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Vita di
LEONARDO
ISBN 9788809753105
L
atti.
ORENZO DI CREDI era un cattolico osservante; un sincero e profondo
sentimento religioso dominava i suoi pensieri e traspariva da tutti i suoi
I L 26 APRILE 1478,
di domenica, Lorenzo e Giuliano de’ Medici furono aggrediti
in chiesa, durante la Messa, da un gruppo di amici segretamente congiurati
contro di loro.
La causa apparente era politica; le ragioni vere ed occulte, come spesso in
questi casi, erano economiche.
Un recente decreto della Repubblica – suggerito da Lorenzo – vietava alle
femmine di ereditare dal padre; e questo decreto era stato emanato proprio
quando Giovanni de’ Pazzi, marito dell’unica figlia del ricchissimo Giovanni
Borromei, aveva ricorso contro un cugino della moglie che pretendeva di
spartire con lei l’eredità.
L’immensa fortuna del Borromei, perciò, invece di andare all’unica e
legittima figlia – ma consorte di Giovanni de’ Pazzi – toccò tutta al nipote.
L’affronto non poteva essere più clamoroso: negandogli l’eredità del
suocero, sulla quale Giovanni aveva fatto da un pezzo assegnamento, la
Repubblica «metteva a sedere» come si diceva, ossia tagliava le gambe a un
banchiere che, specie a Roma, stava facendo un po’ troppa concorrenza ai
Medici.
Così la famiglia de’ Pazzi, forte del prestigio di cui godeva in Firenze e delle
potenti parentele – «... erano i Pazzi per ricchezze e nobiltà allora di tutte
l’altre famiglie fiorentine splendidissimi» – incominciò a tramare una
congiura. Dopo le prime riluttanze, vi aderì anche il vecchio Jacopo, capo
della famiglia, esortato dal papa Sisto IV che non perdonava a Lorenzo di
avere ostacolato Girolamo Riario, suo nipote, quando cercava d’impadronirsi
di Imola.
Come primo segno di ostilità, il papa tolse al banco dei Medici la gestione
del tesoro pontificio, affidandola al banco de’ Pazzi. Poi, nonostante il parere
contrario di Lorenzo, nominò Francesco Salviati nuovo arcivescovo di Pisa.
La regia della congiura, e la sua esecuzione materiale, fu assunta da un
terzetto formato dal giovane Francesco de’ Pazzi, da Bernardo Bandini e dal
capitano di ventura Giovan Battista Montesecco, a cui si unirono Guglielmo
de’ Pazzi – marito di Bianca de’ Medici, sorella delle due vittime designate –, i
figlioli di Andrea de’ Pazzi, Renato e Niccolò, e tutta la famiglia Salviati con
l’arcivescovo Francesco in testa.
L’occasione fu data dal viaggio a Firenze del giovanissimo Raffaele Riario,
studente a Pisa e creato proprio allora cardinale dallo zio pontefice.
Lorenzo de’ Medici andò a festeggiarlo nella villa de’ Pazzi a Montughi, poi
lo ospitò nella sua villa sotto Fiesole. Ma le non buone condizioni di salute di
Giuliano costringevano ogni volta i congiurati a rimandare l’attacco, perché
era necessario, indispensabile anzi, colpire simultaneamente i due fratelli.
Lorenzo offrì all’ospite un nuovo ricevimento nel palazzo di via Larga; ma
siccome la presenza di Giuliano non era sicura neanche in casa Medici,
l’arcivescovo Salviati pensò di celebrare una messa solenne in Duomo, nella
speranza che il fratello di Lorenzo, anche se debole, non avrebbe disertato la
mensa eucaristica.
I congiurati decisero quindi di muoversi nel momento più solenne, quando
il sacerdote avrebbe alzato l’ostia sui fedeli prostrati al suono del campanello.
Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini dovevano far fuori Giuliano; a
Lorenzo ci avrebbe pensato, da solo, il Montesecco, uomo d’arme e perciò
pratico di omicidi.
Ma all’ultimo momento il soldato di ventura ebbe uno scrupolo: ammazzare
sì, chiunque, ma non dovunque. In chiesa, per esempio, no, e meno che mai
durante la messa.
Ma il piano, ormai, non poteva essere cambiato. Il Montesecco fu sostituito
da due volontari: un prete, Stefano di Bagnone Bagnoni, e un notaio
apostolico, ser Antonio da Volterra; feroci tutti e due, ma inesperti. Il Duomo,
intanto, s’era riempito di popolo la processione dei canonici, dei diaconi e dei
cantori era già uscita di sagrestia; Lorenzo, circondato dagli amici, ma senza il
fratello, era già entrato in chiesa.
Francesco de’ Pazzi e il Bandini corsero allora al palazzo di via Larga a
chiamare Giuliano, «e con prieghi e con arte – come riferisce il Machiavelli –
nella chiesa lo condussono».
E facendo addirittura finta di abbracciarlo, si assicurarono che non avesse,
sotto i vestiti, cotta o corazza.
Sia Lorenzo che Giuliano conoscevano bene lo stato d’animo dei Pazzi,
sapevano d’averli contro, ma non fino al punto di sentirsi minacciati nella
vita.
Invece, appena l’ostia si alzò, i pugnali calarono. Quello di Bernardo
Bandini, corto e affilato, trapassò il petto a Giuliano che stramazzò dopo
qualche passo; subito Francesco de’ Pazzi gli si gettò addosso per finirlo, e nel
crivellarlo di colpi, accecato dall’odio e dal sangue, si trapassò la coscia da
parte a parte.
I pugnali del prete e del notaio calarono insieme su Lorenzo, ma il giovane,
più svelto, schivò il primo colpo ricevendo soltanto un taglio di striscio al
collo. Difendendosi col mantello arrotolato, sguainò la spada, si svincolò dagli
assalitori, riparò in sagrestia seguito dal Poliziano, mentre il fido Francesco
Nori cadeva pugnalato da Bernardo Bandini che, nel frattempo, era corso a
dare manforte agli altri congiurati rimasti in difficoltà.
Dalla sagrestia, di corsa, Lorenzo raggiunse il suo palazzo uscendo dalla
porta laterale detta «dei Servi», mentre il popolo fuggiva urlando dal Duomo,
propagando così la notizia, da una strada all’altra, per tutta la città.
Intanto l’arcivescovo Salviati, spalleggiato dai suoi parenti e da Jacopo del
Poggio, si presentava al Palazzo Vecchio per impossessarsi della Signoria. Il
gonfaloniere Petrucci, che stava desinando con i membri del governo, fece
entrare soltanto poche persone dalla porticina d’emergenza, e non tardò molto
a capire che si trattava di un tradimento a danno dei Medici. Senza starci
troppo a pensare agguantò per i capelli Jacopo del Poggio e lo fece impiccare.
Subito dopo anche l’arcivescovo Salviati penzolava da una finestra del
Palazzo, ed in meno di un’ora ogni balcone ebbe il suo cadavere a ciondoloni.
Lorenzo, in via Larga prima ancora di farsi medicare, scrisse alla Signoria
di Milano per chiedere aiuto e si preoccupò che nessun congiurato sfuggisse
alla sua vendetta.
Francesco de’ Pazzi, ferito alla coscia, si era fatto portare a casa: fu preso,
nudo e sanguinante com’era, e impiccato. Il vecchio Jacopo, dopo aver
percorso a cavallo la città gridando «Libertà!», ed aver visto il popolo
rispondergli come un sol uomo «Palle! Palle!», prese la via dell’Appennino
per andare in esilio. Fu riconosciuto e catturato al Castagno, sopra San
Godenzo; ricondotto in città, fu impiccato insieme al nipote Renato.
Guglielmo de’ Pazzi, grazie alle lacrime della moglie Bianca, trovò scampo
nientemeno che nelle stanze di Lucrezia Tornabuoni, madre delle vittime della
congiura; Giovan Battista Montesecco ebbe l’onore d’essere decapitato,
mentre altre ottanta persone, più o meno responsabili, ciondolarono dalle
finestre del Bargello e di Palazzo Vecchio.
Soltanto Bernardo Bandini sfuggì alla vendetta; si seppe, poi, che era
riparato in Turchia.
Davanti al palazzo di via Larga la gente acclamava Lorenzo, voleva vederlo,
udirne la voce.
Benché ferito, Lorenzo si affacciò e raccomandò di non eccedere nella
giusta vendetta, ma soprattutto mise in guardia il popolo contro i nemici «di
fuori». Bisognava correre subito ai ripari, fortificare la città, richiamare le
milizie di stanza in Mugello e in Val d’Arno, fare appello urgente a tutti gli
alleati, specialmente agli Sforza di Milano e ai Bentivoglio di Bologna.
Il diciottenne cardinale Riario, prigioniero della Signoria, ebbe salva la vita
per diretta intercessione di Lorenzo, ma restò prigioniero, come un ostaggio in
vista dell’imminente reazione del Papa.
Infatti Sisto IV, saputo del fallimento della congiura e conosciute le misure
difensive della città, scomunicò ipso facto Lorenzo, tutti i Medici nati e da
nascere e tutto il clero fiorentino; impose, inoltre, l’immediato interdetto alle
chiese di Firenze e del contado, di Prato e di Pistoia.
«Et a dì 13 di luglio 1478 – scrisse il diarista Lapini – il Re di Napoli mandò
qui a Firenze alla Signoria un suo trombetto, con la tromba spiegata con
l’arme di detto Re, che subito smontato da cavallo andò in su il palazzo della
Signoria; e notificò loro la guerra a Firenze, se non mandavano via, e fuor
della città, Lorenzo de’ Medici».
Il discorso di Lorenzo
S ER PIERO AVEVA fatto la sua scelta assai prima della congiura de’ Pazzi. Si
può dire che era rimasto sempre fedele al vecchio Cosimo, che lo aveva
introdotto presso i mercanti di sua fiducia e l’aveva aiutato a porre i primi
sigilli e la firma sui rogiti cittadini. Perciò aveva evitato di frequentare quelli
del Poggio, prima, e quelli del Canto – il «canto» dei Pazzi, vicino al Bargello
– dopo.
Ora ser Piero da Vinci apparteneva ai notabili della Repubblica, era tra
coloro che godevano della stima di Lorenzo, e anche lui, dunque, fu
convocato all’improvviso in Palazzo Vecchio, insieme ad altri trecento
cittadini «qualificati».
Le truppe del re di Napoli avevano già varcato il Tronto e quelle del Papa
erano già nel territorio di Perugia. Firenze si preparava a difendersi,
nonostante la scomunica che creava il vuoto intorno alla città; e siccome la
posta in gioco era davvero di vita o di morte, Lorenzo volle vedere in faccia i
suoi concittadini per sapere fino a che punto egli avrebbe potuto fare
assegnamento su di loro.
Non aveva che ventisei anni, Lorenzo de’ Medici, e ad ascoltarlo c’erano
tutte le vecchie volpi della città; ma il suo discorso fu talmente efficace da
diventare subito famoso come e più di quello di Antonio dopo la morte di
Cesare. Vale davvero la pena di riudirlo, in tutta la sua drammatica efficacia,
nella fedele versione che il Machiavelli ci ha tramandato.
«Io non so, eccelsi Signori, e voi, magnifici cittadini – incominciò Lorenzo
– se io mi dolgo con voi delle cose che son seguite o se me ne rallegro. E
veramente quando penso con quanta frode, con quanto odio io sia stato
assalito e il mio fratello morto, io non posso non contristarmi e con tutto il
cuore e con tutta l’anima dolermi. Quando poi considero con che prontezza,
con che studio, con quale amore, con quanto unito consenso di tutta la città il
mio fratello sia stato vendicato e io difeso, conviene non solamente che me ne
rallegri ma che in tutto me stesso esalti e glorii. E veramente se l’esperienza mi
ha fatto conoscere come io avevo in questa città più nemici che io non
pensavo, mi ha ancora dimostro come io ci avevo più ferventi e caldi amici
che io non credevo. Son forzato adunque a dolermi con voi per le ingiurie
d’altri, e rallegrarmi per i meriti vostri...
«Considerate, magnifici cittadini – seguitò Lorenzo – dove la cattiva fortuna
aveva condotta la casa nostra, che fra gli amici, fra i parenti, nella chiesa, non
era sicura.
«Sogliono quelli che dubitano della morte ricorrere agli amici per aiuti,
sogliono ricorrere a’ parenti, e noi gli trovavamo armati per la distruzione
nostra.
«Sogliono rifuggire nelle chiese tutti quelli che per pubblica o per privata
cagione sono perseguitati. Dunque, da chi gli altri sono difesi noi siamo morti,
dove i parricidi, gli assassini sono securi, i Medici trovarono gli ucciditori
loro.
«Ma Iddio che mai non ha abbandonata la casa nostra ha salvato ancora noi
e ha presa la difesa della nostra giusta causa. Perché quale ingiuria abbiamo
noi fatta ad alcuno, da meritarci tanto desiderio di vendetta? E veramente
questi che ci si sono mostrati nemici, mai privatamente non gli offendemmo;
perché se noi gli avessimo offesi e’ non arebbono avuto comodità di
offendere noi. Se essi attribuiscono a noi le pubbliche ingiurie, quando alcuna
ne fosse stata loro fatta, che non lo so, essi offendono più voi che noi, più
questo Palagio e la maestà di questo governo che la casa nostra, dimostrando
che per nostra cagione voi ingiuriate immeritamente i cittadini vostri. Il che è
discosto al tutto da ogni verità; perché noi, quando avessimo mai potuto, e
voi, quando noi avessimo voluto, non lo aremmo fatto: perché chi ricercherà
bene il vero troverà la casa nostra non per altra cagione con tanto consenso
essere stata sempre esaltata da voi se non perché la si è sforzata con la
umanità, liberalità, con i benefizi, vincere ciascuno.
«Se noi abbiamo adunque onorati gli estranei, come avremmo noi ingiuriati
i parenti?
«Se si sono mossi a questo per desiderio di dominare, come dimostra
l’occupare il Palagio, venire con gli armati in piazza, quanto questa cagione sia
brutta, ambiziosa e dannabile, da se stessa si scopre e si condanna.
«Se lo hanno fatto per odio e invidia verso l’autorità nostra, essi offendono
voi, non noi, avendocela voi data.
«E veramente quelle autorità meritano di essere odiate che gli uomini si
usurpano, non quelle che gli uomini per liberalità, umanità e munificenza si
guadagnano.
«E voi sapete che mai la casa nostra salse a grado alcuno di grandezza che
da questo Palagio e dall’unito consenso vostro non vi fosse spinta: non tornò
Cosimo mio avolo dall’esilio con le armi e per violenza, ma con il consenso e
l’unione vostra.
«Mio padre vecchio e infermo non difese già lui contro a tanti nemici lo
stato, ma voi con l’autorità e la benevolenza vostra lo difendesti; non arei io
dopo la morte di mio padre, essendo ancora si può dire un fanciullo,
mantenuto il grado della casa mia se non fossero stati i consigli e favori vostri;
non arebbe potuto né potrebbe reggere la mia casa questa repubblica se voi
insieme con lei non l’avessi retta e reggessi.
«Non so io dunque quale cagione di odio possa essere il loro contro di noi
o quale giusta cagione di invidia...
«Ma concediamo – proseguì Lorenzo – che le ingiurie fatte a loro da noi
sieno grandi e che meritamente essi desiderassero la rovina nostra: perché
venire ad offendere questo Palagio? perché fare lega con il papa e con il re
contro alla libertà di questa repubblica? perché rompere la lunga pace d’Italia?
«A questo essi non hanno scusa alcuna; perché dovevano offendere chi
offendeva loro e non confondere le inimicizie private con le ingiurie
pubbliche: il che fa che, spenti loro, il male nostro è più vivo venendoci per
loro cagione il papa e il re a trovare con le armi; la qual guerra affermano fare
a me e alla casa mia.
«Il che Dio volesse che fosse vero, perché i rimedi sarebbero presti e certi:
né io sarei sì cattivo cittadino da stimare più la salute mia che i pericoli vostri;
anzi volentieri spegnerei l’incendio vostro con la rovina mia.
«Ma perché le ingiurie che i potenti fanno con qualche meno disonesto
colore le ricoprono, essi hanno preso questo modo per ricoprire questa
disonesta ingiuria loro.
«Pure, nondimeno, – e qui Lorenzo scandì bene le parole perché tutti le
udissero – quando voi credessi altrimenti, io sono nelle braccia vostre: voi –
seguitò guardandosi in giro e fissando a uno a uno i suoi concittadini negli
occhi – voi mi avete a reggere o lasciare, voi miei padri, voi miei difensori; e
quanto da voi mi sarà commesso che io faccia, sempre farò volentieri, né
ricuserò mai, quando così a voi paia, questa guerra con il sangue del mio
fratello cominciata di finirla col mio».
«Non poterono i cittadini – aggiunge il Machiavelli – mentre che Lorenzo
parlava tenere le lagrime»; e gli confermarono all’unanimità il loro appoggio,
dicendogli che prima avrebbero perso loro la patria che lui la reputazione e lo
stato.
Leonardo conobbe di certo il discorso di Lorenzo, o dal padre o da qualche
altro amico e testimone; a Firenze, in quei giorni, non si parlava d’altro: e
mentre il Botticelli affrescava sui muri della Dogana le figure dei congiurati
impiccati, il giovane Medici attuava un’altra mossa degna del suo coraggio e
della sua lungimiranza.
Dopo aver assicurato il governo della città nelle mani di Tommaso
Soderini, egli partì segretamente per Pisa. Da San Miniato scrisse poi una
lettera al Senato fiorentino, in cui manifestava la sua ferma intenzione di
recarsi a Napoli «... perché essendo io quello che principalmente sono
perseguitato da’ nemici nostri, potrei forse ancora essere cagione,
andandomene nelle mani loro, di far rendere pace alla nostra città».
Infatti gli eserciti del duca di Calabria, del duca d’Urbino e del Papa
saccheggiavano ormai il territorio fiorentino e più d’un popolano aveva già
gridato a Lorenzo: – Questa città è stracca!
In Palazzo Vecchio, leggendo quella lettera, piansero tutti, come riferisce il
Valori; nemo a lacrymis temperaret, perché avrebbe potuto essere anche
l’ultima.
Invece, a Napoli, il re ed il popolo accolsero Lorenzo con cordialità.
Ferdinando d’Aragona, sorpreso dal coraggio e dall’intelligenza del giovane
Medici, e convertito alla sua tesi politica nonostante le ostili interferenze del
Papa, accettò la proposta di una Lega per la quale Firenze e Napoli avrebbero
tenuto a freno tutte le ambizioni e le smanie guerresche dei principi d’Italia.
Lorenzo era partito da Firenze il 1° dicembre 1479: alla fine del mese,
mentre si trovava ancora in viaggio per andare – non sapeva ancora se come
ospite o come ostaggio – a consegnarsi nelle mani del suo nemico, tornava a
Firenze l’ultimo protagonista della congiura, Bernardo Bandini.
Non veniva di sua volontà, ma ce lo portavano, ben legato, i giannizzeri del
sultano Maometto II, al quale Lorenzo aveva scritto chiedendo, come si
direbbe oggi, l’estradizione di un cittadino fiorentino, reo di alto tradimento,
di omicidio e di strage.
Il berrettino di tanè
– Leonardo sorrise e si voltò. Lorenzo di Credi, alle sue
–L spalle,
EONARDO, CHE FAI?
sbirciava nel taccuino dove l’amico stava disegnando un
impiccato.
Intorno ai due pittori c’era una folla di curiosi col naso in aria: da una
finestra del palazzo di giustizia spenzolava una corda, in fondo alla quale
ciondolava il corpo di Bernardo Bandini de’ Baroncelli, l’assassino di
Giuliano de’ Medici.
«Berrettino di tanè,
farsetto di raso nero,
cioppa nera foderata
giubba turchina fodera[ta] di gole di golpe
e ’l collare della giubba soppannato di velluto appicchiettato nero e rosso,
Bernardo Bandini Baroncigli. Calze nere».
L ORENZO IL MAGNIFICO aveva fatto costruire, negli orti di san Marco, due
padiglioni per accogliere non soltanto le «anticaglie», ossia le opere
classiche, ma i disegni, i cartoni, i bozzetti e i modelli delle opere più belle
uscite in quegli anni dalle botteghe dei maestri fiorentini.
Bertoldo, l’allievo prediletto di Donatello, presiedeva quella straordinaria
«accademia» dove ciascun allievo riceveva un «salario» adeguato alle sue
personali o familiari necessità.
Il Verrocchio, che vi si recava di quando in quando, era considerato un
maestro occasionale, chiamato soprattutto a spiegare a quegli allievi
d’eccezione il suo metodo per fare i calchi, o quello della fusione a forni
plurimi.
Lorenzo di Credi era tra i frequentatori degli orti, insieme ad un gruppo di
giovani promettenti come Francesco Granacci, allievo del Ghirlandaio,
Giuliano Bugiardini, Pietro Torrigiani e Giacomo della Porta, a cui si univa
volentieri un giovane intagliatore di pietre dure chiamato Giovanni dalle
Corniole e un lavorante in ferri battuti di nome Nicolò Grosso.
Leonardo andava e veniva, secondo l’estro o la curiosità che lo portavano
da Bertoldo o da Marsilio Ficino; frequentava inoltre il poeta e latinista Naldo
Naldi, il filologo Niccolò Michelozzo e il dotto Bartolommeo Fonzio già
maestro di Lorenzo de’ Medici.
Poi bazzicava le officine, dove trovava sempre qualche paziente artigiano
disposto a perder tempo dietro a qualche suo stravagante progetto e lieto di
sognare insieme a lui una macchina miracolosa per trascinare o issare pesi
enormi, o un marchingegno per forare le montagne, un fuso meccanico per
torcere gli spaghi da farne canapi grossi e robusti. Infine trovava il tempo per
impartire lezioni di musica a un ragazzo promettente, di nome Attavante
Migliorotti, illegittimo come lui: spesso suonavano insieme, e talmente bene,
che la notizia si diffuse presto in città ed arrivò perfino alle orecchie del
Magnifico.
Ma l’attrazione di quegli anni era, senza dubbio, la bottega di Zoroastro, al
secolo Tommaso Masini da Peretola, maestro fonditore, meccanico, idraulico,
cesellatore e, a tempo perso, scultore, pittore e negromante.
Più che una bottega, il suo regno era un antro, a cui si accedeva scendendo
molti scalini, e dove la realtà si confondeva con la favola, tanto quella fucina
era piena di simboli, con un maestro capace di operare, col ferro e col fuoco, i
più straordinari incantesimi.
Con mastro Tommaso, appunto, Leonardo cercava di tradurre in realtà le
molteplici intuizioni che ogni giorno gli si affacciavano alla mente.
Avevano già costruito insieme ponti leggerissimi da poter gettare in un
batter d’occhio tra una sponda e l’altra; avevano realizzato e messo a punto
un’idrovora, rielaborando la famosa coclea di Archimede per aspirare l’acqua
dal basso e scaricarla più in alto: dopo molti tentativi avevano ottenuto la
fusione di una speciale bombarda capace di sparare a mitraglia; avevano
realizzato una fortezza semovente, ossia un cono dalla larga base, poggiato su
ruote, entro il quale alloggiavano bombarde e altri strumenti di guerra.
Maso Masini, detto familiarmente Zoroastro, era il fedele interprete e il
felice esecutore dei disegni di Leonardo; per lui tutti i metalli eran docili, tutte
le forme possibili e facili. Insieme avevano progettato anche una
canalizzazione in miniatura applicando il principio, scoperto assai più tardi,
dei vasi comunicanti: allagando artificialmente una zona, erano riusciti a
metterla in comunicazione con una rete di corsi d’acqua, controllando il flusso
mediante portelli di metallo, come quelli oggi in uso nello sbarramento delle
dighe.
Perché «Zoroastro»? Perché, di lui, si vociferava che fosse stato in Medio
Oriente, nella patria del leggendario profeta Zoroastro, e colà avesse appreso,
oltre al culto solare, o di Ahura Màzdao, anche l’arte reale di trasformare il
piombo – simbolo di Saturno – in oro, simbolo del Sole.
Nella sua fucina, oltre al ferro, bruciava spesso anche lo zolfo; le pratiche
della magia, l’evocazione delle forze occulte della natura, facevano parte di
una ricerca non ancora scientifica, ma nemmeno irrazionale; e Leonardo e
Tommaso, come due temerari pionieri, sfidavano l’Inquisizione che non
cercava di meglio che coglierli sul fatto per trascinarli sul banco degli eretici.
Ora anche ser Piero si era fatto guardingo. Quel suo figliolo, di cui tutti
dicevano gran bene, teneva la pittura in second’ordine, come un mestiere di
riserva, per dedicarsi a pratiche che sfuggivano a ogni controllo.
– Babbo – rispose un giorno Leonardo al preoccupato genitore che lo
interrogava – non datevi pensiero per me. Io voglio essere un pittore diverso
da tutti, e per questo mi occorre studiare ciò che gli altri trascurano o
ignorano. Io devo conoscere le cause e non gli effetti, per dipingere quelle,
che sono eterne.
Ser Piero non capiva, ma accettava lo stesso le conclusioni del figlio. Si
limitava a passargli, ormai clandestinamente, un po’ di denaro perché non gli
mancasse il necessario per lavorare, e badava intanto a farsi strada verso la
Signoria che stava per nominare il suo nuovo Procuratore.
Leonardo, dunque, seguitava a frequentare i gruppi, le accademie, le
scuole, le botteghe e gli amici senza trascurare la pittura e nemmeno la musica.
Anzi, insieme al suo giovane allievo Migliorotti si era messo a studiare anche
la lira, e ne aveva disegnata una a forma di teschio di cavallo, per ottenere
dalle corde un nuovo effetto di straordinaria risonanza. Anche quella notizia,
apparentemente di nessuna importanza, arrivò presto agli orecchi del
Magnifico.
I messaggeri di Lorenzo
D UE ANNI PRIMA di quella dei Pazzi, anche Milano ebbe la sua congiura: fu
di Natale, invece che di Pasqua, e si concluse con la morte del duca
Galeazzo Maria, pugnalato in chiesa da tre nobili congiurati.
I tre fratelli del morto si disputarono con la cognata Bona di Savoia il diritto
di tutela sul giovane erede; e la duchessa, consigliata anche da Tommaso
Soderini, ambasciatore dei Medici, rimase padrona del campo e del figliolo.
Ma non trascorse molto tempo che gli Sforza ritornarono in Milano, e la
cognata finì con l’andare in volontario esilio lasciando la città e il piccolo
Gian Galeazzo in balìa di Lodovico Sforza, detto il Moro.
Ora, o perché Lorenzo avesse già dimostrato una scarsa simpatia per il
Moro quand’era venuto a Firenze col sontuoso corteo del fratello, o perché la
repubblica fiorentina, attraverso il Soderini, fosse intervenuta arbitrariamente
negli affari interni di un altro stato, e precisamente ai danni di Lodovico, certo
è che i rapporti tra Firenze e Milano non erano più come una volta e Lorenzo
cercava ogni occasione favorevole per cancellare quest’ombra di sospetto
dall’animo del superbo Lodovico.
Fino dal tempo della visita di Galeazzo Maria, tra Milano e Firenze – o
meglio, tra gli Sforza e i Medici – si era parlato di un monumento equestre da
erigersi in memoria del duca Francesco, padre di Galeazzo, ad opera di un
maestro fiorentino.
Lodovico, nell’assumere la reggenza del governo di Milano, trovò tra le
carte del fratello questa «pratica», iniziata fino dal 1473, e scrisse a Lorenzo
de’ Medici per chiedere il suo consiglio.
Intanto il Verrocchio era partito per Venezia, insieme al fedele Lorenzo di
Credi, per andare a fondere la grande statua equestre del Colleoni; il Perugino
e il Botticelli erano andati a Roma per eseguire gli affreschi nella nuova
cappella di papa Sisto; il Rossellino, Mino da Fiesole e Bertoldo erano vecchi;
l’unico disponibile era Leonardo. E Lorenzo lo mandò a chiamare.
Quando l’artista fu davanti al Magnifico, nel palazzo di via Larga, si sentì
chiedere:
– Che ne diresti, Leonardo, di una grande statua a cavallo del defunto duca
di Milano Francesco Sforza?
Leonardo rivide e rivisse all’improvviso la febbre della bottega del
Verrocchio, tutti gli studi per l’anatomia del cavallo, tutti quei disegni messi da
parte; guardò negli occhi il Magnifico e rispose:
– Direi di sì.
– Te ne senti l’animo?
– Me ne sento l’animo.
– Di portarlo a compimento?
– Questo non lo so, è da vedere.
– Prendi – aggiunse Lorenzo – è un ritratto del duca Francesco: incomincia
a pensarci, poi ne riparleremo.
Qualche tempo dopo, Lodovico Sforza scrisse a Lorenzo per un altro
consiglio: aveva bisogno di un suonatore di lira e sarebbe stato grato al
Magnifico se avesse potuto mandargli da Firenze un musico di sua fiducia.
– Leonardo, a questo punto non ti resta che prepararti a partire – gli disse
Lorenzo. – Il duca di Milano cerca un suonatore di lira, e io so che tu ne
possiedi una d’argento, straordinaria, che tu cederai a me e che io regalerò a
lui. Così, mandandoti a Milano, io gli renderò doppio servizio: gli mostrerò il
tuo talento di suonatore, e tu gli farai la statua del duca suo padre a cavallo.
Erano queste le mosse abili e inimitabili di Lorenzo. Facevano parte del suo
gioco politico, e nessuno meglio di lui sapeva scegliere gli strumenti più
adatti. Insieme ai prodotti dell’arte egli esportava anche gli artisti, mandandoli
volentieri presso le corti d’Italia e d’Europa come inviati speciali di una
cultura e di un’epoca che, in Firenze, si chiamava Umanesimo, e che poi, nel
mondo, si chiamò Rinascimento.
Da porta a San Gallo
L EONARDO ERA GIÀ stato da Lodovico, e non una volta sola. Poco dopo il suo
arrivo a Milano, era andato a consegnargli il dono di Lorenzo il
Magnifico, insieme a una lettera che lo presentava e raccomandava allo
Sforza; poi, quasi certamente, era tornato per parlare della statua a cavallo,
mostrando magari qualche disegno di quelli eseguiti ancora nella bottega del
Verrocchio. Non è infine da escludere – anzi è probabile – che Leonardo e il
giovane Attavante avessero fatto ascoltare al duca e ai suoi cortigiani qualche
brano musicale sulla famosa lira d’argento che aveva la virtù di ampliare
l’armonia «con maggior tuba e più sonora voce».
Intanto Leonardo seguitava «a guardarsi intorno», mediante una sistematica
esplorazione della città e dei dintorni. Milano, con quei cieli bianchi, la
ricchezza d’acque, le pianure arborate su cui cadeva all’improvviso un fitto
velo di nebbia, doveva apparirgli come un contrappasso di Firenze, eppure in
armonia col suo spirito, per la magia irreale che potevano assumere, da un
momento all’altro, la natura e le cose.
Incominciò a disegnare, a prendere appunti: e finalmente entrò nel vivo
della vita cittadina, conoscendone gli uomini più rappresentativi e facendosi
conoscere.
– Ma non sei tu quel Leonardo musicista e scultore mandatomi da Lorenzo
de’ Medici per quel progetto del cavallo? Prometti molte cose... troppe! Come
faccio a crederti?
– Eccellenza, non vi domando di credere, ma di provare.
– Cecilia, tu che ne dici?
Cecilia Gallerani già conosceva di fama Leonardo. Ne aveva sentito parlare
dagli umanisti di passaggio, ed aveva visto anche alcune opere fra cui la
famosa rotella. Il suo viso dolce e intelligente aveva la grazia sognante e la
gentilezza delle donne lombarde, così diverse dai loro mariti «pratici», rozzi e
sbrigativi.
Il sorriso della fanciulla spense sulle labbra del Moro la brutalità di una
risposta: la sedicenne amante dello Sforza, guardando Leonardo, disse:
– Lo metteremo alla prova, certo, ma non per le macchine da guerra: noi
vogliamo da lui qualcosa di bello, come la fama che l’ha preceduto fin qui.
Leonardo quando fu di ritorno a casa, prese il suo taccuino e scrisse:
«Quando vuoi vedere se la tua pittura ha conformità con la cosa ritratta,
abbi uno specchio e favvi dentro specchiare la cosa viva...».
Nel castello di Porta Giovia, infatti, in uno specchio appeso alla parete, egli
aveva guardato a lungo Cecilia, e ne aveva visto il «ritratto» ideale; ora non gli
restava che aspettare l’occasione per tradurlo fedelmente in pittura.
L’appannaggio di cinquecento ducati l’anno che il Moro gli aveva assegnato
per averlo intanto al suo servizio, gli consentiva di guardare senza eccessive
preoccupazioni al domani: quella somma, corrispondente a circa tre milioni di
lire attuali, costituiva la base economica di tutta la famiglia, di cui facevano
parte, oltre a Zoroastro e Attavante, anche un palafreniere e una donna di
casa.
La sua lettera – di cui aveva fatto non poche stesure prima della versione
definitiva – aveva sortito il suo effetto.
Leonardo non si rendeva nemmeno conto del pericolo corso: egli aveva
osato parlare a tu per tu con un principe, gli aveva elencato le proprie qualità
senz’ombra di modestia, gli aveva dichiarato di non sentirsi secondo a
nessuno, in nessun campo, sfidando lo Sforza a metterlo alla prova.
O l’esaltazione di un pazzo – diremmo noi – o la consapevolezza di un
genio; il quale, essendo tale, non poteva che guardare in faccia, con temeraria
fermezza, il suo illustre interlocutore.
Contento dunque del risultato della sua lettera, Leonardo andò a trovare «i
Preda» di cui era diventato buon amico.
Evangelista De Predis e suo fratello Ambrogio erano considerati, col Foppa
e il Bergognone, due maestri della pittura lombarda. Lavoravano spesso
insieme distribuendosi i compiti: Evangelista dipingeva in prevalenza muri e
tavole per altare, mentre suo fratello Ambrogio si applicava più volentieri al
ritratto e alla miniatura.
Da bravi lombardi, operosi e pratici, non rifiutavano mai un’ordinazione,
anche se questa non era di loro competenza: per favorire il cliente
l’allogavano ad altri, cioè la subappaltavano, beneficando così qualche buon
maestro a corto di lavoro che diventava, da quel momento, un fidato
collaboratore della «ditta».
I fratelli De Predis avevano avuto una proposta interessante da parte della
Confraternita della Concezione della Vergine per la Chiesa di San Francesco:
di studiare il progetto per una grande ancona d’altare, la cui parte centrale
avrebbe dovuto rappresentare la Vergine col Figlio e il Battista ancora bambini
fra due ante coi profeti.
Con umiltà, ed anche con realistico buonsenso, essi pensavano di affidare
ad un maestro, cioè a Leonardo, l’esecuzione della tavola più importante.
E confortato dall’appannaggio del duca, Leonardo era andato dagli amici
De Predis per parlare più distesamente di quella tavola. Egli aveva in mente
una Vergine, non in trono come quelle finora dipinte da tutti gli artisti, da
Cimabue in poi, ma inserita in un mondo fantastico di rocce, con squarci di
luce su paesaggi lontani, e per tappeto ai suoi piedi un umile e glorioso
universo d’erbe e di fiori, come nella sua Annunciazione.
La Vergine delle rocce
– F Leonardo. – Dopoconoscere!
INALMENTE TI POSSO esclamò il Bramante andando incontro a
aver visto quella Madonna tra le rocce volevo vedere
anche il suo autore, non per dirgli bravo, ma per dirgli grazie.
Donnino Bramante Lazzeri, detto Donato, e più familiarmente Bramante,
era arrivato a Milano pochi anni prima, povero e sconosciuto; e lavorando alla
giornata e saltando più d’un pasto era riuscito a farsi conoscere e stimare, fino
ad ottenere dal duca Lodovico, insieme a importanti compiti d’ingegneria,
l’incarico di ristrutturare la chiesa di Santa Maria delle Grazie, compreso il
convento, i chiostri, la sagrestia e il refettorio.
– Ho udito il Moro parlare di te, e che intende utilizzarti sui navigli con
Antonio Brivio – continuò il Bramante.
– Io sono qui, pronto ai suoi ordini – rispose Leonardo – ma fino ad oggi
nessuno mi ha cercato. Io ho già fatto qualche studio sul naviglio della
Martesana e qualche calcolo circa «la spesa per la cavatura di un naviglio di
trenta metri»; ho percorso più volte le sponde del Ticino, considerando i modi
d’incanalare quell’acqua...
– Ti cercherà presto, vedrai – lo tranquillizzò il Bramante.
Una sicura amicizia unì subito i due artisti, una stima reciproca, un’affinità
d’interessi. Anche il Bramante amava definirsi «illetterato» e «ignorante» di
dottrina umanistica; eppure scriveva poesie, era grande amico del poeta
lombardo Gaspare Visconti, studiava i classici dell’architettura, non soltanto
nei trattati, come quelli del Vitruvio, ma nel vivo dei monumenti.
«Con una masserizia grandissima – narra il Vasari (ossia vivendo con una
parsimonia francecana) – misurava tutte le fabbriche antiche... in Lombardia
prima, a Roma e a Napoli poi, «dovunque e’ sapeva che fossero cose
antiche... se ne servì assai».
Per il Bramante, come per Leonardo, qualunque duomo doveva sorgere dal
centro di una croce greca o dal centro di una struttura molto vicina al circolo:
e il duomo immaginato da Leonardo, e di cui resta il disegno nel «Codice
Atlantico», ha molte affinità e molti elementi in comune col progetto della
Basilica di San Pietro, che Michelangiolo riscattò coraggiosamente dalle
successive deformazioni di Raffaello e del Sangallo.
Sempre in quel periodo Leonardo fece amicizia con un altro architetto,
Giacomo Andrea da Ferrara, per di più scienziato ed amico, a sua volta, dei
famosi medici-astrologi Gabriele Pirovano e Luigi Marliani.
Nello studio di Leonardo, dove il fido Zoroastro aveva impiantato anche la
sua fucina d’alchimista, questi amici si davano spesso convegno per effettuare
insieme esperimenti e ricerche.
Intanto Lodovico – come aveva detto il Bramante – si era fatto vivo: aveva
ufficialmente «allogato» a Leonardo l’esecuzione della statua equestre del
duca Francesco Sforza; poi lo aveva chiamato a far parte – con lo stesso
Bramante, il Brivio ed altri – del collegio degli «ingegnarii ducales»; gli aveva
inoltre assegnato il compito di progettare, insieme col Brivio, una rete di
canali per allacciare le acque del Ticino con quelle della Martesana, e infine gli
aveva ordinato, ma sottovoce, di fare il ritratto alla bella Cecilia Gallerani.
«Amantissima mia Diva»
L ODOVICO SFORZA, QUANDO Leonardo arrivò a Milano, era fidanzato con una
bambina di sette anni, della famiglia d’Este; e in attesa che la futura
consorte diventasse donna, aveva scelto come amante una fanciulla sedicenne,
Cecilia, della nobile famiglia dei Gallerani, la quale, oltre ad esser bellissima,
era anche colta. Tanto erudita, anzi, che il Bandello, più tardi, travedeva per lei
e la rammentava nelle sue novelle come «la moderna Saffo», facendoci sapere
che la bella signora non soltanto scriveva eccellenti versi in italiano, ma anche
in latino.
Una signora, appunto; perché il Moro, dopo averla amata e dopo aver avuto
da lei un figlio di nome Cesare, riconosciuto e legittimato proprio come aveva
fatto ser Piero col piccolo Leonardo, la fece sposare al conte Lodovico
Bergamini, proprio come l’astuto ser Antonio aveva fatto con la povera
Caterina. È vero; Caterina, pur essendo di «bon sangue», era sempre una
contadina di Vinci e non una nobile fanciulla lombarda; e il conte Bergamini,
pur essendo vassallo, oltre che amico, del duca di Milano, non era un
qualunque Accattabriga: ma il frutto del nobile amore di Lodovico fu un
cortigianello di nome Cesare, mentre il frutto degli ardori paesani di ser Piero
era stato un artista di nome Leonardo.
Cecilia, dunque, era bella e soprattutto sensibile, perché la cultura è sempre
un arricchimento interiore. Leonardo era bellissimo; ce lo descrivono alto,
elegante, coi lunghi capelli biondi e ondulati, la barba ben curata, gli occhi
azzurri, lo sguardo penetrante, la parola facile accompagnata da un controllato
gesto delle mani; mentre Lodovico il Moro era il tipico lombardo pervenuto
rapidamente al vertice della piramide, che amava definirsi pratico e concreto,
ignorante e di buonsenso; univa una sensibilità d’elefante a un’ombrosità da
cavallo di razza; era ambizioso, volgare, perfino brutale, e tenacemente
convinto che tutto e tutti si potessero comprare a peso d’oro, anche le
alleanze, le amicizie e gli amori.
Un mediocre poeta toscano, foraggiato dal Moro e nominato, anzi, poeta
ufficiale di corte, conferma in brutti versi la notizia del ritratto di Cecilia fatto
da Leonardo, simulando un dialogo fra il poeta e la natura, alla quale egli
domanda di che si adiri e con chi ce l’abbia, e la natura gli risponde che ce
l’ha col Vinci che ha ritratto una sua stella, Cecilia. Ma il ritratto tace, mentre
la donna vera parla, e allora:
«... Ringratiar dunque Lodovico or poi
Et l’ingegno e la man di Leonardo
Che a’ posteri di lei voglion far parte...».
Isabella Gonzaga, la petulante e taccagna marchesa di Mantova, che si
piccava di scoprire i talenti contemporanei collezionandone i pezzi – purché le
costassero poco o nulla – scrisse nel 1498 a Cecilia Gallerani, diventata
contessa Bergamini, mandando apposta un «cavallaro» da Mantova a Milano,
per chiedere «in visione» il ritratto fattole da Leonardo, al fine, piuttosto
meschino, di confrontarlo con uno di Giovanni Bellini.
«Essendone hogi accaduto vedere certi belli retracti de man de Zoanne
Bellino siamo venuto in ragionamento de le opere di Leonardo cun desiderio
de vederle al parangone di queste havemo, et ricordandone ch’ el v’ha retracta
voi dal naturale, vi pregamo che per il presente cavallaro quale mandiamo a
posta per questo, ne vogliati mandare epso vostro retracto, perché ultra che ’l
ne satisfarà voluntieri il parangone, vederemo anche voluntieri il vostro volto
et subito facta la comparatione ve lo remetteremo...».
Cecilia rispose mandando il ritratto e precisando che, se non era
somigliante, la colpa non era del Maestro; «... et invero credo non se trova a
lui un paro; ma solo è per esser fatto esso ritratto in una età sì imperfetta; et io
poi ho cambiato tutta quella effigie...».
L’età imperfetta era quella, meravigliosa e senza tempo, dell’amore.
Leonardo guardava il delicato volto della fanciulla, per ritrovarlo come gli
era apparso la prima volta in uno specchio, mentre la sua mano evocava con
sapienza i connotati interiori di quell’immagine.
La sala del castello, fastosa e festosa, dava a Leonardo quasi un senso di
euforica sicurezza.
Egli arrivava, ogni giorno, puntuale e si comportava come un perfetto
cortigiano. Era vestito con particolare eleganza, anzi, con raffinatezza, ed era
accompagnato dagli allievi, eleganti, giovanissimi e belli, che a guisa di efebi
lo servivano macinando e pestando i colori, diluendoli nell’olio, porgendogli i
pennelli.
Circondata dalle dame di corte Cecilia, immobile, guardava il pittore; forse
nella sala c’era anche un ermellino, che di quando in quando fuggiva di
gabbia terrorizzando le fanciulle. Ma l’imprevedibile e inesauribile Leonardo
aveva per tutti, e soprattutto per lei, una favola o una leggenda.
«Un ermellino correva sulla neve, sulla cima di un monte, e i cacciatori lo
videro. Allora fuggì per tornare nella sua tana che si trovava assai più in
basso. Ma il sole aveva sciolto la neve intorno alla tana trasformandola in
pantano. L’ermellino si fermò...».
Anche Leonardo interrompeva volutamente il racconto per concentrarsi, in
quell’attimo di silenzio, sopra un particolare del ritratto, creando un momento
di sospensione collettiva, poi, dopo un ultimo tocco di pennello, seguitava
con un sorriso:
«No, l’ermellino non poteva sporcare il suo candido mantello, non se la
sentiva di sguazzare nel fango come una volpe qualsiasi. Rimase lì, sull’ultimo
lembo di neve; vide i cacciatori arrivare di corsa, finché una freccia lo colpì a
morte...».
Cecilia, lei sola, capiva le allusioni del pittore. Meglio la morte che
sporcarsi nel fango di tutti i giorni: la purezza del pensiero e del cuore, come il
manto dell’ermellino, è sacra più della vita.
Ora anche lei incominciava a guardare in Leonardo, a cercare e a ritrovare
in lui qualcosa di se stessa, proprio come l’artista cercava dentro di lei
qualcosa di sé.
La fanciulla dall’età «imperfecta» si scopriva e si riconosceva non nel
dipinto ma nelle parole del pittore; mentre per lui le sedute diventavano vere e
proprie trasfusioni di pensieri.
Cecilia, a volte, si sentiva come creta che prendeva forma e vita dalla voce
di Leonardo; si accorgeva di essere modellata dalle sue parole, diventava una
sua creatura.
– Perché non fate scultura? Ritenete superiore la pittura? Voi siete anche
scultore.
– È vero – rispondeva sorridendo l’artista – e «adoprandomi io non meno
in scultura che in pittura, mi pare potere dare sentenza su quale sia maggiore...
La differenza è che lo scultore conduce le opere sue con maggior fatica di
corpo ed il pittore con maggior fatica di mente...». Poi, con ironia, Leonardo
descriveva a Cecilia lo scultore sudato e sporco, come uno scalpellino o uno
spaccasassi, mentre il pittore «con grande agio siede dinanzi alla sua opera,
ben vestito, e muove il lievissimo pennello con i suoi vaghi colori,
accompagnato da musiche, senza strepito di martelli...».
Cecilia sorrideva incredula. Aveva visitato l’antro di Leonardo, conosceva
la sua fucina, il suo volto assorto nel riverbero della fiamma, aveva visto le
sue sculture e la prima, immensa ossatura metallica del cavallo. Aveva visto i
suoi disegni di anatomia, immaginato la sua solitudine, il suo sgomento
davanti ai cadaveri vinto solamente dalla disperata volontà di conoscere;
sapeva il dramma di quell’uomo solo, intuiva ciò che lui non diceva,
ascoltava ciò che le sue parole nascondevano, perché si era finalmente accorta
di amarlo.
Se non siamo sicuri che sia di Cecilia la frase scritta su uno dei taccuini di
Leonardo, e poi da lui diligentemente lavata, che incomincia con «Lionardo
mio», è certo che Leonardo e Cecilia si davano del tu – quando era d’uso il
voi anche tra coniugi, parenti ed amici – e certissimo, nello stesso taccuino, è
questo scritto di Leonardo, abbozzo di una lettera:
«Magnifica domina Cecilia, Amantissima mia Diva. Lecta la tua
suavissima...».
«Crudele e dispietato mostro»
T UTTA LA VITA di Leonardo è fondata sui «pare» e sui «si dice», e molto
spesso la scoperta fortuita di una data butta definitivamente per aria un
intero castello di dotte supposizioni.
Così non si può passare con disinvoltura da un fatto all’altro – dal ritratto
di Cecilia Gallerani a quello di Beatrice d’Este, per esempio – senza il dubbio,
o meglio, la certezza, che fra questi due episodi, di cui abbiamo le prove, ce
ne siano tanti altri che non conosciamo, ma che fanno da tessuto connettivo
alla vita quotidiana di questo ermetico personaggio.
Milano, per Leonardo, significa il trapasso dalla giovinezza alla maturità; e
se questo periodo è sempre fondamentale per tutti, è di capitale importanza
per un uomo come lui.
Con gli studi e i progetti per le cupole del duomo di Milano e di quello di
Pavia egli si rivela architetto, con una preparazione scientifica formata non
solo alla fonte classica di Vitruvio, ma a quella moderna di Leon Battista
Alberti e di Francesco di Giorgio Martini. Con la Vergine delle rocce e le altre
Madonne ora perdute, e poi col ritratto di Cecilia, egli impone alla pittura
lombarda un nuovo stile; anzi, la rivoluziona addirittura, e trova subito, com’è
naturale, il consenso dei giovani. A buon diritto, perciò, egli può dire di avere
una sua scuola, che per la vastità degli interessi «umani» su cui essa allarga le
sue ricerche, potrebbe definirsi, sull’esempio di quella fiorentina,
un’«Accademia».
Con i bassorilievi e le teste eseguite a Firenze, e soprattutto con l’immenso
cavallo in preparazione, egli si riconferma come il più valido continuatore
dell’opera del Verrocchio.
Con i suoi scritti, da illetterato che si è fatto da sé, ossia consapevole
dell’efficacia dei propri mezzi espressivi, egli trova un linguaggio e uno stile e
si permette di autodefinirsi, in polemica coi letterati del suo tempo, «omo
senza lettere».
Ma non basta. Sezionando i cadaveri, e proponendosi di scrivere un trattato
di Anatomia, egli anticipa il Vesalio; nel metodo sperimentale applicato alle
ricerche scientifiche, costituito dalle «prove» e dalle «controprove», anticipa
Galileo ; nell’idraulica prepara il terreno ai grandi tecnici del secolo
successivo, nella meccanica precede di almeno quattro secoli le scoperte e le
conquiste della nostra civiltà cosiddetta «tecnologica».
Ma tutto ciò è testimoniato per monosillabi, per accenni, come in un
linguaggio iniziatico, e per di più, come abbiamo già visto, traducibile soltanto
mediante uno sdoppiamento – il riflesso di un’immagine e di un segno in uno
specchio – come un «io» che si proietti oltre e fuori di sé, per riconquistarsi e
riconoscersi.
Alla cronaca e alla storia, nessuna concessione.
E intanto, in questo tempo, è già morto a Venezia Andrea del Verrocchio,
nel 1488, e il fedele Lorenzo di Credi ne ha riportato le spoglie a Firenze; nel
1492 muore a Careggi Lorenzo il Magnifico; in tutta l’Italia si parla già di un
frate riformatore che dal pulpito del duomo di Firenze minaccia la curia di
Roma. Muore il papa Innocenzo VIII e viene eletto al soglio di Pietro un
anticristo di nome Alessandro VI. A Milano Lodovico il Moro sta tramando il
più grande attentato alla libertà territoriale d’Italia invitando il giovane e
ambizioso re di Francia, Carlo VIII, a passare le Alpi per conquistare il regno
di Napoli. Sempre a Milano è in atto una guerra «fredda» fra le due
primedonne del ducato, Isabella d’Aragona e Beatrice d’Este.
Leonardo, estraneo a tutto questo, si dedica allo studio della negromanzia,
con tutti i suoi fenomeni di spiritismo e di metamorfosi; prende parte a sedute
medianiche, cerca le ragioni di quelle virtù, avverte anche qui la presenza di
«fenomeni» oscuri e indistinti: poi rinuncia a proseguire su quel terreno senza
una consistenza reale, torna alla scienza «solare», e con un senso di
liberazione scrive: «La necromanzia, stendardo ovvero bandiera volante,
mossa dal vento, è guidatrice della stolta moltitudine... affermando che li
omini si convertano in gatti, lupi e altre bestie, benché in bestia prima entran
quelli che tal cosa affermano. O matematici – esclama Leonardo alla fine –
fate lume a tale grossolano errore!».
Questi matematici, nel senso più lato, sono i suoi veri amici, con i quali
s’incontra spesso per «investigare» sulla natura visibile ed invisibile delle
cose, e si chiamano Luca Pacioli, Fazio Cardano, Pietro Monti, Giacomo
Andrea da Ferrara, i due medici Marliani.
Il loro sodalizio, nella Milano chiassosa e festaiola di quegli anni, ha
qualcosa di simbolico: ciascuno di questi amici nasconde il proprio sapere
scientifico dietro una maschera d’ignoranza; essi parlano dell’uomo e del suo
divenire, di fisica e di alchimia, di medicina e di matematica, di astrologia e di
meccanica; cospirano insieme contro ogni superstizione in nome della scienza
e della ragione.
La corte di Beatrice
Inutile aggiungere che questi versi sono del Bellincioni, che si sentiva quasi
un collaboratore di Leonardo dal momento che intratteneva con le sue
improvvisazioni la bella e giovane duchessa di Calabria, consorte del Moro,
mentre il pittore fiorentino le faceva il ritratto.
Di uomini «excellenti», in verità, ne erano giunti parecchi, su invito del
duca Lodovico, specialmente da quando egli aveva istituito nuove cattedre
universitarie. Il giurista Giasone del Maino richiamava alle sue lezioni studenti
italiani e stranieri; Benedetto Ispano, Demetrio Calcondila e Giorgio Mèrula
facevano altrettanto con le lingue ebraica e greca; un frate francescano di
Borgo a San Sepolcro, Luca Pacioli, rendeva addirittura popolari le scienze
matematiche.
In contraddizione con queste liberalità, ma in logica conseguenza alle spese
pazze per i recenti matrimoni, Lodovico aveva limitato all’osso le spese di
corte, razionando, nell’interno del castello, non solo i viveri, ma anche la
legna e le torce.
Solo quando era «al verde», ossia quando aveva consumato la torcia o la
candela fino alla fascia terminale di color verde, ogni cortigiano poteva
riceverne un’altra, consegnando il mozzicone di quella già utilizzata.
Leonardo, con la sua scelta corte di allievi, a cui ora si aggiungeva il
bellissimo Salaì, ritraeva di profilo la bella e volitiva Beatrice.
Probabilmente era presente, assai spesso, anche il Moro, se è vero ciò che
riferisce un cronista dell’epoca, che «sentendo il Duca i ragionamenti tanto
mirabili di Leonardo, talmente s’innamorò delle sue virtù che era cosa
incredibile».
Leonardo, da bravo regista, sorvegliava prima di tutto se stesso. «Sempre le
parole che non sodisfano all’orecchio dell’auditore, gli danno tedio over
rincrescimento: in segno di ciò vedrai, spesse volte, tali auditori esser copiosi
di sbadigli. Adunque tu, che parli dinanzi a uomini di cui tu cerchi
benevolenza, quando tu vedi tali prodigi di rincrescimento, abbrevia il tuo
parlare, o tu muta argomento...».
Beatrice era appassionata di musica e Leonardo, lo sappiamo, era suonatore
di flauto e di lira; è logico dedurre che il salotto della duchessa, durante le
sedute per il ritratto, si trasformasse spesso in auditorium, se non addirittura
in teatro.
«Spiccarono in Leonardo – precisa il Giovio – pregi di grande compitezza,
accostumatissime e generose maniere, accompagnate da un bellissimo aspetto;
e poscia ch’egli era raro e maestro inventore d’ogni eleganza e singolarmente
dei dilettevoli teatrali spettacoli, possedendo anche la musica, esercitata sulla
lira in canto dolcissimo, divenne caro, in supremo grado, a tutti i principi che
lo conobbero».
Correvano di bocca in bocca, per le sale del castello, le sciarade,
gl’indovinelli, le favole, le facezie e le profezie di maestro Leonardo.
– Chi sono quelli che scorticano la propria madre rovesciandole la pelle
addosso?
– Chi sta, come se fosse morto, sopra le spoglie dei morti?
Alludeva ai contadini che arano la terra, e all’uomo che dorme su letti di
piume.
Fanciulle e gentiluomini di corte si divertivano a risolvere gl’indovinelli del
Vinci, a ripetere i suoi aneddoti e le favole, che uscivano presto dalle mura del
castello per propagarsi in tutta la città.
– Hai sentito che cos’ha detto ieri maestro Leonardo a Sua Eccellenza? Una
favoletta da nulla, eppure il Duca dovrà rifletterci sopra e sciogliere qualche
nodo ai cordoni della borsa.
– E che ha detto?
– Mentre faceva il ritratto alla duchessa, maestro Leonardo è stato pregato
dal Moro di raccontare qualcuna delle sue meravigliose storie, e Leonardo,
senza lasciare i pennelli, ha detto quella dell’aquila reale.
«Un aquilotto sporse il capo fuori del nido e vide molti uccelli che
volavano intorno alle rocce.
– Chi sono? – chiese alla sua mamma.
– Non aver paura, sono nostri amici. L’aquila reale vive solitaria, ma ha
bisogno di una corte: se no, che regina sarebbe? Questi uccelli dalle piume
variopinte sono i nostri cortigiani.
L’aquilotto, soddisfatto della spiegazione della mamma, cercò una posizione
più comoda e si mise ad ammirare la sua corte. Ma ad un tratto gridò:
– Mamma, hanno rubato il mio pasto!
– No – rispose la mamma – non l’hanno rubato, gliel’ho dato io. E
ricordati, anzi, quello che ora ti dico: un’aquila reale non avrà mai tanta fame
da non lasciare una parte della sua preda agli uccelli che le stanno intorno.
Infatti, a quest’altezza, essi non troverebbero di che nutrirsi e dovrebbero
scendere giù per non morire di fame. Chi vuol tenere una corte, deve essere
sempre generoso e liberale, e in cambio dell’amore e dell’ossequio deve
nutrire ogni giorno i suoi fedeli cortigiani».
– E il Moro?
– Si è alzato, è andato vicino a Leonardo, gli ha battuto affabilmente la
mano sulla spalla...
Leonardo abitava poco distante dal castello. Una sera, tornando a casa,
trovò un biglietto senza firma. Era un addio.
Il giorno seguente, a corte, per le solite voci di corridoio, venne a sapere
che la duchessa Beatrice aveva posto al marito un ultimatum:
– O via lei, o via io! In questa casa non c’è posto per due mogli!
La ragion di stato, ma non solo quella, aveva avuto il sopravvento. Cecilia
era il passato, Beatrice, ancora così giovane, il presente: e la dolce Cecilia uscì
com’era entrata, in punta di piedi, dal Castello e dalla vita del Moro, per
diventare la moglie di Lodovico Bergamini, un amico dello Sforza.
Il cavallo
L E NOZZE DI Bianca Maria col figlio di Mattia Corvino erano andate a monte,
perché il Moro aveva trovato più vantaggioso, non per lei ma per sé, un
matrimonio con Massimiliano I, re dei romani e imperatore d’Austria.
Leonardo aveva preso incautamente l’impegno di esporre il modello in
creta del monumento equestre in occasione delle feste nuziali; e questa volta
non poteva lasciare il lavoro a mezzo, era in gioco il prestigio personale del
Moro.
«10 luglio 1493; ginetto grosso di messer Galeazzo, – morel fiorentino di
messer Mariolo, caval grosso, ha bel collo e assai bella testa – ronzino bianco
del falconiere (ha bella cervice di dietro, sta in porta Comasina) – cavallo
grosso del Chermonino, del signor Giulio».
Eccolo, perciò, ancora in cerca di modelli: la sua stanza era cosparsa di
disegni e di appunti: teste, colli, criniere, muscoli, nervi e garretti. Gli allievi lo
aiutavano come potevano, cioè poco o nulla; Maso Masini, il fedele Zoroastro,
preparava le «strutture portanti» per il modello grande, mentre l’artista dava
gli ultimi ritocchi al modellino.
Alla fine di novembre del 1493 arrivarono a Milano gli ambasciatori
dell’imperatore – fra cui il severo vescovo-conte di Bressanone – per
prelevare la sposa. La città era in festa: la grande piazza del Castello era
adornata con «mirabili e belli edifizi» e nel mezzo, maestoso e meraviglioso,
stava il monumento equestre del duca Francesco Sforza. Era soltanto il
modello di creta, ma l’abile Zoroastro gli aveva dato una patina speciale che lo
faceva sembrare non di bronzo ma d’oro. In latino e in volgare i poeti di corte
– il Lazzaroni, il Tacconi, il Curzio e il Bellincioni – dettero il via
all’entusiasmo e alle lodi. Diceva il Tacconi:
libre 3 di cera s. 27
per lo catalecto s. 8
palio sopra catalecto s. 12
portatura e postura di croce s. 4
per la portatura del morto s. 8
per 4 preti e 4 cerici s. 20
campana, libro, spunga s. 2
per li socterratori s. 16
all’anziano s. 8
per la licenzia a li ufiziali s. 1
--------------------
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s. 106
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in medico s. 5
zuchero e candele s. 12
s. 123
–L alla sprovvistapunto
EONARDO, A CHE è il cavallo? – Eccellenza – risponde Leonardo preso
da quella domanda del Moro – sto mettendo a punto un
sistema di crogioli multipli per fare arrivare il metallo fuso in tutte le parti.
– E poi?
Il Moro è sbrigativo, non ha tempo da perdere.
– E poi ho quasi messo a punto alcune leghe, una di bronzo e rame arso e
un’altra di bronzo mescolato con arsenico che promettono di dare ottimi
resultati.
– E quanto bronzo ci vuole?
– Duecentomila libbre.
– E quanti cannoni si potrebbero fare con tutto questo bronzo?
Leonardo, colto di sorpresa anche da questa domanda, guarda il Moro e
non risponde.
– Sarà meglio, Leonardo, che tu vada a dare un’occhiata al convento di
Santa Maria delle Grazie dove il Bramante ha già finito i lavori. Ci sarebbe da
decorare il refettorio di quei padri domenicani, che vorrebbero proprio da te
un’Ultima Cena. Poi, quando avremo calmato i Veneziani, provvederemo al
bronzo per il cavallo, e se i tuoi crogioli saranno pronti lo potrai gettare.
Leonardo si ritrova nel cortile del Castello senza nemmeno accorgersene.
Finché erano gli altri a sollecitarlo e a rimproverargli i ritardi, gli pareva che
tutto fosse ancora normale. Ora, invece, dopo quattordici anni di attesa, è il
Moro che gli dice di aspettare, e gli sembra quasi d’essere defraudato. Ha la
vaga sensazione che quel cavallo non finirà più, non sarà mai gettato in
bronzo. È come se lo spodestassero all’improvviso da un trono invisibile; gli
alambicchi, le storte, i fornelli, tutte le ricerche sulle leghe, adesso gli
sembrano inutili, capisce di aver perduto troppo tempo, anni preziosi, e di
avere abusato della pazienza di tutti.
Non sa a chi dirlo, si accorge d’essere senza un amico vero. Conosce
soltanto la sua disperata necessità di sapere, l’ossessiva processione di
«perché» a cui rispondere, il bisogno insopprimibile di camminare nella notte
con in mano una fiaccola, per far luce dove è ancora tenebra.
Sono egoisti anche gli allievi che vivono sotto il suo tetto, attenti solo alla
sua mano che dipinge, alla sua parola che li corregge. Lontano, al limite fra
l’uomo e l’animale, c’è quel bellissimo ladro del Salaì. Caterina è solamente
un ricordo.
Solo. All’improvviso si sente solo in mezzo alla moltitudine. Forse la colpa
è sua. Si è disperso in mille rivoli, ha rincorso troppe visioni, si è
entusiasmato di troppe cose e ora si trova a vivere in un mondo rarefatto dove
nessuno lo segue.
«E se tutta la mia vita fosse sbagliata perché non ho voluto fare soltanto
pittura?».
Leonardo è giunto a casa, apre l’uscio, entra nel laboratorio: sotto la
finestra c’è il tavolo, siede, apre a caso uno dei suoi quaderni, legge: «Se sarai
solo, sarai tutto tuo...». Lo richiude. Prende un foglio di carta e incomincia a
disegnare un Cristo, solo – anche lui – in mezzo agli apostoli, con la sua
inesprimibile tragedia interiore.
Il Cenacolo
S ULLA PARETE DEL refettorio di Santa Maria delle Grazie il centro «emotivo»,
convergente e irradiante, è ormai una realtà.
Nell’impeto della prima ispirazione Leonardo ha incominciato la grande
pittura – nove metri di base per quattro di altezza – sbozzando, dentro una
rigorosa geometria, le forme dei personaggi.
A differenza di tutti i suoi predecessori – da Giotto a Lorenzetti, da Andrea
del Castagno al Ghirlandaio – che avevano rappresentato la «comunione»
nella mesta dolcezza della cena, Leonardo rievoca il momento drammatico di
un annuncio che scompone, per sempre, l’unità degli apostoli – «Uno di voi
mi tradirà» – e imprime in quelle fisionomie lo stupore, la meraviglia,
l’incredulità, l’indignazione e l’orrore. Tutta la scena si muove intorno a Gesù
scomponendosi in quattro gruppi, ciascuno dei quali esprime un preciso
sentimento nell’espressione dei volti, nel gesto delle mani, nel moto della
persona e perfino nei piedi che spuntano di sotto la tavola.
«Quella figura è più laudabile – aveva scritto l’artista – che con l’atto
meglio esprime la passione del suo animo».
E Cristo, in mezzo a quel vortice di differenti passioni, calmo e triste dopo
il fatale annuncio, non è più soltanto un uomo, ma anche un essere divino,
avvolto in una solitudine irraggiungibile.
Leonardo dipinge e disegna: scompone e ricompone i suoi gruppi in una
serie di studi, riempie le pagine del suo taccuino annotando, anche per la
strada, idee frettolose:
«Uno che bevea e lasciò la zaina [il bicchiere] in lo sito e volse la testa
verso il suo proponitore.
«Un altro tene le dita delle mani insieme e co’ rigide ciglia si volta al
compagno. L’altro, con le mani aperte, mostra le palme [al compagno] e fa la
bocca della meraviglia.
«Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso
lui, e gli porge le orecchie, tenendo un coltello nell’una mano e nell’altra il
pane, mezzo diviso da tal coltello...».
Già nel 1497, come si legge in una lettera di Lodovico il Moro, il lavoro è
molto avanti: «... item de sollecitare Leonardo fiorentino perché finisca
l’opera del Refettorio delle Grazie...».
Ma Leonardo, dopo il primo impulso creativo, si ferma, si distrae, si
propone di cercare nuove tecniche pittoriche. Prepara una «arricciatura» di tre
intonachi diversi e sovrapposti che gli permetterà – almeno crede – di
dipingere a olio nel modo che lui chiama «sfumato», ossia con quella
ricchezza di particolari e quel continuo ripensamento che gli sono necessari.
La tecnica classica dell’affresco, che vuole una stesura del colore veloce e
senza pentimenti sopra il pezzo d’intonaco fresco, non è fatta per lui.
Michelangiolo, pochi anni dopo, affrescherà con pennellate decise come colpi
di mazzuolo tutta la volta della cappella Sistina. Leonardo è un problematico,
sottomette ogni segno, ogni colore – come ogni pensiero – a severe verifiche.
Deve poter correggere senza dover rifare; e l’affresco, invece, consente
soltanto di distruggere per ricominciare.
Matteo Bandello, che in questo tempo è novizio nel convento di S. Maria
delle Grazie, s’imprime nella memoria un’immagine «dal vero» di Leonardo
mentre dipinge la Cena:
«Soleva spesso – scriverà più tardi il novelliere – ed io più volte l’ho
veduto e considerato, andare la mattina a buon’ora a montar sul ponte, perché
’l Cenacolo è alquanto da terra alto: soleva, dico, dal nascente sole sino
all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il
mangiare e il bere di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stati due, tre e
quattro dì, che non v’avrebbe messo mano, e tuttavia dimorava talora una o
due ore del giorno, e, esaminando tra sé, le sue figure giudicava».
«L’ho anche veduto – dirà ancora il Bandello – secondo che il capriccio e
ghiribizzo lo toccava, partirsi di mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da
Corte Vecchia, ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene
dritto alle Grazie, et asceso sul ponte pigliare il pennello, et una o due
pennellate dare ad una di quelle figure, e di subito partirsi, e andare altrove».
Leonardo, anche se non dice nulla a nessuno, si è accorto che la
preparazione del muro è fatta male. I tre strati, composti ciascuno di una
sostanza diversa, non reagiscono in ugual modo all’aria e al calore; è come se
nella parete si nascondesse un cancro. Leonardo scopre, con terrore, una rete
di minutissime fessure ancora quasi invisibili, ma che il tempo accentuerà,
come rughe su di un volto. Cerca di rimediare ridipingendo sopra, ma sente
che questo suo capolavoro è fragile come il cavallo ancora da gettare. Allora
si stacca di nuovo dal lavoro, per studiare i rimedi, cercare una medicina
inesistente: è in uno di questi momenti di sconforto, forse, che lo sorprende il
Bandello – e molti altri frati con lui – immobile davanti a quelle figure.
«Dicesi che il Priore delle Grazie – scrive il Vasari, ampliando un aneddoto
raccontato da Giambattista Giraldi – sollecitava molto importunamente
Leonardo che finisse l’opera, parendogli strano veder talora Leonardo starsi
un mezzo giorno per volta astratto in considerazione; ed avrebbe voluto, come
faceva dell’opere che zappavano nell’orto, che egli non avesse mai fermo il
pennello.
«E non gli bastando questo, se ne dolse col Duca, e tanto lo rinfocolò, che
fu costretto a mandar per Leonardo, e destramente sollecitarli l’opera,
mostrando con buon modo che tutto faceva per l’importunità del Priore.
Leonardo, conoscendo l’ingegno di quel principe essere acuto e discreto volse
(quel che non aveva mai fatto con quel priore) discorrere col Duca largamente
sopra di questo. Gli ragionò assai dell’arte, lo fece capace che gli ingegni
elevati talor che manco lavorano più adoperano, cercando con la mente
l’invenzione, e formandosi quelle perfette idee, che poi esprimono e
ritraggono le mani, da quelle già concepite nell’intelletto. E gli soggiunse che
ancora gli mancava due teste da fare: quella di Cristo, della quale non voleva
cercare in terra, e non poteva tanto pensare, che nella immaginazione gli
paresse poter concepire quella bellezza e celeste grazia, che dovette essere
quella della Divinità incarnata. Gli mancava poi quella di Giuda, che anco gli
metteva pensiero, non credendo potersi immaginare una forma da esprimere il
volto di colui, che, dopo tanti benefizi ricevuti, avesse avuto l’animo sì fiero
che si fussi risoluto di tradire il suo Signore e Creatore del mondo. Pur di
questa seconda ne cercherebbe, ma che alla fine, non trovando meglio, non
gli mancherebbe quella di quel Priore tanto importuno e indiscreto.
«La qual cosa mosse il Duca maravigliosamente a riso, e disse che egli avea
mille ragioni. E così il povero Priore confuso attese a sollecitare l’opere
dell’orto, e lasciò stare Leonardo; il quale finì bene la testa del Giuda, che pare
il vero ritratto del tradimento ed inumanità».
Questo lungo brano conferma la familiarità che si è ormai stabilita fra
Lodovico il Moro e Leonardo. Sempre in questo periodo, l’artista decora per
il Duca la saletta Negra e la sala delle Asse nel Castello, come fa fede una
lettera di Gualtiero di Bescapè indirizzata a Lodovico: «... alla saletta Negra
non si perde tempo e lunedì si disarmerà la camera grande delle Asse cioè
della Torre: Magistro Leonardo promette finirla per questo settembre...»; ed è
in questo stesso tempo – forse al ritorno da Genova dove si era recato in
compagnia di Leonardo a studiare le fortificazioni – che il Duca accede
finalmente a una vecchia richiesta dell’artista, donandogli una vigna di sedici
pertiche fuor di Porta Vercellina, ossia nei pressi dell’attuale San Vittore.
Dono tutt’altro che principesco, perché una pertica misura 600 mq, e tutta la
vigna, perciò, è meno di un ettaro.
Tuttavia Leonardo è contento, possiede anche lui un pezzo di terra, come il
nonno Antonio, e potrà scriverlo al vecchio ser Piero a Firenze. Disegna
subito una grande pianta ed elabora molti progetti di trasformazione che
nessuno farà mai, poi cerca un contadino a cui dare quella terra in affitto
perché la lavori. La prende un certo Giovanni Caprotti da Oreno, padre del
Salaì.
Il frutto dell’ignoranza
L UCA PACIOLI ERA un po’ matto, come tutti i grandi matematici. Era nato a
Borgo San Sepolcro verso la metà del Quattrocento – come Leonardo – e
aveva studiato a Venezia ed a Roma. Ebbe un primo incarico d’insegnante a
Perugia e diventò subito famoso con un trattato d’Algebra. Fu chiamato ad
insegnare a Zara, quindi tornò a Roma dopo aver messo a punto la teoria dei
«poliedri regolari e dipendenti» che trovò in Melozzo da Forlì il primo
seguace, o la prima vittima, pretendendo il pittore di applicarla alla
decorazione dei capitelli del palazzo del giovane cardinale Girolamo Riario.
Nel 1483 Luca si fece francescano, non per vocazione, ma per comodità, ed
andò a Napoli a commentare Euclide. Lì conobbe il condottiero Gian
Giacomo Trivulzio, col quale studiò le applicazioni della matematica nell’arte
della guerra. Di nuovo a Roma, frequentò la casa del medico Pier Leoni che
gli fece conoscere le opere del Cusano ; quindi, nel 1493, stampò ad Urbino la
sua Summa de aritmetica, geometria, proportioni et proportionalità.
Leonardo, da Milano, ne ordinò subito una copia, insieme a una Bibbia e alla
Cronaca di Sant’Isidoro da Siviglia.
Figuriamoci dunque l’incontro fra l’illustre autore e il suo illustre lettore
quando Lodovico il Moro chiamò il francescano ad insegnare matematica a
Milano.
La loro amicizia fu come una malattia galoppante. Da una prima e distaccata
annotazione: «Fatti mostrare al frate di Brera De Ponderibus» si passò presto
al più confidenziale: «Impara la moltitudine delle radici da maestro Luca».
Leonardo portò l’amico alle Grazie e gli mostrò il Cenacolo incompiuto; lo
condusse in Corte Vecchia e gli mostrò il cavallo; lo invitò a casa sua, nel
laboratorio ingombro di carte e di strumenti, e gli mostrò – ultimo segno di
stima e di amicizia – i suoi appunti per il «Trattato di luce ed ombra», quelli
per il volume sulle «Proporzioni e anatomia del corpo umano» e quelli, assai
più numerosi, per il «Trattato del moto locale e delle percussioni e pesi e de le
forze tutte cioè pesi accidentali».
L’ammirazione del frate si trasformò in entusiasmo e non ebbe più limiti: la
Cena, il Cavallo, le «opere inimitabili» di Anatomia, di Prospettiva e di
Meccanica lo convinsero d’essere al cospetto del più grande genio d’ogni
tempo e d’ogni luogo. E mentre Leonardo riconosceva in Luca il suo maestro
e gli esponeva i suoi problemi di proporzione e di calcolo, altrettanto il frate
esponeva a Leonardo il piano di un’opera chiamata «De Divina Proportione»,
contenente non solo le più alte nozioni sui poliedri regolari, ma anche un
riesame analitico delle arti liberali secondo il pensiero di Leonardo.
Fu l’amico Luca a calcolare l’esatto volume del cavallo, la precisa quantità
di bronzo occorrente alla sua fusione ed il peso del monumento.
Fu l’amico Leonardo ad illustrare, con la sua «ineffabile sinistra mano –
come scrisse lo stesso Pacioli – a tutte le discipline matematiche
accomodatissima», il trattato De divina proportione, ossia «li platonici et
matematici corpi regulari et dependenti, che ’n prospectivo disegno non è
possibile al mondo fargli meglio».
I balestrieri guasconi
P RIMA TAPPA, MANTOVA. In quella città c’era una marchesa intelligente, colta,
amica e amante delle arti, ammiratrice di Leonardo: sarebbe stata una
follia non fermarsi da lei, almeno finché la caccia all’uomo dei francesi non
fosse finita.
E Leonardo, con Luca e gli altri, si fermò chiedendo ospitalità.
Isabella Gonzaga aveva restituito da poco tempo, e molto a malincuore, lo
splendido ritratto di Leonardo alla legittima proprietaria, la contessa
Bergamini, alias Cecilia Gallerani, già rivale della sua defunta sorella.
L’arrivo di Leonardo, quindi, avrebbe dovuto farla gridare di gioia se è
vero, come dicono, che quella donna si dava un daffare per quattro a caccia di
maestri e di capolavori. Principi e sovrani entravano apposta nel suo territorio
perché la bionda marchesa li guidava di persona a visitare la collezione di cui
andava orgogliosa e che comprendeva, insieme a molti pezzi d’arte
contemporanea, anche rari esempi d’arte antica.
Ma quella volta, invece, la marchesa accolse Leonardo con un sorriso a
denti stretti. Gli concesse ospitalità, ma senza nascondere la sua
preoccupazione, dicendo che i tempi eran difficili anche per lei; lo invitò nel
castello, ma gli fece capire cha la sua presenza poteva diventare pericolosa.
Poi, naturalmente, gli chiese di farle un ritratto, subito, disposta a posare
anche di notte; un ritratto bello come quello di donna Cecilia, anche se la sua
età non era altrettanto «imperfecta».
Leonardo, compitissimo come un gentiluomo di corte, aderì in parte alla
richiesta: le fece subito un ritratto a carboncino, anzi, due. E quando li ebbe
finiti – questione di qualche giorno – si accomiatò lasciando alla marchesa un
disegno e portando l’altro con sé per eseguire – così almeno disse, ma forse
convinto del contrario – il ritratto in pittura.
Isabella, con la paura addosso per via dei francesi a Milano, che avrebbero
potuto accusarla di dar ricovero ai fuorusciti amici del Moro, lo lasciò partire.
E fece male. Se ne pentì, ma troppo tardi. Con quel gesto ella aveva scoperto
la sua vera natura di donnetta piuttosto codarda, oltre che avida e petulante,
poiché, d’altra parte, non aveva neanche ragione di temere: il marchese suo
consorte, infatti, aveva tradito all’ultimo momento la fiducia del Moro per
unirsi alle forze di Venezia alleata dei francesi.
Ma da quel giorno Leonardo fu vittima di una vera e propria persecuzione:
la marchesa non gli dette pace, lo inseguì – come vedremo – con lettere ed
ambasciate, gli mise addirittura alle calcagna un frate, Pietro da Novellara, suo
ambasciatore a Firenze, per ottenere, se non il proprio ritratto, almeno una
madonna.
E Leonardo, naturalmente, prometteva sempre, in modo vago.
Alla fine si mosse lei stessa da Mantova con la scusa di una visita di stato:
gli chiese un quadro, uno qualsiasi, anche di formato minuscolo; e Leonardo,
sempre cortese, promise e non mantenne.
Ecco la brigata a Venezia. Luca Pacioli conosceva bene la città; e ricordava
anche la fame di quegli anni, quando, per mantenersi agli studi, aveva fatto
perfino il precettore in casa di un patrizio «sotto la cui ombra paterna e
fraterna – diceva a Leonardo – in lor propria casa me rilevai». Il matematico
riprese subito, con entusiasmo, a tener lezione in S. Bartolommeo ed aprì a
Leonardo le porte dei suoi vecchi amici e dei suoi nuovi allievi: sappiamo,
infatti, dai quaderni di appunti, che gli esuli milanesi furono accolti ovunque
con grande calore.
Leonardo entrò così in relazione col dotto senese Paolo Vannozzo – uditore
alle lezioni del Pacioli –, con un Salamon – forse Alvise, capitano di galee –,
con un Pier Pagolo da Como, col veronese Fra Giocondo, col canonico
Stefano Ghisi, della parrocchia dei SS. Apostoli, «quondam familiar del
clarissimo cardinale Grimani»; fece inoltre uno schizzo di un cavaliere in
mezzo a figure allegoriche, con la didascalia «Messer Antonio Grimani
veneziano compagno di Anton Maria» (il famoso doge ucciso nel 1499 a
Lepanto). Intanto, come suo costume, aveva incominciato sistematiche
ricognizioni nella città e nella laguna, e aveva potuto vedere e ammirare,
sull’alto piedistallo, il monumento equestre a Bartolommeo Colleoni, il canto
del cigno del suo maestro Andrea del Verrocchio.
La curiosità lo portò anche a studiare il fenomeno delle maree – «il flusso è
in Venezia due braccia» – quindi, osservando le conchiglie fra i sassi
dell’entroterra, si accorse che la spiaggia avanzava facendo arretrare l’acqua –
«come il fiume del Po in brieve tempo secca il mare Adriano, nel medesimo
modo ch’elli asseccò gran parte di Lombardia» – e con Luca Pacioli concluse
le sue indagini affermando che dove era terra, in altri tempi fu mare, e dove
era mare ci fu un tempo la terra».
«Illustrissimi signori mia, avendo io veduto come e’ Turchi non possano
venire prima in Italia per alcuna parte di terra ferma che non passino il fiume
Isonzio... ho giudicato non si potere fare riparo in alcun altro sito che sia di
tanta universale valitudine quanto quello che si fa sopra detto fiume...».
Questa nota si riferisce, probabilmente, a un incarico affidato dalla
Serenissima a Leonardo, relativo a una ricognizione nella valle dell’Isonzo
dopo che i Turchi, arrivati fin sotto le mura di Vicenza, avevano dimostrato
coi fatti che il punto debole della difesa veneziana era a nord, proprio nella
pianura dell’Isonzo.
Una cosa, ormai, era certa per tutti: Venezia non poteva essere difesa
soltanto dal mare, perché il nemico poteva assalirla facilmente anche dalla
terraferma.
Tornato dalla sua missione esplorativa, Leonardo passava la maggior parte
del tempo sul molo, a osservare «i navili e il moto delle onde», il flusso e
riflusso della marea, il volo dei gabbiani, il guizzo improvviso dei pesci a fior
d’acqua.
Egli si immedesimava nella natura, si immergeva, per così dire, nella forza
stessa degli elementi, con tutti i sensi in ascolto, pronti a carpire un segreto, a
cogliere una risposta a domande impossibili.
E l’idea, temeraria e geniale, si accese finalmente nella sua fantasia: in un
attimo egli intuì e vide la soluzione di tutti i problemi che angustiavano il
Senato della Repubblica da quando l’incauto Lodovico il Moro aveva
chiamato i Turchi in suo aiuto.
Dicono i suoi appunti: «Non insegnare e sarai solo eccellente», «Fatti cucire
la vesta in casa», «Ogni cosa sott’acqua cioè tutta la serratura...»; e poi, in note
più tecniche, «... Una vestigia di panzera», «... Una maschera con gli occhi
colmi e di vetro...».
In altre parole, Leonardo aveva scoperto la possibilità di restare sott’acqua
a tempo indeterminato, mediante una muta ed un’attrezzatura da
sommozzatore. Chiunque, munito di boccaglio e di erogatore d’aria, avrebbe
potuto nuotare sott’acqua ed applicare ordigni «a scoppio ritardato» sotto le
galere turche, se si fossero ancorate davanti al porto.
Chiuso a chiave nella sua stanza, Leonardo confutava ed analizzava la sua
scoperta. Nessuno strumento e nessun artificio, fra i tanti che aveva già
progettato e realizzato, poteva reggere al paragone di questo. Dimenticando la
fame ed il sonno, egli verificava, in una tinozza colma d’acqua, la tenuta della
maschera con gli occhiali, la capacità dell’otre pieno d’aria, la funzionalità
della valvola erogatrice, la razionalità degl’indumenti subacquei.
– Diventerò ricco – diceva a se stesso. – Questa Repubblica mi pagherà
qualunque somma, perché i Turchi possono arrivare da un giorno all’altro, e
la mia invenzione rappresenta non la difesa, ma la salvezza.
– Farò depositare la somma nelle mani di Manetto – (forse Alvise Manetti,
banchiere fiorentino in Venezia) seguitava a sognare Leonardo; – e poi farò
arrivare il denaro allo spedalingo di Santa Maria Nuova a Firenze, che mi
basterà per tutta la vita, e ne avrò da dare a chi non ne ha, perché questo
Governo mi verserà un tanto per ogni «acconciatura», e la farò fabbricare io
stesso per controllarne l’efficienza. I turchi sperimenteranno a loro spese la
mia invenzione, e non oseranno avvicinarsi mai più alla laguna...
Il soliloquio di Leonardo durò a lungo, tutta la notte, fino all’alba. Ma, col
passare delle ore, l’entusiasmo cedeva il posto al dubbio, la contentezza alla
paura. L’artista considerava la sua scoperta alla luce di tutte le sue possibili
applicazioni e conseguenze, e capiva, con certezza e sgomento, che gli uomini
se ne sarebbero serviti indiscriminatamente, non solo per legittima difesa
contro la flotta turca, ma per nuocere agli altri instaurando una nuova e più
pericolosa pirateria.
Allora smontò e ripose in una cassa i pezzi della sua scoperta: distrusse la
muta e la maschera, strappò i disegni. Quindi, col sole che già illuminava la
stanza, prese il suo libro d’appunti e scrisse:
«Come e perché io non iscrivo il mio modo di star sotto l’acqua... Queste
non pubblico e divolgo per le male nature delli omini i quali userebbero li
assassinamenti nel fondo de’ mari col rompere i navili in fondo e sommergerli
insieme colli omini che vi son dentro...».
Lo scafandro dei palombari, precursore della «muta» subacquea, sarà
reinventato soltanto quattro secoli dopo.
Il duca perse lo Stato...
I NTANTO ANCHE L’ALTRA parete della Sala del Consiglio Grande è allogata a
Michelangiolo, che sceglie un episodio della battaglia di Cascina,
combattuta dai fiorentini contro i pisani. Anche a lui viene data una stanza,
per l’esecuzione dei cartoni, nel tranquillo monastero di Sant’Onofrio.
La grande sfida è incominciata.
I due momenti più significativi dell’Umanesimo stanno per affrontarsi e
misurarsi: quello anteriore al Savonarola e quello posteriore; la pagana
serenità del tempo di Cosimo e di Lorenzo – come una riconquistata
giovinezza dopo i dubbi e i tormenti del secolo precedente – e la nuova crisi
che si sta manifestando non più fra l’uomo e Dio, ma nell’interiorità stessa
dell’individuo.
I cupi roghi accesi dal frate di San Marco, dove eran finiti molti codici,
molte opere d’arte e soprattutto molti aspetti dell’uomo del Quattrocento -– e
infine il rogo su cui era finito lui stesso – diventano una realtà che non può
essere più dimenticata. Quelle fiamme instaurano un nuovo modo di pensare
e di essere: l’uomo, che l’umanesimo aveva coraggiosamente esaltato, si
ripiega in se stesso, si arrovella, incomincia ad avvertire e a denunciare un
dramma interiore.
Leonardo impersona l’età d’oro dell’umanesimo, in armonia con la sua
stessa prestanza fisica, il portamento maestoso, da re Mago, le splendide vesti,
il seguito di allievi belli come angioli; Michelangiolo incarna la crisi
dell’umanesimo, il demoniaco contro l’olimpico, la contestazione contro ogni
forma di saggezza, la rivolta contro ogni benevola tolleranza.
È un giovanotto di 26 anni, piccolo, con una gran testa nera e spettinata, le
mani nodose, lo sguardo esaltato e febbricitante, malvestito, scontroso e
geloso, senza amici né alunni; in tasca, invece di un taccuino per gli appunti,
porta sempre e soltanto qualche terribile e terrificante predica del Savonarola.
I magistrati e i cittadini di Firenze sono consapevoli dell’eccezionalità di
questo confronto: il genio di Leonardo e il genio di Michelangiolo stanno
dando il meglio di sé, scrivendo una delle pagine più luminose della storia
fiorentina.
Leonardo, avendo incominciato per primo, è anche il primo a terminare i
cartoni: il 28 febbraio 1505, a un anno esatto dall’inizio, egli fa disfare i ponti
nella sala del Papa.
È un accorrere di gente. Lo stupore e la sorpresa sono pari all’ammirazione.
Leonardo ha voluto e saputo dimostrare ai suoi concittadini di non essere
soltanto un pittore «di grazia», il mago della penombra che tutti conoscono,
ma di possedere una grinta, di avere unghie e denti di leone.
Lo scontro di Anghiari, con i fiorentini guidati da Francesco Sforza e i
milanesi al comando di Niccolò Piccinino, era stato molto violento, anche se
con un solo morto accidentale. Leonardo aveva riconosciuto, in rapidi
appunti, la genesi stessa della battaglia: «Comincia da l’orazion di Nicolò
Piccinino a soldati e fuorusciti fiorentini... di poi si faccia come lui prima
montò a cavallo armato e tutto lo esercito li andò drieto... Qui a questo ponte
si fa gran pugna, vinsono li nimici...».
Aveva analizzato ogni episodio. Era andato perfino ad Anghiari, sul luogo
del combattimento, come attestano le note del suo quaderno.
Poi, nell’esecuzione finale, scompare ogni traccia di realismo geografico o
storico, la battaglia è solo uno scontro di forze, di volontà e di passioni
umane. Leonardo ha esasperato i movimenti, attorcigliando guerrieri e cavalli
in viluppi di muscoli e in contrasti di espressioni, con un effetto
impressionante.
Ma il suo antagonista non è da meno: anche Michelangiolo ha superato se
stesso. Invece della battaglia ha scelto un episodio marginale, quando i soldati
fiorentini fanno il bagno nell’Arno, e un trombettiere suona all’improvviso
l’allarme. Gli squilli di tromba, nella rievocazione michelangiolesca, hanno
l’effetto di una deflagazione: chi cerca i vestiti, chi le armi, chi la riva per
tirarsi su: un gioco di muscoli, un sapiente rilievo anatomico, una dinamica
così plastica da dare addirittura l’impressione che le figure balzino fuori dal
cartone.
L’encausto
Dice ancora la tradizione che si ferì gravemente, forse restò menomato per
tutto il resto dei suoi giorni, forse morì poco dopo.
Certo è che Tommaso Masini, dopo venticinque anni di fedele presenza
accanto a Leonardo, non è più nominato nei quaderni di appunti. La storia e la
leggenda di Zoroastro finiscono proprio in quei giorni, nel segno di un’altra
sconfitta.
Leonardo, sconvolto, tornò a Firenze, ma con l’animo deciso a fuggire. La
sua città, ormai, non gli dimostrava che invidia e rancore. Il buon prete
Alessandro lo seguì per non lasciarlo solo, per cercare d’invogliarlo a lavorare
per la marchesa di Mantova, la quale si era rivolta anche a lui nel vano
tentativo di avere il sospirato quadretto.
Leonardo liquidò le sue masserizie, lasciò liberi gli allievi, chiese udienza al
Gonfaloniere.
– Maestro Leonardo, quando pensate di ricominciare la pittura?
– Presto, Magnifico Messere. Vengo solo a chiedervi una licenza di tre mesi
perché devo andare a Milano.
– E se non tornate?
– Tornerò.
– Che garanzia mi date?
Leonardo guardò il Gonfaloniere con aria interrogativa.
– Voglio centocinquanta fiorini d’oro – disse il Soderini. Poi, accorgendosi
di avere ecceduto, si corresse:
– Voglio dire che, se non tornerete, dovrete pagare alla Signoria una multa
di 150 fiorini.
– D’accordo. -
Pochi giorni dopo Leonardo partì. Era la fine di maggio del 1506. Lo
accompagnava il Salaì. Sul terzo cavallo, carico di bagagli, c’era il ritratto
ancora incompiuto di monna Lisa del Giocondo.
PARTE QUARTA
Le bizze del Soderini
E CCO
vivere.
MILANO, COI suoi canali, i filari di pioppi e le nebbioline azzurre che si
dissolvono dopo l’aurora; e i milanesi faccendieri, gioviali, contenti di
Leonardo entra in città quasi in punta di piedi, per paura di trovare anche
qui l’ingeneroso voltafaccia dei fiorentini.
Per non subire l’affronto d’esser guardato da occhi che potrebbero fingere
di non conoscerlo come a Firenze – egli preferisce non esporsi agli sguardi,
nascondersi nell’anonimo.
E subito, da anonimo visitatore, viene a sapere che Leonardo, a Milano, è
sempre «il Maestro». Il popolo ha trasformato in leggenda le sue «gesta» di
architetto, d’ingegnere e di mago; le sue opere, e specialmente la Vergine delle
rocce e il Cenacolo, fanno scuola a tutti i pittori; le copie sono tante, e spedite
dovunque, da sfuggire a ogni calcolo.
Tutti fanno a gara per salutarlo, accoglierlo, festeggiarlo, riverirlo.
Il giovane Governatore di Milano, Carlo d’Amboise, che lo conosceva
soltanto per fama, lo riceve nel Castello con gli onori di un principe. Le parole
dei gentiluomini di corte sono un balsamo sulle ferite ancora dolenti del suo
animo.
Purtroppo ha solo tre mesi di permesso dalla Signoria di Firenze, non può
restare di più, né dare inizio a qualche opera di pittura per sua Maestà il re di
Francia.
Carlo d’Amboise capisce il desiderio dell’artista e scrive a Firenze per
chiedere una proroga di almeno un mese «... perché avemo bisogno ancora di
maestro Leonardo per fornire certa opera che gli abbiamo fatto principiare...».
L’opera è forse una Madonna col Bambino che gioca con un gatto, di cui si
conservano solo alcuni disegni; certo è che un quadro di Leonardo, di piccole
dimensioni, viene spedito d’urgenza a Blois, residenza del re.
Il Soderini, a malincuore, concede la proroga. Ma quando Carlo
d’Amboise, verso la fine di settembre, ne chiede un’altra, il Gonfaloniere
risponde risentito, affermando che Leonardo s’è comportato male con la sua
città «... perché ha preso buona somma di denaro, e dato un piccolo principio
a un’opera grande che doveva fare...». Che torni subito, dunque, a terminare
il suo lavoro «... perché l’opera ha a soddisfare allo universale...».
Ecco il punto. Leonardo si era arreso di fronte al disastro tecnico, ma non si
erano arresi né il Gonfaloniere né «l’universale», ossia il popolo fiorentino:
Leonardo, perciò, deve ricominciare.
Ma un uomo come Leonardo non può lasciare senza risposta un’accusa così
grave ed ingiuriosa: il Soderini, con la volgarità di un mercante, ha rinfacciato
a Leonardo i troppi denari ricevuti per un «piccolo principio» e Leonardo, da
Milano, gli rimanda i soldi.
Pochi giorni dopo, infatti, Alessandro Amadori – dopo aver messo insieme
la somma di 150 fiorini d’oro ricorrendo anche all’aiuto degli amici dell’artista
– si presenta al Soderini e gli consegna il denaro a nome del pittore. Il
Gonfaloniere, rosso di rabbia, non vuole accettarli.
– Leonardo vi manda a dire che il guadagno dell’onore è molto maggiore
che l’onore delle ricchezze. Sicché prendete i vostri fiorini e lasciatelo in pace.
– Io non voglio denari, voglio Leonardo; e questo scriverò al Governatore
di Milano!
A metà dicembre Leonardo è pronto a partire. Carlo d’Amboise gli
consegna una lettera per la Signoria di Firenze che resta, ancor oggi, fra le
testimonianze più valide e belle della stima del giovane condottiero per il
grande artista:
«... Le opere egregie, quali ha lassato in Italia, et maxime in questa città,
magistro Leonardo da Vinci, vostro cittadino, furon cagione di amarlo
singularmente, ancora che non l’avessimo mai veduto... Et noi volemo
confessare essere nel numero di quelli, che l’amavano prima che mai per
presenzia lo cognoscessimo...».
Umiltà e sincerità di Carlo d’Amboise; ci tiene a dichiarare di aver amato
Leonardo prima ancora di conoscerlo, solo per averne visto le opere. E
continua:
«Ma da poi che qua lo avemo maneggiato, et cum esperienzia provato le
virtute varie sue, vedemo veramente che ’l nome suo, celebrato per pictura, è
oscuro a quello che meritaria essere laudato in le altre parti, che sono in lui di
grandissima virtute. Et volemo – continua ancora il Governatore – che in le
prove fatte da lui di qualche cosa, che li avemo domandato, di Disegni ed
Architettura, ed altre cose pertinenti alla condizione nostra, ha soddisfatto cum
tale modo, che non solo siamo restati soddisfatti di lui, ma ne avemo presa
ammirazione».
Ed ecco la battuta finale, che avrebbe dovuto avere l’effetto di uno schiaffo
su guance più sensibili di quelle del Soderini:
«Per il che, essendo stato il piacer Vostro, di lassarcelo questi dì passati, per
gratificazione Nostra, quando non vi ringraziassimo, venendo lui in patria, ci
pareria non soddisfare a animo grato.
Et però ve ne ringraziamo quanto più possemo, et se uno omo di tanta
virtude conviene raccomandarlo alli suoi, ve lo raccomandiamo quanto più
possemo».
Ma intanto, da Blois, arriva a Leonardo un biglietto del suo amico
Francesco Pandolfini, ambasciatore della Repubblica Fiorentina presso Luigi
XII, che gli dice di non partire e di aspettare altre notizie.
Che cosa è successo? Un piccolo complotto, forse. Il Soderini vuole
Leonardo, e Carlo d’Amboise, alla fine, è costretto a cedere; ma intanto il Re
ha avuto la pittura dell’artista e certamente anche un messaggio del
Governatore di Milano: fatto sta che Luigi XII manda a chiamare il Pandolfini
e gli dice:
– Caro amico «bisogna che i vostri Signori mi facciano un piacere. Scrivete
subito che desidero servirmi di maestro Leonardo, loro pittore, quale si trova
a Milano». E fate in modo che il vostro governo ordini a Leonardo di mettersi
subito al mio servizio «et che non si parta da Milano fino al mio venire!».
Il Pandolfini cerca di prender tempo con una risposta diplomatica:
– Poiché Leonardo si trova a Milano, «Sua Maestà essendo in casa sua può
assai meglio della Signoria impartire a Leonardo questo ordine».
E Luigi XII, sul punto di perdere la pazienza:
– «Signor Pandolfini, non mi fate ripetere ciò che ho già detto!».
L’ambasciatore, allora, per rabbonire il Re, tesse gli elogi di Leonardo.
– Lo conoscete?
– Certo, Maestà, è un mio grande amico.
– Allora «scrivetegli voi subito un verso, che non parta da Milano, intanto
che i Vostri Signori gli scrivono da Firenze».
«E per questa ragione – concluse il Pandolfini scrivendo al suo Governo –
io ho fatto un verso al sopra detto Leonardo, facendogli intendere il buono
animo di questa Maestà, e confortandolo a essere savio».
Mentre gli leggono il lungo rapporto dell’ambasciatore, il Soderini si agita
come se stesse sulle spine. Non riesce a capire come un re di Francia se la
prenda tanto per un pittore, e soprattutto non riesce a mandar giù l’amara
pillola che il re gli vuol fare ingoiare costringendolo a scrivere a Leonardo
tutto l’opposto di ciò che avrebbe da dirgli.
Leonardo, imbroglione che non sei altro, qui c’è una pittura da rifare
perché tu l’hai sbagliata, una parete che ti aspetta poiché ti abbiamo pagato
affinché tu la dipinga, e un popolo che non vuol sentirsi deluso né tradito
dopo avere ammirato i tuoi cartoni, e tu, invece, scomodi addirittura un re
perché io ti scriva di non venire e ti ordini di restare al servizio di sua
Maestà...
In quel mentre arriva a Firenze un corriere speciale di Luigi XII latore di
una lettera autografa del monarca.
«Cari amici – très chers et grans amys. Nous avons nécessairement
abésognes – abbiamo assolutamente bisogno – de maistre Léonard à Vince,
paintre de Votre cité de Fleurance, et que intendons de luy faire fer qualque
ouvrage de sa main – perché intendiamo fargli fare qualche opera non
appena saremo a Milano – incontenent que nous seron a Millan, qui sera in
briev, Dieu aidand, – ossia fra poco, con l’aiuto di Dio. E subito che avrete
questa lettera scrivetegli di non muoversi da Milano fino al nostro arrivo...».
Povero Soderini! Con le mani nei capelli guarda e riguarda la lettera coi
reali sigilli, e non può fare a meno di ricordare le tre Bolle papali, una più
minacciosa dell’altra, che l’anno prima erano arrivate sul suo tavolo con
l’ordine di rimandare a Roma il fuggiasco Michelangiolo.
– Questi artisti ci faranno anche un grande onore, ma ci danno tante noie! È
appena passata la burrasca del Papa, che voleva farci guerra se Michelangiolo
non ritornava da lui, ed ecco ora un altro tuono che promette tempesta se non
diciamo a Leonardo di restare a Milano. Ma che ci resti pure, quanto e come
gli pare, che non si faccia più vivo! – grida, ormai fuori di sé, il Gonfaloniere
a vita della Repubblica Fiorentina.
A Vaprio d’Adda
L A COMITIVA USCÌ dalla porta di San Pier Gattolino – oggi sostituita dalla
porta Romana – avviandosi allegramente, su per la rampa di San Gaggio,
verso la Certosa. Era la fine d’ottobre, una mattina limpida e fresca, i campi
erano rossi di pampini dopo la recente vendemmia. Il SalaÌ precedeva di
qualche lunghezza, seguito dal Maestro con al suo fianco Francesco Melzi;
quindi, come una retroguardia, venivano Lorenzo, addetto ai cavalli e ai
bagagli, e il Fanfoia con le mansioni di maestro di casa.
Da Milano a Firenze essi avevan percorso lunghe tappe con brevi soste,
perché Leonardo aveva da sbrigare alcune faccende nella sua città, e
soprattutto da ricercare alcuni amici dopo i recenti sconvolgimenti.
Piero Soderini, infatti, era fuggito «mezzomorto» da Palazzo, di notte,
«facendo vista di volere andare alla volta di Roma» per rifugiarsi, invece,
nella più sicura e lontana Ragusa.
Sotto la minaccia delle armate di Raimondo Cardona, accampate fuor di
porta a San Frediano, e soprattutto davanti alla tragica evidenza di un «sacco»
come quello di Prato, dove in poche ore c’erano stati più di 5000 morti, i
fiorentini avevano vissuto momenti angosciosi. Nella città atterrita, allora, era
risuonato un grido più di disperazione che di speranza: – Palle! Palle! –
perché il cardinalino Giovanni de’ Medici e suo fratello Giuliano erano con gli
assedianti e avrebbero potuto risparmiare alla loro città stragi e saccheggi.
CosÌ, dopo diciotto anni di esilio, i Medici erano rientrati nel palazzo di via
Larga: Giovanni, il cardinale, aveva 36 anni, Giuliano 33. Il loro ritorno era
stato salutato come una salvezza, perché significava la fine dell’assedio:
nessuna opposizione da parte della città, nessuna vendetta da parte dei Medici.
Senonché gli antichi ordinamenti repubblicani e gli statuti del Savonarola
erano stati immediatamente soppressi; sciolto il Consiglio Maggiore, si era
tornati a quello dei Cento costituito da gente fidata e sicura. Il Machiavelli era
stato confermato Segretario dei Dieci di Balia – ossia del Governo – ma poco
tempo dopo, coinvolto indebitamente nella sciocca congiura di due giovani
esaltati, era stato deposto, torturato ed esiliato.
– È nel suo poderetto in Sant’Andrea in Percussina – precisava Piero
Martelli a Leonardo, dopo avergli raccontato, per sommi capi, le drammatiche
vicende della città.
– ... E Giuliano de’ Medici aveva cercato subito di imitare suo padre; anche
lui era amico degli artisti, colto, di buon carattere. Aveva incominciato col
tagliarsi la barba, in omaggio alle istituzioni repubblicane, e a indossare il
vecchio lucco repubblicano. Ora, col fratello papa, è a Roma anche lui.
Ma bisognava vedere Firenze quella notte che arrivò la notizia della fumata
bianca! Fuochi dappertutto, «scoppietti e mortaretti»; e quel che non veniva
giù dalle finestre del palazzo de’ Medici! Denari a sacchi e «berrette, cappelli,
cappe, lucchi e altri vestiti del magnifico Giuliano che fu una cosa stupenda».
– Oggi – concluse Piero Martelli – ci governa Lorenzo, figlio di Piero,
assistito dallo zio Giulio, arcivescovo di Firenze.
Passando davanti al chiostro di Santa Maria Novella Leonardo si ricordò di
avere ancora la chiave della sala del Papa. AprÌ, non senza commozione, ed
entrò: e con sorpresa vide che i suoi cartoni erano stati riportati lÌ, come in un
luogo più appartato e sicuro: li esaminò a lungo, in silenzio, per l’ultima volta.
Infatti, pochi anni dopo, non esistevano più: tagliuzzati e rubati, come quelli
di Michelangiolo, per eccesso d’amore, dopo essere stati, come scrisse più
tardi il Cellini «la scuola del mondo».
Versati 300 fiorini d’oro sul banco dell’Ospedale di Santa Maria Nuova,
Leonardo riprese il cammino per Roma. Senza fretta, questa volta.
Il tempo era splendido, e Piero Martelli aveva scritto una lettera al suo
amico Giuliano de’ Medici per annunciargli l’arrivo dell’artista.
La comitiva era arrivata ai Falciani e aveva già incominciato a salire per il
bosco di Sant’Andrea, quando Leonardo si ricordò che quelle erano le terre
del suo sfortunato amico Machiavelli.
In cima alla salita, appunto, c’era la casa semplice ed austera dell’ex
Segretario della Repubblica fiorentina e i cinque viaggiatori si fermarono.
– Sto qua, caro Leonardo, a sentire l’odore di Firenze che mi arriva coi
cavallari, coi corrieri di passaggio o con gli amici come te. Mi occupo del
bosco e della vigna, mi rodo il fegato con questi villici che cercano di
derubarmi anche quando si gioca a carte; poi, la notte, rivesto i miei abiti
curiali, e con i miei fantasmi vivo di nuovo nelle corti, parlo coi grandi, li
interrogo e li ascolto, ed ecco qua – il Machiavelli mostrò un pacco di fogli
già scritti – il resultato di questi colloqui.
I due amici desinarono insieme: Leonardo raccontò a Niccolò le ultime
vicende di Milano, il fiacco ritorno dello Sforza accolto dall’indifferenza del
popolo, la prima festa nel Castello trasformatasi in un vero e proprio
saccheggio da parte degli spagnoli; infatti, nel vedere tanti gioielli cuciti sugli
abiti dei gentiluomini e delle dame di corte, gli ufficiali del Cardona, sfoderati
i pugnali, si eran messi a tagliare i panni addosso a tutti gli ospiti del Duca,
uomini e donne.
Era quasi sera quando Leonardo arrivò a Barberino Val d’Elsa dove decise
di pernottare.
La mattina seguente, di buon’ora, la comitiva era già pronta per ripartire,
quando Leonardo vide sulla piazza una quantità di gabbie e di ceste piene
d’uccelli, messe bene in mostra da un venditore ambulante.
Si avvicinò: c’erano passerotti, fringuelli, tordi, lucherini, pettirossi,
capinere, merli, scriccioli, e altri volatili come tortore, colombi, upupe,
barbagianni, civette...
– Quanto vuoi? – chiese Leonardo.
– Di che?
– Di tutto.
– Di tutti questi uccelli? – domandò incredulo l’uccellaio.
– Tieni – disse Leonardo mettendogli in mano una borsa piena di monete.
Quindi, ad una ad una, aprÌ le gabbie, introducendovi delicatamente la mano,
e presi gli uccelli «li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà»,
come precisò, stupefatto, il Vasari. E al giovane Francesco Melzi, che
guardava meravigliato il Maestro, il SalaÌ, scuotendo la testa, disse: – Non c’è
nulla da fare. È sempre cosÌ, tutte le volte che vede qualche uccello chiuso in
gabbia.
Il magnifico Giuliano
Leonardo».
Un vino cattivo è tutto ciò che gli ha reso il podere dello zio Francesco; un
buon consiglio, e una preziosa «ricetta», è tutto ciò che lui può dare ai suoi
eredi, nel lasciare per sempre l’Italia.
Sul Monginevro
«...M lochoLdicto
ESSER EONARDO DE VINCE pictore del Re, al presente comorante nello
du Cloux,... considerando la certezza dela morte e
l’incertezza del hora di quella, ha cognosciuto et confessato... il suo
testamento et ordinanza de ultima volontà nel modo qual se seguita.
Primeramente el racomanda l’anima sua ad nostro Signore Messer Domine
Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a Monsignore Sancto Michele, e a tutti li beati
Angeli Santi e Sante del Paradiso.
Item...»
È il 23 di aprile del 1519, un sabato Santo. Leonardo, ormai a letto da
diversi mesi, ha convocato maestro Guglielmo Borian, notaio del Re, ed altri
cinque testimoni oltre a Francesco Melzi. Sono il vicario e il cappellano della
chiesa di San Dionigi, e il priore e due frati del vicino convento dei «minori».
I testimoni ascoltano ciò che il Maestro, sollevato sui cuscini, detta con
parole appropriate e in piena lucidità di mente e di spirito.
Prima l’anima, che non muore, ma vive ed ha bisogno di tanta misericordia;
e perciò «tre messe solenni e trenta messe basse» sia nella chiesa di San
Dionigi che in quella dei frati; poi il corpo, da seppellire nella chiesa di San
Fiorentino; poi le cose, i beni della vita.
«... Ad Messer Francesco da Melzo, Gentilomo da Milano» tutti i suoi
dipinti, i disegni, i manoscritti ed i libri «et altri Instrumenti et Portracti circa
l’arte sua et industria de’ Pictori». Ed in segno del suo grande affetto «tutti et
ciaschaduni suoi vestimenti».
A Battista de’ Villanis la metà della vigna fuori delle mura di Milano e
l’acqua del Naviglio; l’altra metà al Salaì «nel qual giardino il prefato Salay ha
edificata et constructa una casa»; e ciò «in remuneratione di boni et grati
servitii, che dicti de Vilanis et Salay dicti suoi servitori lui hano facto de qui
finanzi».
Leonardo è cosciente di ciò che afferma. Il Salaì non è più un figlio e
nemmeno un allievo; anche nel suo cuore la figura di quel suo caro e infedele
discepolo si è ridimensionata: Salaì non era che un servo; affezionato al suo
padrone, forse, ma ladro ed ingrato.
«Item... dona a Maturina sua fantescha una veste de bon pan negro foderata
de pelle... et doy ducati».
Quindi pensa ai funerali, che dovranno essere solenni, perché sono sempre
un corteo di famiglia, uno spettacolo, che esce fuori di casa e percorre le
strade sotto gli sguardi della gente. E Leonardo, socchiudendo gli occhi come
se già vedesse la cerimonia funebre, dice:
«... sexanta torcie le quali saranno portate da sexanta poveri ali quali
saranno dati denari», poi tutto il collegio della chiesa di San Fiorentino –
Rettore, Priore, Vicari e Cappellani – e quello di San Dionigi e del Convento
dei Minori; canto gregoriano ed incenso durante le messe, e tante candele
accese «dieci libre cera in candele grosse che saranno messe nelle dicte chiese
per servire al dì che se celebreranno dicti servitii».
Ai fratelli «carnali» – e non del cuore – lascia i 400 scudi d’oro depositati
sul banco di Santa Maria Novella e il poderetto di Fiesole. Esecutore
testamentario, con «pleno et integro affecto» è Francesco Melzi, lì presente,
che davanti ai testimoni accetta e sottoscrive.
Dopo che maestro Guglielmo e gli altri se ne sono andati, Leonardo guarda
Francesco che non ha saputo frenare le lacrime.
– Francesco – dice Leonardo – ordinare queste cose è normale previdenza.
Io non ho desiderio di lasciarti, come non ho motivo per abbandonare ad un
tratto questa terra. Io ho sempre detto che la vita è un dono, e chi non la stima
non la merita. Sicché dobbiamo meritarcela fino in fondo, senza mancarle di
rispetto con la paura della morte.
– Guarda – aggiunse voltando il capo verso la finestra – l’inverno è durato
a lungo, ma ora gli alberi si destano, tutta la natura si risveglia al richiamo del
sole. Rinasce, lo vedi?
L’ultima esperienza
PARTE PRIMA
Leggenda e verità
Buon sangue non mente
Il nibbio
Firenze
A bottega
Maestro e discepolo
La lezione del Verrocchio
L’aria sua, che bellissima era
Ella è cosa divina
La bocca della verità
O miseri mortali aprite gli occhi
La rotella
La congiura dei Pazzi
Il discorso di Lorenzo
Il berrettino di tanè
Le sottili «difficultà»
Zoroastro
I messaggeri di Lorenzo
Da porta a San Gallo
PARTE SECONDA
«E sia chi vole»
L’appannaggio
La Vergine delle rocce
Il primo Bramante
«Amantissima mia Diva»
«Crudele e dispietato mostro»
«Dammi potenza...»
Il duca ha fretta
Il Paradiso
Le nozze nel segno di Marte
Salaì
Una giostra memorabile
«O matematici fate lume»
La corte di Beatrice
Il cavallo
«Catelina»
Gli amici
«Se sarai solo sarai tutto tuo»
Il Cenacolo
Il frutto dell’ignoranza
Maestro Luca
I balestrieri guasconi
PARTE TERZA
Da Mantova a Venezia
Il duca perse lo Stato...
Da Venezia a Firenze
Prete Alessandro
«Non può patire pennello»
La patente ducale
La gelosia di Michelangiolo
La grande sfida
L’encausto
Lei
Raffaello
La battaglia perduta
Un’altra sconfitta
PARTE QUARTA
Le bizze del Soderini
A Vaprio d’Adda
Burocrazia fiorentina
«Perdas amicum...»
Gian di Paris
Luci ed ombre
Il cappone «imbriacato»
La fiera degli uccelli
Il magnifico Giuliano
Le burle e le beffe
Marignano
Francesco I
Le caraffe di vino insipiente
Sul Monginevro
«Disegna, Francesco»
«La vita bene spesa lunga è»
La mancina inimitabile
Il dono della vita
L’ultima esperienza