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I senti menti
del “ igSi®
Il cammino formativo
nella vocazione presbiterale e consacrata
ISBN 88-10-50820-3
1 Una delle due edizioni in lingua inglese reca già nel sottotitolo il riferimento a
entrambe le vocazioni (Guiding Young People in Religious and Priestly Formation,
ed è edito da Paulines Publications Africa)
esplicitamente riprese, ma nemmeno vengono lasciate prive d’un
quadro psicopedagogico di riferimento ideale. Semplicemente si ri
tiene, e questo - ci tengo a ripeterlo - soprattutto per ammissione di
quei formatori presbiterali che hanno letto il libro, che la sostanza
della proposta psicopedagogico-spứituale che emerge dal testo stesso
possa esser condivisa anche nell’ambito dell’iter formativo del sacer
dote diocesano.
La ragione? Niente di speciale o di particolarmente originale.
Forse il fatto che lo specifico di questa pubblicazione, nel suo picco
lo, è esattamente l’individuazione di alcune linee pedagogiche essen
ziali di crescita, nella vita spirituale di chi vuole rispondere con re
sponsabilità alla chiamata di Dio.
Probabilmente sempre per questo motivo il libro ha ừovato una
certa diffusione anche in contesti culturali diversi, perché proprio que
sta è l’attesa maggiormente sentita nel nostro ambito: non il semplice
chiarimento teologico-spừituale dell’identità del chiamato, ma la sco
perta del percorso metodologico che ci consenta di raggiungere quell’i
dentità nei suoi diversi lineamenti. Come abbiamo più volte constatato
in incontri con gruppi di formatori presbiterali, in Italia e all’estero.
Così, con molta semplicità, mi permetto ora di proporre il testo a
un pubblico più vasto, oltre il confine della vita consacrata.
D’altronde, in una Chiesa che sta sempre più riscoprendo la ne
cessità e la bellezza della condivisione dei carismi, niente di più natu
rale del condividere esperienze e pedagogie diverse e convergenti,
nel comune intento di costruire in noi l’immagine del Figlio, per la
pluriforme azione dello Spirito, affinché ogni creatura lo riconosca
Signore, a gloria di Dio Padre!
L’Autore
Capitolo primo
LA FORMAZIONE OGGI,
TRA PROBLEMI E SPERANZE
li
diazioni importanti sono quelle della comunità educativa, con la sua
articolazione di ruoli, e dell’ambiente adeguato, con condizioni e sti
moli che facilitino l’azione educativa. Se è Dio l’unico formatore, chi
lavora nella formazione svolge il molo del collaboratore-mediatore,
ruolo indispensabile per aiutare il giovane a lasciarsi convertire e pla
smare dalla grazia.
Rete
di mediazioni
pedagogiche
4. «Vidimus Dominum!»
3 Ibidem.
4 Chissà se si può applicare a superiori e formatori quanto certa pedagogia
odierna rileva a proposito dell’attuale generazione di genitori, i quali rappresentereb
bero l’ultima generazione di figli che hanno obbedito ai loro padri, e la prima genera
zione di padri che obbediscono ai loro figli...
5 È stato un argomento trattato nella prima relazione al Congresso stesso, cf. A.
CENCINI, Quando Dio chiama. La consacrazione: scommessa e sfida per i giovani di
oggi, Milano 1998, 22-21.
«Non bastano più né i maestri né i testimoni. Occorre l ’umile lavoro
di mediazione: mettersi accanto ai giovani, dialogare senza imporsi,
aiutarli a confrontarsi.. .».6
IL MODELLO FORMATIVO
Vogliamo, in questa prima parte, considerare il problema della
formazione dal versante istituzionale, e dunque sul piano di ciò che
l’istituzione fa per educare-formare-accompagnare il cammino di chi
desidera consacrarsi a Dio e appartenere alla famiglia religiosa. Da
questo punto di vista la formazione è dono e privilegio, sia per chi è
chiamato in prima persona a farsi carico di questi cammini, ovvero
formatori e formatrici, sia per chi è di fatto educato-formato-accom-
pagnato nel cammino stesso, ma di fatto diventa dono e privilegio solo
se vengono rispettati quei requisiti in cui abbiamo prima indicato le
condizioni per un effettivo processo propedeutico alla vita consacrata.
La prima componente di un qualsiasi progetto formativo è la de
finizione, il più possibile accurata, di un modello formativo, ovvero
di un disegno generale e altresì specifico che esprima l’obiettivo che
si vuole raggiungere, e come s’intenda raggiungerlo, o le modalità e
strategie di intervento.
Tale quadro teorico-pratico, teoiogico-antropologico di riferi
mento diventa il tessuto connettivo che dà ordine al processo evoluti
vo formativo e ragioni profonde a ogni suo elemento e componente
lungo il tempo della formazione iniziale e permanente, perché tale
formazione sia armonica e coerente.
Capitolo secondo
LA FORMAZIONE OGGI
Così nei nostri programmi c’è una sorta di «ipertrofia dei fini»,
un’ipertrofia che a volte sembra addirittura esaltarsi, divenendo ec
cessiva e ridondante, per la gioia, o la tranquillità, di chi ritiene che
per fare formazione basti dire, altissimi e vaghi, i fini, e pretende di
ignorare i mezzi, che poi vuol dire i soggetti, i contesti, i metodi.
Chiariamo subito: per metodo non intendiamo semplicemente un
insieme di tecniche, o una serie di processi messi in atto dair educa
tore, che funzionino come generici - per quanto efficaci - condizio
namenti psicologici, e neppure una prassi educativa che obbedisca ai
criteri della maturazione umana, individuale e di grappo, ma poi sia
sostanzialmente indipendente dalla maturazione cristiana, o più o
meno sganciata dalle specifiche esigenze della consacrazione a Dio.
Pensiamo invece al metodo come a una realtà intermedia tra teo
ria e pratica, e sottolineata da queste tre caratteristiche:
- è strettissimamente legata al contenuto, nel nostro caso costi
tuito dal modello teologico, e connaturale al carisma, poiché ivi
ritrova le sue radici;
- di tale modello è la logica e inevitabile conseguenza operati
va, quasi la sua scomposizione in singole tappe o in obiettivi
intermedi, in una gradualità di percorso che consente di rag
giungere in modo ordinato e progressivo l’obiettivo finale;
- ma è già in se stesso, in quanto tappa e traguardo intermedio,
parte integrante ed essenziale del disegno finale, come una
sua anticipazione che ne consente anche una progressiva degu
stazione.
Possiamo a questo punto cogliere la differenza tra tecnica e me
todo. La tecnica educativa è una serie di operazioni finalizzate al
conseguimento di un obiettivo pedagogico (normalmente di tipo atti
tudinale), ma che possono esser agevolmente sganciate da qualsiasi
ispkazione ideale, come fossero «senz’anima» (né radici), una sorta
di metodo neutro, che proprio per questo può esser applicato in con
testi diversi (indipendentemente da una scelta di fede); viene appli
1. Modello teologico-antropologico
5 A tal proposito va comunque detto che nel testo originale biblico il senso è
molto più forte e non è reso sufficientemente dalla traduzione italiana; il verbo greco
fronein indica infatti il modo profondo di sentire di una persona, non solo emozioni e
«sentimenti» passeggeri.
6 Cf. A. CENCINI, «Una istituzione al servizio della formazione», in Antro
pologia interdisciplinare e formazione, a cura di F. IMODA, Bologna 1997, 592-593.
2. Strategie generali: legge della totalità
e della dinamica esperienziale-sapienziale
10 Ibidem, 67.
metodo l’elemento debole della formazione alla vita consacrata. Non
pretenderemo qui di risolvere in poche righe il problema, ma solo fa
re riferimento alle indicazioni illuminanti che ci vengono ancora dal
documento post-sinodale. In sostanza l’uomo nuovo, esso dice, è
uomo «autenticamente libero», ed esige, dunque, di essere formato
alla libertà."
Il disegno è davvero coerente, e non solo su un piano contenuti
stico, ma anche su quello strategico del rapporto tra contenuti teolo
gici e metodologia educativa: se, infatti, fine della formazione è la
configurazione ai sentimenti del Figlio, allora il processo educativo
non può che divemre vera e propria formazione alla libertà. Se fine
della formazione fosse solo l’abilitazione a un certo tipo di apostolato
o il possesso di particolari qualità virtuose, allora la metodologia
formativa potrebbe seguire qualche altro percorso, ma se si deve for
mare il «cuore», nel senso biblico e pieno del termine, allora non può
esistere altra via al di fuori della libertà; se il modello teologico-
antropologico di riferimento è l’umanità di Gesù, come espressione al
massimo gradò di una libertà che si trascende nell’amore, allora il
metodo di formazione non ha alternative. Il cuore, infatti, non può es
ser costretto, ma può e deve essere educato a scoprire la grandezza
della chiamata e la bellezza della proposta, e reso poi capace e libero
di dare risposta come il Figlio ha risposto al Padre, donandosi total
mente. Avere gli stessi suoi sentimenti non significa tentare una sua
esteriore imitazione, ma accedere alla densità del suo mistero e in es
so scoprire anche il proprio mistero: libertà è la realizzazione di que
sta «misteriosa» identità. Vedremo più avanti gli aspetti metodologici
e pratici di questa formazione; accenniamo ora brevemente alle sue
fasi lungo il periodo iniziale.
L’articolazione che ora presentiamo non va intesa in modo rigi
do o nel senso che una escluda l ’altra. L’idea centrale è che a ogni fa
se dell’itinerario classico educativo verso la consacrazione corri
sponda in qualche maniera una certa attenzione educativa al proble
ma della libertà, che va... liberata da quanto la soffoca e inibisce (è la
fase del pre-noviziato), che va poi edificata su un fondamento solido
(il noviziato), e infine va realizzata e orientata secondo una prospet
tiva ben definita (il post-noviziato). Ma, ovviamente, senza corri
spondenze assolute e definitive, come se fosse possibile, ad es., libe
rare totalmente il giovane nella fase del prenoviziato. In certo senso
queste tre articolazioni sono sempre presenti, l’una continua nell’al
tra, ma con accentuazioni diverse lungo le stagioni corrispondenti.
Questo per quanto riguarda la sequenza dinamica.
LE MEDIAZIONI PEDAGOGICHE
Capitolo quarto
b) Formare
Non basta educare, si deve anche formare, proporre un modello
preciso, come un nuovo modo di essere o una «forma» che costitui-
3 Per una più chiara indicazione delle tappe che conducono alla conoscenza
dell’altro e della sua inconsistenza cf. più avanti cap 16, paragrafo 2.
see la nuova identità del consacrato, quel che è chiamato a essere, il
suo io ideale, forma che diventa norma e tras-forma la vita.
Gli ultimi decermi, secondo alcuni, sono stati tempi di reticenza
e ambiguità, se non di silenzio, sul contenuto di questo modello;
l’azione pedagogica, nei nostri ambienti, è stata più di natura educa
tiva che formativa, s’è come accontentata di richiamare ognuno al
compito di conoscersi per «essere se stesso», rischiando però di ap
piattasi sull’orizzonte un po’ neutro e di basso profilo dell’autorea-
lizzazione, come se il primo e unico comandamento fosse quello di
affermarsi nella vita, magari in competizione e a danno degli altri, e
senza alcuna novità per un io destinato a ripetersi all’infmito. E inve
ce solo con la proposta di un autentico modello che si imprime una
direzione nuova e precisa al giovane, che lo provoca al livello più al
to delle sue possibilità, ma pure gli dona tantissimo, lo attrae perché
fonte della sua verità mentre gli propone un liberante (e pur costoso)
cammino di conversione.4
Così, se l’educare è evocativo della verità dell’uomo, il formare
comporta una pro-vocazione dell’umano, una proposta che chiede di
dare il massimo di sé esproprio per questo, svela alla fine ciò di cui il
singolo è capace. In ogni caso un’autentica attività formativa ha effet
ti dirompenti: è novità che sorprende e a volte spaventa, crea nuove
aspettative e sollecitazioni, porta tensione e anche insoddisfazione,
chiede di cambiare le abitudini e i vecchi stili di vita, sposta in avanti
l’equilibrio della persona verso orizzonti impensati, apre una nuova
fase di vita ma sollecita pure resistenze e difese... Se educare è dis
sodare il terreno, formare è immettere in esso la vitalità del seme,
come forza prorompente e foriera di vita nuova; quel seme che cade a
terra, muore e dà frutto.
In una parola è la logica della trasformazione. Un processo di
formazione è autentico solo se conduce alla tras-formazione, a un
cambiamento radicale nel modo di pensare, di volere, di amare; alla
metanoia o alla conversione, in termini spirituali. Strano a dirsi, l’im
pressione è che molto spesso il cammino formativo si fermi prima 0
non si spinga fino a chiedere una trasformazione di mente-cuore-
volontà, un cambio, cioè, non solo di comportamenti (molti formatori
ne sarebbero già appagati), ma anche e soprattutto della sensibilità,
dei gusti, dei criteri di giudizio, di ciò che sta a cuore..., di tutto
l’uomo, insomma. Altrimenti la formazione è finzione o solo appa
renza, intellettuale o morale o sentimentale, ma sempre e solo qual
cosa che riguarda solo una parte, una dimensione delPorganismo
c) Accompagnare
Infine la terza articolazione, che rappresenta in qualche modo lo
stile pedagogico generale. L’educatore-formatore di cui abbiamo par
lato e un fratello maggiore, maggiore nell’esperienza esistenziale e
nel discepolato, che SI pone accanto a un fratello minore per condivi
dere con lui un fratto di strada e di vita, perché questi possa meglio
conoscere se stesso e il dono di Dio, e decidere di rispondervi in li
bertà e responsabilità.6 La dimensione dell’io che qui diviene oggetto
specifico di attenzione è Vio relazionale.
L’accompagnamento è lo stile di Emmaus, icona di qualsiasi ac
compagnamento nella fede. Ma è lo stile, soprattutto, dello Spirito
Santo, il «dolce ospite dell’anima», la compagnia di Dio in noi,
l’iconografo interiore che plasma con fantasia infinita il volto di cia
scuno secondo rimmagine di Gesù.
«La sua presenza è sempre accanto a ogni uomo e donna, per condur
re tutti al discernimento della propria identità di credenti e di chiama
ti, per plasmare e modellare tale identità esattamente secondo il mo
dello dell’amore divino. Questo “stampo divino” lo Spirito santifica-
L ivello
Io Attuale Io Ideale Io Relazionale
DELL’IO
COMUNITÀ EDUCATIVA
1. Elementi strutturali
4 Cf. La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Chrìsti amor», 24.
5 V. Bosco, Il ruolo educativo della comunità religiosa, Torino 1978, 5.
Ciò, evidentemente, non è in contrasto con l’idea e la prassi
dell’équipe educativa, che, anzi, rappresenta un arricchimento della
proposta e una condivisione della responsabilità, oltre a garantire una
maggiore specificità e incisività degli interventi. Quel che va impe
dito, semmai, è che l’équipe coưa il rischio di funzionare in definiti
va da alibi, ad es., per i cosiddetti «pellegrini», quelli che hanno la
tendenza ad andare ora dall’uno ora dall’altro educatore, a ognuno
dicendo qualcosa dei propri problemi, ma a nessuno consegnandosi o
con nessuno aprendosi totalmente; così come va scoperto il trucco dei
«latitanti», coloro che assicurano il responsabile di essere seguiti da
«qualcuno» (non meglio precisato), mentre in realtà si gestiscono con
discreta disinvoltura la vita in proprio, nascondendosi nel collettivo e
stando ben alla larga da ogni confronto.
È possibile avere una guida spirituale esterna alla propria comu
nità formativa (e magari anche al proprio istituto)? In teoria certamente
sì; ciò che è importante è che il giovane venga personalmente seguito,
e, d’altea parte, nessun formatore può considerarsi padrone della vita di
un altro. In pratica, però, va tenuto presente che si possono perdere in
tal modo quei vantaggi che sono legati alla condivisione di vita tra for
matore e candidato prima ricordati, esponendosi a un rischio, quello di
fraintendere o di lasciar fraintendere il significato della formazione co
me mediazione: in effetti, come abbiamo accennato, a volte il giovane
che cerca altrove questa mediazione è semplicemente il giovane dal
palato spirituale un po’ sopraffino che non può accontentarsi di «quel
che passa il convento» e cerca il padre spirituale «extra-comunitario»,
magari famoso e naturalmente più bravo di quello casalingo. Col risul
tato che la relazione diventa sempre più generica e astratta, distante
dalla vita e dai problemi reali della persona; mentre il giovane stesso si
pone sempre più fuori della logica divina e rischia così di non capire
mai qual mistero di grazia si nasconda nella debolezza umana! Un
conto è che il formatore sia competente e sia messo in condizione di
avere una certa preparazione; tutf altro discorso è la pretesa del giovane
di avere un formatore perfetto...
Diversa è la situazione quando invece per vari motivi esiste già
una relazione significativa tra padre spirituale «esterno» e giovane
(come nel caso di una conoscenza anteriore o di un intervento parti
colare contemporaneo quale quello dello psicologo); in questi casi,
normalmente, non c’è contrapposizione tra il cammino «esterno» e
quello «intemo», 0 - quanto meno - i livelli di intervento possono
rimanere distinti e complementari, nell’interesse della persona.
Tornando alla figura del formatore sarà importante che non vi
sia una sovrapposizione di ruoli sulla sua persona, né sul piano spi
rituale (che, ad es., non debba fare anche il confessore) né su quello
della gestione della comunità (che non gli tocchi di essere anche su
periore): in entrambi i casi vi sarebbe, oltre alla concentrazione su
una stessa persona di responsabilità (e pericolo di superlavoro conse
guente) e di potere (col rischio di mandare messaggi ambigui),
un’interferenza di livelli diversi di intervento, che finirebbe per di
sturbare l’azione educativa e non gioverebbe ad alcuno.
1. Coerenza
2. Bellezza
3 Cf. M.I. RUPNIK, D all’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa,
Roma 1996, 47.
po, una comunità ove sciatteria e scadimento estetico rendono grigia
e monotona l’esistenza, ripetitivi i gesti e privi di fantasia, già vecchi
i membri e povera la testimonianza e l’attrazione vocazionale (e chi
mai andrebbe dove non è bello stare?).
Ciò che sorprende e sconcerta è che ancora vi sia chi trova non
così importante e addirittura superfluo e inutile questo riferimento
alla bellezza e non coglie come la bellezza sia strettamente connessa
con la verità, come una sua emanazione,4 o chi - come dice von Balt
hasar - al sentir parlare di bellezza
3. Capacità di provocazione
L’ambiente educa e forma nella misura in cui pro-voca, ovvero,
etimologicamente, chiama ad andare oltre, a procedere sempre nel
cammino e superarsi, e impedisce di fermarsi e accontentarsi del tra
guardo raggiunto.
CM è responsabile della formazione deve sapere che - da questo
punto di vista - l’ambiente è molto influente, crea clima, quel clima
che tutti respirano e che così spesso condiziona l’agire; il formatore
deve realisticamente sapere che il suo stesso messaggio educativo
viene filtrato in qualche maniera da quel potente mediatore che è
l’ambiente, dalla mentalità che s’è lentamente creata, dalle consuetu
dini sempre più radicate, dalle comodità implicitamente giustificate,
dai meta-messaggi che circolano spesso indisturbati e arrivano sem
pre a destinazione. Insomma, esiste la pressione di gruppo, che è co
me una forza neutra, e può spingere e indirizzare sia verso l’entu
siasmo di una scelta creativa che verso l’inerzia della più squallida e
confortevole mediocrità.
4 Interessante, in tal senso, questa riflessione di Pifano: «La bellezza traluce sul
teưeno della verità; e la verità, dal punto di vista biblico, è “fedeltà” dell’uomo e del
cosmo al disegno di Dio, all’imago Dei. Ciò che è vero, secondo questa “imago" è
“bello”, anche secondo la forma. Vivere nella bellezza, allora, è vivere kat’eikòn, os
sia componendo e ricomponendo Vimago Dei, ritrovando così la nostra forma origi
naria di creature e di figli di Dio-Padre» (P. PlFA NO , Sulla bellezza, Napoli 1983, 61),
e quella forma specifica che è legata al proprio carisma religioso.
5 H .u . VON B a l t h a s a r , Gloria. I. La percezione della forma, Milano 1985,11.
Quante volte la motivazione ad agire (o, a volte, a trasgredire) è:
«fanno tutti così...!», o quante volte l’opposizione a cambiare certe
abitudini incallite o a risvegliare certe «pigrizie comunitarie» viene
solo dal fatto che «... si è sempre fatto in questo modo!?». Al tempo
stesso, non è forse vero che i più giovani, di fatto, imparano certi va
lori e stili di vita proprio da quello che vedono nei fratelli maggiori?
In effetti il gruppo è un’entità sociale che, di per sé, ovvero, se
abbandonata a se stessa, tende a funzionare a regime minimo. Regime
minimo che si attiva press’a poco così: una volta definito, in modi
non espliciti, un certo livello accessibile a tutti e non troppo eccelso,
il gruppo recepisce e provvede subito a diffondere e promuovere al
suo intemo messaggi che confermano il livellamento (in basso), men
tre tenderà a escludere quanto potrebbe modificarlo spingendolo in
alto e chiedendo un certo costo. Anche la comunità formativa è
«spinta» da questa... forza di inerzia, tanto più in una cultura del
l’analgesico e del mediocre come quella di oggi, che tende a elimina
re ciò che risulta faticoso e domanda sacrificio.
Sarà allora importante che il formatore sappia tutto ciò e abbia al
cune attenzioni. Anzitutto deve saper rilevare il tono della comunità,
per individuare, eventualmente, quello stile un po’ pagano che tende a
privilegiare gli equilibri minimali e chiede il minimo sforzo. Molte
volte questo stile opera in modi molto sottili e apparentemente corretti;
ma proprio questo è il problema: l’ideale di una comunità formativa
non è quella certa serenità fatta di assenza di tensioni o di povertà di
relazioni, né quel clima un po’ appiccicoso ove ci si sforza di piacersi
reciprocamente sotto la guida compiaciuta di un innocuo formatore e
nessuno provoca nessuno per render sempre più evangelica la risposta
al dono ricevuto. La fraternità che educa non è luogo di compiacenza,
ma di edificazione reciproca. E allora l’educatore per primo deve agire
di conseguenza, ponendo ognuno di fronte alle sue responsabilità e tutti
dinanzi a una realtà di vita consacrata che diventa bella e vivibile solo
quando è vissuta con la radicalità del dono.
Non è facile, per altro, eliminare vecchie comode abitudini per
fame partire di nuove e più impegnative, ma si sta tutti meglio, in real
tà, quando s’infonde nuovo slancio alla comunità e s’inteưompe quel
clima diabolico di inerzia che rende pigra e sonnolenta la vita, e mentre
irride i sogni dei giovani uccide pure la speranza degli anziani.
È vero che il gruppo tende a funzionare al minimo, ma quando è
debitamente pro-vocato può diventare un potente attivatore di energie
e un incredibile trascinatore, anche per quelli dal passo più pesante.
La saggezza deir educare consiste, a questo punto, nel saper fare la
giusta provocazione e all’interlocutore giusto, cioè al gruppo. Ovve
ro, anzitutto deve saper proporre quella provocazione che si pone
esattamente un gradino al di sopra del livello raggiunto dal gruppo, e
non è né troppo alta né si pone al di sotto delle possibilità del gruppo
stesso: se troppo alta non sarebbe capita o sarebbe eccessiva e7 se at
tuata, sarebbe un fuoco di paglia; se troppo bassa non avrebbe suffi
ciente capacità di frazione e non faciliterebbe una crescita. Il formato
re, da questo punto di vista, deve essere sempre un poco più avanti, a
indicare la strada e a fare il passo.
Seconda attenzione: colui che accompagna il cammino educatìvo-
formativo non può né deve accontentarsi di sollecitare il singolo, ma far
in modo che il gruppo, in qualche modo, assuma quel dinamismo e vi
vacità che lo rendano educatore di se stesso e dei suoi membri.
Allora il gruppo, in quanto entità reale e ben visibile, diventa un
potente alleato nella formazione, mentre la provocazione dell’am
biente può diveiùre ancor più efficace e vincente di quella del for
matore.
4. Senso di responsabilità
7 Ibidem, 26.
Capitolo settimo
6 PI, 50: E V W 6 2 .
7 Ibidem.
«Di conseguenza - afferma ancora il documento sulla formazione - è
affatto sconsigliato di compiere il tempo del noviziato in comunità
“inserite”», [cioè á stretto contatto con urgenze apostoliche, poiché]
«le esigenze della formazione devono prevalere su alcuni vantaggi
apostolici dell’inserimento in ambiente povero»;8
8 Ibidem.
9 Can 648 § 2: EV 8; cf. PI, 47: EV 12/57.
Questo periodo, infatti, è tempo di preparazione culturale e pa
storale, di contatti vari ed esperienze apostoliche, di apertura ai pro
blemi degli uomini e della società, e dunque anche di uno stile di vita
necessariamente meno strutturato e più libero. La casa del post
noviziato, allora, dovrebbe essere, logisticamente, vicina e anche
lontana rispetto alla comunità degli uomini, a significare la caratteri
stica centtale di questo periodo, quella della sintesi personale fra i
molteplici aspetti formativi. E se nel noviziato questa sintesi era solo
iniziale e privilegiava, quale punto di partenza, il rapporto con Dìo
vissuto nella solitudine e nel silenzio, anche isolandosi dal mondo,
ora il giovane deve imparare Iff difficile arte spirituale del cercare e
trovare Dio nell’azione, nell’apostolato, nel contatto con la gente,
nello studio, perfino nella babele delle lingue dell’uomo di oggi, spe
rimentando che non solo la preghiera è l’anima dell’apostolato, ma
pure l’apostolato lo è della preghiera.10
Lo studentato (o scolasticato) non è il noviziato, e deve progressi
vamente preparare il professo a vivere la tìpica spiritualità apostolica,
unendo il massimo della contemplazione col massimo della dedizione
apostolica. La sintesi si fa solo sui valori massimi, non combinando as
sieme livelli mediocri sul piano della maturità orante e apostolica.
È una sfida notevole per certi nostri giovani pigri e poco appas
sionati, ma è anche il complesso equilibrio di una casa di formazione
di professi temporanei, in cui - idealmente - tutto dovrebbe essere
studiato in modo da favorire la ricchezza e la convergenza, la specifi
cità e l’unità della stimolazione.
In concreto: anzitutto è necessario un ambiente specifico per questo
«periodo esplicitamente formativo»," non è buona cosa immettere imme
diatamente 1 professi temporanei in una comunità apostolica, come fanno
purtroppo molti istituti femminili e anche alcune congregazioni maschili,
magari con l’illusione che così i giovani impareranno subito a vivere da
religiosi, poiché la sintesi di cui abbiamo detto non è spontanea, né viene
automaticamente col tempo, ma ha bisogno di precise attenzioni formati
ve quali solo un contesto ambientale specifico può offrire.
Né sarà sufficiente favorire, magari indiscriminatamente, esperienze
apostoliche e contatti vari con la realtà esterna, e nemmeno percorsi sco
lastici garantiti soprattutto dalla qualità culturale della teologia insegnata;
l’elemento decisivo - ripetiamo - è la convergenza di tutto ciò, o che
tutto questo sia espressione della stessa fede ricevuta, pregata, celebrata,
sempre di nuovo scoperta, studiata, condivisa coi fratelli, trasmessa..., e
dunque tutto divenga in qualche modo mediazione formativa.
FORMAZIONE UMANA
Il terzo elemento che contraddistingue l’azione educativo-for-
mativa è costituito, come abbiamo indicato nel primo capitolo, da «li
na pluralità di dimensioni tra loro convergenti, nel senso di attenzioni
ad aree e contenuti diversi che devono esser presenti nel cammino
formativo».
Se si vuol formare alla scelta libera e responsabile di consacrarsi
a Dio, è necessario formare «tutta» la persona, o tenerne presente la
complessa globalità, cercando di convergere, in ogni atteggiamento
educativo, verso l ’unico obiettivo della maturazione dell’uomo, del
credente e del consacrato, senza divisioni e compartimenti stagni,
senza dispone il cammino in momenti rigidamente articolati e suc
cessivi tea loro.
Principio facile da ammettere sul piano teorico, ma tutt’altro che
semplice da poưe in pratica. Se è vero, infatti, che la fede e il dono di
sé a Dio portano a piena maturazione la nostra umanità, non sempre è
stato COSI nella storia di un certo tipo di consacrato, più «santo» che
uomo, o in cui una qualche pur sincera tensione di santità s’accom
pagnava con vistosi vuoti e problemi di maturità umana.
D’altro canto la consacrazione all’Eterno non è solo ecologia
intrapsichica, né igiene della mente e immunizzazione dei sensC e
neppure autorealizzazione umana tutta decisa da criteri contingenti,
ma qualcosa che suppone e poi promuove e supera radicalmente
l’umano.
Vediamo allora di capire le implicanze educative di questa con
nessione, cercando di fare un discorso non solo teorico.
Dimensione Componenti
Livello dell’io
pedagogica strutturali
Elementi
Presupposti Io Attuale Educare
architettonici
Contenuti Io Ideale Formare Elementi
Dinamismi Io Relazionale Accompagnare ermeneutici
Capitolo ottavo
LA DIMENSIONE UMANA
1. Presupposti
2. Contenuti
a) Conoscenza di sé
Anzitutto l’obiettivo-base di un cammino educativo è la cono
scenza di sé. Tale conoscenza, come ben sappiamo e spesso ripetia
mo, deve portare il giovane, come obiettivo primo, all'identificazione
del proprio problema centrale o di ciò che gli impedisce di far dono
libero e totale di sé. Ma non solo.
La conoscenza di sé è un’operazione globale di assunzione e in
tegrazione della propria vita, del proprio passato con le sue compo
nenti positive e negative, per riconoscere e apprezzare le prime, e ca
ricare di senso le seconde. Scopo, dunque, di questa lettura del vis
suto non è una semplice registrazione di dati utili per conoscere radici
e antefatti del presente o per cercare di riconciliarsi con certi eventi o
fantasmi del passato, ma il tentativo di scoprire il significato unico e
irripetibile della propria storia, o di pervenire a una conoscenza stori
ca di sé. All'inizio del cammino educativo in modo globale e generi
co, poi in modo sempre più puntuale e aderente al vissuto.
Si tratta di un significato che è nascosto in ogni evento, a volte
chiaro e subito leggibile, altre volte più difficile da cogliere, altee
volte ancora da attribmre in modo libero e responsabile a eventi che
sembrerebbero solo negativi.
Ad esempio, uno potrebbe semplicemente lamentarsi nei con
fronti della vita (o del «destino») per aver vissuto un’infanzia di
stenti e povertà, ma potrebbe anche ringraziare il cielo per avere spe
rimentato da subito certe asperità della vita che poi possono rinforza
re il carattere o educare a cogliere certi valori... Nel primo caso c’è il
rifiuto del passato, nel secondo c’è la scoperta in esso di un signifi
cato che potrebbe essere rilevante per la vita presente e futura; e an
cora, rifiutando una parte della propria storia si rifiuta una parte di sé,
accogliendola nel suo senso più profondo si accede alla conoscenza
piena dell’io.
Non è operazione semplice, ma è importante che il giovane vi
venga introdotto per capire che il senso del suo io è nascosto nella
sua storia, e che questa storia non è un dato semplicemente da suture,
fatto di episodi ormai incancellabili, o - nel migliore dei casi - dà ac
cettare, ma è mistero da scrutare e presenza da scoprire. E così la di
mensione umana si apre spontaneamente e piano piano a una dimen
sione ulteriore, mentre la vita e la storia diventano il luogo ove impa
rare a maturare un atteggiamento sempre più adulto e creativo, ancor
più contemplativo e capace di scoprire le tracce del mistero nel pro
prio passato.
In altre parole, l’obiettivo non è solo la conoscenza di sé (e dei
propri guai), ma quella conoscenza o scoperta di una storia personale
che segna l’inizio o la premessa di un rapporto del tutto nuovo con
Dio, non più solo teorico o sulla base del sentito dire, ma storico e
costruito sulla propria esperienza di vita o su una teofania assoluta-
mente personale, ancora oscura o non del tutto chiara, ma in grado di
svelare assieme il nome di Dio e dell’io.2Forse non è ancora fede ve
ra e propria, ma almeno la prima tappa di essa, con i dubbi e la fatica
che questa operazione, quando è genuina, comporta.
Ovvio che tale esercizio della memoria credente dovrà esser an
cora e sempre ripreso e approfondito nelle varie fasi educative, ma
deve in ogni caso esser considerato tìpico della dimensione umana,
perché la fede nasce autentica solo quando prende le mosse da
un’esperienza di vita e a essa ritoma; anzi, pnma di tutto è fede
nell’esistenza stessa e in ciò o in chi si nasconde in essa. Così come
anche la mistica e la capacità di contemplare, se non sono intrise di
storia personale e vissuta, sono false.
Il giovane va addestrato e deve esercitarsi a questo confronto
attento e rispettoso con la sua storia, con il «roveto ardente» della sua
esistenza, che arde di una presenza divina mai «consumata», ovvero
mai completamente riconoscibile.
La maturazione umana, da questo punto di vista, può esser con
siderata come la prima tappa della maturità credente.
2 Su questo aspetto cf. A. CENCINI, La storia personale, casa del mistero. Indi
cazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997.
Il secondo contenuto formativo della prima dimensione è costi
tuito da una proposta di maturità umana, del cuore, della mente e
della volontà, strettamente legata all’operazione storica appena av
viata. Tale proposta è conseguenza di essa e come tale va presentata,
a sottolineare quell’esigenza intrinseca di santità che sale discreta ma
ferma dall’interno della propria storia.
La maturità non è un pacchetto di buone azioni o intenzioni, ma
l’adesione inevitabile al richiamo irresistibile di quella verità, bellez
za e bontà che l’individuo ha imparato a leggere e ritto va attorno a sé
e particolarmente dentro i suoi giorni, come parte di un dono sor
prendente. Né tale maturità è decisa unicamente da una norma esterna
e oggettiva, ma dalla scoperta, semmai, che questa norma è scritta an
cor prima nel cuore e nella mente, nel vissuto e nelle esperienze. E
ovviamente va decifrata con cura, senza distorsioni percettive sog
gettive.
Sarà, allora, una maturità della mente, che impara a scoprire un
po’ per volta un misterioso disegno logico e coerente snodarsi lungo i
suoi giorni, e dentro questo disegno coglie la verità della vita e della
propria persona.
Sarà ancora una maturità del cuore, un cuore che batte attratto
dalla bellezza di questo progetto che rivela il soggetto a se stesso, e lo
fa partecipe di una bellezza che viene dall’alto.
Sarà infine una maturità della volontà che decide di far suo que
sto modello vero e bello, come un dono che rende buona la vita e la
persona stessa.
Ma ciò che è importante è la coerenza e linearità della proposta
educativa: se il giovane è stato educato a leggere nella propna storia
il progetto personale, o ha visto emergere lentamente la trama della
vocazione dal suo vissuto, è sempre lì che va educato a cogliere
l’appello della verità-bellezza-bonta della vita. E se dentro il passato
sta imparando pazientemente a riconoscere la presenza di Dio,
quell’appello si salderà sempre più spontaneamente con l’invito dello
Spirito a fare ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto. Senza bisogno
di far entrare in gioco altri elementi ascetici o di ricorrere a particolari
argomenti per convincere o forzare ad agire in un certo modo.
Nella formazione si deve esser molto logici e consequenziali at
torno a un nucleo essenziale veritativo, evitando di disperdersi in
mille sollecitazioni, che finiscono per confondere il soggetto e toglie
re forza all’azione educativa. D’altronde nulla è più convincente di
ciò che uno scopre nella sua vita come ricco di senso e fonte di verità
e di futuro per lui.
c) Il percorso della libertà
Terzo passaggio: dalla storia personale alla maturità di cuore-
mente-volontà, e da questa alla libertà, la libertà di essere quel che il
soggetto è chiamato a essere e che, a questo punto, dovrebb’essergli
abbastanza chiaro. Libertà è porsi di fronte all’evidenza storica di un
dono, percepirne la verità e l’attrazione; è decidere di prender posi
zione dinanzi a esso.
È il dono e la coscienza del dono a suscitare libertà. E quanto più
quella coscienza suscita gratitudine, com’è normale di fronte al dono,
tanto più vi sarà la libertà di donarsi o di concepire la propria vita
come «necessaria» gratuità. Dalla gratitudine alla gratuità: è il per
corso tipico della libertà.
Non ci può esser libertà al di fuori di questo percórso storico che
porta a scoprire e poi a decidere di vivere la vita come dono; né pos
sono dữsi liberi cuore-mente-volontà di chi non avverte sufficiente
mente il fascino di ciò che è vero-bello-buono. La libertà, in tal sen
so, è sensibilità educata, capacità di commuoversi dinanzi al bello e
di lasciarsi abbagliare dallo splendore della verità così come brilla
anche nel piccolo frammento della propria storia. Ed è un legame
prezioso quello che si stabilisce tra l’esperienza storica, la capacità di
lasciarsi seduưe da quel fascino e la libertà di rispondervi: e proprio
questa è la maturità piena, su un piano umano che s’apre sempre più
alla prospettiva della fede.
Ed e già anche, allora, un itinerario vocazionale e formativo,
credente e carismatico.
d) La libertà di fidarsi
Ma la libertà è comunque uri rischio, e questo spaventa oggi
molti giovani. Soprattutto diventa rischiosa quella liberta che compie
il percorso appena indicato, che sfocia nell inevitabile decisione di
fare della propria vita un dono gratuito...
Proprio qui, ancora una volta, diventa decisiva la lettura del pas
sato. Quando essa è fatta in modo non superficiale e il soggetto è
aiutato a percepire anche ciò che non appare a prima vista o sembra
addirittura negato dall’evento, dovrebbe consegnare al giovane que
sta verità e certezza:
«la vita è stata buona con me, mi ha accolto, voluto bene, curato, perdo
nato, e dato molto più di quanto avrei potuto pretendere, molto al di là
dei miei meriti... E allora, se il fatto stesso di esistere è segno che una
volontà buona mi ha preferito alla non esistenza, posso correre il rischio
di non pensare troppo a me stesso; se sono già stato amato, non ho bi
sogno di andare a cercare e conquistare segni di affetto; se ho già rice
vuto tanto, posso e devo preoccuparmi di dare; se la vita è stata buona
posso sperare che continuerà a esserlo. Mi posso fidare...»
3. Memoria biblica
C’è anche la memoria degli eventi che sono accaduti nel proprio
passato. Tale memoria, però, non è semplice registrazione di dati, ma
- almeno nella persona matura e adulta - significa un’organizzazione
di questi dati attorno a una verità capace di spiegare dati ed eventi.
Ovviamente tale verità sarà legata ai convincimenti della perso
na, al suo credo, religioso o filosofico che sia. Così, se uno crede al
destino riteưà che quel che gli è successo è dovuto semplicemente a
questa forza impersonale e indefinibile, o a quella dea bendata che è
la fortuna (e più spesso al suo contrario, alla sfortuna), o se crede
semplicemente in se stesso e nelle sue risorse attribuirà tutto a sé e ai
suoi muscoli.
Ma se crede nel Dio di Gesù Cristo, allora la vita passata assume
tutt’altro significato e i singoli avvenimenti diventano frammenti di
un disegno misterioso e pur progressivamente chiaro, ma in ogni caso
bisognoso di attenta e continua lettura. E la sua memoria diviene ce
lebrazione della continuità di tale disegno nell’oggi da essa stessa ge
nerato, alimentato e spinto ad andare oltre.
«il passato del credente è come una lampada posta all’ingresso del
l’avvenire»,5
lampada che getta una luce che abbraccia tutta la storia futura
dell’individuo, e dona dunque serenità e voglia di vivere che diviene
pure contagiosa.
Se la memoria biblica non è anche affettiva, diventa solo cultura
che non serve per la vita, o registrazione di dati che non commuovo
no; è neutra, non ispira alcuna gratitudine né dona fiducia, non fa na
scere libertà né conosce gratuità.
Ma, d’altro canto, la memoria affettiva deve confrontarsi con la
memoria biblica, altrimenti è solo emozione soggettiva e puramente
istintiva, non sempre evangelizzata e, se negativa, spesso anche senza
speranza.
Ora, nella vita passata di ciascuno di noi vi sono anche eventi
negativi (lutti, fallimenti, ingiustizie subite, peccati...), che potrebbero
aver lasciato una traccia emotiva negativa pronta a riemergere in de
terminate circostanze (così ci dice la psicologia), come una ferita ri
masta aperta o che basta molto poco per far ancora sanguinare. Il
«credente dalla buona memoria» sa che pure in queste situazioni ne
gative è nascosta una misteriosa presenza divina, sa che anche se sua
madre l’avesse dimenticato «io - dice il Signore - non ti dimentiche
rò mai» (Is 49,15), sa che anche l’esperienza della propria debolezza
può diventare esperienza di Dio, del Dio ricco di misericordia, e che
perfino il passato più sfortunato è lì a raccontare che Dio ha dise
gnato la creatura sulle palme delle sue mani (cf. Is 49,16); sa che Dio,
il Dio-vasaio, adopera a volte anche lo scalpello, e che particolari av
MATURITÀ UMANA
1 Così secondo il poeta Santayana, cit. da L.M. RULLA, Antropologia della vo
cazione cristiana, ì. Basi interdisciplinari, Bologna 1997, 129.
2. La forza nella debolezza
3. La libertà di pro-gettarsi
FORMAZIONE SPIRITUALE
La seconda dimensione che costituisce l’essere umano e che de
ve essere ben presente nella dinamica formativa è quella spirituale.
Tale dimensione riguarda in modo esplicito il credente che è in noi,
rxùra alla sua formazione e dunque anche alla maturazione delle com
ponenti spirituali dell’uomo interiore, come lo chiama Paolo, del cuo
re e degli affetti, della mente e della volontà, della libertà che si lascia
attrarre dalla verità. Se la dimensione umana rappresenta la profon
dità del mistero-uomo, ovvero le risorse di energia che egli possiede,
la dimensione spirituale indica l ’altezza cui l’uomo è chiamato, ciò
che può e deve diventare. E come l’altezza suppone la profondità, e
quanto più si protende in alto tanto più esige radici ben profonde, co
sì la dimensione spirituale non può stare senza quella umana, anzi la
realizza in pienezza, al massimo grado della sua umanità. Non vi po
trebbe essere, dunque, alcuna dimensione e maturazione spirituale
senza l’indispensabile supporto umano e senza che da essa ne venisse
una piena fioritura dell’umano.
Seguiamo lo stesso schema proposto per la dimensione umana:
elementi architettonici (dimensioni come risorse o presupposti fon
damentali) ed elementi ermeneutici (contenuti e dinamismi).
Capitolo undicesimo
LA DIMENSIONE SPIRITUALE
2. Contenuti
Se queste sono le possibilità, davvero notevoli, che s’aprono da
vanti a ogni essere umano, tocca proprio al formatore attivarle per
farle divenire realtà. Intervenendo su queste aree o contenuti.
a) Il principio religioso
Il primo contenuto formativo è costituito da quello che potrem
mo chiamare il principio religioso, da cui nasce la fede. Ovvero si
tratta di formare al «radicale riconoscimento dell’esistenza incondi
zionata dell’altro»,' per poi disporsi a vivere la fede come orienta
mento del proprio essere alla relazione con l ’Altro.
È nascosta, in questo argomentare, una precisa catechesi della
fede, come elemento caratteristico dell’uomo spirituale. Educare alla
fede vuol dire educare alla relazionalità, fin dai primi tempi dell’e
sistenza e con tutto ciò che essa implica, non solo come apertura e
capacità di rapporto, ma come accoglienza dell’assoluta unicità del-
l’altro e scoperta del suo valore, come rifiuto di ogni tentativo di
strumentalizzarlo e libertà di lasciarsi da lui toccare e condizionare.
L’attitudine credente non è semplice opzione ideologica né fuga
in un mondo distante ed estraneo aùe vicende personali relazionali,
ma è preparata da un lento apprendistato che porta l’io a usdre da se
stesso per concentrarsi sull ’altro.
È evidente, allora, che la fede si realizza nell’amore, quasi si
confonde con esso e da esso proviene. Mentre, al contrario, tutto ciò
che s’oppone all’apertura relazionale e rinchiude l’io, per quanto im
percettibilmente, in se stesso (irrigidimenti, tendenza a impoưe le
proprie idee, rifiuto della diversità dell’altro, atteggiamenti autoritari,
uso disinvolto della regola o della tradizione per prevalere e domina
re, ambizione privata di perfezione...) ostacola o indebolisce l’ade
sione credente.
È l’amore, non il quoziente intellettuale, che rende forte la fede.
\7 \7
Categorie bibliche:
Categorie psicologiche: gli eventi centrali
riappropriazione e integrazione della storia di Israele
MEMORIA
BIBLICO - AFFETTIVA
2 Circa questa teoria cf. o. KERNBERG, Teorìa della relazione oggettuale e cli
nica psicoanalitica, Torino 1970, 145.
2. Fede e vita presente
4 A tal proposito è interessante notare come fede in ebraico sia espressa col ver
bo che è presente nel nostro amen, verbo che significa «essere stabile, fondato» su
una roccia sicura (cf. G. RAVASI, «n ponte sul fiume», in Avvenire, 22 gen 1998).
Si crede con il cuore, con la mente e con la volontà a una pre
senza di Dio che s’è manifestata nella propria storia passata, che dà
significato a quella presente, anzi nasce e rinasce sempre nuova, pure
compiendosi, in essa, e che suggerisce un modo preciso di guardare il
futuro, anzi la certezza di tale presenza diventa chiave di lettura della
vita che è ancora da vivere, criterio delle scelte e speranza nelle prove
che attendono il credente.
Vediamo allora come far nascere nel cuore del giovane questa
fede-speranza che abbraccia il futuro.
È ovvio che i modelli finora presentati costituiscono già un’in
dicazione valida e fondamentale in tal senso. Ma pensiamo di poter
ancora cercare e trovare una proposta di crescita nella fede che di
sponga a guardare al futuro nel modo tipico di colui che sa che tutto è
nelle mani di Dio, e non si turba; né attende che la vita gli rotoli ad
dosso, ma le va incontro con l’ottimismo e il senso di responsabilità
di chi sa che Dio è fedele.
D ’altro canto i vari modelli che stiamo presentando stanno a dire
che dinanzi allo stesso dono dello Spirito diverse sono le possibilità
dell’uomo di lasciarsene possedere. Né è detto che il formatore debba
sceglierne una con esclusione delle altre, poiché queste diverse pos
sibilità non s’escludono tra di loro, ma possono essere usate in modo
convergente e complementare, dunque assieme.
e così è la fede.
Due cose almeno vanno sottolineate di questa originale lettura. Il
giovane va esercitato a vivere e praticare una fede che non anteponga
mai in modo rigido la sua comprensione comQconditio sine qua non
per agire, o - altrimenti detto - la sua convinzione soggettiva non può
diventare condizione assoluta per accogliere una mediazione o
un’obbedienza, o per fare una certa scelta. E questo sia perché la fede
suppone il ricorso a un’altea logica che non sia esclusivamente uma
na, a criteri non solo terreni, sia perché è l’assenso alla prospettiva
credente che ne fa comprendere la ricchezza, è solo quando uno deci
de di entrare in quell’altea logica che ne può assaporare il gusto e, an
cor più, è solo quando uno di fatto vive secondo quella logica «altra»
che ne scopre l’ampiezza di senso e di orizzonti che spalanca alla sua
persona.
La realtà della croce non è perdente, ma ricca di vita, però uno la
percepisce come tale solo dopo che l’ha abbracciata; la rinuncia per
amore non è deprimente, ma condizione per desiderare i desideri di
Dio, però questo viene colto solo in forza di un cammino spesso lun
go e per tappe progressive. Diversamente, finché il giovane sta ad
attendere o pretendere di veder tutto chiaro e convincente, non entra
mai nel suo futuro, e così diventa vecchio senza aver vissuto in pie
nezza né aver mai goduto della libertà giovane della fedeế
6 c . M olari, «Chiedere perdono per imparare dalla storia», in Rocca, 2(1998), 56.
Tav. 7: M odello evan gelico: la fe d e com e relazione con un volto, accoglien za
d e l m istero e rischio d e ll'im possibile
^tedecom ^
“Tu hai le parole
di vita eterna...” accoglienza del mistero
---------------------►
^edecom e^
“Sulla tua parola
getterò le reti...” rischio dell’impossibile
---------------------►
PARTE QUINTA
FORMAZIONE CARISMATICA
Siamo alla terza dimensione del processo formativo, quella cari
smatica.
Dovrebbe essere quella che fa da sintesi delle altre due. L’uomo
e il credente, infatti, non solo rivivono nel consacrato, ma in lui ritro
vano una possibilità sorprendente e inedita di sviluppare in pieno le
rispettive potenzialità e di affermare la propria individualità.
Nel grande disegno paolino (cf. Ef 3,18), se le dimensioni umana
e spirituale rappresentano rispettivamente la profondità e l’altezza del
mistero-uomo, la dimensione carismatica dice l'insieme del progetto,
quella bellezza che è il fratto congiunto della maturazione ai diversi
Uvelli e che rende singolare e inconfondibile, «bello» di divina bel
lezza, l’uomo stesso.
Ovvio che tale dimensione non potrebbe sussistere senza le altre;
chi si consacra a Dio è anzitutto un essere umano che conosce la sua
storia e le sue debolezze, il desiderio e la fatica di camminare nella
verità; ma è anche un credente che dentro quella storia e quella fatica
ha fatto in modo forse imprevedibile la conoscenza di Dio, scoprendo
che il suo amore «gli bastava». E se poi ha scelto di offrirsi total
mente a Dio in una famiglia religiosa, l’ha fatto perché ha capito che
quell’amore non solo gli poteva bastare, ma... gli avanzava pure, al
punto di poterne divenire trasparenza con la propria umanità per tanti
altri che ne potessero godere.
Seguiamo allora lo stesso schema già proposto per le altre due
dimensioni: prima definiamo gli elementi architettonico-portanti e poi
quelli ermeneutico-dinamici.
Capitolo tredicesimo
LA DiMENSIONE CARISMATICA
1. Presupposti
Abbiamo detto, nelle precedenti analisi, che l’uomo è capace di
trascendersi fino a cogliere l’amore di Dio e lasciarsi da lui amare,
per arrivare a voler bene addirittura come Dio entrando nel mondo
dei suoi sentimenti e desideri.
Il carisma di un istituto, in questa prospettiva,
1. è quel dono dall’alto che esprime il progetto che il Padre creatore
ha sulla creatura e attraverso il quale la creatura realizza la sua
specifica somiglianza con Dio stesso. Ogni carisma, infatti, sot
tolinea un particolare aspetto della realtà divina manifestata nel
Figlio secondo la fantasia scapigliata e pacatissima dello Spirito.
2. Contenuti
La formazione carismatica mirerà allora a evidenziare questi
«tratti nascosti», che corrispondono poi alle componenti classiche del
carisma: l’elemento mistico, ascetico e apostolico. Il tutto racchiuso
entro le due polarità tipiche del cammino di maturazione dell’io: il
senso di identità e il senso di appartenenza, il primo - in teoria - co
me punto di partenza del processo, il secondo come suo naturale
punto di arrivo, ma in pratica destinati a interagire tra loro durante
l’iter formativo, ovvero a crescere insieme nello stesso individuo e
nella comunità.
a) Senso di identità
Anzitutto è fondamentale, nella formazione, chiarire il signifi
cato funzionale del carisma. Non è saggio iniziare l’iter formativo il-
lusfrando subito tutto il contenuto del carisma di istituto, o pensare
che questa operazione sia sufficiente per avviare il processo di inter-
nalizzazione.
È stata l’illusione del dopo-concilio, quando si ritenne che sa
rebbe bastato riscoprire il cansma delle ongini di ogni istituto per
provocare un salutare rinnovamento della vita consacrata. Cosa che
poi non avvenne (o almeno non nella misura sperata) probabilmente
anche a motivo di questa dimenticanza o disattenzione: non ci
s’accorse che, prima del contenuto, andava chiarito il senso, il signi
ficatofunzionale del carisma stesso.
Per molti consacrati/e non era (o non è) abbastanza chiaro quale
sia il ruolo del carisma ai fini della propria realizzazione personale,
anzi, più di qualcuno viveva una certa confrapposizione tra le due
prospettive, come se il carisma fosse qualcosa di generico e solo spi
rituale, dato o imposto a tutti come obiettivo livellante aspirazioni e
potenzialità individuali, poco definibile e poco definito al di là dei
soliti luoghi comuni, sempre più comuni e simili tra un istituto e
l’altro (altro livellamento), e dunque, in definitiva, poco amato e an
cor meno riconosciuto come punto di riferimento della propria iden
tità. A che serve scoprire il contenuto originario carismatico se prima
o assieme non si aiuta a riscoprirne la funzione nel contesto
dell’identità? A che serve studiare radici, storia, evoluzione, tradizio
n i... del carisma se assieme non si capisce che tutto questo è anche la
propria radice e la propria storia, la propria identità e realizzazione, il
proprio presente e futuro?
La «disaffezione carismatica» è stato forse il primo grave sinto
mo, un po’ nascosto, di una certa crisi della vita consacrata ancora
non del tutto risolta e sfociante nell’ormai nota e classica «crisi di
identità» o nel singolare fenomeno della «doppia identità»: quella ca
rismatica, ufficiale e istituzionale, esibita come un bel vestito o pa
tacca che dà lustro, e quella privata e personale, tutta costruita sulla
realizzazione delle proprie doti e talenti, curata e coccolata come un
amore segreto e proibito, e difesa a volte gelosamente come un asso
luto, qualcosa di irrinunciabile. Con tutto il séguito di conflittualità,
aperta o sottile, tea queste due modalità di identificazione (o tra sin
golo e istituzione)...
Ecco perché è importante fin da subito, nella prima formazione,
presentare il carisma nella sua verità e funzione se non si vuole che
diventi finzione.
E la verità che va proposta al giovane è questa: il carisma è il
mio io, è il nome col quale Dio mi ha chiamato alla vita sognandomi
simile a lui, è il mio passato, ma anche ciò che sono chiamato a esse
re, è il senso pieno della mia storia e la condizione per sentirmi me
stesso ed essere felice, è ciò che rende definitivamente positiva la mia
identità, molto più di quanto non la potrebbero rendere le mie qualità
e abilità varie.
Non che queste ultime non siano importanti, anzi, anch’essè so
no carismi, doni che ho ricevuto da Dio per il bene degli altri; più
precisamente, sono carismi funzionali-attuali, legati all’io attuale
(quel che io sono già) e al servizio del carisma vocazionale-ideale, o
dell’io ideale (quel che devo e voglio diventare), espresso e conte
nuto nel carisma di istituto; dunque sono un mezzo, non un fine, un
mezzo per viver meglio e più efficacemente l’identità vocazionale, o
il luogo ove esprimere più pienamente la propria chiamata, e proprio
questo fine salva tali carismi dairinsignificanza narcisista provocan
doli a... funzionare al massimo.
Se sono un mezzo, ancora, non sono un assoluto, dunque la vita
può arrivare a chiedermene il «sacrificio» in vista di un bene maggiore;
certo non sarà facile lasciare un’attività per la quale mi sento tagliato o
un ambiente o un molo che mi dà modo di esprimere i miei talenti, ma
sarà possibile solo se l’identità e la sua positività «abitano» altrove, nel
dono dall’alto pensato e preparato da Dio per me.
Chissà quante crisi future si potrebbero evitare se nella prima
formazione fosse subito ben delineata la natura del carisma come
fonte di identità e rivelatore del mistero dell’io! o quanto ne guada
gnerebbero il senso di unità di vita e l’efficacia nelle attività, la tra
sparenza della testimonianza e - come conseguenza inđữetta ma rea
le - l’animazione vocazionale.
È certa una cosa: solo quando sono stati chiariti ruolo e signifi
cato psicodinamico del carisma, l’individuo è fortemente motivato a
conoscerne e viverne anche il contenuto, e non potrebbe esser diver
samente, dato che quel contenuto è anche il suo io, lo rivela a se stes
so... L’attrazione dello Spirito trova finalmente il teưeno adatto per
suscitare l’attrazione del cuore e della mente.
b) Esperienza mistica
All’inizio di un carisma c’è sempre una teofania, e una teofania
sorprendente. Dio si rivela e mostrando il volto divino svela anche
all’uomo il suo volto umano.
Non è una semplice autocomunicazione divina, che il credente
può solo accogliere e contemplare, magari avvertendo ancor più la
distanza che lo separa dall’Altissimo; bensì è un dữsi da parte di Dio
nel quale l’uomo sente parlare anche di sé, o uno svelarsi del Mistero
divino che svela e restituisce l’uomo a se stesso, perché l’uomo è
parte del Mistero di Dio e la verità di Dio è anche la sua verità, verità
sulla sua vita.
E proprio questo è l’elemento sorprendente, non solo che Dio si ri
veli, ma che in quello stesso momento e in quella stessa rivelazione egli
pronunci il nostro nome.2 Per questo il profeta può dire: «noi siamo
chiamati col tuo nome» (Ger 14,9). E così i nostri fondatori e fondatrici:
uomini e dorme oranti che nel mistero pregato, o in un particolare aspetto
della realtà divina o della vita umana del Cristo, hanno lentamente o im
provvisamente scoperto se stessi, il progetto di Dio su di loro e su altre
persone, un’identità da assumere, un’irnmagine divina da vivere nella
propria storia, una somiglianza con Dio da manifestare.
Le nostre famiglie religiose esistono perché c’è stato chi ha vissuto
intensamente questa peculiare esperienza del divino, e sono vive nella
misura in cui altri oggi, per dono di Dio, rivivono la medesima espe
rienza, dinanzi al medesimo mistero. Il consacrato nasce proprio qui,
quando inizia a scoprire il suo io entro questo rapporto con Dio e lascia
che il mistero pregato diventi la fonte della sua identità. È la spiritualità
che gli svela l’identità e i singoli tratti della sua fisionomia.
Per questo la preghiera è, per natura sua, l ’attività primordiale
del giovane consacrato, poiché l’esperienza o l’autocomunicazione di
Dio precedono necessariamente la conoscenza che l’essere umano
può avere di sé, anzi, è la teofania che illumina la conoscenza umana.
E allora questa è preghiera che trasforma: l’uomo entra progressi
vamente in sintonia con ciò che contempla, ne assume i sentimenti, se
ne lascia plasmare.