitalità.
Isabella Gonzaga aveva restituito da poco tempo, e molto a malincuore, lo
splendido ritratto di Leonardo alla legittima proprietaria, la contessa
Bergamini, alias Cecilia Gallerani, già rivale della sua defunta sorella.
L’arrivo di Leonardo, quindi, avrebbe dovuto farla gridare di gioia se è
vero, come dicono, che quella donna si dava un daffare per quattro a caccia di
maestri e di capolavori. Principi e sovrani entravano apposta nel suo territorio
perché la bionda marchesa li guidava di persona a visitare la collezione di cui
andava orgogliosa e che comprendeva, insieme a molti pezzi d’arte
contemporanea, anche rari esempi d’arte antica.
Ma quella volta, invece, la marchesa accolse Leonardo con un sorriso a
denti stretti. Gli concesse ospitalità, ma senza nascondere la sua
preoccupazione, dicendo che i tempi eran difficili anche per lei; lo invitò nel
castello, ma gli fece capire cha la sua presenza poteva diventare pericolosa.
Poi, naturalmente, gli chiese di farle un ritratto, subito, disposta a posare
anche di notte; un ritratto bello come quello di donna Cecilia, anche se la sua
età non era altrettanto «imperfecta».
Leonardo, compitissimo come un gentiluomo di corte, aderì in parte alla
richiesta: le fece subito un ritratto a carboncino, anzi, due. E quando li ebbe
finiti – questione di qualche giorno – si accomiatò lasciando alla marchesa un
disegno e portando l’altro con sé per eseguire – così almeno disse, ma forse
convinto del contrario – il ritratto in pittura.
Isabella, con la paura addosso per via dei francesi a Milano, che avrebbero
potuto accusarla di dar ricovero ai fuorusciti amici del Moro, lo lasciò partire.
E fece male. Se ne pentì, ma troppo tardi. Con quel gesto ella aveva scoperto
la sua vera natura di donnetta piuttosto codarda, oltre che avida e petulante,
poiché, d’altra parte, non aveva neanche ragione di temere: il marchese suo
consorte, infatti, aveva tradito all’ultimo momento la fiducia del Moro per
unirsi alle forze di Venezia alleata dei francesi.
Ma da quel giorno Leonardo fu vittima di una vera e propria persecuzione:
la marchesa non gli dette pace, lo inseguì – come vedremo – con lettere ed
ambasciate, gli mise addirittura alle calcagna un frate, Pietro da Novellara, suo
ambasciatore a Firenze, per ottenere, se non il proprio ritratto, almeno una
madonna.
E Leonardo, naturalmente, prometteva sempre, in modo vago.
Alla fine si mosse lei stessa da Mantova con la scusa di una visita di stato:
gli chiese un quadro, uno qualsiasi, anche di formato minuscolo; e Leonardo,
sempre cortese, promise e non mantenne.
Ecco la brigata a Venezia. Luca Pacioli conosceva bene la città; e ricordava
anche la fame di quegli anni, quando, per mantenersi agli studi, aveva fatto
perfino il precettore in casa di un patrizio «sotto la cui ombra paterna e
fraterna – diceva a Leonardo – in lor propria casa me rilevai». Il matematico
riprese subito, con entusiasmo, a tener lezione in S. Bartolommeo ed aprì a
Leonardo le porte dei suoi vecchi amici e dei suoi nuovi allievi: sappiamo,
infatti, dai quaderni di appunti, che gli esuli milanesi furono accolti ovunque
con grande calore.
Leonardo entrò così in relazione col dotto senese Paolo Vannozzo – uditore
alle lezioni del Pacioli –, con un Salamon – forse Alvise, capitano di galee –,
con un Pier Pagolo da Como, col veronese Fra Giocondo, col canonico
Stefano Ghisi, della parrocchia dei SS. Apostoli, «quondam familiar del
clarissimo cardinale Grimani»; fece inoltre uno schizzo di un cavaliere in
mezzo a figure allegoriche, con la didascalia «Messer Antonio Grimani
veneziano compagno di Anton Maria» (il famoso doge ucciso nel 1499 a
Lepanto). Intanto, come suo costume, aveva incominciato sistematiche
ricognizioni nella città e nella laguna, e aveva potuto vedere e ammirare,
sull’alto piedistallo, il monumento equestre a Bartolommeo Colleoni, il canto
del cigno del suo maestro Andrea del Verrocchio.
La curiosità lo portò anche a studiare il fenomeno delle maree – «il flusso è
in Venezia due braccia» – quindi, osservando le conchiglie fra i sassi
dell’entroterra, si accorse che la spiaggia avanzava facendo arretrare l’acqua –
«come il fiume del Po in brieve tempo secca il mare Adriano, nel medesimo
modo ch’elli asseccò gran parte di Lombardia» – e con Luca Pacioli concluse
le sue indagini affermando che dove era terra, in altri tempi fu mare, e dove
era mare ci fu un tempo la terra».
«Illustrissimi signori mia, avendo io veduto come e’ Turchi non possano
venire prima in Italia per alcuna parte di terra ferma che non passino il fiume
Isonzio... ho giudicato non si potere fare riparo in alcun altro sito che sia di
tanta universale valitudine quanto quello che si fa sopra detto fiume...».
Questa nota si riferisce, probabilmente, a un incarico affidato dalla
Serenissima a Leonardo, relativo a una ricognizione nella valle dell’Isonzo
dopo che i Turchi, arrivati fin sotto le mura di Vicenza, avevano dimostrato
coi fatti che il punto debole della difesa veneziana era a nord, proprio nella
pianura dell’Isonzo.
Una cosa, ormai, era certa per tutti: Venezia non poteva essere difesa
soltanto dal mare, perché il nemico poteva assalirla facilmente anche dalla
terraferma.
Tornato dalla sua missione esplorativa, Leonardo passava la maggior parte
del tempo sul molo, a osservare «i navili e il moto delle onde», il flusso e
riflusso della marea, il volo dei gabbiani, il guizzo improvviso dei pesci a fior
d’acqua.
Egli si immedesimava nella natura, si immergeva, per così dire, nella forza
stessa degli elementi, con tutti i sensi in ascolto, pronti a carpire un segreto, a
cogliere una risposta a domande impossibili.
E l’idea, temeraria e geniale, si accese finalmente nella sua fantasia: in un
attimo egli intuì e vide la soluzione di tutti i problemi che angustiavano il
Senato della Repubblica da quando l’incauto Lodovico il Moro aveva
chiamato i Turchi in suo aiuto.
Dicono i suoi appunti: «Non insegnare e sarai solo eccellente», «Fatti cucire
la vesta in casa», «Ogni cosa sott’acqua cioè tutta la serratura...»; e poi, in note
più tecniche, «... Una vestigia di panzera», «... Una maschera con gli occhi
colmi e di vetro...».
In altre parole, Leonardo aveva scoperto la possibilità di restare sott’acqua
a tempo indeterminato, mediante una muta ed un’attrezzatura da
sommozzatore. Chiunque, munito di boccaglio e di erogatore d’aria, avrebbe
potuto nuotare sott’acqua ed applicare ordigni «a scoppio ritardato» sotto le
galere turche, se si fossero ancorate davanti al porto.
Chiuso a chiave nella sua stanza, Leonardo confutava ed analizzava la sua
scoperta. Nessuno strumento e nessun artificio, fra i tanti che aveva già
progettato e realizzato, poteva reggere al paragone di questo. Dimenticando la
fame ed il sonno, egli verificava, in una tinozza colma d’acqua, la tenuta della
maschera con gli occhiali, la capacità dell’otre pieno d’aria, la funzionalità
della valvola erogatrice, la razionalità degl’indumenti subacquei.
– Diventerò ricco – diceva a se stesso. – Questa Repubblica mi pagherà
qualunque somma, perché i Turchi possono arrivare da un giorno all’altro, e
la mia invenzione rappresenta non la difesa, ma la salvezza.
– Farò depositare la somma nelle mani di Manetto – (forse Alvise Manetti,
banchiere fiorentino in Venezia) seguitava a sognare Leonardo; – e poi farò
arrivare il denaro allo spedalingo di Santa Maria Nuova a Firenze, che mi
basterà per tutta la vita, e ne avrò da dare a chi non ne ha, perché questo
Governo mi verserà un tanto per ogni «acconciatura», e la farò fabbricare io
stesso per controllarne l’efficienza. I turchi sperimenteranno a loro spese la
mia invenzione, e non oseranno avvicinarsi mai più alla laguna...
Il soliloquio di Leonardo durò a lungo, tutta la notte, fino all’alba. Ma, col
passare delle ore, l’entusiasmo cedeva il posto al dubbio, la contentezza alla
paura. L’artista considerava la sua scoperta alla luce di tutte le sue possibili
applicazioni e conseguenze, e capiva, con certezza e sgomento, che gli uomini
se ne sarebbero serviti indiscriminatamente, non solo per legittima difesa
contro la flotta turca, ma per nuocere agli altri instaurando una nuova e più
pericolosa pirateria.
Allora smontò e ripose in una cassa i pezzi della sua scoperta: distrusse la
muta e la maschera, strappò i disegni. Quindi, col sole che già illuminava la
stanza, prese il suo libro d’appunti e scrisse:
«Come e perché io non iscrivo il mio modo di star sotto l’acqua... Queste
non pubblico e divolgo per le male nature delli omini i quali userebbero li
assassinamenti nel fondo de’ mari col rompere i navili in fondo e sommergerli
insieme colli omini che vi son dentro...».
Lo scafandro dei palombari, precursore della «muta» subacquea, sarà
reinventato soltanto quattro secoli dopo.
Il duca perse lo Stato...

U N GIORNO, PASSANDO per una calle stretta e solitaria, Leonardo incontrò un


vecchio amico, Lorenzo Gusnasco da Pavia, intagliatore e fabbricante di
strumenti musicali alla corte degli Sforza.
– Avete sentito, maestro Leonardo, le notizie di Milano?
– No, che c’è di nuovo?
– Il Moro è tornato. È stato accolto con un gran trionfo.
– Davvero?
– Sì. Tradito dai suoi alleati italiani, è ritornato in Milano con 16.000
svizzeri e 1000 cavalieri borgognoni. Prima ha occupato Vigevano, poi –
preceduto da suo fratello il cardinale Ascanio – è entrato in Milano.
– E voi come lo sapete?
– Ero là – rispose maestro Lorenzo. – Ho visto coi miei occhi il popolo
acclamare il duca; dopo tre mesi di occupazione francese ne aveva fin sopra i
capelli. Quei soldati non avevano che uno scopo, dar la caccia alle donne, e il
Trivulzio quello di succhiare quattrini: ogni giorno metteva una nuova
imposta.
Leonardo tornò a casa e riferì le notizie agli amici.
– Male, molto male – disse Luca Pacioli. – Francesco Sforza si fece largo
con la spada; suo figlio si fa strada col denaro. E quando non avrà più oro, gli
svizzeri gli volteranno le spalle.
Infatti, poco tempo dopo, giunse a Venezia la notizia che un certo Tuzmann
di Uri, comandante dei mercenari svizzeri, s’era venduto a Luigi XII
abbandonando il Moro. Questi lo supplicò di non lasciarlo promettendogli
ogni suo avere: ottenne soltanto il cinico permesso di vestirsi da soldato
svizzero per nascondersi tra la fanteria che si ritirava oltre i confini del ducato.
Povero Lodovico. Per pochi soldi i fanti svizzeri lo additarono ai francesi
«mentre che, mescolato nello squadrone, camminava a piedi, vestito e armato
come uno di loro». Fu catturato e fatto prigioniero. Fu portato a Lione e
rinchiuso in una fortezza. Tentò di fuggire e fu messo ai ferri. Scrisse le sue
ultime parole sui muri della cella.
Il re di Francia, padrone del ducato di Milano, fece cantare un «Te Deum»
in tutte le chiese del regno. Il papa Alessandro VI gli fece eco, Venezia e
Firenze si unirono al coro.
Leonardo partecipava con impotente emozione a questo susseguirsi di
tragici avvenimenti. Raccoglieva le notizie qua e là, nei discorsi dei suoi
potenti amici veneziani, nei racconti dei fuggiaschi dal ducato.
«Il castellano fatto prigione» – forse quello di Vigevano o di Pavia –; «Il
Visconti strascinato, e poi morto il figliolo», è il suo amico Gaspare, il poeta di
corte; «Gian della Rosa toltoli i denari», è l’astrologo degli Sforza, l’amico del
numero 17.
Si sequestravano i beni, si perseguitavano le persone. La vigna fuor di
porta Vercellina fu confiscata.
– Che ne sarà di Giacomo Andrea, di Ambrogio De Predis, dei Marliani?
Leonardo era dolorosamente tornato dall’universale al «particulare», era
sceso di nuovo sulla terra con la mente e col cuore rivolti alla tragedia di
Milano che s’identificava con la tragedia d’Italia.
Il Moro è stato catturato mentre fuggiva travestito da svizzero – gli disse
Luca Pacioli. – Lo portano in Francia, prigioniero.
Il Moro: l’incauto responsabile della calata di Carlo VIII, l’adescatore del
Sultano, l’ambiguo provocatore della Lega.
«Il Duca perse lo Stato e la roba e la libertà...» scrisse nel suo quaderno; e
nel cocente ricordo del cavallo, del tiburio del Duomo, della canalizzazione
del Naviglio rimasti incompiuti, Leonardo continuò «... e nessuna sua opera si
finì per lui».
Da Venezia a Firenze

E CCO FIRENZE, GIÙ nella valle; all’improvviso, come un’apparizione nuova e


familiare, ecco i campanili e le torri, l’Arno ancora gonfio che s’immerge
nel folto delle Cascine. Leonardo non si ferma in contemplazione, non guarda
se i nibbi ruotano ancora nel cielo; i diciott’anni di lontananza sono rimasti al
di là del valico, gli sembra d’essere partito il giorno prima, riconosce la luce, i
colori, l’aria di casa.
In testa alla comitiva egli cavalca giù per la strada fiancheggiata dai cipressi,
oltre i quali le colline chiare di ulivi scendono in un declivio sempre più
dolce.
È primavera, come quel giorno che insieme al giovane Attavante e a
Zoroastro aveva preso la via dell’Appennino: allora si sentiva come un
sognatore scacciato dalla sua città; ora vi torna con «le carte in regola»,
preceduto dalla fama, consapevole del suo genio e deciso a dimostrarlo.
– Ci siamo, Salaì – dice sorridendo Leonardo voltandosi indietro.
Ha vent’anni, il Salaì. È bellissimo. In una città come Firenze farà colpo.
L’accoglienza dei suoi concittadini fu calorosa. Dalla bottega del
Ghirlandaio a quella di Piero di Cosimo, dai Servi dell’Annunziata al Chiostro
di Santa Maria Novella, la notizia del ritorno di Leonardo si sparse in un
baleno. Il giovane domenicano Bartolommeo di San Marco chiese di
diventare subito suo discepolo; Giuliano da Sangallo – che stava demolendo
le case di via della Prestanza per edificare il palazzo di Piero Gondi – andò a
cercarlo per fargli festa come a Milano. Così Filippino Lippi, che aveva rifatto
la tavola per i monaci di San Donato a Scopeto, e i vecchi compagni di
bottega, Lorenzo di Credi e Sandro Botticelli; e quelli di passaggio, come il
Perugino e Luca Signorelli.
Leonardo ritrovò gli amici miniatori Attavante e Gherardo; conobbe i
giovani e i giovanissimi, da Francesco Granacci ad Andrea Contucci dal
Monte a San Savino, Jacopo del Pollaiuolo, Giuliano Bugiardini, Baccio
d’Agnolo e il Lorenzetto.
Ma tutti questi artisti, con sorpresa e delusione, si accorsero che Leonardo li
teneva a distanza, mettendo tra sé e loro il suo enciclopedico sapere.
– Questo non è un pittore, è un matematico – dicevano risentiti i più
giovani. – E allora che cerca a Firenze, cos’è tornato a fare!
Anche allora, in pieno Rinascimento, l’ignoranza degli artisti era
proverbiale: possiamo quindi immaginare l’effetto che fece Leonardo, di
un’eleganza fuori del consueto e di un sapere fuori del comune: i suoi discorsi
lasciavano tutti a bocca aperta, e nessuno era in grado di contraddirlo,
nemmeno i dotti umanisti, quando lui sosteneva la cecità di una cultura, coma
quella di allora, che giurava servilmente sulle arbitrarie affermazioni dei
filosofi greci o dei teologi medioevali.
Il 24 di aprile Leonardo si recò dallo spedalingo di Santa Maria Nuova a
ritirare 50 dei 600 ducati che aveva versato a Milano.
Gli si poneva, con urgenza, il problema del sostentamento, prima di dare
fondo alle riserve. E non ci volle molto a risolverlo.
«I frati de’ Servi – racconta il Vasari, ma non dimentichiamo ché il vecchio
ser Piero era il Procuratore del convento – avevano allogato a Filippino Lippi
l’opera della tavola dell’altar maggiore dell’Annunziata: per il che fu detto da
Leonardo che volentieri avrebbe fatta una simil cosa. Onde Filippino, inteso
ciò, come gentil persona ch’egli era, se ne tolse giù, ed i frati, perché
Leonardo la dipignesse, se lo tolsero in casa, facendo le spese a lui ed a tutta
la sua famiglia».
Prete Alessandro

A FIESOLE, IN casa del canonico Alessandro Amadori, fratello della buona


Albiera, Leonardo fu presto informato sui fatti di Firenze e su quelli di
famiglia.
Una delle prime note fiorentine del suo quaderno era appunto un pro-
memoria: informarsi «se prete Alessandro Amadori è vivo o no».
Era vivo, stava a Fiesole, e Leonardo andò presto a trovarlo.
– Firenze non è cambiata – gli diceva il canonico – e non cambierà mai.
Quando tu partisti era in guerra; tu ritorni dopo quasi vent’anni e la ritrovi in
guerra. I fiorentini hanno scacciato i Medici perché volevano la libertà; ora
che hanno la libertà, vorrebbero i Medici. Ci sono i palleschi e i piagnoni, i
bigi e gli arrabbiati, ma le persone son sempre le stesse: bigi quando hanno
paura, arrabbiati quando danno fuoco alla piazza e hanno in mano il potere.
Leonardo ascoltava e sorrideva: la storia era sempre uguale dappertutto, e
Milano non era da meno di Firenze: la «popolaglia» che aveva festeggiato i
francesi era la stessa che aveva riaperto le porte a Lodovico il Moro.
Prete Alessandro raccontò a Leonardo le vicende della città dalla morte del
Magnifico: suo figlio Piero si era subito rivelato un fatuo, e il Savonarola, con
le sue prediche, aveva diviso i cittadini in due grandi fazioni.
– Era un sant’uomo, credimi, ma sbagliava perché non capiva Firenze. Le
accuse che gli fecero al processo erano tutte false, ma c’era il papa che lo
voleva morto e bisognò ammazzarlo. La sua vera colpa era un’altra: voleva
fermare la storia, riportarci tutti al Medioevo. Però al processo si comportò
bene, fino in fondo. Morì come un martire, perdonando tutti e chiedendo
perdono a tutti, anche a quelli che gremivano la piazza della Signoria per
assistere allo spettacolo della sua morte e che erano poi gli stessi che avevano
affollato il Duomo per sentirlo predicare.
E anche oggi, tu lo saprai, la città è sempre governata da un Consiglio
generale e da un Consiglio minore degli «Ottanta» secondo le sue istituzioni.
Fu lui che fece riadattare la Sala Grande per il Consiglio e che tenne testa a
Carlo VIII quando venne a Firenze; e quando partirono i Medici fu lui che
tenne a freno i fiorentini assetati di vendetta.
Hai perso molto a non sentirlo predicare. Non era un buon oratore, e per di
più aveva una pronuncia forestiera; eppure ci assistevano più di quindicimila
persone, ogni giorno, la mattina presto, prima di andare a lavorare.
– Suggestione collettiva – disse Leonardo.
– Può darsi, ma le cose che diceva avevano un effetto immediato
sull’animo della gente; tutti si pentivano dei propri peccati e si proponevano
d’essere migliori.
– Tanto migliori che poi lo guardarono morire senza muovere un dito.
– È vero anche questo – sospirò prete Alessandro; poi, cambiando
argomento, chiese a Leonardo notizie di suo padre.
– L’ho visto, sta bene. Con tutte quelle bocche da sfamare non gli mancano
i triboli. Mi ha detto che lo zio Francesco, invecchiando, è preso dalle
fissazioni, come quella di voler volare, e sta sempre a guardare gli uccelli.
Leonardo non era ancora andato a Vinci. Tornato a Firenze aveva subito
cercato di ser Piero, al quale, del resto, aveva sempre scritto a intervalli lunghi
ma regolari, per dare e avere notizie. La Margherita era morta, e il padre si era
risposato per la quarta volta con una certa Lucrezia di Guglielmo Cortigiani, di
35 anni più giovane, la quale gli aveva sfornato, con volgare regolarità, altri
cinque figli: Margherita nel ’91, Benedetto nel ’92, Pandolfo nel ’94,
Guglielmo nel ’96 e Bartolommeo nel ’97. Nel 1504 nascerà il dodicesimo e
ultimo figlio di ser Piero, Giovanni.
La prima domanda del genitore era stata di carattere economico:
– E ora, cosa intendi fare?
– Non so, cercherò di fare qualche tavola di pittura.
– Hai qualcosa in vista?
– Di preciso no. Mi piacerebbe fare una tavola che i Servi dell’Annunziata
hanno allogato a Filippino Lippi. Lui non sa ancora che cosa dipingere, e può
darsi che la ceda a me.
– Ho capito. Parlerò col Priore.
Sempre pratico, sempre lo stesso, il notaio ser Piero. E tutti quei figlioli per
casa, specie quelli di Lucrezia, gli davano un piglio giovanile. Oramai, a
Firenze, era un’autorità: Procuratore della Signoria fino dal 1484 e notaio
delle prime e più cospicue famiglie fiorentine.

«Se fate una fornata


Di buon Procuratori
Non si lascia di fuori
Ser Piero da Vinci...»
aveva cantato in rima ai suoi concittadini il poeta Bernardo Cambi.
– Eh, – diceva prete Alessandro – tuo padre è come una quercia. Quattro
mogli, undici figlioli con te, e la serie non è ancora finita.
Leonardo sorrise, pensando a quel padre così diverso da lui e così contento
di tutto – della sua professione, delle sue case e delle terre a Vinci, dei clienti,
della fortuna messa su quasi di prepotenza. Lui, invece, era ancora in cerca di
una risposta essenziale: era come un pellegrino di se stesso, che tornava,
ormai adulto, a cercarsi nella città che lo aveva visto crescere e formarsi.
Ma che cosa gli offriva, di nuovo, Firenze? La curiosità scettica e sorniona
dei suoi artisti, la diffidenza dei suoi mercanti, l’indifferenza dei suoi
magistrati.
E ora, come allora, le beghe tra una fazione e l’altra: al posto di quelli del
Monte e del Piano c’erano i nostalgici del Savonarola e dei Medici, i «bigi» e
gli «arrabbiati».
Di ritorno in città, Leonardo trovò il priore dei Servi che lo aspettava per
parlargli di quella tavola per l’altare maggiore: voleva farsi un’idea della
composizione, per riferirla ai monaci.
Leonardo, incautamente, promise di mostrargli presto il cartone.
«Non può patire pennello»
me, che lo conosco bene, non fatevi illusioni – diceva il
–D vecchio Botticelli
ATE RETTA A
ai Servi di Maria; – Leonardo non vi farà mai la tavola
per l’altar maggiore. Farà dei bei disegni, questo sì, poi gli verrà in mente
qualche diavoleria e vi lascerà la tavola a mezzo. O non fece così anche col
Magnifico? e coi monaci di San Donato a Scopeto? E tutt’e due le volte fu
Filippino Lippi a levare le castagne dal fuoco. Date retta, non guastatevi con
Filippino.
I frati erano preoccupati. Ormai era quasi un anno che Leonardo si era
installato da loro, con Luca Pacioli, Zoroastro, il Salaì e altri due nuovi e
giovanissimi aiutanti, ma non aveva neanche incominciato la pittura.
Era sempre indaffarato: usciva di casa la mattina e tornava a notte fatta.
Faceva parte di una commissione nominata dal Console dell’Arte dei Mercanti
per dare un parere sul franamento del monte di San Salvatore dell’Osservanza
– oggi detto di San Francesco, con l’omonima chiesa che Michelangiolo
chiamò «la bella villanella» – e a differenza di tutti gli altri esperti, fra cui
Simone da Carino, Giuliano da Sangallo, Jacopo del Pollaiuolo e Filippo
Legnaiuolo, aveva effettuato minuziose ricognizioni su tutti i terreni
circostanti, prelevando campioni di terra e di roccia, facendo rilevamenti
topografici, schizzi e mappe, per riassumere tutte le sue osservazioni in una
relazione corredata da molti disegni oggi perduti.
La vera causa dello smottamento risultò, infatti, esser quella descritta da
Leonardo: uno spostamento naturale degli strati geologici, dovuto a
infiltrazioni d’acqua e ai danni arrecati dall’uomo alle falde del terreno. Infatti,
ai piedi del monte, nel rione di San Niccolò, c’era una fabbrica di mattoni che
prelevava l’argilla sul posto.
«... Se Leonardo Fiorentino, pictore, si ritrova lì in Fiorenza – scriveva
intanto Isabella Gonzaga al suo predicatore – pregamo R.P.V voglia
informarsi che vita è la sua...»: in altre parole, la marchesa sperava che
Leonardo fosse a corto di lavoro e di denari; «... trattandolo poi, com’è di Lei,
se’l piglieria impresa de farne uno quadro nel nostro studio...».
Leonardo, intanto, messo alle strette da tutti i frati dell’Annunziata, dovette
chiudersi nel suo studio per mandare avanti quella pittura. Dopo neanche un
mese il cartone era finito, e la composizione era tanto bella e nuova che il
Priore lo espose al pubblico in una sala attigua al Chiostro.
«Nella stanza – dice il Vasari – durarono due giorni d’andare a vederlo gli
uomini e le donne, i giovani ed i vecchi, come si va alle feste solenni, per
vedere le meraviglie di Leonardo, che fecero stupire tutto quel popolo».
Era l’aprile del 1501. Fra quella folla anonima c’era anche un giovane
tornato proprio in quei giorni da Roma dove aveva scolpito, in marmo, una
Pietà che «aveva messo a romore il mondo» e s’era fatta ammirare da tutti i
pellegrini dell’Anno Santo: si chiamava Michelangiolo Buonarroti.
«Ha fatto solo, da poi che è a Firenze – rispondeva il predicatore alla
marchesa Isabella – uno schizzo in uno cartone. Finge uno Cristo Bambino,
de età circa uno anno, che uscendo quasi de’ bracci ad la mamma, piglia uno
agnello et pare che lo stringa. La mamma, quasi levandosi di grembo ad S.
Anna, piglia il bambino per spiccarlo de lo agnello, animale immolatile che
significa la Passione. Santa Anna, alquanto levandosi da sedere, pare che
voglia ritenere la figliuola... Et sono queste figure grandi al naturale...».
Il cartone riconfermò agli artisti di Firenze, che erano poi i migliori maestri
del secolo, la grandezza innovatrice di Leonardo, che, nel rispetto della
tradizione, rompeva gli schemi consueti imponendo alla pittura una svolta
sostanziale.
Il gruppo delle sue figure poteva essere racchiuso in un triangolo –
disposizione che suggerì poi molte soluzioni al Buonarroti e diventò così cara
a Raffaello – mentre «in tutta la scena – come scrisse un critico tedesco – egli
manifestava quella sua forza potente, capace di farci dimenticare la sua
scienza prodigiosa di pittore, per lasciarci scorgere soltanto il poeta...».
Ma Leonardo, mentre i suoi concittadini – in una dimostrazione collettiva di
maturità civile e di amore per l’arte – sfilavano davanti al suo cartone, cercava
di convincere i supremi magistrati della città perché gli affidassero l’incarico
di sollevare e di spostare il Battistero.
«E fra questi modelli e disegni – è ancora il Vasari che scrive – ve n’era uno
col quale più volte a molti ingegnosi cittadini, che allora governavano
Fiorenza, mostrava voler alzare il tempio di San Giovanni e sottomettervi le
scalee senza ruinarlo...», e i ragionamenti di Leonardo erano così logici e
fondati su principi di tale rigore scientifico, che non potevano essere
seriamente contraddetti. Però, passando dal dire al fare, il Governo aveva
paura e ciascuno, in casa sua, si autoconvinceva dell’impossibilità di
quell’impresa.
Invece non era impossibile, e Aristotile Fioravanti, a Bologna, lo aveva già
dimostrato sollevando una torre per spostarla di parecchi metri.
Ma insieme al Battistero, Leonardo voleva spostare anche l’Arno, per creare
in Firenze un bell’effetto di cascata, incanalando poi l’acqua in corsi minori
per ricongiungerli tutti insieme nel parco delle Cascine.
– Ecco qui il progetto diceva l’artista mostrando i suoi disegni; –
canalizzando il fiume porterete l’acqua dove vorrete, fin dentro le case per gli
usi domestici, senza sciuparne una goccia.
«... Li suoi experimenti matematici l’hanno distratto tanto dal dipingere, che
non può più patire il pennello» scriveva il predicatore a Isabella Gonzaga, ma
aggiungeva anche di averlo visto disegnare «un quadrettino, che fa ad uno
Roberteto, favorito del Re di Francia... che è una Madonna, che siede, come
se volesse innaspare fusi, e il Bambino, posto il piede nel canestrino de’ fusi,
ha preso l’aspo...».
Il Robertet, ministro di Luigi XII, dopo aver visto insieme al suo sovrano la
pittura della Cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie e il modello in
creta del cavallo, aveva fatto cercare Leonardo dall’ambasciatore di Francia a
Firenze, e ora l’artista eseguiva la commissione «urgentissima» di un
«quadretto religioso».
Ma la pittura della Sant’Anna e le promesse per Isabella rimasero
rispettivamente allo stato potenziale di disegno e di parole, perché gli
esperimenti matematici lo assorbivano talmente da non poter, davvero «patire
pennello».
Trascorreva molte ore del giorno nella biblioteca di San Marco e in quella
di Santo Spirito; cercava notizie sulla bassa ed alta marea del mar Caspio –
«scrivi a Bartolommeo turco del flusso e riflusso del mar di Ponto» – si
interessava ai costumi di Fiandra – «domanda a Benedetto Portinari in che
modo si corre per lo ghiaccio in Fiandra» – chiedeva a Luca Pacioli la
quadratura del cerchio – «fatti mostrare dal maestro d’abbaco riquadrare un
circolo».
– È matto, ve lo dico io! – diceva Francesco Granacci a un gruppo di suoi
compagni mentre uscivano dagli Orti di San Marco. – L’ho sentito dire che il
segreto della pittura sta nella geometria, e che prima di dipingere lui deve
sempre fare una lunga serie di calcoli matematici.
Fra questi artisti c’erano anche Giuliano Bugiardini, l’Indaco, Lorenzo di
Credi, Jacopo di Donnino, Sandro Botticelli e il Buonarroti.
– È matto – ripeteva il Granacci. – Figuratevi che ieri l’ho sentito discorrere
col priore dei Servi, e gli diceva che ogni buon pittore deve dividere una testa
in gradi, punti, minuti, minimi e semi-minimi, e ogni misura è la dodicesima
parte della precedente. Sicché una testa, per essere ben dipinta, va suddivisa
in 20.736 semi-minimi!
La conclusione del Granacci fu accolta da una risata generale.
– Che peccato! – sospirò poi Lorenzo di Credi. – Un bravo pittore come
lui!
La patente ducale
L Pier Soderini – sono lieto di darvi il benvenuto
–M in Palazzo
AESTRO EONARDO – DISSE
e sono onorato di trasmettervi un messaggio di Sua Maestà il
Re di Francia.
Anche Firenze, sull’esempio di Venezia dove i Consigli erano più stabili e il
Doge veniva eletto a vita, aveva deciso di render vitalizia la carica di
Gonfaloniere, e la scelta era caduta su Piero Soderini che si trovava in
missione al campo d’Arezzo.
Per la prima volta nella storia della città, la moglie del Gonfaloniere andò
ad abitare nel Palazzo della Signoria per non lasciare il marito solo per tutto il
resto della sua vita.
Il Soderini aveva ricevuto una lettera del ministro Robertet, a nome di Luigi
XII, con la quale gli chiedeva notizie di Leonardo e di saggiare la possibilità di
un suo ritorno a Milano.
– La maestà del Re di Francia vi vorrebbe di nuovo a Milano, dove si fa un
gran parlare del vostro Cenacolo.
– Vi ringrazio – rispose Leonardo – e vi prego di trasmettere a Sua Maestà il
mio devoto rispetto; ma per ora non intendo lasciare Firenze dove ho in corso
altri lavori.
– Lo so, maestro Leonardo: ho visto anch’io, dai Servi dell’Annunziata, il
meraviglioso cartone. Ma sarei più felice se poteste fare qualche opera per la
Signoria.
– Forse – disse Leonardo.
– Che cosa? – domandò il Gonfaloniere.
– Per il momento rispose Leonardo – non potrei dipingere. Farei piuttosto
qualcosa di scultura. Ho visto dietro all’Opera del Duomo un pezzo di marmo,
abbandonato da Agostino di Duccio. Se ne potrebbe ricavare una bella statua.
– Certo! – esclamò il Gonfaloniere. – Sarebbe un onore per la Signoria e
per la città.
– Ci penserò – concluse Leonardo – e semmai vi farò avere qualche
disegno.
Ma su quel marmo, senza che Leonardo lo sapesse, altri due scultori
avevano fatto sogni e progetti. Uno era il Sansovino, l’altro Michelangiolo. E
quando, attraverso il Granacci, il giovane Buonarroti venne a conoscere le
intenzioni di Leonardo, corse dal Soderini e gli chiese a più riprese quel sasso.
Era tanta l’esaltazione del Buonarroti e la sua sicurezza di ricavarci «un
colosso», oltre alla fama dei suoi trionfi romani, che il Soderini cedette,
allogandogli il marmo.
Leonardo, sia perché i Servi dell’Annunziata, stanchi del solo cartone, gli
fecero intendere che non avevano più intenzione di tenerselo a carico; sia
perché la scelta del Soderini gli era dispiaciuta; sia perché la sua vita, a
Firenze, stava diventando monotona, propose i suoi servigi d’ingegnere e di
esperto militare al giovane condottiero Cesare Borgia, duca di Valentino.
Alcuni storici vogliono che Leonardo incontrasse il Borgia a Milano, prima
di partire per Mantova, e che proponesse a voce la sua collaborazione; altri
sono più propensi a credere che Leonardo scrivesse da Firenze al Valentino,
come già vent’anni prima aveva fatto con Lodovico il Moro, elencando e
documentando le sue eccezionali e straordinarie possibilità.
Ma le cose, forse, andarono diversamente e più semplicemente.
Anche questa è un’ipotesi, naturalmente, ma tutt’altro che assurda. Le
truppe del Valentino scorrazzavano tra Firenze e Pisa, come ne fa fede il
diligente diario di Luca Landucci:
«... E a dì 19 di maggio 1501, si partì Valentino da Signa e andò tra
Montelupo e Empoli, sempre predando...»; «... E a dì 22 di maggio 1501, si
stavano intorno a Empoli alloggiati e scorrevano per tutta la Valdelsa e paesi,
rubando e predando...».
Anche a Vinci, perciò: e c’era il Valentino in persona, insieme al suo
famigerato luogotenente Vitellozzo.
Leonardo s’incontrò probabilmente col Duca a Vinci, e poco tempo dopo,
ossia nella primavera del 1502, accettando una precisa offerta, partì per
raggiungere Piombino, conquistata dal Vitelli nel settembre dell’anno prima.
Come il Machiavelli, anche Leonardo aveva preso un abbaglio: il Valentino
non era l’uomo della provvidenza, né il gran genio militare che poteva o
voleva dare ad intendere.
Mentre Leonardo preparava i bagagli, un messo della marchesa Isabella
Gonzaga giunse apposta da Mantova per fargli stimare alcuni vasi preziosi
appartenuti a Lorenzo il Magnifico. Dopo la fuga di Piero, il palazzo di via
Larga era stato saccheggiato dal popolo, e l’avida marchesa, anziché restituire
quegli oggetti al giovane cardinale de’ Medici, che li ricercava a peso d’oro
per mare e per terra, chiedeva ad un artista come Leonardo una stima prima di
comprarli da un anonimo ricettatore fiorentino.
«... Quello di agata ancora li piace, perché è cosa rara et è gran pezzo, et è
uno pezzo solo, excepto il piede e coperchio... Quello di amatista ovvero
diaspris, sì come Leonardo lo battezza, che è diversa mistura di colori ed è
trasparente, ha il piede d’oro massiccio, et ha tante perle e rubini intorno, che
sono indicati di prezzo di centocinquanta ducati...».
Almeno questo, in mancanza del ritratto: poi, dalla porta a San Frediano,
Leonardo, con la sua fedele scorta di amici e di allievi, partì alla volta di
Piombino per visitare quelle fortezze.
Doveva essere all’incirca la fine di maggio quando arrivò a destinazione. Il
mare era sconvolto da una tempesta, e subito, l’osservatore di ogni fenomeno
della natura, disegnò un’onda e scrisse:
«Fatta al mare di Piombino. L’acqua ABC è un’onda, discorsa sopra
l’obliquità del lido, la quale nel ritornare indietro si riscontra nella
sopravveniente onda, e percosse insieme saltano in alto, e la più debole cede
alla più potente, onde di nuovo scorre l’obliquità di detto lido».
Da Piombino, poco dopo, Leonardo fu chiamato d’urgenza ad Urbino,
dove il Borgia s’era già impadronito di tutto lo Stato. Passando da Siena, salì
sulla torre del Mangia per esaminare quell’orologio – «Campane di Siena –
scrisse accanto a un disegno – cioè il modo del suo moto e sito della
disnodatura del battaglio suo» – quindi, arrivato dal Valentino, ebbe l’incarico
di provvedere agli edifici difensivi.
«Scalee di Urbino – annotava – scalee vuote nel muro».
Il Borgia e il Vitelli, conoscendo il suo amore per la matematica, gli
promisero due codici, e l’artista, entusiasta, annotava sul quaderno:
«Borgia ti farà avere un Archimede dal Vescovo di Padova e Vitellozzo
quello dal Borgo a San Sepolcro».
Ma intanto il duca aveva conquistato Camerino e Leonardo ebbe l’ordine di
portarsi subito a Cesena per progettare un grande canale navigabile fino al
porto di Cesenatico. Un documento dell’epoca ricorda quel progetto attribuito
a un «architetto ducale».
Mentre l’esercito era impegnato in Romagna, il Valentino correva a Pavia a
rendere omaggio a Luigi XII giunto allora da Parigi; e da Pavia Leonardo
riceveva, in data 18 agosto 1502, la famosa «Patente ducale» che lo nominava
architetto e ingegnere generale di tutti gli stati del Valentino.
Ma gli eventi, ancora più incalzanti delle mosse del duca, precipitarono.
Leonardo, insieme al Machiavelli e ad altri due artisti fiorentini – il
Torrigiani e Antonio da Sangallo – si trovò assediato ad Imola dalle truppe
degli stessi capitani del Valentino e dei signorotti delle città conquistate.
La Rocca di San Leo cadde in mano ai ribelli; il Borgia si rifugiò a Faenza
in attesa dell’aiuto francese; poi passò al contrattacco, prese Forlì e Senigallia.
«Sono in travaglio grandissimo – scriveva il Machiavelli al Consiglio dei
Dieci – non so se i’ mi potrò spedire la lettera...».
La notte del 31 dicembre del 1502 il Valentino fece strozzare a tradimento i
suoi luogotenenti Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo. Poi conquistò
Perugia, da lì mosse contro Siena, finché suo padre, il papa Alessandro VI,
non gli ordinò di tornare a Roma.
E anche Leonardo, che faceva parte del seguito, andò a Roma.
All’improvviso, dopo annotazioni rapide e frettolose come: «Da
Bonconvento a Casanova miglia 10... da Acquapendente a Orvieto...» che
denotano l’agitazione di quel viaggio, ritroviamo un appunto che sembra il
ritorno del sereno dopo la tempesta.
«Sabato a dì 5 di marzo ebbi da Santa Maria Nuova ducati 50 d’oro
(restovvene 450), de’ quali cinque ne detti il medesimo dì a Salaì, che me li
aveva prestati».
L’architetto e l’ingegnere generale era tornato a casa: Piombino, Siena,
Urbino, Pesaro, Rimini, Cesena, Imola, Sinigallia, Perugia, Roma erano state
le tappe di una grande illusione. L’idolo che il Machiavelli aveva preso a
simbolo del suo «Principe» s’era rivelato non soltanto un mostro, ma anche
un inetto.
A Firenze, come risvegliandosi da un incubo, per la prima volta Leonardo
si accorse dei suoi concittadini, e decise di fare qualcosa per loro.
La gelosia di Michelangiolo

G IOVANNI BENCI AVEVA un meraviglioso mappamondo e Leonardo – ancora


turbato dalle sue peripezie «belliche» – andava spesso in casa dell’amico
per ragionare di scienza e soprattutto di cosmografia.
«Mappamondo di Giovanni Benci», si legge in uno dei taccuini; «Giovanni
Benci il libro mio»: segno che i due amici si scambiavano non solo delle
opinioni ma anche dei libri e i loro discorsi si ampliavano per penetrare nelle
più intime ragioni dell’essere, dal sasso che cadendo nell’acqua «fa circuli
dintorno al loco percosso, alla voce che si ripercuote nell’aria, alla mente,
finita, che non s’estende in fra l’infinito».
Ginevra era forse sorella di Giovanni; di certo sappiamo che era una
fanciulla di quella casa, e bellissima.
«Ritrasse in Firenze dal naturale – dice l’Anonimo – la Ginevra d’Amerigo
Benci, la quale tanto bene finì che non il ritratto, ma la propria Ginevra
pareva».
Anche per lei, come per Cecilia, Leonardo aveva evocato l’immagine
riflessa in uno specchio ideale, per dipingere il volto e l’anima, cogliere i
segni impercettibili di un sorriso nei labbri fermi e chiusi, un sorriso interiore,
segno di purezza, e leggere nello sguardo tra le palpebre lunghe tutti i sogni di
una giovinezza impaziente e serena.
Il quadro, poi, era andato perduto. Fu ritrovato nel Lichtenstein nel secolo
scorso; dietro alla Ginevra, nello sfondo, l’autore aveva dipinto il simbolico
«ginepro» come un richiamo al nome della fanciulla. Oggi il quadro è nella
National Gallery di Washington.
Ma il ritorno di Leonardo a Firenze aveva messo in agitazione il
Gonfaloniere. Il quale, sapendo che il soggiorno dell’artista non sarebbe
durato a lungo, perché il re di Francia lo voleva di nuovo a Milano, cercava
un’idea, degna del Vinci e di Firenze, per metterlo subito al lavoro.
E una mattina l’idea, meravigliosa, venne.
Attraversando la sala del Consiglio Grande per recarsi nel suo studio, il
Soderini si accorse di quelle immense pareti ancora bianche.
– Una a Leonardo – disse ad alta voce – e l’altra a Michelangiolo!
Leonardo, l’anziano artista al sommo della fama e della gloria, davanti al
quale stavano in ammirazione perfino i regnanti; Michelangiolo, giovane
solitario e contestatore, che dopo la Pietà di Roma stava dando vita alla più
grandiosa statua d’ogni tempo, un David per la Signoria.
Leonardo, quando il Soderini lo mandò a chiamare, aveva appena finito il
ritratto di Ginevra e stava studiando, con gli amici Attavante e Gherardo, il
modo di «sfumare» la miniatura.
Nei suoi quaderni ci sono appunti relativi a prestiti e restituzioni, e una nota
sul Salaì che riconferma i nostri sospetti: quel giovanotto vano e presuntuoso
andava in giro vestito come un principe, si spacciava per pittore accettando
commissioni perché sapeva che il Maestro avrebbe sempre rimediato col suo
pennello i suoi malestri pittorici, e, oltre a rubare, si faceva vestire e rifornire
da Leonardo.
«Ricordo come a dì 8 d’aprile 1503 io Leonardo da Vinci prestai a Vante
miniatore ducati 4 in oro. Portogli Salaì, e li dette di sua propria mano. Disse
rendermeli in fra lo spazio di quattro giorni. Ricordo come nel sopraddetto
giorno io rendei a Salaì ducati 3 d’oro, il quale disse volerne fare un paio di
calze rosate co’ sua fornimenti, e gli restai a dare ducati nove, posto che lui ne
de’ dare a me ducati venti, cioè dieciassette prestati a Milano e tre a Venezia».
Ai primi di maggio del 1503 il contratto fra la Signoria e Leonardo era
concluso. Tema: una battaglia vittoriosa dell’esercito fiorentino, di cui il
Soderini aveva fatto compilare una lista. Leonardo scelse la Battaglia di
Anghiari, avvenuta nel 1440 fra i fiorentini e le truppe del duca di Milano.
E subito incominciò i suoi studi con una lunga serie di disegni.
– Leonardo, sono contento della tua scelta: la battaglia d’Anghiari fu piena
di sorprese e io ti darò, se vuoi, molte notizie interessanti.
Era il Machiavelli. Il quale, proprio in quei giorni, aveva proposto alla
Signoria, ancora in guerra contro Pisa, un’azione temeraria e forse
irrealizzabile, cioè la deviazione dell’Arno, indicando in Leonardo l’architetto
che avrebbe potuto compiere quella titanica impresa.
Conosciuto il progetto del Machiavelli, Leonardo abbandonò subito gli
studi sulla battaglia per immergersi in quelli di idraulica: e lo troviamo infatti,
insieme ad Alessandro degli Albizi, ad ascoltare i «maestri d’acqua», a
discutere coi «commissari», a persuadere i militari.
Alla fine fu presentato al Gonfaloniere di Firenze un dettagliato rapporto,
corredato da molti disegni, in cui veniva accolta la proposta del Vinci di
incanalare l’Arno per deviarlo verso Livorno: sarebbero occorsi 2000 operai e
da 30 a 40.000 giornate di lavoro.
Il Soderini autorizzò l’inizio dei lavori: poi i dubbi dei «maestri d’acque» e
dei commissari ripresero a poco a poco il sopravvento e l’impresa, appena
cominciata, si fermò.
Il 24 ottobre la Signoria ordinava di consegnare a Leonardo le chiavi della
sala del Papa in Santa Maria Novella, perché il Maestro potesse eseguire con
tutta la comodità necessaria e la dovuta tranquillità i cartoni per la pittura della
sala Grande.
Così, ogni mattina, Leonardo si recava in Santa Maria Novella per
l’erezione dei ponti. La gente lo aspettava per guardarlo passare, le donne si
affacciavano sull’uscio, gli artigiani si sporgevano fuor di bottega.
Alto di statura, la grande chioma più bianca che bionda ondeggiante sulle
spalle e tutt’uno con la grande barba ravviata sul petto, il viso bellissimo, lo
sguardo maestoso, la fronte alta, il passo elastico: lo seguivano il Salaì e gli
altri aiuti, belli ed eleganti, oggi si direbbe vestiti secondo l’ultimo grido della
moda, mentre Leonardo, che disprezzava la volubilità delle fogge, portava un
abito costante e stravagante, di sua creazione, che cambiava soltanto nella
stoffa e nell’accostamento dei colori.
«Era di bella persona – scrive l’Anonimo – proportionata, gratiata et bello
aspecto. Portava un pitocco rosato, corto sino al ginocchio, che allora si
usavano i vestiri lunghi; aveva sino a mezzo il petto una bella capellaia et
inanellata et ben composta...».
Nessuno poteva entrare nella sala del Papa: Leonardo lavorava senza
interruzione dalla mattina al tramonto, concedendosi alla fine della giornata un
incontro con gli amici e qualche discussione scientifica o filosofica.
Fu una di quelle sere d’autunno che, uscito da Santa Maria Novella, passò
col Salaì e con un altro allievo, di nome Giovanni Gavina, «da Santa Trìnita,
dalla pancaccia delli Spini – come racconta ancora l’Anonimo – dove era una
ragunata d’uomini dabbene, et dove si disputava un passo di Dante.
Chiamaron detto Lionardo, dicendogli che dichiarasse loro quel passo. Et a
caso appunto passò di qui Michele Agnolo. Et, chiamato da uno di loro,
rispose Lionardo: – Michele Agnolo ve lo dichiarerà egli. – Di che parendo a
Michel Agnolo l’avessi detto per sbeffarlo, con ira gli rispose: – Dichiaralo
pur tu, che facesti un disegno di un cavallo per gettarlo di bronzo, et non lo
potesti gittare, et per vergogna lo lasciasti stare.
Et detto questo voltò loro le reni, et andò via; dove rimase Lionardo, che
per le dette parole diventò rosso».
Michelangiolo era un profondo conoscitore di Dante, e a Firenze lo sapevan
tutti; era stato come figliuolo in casa del Magnifico, in mezzo agli umanisti, e
su Dante aveva udito i dotti commenti di Cristoforo Landino. Leonardo aveva
inteso di rendergli un omaggio; e quella risposta, calunniosa e velenosa, non
fa onore al Buonarroti.
Ma la ragione è che la sola presenza di Leonardo faceva star male
Michelangiolo. La sua gelosia era morbosa, patologica. Egli aveva visto alcune
pitture di Leonardo e ne aveva colto tutto il messaggio innovatore e
inimitabile. La fama del Cenacolo era arrivata anche a Firenze insieme alla
storia del cavallo gigantesco, e il giovane antagonista ne soffriva. Aveva fatto
alzare una paratia di assi dietro a Santa Maria del Fiore per non farsi vedere da
nessuno mentre scolpiva il suo colosso; ma il David era alto solo quattro metri
e mezzo, mentre il cavallo di Leonardo, a quanto asseriva Luca Pacioli,
misurava più di sette metri – quasi il doppio – e se fosse stato gettato in
bronzo con un’unica colata si sarebbe potuto gridare al miracolo: Donatello e
il Verrocchio sarebbero diventati maestri secondari.
Pochi giorni dopo il Gonfaloniere nominò una commissione di esperti per
esaminare il David e decidere dove collocarlo: o sotto la loggia dell’Orcagna o
davanti al palazzo della Signoria.
Leonardo fu chiamato a far parte della commissione, che comprendeva
anche Andrea della Robbia, Attavante, Cosimo Rosselli, David del
Ghirlandaio, Simone del Pollaiuolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli,
Giuliano e Antonio da Sangallo, il Sansovino, il Granacci, Piero di Cosimo e
il Perugino.
La commissione, all’unanimità, dichiarò l’eccellenza dell’opera.
– Io conoscevo quel marmo – disse Leonardo – perché ci avevo fatto sopra
qualche pensiero; ma presentava tali difficoltà, per via di quelle mazzate di
maestro Agostino, che non potevo decidermi a chiederlo al Gonfaloniere.
Posso dire, perciò, che Michelangiolo, nel ricavarne una statua così bella, ha
fatto più che se avesse resuscitato un cadavere.
Tutti applaudirono; soltanto Michelangiolo, a quelle parole, provò un altro
moto di ribellione: e quando Leonardo, associandosi al parere dei Sangallo,
propose di collocarlo sotto la loggia dell’Orcagna, magari rivestendola di
pannelli neri per far meglio risaltare il candore del marmo, Michelangiolo
rispose che quelli eran giudizi da pittori e chiese in tono concitato che la statua
fosse posta davanti al palazzo della Signoria, al posto della Giuditta di
Donatello.
– Ma è marmo bianco, marmo zuccherino! Appena messo all’aria ti si
sbriciola – disse Andrea della Robbia.
– Non è vero, è marmo franco, duro come la pietra, lo so io che l’ho
scolpito, e deve stare all’aperto! – replicò Michelangiolo.
E all’aperto fu messo, per far contento il suo autore, ai primi di giugno del
1504.
Ma tra Leonardo e Michelangiolo gli scontri non erano ancora finiti. Un
giorno Leonardo, vicino a Santa Maria del Fiore, era alle prese verbali con un
gruppo di pittori guidati dal solito Granacci, ai quali egli aveva esposto le sue
osservazioni sulla prospettiva.
– E se volete fare i pittori – aveva concluso il Vinci – non dimenticate che
la composizione di qualunque quadro deve sempre obbedire a leggi
matematiche. Queste regole io cercherò anzi di scriverle, e ciascuno potrà
confutarle.
– Ma che cosa vuoi scriver tu, che sei stato solamente a scuola dal
Verrocchio – lo interruppe uno del gruppo, un certo Rucellai. – Lo sai che
cosa si dice a Firenze di te? Che non hai nemmeno fatto il donatello.
– «So bene – rispose Leonardo – che per non essere io letterato, tutti i
presuntuosi riterranno di potermi biasimare, allegando la scusa che io sono
homo sanza lettere! Ma guarda quanto sono stupidi! Io potrei rispondere
come Mario ai patrizi romani, dicendo che loro si fanno belli con le ricchezze
altrui, mentre io mi adorno solo delle cose mie. E queste cose sono frutto
della mia personale esperienza, che è sempre stata per tutti maestra di vita, e
così lo è anche per me».
In quel mentre era arrivato Michelangiolo, che aveva ascoltato le ultime
battute del suo rivale.
– E tu vai anche dicendo – gridò – che gli scultori son dei poveri scalpellini
dalle mani callose, sempre sporchi di terra e di polvere, mentre i pittori con le
mani da femmina come te maneggiano «i leggiadri pennelli» ascoltando la
musica, vero? E son sicuro che scriverai anche questo, per insegnarci il
mestiere; ma «se quei capponi de’ milanesi ti stavano a sentire, qui a Firenze
nessuno ti crede!».
Leonardo non rispose; ma visto per terra un grosso quadrello di ferro disse
al Salaì di raccattarlo e di darglielo, e quando l’ebbe in mano, fissando
Michelangiolo e senza scomporsi, lo piegò come se fosse stato di piombo; poi
lo buttò verso il Buonarroti che, per non riceverlo in faccia, dovette afferrarlo
a volo, e gli disse:
– E ora, se ti riesce, rimettilo com’era, con le tue mani da maschio!
La grande sfida

I NTANTO ANCHE L’ALTRA parete della Sala del Consiglio Grande è allogata a
Michelangiolo, che sceglie un episodio della battaglia di Cascina,
combattuta dai fiorentini contro i pisani. Anche a lui viene data una stanza,
per l’esecuzione dei cartoni, nel tranquillo monastero di Sant’Onofrio.
La grande sfida è incominciata.
I due momenti più significativi dell’Umanesimo stanno per affrontarsi e
misurarsi: quello anteriore al Savonarola e quello posteriore; la pagana
serenità del tempo di Cosimo e di Lorenzo – come una riconquistata
giovinezza dopo i dubbi e i tormenti del secolo precedente – e la nuova crisi
che si sta manifestando non più fra l’uomo e Dio, ma nell’interiorità stessa
dell’individuo.
I cupi roghi accesi dal frate di San Marco, dove eran finiti molti codici,
molte opere d’arte e soprattutto molti aspetti dell’uomo del Quattrocento -– e
infine il rogo su cui era finito lui stesso – diventano una realtà che non può
essere più dimenticata. Quelle fiamme instaurano un nuovo modo di pensare
e di essere: l’uomo, che l’umanesimo aveva coraggiosamente esaltato, si
ripiega in se stesso, si arrovella, incomincia ad avvertire e a denunciare un
dramma interiore.
Leonardo impersona l’età d’oro dell’umanesimo, in armonia con la sua
stessa prestanza fisica, il portamento maestoso, da re Mago, le splendide vesti,
il seguito di allievi belli come angioli; Michelangiolo incarna la crisi
dell’umanesimo, il demoniaco contro l’olimpico, la contestazione contro ogni
forma di saggezza, la rivolta contro ogni benevola tolleranza.
È un giovanotto di 26 anni, piccolo, con una gran testa nera e spettinata, le
mani nodose, lo sguardo esaltato e febbricitante, malvestito, scontroso e
geloso, senza amici né alunni; in tasca, invece di un taccuino per gli appunti,
porta sempre e soltanto qualche terribile e terrificante predica del Savonarola.
I magistrati e i cittadini di Firenze sono consapevoli dell’eccezionalità di
questo confronto: il genio di Leonardo e il genio di Michelangiolo stanno
dando il meglio di sé, scrivendo una delle pagine più luminose della storia
fiorentina.
Leonardo, avendo incominciato per primo, è anche il primo a terminare i
cartoni: il 28 febbraio 1505, a un anno esatto dall’inizio, egli fa disfare i ponti
nella sala del Papa.
È un accorrere di gente. Lo stupore e la sorpresa sono pari all’ammirazione.
Leonardo ha voluto e saputo dimostrare ai suoi concittadini di non essere
soltanto un pittore «di grazia», il mago della penombra che tutti conoscono,
ma di possedere una grinta, di avere unghie e denti di leone.
Lo scontro di Anghiari, con i fiorentini guidati da Francesco Sforza e i
milanesi al comando di Niccolò Piccinino, era stato molto violento, anche se
con un solo morto accidentale. Leonardo aveva riconosciuto, in rapidi
appunti, la genesi stessa della battaglia: «Comincia da l’orazion di Nicolò
Piccinino a soldati e fuorusciti fiorentini... di poi si faccia come lui prima
montò a cavallo armato e tutto lo esercito li andò drieto... Qui a questo ponte
si fa gran pugna, vinsono li nimici...».
Aveva analizzato ogni episodio. Era andato perfino ad Anghiari, sul luogo
del combattimento, come attestano le note del suo quaderno.
Poi, nell’esecuzione finale, scompare ogni traccia di realismo geografico o
storico, la battaglia è solo uno scontro di forze, di volontà e di passioni
umane. Leonardo ha esasperato i movimenti, attorcigliando guerrieri e cavalli
in viluppi di muscoli e in contrasti di espressioni, con un effetto
impressionante.
Ma il suo antagonista non è da meno: anche Michelangiolo ha superato se
stesso. Invece della battaglia ha scelto un episodio marginale, quando i soldati
fiorentini fanno il bagno nell’Arno, e un trombettiere suona all’improvviso
l’allarme. Gli squilli di tromba, nella rievocazione michelangiolesca, hanno
l’effetto di una deflagazione: chi cerca i vestiti, chi le armi, chi la riva per
tirarsi su: un gioco di muscoli, un sapiente rilievo anatomico, una dinamica
così plastica da dare addirittura l’impressione che le figure balzino fuori dal
cartone.
L’encausto

I L CONTRATTO PREVEDEVA che i cartoni dovessero essere compiuti entro il


febbraio 1505, e il Consiglio avrebbe pagato 15 fiorini al mese a partire
dall’aprile del 1504. Se i cartoni non fossero stati eseguiti nei termini pattuiti,
Leonardo avrebbe dovuto restituire tutte le somme ricevute. Per l’esecuzione
dell’affresco nella Sala Grande si sarebbe fatto un ulteriore accordo dopo
l’esame dei disegni.
«Aveva Lionardo grandissimo animo – dice il Vasari – ed in ogni sua azione
era generosissimo. Dicesi che, andando al banco per la provvisione, che ogni
mese da Piero Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volle dare certi cartocci
di quattrini. Ed egli non li volse pigliare dicendo: io non sono dipintore da
quattrini».
Ai primi di luglio del 1504 Giuliano da Vinci, figlio di ser Piero e «sere»
anche lui, andò a trovarlo in Santa Maria Novella per dirgli che il padre stava
male.
Leonardo seguì il fratellastro in via Ghibellina: trovò la Lucrezia in lacrime
e un bambino di pochi mesi nella culla – Giovanni, l’ultimo nato.
Ser Piero, nell’ombra della camera, non dava più segni di conoscenza.
Leonardo, commosso, si avvicinò al capezzale.
– Babbo – disse. E il vecchio, come al richiamo d’una voce amica, aprì gli
occhi, riconobbe quel suo figliuolo così caro e vicino al suo cuore – e così
malvisto dai suoi cosiddetti «legittimi» – e cercando di sollevarsi mormorò
all’orecchio di Leonardo che lo sorreggeva:
– Perdonami, figliolo.
«Addì 9 di luglio 1504, mercoledì a ore 7 morì ser Piero da Vinci, notaio al
Palagio del podestà, mio padre, a ore 7; era d’età d’anni 80. Lasciò 10 figliuoli
maschi e 2 femmine».
La commozione di Leonardo, sempre secondo Freud, sta nelle inesattezze –
l’età di ser Piero, che aveva 77 anni e non 80; il giorno, che era un martedì e
non un mercoledì; il numero dei figli, non tutti vivi –; e dopo, nello stesso
quaderno, Leonardo annotava: «Mercoledì, a ore sette, morì Ser Piero da
Vinci, a dì 9 di luglio 1504. Mercoledì, vicino alle ore 7».
Vien fatto di pensare all’insistenza di quella famosa poesia di Garcia Lorca
«A las cinco de la tarde» perché proprio a quell’ora, vicino alle sette del
mattino, dopo una lunga nottata, Leonardo aveva sentito il silenzio che
concludeva il penoso rantolare del padre.
Come Michelangiolo, che insieme ai cartoni della battaglia di Cascina stava
facendo i famosi «tondi» di marmo e di pittura, anche Leonardo, in questo
periodo, faceva altre cose e non solo nel campo dell’arte.
Da anni egli studiava, quasi con accanimento, le possibilità del volo umano.
Le fissazioni dello zio Francesco erano anche le sue; risalivano al tempo del
nibbio che ruotava tra il Monte Albano ed il mare, o ai tempi di Milano,
quando aveva fatto tirare una parete d’assi tra la sua casa ed il Duomo, perché
quelli che lavoravano al tiburio non lo vedessero.
Aveva incominciato a studiare la gravità leggendo il De Proportione
Motuum in velocitate del Marliani e commentando, insieme a Luca Pacioli, il
De Ponderibus di Euclide. Ora egli preparava la sua segreta e straordinaria
«macchina» che avrebbe sostenuto l’uomo nell’aria.
Senza saperlo, Leonardo aveva scoperto il primo principio della meccanica,
per il quale «ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria»:
«Tanta forza si fa con la cosa incontro all’aria, quanto l’aria incontro alla
cosa».
A conferma di questa scoperta aveva disegnato il paracadute.
Ma il suo sogno era l’ala; quella che gli uccelli manovrano con naturalezza,
quasi con leggerezza, armonicamente.
E incominciò, fin da allora a Milano, l’osservazione metodica e sistematica
del volo degli uccelli: «L’uccello batterà più bassa l’ala del lato onde si vorrà
voltare...»; «... Sostiensi intra l’aria l’uccello con insensibile bilicazione...»; «...
Quando il vento non regnia nell’aria, allora il nibbio batte più volte l’alie nel
suo volare...».
Volo battente, volo librato, volo virante: in base a queste osservazioni
incominciò a costruire i suoi apparecchi.
Spesso, dopo una giornata spesa intorno ai cartoni della battaglia,
Leonardo, aiutato dal fido Zoroastro, preparava nell’officina, durante la notte,
l’ossatura della macchina che avrebbe sostenuto l’uomo nell’aria. Dopo vari
esperimenti, concluse che la posizione verticale era migliore di quella
orizzontale perché il centro di gravità veniva abbassato a vantaggio della
stabilità dell’apparecchio e dello sviluppo dell’energia. Un uomo normale, in
posizione verticale, avrebbe potuto sviluppare una forza di 600 libbre
fiorentine, ossia di circa 2 quintali.
Gli studi si intensificavano, ma intanto i cartoni erano finiti. Leonardo era
stato ai patti: un anno preciso. Alla scadenza del termine aveva annunziato la
fine del lavoro preparatorio.
Ora si trattava di rifare i ponti nella sala Grande per incominciare la pittura.
Erano con lui Maso Masini, Ferrando Spagnuolo, il Riccio della Porta alla
Croce, Raffaello d’Antonio di Biagio, il Salaì e Jacopo Tedesco.
«Martedì sera venne Lorenzo a stare con meco, d’età d’anni 17; e addì 15
del detto aprile ebbi fiorini 25 d’oro dal Camarlengo di S. M. Nuova».
Un altro allievo, un supplemento di denari, attinto alla riserva, per
mantenere la numerosa famiglia.
Ma, all’improvviso, tutti i lavori si fermarono. Leonardo aveva letto in
Plinio la ricetta di uno stucco di cui si erano serviti i Romani per i loro
affreschi. Si chiamava «encausto».
Bisognava rifarlo e sperimentarlo. In gran segreto furono effettuate le prove
nella sala del Papa in Santa Maria Novella.
Preparato con ogni cura l’impasto e stuccato con quello un pezzo di parete,
Leonardo ne aveva dipinto a olio una parte e poi, secondo il suggerimento di
Plinio, aveva acceso un gran fuoco davanti alla pittura per fare asciugare il
colore. L’effetto era stato immediato e felice: la fiamma aveva messo in risalto
tutta la luce dei colori.
– Ci siamo, ragazzi! – gridò Leonardo felice. Ora possiamo andare al
Palazzo a preparare la parete: faremo una pittura mai vista, meravigliosa!
La notte stessa, sull’onda dell’entusiasmo, egli scrisse una nota orgogliosa
sulla futura macchina per volare:
«Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso del suo magnio
Cécero e empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le
scritture e gloria eterna al nido dove nacque...».
Lei

N ON ANDREMO ANCHE noi a scomporre il volto della Gioconda per farne un


identikit: si è scritto tanto, troppo, su quel viso di sfinge, e insieme a
molte cose belle e giuste sono state dette anche molte sciocchezze. L’ultima, in
ordine di tempo, sostiene che quella donna non era che una donnetta di facili
costumi, momentaneamente nelle grazie di Giuliano de’ Medici, e che per
conto dell’ultimo e dissoluto figlio del Magnifico il povero Leonardo aveva
dovuto farle il ritratto.
Guardiamola, questa donna «satura di sensualità», questa «sacerdotessa
laica di Venere»: e lei stessa, col suo sguardo fisso su di noi, con la piega di
quel sorriso ambiguo e quasi ironico, ci farà sentire ridicoli e fuori strada.
La Gioconda è, e rimane, il grande segreto di Leonardo. Certa è solo una
cosa: non si trattò di un ritratto su commissione, perché l’autore, dopo avervi
«penato» quattro anni, lo portò via con sé «ancora imperfetto» – come precisa
il Vasari – per non separarsene mai.
Ma a Firenze, oltre alla storia scritta, c’è quella parlata, e da una generazione
all’altra si è sempre saputo che in piazza Santa Maria Novella c’erano le case
di Francesco del Giocondo, alla cui giovane moglie, monna Lisa Gherardini,
Leonardo aveva fatto il ritratto.
La sala del Papa, concessa dalla Signoria per l’esecuzione dei cartoni, era di
faccia alle case del Giocondo; nulla di più probabile, quindi, che Leonardo
abbia fatto amicizia con l’anziano messer Francesco e si sia offerto, in seguito,
di ritrarre il bellissimo volto di sua moglie.
Francesco del Giocondo, infatti, aveva sposato in terze nozze, nel 1495, una
fanciulla originaria di Napoli, della famiglia dei Gherardini. Nel 1499, mentre
era nel consiglio dei «Bonomini», gli morì una figlia, forse l’unica nata dalle
sue nozze con monna Lisa – «una fanciulla di Francesco del Giocondo – si
legge nel Libro de’ Morti del Convento – fue riposta in S. M. Novella».
Se monna Lisa aveva circa vent’anni quando si sposò, e ventiquattro alla
morte della figlia, era tra i vent’otto e i trenta quando Leonardo dipinse la sua
compiuta bellezza.
A giorni fissi, uscendo dalla sala del Papa, Leonardo si recava a ritrarre la
donna triste, che dalla morte della figlia non era più andata ad una festa né
aveva più sorriso.
Leonardo «essendo madonna Lisa bellissima, teneva, mentre la ritraeva, chi
sonasse o cantasse, e di continuo buffoni, che la facessero stare allegra, per
levar via quel malinconico, che suol dare spesso la pittura a’ ritratti che si
fanno» precisa ancora l’Anonimo.
Leonardo non voleva fare soltanto un ritratto, ma chiedeva a se stesso di
ritrarre «una cosa viva»: nessuno, prima di lui, si era imposto un fine così
temerario – sfidare la stessa natura; imitarla per sorpassarla – e «conservare il
simulacro di una divina bellezza, che il tempo o morte in breve ha distrutto».
L’immagine evocata nello specchio non è più sufficiente; ora Leonardo
deve evocarla «in se stesso», guardarsi dentro, nel profondo, nel buio
dell’inconscio, per fare un po’ di luce, e in quel chiarore senza più tempo
ritrovare quel volto, quell’immagine, in una fissità che non è immobile, ma
viva, fosse solo per un incresparsi lievissimo delle labbra, in un sorriso
consapevole, segno di una segreta intesa fra lei e l’artista.
Leonardo fa appello a tutta la sua tecnica, riproduce con una pazienza da
miniatore ogni poro della pelle, ogni velo di peluria, i cigli, le pieghe
impercettibili del volto e del collo, le più sottili trame dell’epidermide: e lo
scienziato si accorge, con meraviglia, che la pupilla umana si dilata nell’ombra
e si restringe alla luce. Ritornando in un successivo momento a dipingere la
pupilla di monna Lisa, egli scopre, infatti, che non è più come prima «e questa
cosa già m’ingannò nel dipingere un occhio, e di lì imparai».
Il ritratto di monna Lisa è anche la manifestazione di questa sapienza
tecnica. Il Vasari lo descrive in termini eloquenti: «Gli occhi avevano que’
lustri e quelle acquitrine, che di continuo si veggono nel vivo... le ciglia, per
avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più
rari, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali; il
naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo; la
bocca, con quella sua sfenditura, ... l’incarnazione del viso, che non colori,
ma carne pareva veramente; nella fontanella della gola, chi intentissimamente
la guardava, vedeva battere i polsi. E nel vero si può dire che questa fussi
dipinta d’una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice, e sia chi
voglia».
Spesso Leonardo, per vincere quella mestizia, quel «malinconico», arrivava
a casa di monna Lisa accompagnato da una brigata di amici «musici», e lui
stesso si metteva a suonare il flauto o a cantare accompagnandosi sulla lira: e
mentre anche gli altri strumenti eseguivano una specie di «concertino da
camera» egli prendeva il pennello per fermare sulla tela qualcosa di essenziale.
Mentre dipingeva, raccontava alla donna le sue favole, frutto delle sue
letture o delle sue personali esperienze. Era fuggito da Roma e dal Borgia;
aveva visto, in ogni fortezza assediata dagli uomini del Valentino, fare strage
dei difensori; sapeva che la libertà vale molto più della vita, non ha prezzo; e
l’aveva vista offesa, violata, distrutta.
– Un povero calderugio – diceva Leonardo a monna Lisa – stava tutto il
giorno in giro per cercare bacherozzi e moscerini per la sua nidiata. Ma una
sera, tornando nel nido, lo trovò vuoto. Qualcuno, durante la sua assenza, gli
aveva rubato i figlioli. Il calderugio si mise a cercarli dappertutto; frugò su
tutti i rami, visitò tutti i cespugli; chiamava e piangeva, piangeva e chiamava.
Era davvero una pena sentirlo. Un fringuello, mosso a compassione, si mise
in giro fuori del bosco, e dopo un bel po’ fu di ritorno:
– Mi pare di aver visto i tuoi figlioli laggiù dal contadino – disse.
Il calderugio partì, e arrivò subito alla casa del contadino; e vide, fuori della
finestra, una gabbia con dentro la sua nidiata. Allora col becco e con le zampe
cercò a lungo di aprire le sbarre, ma non ci riuscì. Alla fine, gridando di
dolore, volò via.
Ritornò il giorno dopo. Aveva qualcosa in bocca. I suoi figlioli, dietro le
stecche, spalancarono fiduciosi il becco, e lui li imboccò uno per uno, per
l’ultima volta.
Sì, perché il genitore aveva dato ai suoi figlioli il tortomalio, e quelli
morirono subito. Guardandoli stecchiti dentro la gabbia, il calderugio disse:
– Meglio morte che perdere libertà.
– No, no – aggiunse subito Leonardo – non fate quel viso triste, monna
Lisa; ora vi suonerò qualcosa di allegro, poi vi racconterò la storia di una
zucca...
Monna Lisa, il segreto di Leonardo. Dal tempo dei cartoni alla tragica fine
della pittura sul muro; dal felice arrivo a Firenze alla sconsolata partenza...
È possibile che il Vasari abbia ragione: quando Leonardo partì il ritratto era
incompiuto. Perché quella non era più l’immagine di una donna viva nel
tempo, ma era qualcosa, o l’espressione stessa, dell’anima di Leonardo.
Una bellezza in declino, le mani abbandonate una sull’altra, e dietro,
ancora, il vuoto. A Milano, e non senza una profonda ragione interiore,
Leonardo eseguirà poi, con allucinante precisione, un paesaggio di rocce e
d’acque che ricorda da vicino un punto preciso sull’Adda a Paderno, quel
paesaggio lombardo a lui così caro, e quel cielo terso di Lombardia «così
bello quando è bello».
Monna Lisa diventerà sempre più la Gioconda: un ritratto autobiografico. E
quel sorriso è la malinconica consapevolezza di chi «sa» ciò che gli altri
ancora non sanno: la risposta volutamente ambigua alla nuova generazione.
Raffaello

B ASTIANO DA SANGALLO, figlio di Antonio e nipote del grande architetto


Giuliano, lavorava col Perugino nella chiesa della SS. Annunziata. Era
un allievo piuttosto inquieto, e ogni tanto aveva delle crisi «filosofiche» che
gli facevan lasciare la pittura per dedicarsi alle dottrine umanistiche. È
comprensibile, quindi, il suo dramma di fronte ai cartoni di Michelangiolo:
abbandonò il Perugino e si trasferì letteralmente in Sant’Onofrio per spiegare
al popolo le meraviglie artistiche e il sottinteso messaggio filosofico della
battaglia di Cascina. Infiorava i suoi discorsi di tali e tante citazioni di classici,
e specialmente di Aristotele, che gli fu appioppato, in segno di ammirata
benevolenza, quel soprannome: «Aristotile da Sangallo».
Nello stesso periodo un altro giovane, anche lui allievo del Perugino, ebbe
nei cartoni il suo folgorante incontro di Damasco; ma questa volta i cartoni
erano quelli della battaglia d’Anghiari esposti in Santa Maria Novella: il
folgorato ammiratore si chiamava Raffaello Sanzio, da Urbino.
– Maestro – disse quando riuscì a farsi presentare a Leonardo – ho studiato
sul cartone di Sant’Anna, l’ho copiato parecchie volte, e ora vi domando di
poter venire a studiare questi cartoni della battaglia.
– Hai qualcosa con te da farmi vedere? – chiese Leonardo.
Il giovane aprì la cartella e mostrò i suoi disegni: schizzi, appunti, studi di
particolari, impressioni prospettiche; una mano sicura, uno sguardo già
esercitato all’osservazione, una mente capace di guidare la mano.
– Bravo – gli disse Leonardo. – Hai fatto progressi, ti sei ammorbidito, direi
quasi che ti stai «speruginizzando»... – Raffaello arrossì.
– Ho già visto alcuni tuoi lavori. Me li mostrarono a Urbino. Torna domani.
Ti farò vedere qualcosa.
Il giorno dopo Raffaello, puntuale, tornò in Santa Maria Novella.
– Vieni con me – gli disse Leonardo. E lo condusse dall’altra parte della
piazza.
– Ecco un pittore che farà parlare di sé il mondo – disse Leonardo a monna
Lisa. – È di Urbino, si chiama Raffaello. Ne ho parlato iersera ad
Antonfrancesco Doni perché si faccia fare un ritratto. E ora guarda – aggiunse
volgendosi al giovane e scoprendo la tela che stava sul cavalletto.
Raffaello guardò il ritratto di monna Lisa, a lungo, in silenzio. Gli sembrava
di sognare. Quella pittura andava oltre ogni umana possibilità, era una cosa
nuova, diversa, mai vista.
– Allora, Raffaello, non dici nulla?
– Non posso – rispose il giovane con la voce strozzata. – Ora capisco, ora
vedo che cos’è la pittura. Sono così felice, Maestro, che avrei voglia di
piangere.
La battaglia perduta

G LI ALLIEVI E gli aiuti di Leonardo – tutta la «scuola» al completo – sono al


lavoro in Palazzo Vecchio per montare i ponti. Anche in questo
l’«ingegnere» Leonardo vuole far colpo sui suoi colleghi pittori; non gli basta
il legnaiuolo, né la solita impalcatura usata da sempre: «fece un edificio – dice
il Vasari – artificiosissimo, che stringendolo s’alzava e allargandolo
s’abbassava».
Per nascondere il ponte e la parete, fa drizzare una palizzata di canne e la
riveste con 25 metri di tela; un diaframma protettivo fra il suo lavoro e gli
sguardi dei curiosi.
Uno dopo l’altro i cartoni vengono portati dalla sala del Papa a quella del
Consiglio Grande per la trasposizione del disegno sull’«encausto». Fino al
momento di passare alla coloritura Leonardo vive giorni febbrili e felici.
Le sue attività, i suoi impegni, le sue ricerche sono molteplici: di mattina
lavora in Palazzo Vecchio; di pomeriggio, o dipinge in casa di Francesco del
Giocondo o porta avanti gli studi sulla canalizzazione dell’Arno; la notte,
quando anche gli allievi dormono, si ritira con Zoroastro nella cripta-officina
dove pende dal soffitto la misteriosa e meravigliosa macchina per volare.
Va ogni tanto a Fiesole a trovare don Alessandro Amadori, si fa vedere
spesso e volentieri nelle case delle persone «dabbene» – nobili, magistrati,
banchieri e mercanti di Firenze – non trascura le brigate degli artisti né i
vecchi compagni di bottega del Verrocchio.
Poi ci sono le dotte discussioni con Luca Pacioli, a cui si uniscono il
giovane Bartolommeo Vespucci, matematico e cosmografo, nipote del grande
Amerigo, e lo scienziato Francesco Sirigatti, autore di un trattato di
astronomia sperimentale.
Non mancano le gite a Vinci, dal vecchio zio Francesco, e quelle nel
Valdarno superiore e in Val di Chiana, per la canalizzazione dell’Arno anche a
monte della città e per il prosciugamento delle paludi.
Sono i mesi più sereni ed intensi della vita di Leonardo. Forse a questo
periodo si riferiscono certi versi, di mano sconosciuta – che potrebbe essere
anche di monna Lisa – nascosti poi sotto un’enorme macchia d’inchiostro, in
una pagina del taccuino:
«O Leonardo, perché tanto penate?».
E subito dopo, di mano dell’artista, questa amara riflessione sulla bellezza:
«... Elena, quando si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo viso, fatte
per la vecchiezza, piange, e pensa seco, perché fu rapita due volte...».
Ma all’improvviso gli acquisti, i pagamenti, il ritiro mensile delle somme in
Palazzo Vecchio s’interrompono.
I taccuini restano chiusi. Nemmeno una nota, una frase, una parola.
Dev’essere l’inverno tra il 1505 e il 1506. Leonardo sta dipingendo
febbrilmente la parete, procedendo dal basso verso l’alto. Alla fine di ogni
giornata accende il fuoco per asciugare il colore. Il risultato è confortante.
Ma una sera, dopo aver dipinto una gran fascia più in alto, il fuoco non
arriva ad asciugare i colori. Leonardo, allarmato, ordina di buttare più legna
sul fuoco, perché le fiamme arrivino fino alla pittura. Ma i colori
incominciano a colare verso il basso imbrattando e deturpando la pittura già
asciutta. Inutilmente gli allievi buttano legna sulle fiamme, vi aggiungono
panche e sedie e tutte le assi a portata di mano: per l’eccessivo calore
l’encausto, in basso, si gonfia come una bolla, mentre la pittura non è più che
una brodaglia variopinta che inesorabilmente scende, come la lava di un
vulcano, a cancellare il resto dell’opera.
Leonardo, muto, impietrito, assiste nel riverbero delle fiamme alla
distruzione del suo lavoro.
La battaglia è perduta.
Un’altra sconfitta

A LESSANDRO AMADORI LO accolse in casa sua e gli fece il vuoto intorno.


Nessuno doveva avvicinarlo, nemmeno gli amici. Leonardo aveva
bisogno di solitudine e di silenzio; la maldicenza e i commenti ingenerosi
dovevano restare a Firenze.
Invano il Gonfaloniere cercava di fargli arrivare un messaggio che poi era
un ordine.
– Leonardo non sta bene – gli dicevano. – È a Fiesole. Ha bisogno di un
cambiamento d’aria.
– Ma deve rifare la pittura. Deve ricominciare!
– Ora non può. Bisogna lasciarlo in pace. – rispondeva il buon canonico
facendo volentieri la spola tra Fiesole e Firenze.
Leonardo, intanto, si riprendeva dedicandosi tutto alla sua macchina per
volare.
Zoroastro, dopo averla smontata, l’aveva portata a Fiesole, nella rimessa di
don Alessandro; e insieme l’avevano rimontata, provando e riprovando ogni
giorno i complicati congegni.
Il 14 marzo Leonardo riaprì il suo quaderno per prendere nota di un
«cortone, uccello di rapina, ch’io vidi andando a Fiesole sopra il loco
Barbiga». Poi ancora una nota sul monte «Cécero», che in vernacolo
significava «cigno», e di nuovo silenzio.
Per certi storici quest’apparecchio non fu mai sperimentato, ma restò allo
stadio di «modellino», in scala ridotta, benché Gerolamo Cardano scrivesse,
nel De Suptilitate:
« Volandi inventum, quod nuper tentatum est a duobus, illis pessime
cessit; Vincius, de quo supra diximus, tentavit et frustra» (... anche Leonardo
tentò di volare, ma male gliene colse...).
Secondo altri il volo fu tentato, non si sa come né da chi, ma la macchina
fu subito scartata perché non adatta.
A Fiesole, invece, una memoria tenace tramanda, da una generazione
all’altra, la storia del «cécero», del cigno artificiale, che un giorno spiccò il
volo dall’omonimo colle, e poi scomparve, precipitando nel bosco.
A Fiesole sanno ancora nome e cognome di quel folle seguace di Icaro: si
chiamava Tommaso Masini da Peretola, detto anche Zoroastro, meccanico
famoso, fedelissimo di Leonardo.
Secondo la tradizione, rivestita come sempre di leggenda, Leonardo non si
fidava della sua macchina ad ala battente: i suoi calcoli gli mostravano
l’impossibilità di sostenere il peso di un corpo con la sola forza muscolare; e
già si stava orientando verso l’ala ferma, anche se non rigida, la quale,
beneficiando delle correnti dell’aria, avrebbe potuto consentire un volo
«librato».
Ma il buon Zoroastro non poteva rinunciare al risultato di tante fatiche, di
tante notti spese intorno all’«uccello artificiale», e più fiducioso del suo
maestro decise di collaudarlo lui stesso.
– Lo guiderò io. Vi dimostrerò che i nostri calcoli sono giusti. Non abbiate
timore, volerò!
E difatti volò. Dal culmine brullo del monte Céceri l’uomo-uccello, presa la
rincorsa, si lanciò nel vuoto e incominciò a volare. Per un lungo tratto si
mantenne nell’aria, sopra i boschi e le cave di pietra che, seguendo il pendio
del terreno, scendevano sempre più in basso rispetto alla linea di volo, fino a
che – o per l’emozione, o per una manovra sbagliata, o perché le forze non lo
ressero più – Zoroastro precipitò.

Dice ancora la tradizione che si ferì gravemente, forse restò menomato per
tutto il resto dei suoi giorni, forse morì poco dopo.
Certo è che Tommaso Masini, dopo venticinque anni di fedele presenza
accanto a Leonardo, non è più nominato nei quaderni di appunti. La storia e la
leggenda di Zoroastro finiscono proprio in quei giorni, nel segno di un’altra
sconfitta.
Leonardo, sconvolto, tornò a Firenze, ma con l’animo deciso a fuggire. La
sua città, ormai, non gli dimostrava che invidia e rancore. Il buon prete
Alessandro lo seguì per non lasciarlo solo, per cercare d’invogliarlo a lavorare
per la marchesa di Mantova, la quale si era rivolta anche a lui nel vano
tentativo di avere il sospirato quadretto.
Leonardo liquidò le sue masserizie, lasciò liberi gli allievi, chiese udienza al
Gonfaloniere.
– Maestro Leonardo, quando pensate di ricominciare la pittura?
– Presto, Magnifico Messere. Vengo solo a chiedervi una licenza di tre mesi
perché devo andare a Milano.
– E se non tornate?
– Tornerò.
– Che garanzia mi date?
Leonardo guardò il Gonfaloniere con aria interrogativa.
– Voglio centocinquanta fiorini d’oro – disse il Soderini. Poi, accorgendosi
di avere ecceduto, si corresse:
– Voglio dire che, se non tornerete, dovrete pagare alla Signoria una multa
di 150 fiorini.
– D’accordo. -
Pochi giorni dopo Leonardo partì. Era la fine di maggio del 1506. Lo
accompagnava il Salaì. Sul terzo cavallo, carico di bagagli, c’era il ritratto
ancora incompiuto di monna Lisa del Giocondo.
PARTE QUARTA
Le bizze del Soderini

E CCO

vivere.
MILANO, COI suoi canali, i filari di pioppi e le nebbioline azzurre che si
dissolvono dopo l’aurora; e i milanesi faccendieri, gioviali, contenti di

Leonardo entra in città quasi in punta di piedi, per paura di trovare anche
qui l’ingeneroso voltafaccia dei fiorentini.
Per non subire l’affronto d’esser guardato da occhi che potrebbero fingere
di non conoscerlo come a Firenze – egli preferisce non esporsi agli sguardi,
nascondersi nell’anonimo.
E subito, da anonimo visitatore, viene a sapere che Leonardo, a Milano, è
sempre «il Maestro». Il popolo ha trasformato in leggenda le sue «gesta» di
architetto, d’ingegnere e di mago; le sue opere, e specialmente la Vergine delle
rocce e il Cenacolo, fanno scuola a tutti i pittori; le copie sono tante, e spedite
dovunque, da sfuggire a ogni calcolo.
Tutti fanno a gara per salutarlo, accoglierlo, festeggiarlo, riverirlo.
Il giovane Governatore di Milano, Carlo d’Amboise, che lo conosceva
soltanto per fama, lo riceve nel Castello con gli onori di un principe. Le parole
dei gentiluomini di corte sono un balsamo sulle ferite ancora dolenti del suo
animo.
Purtroppo ha solo tre mesi di permesso dalla Signoria di Firenze, non può
restare di più, né dare inizio a qualche opera di pittura per sua Maestà il re di
Francia.
Carlo d’Amboise capisce il desiderio dell’artista e scrive a Firenze per
chiedere una proroga di almeno un mese «... perché avemo bisogno ancora di
maestro Leonardo per fornire certa opera che gli abbiamo fatto principiare...».
L’opera è forse una Madonna col Bambino che gioca con un gatto, di cui si
conservano solo alcuni disegni; certo è che un quadro di Leonardo, di piccole
dimensioni, viene spedito d’urgenza a Blois, residenza del re.
Il Soderini, a malincuore, concede la proroga. Ma quando Carlo
d’Amboise, verso la fine di settembre, ne chiede un’altra, il Gonfaloniere
risponde risentito, affermando che Leonardo s’è comportato male con la sua
città «... perché ha preso buona somma di denaro, e dato un piccolo principio
a un’opera grande che doveva fare...». Che torni subito, dunque, a terminare
il suo lavoro «... perché l’opera ha a soddisfare allo universale...».
Ecco il punto. Leonardo si era arreso di fronte al disastro tecnico, ma non si
erano arresi né il Gonfaloniere né «l’universale», ossia il popolo fiorentino:
Leonardo, perciò, deve ricominciare.
Ma un uomo come Leonardo non può lasciare senza risposta un’accusa così
grave ed ingiuriosa: il Soderini, con la volgarità di un mercante, ha rinfacciato
a Leonardo i troppi denari ricevuti per un «piccolo principio» e Leonardo, da
Milano, gli rimanda i soldi.
Pochi giorni dopo, infatti, Alessandro Amadori – dopo aver messo insieme
la somma di 150 fiorini d’oro ricorrendo anche all’aiuto degli amici dell’artista
– si presenta al Soderini e gli consegna il denaro a nome del pittore. Il
Gonfaloniere, rosso di rabbia, non vuole accettarli.
– Leonardo vi manda a dire che il guadagno dell’onore è molto maggiore
che l’onore delle ricchezze. Sicché prendete i vostri fiorini e lasciatelo in pace.
– Io non voglio denari, voglio Leonardo; e questo scriverò al Governatore
di Milano!
A metà dicembre Leonardo è pronto a partire. Carlo d’Amboise gli
consegna una lettera per la Signoria di Firenze che resta, ancor oggi, fra le
testimonianze più valide e belle della stima del giovane condottiero per il
grande artista:
«... Le opere egregie, quali ha lassato in Italia, et maxime in questa città,
magistro Leonardo da Vinci, vostro cittadino, furon cagione di amarlo
singularmente, ancora che non l’avessimo mai veduto... Et noi volemo
confessare essere nel numero di quelli, che l’amavano prima che mai per
presenzia lo cognoscessimo...».
Umiltà e sincerità di Carlo d’Amboise; ci tiene a dichiarare di aver amato
Leonardo prima ancora di conoscerlo, solo per averne visto le opere. E
continua:
«Ma da poi che qua lo avemo maneggiato, et cum esperienzia provato le
virtute varie sue, vedemo veramente che ’l nome suo, celebrato per pictura, è
oscuro a quello che meritaria essere laudato in le altre parti, che sono in lui di
grandissima virtute. Et volemo – continua ancora il Governatore – che in le
prove fatte da lui di qualche cosa, che li avemo domandato, di Disegni ed
Architettura, ed altre cose pertinenti alla condizione nostra, ha soddisfatto cum
tale modo, che non solo siamo restati soddisfatti di lui, ma ne avemo presa
ammirazione».
Ed ecco la battuta finale, che avrebbe dovuto avere l’effetto di uno schiaffo
su guance più sensibili di quelle del Soderini:
«Per il che, essendo stato il piacer Vostro, di lassarcelo questi dì passati, per
gratificazione Nostra, quando non vi ringraziassimo, venendo lui in patria, ci
pareria non soddisfare a animo grato.
Et però ve ne ringraziamo quanto più possemo, et se uno omo di tanta
virtude conviene raccomandarlo alli suoi, ve lo raccomandiamo quanto più
possemo».
Ma intanto, da Blois, arriva a Leonardo un biglietto del suo amico
Francesco Pandolfini, ambasciatore della Repubblica Fiorentina presso Luigi
XII, che gli dice di non partire e di aspettare altre notizie.
Che cosa è successo? Un piccolo complotto, forse. Il Soderini vuole
Leonardo, e Carlo d’Amboise, alla fine, è costretto a cedere; ma intanto il Re
ha avuto la pittura dell’artista e certamente anche un messaggio del
Governatore di Milano: fatto sta che Luigi XII manda a chiamare il Pandolfini
e gli dice:
– Caro amico «bisogna che i vostri Signori mi facciano un piacere. Scrivete
subito che desidero servirmi di maestro Leonardo, loro pittore, quale si trova
a Milano». E fate in modo che il vostro governo ordini a Leonardo di mettersi
subito al mio servizio «et che non si parta da Milano fino al mio venire!».
Il Pandolfini cerca di prender tempo con una risposta diplomatica:
– Poiché Leonardo si trova a Milano, «Sua Maestà essendo in casa sua può
assai meglio della Signoria impartire a Leonardo questo ordine».
E Luigi XII, sul punto di perdere la pazienza:
– «Signor Pandolfini, non mi fate ripetere ciò che ho già detto!».
L’ambasciatore, allora, per rabbonire il Re, tesse gli elogi di Leonardo.
– Lo conoscete?
– Certo, Maestà, è un mio grande amico.
– Allora «scrivetegli voi subito un verso, che non parta da Milano, intanto
che i Vostri Signori gli scrivono da Firenze».
«E per questa ragione – concluse il Pandolfini scrivendo al suo Governo –
io ho fatto un verso al sopra detto Leonardo, facendogli intendere il buono
animo di questa Maestà, e confortandolo a essere savio».
Mentre gli leggono il lungo rapporto dell’ambasciatore, il Soderini si agita
come se stesse sulle spine. Non riesce a capire come un re di Francia se la
prenda tanto per un pittore, e soprattutto non riesce a mandar giù l’amara
pillola che il re gli vuol fare ingoiare costringendolo a scrivere a Leonardo
tutto l’opposto di ciò che avrebbe da dirgli.
Leonardo, imbroglione che non sei altro, qui c’è una pittura da rifare
perché tu l’hai sbagliata, una parete che ti aspetta poiché ti abbiamo pagato
affinché tu la dipinga, e un popolo che non vuol sentirsi deluso né tradito
dopo avere ammirato i tuoi cartoni, e tu, invece, scomodi addirittura un re
perché io ti scriva di non venire e ti ordini di restare al servizio di sua
Maestà...
In quel mentre arriva a Firenze un corriere speciale di Luigi XII latore di
una lettera autografa del monarca.
«Cari amici – très chers et grans amys. Nous avons nécessairement
abésognes – abbiamo assolutamente bisogno – de maistre Léonard à Vince,
paintre de Votre cité de Fleurance, et que intendons de luy faire fer qualque
ouvrage de sa main – perché intendiamo fargli fare qualche opera non
appena saremo a Milano – incontenent que nous seron a Millan, qui sera in
briev, Dieu aidand, – ossia fra poco, con l’aiuto di Dio. E subito che avrete
questa lettera scrivetegli di non muoversi da Milano fino al nostro arrivo...».
Povero Soderini! Con le mani nei capelli guarda e riguarda la lettera coi
reali sigilli, e non può fare a meno di ricordare le tre Bolle papali, una più
minacciosa dell’altra, che l’anno prima erano arrivate sul suo tavolo con
l’ordine di rimandare a Roma il fuggiasco Michelangiolo.
– Questi artisti ci faranno anche un grande onore, ma ci danno tante noie! È
appena passata la burrasca del Papa, che voleva farci guerra se Michelangiolo
non ritornava da lui, ed ecco ora un altro tuono che promette tempesta se non
diciamo a Leonardo di restare a Milano. Ma che ci resti pure, quanto e come
gli pare, che non si faccia più vivo! – grida, ormai fuori di sé, il Gonfaloniere
a vita della Repubblica Fiorentina.
A Vaprio d’Adda

«L’ quella che viene: de’


ACQUA CHE TOCCHI fiumi è l’ultima di quella che andò, e la prima di
così il tempo presente».
Leonardo posò la penna e richiuse il quaderno. La primavera accendeva di
nuovo la campagna, l’Adda scorreva veloce e solenne, alimentata dal recente
disgelo delle Alpi lontane.
Il giovane Francesco, in giardino, attendeva che il Maestro scendesse:
incominciava un altro giorno sereno e tranquillo.
Dopo la lettera del Re, al Gonfaloniere di Firenze non era rimasto che
obbedire, scrivendo a Leonardo di restare a Milano.
– Maestro, ce l’abbiamo fatta – aveva detto sorridendo il Maresciallo
d’Amboise, mostrandogli la risposta della Signoria. – Aspetterete a Milano
l’arrivo di Sua Maestà.
Gerolamo Melzi, amico del Maresciallo e capitano delle milizie milanesi, lo
invitò a trascorrere qualche mese nella sua villa di Vaprio d’Adda.
– Così potrete riposarvi, dopo tutte queste emozioni, e farete finalmente
felice mio figlio Francesco che si strugge dalla voglia di conoscervi.
Leonardo accettò. Era inverno. La pianura era sommersa dentro una coltre
di nebbia: gli alberi del parco di Vaprio sembravano fantasmi.
Il figlio del capitano non aveva ancora diciassette anni; voleva fare il pittore
e andava spesso a Milano per ammirare il Cenacolo. «Francesco Melzi,
gentiluomo milanese, nel tempo di Leonardo era bellissimo e molto amato da
lui, come oggi è bello e gentile vecchio» scrisse il Vasari.
Leonardo lo accettò come allievo, e da quel giorno il giovane non
abbandonò più il suo straordinario Maestro.
Ora, anche a Vaprio, l’inverno era finito. Leonardo aveva trascorso molti
giorni in solitudine, meditando, prendendo appunti. Col ritorno della bella
stagione aveva ripreso le sue osservazioni «esterne», e il giovane Francesco
gli faceva da assistente.
Ogni tanto lo accompagnava in escursioni più lontane: è forse di questo
tempo una gita a Bolca – «nelle montagne di Verona la pietra rossa è tutta
mischiata di conchiglie fossili» – e un nuovo studio per una rete di canali
d’irrigazione.
Leonardo si attardava volentieri sulle rive dell’Adda, contemplando lo
scorrere del fiume, si immedesimava nel flusso stesso delle correnti: in tutta la
natura egli avvertiva, quasi tangibilmente, la presenza del «Primo Motore»; gli
pareva che l’aria, la terra, l’acqua respirassero, avessero una vita propria, e
che le onde fossero come una momentanea rottura della pelle dell’acqua, e il
vento l’affanno dell’aria: e intanto immaginava nuove forme di scafi, a V
profondo, capaci di entrare nel cuore dell’acqua come l’aratro in quello della
terra; inventava, con un anticipo di quasi cinque secoli, le attuali imbarcazioni
d’altura.
Sempre a Vaprio disegnò il progetto delle chiuse «ad angolo». Studiò il
comportamento delle onde – «la pietra gittata nell’acqua si fa centro di vari
cerchi i quali hanno per centro il loco percosso»; si accorse del loro
movimento apparente – chiamato entropia dalla fisica moderna – «... L’onda
fugge il loco della sua creazione, ma l’acqua non si move di sito a similitudine
delle onde fatte il maggio fra le biade dal corso del vento che si vede correre e
le biade non si muovono dal loro sito».
Leonardo restò a Vaprio fin quasi alla fine di maggio, e ritornò a Milano
solo quando seppe dell’imminente arrivo del Re.
L’incontro tanto atteso, si svolse con semplicità e naturalezza. Luigi XII,
senza farsi annunciare, andò a trovare l’artista nel suo studio – «Notre chier et
bien aimé Léonard de Vinces» -, poi lo accolse benevolmente alla sua corte, lo
nominò «peintre du roy», infine, dopo aver parlato più a lungo con lui, lo
promosse al rango di «peintre et ingénieur ordinaire», assegnandogli in
regalo, per la sua vigna fuor di porta Vercellina, dodici once d’acqua del
Naviglio di San Cristoforo, da utilizzare non appena fosse cessata
l’eccezionale siccità di quei giorni.
L’ingiuria del Soderini non era che un lontano ricordo, una ferita
rimarginata.
Burocrazia fiorentina

–L eonardo a Firenze? Non lo voglio vedere!– Ma


Machiavelli all’irascibile Gonfaloniere – non ha
lui – rispose il
chiesto d’essere
ricevuto. È qui per certe sue faccende d’eredità, e il re di Francia ci scrive
questa lettera, arrivata stamani, dove chiede alla Signoria di aiutare Leonardo
a sbrigarsi nel tempo «plus brefve que se pourra».
Il Soderini avrebbe voluto fare un’altra domanda, per sapere se Leonardo
fosse stato disposto a ridipingere la parete, ma si trattenne.
Michelangiolo, a Bologna, aveva quasi finito la statua di bronzo di Giulio II
e sarebbe tornato presto a Firenze per dipingere la battaglia di Cascina. Forse
la rivalità avrebbe avuto miglior effetto d’ogni parola sull’animo di Leonardo.
-– Se è per questo – disse il Gonfaloniere al Segretario della Repubblica –
solleciteremo; tanto non servirà a nulla.
La quiete di Vaprio era stata turbata da una prima notizia relativa ai beni di
ser Piero. I fratelli di Leonardo, «legittimi» eredi, si erano spartiti il
patrimonio paterno escludendo il fratello «bastardo». Leonardo non aveva
protestato. Avrebbe potuto appellarsi alla legge che dava ai «naturali
riconosciuti» gli stessi diritti dei figli legittimi ; ma se quella legge andava bene
per i nobili, per ragioni di dinastia o di equilibrio politico, non era altrettanto
valida per il popolo, compresi i figli dei cosiddetti «uomini dabbene» come
ser Piero da Vinci.
Ma quando, nella seguente primavera del 1507, gli arrivò la notizia della
morte dello zio Francesco, e seppe che i suoi fratelli volevano il magro
bottino di un testamento che nominava invece lui unico erede, amareggiato e
offeso decise di partire per Firenze a far valere le sue ragioni.
Era un’eredità più simbolica che reale. Lo zio Francesco non possedeva che
una casa a Vinci con un po’ di terra intorno, e un podere a Fiesole. «Sto in
villa senza avviamento o esercizio» aveva dichiarato nell’ultima portata al
catasto.
Leonardo lo aveva aiutato spesso, in segreto, mandandogli parte dei suoi
guadagni: e Francesco, morendo, aveva confermato al nipote la sua
predilezione e la sua gratitudine lasciandogli tutto ciò che aveva.
Ma nella famiglia dei Vinci c’era ormai un altro notaio, Giuliano,
secondogenito di ser Piero, cavilloso, intrigante e maneggione, che cercava
tutti i pretesti per infirmare quel testamento o ritardarne l’esecuzione.
Leonardo era arrivato a Firenze in estate, in compagnia del Salaì, e aveva
preso alloggio in casa dell’amico Piero di Braccio Martelli, nell’omonima
strada tra il palazzo dei Medici, in via Larga, e il Battistero.
Era andato subito dal Segretario della Repubblica, ossia dall’amico Niccolò
Machiavelli, per informarlo del suo arrivo e chiedergli consiglio. Poi,
convinto di sbrigarsi alla svelta, aveva chiesto udienza ai magistrati della città,
ad eccezione del Gonfaloniere.
Fu un errore. Lui conferiva con le persone importanti, faceva arrivare alla
Signoria lettere «commendatizie» come quella del cardinale Ippolito d’Este o
del Governatore di Milano, mentre l’astuto ser Giuliano faceva sparire la
«pratica» con la complicità degli uscieri e degli archivisti, che la passavano da
un ufficio all’altro per renderla «irreperibile» ogni volta che veniva richiesta.
È penoso immaginare l’anziano Leonardo su e giù per le scale del palazzo
di Giustizia, a fare un’anticamera dietro l’altra, solo per sentirsi rispondere in
modo vago, elusivo, i soliti «vedremo», «non dubitate»: Leonardo scriveva a
Milano chiedendo nuove e più energiche «raccomandazioni», ma intanto il
Governo dei suoi concittadini faceva orecchio da mercante.
– Leonardo – gli disse un giorno il Machiavelli – tu sbagli a cercare l’aiuto
dei Re, dei Marescialli e dei Cardinali. Sono tutte persone importantissime, ma
lontane. Qui, invece, quel ser Giuliano tuo fratello ha in mano tutti i collitorti
del Bargello. Fai come lui, vai nell’archivio, parla con i minutanti e con i
segretari.
Il Machiavelli conosceva la burocrazia fiorentina; e Leonardo, umilmente,
incominciò a passare da una stanza all’altra, da un ufficio all’altro, ascoltando
con pazienza, dando spago alla piccola boria di un inserviente o di un usciere
che si degnavano di ascoltare, da seduti, il grande Leonardo in piedi davanti
alle loro scartoffie; e la «pratica» gli sfuggiva ogni volta dalle mani all’ultimo
momento, come un topo dagli artigli spuntati di un vecchio gatto.
«Messer Nicolò mio quanto maggiore fratello honoratissimo, andai per
vedere il registro, se sera segnato il nome di mio fratello. Il libro non era lì. Io
fui mandato in molti luoghi avanti ch’io lo trovassi. Ultimamente andai dalla
Signoria del Datario, e gli dissi... che volesse far leggere la supplica. Sua
Signoria mi rispose che era cosa molto difficile...».
Così passarono i mesi, le stagioni. Leonardo cercava di compensare la
quotidiana amarezza parlando di matematica con l’amico Martelli e assistendo
con affettuosa simpatia il giovane scultore Giovan Francesco Rustici che
modellava una statua del Battista – da gettare poi in bronzo – per il Battistero
di Firenze.
Dipingeva due Madonne – probabilmente la Madonna Litta, che è ora a
Leningrado, e la Vergine della Bilancia, che è a Parigi – destinate a Luigi XII, e
riordinava i suoi appunti.
Alle ricerche di Prospettiva e sulle Proporzioni del corpo umano si erano
aggiunte le acute indagini sull’Ottica, gli studi di Anatomia e di Architettura, e
le nuove ricerche sulla Meccanica, l’Idraulica, la Cosmologia, la Termologia e
l’Acustica.
C’era poi una vasta materia «letteraria», le «favole» e le «leggende»,
desunte dai bestiari medioevali o dalla viva tradizione popolare, le «profezie»,
le considerazioni sul mondo quotidiano; c’erano infine i Trattati: quello sulla
Pittura, quello sul Volo degli Uccelli, le numerose indagini sulla meraviglia
dell’universo e sul mistero della vita umana.
I suoi quaderni contenevano la «Summa» dei suoi interessi, che erano
infiniti; lui stesso si accorgeva che mancavano di organicità, e si riprometteva
di riordinarli per materia, in progressione sistematica, per farne un «corpus»
enciclopedico.
– Intanto – diceva a se stesso – l’importante è scrivere, anche a rischio di
ripetere gli stessi concetti; solo più tardi sarà possibile una revisione critica dei
testi.
Era primavera. La «pratica» dormiva in qualche polveroso scaffale.
Leonardo prese un nuovo quaderno e scrisse:
«Cominciato in Firenze, in casa di Piero di Braccio Martelli, addì 22 di
marzo 1508: e questo fia un raccolto sanza ordine, tratto di molte carte le quali
io ho qui copiate, sperando metterle per ordine alli lochi loro, secondo le
materie di che esse tratteranno; e credo che avanti ch’io sia al fine di questo,
io ci avrò a riplicare una medesima cosa più volte; siché, lettore, non mi
biasimare, perché le cose son molte e la memoria non le può riservare, e dire:
questa non voglio scrivere perché dinanzi la scrissi; e s’io non volessi cadere
in tale errore, sarebbe necessario che per ogni caso ch’io ci volessi copiare su,
sicché per non ripricarlo, io avessi sempre a rileggere tutto il passato, e
massime stante co’ lunghi intervalli di tempo allo scrivere da una volta
all’altra».
– Maestro, avete sentito? – disse un giorno il giovane Rustici. – È tornato
Michelangiolo da Bologna. Il Soderini, oltre alla pittura sulla parete della sala
del Consiglio, vuol fargli fare un Ercole da mettersi in piazza accanto al
David.
– Ma a Bologna – aggiunse Piero Martelli – ha dovuto fondere la statua del
Papa in due tempi: lo ha pubblicamente confessato maestro Bernardino, il
fonditore delle nostre artiglierie, che era stato mandato dal Gonfaloniere ad
aiutare Michelangiolo. La prima gettata aveva riempito la forma soltanto a
metà, dai piedi alla cintola.
Leonardo ascoltava in silenzio. Rivedeva il modello del suo cavallo, ormai
rovinato irrimediabilmente; rimpiangeva il tempo perduto, la fusione rimasta
solo un sogno.
– Michelangiolo – seguitava il Martelli – è ancora più intrattabile. Non
parla. Non vuol vedere nessuno. Ne ha fatto quasi una malattia...
«Perdas amicum...»

I L PRIMITIVO FURORE si è spento. Leonardo non ce la fa più a combattere con


un nemico invisibile, senza nome e senza volto. Ha saputo che
Michelangiolo è andato a Roma per dipingere la volta della cappella di papa
Sisto e all’improvviso si accorge di aver perso troppo tempo dietro a un
assurdo litigio.
«Io mando costì Salaì – scrive al Maresciallo di Amboise – per fare
intendere a V.E. come io son quasi al fine del mio litigio co’ miei fratelli, e
come io credo essere costì in questa Pasqua e portare meco due quadri, dove
sono due Nostre Donne di varie grandezze...». «Avrei ben caro sapere –
aggiunge – dove io ho a star per istanza, perché non vorrei dare più noia a
V.S....».
Il Salaì è latore di altre due lettere: una per il Presidente delle acque, l’altra
per il giovane Melzi.
Dopo la donazione del Re, che aveva assegnato alla vigna di Leonardo 12
once d’acqua, c’era stata una protesta da parte dei Magistrati della Camera,
perché l’acqua destinata a Leonardo andava a detrimento del fabbisogno
cittadino e a danno delle entrate del Re. Leonardo, con le prove alla mano,
aveva allora dimostrato che «i bocchelli» del Naviglio non erano regolari e
che l’acqua concessagli non veniva tolta al Re «ma a chi l’ha rubata
allargando abusivamente “le bocche” dei bacini». Una volta regolate queste
bocche per l’irrigazione il flusso dell’acqua sarebbe diventato uguale e
sufficiente per tutti.
«Bon dì messer Francesco – scrive poi, ironicamente, al giovane Melzi –
puollo fare Iddio, che di tante lettere ch’io v’ho scritte, che mai voi non
m’abbiate risposto?».
Leonardo vuol concludere, cerca un accomodamento, si rimette al giudizio
degli amici comuni; ormai, per lui, è solo questione di affetto; lo zio
Francesco non riesce a «far nulla» nemmeno da morto, non può dargli
neanche la vecchia casa che lo vide bambino.
– Datemi ciò che vi pare. Il podere di Fiesole? Sono d’accordo. A patto che
io lo lasci poi a voi? Certo, a chi volete che lo lasci? Alla mia morte sarà
vostro, e non avrete troppo da aspettare perché sono vecchio e potrei essere
padre di voi tutti invece che fratello.
E parte, torna a Milano, dove lo aspettano con ansia gli amici – Carlo
d’Amboise, Francesco Melzi, il pittore Bernardino da Treviglio, il poeta Gian
Giorgio Trissino – e dove c’è ancora da convincere qualche Magistrato della
Camera per l’acqua della vigna.
Ed eccolo di nuovo assorto nei suoi studi preferiti, specialmente quelli sul
mondo delle acque.
Nei suoi appunti confuta Platone ed Epicuro, cita Aristotele ed Archimede,
Vitruvio e Alberto Magno. Ridisegna per intero il Naviglio della Martesana,
sovrintende alla costruzione di una chiusa di scarico nel Naviglio Grande,
progetta nuove macchine idrauliche, riprende gli studi sul volo.
Sono di questo tempo i viaggi in Brianza e in Valsassina, le escursioni nei
boschi della Savoia e sul Cervino, dove osserva «la maggiore tenebrosità del
cielo sereno a grandi altezze», risale i corsi del Ticino e del Po, dell’Adda e
dell’Oglio. A tempo perso dipinge il paesaggio che fa da sfondo a monna Lisa;
spesso, di notte, seziona i cadaveri per completare il Trattato sull’anatomia.
– Maestro, – dice un giorno il SalaÌ – mia sorella si sposa e io vorrei darle
una buona dote.
– Ho capito – rispose sorridendo Leonardo – quanto ti manca?
– Tredici ducati.
– Prendili, sono in quel solito cofanetto – dice Leonardo.
Ma la notte stessa, non appena si mette davanti al tavolo, Leonardo apre il
quaderno e scrive, con amara ironia, una filastrocca nota agli usurai di quel
tempo: Non prestabis, bis! / Si prestabis, non habebis, / Si habebis, non tam
cito, / Si tam cito, non tam bona, / Si tam bona, perdas amicum.
Gian di Paris

I L 1° MAGGIO1509 Luigi XII arrivò a Milano e domandò subito di Leonardo.


– Non c’è – gli rispose il Governatore – è fuori per i lavori della
Martesana, ma lo farò subito cercare.
Qualche giorno dopo, saputo che Leonardo era tornato a Milano, il Re
decise di andare a trovarlo. Il pittore, avvisato all’ultimo istante, fece appena
in tempo a riordinare tutte le sue opere, scegliendo per ciascuna, da sapiente
regista, la giusta collocazione sotto una luce adatta.
Dopo avergli manifestato più volte la sua sincera e profonda ammirazione e
aver minuziosamente osservato le pitture, i disegni e gli studi raccolti nei
famosi «Trattati», il sovrano si accomiatò dicendo:
– Maestro, ho visto le Nostre Donne che avete portato da Firenze. Ve ne
ringrazio, e ho già disposto che la vostra pensione corra anche per il periodo
che avete trascorso nella vostra città. Ora, però, desidero pregarvi di una cosa:
lasciate stare queste faccende d’acqua e dedicatevi alla pittura. Non posso
permettere che un artista come voi perda il tempo dietro ai Navigli di Milano.
Erano col Re anche alcuni signori giunti con lui in Italia, fra cui il conte di
Ligny, il conte Torello e Giovanni di Parigi «peintre, ingénieur et architecte» di
Sua Maestà.
«Gian di Paris» come lo chiamò Leonardo, era figlio del poeta-pittore
Claudio Pérreal e favorito di Luigi XII, come già lo era stato di Carlo VIII e
come lo sarà, più tardi, di Francesco I.
Dipingeva con straordinaria abilità i suoi sovrani in mezzo ai furori
d’immaginarie battaglie ed era esperto in architettura e in arte militare.
Con Leonardo familiarizzò subito; avevano in comune molti interessi, sia
d’arte che di scienza.
«La misura del sole promessami da maestro Giovanni francese», scriveva
Leonardo, forse alludendo a un sistema per misurare la grandezza reale
dell’astro; «impara da Gian di Paris il modo di colorire a secco».
Umiltà di Leonardo, e inconfondibile segno della sua grandezza! Rivolto a
se stesso, scriveva spesso «impara», «fatti insegnare da», «fatti spiegare»,
senza riguardo alle rispettive posizioni sociali, all’età o alla fama.
E non si trattava, in questo caso, della «quadratura del circulo» o di qualche
legge matematica da chiedere al grande Luca Pacioli: l’autore di un «Trattato
sulla pittura», il più grande innovatore del Rinascimento aveva qualcosa di
nuovo da imparare – «il modo di colorire a secco» – e chiedeva di esserne
istruito.
«Léonard, qui a grâces supernes...» scrisse un poeta favorito da Gian di
Paris, in un poema in lode del suo protettore.
Fu forse in questo periodo, e in conseguenza dei suoi colloqui con gli amici
Ligny e Giovanni da Parigi, che Leonardo incominciò il «Bacco»: i due
francesi, infatti, gli avevano fatto capire che il re di Francia desiderava
qualche quadro di soggetto pagano, dopo tante Nostre Donne.
L’opera di Leonardo, oggi, è al Louvre, e rappresenta un giovane efebo
dalle forme bellissime, con le gambe incrociate, appoggiato a una roccia
coperta di piante selvatiche; con la mano sinistra addita un lontano orizzonte:
il volto ha un sorriso ambiguo, leggermente «ebbro»; lo sfondo è selvaggio,
con due cervi e un albero che slancia nel cielo il suo tronco flessibile.
Per Leonardo quel Bacco era un ritorno alla natura, una sintesi di molteplici
osservazioni e di segrete scoperte.
«La natura è piena d’infinite ragioni, che non furono mai in esperienza»
scrisse nel taccuino.
Anche il conte di Ligny, valoroso condottiero e rivale del Trivulzio, si
recava spesso nello studio di Leonardo. Anzi, essi progettarono una visita a
Roma e a Napoli, poiché l’artista ne scrisse in gran segreto la notizia nel suo
quaderno, capovolgendo i nomi per difenderla da qualunque occhio
indiscreto.
«Truova Ingil e dilli che tu lo aspetti a Morra e che tu andrai con seco i’
lopanna».
Infatti, leggendo i nomi da destra a sinistra, «Ingil» vuol dire «Ligny» «a
Morra» significa «a Rroma» e «i’ lopanna» è «a nnapoli».
Più che di un viaggio, si trattava di un appuntamento; ma il progetto non si
realizzò, Leonardo restò a Milano e il conte di Ligny seguÌ il suo re.
Luci ed ombre

N ON CONTENTO DI studiare l’acqua terrestre, il moto degli oceani, le onde del


mare e dei fiumi, il mago si mise a studiare anche l’acqua extraterrestre,
ossia della luna.
Notti e notti alla finestra, ad osservare le parti più chiare e più scure del
nostro satellite, per dedurne l’esistenza di parti solide più opache e di parti
liquide più luminose.
Peccato non avere avuto una lente d’ingrandimento, il cannocchiale di
Galileo!
Leonardo disegnava le fasi della luna – le lunule – crescenti e calanti, per
analizzare poi l’«astro notturno quando, durante il plenilunio, si manifestava
per intero.
«Risposta a maestro Andrea da Imola, che nega al tutto la parte luminosa
della luna essere di natura di specchio...». «... Tutte le contraddizioni
dell’avversario a dir che nella luna non è acqua».
E l’avversario, questa volta, aveva ragione.
Leonardo, dalla lucentezza delle zone più chiare, aveva pensato a uno
«specchio» dei raggi solari, possibile solo mediante superfici liquide; il suo
interlocutore sosteneva invece la tesi opposta, ossia l’assoluta mancanza
d’acqua sul satellite del nostro pianeta.
La discussione si allargava tra gli amici scienziati e pittori: vi partecipavano
Cristoforo Solari e Andrea da Fusina, il Trissino e l’anatomista Marc’Antonio
Della Torre.
– Lasciate perdere, maestro Leonardo; finché non avremo una vista più
acuta, od occhiali adatti a guardare lontano, nessuno di noi potrà affermare
con sicurezza se ci sia o no l’acqua sulla Luna. Continuate piuttosto la vostra
Anatomia e disponete di me per ogni occorrenza.
Il Della Torre, veronese, era il più grande anatomista dell’epoca: conosceva
l’opera dei greci e degli arabi, ed aveva offerto la sua collaborazione a
Leonardo per la stesura di un trattato organico sull’anatomia dell’uomo.
«E cosÌ – scriveva l’artista dopo i suoi eccitanti colloqui con l’amico
scienziato e medico – darai la vera notizia della figura umana, la quale è
impossibile, che gli antichi e moderni scrittori ne potessero mai dare vera
notizia, senza una immensa e tediosa e confusa lunghezza di scrittura e di
tempo; ma, per questo brevissimo modo di figurarla per diversi aspetti, se ne
darà piena e vera notizia. E acciò che tal benefizio ch’io do agli uomini non
vada perduto, io insegno il modo di ristamparlo con ordine».
Ma l’amicizia col Della Torre fu tragicamente interrotta. Il medico era
accorso a Riva del Garda per curare quella popolazione colpita dalla peste:
morÌ anche lui, nel 1511, a soli trent’anni.
Nello stesso anno moriva a Milano il giovane maresciallo Carlo d’Amboise,
duca di Chaumont e gran protettore di Leonardo.
Al suo posto fu nominato comandante militare il giovane condottiero
Gastone de Foix, cugino del re, sotto il controllo del vecchio Gian Giacomo
Trivulzio, al quale Leonardo avrebbe dovuto fare un monumento equestre:
ancora un cavallo, da modellare e fondere lÌ in Milano, senza limiti di
dimensioni e di spesa – una grossa tentazione.
Ma il vecchio e bellicoso papa Giulio II aveva deciso di porre fine alla
fragile pace d’Italia, e per cacciare i francesi dalla Lombardia aveva fatto una
«Lega Santa» con la Spagna, l’Inghilterra e Venezia, favorendo al tempo
stesso le incursioni degli Svizzeri nei territori di Milano.
Il giorno di Pasqua del 1512, vicino a Ravenna, avvenne il terribile scontro
fra gli alleati del pontefice, al comando del viceré Raimondo di Cardona, e
l’esercito francese.
Il giovane cardinale Giovanni de’ Medici, legato pontificio, assisteva al
truce spettacolo in abiti sacerdotali, sopra un cavallo bianco, come al tempo
del Carroccio.
I francesi vinsero la battaglia e catturarono il cardinale, ma pagarono la
vittoria a caro prezzo: l’eroico Gastone de Foix, infatti, era morto sul campo di
battaglia.
Giulio II, sconfitto, ma non vinto, chiamò allora in aiuto il cardinale Matteo
Schiner, vescovo di Sion, alla testa di 20.000 svizzeri, facendo muovere, al
tempo stesso, i rinforzi del Cardona dall’Emilia e quelli di Venezia dal Veneto.
Il Trivulzio decise allora di ritirarsi oltre i confini, ordinando alla città di
Milano di arrendersi per evitare un inutile e feroce saccheggio.
A un guado sul Po il cardinale de’ Medici fu liberato da un gruppo di
contadini che lo tolsero di mano ai soldati di scorta.
Dopo Natale, Massimiliano Sforza, secondogenito di Lodovico il Moro,
entrò solennemente in Milano da porta Ticinese, scortato dal Cardona. Gli
svizzeri furono ricompensati con la cessione di Bellinzona, Lugano, Locarno,
Chiavenna e Chiasso; per gli alleati vincitori, incominciarono in Milano
grandiosi festeggiamenti.
Ma i pranzi e i tornei furono interrotti dalla notizia della morte di Giulio II,
avvenuta il 21 di gennaio 1513. Col fiato sospeso si attese fino a marzo,
quando la fumata bianca annunciò l’elezione al soglio pontificio del
«cardinalino» Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, col nome di
Leone X.
Il cappone «imbriacato»

«D della gallina essendodi luiBiagio


OMANDA ALLA MOGLIE Crivelli come il cappone alleva e cova l’ova
imbriacato».
Mentre in Italia si scontravano le armate di Francia e di Spagna, e Milano
correva ogni giorno il rischio d’essere invasa e saccheggiata dagli svizzeri e
dai veneziani, Leonardo prendeva nel suo quaderno questi strani appunti.
I casi erano due: o si trattava di una suprema indifferenza o di un’infantile
incoscienza.
L’una e l’altra, forse; e in più l’impossibilità materiale, per un artista e
scienziato, di avere una parte qualunque nel dramma, o nella tragedia, di quel
tempo.
Il Re gli aveva chiesto esplicitamente di non confondersi dietro alle
invenzioni, ma di dipingere; eppure, fra quelle invenzioni, c’erano nientemeno
che le bombe a frammentazione – il moderno shrapnel –, c’erano le
mitragliatrici e i carri armati!
Allora, ignorato dai «generali», Leonardo s’interessava delle uova di
gallina, e del modo di farle covare anche dai capponi dopo averli nutriti con
un pastone imbevuto di vino.
Assisté cosÌ – dalla finestra – alla ritirata dei francesi e al ritorno dello
Sforza. Il nuovo Governo non lo punÌ come «collaboratore del nemico», ma
lo ignorò.
Leonardo si allontanò dalla città, rifugiandosi a Vaprio, in casa del giovane
Melzi. Un soffio gelido paralizzava tutta l’Italia ormai preda dell’avidità
straniera.
Nella solitudine della campagna Leonardo riordinava le sue carte e scriveva
amare considerazioni sulla fragilità della natura umana.
Le notizie arrivavano di rado, da Milano o da Roma, portate da qualche
viandante o dai soldati di passaggio.
Ma quando fu eletto papa Medici i fuochi di giubilo illuminarono anche la
Lombardia, la notizia corse in un baleno per tutta l’Europa.
– Maestro, che pensate di fare? – chiese un giorno il Melzi.
– Aspettiamo ancora qualche notizia.
Ma le notizie non arrivavano, e non erano nemmeno necessarie. Una sola
bastava; al posto di un papa guerriero c’era il figlio di Lorenzo il Magnifico; al
vento freddo della decadenza seguiva una grande schiarita e la speranza di una
rinascita.
Chi prima chi dopo gli artisti più noti andavano a Roma, e quelli che
c’erano di già chiamavano gli amici ancora lontani: Giuliano e Antonio da
Sangallo, il Bramante, Raffaello, Sebastiano del Piombo, Fra Bartolommeo,
Luca Signorelli, Andrea Solari, il Trissino, il Sodoma, il Caradosso;
un’adunata senza precedenti nella storia, a cui si aggiungevano Michelangiolo,
il Sansovino, il Rustici, Filippino Lippi e Andrea del Sarto.
Nessuno disse a Leonardo di partire, né che tanti altri lo avevano già
preceduto; ma lui stesso avvertÌ la necessità di rompere quella solitudine – che
ormai, dopo la partenza dei francesi, era diventata abbandono – e riaccese le
sue speranze nel ricordo e nel nome dei Medici.
Intanto, da Vaprio, era tornato a Milano. Aveva riordinato con calma tutte le
sue cose, facendo l’elenco di ciò che lasciava e di ciò che avrebbe portato con
sé. Trascrisse perfino i titoli di tutti i suoi libri. E una mattina d’autunno, con
le prime nebbie, si mise in viaggio.
«Partii da Milano per Roma addÌ 24 di settembre 1513 con Giovan
Francesco de’ Melzi, SalaÌ, Lorenzo e il Fanfoia».
La fiera degli uccelli

L A COMITIVA USCÌ dalla porta di San Pier Gattolino – oggi sostituita dalla
porta Romana – avviandosi allegramente, su per la rampa di San Gaggio,
verso la Certosa. Era la fine d’ottobre, una mattina limpida e fresca, i campi
erano rossi di pampini dopo la recente vendemmia. Il SalaÌ precedeva di
qualche lunghezza, seguito dal Maestro con al suo fianco Francesco Melzi;
quindi, come una retroguardia, venivano Lorenzo, addetto ai cavalli e ai
bagagli, e il Fanfoia con le mansioni di maestro di casa.
Da Milano a Firenze essi avevan percorso lunghe tappe con brevi soste,
perché Leonardo aveva da sbrigare alcune faccende nella sua città, e
soprattutto da ricercare alcuni amici dopo i recenti sconvolgimenti.
Piero Soderini, infatti, era fuggito «mezzomorto» da Palazzo, di notte,
«facendo vista di volere andare alla volta di Roma» per rifugiarsi, invece,
nella più sicura e lontana Ragusa.
Sotto la minaccia delle armate di Raimondo Cardona, accampate fuor di
porta a San Frediano, e soprattutto davanti alla tragica evidenza di un «sacco»
come quello di Prato, dove in poche ore c’erano stati più di 5000 morti, i
fiorentini avevano vissuto momenti angosciosi. Nella città atterrita, allora, era
risuonato un grido più di disperazione che di speranza: – Palle! Palle! –
perché il cardinalino Giovanni de’ Medici e suo fratello Giuliano erano con gli
assedianti e avrebbero potuto risparmiare alla loro città stragi e saccheggi.
CosÌ, dopo diciotto anni di esilio, i Medici erano rientrati nel palazzo di via
Larga: Giovanni, il cardinale, aveva 36 anni, Giuliano 33. Il loro ritorno era
stato salutato come una salvezza, perché significava la fine dell’assedio:
nessuna opposizione da parte della città, nessuna vendetta da parte dei Medici.
Senonché gli antichi ordinamenti repubblicani e gli statuti del Savonarola
erano stati immediatamente soppressi; sciolto il Consiglio Maggiore, si era
tornati a quello dei Cento costituito da gente fidata e sicura. Il Machiavelli era
stato confermato Segretario dei Dieci di Balia – ossia del Governo – ma poco
tempo dopo, coinvolto indebitamente nella sciocca congiura di due giovani
esaltati, era stato deposto, torturato ed esiliato.
– È nel suo poderetto in Sant’Andrea in Percussina – precisava Piero
Martelli a Leonardo, dopo avergli raccontato, per sommi capi, le drammatiche
vicende della città.
– ... E Giuliano de’ Medici aveva cercato subito di imitare suo padre; anche
lui era amico degli artisti, colto, di buon carattere. Aveva incominciato col
tagliarsi la barba, in omaggio alle istituzioni repubblicane, e a indossare il
vecchio lucco repubblicano. Ora, col fratello papa, è a Roma anche lui.
Ma bisognava vedere Firenze quella notte che arrivò la notizia della fumata
bianca! Fuochi dappertutto, «scoppietti e mortaretti»; e quel che non veniva
giù dalle finestre del palazzo de’ Medici! Denari a sacchi e «berrette, cappelli,
cappe, lucchi e altri vestiti del magnifico Giuliano che fu una cosa stupenda».
– Oggi – concluse Piero Martelli – ci governa Lorenzo, figlio di Piero,
assistito dallo zio Giulio, arcivescovo di Firenze.
Passando davanti al chiostro di Santa Maria Novella Leonardo si ricordò di
avere ancora la chiave della sala del Papa. AprÌ, non senza commozione, ed
entrò: e con sorpresa vide che i suoi cartoni erano stati riportati lÌ, come in un
luogo più appartato e sicuro: li esaminò a lungo, in silenzio, per l’ultima volta.
Infatti, pochi anni dopo, non esistevano più: tagliuzzati e rubati, come quelli
di Michelangiolo, per eccesso d’amore, dopo essere stati, come scrisse più
tardi il Cellini «la scuola del mondo».
Versati 300 fiorini d’oro sul banco dell’Ospedale di Santa Maria Nuova,
Leonardo riprese il cammino per Roma. Senza fretta, questa volta.
Il tempo era splendido, e Piero Martelli aveva scritto una lettera al suo
amico Giuliano de’ Medici per annunciargli l’arrivo dell’artista.
La comitiva era arrivata ai Falciani e aveva già incominciato a salire per il
bosco di Sant’Andrea, quando Leonardo si ricordò che quelle erano le terre
del suo sfortunato amico Machiavelli.
In cima alla salita, appunto, c’era la casa semplice ed austera dell’ex
Segretario della Repubblica fiorentina e i cinque viaggiatori si fermarono.
– Sto qua, caro Leonardo, a sentire l’odore di Firenze che mi arriva coi
cavallari, coi corrieri di passaggio o con gli amici come te. Mi occupo del
bosco e della vigna, mi rodo il fegato con questi villici che cercano di
derubarmi anche quando si gioca a carte; poi, la notte, rivesto i miei abiti
curiali, e con i miei fantasmi vivo di nuovo nelle corti, parlo coi grandi, li
interrogo e li ascolto, ed ecco qua – il Machiavelli mostrò un pacco di fogli
già scritti – il resultato di questi colloqui.
I due amici desinarono insieme: Leonardo raccontò a Niccolò le ultime
vicende di Milano, il fiacco ritorno dello Sforza accolto dall’indifferenza del
popolo, la prima festa nel Castello trasformatasi in un vero e proprio
saccheggio da parte degli spagnoli; infatti, nel vedere tanti gioielli cuciti sugli
abiti dei gentiluomini e delle dame di corte, gli ufficiali del Cardona, sfoderati
i pugnali, si eran messi a tagliare i panni addosso a tutti gli ospiti del Duca,
uomini e donne.
Era quasi sera quando Leonardo arrivò a Barberino Val d’Elsa dove decise
di pernottare.
La mattina seguente, di buon’ora, la comitiva era già pronta per ripartire,
quando Leonardo vide sulla piazza una quantità di gabbie e di ceste piene
d’uccelli, messe bene in mostra da un venditore ambulante.
Si avvicinò: c’erano passerotti, fringuelli, tordi, lucherini, pettirossi,
capinere, merli, scriccioli, e altri volatili come tortore, colombi, upupe,
barbagianni, civette...
– Quanto vuoi? – chiese Leonardo.
– Di che?
– Di tutto.
– Di tutti questi uccelli? – domandò incredulo l’uccellaio.
– Tieni – disse Leonardo mettendogli in mano una borsa piena di monete.
Quindi, ad una ad una, aprÌ le gabbie, introducendovi delicatamente la mano,
e presi gli uccelli «li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà»,
come precisò, stupefatto, il Vasari. E al giovane Francesco Melzi, che
guardava meravigliato il Maestro, il SalaÌ, scuotendo la testa, disse: – Non c’è
nulla da fare. È sempre cosÌ, tutte le volte che vede qualche uccello chiuso in
gabbia.
Il magnifico Giuliano

P ER FARCI UN’IDEA della città di Roma nel Rinascimento dobbiamo


dimenticare l’urbe imperiale, coi suoi sei milioni di abitanti, o l’attuale e
caotica capitale d’Italia.
Agli inizi del XVI secolo Roma era una città piccola e tumultuosa, povera e
corrotta, senza commercio ma fitta d’oscuri traffici.
Una popolazione di circa centomila abitanti gravitava tutta intorno alla corte
papale. Tre o quattro grandi strade l’attraversavano per lungo e per largo,
fiancheggiate da palazzi meravigliosi; il resto era un intrico di vicoli sporchi e
maleodoranti, interrotto da vaste «zone morte» dove le «anticaglie» di marmo
giacevano tra l’erbaccia.
Il fasto sontuoso della corte pontificia alimentava un sottobosco di
fornitori, di servi, di procacciatori, di trafficanti, di prostitute e di artisti.
Giuliano de’ Medici, nominato Gonfaloniere della Santa Chiesa, accolse
Leonardo «a braccia aperte» perché troppo ne aveva udito parlare senza aver
mai avuto la possibilità di incontrarlo. Gli assegnò un alloggio nel Forte di
Belvedere, costituito da uno studio e da più stanze per i suoi familiari, e subito
volle «allogargli» due pitture, una Leda e il ritratto di una «certa donna
fiorentina» che aveva seguito a Roma il Magnifico fratello di Sua Santità.
Leonardo e Giuliano s’intesero subito; il loro incontro parve ad entrambi un
«ritrovarsi», un «riconoscersi», come due vecchi amici che si rivedano dopo
lunghissimo tempo, e riscoprano, l’uno nell’altro, gli stessi interessi, lo stesso
amore per la «natura speculativa», la stessa rassomiglianza nel pensare e nel
sentire.
Anche Giuliano, come Lorenzo il Magnifico suo padre, poteva vantarsi
d’essere amico e protettore di molti artisti in Firenze ed in Roma; ma
l’improvvisa amicizia tra lui e Leonardo non nacque solo nel segno della
pittura, ma anche, e soprattutto, dal comune amore per la matematica e la
meccanica; «attendevano insieme – precisa ancora il Vasari – a cose
filosofiche e massimamente all’alchimia».
La protezione di Giuliano dette a Leonardo nuova sicurezza e nuovo
impulso a tutti i suoi interessi. Oltre alla pittura egli si dedicò alla preparazione
di una «misteriosa apparecchiatura» che tutti, all’infuori di Giuliano,
dovevano ignorare, e per la quale ottenne la collaborazione di due lavoranti
tedeschi specializzati nella fabbricazione degli specchi.
Seguitò quindi i suoi studi di geologia, effettuando diverse ricognizioni
nella campagna romana – «fatti insegnare dove son li nicchi a Monte Mario» –
senza trascurare le ricerche archeologiche che, specie in quegli anni, erano
diventate una passione contagiosa; non c’era artigiano né artista che non
avesse la sua vigna o un campicello da setacciare in cerca di Laocoonti o di
Apolli.
Le esperienze sul volo presero un nuovo indirizzo: dai grandi modelli,
Leonardo passò ai modellini minuscoli. Infatti egli sperimentava il volo
planato e l’incurvatura delle ali costruendo, con un velo di cera, forme di
uccelli in miniatura; e ci prese tanto gusto che si divertiva anche a fare altri
strani animali per lanciarli nell’aria, e farli portare dal vento a impaurire la
gente.
«Formando una pasta di cera – conferma il biografo – mentre che
camminava, faceva animali sottilissimi pieni di vento, nei quali soffiando, gli
faceva volare per l’aria...».
Leonardo ritrovò a Roma due vecchie conoscenze: il Bramante, ormai
carico d’anni e di onori, e Raffaello, il beniamino del papa, che affrescava le
stanze della Segnatura e teneva corte come un principe.
In testa ad un gruppo di cavalieri, tutti giovani ed elegantissimi, passava un
giorno Raffaello vicino al Belvedere, proprio mentre Leonardo usciva a piedi
per fare una passeggiata.
Subito, appena lo vide, Raffaello scese da cavallo e corse incontro a
Leonardo.
– Maestro – disse inchinandosi – vi chiedo scusa se non sono ancora
venuto a trovarvi.
Leonardo lo guardò benevolmente negli occhi, che non erano più gli stessi:
c’era una fretta, un’ansia di far presto, una paura sconosciuta.
– Lo so – rispose. – Hai le Stanze del Papa da dipingere, e so anche che stai
facendo cose belle. Verrò io a vederti.
Intanto tutti gli allievi di Raffaello, con Giulio Romano in testa, si erano
avvicinati, e Raffaello disse:
– Amici, non dimenticate questo giorno! Oggi avete visto Leonardo.
Le burle e le beffe
che bel ramarro – disse un mattino il vignaiolo di
–G Belvedere a Leonardo
UARDATE UN PO’
che passeggiava nel campo. – È cosÌ grosso e
lungo che non me la son sentita di ammazzarlo; l’ho messo qui sotto –
aggiunse sollevando appena un vaso e tirando fuori un ramarro verdissimo
dalla gola azzurra – per farvelo vedere.
Leonardo prese in mano l’animale.
– Me ne potresti procurare qualche altro?
– Certo, Maestro. Vivo o morto?
– Non ha importanza. Anche morto.
E col suo ramarro vivo, e una stramba idea nella testa, Leonardo tornò nel
suo studio.
«... Fermò in un ramarro – scrive il Vasari – trovato dal vignarolo di
Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie d’altri ramarri scorticati, ali
addosso, con mistura di argenti vivi, che nel muoversi, quando camminava,
tremavano; e fattogli gli occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in
una scatola, tutti gli amici a’ quali lo mostrava per paura faceva fuggire...».
Questo è il Leonardo delle «facezie» e delle beffe, un artista che non ha
perso l’umor bizzarro della sua terra; è il concittadino di Bruno e
Buffalmacco, lettore e ammiratore delle salate facezie di Poggio Bracciolini.
Michelangiolo, chiuso nella sua casa al Macel de’ Corvi, scolpiva in quel
tempo i prigioni per la tomba del papa Della Rovere e dipingeva in capo alle
scale di casa sua uno scheletro, con una bara sotto il braccio, per aver sempre
presente, non solo nel pensiero ma anche davanti agli occhi, il terribile
memento mori del Savonarola.
Leonardo, con una scatola sotto il braccio, nella quale stava il suo ramarro
addomesticato e trasformato in drago, passeggiava per le strade in cerca di
amici, per farsi chiedere: – Che cos’hai lÌ dentro? – e poter alzare il coperchio:
subito il drago, con un balzo, gli montava sulla spalla, agitava le ali, la cresta,
la barba, il mercurio scintillava tra le scaglie e intorno agli occhi, mentre gli
amici scappavano, inseguiti dalla risata soddisfatta e beffarda del mago.
Come aveva perso tanto tempo a dipingere la «rotella», ora perdeva i giorni
a rifare l’acconciatura del suo ramarro, escogitando nuovi effetti di colore,
inventando nuovi e paradossali accessori.
E per quando era in casa, aveva trovato un’altra burla per i visitatori: «...
Usava spesso – racconta ancora il Vasari – far disgrassare minutamente le
budella d’un castrato, e talmente venir sottili, che si sarebbero tenute in palma
di mano; e aveva messo, in un’altra stanza, un paio di mantici da fabbro, i
quali metteva a un capo delle dette budella, e gonfiandole ne riempiva la
stanza, la quale era grandissima, dove bisognava che si recasse in un canto chi
v’era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento dal tenere poco luogo in
principio esser venute a occupare molto, agguagliandole alla virtù».
Un paio di mantici installati appositamente, con la bocca dell’aria attaccata
alla parete; un garzone o due adibiti ad azionarli, e tutto questo per
impressionare un amico, o Giorgio tedesco «degli specchi», o un artista
fiorentino in visita, e per concludere con una similitudine d’ordine morale,
con un richiamo alla virtù, che cresce inverosimilmente, quando è bene usata.
Anche questo è Leonardo: e possiamo immaginare il suo sorriso concilante,
dopo questi scherzi, la premura affettuosa nel mostrare che il drago è solo un
ramarro, l’ironia bonaria verso l’ospite amico.
Ma Giorgio tedesco, per esempio, non ammetteva scherzi: era stato
assegnato a Leonardo dal Magnifico Giuliano, ma l’artista, insegnandogli il
disegno e la lingua italiana, spendeva male il tempo e l’affetto: infatti, in
combutta con un suo conterraneo, un certo Giovanni, detto anche «degli
specchi» perché li produceva in serie per tutte le prostitute di Roma, aveva
deciso di mandar via Leonardo dal Belvedere, e tutti i mezzi eran buoni per
dargli fastidio.
Più volte il SalaÌ era venuto alle mani con quei due energumeni che
avevano l’abitudine di ubriacarsi insieme agli svizzeri della guardia papale e di
andare in giro armati di archibugi per sparare ai piccioni, alle rondini e alle
tortore dei cortili pontifici.
Le stanze di Leonardo avevano fatto gola a quel Giovanni tedesco, che le
aveva occupate di forza per ampliare la sua fabbrica di specchi, sicché ogni
giorno era un via vai di acquirenti che non avevan riguardo nemmeno per lo
studio privato dell’artista. Messo cosÌ alle strette, Leonardo scrisse al duca
Giuliano una lunga e violenta protesta contro i due intrusi, chiedendo il loro
allontanamento.
«Sonmi accertato – scriveva – ch’esso lavora a tutti, e che fa bottega per il
popolo, per la qual cosa io non voglio che lavori per me a provvigione... Ho
trovato – aggiungeva – come questo maestro Giovanni dagli specchi è quello
che ha fatto il tutto per due cagioni: la prima, perché lui ha avuto a dire che la
venuta mia qui gli ha tolto la conversazione e il favore di Vostra Signoria,
l’altra perché la stanza di questo maestro Giorgio disse convenirsi a lui per
lavorare gli specchi...».
Giuliano de’ Medici intervenne. Intimò ai tedeschi di non disturbare
Leonardo, pena l’allontanamento immediato non solo dal Belvedere, ma da
Roma; e Giovanni degli specchi obbedÌ, giurando in cuor suo di vendicarsi.
Infatti chiese udienza al papa e denunciò pubblicamente Leonardo di pratiche
magiche e negromantiche, oltre a sezionare i cadaveri con la complicità del
direttore dell’Ospedale.
Il papa, essendone informato alla presenza di tutta la corte, non poté
ignorare l’accusa e ordinò che fosse immediatamente vietato a Leonardo
l’accesso all’ospedale di Santo Spirito.
«Mi ha impedito l’anatomia – annotò l’artista nel suo quaderno – col Papa
biasimandola e cosÌ all’Ospedale».
Leonardo non poteva immaginare che, pochi anni dopo, per gli stessi capi
d’accusa, era aperta la prigione, pronta la tortura, acceso il rogo.
Il divieto del papa, insomma, si ridusse a una semplice formalità.
– Leonardo – disse Leone X quando il pittore gli s’inginocchiò davanti – se
tu la smettessi con questi cadaveri e riprendessi in mano i pennelli, non
sarebbe meglio per te e per tutti noi?
Leonardo, infatti, aveva appena finito una «Donna col figliolo in braccio» e
il papa, che l’aveva avuta in dono dal fratello Giuliano, non si saziava di
ammirarla.
– Sono al servizio di Vostra Santità – rispose l’artista.
– Bene. Allora vai a dare un’occhiata alla parete dietro l’altare in
Sant’Onofrio sul Gianicolo e vedi che cosa ci puoi dipingere.
Qualche mese dopo, il papa chiese a che punto fosse Leonardo con quella
pittura.
– Santo Padre – gli risposero – il maestro Leonardo non ha ancora
cominciato a dipingere, ma sta distillando olii ed erbe speciali per la vernice
che poi dovrà proteggere la pittura...
– «Ohimè! – esclamò Leone X – costui non è per far nulla, da che comincia
a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera!»
Invece, come asseriscono alcuni autorevoli studiosi fra i quali il Solmi, la
pittura murale fu portata a termine e presto. Era una Madonna con il Bambino
che teneva la mano su di un guanciale. La Vergine, sorridente, guardava il
figlio che sollevava la piccola mano destra a benedire. Le mani della Madonna
– l’una posata e l’altra leggermente sollevata, – mostravano la vigile
trepidazione materna a che il bambino non cadesse.
Di certo, comunque, Leonardo non si fermò agli alambicchi per distillare la
vernice: alcuni disegni conservati nel museo di Windsor, raffiguranti un putto
in vari atteggiamenti, sopra un cuscino e in braccio alla madre, sono
sicuramente studi per l’affresco di Sant’Onofrio.
E Leone X, è da crederlo, davanti a quella pittura, avrà esclamato
soddisfatto, volgendosi al seguito:
– Che ve ne pare, figli miei?
Marignano

«I M e mi disfeciono»: sarà forse di questo periodo l’amara


EDICI MI FECIONO
riflessione di Leonardo?
Certo è che l’artista non trovò «spazio» nella Roma di Leone X, come,
d’altronde, non lo trovò nemmeno Michelangiolo: il papa non aveva occhi
che per Raffaello, e nei confronti di Leonardo provava un’istintiva soggezione
che si traduceva in naturale antipatia.
Il favore del duca di Nemours, ossia di Giuliano de’ Medici, nominato
Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa dal fratello pontefice, riusciva solo in
parte a mitigare l’amarezza dell’artista, che si considerava ingiustamente
ignorato, o incompreso, non tanto come pittore quanto, e specialmente, come
ricercatore e uomo di scienza.
Baldassarre Castiglione scriveva: «... un altro dei primi pittori del mondo
sprezza quell’arte dov’è rarissimo, èssi posto a imparar filosofia nella quale ha
cosÌ strani concetti e nuove chimere che esso con tutta la sua pittura non
sapria dipingerle»; e questa nuova filosofia costituiva un rigido diaframma fra
lui e l’ambiente in cui viveva.
Anche Leone X, come il suo predecessore, «aveva fretta», e si circondava
di persone capaci di realizzare i meravigliosi progetti con cui si proponeva di
trasformare il volto di Roma e del mondo. «Bellezza e dinamismo» poteva
essere il suo motto; e fatalmente Leonardo, con le sue perplessità e la
proverbiale lentezza, veniva ad esser tagliato fuori non solo dall’ambiente di
corte, ma anche da quello artistico. Difatti egli fu il solo a non farsi prendere
dalla febbre dell’«anticaglia», il solo a non chiedere pareti da affrescare nelle
stanze o nelle cappelle del papa, mentre accettò con entusiasmo l’incarico di
studiare un progetto per la bonifica delle paludi Pontine.
Il papa, infatti, aveva deciso di bonificare quelle paludi e aveva affidato al
fratello Giuliano – con un Breve del dicembre 1514 – il compito di
prosciugare pigram paludem pontinam.
L’ «idraulico» Leonardo si ritrovò cosÌ nel suo elemento: aveva già
bonificato gli acquitrini di Vigevano per Lodovico il Moro, aveva tracciato il
piano di bonifica della Val di Chiana per la Repubblica di Firenze; ora non
chiedeva di meglio che mettere al servizio del suo protettore il frutto della sua
lunga esperienza.
La testimonianza di questo impegno è in una bella mappa delle paludi
Pontine conservata tra i manoscritti di Windsor in cui si vede dall’alto, come
in una ricognizione aerea, tutta la distesa dell’acqua dalle falde dei Lepini fino
al Circeo.
Ma neanche un mese dopo, il 9 gennaio 1515, «in su l’aurora partÌ Giuliano
de’ Medici da Roma per andare a sposare la moglie in Savoia».
Giuliano, in verità, non ci teneva per nulla a questo matrimonio, voluto
invece dal fratello pontefice; ma ligio alla ragion di stato era partito per Torino
con un seguito di cortigiani e di amici.
Probabilmente Leonardo accompagnò il suo mecenate e protettore,
ritornando a Roma con lui e con la nobilissima Filiberta, che era anche la
prima donna di una casata regnante che entrava nella famiglia dei Medici.
Ma anche il sereno soggiorno romano volgeva ormai alla fine. In Francia
era morto Luigi XII, e Francesco I, suo successore, scalpitava in attesa di
precipitarsi sulla Lombardia per scacciare lo Sforza e gli svizzeri da Milano.
Le notizie arrivavano frammentarie, ma sempre più allarmanti. Giuliano,
comandante delle forze della Chiesa, stava per muovere verso Parma e
Piacenza, a difesa dei territori pontifici.
Anche questa volta Leonardo seguÌ il suo protettore; ma, a differenza del
viaggio nuziale, questa volta portò con sé tutte le sue «masserizie» quasi
obbedendo ad un oscuro presentimento.
Giunto a Firenze, Giuliano si ammalò gravemente: anzi, per l’esattezza, la
sua tubercolosi ereditaria esplose ad un tratto con estrema gravità, per cui fu
costretto a restare nel palazzo di via Larga cedendo il comando al nipote
Lorenzo, duca d’Urbino e figlio di Piero il fatuo.
E anche Leonardo andò al seguito di Lorenzo, attraverso l’Appennino, fino
a Piacenza.
Intanto Francesco I, invece di fare la solita via del Monginevro che
sboccava a Susa, aveva attraversato la Alpi Cozie e con una brillante manovra
aveva conquistato Villafranca sorprendendo Prospero Colonna, capo delle
milizie sforzesche, e catturandolo mentre era a tavola con i suoi capitani.
Poi s’impadronÌ di Novara e di Pavia, occupò Magenta e Corbetta e si
accampò a Melegnano.
Il 13 settembre, avvolto nel mantello di porpora e preceduto dalla croce di
legato pontificio, il cardinale svizzero Schiner, che si era attestato a
Marignano, dette il segnale della battaglia cavalcando alla testa di seimila
cavalleggeri.
Lo scontro fu sanguinoso ed incerto fino all’ultimo; rullarono i tamburi per
un giorno e una notte, ma alla sera del dÌ seguente il combattimento «non di
uomini ma di giganti» si concluse in favore dei francesi, per merito della loro
mobilissima artiglieria e per l’abilità strategica di Gian Giacomo Trivulzio.
Gli svizzeri, sconfitti, si ritirarono in ordine perfetto verso Milano,
trasportando tutti i feriti e i carriaggi. La catastrofe di Marignano scosse il
papa, che si affrettò a chiedere un incontro al sovrano di Francia.
Leonardo era a Piacenza con le truppe papali: ebbe l’ordine di raggiungere
il pontefice a Bologna, perché Leone X voleva presentarsi al re di Francia con
la sua corte al completo, incluso gli artisti di «fama» come Raffaello e
Leonardo.
Francesco I

I L MAGNIFICO GIULIANO stava morendo. Il papa entrò in Firenze parata a festa


– tutti gli artisti erano stati mobilitati per abbellire la città – e dopo le
cerimonie ufficiali accorse subito nel palazzo di via Larga.
– Non dimenticare Leonardo – mormorò Giuliano – ti potrà essere utile. Il
re Luigi lo amava molto.
Per questo Leone X aveva mandato un corriere a Piacenza; il nipote
Lorenzo avrebbe dovuto raggiungerlo a Bologna portando con sé Leonardo.
Nel quaderno dell’artista abbiamo l’annotazione delle tappe di questo
frettoloso viaggio «Fiorenzuola, Borgo San Donnino, Parma, Reggio,
Modena, Bologna».
E finalmente il re francese e il papa fiorentino s’incontrarono. I colloqui
durarono tre giorni; pontefice e monarca abitarono nello stesso palazzo,
circondati dai rispettivi gentiluomini, rinsaldando e riscaldando ogni giorno di
più un’amicizia fragile e fredda.
Alla fine dei colloqui ci furono le presentazioni dei rispettivi dignitari al
seguito. Il papa, a differenza del re, aveva di riserva alcuni pezzi rari:
– Ecco il pittore Raffaello, di cui Vostra Maestà conosce già alcune opere, e
che sta ora dipingendo le nostre stanze in Vaticano – diceva sorridendo il
Pontefice.
– Ed ecco, Maestà, il grande Leonardo da Vinci...
Quando Francesco I sentÌ nominare Leonardo, e levando lo sguardo vide
l’artista davanti a sé in atto di dignitoso rispetto, si alzò in piedi, gli tese le
braccia, e andandogli incontro esclamò con voce commossa:
– Leonardo, mon père...
Fu cosÌ che Leonardo prese commiato dal papa e dall’Italia. Dopo le
cerimonie ufficiali Francesco I lo aveva convocato nelle sue stanze per
manifestargli di nuovo il suo affetto.
– Venite in Francia con me – gli disse. – Non vi chiederò nulla in cambio.
Mi basterà parlare ogni tanto con voi, ascoltarvi come vi ascoltava il mio
augusto predecessore.
Leonardo, commosso, guardava la nobile testa di quel giovane; leggeva nei
suoi occhi la sincerità di un’offerta, il calore di un’amicizia, la sicurezza di una
protezione.
Giuliano de’ Medici, ormai, non poteva dargli più nulla, la sua morte era
imminente, e dopo di lui nessuno gli era amico, nemmeno il pontefice.
Leonardo inchinò la testa, in segno di assenso.
Francesco I gli prese la mano e gliela strinse in un tacito patto.
Le caraffe di vino insipiente

S ALAÌ HA DECISO di restare a Milano. Ha più di quarant’anni, dice, e si sente


vecchio. In realtà si è accorto che il giovane Francesco Melzi ha preso il
suo posto nel cuore del Maestro, e capisce che il torto è suo, e ne ha più
rabbia che rammarico.
Leonardo gli consente di costruirsi una casa nella vigna fuor di porta
Vercellina, avuta in dono dal Moro, e gli lascia tutte le «masserizie» che non
può portare con sé in Francia.
Sono gli ultimi giorni dei preparativi e del commiato, delle visite ai rari
amici sopravvissuti alle tragedie del ducato; Leonardo si reca in Santa Maria
delle Grazie per dare ancora uno sguardo al Cenacolo e constatare, in silenzio,
i progressi del male segreto che ormai dilaga sotto la vernice.
Il fattore del podere di Fiesole gli ha fatto arrivare un campione della nuova
svinatura ancora fresca di mosto. Servirà per bere il bicchiere della staffa, per
dire addio ai famigli e al Salaì. Leonardo lo assaggia; è un vinello senza corpo,
che durante il viaggio è diventato aspro come l’aceto.

«Da Milano a Zanobi Boni, mio Castaldo Li 9 Xbre 1515

Non furono secondo le espettatione mie le quatro ultime caraffe et ne


ho auto rammarico. Le vite de Fiesoli in modo miliori allevati, furnire
devriano all’Italia nostra del più ottimo vino, come a ser Ottaviano. Sapete
che dissi etiamdio che sarebbe a cuncimare la corda quando posa in el
macignio con la maceria di calcina di fabriche o muralie demoliti, et questa
assiuga la radicha; et lo stelto e le folie dall’aria attranno le substantie
conveniente alla perfezione del grappolo».
Da qui si deduce che Leonardo conosce già la proprietà degli ingrassi
minerali, la cui scoperta verrà attribuita a Priestley nel 1771; e non gli sono
sconosciute nemmeno le funzioni respiratorie delle parti aeree delle piante,
scoperte e descritte tre secoli dopo.

«Poi – prosegue – pessimamente alli dì nostri facemo il vino in vasi


discuoperti, et così per l’aria fugge l’exentia in el bullimento, et altro non
rimane che un umido insipiente culorato dalle bucine et dalla pulpa: indi
non si muta come fare si debbe di vaso in vaso, et percioché viene il vino
inturbidato et pesante nei visceri.
Conciosiacosaché sì voi et altri facieste senno di tali raggioni,
berremmo vino excellente.
M. N. D vi guardi

Leonardo».

Un vino cattivo è tutto ciò che gli ha reso il podere dello zio Francesco; un
buon consiglio, e una preziosa «ricetta», è tutto ciò che lui può dare ai suoi
eredi, nel lasciare per sempre l’Italia.
Sul Monginevro

I L VIAGGIO ATTRAVERSOil Monginevro è piacevole: il re cerca ogni momento di


Leonardo per parlare con lui, o meglio, per ascoltarlo. Il vecchio artista
confida così al giovane sovrano il suo sapere ancora «occulto», ossia il frutto
delle sue osservazioni e l’essenza delle sue meditazioni, che soltanto il nostro
secolo ha incominciato a riscoprire. Gli mostra i falchi che ruotano intorno
alle cime nevose e gli parla del volo, della sua dinamica, delle sue leggi; gli
racconta i suoi tentativi, la sciagura occorsa al buon Zoroastro, ma gli
conferma anche la sua profonda convinzione che l’uomo, un giorno, volerà
come gli uccelli, anzi, andrà più in alto e più lontano.
– L’uomo è un cittadino dell’universo, Maestà, e nell’universo egli si
muoverà alla scoperta di nuovi mondi.
Gli parla di matematica e di meccanica, di geologia e di idraulica, di
astronomia e di fisica; durante le tappe gli mostra il suo Trattato di Anatomia,
gli descrive la paura e la solitudine di tante notti trascorse nelle stanze
mortuarie degli ospedali accanto ai cadaveri: – «Ho disfatto più di trenta corpi
umani – racconta – distruggendo ogni altri membri, consumando con
minutissime particule tutta la carne, che dintorno a esse vene si trovava: sanza
insanguinarle se non d’insensibile insanguinamento delle vene capillari. E un
sol corpo non bastava a tanto tempo, che bisognava procedere di mano in
mano in tanti corpi che si finisca la intera cognizione, la qual replicai due
volte per vedere le differenze».
Francesco I lo ascolta incantato. Il regale corteo non è ancora entrato in
Francia, che il sovrano cerca già il modo di assegnare all’artista una residenza
non lontana dalla reggia per poter andare a trovarlo il più spesso possibile.
In Provenza incontrano Luisa di Savoia, madre del sovrano, anch’essa in
viaggio verso la capitale: i due cortei proseguono insieme la strada e la
sovrana subisce il fascino del «grande filosofo» dicendo al figlio che
Leonardo è un uomo meraviglioso. Ad un tratto, come illuminata da un’idea,
esclama:
– Ad Amboise! Ma certo, il nostro grande Leonardo abiterà ad Amboise,
vicino a noi. Io gli darò la residenza di Cloux che mi appartiene.
Leonardo non conosce ancora questa decisione. Cavalca in silenzio,
osservando la pianura che si stende sotto di lui; lo segue Francesco Melzi,
insieme ad un giovane di nome Battista de’ Villanis, assunto come servitore
prima di lasciare Milano.
Sopra un carro, invece, c’è Maturina, una fantesca spaurita e sperduta in
mezzo a tutta quella gente che parla un’altra lingua.
Leonardo avverte ogni tanto una specie di formicolio nella mano destra,
che gli sale lungo il braccio lasciandoglielo, per un pezzo, come intorpidito.
L’araldo del re gli suggerisce una ricetta, che lui trascrive diligentemente nel
suo quaderno «Medicina da grattature, insegnommela l’araldo del re di
Francia; once quattro cera nova, once due incenso, e ogni cosa stia separata, e
fondi la cera, e poi vi metti dentro l’incenso, fanne peverada, e metti sopra il
mal».
«Disegna, Francesco»

I L CASTELLO, O MEGLIO, l’ostello di Clos-Lucé, detto anche il Cloux, era un


solido edificio medioevale composto da due corpi a squadra: nell’angolo
interno dei due fabbricati un’elegante scala ottagonale portava dal cortile al
primo piano. I tetti molto spioventi alloggiavano comode mansarde con ampie
finestre sporgenti dall’impluvio di ardesia. L’ostello, costruito dagli Amboise
per le religiose del luogo, era diventato, più tardi, la munita fortezza di un
favorito di Luigi XI; nel 1490 fu acquistato, per 3500 scudi, da Carlo VIII che
lo fece restaurare ed ampliare. Ora apparteneva a Luisa di Savoia e a
Margherita d’Angoulême – la «Margherita delle Margherite» autrice di novelle
boccaccesche – rispettivamente madre e sorella del re. Le due gentildonne lo
avevano generosamente offerto a Leonardo perché lo abitasse come se fosse
casa sua per tutto il resto dei suoi giorni.
Il re, inoltre, aveva stabilito che al vecchio maestro venisse corrisposto un
assegno annuo di 700 scudi d’oro, affinché non avesse neanche l’ombra di
una preoccupazione economica.
In cambio, il giovane sovrano chiedeva soltanto amicizia. Ogni volta che
poteva, andava a Cloux – distante, in linea d’aria, meno di un chilometro da
Amboise –, oppure mandava a prendere Leonardo per ospitarlo nel suo
castello.
Dotato di una viva intelligenza e di una grande memoria, Francesco I
assimilava le notizie, spaziando in ogni campo dello scibile, sicché presto
«non vi fu scienza – come scrisse uno storico dell’epoca – della quale non
potesse render ragione».
«Il Vinci – riferirà più tardi il Cellini – era abbondante di tanto grande
ingegno, avendo qualche cognizione di lettere latine e greche, che il re
Francesco si era innamorato gagliardissimamente di quelle virtù...».
«Io non voglio mancare – aggiunge – di ridire le parole, che io sentii dire al
Re di lui, le quali disse a me, presente il cardinale di Ferrara, e il cardinale di
Lorena, e il re di Navarra: disse che non credeva mai, che altro uomo fusse
nato al mondo, che sapesse tanto quanto Leonardo, non tanto di scultura,
pittura e architettura, quanto ch’egli era grandissimo filosofo».
Nel lento ritrovamento di una pace non solo esteriore Leonardo aveva
ricominciato a lavorare intorno a una tela che aveva portato con sé da Roma.
Raffigurava un giovane dai lineamenti quasi femminili, dal viso anche troppo
morbido, che accennava col dito a qualcosa che stava sopra di lui, fuori dal
quadro. Leonardo cancellava il paesaggio, per avvolgere la figura in una
specie di tenebra ovattata.
– Maestro, chi è? che significa? – chiedeva ogni tanto, incuriosito,
Francesco Melzi.
E Leonardo, sorridendo appena, come il suo ambiguo e inquietante
personaggio, rispondeva ogni volta:
– Disegna, Francesco. Disegna.
«La vita bene spesa lunga è»

V ICINO ALL’OSTELLO di Clos-Lucé scorreva la Loira. E come non avrebbe


potuto occuparsi d’acqua un uomo come Leonardo?
«Mai con la mente si quetava – precisa ancora l’Anonimo – e sempre con
l’ingegno fabbricava Leonardo cose nuove».
Eccolo, perciò, a fare i primi rilevamenti sul terreno, le esplorazioni a
distanza, le ricognizioni lungo tutti i corsi d’acqua della zona; percorse l’intera
regione dell’attuale Berry per presentare al re, nel più breve tempo possibile, il
progetto di una grandiosa canalizzazione.
Il canale Romorantin, infatti, avrebbe dovuto congiungere Tours e Blois
alla Saône, servendo al tempo stesso da via navigabile e da riserva idrica per
le coltivazioni: un porto d’imbarco a Villefranche avrebbe servito le due
località di partenza. Poi, oltrepassando Bourges, e convogliando in sé anche i
corsi della Dore e della Sioule, il canale, arricchito d’acque, si sarebbe
immesso nuovamente nella Saône a Maçon.
Ma gl’inverni, a Cloux, erano più lunghi e più rigidi, e Leonardo doveva
stare di più in casa.
Allora riordinava ancora gli appunti, insegnava a Francesco Melzi la
«scrittura a specchio» perché imparasse non solo a leggerla ma anche a
scriverla; e per molte ore dipingeva.
Il cartone della Vergine in grembo a Sant’Anna, esposto tanti anni prima in
una stanza della SS. Annunziata a Firenze, era diventato finalmente una
pittura, rifinita in ogni dettaglio; la Gioconda aveva ormai il suo paesaggio
d’acque e di rocce; e una figura di adolescente, ancora indefinita, stava sul
cavalletto nascosta da un grande lenzuolo.
– Maestro, ci sono visite – disse Battista de Villanis entrando nello studio.
Erano Margherita d’Angoulême, sorella del re e sua cugina Filiberta di
Savoia, vedova di Giuliano de’ Medici duca di Nemours.
– Maestro – disse la giovane sorella del re – veniamo a chiedere il vostro
aiuto. Vorremmo festeggiare l’arrivo di Sua Maestà, e sappiamo le cose
magnifiche che avete fatto a Milano. Voi solo potete rendere indimenticabile la
nostra festa...
Leonardo sorrise e annuì.
– Faremo... Qualcosa faremo.
E difatti allestì uno spettacolo di cui le cronache parlarono a lungo. In un
carosello fantasmagorico, mosso da tiranti e da molle invisibili, Leonardo
aveva messo il re al centro di allegorici tornei di cui era sempre vincitore. Alla
fine un eremita entrava di corsa sulla scena supplicando il re di liberare il
paese da un ferocissimo leone che stava seminando il terrore dappertutto. E
subito dopo il leone – capolavoro di automazione ante-litteram – appariva
realmente sulla scena fermandosi davanti al re in atto minaccioso ed
emettendo un sordo ruggito. Ma il re, senza paura, lo toccava col suo scettro,
e la belva, ammansita, si metteva in posizione «araldica», cioè seduta sulle
zampe posteriori, e quindi, con gli artigli di una zampa anteriore, si squarciava
il petto facendone uscire una cascata di gigli d’oro.
– Leonardo, maestro carissimo – esclamò il sovrano – siete un mago! Il re
Artù non aveva alla sua corte un uomo straordinario come voi!
Poi, tornato a casa, Leonardo aveva ancora l’energia di sedere al tavolo e di
trascorrere buona parte della notte a risolvere un difficile esercizio di
geometria: la mattina seguente, di buon’ora, scendeva sulla riva della Loira,
stava a lungo seduto a contemplare l’acqua, e intanto meditava, si ascoltava
dentro:
«O mirabile giustizia di te, Primo Motore, tu non hai voluto mancare a
nessuna potenza l’ordine e qualità de’ suoi necessari effetti».
Il Primo Motore è il Logos, il Verbo che giustifica ogni cosa esistente, anche
la nuvola che si dissolve nel cielo sereno, anche l’acqua che scorre.
– Perché – diceva il vecchio Leonardo a se stesso, «egli è impensabile che
nessuna cosa per sé sola possa essere causa della sua creazione».
Sono questi i pensieri fecondi del tempo di Clos-Lucé, senza più l’assillo
delle difficoltà materiali. Ma ne aveva realmente avute, prima d’ora? Il Vasari,
non senza una punta di maligno stupore, dice che «non avendo egli si può dir
nulla, e poco lavorando, del continuo tenne servitori e cavalli...». In realtà
Leonardo ha sempre considerato il denaro un mezzo e non un fine, e i mezzi
si trovano, sempre e dovunque. Intorno a sé non avverte più le sorde gelosie
degli artisti, come sarebbe stato, invece, se fosse rimasto in Italia. Alloggiato
in una residenza principesca, servito e confortato dall’affetto filiale del suo
allievo, Leonardo vive il crepuscolo della sua vita come in un’oasi di dolce
malinconia.
Sente che la notte non è lontana, e rivedendo in una sola immagine, come
in un immenso affresco, la sua esistenza, si consola scrivendo: «Si come una
giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire».
E per non fare il conto degli anni, né paragoni con l’età degli altri, che
potrebbero sembrare un’offesa alla volontà del Primo Motore, guardando i
suoi «codici» aggiunge:
«La vita bene spesa, lunga è».
La mancina inimitabile

U N GIORNO IL CARDINALE Luigi d’Aragona, passando per Tours, si recò col


suo seguito a rendere omaggio al grande pittore italiano.
Don Antonio de Beatis – segretario del porporato – ci ha lasciato una
dettagliata relazione di quella visita. Scrive infatti:
«Il Signore con noi altri andò a Cloux ad videre Misser Lionardo
fiorentino, veglio de più di settanta anni...».
Doveva essere l’autunno del 1516; Leonardo non aveva ancora 65 anni, ma
il suo aspetto dimostrava molto di più. È quasi certamente di quel tempo il
disegno a sanguigna conservato nella Biblioteca di Torino, che mostra un
volto precocemente invecchiato, le guance scavate, la fronte immensa, gli
occhi dallo sguardo corrucciato come quelli di un antico profeta.
«... el quale mostrò a Sua Signoria illustrissima – continua il relatore – tre
quadri, tutti perfettissimi, uno della Madonna e del figliolo, che stanno posti
in grembo di Santa Anna, l’altro di certa donna fiorentina facta di naturale ad
istanzia del quondam magnifico Juliano de’ Medici, l’altro di San Johanne
Baptista jovene...».
Il Melzi non credeva ai propri occhi. Quando Leonardo scoprì il suo ultimo
lavoro per mostrarlo al cardinale, il personaggio della pittura non era più un
Bacco, né un efebo ambiguo, ma un san Giovanni Battista.
Il Maestro aveva aggiunto una croce sottile come una canna, che da terra
seguiva il braccio poi il dito che indicava il cielo, e il quadro aveva assunto
all’improvviso un significato inequivocabile.
Il Melzi guardò stupito Leonardo, che ricambiò lo sguardo e gli sorrise,
annuendo.
Poi si dedicò di nuovo al cardinale, mostrandogli i suoi Trattati sul volo e
sull’anatomia.
«... Ha compiuto di Notomia tanto particolarmente, con la dimostrazione
della pittura sì de’ membri, come de’ muscoli, nervi, vene, giunture, d’intestini
e di quanto si può ragionare, tanto di uomini come di donne, di modo non è
stato mai ancora fatto da altra persona. Il che abbiamo visto oculatamente –
ripete il De Beatis, a scanso di ogni dubbio – et già lui disse aver fatto notomia
di più di trenta corpi tra maschi e femmine d’ogni età...».
Leonardo mostrava ancora agli ospiti i suoi studi «De la natura dell’acqua»
e quelli di «Diverse Macchine»; ma gli ospiti, e specialmente il cardinale
d’Aragona, guardavano con tristezza e commozione quella mano destra «che
non farà più nulla di buono» perché colpita da una paralisi e ormai rattrappita.
Non sapevano che Leonardo aveva portato avanti il suo Battista durante il
progredire del male: soltanto il Melzi, che non riusciva ancora a staccare gli
occhi dal quadro, sapeva che il maestro lo aveva dipinto quasi tutto con la
sinistra.
Era stata «l’inimitabile mancina» a far scendere giù, quasi venisse dal cielo,
il segno luminoso di una croce, come un simbolo di speranza.
Il dono della vita

«...M lochoLdicto
ESSER EONARDO DE VINCE pictore del Re, al presente comorante nello
du Cloux,... considerando la certezza dela morte e
l’incertezza del hora di quella, ha cognosciuto et confessato... il suo
testamento et ordinanza de ultima volontà nel modo qual se seguita.
Primeramente el racomanda l’anima sua ad nostro Signore Messer Domine
Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a Monsignore Sancto Michele, e a tutti li beati
Angeli Santi e Sante del Paradiso.
Item...»
È il 23 di aprile del 1519, un sabato Santo. Leonardo, ormai a letto da
diversi mesi, ha convocato maestro Guglielmo Borian, notaio del Re, ed altri
cinque testimoni oltre a Francesco Melzi. Sono il vicario e il cappellano della
chiesa di San Dionigi, e il priore e due frati del vicino convento dei «minori».
I testimoni ascoltano ciò che il Maestro, sollevato sui cuscini, detta con
parole appropriate e in piena lucidità di mente e di spirito.
Prima l’anima, che non muore, ma vive ed ha bisogno di tanta misericordia;
e perciò «tre messe solenni e trenta messe basse» sia nella chiesa di San
Dionigi che in quella dei frati; poi il corpo, da seppellire nella chiesa di San
Fiorentino; poi le cose, i beni della vita.
«... Ad Messer Francesco da Melzo, Gentilomo da Milano» tutti i suoi
dipinti, i disegni, i manoscritti ed i libri «et altri Instrumenti et Portracti circa
l’arte sua et industria de’ Pictori». Ed in segno del suo grande affetto «tutti et
ciaschaduni suoi vestimenti».
A Battista de’ Villanis la metà della vigna fuori delle mura di Milano e
l’acqua del Naviglio; l’altra metà al Salaì «nel qual giardino il prefato Salay ha
edificata et constructa una casa»; e ciò «in remuneratione di boni et grati
servitii, che dicti de Vilanis et Salay dicti suoi servitori lui hano facto de qui
finanzi».
Leonardo è cosciente di ciò che afferma. Il Salaì non è più un figlio e
nemmeno un allievo; anche nel suo cuore la figura di quel suo caro e infedele
discepolo si è ridimensionata: Salaì non era che un servo; affezionato al suo
padrone, forse, ma ladro ed ingrato.
«Item... dona a Maturina sua fantescha una veste de bon pan negro foderata
de pelle... et doy ducati».
Quindi pensa ai funerali, che dovranno essere solenni, perché sono sempre
un corteo di famiglia, uno spettacolo, che esce fuori di casa e percorre le
strade sotto gli sguardi della gente. E Leonardo, socchiudendo gli occhi come
se già vedesse la cerimonia funebre, dice:
«... sexanta torcie le quali saranno portate da sexanta poveri ali quali
saranno dati denari», poi tutto il collegio della chiesa di San Fiorentino –
Rettore, Priore, Vicari e Cappellani – e quello di San Dionigi e del Convento
dei Minori; canto gregoriano ed incenso durante le messe, e tante candele
accese «dieci libre cera in candele grosse che saranno messe nelle dicte chiese
per servire al dì che se celebreranno dicti servitii».
Ai fratelli «carnali» – e non del cuore – lascia i 400 scudi d’oro depositati
sul banco di Santa Maria Novella e il poderetto di Fiesole. Esecutore
testamentario, con «pleno et integro affecto» è Francesco Melzi, lì presente,
che davanti ai testimoni accetta e sottoscrive.
Dopo che maestro Guglielmo e gli altri se ne sono andati, Leonardo guarda
Francesco che non ha saputo frenare le lacrime.
– Francesco – dice Leonardo – ordinare queste cose è normale previdenza.
Io non ho desiderio di lasciarti, come non ho motivo per abbandonare ad un
tratto questa terra. Io ho sempre detto che la vita è un dono, e chi non la stima
non la merita. Sicché dobbiamo meritarcela fino in fondo, senza mancarle di
rispetto con la paura della morte.
– Guarda – aggiunse voltando il capo verso la finestra – l’inverno è durato
a lungo, ma ora gli alberi si destano, tutta la natura si risveglia al richiamo del
sole. Rinasce, lo vedi?
L’ultima esperienza

L EONARDO, NEL DORMIVEGLIA, riviveva l’ultima festa, allestita per il battesimo


del primogenito di Francesco I e per le nozze di Lorenzo de’ Medici.
Il figlio di Piero il fatuo, nominato dai potentissimi zii – il Papa e
l’Arcivescovo di Firenze – Gonfaloniere della Repubblica e duca d’Urbino,
era giunto in Francia per prendere in moglie la giovanissima e bella
Maddalena de la Tour d’Auvergne, cugina del re.
Era entrato in Amboise con uno splendido corteo; lo aprivano i valletti della
Repubblica, al suono squillante delle «chiarine», seguiti dagli sbandieratori
che lanciavano in alto i vessilli delle province toscane; venivano poi i
gonfaloni delle contrade cittadine e infine i rappresentanti della nobiltà di
Firenze, tutti vestiti di velluto cremisi.
Leonardo era stato all’altezza della sua fama: il battesimo dell’erede al
trono, e di cui Lorenzo era padrino, si era svolto nella cattedrale allestita come
un grande anfiteatro gremito d’angioli come se fosse l’empireo, mentre le
nozze erano state animate da uno spettacolo magico e tecnico degno e forse
più grandioso di quelli allestiti a Milano per Lodovico il Moro o per l’arrivo di
Luigi XII.
Ancora una volta era entrato in funzione il meraviglioso meccanismo
«terra-cielo» del Brunelleschi, e il re, commosso, aveva abbracciato il suo
«mago» davanti a tutti.
– Il Re – mormorava ogni tanto Leonardo, le mani abbandonate sulla
coperta del letto, gli occhi chiusi, la bianca testa reclina sul guanciale, come se
dormisse.
– Il Re. – Ma dalle sue labbra non usciva che un rantolo leggero, un respiro
affannato.
Poi – ricordava, ma vagamente – c’era stata la nascita del secondo figlio di
Francesco I. Era anche arrivato un corriere con un messaggio d’invito del
sovrano, ma lui era già malato, non era più uscito di camera dall’inizio
dell’inverno.
Era primavera, ormai. Tutto si rianimava, riprendeva colore; soltanto il suo
volto, le mani e i capelli erano diventati più bianchi: ogni tanto si faceva
portare uno specchio, e nel guardarsi gli tornava in mente un vecchio tutto
bianco, e tanto stanco, che aveva parlato con lui per tutta una notte nella
corsia dell’ospedale di Milano, e poi aveva chiuso gli occhi, come per
riposarsi un momento, per non riaprirli più. «E io ne feci anatomia» ripeteva
mentalmente Leonardo, mentre l’affanno aumentava, e gli pareva che quel
vecchio, abbandonato da tutti, gli comparisse ancora davanti per dirgli che
aveva più di cento anni, e che non sentiva alcun dolore, soltanto sonno, una
grande stanchezza di vivere.
Leonardo si era assopito. Fuori, alto nel cielo sereno, un nibbio ruotava fra
il castello di Amboise e i tetti di Clos-Lucé: Francesco Melzi e Battista de’
Villanis, dalla loggia su cui s’affacciava la camera del malato, lo seguivano
con gli occhi, ricordando le osservazioni del Maestro, il sogno di quand’era
bambino, la coda forcuta del rapace, l’ala portante, il volo circonvolubile.
– Dorme? – chiese Battista a Maturina che usciva di camera.
– Dorme – disse la donna.
Ma Leonardo non dormiva, delirava: e nel delirio vedeva il Re, scontento
nonostante la festa per il suo secondogenito. Mentre tutti esultavano,
Francesco I si aggirava inquieto per le stanze del castello, scendeva nelle
scuderie, si faceva sellare un cavallo e partiva al galoppo verso Amboise.
– Maestro, mon père, aspettatemi... – diceva il sovrano ad alta voce, mentre
galoppava lungo la Loira; e Leonardo vedeva che il Melzi e il de’ Villanis non
si curavano del Re, stavano a parlare sulla loggia, fuori della camera, e
Maturina andava e veniva come se nulla fosse...
– Il Re! Il Re! – qualcuno lo annunziava, lo aveva visto apparire in fondo
al parco; ma nessuno veniva a sollevare il malato, a vestirlo per fargli ricevere
degnamente il suo sovrano. Dalle labbra di Leonardo uscì un suono rauco e
gutturale, come un grido.
Il Melzi e il de’ Villanis lo udirono, accorsero. Lo sollevarono sui cuscini,
proprio come lui voleva, gli misero sulle spalle la veste di lana: ecco, era
quasi seduto sul letto, ad occhi chiusi, e gli pareva che il Re gli stesse di
fronte: bisognava dirgli qualcosa che valesse quella lunga corsa fino al suo
capezzale...
Leonardo respirava a fatica, come se avesse galoppato lui, lungo la Loira,
fino a Saint Germain-en-Laye per dire al re una cosa importante ed essenziale,
che non ricordava più.
– Ah, sì – mormorava – ora mi ricordo; volevo dire che «ogni nostra
cognizione principia da’ sentimenti». Ecco – aggiungeva con affanno, senza
più voce – ora mi sento andar via come l’acqua de’ fiumi, mi sento portare
dalla corrente verso la morte; per viverla, farne esperienza.
Indice

PARTE PRIMA
Leggenda e verità
Buon sangue non mente
Il nibbio
Firenze
A bottega
Maestro e discepolo
La lezione del Verrocchio
L’aria sua, che bellissima era
Ella è cosa divina
La bocca della verità
O miseri mortali aprite gli occhi
La rotella
La congiura dei Pazzi
Il discorso di Lorenzo
Il berrettino di tanè
Le sottili «difficultà»
Zoroastro
I messaggeri di Lorenzo
Da porta a San Gallo

PARTE SECONDA
«E sia chi vole»
L’appannaggio
La Vergine delle rocce
Il primo Bramante
«Amantissima mia Diva»
«Crudele e dispietato mostro»
«Dammi potenza...»
Il duca ha fretta
Il Paradiso
Le nozze nel segno di Marte
Salaì
Una giostra memorabile
«O matematici fate lume»
La corte di Beatrice
Il cavallo
«Catelina»
Gli amici
«Se sarai solo sarai tutto tuo»
Il Cenacolo
Il frutto dell’ignoranza
Maestro Luca
I balestrieri guasconi

PARTE TERZA
Da Mantova a Venezia
Il duca perse lo Stato...
Da Venezia a Firenze
Prete Alessandro
«Non può patire pennello»
La patente ducale
La gelosia di Michelangiolo
La grande sfida
L’encausto
Lei
Raffaello
La battaglia perduta
Un’altra sconfitta

PARTE QUARTA
Le bizze del Soderini
A Vaprio d’Adda
Burocrazia fiorentina
«Perdas amicum...»
Gian di Paris
Luci ed ombre
Il cappone «imbriacato»
La fiera degli uccelli
Il magnifico Giuliano
Le burle e le beffe
Marignano
Francesco I
Le caraffe di vino insipiente
Sul Monginevro
«Disegna, Francesco»
«La vita bene spesa lunga è»
La mancina inimitabile
Il dono della vita
L’ultima esperienza

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