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AMEDEO CENCINI

I senti menti
del “ igSi®
Il cammino formativo
nella vocazione presbiterale e consacrata

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA


Prima edizione: maggio 1998
Ristampe: ottobre 1998
settembre 1999
luglio 2001
luglio 2005

@1998 Centro editoriale dehoniano


via Nosadella, 6-40123 Bologna

ISBN 88-10-50820-3

Stampa: Grafiche Dehoniane, Bologna 2005


A p. L.M. Rulla
con sentimenti di figlio
Premessa

LA FORMAZIONE, MINISTERO E MISTERO

. La vita consacrata si è sempre distinta nella Chiesa per la partico­


lare attenzione che ha dato alla formazione dei propri membri. D’alfro
canto, fin dagli inizi, è stata per tutti «maesừa di spiritualità», e tale pre­
rogativa non poteva e non può non avere un immediato risconừo anzi­
tutto al suo interno e a servizio di chi è chiamato a questa scelta.
Sappiamo tuttavia i molti problemi che ancor oggi travagliano il set­
tore, oggetto - da un lato - di molta attenzione, alle prese - dall’altro -
con interrogativi che ancora sembrano lontani da soluzione. Ma cono­
sciamo anche la speranza che anima tanti formatori e formatrici impegna­
ti in questo servizio e che è in ogni caso più grande dei problemi.
Questo libro nasce dalla consapevolezza sia dei punti di domanda
che delle attese fiduciose, vissuta dall'interno, e dal desiderio di condi­
videre un’esperienza che si protrae da tempo e che, nonostante inevita­
bili fatiche e alterne vicende, considero dono grande e immeritato.
Voglio chiarire subito che non sono, né tanto meno mi propongo
in queste pagine, come un esperto che insegna. Vorrei solo riflettere ad
alta voce su un cammino nel quale sono ancora impegnato, per cogliere
gli errori fatti, assieme a inadempienze e incertezze, ma anche per indi­
viduare la cfoezione da imprimere al cammino presente e futuro. Per­
ché, senza assolutamente enfatizzare nulla, la formazione non è mai
questione privata o qualcosa di semplicemente propedeutico o che ri­
guarda un momento particolare, giusto una stagione dell’avventura esi­
stenziale: la formazione tocca passato, presente e futuro della singola
persona, ma anche dell’istituzione; è iniziale e permanente; è metodo
pedagogico che prepara alla consacrazione a Dio e pure modo teologi­
co di pensare la stessa vita consacrata, visto che tutta la vita consacrata
è in se stessa un lungo e interminabile processo formativo.
Soprattutto la fon-nazione è ministero, servizio fraterno offerto
fin dall’inizio a chi scopre su di sé un disegno che viene dall’alto, che
non riguarda solo lui ma da condividere con altri, e anche mistero,
azione divina che il Padre porta avanti con la potenza dello Spirito
per plasmare in coloro che chiama rimmagine del Figlio.
È ministero che media il mistero.
Queste pagine sono parte di questa mediazione.
Prefazione alla 5° edizione

Questo libro è giunto alla 5a edizione, oltre a diverse traduzioni (in


lingua inglese,1 francese, spagnola, portoghese, polacca). La cosa non
può che far piacere a chi l’ha scritto, che vede nella diffusione del libro
la possibilità di proporre ciò in cui crede e di tener vivo un dialogo con
i lettori, e con lettoli particolari, in questo caso, come sono coloro che
lavorano nel delicato campo della formazione, soprattutto nel mondo
della vita consacrata. A loro, infatti, era rivolto il libro nelle 4 edizioni
passate (come indicato dal «vecchio» sottotitolo).
Ma il dialogo è andato anche oltre questa frontiera di lettori, ov­
vero a leggere il libro è stato anche il formatore del seminario dioce­
sano, 0 lo stesso seminarista. E proprio da qualcuno di loro m’è giun­
to insistente l’invito a offrire la proposta anche a chi è impegnato nel­
la formazione presbiterale.
Ecco il motivo di questa prefazione, evidente nel cambio del sot­
totitolo con un’aggiunta rispetto alPedizioni precedenti: il cammino
formativo nella vocazione presbiterale e consacrata.
Il libro ha avuto qua e là aggiunte significative (vedi, ad es, il
concetto pedagogico della trasformazione come compimento del pro­
cesso di formazione o il chiarimento della relazione tra esperienza e
sapienza), ma è rimasto sostanzialmente lo stesso, con quelle specifi­
cazioni che sono tipiche della vita consacrata (ad es. il riferimento al
noviziato, al carisma e alle sue componenti, alla centralità della co­
munità ecc); ma s’è creduto che nella sua sostanza (e nella grandis­
sima maggioranza .dei suggerimenti proposti) il libro potesse risultare
utile per entrambi i cammini formativi vocazionali. In fondo anche
gli aspetti peculiari del cammino formativo nella vita consacrata han­
no un parallelo corrispondente nell’iter formativo presbiterale (il no­
viziato e il tempo propedeutico di preparazione alla teologia; il cari­
sma religioso e la spiritualità diocesana; la centralità della comunità e
la concezione oggi sempre meno individualistica dell’identità presbi­
terale; fino all’esperienza delle comunità presbiterali...).
So bene, per altro, che le peculiarità della vocazione presbiterale
hanno un loro tipico risvolto educativo-formativo. Qui non vengono

1 Una delle due edizioni in lingua inglese reca già nel sottotitolo il riferimento a
entrambe le vocazioni (Guiding Young People in Religious and Priestly Formation,
ed è edito da Paulines Publications Africa)
esplicitamente riprese, ma nemmeno vengono lasciate prive d’un
quadro psicopedagogico di riferimento ideale. Semplicemente si ri­
tiene, e questo - ci tengo a ripeterlo - soprattutto per ammissione di
quei formatori presbiterali che hanno letto il libro, che la sostanza
della proposta psicopedagogico-spứituale che emerge dal testo stesso
possa esser condivisa anche nell’ambito dell’iter formativo del sacer­
dote diocesano.
La ragione? Niente di speciale o di particolarmente originale.
Forse il fatto che lo specifico di questa pubblicazione, nel suo picco­
lo, è esattamente l’individuazione di alcune linee pedagogiche essen­
ziali di crescita, nella vita spirituale di chi vuole rispondere con re­
sponsabilità alla chiamata di Dio.
Probabilmente sempre per questo motivo il libro ha ừovato una
certa diffusione anche in contesti culturali diversi, perché proprio que­
sta è l’attesa maggiormente sentita nel nostro ambito: non il semplice
chiarimento teologico-spừituale dell’identità del chiamato, ma la sco­
perta del percorso metodologico che ci consenta di raggiungere quell’i­
dentità nei suoi diversi lineamenti. Come abbiamo più volte constatato
in incontri con gruppi di formatori presbiterali, in Italia e all’estero.
Così, con molta semplicità, mi permetto ora di proporre il testo a
un pubblico più vasto, oltre il confine della vita consacrata.
D’altronde, in una Chiesa che sta sempre più riscoprendo la ne­
cessità e la bellezza della condivisione dei carismi, niente di più natu­
rale del condividere esperienze e pedagogie diverse e convergenti,
nel comune intento di costruire in noi l’immagine del Figlio, per la
pluriforme azione dello Spirito, affinché ogni creatura lo riconosca
Signore, a gloria di Dio Padre!
L’Autore
Capitolo primo

LA FORMAZIONE OGGI,
TRA PROBLEMI E SPERANZE

Partiamo da un presupposto: la formazione alla consacrazione a


Dio non è qualcosa di semplice né di automatico, chiede attenzione a
vari aspetti e l’intervento attivo di vari soggetti, è operazione di Dio e
dell’uomo, di chi la propone e di chi la «riceve», in un tempo dedi­
cato particolarmente a ciò e poi per tutta la vita; ci vogliono, dunque,
accortezza e sapienza per discorrere intorno a essa, assieme all'umiltà
e discrezione di chi sa di trovarsi, in ultima analisi, di fronte al miste­
ro del Dio che crea e plasma, e della creatura che liberamente e re­
sponsabilmente accetta o meno di essere da lui modellata.

1. Complessità dell’azione educativa


Può forse aiutare la nostra riflessione il chiarire subito quali sia­
no gli elementi, sul versante dell’istituzione, che contraddistinguono
Fazione educativo-formativa. Perché vi sia formazione sono indi­
spensabili quattro componenti.
a) Quadro teorico-pratico di riferimento
Alla base ci deve essere un quadro teorico-pratico, teologico-
antropologico di riferimento, entro cui siano chiaramente definiti
obiettivi finali e intermedi, metodo e sừategie di intervento; nulla,
infatti, è più pratico di una buona teoria che dia continuità e sistema­
ticità al processo temporale, specificando tappe e modalità di azione
lungo le diverse fasi della vita, perché si realizzi secondo la finalità
generale della vita consacrata in quanto tale e quella specifica della
famiglia religiosa di appartenenza.
b) Rete di mediazioni pedagogiche
Seconda componente indispensabile è una rete di mediazioni
pedagogiche, a partire dalla persona del formatore/formatrice, dalla
sua competenza e preparazione per un servizio così qualificato e dalla
sua disponibilità effettivo-affettiva, di tempo e di energie. Altre me­

li
diazioni importanti sono quelle della comunità educativa, con la sua
articolazione di ruoli, e dell’ambiente adeguato, con condizioni e sti­
moli che facilitino l’azione educativa. Se è Dio l’unico formatore, chi
lavora nella formazione svolge il molo del collaboratore-mediatore,
ruolo indispensabile per aiutare il giovane a lasciarsi convertire e pla­
smare dalla grazia.

c) Pluralità convergente di dimensioni e livelli


In un progetto educativo deve essere contemplata e articolata
una pluralità convergente di dimensioni o fasi e livelli, nel senso di
attenzioni ad aree e contenuti diversi che devono essere presenti nel
cammino formativo. Pensiamo, ad esempio, alla dimensione spiri-
tuale-carismatica (con le sue componenti mistica, ascetica e apostoli­
ca); ai passaggi dalla fase della conoscenza a quella dell’esperienza e
infine della sapienza; o alla dimensione umana, culturale, affettivo-
sessuale (con le sue componenti consce e inconsce); pensiamo ai li­
velli mentale, volitivo, emotivo («con tutta la mente, con tutte le for­
ze, con tutto il cuore»); allẹ dimensioni intrapsichica e interpersonale
(o sociale-relazionale), comunitaria ed extracomunitaria. Tali dimen­
sioni, piani o livelli non solo non possono mancare in una dinamica
formativa, né possono esser concepite in successione tea loro (prima
l’una poi l’altra), ma devono interagire reciprocamente, convergendo
verso l’unico obiettivo della maturazione dell’uomo o della donna,
del credente e del consacrato.

d) Tre dinamismi pedagogici


Infine vanno previsti tre tipi di intervento, o tre particolari di­
namismi, che possiamo leggere nel significato stesso dei tre verbi con
cui si indica il fenomeno pedagogico: educare, formare e accompa­
gnare. E-ducare vuol dire - secondo il senso etimologico - «tirar fuo­
ri» o portare a livello di consapevolezza quello che la persona è, per­
ché si realizzi al massimo delle sue potenzialità; da questo punto di
vista l’azione e-ducativa conduce alla conoscenza e alla piena realiz­
zazione dell’io. Formare vuol dire, invece, avere un preciso modello,
una forma o un modo di essere che il soggetto ancora non possiede e
che deve progressivamente acquisire, e che costituisce la sua nuova
identità. In tal senso la formazione non è tanto dinamismo di autorea­
lizzazione, quanto di autotrascendenza; non è solo conoscenza di sé,
ma anche scoperta di un nuovo e più vero io, plasmato secondo la ve-
rità-bellezza-bontà dell’ideale. Accompagnare, infine, significa non
solo esser accanto per un tratto di strada, ma farlo realmente assieme,
condividendo «il pane del cammino» della fede, dell’esperienza di
Dio, della sapienza dello spirito. In tal senso il processo globale for­
mativo non è fatto solo di nozioni da impartire o di indicazioni di un
percorso da fare (o direzione da imprimere), ma esperienza di coin­
volgimento da parte del formatore e «confessione» della sua fede.
In sintesi possiamo concentrare in questa immagine tale paragrafo.

Rete
di mediazioni
pedagogiche

Pluralità convergente di dimensioni e livelli

La possibilità e qualità della formazione sono legate alla presen­


za di questi elementi e airarmonia con cui si compongono in un dise­
gno unitario.
2ẳDiscorso propositivo
Sarebbe fin troppo facile, a questo punto, fare un confronto tra le
indicazioni teoriche, con la loro severa idealità, e la realtà pratica di
un servizio faticoso e che non sarà mai perfetto, magari per conclude­
re, in modo un po’ pessimista e disfattista, che va tutto male e che è
tutto da rifare.
Noi vogliamo porci invece in tutt’altro atteggiamento, positivo e
propositivo. Voưemmo evitare i soliti melodrammi pessimisti sulle co­
se che non vanno, per attirare l’attenzione, invece^ su quanto attende di
essere fatto e in qualche modo già s’intravede. È di questo atteggia­
mento che la vita consacrata oggi ha bisogno, in un tempo come il no­
stro di passaggio epocale o di costruzione del futuro. Conosciamo bene,
per altro, la fatica legata al servizio della formazione è il divario inevi­
tabile tra la prestazione ideale e quella effettiva; così come conosciamo
altrettanto bene la delusione del formatore di fronte a risultati inferiori
o addirittura contrari alle aspettative, frustrazione spesso aggravata da
quel senso di colpa che qualcuno dall’esterno provvede con fare mal­
destro ad alimentare...
D’alttonde vogliamo anche dữe subito che il quadro non è poi
così negativo; non si è mai investito così tanto come in questo tempo
sulla formazione, sia per quanto riguarda ỉa preparazione dei forma­
tori, che per quello che riguarda la formazione vera e propria, quella
iniziale soprattutto, (molto meno, purtroppo, quella permanente).

3. Non più ... damnatos ad pueros

Se un tempo i formatori erano considerati fra i damnatos ad pue-


ros, come ha potuto scrivere qualcuno in un latino un po’ greve, an­
che se erano scelti «tea i migliori dell’istituto» (così almeno recitava­
no un po’ pomposamente molte Costituzioni o Regole di vita), il for­
matore di oggi non si sente migliore di nessuno ma nemmeno con­
dannato a far da balia ad alcuno.
Per questo, da parte deir istituzione, nessuno è più mandato - un
po’ ingenuamente e anche un po’ crudelmente - allo sbaraglio, a
svolgere un ministero così impegnativo; non basta più, come nel pas­
sato, che chi lavora nella formazione sia buono, casto e docile nei
confronti dei superiori. Potremmo spingerci a dire che non è suffi­
ciente neppure che sia santo... per conto suo, «privatamente santo»
(se è mai possibile), ma deve essere in grado di trasmettere la passio­
ne per un ideale attraverso quelle mediazioni e dinamismi umani che
rendono contagiosa la santità e richiedono una competenza specifica.
La sua santità è anche quella competenza, o quanto meno fa sentire
una seria preparazione come dovere morale, come sapienza dall’alto,
come docilità allo Spirito, come libertà da sé che libera verso l’altro.
E lui stesso, allora, avverte il bisogno di formazione, e vive il servizio
di formazione (iniziale) come la sua personale formazione (perma­
nente), al tempo stesso educatore ed educando.
Per questo e altri motivi, credo obiettivamente di poter dire che
contenuto e modalità della formazione oggi siano di gran lunga mi­
gliorati rispetto a un tempo; certi elementi (la conoscenza del cari­
sma, un nuovo concetto di spiritualità, una più armoniosa integrazio­
ne tra aspetti antropologici e teologici...) hanno prodotto un indubbio
salto di qualità nella proposta educativa offerta ai nostri giovani.
Ma permangono problemi vecchi e nuovi, che voưemmo consi­
derare alla luce di quelle quattro componenti essenziali, costitutive di
un processo di formazione. Con lo scopo dichiarato di indicare pro­
poste praticabili di formazione alla vita consacrata, o di individuare
alternative positive alle eventuali inadempienze attuali.

4. «Vidimus Dominum!»

Ma prima di inoltrarci nel discorso, voưei premettere un’altra


considerazione, circa la attuale generazione giovanile.
Anzitutto a partire da questo dato di fatto, forse non adeguata-
mente sottolineato: credo che nessuna istituzione abbia le possibilità
e le opportunità educativo-formative che abbiamo noi. Per quanto ri­
guarda la durata del cammino, gli strumenti, i contenuti, gli stimoli, la
storia, i punti di riferimento, gli obiettivi, gli ambienti, le esperienze, i
modelli..., abbiamo tra mano un potenziale ricchissimo da mettere a
disposizione dei nostri giovani e dunque la possibilità di intervenire
in modo efficace sulla loro vita. È un privilegio e una responsabilità
che va sfrattata al massimo grado, per il bene della Chiesa, dei giova­
ni stessi, dei nostri istituti.
D’altro canto anche i giovani, nonostante quello che si possa dire
di loro oggi (le varie inchieste sul mondo giovanile non sono tanto be­
nevole con tale universo), se debitamente provocati, rispondono con
generosità ed entusiasmo. Non è vero che questa generazione sia peg­
giore di quella precedente; per lo meno un autentico formatore non può
partire da questa premessa, né deve ricoưere a questa supposizione per
spiegare e giustificare eventuali fallimenti o risultati scadenti.
Questa generazione non ha solo grandi problemi, come si suol
dire troppo spesso, ma anche grandi risorse; non conosce solamente
dubbi e incertezze, ma pure la sete di bellezza e verità; non è vero che
sia paurosa e senza idee, sta solo aspettando chi riesca a rispondere al
suo bisogno di indicazioni precise e modelli credibili; non è stanca di
vivere, semmai non ne può più dello squallore anche umano che si
ritto va attorno...
Chi dubitava di questo e diffidava di questi nostri giovani di oggi
ha avuto di che ricredersi dinanzi allo spettacolo offerto da circa 850
giovani religiosi e religiose di tutto il mondo, appartenenti a circa 700
istituti, durante il 1° congresso intemazionale dei giovani consacrati/e
che s’è tenuto a Roma nei primi giorni dell’ottobre 1997, il cui tema
era: «Vidimus Dominimi». Una settimana di convegno non dice certo la
complessità e fatica della vita di ogni giorno, ma i giovani religiosi/e
hanno comunque lanciato messaggi ben precisi, che in qualche modo ci
costringono a rivedere una certa immagine che ci siamo fatta di loro.
Vediamo brevemente alcuni di questi messaggi.
Il giovane consacrato rappresenta qualcosa di originale nel pa­
norama giovanile moderno. Le inchieste sociologiche al riguardo ap­
paiono sempre meno attendibili per descrivere il giovane chiamato
alla vita consacrata e il mistero della sua risposta. Se, ad esempio, tale
giovane è normalmente descritto come freddo e imperturbabile, al
Congresso abbiamo visto giovani accendersi di entusiasmo inconte­
nibile di fronte a certe provocazioni. Si ritiene che questo giovane
abbia seri problemi di identità, ma nel messaggio finale la costella­
zione italiana, quasi in risposta a quest’accusa, si pronuncia esplici­
tamente così:
«siamo giovani, uomini e donne, che hanno scoperto che essere con­
sacrati è una bellezza che riempie la vita. Per questo, la certezza della
nostra identità non è per noi un problema: crediamo alla nostra voca­
zione, perché riempie di felicità e di senso la nostra vita. La bellezza
che noi abbiamo visto e conosciuto, che abbiamo toccato, vogliamo
trasmetterla a tutti».1

Certo il giovane di oggi non è il contestatore degli ultimi anni ’60


e primi anni ’70, e questo è un bene per un verso e non lo è per un al­
tro, ma in ogni caso ciò che è più importante capire, per un formatore, è
che questo giovane ormai non lo possiamo più considerare figlio del
Vaticano II, per quanto questo possa non piacere a qualcuno:
«per i giovani religiosi il concilio Vaticano II conta poco 0 , almeno,
molto meno che per noi adulti».2

Non possiamo dunque continuare a dare per scontate certe intui­


zioni, sensibilità e prospettive, o a pretendere che certe cose abbiano
per loro la stessa evidenza o riscuotano il medesimo entusiasmo
dell’epoca immediatamente postconciliare.
Eppure questo giovane crede nella vita consacrata; non è tanto
interessato a dirimere la solita questione del suo ruolo entro la Chie­
sa-istituzione, ma sente una particolare congenialità tra il suo essere

' Dal messaggio finale della costellazione italiana, in F. CIARDI - T. MERLETTI,


Volare si può. Reportage dal mondo delle giovani e dei giovani religiosi, Padova
1998, 77. Questo testo è un’interessante lettura del Congresso fatta dai due moderato­
ri della «costellazione» italiana.
2 È il parere, tra gli altri, di p. Amaiz, riferito da E. BRENÁ, «Religiosi di oggi e
non del futuro», in Testimoni 18(1997), 18.
giovane e la vita consacrata stessa, che è come l ’anima perennemente
giovane della Chiesa. C’è dunque un’intuizione giovanile della vita
consacrata, che ne recupera il nucleo centrale: la vita consacrata co­
me scelta di vita libera e gioiosa, creativa e sempre inedita per Dio,
che porta l’umano alla dimensione più autentica e piena.
E qual è l’aspetto o la provocazione cui i giovani hanno partico­
larmente reagito? Non c’è dubbio, è stato il tema della fraternità. Po­
tremmo dire che è stato il vero denominatore comune, l’elemento di
maggior coagulo tra le varie sensibilità espresse.
«La comunità è essenziale alla vita religiosa apostolica e la comunione
alla missione: è un punto fermo per i giovani. Assieme a una precisa
sottolineatura a suo modo molto attuale: la diversità è una ricchezza. Se
si vuol giungere all’unità e alla comunione non è possibile insistere
sull’uniformità. Piuttosto si deve rimanere aperti all’unità nella pluri-
formità e in essa cercare la comunione».3

Per quanto riguarda la formazione, con chiarezza e franchezza i


giovani religiosi hanno parlato della necessità di avere accanto for­
matori preparati. Qualcuno ha invocato un convegno intemazionale
appositamente per loro. Qualche altro ha parlato di
«guide coraggiose che non abbiano paura di chiederci una profonda
conversione... e ben formati essi stessi per questo compito».

Non so se questo richiamo possa far pensare a una certa forma­


zione un po’ debole, scarsamente incisiva, magari di gruppo e solo di
gruppo, incapace di chiedere il massimo...4Personalmente mi ha fatto
impressione notare come i giovani abbiano recepito il concetto della
lotta religiosa, lotta con Dio e con i suoi progetti, lotta in cui vince
chi accetta di lasciarsi sconfiggere, e da distinguere dall’inutile lotta
psicologica.5
Ancora per quanto riguarda i formatori, è stata ribadita con insi­
stenza la necessità di aver accanto non dei semplici comunicatori di
dottrina, ma fratelli maggiori che vivano davvero insieme, mediando
nella vita di ogni giorno e nel contatto con l’umanità di ognuno, la
ricchezza della proposta carismatica.

3 Ibidem.
4 Chissà se si può applicare a superiori e formatori quanto certa pedagogia
odierna rileva a proposito dell’attuale generazione di genitori, i quali rappresentereb­
bero l’ultima generazione di figli che hanno obbedito ai loro padri, e la prima genera­
zione di padri che obbediscono ai loro figli...
5 È stato un argomento trattato nella prima relazione al Congresso stesso, cf. A.
CENCINI, Quando Dio chiama. La consacrazione: scommessa e sfida per i giovani di
oggi, Milano 1998, 22-21.
«Non bastano più né i maestri né i testimoni. Occorre l ’umile lavoro
di mediazione: mettersi accanto ai giovani, dialogare senza imporsi,
aiutarli a confrontarsi.. .».6

Indubbiamente c’è bisogno di nuove strategie educative, di nuo­


vi percorsi pedagogici, ed è interessante notare come anche i giovani
ne sentano la necessità.
C’è bisogno di passare dalla preoccupazione esclusivamente e-
ducativa, che rràra alla semplice autorealizzazione, alla tensione for­
mativa, che propone una forma, come novità trascendente di vita. Ma è
necessario, soprattutto, declinare la ricchezza di tanta spiritualità legata
al carisma e alla storia, in concreti itinerari pedagogici, che tengano al
tempo stesso conto delle mutate condizioni sodali-culturali e con atten­
zione nuova all’umano. C’è stato addirittura chi ha detto senza mezzi
termini che, da questo punto di vista, «manca una vera formazione».7
Oggi il punto debole è la pedagogia, non la teologia.8
L’istanza che giunge ai superiori è quella di provvedere perché
vi siano delle Ratio formationis che non siano semplici ripetizioni del
contenuto teorico del carisma, ma traduzione in linee pedagogiche
della spiritualità dell’istituto, secondo le varie fasi della formazione
iniziale e permanente.
Ancora, sempre per quanto riguarda la formazione, è stata sotto-
lineata ripetutamente l’esigenza di una formazione integrale: a livello
umano (antropologico-psicologico, affettivo-sessuale...), teologico
(biblico e spirituale), in sintonia con la missione e che abiliti a una
coscienza critica nei confronti della realtà, ma anche alla capacità di
dialogo benevolente e aperto con la cultura circostante.
Nella nostra trattazione terremo conto, per quanto possibile, di
questo scenario un po’ nuovo deir universo giovanile religioso.
Anche per questo ci rivolgiamo sia a formatori/formatrici che a
giovani nel cammino della prima formazione, ma anche a chiunque è
rimasto così giovane nello spirito da continuare per tutta la vita questo
cammino.

6 Ciardi - MERLETTI, Volare si può, 38.


7 Testimonianza di sr. Myriam, cit. da L. GALLUS, «“Vidimus Dominum". Con­
gresso internazionale dei giovani religiosi e delle giovani religiose» in Consacrazione
e servizio 11(1997), 86.
8 A conferma di questa esigenza di concreti percorsi pedagogici, senza i quali an­
che la spiritualità rischia di essere famosa e non esperienziale, c è stato chi, mente tutti
cantavano e gridavano «Abbiamo visto il Signore» nelle diverse lingue, ha pubblica­
mente ammesso con sincerità coraggiosa che lui il Signore non l’ha visto, anche se gli
piacerebbe molto, e che s’aspetta che qualcuno di quelli che l’hanno visto, cioè dei for­
matori, gli mostrasse come fare per vederlo, senza accontentarsi di raccomandarlo...
PARTE PRIMA

IL MODELLO FORMATIVO
Vogliamo, in questa prima parte, considerare il problema della
formazione dal versante istituzionale, e dunque sul piano di ciò che
l’istituzione fa per educare-formare-accompagnare il cammino di chi
desidera consacrarsi a Dio e appartenere alla famiglia religiosa. Da
questo punto di vista la formazione è dono e privilegio, sia per chi è
chiamato in prima persona a farsi carico di questi cammini, ovvero
formatori e formatrici, sia per chi è di fatto educato-formato-accom-
pagnato nel cammino stesso, ma di fatto diventa dono e privilegio solo
se vengono rispettati quei requisiti in cui abbiamo prima indicato le
condizioni per un effettivo processo propedeutico alla vita consacrata.
La prima componente di un qualsiasi progetto formativo è la de­
finizione, il più possibile accurata, di un modello formativo, ovvero
di un disegno generale e altresì specifico che esprima l’obiettivo che
si vuole raggiungere, e come s’intenda raggiungerlo, o le modalità e
strategie di intervento.
Tale quadro teorico-pratico, teoiogico-antropologico di riferi­
mento diventa il tessuto connettivo che dà ordine al processo evoluti­
vo formativo e ragioni profonde a ogni suo elemento e componente
lungo il tempo della formazione iniziale e permanente, perché tale
formazione sia armonica e coerente.
Capitolo secondo

LA FORMAZIONE OGGI

Nella lunga e ricca tradizione della vita consacrata il modello


formativo c’è, è abbastanza facilmente riconoscibile nei suoi obiettivi
di fondo e nelle strategie pedagogiche. Da un certo punto di vista,
tale modello è stato anche comune alle varie tradizioni e coưenti ca­
rismatiche, quasi al di sopra di esse. Le linee di formazione in un
certo passato erano sostanzialmente simili tra i diversi istituti.
Ma qual è la situazione oggi?
Dopo la primavera del concilio e la riflessione carismatica da es­
so provocata, si avverte sempre più l’esigenza di ridefinire in qualche
modo tale modello, ribadendone la parte essenziale e immutabile, il
cuore di questa scelta, ma al tempo stesso identificandone con mag­
gior accuratezza le implicanze concrete e metodologiche, legate al ca­
risma, ma pure alle mutate condizioni generali attuali. C’è chi dice
che il quadro teorico-pratico che fonda e riassume un progetto for­
mativo sembri, al presente, definito in modo piuttosto sommario e
generico, spesso anche in modo più teorico che pratico, più statico
che dinamico. Sembra debole e non ben precisato nella formazione
attuale soprattutto il modello teologico-antropologico di riferimento,
che pure dovrebbe esserne alla base.

Indefinitezza del modello


Spesso, infatti, è ben conosciuto e ribadito in qualche modo il
punto di arrivo teorico di un progetto formativo (la perfezione, o la
sequela), ma non sempre è altrettanto chiaro il punto di partenza, co­
stituito primariamente dall’idea di uomo e di cammino evolutivo.
Non è chiaro - in particolare - come la chiamata a una speciale con­
sacrazione faccia interagire grazia e natura, debolezze e aspirazioni,
conscio e inconscio nel singolo chiamato. Non basta più oggi dire e
ripetere che la grazia suppone la natura, ma occorre saper declinare in
termini precisi, cioè pedagogici, il senso del rapporto. A che serve,
d’altronde, un prospetto ideale finale che non lasci intravedere il per­
corso che vi conduce? Quando non è chiara una componente del mo­
dello, non è ben definito il modello nel suo insieme.
1. Ambiguità dell’obiettivo

Le conseguenze di questo stato di indefinitezza della concezione


antropologica di partenza possono esser notevoli, anzitutto sul punto
stesso di arrivo, che rischiara - nonostante l’apparenza - di essere al­
trettanto generico, non ben definito proprio in quello che dovrebbe es­
sere l’oggetto di un cammino di formazione, ovvero la «composizione»
tra divino e umano all'interno di un particolare carisma, 0 la possibilità
di vivere in pienezza la propria umanità, nella logica della croce e della
beatitudine, in un progetto di consacrazione.1 Quando tale modello è
assente, o non è abbastanza definito nelle sue implicanze, si crea un
clima non più tanto educativo di incertezza e instabilità.
Pensiamo, ad esempio, a cosa può succedere quando non è chia­
ro il concetto di libertà affettiva nella vita del vergine: tutti diciamo
che il voto deve portare a questa libertà, ma quante volte il formatore
non sa tanto bene lui stesso in che cosa consista questo ricchissimo
concetto, quale ascesi regolare implichi, o lo interpreta in maniera
piuttosto approssimativa e soggettiva?! Con esiti spesso fuorviami e
deformanti, sia quando un’eccessiva enfasi negativa e rigoristica - da
parte dell’educatore - rende il giovane-vergine troppo preoccupato
della sua virtù e un po’ orso; sia quando un’interpretazione un po’
«allegra» e ingenua della libertà di un cuore vergine, priva di ogni
difesa e controllo il giovane, che crederà tutto lecito, pur di divenire
grande amicone di tutti/e. E così per molti altri temi che andrebbero
invece ben definiti e organicamente proposti nel tempo della prima
formazione (ad es. l’autonomia decisionale, l’identità positiva, l’in­
tegrazione del male, la disciplina intelligente ecc.). L’incertezza o
ambiguità del formatore non può che creare giovani incerti e deboli.

2. Confusione nelle tappe intermedie

Altra conseguenza strettamente legata a quanto visto finora è la


sostanziale assenza del concetto di gradualità nella formazione, che
dovrebbe portare a definire una serie di obiettivi intermedi per ogni
fase educativa, in funzione della meta finale. Si ha a volte 1 impres­
sione, invece, che a ogni periodo (postulantato, noviziato ecc.) si
debba sempre fare tutto e giungere subito alla maturità piena, o - al
contrario - che si debba rimandare sempre tutto alla fase successiva,
nell’attesa che qualcosa si muova e avvenga la conversione, o che il
tempo o l’esperienza o il nuovo ambiente facciano la magia... È inve­

1 Cf. s. RECCHI, «La formazione: istanze di rinnovamento», in Consacrazione e


servizio (1995), 18-20.
ce fondamentale sapere scandire il senso progressivo della crescita, i
passi propri di ogni stagione, in rapporto con l’età, con l’esperienza
precedente, con il livello di maturità raggiunto dal singolo, con le
esigenze proprie di un cammino propedeutico che ha le sue leggi e le
sue fasi. Il risultato finale della maturità piena è attingibile solo grazie
al conseguimento di una serie di obiettivi previ, disposti secondo un
ordine logico e progressivo.2
Insomma, non si può chiedere a un postulante o a un novizio
quello che si può e si deve chiedere a un professo; e se per caso il po­
stulante o novizio si atteggia a professo dalla lunga esperienza e ma­
turità di vita, il formatore deve quanto meno dubitare dell’autenticità
dell’atteggiamento e indagare se, per caso, il giovane spiritualmente
«precoce» abbia... saltato o «dimenticato» qualcosa (che gli viene più
difficile); come - al tempo stesso - deve verificare che ogni candi­
dato abbia espletato i «compiti evolutivi» propri di ogni fase, senza
temere di far aspettare qualche «ritardatario».
Le varie scadenze coi relativi passaggi (dal postulantato al novi­
ziato, o dalla professione temporanea a quella perpetua) non vanno
calcolate in base all’anagrafe o ai corsi scolastici superati (e tìtoli
conseguiti), ma entro una valutazione più globale di un processo di
maturazione specifica in atto. Anche la vita spirituale ha le sue sta­
gioni, coi suoi frutti e le sue... intemperie climatiche: chi non ne tiene
conto rischia di non gustare mai il fratto maturo e saporito di stagio­
ne. La confusione al riguardo può solo creare cammini educativi indi­
stinti nelle loro fasi e improduttivi, mandando a vuoto ogni discorso
di formazione permanente.

3. Povertà di indicazioni metodologiche

Ma la conseguenza più grave è quella relativa al metodo. L’as­


senza di un preciso quadro concettuale di riferimento diventa, nor­
malmente, anche impossibilità di identificare un percorso pedagogico
attraverso il quale rendere accessibile un valore. È forse il punto de­
bole della formazione oggi.
È Una situazione davvero strana-e forse inedita quella in cui ci
troviamo oggi: mentre abbiamo molti modelli teologici di vita consa­
crata, non abbiamo ancora ben definito con sufficiente accuratezza
come realizzare un cammino di adesione a questi modelli. In altre pa­
role, a una certa ricchezza di modelli teologici fa riscontro una sin­
golare povertà di percorsi metodologici.

2 È il concetto latino di ardo.


C’è chi parla della

«insostenibile pesantezza della formazione. Pesante, pesantissima...


Sul suo primato non si discute. Nessuno osa farlo, tutti ne sono arci­
convinti. Ma è un primato che si veste di retorica, di “invincibile va­
ghezza”, di “toni ottativi”, e l’ottativo nella grammatica greca è il
modo delle aspirazioni. E delle velleità».3

Così nei nostri programmi c’è una sorta di «ipertrofia dei fini»,
un’ipertrofia che a volte sembra addirittura esaltarsi, divenendo ec­
cessiva e ridondante, per la gioia, o la tranquillità, di chi ritiene che
per fare formazione basti dire, altissimi e vaghi, i fini, e pretende di
ignorare i mezzi, che poi vuol dire i soggetti, i contesti, i metodi.
Chiariamo subito: per metodo non intendiamo semplicemente un
insieme di tecniche, o una serie di processi messi in atto dair educa­
tore, che funzionino come generici - per quanto efficaci - condizio­
namenti psicologici, e neppure una prassi educativa che obbedisca ai
criteri della maturazione umana, individuale e di grappo, ma poi sia
sostanzialmente indipendente dalla maturazione cristiana, o più o
meno sganciata dalle specifiche esigenze della consacrazione a Dio.
Pensiamo invece al metodo come a una realtà intermedia tra teo­
ria e pratica, e sottolineata da queste tre caratteristiche:
- è strettissimamente legata al contenuto, nel nostro caso costi­
tuito dal modello teologico, e connaturale al carisma, poiché ivi
ritrova le sue radici;
- di tale modello è la logica e inevitabile conseguenza operati­
va, quasi la sua scomposizione in singole tappe o in obiettivi
intermedi, in una gradualità di percorso che consente di rag­
giungere in modo ordinato e progressivo l’obiettivo finale;
- ma è già in se stesso, in quanto tappa e traguardo intermedio,
parte integrante ed essenziale del disegno finale, come una
sua anticipazione che ne consente anche una progressiva degu­
stazione.
Possiamo a questo punto cogliere la differenza tra tecnica e me­
todo. La tecnica educativa è una serie di operazioni finalizzate al
conseguimento di un obiettivo pedagogico (normalmente di tipo atti­
tudinale), ma che possono esser agevolmente sganciate da qualsiasi
ispkazione ideale, come fossero «senz’anima» (né radici), una sorta
di metodo neutro, che proprio per questo può esser applicato in con­
testi diversi (indipendentemente da una scelta di fede); viene appli­

3 G. A n gelin i, in u. F o len a , «Formazione, “imperativo” della pastorale», Av­


venire, 26 feb 1997, 16.
cato in modo uniforme e ripetitivo, delegando a esso la responsabilità
del risultato, che dovrebbe automaticamente e infallibilmente far sé­
guito alla sua esatta applicazione.
Il metodo educativo è, invece, un modello teorico coerentemente
e intelligentemente applicato, nella fedeltà alle sue radici immutabili
come pure alle persone e al contesto sociale mutevole, con la parteci­
pazione piena e complementare di educatore e educando, senza dele­
ghe reciproche né automatismi di sorta.
Più importante ancora è ribadire che se il metodo è in qualche
modo la declinazione naturale o la traduzione operativa del modello,
allora un autentico obiettivo educativo, definito per noi dal modello
teologico-carismatico, deve poter diventare metodo, deve saper detta­
re un cammino che conduca a esso, altrimenti non è vero obiettivo
educativo (né vera teologia all’origine). Anzi, diciamo pure che la
formazione è essenzialmente metodo, nel senso pieno del termine. E
potremmo continuare in questa linea: se una spiritualità non diventa
pedagogia, non è autentica spiritualità; se non riesce a indicare un iti­
nerario lungo il quale tutti possono fare esperienza di Dio, non è do­
no dall’alto concesso alla comunità dei credenti, ma narcisistica esi­
bizione del singolo, o velleitaria pretesa pseudomistica.
Ora, proprio questo è il problema di tanta formazione oggi: ogni
carisma è un’autentica miniera di sapienza spirituale, di mistica e
ascetica, ma quanto siamo capaci di tradurre questo prezioso deposito
in percorso pedagogico, perché il giovane ne sia formato e possa ri­
percorrere l’esperienza del fondatore o della fondatrice? Di conse­
guenza, siamo proprio sicuri che la nostra formazione abbia e segua
un metodo ben preciso, cioè «carismatico», o ci accontentiamo di ap­
plicare varie e generiche tecniche o schemi precotti (a livello di pre­
ghiera, di vita comunitaria, di maturazione intellettuale...), o di ripe­
tere pedissequamente moduli pedagogici obsoleti o di andare avanti
senza alcun preciso programma metodologico? Quanto riescono le
nostre Ratio formationis a tradurre in pedagogia spicciola tutto il ca­
pitale di sapienza spirituale contenuto nei nostri carismi?
Proprio alla Ratio toccherebbe questa preziosa funzione pedago­
gica, ma - ahimè - non sempre essa riesce nell’intento. Infatti, ab­
biamo oggi buone Regole di vita, ma non altrettante buone Ratio
fonnationis', ovvero, molti programmi formativi di molti istituti non
sono autentici piani di formazione, ma s’accontentano praticamente
di ripetere la Regola, semplicemente aggiungendo e sottolineando le
norme generali canoniche per il passaggio da una fase all’altra della
formazione iniziale. In questa maniera la Ratio non raggiunge la sua
finalità che è eminentemente pedagogica, e serve a ben poco.
È un’impressione che abbiamo maturato leggendo diversi pro­
grammi formativi, coưetti nell’espcwrre e riesporre il contenuto del ca­
risma, ma terribilmente generici e inconsistenti e ripetitivi nel deli­
neare il metodo di formazione, poveri di ispirazione (o di radici) e
altrettanto poveri di creatività cansmaticaế
Il non saper ripropoưe il proprio ideale come concretamente ac­
cessibile, perché altri vi riconoscano un cammino autentico, che por­
ta, per fasi ben articolate, all’incontro con Dio, è un fatto inquietante;
non è certamente segno di fedeltà carismatica per coloro che già
stanilo vivendo in quella istituzione, né può esser fattore di attrazione
vocazionale per coloro che li osservano e che potrebbero esser chia­
mati a vivere quel carisma.
Capitolo terzo

«ABBIATE IN VOI GLI STESSI SENTIMENTI


CHE FURONO IN CRISTO GESÙ»

L’esortazione post-sinodale Vita consecrata dedica una certa


attenzione alla formazione iniziale e permanente, e affronta sia pure
implicitamente - in paragrafi ricchi di sapienza antica e nuova' - il
problema del modello teologico-antropologico, o quanto meno offre
indicazioni molto utili per disegnare un progetto educativo globale.

«Guardando verso il futuro»


Così è intitolata nel documento la parte riguardante la formazio­
ne, a ricordare - semmai ve ne fosse bisogno - che la formazione è
per natura sua proiettata verso il futuro della vita consacrata, ne è la
condizione e ne determina la qualità. Proprio per questo è importante
che sia ben definito il senso di un progetto globale educativo, nel suo
obiettivo e nel suo metodo, nella sua composizione tra umano e divi­
no. È in questi elementi e attraverso queste componenti che è poi
possibile risalire a quel modello teologico-antropologico che è il cuo­
re pulsante dello stesso disegno formativo.
Ebbene, secondo il documento, obiettivo centrale del cammino
formativo è

«la preparazione alla totale consacrazione di sé a D io nella sequela di


Cristo, a servizio della missione»,2

mentre l’itinerario che concretamente vi conduce è quello di una


«progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre»?
Per capire l’importanza che il documento attribuisce a quest’ultima
affermazione basterà dire che in tre paragrafi torna ben 4 volte. In es­
sa e a partire da essa, infatti, possiamo enucleare ed elaborare ele­

1Cf. Vita consecrata, 65-71.


2 Ibidem, 65.
3 Ibidem.
menti significativi riguardanti sia il modello teologico-antropologico
che una generale strategia di intervento, sia un fine generale educati­
vo, col metodo corrispondente, che le sue tappe intermedie.

1. Modello teologico-antropologico

Anzitutto appare subito chiarissimo il modello biblico, teologi-


co-antropologico, che sta dietto all’affermazione in questione: si
tratta dell’icona di Cristo che si dona totalmente al Padre e ai fratelli.
Il riferimento, infatti, è alle parole che precedono l’inno della «kéno-
si» del Figlio (Fil 2,5), ed è riferimento prezioso per definire il conte­
sto naturale ed evangelico del processo formativo, la ragion d’essere
della vita consacrata, l’obiettivo cui mira.
Tutta l’azione educativa tende a creare nel giovane quella stessa
totale disponibilità o quel sentimento di amore immenso che ha
spinto il Figlio a farsi uomo, a divenire servo, umile e obbediente, li­
bero di dare la vita per amore. È una scelta precisa quella che fa il
documento, e va capita in tutta la sua ricchezza di senso e originalità.
Qui è proposto concretamente un modello di uomo e di consacrato
che solo uno sguardo superficiale potrebbe non cogliere in tutta la
sua importanza 0 dare per scontato.4
Il testo che - non dimentichiamo - è espressione di una rifles­
sione sinodale, autenticata al più alto livello ecclesiale, avrebbe po­
tuto fare altre scelte; ma di fatto non è il modello cultuale o quello
dell’abilitazione apostolica o della perfezione personale (come in un
passato non lontano e con tutti i falsi problemi di «precedenza» sulle
altre vocazioni) il quadro teologico di riferimento fatto proprio dall’e­
sortazione per un progetto di vita consacrata, ma il modello del Fi­
glio, modello di una persona vivente, dei suoi sentimenti e desideri,
del suo modo di vivere e del suo coraggio di morire. Né è proposta
una generica, per quanto classica, «sequela», ma un modo particolare
di seguứe Gesù, che è il modo della kénosi, simbolo e cifra interpre­
tativa dell’esistere e del morire per amore, del non tener gelosamente
per sé nulla, neanche l’amore ricevuto dal Padre, ma di pensarsi in
tatti i sensi come dono, fino a pensare addirittura la morte come do­
no, o a decidere di far dono della vita.
È modello teologico, questo, ma anche antropologico, poiché i
«sentimenti» esprimono forse la parte più umana dell’io, ne svelano i
sogni e le motivazioni, sovente sono istintivi e immediati, passeggeri

4 Sorprende parecchio, al riguardo, che testi e riflessioni recenti circa l’esor­


tazione apostolica non abbiano colto l’importanza strategica di questo riferimento
nell’àmbito della formazione.
e fugaci,5 ma possono anche esser evangelizzati e divenire espressio­
ne, allora, di una conversione di vita, così stabile e radicale da rag­
giungere anche le profondità psichiche del soggetto, della sua vita
istintuale ed emotiva, a livello conscio come inconscio. L’uomo o la
donna spirituale, insomma, non è chi ha soppresso istinti e pulsioni,
moti dell’animo e tendenze interiori, ina chi lascia che tutto ciò sia
illuminato dalla luce misteriosa dello Spirito. Da un lato, dunque, i
sentimenti svelano il versante debole deir uomo, ciò che spesso non
passa neppure attraverso il vaglio della riflessione; d’altro canto, e
proprio per questo, sono la fotografia o il test più attendibile di quello
che l’essere umano è, di quello che porta in cuore, del livello di pro­
fondità della sua conversione interiore. Possiamo, infatti, controllare
le parole e i gesti, ma non possiamo impedirci di provare i sentimenti,
i quali ci dicono immediatamente se e fino a che punto ci stiamo
identificando con il cuore di Cristo, con la sua passione di amore, col
suo Vangelo...
Anzi, la cosa più interessante per noi è che questo tipo di mo­
dello teologico-antropologico, tutto costruito sul mistero deir umanità
assunta dal Verbo etemoT dice proprio una possibilità prodigiosa di
rapporto tra grazia e natura, una compenetrazione reciproca; addirit­
tura l’afferma e propone come obiettivo di un itinerario formativo,
credente e consacrato, quale elemento che l’autentica. Come dire:
non è completa né evangelica quella formazione che non arriva a toc­
care e punficare, trasformare ed evangelizzare non solo i valori
espressamente proclamati o i comportamenti visibili, ma anche sen­
timenti, desideri, disposizioni interiori, progetti, simpatìe, gusti, sogni
inconfessati, attrazioni, memoria, fantasia, sensi interni ed esterni...
tutto, insomma, a immagine del Figlio che si immola per amore. Al­
meno come tensione ideale nel giovane e progettualità conseguente
del formatore.6
Con quali conseguenze sul piano delle strategie e del percorso
metodologico?

5 A tal proposito va comunque detto che nel testo originale biblico il senso è
molto più forte e non è reso sufficientemente dalla traduzione italiana; il verbo greco
fronein indica infatti il modo profondo di sentire di una persona, non solo emozioni e
«sentimenti» passeggeri.
6 Cf. A. CENCINI, «Una istituzione al servizio della formazione», in Antro­
pologia interdisciplinare e formazione, a cura di F. IMODA, Bologna 1997, 592-593.
2. Strategie generali: legge della totalità
e della dinamica esperienziale-sapienziale

Il documento è molto preciso ed esplicito:


«se questo è lo scopo della vita consacrata, il metodo che ad essa pre­
para dovrà assumere ed esprimere la caratteristica della totalità».1

Totalità anzitutto in riferimento alla persona: la formazione


«dovrà essere formazione di tutta la persona, in ogni aspetto della sua
individualità, nei comportamenti come nelle intenzioni».8

Per troppo tempo una certa formazione ha lavorato sul versante


esteriore della persona, s’è accontentata di sollecitare novità di gesti e
condotta, senza dare la necessaria attenzione all'interno, al cuore, al
sentire profondo, anche inconscio, alle motivazioni dell’agire. Per poi
ritrovarsi con giovani puntuali nell’eseguire gli ordini, o certi ordini,
ma poveri di passione e spesso inconsistenti e contraddittori.
Quindi totalità, in relazione alle varie dimensioni educative:
«la formazione, per essere totale, comprenderà tutti Xcampi della vita
cristiana e della vita consacrata. Va prevista, pertanto, una prepara­
zione umana, culturale, spirituale e pastorale, ponendo ogni attenzio­
ne perché sia favorita l ’integrazione armonica dei vari aspetti»,9

particolarmente di quello umano-psicologico con quello spirituale-


teologico. Tutti aspetti che riprenderemo più avanti.
Infine la legge della totalità significa riferimento alla vita intera
del soggetto, e dunque formazione permanente. Se si deve formare il
cuore umano perche impari ad amare come il cuore divino, è ovvio
che il processo non può che durare tutta la vita. E ancora, è interes­
sante notare che, se obiettivo educativo è l’assimilazione al «cuore»
del Figlio, la formazione non è solo - come s’intende di solito - me­
todo pedagogico (relativo poi alla sola fase iniziale), ma - come ab­
biamo accennato più sopra - modo teologico di pensare la vita consa­
crata stessa, in ogni sua fase, poiché la consacrazione è in sé forma­
zione, lenta e interminabile gestazione dell’uomo nuovo che impara
ad avere gli stessi sentimenti del Verbo Incarnato.
E ancora, se obiettivo educativo è formare nel giovane gli stessi
sentimenti del Figlio, allora la formazione non è solo ministero, ma
mistero, non è solo servizio che un fratello maggiore nella fede presta

7 Vita consecrata, 65.


8 Ibidem.
9 Ibidem.
a un altro, che deve crescere nell’adesione credente, ma ingresso di­
screto all’interno dell’azione misteriosa dello Spirito nel cuore del
giovane.
Sono tutti punti rilevanti e fors’anche relativamente nuovi, e,
comunque, dalle feconde conseguenze non solo in sede formativa, ma
pure della concezione della vita consacrata stessa.
Altea strategia generale educativa che possiamo cogliere come
strettamente connessa all’icona biblica di Fil 2,5 è la dinamica espe-
rienziale-scipienziale. Principio generale di tale strategia è questo: c’è
formazione solo laddove i valori e contenuti proposti sono speri­
mentabili e di fatto sperimentati e gustati dal soggetto in formazione,
fino al punto di costituire per lui un nuovo modo di leggere la realtà,
come una nuova regola di vita, un’originale sapienza interiore. Il ri­
schio perenne della formazione è quello di esser solo teoria («bella
teoria!», dice ironicamente qualcuno), una sorta di simposio intellet­
tuale troppo distante, e a volte smentito, dalla realtà pratica.
Se si tratta di formare nella prospettiva della kénosi di Cristo Ge­
sù si dovrà favorire la possibilità di un’esperienza concreta e propoưe
e chiedere un coinvolgimento effettivo e affettivo della persona: la
comunità, così, dovrà esser luogo ove sperimentare ed esprimere
l’amore che si fa servizio e misericordia; l’ambiente intemo educati­
vo dovrà coerentemente confermare i valori tipici della kénosi, come
l’umiltà, la povertà, l’obbedienza, perché il giovane vi possa esser
concretamente esercitato; sarà importante, ancora, che egli sperimenti
«l’intrinseca dimensione missionaria della consacrazione»,10 faccia
esperienze apostoliche proporzionate e verificate, si eserciti nella
difficile arte dell’unità di vita, scopra e gusti la nobiltà liberante di
essere servo umile e il nome nuovo che il Padre gli dà, apprenda la
sapienza della croce e insieme gusti la beatitudine di una santità
umile e contenta... Ma torneremo su queste strategie educative quan­
do parleremo della seconda e terza condizione del nòstro progetto.

3. Metodo educativo: formazione alla libertà

Se le strategie generali indicano l’orizzonte globale, il metodo


educativo segnala il tipo di intervento che dovrebbe consentire di
muoversi entro e in funzione di questo orizzonte.
Abbiamo detto che un progetto diventa formativo quando dispo­
ne di un metodo specifico, scelto di proposito in vista di un obiettivo
preciso; abbiamo anche espresso il sospetto che oggi sia proprio il

10 Ibidem, 67.
metodo l’elemento debole della formazione alla vita consacrata. Non
pretenderemo qui di risolvere in poche righe il problema, ma solo fa­
re riferimento alle indicazioni illuminanti che ci vengono ancora dal
documento post-sinodale. In sostanza l’uomo nuovo, esso dice, è
uomo «autenticamente libero», ed esige, dunque, di essere formato
alla libertà."
Il disegno è davvero coerente, e non solo su un piano contenuti­
stico, ma anche su quello strategico del rapporto tra contenuti teolo­
gici e metodologia educativa: se, infatti, fine della formazione è la
configurazione ai sentimenti del Figlio, allora il processo educativo
non può che divemre vera e propria formazione alla libertà. Se fine
della formazione fosse solo l’abilitazione a un certo tipo di apostolato
o il possesso di particolari qualità virtuose, allora la metodologia
formativa potrebbe seguire qualche altro percorso, ma se si deve for­
mare il «cuore», nel senso biblico e pieno del termine, allora non può
esistere altra via al di fuori della libertà; se il modello teologico-
antropologico di riferimento è l’umanità di Gesù, come espressione al
massimo gradò di una libertà che si trascende nell’amore, allora il
metodo di formazione non ha alternative. Il cuore, infatti, non può es­
ser costretto, ma può e deve essere educato a scoprire la grandezza
della chiamata e la bellezza della proposta, e reso poi capace e libero
di dare risposta come il Figlio ha risposto al Padre, donandosi total­
mente. Avere gli stessi suoi sentimenti non significa tentare una sua
esteriore imitazione, ma accedere alla densità del suo mistero e in es­
so scoprire anche il proprio mistero: libertà è la realizzazione di que­
sta «misteriosa» identità. Vedremo più avanti gli aspetti metodologici
e pratici di questa formazione; accenniamo ora brevemente alle sue
fasi lungo il periodo iniziale.
L’articolazione che ora presentiamo non va intesa in modo rigi­
do o nel senso che una escluda l ’altra. L’idea centrale è che a ogni fa­
se dell’itinerario classico educativo verso la consacrazione corri­
sponda in qualche maniera una certa attenzione educativa al proble­
ma della libertà, che va... liberata da quanto la soffoca e inibisce (è la
fase del pre-noviziato), che va poi edificata su un fondamento solido
(il noviziato), e infine va realizzata e orientata secondo una prospet­
tiva ben definita (il post-noviziato). Ma, ovviamente, senza corri­
spondenze assolute e definitive, come se fosse possibile, ad es., libe­
rare totalmente il giovane nella fase del prenoviziato. In certo senso
queste tre articolazioni sono sempre presenti, l’una continua nell’al­
tra, ma con accentuazioni diverse lungo le stagioni corrispondenti.
Questo per quanto riguarda la sequenza dinamica.

11 Cf. ibidem, 66.


Più importante ancora è osservare il modello su cui è costruita
questa stessa sequenza. Se modello teologico-antropologico del pro­
cesso formativo è il sentire di Cristo nella sua kénosi di donazione al
Padre, allora anche il cammino di formazione alla libertà sarà in pra­
tica costruito sul modello pasquale, scandito dalle tre fasi del triduo
pasquale: morte, discesa agli inferi, risurrezione. Lo esige la coerenza
del disegno. E quando è rispettata questa coerenza, il disegno ri­
splende in tutta la sua bellezza e armonia di forme.

a) pre-noviziato: libertà «da»


Anzitutto il giovane va aiutato a prendere coscienza dei propri
condizionamenti interni, consci ma anche inconsci. Questo processo,
per esser precisi, dovrebbe cominciare nel tempo anteriore al novi­
ziato, senza pretendere però di esaurirlo in esso o in uno spazio limi­
tato di tempo. È importante che il giovane capisca quanto prima che
la formazione inizia proprio con questo faticoso processo di cono­
scenza di sé, con l’identificazione dei propri mostri e l’accettazione
delle proprie ferite; è necessario che egli abbandoni il più presto pos­
sibile ogni presunzione órca se stesso e ogni senso di autosufficien­
za; che capisca che la formazione non è una passeggiata, ma viaggio
duro verso Gerusalemme; che si convinca che la libertà comincia con
la scoperta delle proprie schiavitù, e che l’uomo maturo è sempre an­
che uomo ferito.
C’è, dunque, una morte da affrontare: morte dei propri sogni di
perfezione, della pretesa di essere già abbastanza santi o buoni, di
queir ambizione spirituale che spesso caratterizza chi è agli inizi del
cammino, ma che se non è avvertita in tempo e combattuta tempesti­
vamente rischia di accompagnare e disturbare tutto il cammino suc­
cessivo.
È il momento cosiddetto della destrutturazione,'2 del cambio
strutturale, cioè radicale, di un certo modo di pensarsi e di agire;
momento difficile ma inevitabile; è come se il soggetto dovesse rove­
sciare lo stile precedente di vita. Non si può neppur pretendere che la
liberazione sia immediatamente successiva alla conoscenza delle
schiavitù, ma è senz’altro un buon indicatore vocazionale la disponi­
bilità e il coraggio del soggetto in questo viaggio verso il cenfro
dell’io, alla scoperta delle proprie immaturità e inconsistenze.

12 Circa l’esperienza spirituale nelle tre fasi della destrutturazione, subliminalità


e ristrutturazione cf. A. Cencini, Amerai il Signore Dio tuo. Psicologia dell'incontro
con Dio, Bologna 101997, 69-138.
Si dice normalmente che il tempo del postulantato finisca con la
verifica vocazionale reciproca e incrociata da parte del chiamato e
dell’istituzione, e con la decisione del primo, accettata dalla seconda,
di iniziare un’esperienza specifica nella famiglia religiosa scelta. Sa­
rebbe molto desiderabile che oggetto di discernimento e verifica, in
questi casi, fosse non solo la corrispondenza ideale fra valori del sin­
golo e della congregazione, ma - più realisticamente - anche tutta
quella realtà di debolezze e inconsistenze, immaturità e infantilismi
che rendono meno autentica la vocazione e meno libera la risposta a
essa. Si ha l’impressione che ci sia in giro un certo ingenuo (e forse
non del tutto disinteressato) ottimismo quando si deve decidere circa
il passaggio dalla fase del postulantato a quella del noviziato.
E non si tratta solo di un problema di discernimento vocazionale;
pensiamo quanto sarebbe più produttivo ed efficace il noviziato se
l’individuo vi entrasse già con una conoscenza discreta di sé e delle
radici dei suoi egoismi. Quanto tempo in meno si perderebbe e quante
crisi successive si eviterebbero!

b) Noviziato: libertà «in»


Una volta scoperto il falso fondamento su cui fino allora il sog­
getto ha preteso costruire la sua vita, è necessario indicare il vero
fondamento e... cominciare la ricostruzione.
È il tempo del noviziato, tempo strategico di smantellamento
delle vecchie architetture e di scoperta di un nuovo modo di essere,
più libero e più vero. Tempo prezioso, perché dovrebbe scoccare - in
questa fase - la scintilla del contatto esperienziale con Cristo Gesù
come il «mio Signore», il Maestro, colui che unico ha parole di vita e
può dirmi la verità della mia vita, colui senza il quale vivere non è
più vivere... È pure tempo di lotta, vissuta e sofferta sulla propria
pelle, stagione in cui si vive in una certa subliminalità, come la chia­
mano i maestri di spiritualità, perché l’uomo vecchio non ha allentato
la presa e l’uomo nuovo è ancora giovane e fors’anche debole e in­
certo. E allora è anche fase di dubbio e di oscurità, in cui i momenti
di sincera adesione al Cristo, Verbo della vita, s’alternano a momenti
di drammatica incertezza, di timore.
Ma in ogni caso, è tempo di profonda risonanza interiore; non
solo tempo di conoscenza, come nella precedente fase, ma di espe­
rienza, di sensazione vivissima di non poter ormai più evitare il con­
fronto con colui che chiama e apre la vita a orizzonti nuovi e impen­
sati, con colui che è mistero e senza il quale tutto è enigma. È come
una scommessa, tutta giocata sul bordo di due abissi che contempo-
rancamente e paradossalmente si aprono dinanzi allo sguardo sorpre­
so e avvinto del giovane: l’abisso ascendente dell'intimità con Dio e
quello discendente del viaggio verso gli inferi, i propri inferi.
A questo punto il noviziato diventa davvéro formativo.
È decisivo, allora, in concreto, che il giovane cominci a speri­
mentare di poter costruire «in Cristo» la sua nuova vita e la sua li­
bertà; o che inizi a far l’esperienza che essere libero non vuol dire es­
sere indipendente da tutti e da ogni vincolo, ma - al contrario - si­
gnifica dipendere in tutto da colui che si ama e si è chiamati ad ama­
re. Allora, amare Cristo Gesù vuol dire dipendere da lui nei gesti, nei
comportamenti, nelle parole, nei desideri, nei sogni, nei progetti...,
vuol dire vivere partendo e ripartendo sempre da lui. Perché è lui la
vera identità del giovane. Fino al punto di provare i suoi stessi senti­
menti... Come Paolo: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me» (Gal 2,20).
Dicevamo che solo a questo punto il noviziato raggiunge il suo
fine, ma forse dovremmo dire che questo tipo di noviziato dura tutta
la vita, è struttura portante dell’esperienza spirituale e della forma­
zione permanente. Come mi disse, ricordo molto bene, quel buon
vecchio del mio padre maestro la vigilia della prima professione:
«Ricordati che rimarrai sempre novizio»...

c) Post-noviziato: libertà «per»


Lo sguardo s’allarga, la mente coglie nuovi orizzonti, il cuore è
sempre più attratto.
C’è stata una scelta che ha cambiato la vita, ma l’ha pure com­
plicata; in ogni caso ha bisogno di essere estesa a tutta la vita e a
tutte le aree della personalità. Nella misura in cui questa scelta è
confermata dall’esistenza e dalle piccole 0 grandi decisioni di ogni
giorno la libertà diviene progressivamente ricchezza di desideri e ca­
pacità di conformarli ai desideri stessi di Dio.
Ma a questo punto aumenta pure la qualità oggettiva della
scommessa, o si fa più rischiosa e... vertiginosa: il cuore del giovane
consacrato non è solo chiamato ad amare Dio, ma alla maniera di
Dio! E questo non può avvenire senza una ristrutturazione, un lavoro
paziente e continuo di ricostruzione.
È stata preziosa l’esperienza precedente, quel contatto intimo e
intenso con Cristo, Signore della vita, ma ora l’esperienza deve di­
ventare sapienza. Non più solo sensazioni 0 emozioni, per quanto vi­
ve e profonde, ma pur sempre episodiche e parziali, bensì sapienza di
vita. Come un nuovo sistema esistenziale, con parametri e valori, ma
anche gusti e sapori, tendenze e attrazioni coưispondenti.
Entro questo sistema l’esperienza spirituale della nuova libertà
in Cristo diventa sempre più costante e totale, qualcosa che si pone al
centro deirio, accompagna stabilmente resistenza e s’estende pro­
gressivamente a tutto il vissuto, dando luogo a un nuovo modo di es­
sere e agire, di amare e soffrire. È la libertà di essere povero, casto e
obbediente; è la capacità di gustare il lusso di essere servo, di lavare i
piedi agli altri senza sentirsi umiliati; è l’aver appreso là mitezza, la
povertà di spirito, la purezza di cuore, la persecuzione... come beati­
tudine.
Questi è davvero l’uomo nuovo, colui al quale il Padre dà un
nome nuovo. Colui che, come dice ancora l’esortazione citando s.
Agostino, può e deve dire non solo che è di Cristo, ma che «è diven­
tato Cristo»!13

13 Vita consecrata, 109.


PARTE SECONDA

LE MEDIAZIONI PEDAGOGICHE
Capitolo quarto

LA MEDIAZIONE DEL FORMATORE

La seconda componente di un progetto formativo, come abbiamo


indicato nel primo capitolo, è una rete di mediazioni pedagogiche.
Non è difficile indicarle, tanto sono classiche nella storia della
formazione alla vita consacrata: anzitutto il formatore/formatrice (o
maestro dei postulanti, dei novizi o dei professi), poi la comunità
educante, con la sua articolazione di ruoli e la sua proposta fonnativa
esplicita o implicita, e infine Vambiente o gli ambienti umani (la
scuola, l’esperienza apostolica, la cultura circostante...) con quella
serie di condizioni e stimoli, anche provocanti, lungo cui passa
Fazione educativa.
Vediamo intanto, in questo capitolo, la prima di queste media­
zioni, quella del formatore o formatrice.

1. La Trinità, unico formatore

Dire mediazione vuol dire che il soggetto primo o l’autore della


formazione non è nessuno dei tre ora menzionati, ma è il Dio-Trinità:
è il Padre che plasma nel giovane l’immagine («i sentimenti») del Fi­
glio, attraverso l’azione dello spirito.
Tale intervento divino si serve della mediazione umana, per
l’appunto, secondo uno schema che è abituale nell’agire salvifico:
Dio ama giungere all’uomo attraverso un altro uomo, per vie, dun­
que, e tramite strumenti sempre deboli e limitati, inferiori allo scopo
prefissato e «inutili», come dice Gesù stesso. È la logica dell’incar­
nazione, ove una povera came mortale è chiamata a esprimere il mi­
stero divino. È la legge divina della mediazione umana.
D’altro canto Dio non fa mancare a nessuno il necessario per la
salvezza e, nel nostro caso, per la realizzazione del progetto vocazio­
nale. E importante, allora, fin dall’inizio del cammino formativo chia­
rire bene questo concetto, cioè il senso teologico della mediazione,
per aiutare a coglierne importanza e insostituibilità, da un lato, e per
riduưe certe aspettative irrealistiche e perfezionistiche al suo riguar­
do, dall’altro.
Oggi, infatti, abbiamo per un verso giovani abituati al «fai-da-
te» anche in campo spirituale, 0 che non avvertono la necessità di al­
cuna mediazione per intendere la volontà di Dio, o la rifiutano quan­
do la sentono troppo esigente, oppure così esigenti nelle loro pretese
spirituali da non potersi accontentare delle mediazioni ordinarie e
«casalinghe» 0 da esigere chissà quale perfezione e competenza in
chi li dirige (un po’ come Naaman, il sko, che restò deluso delle pro­
poste troppo normali del profeta) al punto di andare a cercarlo chissà
dove. Non si può consentire alcun equivoco al riguardo né attendere
di chiarire queste cose nel noviziato o nel post-noviziato (sarebbe tra
l’altro imbarazzante che il formatore stesso fosse costretto a dare
questo tipo di chiarificazione, dando quasi l’impressione di voler le­
gare l’altro a sé). Il giovane deve capứe molto presto, o subito, che
cosa significhi formazione ed eventualmente essere aiutato a liberarsi
da quelle pretese o aspettative.
La mediazione formativa è per natura sua imperfetta; d’altro
canto è con gli strumenti ordinari che il Signore normalmente inter­
viene; accettare questa logica significa lasciarsi formare da Dio in
ogni istante della vita. Non accettarla voưebbe dire non capire e ri­
fiutare il mistero dell’incarnazione.
Sul piano istituzionale, poi, sarà importante che anche il formato­
re/formatrice si confronti bene con questa logica, non dimentichi nep­
pure per un istante che è solo mediatore, non si carichi di responsabilità
eccessive e di pesi impossibili, e viva serenamente il suo essere servo,
che compie il suo dovere fino in fondo per poi sentirsi inutile. Un edu­
catore troppo consapevole di sé e troppo preoccupato della sua presta­
zione rischia di divenire inconcludente e insopportabile. Non è certa­
mente Atlante, che crede di dover portare tutto il mondo sulle sue
spalle, il modello o il patrono del formatore, ma semmai Giovanni Bat­
tista, colui che addita e annuncia un Altro, non attira a sé; prepara gli
animi perché sappiano riconoscere Colui che deve venire, ma senza so­
stituirsi a lui; fa di tutto per diminuire perché è Colui che viene che de­
ve crescere nel cuore dei suoi discepoli...

2. D formatore, «coltivatore diretto»

È dunque una precisa legge divina, nel senso che corrisponde a


uno stile di Dio, ma è anche esigenza oggi fortemente sottolineata
dalle scienze umane e altrettanto fortemente sentita dagli stessi gio­
vani in formazione, come è emerso al Congresso intemazionale
dell’ottobre ’97:
«non rifiutiamo la ricchezza che può venirci dalla teologia. Ogni
giorno sui banchi deir università ci vengono offerti moltissimi conte­
nuti. Quello che ci manca sono le mediazioni. Ci mancano le persone
che ci aiutino a tradurre la dottrina nel nostro vissuto esistenziale».1

Lo abbiamo già rilevato e lo rilevano quotidianamente molti


educatori: oggi i nostri giovani ricevono normalmente ottimi conte­
nuti scolastici (teologici, biblici, antropologici, filosofici...), ma
quanto di questo materiale didattico diviene mediazione formativa?
Quante volte non resta semplicemente «contenuto scolastico da stu­
diare per gli esami», o da assimilare un po’ vanitosamente per la pro­
pria cultura?
Il problema, tuttavia, non è solo didattico-scolastico, riguarda
anche la formazione in se stessa, e la persona del formatore in quanto
tale, perche è lui chiamato a portare avanti questa operazione prezio­
sa nel rapporto personale immediato con il giovane in formazione. È
lui il «coltivatore diretto» nella vigna del Signore.
Vale la pena, allora, vedere come si articola, più in concreto,
questa mediazione.
Sottolineiamo tre aspetti che riprendono i tipici dinamismi peda­
gogici cui abbiamo già fatto cenno sempre nel capitolo introduttivo:
r educare, il formare e {’accompagnare.
a) Educare
Anzitutto la mediazione del formatore deve e-ducare, nel senso
di e-ducere, tirar fuori o e-vocare la verità della persona, quello che
essa è, a livello conscio e inconscio, con la sua storia e le sue ferite, le
sue doti e le sue debolezze, perché possa conoscersi e realizzarsi al
meglio delle sue possibilità.2 È un intervento, dunque, direttamente
su]l’iệo attuale dell’individuo.
Educare, in tal senso, è tipico del Padre-creatore, che creando
educe, tira fuori le cose dal caos e le creature dal nulla, per dare ordi­
ne e trasmettere vita; oppure Dio Padre è ancora il modello di questo
processo pedagogico quando educa il suo popolo, tirandolo fuori
dalla schiavitù di Egitto cọn mano potente e braccio teso, attraendolo
a sé con legami di bontà e tenerezza, ma anche rimproverandolo e
correggendolo come un padre fa col figlio (cf. Dt 1,31; 6,21; 9,26...)
per condurlo, infine, verso la terra promessa:

1Testimonianza orale di un giovane partecipante al Congresso, cit. da CIARDI -


M e r le tti, Volare si può, 38.
2 Cf. c . Nanni, «Educazione», in Aa. Vv., Dizionario di scienze dell'educa­
zione, Roma 1997, 340.
«Egli lo trovò in teưa deserta, in una landa di ululati solitari. Lo educò,
ne ebbe cura, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila
che veglia la sua nidiata.. spiegò le sue ali e lo prese...» (Dt 32,10).

Educare, allora, significa sempre partecipazione all’azione crea­


tiva e costruttiva di Dio, è qualcosa che si distende regolarmente su
tempi lunghi, nasce da un amore forte e tenero, esige infinita pazien­
za e benevolenza, la pazienza del contadino che aspetta e rispetta i
tempi della natura, ma anche l’energia dell’uomo abituato alla fatica
dei campi, energia più forte del possibile rifiuto da parte di chi prefe­
rirebbe l’inerzia della dipendenza al coraggio di scoprire e affermare
la propria identità.
Tale mediazione comporta una serie di operazioni non del tutto
semplici e automatiche, e che anzi richiedono una particolare prepa­
razione nel formatore.

- Egli deve, anzitutto, conoscere se stesso, e in particolare le aree


meno forti e meno libere della sua personalità, per evitarne la
proiezione nell’altro e sapere poi... come se ne viene fuori.
- Ma dovrebbe pure saper điscernere nell’altro la presenza di
conflitti e immaturità. Non è sufficiente, dunque, osservare il
comportamento esteriore, come non basta aspettare che sia p altro
a tirar fuori il problema (nella maggioranza i nostri giovani igno­
rano il loro conflitto centrale), né accontentarsi di ciò che egli di­
ce di sé (la miglior sincerità non basta per esser veri). È buon
formatore chi sa percepire, oltre la condotta osservabile e le abi­
tudini della persona, i suoi atteggiamenti, ovvero le sue predi­
sposizioni ad agire o i suoi stili di vita, pronti per l’uso come uno
schema fisso (es. come reagisce quando è offeso); per poi passa­
re ai sentimenti, all’identificazione di ciò che egli prova nelle va­
rie circostanze della vita (es. non basta che egli perdoni, occorre
vedere che cosa sente denteo di sé verso l’altro); e infine giunge­
re alle motivazioni, al tentativo di capire che cosa c’è alla radice
del sentire e dell’agire, di certe decisioni o della stessa scelta
vocazionale (l’amore di Dio o altri obiettivi? l’abbandono nelle
mani di Dio o la pretesa di autogestừsi, 0 paure varie?...)- Tali
operazioni mirano a scoprire la cosiddetta inconsistenza (o im­
maturità) cenừale che, quando è inconscia, si pone al centro della
vita psichica e da lì «succhia» come un’idrovora una quantità no­
tevole di energia; è indispensabile che l’educatore la sappia rico­
noscere quanto prima, per intervenire tempestivamente su di essa
e non sprecare tempo ed energie preziose, e impedire che il pro­
blema diventi cronico e insolubile. Una buona educazione è
sempre preventiva.3
- Ma a ben poco servirebbe tutto questo se l’educatore non fosse
in grado di aiutare la persona a scoprire essa stessa la propria
immaturità, le sue radici e le sue conseguenze. Il compito del
mediatore è proprio quello di mettere l’altro sempre più in condi­
zione di «far da solo», proponendogli un metodo grazie al quale
imparare a conoscersi e a decifrare i suoi stati di animo, a non
raccontarsi bugie e a capire da dove vengono i suoi problemi.
Qui comincia la libertà della persona.
- Infine, all’educatore si chiede di saper aiutare l’altro a risolvere le
sue difficoltà. Risolvere non nel senso di cancellare una volta per
tutte ogni immaturità (non sempre, 0 quasi mai, è possibile), né
di pretendere di non avvertire più alcun richiamo o attrazione in­
consistente, ma nel senso di assumere un atteggiamento diverso
nei confronti delle proprie immaturità (o del fatto di essere im­
maturo), più cosciente e responsabile, sempre meno dipendente e
ripetitivo. Un buon educatore non impone al giovane traguardi
impossibili a livello psicologico né lo illude con promesse ambi­
gue sul piano spkituale; lo educa, semmai, a vivere la coscienza
delle sue debolezze di fronte a Dio, come strumento misterioso
attraverso cui incontra e sperimenta la misericordia divina e su­
pera e abbandona la pretesa di meritarsi l’amore divino, e impa­
rando a riconoscere e accettare la sua fragilità, capisce e accetta
anche le debolezze altrui.
Educare, allora, in questa fase, significa educare alla scoperta di sé
e all’accettazione dell’altro; è passaggio dalla sincerità alla verità, dal­
la lettura soggettiva delle proprie sensazioni alla scoperta oggettiva del­
la propria realtà interiore, dal semplice riconoscere i propri sentimenti
al coraggio di raggiungere e identificare le motivazioni. È educazione
alla preghiera «inspirito e verità» (Gv 4,24): all’orazione come luogo
ideale ove questa verità di sé risuona dinanzi alla verità di Dio, ove il
credente può ascoltare e raccontare a Dio «tutta la verità» (come
l’emorroissa quando si vide scoperta), e, vistosi accolto, può aprirsi - a
sua volta - all’accoglienza deir altro, e di tutta la sua verità.

b) Formare
Non basta educare, si deve anche formare, proporre un modello
preciso, come un nuovo modo di essere o una «forma» che costitui-

3 Per una più chiara indicazione delle tappe che conducono alla conoscenza
dell’altro e della sua inconsistenza cf. più avanti cap 16, paragrafo 2.
see la nuova identità del consacrato, quel che è chiamato a essere, il
suo io ideale, forma che diventa norma e tras-forma la vita.
Gli ultimi decermi, secondo alcuni, sono stati tempi di reticenza
e ambiguità, se non di silenzio, sul contenuto di questo modello;
l’azione pedagogica, nei nostri ambienti, è stata più di natura educa­
tiva che formativa, s’è come accontentata di richiamare ognuno al
compito di conoscersi per «essere se stesso», rischiando però di ap­
piattasi sull’orizzonte un po’ neutro e di basso profilo dell’autorea-
lizzazione, come se il primo e unico comandamento fosse quello di
affermarsi nella vita, magari in competizione e a danno degli altri, e
senza alcuna novità per un io destinato a ripetersi all’infmito. E inve­
ce solo con la proposta di un autentico modello che si imprime una
direzione nuova e precisa al giovane, che lo provoca al livello più al­
to delle sue possibilità, ma pure gli dona tantissimo, lo attrae perché
fonte della sua verità mentre gli propone un liberante (e pur costoso)
cammino di conversione.4
Così, se l’educare è evocativo della verità dell’uomo, il formare
comporta una pro-vocazione dell’umano, una proposta che chiede di
dare il massimo di sé esproprio per questo, svela alla fine ciò di cui il
singolo è capace. In ogni caso un’autentica attività formativa ha effet­
ti dirompenti: è novità che sorprende e a volte spaventa, crea nuove
aspettative e sollecitazioni, porta tensione e anche insoddisfazione,
chiede di cambiare le abitudini e i vecchi stili di vita, sposta in avanti
l’equilibrio della persona verso orizzonti impensati, apre una nuova
fase di vita ma sollecita pure resistenze e difese... Se educare è dis­
sodare il terreno, formare è immettere in esso la vitalità del seme,
come forza prorompente e foriera di vita nuova; quel seme che cade a
terra, muore e dà frutto.
In una parola è la logica della trasformazione. Un processo di
formazione è autentico solo se conduce alla tras-formazione, a un
cambiamento radicale nel modo di pensare, di volere, di amare; alla
metanoia o alla conversione, in termini spirituali. Strano a dirsi, l’im­
pressione è che molto spesso il cammino formativo si fermi prima 0
non si spinga fino a chiedere una trasformazione di mente-cuore-
volontà, un cambio, cioè, non solo di comportamenti (molti formatori
ne sarebbero già appagati), ma anche e soprattutto della sensibilità,
dei gusti, dei criteri di giudizio, di ciò che sta a cuore..., di tutto
l’uomo, insomma. Altrimenti la formazione è finzione o solo appa­
renza, intellettuale o morale o sentimentale, ma sempre e solo qual­
cosa che riguarda solo una parte, una dimensione delPorganismo

4 Cf. c . Nanni, «Formazione», in Aa. Vv., Dizionario, 432-435.


credente. E le apparenze illudono, ma prima 0 poi mostrano il vuoto
che tentavano di coprire, ovvero, tutta la loro inconsistenza.
Ancora, se l’educare spetta al Padre, il formare sembra essere at­
tività precipua del Figlio, ovviamente senza alcuna rigida ed esclusi­
va attribuzione. Il modello tipico della vita consacrata, infatti, come
abbiamo già indicato, sono «i sentimenti del Figlio», chi dunque me­
glio del Signore Gesù può portare avanti questa paziente opera di
formazione nel cuore del giovane consacrato?
E molto importante, non solo suggestivo, che i nostri giovani
sentano così il rapporto con il Cristo, il vero (padre) Maestro della lo­
ro vita, la via, la verità e la vita, l’unico che davvero può trasmettere
e «piantare» nel loro cuore il suo sentire, farli vibrare del suo amore,
render contagiosa la sua passione per il Regno... Se lui e i suoi sen­
timenti sono l’obiettivo finale della formazione, pofrà essere solo lui
il vasaio di cui parla il profeta Geremia, che lavora con infinita e te­
starda pazienza attorno alla sua creta e la lavora e cesella, la modifica
e perfeziona, la corregge e.abbellisce... fino a renderla «come ai suoi
occhi pare giusto» (Ger 18,4); «Signore..., noi siamo argilla e tu co­
lui che ci dà forma» (Is 64,7).
Se è Cristo Signore il formatore per eccellenza vediamo ora al­
cuni aspetti circa 1 intervento del formatore terreno come mediatore
dell’unico formatore divino. In sostanza esso si articola su due linee:
poggettivazione e la soggettivazione del valore stesso.
- Con Voggettivazione il formatore aiuta il giovane a cogliere la
verità-bellezza-bontà di Cristo e dei suoi «sentimenti» come va­
lore supremo di vita. Sono due le condizioni indispensabili per
questa operazione. Anzitutto che il formatore sia davvero inna­
morato di quella bellezza, e possa dire che quanto propone agli
altri è da lui stesso sperimentato come appetibile, fonte di pie­
nezza, appagante. Non può essere formatore il consumatore oc­
culto, anche se solo nel desiderio, di proposte o prodotti alterna­
tivi. Seconda condizione, che sia capace di condividere la felicità
dell’appartenere a Dio: non può essere formatore il tipo imper­
meabile alla gioia, o chi non ha fatto abbastanza l’esperienza di
beatitudine e serenità nella sua scelta di vita, anche se è indivi­
dualmente pio e asceta. Se formare è un’arte, il formatore è un
artista, sedotto dal «Logos artista»5 per diffonderne e renderne
contagiosa la bellezza.
- La soggettivazione è... il contagio in azione: significa l’azione me­
diatrice del formatore che conduce il giovane a riconoscere nel
Cristo la sua propria identità. La verità-bellezza-bontà del valore

5 G regorio di NAZIANZO, Discorso 8,8: PG XXXV, 797.


diventano allora progressivamente la verità-bellezza-bontà del
soggetto, i sentimenti di Cristo diventano sempre più i sentimenti
del giovane. È il punto nevralgico di tutto il processo pedagogico e
che chiede al formatore la capacità, davvero artigianale, di interve­
nire con tatto e sapienza sulla totalità delle forze psichiche: sul
cuore perché s’innamori di Dio, sulla mente perché lo contempli,
sulla volontà perché impari a desiderare i suoi desideri. La forma­
zione, così concepita, è, ancora una volta, soprattutto libertà: liber­
tà di lasciarsi attrarre dalla bellezza del Figlio e dei suoi sentimenti,
una libertà dunque che sconfina nella mistica, e poi libertà di la­
sciarsi plasmare dallo Spirito del Padre, e dunque libertà che di­
venta ascetica, n formatore è colui che attiva queste operazioni, ma
è mediatore o facilitatore dell'incontro nella misura in cui lui stesso
conosce da vicino quella mistica e queir ascetica. Esteta del divino
al punto da saperlo disegnare nelTumano, anche in quella realtà
così umana che sono i sentimenti.

c) Accompagnare
Infine la terza articolazione, che rappresenta in qualche modo lo
stile pedagogico generale. L’educatore-formatore di cui abbiamo par­
lato e un fratello maggiore, maggiore nell’esperienza esistenziale e
nel discepolato, che SI pone accanto a un fratello minore per condivi­
dere con lui un fratto di strada e di vita, perché questi possa meglio
conoscere se stesso e il dono di Dio, e decidere di rispondervi in li­
bertà e responsabilità.6 La dimensione dell’io che qui diviene oggetto
specifico di attenzione è Vio relazionale.
L’accompagnamento è lo stile di Emmaus, icona di qualsiasi ac­
compagnamento nella fede. Ma è lo stile, soprattutto, dello Spirito
Santo, il «dolce ospite dell’anima», la compagnia di Dio in noi,
l’iconografo interiore che plasma con fantasia infinita il volto di cia­
scuno secondo rimmagine di Gesù.
«La sua presenza è sempre accanto a ogni uomo e donna, per condur­
re tutti al discernimento della propria identità di credenti e di chiama­
ti, per plasmare e modellare tale identità esattamente secondo il mo­
dello dell’amore divino. Questo “stampo divino” lo Spirito santifica-

6 Cf. A. Cencini, Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Em-


maus, Cinisello B. 1994, 60.
tore cerca di riprodurre in ciascuno, quale paziente artefice delle ani­
me nostre e “consolatore perfetto”».7

È fondamentale, allora, che il giovane senta lo Spirito come il


suo amico fedele, come memoria di Gesù e della sua Parola, come
colui che lo conduưà al pieno svelamento della verità e alla sapienza
del cuore, come guida dallo sguardo geloso su Gesù e sui chiamati
per fame dei testimoni suoi.
La consapevolezza e il gusto della «compagnia» dello Spirito
renderanno il giovane consacrato sempre più disponibile a farsi ac­
compagnare da un fratello maggiore, senza pretendere che sia perfet­
to. Chi si affida allo Spirito si fida anche delle sue mediazioni; chi ha
imparato a consegnarsi allo Spirito non teme - oggi che è giovane -
di condividere un fratto della sua storia, affidandola alle mani di un
fratello maggiore. Domani, quando sarà più anziano, accetterà che al­
tri lo conduca dove lui non sa, che altri lo cinga... Così fiducia, ab­
bandono, consegna di sé diventano le virtù tipiche, come il frutto di
questo intervento pedagogico.
Dal punto di vista vocazionale, se l’educare implica la e-voca-
zione della verità soggettiva e il formare costituisce una pro-voca-
zione del soggetto, l’accompagnare è una con-vocazione dello stesso,
sia perché rappresenta un invito a camminare insieme per la realizza­
zione del progetto vocazionale, sia perché si fratta di un invito rivolto
alla totalità del suo essere e delle sue stratture intrapsichiche, cuore-
mente-volontà, tutte assieme con-vocate per rispondere all’appello
dello Spirito. Dal punto di vista... «agrario», dopo il dissodamento
del terreno (= educazione) e la semina del buon seme (= formazione),
l’accompagnamento implica tutte quelle attenzioni che il buon conta­
dino dedica e riserva alla pianticella che sta per crescere; concreta­
mente le sta accanto, in qualche modo la vede lentamente fiorire,
come se il suo sguardo ne favorisse la crescita, la cura e la protegge.
Le caratteristiche essenziali deir accompagnamento come meto­
do pedagogico sono tre.
- La prima è data dalla reale, fisica condivisione di vita. Per osser­
vare la condotta e risalữe da questa agli atteggiamenti, e poi ai
sentimenti e alle motivazioni è indispensabile vivere a contatto
della persona con un’attenzione intelligente. La vita quotidiana, e
la convivenza, sono la miglior fonte d’informazione per conosce­
re un individuo; il poter cogliere certe sfumature comportamenta-

7 PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni p a ­


lma nuova Europa. Documento finale de! Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e
alla vita consacrata in Europa, Roma 5-10 maggio 1997, n. 18b.
li, come reazioni, simpatie, antipatie, emozioni, depressioni, abi­
tudini, scherzi, insofferenze, dimenticanze, nervosismi, preferen­
ze, stranezze.. consente di avere un quadro relativamente com­
pleto e di poter giungere così più facilmente all’identificazione
della situazione generale e dell’inconsistenza centrale.
La seconda condizione è la competenza-preparazione dell’edu-
catore-formatore che, se davvero vuole accompagnare un fratello
lungo le vie dello Spirito, deve unire alla sapienza spirituale la
conoscenza del cuore umano 0 delle leggi dello sviluppo psico­
logico. Quanto, insomma, gli consenta di intervenire non solo
per indicare il punto di arrivo, ma pure per cogliere la verità
dell’individuo, a livello conscio e inconscio, per suggerire un
metodo di soluzione dei suoi problemi e aiutarlo a lasciarsi for­
mare dall’azione dello Spirito, superando resistenze e paure. Una
competenza come questa può esser solo frutto di un cammino re­
golare e sistematico di formazione del formatore. Nõn è la com­
petenza dello psicologo, ma dell’uomo spirituale che, proprio
perché tale, usa anche le scienze umane per disporre il cuore ad
accogliere lo Spirito.
Infine, r elemento forse più peculiare e originale del concetto di
accompagnamento. Dal latino medievale sappiamo che questo
termine deriva da ciim-pahio, che sarebbe «colui che ha il pane
in comune».8 Accompagnare un giovane verso la consacrazione
non significa semplicemente dare una direzione (spirituale) alla
sua vita o comunque offrire solo insegnamenti o stabilire una re­
lazione che va in un unico senso; ma vuol dire anche fare o cele­
brare assieme un’esperienza, che sarà sempre nuova e inedita
perché esperienza di Dio, fra due persone che hanno fatto e stan­
no facendo un cammino verso di lui. Accompagnare vuol dire
essenzialmente condividere, e condividere qualcosa di vitale co­
me «il pane del cammino», ovvero la propria fede, la memoria di
Dio, l’esperienza della lotta, della ricerca, dell’amore di lui...
Non stiamo dicendo che il formatore’debba necessariamente sve­
lare il suo intimo, come se la relazione di accompagnamento fos­
se solo di tipo amicale, ma che in ogni caso deve essere consape­
vole dell’inevitabile coinvolgimento personale del suo cammino
di credente, per accettare di essere vicino a colui che accompa­
gna e condividere con lui quanto egli stesso ha già sperimentato
come importante per incontrare Dio e lasciarsi da lui amare. Un
formatore non è mai così convincente come quando sa confessa­

8 G, D ev o to - A. Oli, N uovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Fi­


renze 1988, 679.
re la sua fede; allora non solo educa la fede del giovane, nìa entra
in qualche modo all'interno di quello stesso cammino per fare
un’esperienza nuova di Dio e lasciarsene lui stesso formare. Fra­
tello maggiore e fratello minore, entrambi accompagnati dallo
Spừito di Dio, l’unico formatore. Non è semplice amicizia, la lo­
ro, ma amicizia 0 com-pagnia nello Spirito.9
A questo punto si può dire davvero che accompagnando un gio­
vane lungo le vie dello Spirito il formatore porta avanti la sua forma­
zione permanente.
Esponiamo ora in un quadro sintetico i tre dinamismi pedagogici
nelle loro caratteristiche essenziali.

9 Cf. A. CENC1N1, «Accompagnamento», in AA. Vv., Dizionario, 22-23.


EDUCARE FORMARE ACCOMPAGNARE
Soggetto
IL PADRE IL FIGLIO LO SPIRITO
TRINITARIO

Pro-vocare verso la Con-vocare cuore-men­


E-vocare la verità del­
A ttività realizzazione di un te-volontà, «tutto» l’uo­
l’io perché si realizzi
PEDAGOGICA progetto trascendente mo, e condurre lungo un
al massimo delle sue
SPECIFICA come forma e norma cammino cognitivo-e-
potenzialità
di vita sperienziale-sapienziale

L ivello
Io Attuale Io Ideale Io Relazionale
DELL’IO

Dio Padre-Creatore La kénosi del Figlio; Lo Spirito, guida e a-


che e-vooa dal nulla 0 il Figlio che plas­ mico, che aiuta a rico­
I cona facendo esistere; 0 che ma, come il vasaio, noscere Gesù che spie­
BIBLICA e-duce Israele dall’E­ nel cuore del con­ ga le Scritture e spezza
gitto e-ducandolo nel sacrato i suoi senti­ il pane
deserto menti
P ercorso Dalla sincerità Dalla verità Dalla libertà
PEDAGOGICO alla verità alla libertà alla consegna di sé
Conoscenza e supera­ Proposta di Cristo e Condivisione di un
mento, da parte della della sua vérità-bel- tratto di strada e di vita
guida, delle proprie in­ lezza-bontà ogget­ col giovane, per condi­
M odalità
consistenze per con­ tive; per suscitare in videre soprattutto la
EDUCATIVA dirne il giovane lungo cuore-mente-volontà fede e i beni dello Spi­
lo stesso cammino di un’adesione sogget­ rito, assieme alla pro­
liberazione tiva pria competenza
Capitolo quinto

COMUNITÀ EDUCATIVA

Nella rete di mediazioni pedagogiche indispensabili in un pro­


cesso formativo abbiamo indicato anche la comunità, quale luogo e
soggetto di formazione alla vita consacrata.
Si fratta di un dato appartenente alla più autentica tradizione: è la
comunità che si fa carico del processo di maturazione del giovane
candidato, e il fratello maggiore che è responsabile di tale processo
esprime la cura e l’attenzione della famiglia religiosa per chi chiede
di farne parte; è la frate m i tas l’àmbito naturale del cammino di cre­
scita, ma essa è pure il soggetto agente della formazione, e non solo
nel periodo iniziale, ma lungo tutta la vita del religioso.
È quanto mai significativo, a tal riguardo, che nell’esortazione
apostolica sulla vita consacrata la sezione riguardante la formazione
si trovi all'interno del capitolo secondo, quello dedicato alla comu­
nità (Signum fraternitatis), a sottolineare esattamente la titolarità na­
turale educativo-formativa della comunità nei confronti dei suoi
membri.
D’altro canto, però, non è poi così scontata - sul piano prati­
co - questa dimensione educativa comunitaria: perché una fraternità
religiosa sia educante, già nel periodo iniziale, ma in qualche modo
anche poi, devono esser presenti precise condizioni, strutturali e di­
namiche.

1. Elementi strutturali

Tale comunità deve avere risorse pedagogiche interne e un age­


vole accesso a risorse formative esterne, da poter effettivamente
mettere a disposizione di tutti e di ognuno, perché sia possibile
un’esperienza personale e globale di maturazione e crescita ai vari
livelli, in conformità con il modello ccirismatico-istituzionale e in
corrispondenza con la fase di sviluppo del giovane.
Queste condizioni rappresentano le strutture di una comunità
educativa, i suoi elementi portanti.
Esemplificando, potremmo allora dire che in tale comunità risorse
inteme sono, ad es., un certo clima spirituale (nel quale confluiscono
l’animazione liturgica, i valori proposti, la coerenza fra valori e vissuto
comunitario, un certo ordine generale o sapiente disciplina comunita­
ria...), e àèi formatori adeguatamente preparati', mentre quelle esterne
sono costituite, in generale, da tutte quelle provocazioni che vengono dal
territorio, dalla realtà sociale in cui è collocata la fraternità, perché la for­
mazione non galleggi aerea sulle vicende terrene e il giovane impari pre­
sto a cercare e trovare Dio nella realtà storica, a essere consacrato nella
Chiesa e nel mondo, per la Chiesa e per il mondo.
Più in particolare risorse esterne rilevanti possono essere Studi
teologici o altri centri culturali in cui può esser curata la formazione
intellettuale, o ambienti particolari di istituto dove il giovane può fare
esperienza dell’apostolato tipico della sua congregazione, ma anche
l’àmbito stesso della parrocchia per un’esperienza di Chiesa e di ser­
vizio alla comunità credente, 0 particolari comunità religiose o gruppi
e movimenti che offrano la possibilità di fare specifiche esperienze
spirituali e di intimità con Dio, o contesti anche laici in cui poter fare
esperienza di rapporto con mentalità e culture diverse, 0 situazioni di
sofferenza ed emarginazione dove la fede e la consacrazione del gio­
vane sono seriamente confrontate. Tutte queste risorse sono una ric­
chezza per una comunità formativa. Ciò che è decisivo e strategico è
che tutte le esperienze, dalla scuola ai tirocini apostolici siano con­
vergenti e in vario modo collegate con il progetto formativo, anzi,
considerate parte di esso e scelte in modo mirato, senza che invadano
indebitamente spazio e tempo formativo né che assorbano eccessiva­
mente le energie del giovane.
Allora l’esperienza consente di superare il livello della semplice
conoscenza informativa e conduce lentamente alla sapienza del cuo­
re, a quel nuovo modo di sentire e volere che segna nascita e crescita
dell’uomo nuovo, mentre la formazione non dovrebbe più coưere il
rischio di ridursi a sola teoria o opzione soggettiva.
Infine la comunità educativa deve saper conciliare l’aspetto della
stabilità con quello della creatività, ovvero coniugare la fedeltà al
dato carismatico e al modello istituzionale con la capacità di acco­
gliere e provocare, se necessario, la naturale tensione del giovane, la
sua voglia di sognare e di tendere al massimo. È un equilibrio non
sempre facile quello fra stabilità strutturale e regolarità di osservanza,
da un lato, con dinamicità e flessibilità soggettive, dall’altro, ma è
equilibrio importante perché la casa, di formazione, con la scusa di
eliminare conflitti e tensioni e perché regni l’ordine, non giunga ad
assomigliare, come una volta mi disse un giovane professo, a «... una
casa di riposo»!
2. Elementi dinamici

Se questi sono gli elementi strutturali o portanti dell’intero edifi­


cio, è necessario cercare di definire anche gli elementi dinamici o
quei principi in base ai quali la comunità può di fatto svolgere il suo
ruolo educativo. Li concentriamo attorno a tre elementi strategici: la
titolarità pedagogica della comunità, la distinzione e la complementa­
rità dei ruoli.

a) Titolarità pedagogica della comunità


L’esortazione post-sinodale dice che la comunità è «il luogo pri­
vilegiato» della formazione,1 o,. come potremmo dire rifacendoci a
una distinzione a noi nota, è luogo per eccellenza del processo peda­
gogico dell ’educazione-formazione-accompagnamento.
Anzitutto la comunità educa, perché il vivere assieme agli altri
porta inevitabilmente a scoprire i propri aspetti meno maturi. Finché
uno vive da solo, può anche sentirsi e credersi buono, ma quando en­
tra in rapporto con altri allora comincia a conoscere una serie sor­
prendente di mostri che lo abitano: il suo egoismo e narcisismo, la
paura e diffidenza dell’altro, la pretesa di possesso e la voglia di im­
porsi, l’invidia e la gelosia. In tal senso la comunità e-duca, tira fuori
una realtà che diversamente rischierebbe di restare latente e inconscia
e di non divenire mai oggetto di educazione. Allo stesso modo è vero
anche il contrario, in certo senso: il vivere con gli altri costringe a ti­
rar fuori il meglio di sé, fors’anche a scoprire energie positive inedite,
in qualche modo evocate dalla relazione con un tu che fa prender co­
scienza dell’io. In ogni caso ciò sottopone a un’ascesi che è dura, ma
quanto mai salutare per la maturazione personale.
A un livello più teologico la comunità non solo educa, ma è luo­
go privilegiato di formazione perché è la comunità la depositaria del
carisma come forma di vita del consacrato. Al Congresso internazio­
nale dei giovani religiosi questo è stato tra i punti più sottolineati:

«la comunità è il luogo in cui lo spirito del nostro fondatore è piena­


mente vivo. È il luogo in cui il carisma e lo spirito sono concreta­
mente vissuti e diventano manifesti».2

1 Vita consecrata, 67.


2 A.M. MUKAMWEZI, «Comunità, comunione, missione: il fuoco dell’amore
vissuto e amato», in CIARDI - MERLETTI, Volare si può, 51.
Il dono dello Spirito, infatti, proprio perché viene dall’alto, è
dato alla comunità e risplende nella sua interezza e bellezza solo nella
comunità; nessuno può dirsene interprete esclusivo e solitario, così
come nessuna lettura del carisma può avvenire prescindendo dalla
storia passata e presente, dagli esempi umili e spesso nascosti di tanti
consacrati e consacrate, veri «esperti» del carisma stesso. È la comu­
nità, con l’apporto di tutti, che ne rende evidenti e attraenti i vari
aspetti: la spmtualità, l’ascesi, il servizio caritativo, lo stile di rap­
porto... È ancora solo la comunità, dunque, pur con tutti i suoi limiti e
contraddizioni, che può suggerire e propoưe questa nuova forma di
vita, e che, al tempo stesso, ha i presupposti fondamentali per attuare
un programma formativo che s’ispiri al carisma.
Ecco alcuni di questi presupposti che facilitano tale attuazione:
relazione interpersonale e rapporto affettivo, specie se purificati da
attese egoistico-infantili, sono il framite migliore per far passare age­
volmente la domanda e la risposta educativa; la coscienza di avere in
comune con gli altri addirittura l ’identità non solo forma a un forte
. senso della fraternità, ma consente di percepứe nel carisma quanto
insieme si è chiamati a essere, l’uno responsabile e bisognoso dell’al­
tro, senza abbassare la tensione né ridirne l’obiettivo secondo la mi­
sura o le paure soggettive; la regolarità-stabilità della vita comunita­
ria, con i suoi momenti di preghiera, di riflessione, di convivenza... fa
crescere lentamente ma realmente in tutti l’uomo spirituale secondo
una specifica identità, creando una naturale sintonia tra i membri;
l’uso sistematico e intelligente di strumenti di integrazione del bene
(collatio, progetto comune di vita, discernimento comunitario...) e
del male (corcezione fraterna, revisione di vita...) consente realmente
di progredire assieme verso una santità comune.3
Infine la comunità accompagna lungo tale cammino di crescita, o
consente, per meglio dke, di non fare questo cammino da soli, ma in
com-pagnia, nel senso etimologico di questo termine, ovvero condivi­
dendo con altri fratelli il «pane del cammino», la stessa fede, il mede­
simo carisma, l’identica gioia di appartenere a Dioề In tal senso la co­
munità è ed è sentita sempre più come madre, come la nuova famiglia,
come la propria casa, ove la tavola è sempre imbandita per consumare
assieme il pasto della fraternità. Fino al termine dell’esistenza.
Ovviamente tale triplice valenza è effettiva. nella misura in cui si
riesce a trasmettere l’idea della titolarità pedagogica della comunità.
Che non vuol dire solo che la comunità è comunque educativa, ma che
lo diventa nella misura in cui il giovane si assume la responsabilità di

3 Sull’uso di questi strumenti cf. A. CENCINI, «...Come rugiada dell’Ermon».


La vita fraterna, comunione di santi e di peccatori, Milano 1998.
edificare lui stesso la comunità, o di divenire costruttore, non semplice
consumatore, di comunità.4 Allora la comunità diviene il «mio» luogo
di crescita, l’occasione attuale, il dono propizio di Dio. Il giovane po­
stulante, novizio 0 professo deve capire che evadere dalla comunità, fi­
sicamente o psicològicamente, significa negarle la possibilità di avere
su di sé un influsso educatìvo-formatìvo, magari con le sue contraddi­
zioni e attese, e negarsi a sua volta la possibilità di darle il suo apporto
costruttivo, pur con le proprie insofferenze e debolezze.5

b) Distinzione dei ruoli


Altra condizione decisiva per la dinamica educativa della comu­
nità è la corretta distribuzione e interpretazione dei ruoli.
Ciò implica, anzitutto, molta chiarezza nell’attribuzione delle re­
sponsabilità educative, a partire da quella che è la prima di queste re­
sponsabilità in una comunità educativa: il ministero deir educatore-
formatore vero e proprio, del maestro/a dei novizi/ie 0 dei professi/e,
ovvero colui/colei che deve farsi carico del cammino di accompa­
gnamento personale del singolo.
Il giovane deve sapere con certezza chi è il fratello maggiore che
l’istituto affianca al suo cammino, quale mediazione dell'azione for­
matrice del Padre.
Trattandosi di un rapporto assolutamente personale, e dunque di
attenzioni, energie, tempi dedicati al singolo è raccomandabile che
queste comunità non siano numerose, e che il numero dei giovani in
formazione non superi - potremmo dire - quello della prima comu­
nità educativa della storia cristiana. Ove la comunità fosse partico­
larmente numerosa (lode a Dio!), è necessario che vi siano più fratelli
disponibili per questo accompagnamento.
Nella tradizione religiosa II maestro è sempre stato anche il re­
sponsabile del processo formativo globale, colui che vive assieme ai
giovani e definisce programma e andamento delle attività educative;
vi sono buone ragioni per continuare questa tradizione, anche sul
piano prettamente psicopedagogico, e vi abbiamo già fatto cenno (es.
la possibilità di avere un rapporto diretto e una conseguente cono­
scenza più completa del giovane, la corrispondenza tra intervento sul
singolo e sul gruppo, la coerenza del disegno educativo, una maggior
efficacia nella trasmissione dei valori, la forza trainante della testi­
monianza personale...).

4 Cf. La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Chrìsti amor», 24.
5 V. Bosco, Il ruolo educativo della comunità religiosa, Torino 1978, 5.
Ciò, evidentemente, non è in contrasto con l’idea e la prassi
dell’équipe educativa, che, anzi, rappresenta un arricchimento della
proposta e una condivisione della responsabilità, oltre a garantire una
maggiore specificità e incisività degli interventi. Quel che va impe­
dito, semmai, è che l’équipe coưa il rischio di funzionare in definiti­
va da alibi, ad es., per i cosiddetti «pellegrini», quelli che hanno la
tendenza ad andare ora dall’uno ora dall’altro educatore, a ognuno
dicendo qualcosa dei propri problemi, ma a nessuno consegnandosi o
con nessuno aprendosi totalmente; così come va scoperto il trucco dei
«latitanti», coloro che assicurano il responsabile di essere seguiti da
«qualcuno» (non meglio precisato), mentre in realtà si gestiscono con
discreta disinvoltura la vita in proprio, nascondendosi nel collettivo e
stando ben alla larga da ogni confronto.
È possibile avere una guida spirituale esterna alla propria comu­
nità formativa (e magari anche al proprio istituto)? In teoria certamente
sì; ciò che è importante è che il giovane venga personalmente seguito,
e, d’altea parte, nessun formatore può considerarsi padrone della vita di
un altro. In pratica, però, va tenuto presente che si possono perdere in
tal modo quei vantaggi che sono legati alla condivisione di vita tra for­
matore e candidato prima ricordati, esponendosi a un rischio, quello di
fraintendere o di lasciar fraintendere il significato della formazione co­
me mediazione: in effetti, come abbiamo accennato, a volte il giovane
che cerca altrove questa mediazione è semplicemente il giovane dal
palato spirituale un po’ sopraffino che non può accontentarsi di «quel
che passa il convento» e cerca il padre spirituale «extra-comunitario»,
magari famoso e naturalmente più bravo di quello casalingo. Col risul­
tato che la relazione diventa sempre più generica e astratta, distante
dalla vita e dai problemi reali della persona; mentre il giovane stesso si
pone sempre più fuori della logica divina e rischia così di non capire
mai qual mistero di grazia si nasconda nella debolezza umana! Un
conto è che il formatore sia competente e sia messo in condizione di
avere una certa preparazione; tutf altro discorso è la pretesa del giovane
di avere un formatore perfetto...
Diversa è la situazione quando invece per vari motivi esiste già
una relazione significativa tra padre spirituale «esterno» e giovane
(come nel caso di una conoscenza anteriore o di un intervento parti­
colare contemporaneo quale quello dello psicologo); in questi casi,
normalmente, non c’è contrapposizione tra il cammino «esterno» e
quello «intemo», 0 - quanto meno - i livelli di intervento possono
rimanere distinti e complementari, nell’interesse della persona.
Tornando alla figura del formatore sarà importante che non vi
sia una sovrapposizione di ruoli sulla sua persona, né sul piano spi­
rituale (che, ad es., non debba fare anche il confessore) né su quello
della gestione della comunità (che non gli tocchi di essere anche su­
periore): in entrambi i casi vi sarebbe, oltre alla concentrazione su
una stessa persona di responsabilità (e pericolo di superlavoro conse­
guente) e di potere (col rischio di mandare messaggi ambigui),
un’interferenza di livelli diversi di intervento, che finirebbe per di­
sturbare l’azione educativa e non gioverebbe ad alcuno.

c) Complementarità dei ruoli


Elemento davvero indispensabile, forse addirittura vincente in
una comunità educativa è l ’armonia all’interno - soprattutto -
dell’équipe educativa, ma anche tra i confratelli professi perpetui che
costituiscono la comunità, che possono anche avere altri incarichi
non immediatamente connessi con la formazione, o esser anziani o in
riposo. In ogni caso chi è parte di tale comunità ha comunque una
funzione educativa; è importante non dimenticarlo e assumere fino in
fondo la responsabilità che ne deriva.
La testimonianza della fraternità tra i membri di questa comunità
e di un’intesa più forte delle differenze è il primo fattore formativo,
più convincente di molte prediche e richiami. Ma è pure importante
una convergenza specifica sul modello di riferimento, sul programma
educativo, sulle strategie di intervento. Tale convergenza deve essere
esplicita, dunque visibile e operativa tra coloro che sono direttamente
coinvolti nella formazione, almeno implicita con gli altri.
Per questo è necessaria una certa attenzione, da parte dei superiori,
nella composizione di queste comunità, a garanzia di un’omogeneità di
base. Per questo, ancora, ci dovrà essere una certa condivisione
all'interno di questo gruppo, condivisione anzitutto sui valori di fondo
e sulla metodologia di base, ma condivisione anche sul cammino di
crescita dei giovani. Senza entrare nei particolari né violare alcun se­
greto, il maestro di formazione può comunicare alcuni aspetti del pro­
cesso evolutivo dei singoli, che è bene che gli altri educatori sappiano,
per adottare un comportamento che ne tenga conto e che sia coerente
nel proporre il medesimo messaggio da parte dei formatori.
Se, ad es., un giovane sta vivendo un momento un po’ difficile, di
solitudine affettiva o di insofferenza per i propri limiti, e il maestro sta
cercando di fargli sperimentare, nell’imprevisto deserto in cui si trova e
nella scoperta della sua debolezza, un’inedita presenza de] divino, sarà
bene che anche gli altri educatori tengano la medesima linea e che nes­
suno si presti a fare... l’angelo consolatore o a praticargli sconti. Quan­
do arrivano doppi messaggi viene vanificata l’azione educativa. Mentre
la coerenza e la sintonia nell’atteggiamento degli educatori rendono
inequivocabile ed efficace la provocazione educativa.
D’altro canto è pure importante l’apporto che da tutta l’équipe
educativa può venire per capire in profondità il giovane e il suo cam­
mino: ognuno dei suoi membri ne può vedere risvolti particolari che
potrebbero sfuggire all’attenzione di uno solo e che possono risultare
decisivi per capirlo meglio e intervenire efficacemente. Ciò sottolinea
l’importanza della comunicazione non solo all’interno della stessa é-
quipe educativa, ma anche tra i formatori delle diverse fasi.
Ma sottolinea soprattutto la centralità della comunità nel ministe­
ro della formazione.
Capitolo sesto

AMBIENTE EDUCATIVO INTERNO

Oltre alle mediazioni pedagogiche del formatore e della comu­


nità è necessaria e importante un’altra realtà educativa, quella
deiv ambiente. Si tratta di una realtà spesso sottovalutata o un po’
ignorata nella sua valenza educativa, e pure influente a volte anche in
modo decisivo, forse proprio perché non attentamente considerata.
Che cos’è 1’«ambiente educativo», in generale?
Per ambiente educativo intendiamo quell’insieme di caratteristi­
che e condizioni interne, anzitutto, determinate dalle persone che
compongono la comunità educativa e dalla qualità degli scambi rela­
zionali (ad es. il tono educativo, l’aria che SI respira dentro la comu­
nità, l’organizzazione interna, la trasparenza dei valori nello stile di
vita, il tipo di messaggi che circolano ecc.); ma con questo termine ci
riferiamo anche al contesto esterno, al luogo in cui è posta la comu­
nità formativa e che deve garantire precise condizioni perché ogni fa­
se del percorso formativo possa raggiungere il suo obiettivo.
Vediamo, in questo capitolo, anzitutto l’ambiente intemo.
Tenendo presente la riflessione fin qui condotta possiamo dke
che tra le condizioni interne ecologiche di una comunità di formazio­
ne, queste ci sembrano le più importanti.

1. Coerenza

Anzitutto vi dovrebbe essere una profonda coerenza generale tra


messaggi educativi espliciti o impliciti e realtà di vita concreta.
Quello che un formatore chiede 0 indica come valore e obiettivo
comunitario, diventa tanto più vincolante per il singolo quanto più è
confermato dalla vita e dalla tensione, dall’organizzazione e dalla
convinzione della comunità. Affermare un ideale nelle lezioni forma­
tive o scolastiche, nelle raccomandazioni, private o pubbliche, come
nelle omelie 0 nel progetto comunitario di inizio di anno, e poi non ti­
rare certe conseguenze operative, o non ribadire quel valore, 0 tacere
quando è trasgredito, o lasciare che la vita comunitaria proceda come
se nulla dovesse cambiare, o non sottoporlo a revisione, o non inco­
raggiare a viverlo o non sottolineare gli esempi positivi..., ebbene
tutto questo suona come una contraddizione che svuota di efficacia
educativa l’intervento verbale.
È il fenomeno dei doppi messaggi, contraddizione tutt’altro che
eventuale, senza dubbio tra le più gravi e nocive per la formazione.
L’ambiente deve confermare il modello indicato; in qualche modo
deve identificarsi con esso, quasi facendo un tutt’uno inscindibile con
i valori legati a quel modello.
Il giovane deve sentirsi rivolto lo stesso messaggio da tutte le
componenti ambientali: non solo dal formatore, ma dallo stile gene­
rale e dall’esempio di tutti (a cominciare dai più anziani), dalle abitu­
dini e dalle scelte dalla comunità, da certe attenzioni e sottolineature
solo apparentemente irrilevanti, perfino dairorarioế
È il principio psicologico della ridondanza, in forza del quale la
capacità penetrativa di uno stesso messaggio è direttamente propor­
zionale alla varietà e diversità dei modi e momenti in cui nsuona
nell’ambiente, e alla convergenza-complementarità di quelle diffe­
renti modalità; per cui più un valore è non solo detto, ma praticato e
tradotto nelle sue molte versioni pratiche, reso evidente dalla vita e
dalla testimonianza di molti, più penetra e può educare e formare
mente e cuore e volontà.
E inutile e frustrante, ad es., parlare di povertà e sobrietà quando
poi si consente, forse senza accorgersene, uno stile di vita praticamente
borghese entro cui il giovane assimila pian piano l’idea pagana di poter
e dover avere sempre quanto gli serve* In fondo è un’ulteriore applica­
zione di quel principio indicato da Guardini, secondo il quale.il primo
fattore formativo e «ciò che l’educatore è; il secondo è ciò che
l’educatore fa] solo il terzo è ciò che egli dice»,' soprattutto se è l’unico
a dirlo, o - peggio ancora - il primo poi a non farlo...

2. Bellezza

In questa coerenza generale c’è un aspetto che merita un’atten­


zione che spesso non ha: la capacità dell’ambiente di esprimere bellez­
za, la bellezza di una vita totalmente consacrata al Signore.
Se la bellezza è addirittura una chiave interpretativa della vita con­
sacrata, come esplicitamente afferma la recente esortazione apostolica,
allora la casa di formazione deve essere «bella» o sapere comunque di­
re questa bellezza, deve esserne in qualche modo «trasfigurata» (per ri­
prendere la logica del documento),2deve formare a essa.

1R. G u a r d i n i , Le età della vita, Vita e pensiero, Milano 1992,55.


2 Cf. Vita consecrata, 35.
Non si tratta di fare chissà cosa, ma di vivere i vari momenti e le
diverse situazioni della vita quotidiana in un ambiente formativo con
la consapevolezza, anzitutto, da parte del formatore, della bellezza
che è intrinseca alla vita consacrata e trasfigurante ogni attimo, come
della possibilità di sperimentarla e farla sperimentare. Se il formatore,
come abbiamo detto, è un esteta del divino capace di disegnarlo
nell’umano, egli deve saper trasmettere la passione per la bellezza di
Dio e per tutto ciò che avvicina a lui: non solo la liturgia, la cappella,
le celebrazioni, il canto, il parlare di Dio, il servữlo, lo studiarlo, ma
anche la fraternità, il lavoro manuale (specie se comunitario), lo stare
insieme, il sorridersi l’un l’altro, il faticare assieme nel nome suo,
Tesser uno servo dell’altro, il volersi bene, davvero bene... Dio è
bello e dolce è amarlo: questo il formatore deve đứe con gli occhi,
con la parola, con l’azione, con la sua sensibilità per contagiare tutto
l’ambiente e ogni alữa sensibilità.
Educare-formare-accompagnare non è solo attenzione e inter­
vento sul singolo, ma indirizzo generale impresso alla vita della co­
munità, e dunque atmosfera caratteristica che si respira al suo interno,
che consente di cantare nella verità la gioia e bellezza di stare insieme
per seguire Cristo, la Bellezza suprema! Una comunità religiosa che
non riesca a creare questa liturgia della bellezza si pone in contraddi­
zione con se stessa3 perché non abilita mai il giovane consacrato a
percepire e gustare la bellezza spirituale, a vedere le cose e ascoltare
il loro racconto, quel cantico della creazione che canta 0 parla inces­
santemente di Dio.
Dicevamo, tale formazione alla bellezza non significa nulla di
straordinario o, peggio ancora, di artefatto e stucchevole; si tratta di
educare-formare il cuore a percepire-gustare una bellezza che non è
di questo mondo, ma che può dare bellezza a ogni frammento
deir esistenza, bellezza come ordine e armonia, nobiltà e finezza di
animo nei rapporti, buon gusto e creatività nella preghiera come
nell’azione, capacità di stupirsi e commuoversi, libertà di far le cose
per amore e con passione, accoglienza dello sguardo del Padre che
vede nel segreto, condivisione di questo sguardo e scoperta - grazie a
esso - del lato nascosto delle cose e delle persone, ove abita una bel­
lezza pura e incontaminata, del tutto umana e pur capace di evocare
quella bellezza divina che l’ha generata.
Finché uno è capace di apprezzare la bellezza resta giovane, e si
vede. Come si vede subito una fraternità ove la bellezza è di casa, an­
che se l’abitazione è semplice e sobria, e si riconosce subito, purtrop­

3 Cf. M.I. RUPNIK, D all’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa,
Roma 1996, 47.
po, una comunità ove sciatteria e scadimento estetico rendono grigia
e monotona l’esistenza, ripetitivi i gesti e privi di fantasia, già vecchi
i membri e povera la testimonianza e l’attrazione vocazionale (e chi
mai andrebbe dove non è bello stare?).
Ciò che sorprende e sconcerta è che ancora vi sia chi trova non
così importante e addirittura superfluo e inutile questo riferimento
alla bellezza e non coglie come la bellezza sia strettamente connessa
con la verità, come una sua emanazione,4 o chi - come dice von Balt­
hasar - al sentir parlare di bellezza

«increspa al soưiso le labbra giudicandola come un ninnolo di un


passato borghese; di costui si può esser sicuri che - segretamente o
apertamente - non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di
amare».5

Si raccomanda, almeno, che costui non faccia il formatore...

3. Capacità di provocazione
L’ambiente educa e forma nella misura in cui pro-voca, ovvero,
etimologicamente, chiama ad andare oltre, a procedere sempre nel
cammino e superarsi, e impedisce di fermarsi e accontentarsi del tra­
guardo raggiunto.
CM è responsabile della formazione deve sapere che - da questo
punto di vista - l’ambiente è molto influente, crea clima, quel clima
che tutti respirano e che così spesso condiziona l’agire; il formatore
deve realisticamente sapere che il suo stesso messaggio educativo
viene filtrato in qualche maniera da quel potente mediatore che è
l’ambiente, dalla mentalità che s’è lentamente creata, dalle consuetu­
dini sempre più radicate, dalle comodità implicitamente giustificate,
dai meta-messaggi che circolano spesso indisturbati e arrivano sem­
pre a destinazione. Insomma, esiste la pressione di gruppo, che è co­
me una forza neutra, e può spingere e indirizzare sia verso l’entu­
siasmo di una scelta creativa che verso l’inerzia della più squallida e
confortevole mediocrità.

4 Interessante, in tal senso, questa riflessione di Pifano: «La bellezza traluce sul
teưeno della verità; e la verità, dal punto di vista biblico, è “fedeltà” dell’uomo e del
cosmo al disegno di Dio, all’imago Dei. Ciò che è vero, secondo questa “imago" è
“bello”, anche secondo la forma. Vivere nella bellezza, allora, è vivere kat’eikòn, os­
sia componendo e ricomponendo Vimago Dei, ritrovando così la nostra forma origi­
naria di creature e di figli di Dio-Padre» (P. PlFA NO , Sulla bellezza, Napoli 1983, 61),
e quella forma specifica che è legata al proprio carisma religioso.
5 H .u . VON B a l t h a s a r , Gloria. I. La percezione della forma, Milano 1985,11.
Quante volte la motivazione ad agire (o, a volte, a trasgredire) è:
«fanno tutti così...!», o quante volte l’opposizione a cambiare certe
abitudini incallite o a risvegliare certe «pigrizie comunitarie» viene
solo dal fatto che «... si è sempre fatto in questo modo!?». Al tempo
stesso, non è forse vero che i più giovani, di fatto, imparano certi va­
lori e stili di vita proprio da quello che vedono nei fratelli maggiori?
In effetti il gruppo è un’entità sociale che, di per sé, ovvero, se
abbandonata a se stessa, tende a funzionare a regime minimo. Regime
minimo che si attiva press’a poco così: una volta definito, in modi
non espliciti, un certo livello accessibile a tutti e non troppo eccelso,
il gruppo recepisce e provvede subito a diffondere e promuovere al
suo intemo messaggi che confermano il livellamento (in basso), men­
tre tenderà a escludere quanto potrebbe modificarlo spingendolo in
alto e chiedendo un certo costo. Anche la comunità formativa è
«spinta» da questa... forza di inerzia, tanto più in una cultura del­
l’analgesico e del mediocre come quella di oggi, che tende a elimina­
re ciò che risulta faticoso e domanda sacrificio.
Sarà allora importante che il formatore sappia tutto ciò e abbia al­
cune attenzioni. Anzitutto deve saper rilevare il tono della comunità,
per individuare, eventualmente, quello stile un po’ pagano che tende a
privilegiare gli equilibri minimali e chiede il minimo sforzo. Molte
volte questo stile opera in modi molto sottili e apparentemente corretti;
ma proprio questo è il problema: l’ideale di una comunità formativa
non è quella certa serenità fatta di assenza di tensioni o di povertà di
relazioni, né quel clima un po’ appiccicoso ove ci si sforza di piacersi
reciprocamente sotto la guida compiaciuta di un innocuo formatore e
nessuno provoca nessuno per render sempre più evangelica la risposta
al dono ricevuto. La fraternità che educa non è luogo di compiacenza,
ma di edificazione reciproca. E allora l’educatore per primo deve agire
di conseguenza, ponendo ognuno di fronte alle sue responsabilità e tutti
dinanzi a una realtà di vita consacrata che diventa bella e vivibile solo
quando è vissuta con la radicalità del dono.
Non è facile, per altro, eliminare vecchie comode abitudini per
fame partire di nuove e più impegnative, ma si sta tutti meglio, in real­
tà, quando s’infonde nuovo slancio alla comunità e s’inteưompe quel
clima diabolico di inerzia che rende pigra e sonnolenta la vita, e mentre
irride i sogni dei giovani uccide pure la speranza degli anziani.
È vero che il gruppo tende a funzionare al minimo, ma quando è
debitamente pro-vocato può diventare un potente attivatore di energie
e un incredibile trascinatore, anche per quelli dal passo più pesante.
La saggezza deir educare consiste, a questo punto, nel saper fare la
giusta provocazione e all’interlocutore giusto, cioè al gruppo. Ovve­
ro, anzitutto deve saper proporre quella provocazione che si pone
esattamente un gradino al di sopra del livello raggiunto dal gruppo, e
non è né troppo alta né si pone al di sotto delle possibilità del gruppo
stesso: se troppo alta non sarebbe capita o sarebbe eccessiva e7 se at­
tuata, sarebbe un fuoco di paglia; se troppo bassa non avrebbe suffi­
ciente capacità di frazione e non faciliterebbe una crescita. Il formato­
re, da questo punto di vista, deve essere sempre un poco più avanti, a
indicare la strada e a fare il passo.
Seconda attenzione: colui che accompagna il cammino educatìvo-
formativo non può né deve accontentarsi di sollecitare il singolo, ma far
in modo che il gruppo, in qualche modo, assuma quel dinamismo e vi­
vacità che lo rendano educatore di se stesso e dei suoi membri.
Allora il gruppo, in quanto entità reale e ben visibile, diventa un
potente alleato nella formazione, mentre la provocazione dell’am­
biente può diveiùre ancor più efficace e vincente di quella del for­
matore.

4. Senso di responsabilità

Infine l’ambiente è educativo solo se, in generale, riesce pro­


gressivamente a formare persone adulte e responsabili e, più in parti­
colare, se favorisce in esse il senso di responsabilità nei confronti
della comunità stessa perché sia davvero educativo-formativa.
È un punto importante e che merita attenzione, poiché spesso il
giovane entra nella casa di formazione con una serie di aspettative,
implicite e forse neppur verificate, ma date per scontate e sostenute
con forza se poi messe da qualcuno in discussione; aspettative che
ruotano attorno alla pretesa che la comunità sia perfetta o comunque
già in possesso di tutti quegli strumenti, opportunità, risorse, condi­
zioni, che l’abilitino a dare formazione, come se la fraternità fosse un
prodotto pronto per l’uso e semplicemente da consumare, mentre lui,
il giovane, sarebbe solo una sorta di soggetto passivo o semplice
utente che attende e sfrutta l’intervento altrùi.
Sappiamo a che cosa porti, a lungo andare, questa attesa. Proprio
per evitare quei fenomeni, presenti e futuri, di disimpegno, privati-
' smo, disfattismo, stile rivendicativo e perennemente accusatorio, è
necessario da subito e progressivamente trasmettere l’idea che la co­
munità di formazione sarà tale quale la faranno i suoi membri e il lo­
ro senso di responsabilitàý Poiché tutti nella comunità hanno rice­
vuto lo stesso dono, ognuno secondo la propria misura e dunque an­
che secondo un aspetto o una sottolineatura originali. La comunità è

6 Cf. Potissimum institutioni, 27.


l’insieme di questi doni o delle sfumature dell’identico dono. È for­
matrice, allora, nella misura in cui ognuno esprime responsabilmente
il suo dono e accoglie quello dell’altro.
In concreto, l’intervento educativo dovrà invitare ogni giovane a
ricordare che
- prima di servirsi della comunità, essa merita di essere servita e
amata per quello che è ed è chiamata a essere,7 per quella ric­
chezza di grazia che essa esprime e che è chiamata a vivere in
pienezza, in cui a ognuno è dato di scoprire la propria identità e
di realizzarsi secondo un preciso modello di vita;
- prima di domandare ancora e sempre alla propria comunità, quasi
esigendo in continuazione, essa va riscoperta e apprezzata dal
singolo per quanto gli ha già dato e gli sta dando, che sarà sem­
pre molto di più di quanto egli potrà dare a essa;
- prima di accusare la comunità o lamentarsi delle debolezze dei
fratelli, o delle differenze di carattere e mentalità, di origine e
sensibilità, dovrà rammentare che è attraverso e nella comunità
che lo raggiunge l ’amore del Padre, e che ciò che l’unisce ai
suoi fratelli è sempre molto più di quanto lo possa dividere.
Insomma, per concludere non solo questo paragrafo ma l’intera
riflessione sull’ambiente educativo, ribadiamo l’idea che il gruppo
educa e forma solo quando e nella misura in cui è esso stesso educato
e formato. Che è come dừe: non solo il singolo deve essere oggetto di
attenzione educativo-formativa, ma anche il gruppo in quanto tale.

7 Ibidem, 26.
Capitolo settimo

AMBIENTE EDUCATIVO ESTERNO

Non è solo l’ambiente interno che educa e forma, ma anche


quello esterno, costituito da tutte quelle condizioni e caratteristiche
che facilitano e rendono più incisivo il processo maturativo del gio­
vane professo. Non si può dire che nel passato questo tema non sia
stato oggetto di attenzione, ma oggi, grazie anche alla sollecitazione
delle scienze sociali, siamo ancor più coscienti dell’influsso dell’am­
biente circostante e avvertiamo tutta l’importanza di una riflessione
sistematica sull’argomento.
Nel precedente capitolo abbiamo descritto l’ambiente educativo
esterno come quel contesto, sociale e territoriale, in cui è posta la
comunità formativa, che dovrebbe garantire precise condizioni e of­
frire stimoli adeguati perché ogni fase del percorso formativo possa
raggiungere il suo obiettivo.
Questa descrizione-definizione esprime bene ruolo e natura
dell’ambiente esterno come parte di quella rete di mediazioni peda­
gogiche attraverso le quali passa il dinamismo educativo-formativo.
L’ambiente non è dunque titolare, ma tramite prezioso dell’azione
educativa, che deve non solo confermare, ma pure arricchire e sti­
molare ulteriormente. D’altro canto l’ambiente esterno, proprio per­
ché così legato alla dinamica formativa, non è luogo qualsiasi, ma
contesto territoriale specifico che deve offrire a ogni fase del cammi­
no un tipo particolare di sollecitazione, quella che è connessa alla
natura del periodo di formazione in questione.
Vediamo allora come l’ambiente esterno possa divenire realmente
educativo nelle tre fasi canoniche della formazione religiosa iniziale.

l ệ Pre-noviziato: «Venite e vedrete» (Gv 1,39)

Obiettivo generale del prenoviziato è la maturazione nel sog­


getto della capacità effettiva di scegliere liberamente e da credente la
vita consacrata come ideale personale. Obiettivi specifici sono
l’accertamento rispettivo e incrociato, da parte del candidato e della
congregazione, dell’autenticità della chiamata, e la maturazione nel
giovane di una nuova ed efficace disposizione di animo, in rottura
con la sua precedente condizione di vita e in sintonia con il dinami­
smo della sequela all’interno di un particolare istituto. Potremmo dừe
che è il tempo della prima esperienza, culminante con la decisione di
entrare in noviziato.
Ambiente adeguato sarà allora quello che favorisce, in con­
creto, la conoscenza, da parte del soggetto, di se stesso e
dell’istituto, delle attitudini personali e delle esigenze della congre­
gazione, del dono ricevuto dallo Spirito e dello spirito dell’istituto
(stile apostolico, aspetto mistico e ascetico...); ma tale tipo di cono­
scenza potrà esser solo sperimentale, conseguenza di un’esperienza
diretta, sul campo, tale da. poter consentire non solo al diretto inte­
ressato, ma anche all’istituto, di constatare la realtà di una chiamata
che viene dall’alto e di una adeguata capacità di risposta da parte
del giovaneỄ
È segno di matura attitudine vocazionale la disponibilità effettiva
di quest’ultimo a rompere con certe abitudini di vita precedente (rinun­
ce) e ad adottare un nuovo stile (coraggio e libertà di scelta): disponibi­
lità che può esser provocata anche dall’ambiente che r accoglie.
Per questi motivi, luogo del prenoviziato dovrà necessaria­
mente essere una casa dell’istituto ove sia possibile realizzare
quest’esperienza diretta e ove siano presenti in modo evidente e
quindi sperimentabili gli aspetti qualificanti il carisma. È così che
viene provocata la libertà di scelta. Non bastano l’assenso interiore
suscitato dalla lettura della regola, o una certa vaga attrazione emo­
tiva, a verificare l’autenticità vocazionale specifica; còme non sa­
rebbe rispettoso (né intelligente) ammettere al noviziato chi non ha
sperimentato sufficientemente e sulla sua pelle la convergenza tra
ideale personale e ideale istituzionale. Dunque la comunità di acco­
glienza e di formazione al noviziato non è, di per sé, e non dovrà
essere, di fatto, casa di preghiera o di ritiro dal mondo; tanto meno
può essere ambiente dove si tende a diminuire la tensione per la
preoccupazione di rendere tutto facile e... strappare l’assenso (que­
sti inganni diventano poi autentici danni per la persona stessa e per
l’istituto!).
D’altro lato non si potrà pretendere che l’esperienza o la condi­
visione siano totali o che il giovane sia già in grado di vivere la con­
sacrazione in tutti i suoi aspetti; l’esperienza deve essere tale da con­
sentire un giudizio prudente di idoneità già ora constatabile, ma che
dovrà ancora essere oggetto di ulteriore formazione; l’ambiente, in tal
senso, non dovrà imporre nulla, semmai favorire la libertà di scelta
attraverso, soprattutto, l’accompagnamento personale e la coerenza
della stimolazione ambientale.
Per questo la Potissimum institutioni raccomanda che i postu­
lanti siano accolti «in una comunità dell’istituto, senza tuttavia con­
dividerne tutta la vita»,1e che non si lasci loro «credere che siano di­
ventati membri dell’istituto».2 Ma raccomanda pure che questa co­
munità di accoglienza non sia la stessa comunità del noviziato, ove
diverse sono dinamica e finalità educative.

2. Noviziato: «... quel giorno stettero presso di lui» (Gv 1,39)

Il noviziato è il tempo dell’iniziazione integrale alla forma di


vita scelta dal Figlio di Dio e proposta nel carisma di istituto.3 Nei
termini dell’esortazione post-sinodale segna l ’avvio del processo di
assimilazione dei sentimenti del Figlio (Fil 2,5), punto di arrivo di
tutto il percorso formativo.4
Ciò implica una serie di ulteriori e conseguenti iniziazioni: alla
conoscenza profonda e viva di Cristo e del Padre (e alla preghiera
personale, biblica e liturgica), al mistero pasquale di Cristo (e al di­
stacco da se stessi, specie nella pratica dei voti), alla vita fraterna
evangelica, alla spiritualità e alla missione proprie dell’istituto (con
possibilità di periodi di esercitazioni apostoliche).5
Ma in ogni caso l’elemento centtale e peculiare del noviziato re­
sta la possibilità di stabilire un rapporto nuovo e inedito con la perso­
na vivente del Signore Gesù, contemplato secondo l’aspetto sottoli­
neate) dal carisma.
È chiaro che questo rapporto dovrà poi e sempre più esser vis­
suto in tutte le sue varie articolazioni e dimensioni, in tutti i momenti
della vita, nel pieno dell’attività apostolica come all’interno di tante
umane relazioni, ma proprio per questo è indispensabile che vi sia un
momento prolungato, nella vita del giovane credente, in cui la parola
del Signore sia l ’unica a risuonare mentre tutto il resto tace, un mo­
mento in cui le relazioni con gli altri e il bisogno di compagnia non
continuino a riempire la vita ma consentano al giovane di incontrare
se stesso e quel che ha in cuore, un momento in cui l’attenzione non
sia solo presa dalle cose immediate e sensibili, dagli interessi subito
fruibili e utili, dal lavoro che rende in termini di immagine e di risul­
tati, ma accetti di stare di fronte al mistero, e scopra la Bellezza e ne
sia rapita.

1Potissimwn institutioni, 44: EV 12/54.


1 Ibidem.
3 Lumen gentium, 44.46: EV 1/406.412; PI, 45.
4 Vita consecrata, 65-69.
5 PI, 47: EV 12/57.
Tutto questo è dono dello Spirito, ma come ogni dono che viene
dall’alto ha bisogno di mediazioni umane: l’ambiente esterno è una di
queste. Esso deve assolutamente garantire certe condizioni di silen­
zio, di quiete, di ordine, di solitudine:

«il tempo e il luogo del noviziato dovranno essere organizzati in


modo tale che i novizi possano trovarvi il clima propizio a un radica­
mento in profondità nella vita con Cristo».6

Dobbiamo capire che non ogni ambiente è adatto in tal senso,


così come sarebbe assurdo pretendere che il giovane sia subito capa­
ce di vivere tale relazione piena con Cristo” e vada dunque subito
immerso in modo indiscriminato nel fare e nella moltiplicazione di
relazioni umane: questo sarà obiettivo terminale della formazione, ma
se davvero lo si vuol consegmre bisogna garantire uno spazio di so­
litudine anche fisica, di tempo vacans, vuoto e inutile, che il giovane
possa imparare a scoprire come «dimora» del divinoế
L’ambiente può giocare un molo importante per consentire l’e­
sperienza della Trasfigurazione, della visione sul monte, del poter di­
re: «è bello stare qui»... Esperienza tutt’altro che semplice e facile,
che comporta la «pratica dell’orazione prolungata»,7 il coraggio di
abbandonare il mondo dei rumori e delle voci e la fatica dello stare di
fronte a Dio e a Dio solo, anche quando sembra meno bello, e forte
sarebbe la tentazione di usare il tempo in attività più... produttive ẹ
magari apostoliche, se fosse possibile.
Questo coraggio e fatica dovranno in qualche modo e il più pos­
sibile essere «incoraggiati» e facilitati dal tipo di ambiente in cui è
collocato il noviziato, e in cui tutto, dall’ambiente fisico alle condi­
zioni di vita, deve concorrere per accendere il desiderio di Dio. Se,
infatti, questa scintilla non scocca ora, sarà difficile che possa scocca­
re più avanti; vi sarà semmai il rischio che tutta la successiva forma­
zione non trovi più teưeno fertile, dissodato dalla rude aratura di una
ricerca essenziale di Dio. Come vi sono tempi e stagioni da rispettare
nella natura, così è nella maturazione psicologica e spirituale: se il
rapporto con Dio non mette radici profonde nel tempo del noviziato,
il frutto pieno dell’intimità divina non maturerà mai, e avremo consa­
crati/e perennemente acerbi e inguaribilmente freddi. Non ci sono,
forse, in giro consacrati/e che sembrano, da questo punto di vista, non
aver mai fatto il noviziato?

6 PI, 50: E V W 6 2 .
7 Ibidem.
«Di conseguenza - afferma ancora il documento sulla formazione - è
affatto sconsigliato di compiere il tempo del noviziato in comunità
“inserite”», [cioè á stretto contatto con urgenze apostoliche, poiché]
«le esigenze della formazione devono prevalere su alcuni vantaggi
apostolici dell’inserimento in ambiente povero»;8

per questo tutte le altre attività e sollecitazioni, legate all’iniziazione


integrale alla vita consacrata, devono essere rigorosamente ricondotte a
questo centro vitale, come a un cuore pulsante; per questo motivo i pe­
riodi di esercitazione apostolica da compiersi fuori della comunità del
noviziato - come raccomanda il Codice - vanno computati oltre i dodi­
ci mesi canonici.9 Non si fratta, con questo, di sottovalutare
l’importanza dell’esperienze apostoliche, ma di coglierne il senso e la
funzione nel tempo del noviziato, per imparare subito a dar la prece­
denza a Dio e disporsi a vivere anche l’apostolato come sua «dimora».

3. Post-noviziato: «prontamente Io seguirono» (Me 1,18)

Il tempo successivo alla prima professione, e precedente quella


definitiva, è tempo in cui il dinamismo della sequela avvia due pro­
cessi fondamentali nel giovane consacrato: la personalizzazione inte­
grale del carisma e l'estensione a tutte le aree della personalità della
nuova identità.
Sono in fondo le due vie per giungere ad avere in sé i sentimenti
del Figlio. La prima implica un movimento in intensità, la seconda in
estensione. Da un lato il giovane deve cogliere sempre più il carisma
come la sua propria identità, come il progetto di Dio al quale deve
conformarsi; dall’altro gli è chiesta la pratica coerente e globale, ma
anche coraggiosa e un po’ inventiva, di ciò in cui s’è impegnato per
segmre il Signore dovunque lo chiami (cf. Ap 14,4).
In altri termini, in questa fase deve avvenire una sintesi tra stabi­
lità e oggettività, da una parte, e creatività e soggettività, dall’altra.
L’ambiente dovrebbe in qualche modo riflettere questa sintesi, of­
frendo al tempo stesso sia la stabilità strutturale, la regolarità e siste­
maticità di una comunità che vive al suo interno la fedeltà al carisma
(ne abbiamo già parlato), sia la possibilità di sfruttare esperienze e
accedere a risorse educative esterne che implicano una certa autono­
mia di movimento e capacità di iniziativa.

8 Ibidem.
9 Can 648 § 2: EV 8; cf. PI, 47: EV 12/57.
Questo periodo, infatti, è tempo di preparazione culturale e pa­
storale, di contatti vari ed esperienze apostoliche, di apertura ai pro­
blemi degli uomini e della società, e dunque anche di uno stile di vita
necessariamente meno strutturato e più libero. La casa del post­
noviziato, allora, dovrebbe essere, logisticamente, vicina e anche
lontana rispetto alla comunità degli uomini, a significare la caratteri­
stica centtale di questo periodo, quella della sintesi personale fra i
molteplici aspetti formativi. E se nel noviziato questa sintesi era solo
iniziale e privilegiava, quale punto di partenza, il rapporto con Dìo
vissuto nella solitudine e nel silenzio, anche isolandosi dal mondo,
ora il giovane deve imparare Iff difficile arte spirituale del cercare e
trovare Dio nell’azione, nell’apostolato, nel contatto con la gente,
nello studio, perfino nella babele delle lingue dell’uomo di oggi, spe­
rimentando che non solo la preghiera è l’anima dell’apostolato, ma
pure l’apostolato lo è della preghiera.10
Lo studentato (o scolasticato) non è il noviziato, e deve progressi­
vamente preparare il professo a vivere la tìpica spiritualità apostolica,
unendo il massimo della contemplazione col massimo della dedizione
apostolica. La sintesi si fa solo sui valori massimi, non combinando as­
sieme livelli mediocri sul piano della maturità orante e apostolica.
È una sfida notevole per certi nostri giovani pigri e poco appas­
sionati, ma è anche il complesso equilibrio di una casa di formazione
di professi temporanei, in cui - idealmente - tutto dovrebbe essere
studiato in modo da favorire la ricchezza e la convergenza, la specifi­
cità e l’unità della stimolazione.
In concreto: anzitutto è necessario un ambiente specifico per questo
«periodo esplicitamente formativo»," non è buona cosa immettere imme­
diatamente 1 professi temporanei in una comunità apostolica, come fanno
purtroppo molti istituti femminili e anche alcune congregazioni maschili,
magari con l’illusione che così i giovani impareranno subito a vivere da
religiosi, poiché la sintesi di cui abbiamo detto non è spontanea, né viene
automaticamente col tempo, ma ha bisogno di precise attenzioni formati­
ve quali solo un contesto ambientale specifico può offrire.
Né sarà sufficiente favorire, magari indiscriminatamente, esperienze
apostoliche e contatti vari con la realtà esterna, e nemmeno percorsi sco­
lastici garantiti soprattutto dalla qualità culturale della teologia insegnata;
l’elemento decisivo - ripetiamo - è la convergenza di tutto ciò, o che
tutto questo sia espressione della stessa fede ricevuta, pregata, celebrata,
sempre di nuovo scoperta, studiata, condivisa coi fratelli, trasmessa..., e
dunque tutto divenga in qualche modo mediazione formativa.

10 Cf. Vita consecrata, 67.


11 Ibidem, 68.
Molti formatori ritengono che per questa operazione di conver­
genza si presti meglio la struttura di uno Studio teologico, magari in-
tercongregazionale, esplicitamente organizzato attorno alla finalità
educativa (in genere del futuro presbitero, ma non esclusivamente),
che non quella della pur prestigiosa università pontificia, che ha
obiettivi ben più ampi ed effetti non di rado dispersivi.
Se scopo della formazione è l’unità della persona in Cristo, an­
che l’ambiente esterno deve essere parte di questa unità.
PARTE TERZA

FORMAZIONE UMANA
Il terzo elemento che contraddistingue l’azione educativo-for-
mativa è costituito, come abbiamo indicato nel primo capitolo, da «li­
na pluralità di dimensioni tra loro convergenti, nel senso di attenzioni
ad aree e contenuti diversi che devono esser presenti nel cammino
formativo».
Se si vuol formare alla scelta libera e responsabile di consacrarsi
a Dio, è necessario formare «tutta» la persona, o tenerne presente la
complessa globalità, cercando di convergere, in ogni atteggiamento
educativo, verso l ’unico obiettivo della maturazione dell’uomo, del
credente e del consacrato, senza divisioni e compartimenti stagni,
senza dispone il cammino in momenti rigidamente articolati e suc­
cessivi tea loro.
Principio facile da ammettere sul piano teorico, ma tutt’altro che
semplice da poưe in pratica. Se è vero, infatti, che la fede e il dono di
sé a Dio portano a piena maturazione la nostra umanità, non sempre è
stato COSI nella storia di un certo tipo di consacrato, più «santo» che
uomo, o in cui una qualche pur sincera tensione di santità s’accom­
pagnava con vistosi vuoti e problemi di maturità umana.
D’altro canto la consacrazione all’Eterno non è solo ecologia
intrapsichica, né igiene della mente e immunizzazione dei sensC e
neppure autorealizzazione umana tutta decisa da criteri contingenti,
ma qualcosa che suppone e poi promuove e supera radicalmente
l’umano.
Vediamo allora di capire le implicanze educative di questa con­
nessione, cercando di fare un discorso non solo teorico.

Il mistero della formazione

Potremmo paragonare le varie componenti di un processo edu­


cativo a quanto Paolo dice dell’amore di Cristo, mistero che non può
esser definito da una sola dimensione e di cui l’apostolo invita a
contemplare l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità (cf. Ef
3,18). Se la formazione, come diremo meglio più avanti, imra alla
conoscenza di quest’amore e alla con-formazione a esso, ne dovrà in
qualche modo riprodurre anche il disegno globale con le sue... linee
architettoniche.
Per noi queste linee corrispondono ad alcuni presupposti che, a
loro volta, richiamano e sottendono precisi contenuti e dinamismi.
1. I presupposti sono anzitutto i livelli o le dimensioni dell’essere uma­
no in quanto uomo, credente e consacrato, con le potenzialità speci­
fiche che egli possiede a ognuno di questi livelli: umano, spirituale e
carismatico. Tali presupposti interni all’uomo danno origine a tre
prospettive diverse e convergenti di maturazione, cui dovrebbero
corrispondere altrettanti piani specifici e unitari di intervento.
2. I contenuti riguardano assieme le aree e le proposte formative, in
corrispondenza coi singoli livelli. Rappresentano dunque il «nu­
trimento», ciò di cui si alimenta quell’essere nuovo che dovrebbe
nascere dalla formazione e pure il luogo ove deve esercitarsi. I
contenuti sono proposti daU’estemo, ma sono capaci di portare a
piena maturazione le potenzialità dei singoli livelli. Contenuti edu­
cativi sono, ad es., la conoscenza di sé e la maturità affettiva (li­
vello umano), la conformazione ai sentimenti di Cristo (livello spi­
rituale) o le varie componenti del carisma (livello carismatico).
3. I dinamismi, infine, corrispondono ai diversi itinerari educativi
che in qualche modo saldano fra loro obiettivi e metodo, dimen­
sioni e contenuti, intervento dall’esterno e dall'interno. Il metodo
per la conoscenza di sé e per imparare a controllare le proprie
debolezze è un dinamismo tìpico del primo livello, ad esempio,
mentre l’esperienza quotidiana della centralità e circolarità
dell’atto di fede è dinamismo del secondo livello, ecc. Ognuno
può ben vedere la necessità di cogliere e proporre questi metodi
nel cammino formativo: a che serve, diversamente, conoscere e
far conoscere perfettamente il fine educativo se non si sa poi co­
me condurvi? Quando manca o non è precisato il metodo la for­
mazione rischia seriamente di divenire «frustrazione».
In realtà, è come se i presupposti, coi loro livelli e le risorse cor­
rispondenti, rimandassero all 'io attuale (ciò che la persona è già, e
che va comunque «e-ducato», tirato fuori), i contenuti all’io ideale
(ciò che deve e vuole diventare, e che va «formato»), mentre i dina­
mismi aiuterebbero a viver bene, quasi colmandola o comunque per-
coưendola ogni giorno, la distanza o la relazione tra le due strutture
con l’indicazione di una pedagogia adeguata: qui l’interlocutore è l’io
relazionale, che va «accompagnato» in questo cammino pedagogico
in due direzioni, verso la capacità di relazione intrapsichica (tra io
attuale e io ideale) e verso la capacità relazionale interpersonale (con
la figura del formatore).
Ancora, i presupposti (con le loro dimensioni e potenzialità),
corrispondono a quelli che potremmo chiamare gli elementi architet­
tonici, ovvero le strutture portanti del progetto formativo; mentre
contenuti e dinamismi rappresentano gli elementi ermeneutici, che ci
aiutano a capire e spiegare il funzionamento delle componenti, la re­
lazione dinamica tra di loro.
Presupposti e dimensioni, contenuti e dinamismi devono esser
dunque ben precisati, poiché costituiscono, per natura loro, ciò che
stimola e rende mirato, garantisce e verifica il lavoro formativo. È
proprio dall’insieme ben coordinato tra presupposti, contenuti e di­
namismi che viene fuori il cosiddetto modello antropologico educati­
vo, che ogni formatore deve aver ben definito e tener sempre presen­
te. L’assenza 0 l’indefinitezza, l’incoerenza o la disarmonica compo­
sizione interna del modello determinerebbero conseguenze molto ne­
gative nella prassi formativa, rendendola vaga o contraddittoria, sen­
za criteri né fini precisi oltre le formule copiate dai documenti e ri­
portate in una inutile Ratio formationis.
Vediamo, allora, in questi tre capitoli, la prima dimensione,
quella umana.

Tav. 3: Componenti form ali del modello pedagogico

Dimensione Componenti
Livello dell’io
pedagogica strutturali
Elementi
Presupposti Io Attuale Educare
architettonici
Contenuti Io Ideale Formare Elementi
Dinamismi Io Relazionale Accompagnare ermeneutici
Capitolo ottavo

LA DIMENSIONE UMANA

Tornando all’immagine paolina delle dimensioni del mistero, si


potrebbe dừe che quella umana rappresenta la profondità, ovvero le ri­
sorse di energia che l’uomo in quanto tale possiede, anche quando per
vari motivi tali ricchezze sono meno evidenti o sembrano dal soggetto
stesso ignorate, e vanno dunque «recuperate» in profondità. Tali morse
sono anche gli elementi architettonici della maturità umana.

1. Presupposti

La formazione parte proprio da questi presupposti e dalla presa


di coscienza, nel soggetto, del prezioso potenziale di cui dispone, e
dalle conseguenti sfide e responsabilità che gliene derivano: tali ri­
sorse costituiscono, infatti, una potenzialità che potrebbe anche non
esser messa in atto o esser impiegata in modo non costruttivo.
Questi presupposti li potremmo concentrare attorno ai seguenti
punti. La persona umana
a) è un essere cosciente e libero e chiamato a crescere sia nella co­
scienza che porta alla padronanza di sé come nella libertà che
apre a responsabilità;
b) è una realtà divisa in se stessa e attratta in direzioni opposte,1
progressive e regressive (es. virtù e peccato, amore e egoismo,
conscio e inconscio, libertà e schiavitù ecc.), e si realizza nella
misura in cui sceglie la polarità progressiva senza pretendere di
cancellare quella negativa;
c) è chiamato a vivere la relazione interpersonale come luogo della
realizzazione di sé per quel che riceve e dona agli altri;
d) è capace di trascendersi fino al punto di aprirsi al divino, sentir­
sene amato e amarlo.
Possono sembrare rilievi un po’ scontati. In realtà mi chiedo, ad
es., quanto vi sia, alla base della formazione che diamo, la consape­
volezza lucida della divisione interna all’uomo (o quante volte si dia

1Cf. Gaudium et spes, 10: EV 1/1350.


ingenuamente per scontata una certa bontà o una certa libertà); e non
sono poi così tanto sicuro che la relazione interpersonale sia ovunque
e comunque considerata luogo di realizzazione dell’io, e non di sem­
plice e facoltativa esercitazione virtuosa.
È inoltre evidente, in questo disegno, ma non sempre nella pras­
si, la progressiva e lineare apertura dell’io a se stesso, deirio al tu, fi­
no a giungere al Tu di Dio, che dunque suppone il percorso prece­
dente, con ciò che significa sul piano dei contenuti e dei dinamismi.

2. Contenuti

Passiamo ora agli elementi ermeneutici. Se i presupposti legati


alla dimensione umana sono i quattro ora visti, la formazione dovrà
fare un certo tipo di proposta.

a) Conoscenza di sé
Anzitutto l’obiettivo-base di un cammino educativo è la cono­
scenza di sé. Tale conoscenza, come ben sappiamo e spesso ripetia­
mo, deve portare il giovane, come obiettivo primo, all'identificazione
del proprio problema centrale o di ciò che gli impedisce di far dono
libero e totale di sé. Ma non solo.
La conoscenza di sé è un’operazione globale di assunzione e in­
tegrazione della propria vita, del proprio passato con le sue compo­
nenti positive e negative, per riconoscere e apprezzare le prime, e ca­
ricare di senso le seconde. Scopo, dunque, di questa lettura del vis­
suto non è una semplice registrazione di dati utili per conoscere radici
e antefatti del presente o per cercare di riconciliarsi con certi eventi o
fantasmi del passato, ma il tentativo di scoprire il significato unico e
irripetibile della propria storia, o di pervenire a una conoscenza stori­
ca di sé. All'inizio del cammino educativo in modo globale e generi­
co, poi in modo sempre più puntuale e aderente al vissuto.
Si tratta di un significato che è nascosto in ogni evento, a volte
chiaro e subito leggibile, altre volte più difficile da cogliere, altee
volte ancora da attribmre in modo libero e responsabile a eventi che
sembrerebbero solo negativi.
Ad esempio, uno potrebbe semplicemente lamentarsi nei con­
fronti della vita (o del «destino») per aver vissuto un’infanzia di
stenti e povertà, ma potrebbe anche ringraziare il cielo per avere spe­
rimentato da subito certe asperità della vita che poi possono rinforza­
re il carattere o educare a cogliere certi valori... Nel primo caso c’è il
rifiuto del passato, nel secondo c’è la scoperta in esso di un signifi­
cato che potrebbe essere rilevante per la vita presente e futura; e an­
cora, rifiutando una parte della propria storia si rifiuta una parte di sé,
accogliendola nel suo senso più profondo si accede alla conoscenza
piena dell’io.
Non è operazione semplice, ma è importante che il giovane vi
venga introdotto per capire che il senso del suo io è nascosto nella
sua storia, e che questa storia non è un dato semplicemente da suture,
fatto di episodi ormai incancellabili, o - nel migliore dei casi - dà ac­
cettare, ma è mistero da scrutare e presenza da scoprire. E così la di­
mensione umana si apre spontaneamente e piano piano a una dimen­
sione ulteriore, mentre la vita e la storia diventano il luogo ove impa­
rare a maturare un atteggiamento sempre più adulto e creativo, ancor
più contemplativo e capace di scoprire le tracce del mistero nel pro­
prio passato.
In altre parole, l’obiettivo non è solo la conoscenza di sé (e dei
propri guai), ma quella conoscenza o scoperta di una storia personale
che segna l’inizio o la premessa di un rapporto del tutto nuovo con
Dio, non più solo teorico o sulla base del sentito dire, ma storico e
costruito sulla propria esperienza di vita o su una teofania assoluta-
mente personale, ancora oscura o non del tutto chiara, ma in grado di
svelare assieme il nome di Dio e dell’io.2Forse non è ancora fede ve­
ra e propria, ma almeno la prima tappa di essa, con i dubbi e la fatica
che questa operazione, quando è genuina, comporta.
Ovvio che tale esercizio della memoria credente dovrà esser an­
cora e sempre ripreso e approfondito nelle varie fasi educative, ma
deve in ogni caso esser considerato tìpico della dimensione umana,
perché la fede nasce autentica solo quando prende le mosse da
un’esperienza di vita e a essa ritoma; anzi, pnma di tutto è fede
nell’esistenza stessa e in ciò o in chi si nasconde in essa. Così come
anche la mistica e la capacità di contemplare, se non sono intrise di
storia personale e vissuta, sono false.
Il giovane va addestrato e deve esercitarsi a questo confronto
attento e rispettoso con la sua storia, con il «roveto ardente» della sua
esistenza, che arde di una presenza divina mai «consumata», ovvero
mai completamente riconoscibile.
La maturazione umana, da questo punto di vista, può esser con­
siderata come la prima tappa della maturità credente.

2 Su questo aspetto cf. A. CENCINI, La storia personale, casa del mistero. Indi­
cazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997.
Il secondo contenuto formativo della prima dimensione è costi­
tuito da una proposta di maturità umana, del cuore, della mente e
della volontà, strettamente legata all’operazione storica appena av­
viata. Tale proposta è conseguenza di essa e come tale va presentata,
a sottolineare quell’esigenza intrinseca di santità che sale discreta ma
ferma dall’interno della propria storia.
La maturità non è un pacchetto di buone azioni o intenzioni, ma
l’adesione inevitabile al richiamo irresistibile di quella verità, bellez­
za e bontà che l’individuo ha imparato a leggere e ritto va attorno a sé
e particolarmente dentro i suoi giorni, come parte di un dono sor­
prendente. Né tale maturità è decisa unicamente da una norma esterna
e oggettiva, ma dalla scoperta, semmai, che questa norma è scritta an­
cor prima nel cuore e nella mente, nel vissuto e nelle esperienze. E
ovviamente va decifrata con cura, senza distorsioni percettive sog­
gettive.
Sarà, allora, una maturità della mente, che impara a scoprire un
po’ per volta un misterioso disegno logico e coerente snodarsi lungo i
suoi giorni, e dentro questo disegno coglie la verità della vita e della
propria persona.
Sarà ancora una maturità del cuore, un cuore che batte attratto
dalla bellezza di questo progetto che rivela il soggetto a se stesso, e lo
fa partecipe di una bellezza che viene dall’alto.
Sarà infine una maturità della volontà che decide di far suo que­
sto modello vero e bello, come un dono che rende buona la vita e la
persona stessa.
Ma ciò che è importante è la coerenza e linearità della proposta
educativa: se il giovane è stato educato a leggere nella propna storia
il progetto personale, o ha visto emergere lentamente la trama della
vocazione dal suo vissuto, è sempre lì che va educato a cogliere
l’appello della verità-bellezza-bonta della vita. E se dentro il passato
sta imparando pazientemente a riconoscere la presenza di Dio,
quell’appello si salderà sempre più spontaneamente con l’invito dello
Spirito a fare ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto. Senza bisogno
di far entrare in gioco altri elementi ascetici o di ricorrere a particolari
argomenti per convincere o forzare ad agire in un certo modo.
Nella formazione si deve esser molto logici e consequenziali at­
torno a un nucleo essenziale veritativo, evitando di disperdersi in
mille sollecitazioni, che finiscono per confondere il soggetto e toglie­
re forza all’azione educativa. D’altronde nulla è più convincente di
ciò che uno scopre nella sua vita come ricco di senso e fonte di verità
e di futuro per lui.
c) Il percorso della libertà
Terzo passaggio: dalla storia personale alla maturità di cuore-
mente-volontà, e da questa alla libertà, la libertà di essere quel che il
soggetto è chiamato a essere e che, a questo punto, dovrebb’essergli
abbastanza chiaro. Libertà è porsi di fronte all’evidenza storica di un
dono, percepirne la verità e l’attrazione; è decidere di prender posi­
zione dinanzi a esso.
È il dono e la coscienza del dono a suscitare libertà. E quanto più
quella coscienza suscita gratitudine, com’è normale di fronte al dono,
tanto più vi sarà la libertà di donarsi o di concepire la propria vita
come «necessaria» gratuità. Dalla gratitudine alla gratuità: è il per­
corso tipico della libertà.
Non ci può esser libertà al di fuori di questo percórso storico che
porta a scoprire e poi a decidere di vivere la vita come dono; né pos­
sono dữsi liberi cuore-mente-volontà di chi non avverte sufficiente­
mente il fascino di ciò che è vero-bello-buono. La libertà, in tal sen­
so, è sensibilità educata, capacità di commuoversi dinanzi al bello e
di lasciarsi abbagliare dallo splendore della verità così come brilla
anche nel piccolo frammento della propria storia. Ed è un legame
prezioso quello che si stabilisce tra l’esperienza storica, la capacità di
lasciarsi seduưe da quel fascino e la libertà di rispondervi: e proprio
questa è la maturità piena, su un piano umano che s’apre sempre più
alla prospettiva della fede.
Ed e già anche, allora, un itinerario vocazionale e formativo,
credente e carismatico.

d) La libertà di fidarsi
Ma la libertà è comunque uri rischio, e questo spaventa oggi
molti giovani. Soprattutto diventa rischiosa quella liberta che compie
il percorso appena indicato, che sfocia nell inevitabile decisione di
fare della propria vita un dono gratuito...
Proprio qui, ancora una volta, diventa decisiva la lettura del pas­
sato. Quando essa è fatta in modo non superficiale e il soggetto è
aiutato a percepire anche ciò che non appare a prima vista o sembra
addirittura negato dall’evento, dovrebbe consegnare al giovane que­
sta verità e certezza:

«la vita è stata buona con me, mi ha accolto, voluto bene, curato, perdo­
nato, e dato molto più di quanto avrei potuto pretendere, molto al di là
dei miei meriti... E allora, se il fatto stesso di esistere è segno che una
volontà buona mi ha preferito alla non esistenza, posso correre il rischio
di non pensare troppo a me stesso; se sono già stato amato, non ho bi­
sogno di andare a cercare e conquistare segni di affetto; se ho già rice­
vuto tanto, posso e devo preoccuparmi di dare; se la vita è stata buona
posso sperare che continuerà a esserlo. Mi posso fidare...»

Il formatore deve far entrare il giovane in questa logica, logica


realista, perché recupera una verità che è alla base della vita di tutti
(anche di chi ha avuto molto da soffrire nella sua storia), ma logica
anche ottimista, di speranza, di apertura al futuro.
Qualsiasi sia stato il suo passato, ogni giovane deve poter arriva­
re a possedere in modo definitivo la certezza del bene ricevuto, di un
bene più forte di ogni male e di ogni limite pure presente nel vissuto
umano.
È infatti da essa che deriva la fiducia, quella fiducia che è
espressione massima della libertà, da un lato, come un suo frutto, e -
dall’altro - è la base umana da cui nasce poi la fede, quasi la sua ma­
teria prima, il suo elemento costitutivo. Fiducia in Dio e nella sua
paternità-maternità, ma anche nei confronti della vita, del futuro, de­
gli altri, della comunità, di se stessi... Fiducia come abbandono e
consegna di sé, come superamento di paure e diffidenze, come corag­
gio di nschiare e di chiedersi il massimo...
Grazie alla fiducia, e a partire da essa, può cominciare il cammino
vero e proprio spirituale. Se, diversamente, non scatta la fiducia, la vita
del giovane non decolla mai, ma si accartoccia su di sé, chiudendosi
progressivamente a ogni apertura e superamento. Tanto meno vi potrà
essere cammino formativo che, per natura sua, è basato sulla fiducia.
Ma è necessario vedere, allora, i dinamismi capaci di attivare
questi contenuti o questo tragitto umano verso la fiducia.
Capitolo nono

LA VITA COME STORIA,


LA FEDE COME MEMORIA

Per dinamismo della formazione umana intendiamo quell’itine­


rario educativo che consente di raggiungere l’obiettivo proprio di tale
formazione, ovvero una conoscenza di sé, da parte del giovane, che
giunga alla libertà della fiducia e della consegna di sé, come abbiamo
prima illustrato.
Tale conoscenza non è una conoscenza qualsiasi, statica e limi­
tata all’oggi, ma storica e frutto di una ricognizione storica del pro­
prio vissuto, dalla quale emergano sia la parte vulnerabile della per­
sonalità, che le risorse positive, ma dal quale emerga soprattutto non
solo quello che è, o che è stato, ma - paradossalmente - anche quello
che è chiamato a essere, il suo volto ideale.
Proprio alla possibilità di operare questa ricognizione sono legati
un certo avvio dell’adesione credente, e una prima interpretazione
della maturità globale umana, sui piani affettivo, intellettuale e mo­
rale, che porti la persona a fare libero dono di sé nella fiducia e
nell’ottimismo.

1. Una storia a pezzi

Si fratta allora di imparare anzitutto a leggere la propria storia.


Cosa che è tutt’altro che semplice e scontata a giudicare dal senso
della storia che mostrano di avere persone consacrate ormai avanti
negli anni.
A volte succede di incontrare religiosi/e, magari alla ricerca di
aiuto, che... non sanno raccontare la loro storia, e non per un difetto
di capacità narrativa o di memoria, ma perché semplicemente non la
conoscono, non sono mai stati messi in condizione di fare questa ope­
razione in modo sistematico e mirato, alla luce di precisi criteri di
lettura 0 di illuminanti categorie interpretative. E così, richiesti di
esporre il loro vissuto, vengono fuori con segmenti di storia senza
continuità, quasi spezzoni di episodi che restano monchi o piccoli
quadretti di vita privi di séguito; raccontano fatti, ma non sanno far
emergere un significato che li leghi tra loro, ricordano eventi, ma
senza lasciar trasparire un nesso logico che li connetta organicamen­
te, propongono aneddoti, come schizzi che non si ricongiungono in
un disegno compiuto e magari concepito-disegnato da Dio, mettono
insieme” quasi alla rinfusa, una serie notevole di dati, sequenze di vi­
ta, incontri, realtà positive e negative..., ma come fossero dati grezzi,
su cui non ha mai lavorato un’intelligenza illuminata dalla fede.
E forse, proprio per questo, sono anche persone che non ricorda­
no neppure bene il loro passato, che rischia così di svanire nella neb­
bia di un tempo ormai trascorso e che rende tutto indistinto e senza
vita; o lo ricordano in modo selettivo (o solo il negativo o solo il po­
sitivo), o in modo estrèmamente vago, ponendo ai suoi inizi una ne­
bulosa e genericamente buona volontà di Dio, ma senza crederci un
granché.
Normalmente una vita così a brandelli, svela pure una persona
disorganizzata interiormente, con seri problemi di maturità umana,
soprattutto perché costui non sa chi è, dato che il passato non gli con­
segna alcun progetto già abbozzato che chieda di essere portato a
compimento, ma neppure gli consegna un’immagine realistica e inte­
grata di sé, con le sue luci e le sue ombre, con un io attuale e un io
ideale.
È importante e decisivo, allora, impegnare fin da subito il giova­
ne in questa ricognizione storica, non nel senso di un semplice diario
da scrivere che riassuma in sintesi il vissuto, ma come vera e propria
ri-assunzione, che ne scopra il senso profondo e in qualche modo an­
che attribuisca un significato a certi eventi; non è forse vero che al­
cuni fatti del passato ricevono senso dal futuro?
E qui entra in scena la funzione di una facoltà che normalmente
non è oggetto di particolare attenzione educativa e che non è neppure
considerata una virtù: la memoria.
Una buona memoria non è semplicemente un dono 0 un dato
della natura, ma parte della maturità generale della persona, e frutto
di una formazione della capacità non solo di ricordare, ma di «fare
memoria». Né esiste un solo modo di ricordare, come se il rammenta­
re episodi fosse pura operazione statica e meccanica. Ricordare non è
semplice rimpianto, o pedante lamentazione, né sterile conservazione,
o rischio della nostalgia, che sarebbe una malattìa, come pensavano i
greci, ma significa «nportare al cuore» il nostro passato. E questo de­
ve farlo ogni uomo, perché l’essere umano, come scriveva H. Boll, «è
nato per ricordare»
Nell’uomo esistono due memorie: quella dei fatti e quella delle
emozioni a essi legate: è la memoria affettiva. È importante dare at­
tenzione, anzitutto, a questa memoria, che rappresenta il residuo
emotivo delle esperienze esistenziali, specie delle più significative.
Noi, infatti, possiamo dimenticare gli avvenimenti, ma non le emo­
zioni da essi determinate o a essi in vario modo connesse.1
Non è sufficiente che un formatore registri accuratamente cosa è
successo nella vita del giovane, ciò che conta è l’emozione depositata
dagli eventi nella sua psiche, emozione che può esser positiva o ne­
gativa, di accettazione o di rifiuto, di paura nei confronti del futuro o
di ottimismo, di risentimento o di riconciliazione, di voglia di vendi­
carsi o di superamento della tensione...
Un giovane può aver avuto un rapporto difficile con la figura
patema; sarà importante, allora, verificare cos’è rimasto nel suo cuore
di questa esperienza, presupponendo che un qualche residuo emotivo
di essa sia senz’altro rimasto. Anzi, è probabile una qualche coưela-
zione tra questa esperienza primordiale e la vita successiva, e quella
presente. La memoria affettiva, infatti, tende a riattivare l’emozione
primitiva quando si ripresentano situazioni analoghe a quelle che
hanno originato l’emozione; così, il nostro giovane potrà reagire in
maniera sospettósa o difensiva o aggressiva nei riguardi dei superiori,
o tenderà a vedere sempre e ovunque espressioni di autoritarismo, o
potrà soffrire in modo esagerato il voto di obbedienza, o avere il pal­
lino fìsso della libertà o dell’autonomia, e questo soprattutto perché si
porta dentro un’esperienza primordiale così negativa da aspettarsi lo
stesso atteggiamento negativo da parte delle varie «figure paterne»
che egli incontrerà successivamente nella vita, o da disporsi con il
medesimo atteggiamelito conflittuale nei confronti di persone in auto­
rità o che comunque richiamano, per rassomiglianza fisica o simboli­
ca, l’immagine paterna. Oppure - tra la rivendicazione o l’identifi­
cazione con l’aggressore - tenderà lui stesso a esser autoritario o so­
gnerà di divenire superiore e aver potere...
Il tutto, naturalmente, senza la minima coscienza di questa cor­
relazione; è come fosse una memoria passiva, ma che di fatto incide
sulla vita e sulle relazioni perché di per sé scatta automaticamente.
Secondo i dati della ricerca, infatti, circa il 67% di giovani religiosi/e

1 II concetto di «memoria affettiva» è di M. Arnold: cf. M.B. A rn o ld , Emotion


and Personality, New York 1960. Per le implicanze di questo concetto nella dinamica
formativa cf. A . CENCINI, Con amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consa­
crato, Bologna 1996, 128.
in formazione stabilisce relazioni trasferenziali, ovvero vive nel rap­
porto coi superiori e con i pari età un tipo di emozioni molto simili a
quelle vissute un tempo all'interno della cerchia familiare.2
Chissà quante simpatie o antipatie hanno quest’origine, senza
che il soggetto lo sospetti minimamente! Anche il rapporto con Dio,
immagine paterna per eccellenza, potrebbe essere condizionato, in
negativo o in positivo, dalla memoria affettiva; nulla di strano!
Sarà dunque indispensabile che il formatore aiuti il giovane an­
zitutto a conoscere ed esplicitare il tipo di memoria affettiva che si
porta dentro, nel cuore e nella mente, e a verificare quanto questa
memoria incida sui rapporti interpersonali, sulla vita spirituale, sul
modo di andare incontro alla vita e di farsi aspettative órca il futuro e
il proprio molo vocazionale, drca la comunità e l’apostolato. Tale ti­
po di verifica è senz’altro il primo passo per limitarne l’incidenza,
soprattutto nei casi in cui il condizionamento è negativo.
Ma tale memoria, in ogni caso, non costituisce l’unico modo di
ricordare.

3. Memoria biblica

C’è anche la memoria degli eventi che sono accaduti nel proprio
passato. Tale memoria, però, non è semplice registrazione di dati, ma
- almeno nella persona matura e adulta - significa un’organizzazione
di questi dati attorno a una verità capace di spiegare dati ed eventi.
Ovviamente tale verità sarà legata ai convincimenti della perso­
na, al suo credo, religioso o filosofico che sia. Così, se uno crede al
destino riteưà che quel che gli è successo è dovuto semplicemente a
questa forza impersonale e indefinibile, o a quella dea bendata che è
la fortuna (e più spesso al suo contrario, alla sfortuna), o se crede
semplicemente in se stesso e nelle sue risorse attribuirà tutto a sé e ai
suoi muscoli.
Ma se crede nel Dio di Gesù Cristo, allora la vita passata assume
tutt’altro significato e i singoli avvenimenti diventano frammenti di
un disegno misterioso e pur progressivamente chiaro, ma in ogni caso
bisognoso di attenta e continua lettura. E la sua memoria diviene ce­
lebrazione della continuità di tale disegno nell’oggi da essa stessa ge­
nerato, alimentato e spinto ad andare oltre.

2 Cf. L.M. R u lla - F. IMODA - J. RIDICK, Antropologia della vocazione cri­


stiana. 2. Conferme esistenziali, Casale M. 1986, 149.
È la memoria biblica, memoria del credente che legge nella sua
storia gl’interventi di Dio che, come un tempo ha amato, protetto,
perdonato, legato a sé, sedotto, salvato... Israele, così ora fa con ogni
creatura. Questa memoria è, infatti, proprio la memoria di Israele, che
ricordava credendo e credeva ricordando.
Per questo non è semplice memoria, ma un «fare memoria», per­
ché implica non solo il conservare nella mente gli eventi vissuti, ma
anche lo scrutarne profondamente il senso, a volte anche oltre
l’apparenza, e il vederne il collegamento con altri fatti, contempora­
nei e successivi, che ne lascino emergere il significato più vero e coe­
rente non solo con la sua fede, ma anche con il séguito della vita.

«Spesso, infatti, - annota il card. Newman - ci capita di scoprire la pre­


senza di Dio nella nostra vita solo dopo, quando guardiamo indietro»,3

e scopriamo - come dice Barsotti - che

«non le occasioni straordinarie e gli avvenimenti storici, ma l’umile


vita di ogni giorno è sacramento di D io».4

È memoria attiva, questa, e creante responsabilità nel soggetto,


poiché se è vero che l’individuo può non esser responsabile del suo
passato, egli è del tutto responsabile dell’atteggiamento che al presente
assume di fronte a esso. Fare memoria riconoscendo l’agire di Dio è un
modo di esercitare questa responsabilità; insegnare al giovane in for­
mazione a leggere così la sua vita, o - meglio ancora - a scriverla, vale
più di chissà quali e quante riflessioni teoriche sulla presenza e provvi­
denza di Dio e sulla libertà e responsabilità dell’uomo.
Quel giovane che ha vissuto un rapporto negativo con la figura
patema, potrebbe semplicemente lamentarsene e cercare comprensio­
ne o sentirsi autorizzato a sfogare in qualche modo la sua aggressivi­
tà, ma potrebbe anche scoprire un modo diverso di considerare questo
evento, leggendovi magari la radice della sua debolezza centrale, ciò
che l’aiuta ora a capữe il perché di certe sue reazioni apparentemente
strane e antipatie inunotivate, ciò che dovrebbe essere oggetto del suo
cammino di conversione, la strada lungo la quale il Signore gli sta ri­
velando il suo volto paterno.
Ma come può avvenire questo cambio di prospettiva, o questa
assunzione di responsabilità nei confronti del proprio passato?

3 Cit. da G. R avasi, «L’aiuto», in Avvenire, 3 set 1996, 1.


4 Cf. D. BARSOTTI, in Feerici 12(1997), 68.
n segreto è presto detto, deve avvenire una sorta di sintesi tra le
due memorie: la memoria biblica deve diventare anche affettiva,
mentre quest’ultima deve lasciarsi toccare, forse, addirittura cambiare
e guarire dalla memoria biblica.
In concreto: il ricordare ciò che Dio ha fatto non può essere ope­
razione solo intellettuale di fronte alla quale il cuore resta sostanzial­
mente freddo, ma operazione più globale che, mentre abbraccia tutta
la vita, lascia anche una traccia emotiva intensa, e deposita nel cuòre
e nella mente del giovane la certezza che come Dio è stato padre e
madre nel passato, così continuerà a essere nel futuro. In tal senso,

«il passato del credente è come una lampada posta all’ingresso del­
l’avvenire»,5

lampada che getta una luce che abbraccia tutta la storia futura
dell’individuo, e dona dunque serenità e voglia di vivere che diviene
pure contagiosa.
Se la memoria biblica non è anche affettiva, diventa solo cultura
che non serve per la vita, o registrazione di dati che non commuovo­
no; è neutra, non ispira alcuna gratitudine né dona fiducia, non fa na­
scere libertà né conosce gratuità.
Ma, d’altro canto, la memoria affettiva deve confrontarsi con la
memoria biblica, altrimenti è solo emozione soggettiva e puramente
istintiva, non sempre evangelizzata e, se negativa, spesso anche senza
speranza.
Ora, nella vita passata di ciascuno di noi vi sono anche eventi
negativi (lutti, fallimenti, ingiustizie subite, peccati...), che potrebbero
aver lasciato una traccia emotiva negativa pronta a riemergere in de­
terminate circostanze (così ci dice la psicologia), come una ferita ri­
masta aperta o che basta molto poco per far ancora sanguinare. Il
«credente dalla buona memoria» sa che pure in queste situazioni ne­
gative è nascosta una misteriosa presenza divina, sa che anche se sua
madre l’avesse dimenticato «io - dice il Signore - non ti dimentiche­
rò mai» (Is 49,15), sa che anche l’esperienza della propria debolezza
può diventare esperienza di Dio, del Dio ricco di misericordia, e che
perfino il passato più sfortunato è lì a raccontare che Dio ha dise­
gnato la creatura sulle palme delle sue mani (cf. Is 49,16); sa che Dio,
il Dio-vasaio, adopera a volte anche lo scalpello, e che particolari av­

5 R. L a m e n n a i s , cit. in Se vuoi 4(1997), 54.


venimenti di difficile interpretazione sono la sua mano che lavora le
nostre anime e plasma in noi i sentimenti del Figlio... Lo sa non tanto
perché lo crede a occhi chiusi, ma perché tutto ciò è nascosto (e pure
evidente) nella sua storia, o perché la memoria aiuta l’intelletto, o
perché ha imparato a ricordare da credente e a credere... a occhi ben
aperti.
E allora anche l’emozione negativa legata alla memoria affettiva
può esser sanata alla radice. Lentamente e impercettibilmente, ma in
modo reale. Grazie a un accompagnamento che fin dal tempo della
prima formazione educhi a questo tipo di lettura della vita, senza
fermarsi all’obiettivo dell’accettazione di sé e del proprio passato.
Anzi, in ogni fase formativa, dal prenoviziato alla preparazione
alla professione perpetua, il giovane dovrebbe essere stimolato a fare
questa operazione psicologico-spirituale; non solo a leggere, ma pos­
sibilmente a scrivere ciò che Dio ha fatto nella sua storia, per poi tor­
narvi sopra anche successivamente nelle fasi della vita e della forma­
zione permanente, per correggere, aggiungere e approfondire con co­
noscenze ulteriori, per cogliere la coerenza del disegno e scoprire
sempre più chiaramente il progetto di Dio e il proprio nome e, assie­
me, anche ciò che s’oppone alla realizzazione di tale progetto divino
su di sé.
Forse è proprio questa operazione quanto mai salutare a costitui­
re l’oggetto materiale ma pure formale della formazione permanente,
il suo filo rosso che ne lega le fasi successive, come un compito mai
terminato, che consente al tempo stesso di appropriarsi sempre più
della vita e del proprio passato, e rinforzare così sempre più il senso
dell’io, e assieme arricchisce la personalizzazione soggettiva della
fede.
E così, più uno invecchia, più diventa capace di «ricordare», di
ricordare quel che Dio ha fatto nella sua storia, in ogni frammento di
essa, e apprende l’arte, come dice Peyretti, di «ricucire i pezzi» e di
scorgere «la bellezza e l’armonia dei brandelli».6 È grande sapienza
non gettar via alcun brandello di esistenza vissuta, ma compone e ri­
compone continuamente in un disegno nuovo quanto ci è stato dato
di vivere. È grande pedagogia insegnare a farlo presto, fin dalla prima
formazione.
Allora si sta facendo realmente formazione sul piano umano e
non solo umano, a partire dalla propria realtà, che è quella più con­
vincente e provocante. Mentre la propria storia diventa sempre più il
luogo dell’incontro con Dio e con se stessi.

6 E. PEYRETTI, cit. da G. RAVASI, «Ricucire i pezzi», in Avvenire, 12 ago 1997, 1.


Capitolo decimo

MATURITÀ UMANA

Il lavoro di riassunzione del proprio passato, indicato come me­


todologia o dinamismo tipici della dimensione umana, dovrebbe con­
durre a una nuova percezione di sé e a un nuovo modo di porsi di­
nanzi all’evento della vita e al proprio ideale anche semplicemente a
livello umano.
Potremmo dire che l’esercizio della lettura-scrittura della propria
storia dovrebbe portare la persona a rileggere e riscrivere anche la
propria identità, all’interno di una concezione diversa, più ricca e
coerente, della maturità umana. L’operazione del ricucire i pezzi non
vuol dire solo mettere assieme i cocci, come se nel passato vi fossero
solo disfatte da registrare e accettare, ma cogliere e dare un signifi­
cato che riesce a tener assieme anche lẹ contraddizioni e asimmetrie
della vita, dando coerenza e unitarietà al tutto, e rinforzando indub­
biamente anche la propria identità. È il primo e forse più sostanzioso
frutto di questa fatica.
Cerchiamo allora di entrare in questa concezione singolare e
nuova della maturità umana.
Non si tratta di stilare la solita lista di criteri di maturità umana,
ma di capire, ancor prima, cosa significhi esser uomo che realizza in
pieno la sua umanità, con le risorse e limitazioni che la contraddistin­
guono, consacrandosi a Dio.
E dunque si fratta di comprendere quali dovrebbero essere - sul
piano della propria umanità - le premesse che, nelle diverse stagioni
del cammino formativo, consentono di cogliere sempre più chiara­
mente il disegno divino su di sé e di rispondervi con animo libero e
generoso, per poi scoprire come queste premesse umane giungano a
piena maturazione grazie all’interazione con le altee dimensioni del
cammino formativo.
Non ha più tanto senso, credo, pensare alla dimensione umana
come ad alcuni elementi di sanità psichica o a un insieme di capacità
relazionali, o come a un settore di pertinenza esclusiva dello psicolo­
go staccato dagli altri settori: la dimensione umana è parte integrante
della formazione cristiana e carismatica, non è semplicemente posta
accanto a essa (prima o dopo), ma la contiene e ne è contenuta al
tempo stesso; interagisce profondamente con essa al punto non solo
di risultarne inseparabile, ma di rendere praticamente impossibile
continuare a distinguerle, almeno nell’uomo maturo.
L’uomo nuovo, di cui parla Paolo, è totalmente illuminato dalla
sapienza dello Spirito, ma la luce è riflessa e risplende nella sua uma­
nità, resa nuova, ma sempre umana, anzi, sempre più autenticamente
umana. Nel senso, dunque, più bello e ampio del termine, siamo con­
vinti che se un consacrato è davvero uomo, e una consacrata davvero
donna, riesce a rivelarsi immagine del mistero santo di Dio. La di­
mensione umana, allora, intesa in tal senso, deve essere oggetto di
attenzione esplicita da parte del formatore.
Il lavoro, inolữe, della memoria credente, memoria biblico-af-
fettiva, non è mai fatto una volta per tutte; e non solo perché è fatica,
abbiamo detto, per natura sua mai terminata, ma perché può essere
idealmente connessa con le ừe fasi classiche della formazione religio­
sa, del prenoviziato, del noviziato e del postnoviziato. Questo recupe­
ro della propria storia, infatti, potrebbe e dovrebbe offrire la motiva­
zione decisiva che porta all’opzione iniziale vocazionale, e poi alla
scelta di consacrarsi e infine alla decisione radicale di appartenere per
sempre al Dio della vita. La vita stessa, allora, diventa come un con­
tinuo scavare il senso della presenza e dell’azione di Dio in essa, ed
esattamente da questo scavare emerge un certo modo di concepire la
maturità della propria umanità.
Vediamo brevemente questo «modo», in corrispondenza con i
contenuti, già visti nel capitolo ottavo, della dimensione umana.

1. Dalla sincerità alla verità

Anzitutto l’uomo maturo conosce se stesso, e in particolare la


correlazione esistente tra quello che era e quello che è, 0 tra l’io che è
al presente e quello che potrebbe e dovrebbe essere, col positivo e
negativo che fan parte dell’avventura di ogni vivente. Ne abbiamo già
parlato.
Chiariamo però ora che non basta essere sinceri in questa opera­
zione, ma occoữe essere veri. La sincerità è soggettiva, significa la
libertà di riconoscere e dire a se stessi (e poi agli altri, se necessario)
quel che si prova dentro, quel che ognuno vede nella sua storia e pen­
sa di sé. È importante avere questa libertà, ed è chiaro che solo il di­
retto interessato può avere quel certo tipo di conoscenza che deriva
dal sentire in sé una certa vibrazione emotiva. Ma questo è solo il
primo passo. Anzi, al tempo stesso, proprio questo è ciò che rende la
sincerità debole e ambigua, paradossalmente, 0 per lo meno incoili'
pietà ai fini della conoscenza di sé; c’è chi si vanta di essere sincero e
di non aver peli sulla lingua, e non sa che la miglior sincerità non ba­
sta per essere veri, né sospetta quanto distante possa essere la sua sin­
cerità dalla verità di quel che è.
La verità, infatti, è oggettiva, è la libertà di cogliere non solo
l’emozione, che di solito è facilmente riconoscibile, ma anche ciò da
cui essa deriva, la sua radice vera, che non sempre è altrettanto evi­
dente, anzi, a volte è addứittura inconscia, e pure rappresenta qualco­
sa di reale, che condiziona la vita senza essere spesso condizionata da
alcun controllo. Ma in ogni caso è comunque rintracciabile nella pro­
pria storia, passata e presente (se Freud, infatti, diceva che i sogni so­
no la via regia per scoprire l’inconscio, noi affermiamo che è la storia
personale tale via regia).
Non basta, allora, che uno riconosca, ad esempio, la sua even­
tuale simpatia per un’altra persona o che riscontri in sé una frequente
tendenza ad allacciare relazioni, a curarle, a sentirsi cercato ecc., ma è
necessario che scopra da dove viene tutto ciò, da quale bisogno reale
(potrebbe trattarsi, in tale caso, di un sottostante e forte bisogno di es­
sere amato), e - secondo - che ritrovi l’origine e l’evoluzione di tale
bisogno nel suo vissuto. Di solito è proprio questa scoperta della ra­
dice, o questa ricerca della verità storica di sé, che aiuta a capire il
senso preciso di un certo bisogno psichico (e assieme di quegli umori
0 stati d’animo a esso legati), o quella che viene chiamata la funzione
psicodinamica di una tendenza intrapsichica: quel bisogno affettivo
in eccesso, ad es., potrebbe derivare da una povera considerazione di
sé, o dall’abitudine di essere al centro dell’attenzione, o dalla paura
della solitudine... È la corretta identificazione della radice che con­
sente di intervenire in modo adeguato, ovvero sulla radice stessa e
non solo sui comportamenti.
Sarà dunque importantissimo che il giovane possa scoprire per
tempo tutto ciò per indirizzare in modo intelligente e mirato la sua
formazione: solo allora è nella verità e può fare un cammino di verità.
Se è vero che chi non conosce il suo passato è condannato a ri­
peterlo,' lo stesso accade per chi non conosce bene la radice delle sue
inconsistenze.

1 Così secondo il poeta Santayana, cit. da L.M. RULLA, Antropologia della vo­
cazione cristiana, ì. Basi interdisciplinari, Bologna 1997, 129.
2. La forza nella debolezza

Spesso si dice che l’uomo maturo è l’uomo forte, che ha risolto


tutte le sue inconsistenze e cancellato le immaturità..., e invece non è
del tutto vero, anzi, è pericoloso dare nella formazione l’idea della
maturità come perfezione.
Finché siamo su questa teưa l’immaturità c’accompagnerà sem­
pre, poiché la perfezione non è di quaggiù. Eppure è possibile vivere
la debolezza personale in modo maturo, trovando paradossalmente in
essa la propria forza. Cosa vuol dire?
Anzitutto questo significa la capacità di riconoscere con precisio­
ne, non vagamente, ma nella verità la propria immaturità; dunque darle
un nome e, come appena detto, conoscerne la radiceế Vi sono giovani
che hanno attraversato tutte le fasi formative senza che nessuno li aiu­
tasse 0 senza lasciarsi aiutare a decifrare la propria inconsistenza e
dunque senza sapere dove lavorarsi: ovvio che in tali casi non c’è stata
alcuna formazione. Puntuale, Matti, in molti di questi casi, dopo pro­
fessione perpetua e ordinazione, è scoppiata poi la crisi, o, forse più
frequentemente, in altri casi è «scoppiata» la mediocrità.
Ma è importante soprattutto integrare la propria debolezza, ov­
vero darle un senso ancor prima di combatterla, o riconoscere in essa
o attraverso essa un elemento fondamentale della propria identità, o
un atteggiamento essenziale da assumere dinanzi alla vita. L’uomo
adulto sa che per certi aspetti è ancora bambino (anche se all’esterno
non si vede), conosce molto bene le sue contraddizioni, sa che dentro
di lui scatta a volte una forza prepotente che ha la meglio sul suo de­
siderio di bene e di fronte alla quale si sente realmente debole: saper
questo è necessario per aver un’idea esatta di sé, per non presumere
di sé, né esaltarsi, e capire che all’inizio e alla fine di un progetto di
santità c’è l’esperienza della misericordia.
Chi non ha sofferto le proprie infermità fino a sperimentare an­
che una certa impotenza non ha neppure iniziato alcun cammino di
maturità, né umana né cristiana. Esemplare, in tal senso, l’insegna­
mento di Paolo (cf. Rm 7,15-24; 2Cor 12,7-10): era partito con la
pretesa di cancellare la sua debolezza, di togliere una volta per tutte
quella umiliante «spina nella carne» o di sconfiggere «l’angelo di
Satana», e per questo aveva pregato e supplicato il Signore. E si ri­
trova invece, alla fine, a «vantarsi» della sua debolezza, per avere
scoperto, in fondo a essa, la potenza della grazia che salva...
Tale esperienza è importante anche per vivere bene il rapporto
con le debolezze degli altri, e il motivo è subito evidente: chi conosce
bene i propri abissi di egoismo e nequizia, e pure gli sforzi di miglio­
rarsi a volte senza frutto, non si scandalizza della povertà di chi gli
sta accanto, né rifiuta alcuno perché debole. Chi lo fa, con più o me­
no puzza al naso, mostra ancora una volta di essere molto lontano
dalla verità di sé, e si serve degli aldi per proiettare su di loro quanto
non accetta del suo io.
Ancora, la discesa ai propri inferi dà pure un fratto insospettato:
l ’apprendimento della preghiera. La sensazione sofferta della vulne­
rabilità e impotenza mette il credente in ginocchio dinanzi a Dio, gli
fa cercare un aiuto e una forza che non ritrova dentro di sé, gli mette
sulle labbra le parole accorate di una supplica essenziale e quanto mai
vera: «Signore pietà..., Signore salvami!., mostrami il tuo volto...».
Chi non ha mai provato quella certa disperazione non imparerà
mai a pregare, né conoscerà quella speranza che nasce in cuore pro­
prio quando s’è toccato il fondo. Lo dovrebbero capile certi giovani
perènnemente dilettanti nelle cose dello Spirito, ma: in crisi ma nep­
pure appassionati, poco credenti e ancor meno oranti; ma anche certi
formatori poco disposti ad accompagnare in questo faticoso viaggio
alle radici dell’io.
Infine, l’aver visto in faccia i propri mostri aiuta, per strano che
possa sembrare, a definire meglio il proprio ideale', l’area della pro­
pria debolezza, vogliamo dữe, non solo diventa l’area dell’impegno
di crescita ma indica anche esattamente in quale direzione il soggetto
può scoprire il mistero del proprio io ideale, ciò che ancora non sa di
sé e che pure costituisce la peculiarità della propria identità e del pro­
prio cammino di maturazione. Se, ad es., l’inconsistenza centrale è di
natura affettiva il giovane sa che solo crescendo in tale area egli si
conoscerà pienamente e sarà libero di realizzarsi e pienamente felice.
Insomma, laddove colgo e sperimento il mio male, lì si nasconde un
appello a esser migliore, o lì si nasconde la mia identità ideale.
Scoprire dunque la propria immaturità vuol dire scoprire anche
quel che si è chiamati a essere, ovvero, ancora una volta, camminare
nella verità e ritrovare la forza nella debolezza.

3. La libertà di pro-gettarsi

L’uomo è per natura sua chiamato a uscire da sé, a porsi di


fronte a un appello, a un tu che lo chiama a esser se stesso e pure a
superarsi; nessuno si conosce specchiandosi e contemplando la sua
immagine, né si realizza facendo calcoli e cercando garanzie per non
correr alcun rischio.
La logica del «fare il passo secondo la gamba» finisce spesso per
impedire la stessa autorealizzazione, che è già obiettivo piuttosto mo­
desto per l’uomo chiamato a trascendersi. Infatti, l’eccesso di pra-
denza e la pretesa di garanzie di riuscita hanno normalmente un ef­
fetto riduttivo sulle possibilità di realizzare se stessi. Chi non ha il co­
raggio di rischiare la sua faccia in imprese coraggiose, finisce per ri­
petere miseramente se stesso.
Tanto meno, a un livello superiore, seguendo tale logica qualcu­
no potrebbe consacrarsi a Dio né potrebbe mai scoprire il lato miglio­
re della sua personalità! Il futuro, infatti, non può esser semplice-
mente la proiezione del presente, perché l’io ideale - per natura sua -
aggiunge e deve sempre aggiungere all’io attuale qualcosa di nuovo e
di inedito, di misterioso e anche di rischioso, qualcosa che va al di là
di quanto la persona è sicurissima di saper fare: l’io ideale dice la ve­
rità del soggetto quando gli propone il superamento di sé o gli chiede
la tensione verso il massimo delle sue possibilità, mentre è falso, psi­
cologicamente falso, quando gli indica come punto di arrivo l’attua­
zione di quel che è già o la ripetizione all'infinito delle sue capacità.
La vita allora diveưebbe di una noia mortale e il futuro si ridurrebbe
a una stanca fotocopia del presente, mentre svanirebbe ogni parvenza
di scelta libera.
L’uomo maturo, invece, accoglie quell’aspirazione naturale che
spinge perennemente in avanti e impedisce di accontentarsi del me­
diocre o di vivere di rendita invecchiando anzitempo; accetta le pro­
vocazioni della vita come condizione per scoprire se stesso e le sue
sorprendenti (e spesso nascoste) risorse. E decide di pro-gettare la
sua vita e il suo futuro. Ovvero, come dice la radice del verbo, sceglie
di «gettarsi più avanti, oltre se stesso», oltre i calcoli paurosi e me­
schini e anche oltre le proprie doti e talenti, per disporsi a recepke
anche quell’appello misterioso che trascende l’io proiettandolo in una
dimensione ulteriore.
È solo a questo punto che il soggetto cessa di essere lo stanco ri­
petitore di se stesso e diventa artefice della propria esistenza; è stato
vero con se stesso, e, come Natanaele, vedrà e potrà realizzare cose
sempre maggiori (cf. Gv 1,47-50)!

4. La consegna della vita

Il verbo proicio (da cui deriva pro-getto) ha anche questo signi­


ficato: consegnare la propria vita.
L’essere umano deve necessariamente consegnarsi a qualcuno o
a qualcosa: a chi o a che cosa sta al singolo deciderlo, ma in ogni ca­
so deve far consegna di sé. CM non si consegna, illudendosi di ap­
partenere solo a se stesso, di fatto diventa schiavo di qualcosa che
ignora, e la sua schiavitù è tanto peggiore quanto meno se ne rende
conto. Soprattutto è una schiavitù triste e solitaria, perché chi decide
di non consegnarsi è persona che diventa sempre più sola e sospetto­
sa, non si fida di nessuno (deir amico, della comunità, del futuro, di
Dio...) e non si lascia condizionare da nessuno, finendo per perdere
ogni fiducia anche in se stesso e subire poi il condizionamento, in
realtà, di un’infinità di cose e di paure.
L’uomo maturo non è tipo che basta a se stesso, chiuso nella sua
autosufficienza; riconosce il suo bisogno degli altri e si fida di chi gli
sta accanto, fino al punto di essere disposto a mettere la sua vita nelle
mani di un Alữo e lasciarsi limitare persino dalla debolezza altrui.
È la logica della libertà che, quando nasce dalla verità, diventa
fiducia e abbandono, diventa libertà di rinunciare a se stessa.
Possiamo cogliere un esempio di questa libertà, ancora una vol­
ta, in Paolo, «il prigioniero del Signore» (Ef 4,1), che ha messo to­
talmente la propria vita nelle sue mani, e si sente di conseguenza libe­
ro, libero da tutto e da tutti, dalla legge, dalla pretesa di salvarsi coi
suoi mezzi, dal bisogno di piacere agli altri ecc., così libero da poter
rinunciare alla Slia stessa libertà per il bene dei fratelli, al punto di
non mangiar came in eterno se questo dovesse scandalizzare qualche
fratello debole nella fède (cf. ICor 8,13).
È il mistero della maturità umana come l’abbiamo ora delineata:
riconoscere quella verità oggettiva e pure storica che svela l’uomo a
se stesso, quella debolezza che infonde forza, quella libertà che rende
servi, quella fiducia che apre alla relazione e all’esperienza dell’amo­
re, e giunge alla consegna della propria vita.
E la maturità umana che si salda sempre più coil quella spirituale.
PARTE QUARTA

FORMAZIONE SPIRITUALE
La seconda dimensione che costituisce l’essere umano e che de­
ve essere ben presente nella dinamica formativa è quella spirituale.
Tale dimensione riguarda in modo esplicito il credente che è in noi,
rxùra alla sua formazione e dunque anche alla maturazione delle com­
ponenti spirituali dell’uomo interiore, come lo chiama Paolo, del cuo­
re e degli affetti, della mente e della volontà, della libertà che si lascia
attrarre dalla verità. Se la dimensione umana rappresenta la profon­
dità del mistero-uomo, ovvero le risorse di energia che egli possiede,
la dimensione spirituale indica l ’altezza cui l’uomo è chiamato, ciò
che può e deve diventare. E come l’altezza suppone la profondità, e
quanto più si protende in alto tanto più esige radici ben profonde, co­
sì la dimensione spirituale non può stare senza quella umana, anzi la
realizza in pienezza, al massimo grado della sua umanità. Non vi po­
trebbe essere, dunque, alcuna dimensione e maturazione spirituale
senza l’indispensabile supporto umano e senza che da essa ne venisse
una piena fioritura dell’umano.
Seguiamo lo stesso schema proposto per la dimensione umana:
elementi architettonici (dimensioni come risorse o presupposti fon­
damentali) ed elementi ermeneutici (contenuti e dinamismi).
Capitolo undicesimo

LA DIMENSIONE SPIRITUALE

Vediamo anzitutto di chiarire il punto di partenza, lo scheletro,


per così dữe, dell’uomo interiore o la parte architettonica deir edifi­
cio spirituale. È da questi elementi o chiavi di lettura che nascono poi
le applicazioni teorico-pratiche nella formazione; dunque è impor­
tante precisarli.
1. Presupposti
Anzitutto questi presupposti sono, strettamente collegati con
quanto detto circa la dimensione umana. Potremmo dire che partono
proprio dal punto ove quell’analisi è arrivata, o dal presupposto che
l’essere umano è capace di trascendersi fino ad aprirsi al divino, sen­
tirsene amato e amarlo. Anzi, quest’uomo
a) è l ’interlocutore di Dio, è colui che Dio ha reso suo partner, ca­
pace di ascoltare la sua voce e rispondergli;
b) proprio in questo dialogo con Dio l’uomo scopre la sua verità e
la possibilità di realizzarsi pienamente, e afferma la sua libertà,
fondata sulla libertà di quel Dio che non s’impone all’uomo, lo
lascia libero di accettare o rifiutare la sua proposta, di essere cre­
dente o non credente;
c) ma se l’uomo accetta il rischio e si fida di Dio entra misteriosa­
mente nel suo mondo, il cuore diviene partecipe dei desideri di­
vini e impara ad amare alla maniera divina;
d) tutto questo, allora, si riflette nei rapporti terreni, vissuti non più
secondo la logica solo umana, riduttiva e interessata, ma secondo
la logica evangelica della vita nella morte, della follia della cro­
ce, della beatitudine della mitezza e della misericordia, della fede
che sposta le montagne, della fiducia che sconfigge ogni paura...;
e) l’uomo spirituale, dunque, non è colui che vive lontano dalla
realtà mondana o che ha rinunciato alla sua umanità, ma è colui
che vive ogni frammento dell’esistenza con questo atteggiamento
credente. Spirituale, infatti, non vuol dire immateriale, ma capa­
cità di interpretare e gestire anche la parte istintuale dell’io e la
realtà più materiale della vita all’intemo di una prospettiva tra­
scendente e alla luce della logica evangelica.
Questo è l’uomo spirituale, o queste sono le risorse e potenzialità
di ogni uomo sul piano spirituale. E interessante notare che mentre i
parametri della dimensione umana partono dal basso per giungere
alla possibilità di stabilire un rapporto con Dio, i criteri della dimen­
sione spirituale fanno un po’ il cammino inverso; e questo dice anco­
ra una volta come le due dimensioni siano destinate a incrociarsi,
runa autenticando l’altea e in ogni fase della formazione.

2. Contenuti
Se queste sono le possibilità, davvero notevoli, che s’aprono da­
vanti a ogni essere umano, tocca proprio al formatore attivarle per
farle divenire realtà. Intervenendo su queste aree o contenuti.
a) Il principio religioso
Il primo contenuto formativo è costituito da quello che potrem­
mo chiamare il principio religioso, da cui nasce la fede. Ovvero si
tratta di formare al «radicale riconoscimento dell’esistenza incondi­
zionata dell’altro»,' per poi disporsi a vivere la fede come orienta­
mento del proprio essere alla relazione con l ’Altro.
È nascosta, in questo argomentare, una precisa catechesi della
fede, come elemento caratteristico dell’uomo spirituale. Educare alla
fede vuol dire educare alla relazionalità, fin dai primi tempi dell’e­
sistenza e con tutto ciò che essa implica, non solo come apertura e
capacità di rapporto, ma come accoglienza dell’assoluta unicità del-
l’altro e scoperta del suo valore, come rifiuto di ogni tentativo di
strumentalizzarlo e libertà di lasciarsi da lui toccare e condizionare.
L’attitudine credente non è semplice opzione ideologica né fuga
in un mondo distante ed estraneo aùe vicende personali relazionali,
ma è preparata da un lento apprendistato che porta l’io a usdre da se
stesso per concentrarsi sull ’altro.
È evidente, allora, che la fede si realizza nell’amore, quasi si
confonde con esso e da esso proviene. Mentre, al contrario, tutto ciò
che s’oppone all’apertura relazionale e rinchiude l’io, per quanto im­
percettibilmente, in se stesso (irrigidimenti, tendenza a impoưe le
proprie idee, rifiuto della diversità dell’altro, atteggiamenti autoritari,
uso disinvolto della regola o della tradizione per prevalere e domina­
re, ambizione privata di perfezione...) ostacola o indebolisce l’ade­
sione credente.
È l’amore, non il quoziente intellettuale, che rende forte la fede.

1 M . RUPNIK, D all’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa, Ro­


ma 1996,49. :
b) La debolezza dell’amore

E proprio a questo punto esplode il paradosso. Se la fede nasce


come esperienza di amore il giovane inizia a diventare credente nella
misura in cui scopre su di se l’amore di Dio, come fosse l’oggetto
unico della benevolenza divina: più forte è questo affetto, più robusto
sarà anche il suo atto credente. Di conseguenza l’esperienza dell’es­
sere amati da Dio diventa area privilegiata della formazione dell’uo­
mo interiore. Ma in cosa consiste questa esperienza?
Molti giovani aspettano chissà quale straordinaria illuminazio­
ne per acquisire tale certezza esperienziale, e forse vanno anche a
cercarla in ambienti e gruppi particolari ove - come lascia intendere
una certa propaganda - tale esperienza sembra facilmente accessi­
bile, o tentano di provocarla in un modo 0 in un altro, con la rifles­
sione intellettuale o con un certo comportamento, più o meno me­
ritorio, ma spesso senza raggiungere grandi risultati. Questo Dio,
infatti, non s’impone e non impone il suo amore, non mette nor­
malmente in atto un gesto strepitoso che «costringa» a credergli,
non ama «obbligando» l’amato a restituirgli amore7la sua benevo­
lenza non è un atto di forza, anzi, è debole, lascia addirittura l’altro
libero di accettarla come di rifiutarla, non è subito evidente, non
rende all’istante tutti gli eventi della vita immagine sua trasparente
e convincente... Non toglie minimamente il rischio della libertà im­
plicito nella fatica del credere, così come non sottrae alle cose e
agli eventi quella naturale dose di ambiguità e opacità che ne oscu­
ra, all’occhio umano, origine e destino.
Tutto questo può anche rendere difficile e complicato il credere
all’amore, perché esige, in particolare, l'attraversamento e il supera­
mento di quella zona oscura ove la ragione non può penetrare per
trovare l’evidenza della prova.
E se, invece, fosse proprio questa la prova dell’amore vero? Se
fosse proprio questo il segno che rende autentico l’affetto, consen­
tendo di sperimentarlo come rivolto a sé in tutta la sua genuinità?
L’amore è vero, in effetti, solo quando è libero e liberante, solo quan­
do non pone condizioni e lascia l’amato libero di rifiutarlo, pur con­
tinuando ad amarlo; non è autentico l’amore costrittivo e condizio­
nato, spesso degenerante in vincoli di gelosia, di accapaưamento af­
fettivo, di condizionamenti e ricatti che opprimono e tolgono libertà.
Mentre la libertà, che è una dimensione interna dell’amore, è ciò che
garantisce che l’amore sia vero, è ciò che rende l’amore non solo in­
tenso perché disinteressato, ma anche eterno, indistruttibile, capace di
sopravvivere anche al rifiuto dell’amato.
L’atto di fede, allora, è l’atto più libero che ci sia, perché è tutto
costruito non sull’evidenza schiacciante delle prove, che convincono
e «costringono» in qualche modo la mente a dare assenso, ma su un
atto di fiducia, sul credito dato a un A lto, sul coraggio di attraversare
quella zona oscura perché illuminati interiormente dalla luce di un
volto, perché chiamati da una voce. Luce e volto misteriosi e discreti,
perché il cuore sia libero di rispondere all’amore con un atto di ab­
bandono, senza pressioni. Atto ragionevole e pure superrazionale, ma
che soprattutto dice la natura del dialogo della fede: tra la libertà di
un Dio che non solo lascia l’uomo libero, ma lo rende libero di ri­
spondergli, tra l’amore di un Dio che non solo ama l’uomo, ma lo
rende capace di voler bene a sua volta. Senza imporgli nulla, ma solo
ed esclusivamente per amore.
Credo che questo sia un punto molto importante: la «debolezza»
dell’amore di Dio diventa la prova dell’amore stesso divino. Il gio­
vane va educato a percepire la logica invincibile di questo paradosso,
a scoprire come la sua libertà sia posta in atto esattamente dall’«a-
more debole» di Dio, a capire come proprio questo modo di amare da
parte di Dio sia ciò che lo rende libero e, assieme, gli fa sperimentare
di essere profondamente amato da Dio. Proprio perché è libero di ac­
cettare o rifiutare quest’amore, infatti, egli è e deve sentirsi sincera­
mente amato da Dio!

c) La follia della fede

Tale cammino è già fede, come esperienza di amore e libertà, ma


non ancora fede piena. Perché la fede per natura sua non è solo logica
lineare confermata dall’esperienza o calcolo razionale di conti che
devono per forza tornare, e in ogni caso essa implica il superamento
dell’evidenza umana e l’ingresso in un mondo in cui funzionano
un’altra logica e un’altra evidenza, come abbiamo accennato, quelle
della consegna di sé nelle mani di un Altro.
Ma tale consegna, aggiungiamo ora, può arrivare al punto da
sembrare anche folle dal punto di vista umano, anzi di per sé lo è
sempre, perché chi si consegna nella fede non ha certezze che gli
vengano da riscontri e conferme personali, anzi, non ha altre garanzie
al di fuori della parola e della promessa di Dio. E dunque fa
un’operazione che non solo non viene tanto naturale all’uomo, ma
che e rischiosa e imprudente per l’uomo portato a controllare e verifi­
care i suoi passi, perché spesso va e chiede di andare oltre Je capacità
del singolo e forse anche contro un certo buon senso... È come un
esser sospesi nel vuoto, senza sentirsi la terra sotto i piedi.
La fede è tutto ciò, e solo una fede fatta di follia può aprire il
giovane verso l’opzione di consacrazione. Potremmo addirittura dire
che la scelta di consacrarsi è parte ed espressione di questa follia. Il
formatore non deve aver paura di inoltrare il giovane per questa stra­
da, altrimenti tradisce, con la sua falsa prudenza, lo scopo della for­
mazione religiosa e lo stesso formando.
Non si fratta, intendiamoci, di compiere o far compiere cose
strane, di mandare i nostri giovani a piantare i cavoli con le radici in
su (che tanto non ci vanno...), ma di approfittare di ogni circostanza
per far comprendere che una certa logica naturale è insufficiente per
capire Xdisegni di Dio, che la vita consacrata è ben misera cosa se
non ha il coraggio di saltare la misura razionale, che la pretesa di
comprender tutto prima di decidersi ad agire e a obbedữe o la pretesa
che tutto sia chiaro e convincente è di fatto riduttiva e mortificante la
libertà umana.
Quale futuro, per altro, si offre a un giovane che non viene mai
provocato ad andare al di là del calcolo umano apparentemente pru­
dente, in realtà pauroso, mai folle e appassionato? E a che serve, in
realtà, nella Chiesa e nel mondo una vita consacrata che non sappia
esser folle per Cristo?
Quante volte, di fatto, di fronte allo zoccolo duro di una vita
consacrata che chiede oggi come non mai una rude aratura, religiosi
già allevati nel culto del giardinaggio un po’ sofisticato, o nel mito
neoilluministico della ragione quale criterio sommo di vita, pretende­
ranno poi usare la ragione stessa o il proprio punto di vista come
schema o misura entro cui tutto deve per forza rientrare: voti, vita
comunitaria, esigenze apostoliche, perfino richieste di Dio..., tutto
perfettamente in linea con il calcolo razionale e al di fuori di ogni
«follia credente»!
Prima o poi, allora, soffocati dal loro stesso perbenismo o
dall’eccesso di prudenza (o di paure), saranno costretti a scoprire po­
vertà e miseria di questo schema; e loro stessi si sentiranno deboli e
incapaci quando la vita chiederà loro di andar oltre tale misura, 0 fru­
strati e delusi quando la misera logica del calcolo renderà grigia e
monotona, piatta e mediocre la loro esistenza.
d) I sentimenti del Figlio
Scopo della formazione, come sappiamo, è l’avere in sé gli stessi
sentimenti del Figlio, anzi, nel nostro progetto questa espressione
rappresenta il nucleo centrale del modello teologico-antropologico di
un progetto di formazione.2

2 Cf. Vita consecrata, 65.


Ed è pure l’obiettivo dell’opzione credente: la fede, nella sua
espressione più matura, è scelta di conformazione, non semplice ap­
partenenza ideologica; e l’uomo spirituale è proprio quello che tende
alla totale identificazione con il Figlio, totale nell’intensità dell’amore e
nell’estensione a ogni aspetto del vissuto, fino ai sentimenti, appunto.
Appare ancora una volta evidente il legame tea fede e amore e
pure tra fede e libertà, ed è importante che nella formazione questi
raccordi siano concretamente operativi, sul piano ideale e metodolo­
gico. Anzitutto l’azione educativa deve Iĩúrare esplicitamente a
un’autentica trasformazione del cuore, nel senso biblico e dunque
pieno del termine, perché esso impari ad amare alla maniera di Cristo.
C’è formazione solo là ove avviene una tras-formàzione.
Qui la dimensione spirituale si salda con quella umana, perché la
contemplazione della parola e dell’esempio del Figlio dovrebbe pro­
gressivamente purificare e conformare ogni pensiero, motivazione,
atteggiamento, emozione, gesto... nella vita del giovane, mentre - a
sua volta - il processo psicologico di purificazione-conformazione
dovrebbe consentire di penetrare sempre più nel mistero del Figlio
che si dona per amore consegnandosi al Padre e ai fratelli.
Il cristiano, in quanto tale,

«è un uomo o una donna che immette la sua storia di persona tutta


intera nel Cristo: si riveste di lui. Vestire Cristo è entrare nella sua
esperienza, condividere la sua amicizia, vivere la sua vita, portando­
gli intera la propria, senza alcun distacco dalla concretezza della car­
ne (in senso biblico) in tutte le sue dimensioni: fisica, del tempo in
cui si vive, dello spazio che si occupa, dei sentimenti, le passioni, le
realtà in cui si è calati. È questa came totale, la persona nella sua sto­
ria e quella cui partecipa, che veste Cristo, diviene un solo corpo con
lui, Gesù di Nazaret, l’uomo Gesù».3

Se questo è il «cristiano» qualunque, tanto più è colui che è chia­


mato per vocazione a una particolarissima identificazione con il Figlio!
La formazione diventa così operazione molto specifica e anche
radicale, concreta e assieme globale, soprannaturale e pure umanis­
sima; non s’accontenta di modellare i comportamenti o i gesti esterio­
ri, ma va in profondità, tocca il cuore e ciò che c’è di più umano nel
giovane, proponendogli il massimo: i sentimenti di Gesù, i desideri di
Dio. È difficile che questo giovane non si senta provocato e attratto
da una prospettiva simile, anche un certo giovane di oggi, pur diffi­
cile da muovere denteo, da com-muovere.

3 ELIANA m onaca, «Differenze sconfitte», in Avvenire, 16 ott 1996.


Importante sarà, allora, proprio per muovere insieme tutto l’or­
ganismo interiore, mostrare il nesso tra la follia della fede e la com­
mozione del cuore, o tra la stoltezza della croce e la libertà di aver in
sé gli stessi sentimenti del Figlio: nesso non solo teologico-spirituale,
ma pure psicologico-pedagogico; è solo il folle che si commuove,
mentre il prudente calcolatore noil conosce passione; è solo lo stolto
per Cristo che non si vergogna di mostrare il suo entusiasmo per lui,
non il saggio di questo mondo che deve rispondere ai gusti e alle
preferenze del pubblico...
E allora la formazione diventa davvero anche cammino di liber­
tà, semplicemente perché... al cuore non si comanda, ma si può e si
deve indicargli una strada lungo la quale possa esprimersi al massimo
grado delle sue potenzialità.
La via della conformazione a Cristo e del provare i suoi stessi
sentimenti diventa anche la strada lungo la quale il cuore umano sco­
pre la possibilità di voler bene in maniera assolutamente impensata,
addirittura divina; o scopre la sua verità dentro la verità di Cristo, e
dunque anche la sua libertà.
Perché questo tipo di amore non ha confini.
Capitolo dodicesimo

IL DINAMISMO DELLA FEDE

L’uomo interiore o spirituale, che vive in ciascun credente, cre­


sce e matura come un organismo vivente, con un nutrimento ade­
guato e un processo di sviluppo che segue un itinerario preciso. Cre­
dere, in altee parole, è sempre processo articolato e complesso, non è
mai atto estemporaneo e improvviso, ma dinamismo che chiama in
causa tutto l’uomo che pensa e sogna, ama e soffre, s’inteưoga e du­
bita, si fida e s’affida...
E se è vero che, come lascia intendere Gesù nel Vangelo, la no­
stra fede qui su questa terra sarà sempre povera, più piccola di un
quasi invisibile granello di senapa, nondimeno è importante che im­
pariamo come farla nascere e crescere. Diventasse come quel granel­
lino, sempre secondo Gesù, sarebbe capace addirittura di spostare le
montagne, tanta è la potenza di chi crede!
Eppure, dato che le montagne sono ancora tutte ordinatamente al
loro posto, viene il dubbio che non vi sia, nella nostra formazione,
un’autentica educazione alla fede, come se questa fosse data per
scontata nei nostri giovani, che rischiano così di venire «addestrati» a
vivere poveri, casti e obbedienti senza saper bene e fino in fondo per­
ché e per chi, o diventano osservanti, ma entro una logica solo uma­
na, di basso profilo.
Di fatto sono credenti, per quella fede che hanno provvidenzial­
mente ricevuto dalla loro famiglia: fede - intendiamoci - di ottima
fattura, sana, e che però in tanti casi... non è cresciuta ulteriormente,
come non fosse mai divenuta adulta o non avesse mai affrontato crisi
e fasi di maturazione. Così, finché le cose vanno bene e non ci sono
particolari problemi tale fede «materna» può anche esser sufficiente,
ma quando insorgono difficoltà e ci sono scelte difficili da fare, e non
c’è più un certo ambiente protettivo da certe provocazioni, allora si
scopre, non senza sorpresa, quanto povera fosse la personalizzazione
dell’atto credente e poco incisiva nelle decisioni da prendere. Quante
crisi precoci di giovani consacrati, magari solo poco tempo dopo la
professione perpetua, stanno a dimostrare drammaticamente tutto ciò!
Il vero sospetto innescato da queste situazioni critiche, non di
rado culminanti in abbandoni, in particolare, è che, spesso, ciò che
viene a mancare o a non essere ben definito sia un metodo educativo
alla fede, l’indicazione di un percorso che porti all’assenso credente
o che lo rinforzi in continuazione lungo le fasi della vita.
È proprio ciò che voffemmo qui di seguito propone. Senza pre­
sunzione alcuna, visto che la fede è dono che viene dail’alto, ma
partendo dal presupposto che, se essa abbraccia tutta la vita e tutto
l’uomo, un’autentica educazione alla fede non può essere un fatto che
riguarda solo una fase o una dimensione dell’esistenza.

l ể Fede e vita passata

La fede non nasce dal nulla o da un’adesione a occhi chiusi a


una verità che ci supera o a un mistero per altro irraggiungibile, ma
da una constatazione, o da una lettura in profondità della propria sto­
ria, che va al di là del dato subito visibile per cogliere dietro a esso
una presenza che gli dà un significato, una logica di coerenza e prov­
videnza...
È il modello, che già conosciamo, storico-autobiografico.

a) Modello storico-biblico: l ’autobiografia

Così il cristiano crede nella paternità-maternità di Dio: perché


vede e verifica tale paternità-maternità nella sua propria esistenza. La
vita passata diventa allora il luogo di questa lettura illuminata dalla
fede, ma che porta anche a una maturazione nella fede stessa; po­
tremmo addirittura dire che la propria storia è la prova più convin­
cente, perché la più personale, della presenza di Dio e di un Dio non
neutro e... uguale per tutti, ma con un volto, un atteggiamento, una
parola, un gesto che il credente sente rivolti a sé, inconfondibili e ir­
ripetìbili, così come inconfondibile e irripetibile è stata ed è
l’esistenza di ogni individuo.
Questo esercizio della lettura del vissuto, come abbiamo già vi­
sto, è importante per la conoscenza che il soggetto deve avere di sé,
per l’integrazione del suo passato e di certe ferite di esso, per
l’apprendimento di quella memoria biblico-affettiva che consente di
ricordare ciò che Dio ha fatto nella storia dell’uomo attraverso tante
mediazioni umane e in ogni circostanza di vita, anche quelle più do­
lorose.
Ora è il momento di mettere a tema questa lettura credente in
modo sistematico e con l’ausilio di strumenti adeguati, strettamente
connessi con l’oggetto materiale e formale della fede cristiana.
I. Categorie bibliche
Questa lettura e rilettura della propria storia di salvezza non ha solo
un finale o centrale punto di riferimento, come potrebbe essere l’idea-
evento della salvezza, ma delle precise chiavi di lettura, che sono, in par­
ticolare, altrettanto precise categorie bibliche. Tali categorie consentono
di cogliere nella propria vita il compimento di un’autentica storia di sal­
vezza come si è articolata lungo i giorni dell’esistenza umana, nella quale
Dio ha agito, come un tempo agì con il popolo di Israele.
Categorie bibliche, infatti, sono quegli eventi centrali della vi­
cenda di Israele, la storia-madre di ogni storia di salvezza, che il cre­
dente impara progressivamente a riconoscere anche nella misura pic­
cola e limitata della sua esistenza: l’elezione, la prova, la caduta, la
schiavitù, la lotta, la liberazione, il mar Rosso, il deserto, la manna, la
terra promessa...
Leggere così la vita vuol dire riscoprire le innumerevoli sedu­
zioni e attenzioni divine di cui si è Stati oggetto.'Ma vuol dire so­
prattutto dispone di piste orientative, come delle direttrici di marcia
che, senza nulla togliere all’assoluta originalità di ogni vicenda teưe-
na, consentono di fame una lettura coerente e integrale, mirata e
provvidenziale, in cui tutto concorre a evidenziare l’ostinata volontà
di salvezza divina.
La Bibbia diventa allora lo sfondo iconico-interpretativo della
propria esistenza, come se quest’ultima fosse già contenuta e raccon­
tata dalla storia di Israele. Mentre le categorie bibliche offrono la
chiave esegetica che permette di intendere e interpretare ogni fran­
gente di vita terrena.
II. Categorie psicologiche
Ma è importante usare anche alcune categorie psicologiche in
questa lettura-scrittura del vissuto. Intendiamo, per categorie psicolo­
giche, quei parametri interpretativi che consentano di leggere e acco­
gliere in modo realistico e significativo, coerente e integrale gli
eventi del proprio vissuto.
Qui ci riferiamo in particolare alle categorie della riappropriazio­
ne e delVintegrazione. Attraverso queste chiavi di lettura il soggetto
- riconosce, anzitutto, come parte di sé e del mistero dell’io quanto
è accaduto nell’avventura esistenziale, anche se di segno negati­
vo, non lo nega né lo rimuove dalla memoria; ma neppure lo su­
bisce come un destino irreparabile;
- bensì cerca di coglierne il senso profondo, spesso non subito
comprensibile, né identificabile con il senso apparente, e comun­
que presente oggettivamente nell’evento in questione;
- fino al punto di dargli un significato originale, in modo libero e re­
sponsabile, coerente con le proprie convinzioni e con la propria fede,
e dunque anche soggettivo, intelligentemente soggettivo. E proprio
con questo atteggiamento che l’uomo manifesta la sua libertà e cre­
sce nella fede: l’uomo è libero fino al punto di dare significato al suo
passato, il quale non è mai passato del tutto, ma è lì, sempre presen­
te, che attende di ricevere un significato. La fede esprime esatta­
mente tale libertà responsabile, segno della dignità altissima dell’uo­
mo, il quale solo a questo punto, però, diventa soggetto della sua esi­
stenza, quando si riappropria del suo esistere già trascorso, comprese
le eventuali ferite, inserendolo in un contesto armonico di significati.
E questa è anche integrazione: lettura della totalità della vita
all’intemo di una totalità di significato, ovvero, porre tutta la propria
vita entro il tutto di Dio, nella «verità tutta intera», lasciandola illu­
minare da quell’unica realtà capace di spiegare ogni realtà. Anche
eventi fortemente (e oggettivamente) negativi possono assumere in
tal modo una valenza positiva, perché è il soggetto che gliela ricono­
sce e attribuisce, in conformità con i suoi valori e in coerenza con il
suo impegno di vita.
È proprio in tal senso, come dicevamo nel capitolo precedente,
che l’uomo può anche non esser responsabile del suo passato e delle
conseguenze negative di esso, ma è m ogni caso responsabile dell’at­
teggiamento che assume ora di fronte a esso, 0 del significato che li­
beramente gli attribuisce.
D’alto canto, raramente gli eventi della vita si lasciano subito in­
terpretare, appena accadono, nel loro senso più profondo, «la spiega­
zione di una vita è la storia stessa di quella vita»;1ovvero, molte volte è
il séguito degli avvenimenti successivi che dà senso e coerenza a qual­
che evento incomprensibile o difficile da interpretare e accettare.
Anche la fede non fa eccezione a questa norma: è la lezione che
ci viene da quella «pellegrina nella fede» che è stata Maria, che
c’insegna a «custodire in cuore» quanto è avvolto dal mistero, nella
certezza serena che veưà il momento della luce. In realtà questa cer­
tezza è parte di quella verità consolantissima che è come il versetto
responsoriale di quel lungo salmo personale che è la propria biogra­
fia: Dio mi è sempre stato padre e madre in ogni istante della vita, e
continuerà a esserlo...

1M. POMILIO, Il quinto evangelio, Milano 1968, 222.


È la legge della «costanza dell’oggetto»,2 secondo la psicologia,
o della fedeltà di Dio, narrata in ogni storia umana. Il giovane che
impara a leggere così il suo vissuto, cresce nella fede e apprende al
tempo stesso un metodo prezioso per esser sempre più se stesso, sog­
getto del suo esistere e oggetto dell’amore tenerissimo dell’Eterno,
sempre più credente e sempre più uomo, nell'intreccio fecondo delle
dimensioni umana e spirituale.
Cerchiamo di riassumere con un quadro grafico la ricchezza di
questo modo di leggere nella fede la propria storia.
Tav. 4: M odello storico-biblico: la memoria credente

MEMORIA AFFETTIVA MEMORIA BIBLICA

\7 \7
Categorie bibliche:
Categorie psicologiche: gli eventi centrali
riappropriazione e integrazione della storia di Israele

MEMORIA
BIBLICO - AFFETTIVA

La memoria affettiva si La memoria biblica di­


lascia toccare-curare dal­ venta anche affettiva
la memoria biblica

La vita come storia


La fede come memoria

2 Circa questa teoria cf. o. KERNBERG, Teorìa della relazione oggettuale e cli­
nica psicoanalitica, Torino 1970, 145.
2. Fede e vita presente

Ma non basta guardare al passato per alimentare la fede. Esser


credente significa affrontare ogni situazione con la certezza ili cuore
di poter contare su Dio, vuol dire investire nell’oggi il ricco patrimo­
nio della fede, con tutti i rischi che ciò comporta.
D’altro lato la fede va messa in atto in qualsiasi momento della
vita, non esiste frangente in cui possa esser posta fra parentesi e con­
siderata «vacante».
È neH’ordinarietà del quotidiano che la fede trova il suo am­
biente e pure il suo alimento naturale. In tal senso, allora, nella for­
mazione iniziale il giovane va educato a una fede che non si esprima
come tale solo o soprattutto nelle grandi circostanze della vita, quan­
do occorre fare scelte particolari, ma una fede «feriale», capace di
tessere sempre più la trama dei giorni, di unire ira loro le attività
quotidiane, come stile ordinario di vita, che le dà colore e calore.
Propongo, per questo tipo di formazione, due metodi che ho tro­
vato e trovo molto utili nella formazione (sia iniziale che permanen­
te), e di cui ho già parlato separatamente in alcune pubblicazioni.3
Qui l’aspetto relativamente originale è dato dalla scoperta e proposta
della loro complementarità.

b) Modello mariano: aspetto genetico

n primo dinamismo è quello che possiamo chiamare mariano,


poiché Maria ne è l’immagine idealeỄIndica l’aspetto genetico della fe­
de, che nasce dalla Parola e si realizza nell’evento, e dice anche il pote­
re della Parola-evento di unificare la vita e i dinamismi vitali della per­
sona. E questo potere che il giovane deve sperimentare su di sé.
In concreto ciò vorrà dire un particolare modo di vivere il rap­
porto non solo con la Parola in genere, ma in particolare con la Paro-
la-del-giomo.
Ogni giorno, infatti, ci è data una Parola, come la manna che
nutrì un tempo Israele, e che nutre oggi nella liturgia del giorno la
comunità dei credenti.
Questa Parola va attesa e desiderata, anzitutto, con la stessa an­
sia con cui le sentinelle aspettano il mattino (Sai 119,148); e poi ac­
colta e riconosciuta dal giovane, nella meditazione mattutina, quale

3 Cf. A. C en on i, N ell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consa­


crato, Bologna 1995, 160-163; IDEM, vita consacrata. Itinerario fonnativo lungo la
via di Emmaus, Cinisello B. 1994, 262-265.
rivelazione progressiva e quotidiana della propria identità, come Ma­
ria accoglie le parole dell’angelo e si riconosce in esse (cf. Le 1,29-
38); di questa manna, data «per la razione di un giorno» (Es 16,4),
egli deve nutrirsi con avidità, quasi divorandola, come il veggente
deir Apocalisse che ne sperimenta assieme dolcezza e amarezza, bel­
lezza e violenza (cf. Ap 10,8-11).
Ma la lectio non s’esaurisce nella meditazione mattutina, essa
continua lungo il giorno per il credente che impara a custodire e con­
servare come un tesoro la Parola, in tutto quel che fa, per essere a sua
volta custodito e posseduto dalla sua potenza, ancora come Maria che
conserva in cuore anche ciò che la sua mente non afferra immediata­
mente (cf. Le 2,19.51); e allora sarà importante che egli rimanga ben
piantato in essa, affinché la Parola sia la radice di ogni gesto, parola,
pensiero, progetto...; che apprenda a discernere sempre tutto, anche
l’imprevisto, alla sua luce per conoscere e imparare a desiderare i de­
sideri di Dio.
A questo punto, lentamente e sommessamente, la Parola si com­
pie nelle cose di ogni giorno, un po’ come si è compiuta nel seno di
Maria, non certo in modo automatico e subito visibile; e allora è ne­
cessario che il giovane, al termine della giornata, riprenda la Parola-
del-giorno per riconoscere e contemplare i segni della sua «incarna­
zione», per quanto piccoli e discreti, per renderne grazie al Padre, e
per scoprire, nell’esame di coscienza, quanto in sé ha impedito questo
pieno compimento della Parola stessa.
Così la giornata, la giornata qualsiasi, non solo progressivamente
s’unifica attorno alla Parola, ma diventa grembo, grembo mariano,
che accoglie e assieme partorisce una Parola sempre nuova di Dio;
mentre il giovane impara a costruire la sua unità di vita attorno alla
Parola e a una Parola ogni giorno diversa.
Così nasce e rinasce in continuazione la fede, che fa nuova la vita
e rende ogni giornata «giorno che ha fatto il Signore» (Sal 118,24).
È un esercizio lungo e paziente, a volte sembra anche infruttuo­
so, ma se il nostro giovane insiste con umiltà testarda e disponibilità
cordiale la Parola-evento si compie nella sua vita unificandola, e
rinforza la sua fede.
Rendiamo anche qui con un’immagine espressiva il senso di
questo modello mariano della crescita nella fede.
Tav. 5: M odello m ariano: la «ragnatela» d ella P arola-del-giorn o negli eventi
quotidiani

c) Modello paolino: aspetto dinamico


Il secondo dinamismo, o esercizio che contribuisce a rendere
forte la fede, lo possiamo deduưe dall’esempio di Paolo, e dal suo
stile di credente intraprendente e operoso, che vive la fede come un
fatto dinamico, come passione che investe con la sua energia ogni
azione. Tale modello esprime bene, infatti, l’aspetto dinamico della
fede, la sua forza che dà energia e sostanza al vivere umano.
Nell’opzione credente, infatti, vanno distinte due componenti:
una statica e l’altra dinamica. Quella statica è legata alla fede come
atto di adesione, soprattutto mentale, a un insieme di verità rivelate.
Tale adesione, una volta data e se non è rimessa in questione da
eventi fortemente contraddittori e domande altrettanto inquietanti,
permane nel tempo, come un sottofondo interiore che accompagna la
vita e s’identifica con la persona, quasi facesse parte della sua struttu­
ra. Non si può escludere che cresca, ma se è adesione solo mentale è
più frequente che resti identica a se stessa. Garantisce dunque una
certa tenuta, ma a livelli non eccelsi.
La componente dinamica è connessa invece a tutte quelle opera­
zioni che esprimono la fede e ne dicono la natura complessa e varie­
gata; sollecita un’adesione non solo mentale, ma estesa anche alle al­
tee componenti psichiche (affettive e volitive) e dunque pone almeno
le premesse per una fede che si lascia provocare dalla vita e cresce
con essa. Una fede «in movimento» e perciò sempre più coraggiosa e
convincente. Se la componente statica sottolinea la dimensione og­
gettiva del credere, la componente dinamica enfatizza maggiormente
quella soggettiva, con i rischi, oltre ai vantaggi, che ciò comporta. Il
punto delicato, infatti, e forse non sempre garantito sufficientemente,
di questo modo di intendere la fede è che, nella varietà e intensità
delle provocazioni, resti identico il contenuto della fede, o il nucleo
delle verità credute non subisca alterazioni accomodanti.
Il segreto per credere in modo autentico e crescere armonica-
mente nella fede è conciliare in modo puntuale e creativo le due
componenti, statica e dinamica, in una osmosi salutare, poiché en­
trambe sono indispensabili. Questa composizione costituisce pure
l’esercizio cui sottoporre la fede del giovane, che può essere squili­
brata o sul versante statico o su quello dinamico. C’è chi dice che un
tempo la fede rischiava di essere troppo statica, oggi invece il peri­
colo sarebbe quello opposto. Personalmente preferisco credere, più
che agli scarti storico-generazionali, alle differenti armonie e disar­
monie che si possono creare nella stessa persona, posta di fronte alla
decisione di credere, a qualsiasi generazione o periodo storico ap­
partenga. La fede e la fatica di credere restano sostanzialmente le
stesse lungo i tempi. L’importante è che vi sia un’intelligente propo­
sta educativo-formativa.
In concreto, crediamo che l’atto di fede si esprima, per natura
sua, e debba esser provocato a esprimersi, in alcune articolazioni,
come delle dimensioni proprie dell’atto e del dinamismo del credere,
distìnte fra loro e pure strettamente collegate. Tali articolazioni sono:
- la consapevolezza grata della fede come dono,
- la fede come preghiera e celebrazione,
- la fede vissuta e tradotta in opere,
- la fede provata e sofferta,
- la fede studiata e compresa,
- la fede condivisa coi fratelli credenti,
- la fede annunciata a tutti.
In altre parole: fede ricevuta - fede pregata - fede personalizzata
- fede combattuta - fede studiata - fede condivisa - fede annunciata.
Credere vuol dire mettere in atto tutte queste operazioni: l’una è le­
gata all’altra in un rapporto di reciprocità complementare, tutte as­
sieme iưobustiscono l’atto di fede e rendono coerente la vita ed effi­
cace la testimonianza del credente; se ne manca qualcuna l’atto di fe­
de s’indebolisce e l’organismo credente diviene monco.
Nella formazione è necessario facilitare e provocare questo rac­
cordo, stimolando il giovane a pregare-celebrare ciò che crede, a tra­
durlo in gesti concreti e originali, a lasciare che esso «provi mente e
cuore» (Sai 7,10), a cercare di capirlo con la fatica dello studio serio
e sistematico, a condividerlo in comunità, ad annunciarlo con parole
proprie e facili da capire nella catechesi.
È sempre lo stesso contenuto, allora, che non è solo creduto con
la mente ma contemplato, gustato, raccontato, scrutato, spremuto nel­
la sua ricchezza, forse anche sofferto..., qualcosa che si salda con
tutta la vita; fede come la valuta pregiata che circola liberamente
nelle diverse aree della personalità, la dracma da ritrovare in conti­
nuazione e da metter sempre più al centro dell’esistenza.
Allora, davvero la componente statica si salda progressivamente
con quella dinamica e non vi sono più squilibri di sorta. Anzi, po­
tremmo dire che in tal modo modello genetico-mariano e dinamico-
paolino s’incontrano in un disegno che riafferma con forza
l’unitarietà e la complessità del credere, e mentre rende forte la fede
rende forte anche il credente.4
La fede, di fatto, è forte e bello è credere se è «tutto» l’uomo che
crede, con il cuore, con le mani, coi piedi, con la fantasia, di giorno e
di notte, nell’abbondanza e nell’indigenza, nella vita e nella morte...
Credere così è restare ed essere sempre più «giovani»!
Traduciamo in immagine visiva anche il modello paolino, per
evidenziarne gli elementi portanti.
Tav. 6: M odello paolin o: cen tralità e circolarità d e ll'a tto d i fe d e

4 A tal proposito è interessante notare come fede in ebraico sia espressa col ver­
bo che è presente nel nostro amen, verbo che significa «essere stabile, fondato» su
una roccia sicura (cf. G. RAVASI, «n ponte sul fiume», in Avvenire, 22 gen 1998).
Si crede con il cuore, con la mente e con la volontà a una pre­
senza di Dio che s’è manifestata nella propria storia passata, che dà
significato a quella presente, anzi nasce e rinasce sempre nuova, pure
compiendosi, in essa, e che suggerisce un modo preciso di guardare il
futuro, anzi la certezza di tale presenza diventa chiave di lettura della
vita che è ancora da vivere, criterio delle scelte e speranza nelle prove
che attendono il credente.

«La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza» (Peguy).

Vediamo allora come far nascere nel cuore del giovane questa
fede-speranza che abbraccia il futuro.
È ovvio che i modelli finora presentati costituiscono già un’in­
dicazione valida e fondamentale in tal senso. Ma pensiamo di poter
ancora cercare e trovare una proposta di crescita nella fede che di­
sponga a guardare al futuro nel modo tipico di colui che sa che tutto è
nelle mani di Dio, e non si turba; né attende che la vita gli rotoli ad­
dosso, ma le va incontro con l’ottimismo e il senso di responsabilità
di chi sa che Dio è fedele.
D ’altro canto i vari modelli che stiamo presentando stanno a dire
che dinanzi allo stesso dono dello Spirito diverse sono le possibilità
dell’uomo di lasciarsene possedere. Né è detto che il formatore debba
sceglierne una con esclusione delle altre, poiché queste diverse pos­
sibilità non s’escludono tra di loro, ma possono essere usate in modo
convergente e complementare, dunque assieme.

d) Modello evangelico: la tensione cristocentrica

Cerchiamo il senso di questo modello.nel Vangelo, in brani ove i


verbi, e la prospettiva di vita, sono al futuro, e stanno a indicare come
una consegna definitiva, nella speranza, della propria realtà nelle ma­
ni e nel cuore dell’Eterno.

I. «... lo faremo e udremo» (Es 24,7)

Quando Mosè propone la Legge ai figli di Israele, nel momento


più solenne e fondante della loro storia, costoro rispondono in manie­
ra un po’ singolare, secondo l’interpretazione di Lévinas: «Quanto il
Signore ha ordinato, noi lo faremo e udremo».
Singolare è che il fare sia anteposto all’udire o alPintendere, o
che l’idea di una prassi esistenziale, che normalmente fa séguito alla
conoscenza-convinzione, sia collocata prima di essa; anzi, l’atto con
cui gli ebrei accettano la Torah non solo precede la conoscenza, ma
sembra essere mezzo e via alla vera conoscenza.
In realtà, l’ordine in apparenza rovesciato è, al contrario, fonda-
mentale per comprendere la natura della fede e indirizzare in modo
coưetto quella del giovane in formazione. Commenta Lévinas:

«L’adesione al bene per coloro che dissero: “Faremo e udremo”, non


è il risultato di una scelta tra il bene e il male, essa viene prima... La
relazione diretta col vero... - voglio dứe, l’accoglimento della Rive­
lazione - può esser unicamente relazione con una persona, con
l’altro. La Torah è data dalla luce di un viso. L’epifania dell’altro è
ipso fa cto la mia responsabilità nei suoi confronti: la visione dell’altro
è fin di ora un’obbligazione nei suoi confronti... La coscienza è
l ’urgenza di una destinazione che porta all’altro, non l ’etemo ritomo
su di sé»,5

e così è la fede.
Due cose almeno vanno sottolineate di questa originale lettura. Il
giovane va esercitato a vivere e praticare una fede che non anteponga
mai in modo rigido la sua comprensione comQconditio sine qua non
per agire, o - altrimenti detto - la sua convinzione soggettiva non può
diventare condizione assoluta per accogliere una mediazione o
un’obbedienza, o per fare una certa scelta. E questo sia perché la fede
suppone il ricorso a un’altea logica che non sia esclusivamente uma­
na, a criteri non solo terreni, sia perché è l’assenso alla prospettiva
credente che ne fa comprendere la ricchezza, è solo quando uno deci­
de di entrare in quell’altea logica che ne può assaporare il gusto e, an­
cor più, è solo quando uno di fatto vive secondo quella logica «altra»
che ne scopre l’ampiezza di senso e di orizzonti che spalanca alla sua
persona.
La realtà della croce non è perdente, ma ricca di vita, però uno la
percepisce come tale solo dopo che l’ha abbracciata; la rinuncia per
amore non è deprimente, ma condizione per desiderare i desideri di
Dio, però questo viene colto solo in forza di un cammino spesso lun­
go e per tappe progressive. Diversamente, finché il giovane sta ad
attendere o pretendere di veder tutto chiaro e convincente, non entra
mai nel suo futuro, e così diventa vecchio senza aver vissuto in pie­
nezza né aver mai goduto della libertà giovane della fedeế

5 E. L é v i n a s , Quattro letture talmudiche , Genova 1982, 67-97.


Il secondo aspetto che rende davvero interessante l’interpreta­
zione di Lévinas è l’idea della fede come «visione di un volto», «re­
lazione o destinazione che porta all’Altro», «obbligazione e respon­
sabilità nei suoi confronti»; molto più, dunque, che semplice ideolo­
gia basata sull’evidenza convincente degli argomenti.
Il nostro giovane va educato alla coscienza di questa relazione
con l’Altro che lo costituisce nell’essere, lo rende capace di risposta,
respons-abile, prima ancora che egli'possa chiedersi o capire cosa de­
ve fare, e diventa destinazione di ogni frammento di vita e del suo es­
sere. Grazie a questo rapporto l’uomó diventa se stesso e non teme
più il futuro; grazie alla visione di questo volto la fede non è più solo
idea, ma diviene relazione, palpito vitale, dialogo con una persona
viva, incontro con lo sguardo di Dio che fissa la creatura amandola,
benedizione e fiducia...

n. «... Dà chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68)


Dopo l’evento gratificante della moltiplicazione dei pani e il di­
scorso «duro» di Gesù sul pane di vita, molti dei suoi discepoli «si ti­
rarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6,66).
La vita è un continuo partire e ripartire, coi distacchi e i rischi
che ogni partenza implica ma pure coi nuovi orizzonti e speranze che
ogni andare reca con sé. Anche i discepoli di Gesù sono posti dinanzi
a questa alternativa: o continuare a seguirlo o fermarsi, e Gesù stesso
li provoca a scegliere senza per nulla sminuire o addolcire la durezza
del suo discorso («Volete andarvene anche voi?»), correndo il rischio
di ritrovarsi solo, ma facendo anche appello alla libertà umana del
credente e del chiamato, contìnuamente tesa tra il chiarore e
l’oscurità del mistero divino.
È come una sfida costantemente riproposta da Gesù che da un
lato, mentre moltìplica i pani, dà un segno subito visibile e godibile,
venendo incontro a una certa attesa, ma dall’altro indica immediata­
mente un significato ulteriore, una prospettiva che supera l’attesa
precedente aprendo la vita a un futuro nuovo; sazia la fame ma per
mostrare subito un’altea fame; appaga il desiderio perché l’uomo im­
pari a desiderare di più, molto di più. Aver fede è proprio questo,
questo eterno giuoco di continui superamenti, come un’insopprimi­
bile tensione a protendersi in avanti, a spostare sempre più in alto il
baricentro della vita, o un pensarsi e proiettarsi in una dimensione
che entra sempre più nell’orbita di Dio.
Per questo credere significa andare, lasciare qualcosa per scopri­
re qualcos’altro, anche nei confronti di Dio che ogni giorno si rivela
sempre nuovo, e continuamente chiede di aprirsi all’imprevedibile
novità dei suoi doni, senza pretendere di possederli o di possedere
lui, il datore dei doni (il Dio di ieri, infatti, può esser l’idolo di oggi).
Credere è partire per una terra senza sapere dove (cf. Eb 11,8), eppu­
re spinti dalla sensazione di non poter assolutamente fare diversa­
mente e attratti dal mistero di quella teưa.
È esemplare l’atteggiamento provocatorio di Gesù, proprio per­
ché pone la domanda-sfida giusta al momento e nel modo giusto, do­
po aver mostrato lo scarto tra il pane teưeno e quello celeste, o per­
ché sa bilanciare sapientemente l’appagamento con l’inappagamento,
il cibo che sfama con il discorso duro da intendere, quasi creando una
situazione di «frustrazione ottimale» perché il corpo sazio non appe-
santisca lo spirito, impedendogli di sentire un’altra fame, quella del
pane di vita eterna.
Questo metodo è esemplare per l’educatore della fede, che deve
essere coraggioso e tempestivo nel poưe la provocazione adeguata,
ma solo dopo aver fatto toccare con mano la differenza tra l’appaga­
mento istintuale (che si brucia all’istante e si ripete sempre uguale a
se stesso) e la tensione spirituale (sempre nuova e mai del tutto appa­
gabile). Perché ogni situazione, anche la più gratificante (un’afferma­
zione dell’io, un’amicizia, un compenso affettivo...), non determini
un ripiegamento dell’io su di sé, ma divenga simbolo e richiamo di
un desiderio superiore e misterioso, che viene da Dio e ha Dio come
termine ultimo.
Ma esemplare è anche Pietro nella sua risposta, in quel suo istinti­
vo «Da chi andremo?», come a dke: «ma dove vuoi che andiamo? Ci
sono tanti “messia” in giro, pure capaci di far cose prodigiose o di sod­
disfare le attese per ottenere l’assenso della gente, abili giocolieri che
moltiplicano pani che non sfamano, grandi parlatori che ripetono parole
già sentite e scontate, falsi profeti che svendono un futuro privo di mi­
stero...; ma nessuno di costoro ha le parole della vita come quelle che
dici tu, parole che velano e svelano, che mi dicono la verità della mia
vita e assieme mi spingono a cercare ancora, parole che appagano il
mio bisogno di sapere ma ampliano a dismisura gli orizzonti del mio
vivere, parole nondimeno distanti e inquietanti, dure da capire e ancor
più da vivere, e pure vere e belle, parole che una vita intera non basterà
per capire e proprio per questo già saporose di eterno.
No, non ti seguo per la fame che mi sazi, ma per quella fame che
la tua parola mi ha fatto nascere dentro e che resta insaziabile. Stare
con te è respirare il mistero... Dove andare lontano da te, mio Signore
e Maestro, via, verità e vita? Io non so bene perché e so che sono solo
agli inizi del cammino, ma sento che andarmene da te vorrebbe dứe
andare alla deriva, abbandonare me stesso, non aver più alcun futuro,
perdermi... Vivere senza te non è più vivere!».
III. «... sulla tua parola getterò le reti» (Le 5,5)
Simone, sempre lui, ha faticato tutta la notte senza prendere
nulla, ma obbedisce all’invito del Signore di prendere il largo e calare
ancora le reti.
Pietro sa, da buon pescatore, che l’operazione non è tanto sen­
sata, ma ha appena ascoltato il Signore ammaestrare le folle, e pro­
prio quest’ascolto gli mette ora sulle labbra una stupenda proclama­
zione di fede: «... sulla tua parola getterò le reti».
Dopo il fallimento dei propri sforzi notturni, ecco la fiducia che
nasce da una parola nuova ascoltata e che apre la vita a un giorno e a
un futuro nuovo, quasi una scommessa nella quale l’esperto pescatore
gioca, anche di fronte alla folla, la sua reputazione.
Una scommessa sulla Parola! Siamo al cuore della fede e dell’e­
sercizio della fede. Il giovane deve essere portato a questo punto de­
cisivo, lungo un percorso che dalla prudenza conduce alla follia, o
dal fallimento porta alla fiducia.
E non dovrebbe essere difficile, perché non è infrequente l’espe­
rienza amara dell’inutilità dei propri sforzi nella vita spirituale o delle
proprie fatiche nell’apostolato. Spesso tale amarezza genera sfiducia,
e invece quest’esperienza è preziosa nella formazione, consente di
vedere quanto il soggetto sappia reagire con costanza e determinazio­
ne agli insuccessi o quanto sappia andare all’essenziale, ma soprat­
tutto permette al giovane stesso, ben guidato, di scoprile il perché del
fallimento, spesso legato, specie nell’età giovanile, a un’eccessiva
pretesa o a una certa sicurezza di riuscita, che rende eccessivamente
calcolatori e paurosi di fidarsi deir Altro.
C’è chi la chiama fase sub-liminale, perché la scoperta del pro­
prio narcisismo spirituale, della sottile voglia di essere belli e «servi
utili» dinanzi a Dio, è disorientante e frustrante, crea come un senso
di vuoto, si ha l’impressione di non capữe più da che parte andare,
come si fosse improvvisamente impotenti dinanzi a un idolo che ci ha
per lungo tempo tenuti schiavi senza che ce ne potessimo render
conto; abbiamo pescato tutta notte senza prender nulla...
Eppure è proprio questo «nulla» che può divenire terra feconda
per Fazione della grazia, è nella consapevolezza del proprio niente
che la fede può crescere, maturare e purificarsi continuamente. È pa­
radossalmente proprio questo niente, finalmente liberato da ogni pre­
sunzione e invadenza dell’io, che attira l’attenzione amorevole del
Signore, che su di esso può far risuonare in tutta la sua forza quella
Parola che dal nulla, un tempo, ha fatto tutte le cose, con l’invito, ora,
a «prendere il largo e calare le reti».
E, adesso come allora, la Parola «crea». Più precisamente: come
dal nulla e sul nulla dell’uomo Dio ha pronunciato la sua Parola, così
su questa stessa Parola l’uomo decide di costruire la sua vita, e sce­
glie per questo di «andare al largo e gettare le reti»; ovvero, di fare
qualcosa che umanamente è inconcepibile e strano, di non aver altee
sicurezze al di fuori della Parola, di rischiare di buttarsi e avventurar­
si in imprese ardite e forse «impossibili», in cui più che la certezza
della propria capacità vincente c’è la sicurezza del punto di approdo,
di qualcuno che attende e attira chi si fida di lui, e gli dà di cammina­
re addirittura sulle acque verso di lui, o di raccogliere una tal quantità
di pesci da romper le reti...
E la teologia del niente diventa ki teologia dell’abbondanza, pas­
sando attraverso, per così dire, la teologia del silenzio, dell’ascolto, della
Parola, del coraggio di agire in forza esclusivamente della Parola...; tutti
«saperi teologici» che non si studiano solo a scuola, ma che il nostro gio­
vane dovrebbe comunque imparare, sperimentare, convertire in «sapore
teologico», in gusto di Dio... per divenire credente.
La fede, infatti, si trova «al largo», dove «non si tocca», ma ove
confluiscono percorsi nùrati e guidati intelligentemente: il percorso
della fede, ad esempio, come visione di un volto e incrocio di uno
sguardo che porta a fare prima ancora o senza pretendere di capire; il
percorso di una fame o di una tensione che dall’appagamento teưeno
sale sempre più in alto e diviene fame di Dio e scoperta che solo lui
ha le parole della vita; il percorso, infine, che dall’esperienza del pro­
prio niente conduce al coraggio, dopo la «notte» degli sforzi inutili,
di andare al largo e gettare le reti solo «sulla sua parola».
Crescere nella fede, allora, richiede l’abbandono progressivo di
tutti i riferimenti «esterni» o meno centrali di identità (come, ad es.,
alle proprie doti fisiche 0 psichiche), e l’acquisizione della forma per­
sonale fissata dalla fede.

«Per questo invecchiare esige la capacità di fare progressivamente a


meno di tutti i riferimenti di identificazione, per essere semplicemente
se stessi, figli di Dio».6

6 c . M olari, «Chiedere perdono per imparare dalla storia», in Rocca, 2(1998), 56.
Tav. 7: M odello evan gelico: la fe d e com e relazione con un volto, accoglien za
d e l m istero e rischio d e ll'im possibile

“Lo faremo yadecom e..


e udremo...” relazione con un volto
---------------------►

^tedecom ^
“Tu hai le parole
di vita eterna...” accoglienza del mistero
---------------------►

^edecom e^
“Sulla tua parola
getterò le reti...” rischio dell’impossibile
---------------------►
PARTE QUINTA

FORMAZIONE CARISMATICA
Siamo alla terza dimensione del processo formativo, quella cari­
smatica.
Dovrebbe essere quella che fa da sintesi delle altre due. L’uomo
e il credente, infatti, non solo rivivono nel consacrato, ma in lui ritro­
vano una possibilità sorprendente e inedita di sviluppare in pieno le
rispettive potenzialità e di affermare la propria individualità.
Nel grande disegno paolino (cf. Ef 3,18), se le dimensioni umana
e spirituale rappresentano rispettivamente la profondità e l’altezza del
mistero-uomo, la dimensione carismatica dice l'insieme del progetto,
quella bellezza che è il fratto congiunto della maturazione ai diversi
Uvelli e che rende singolare e inconfondibile, «bello» di divina bel­
lezza, l’uomo stesso.
Ovvio che tale dimensione non potrebbe sussistere senza le altre;
chi si consacra a Dio è anzitutto un essere umano che conosce la sua
storia e le sue debolezze, il desiderio e la fatica di camminare nella
verità; ma è anche un credente che dentro quella storia e quella fatica
ha fatto in modo forse imprevedibile la conoscenza di Dio, scoprendo
che il suo amore «gli bastava». E se poi ha scelto di offrirsi total­
mente a Dio in una famiglia religiosa, l’ha fatto perché ha capito che
quell’amore non solo gli poteva bastare, ma... gli avanzava pure, al
punto di poterne divenire trasparenza con la propria umanità per tanti
altri che ne potessero godere.
Seguiamo allora lo stesso schema già proposto per le altre due
dimensioni: prima definiamo gli elementi architettonico-portanti e poi
quelli ermeneutico-dinamici.
Capitolo tredicesimo

LA DiMENSIONE CARISMATICA

Si fratta, anzitutto, nella formazione, di capire il significato fon­


damentale della consacrazione in quanto evento spirituale e umano,
che modifica profondamente l’esistenza alla luce di un carisma.1
Le linee formative che definiscono un progetto di consacrazione so­
no necessariamente legate alla natura di questo evento, come alTinter-
pretazione che si attribuisce al carisma, e non solo sul piano strettamente
spirituale-religioso, ma anche su quello più intrapsichico ed esistenziale.
Se Matti formazione significa, come abbiamo ricordato più sopra, propo­
sta di una forma come norma di vita, il carisma è esattamente tale forma
specifica con cui l’individuo è chiamato a identificarsi: è la forma della
sua fede, o il suo modo di essere credente, e la forma dell’immagine di
Cristo che deve riprodurre nella sua esistenza.
Proprio per questo la dimensione carismatica non può non mo­
dificare in profondità la vita stessa dell’uomo e del credente, anzi, ne
rappresenta il compimento e la suprema espressione di bellezza.
Vediamo allora, anzitutto, i presupposti di tale dimensione, quasi
i punti di partenza da cui parte e riparte contìnuamente un’autentica e
mirata formazione carismatica.

1. Presupposti
Abbiamo detto, nelle precedenti analisi, che l’uomo è capace di
trascendersi fino a cogliere l’amore di Dio e lasciarsi da lui amare,
per arrivare a voler bene addirittura come Dio entrando nel mondo
dei suoi sentimenti e desideri.
Il carisma di un istituto, in questa prospettiva,
1. è quel dono dall’alto che esprime il progetto che il Padre creatore
ha sulla creatura e attraverso il quale la creatura realizza la sua
specifica somiglianza con Dio stesso. Ogni carisma, infatti, sot­
tolinea un particolare aspetto della realtà divina manifestata nel
Figlio secondo la fantasia scapigliata e pacatissima dello Spirito.

1 Quando parliamo di «carisma» in questo capitolo e nei successivi, intendiamo


sempre il carisma di un istituto religioso, a meno sia indicato diversamente nel testo.
2. Ma il carisma ha anche una valenza umana e psicologica: esso è
infatti la rivelazione definitiva dell’io ideale o di ciò che una per­
sona è ed è chiamata a essere, è il suo «nome»; il carisma di un
istituto non ha dunque solo un significato spirituale o istituzio­
nale, ma, svelando quella parte dell’io che attende di essere rea­
lizzata indica anche la via dell’autorealizzazione personale; non è
indicazione generica di un modo di vivere o nobile tradizione o
valore solo ascetico, ma proposta dettagliata di vita che abbraccia
tutti gli aspetti dell’esistere, dandogli un inconfondibile colore, e
sempre secondo la fantasia incontenibile e ordinata dello Spirito.
3. Tale dono dall’alto è sempre anche dono da vivere con gli altri,
con quelli che portano lo stesso «nome» o che hanno ricevuto il
medesimo dono. Si vive in comunità perché il dono dello Spirito
crea vincoli più forti di quelli della carne e del sangue, ma anche
perché quel dono va necessariamente condiviso per esser meglio
compreso e vissuto, per dame una testimonianza più visibile e
convincente nella ricchezza dell’apporto originale di ognuno.
4. Infine il dono del carisma va vissuto per gli altri, non è in fun­
zione della perfezione propria 0 dell’istituto, ma è dato a qualcu­
no perché non manchi alla Chiesa alcun dono di grazia (ICor
1,7). Più in particolare ogni carisma esprime - attraverso una
specifica azione caritativa - l’amore e la provvidenza del Padre
per gli uomini, specie per i più bisognosi; ma contiene pure una
sapienza spirituale che il consacrato non può tenere per sé, ma
deve saper tradurre e porgere agli altri, perché tutti, idealmente,
la possano capire e ne godano e ne siano beati.
La consacrazione esprime tutto questo: è dono dall’alto per la
Chiesa e il mondo. Alcuni sono titolari o destinatari immediati di
questo dono, ma destinatario finale è ogni uomo e ogni credente. CM
si consacra a Dio non lo fa mai solo per se stesso, né si santifica pen­
sando esclusivamente alla sua perfezione...
Al tempo stesso ogni consacrato ritrova se stesso nel dono che lo
consacra; ovvero, nei contenuti che definiscono il suo carisma riscopre
i lineamenti che caratterizzano la sua fisionomia, le fattezze di quel
volto che il Padre ha creato e contìnua a creare in lui, il mistero della
sua identità «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3) e destinata a svelarsi
per la santificazione di tutti, nella Chiesa, corpo mistico di Cristo.

2. Contenuti
La formazione carismatica mirerà allora a evidenziare questi
«tratti nascosti», che corrispondono poi alle componenti classiche del
carisma: l’elemento mistico, ascetico e apostolico. Il tutto racchiuso
entro le due polarità tipiche del cammino di maturazione dell’io: il
senso di identità e il senso di appartenenza, il primo - in teoria - co­
me punto di partenza del processo, il secondo come suo naturale
punto di arrivo, ma in pratica destinati a interagire tra loro durante
l’iter formativo, ovvero a crescere insieme nello stesso individuo e
nella comunità.

a) Senso di identità
Anzitutto è fondamentale, nella formazione, chiarire il signifi­
cato funzionale del carisma. Non è saggio iniziare l’iter formativo il-
lusfrando subito tutto il contenuto del carisma di istituto, o pensare
che questa operazione sia sufficiente per avviare il processo di inter-
nalizzazione.
È stata l’illusione del dopo-concilio, quando si ritenne che sa­
rebbe bastato riscoprire il cansma delle ongini di ogni istituto per
provocare un salutare rinnovamento della vita consacrata. Cosa che
poi non avvenne (o almeno non nella misura sperata) probabilmente
anche a motivo di questa dimenticanza o disattenzione: non ci
s’accorse che, prima del contenuto, andava chiarito il senso, il signi­
ficatofunzionale del carisma stesso.
Per molti consacrati/e non era (o non è) abbastanza chiaro quale
sia il ruolo del carisma ai fini della propria realizzazione personale,
anzi, più di qualcuno viveva una certa confrapposizione tra le due
prospettive, come se il carisma fosse qualcosa di generico e solo spi­
rituale, dato o imposto a tutti come obiettivo livellante aspirazioni e
potenzialità individuali, poco definibile e poco definito al di là dei
soliti luoghi comuni, sempre più comuni e simili tra un istituto e
l’altro (altro livellamento), e dunque, in definitiva, poco amato e an­
cor meno riconosciuto come punto di riferimento della propria iden­
tità. A che serve scoprire il contenuto originario carismatico se prima
o assieme non si aiuta a riscoprirne la funzione nel contesto
dell’identità? A che serve studiare radici, storia, evoluzione, tradizio­
n i... del carisma se assieme non si capisce che tutto questo è anche la
propria radice e la propria storia, la propria identità e realizzazione, il
proprio presente e futuro?
La «disaffezione carismatica» è stato forse il primo grave sinto­
mo, un po’ nascosto, di una certa crisi della vita consacrata ancora
non del tutto risolta e sfociante nell’ormai nota e classica «crisi di
identità» o nel singolare fenomeno della «doppia identità»: quella ca­
rismatica, ufficiale e istituzionale, esibita come un bel vestito o pa­
tacca che dà lustro, e quella privata e personale, tutta costruita sulla
realizzazione delle proprie doti e talenti, curata e coccolata come un
amore segreto e proibito, e difesa a volte gelosamente come un asso­
luto, qualcosa di irrinunciabile. Con tutto il séguito di conflittualità,
aperta o sottile, tea queste due modalità di identificazione (o tra sin­
golo e istituzione)...
Ecco perché è importante fin da subito, nella prima formazione,
presentare il carisma nella sua verità e funzione se non si vuole che
diventi finzione.
E la verità che va proposta al giovane è questa: il carisma è il
mio io, è il nome col quale Dio mi ha chiamato alla vita sognandomi
simile a lui, è il mio passato, ma anche ciò che sono chiamato a esse­
re, è il senso pieno della mia storia e la condizione per sentirmi me
stesso ed essere felice, è ciò che rende definitivamente positiva la mia
identità, molto più di quanto non la potrebbero rendere le mie qualità
e abilità varie.
Non che queste ultime non siano importanti, anzi, anch’essè so­
no carismi, doni che ho ricevuto da Dio per il bene degli altri; più
precisamente, sono carismi funzionali-attuali, legati all’io attuale
(quel che io sono già) e al servizio del carisma vocazionale-ideale, o
dell’io ideale (quel che devo e voglio diventare), espresso e conte­
nuto nel carisma di istituto; dunque sono un mezzo, non un fine, un
mezzo per viver meglio e più efficacemente l’identità vocazionale, o
il luogo ove esprimere più pienamente la propria chiamata, e proprio
questo fine salva tali carismi dairinsignificanza narcisista provocan­
doli a... funzionare al massimo.
Se sono un mezzo, ancora, non sono un assoluto, dunque la vita
può arrivare a chiedermene il «sacrificio» in vista di un bene maggiore;
certo non sarà facile lasciare un’attività per la quale mi sento tagliato o
un ambiente o un molo che mi dà modo di esprimere i miei talenti, ma
sarà possibile solo se l’identità e la sua positività «abitano» altrove, nel
dono dall’alto pensato e preparato da Dio per me.
Chissà quante crisi future si potrebbero evitare se nella prima
formazione fosse subito ben delineata la natura del carisma come
fonte di identità e rivelatore del mistero dell’io! o quanto ne guada­
gnerebbero il senso di unità di vita e l’efficacia nelle attività, la tra­
sparenza della testimonianza e - come conseguenza inđữetta ma rea­
le - l’animazione vocazionale.
È certa una cosa: solo quando sono stati chiariti ruolo e signifi­
cato psicodinamico del carisma, l’individuo è fortemente motivato a
conoscerne e viverne anche il contenuto, e non potrebbe esser diver­
samente, dato che quel contenuto è anche il suo io, lo rivela a se stes­
so... L’attrazione dello Spirito trova finalmente il teưeno adatto per
suscitare l’attrazione del cuore e della mente.
b) Esperienza mistica
All’inizio di un carisma c’è sempre una teofania, e una teofania
sorprendente. Dio si rivela e mostrando il volto divino svela anche
all’uomo il suo volto umano.
Non è una semplice autocomunicazione divina, che il credente
può solo accogliere e contemplare, magari avvertendo ancor più la
distanza che lo separa dall’Altissimo; bensì è un dữsi da parte di Dio
nel quale l’uomo sente parlare anche di sé, o uno svelarsi del Mistero
divino che svela e restituisce l’uomo a se stesso, perché l’uomo è
parte del Mistero di Dio e la verità di Dio è anche la sua verità, verità
sulla sua vita.
E proprio questo è l’elemento sorprendente, non solo che Dio si ri­
veli, ma che in quello stesso momento e in quella stessa rivelazione egli
pronunci il nostro nome.2 Per questo il profeta può dire: «noi siamo
chiamati col tuo nome» (Ger 14,9). E così i nostri fondatori e fondatrici:
uomini e dorme oranti che nel mistero pregato, o in un particolare aspetto
della realtà divina o della vita umana del Cristo, hanno lentamente o im­
provvisamente scoperto se stessi, il progetto di Dio su di loro e su altre
persone, un’identità da assumere, un’irnmagine divina da vivere nella
propria storia, una somiglianza con Dio da manifestare.
Le nostre famiglie religiose esistono perché c’è stato chi ha vissuto
intensamente questa peculiare esperienza del divino, e sono vive nella
misura in cui altri oggi, per dono di Dio, rivivono la medesima espe­
rienza, dinanzi al medesimo mistero. Il consacrato nasce proprio qui,
quando inizia a scoprire il suo io entro questo rapporto con Dio e lascia
che il mistero pregato diventi la fonte della sua identità. È la spiritualità
che gli svela l’identità e i singoli tratti della sua fisionomia.
Per questo la preghiera è, per natura sua, l ’attività primordiale
del giovane consacrato, poiché l’esperienza o l’autocomunicazione di
Dio precedono necessariamente la conoscenza che l’essere umano
può avere di sé, anzi, è la teofania che illumina la conoscenza umana.
E allora questa è preghiera che trasforma: l’uomo entra progressi­
vamente in sintonia con ciò che contempla, ne assume i sentimenti, se
ne lascia plasmare..., fin quando se lo ritto va dentro come parte di sé.
Ma c’è bisogno di molta costanza e pazienza, c’è bisogno di sta­
re di fronte al mistero anche quando questo sembra muto e anche sor­
do. Se il giovane ha la certezza che quel mistero nasconde la sua

2 D ’altronde, come ben dice Kierkegaard, questa è anche l’esperienza tipica


dell’autentico lettore della Parola: «Si esige, quando tu leggi la Parola di Dio, che tu
ricordi a te stesso di continuo: è a me che si parla, è di me che si parla» (S.
K ierkegaard , cit. da B. FORTE, «Contro i teologi sonnifero», in Avvenire, 4 die
1996, 19.
identità e verità, il semplice stare dinanzi a esso è già abbeverarsi alla
sua fonte. Ciò che conta è che l’esperienza di preghiera sia specifica,
legata all’esperienza del fondatore, sia per quanto riguarda il mistero
centtale da contemplare che per quanto concerne lo stile, particolari
accentuazioni spirituali e anche devozioni. La preghiera mette in tal
modo in sintonia profonda con lo spirito di istituto: l’orante lo com­
prende meglio, lo contempla in Dio, lo «celebra» in qualche modo, lo
Spirito gliene suggerisce l’interpretazione aprendo mente e cuore a
nuove e feconde intuizioni. La preghiera fedele e coerente, o il prega­
re in spirito e verità, è sempre fonte di luce e creatività. Grazie a essa
il carisma si rinnova restando fedele a se stesso.
Di conseguenza questa preghiera carismatica è anche orazione
che attrae, non perché originale e facile, ma perché il progetto del
Padre si fa sempre più chiaro e attira potentemente a sé; quale essere
non sarebbe attratto da ciò che lo rivela a se stesso e che, lungi dal ri­
petersi, continua a svelargli aspetti sempre nuovi della sua identità?
Questa attrazione è già azione dello Spirito di Dio, è inizio della
mistica, dell’abbandonarsi nelle mani del Dio creatore, splendido ar­
tista, giorno dopo giorno lavora attorno alla sua opera perché sia se­
condo il suo progetto e sogno.
n carisma è quel progetto. Il giovane religioso il suo capolavoro...
Ma il lavoro non è ancora finito.

c) Cammino ascetico
È l’espressione naturale e inevitabile dell’esperienza mistica.
L’intensa contemplazione del mistero divino, nel quale il consa­
crato riconosce anche il proprio volto e il destino, determina l’esigen­
za di conformarsi a esso, lasciandosene attivamente plasmare nei ge­
sti e nelle parole, nei pensieri e desideri.
E questa è ascesi.
In buona sostanza, ed esemplificando notevolmente, se la mistica
è la contemplazione grata di ciò che Dio è e fa in noi, l’ascetica è il
tentativo, discreto e comunque volonteroso, di accogliere la sua
azione e rispondervi.
Se l’una autentica l’altra, è importante che siano assieme pre­
sentate, nella formazione, in strettissima correlazione tra loro, perché
l’ascetica resti indissolubilmente legata alla mistica, da essa prece­
duta, e il giovane intenda il proprio agire come una risposta, essen­
zialmente, a quel che Dio ha già fatto in lui, risposta che è prima di
tutto rendimento di grazie, adorazione, stupore per quel che Dio con­
tinua a fare, e solo dopo azione e dimostrazione di buona volontà.
Allo stesso modo pure la mistica deve sfociare naturalmente nel
progetto ascetico e in un piano ascetico giustamente impegnativo ed
esigente se non vuole diventare sterile virtuosismo o presuntuoso esi­
bizionismo spirituale.
Ciò che è importante sottolineare è che quel processo di iden­
tificazione dell’io iniziato con l’esperienza mistica continua neces­
sariamente nel momento ascetico: il mistero dell’io diventa decifra­
bile, infatti, solo a condizione che diventi anche realtà operativa e
vivente, che si compromette con scelte concrete e si realizza secon­
do un particolare modo di essere. Solo agendo il giovane speri­
menta il dono e il gusto di incarnarlo in modo del tutto originale
nella sua persona.
Ma sarà decisivo che il formatore proponga al giovane un chiaro
programma ascetico, come parte costitutiva e peculiare del carisma,
ovvero, quel certo modo di essere, fatto di comportamenti e atteg­
giamenti, di sensibilità e aspirazioni, di qualità morali e virtù caratte­
ristiche, dalla preghiera allo stile dei rapporti interpersonali, dalla
predisposizione specifica verso un certo tipo di apostolato al modo
caratteristico di vivere la stessa consacrazione e interpretare i voti e la
vita insieme.
Ogni carisma ha un proprio progetto ascetico, del tutto originale,
proprio perché legato a un’esperienza mistica altrettanto originale;
qualcosa di molto concreto che si rifa alla tradizione viva dell’istituto
e ne costituisce un po’ lo stile, così visibile da rendere subito ricono­
scibile un individuo come appartenente a quell’istituto. Ma è sempre
qualcosa che, in ogni caso, significa un nuovo modo di essere, che
abbraccia ogni espressione di vita del consacrato, perché in ciascuna
di esse risplenda il dono dall’alto.
Ogni istituto deve, dunque, definire con precisione il suo proprio
programma ascetico, offrendo al giovane la proposta di una fisiono­
mia tipica in cui certe virtù sono particolarmente sottolineate in vista
dell’attuazione del carisma e del senso di unità della persona. La Ra­
tio formationis, torniamo a ripeterlo, non può esser generica su que­
sto: l’indefinitezza di tale progetto crea disaffezione verso il carisma,
perché è difficile apprezzare e amare ciò che è privo di una sua spe­
cificità, quasi fosse informe, 0 appassionarsi e innamorarsi di qualco­
sa che non è ben chiaro se si possa vivere.
Si tratterà, allora, di un’ascesi mirata, non qualunquista 0 fatta
solo di rinunce e sacrifici in genere, poiché tende a liberare l’uomo da
quanto gli impedisce di scoprire la sua nuova identità, e lo aiuta posi­
tivamente ad acquisire il suo vero volto; e ancora di un’ascesi appas­
sionata, perché strettamente legata alla contemplazione del mistero,
mistero che attrae perché rivelatore di Dio e dell’io; e dunque sarà
un’ascesi che non intristisce chi la pratica né scoraggia chi vi s’acco­
sta, ma rende al contrario lieto l’asceta,3 contagioso il suo esempio e
trasparente la sua testimonianza carismatica.

d) Ministero apostolico
Ogni famiglia religiosa è nata con un preciso ministero apostoli­
co. È anch’esso frutto dell’illuminazione dello Spirito che conosce e
scruta i segreti non solo di Dio, ma anche degli uomini e i bisogni dei
tempi, l’anelito e i gemiti di ogni generazione, suscitando, in coloro
che chiama, il coraggio di rispondere in modo creativo ed efficace a
quei bisogni e a quei gemiti.
Da un lato, allora, l’opera di misericordia corporale o spirituale
che caratterizza ogni istituto è in qualche modo parte dell’esperienza
mistica, non solo perché è proprio nella preghiera che il fondatore nor­
malmente ha ricevuto una certa illuminazione a servire il prossimo, ma
perché è sempre all'interno di una specifica esperienza mistica che quel
servizio ritrova le sue radici e ciò che lo mantiene giovane, la sua ispi­
razione primitiva e chiave interpretativa. Sganciato da quella teofania
che l’ha originato điveưebbe gesto qualunquistico di benevolenza forse
sincera, ma debole neirintensità e labile nella tenuta.
D’altro canto la stessa esperienza mistica si esprime necessaria­
mente nell’atto di amore per il prossimo, non sarebbe autentica e credi­
bile senza di esso, e non solo come causa che produce un effetto, ma
come amore che per definizione in esso si prolunga e si intensifica, lo
stesso e unico amore per Dio e i fratelli. La dimensione apostolica è co­
sì intimamente legata a un preciso modo di essere e di pensarsi, di pre­
gare e vivere, che funziona normalmente da criterio di verifica della fe­
deltà di un istituto all’originaria ispirazione carismatica.
È importante allora che nella formazione iniziale, come in quella
permanente, il consacrato sappia cogliere tale dimensione come qual­
cosa di essenziale e costitutivo; egli è per vocazione un apostolo e
deve imparare a vedere tutta la sua vita in funzione del ministero apo­
stolico. Se vive una certa esperienza di Dio è perché la deve annun­
ciare, se segue un certo programma ascetico è perché questo lo abilita
a un certo tipo di servizio, se vuol bene ai fratelli di casa è perché
l’amore è la prima testimonianza del Vangelo da dare al mondo.
Ma non solo, non è esclusivamente l’amore che congiunge pre­
ghiera e apostolato prolungandosi nel servizio al prossimo, ma nor­
malmente anche il contenuto del carisma e la sua tìpica spiritualità, il
processo di ricerca e di svelamento di esso fanno da elemento connetti­

3 «e tu quando digiuni profumati la testa e lavati il volto... », Mt 6,17.


vo. La stessa teofania, infatti, che ha dato il via all’esperienza mistica
non può fermarsi a essa, ma contìnua nel vivo dell’impegno apostolico;
è sempre l’identica manifestazione di Dio, ma ora, nel cuore
dell’azione, è una rivelazione viva, che assume il volto e le parole dei
fratelli che il consacrato è chiamato a servữe: lì Dio cerca e attende
l’apostolo per parlargli di sé e rivelarglisi pienamente, lì l’apostolo ri­
trova e celebra la sua estasi, li ogni gesto, parola, affetto, progetto, suc­
cesso e insuccesso... innerva una potente carica mistica. Mistica ed
estasi... raspante, senza pretese, certamente, ma anche senza evasioni,
tutta permeata e avvolta di attitudine all’adorazione del mistero divino,
cercato e trovato ovunque, ma pure intrisa di capacità di relazione con
ogni volto umano, misterioso sacramento del divino.
E dunque anche mistica creativa e innovativa, per rivivere

«quella stessa genuinità carismatica, vivace e ingegnosa nelle sue in­


ventive che spiccatamente brillò nei fondatori».4

Se è vero che oggi è in crisi la creatività apostolica nei nostri


istituti, l’infedeltà riguarda l’insieme del disegno carismatico, e se­
gnala il venir meno, in particolare, del rapporto intemo tra le sue
componenti, tra esperienza mistica, cammino ascetico e ministero
apostolico; rapporto che è sempre, per natura sua, creativo.
Il giovane va dunque formato non solo a fare e ripetere un certo
apostolato (magari con qualche dubbio sulla sua attualità), ma a cer­
care sempre con ostinazione quel collegamento carismatico che lo
unifica dentro, rende armoniosa la sua vita in ogni sua espressione,
come un ccintus firmus, e dona intraprendenza e inventiva al suo ser­
vire, in risposta ai segni dei tempi emergenti nel mondo di oggi.5

e) Senso di appartenenza
Siamo al punto conclusivo, al fratto finale che in qualche modo
conclude il disegno carismatico, o alla polarità apparentemente con­
frapposta a quella con cui s’è aperto il discorso, cioè il senso di identità.
In realtà senso di identità e di appartenenza rappresentano'gli
elementi strutturali e costitutivi dell’io; ogni persona si definisce a
partire da ciò che è e in cui si riconosce, come pure da ciò cui appar­
tiene e cui si consegna; e ciò che ognuno è, necessariamente è legato
a ciò di cui si sente parte.

4 Cf. Mutuae Relationes, 23: EV 6/644.


5 Cf. Vita consecrata, 37.
Solo ponendo i limiti alla propria persona (o de-finendosi) l’essere
umano può entrare in rapporto con l’altro, ma decidendo di appartenere
a un «tu» o di riconoscersi in un «noi» l’io coglie ancor meglio non
solo i suoi confini ma anche le sue possibilità e aperture.
L’appartenenza, insemina, «apre», non chiude; estende, non riduce. Gli
altri non sono l’inferno (Sartre), o lo sono solo per chi pensa che chiu­
dendosi in sé può provvedere meglio alla sua autorealizzazione e al suo
benessere; e invece finisce per trovare solo caos e povertà, egoismo e
presunzione. L’identità senza appartenenza soffoca nel narcisismo, così
come l’appartenenza priva di identità diventa dipendenza.
In ogni caso, dunque, non esiste identità senza appartenenza',
così è anche per chi si consacra.
E se l’identità di un consacrato è definita dal carisma e dalle sue
componenti (mistica, ascetica e apostolica), l’appartenenza significa
l’effettivo e affettivo far parte di una famiglia religiosa in cui quel ca­
risma è concretamente espresso, addirittura codificato in regola di
vita, visibile nell’esistenza di tante altre persone che pure vi hanno ri­
conosciuto il progetto pensato da Dio per loro, confermato dalla
Chiesa come lettura autentica della Parola, ricco di una storia e di una
tradizione che ne rivelano la vitalità.
Ma tutto ciò: famiglia religiosa, regola, storia, tradizione... è vi­
sto e sentito come qualcosa che è parte del proprio io: quella storia è
e racconta anche la propria storia (o preistoria); la famiglia religiosa è
anche la propria nuova e vera famiglia, i cui legami sono più tenaci e
resistenti di quelli creati dalla carne e dal sangue; la regola esprime il
progetto che Dio ha sul suo consacrato e si chiama «regola di vita»
proprio perché ne descrive la vita in tutti gli aspetti; la tradizione non
è semplicemente una serie di abitudini tramandate dagli antichi padri,
ma garanzia di fedeltà (da parte di Dio e dei padri stessi) e criterio di
lettura per decifrare al presente la propria missione...
Ecco perché è necessario che il giovane in formazione s’accosti al
carisma, allo studio-meditazione di esso, della sua storia, della vicenda
del fondatore, delle vicissitudini deir istituto,., con un atteggiamento di
religioso rispetto, di venerazione sincera, di gratitudine profonda. Deve
capire che senza quella storia il suo io sarebbe un enigma insolubile.
Il senso di appartenenza, allora, non può esser qualcosa di pura­
mente sentimentale in funzione di un obiettivo solo psicologico, per
evitare la solitudine e.ế. farsi le fusa reciprocamente, né va confuso
con quella sensazione settario-campanilistica tipica dei deboli che si
mettono insieme per proteggersi e sentirsi più forti, e mentre s’aggre­
gano fra loro escludono aititi e si isolano; così pure il senso di appar­
tenenza non può ridursi a qualcosa di generico-superficiale, come
fosse la stessa cosa far parte di un istituto o di un altro.
Il senso di appartenenza all’istituto è vero quando è il riflesso
del senso di appartenenza al carisma (o del senso di identità), e
quando fa nascere in cuore non solo l’amore per l’istituto in generale
o per il carisma in astratto, ma l ’affetto sincero per la comunità così
com ’è, per le persone in came e ossa che la compongono, con tutti i
loro limiti e debolezze, doni e acciacchi. Appartenere a una famiglia
religiosa vuol dire decidere di vivere assieme a queste persone che
diventano fratelli e sorelle perché, al di là delle differenze e più forte
delle miserie, c’è un progetto comune pensato da Dio e affidato a cia­
scuno, che proprio vivendo assieme diventa sempre più chiaro e può
esser apprezzato in tutta la sua ricchezza.
E ancora: il senso di appartenenza è vero quando è a doppio sen­
so o determina una duplice «consegna»: la consegna del consacrato
all’istituto e quella dell’istituto al consacrato.
Quando infatti un religioso si consacra attraverso la professione
dei voti, si affida all’istituto e l ’istituto si affida a lui. Da quel mo­
mento in poi la vita della famiglia religiosa si identifica con la sua, e
lui non potrà più pensarsi al di fuori di essa. Con questa consegna si è
messo nelle sue mani, perché essa lo conduca a Dio; mettendosi nelle
sue mani si affida alla sua santità e alla sua debolezza, non pretende
che essa sia senza macchia, gli basta sapere che rappresenta la sua via
di santità e che lì e solo lì lo raggiungerà la grazia che lo salva; anzi,
è già grande grazia il fatto che lui stesso possa esservi accolto con
tutto il suo peccato. Solo uno sciocco presuntuoso potrebbe non ac­
corgersi di questo e non sentirne gratitudine!
Al tempo stesso chi emette i voti accetta che l’istituto si affidi a
lui e si metta in qualche modo nelle sue mani; da quel momento la
santità dell’istituto dipenderà anche da lui, e lui sarà responsabile, in
concreto, della crescita di ogni fratello; ma da quel momento egli è
chiamato a farsi carico anche della debolezza dei suoi fratelli: accet­
terà di essere condizionato da chi gli sta accanto, non dimenticherà
nemmeno un istante che la debolezza del fratello è la via misteriosa
lungo la quale Dio gli viene incontro. Solo un individualista irrespon­
sabile potrebbe non capire quale grande grazia sia racchiusa nell’ac­
cogliere il peso del fratello!
Appartenere a un istituto è celebrare assieme la comunione dei
santi e dei peccatori!
Riepiloghiamo con l’aiuto di uno schema il contenuto di questo
capitolo sulle componenti di un carisma.
Tav. 8 ; Elementi costitutivi di un carisma
Livello individuale
Capitolo quattordicesimo

IL DINAMISMO DEL CARISMA

Come per ogni dimensione già trattata, anche per quella cari­
smatica cerchiamo di cogliere il dinamismo particolare.
Se la dimensione umana, nella formazione, suppone e sollecita un
dinamismo di tipo storico, con l’integrazione fra le due memorie in
un’unica memoria biblico-affettiva, mentre la dimensione spirituale
cresce attraverso lè tipiche operazioni del dinamismo credente, con
l’integrazione tra i quattro modelli di fede, da quello autobiografico a
quello evangelico, dal mariano al paolino, il dinamismo peculiare della
dimensione carismatica è quello della sintesi o dell 'integrazione.
Questo dinamismo integrativo va in una triplice direzione: è
sintesi, infatti, che specifica, coordina e realizza al massimo grado
l’identità dell’uomo, del credente e del consacrato.
Come abbiamo già ricordato all’inizio del capitolo precedente, è
tipico della dimensione carismatica esprimere l’insieme del progetto-
uomo, quasi riassumendo le dimensioni umana e spirituale e ulte­
riormente specificandole, proprio perché è nella natura del carisma in
quanto tale la capacità di convergenza attiva e mirata. Carisma è «do­
no di Dio», infatti, e i doni di Dio si cercano e si trovano, si illumina­
no e s’interpretano, si fanno spazio e si riconoscono l’uno nell’altro;
non son gelosi né invidiosi, cercano la verità nella carità, e non solo
nella vita di relazione sociale ed ecclesiale, ma anche all'interno del
soggetto e a qualsiasi dimensione appartengano. Il dono particolare
delia consacrazione possiede ed esprime in modo speciale la grazia
dell’unità, anzitutto nella vita del consacrato, più forte di ogni tenta­
tivo dispersivo e di ogni tentazione centrifuga. Il carisma religioso ha
il carisma della sintesi.
Vediamo allora questo dinamismo in azione, o come possa il
giovane essere aiutato e provocato a realizzarsi secondo la dimensio­
ne carismatica. In concreto proponiamo tre specifiche operazioni di
sintesi attorno al carisma da attuarsi nella formazione iniziale (e per­
manente), nelle tre direzioni già indicate.
1. Sintesi delle dimensioni umana e spirituale

a) «...fin dal seno materno»


Nella dimensione umana, come abbiamo visto, il soggetto va
aiutato a conoscersi e a riconoscere il senso di quella storia che Dio
ha portato avanti lungo i giorni del suo esistere. L’itinerario educati­
vo che conduce a questo obiettivo l’abbiamo indicato nella rivisita­
zione della propria biografia, letta non solo come storia, ma come
storia di salvezza, e dunque ricordata al presente con una memoria
non solo affettiva, ma biblico-affettiva.
Ebbene, il carisma dell’istituto di appartenenza si pone come ve­
ra e propria chiave di lettura della propria storia, è quel punto di ar­
rivo che in realtà è come preparato e sottilmente nascosto nelle pie­
ghe del tempo passato, e dunque in esso riconoscibile. Vogliamo dire
che se il carisma rappresenta il progetto da Dio pensato come io
ideale di un individuo, allora tutta la sua vita, fin dagli inizi, dovrebbe
essere segnata da questo disegno, e mostrare in qualche modo dei
punti di contatto con esso, come delle predisposizioni ambientali o
personali che hanno preparato il soggetto a scoprire in esso la propria
identità, per avvertire poi un’attrazione naturale nei suoi confronti.
Forse non è proprio l’esperienza di tutti e comunque non di tutti
allo stesso modo (ogni vocazione fa storia a sé), ma senz’altro moltis­
simi consacrati possono riconoscere nella loro famiglia di origine,
nell’educazione ricevuta 0 nel clima familiare o nell’esempio dei ge­
nitori, tracce singolari di quel carisma che poi avrebbero abbracciato!
Dio non ci ha forse formati fin dal seno di nostra madre (cf. Sai
139,13)?! Di conseguenza il carisma diventa una specie di denomi­
natore comune che avvolge e contiene tutto il passato, cifra e chiave
interpretativa di esso, luce che carica di senso coerente e sorpren­
dente il vissuto, dono presente fin dal primo giorno di vita, nascosto
eppure reale, in cui Dio ha adombrato il modello del suo consacrato.

b) Personalizzare l ’atto di fede


Allo stesso modo il carisma svolge l’identica funzione nei con­
fronti dell’opzione di fede: se scopo della formazione spirituale è l’i­
dentificazione coi sentimenti del Figlio, è ancora il carisma che indica
e specifica quali sentimenti di Cristo, in particolare, il consacrato de­
ve rivivere in sé.
Sia l’esperienza mistica che il cammino ascetico e lo stesso mi­
nistero apostolico, infatti, esprimono un’identificazione peculiare coi
sentimenti del Figlio, col suo cuore e i suoi desideri, col suo stile di
vita e la sua dedizione al Padre e ai fratelli. Lo spirito di istituto, in­
somnia, è il modo di credere del consacrato, dal punto di vista dei
contenuti e del metodo.
Sul piano dei contenuti poiché ogni carisma religioso è come
una pagina o una parabola 0 un versetto del Vangelo particolarmente
sottolineati. Sul piano del metodo perché lo stesso carisma mette in­
sieme i modelli classici del credere cristiano, il modello mariano-
genetico e quello paolino-dinamico: da un lato è e rappresenta un
modo specifico di attendere-desiderare, accogliere-interpretare, cu-
stodire-conservare la Parola-del-giorno perché essa si radichi nel cuo­
re e si compia in ogni gesto quotidiano così come s’è compiuta nel
grembo di Maria, dall’altro dà un tono del tutto originale al dinami­
smo tipico del credente che impara a pregare e celebrare, capire, e vi­
vere, condividere coi vicini e annunciare ai lontani quanto ha rice­
vuto nel dono della fede, fino ad avere il coraggio di gettare le reti
«sulla sua parola» (Le 5,5).
Così, sempre sul piano del metodo, il carisma fa convergere il
modello autobiografico con quello evangelico: Cristo e la sua parola,
il suo Volto e la sua chiamata diventano la categoria di lettura della
vita, di tutta la vita.
Il carisma, dunque, sintetizza e assieme specifica-, fa convergere
le diverse operazioni del credente e al tempo stesso dà loro un tocco
di assoluta peculiarità in cui si saldano armonicamente le dimensioni
umana e spirituale. Per questo formare al carisma è sollecitare nel
giovane la personalizzazione dell’atto di fede, perché esso conduca
sempre più alla consegna totale della propria vita.

2. Sintesi dell’identità e dell’appartenenza


È pregio e sfida al tempo stesso della formazione carismatica: il
carisma svela rio, come abbiamo sottolineato, ma anche il noi, dun­
que il cammino di adesione al carisma è anche cammino che dall’io
conduce progressivamente al noi, e viceversa.

a) Dall’io al noi, dal noi all’io


È importante allora attivare i due percorsi, perché dall’identità
nasca spontaneo il senso di appartenenza e il sentirsi parte di una fa­
miglia dia di ritrovare le proprie radici. L’identità, abbiamo più sopra
ricordato, senza appartenenza soffoca nel narcisismo, l'appartenenza
senza identità è solo dipendenza; entrambe, private l’una dell’altra,
sono la classica casa fondata sulla sabbia. Il carisma, invece, diventa
la «roccia» su cui edificare entrambe.
Ma sarà necessario, nel concreto dell’azione formativa, mostrare
costantemente come tale dono abbia la capacità di tener assieme e
coordinare questi due aspetti dell’io. Le tre componenti costitutive
del carisma hanno un immediato risvolto soggettivo-personale, come
abbiamo visto, chiedono al soggetto una precisa opzione nell’àmbito
della preghiera, deir ascesi e della missione, decisione personale e
che rende l ’io sempre più consapevole della propria individualità.
Ma, al tempo stesso, proprio questa fedeltà personale a un preci­
so piano mistico-ascetico-apostolico apre sempre più il singolo a ri­
conoscere lo stesso cammino di fedeltà nell’altro, anch’egli chiamato
come lui, ma che solo a questo punto gli diventa «fratello», parte
della propria storia e compagno di quel viaggio lungo il quale ognuno
scoprirà la propria identità «dentro» la comune appartenenza.
La fedeltà personale diverrà allora sempre più anche fedeltà
comunitaria, e porterà sempre più a un pregare simile e comune, a
una stessa tensione ascetica, a un medesimo impegno missionario.

b) La condivisione
Una prova di questa sintesi è data dall’equilibrio con cui in co­
munità ognuno vive la solitudine e la compagnia (o il silenzio e il
dialogo), elementi importanti dello sviluppo umano e spirituale solo
apparentemente confrapposti. Nella misura in cui la formazione è ca­
rismatica, infatti, viene proposto un contenuto che è centrale, perché
si pone al cenerò della vita di.ogni consacrato e al cento di ogni rela­
zione tra consacrati. E proprio per questo è pure capace di attivare la
giusta sintesi fra solitudine e compagnia. In che modo?
Attraverso la condivisione del medesimo dono: una convivenza
di persone diventa comunità religiosa non semplicemente perché vi
sono dei singoli impegnati in altrettanto singoli cammini spirituali,
ma quando questi cammini vengono messi in comune fino a costituir­
ne idealmente uno solo. Allora e solo allora il carisma è al centro e si
può parlare di comunità consacrata, mentre l’amicizia diventa il
modo normale di relazionarsi nella com-pagnia e nella solitudine,
nella condivisione del pane del cammino e dell'intimità con Dio, nel
silenzio che apre a relazione e nel dialogo che riconduce a unità.
Allora la «casa», deirindividuo e della comunità, è costruita
sulla roccia, e può resistere a ogni intemperie. Altrimenti è fondata
sulla sabbia, o è una finta comunità di finti consacrati...
3. Sintesi tra conoscenza, esperienza e sapienza

Infine il carisma realizza un’ulteriore sintesi fra le dimensioni


formative e gli obiettivi cui esse stesse mirano; sintesi non solo nel
senso della convergenza mirata che in qualche modo specifica e co­
ordina, ma nel senso che la dimensione carismatica costituisce il
punto di arrivo naturale cui le altre dimensioni tendono, come un
obiettivo finale che certamente comprende quelli precedenti, ma an­
che li supera qualitativamente.
Potremmo rendere nei seguenti termini gli obiettivi delle dimen­
sioni umana e spirituale.
a) Conoscenza
La dimensione umana tende, in generale, alla maturità sotto il
profilo psicologico-umano, ma - come abbiamo specificato - mira a
mettere il soggetto in condizione di conoscersi, non solo per accettar­
si nei suoi lati positivi e negativi, ma per assumere un atteggiamento
responsabile nei confronti della vita e del suo mistero, al punto di sa­
per dare un significato nuovo e positivo a eventi che sembrerebbero
di segno negativo, e di scoprire la potenza della grazia nella propria
debolezza.
Questo obiettivo, con tutta la fatica che richiede, si gioca preva­
lentemente sul teưeno della conoscenza e determina un cambio di
mentalità, come atto, comunque, non solo dell’intelletto, ma pure del
cuore e della mente che vogliono scoprire il progetto di Dio nascosto
nel vissuto e ciò che maggiormente s’oppone alla sua realizzazione.
È una conoscenza dunque attiva e che conduce alla decisione
operativa, ma che ancora non esprime un coinvolgimento pieno e a
tutti i livelli della persona.
b) Esperienza
La dimensione spirituale compie un netto passo avanti in tal sen­
so: dalla conoscenza air esperienza. Esperienza non solo come cogni­
zione e decisione, ma come effettivo viaggio dell’individuo dentro
una realtà nuova, la realtà della fede, che consente non semplice-
mente di dare un senso nuovo alle cose e agli eventi, ma dà di speri­
mentare su di sé e sulla propria pelle quel significato come una nuova
ragione di vita, come passione che avvince e verità che convince.
Qui è tutto l’io coinvolto. Anzi, l’esperienza della fede è espe­
rienza di una persona, di Qualcuno visto, sentito, toccato, contem­
plato... (cf. lGv 1,1), di Qualcuno che è entrato improvvisamente o
lentamente nella propria vita, e che da allora si è posto sempre più al
centro di essa e degli affetti, e così, infatti, l’individuo lo sente.
L’esperienza, insomma, è qualcosa di sensibile e fino a un certo
punto controllabile, è relativa al Trascendente ma nasconde la suppo­
sizione umana (a volte la pretesa) di poter gestừe il rapporto col divi­
no; in certi casi rischia di confondersi con la pura sensazione, al pun­
to che un’esperienza è considerata positiva per la crescita nella fede
solo se il soggetto ritiene in qualche modo di aver «sentito» Dio in
essa, come sensazione gradevole.
L’esperienza, in definitiva, è molto soggettiva per natura sua; e
questa è la sua forza e anche la sua debolezza.
C’è un’ambivalenza di fondo, dunque, che espone colui che «fa
esperienza», soprattutto se non è poi aiutato a rielaborarla, a più di
qualche rischio, il rischio che un’esperienza possa esser contraddetta
da un’altea, o che la traccia emotiva depositata nella psiche da un’e­
sperienza sia debole e sparisca dopo poco tempo; il rischio che nella
struttura formativa il giovane in formazione moltiplichi esperienze o
sia esposto a una notevole varietà di esperienze, anche eterogenee,
che poi non riesce a integrare, e che finiscono per risultare disorien­
tanti. Il rischio, perciò, è anche da parte dell’istituzione: è duro a mo­
rire, infatti, il cosiddetto «mito dell’esperiènza», in base al quale il
semplice fatto di «fare esperienza» dovrebbe avere poteri quasi tau­
maturgici, con risultati invece spesso precari e contraddittori; ognu­
no, infatti, impara dall’esperienza secondo il suo livello di maturità.
In conclusione l’esperienza (o il «fare esperienza») segna un
passo importante nella dinamica formativa, ma non conclusivo; di­
verrebbe equivoco se considerato finale. C’è una tappa ulteriore da
raggiungere.

c) Sapienza
Tocca alla dimensione spirituale-carismatica completare il di­
scorso e superare l’equivoco, integrando il dato soggettivo con quello
oggettivo, l’esperienza con la sapienza.
Si fratta di cogliere nel dono della fede e del carisma non sem­
plicemente Pillummazione-eccitazione di un momento, ma il mistero
della propria identità nascosta nel Figlio e ora pienamente svelata,
qualcosa di definitivo e stabile, non più soggetto alle sensazioni e a-
gli umori, ma a un dato ormai incontrovertibile e del tutto gratuito.
Sapienza è conoscenza globale dell’uomo spirituale, col cuore e
tutti i sensi, di questo dono fino a comprenderlo in profondità; è espe­
rienza costante, non occasionale ma estesa alla vita intera, di una
nuova identità, in esso nascosta, più ricca e più vera, più stabile e po­
sitiva; è contemplazione e memoria delle cose che restano (imemoria
amoris), gusto della bellezza e sguardo poetico, conversione e for­
mazione continua, armonia di significati e di stagioni esistenziali,
umorismo e ottimismo, senso del mistero e deir eterno, sapore del di­
vino e simpatia per Pumano...
Sapienza, soprattutto, è unità di vita e sintesi, vuol dừe essere arri­
vati al cuore della vita, dov’è il tesoro dell’uomo e tutto si concentra e
fonde nel sogno di Dio: ritrovare in noi Pimmagine del Figlio, trasfor­
mando i suoi gusti e imparando a godere d’esso, come d’un tesoro.
Uomo saggio è dunque colui che riesce a far tesoro di tutte le
esperienze, non solo di alcune (quelle più eccitanti o gratificanti o
semplici da decifrare), ma anche di quelle più difficili da leggere e
accettare; è colui che ha il cuore libero per ascoltare la vita che parla
a ogni istante, senza imporle il proprio schema interpretativo, è il
credente docibilis, che ha imparato a imparare dall’esistenza (fogni
giorno e da ogni persona, in ogni circostanza e da qualsiasi evento,
fino all’ultimo giorno della sua vita, fino a che Cristo non sia piena­
mente formato in lui (cf. Gal 4,19).

Tentiamo, a questo punto, di raccogliere in un unico schema le


tre dimensioni del cammino di formazione alla vita consacrata: quella
umana, quella spirituale e infine quella carismatica, a livello di pre­
supposti, contenuti e dinamismi.
Formazione Formazione Formazione
umana spirituale carismatica
L’uomo è un essere L’uomo trova in Dio Il carisma religioso
* libero e cosciente * la sua verità * rivela l’io ideale
* diviso e libertà * a immagine
P resuppo­
interiormente * l’unità dell’io del Figlio
sti
* capace * l’apertura agli altri * è da vivere
di relazione * secondo il cuore e con gli altri
* e di trascendenza i desideri di Dio * e per gli altri
Maturità umana come Fede come Carisma religioso
accoglienza incon­ come
dizionata * autoidentità
* conoscenza di sé * dell’amore «debo­ * esperienza mistica
* maturità di cuore- le» di Dio, libero e * cammino ascetico
Contenuti
mente-volontà liberante * ministero apostoli­
* libertà * della follìa della co
responsabile croce * senso
Consegna di sé * dei sentimenti di d’appartenenza
Gesù
* Memoria affettiva * Fede e vita passa­ Il carisma fa sintesi
* memoria biblica ta: modello storico- * delia dimensione
* memoria biblico- biblico umana e spirituale
affettiva * fede e vita presen­ * dell’identità e
D inamismi te: dell’appartenenza
- modello mariano *tra conoscenza,
- modello paolino esperienza e sapien­
* fede e vita futura: za
modello evangelico
PARTE SESTA

DALLA PARTE DEL GIOVANE


Nelle riflessioni fin qui condotte abbiamo preso in considerazio­
ne il problema della formazione dal punto di vista più classico, quello
del formatore 0 della formazione in se stessa.
È il momento ora di cambiare la prospettiva, per vedere lo stesso
fenomeno con gli occhi del primo responsabile della formazione di
sé, il giovane medesimo.
Ovvio che nessuno meglio di lui potrebbe dire e illustrare il suo
punto di vista su problemi, dubbi, potenzialità della formazione oggi.
Ma noi cercheremo, più che di parlare del giovane e della generazio­
ne attuale giovanile, di considerare il versante giovanile della dinami­
ca educativo-formativo-relazionale nei suoi vari aspetti: le condizioni
della disponibilità formativa, il processo della conoscenza di sé, la
scoperta della propria inconsistenza e la liberazione da essa, la for­
mazione dell’uomo nuovo, la disponibilità formativa per tutta la vita.
Capitolo quindicesimo

DISPONIBILITÀ FORMATIVA

Cominciamo con l’indicare le condizioni grazie alle quali si può


parlare di «giovane in formazione», o di processo formativo effettivo
e non solo nominale.
Dopo aver visto, nel primo capitolo, le componenti della propo­
sta formativa da parte deir istituzione, vorremmo coerentemente esa­
minare il tipo di risposta, o le componenti della disponibilità formati­
va da parte del chiamato.
La formazione, infatti, non è processo a senso unico né è qualcosa
di scontato; tanto meno significa imposizione, più o meno subdola e
sottile, 0 rapporto interpersonale in cui uno è attivo e l’altro passivo.
D’altro canto, non possiamo negare la possibilità che alcuni no­
stri giovani siano solo apparentemente in cammino formativo: non è
realistico, infatti, ritenere che tutti i nostri novizi o professi siano di
fatto «in formazione». La storia ci dice che ve ne sono alcuni che
hanno attraversato indenni tutte le tappe del processo educativo,
abilmente destreggiandosi fra le varie sfide ẹ provocazioni, non solo
senza lasciarsi minimamente toccare da alcun intervento educativo,
ma pure esibendo un’olimpica imperturbabilità, a volte ingenuamente
presa, dall’innocuo formatore, per «serenità e stabilità di carattere».
Per loro non c’è stata alcuna formazione (iniziale), né vi sarà alcuna
formazione (permanente), e si vede...
Ma senza ricorrere ai casi estremi diciamo che in ogni giovane, a
fronte di un sincero desiderio di consacrazione, permangono zone
oscure che non lasciano penefrare la luce, atteggiamenti rigidi e abi­
tudini sedimentate che oppongono resistenza alla proposta formativa,
paralizzando la vitalità del giovane, senza che egli lo voglia e se ne
renda conto. E allora inevitabilmente viene meno la disponibilità a la­
sciarsi educare-formare-accompagnare.

1 Quando, in questo capitolo e anche poi, parliamo di «disponibilità formativa»,


intendiamo riferirci al concetto più ampio e pedagogicamente corretto di disponibilità
educativo-formativo-relazionale. L’espressione che usiamo va interpretata, dunque,
come formula abbreviata di un’idea più estesa.
1. Dalla docilitas alla docibilitas

Una volta questa disponibilità veniva chiamata docilitas, termine


che ha una valenza indubbiamente positiva, indica infatti un atteg­
giamento fondamentale di fiducia verso l’altro, ma rischia anche di...
canonizzare una certa remissività-passività. Preferisco usare un’altra
parola, docibilitas, che meglio sembra esprimere l’idea di un proces­
so educativo in cui il soggetto gioca un molo attivo che Io mette in
condizione di «imparare a imparare», ovvero, di vivere in perenne
stato di formazione. Cerchiamo allora di vedere i segni più rilevanti
di quest’atteggiamento. Intanto li elenchiamo descrivendoli breve­
mente, in seguito li riprenderemo analizzandoli.
Prendiamo in considerazione tre aree: quella dell’io attuale,
dell’io ideale e dell’/o relazionale, cui corrispondono i tre dinamismi
pedagogici dell’educare, formare e accompagnare.
Non dkemo forse cose assolutamente nuove, ma puntualizzeremo
elementi che qui occorre ribadừe, anche per offrire al lettore (più o me­
no giovane) una pista per una sorta di verifica sul suo «coefficente di
disponibilità fonnativa», e in ogni caso per completare necessariamente
un certo quadro aggiungendo un ulteriore angolo di visuale.

a) La verità dell’io attuale


Un giovane inizia il cammino educativo nel momento in cui co­
mincia a conoscere la propria realtà personale, in particolare le sue aree
forti e deboli, libere e non libere, ciò in cui può rispondere un sì ge­
neroso alla chiamata e ciò in cui è ancora distante dal progetto di Dio.
Soprattutto è decisivo che egli conosca bene l’area dell’incon­
sistenza centrale, quella cioè in cui è particolarmente vulnerabile e
che fa più fatica a controllare. Ma di questa inconsistenza dovrà sape­
re le radici, di solito non subito visibili, o la funzione psicodinamica
(il ruolo eh’essa svolge nell’equilibrio psichico o il bisogno a cui ri­
sponde e che gratìfica), e le conseguenze nei rapporti con gli altri,
con Dio e con se stesso, nella vita comunitaria e apostolica, al pre­
sente e pure in prospettiva futura. Infine, e soprattutto, dovrà aver in­
dividuato alcuni modi operativi, attraverso i quali essere sempre me­
no dipendente dall’inconsistenza medesima.
Allora si può dire che è in atto il processo educativo e che esso si
sta compiendo nella verità. Proprio questo è, come sappiamo, lo scopo
del dinamismo pedagogico àélY educare: e-ducere, tirar fuori la verità
del soggetto, perché possa conoscersi e realizzarsi al meglio delle sue
possibilità, non solo nella sincerità soggettiva, ma nella verità oggetti­
va, non solo negli aspetti consci, ma pure in quelli inconsci.
Finché uno non si conosce e non ha scoperto la propria zona de­
bole e non libera, e i modi di venirne fuori, costui è ancora in una si­
tuazione di pre-educazione, se mostra una certa disponibilità di fondo
a infraprendere questo cammino; diversamente sta semplicemente
perdendo e facendo perder tempo.

b) La libertà dell’io ideale

A questo livello c’è effettiva formazione solo se il soggetto co­


nosce anzitutto le sue aree più forti e consistenti, quelle su cui fare
forza per tendere efficacemente verso l’obiettivo della con-formazio-
ne a Cristo.
Ma la condizione interiore centrale che fa scattare la disponibi­
lità formativa è che il giovane riconosca la propria identità nell’essere
come Cristo e nell’avere i suoi sentimenti, e che cominci a speri­
mentare il fascino di tale vocazione.
Sino a che non ci si sente liberamente attratti dalla bellezza di
Cristo e dell’esser come lui, non si può parlare ancora di formazione
in atto. Fine del dinamismo pedagogico del formare, in effetti, è pro­
porre un modello preciso, una «forma» che costituisca la nuova iden­
tità del consacrato e tale sia da lui sentita; e se tale forma sono i sen­
timenti di Cristo, allora si tratta di formare alla libertà di lasciarsi at­
trarre dalla misteriosa bellezza del Figlio per essere se stessi.
Per questo finché non c’è il «cromosoma mistico» non si è anco­
ra in formazione, ma si è solo dipendenti che eseguono ordini con
poca convinzione e senza alcuna passione.

c) L ’apertura dell'io relazionale

Infine, dato che non esiste autoformazione, il giovane può dirsi


in cammino formativo solo se accetta di farsi accompagnare da un
fratello maggiore. La condizione di base è, allora, lo sviluppo dell’io
relazionale, ovvero l’abbandono progressivo di quelle barriere che
ognuno costruisce attorno alla propria persona, come meccanismi
difensivi che impediscono di comunicare apertamente e consegnarsi a
un altro.
La formazione è, in fondo, fenomeno relazionale, e dunque im­
plica questa liberazione nei confronti di Dio, anzitutto, che è il vero e
unico Padre-Maestro, e del fratello chiamato a mediare, con la sua
imperfetta umanità, l’azione plasmatrice divina: è a questi che il gio­
vane deve imparare a consegnarsi in un atto di fiducia che nasce dalla
fede, con lui condividendo il cammino e da lui lasciandosi scrutare.
Ma docibilitas significa anche disponibilità a entrare in contatto
con la realtà e con gli altri in genere, per imparare contìnuamente dalla
vita e da ogni persona. Allora la formazione diventa come un habitus
che accompagna la persona per sempre facendola restare giovane.
Che è come dữe: chi ha appreso a imparare (e a lasciarsi forma­
re), continuerà a imparare da tutti e per tutta la vita, chi non l’ha ap­
preso nel tempo della prima formazione non l’apprenderà più e...
non avrà mai niente da imparare dagli altri e dalla vita.

Come si può riconoscere la non disponibilità a lasciarsi formare?

2. Dalla paura alla non docibìlitas

La distinzione, abbiamo detto, non è solo tra individuo e indivi­


duo, tra chi ha un alto coefficiente di disponibilità formativa e chi no,
ma passa all’interno della stessa persona. Ognuno di noi è «docibile»
per certi aspetti della sua personalità e lo è meno per altri.
Fondamentalmente la non docibilitas deriva dalla paura, di sé e
di quel che uno potrebbe trovare denteo di sé, dell’altro e del rapporto
interpersonale, così come anche di Dio e della sua Parola, di quel che
Dio potrebbe chiedere o dare.
Ciò premesso veniamo a considerare le caratteristiche più sa­
lienti della non disponibilità educativa, sempre nella triplice direzione
ora considerata.

a) L ’io smarrito
C’è chi, nel cammino educativo, sembra aver perso i contatti col
suo io. Si dữebbe che non si conosce, o ha di sé una conoscenza solo
superficiale; forse non è neppure convinto che si debba spingere
l’analisi ai livelli più profondi, delle motivazioni e intenzioni, di ciò
che non appare subito evidente ed è forse inconscio.
È il classico tipo che confonde verità e sincerità e pensa che ba­
sti la percezione soggettiva delle proprie sensazioni per conoscersi.
Di conseguenza vive lontano dall io e dalla sua verità. Non sa bene
quale sia l’area più debole della sua personalità o si accontenta di
analisi molto sommarie quando, ad esempio, deve confessarsi, col ri­
schio di ripetere sempre le stesse cose, fino a non sentire neppur tanto
la necessità della confessione stessa o della direzione spirituale.
Da questo punto di vista è il tipo «mai-in-crisi». Oppure, se è
proprio costretto a scoprire i suoi dèmoni, conclude che non c’è
niente da fare e che ha sbagliato strada: in ogni caso non mostra nes­
suna disponibilità effettiva a fare un cammino di conversione. Non
perché lo escluda esplicitamente, ma perché l’aver perso i contatti
con rio più vero lo priva di motivazioni («perché e cosa cambiare?»),
e dunque di energia preziosa.
A volte questo tipo dall’io smarrito ha proprio l’aspetto un po’
smarrito: inconcludente, non sa bene cosa vuole; superficiale nei rap­
porti, non s’arrischia a voler bene; sembra sicuro di sé, ma è molto
fragile. È pecora smarrita che non si lascia trovare né prendere in
braccio dal pastore; per questo non si lascia coưeggere né sa essere
misericordioso.
Se l’educazione inizia con la presa di coscienza dei propri limiti,
ecco perché per questo tipo non comincia mai o sarà una finzione...

b) L ’io dis-tratto
Nel caso dell’io smarrito, viene a mancare, abbiamo detto ora, il
punto di partenza del processo formativo: qui manca o è mal definito
il punto di arrivo.
È il caso dell’«io dis-tratto» di più di qualche giovane, distratto
non per via di una qualche disattenzione, ma perche nella sua vita c’è
qualcosa che l’allontana dall’autentica attrazione, quella che dovreb­
be avvertire per il suo io ideale. Più in particolare, il fine «ufficiale»
dell’identificazione con Cristo e con i suoi sentimenti non è sentito
profondamente come la propria nuova identità che soppianta l’uomo
vecchio, ma in qualche modo ci vive assieme, in una specie di doppia
identità'.2 quella ufficiale, astratta e poco coinvolgente, e un’altra se­
greta e nascostamente coltivata-coccolata che assorbe energia e inte­
ressi, sottraendoli a quella che dovrebbe essere la tensione centrale
della vita consacrata.
Avremo allora il giovane che è l’autentica negazione dell’essere
«giovane»: freddo e anemico, rigido e sempre più svogliato, sia che
studi 0 preghi (e di solito prega e studia poco in questi casi), medio­
cre, che in tutto gioca al risparmio ed è incapace di entusiasmarsi per
ciò che è bello, imbarazzato e imbranato quando deve testimoniare la
sua fede e vocazione (e allora copia e ripete cose già dette da altri) e
lontano dall’immaginare quanta verità e libertà vi siano nella passio­
ne per Cristo, Signore della vita. Sarà un giovane non libero di per­
dersi e donarsi, ma interiormente costretto a inseguire un’improbabile
autorealizzazione.

2 Abbiamo già visto tale concetto quando abbiamo parlato del senso di apparte­
nenza (cf. c. 12).
La conseguenza sarà una sostanziale chiusura al processo formati­
vo e alla grazia di lasciarsi attrarre dalla bellezza del Figlio, perché la
formazione si gioca tutta qui, nel momento in cui verità e libertà si in­
contrano lasciando scoccare la scintilla dell’attrazione per Cristo.
Ma qui non scocca proprio nulla e invece dell’attrazione avremo
la dis-trazione di una contraddittoria e lacerata identità; al posto della
libertà del lasciarsi sedurre dalla bellezza di Cristo, avremo un io
lontano dal suo centro e dalla sua verità, che cerca compulsivamente
se stesso. Senza mai trovarsi.
c) L ’io corazzato
Il contrario dell’io in relazione è l’io chiuso in se stesso, pauroso
di aprirsi e ancor più di consegnarsi a un altro.
Esperienze passate negative e ferite relazionali possono aver
creato questo timore, lasciando nel cuore l’idea che convenga difen­
dersi dagli altri, Dio compreso.
Non è così raro oggi, nel clima generale di instabilità emotiva
(che rende debole anche l’esperienza familiare), trovare giovani ar­
roccati sulla difensiva, che sembrano doversi proteggere non si sa be­
ne da chi, e che fanno un’enorme fatica a lasciarsi accompagnare da
un altro, ad aprirsi con fiducia. Non necessariamente sono musoni e
intrattabili, a volte sembrano viver bene il rapporto, ma in realtà non
si confidano con nessuno.
Vi sono diversi modi di indossare la corazza. Ad esempio vi sono i
tranquilli, tipi solitari per Xquali va sempre tutto bene e non capiscono
che bisogno vi sia dell’accompagnamento; i perfezionisti, falsi virtuosi
disposti ad aprirsi solo con una guida perfetta (che di solito vanno a
cercare altrove); i latitanti, diffidenti un po’ mafiosi che girano alla lar­
ga perché temono il confronto; i pellegrini, tipi furbetti che, al contra­
rio, hanno molti confidenti cui affidano pezzi diversi della loro vita, ma
senza consegnarla intera ad alcuno; gli impenetrabili, personaggi roc­
ciosi, che vengono a colloquio, visto che tocca farlo, ma non si lasciano
scavare dentro e oppongono resistenza a ogni tentativo in tal senso; gli
imperturbabili, quelli che, al contrario, sembrano fatti di gomma, si la­
sciano scrutare, teoricamente sono anche di accordo sulle osservazioni
loro fatte, ma poi rimandano tutto indietro al mittente senza lasciarsi
minimamente scalfire, come avessero il cuore di plastica.
Ovvio che con questi tipi non si dà alcuna possibilità di forma­
zione che, per natura sua, è fondata su un patto di fiducia reciproca.
Ma non solo: una certa barriera difensiva potrà ostacolare anche la
relazione col divino, in tali casi, rendendola povera e insignificante o
chiudendo cuore e mente del soggetto dinanzi alle provocazioni della
Parola e della vita.
Questi personaggi, infatti, non si lasciano toccare e formare dalla
realtà e dagli altri, finché quella maledetta corazza non li renderà del
tutto insensibili; come quel levita, icona della non docibilitas, che vi­
de il poveraccio aggredito dai briganti e tirò dritto...
Potremmo allora concludere dicendo che il coefficiente di doci-
bilitas o di non docibilitas è dato dall’insieme degli atteggiamenti
dell’io attuale, ideale e relazionale nei confronti della provocazione
dell’educazione, della formazione e dell’accompagnamento.
Come tenta di dire in sintesi l ’immagine che proponiamo.

Tav. 10: Disponibilità e non disponibilità pedagogica (educaùvo-fonnaùvo-relazionale)

V erità
Educazione Io smarrito
d e l l 'I o A ttuale
L ib ertà
Formazione Io distratto
d e l l 7 o Id e a l e
A pertura
Accompagnamento Io corazzato
d e l l 7 o R e l a z io n a l e

Docibilitas Non docibilitas


Capitolo sedicesimo

ALLA SCOPERTA DELL’IO

Stiamo cercando di capire in cosa consista, in concreto, il «coef­


ficiente di disponibilità educativo-formativa-relazionale», ossia quel­
l’atteggiamento interiore che consente al giovane oggi (e alla persona
matura domani) di lasciarsi educare-formare-accompagnare. Abbia­
mo già indicato i tre soggetti di questa dodbilitas: l’io attuale, l’io
ideale e l’io relazionale, cui corrispondono nell’ordine le tre classiche
articolazioni pedagogiche.
Vediamo allora, anzitutto cosa significa disponibilità educativa
da parte, in modo particolare, dell’io attuale.
Tale disponibilità si esprime, in buona sostanza, in due momenti
o movimenti: il primo in ordine alla scoperta dell’io (è il presente ca­
pitolo), il secondo in ordine alla liberazione da quanto non gli con­
sente di essere e realizzare se stesso (è il capitolo successivo).

1. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32)

«L’educazione è risvegliare nelle coscienze la verità che è dentro le


coscienze, in modo che esse diventino capaci di ragionare da sé, di
giudicare da sé, di farsi libere in un mondo in cui la libertà è un ri­
schio, una conquista e mai un dato di fatto o un dono radicato».1

Se questa è la natura e la finalità dell’educazione è indispensa­


bile mettere il soggetto in grado di conseguire l’obiettivo, ovvero di
cogliere la verità per gestire poi la propria libertà. Che è il senso
profondo delle parole di Gesù nel Vangelo.
Ed è pure il vero problema per la cultura che respira l’attuale ge­
nerazione giovanile: oggi - è importante sottolineare - non è solo la
libertà che costituisce una conquista, ma anche la verità di sé. Sareb­
be ingenuo darla per scontata. Chi non scopre la sua verità non sarà
mai libero.

1E. BALDUCCI, L'insegnamento di don Milani, Roma 1995, 100.


Il giovane, allora, deve anzitutto esser messo al riparo da ogni
ingenuità e pretesa al riguardo. Deve accettare di non sapere e non
conoscersi; deve poter assaporare la fatica e il fascino della scoperta
della propria realtà personale attuale-, deve essere messo in condizio­
ne, in particolare, di identificare ciò che ancora gli impedisce, suo
malgrado, di fare un’offerta libera e totale di sé a Dio: va educato con
indicazioni precise a «tirar fuori» questa verità. Se non la scopre ora è
difficile che la possa scoprire un domani, mentre già al presente tutto
il processo formativo rischia di cadere nel vuoto 0 di risultare scar­
samente efficace e incisivo.
L’inconsistenza, infatti, si pone al centro della persona: è come
un tappo che chiude la bottiglia e impedisce di riempừla di buon vi­
no, o una cellula malata che - se non è diagnosticata e sanata - poco
per volta infetta anche le altre. E non sembra proprio un’eventualità.
Molti tra gli addetti ai lavori già conoscono questo dato di ricerca
scientifica: se all’inizio del cammino fonnativo (noviziato o prima
teologia) circa 1’86% dei giovani candidati ignora il proprio perso­
nale conflitto centrale, dopo 4 anni di «formazione» ancora l’82% ne
è all’oscuro.2
È un dato sconcertante: se il cammino educativo non offre una
possibilità di autoconoscenza che percorso pedagogico è? Se il gio­
vane non sa dove lavorarsi, come può crescere? Se non conosce ciò
che lo rende schiavo, come può divenire libero?
La ricerca non parla di giovani svogliati e poco generosi, ma
semplicemente di candidati non abbastanza aiutati in questo processo
educativo. Forse avrebbe potuto parlare di metodo insufficiente, o di
educatori non abbastanza accorti e precisi nella proposta di aiuto.
Vediamo allora di offrire al giovane stesso qualche indicazione
positiva al riguardo.

2. «Dal cuore provengono i propositi malvagi» (Mt 15,19)

Partiamo dal principio che il giovane deve divenire educatore di


sé, ovvero, deve essere lui stesso reso capace di «tirar fuori» da sé
(= educere) la sua verità. È questo il senso della frase citata prima,
circa il pensiero di quel pedagogista verace che è stato don Milani,
autentico cultore di verità e libertà.

2 Cf. L.M. R u lla - F. IMODA - J. RlDICK, Antropologia della vocazione cri­


stiana. 2. Conferme esistenziali, Casale M. 1986, 148.
Chi è in formazione sa che sta intraprendendo un viaggio, un
viaggio verso il cuore mai compiuto prima, la cui stazione di arrivo è
costituita dalla verità dell’io, specialmente per individuare la propria
debolezza 0 schiavitù, o quei «propositi malvagi» che abitano il cuore
di ogni uomo. Ma passando per le seguenti «stazioni intermedie».
a) Comportamenti
Anzitutto l’attenzione deve andare alla condotta, a ciò che è
immediatamente visibile o facilmente percepibile', specie ai compor­
tamenti abituali, ai gesti 0 ai modi di fare che la persona ripete anche
in diversi ambienti e con diverse persone o che riconosce pure nel
suo passato; alle abitudini ormai sedimentate; alle cose che dice con
una certa frequenza 0 che sottolinea con altrettanta urgenza. Soprat­
tutto se poi rileva una qualche discrepanza ứa quel che dice o preten­
de (dagli altri ma anche da sé) e quel che di fatto compie.
Di solito il giovane resta colpito dal divario esistente (ed evi­
dente) tra valori proclamati e (non) vissuti, ma è proprio questo
scarto che deve scoprire. Per questo è utile che osservi con attenzione
le sue scelte, soprattutto quelle «private» e lasciate alla sua libera ini­
ziativa, i suoi gusti e preferenze, che cosa lo fa godere e soffrire. E
ancora, come reagisce di fronte a successi e insuccessi, come affronta
le crisi di vario genere, sempre dal punto di vista del comportamento
osservabile. Altra area di verifica è la vita sociale, i rapporti positivi
ma anche quelli che il giovane vive con fatica o che ritiene meno si­
gnificativi. È pure importante che registri le sue reazioni istintive, ciò
che esprime impulsivamente, senza riflettere, magari scherzando, o i
suoi vari automatismi, anche ciò che sembra senza significato parti­
colare o che, da un punto di vista morale, è una semplice concessione
veniale a un qualche bisogno.
In ogni caso il principio-guida di questo metodo di indagine è
sempre questo: laddove c ’è incoerenza tra valore proclamato e vis­
suto comportamentale, lì c ’è da scrutare con diligenza. Soprattutto se
tale divario è visibile anche nel passato, riguarda comportamenti a-
dottati in diversi ambienti e con diverse persone, e appare resistente
agli eventuali tentativi di cambio.

b) Atteggiamenti
Al secondo livello di osservazione lo sguardo si fa più acuto e va
più in profondità.
Di solito si parte dall’«area di incoerenza» prima constatata, per
cercare di percepire non solo ciò che appare subito evidente, ma an­
che ciò che non lo è, e pure fa parte dell’io. Gli atteggiamenti, infatti,
sono predisposizioni ad agire, come dei «programmi di azione»,
ormai memorizzati nel nostro «computer», consci e anche inconsci,
pronti per l’uso come uno schema fisso e stabilizzato, e dai quali de­
rivano dei soggettivi stili operativi e criteri di scelte, modi stereotipi
di giudicare gli altri e simpatie/antipatie, attrazioni e repulsioni im­
mediate, stati d’animo e nervosismi. Quell’incoerenza, come ogni in­
cocrenza, ha qui le sue radici.
Uno, ad esempio, quando si sente rifiutato o percepisce difficoltà
di rapporto può aver «imparato» a reagire chiudendosi, cercando una
gratificazione di rivalsa dentro se stesso (magari attraverso la mastur­
bazione) o colpevolizzando o rifiutando a sua volta l’altro, o cercan­
do di attirare l’attenzione degli altri per rendersi gradevole, ma questo
(l’isolamento autogratificatorio o il rifiuto o l’accusa come reazioni
difensive o il tentativo di «seduưe» per ottenere un vantaggio affetti­
vo...) potrebbe anche non essere subito visibile nella sua reale finalità
neppure al soggetto stesso, che non ama scoprire le proprie contrad­
dizioni. E intanto l’atteggiamento in questione continua e si rinforza,
proprio perché non è scoperto nella sua origine.
Di qui l’importanza che il giovane impari a scrutare quest’area, e
non si accontenti di esaminarsi sui comportamenti, ma su ciò che vie­
ne prima o è alla radice di essi. In tal modo egli può decifrare e giudi­
care la propria mentalità e coscienza, il suo valutare o «sentire» una
cosa 0 una condotta come giusta o no, e farebbe senz’altro scoperte
«interessanti» e, a volte, non proprio gradite.
Il giudizio morale molto spesso può esser condizionato dagli at­
teggiamenti che abitualmente uno assume, anzi, in certo senso lo
stesso giudizio è un atteggiamento, ovvero un modo divenuto ormai
abituale di vedere e valutare le cose.

«La stessa nostra coscienza, nella sua capacità di giudicare il bene e il


male, ha la sua storia o preistoria; essa è il prodotto di un laborioso e
misterioso processo che ha luogo dentro di noi, a volte a nostra insa­
puta, e di cui avvertiamo chiaramente più il risultato 0 le conseguenze
(il “sentire” una cosa come buona o cattiva) che non le singole fasi
evolutive».3

3 Cencini, Vivere riconciliati, 46. Purtroppo, nel mio lavoro di consulenza, ho


imparato a non meravigliarmi, in forza di questo principio, di fronte a casi in sé molto
strani, come quello di due persone consacrate che erano giunte a vivere tranquilla­
mente e senza problemi di coscienza una relazione quasi-coniugale portata avanti per
molti anni; o quello di un religioso di una certa età con tendenze pedofxle attive, giu­
stificate in forza di una «Energia solo unificante» che dovrebbe portare a «una nuova
coscienza e a una nuova comunione». Non c ’è patologia in questi casi (o non c ’è ne­
Certo, ci vuole un po’ di coraggio e onestà per non accontentarsi
di dire: «io sento che quella cosa è giusta 0 no», agendo di conse­
guenza, e invece decidere di andare più in profondità e domandarsi:
«come mai io mi concedo quella gratificazione, o vivo in un certo
modo quel rapporto affettivo senza sentirmi in colpa, come mai ho
sviluppato quella certa sensibilità (e non altre), come mai mi viene
spontaneo quel tipo di giudizio...?» e via dicendo e interrogandosi...
Un certo turbamento, durante questa analisi, è buon segno, sta a
dire che il giovane sta camminando nella direzione giusta e «sco­
prendo gli altarini». Normalmente gli atteggiamenti non sono molti,
non identificandosi con i comportamenti, ma toccano le aree strategi­
che del nostro essere, il rapporto con le nostre scelte di vita, con gli
altri, con Dio.
Di solito siamo molto attaccati agli atteggiamenti, per questo non
è facile stuzzicarli e cambiarli. Soprattutto se non sono mai oggetto di
attenzione critica.

c) Sentimenti
Il terzo passaggio viene da sé: una volta superata la barriera di
ciò che è subito visibile non dovrebbe essere difficile spingere oltre
l ’analisi, per rilevare con sincerità quel che il soggetto prova dentro
di sé o ha provato in quella precisa circostanza, quando ha ricevuto
quell’affronto o si è sentito emarginato.
Il sentimento è una risonanza affettiva con cui il giovane vive i
propri stati soggettivi nel rapporto col mondo esterno: nasce come
emozione che diviene un po’ alla volta stabile e può arrivare a essere
così intensa da diventare passione.
È in fondo una forma di conoscenza dell’oggetto o dell’evento,
valutato in riferimento alla propria persona; proprio per questo il
sentimento è profondo rivelatore dell’io e dell’eventuale eccessivo
attaccamento ad alcune realtà e rifiuto di altre.
Così, se il giovane scopre di soffrire e di soffrire troppo per esse­
re stato messo in disparte da qualcuno, potrebbe essere aiutato a capi­
re che ciò dipende dal bisogno esagerato contrario: quello di essere al
centro dell’attenzione. E così il sentimento svela l’egoismo che c’è
nel cuore e aiuta a capire la natura della contraddizione. In ogni caso
è il sentimento che consente di capire e scrutare le profondità della
coscienza; dunque non va penalizzato e ignorato, ma riconosciuto

cessariamente), ci sono, più spesso, degli atteggiamenti cresciuti indisturbati e mai


verificati nella loro radice, che a un certo punto hanno condizionato anche il modo di
pensare e valutare (per essere poi pienamente giustificati).
con esattezza proprio per capứe ciò che significa o nasconde. Il sen­
timento in sé non significa peccato (a meno che il soggetto non favo­
risca con atteggiamenti corrispondenti un certo tipo di sentimenti);
tutt’al più segnala una debolezza o una non libertà interiore che è im­
portante riconoscere.
Vi sono vari tipi di sentimenti: amore, odio, gioia, tristezza, spe­
ranza, disperazione, beatitudine, estasi, pienezza, vuoto interiore...
Normalmente un individuo prova una certa varietà di sentimenti, che,
in fondo, oltre a essere prezioso indicatore, sono una ricchezza del
cuore umano. C’è tuttavia chi li teme o li demonizza, 0 se ne vergo­
gna o ha paura di scoprirsi capace di sentimenti negativi, di rancore o
risentimento, e cerca in qualche modo di negarli, fino a divenire per­
sona «anemotiva», incapace davvero di provare sentimenti, fredda e
rigida come un baccalà. Sarebbe una grave anomalia per un consa­
crato! Anche perché se non conosee il suo cuore, come potrà comu­
nicare con un altro cuore?
Il giovane dovrebbe apprendere questo principio: attraverso il
coinvolgimento emotivo e il tipo di emozione provata l’io si rivela a
se stesso. Val la pena essere sincero, dunque, con se stesso per e~
ducare (= tirar fuori) i sentimenti.

d) Motivazioni
Dai sentimenti alle motivazioni, o al tentativo di identificare ciò
che realmente spinge il giovane ad agire, i bisogni che sono in lui
prevalenti, anche se inconsci.
La motivazione è il fattore dinamico-direzionale che attiva e di­
rige il comportamento umano verso un obiettivo preciso, è energia
mirata, forza intenzionale, è ciò che il soggetto vuole realmente, pur -
a volte - senza intenderlo e magari in contrasto con altri obiettivi di­
chiarati e... nobili. Qui il giovane deve cercare di cogliere Yorien­
tamento generale della sua vita, di ciò che intende realizzare, come
emerge dalle varie motivazioni che coglie alla base del suo essere e
agke.
Non basta più, allora, la sincerità, ma occorre giungere alla ve­
rità di sé. Attraverso delle domande precise: agisco in base a bisogni
egoistici o in vista di motivi trascendenti? Se soffro così tanto per'un
certo rifiuto della mia persona o per un insuccesso, che cosa c’è al
centro della mia attenzione psichica, o a che cosa è attaccato il mio
cuore? Quali sono i miei desideri e quanto mi sento libero di realiz­
zarli? Come mai per fare certe cose sono disposto ad affrontare grossi
sacrifici, mentre altri impegni e doveri mi lasciano freddo? Perché
non mi sono nemmeno accorto di quella persona che aveva bisogno
di una mano, o della tristezza di quel fratello che chiedeva compren­
sione? Come mai altri hanno saputo leggere come segno dei tempi
quanto io non ho neppure notato?
Queste e altre domande fanno capire lentamente alla persona che
cosa vi sia all’origine del fare o dell’omettere, del vedere o del non
accorgersi, dell’appassionarsi o del rimanere freddi. Dal coraggio
delle domande e dalla verità delle risposte dipende la possibilità di
cominciare a dare un nome preciso all’inconsistenza centrale.

e) Equivoco di fondo
Dovrebbe essere la stazione di arrivo, almeno in questa fase. Tutto
il cammino precedente ha lo scopo di giungere a identificare Vequivoco
di fondo, ovvero la componente meno matura e più infantile del proprio
progetto di vita. Air inizio di un cammino educativo-formativo la stessa
opzione vocazionale è sempre imperfetta, è inevitabilmente, attratta da
motivazioni e desideri non ancora evangelizzati, che ovviamente la in­
deboliscono e rendono meno autentica. È dunque importante che il
giovane venga aiutato quanto prima a riconoscere questo equivoco di
fondo, in forza del quale - ad esempio - desidera sì offrirsi a Dio, ma al
tempo stesso è un po’ troppo preoccupato della sua affermazione, 0
vuole dedicarsi al bene degli altri, ma non disdegna - se possibile - di
essere al centro dell’attenzione, o proclama il valore della comunità, ma
per evitare di ritrovarsi solo e gratificare il proprio bisogno d’affetto.
Non è un dramma scoprire tutto ciò; sarebbe un dramma se uno potesse
andare avanti senza essere provocato prenderne coscienza. Chi non
scopre fin da subito il suo “equivoco di fondo” rischia di rendere equi­
voco il suo cammino di formazione e consacrazione.
In pratica, allora, il giovane va posto dinanzi all’interrogativo
strategico di ogni percorso credente e di ricerca dell’Etemo: ma io ci
credo o no? Cerco veramente Dio o qualcos’altro assieme al divino?
Da questa domanda centrale sgorgano inteưògativi a grappoli:

agisco da credente o da pagano, o - prima ancora di agire - sento,


amo, ragiono, scelgo... con la libertà del figlio o con la paura del ser­
vo? La mia fede è tale da segnare la mia identità e influenzare le mie
decisioni? Sono disposto a pagare di persona pur di rimaner fedele ai
miei valori? Sto cominciando ad assaporare la sapienza della croce, i
sentimenti di Cristo, il gusto delle beatitudini? Ho mai fatto
l’esperienza di non preoccuparmi troppo della mia considerazione
presso gli altri quando qualcuno ha detto male di me?, o di perdonare
senza che l’offensore si rendesse conto del male fattomi?, o di lascia­
re che frutto e merito delle mie fatiche venissero attribuiti ad altri?, o
di accettare obbedienze difficili e poco convincenti sul piano umano
solo per compiere la volontà di Dio?, o di decidere qualcosa solo «in
verbo tuo» e senza alcuna garanzia umana?, o di perseverare in un
compito anche quando avevo la sensazione di passare per stupido?4

Questo tipo di indagine dovrebbe mettere il giovane in... ginoc­


chio, o in condizione di evidenziare che cosa si oppone in lui al pro­
getto di Dio, cioè la sua inconsistenza centrale, che spiega pure l’in­
coerenza tra valore proclamato e vissuto.
E se non è lui ad avere il coraggio di porsi queste domande, toc­
ca all’educatore «tirarle fuori»... E arte finissima, psicologica e spi­
rituale, saper porre le domande giuste al momento giusto.
Grazie al confronto serrato e alla provocazione intelligente il sog­
getto può davvero portare avanti un cammino di autoconoscenza e la­
vorare efficacemente su di sé, sapendo dóve concentrare i suoi sforzi.

3. «State attenti, vigilate..ề» (Me 13,33)


Questo tipo di analisi non viene naturale a nessuno, tanto meno al
giovane. È necessario essere molto motivati e avere pazienza
All’inizio, infatti, chi si avventura in questo viaggio attorno a sé ha
la sensazione di capire ben poco e di complicarsi inutilmente la vita. E
forse, nel segreto della sua coscienza (o dell’inconscio), impreca contro
la sorte che gli ha messo ai fianchi uno che non lo lascia U1 pace, e lo
confronta continuamente con domande compromettenti...
In realtà non si tratta né di fare degli esercizi quotidiani di auto­
analisi, come fosse una ginnastica mentale, né di subire alcun inteưo-
gatorio indagatore, ma di imparare ad assumere un po’ alla volta un
atteggiamento costante di attenzione a se stessi, di vigilanza intelli­
gente, che consenta al soggetto di comprendere in tempo reale non
solo cosa sta facendo, ma perché o per chi sta comportandosi in quel
modo, per quale segreto scopo 0 spinto da quale necessità.
In altre parole, si tratta non solo di imparare a fare l’esame di co­
scienza, ma di salvare il bene prezioso della coscienza, che è ciò che
ci rende simili a Dio, bene che è la premessa di ogni discorso sulla
verità, o la condizione fondamentale di quell’altro dono prezioso che
è la libertà.

4 Alcuni di questi interrogativi sono liberamente tratti da K. Rahner, «Reflec­


tions on the Experience of Grace», in IDEM, Theological Investigations, III, New
York 1974, 86-90.
Il giovane va educato a capire che se non conosce il suo intimo
non può esser libero, perché sarà dominato da forze oscure; ciò che
uno ignora di sé, infatti, diventa un po’ alla volta padrone del suo
cuore.
Né ha alcun senso obiettare che in tal modo si diventa scrupolosi
e perfezionisti, poiché è esattamente il contrario: chi impara a cono­
scersi anche in certi risvolti segreti, e capisce quanto sia difficile sco­
prire le reali motivazioni dell’agire, impara anche a non giudicare fa­
cilmente gli altri e a non attribuire le intenzioni al prossimo, a esser
misericordioso con il fratello e a invocare su di sé la misericordia di
Dio, ovvero apprende a pregare e, alla fine, a esser misericordioso
anche con se stesso. E non è poco. Perché lì abita la perfezione vera,
quella dell’amore.
Ovvio che poi tutto questo non possa ridursi a una semplice in­
trospezione del soggetto stesso, che deve invece aprirsi a tutti gli ap­
porti che possono venirgli dall’esterno, dal maestro di formazione
agli stessi confratelli: ci sono delle cose di noi stessi, infatti, che noi
non riusciamo a vedere e siamo lontani dall’immaginare, e che invece
sono quanto mai visibili dall’esterno. L’individuo libero e intelligente
non fa il risentito quando qualcuno in qualche modo (magari scher­
zando) «gli fa la punta» sul suo comportamento, ma tiene conto di
tutto e cerca di cogliere anche in questi rilievi, specie in quelli che
sente antipatici e che è tentato di negare, indicazioni utili per la cono­
scenza di queir enigma che è il nostro io.
Capitolo diciassettesimo

LIBERAZIONE DELL’IO

Secondo certa pedagogia un po’ neo-illuminista è sufficiente sa­


pere per crescere, conoscere Xpropri difetti per superarli (un po’ co­
me certa ingenua pubblicità: «se lo conosci, lo eviti»). La formazio­
ne, in quest’ottica, sarebbe prevalentemente una questione di infor­
mazioni, giocata soprattutto sul versante intellettuale. Peccato che
tale pretesa sia poi smentita dalla realtà dei fatti: molti giovani rie­
scono, debitamente aiutati, a far luce sulle loro debolezze, senza però
riuscire a venirne fuori.
Ma non succedeva poi anche a Paolo di vedere e voler fare il be­
ne e poi ritrovarsi ad agire secondo una «legge» contraria (cf. Rm
7,21-25)? Non basta, allora, avere scoperto dove si è più fragili, oc-
coưe mettere in atto precisi meccanismi operativi che consentano al
giovane di colpữe l’inconsistenza nel punto giusto, ovvero nei suoi
dinamismi vitali.

1. Dinamismo dell’inconsistenza

È necessario, allora, precisare il dinamismo dell’inconsistenza, il


modo in cui si propaga ed estende all’intera personalità, determinan­
do conseguenze a vari livelli.
a) L’inconsistenza crea anzitutto una spaccatura all’interno del
soggetto, una situazione di contrasto tra l’ideale scelto e sottoli­
neato, proposto agli altri e accarezzato come garanzia di positi­
vità personale, da un lato, e il vissuto quotidiano nelle sue varie
espressioni (dal comportamento all’opzione di fondo), dall’altro.
Il giovane di solito percepisce gli effetti della spaccatura interna
(nervosismo, tensione nei rapporti, mancanza di entusiasmo,
perdita di interesse per le cose spirituali, difficoltà nell’osser­
vanza dei voti o a concenti-arsi nello studio ecc.), ma non li sa
collegare a essa, e se la prenderà con l’istituzione o con gli altri,
coi professori o coi superiori, con il suo temperamento o ... coi
suoi problemi di digestione (o con chi sta in cucina); in ogni ca­
so ignora la radice del contrasto.
b) Questa incoerenza determina uno squilibrio nella distribuzione di
energia emotiva. In pratica, l’individuo inconsistente attribuisce
- senza rendersene conto - troppa importanza ad alcuni aspetti o
esigenze dell’io (normali in se stesse) e ne svaluta altre; ha un bi­
sogno eccessivo di gratificazione in certe aree dell’io e teme o
ignora altre componenti della sua personalità.
Normalmente, nel cammino di formazione di un giovane, le aree
più problematiche sono quelle dell’affettività-sessualità e dell’i-
dentità-positività. Dunque sarà l’una o l’altra di queste aree che
veưà caricata di importanza emotiva eccessiva a danno di altri
aspetti della personalità e della vita. Così, in cima ai desideri vi
sarà Tesser benvoluto, o nulla avrà più senso se non gratifica an­
zitutto l’esigenza di emergere o di essere ben considerato dagli
altri, con tutto ciò che è legato direttamente o indirettamente a
questi due bisogni (come l’uso della sessualità o l’aggressività),
mentre assumeranno fatalmente meno rilievo altee dimensioni,
costose o gratificanti, dell’esistenza e di un’esistenza consacrata.
L’incoerenza, insomma, si sposta sempre più nel campo dell’at­
trazione, di ciò che il giovane «sente» denteo di sé. Con conse­
guenze a due livelli.
c) Anzitutto quello strutturale-relazionale. Il senso átỉY autorealiz­
zazione, che si esprime nel sentirsi sazio e appagato, o felice e
soddisfatto, sarà inevitabilmente condizionato da ciò che il sog­
getto sente più centtale per sé (e legato all’inconsistenza), che
sarà - a sua volta - sempre più distante dalla logica evangelica
delle beatitudini.
Così anche la percezione dell’altro e il rapporto interpersonale
in certi casi subứanno una vera e propria distorsione percettiva,
che potrà estendersi al modo di intendere la vita comunitaria e
apostolica, creando le famose aspettative irrealistiche: l’altro, in
ultima analisi, è visto in modo interessato, in funzione dei propri
bisogni, per cui il rapporto sarà positivo con chi li gratìfica, ne­
gativo con chi non li appaga, neutro con chi vi è indifferente.
Allo stesso modo il coinvolgimento nell’apostolato sarà dosato
secondo il medesimo calcolo.
Tale distorsione non risparmerà nemmeno la concezione e
l’esperienza di Dio, l’interpretazione della sua Parola e l’annun­
cio del suo messaggio. L’inconsistenza, in altre parole, crea co­
me dei campi di reazione differenziati nella psiche, per cui a
certi temi e contenuti della Parola vi sarà immediata e intensa re­
azione, mentre ad altri non vi sarà reazione alcuna, come se nella
psiche (o nel cuore) vi fosse una sorta di anestesia locale, una
specie di blocco percettivo-interpretativo. Oppure, lo stesso bra­
no sarà interpretato in modo unilaterale e un po’ tendenzioso, in
modo da non turbare più di tanto l’equilibrio inconsistente del­
l’individuo (ad es. la parabola dei talenti, interpretata in modo da
giustificare l’uso egoistico delle proprie doti),
d) A livello invece dinamico-funzionale l’inconsistenza determina
mancanza di libertà e progressiva perdita del controllo su una
parte di sé. Attraverso un percorso scandito da queste 4 tappe:
all’inizio il soggetto si concede piccole gratificazioni nelle aree
interessate dall’inconsistenza; queste concessioni veniali diven­
tano poco a poco abitudini sempre meno controllate e ponderate,
e poi d in a m is m i automatici sempre più nascosti ed esigenti; fino
a piazzarsi al centro della vita e divenire motivazioni inconsce.
In pratica il soggetto si sentirà sempre più attratto e dipendente
da ciò che si concede regolarmente, ma rateazione, oltre ad au­
mentare le pretese, scatterà in modo sempre più automatico, fa­
cendo sentir meno la dissonanza e favorendo la logica dello
«spontaneo-dunque-lecito». A questo punto il gioco è fatto. An­
zi, la spaccatura interna al soggetto è destinata in tal modo ad
aumentare sempre più, in un circolo vizioso che rischia di ripe­
tersi sempre più inconsistente.
Proviamo a rendere attraverso lo schema questo meccanismo.
Lo schema mostra il circolo vizioso tìpico dell’inconsistenza: la
spaccatura interna al soggetto determina non solo uno squilibrio
emotivo, ma pure delle conseguenze sempre più estese a tutta la per­
sonalità, una sorta di metastasi cancerogena della psiche e dello spi­
rito, che finisce per aumentare ancor più la divisione interiore.
SPACCATURA INTERNA


SQUILIBRIO
NELLA DISTRIBUZIONE DI ENERGIA

a
CONSEGUENZE

A livèllo stru ttu rale-relazionale: A livello dinam ico-junziohale.


Distorsione percettivo-interpretativa Perdita della libertà lungq un
d e l concetto d i s é cammino progressivo: !
e d e ll ’autorealizzazion e • p ic c o le gratificazioni
della vita com une e apostolica ® abitu din i incontrollate
d el ra p porto con D io ® dinam ism i autom atici
e con la sua P arola ® m o tivazion i inconsce

2ề Superamento dell’inconsistenza

Sapere queste cose non basta, ma mostrarle al giovane ed evi­


denziarle nel suo comportamento e nella loro struttura logica è il pri­
mo passo, in ogni caso, perché il giovane stesso assuma un atteggia­
mento diverso, responsabile e libero, adulto e credente, nei confronti
delle proprie inconsistenze.
Superare le proprie inconsistenze non vuol dire cancellarle, co­
me tutti vorremmo (anche Paolo l’avrebbe tanto desiderato), ma ri­
stabilire in qualche modo l’unità interna, convertendo il dinamismo
centrifugo che è tìpico dell’inconsistenza in dinamismo centripeto, o
cercando di far convergere e riconduưe al centro quanto rischia con-.
tinuamente di scappare lontano, di evadere. Insomma, non eliminare
e amputare, ma cercare, per quanto possibile, di far ruotare tutto at­
torno al perno centrale della vita, che è Cristo coi suoi sentimenti.
Vediamo in ordine.

a) Atteggiamento responsabile
Si tratta, anzitutto, da parte del giovane, di vivere con senso di
responsabilità le proprie inconsistenze. Come abbiamo già detto, il
singolo può anche non essere responsabile di quanto è avvenuto nel
suo passato; vi sono inconsistenze, cioè, che possono esser legate a
eventi e ferite per i quali il soggetto non ha alcuna colpa, anzi, ne è in
qualche modo vittima. Ma in ogni caso egli è responsabile al pre­
sente dell’atteggiamento che assume di fi-onte alle sue debolezze, an­
che a quelle ereditate dal suo passato.
E responsabilità vuol dire, per prima cosa, il coraggio di am­
metterle con precisione e confrontarsi quotidianamente con esse. Chi
le nega finisce per subirle; chi le ignora non fa che rinforzarle. Vi so­
no vari modi per negarle e ignorarle: non coglierne la gravità («non è
mica peccato dopo tutto!»), scaricarne la responsabilità sugli altri
(«non dipende da me, è lei che ha bisogno di calore umano...»), giu­
stificarle pensando solo ai propri sentimenti («da quando la conosco
sono più sereno e prego anche meglio»), razionalizzarle e sublimarle
(«è un’amicizia a fin di bene: è il Signore che ci ha fatto incontrare»),
tenere la cosa nascosta senza confrontarsi con nessuno (perché «gli
altri dall’esterno non potrebbero capire»),

«Ingannare se stessi senza accorgersene - secondo La Rochefoucauld -


è più facile che ingannare gli altri senza che se ne accorgano»,

ma è anche molto più dannoso. Infatti chi agisce così crede di «ac­
cettarsi», ma dentro è lacerato. Mentre una specie di invisibile tarlo
roditore toglie efficacia a quanto fa, nonostante la sua efficienza.

b) Rinuncia intelligente
È tipico dell’adulto essere responsabile, e infatti si tratta di
adottare un atteggiamento a d u l t o nei confronti delle proprie debolez­
ze, scegliendo di rinunciare a certi comportamenti gratificatoli. Chi
vuole realmente superare le proprie inconsistenze sa bene che non
può permettersi tutte le libertà, sa che deve stare attento ad alcune
situazioni, sa che a un dato momento deve saper dire di no a certe
abitudini 0 cercare di bloccare un po’ alla volta certi automatismi.
Ognuno ha le sue debolezze e ognuno, di conseguenza, deve avere
certe attenzioni anche su cose apparentemente piccole, che a un altro
potrebbero sembrare insignificanti.
Un tempo si diceva di «fuggke le occasioni prossime di peccato»; è
un consiglio che potrebbe essere sottoscritto anche su un piano psicologi­
co. Si salva dal pericolo solo chi vigila attentamente anche quando ritiene
di sentirsi sicuro (e chi mai può dirsi tale su tutto il fronte?), e sa dunque
dứsi di no, rinunciare, restare fedele a un’intelligente ascesi. L’uomo
normale è colui che ha imparato a rinunciare a qualcosa.
«Chi crede di poter leggere tutto, sentire tutto, vedere tutto; chi rifiuta
di dominare la propria immaginazione e i suoi bisogni affettivi, non
deve impegnarsi nella via della consacrazione... Dio non potrebbe re­
stargli fedele, né si può esigere da Dio che stabilisca per lui una sal­
vaguardia miracolosa».'

A cosa deve mirare questa capacità di rinuncia? A render sempre


meno dipendente la persona dalle sue inconsistenze, o a raggiunger
sempre più la certezza .di poter fare a meno di certe gratificazioni. In
tal modo la sua scelta di vita diviene sempre più chiara e coerente, e
dunque anche gioiosa e appagante.
Chi permane nel compromesso, invece, non gusta né le gioie di­
vine della donazione di sé a Dio né quelle umane della gratificazione
piena dei sensi. E così, per mitigare il senso di lacerazione interiore,
lentamente languisce nella mediocrità. Mentre quel famoso tarlo,
sempre meno invisibile, continua a rodere indisturbato...

c) Approdo alla libertà


L’adulto che sceglie responsabilmente la rinuncia, invece, ap­
proda lentamente alla libertà. Intervenendo sui comportamenti, infat­
ti, si modificano o si attenuano un po’ alla volta anche gli affetti; il
soggetto, come abbiamo detto, si rende sempre più indipendente da
certi bisogni (quelli, esattamente, che impara a non gratificare), men­
tre sperimenta stili alternativi di condotta, più coerenti con la sua
identità e sempre più attraenti. Per questo ora comincia ad assaporare
una nuova libertà, perché può ridistribuire l ’energia emotiva in ma­
niera più conforme alla verità del suo essere: cioè ama ciò che è
chiamato ad amare. E proprio questa è libertà: potersi realizzare se­
condo la verità del proprio io, essere attratto da tale verità, come ve­
dremo più avanti.

1 A. ANCEL, cit. da M. PELLEGRINO, Castità e celibato sacerdotale, Torino -


Leumann 1969, 22-23.
Se, ad esempio, l’inconsistenza è di natura affettiva, il giovane
che decide e cerca di arrestare l’abitudine di conquistare l’affetto al­
trui ò di riempire la sua vita di relazioni o di mettersi al centro dell’at­
tenzione, sperimenta - con fatica prima e sorpresa poi - non solo la
sua capacità di vivere una certa solitudine, ma addirittura una solitu­
dine nuova e impensata, non più tenebrosa e insopportabile, vuota e
neutra, ma una solitudine amica, spazio dell’anima, persino fecondo
ed esaltante, necessario per sondare le proprie possibilità e scoprire
quel progetto assolutamente personale pensato da Dio per lui, una
solitudine fonte della parola e della relazione.
E così il soggetto prima schiavo e mendicante di segni di affetto,
magari disposto a svendersi pur di strappare considerazione e benevo­
lenza, scopre ora che oltre il confine delle sue paure e schiavitù c’è un
altro paese da abitare, pieno di luce e di bellezza, immensamente più
vasto e ricco del piccolo mondo di conquiste, ricatti, gelosie, compro­
messi precedenti. La sua vita ed energia emotiva hanno ora tutt’altro
punto di riferimento. Che dà consistenza ed efficacia a tutto quel che fa.
Più forte di ogni tarlo roditore...
d) Far girare la vita attorno al centro della vita
Anzi, proprio qui viene fuori il credente e il consacrato, come
colui che invece di girare, come un satellite, attorno a realtà che lo
allontanano dalla sua orbita naturale e mortificano la sua vitalità, po­
ne al centro della vita la potenza della grazia. E a partire da questo
centro, o da questa opzione di fondo, si ricostruisce lentamente.
È come una nuova nascita, che non elimina di per sé ogni im­
perfezione e debolezza, ma semplicemente riporta l’io al suo punto di
partenza e di arrivo, all’amore di un tempo (cf. Ap 2,4) e a ciò che lo
rivela oltre il tempo a se stesso, al centro del mistero della sua vita,
donde si sprigiona una forza che l’attrae e unifica. Se l’inconsistenza
divide e separa, questo punto alfa e omega concentra e rappacifica.
E se questo punto centrale e rivelatore dell’io è il cuore di Cristo
coi suoi sentimenti, allora davvero il giovane trova la possibilità di
raccogliere tutta la sua vita e la sua storia attorno a un nucleo vitale e
caloroso. La conversione dell’inconsistenza significa la volontà pa­
ziente e testarda di far girare attorno a questo sole ogni frammento di
vita, ogni pensiero, gesto, progetto, affetto, sentimento..., perché ne
sia illuminato e riscaldato, perché riacquisti vita e si trasformi, perché
bruci le sue scorie nella fornace ardente del cuore divino. Comincia a
compiersi allora il grande progetto del Padre, «di ricapitolare in Cri­
sto tutte le cose» (Ef 1,10), o «per mezzo di lui riconciliare a sé tutte
le cose, rappacificando con il sangue della sua croce» (Col 1,20) ogni
conflitto, dentro e fuori dell’uomo.
Per questo è solo ora che il giovane può accettarsi in ogni suo
aspetto, anche in ciò che ancora stenta a entrare nel dinamismo unita­
rio del dono di Dio: è la potenza della grazia che si manifesta nella
debolezza dell’uomo, finendo per attrarre a sé ogni battito del cuore
umano.
Il superamento dell’inconsistenza, allora, lungi dal significare
impeccabilità e cancellazione istantanea di ogni imperfezione e ten­
denza, mette in moto tutto questo lavoro umile e lento di presa di co­
scienza e assunzione di responsabilità, di rinuncia e disciplina intelli­
genti, di ricerca di atteggiamenti e comportamenti nuovi, di scoperta,
soprattutto, di questo nuovo centro attorno al quale far gữare pro­
gressivamente tutta la vita.
Ed ecco la sintesi nella tavola riassuntiva, costruita attorno ai
punti strategici nel cammino di superamento deirinconsistenze: la re­
sponsabilità nei loro confronti, la capacità di rinuncia che apre a li­
bertà, e - infine - il motivo risolutore, il cuore di Cristo come centro
di irradiazione che tutto accoglie e raccoglie in sé, perché nulla si
sottragga al suo calore (cf. Sai 18,7).
Tav. 12: Superamento d e ll’inconsistenza
Quanto fin qui detto lo possiamo raccontare anche attraverso
un’immagine parabolica che ci può aiutare a meglio comprendere il pro­
cesso di liberazione dell’io dalle inconsistenze. È una mia libera rielabo­
razione della parabola con cui Partìa Nelson presenta la dinamica del
cambiamento, ponendosi proprio dal punto di vista del soggetto:2
a) «Cammino per la strada. E stretta e con una profonda buca al
centro. Non la vedo e ci cado. Sono perso, impotente. Ma non è
colpa mia. Ci vorrà un ’eternità per trovare come uscirne. Solo
un altro potrà tirarmi fuori. Speriamo che qualcuno s ’accorga
di me...».
All’inizio il soggetto non sa né vede nulla: l’inconsistenza è in­
conscia. Se n’accorge solo dalle conseguenze (= la caduta), che se­
condo lui non può evitare, con una strada stretta e una buca-traboc-
chetto che non si vede («non è colpa mia»).
Stesso atteggiamento e stessa pretesa di non responsabilità circa
la possibile soluzione: potrà dipendere solo dagli altri, magari da Dio,
o forse dal formatore, visto che è lì apposta per questo e ci tiene così
tanto; ma il giovane non fa assolutamente nulla. Un senso di fatali­
smo e impotenza pervade il tutto.
b) «Cammino per la stessa strada, stretta e con buca. Fingo di non
vederla. Ci ricado: mi sembra tutto assurdo, ma è più forte di
me, non è colpa mia. Ci vorrà ancora molto tempo per uscirne.
Grido per attirare l ’attenzione di qualcuno».
L’inconsistenza è abbastanza radicata: stessa strada e nuova ca­
duta, è ormai come un automatismo comportamentale che s’impone
senza lasciare scampo. Ma qualcosa comincia a muoversi đenữo, ov­
vero il soggetto comincia a vedere, percepisce un certo disagio inte­
riore, ha un vago sentore di qualcosa che non funziona dentro di sé
anche se ne ignora l’origine e non ha ancora il coraggio di cambiare
condotta (e strada).
Anzi, «finge» di non vedere, ossia, usa meccanismi difensivi per
negare, spostare, proiettare, razionalizzare la sua inconsistenza, far
finta di sorprendersi... E liberarsi da ogni senso di colpa.
C’è contraddizione, ma c’è anche un minimo di azione persona­
le: grida per farsi notare (forse inizia a pregare, oppure ha iniziato a
manifestare un certo disagio con colui che lo guida).

2 La «parabola» di p. Nelson si può trovare in J. S t e w a r t - p. JOINESS,


L'analisi transazionale, Milano 1990, 343-344.
c) «Cammino per l ’identica strada con la solita buca. Vedo che
c’è. Ci cado ancora..., è un’abitudine. I miei occhi sono aperti.
So dove sono. E colpa mia. Ne esco immediatamente».
Stesso copione comportamentale all'inizio: l’inconsistenza è du­
ra a morire. Il fatto di averne una certa conoscenza non è sufficiente
per non caderci più. Ma sta cambiando l’atteggiamento interiore: il
soggetto non può, alla lunga, continuare a fingere. Ora «vede», gli
occhi sono aperti non solo sulla condotta incoerente, ma anche sulla
radice e motivazione di essa; ora sa dove è, dove abita la sua immatu­
rità, quanto basta per dire: «è colpa mia». E questo cambia radical­
mente il modo di porsi di fronte al contrasto interiore.
L’inconsistenza diventa «abitudine» che può esser controllata,
allora, non più automatismo che fa sentire il soggetto impotente.

«Chi dice “è più forte di me” forse non ha ancora sperimentato quel
profondo cambiamento che inizia quando invece di attribuire la re­
sponsabilità ad altri (a qualche forza indomabile) si comincia a dire:
“è colpa mia”».3

Ecco, infatti, il segno del cambiamento: il soggetto esce «imme­


diatamente» dalla buca, con le sue gambe, senza stare ad aspettare altri
(né delegare a Dio). Che non vuol dire che l’inconsistenza sia debellata,
ma che l’individuo permane libero e responsabile di fronte a essa, e che
certa condotta a essa legata può esser ben presto modificata.
d) «Cammino per la medesima strada stretta con buca larga. La
aggiro, ma devo stare ben attento a non cadervi...».
L’inconsistenza c’è davvero ancora, infatti il giovane si sente
spinto a camminare per quella stessa strada ove pur sa esserci la buca.
E fase decisiva di contrasto interiore tea il vecchio affetto che conti­
nua ad attrarre e la novità di una bellezza e libertà appena scorte che
comunque danno la forza di «aggirare» l’ostacolo e non cadervi.
Ma è ancora un equilibrio delicato e una situazione rischiosa:
finché permane una certa attrazione basta un calo di attenzione e il
volenteroso e un po’ ingenuo giovane potrebbe ricadere nello s.tile
precedente. Né può pretendere di aggừâre ostacoli tutta la vita o di
ridurre la sua consacrazione a una perenne corsa a ostacoli. La solu­
zione sta altrove...

3 M. D anieli, Liberi per chi? Il celibato ecclesiastico, Bologna 1995, 45.


e) «Cammino per un’altra strada. È larga e senza buche, ed è pia­
cevole camminarvi. Non rimpiango affatto la strada di prima...».
Finalmente la decisione radicale, che è la più semplice e la più
intelligente, quella di rimuovere l’ostacolo o di prendere un’altra via,
imprimendo in ogni caso una direzione diversa all’essere e all’agire,
e ricostruendo su basi nuove identità e affettività.
È la vera libertà, quella fondata sulla verità di sé, che però chie­
de anche il concorso della volontà, coi sacrifici e le rinunce che spez­
zino la catena di vecchie abitudini e schiavitù. Dove sta scritto, per
altro, che si deve cadere sempre nella stessa buca, quando ci è data la
possibilità e libertà di prendere un’altra via?
E la strada di prima? Forse c’è ancora, ma piano piano non attira
più, è come non ci*fosse. In ogni caso nessuna nostalgia per la schia­
vitù di un tempo. È troppo bella la libertà di essere e amare quel che
si è chiamati a essere e amare...
Capitolo diciottesimo

L’UOMO NUOVO

Siamo alla seconda articolazione del processo pedagogico, con­


siderato dal punto di vista del candidato: dopo Veducare, che condu­
ce alla scoperta della verità dell’io e all’identificazione e progressivo
superamento dell’inconsistenza centrale, viene il formare, secondo
quel modello in cui ogni istituto ritrova la propria ispirazione cari­
smatica; tale modello e destinato a divenire la «forma», la norma di
vita o l’io ideale del giovane consacrato.
Se prima l’inconsistenza lo divideva interiormente, ora egli può
unificare la vita in tutte le sue espressioni attorno a questa forma che
è anche la sua nuova identità. Il lavoro, allora, a questo punto, non è
più solo negativo, di eliminazione delle immaturità, ma è anche posi­
tivo, per costruire nella libertà una maturità nuova, dando alla propria
persona un nome nuovo e all’esistenza un preciso obiettivo.

1. «Formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo» (Ez 18,31)

Insistiamo e chiariamo: si fratta di entrare in una realtà nuova, non


basta portare a compimento quel che uno sente denteo, l’obiettivo non è
semplicemente l’autorealizzazione, non è sufficiente liberarsi dalle
proprie schiavitù e poi beatamente lasciarsi andare... Il giovane deve
capire che la formazione lo introduce in un contesto nuovo di signifi­
cati e valori, è come un processo che lo fa entrare progressivamente in
una teưa promessa, dopo il deserto purificante dell’educazione.
Insomma, la proposta di consacrazione a Dio rappresenta qual­
cosa di inedito e non programmabile, Cristo è qualcosa di nuovo che
in qualche modo rompe con il passato, la sua parola sconcerta e apre
orizzonti impensati, la sua proposta è da vertìgini, l’impatto con lui fa
cadere da cavallo, chi non ne resta scioccato ha incontrato solo i suoi
fantasmi. In una stagione culturale come la nostra che omologa e ap­
piattisce tutto è indispensabile che la formazione conservi tutta la sua
forza di novità, il suo senso originario di proposta di una forma come
modo nuovo di essere, forma della mente, del cuore e della volontà,
dei sensi, dei sentimenti...
Allora può nascere davvero l’uomo nuovo, altrimenti, come ab­
biamo già indicato, continueremo ad avere giovani che attraversano
tutto il percorso canonico, dal postulandato alla professione perpetua,
senza lasciarsi minimamente toccare dalla formazione, senza cambia­
re nulla, senza diventare nuovi. Come turisti in un lungo viaggio turi­
stico, tutti in órdine e compiti ad ascoltare le in-formazioni sul viag­
gio dal loro capo-comitiva. Ma la formazione non è somma dì infor­
mazioni, né il formatore è un semplice capo-comitiva che dà le isừu-
zioni per l’uso...
Ogni famiglia religiosa dovrà poi provvedere a definire il riferi­
mento ideale del cammino formativo, che sarà in ogni caso una spe­
cificazione di quello che Vita consecrata definisce come «il fine della
vita consacrata», ovvero l’assimilazione ai «sentimenti di Cristo»:1è
la Ratio formationis che preciserà quali di questi sentimenti, in parti­
colare, il giovane deve imparare a rivivere denteo di sé.
Vediamo attraverso quali tappe intermedie.

2. «Convertitevi e vivrete» (Ez 18,32)

Il punto zero è costituito dall’interesse del soggetto a fare questo


cammino, ovvero a cambiare e crescere in una direzione diversa da
quella seguita fino allora.
Questa determinazione è strettamente legata a quanto abbiamo ap­
pena detto. Almeno teoricamente il giovane dovrebbe sentire l’esigenza
di conversione nella misura in cui avverte la novità del progetto voca­
zionale, proprio perché non coincide con quello che attualmente è. Do-
cibilitas b prima di tutto questo; se non scattano la voglia e la motiva­
zione di cambiare, la formazione è inutile, serve solo a omologare quel
che la persona è, al limite diventa deformazione.
Né tale voglia può esser data per scontata; molti giovani, di fatto,
pensano di potersi consacrare senza bisogno di cambiare granché
della loro vita, senza una reale volontà di conversione. Di conseguen­
za, la formazione diviene stranamente simile non solo a una gita turi­
stica, ove per lo meno si vedono cose nuove e si esce da se stessi, ma
addirittura a una cura di bellezza che modifica solo l’esterno,
l’apparenza; qualcosa di finto e falso.
Ma allora questa voglia deve essere oggetto di attenzione educa­
tiva e va formata. Normalmente lungo queste linee,
a) Anzitutto partendo dal basso, o dalla constatazione che un certo
precedente modo di vivere non solo non realizza i valori della
consacrazione, ma nemmeno consente di ottenere la piena grati­

1 Vita consecrata, 65.


ficazione dei bisogni: 1’agứe inconsistente conquista solo un ap­
parente appagamento dell’istinto, ma alla fine lascia l’amaro in
bocca perché il bisogno gratificato aumenta le pretese, crea di­
pendenza, non è in realtà soddisfatto alla radice e in modo defi­
nitivo, accontenta solo una parte deirio, quella meno adulta, più
ingorda e incontentabile, si ritorce contro gli stessi interessi
dell’individuo. Insomma non conviene, da nessun punto di vista.
Non occoưe esser santi per capirlo, basta esser furbi...
Altra motivazione a prendere sul serio questo cammino: la con­
statazione che la cosa non è così semplice, non basta un pizzico
di buona volontà né si risolve con piccoli progetti comporta­
mentali. Qui c’è da ricostruire la casa, non da cambiare qualche
accessorio secondario; bisogna buttar giù quella vecchia, non
accontentarsi di aggiustarla e puntellarla.

b) Allo stesso obiettivo si può giungere partendo dall’alto, o dalla


sottolineatura che l’inconsistenza non offende immediatamente
la virtù, ma la verità dell’io, quella verità che, per un credente, è
definita nel progetto vocazionale pensato da Dio.
Cambiare, dunque, o abbandonare l’agire inconsistente significa
recuperare la propria verità, se stessi, e poưe le basi per realiz­
zarsi liberamente nella coerenza a un piano che chiede e offre il
massimo. Molti giovani si spaventano di fronte alle pretese e al
dono divini, sembra loro impossibile. Ma qui, infatti, non basta
più esser furbi, occoưe imparare a fidarsi dei sogni di Dio.
Dunque è Dio che chiede questo cambiamento, non l’istituzione 0
il formatore. Il giovane deve capừe bene che non fa un piacere a
nessuno convertendosi, né deve farlo perché qualcuno glielo im­
pone; semmai è il progetto di Dio che lo chiama a santità, eviden­
temente per il suo bene e la piena realizzazione della sua persona.
Così come, nell’attuale stagione di crisi numerica vocazionale ci
sono giovani che, forse inconsciamente, sono convinti (o qual­
cuno in qualche modo li convince) di essere benefattori dell’i­
stituzione, di cui garantirebbero la sopravvivenza o un certo e-
quilibrio generazionale con la loro decisione. Costoro avranno
ben pochi stimoli a cambiare, soprattutto se percepiranno 0 vi sa­
rà realmente un atteggiamento - da parte dell’istituzione stessa -
di compiacenza e tolleranza eccessiva, 0 uno stile (de)formativo
che tutto consente e nulla chiede, o quel falso buonismo da parte
della madre-maestra (più mamma che maestra) autentico come i
fiori di plastica, o discernimenti vocazionali allegri che «ingoie-
rebbero anche il cammello» (cf. Mt 23,24) o lascerebbero passa­
re tutti, «oves et boves», purché entrino... La paura da parte
dell’istituzione (dell’estinzione o di contare di meno) o dei for­
matori (di chiedere troppo o di non risultare gradevoli) è sempre
pessima consigliera. Sarà importante chiarire bene le idee, e non
solo ai giovani in formazione.
Le due vie, dal basso e dall’alto, dovrebbero incrociarsi e assie­
me far nascere questa benedetta voglia di cambiare, o un progetto di
conversione che abbracci idealmente tutta la vita e ogni sua dimen­
sione, ma che poi in concreto prenda di mira un particolare aspetto,
quello ove si concentra l’inconsistenza dell’individuo.
È da lì che parte il processo di formazione, per ripercoưere, poi,
quelle stesse fasi, a noi già note, lungo le quali s’è scoperta prima
l’inconsistenza. Ma questa volta il cammino segue il senso contrario,
parte dall'interno, dall’opzione di fondo, per risalire all’esterno, ai
comportamenti.

3. «Con tutto il cuore» (Dt 6,5)


n principio è il medesimo già visto, come il giovane è educatore
di sé, così deve anche divenire formatore di sé. Non nel senso che
esista rautoformazione, ma perché deve diventare capace, con l’aiuto
della guida, di identificare l’obiettivo del cammino e soprattutto di
sentirlo come la «forma» della sua persona 0 la sua nuova identità, e
di consegnarsi a essa.
Ma qui nasce il paradosso: questa consegna implica il massimo
della passività e dell’attività, dell’autonomia e dell’affidamento di sé,
vuol dire decidere in maniera libera di lasciarsi costruire e lavorare da
tale modello ideale. È èsso che indica il cammino e le sue tappe; sono
i sentimenti di Cristo che plasmano il giovane, la sua forma e la sua
norma, la sua regola di vita e la sua vita!
Capire ciò vuol dire comprendere il vero senso della formazione
di sé, nell’obbedienza e nella libertà, lungo i cinque classici passaggi,
partendo dal più intemo.
a) Opzione di fondo
Al centro e all’origine della vita l ’atto di fede, e l’atto di fede co­
me opzione di fondo che purifica e sostituisce l’equivoco di fondo.
Non una fede generica e solo intellettuale, ma una fede nel Signore
Gesù contemplato nella luce del carisma dell’istituto e dunque in
un’ottica singolare, in cui risaltano in modo originale anche certi suoi
sentimenti, nei confronti del Padre e degli uomini, come modo di es­
sere e di porsi di fronte alla vita e alla morte...
Il giovane dovrebbe poter leggere nei sentimenti di Cristo non
solo il modello della fede di ogni credente, o l’ideale istituzionale che
tutti in congregazione sono chiamati a imitare, ma il modello umano
che ora è proposto a lui, la risposta o l’alternativa alla sua inconsi­
stenza, e dunque l’esempio vivente e strettamente personale d’un mo­
do diverso di vivere, più pieno e liberante, e finalmente liberato da
ogni ricerca equivoca di se. È in questo Cristo che egli è chiamato a
credere, con un’adesione credente personalizzata, riconoscendolo co­
me via, verità e vita per la sua persona: l’unico che ha le parole della
vita e gli può dire la verità, colui che gli indica con precisione la via
da seguire per uscire dalle sue contraddizioni e lacerazioni interiori,
colui sulla cui parola può scommettere.
Credere in lui vuol dire, per il giovane, credere che è bello esser
come lui, credere che ne vale la pena anche se costerà fatica, credere
che in ogni caso sarà possibile perché da lui gliene verrà la forza...
E allora ogni programma di formazione dell’uomo nuovo deve
partire e ripartire dal rapporto col Signore Gesù, dallo stare di fronte
a lui, dal sentirsi raggiunto dal suo sguardo che «fissa» il giovane
amandolo (cf. Me 10,21): lì, in quello sguardo il nostro giovane im­
para a cogliere la profondità di un amore eterno e infinito che tocca le
radici dell’essere2 e avvolge la vita, chiedendo naturalmente di espri­
mersi in scelte coerenti.

«La persona che se ne lascia afferrare, non può non abbandonare tutto
e seguirlo (cf. Me 1,16-20; 2,14; 10,21.28). Come Paolo, essa consi­
dera tutto il resto “una perdita di fronte alla sublimità della conoscen­
za di Cristo Gesù”, a confronto del quale non esita a ritenere ogni co­
sa “come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,8). La sua
aspirazione è di immedesimarsi con lui, assumendone i sentimenti e
la forma di vita».3

L’uomo nuovo non è un campione di maturità umana né un eroe


di perfezione: è un giovane che s’è sentito avvinto dallo sguardo di Cri­
sto e conquistato dal suo amore. E a questo punto non ha potuto fare
altro che lasciarsi amare, liberandosi di quanto in qualche modo lo po­
teva attrarre altrove, di ogni altro amore, sempre più piccolo dinanzi a
quello divino, perché, come scriveva Dostoevskij alla nipote Sonia,

2 C f. G io v a n n i P a o l o II, Redemptionis domini, 3 : EV 9 /7 2 3 -7 2 5 .


3 Vita consecrata, 18.
«al mondo c ’è solo una persona positivamente bella: Cristo. L ’appari­
zione di questa persona sconfinatamente, infinitamente bella è già un
miracolo infinito»:4

tutto il resto non regge di fronte alla sua bellezza...


Ecco l’opzione fondamentale. La «forma» della vita del giovane
consacrato è l’amore con cui Gesù, il «suo» Signore, lo ama. È tutta
in quello sguardo che lo contìnua a fissare, in quella bellezza che lo
continua ad affascinare!
Quando l’opzione di fede è così specifica e personale, così in­
tensa e motivata dall’amore e dalla bellezza, il cammino di ricostru­
zione dell’io è già iniziato e avviato lungo la stessa via, quella dei
sentimenti del Figlio.

b) Motivazione
Se il Cristo è alla radice e al centro della vita, si tratta ora di impa­
rare progressivamente ad animare ogni gesto e scelta con la fede in lui.
La motivazione, come sappiamo, è fattore dinamico-dữettivo
poiché attiva e dirige l’essere e l’agire; se uno poi sceglie Cristo e i
suoi sentimenti come motivazione esistenziale, allora là vita è scossa
fin nelle fondamenta da un potente teưemoto. Deve saperlo il giova­
ne: la formazione implica per natura sua una tras-formazione, è come
una nuova nascita, significa entrare in una logica che trasfigura cose
e persone, ove progetti e desideri assumono un senso inedito a partire
da colui che ha portato il fuoco sulla teưa (cf. Le 12,49).
Ma proprio questo è il segreto della formazione che trasforma-e-
trasfigura: mettere Cristo all’inizio e alla fine di tutto, cercarlo ovun­
que e comunque. È il tipico dinamismo motivazionale cristiano che
consente al giovane di evitare il rischio, oggi così facile, di sprecare
la vita e le energie giovanili, di addormentare-addomesticare tutto, di
lasciarsi condizionare da quella cultura del calmante e del sonnifero
che, con la scusa di evitare il duro e il difficile, gli impedisce di gu­
stare ciò che è bello e di essere giovane per Cristo. Non si tratta di
tornare ai tempi in cui si mitizzava il sacrificio con forme a volte
strane e isolate, perché fine a se stesse, di rinuncia,5 ma di aver la li­
bertà e il coraggio, sul piano umano e spirituale, di vivere l ’ascesi
della motivazione, quell’eroismo costante, umile e discreto di motiva­
re ogni azione con la passione del Signore Gesù.

4 F. D o s t o e v s k i j , cit. da G. RAVASI, «La bellezza», in Avvenire, 10 feb 1997.


5 Vedi su questo tema le interessanti osservazioni di E. FRANCHINI, «Il sacrifi­
cio è ancora una virtù», in Settimana 35(1996), 1.11.
Né, d’altro canto, è sufficiente l’esperienza della contemplazione
o la pretesa del rapporto diretto e immediato con Cristo, magari con
qualche rischio di intimismo; ma è necessario ritrovare quel suo
sguardo divino ovunque, sentirsi raggiunti da esso continuamente,
cogliere il suo amore in ogni circostanza della vita, anzi, riesprimere
quello sguardo, diffonderlo attorno a sé e rivolgerlo a ogni creatura
perché ognuno se ne senta raggiunto e si scopra amato dall’Etemoử
Questa è la vocazione del consacrato: cercare e vedere Dio in
ogni cosa per diventare il suo stesso sguardo sulle cose. L’ascesi
della motivazione è esattamente l’apprendimento di questo sguardo.

a) Sentimenti
È possibile, abbiamo detto, educare i sentimenti, conoscerli per co­
noscersi e dominarli, ma è possibile ancheformarli] d’altronde che senso
avrebbe una formazione che non arrivasse a una certa profondità psichi­
ca, laddove il cuore sente e si risente, vibra e ama, soffre e gode...?
Il giovane ha questo incredibile orizzonte dinanzi a sé: il cuore
di Cristo. Qui non c’è legge, regola, divieti, tecniche di condiziona­
mento..., qui si tratta di imparare, con pazienza, ad avere gli stessi
sentimenti del Figlio, a reagire alla vita con il suo stesso sentire, con
quella gratitudine con cui da tutta l’eternità si lascia amare dal Padre,
con quella libertà con cui decide di dare la vita per gli uomini, con
quei sentimenti di compassione, bontà, perdono, tenerezza con cui ri­
sponde ai bisogni dell’uomo, con quella forza e passione con cui
s oppone al male.
Non è sufficiente fare determinate cose buone, per quanto bene­
merite, non basta reagire con mitezza alla violenza, o agire da miseri­
cordiosi quando si è offesi, da puri di cuore e poveri di spirito e paci­
ficatori, ma è necessario essere «dentro» miti e puri e pacificatori, e
sperimentare la mitezza, la misericordia, la purezza come sentimenti
sempre più abituali, e come qualcosa non solo di doveroso e santifi­
cante, ma di bello in sé e appagante, come condivisione del cuore di
Cristo, pur con tutta la fatica che ciò comporta.
Proprio questo è il vero senso delle beatitudini, e solo a questo
punto la formazione diviene trasformazione-trasfigurazione, nascita
dell’uomo nuovo, che vibra dei sentimenti di Dio! Altrimenti la for­
mazione è solo sforzo che opprime e rinuncia che deprime, tanto co­
stosa quanto debole, più «muscolosa» che mistica, solo iniziale e per
nulla permanente.
Luogo tipico di questa trasformazione del cuore, allora, è la pre­
ghiera, lo stare in silenzio adorante dinanzi a Dio, lasciando che il
Padre, che da tutta l’eternità genera il Figlio, generi anche nel giova­
ne consacrato i sentimenti del Figlio. Se i nostri giovani frettolosi
scoprissero l’efficacia misteriosamente trasformante del «tempo per­
so» davanti al Padre!

d) Atteggiamenti
Se il cuore comincia a battere in modo nuovo, allora davvero la
vita cambia. Ma è necessario apprendere abitudini nuove, perché la
conversione sia reaie e stabile.
Si tratta, in concreto, di far partire nuovi dinamismi o nuovi stili
di vita, con la costanza di chi sa di avere individuato un tesoro pre­
zioso, ma che ancora non gli appartiene.
Molti giovani cominciano a intmre dov’è il tesoro, ma non sono poi
costanti neU’imparare nuove strategie di vita o nuove predisposizioni a ri­
spondere alle provocazioni esistenziali; così non solo nulla cambia, ma
loro stessi finiscono per dimenticarsi pure dove sia il tesoro.
L’obiettivo di questa fase non è ancora, comunque, la condotta
esterna, ma ciò che viene prima: la formazione della coscienza, una
certa sensibilità e finezza psicologica, la libertà e qualità dei desideri,
il gusto per i valori, l’intuito del vero-bello-buono..., quanto consen­
te, insomma, di muoversi con sempre maggiore scioltezza e natura­
lezza nel fare il bene.
Per fare un esempio, madre Teresa di Calcutta quando vedeva un
povero sentiva immediatamente denteo di sé l’impulso benevolente
che la spingeva a soccorrerlo, non poteva fare altrimenti, ma tale im­
pulso era il risultato progressivo di una abitudine, divenuta stile di
vita e atteggiamento, soưetta e provocata dalla coscienza interiore
che le consentiva di vedere Gesù nel povero fissandolo e amandolo
col cuore di Dio e dalla sensibilità psicologica che la disponeva sem­
pre più a farsi carico del peso altrui.
Così nascono e si convertono gli atteggiamenti, poiché nulla
succede a caso o per dono di natura, e neanche - esclusivamente - di
grazia.

e) Comportamenti
L’ultima tappa della risalita è costituita dai comportamenti.
È un po’ la prova decisiva: sentimenti, desideri, atteggiamenti
devono a un certo punto confrontarsi con la realtà nuda e cruda della
vita, e divenire gesto concreto e scelta precisa. Senza questo coinvol-
gimento con la prassi quotidiana, fatta delle piccole cose, dei soliti
ritmi di vita, delle medesime persone e delle identiche occupazioni, a
volte anche poco esaltanti, nessuna formazione-trasformazione è pos­
sibile. Il mondo si rinnova, è stato detto, a partire da grandi idee e da
piccole decisioni; anche il mondo del singolo individuo e del nostro
giovane in formazione.
Anzi, da questo punto di vista non esistono piccole cose, piccole
scelte, piccole prassi esistenziali..., poiché tutto diventa significativo
e importante se espressione di un cammino di crescita che porta len­
tamente alla trasformazione della vita. Attraverso un percorso scan­
dito, normalmente, da tappe precise, corrispondenti a quanto abbiamo
visto nel capitolo precedente órca il dinamismo dell’inconsistenza.
Come è l’azione che rende un’attrazione particolarmente schia­
vizzante, così è l’azione costante (cioè disciplinata) che rende un va­
lore particolarmente familiare, consentendo di conoscerlo dall’in­
terno, non per sentito dire, bensì per frequentazione assidua. Ma que­
sto valore potrà attrarre il cuore solo se diviene abitudine, solo se
viene regolarmente tradotto in gesti concreti, perché solo allora apre
in modo progressivo cuore e mente alla scoperta e all’esperienza di
gusti e desideri in linea col valore stesso. A questo punto l’ideale di­
venta in modo sempre più definitivo mentalità e sensibilità, criterio di
discernimento e componente strutturale della propria identità, scelta
sempre più naturale e spontanea per chi ritrova in esso la sua «for­
ma». E proprio questa è la libertà del consacrato, la libertà di divenire
quel che è chiamato a essere, libertà dello e nello Spirito: «quelli che
vivono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito» e deside­
rano secondo i desideri dello Spirito (Rm 8,5-6).
Ciò che conta è la linearità coerente di tale processo come si ma­
nifesta nel frammento della condotta quotidiana: dall’opzione fonda-
mentale che pone Cristo alla radice di tutto alla decisione di cercare
lui in ogni cosa e di lasciarsi accendere dal suo fuoco, dal coraggio di
affrontare le situazioni coi suoi stessi sentimenti alla pazienza di crea­
re nuove abitudini di vita scegliendo responsabilmente nuovi com­
portamenti.
In quel frammento si concentra, allora, tutto un progetto di for­
mazione trasformante. Lì nasce l’uomo nuovo, in un giorno non più
banale e feriale, ma trasfigurato nel «giorno che ha fatto il Signore»
(Sai 118,24).
Quel giorno potrebbe durare tutta la vita, in un processo di tras­
formazione permanente...

Mettendo assieme quanto abbiamo visto nel capitolo precedente


sul superamento delle inconsistenze sul piano formale con quanto ab­
biamo considerato ora, potremmo così raffigurare il cammino labo­
rioso di scoperta e superamento delle inconsistenze e di formazione
dell’uomo nuovo.
Tav. 13: Scoperta d e ll’inconsistenza e nascita dell'uomo nuovo (o discesa agli
inferi e... risurrezione)
Comportamenti

e inizio dell’iter di SUPERAMENTO


Comportamenti
200
Capitolo diciannovesimo

LIBERI NEL CUORE

La formazione, abbiamo in sostanza detto finora, è quel processo


pedagogico che, attraverso la proposta di una forma come norma di
vita, conduce dalla progressiva liberazione dell’io alla libertà di
realizzarsi secondo la sua propria verità riconosciuta in quella for­
ma. Nel caso del giovane consacrato la forma dei sentimenti di Cri­
sto, secondo la sottolineatura specifica del carisma, diventa
l’obiettivo e il segno della libertà dell’uomo nuovo.
Come si vede il concetto di formazione è subito legato con l’idea
di libertà. D’altro canto un’area particolare e strategica di questa con­
formazione che dà libertà è quella affettiva: esser conformi a Cristo
significa sperimentare la libertà del cuore, quella libertà che tutti de­
siderano, ma che spesso - ahimè! - viene confusa con ciò che è solo
apparenza di libertà. E un aspetto troppo importante della formazio­
ne, in una cultura come quella odierna così sensibile a tale valore, per
lasciare che la confusione continui nel cuore di tanti nostri giovani.

l ế II concetto

Cominciamo col chiarire i termini. Non per fare dell’inutile teo­


ria, ma perché, come abbiamo indicato nel capitolo primo, senza un
disegno teorico-pratico (o teologico-antropologico) che definisca l’o­
biettivo pedagogico e le strategie di fondo, viene a mancare una fon­
damentale condizione di un processo educativo-formativo. Sono con­
vinto che spesso abbiamo parlato e predicato di maturità e libertà af­
fettiva senza indicarne con precisione il contenuto, senza conoscerne
gli elementi strutturali. Diventa ben difficile, allora, per il giovane
crescere nella libertà del cuore se il formatore non sa proporgli la pi­
sta giusta. Vediamo dunque almeno di segnalare alcuni punti di rife­
rimento al riguardo.1

1 Per una trattazione relativamente completa ci permettiamo rimandare al se­


condo volume della nostra trilogia sulla maturità affettivo-sessuale del consacrato: A.
CENCINI, Con amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, Bologna
1994, specialmente 44-82.
Se essere liberi significa potersi realizzare secondo la propria ve­
rità, libertà affettiva vuol dire amare quel che si è (l’io attuale) e quel
che si è chiamati a essere (l’io ideale). Diversamente detto: non basta
realizzare il proprio progetto vocazionale, uno lo potrebbe realizzare
anche solo per forza o come un soldato esegue degli ordini..., è ne­
cessario invece esserne attratti, coglierne l’intrinseca amabilità al
punto di esserne conquistati.
C’è subito un che di paradossale e apparentemente contradditto­
rio nel concetto di libertà affettiva, perche la sua essenza è tutta in
quell’«essere conquistati»; come dire, il massimo della libertà del
cuore è nel perderla, perché posseduti da qualcosa che attira potente-
mente a sé. La libertà appare allora come la sintesi di attività e passi­
vità, e - al tempo stesso - di oggettività e soggettività. Vediamo di
spiegarci.
Il giovane non è libero se si consacra a Dio solo perché Dio lo
chiama o perché in tal modo compie un atto meritorio filantropico o
perché semplicemente gli piace, ma perché scopre progressivamente
e assieme la bellezza, verità e bontà oggettive della proposta, e pur
avvertendo la fatica dell’assenso, decide di accogliere l’invito, perché
alla fine il fascino soggettivo che ne proviene è più forte della resi­
stenza che si sente dentro. Questo giovane, allora, è libero proprio
perché si lascia attrarre da ciò che è in sé vero-bello-buono e che,
strada facendo, gli svela la verità del suo proprio essere, donando
bellezza al vivere e rendendo buono l’agừe.
Ma in tal modo compie anche un’altea operazione molto impor­
tante nel cammino di formazione: egli recupera con la propria mente
la motivazione teologica (l’origine divina della chiamata), con la vo­
lontà fa sua la motivazione etica (il bene e il servizio degli altri), e
con il cuore quella emotiva (l’attrazione interiore), e soprattutto co­
ordina e vive assieme queste motivazioni. Ora, proprio questo coin­
volgimento totale intrapsichico lo rende libero: attivo e passivo al
tempo stesso, conquistato-affascinato e pure quanto mai intrapren­
dente nel coinvolgimento stesso, sedotto dal tìpico splendore della
verità e assieme capace di riconoscervi un raggio della sua identità
personale. La verità, infatti, attira naturalmente l’uomo, ma ancor più
quando in essa l’uomo scopre la sua verità-bellezza-bontà, ciò che
egli stesso è chiamato a essere e a far risplendere!
Qui, allora, non c’è più contraddizione; al contrario, l’esperienza
di libertà nell’accogliere l’invito diventa beatitudine e sapienza del
cuore, coerenza e fedeltà agli impegni che ne derivano, resistenza
nelle prove e tensione ideale. La libertà mette le ali ai piedi e rende
tutto più semplice e facile, anche gli obblighi più gravosi...
La componente-base della libertà è dunque la verità. Senza ve­
rità non esiste libertà, anzi, come dice Gesù, è la verità che rende li­
beri (cf. Gv 8,32); ma se si parla di libertà affettiva, allora è solo una
verità amata e realizzata, cioè la verità più l’amore e la volontà, o
l’amore intelligente e volitivo, che rende la persona libera nel cuore.

2ắII dinamismo

Nessuno nasce già libero, semmai si nasce liberi di diventarlo.


Nell’indicazione del processo di maturazione nella libertà affettiva si
seguirà in buona sostanza quanto già detto circa il processo generale
di maturazione. Più precisamente, comunque, una persona diventa li­
bera affettivamente nella misura in cui percorre questo itinerario.

a) Integrazione affettiva o religiosa?


Anzitutto si tratta di scoprire le proprie schiavitù, e di identifica­
re, in particolare, che ciò che rende schiavo l ’individuo è esattamente
quanto s ’oppone alla sua verità, o ciò che l’illude con miraggi di fe­
licità, ma poi non lo può appagare, semplicemente perché quella non
è la sua verità, non è quel che è chiamato a essere.
Il problema di fondo resta dunque quello di chiedersi e capire
quale sia la propria verità, che evidentemente è legata alla vocazione
e, per il nostro giovane, al suo status di consacrato nella verginità-
povertà-obbedienza, secondo un particolare carisma. Questa è la sua
verità, da credere e amare, da scegUere e realizzare in continuazione.
Ciò che l’allontana da questa verità è nemico della sua felicità e non
l’aiuta a realizzarsi nella libertà, anzi, lo rende schiavo.
È un chiarimento teorico, ma potrebbe evitare molti errori di
prospettiva e forse anche crisi future. Se il giovane è chiamato a esse­
re vergine, allora, non può pensarsi al di fuori di questo modo di es­
sere e di volere bene, né può ritenere di costruire la sua libertà affet­
tiva vivendo relazioni secondo certi gusti istintivi o secondo altri
progetti esistenziali o entro modelli semplicemente che vanno di mo­
da, anche se può avere l’impressione contraria e ritiene di poter ri­
vendicare il diritto all’appagamento dei suoi bisogni 0 alla cosiddetta
integrazione affettiva.
Oggi si parla molto, ad esempio, dell’opportunità e necessità di
questa integrazione, in vista esattamente del recupero di certa (presun­
ta) libertà, e quasi a correggere un antico ideale ascetico che ai nostri
giorni appare costruito su di una sospetta e manichea rimozione degli
affetti. Ma è il caso di chiedersi se questo sia davvero l’obiettivo di
un’esistenza consacrata o sia in linea con la sua verità. Se «integrazio­
ne» significa completamento, attribuzione di senso pieno, recupero e
collocamento di ogni frammento di vita entro una verità totale che
l’accolga e la valorizzi tutta, scoperta che tutto - denteo e fuori di sé -
può e deve gừare attorno a questa verità centtale.. allora

«quello che si deve cercare non è la nostra integrazione affettiva; è


piuttosto la nostra integrazione religiosa, l ’integrazione cioè di tutto
ciò che siamo e sentiamo, di ciò che rende la nostra vita lieta e anche
di ciò che la rende triste, di ciò che ci “realizza” e anche di ciò che
invece ci “mortifica”, nella prospettiva di quello che crediamo»,2

ovvero, nella prospettiva della fede che fissa la verità di quel che
siamo e che siamo chiamati a essere.

«La nostra vita infatti non celebra se stessa, ma Colui che vale più
della vita: “Poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra di­
ranno la tua lode” (Sai 63,4)».3

È fondamentale operare questa distinzione nel tempo della prima


formazione. E che, di conseguenza, già a livello di riflessione, di
modo di pensarsi e di concepire la relazione interpersonale il giovane
abbia chiarito cosa significhi libertà affettiva e il fondamento nella
verità della sua libertà affettiva.

«La libertà non è fare ciò che si vuole, ma il diritto di fare ciò che si
deve»,4

e c’è un’unica cosa che l’uomo «deve» fare: la verità e la sua verità.
A partire da questa verità e attorno a questa verità che viene da Dio
egli può integrare tutta la sua vita e ogni suo affetto. Allora sarà libe­
ro e felice.

«Conoscete la verità, contemplatene la bellezza, innamoratevi di essa,


operate in conformità: il bene amato dall’intelligenza vi conduce alla
vera felicità»,

dice infatti Rosmini.

2 G. A n gelin i, «Meditazioni su Ezechiele. II. Il mutismo del profeta», in La


Rivista del clero italiano, 6(1997), 444.
3 Ibidem.
4 Giovanni P a o lo II, nell’omelia della Messa coi giovani durante un viaggio a
Baltimore (USA), cf. L ’Osseivatore Romano, 8 ott 1995.
Quando si coglie il collegamento, non solo teorico ma anche esi-
stenziale-dinamico, tra verità, libertà e felicità si è sulla sữada buona
che porta alla libertà affettiva. Allora anche Tesser libero nel cuore
diviene un modo di celebrare il primato di Dio nell’esistenza e il gio­
vane non corre il rischio di sognare e riporre la libertà laddove viene
costretto, di fatto, a rinunciare alla sua identità.

b) «Ama e f a ’ quel che vuoi»5


A questo punto diventa decisiva la capacità di lasciarsi attrarre,
di cui abbiamo detto, e che è tutt’altro che pura passività. Lasciarsi
attrarre, infatti, vuol dire consegnare la propria vita a qualcosa di
grande che consente di realizzare al massimo la propria identità.
È un atto non solo attivo, ma anche coraggioso, perché se da un
lato l’ideale attraente è percepito in linea con la propria identità,
d’altro canto, proprio perchè pensato da Dio, ne implica il supera­
mento, e giusto per questo la realizza al massimo grado. L’ideale
della consacrazione, e la libertà che ne deriva, è tutto costruito su
questa sintesi non solo tra passività e attività, ma soprattutto tra gra­
zia e natura, sintesi che fa entrare nel mondo degli orizzonti divini
aprendo spazi illimitati al compimento dell’io.
Sintesi estremamente significativa per la definizione del concetto
di libertà. Grazie a essa la libertà, da un lato, non è fare ciò che pare e
piace a me, ma ciò che piace a Dio-, e però la libertà affettiva, d’altro
canto, non è sólo fare ciò che a Dio è gradito, bensì trovare piena pa­
ce e realizzazione in ciò che a lui è gradito e che alla fine, lentamente,
«piacerà» sempre più anche a me, o a chi s’affida al Padre.
La libertà affettiva, insomma, recupera la dimensione soggettiva
(ciò che piace a me), «evangelizzandola» alla luce di quella oggettiva
(quel che piace a Dio): una specie di evangelizzazione dei sentimenti.
Consacrarsi a Dio, da questo punto di vista, è consegnarsi a lui per
provare sempre più i suoi stèssi gusti e desideri, tanto liberanti quanto
eccedenti la misura solo umana. È solo a questo punto che si può
comprendere l’agostiniano «ama e fa’ quel che vuoi», laddove quel
che uno vuole è sempre più quel che Dio vuole.
In ogni caso come la verità è sempre più grande del nostro cuore e
non ci appartiene, ma siamo noi che le apparteniamo, così la libertà non è
qualcosa che si conquista, ma ciò da cui il credente si lascia conquistare.
E torna così in evidenza la natura complessa-composita e sinteti-
co-integrativa della libertà affettiva, punto centrale ove convergono e
si fondono tra loro polarità apparentemente contrapposte: attività e

5 A g ostin o, In epistolam Joannis: PL XXXV, VII, 8.


passività, oggettività e soggettività, io attuale e io ideale, tensione di
conquista e sensazione di essere conquistati.
c) La relazione nella vita del vergine
Ma c’è ancora un passo decisivo e conseguente da fare: lasciare
la schiavitù e i comportamenti che conducono a essa e scegliere uno
stile di vita in linea con la verità del proprio progetto ideale.
La libertà affettiva non si ferma ai sentimenti e alle attrazioni,
ma chiede un cambiamento concreto e incisivo nei comportamenti e
atteggiamenti, nei criteri e nelle motivazioni, come ogni progetto di
conversione. La libertà può esser gustata solo se concretamente spe­
rimentata, e tale è solo quando la volontà decide di cambiare adottan­
do nuovi stili. Pensiamo al giovane dipendente affettivo, abituato a
riempire la vita di relazioni e a mettersi al centro di esse; finché non
sceglie di stare solo o una certa solitudine come stile di vita, non po­
trà mai capire quanta verità e libertà affettiva vi siano nella solitudine
dell’intimità con Dio e con se stesso.
Ma allora diventa importante rispondere a un altro quesito: esiste
uno stile relazionale tipico del vergine, un modo suo proprio di voler
bene e di esprimere affetto, di stabitire e gestire rapporti, di stare in­
sieme e di godere della compagnia della gente, di prender parte ai
momenti di gioia e di dolore degli altri, di cercare l’altro e di lasciarsi
trovare...?
Molti rispondono in teoria di sì, che esiste uno stile affettivo
proprio del vergine per Cristo. Ma non è detto - sempre secondo co­
storo - che questo stile debba esser poi così visibile, è piuttosto qual­
cosa di intemo, come un atteggiamento interiore, o un’intenzione spi­
rituale. .. E la verginità finisce così per esser poco evidente (e poco
convincente), come le succede oggi.
C’è anche chi dice che bisogna stare attenti a non esagerare, che
forse è eccessivo parlare di una modalità relazionale tipica del celibe
per il regno dei cieli; è sufficiente che si astenga da un eccessivo co­
involgimento interpersonale, ma poi veda lui... Salvo poi che qualcu­
no non «veda» tanto bene, e finisca per fare grandi confusioni e man­
dare strani e ambigui messaggi.
E allora la domanda è forse anche un’altea. Il vergine è uomo di
relazione o deve guardarsi dalla relazione? deve stabilữe molti rap­
porti o assumere soprattutto un atteggiamento riservato e prudente?
deve essere amico di molti o preoccuparsi di difendersi e difendere la
sua virtù da possibili tentatori-tentatrici? la sua castità è il classico
talento da conservare-custodire gelosamente o è tenuto a farlo frutti­
ficare? la verginità serve per la propria santificazione 0 è in se stessa
annuncio di salvézza?
Non si risponda, con più furbizia che saggezza, che la soluzione è
quella intermedia, o che non esclude nessuna delle due alternative e cerca
di tenere insieme runa e l’altra. È ovvio che non si potrà adottare una lo­
gica esclusiva e unilaterale, ma il modello di formazione che ogni for­
matore ha o dovrebbe avere in mente senz’altro compie una scelta in tal
senso, privilegia l’una o l’altra delle alternative nelle coppie proposte,
magari in modo sottile e mai esplicito, ma lo stesso reale, e con conse­
guenze evidenti e, a volte, irrimediabilmente deformanti nelle persone.
È importante, allora, mettere a tema il dilemma, avere il coraggio
di interrogarsi e di chiarire.

3. Lo stile
Libertà affettiva, abbiamo detto, significa amare quel che si è e
quel che si è chiamati a essere, ma non solo, la consegna totale di sé
all’ideale della vita porta normalmente a riprodurlo in sé, vivendo e
amando nella sua logica, sotto il suo influsso, lasciandosi ispirare e
determinare da esso.
E allora poữemmo riprendere e completare il concetto di libertà
affettiva, dicendo che la libertà del cuore porta ad amare la propria
vocazione e secondo la propria vocazione,6
È un’altra sintesi preziosa, logica ed esistenziale, che unifica la
vita nel cammino di formazione iniziale e permanente. Nella persona
libera l ’oggetto dell’amore (la propria identità vocazionale) diviene
anche lo stile dell’amore stesso; ogni essere umano, infatti, è chia­
mato ad amare, ma ognuno nello stile proprio del suo progetto voca­
zionale, e non copiando, con esiti spesso maldestri e ridicoli, modi e
gesti che appartengono ad altri progetti di vita. Il coniugato ami da
coniugato, il fidanzato da fidanzato, il vergine da vergine. Con la
convinzione che il suo progetto vocazionale verginale gli detta un
preciso e corrispondente stile relazionale verginale: se ama quel pro­
getto e ne è attratto, perché lo riconosce fonte della sua verità, dovrà
anche voler bene secondo quello stile che lo caratterizza. Allora sarà
lui stesso vero e libero.
E ritroviamo qui, su un piano pratico, il principio teorico prima
affermato. Quel vergine per il Regno che nel suo relazionarsi adotta
uno stile che non esprime abbastanza la verginità del cuore, o che è
ambiguo, perché usa in modo confuso e pasticciato parole o compor­
tamenti, modi relazionali e atteggiamenti che sono tipici di un altro
stato di vita, costui non solo non è vergine, ma neppure è libero, per­
ché si pone in contraddizione con se stesso e con la sua verità.

6 Cf. La vita fraterna in comunità, 37: EV 14/434.


Possiamo dunque già rispondere al primo dei due interrogativi
del paragrafo precedente: esiste, eccome!, uno stile relazionale tipico
del vergine, un modo tutto suo di voler bene e di esprimere il proprio
affetto nei gesti e nelle parole, di stringere amicizie e di vivere in ge­
nere il rapporto, secondo modalità caratteristiche intrinsecamente
connesse e intenzionalmente ordinate al significato della sua scelta.
Il giovane dovrebbe arrivare a esser geloso del suo stile vergi­
nale, non certo per vantarsene, ma per capire che c’è un modo molto
concreto e preciso di vivere la relazione, con cordialità e calore uma­
no, ma anche con fantasia e creatività, che è peculiare del vergine e
che è tutto suo interesse rispettare, perché è attraverso esso che
esprime e gusta la sua verità e libertà.
Come principio generale potremmo dire che lo stile del vergine è
lo stile di chi ama con gli stessi sentimenti del Figlio, ed è già indica­
zione precisa e preziosa. Secondo il documento su La vita fraterna in
comunità, amare secondo lo stile del vergine

«è amare con lo stile di chi in ogni rapporto desidera essere segno


limpido dell’amore di Dio, non invade e non possiede, ma vuole bene
e vuole il bene deir altro con la stessa benevolenza di Dio».7

Più in particolare potremmo rendere questo stile con alcune spe­


cificazioni, senza pretendere di descriverlo per esteso.

a) «Tirarsi in disparte»
Il vergine, o l’aspirante vergine, «si libera progressivamente dal
bisogno di mettersi al centro di tutto»8 e impara ad adottare,
all’interno della relazione, uno stile di discrezione, da un lato, e di
capacità, dall’altro, d’amare anche intensamente e vivere profonde
amicizie, ma facendo sempre emergere la centralità di Dio in ogni
affetto umano, quel posto che può esser riservato solo a lui, specie
nel cuore del vergine, ma in realtà nella vita di tutti, in forza di quella
verginità che è assieme dato costitutivo e obiettivo finale (identità
attuale e ideale) per ogni essere umanoế II vergine, con la sua scelta,
vuole proprio dire a ogni uomo e donna (coniugati, fidanzati, padri e
madri, amici ecc.), che laddove c’è amore lì c’è Dio9e se si vuole che
quell’amore umano rimanga fedele e diventi sempre più intenso, è
necessario che ognuno rispetti quello spazio nel cuore dell’altro che

7 La vita fraterna, 37: EV 14/434.


8 Ibidem, 22.
9 Ubi caritas et amor, Deus ibi est.
può essere occupato solo da Dio, perché il cuore umano è stato creato
da Dio e solo l’Eterno lo può pienamente appagare. Per questo il
centro spetta a lui.
Il vergine tutto questo lo dice con un modo particolare di vivere
la relazione: con lo stile del «tirarsi in disparte», direbbe Maggioni,
per cui a chi lo ama e vorrebbe porlo al centro della propria vita, il
vergine ricorda: «non sono io il tuo centro, ma Dio». E si tira da par­
te, ma non primariamente per non far peccati, ma perché chi gli vuol
bene si volga a Dio. E se qualcuno vuol inserirsi al centro della sua
vita di vergine e dei suoi affetti, quasi vantando una priorità nel suo
amore e promettendo pienezza di appagamento, anche a costui egli
rammenta, con tatto ancor più che con fermezza: «non sei tu il mio
centro, ma Dio».10 E, ancora una volta, non primariamente per non
commettere trasgressioni, ma per dire l’amore dell’Etemo come uni­
co amore che appaga il cuore umano.

b) Sfiorare per far fiorire


Per quanto riguarda ancora lo stile, il giovane ama secondo la
sua vocazione quando riesce a esprimere il calore del suo affetto in
maniera profondamente umana, ma «da vergine», con sobrietà e ri­
spetto dei sentimenti altrui, con buon gusto e capacità di usare il lin­
guaggio simbolico, con fantasia ed empatia, con rettitudine e traspa­
renza, passando accanto all’altro semplicemente sfiorandolo, ma per­
ché possa aprirsi alla piena realizzazione di sé.
Anche qui c’è un principio fondamentale dietro questa caratteristi­
ca dello stile verginale. Il vergine vuole affermare, con la sua scelta,
che nella sua vita non è il corpo il motivo e il luogo dell’incontro inter­
personale, ma Dio e il suo amore; non sono le doti fisiche o psichiche
deir altro/a la molla che fa scattare la relazione o l’àmbito d’essa, ma lo
Spirito di Dio nel quale ogni creatura deve cercare il suo spazio di li­
bertà e la sua identità e ove di fatto trova la sua amabilità.
Per questo motivo il consacrato, esprimendo la sua affettività, è
chiamato a porre attenzione perché ogni sua relazione renda evidente,
e non solo nelle intenzioni e nella finalità dichiarate, ma anche nello
stile e nei modi, nei gesti e nelle parole, nei sentimenti e desideri,
quel punto d’incontro che è Dio. Per questo amando impara l’arte del
«toccare sfiorandosi»," aite finissima, che si apprende con un lungo e
faticoso controllo e affinamento dello spirito e della psiche, dei sensi

10 Cf B. MAGGIONI, «La lieta notizia della castità evangelica», in La Rivista del


clero italiano, 7-8(1991), 456.
11 s . De Guidi, Amicizia e amore, Verona 1989, 114.
e degli atteggiamenti, arte del camminare insieme per contiguità pa­
rallela, rispettando ognuno lo spazio dell’altro, per non legare nessu­
no a sé, per non invadere e possedere, per non mandare ad alcuno
messaggi ambigui; sensibilità dello spirito che consente di essere vi­
cini al fratello (o sorella), «sfiorandolo» per lasciarlo fiorire nella sua
identità vocazionale, per condurlo verso la stessa sorgente d’amore,
verso la realizzazione piena della personalità d’ognuno, nello stupore
reciproco per la bellezza della vocazione di entrambi.12In questo tipo
di relazione, tipica del vergine ma non sua esclusiva, «non hai biso­
gno di sentire, / forse non c’è neppure bisogno di sensi, / perché que­
sto amore... / è sempre pieno di stupore condiviso» commenta la
poetessa inglese E. Jennings.13
C’è un brano di J. Vanier che vorrei qui citare, anche se rivolto a
un destinatario particolare (le comunità dell’Arca per persone portatrici
di handicap mentali); mi sembra, infatti, che sottolinei un aspetto molto
importante della formazione alla maturità affettiva, oggi a volte dimen­
ticato 0 trattato ambiguamente: il rispetto per lo spazio fisico altrui.
«Ognuno di noi - dice questo testimone del tutto credibile - ha il bi­
sogno vitale di uno spazio segreto. Generalmente ognuno conosce i
propri limiti, fino a dove può andare. Dobbiamo avere tutti un im­
menso rispetto per lo spazio necessario all’altro e non cercare a ogni
costo di andare troppo in fretta... A volte si vedono brave persone ap­
pena arrivate, prendere subito la mano degli altri e camminare così
per la strada... È commovente, ma è una mancanza di rispetto incredi­
bile! Non è rispettare lo spazio dell’altro. È vero che, a volte, alcune
persone cercano l’amore, sono molto, sensibili ai gesti, ma si deve
aiutarle a trovare il loro spazio e non è accarezzandole che lo si può
fare. A volte è il miglior modo per scombussolarle! Occorre dunque
aiutare ogni persona a trovare il proprio spazio e nello stesso tempo
rispettare questo spazio. Amare non è dare la mano a qualcuno quan­
do si cammina per la strada, non è accarezzare. È aiutare la persona a
diventare più libera, a essere se stessa, a scoprire la propria bellezza,
a scoprire che è una fonte di vita. Si può uccidere, dando, si crede
d’amare e si crea uno stato di dipendenza che porta alla frustrazione e
all’odio, o si fa scattare tutto il mondo della sessualità o della gelosia
così che l’altro non sa più come gestirsi».14

12 Per un’analisi e descrizione dello stile affettivo e dei criteri della sana amici­
zia nella vita del vergine rimandiamo ancora a C e n c i n i , Con amore, 241-271. Per
quanto riguarda le immaturità in tale campo cf ibidem, 271-294.
13 E. J e n n i n g s , citata da G. RAVASI, «Amore gentile», in Avvenire, 5 marzo 1999.
14 J. VANIER, La paura di amare, Padova 1984, 25-26 (corsivo nostro).
In una cultura molto facilona e fortemente ambigua al riguardo,
quanto sarebbe importante che i nostri giovani apprendessero questa
arte del rispetto per l’altro. Ed è quanto mai significativo che un inse­
gnamento del genere venga da chi del rispetto per le ferite altrui ha
fatto una ragione di vita!

c) Testimoniare la bellezza
Infine, lo stile del vergine non mira semplicemente a conservare
o a difendere e nascondere la bella virtù, non è lo stile di che vede e
vive con sospetto la relazione interpersonale, perché pericolosa. Il
giovane deve abituarsi a sentire la verginità non come qualcosa di
strumentale per la sua perfezione personale, ma come dono per tutti,
come segnale posto nel mondo a ricordare che c’è nel cuore di ogni
creatura uno spazio che può esser riempito solo da Dio. In questo
senso ogni uomo e ogni donna sono chiamati a essere vergini. E pro­
prio perché questa verità è debole, e rischia di essere soffocata e
ignorata dalla cultura odierna, c’è bisogno della presenza di vergini
che con la loro scelta tengano viva questa memoria, che con la loro
verginità testimonino la bellezza dell’amore di Dio, che sappiano dire
e confessare, la beatitudine della verginità stessa. Interpretata e vis­
suta così, con questa apertura di significato, la verginità - tra l'altro -
diventa anche più praticabile e meno pesante per il celibe stesso. Ma
poi, ciò che è bello va detto e confessato, non può restare inespresso
o essere tenuto nascosto.
E così rispondiamo anche al secondo grappo di domande prima
poste: il vergine è uomo di relazione, deve sapere stabilire molte rela­
zioni, deve sapere render visibile la sua scelta verginale proprio per­
ché essa dice la verità dell’essere umano e ogni nostro fratello e so­
rella devono potervi leggere il senso della loro stessa verginità. Ed
esattamente perché si tratta di un annuncio difficile, e da più parti av­
versato e oscurato, è indispensabile che la testimonianza sia traspa­
rente, limpida, inequivocabile, senza sbavature né compromessi, non
pasticciata né ambigua.
Da un lato, allora, il giovane deve apprendere a vivere una ver­
ginità aperta, che si confessa o che confessa la bellezza dell’appar­
tenere solo a Dio; non il celibato del consacrato-orso, del misogino,
di colui che sfugge 0 vive in modo imbarazzato il rapporto. Dall’altro
deve porre ogni attenzione perché tutto in lui esprima la bellezza di
questa scelta, in modo assolutamente trasparente.
Il giovane consacrato che, per essere moderno e apparire disini­
bito, finisce per giocare coi sentimenti altrui e mandare messaggi am­
bigui, forse non farà grossi peccati, ma neppure trasmetterà la bellez­
za dell’appartenere a Dio solo, e in ogni caso stia pur tranquillo, non
è né moderno né disinibito, ma esprime solo la confusione che ha
dentro, figlia della mania conformista di essere come tutti (e accettato
da tutti/e), o di quella contraddizione tra progetto vocazionale e stile
di vita che inibisce ogni libertà del cuore. Tra l’altro, non so chi sia
più inibito tra questo giovane «giocattolone e appiccicoso» che si
vergogna della sua verginità e il tipo timido che invece si vergogna di
voler bene ed è anche un po’ orso.
Ma in realtà, che cosa c’è oggi di più moderno della verginità?
Di una verginità libera e limpida, detta con la trasparenza discreta e
pure forte di un agire lineare, che in ogni relazione annuncia, con co­
raggio e creatività giovanili, che Dio è origine e centro e destino di
ogni amore umano? Se moderno vuol dire libero da condizionamenti,
originale e rispondente alle necessità del momento, non è forse questa
la testimonianza che il mondo di oggi, così povero di libertà, doman­
da al vergine e al giovane vergine?

d) Saper usare con creatività il linguaggio simbolico


Il vergine rinuncia all’esercizio fisico della genitalità e a quanto
vi è connesso; non rinuncia, abbiamo specificato, alla relazione inter­
personale e alla capacità di manifestare benevolenza attraverso essa,
che anzi può diventare mediazione della tenerezza divina. Per questo,
e non - sia chiaro! - per una malintesa ascesi del rifiuto del corpo né
tanto meno come furbo stratagemma per ottenere per altra via (più
nobile 0 sofisticata) l’interesse e l’attenzione altrui, il vergine impara
le mille vie e sfumature del ricchissimo linguaggio simbolico. Egli
dimostra che l’affetto sincero si può esprimere non solo col linguag­
gio o coi vocaboli del linguaggio genitale o unicamente fisico­
gestuale, ma con altri segni e manifestazioni.15 anzitutto con il dono
sincero di sé, donando il proprio tempo e le proprie energie, metten­
dosi in atteggiamento di servizio, perdonando e comprendendo, stan­
do vicino e manifestando solidarietà nei momenti di sconforto... Il
vergine scommette che ci può essere e si può manifestare
un’incredibile ricchezza di calore umano anche astenendosi da qual­
siasi gesto e intimità.
Evidentemente ciò vale anche in senso passivo-ricettivo e non
solo attivo-oblativo. Vogliamo dire che il vergine è anche chi ha im­
parato a riconoscere la benevolenza di cui è circondato anche nei co­

15 Circa le varie forme d i comunicazione c f A. C e n c i n i , «Com'è bello stare in­


siem e...». La vita fraterna nella stagione della nuova evangelizzazione, Milano 1996,
211-230.
siddetti piccoli segni di affetto e attenzione; è uno che ha sviluppato
una «soglia percettiva bassa», cioè fine e sensibile, educata a percepi­
re anche i minimi segnali di benevolenza, e a sentirsene appagato,
senza pretendere chissà cosa e poi non esser mai sazio!

e) Il bacio al lebbroso
C’è infine un’altra componente dello stile del vergine, che ri­
guarda in modo particolare la rinuncia e lo scopo della sua rinuncia.
Prendo lo spunto dal famoso episodio della vita di Francesco d’Assisi
che bacia e abbraccia un lebbroso. Quando Francesco compie questo
gesto, non fa semplicemente un’atto eroico, magari reprimendo una
naturale ritrosia o ... chiudendo gli occhi per non vedere, ma, in un
certo modo, si sente attratto da quel viso deforme, come l’amante
verso le labbra dell’amata. E ci fa capire il senso vero della rinuncia,
anche di quella implicita nella scelta verginale. In cui si rinuncia a
qualcosa di bello (umanamente parlando) per essere liberi di provare
attrazione per qualcosa che umanamente non è attraente; 0 in cui,
detto diversamente, si rinuncia al viso più bello per esser liberi di ab­
bracciare il viso più bratto.
È il senso profondo della verginità per il Regno, come progetto
di vita entro il quale il vergine decide di allontanarsi da qualcuno/a
solo per avvicinarsi più intensamente a qualche altro o a tutti; o come
rinuncia a quell’amore umano che usa un certo tipo di criteri, elettivi-
selettivi, per amare alla maniera di Dio, che non usa quei criteri, ma
fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, e ama in modo particolare
il povero e il debole. La rinuncia, insomma, deve essere mirata e ben
finalizzata; allora diventa possibile, pur se costosa in ogni caso, poi­
ché apre, dinanzi al cuore del vergine, uno spazio inedito di libertà, la
libertà di amare tutti, fino a voler bene e provare attrazione per chi
umanamente sembra meno amabile 0 addirittura repellente, o è più
tentato dalla disperazione di scoprirsi poco amato.
Nulla di straordinario, in fondo è proprio questo che significa ver­
ginità per il Regno: amare Dio al di sopra di tutte le creature (= con
tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze), per voler bene con
il cuore e la libertà di Dio a ogni creatura (= senza legarsi a nessuna in
particolare, che sarebbe il matrimonio, né rifiutandone alcuna).
Ma allora contìnua e ritoma il paradosso della libertà. Se il ver­
gine è espressione di libertà nel mondo di oggi, c’è un altro mito che
viene a cadere: il mito della libertà come indipendenza.

a) Libertà come dipendenza


Tutti noi automaticamente associamo all’idea di libertà quella di
autonomia, ma in realtà le cose stanno diversamente. Il problema
della libertà non si pone in termini di indipendenza, ma di amore o,
più precisamente, di libertà affettiva; perché l’uomo è libero non
nella misura in cui non dipende da niente e da nessuno (cosa impos­
sibile), bensì nella misura in cui sceglie di dipendere da ciò che ama
e che è chiamato ad amare (cioè dalla verità della sua identità), al
punto che l’intensità dell’amore per essa determinerà anche la libertà
di dipendere e il suo grado di libertà generale. Al contorno, l’uomo è
schiavo se e per quanto dipende da ciò che non può (e non deve)
amare e che non è degno di essere amato (cioè da tutto ciò che non
corrisponde a quel che è ed è chiamato a essere).
Nessuno, quindi, può dứsi libero se non ha il coraggio di conse­
gnarsi totalmente a ciò che è chiamato ad amare, affidandogli la sua
stessa libertà e da esso concretamente dipendendo. E se il giovane
deve essere geloso della propria verginità, ebbene, gelosia vuol dire
anche questa attenzione meticolosa a dipendere in tutto, non solo nei
gesti, ma anche nei pensieri, desideri, sogni, progetti, parole... da
quell’amore che è al centro della sua vita perché sia al centro anche
di ogni relazione. D’altronde, come abbiamo accennato prima, nella
cultura odierna quella verginale è sì una testimonianza urgente, ma
pure per mille motivi debole, tanto spesso zittita e irrisa da clamori
contrari, o sospetta e non creduta; se dunque non è chiara e inequivo­
cabile, rischia di sparire nell’insignificanza o di smentirsi nella con­
traddizione con se stessa. Ancora una volta è la libertà affettiva, allo­
ra, libertà di dipendere dall’amore, che imprime forza alla testimo­
nianza e dà unita alla persona.
Certo, non sarà facile né automatico per il giovane trovare il pas­
so giusto in questa testimonianza; ma è un rischio che deve comun­
que coưere per non ridursi a vivere la verginità come semplice, e so­
vente triste, osservanza di un pacchetto di divieti.
A tal riguardo voglio raccontare questo episodio. Tempo fa un
mio chierico professo venne a chiedermi il permesso di partecipare
alla festa di compleanno di una catechista della parrocchia ove lui
stesso prestava servizio per la catechesi. Buona ragazza, ottima fami­
glia (zia suora), festa casalinga, benedizione del parroco, compagnia
di gente fidata, niente stranezze..., le condizioni sembravano tutte
positive, insomma, o gli ingredienti c’erano tutti per accettare un in­
vito, gesto pur sempre di attenzione e amicizia, cui sembrava brutto
dire di no. Ma poi, in ogni caso, chi l’ha detto che noi, frati e suore,
siamo più congeniali per i funerali, o che la nostra faccia si adatti
particolarmente (per carisma) alle condoglianze o che ce la caviamo
meglio di altri quando c’è da consolare qualcuno «in hac lacrimarum
valle»? Se vogliamo che la nostra immagine non venga associata solo
o prevalentemente alle circostanze lugubri e venga essa stessa e la
nostra vocazione vista come lugubre, dobbiamo un po’ avere il co­
raggio di... cambiare qualche abitudine.
Eppure il problema non era semplicemente questo, né il mio
ruolo poteva limitarsi a un permesso da dare. Anzi, anche il giovane a
un certo punto sembrò un po’ titubante e non così convinto, come se
avvertisse lui stesso altri aspetti del problema che pure era importante
non metter da parte. E allora gli feci un discorso, maturato progressi­
vamente in vari colloqui, all’incirca in questi termini:
«Tu puoi anche andare, sei libero. Ma se decidi di andare ricor­
dati che non puoi ignorare neanche per un momento che tu sei lì con
la tua identità di giovane consacrato nella verginità, e che questa tua
identità deve essere visibile, non solo per il distintivo che porti, ma
per l’atteggiamento che sei chiamato ad assumere. Senza pose indi­
sponenti e magari imbarazzanti, per carità!, senza fare prediche né as­
sumere un piglio serioso (rovineresti la festa!), ma con la naturalezza
di chi non solo è convinto e contento della sua scelta, ma è convinto
pure che la sua scelta ha un profondo significato anche per gli altri,
per quei giovani che saranno lì a celebrare la festa.
E la tua testimonianza in cosa consiste? Nel dipendere, in tutto
quel che fai e dici, nei gesti come negli atteggiamenti, nel modo di
esprimere la tua allegria e di divertirti con gli altri, nello stile e nel
portamento generali, persino nel regalo e nell’augurio che farai..., da
ciò che tu ami e che sei chiamato ad amare, e che voưesti che anche
gli altri scoprissero nella sua bellezza! Ciò che non potrai mettere tra
parentesi neppure per un istante è proprio la tua verità, o il tipo di re­
lazione con il Signore Gesù, colui che ti ha amato e scelto, dal quale
devi imparare a dipèndere in ogni frammento del tuo vivere e del tuo
amare. Per “dire” a tutti, a Francesca neo-diciottenne per prima e poi
anche agli altri invitati, che ogni vero amore umano deve riconoscere
il primato di Dio, viene da lui ed è destinato a tornare a lui, altrimenti
è inquieto...
Pensa quanto potrebbe venire bene questa festa se tu fossi capa­
ce di viverla con tutta la freschezza naturale della tua giovinezza e la
serenità contagiosa della tua scelta di verginità! Dove sta scritto che
la verginità non sa godere e partecipare alla gioia di tutti, che Tessere
vergini non rende creativi e intelligenti proprio nella manifestazione
dell’affetto? Chi l’ha detto che il vergine è un imbranato o un aso­
ciale? o che, per smentire tale immagine, si debba per forza andare
agli estremi opposti?
Allora, sei libero di andare, ma non sei libero di metterti una ma­
schera e nasconderti, di smentirti e vergognarti di quel che sei, di co­
piare quel che fan tutti e fare il verso a chi sembra più disinibito (e
invece è solo un coatto) ! Se decidi di andare, sii te stesso fino in fon­
do. Chi ti vede deve cogliere nella tua persona e sentire nel tuo com­
portamento una proposta di vita che dà pace ed è appagante, e al tem­
po stesso inquieta e fa nascere interrogativi ineludibili.
Pensa che fallimento e contraddizione sarebbe se tu venissi
identificato come un giovane qualsiasi, in tutto e per tutto uguale agli
altri, omologato secondo quella cultura dominante che ha creato la
finta liberazione sessuale... Sarebbe la negazione della tua scelta, una
sorta di suicidio spirituale, un disprezzo di quel che sei che finisce
per privare gli altri di quel che sei tenuto a dare loro.
Sei libero di andare perché sei libero di amare la tua vocazione e
nello stile della tua vocazione; ma farai un’autentica esperienza di li­
bertà solo se cercherai in tutti i modi di voler bene in tal modo, se­
condo la “forma della tua verginità”, con gli stessi sentimenti del Fi­
glio, che in fatto di amore ha amato tutti con l’amore più grande, e in
fatto di feste, non solo ha sempre accettato volentieri gli inviti, ma ha
saputo sfrattare la festa dell’uomo per rivelare l’amore di Dio».
Ci volle un po’ di tempo per maturare ed elaborare queste rifles­
sioni (che ovviamente non gli «scaricai» addosso come un predicozzo
tutto di un fiato), un po’ di pazienza per esaminare e verificarne
l’impatto con il suo cammino psicologico e spirituale, coglierne i vari
aspetti e le implicanze anche sul versante della cosa in sé, del tipo di
partecipazione e di presenza.
Mi venne allora in mente, a proposito di feste, la paraboletta con
cui Enzo Bianchi descrive il senso della vita consacrata oggi. Il priore
di Bose paragona i monaci (come tipo della vita consacrata) a
«quelle persone che, nel momento culminante di una festa gioiosa, si
sentono irresistibilmente attratti fuori nella notte, perché capiscono
che queste feste sono soltanto una pregustazione della festa di Dio
che deve venire».16

Proposi- al giovane questa immagine che aggiunse elementi ulte­


riori alla riflessione, ma sempre all'interno dello stesso nucleo di si­
gnificati o dell’identico simbolo: il consacrato accetta l’invito alla fe­
sta degli uomini, non disprezza la compagnia e anzi cerca la relazione
umana, ma al tempo stesso sa prendere le distanze dalla festa, ovvero
sa dire al momento e nel modo giusto che nell’amore dell’uomo e
nella gioia dell’incontro umano sono misteriosamente nascosti
l’amore di Dio, l’attesa e il desiderio dell’Etemo, che prepara per
l’uomo una festa senza fine, in una domenica senza tramonto. Quel
«prendere le distanze» indica la capacità di segnalare la presenza di
un Altro, ma può voler dire anche il coraggio di evidenziare ciò che
nell’uomo non è in sintonia ancora con quel desiderio di Dio.
La verginità è questa attesa di Dio, vissuta nell’irresistibile attra­
zione notturna e dunque anche in una certa distanza dall’umano, e
tuttavia testimoniata a ogni uomo e ogni donna, perché la festa umana
non soffochi l’attesa e il bisogno di Dio, ma ne sia un’anticipazione.
Non fu facile per il mio chierico professo il discernimento, ma
certamente il compleanno di Francesca divenne una data e una tappa
del cammino nella libertà affettiva della sua giovane verginità.

5. Le radici
Siamo al termine della riflessione che ha proposto un itinerario
di formazione alla libertà del cuore. In realtà con quest’ultimo para­
grafo siamo ricondotti alle origini del percorso. Da dove viene questa
libertà? Quali sono le condizioni strutturali della libertà affettiva?
In maniera schematica diciamo che ha due tipi di radici, una spi­
rituale, l’altra psicologica.
a) Mistica e libertà affettiva
A livello spirituale la libertà ha radici mistiche. Se infatti mistica
è la capacità di sentire-gustare e accogliere fin nelle fibre più profon­
de dell’essere quel che Dio fa nell’anima del credente, al punto da la­
sciarsi attrarre e modellare dalla sua azione, allora la libertà ha natura
e sapore mistici. La libertà, infatti, non si conquista, di per sé, ma,

16 E. Bianchi, «Il monaco, nel deserto di fronte alla città», in Avvenire, 28 lug
1995, 15.
come abbiamo specificato, significa lasciarsi conquistare, sperimenta­
re una forte attrazione, contemplare lo splendore della verità, essere
illuminati dalla bellezza... Anzi, è decisamente importante che un
giovane comprenda che «la vera libertà - come afferma un maestro di
vita spirituale quale A. Dagnino - non può cominciare prima della
mistica, o prima che l’amore abbia raggiunto una certa ebollizione,
che provoca degustazione o esperienza»,17 0 sapienza del mistero.
Solo dopo si può parlare di libertà.
Detto diversamente: quanto più l’amore è allo stato mistico, ed è
attratto dal dono di Dio, tanto più la scelta del dono stesso divino sarà
autenticamente libera. Ecco perché la vocazione religiosa è chiamata
per natura sua alla libertà di un amore grande o allo stato misticoỄ
Potremmo addirittura dire che la verginità è proprio espressione
dell’aspetto mistico di tale vocazione, e che non può esser compren­
sibile al di fuori di questa logica. Esattamente per questo motivo ab­
biamo più sopra parlato di «cromosoma mistico» come condizione
indispensabile per un’autentica formazione alla consacrazione a Dio.
Non è forse il caso di recuperare la dimensione mistica all’inter­
no della vita consacrata e della formazione a essa, togliendole quella
falsa aura celestiale che la svuota e ne snatura il senso? Per altro, «la
mistica cristiana passa attraverso l’umanità di Gesù o, comunque, si
apre verso la direzione in cui questa divina umanità può essere tro­
vata. Perciò la mistica cristiana autentica nasce e vive di croci e di
oscurità»,18 proprio perché implica una conoscenza-esperienza-sa-
pienza piena, non parziale; concreta, non astratta, del mistero.

b) Due certezze

A livello psicologico alla radice della libertà vi sono due certez­


ze: la certezza di essere già stato amato e la certezza di potere e do­
vere amare.
Potremmo considerarle come delle premésse o, meglio, condi­
zioni su cui si fonda la libertà affettiva. Su cui si fonda, tanto più, un
progetto di consacrazione a Dio che è Amore.
Chi possiede queste due certezze, accessibili a tutti ma mai pos­
sedute in modo definitivo, è libero, libero di voler bene senza legare a
sé né pretendere il ricambio, libero di lasciarsi benvolere senza pre­

17 A. DAGNINO, Il cantico della fede. I fondamenti biblici, teologici, ecclesiali


della vita consacrata, Bologna 1991, 77.
18 G. M u co , «L’attuale ambiguo interesse per la mistica», in La Civiltà Catto­
lica, 3559(1997), 439-440.
sumere di non aver bisogno dell’altro. Sono certezze psicologiche,
ma nessuno le possiede come chi crede che l’Etemo è amore. Per
questo «i figli di Dio hanno le ali...».
Sono certezze legate a quella memoria biblico-affettiva di cui
abbiamo detto19e a quel modello storico-autobiografico della fede che
il giovane dovrebbe apprendere. È proprio questo il frutto più im­
portante di questa operazione psicologico-spirituale: raggiungere la
certezza di aver già ricevuto amore in modo abbondante, non appena
sufficiente; in modo definitivo, non incerto.
Trovo una singolare e straordinaria coincidenza con quanto l’abbé
Pierre scrive nel suo Testamento. Giunto a 81 anni, e facendo proprio
l’operazione di cui dicevamo appena adesso, ovvero leggendo la sua
lunga storia alla luce della fede, egli scopre che il tutto si riduce ad al­
cune certezze, semplici eppure grandi, grandissime, come delle catego­
rie interpretative della vita, psicologiche e assieme bibliche:
«.L’Eterno è Amore. È questo il primo fondamento della mia fede.
Il secondo fondamento della mia fede è la certezza d i essere am ato.
E il terzo fondamento è la certezza che questa misteriosa libertà che è
in noi non ha altra ragione di essere, che di renderci capaci di rispon­
dere con l'amore all’Amore».20

Proprio questa è la grandezza dell’uomo, continua l’abbé citando


Pascal, egli

«non solo sa che muore, ma sa che può morire amando».. .3I

Il consacrato così impara ad andare incontro alla vita e alla


morte: con la certezza di aver ricevuto un amore che tende per natura
sua a divemre amore donato. È libero nella misura in cui può saldare
tra loro questi due movimenti: la coscienza di aver ricevuto con la
decisione di poter e dover donare. È libero nella misura in cui scopre
- con sorpresa - che si vive e si muore per lo stesso motivo, perché
l’amore ricevuto (= la vita) tende naturalmente a divenire amore do­
nato (= la morte).
Per questo è libero anche di donarsi completamente a Dio, fonte
dell’Amore, e ai fratelli, sempre con la consapevolezza, umile e di­
screta, di ricambiare l’Amore senza la pretesa di fare nulla di straor­
dinario.

19 Cf. il capitolo ottavo.


20AJBBÉ P i e r r e ,
Testamento, Casale M. 1994, 75.
21 Ibidem.
Per questo, ancora, può decidere di essere vergine, rinunciando
all’intimità pur desideratissima di una creatura che sia sua per sem­
pre. È una scelta non facile per la rinuncia che chiede, ma è possibile
nella misura in cui è scelta che esprime la libertà di chi ha acquisito
in modo pieno la certezza di essere stato amato da sempre e di poter e
dover amare per sempre, fino alla morte e olứe...
Ancora l’abbé Pierre annota realisticamente:
«La libertà degli uomini spesso si perde e tuttavia non può essere
cancellata... Fortunatamente esiste quello che chiamiamo grazia. Uso
spesso l ’immagine della nave. La nostra libertà consiste nel tirare le
corde per tendere la v ela... Questo non basta per far avanzare la na­
ve. È necessario che soffi il vento. Ma se il vento soffia quando la
vela non è tesa, la nave non avanzerà. È proprio lì che si gioca la ne­
cessaria complicità fra la nostra libertà e l ’infinita libertà di Dio».22

Le corde che tendono la vela, e che gonfiandosi del vento dello


Spirito consentiranno poi alla nave di solcare le onde della vita, sono
proprio quelle due certezze che rendono la persona libera nel cuore.
Grazie a esse chi sceglie la verginità sarà libero non solo di do­
nare se stesso e il suo affetto a Dio e agli altri, ma sarà pure libero di
lasciarsi amare, di apprezzare ogni segno di benevolenza umana nei
suoi confronti e, soprattutto, di sperimentare le tenerezze di Dio. Li­
bero di accettare la rinuncia per assaporare un amore più grande.
È quel che dice, in modo quanto mai toccante, ancora lui, questo
grande, antico e moderno profeta, che molto ha da dire a un giovane
che sta scegliendo la verginità.

«Se tornassi ad avere diciott’anni, sapendo quanto costa la privazione


della tenerezza, e non sapendo altro, certamente non avrei la forza di
pronunciare gioiosamente il voto di castità. Ma se sapessi che, lungo
questo sentiero così aspro si incontrano le tenerezze di Dio, allora
certamente pronuncerei di nuovo il mio sì con tutto il mio essere».23

Riportiamo, per concludere, l’immagine grafica che definisce


concetto e stile della libertà affettiva.

22 Ibidem, 76.
23 Ibidem, 62.
stessa: la formazione diviene efficace solo se da parte sua c’è la di­
sponibilità ad aprirsi, a svelare il motivo dei suoi stati d’animo, posi­
tivi e negativi, a consegnarsi nella verità del suo vissuto a chi gli è a
fianco e che proprio per questo può aiutarlo a capirsi meglio.
Il giovane deve comprendere che è egli stesso il primo responsa­
bile della sua formazione, non può aspettarsi tutto dall’altro, né può
pretendere che... sia un mago e possa leggere e capire tutto della sua
storia senza che lui faccia la sua parte aprendosi senza difese o reti­
cenze. Come può la guida accompagnare realmente chi non si apre
abbastanza o gli mette a disposizione solo la parte superficiale di se?
C’è, in effetti, chi va dal direttore spirituale come un dipendente
va a ricevere ordini, finché a un certo punto non ne vedrà più la ne­
cessità e farà tutto per conto suo... Da questo punto di vista, allora, si
può ben dire che ognuno ha il padre spirituale che si merita.
È dunque importante che il giovane impari a scrutarsi e non ab­
bia paura di riconoscere i suoi sentimenti e le reali motivazioni del
suo agire, si prepari a ogni incontro con la sua guida con un intelli­
gente esame di coscienza (non di incoscienza), in cui evidenziare
problemi, difficoltà e un quadro realistico di sé, così da potergli offri­
re una collaborazione reale, nell’interesse della sua crescita.
Tra l’altro, il semplice fatto di dirsi a un altro ha già una note­
vole valenza educativa, sia perché «costringe» ad aprirsi a se stessi e
a cercare la propria verità, sia perché diventa un confronto salutare,
per quanto a volte imbarazzante, con chi ci vive accanto e vede
aspetti che all’interessato stesso potrebbero sfuggire. Per questo chi è
aperto nella direzione spirituale normalmente vive bene anche la pre­
ghiera; chi, al contrario, non è aperto con il fratello non lo è nemme­
no con il Padre.

2. Fiducia

Cleopa e l’amico di viaggio non riconoscono Gesù, ma in ogni


caso accolgono la compagnia di questo estraneo che s’unisce al loro
cammino, accettano lo scambio con lui, ascoltano la sua parola, anche
quando assume un tono di rimprovero e condanna la loro durezza di
cuore, sfogano con lui la loro tristezza e delusione, insistono perché
resti con loro..., insonuna si fidano di lui (per poi «credere» in lui). È
proprio la fiducia che consente di camminare insieme, a livello uma­
no e spirituale.
Nella relazione di aiuto è di fondamentale importanza la cosid­
detta «alleanza terapeutica», ovvero la certezza, da parte di chi chiede
aiuto, che l’altro glielo possa e voglia dare, e dunque la convinzione
che convenga aprirsi e confidarsi con lui.
Nel rapporto di tipo spirituale resta ancora basilare il credito che
il giovane dà al proprio formatore, che non viene però - è importante
sottolineare - semplicemente da calcoli terreni, dal fatto che l’altro se
lo meriti perché competente, ma dalla certezza - ancor prima - che
egli sia in quel posto in quanto mediazione dell’intervento di Dio e
segno della paternità-maternità divina nei suoi confronti.
Chi dice di fidarsi di Dio, ma non degli uomini o delle donne, e
per questo presume di poter fare da solo nelle cose dello Spirito, non
è autentico credente, né si fida neppur di Dio, in realtà; così pure chi
pretende che la sua guida sia perfetta e la va a cercare chissà dove. La
fiducia (nell’uomo) nasce dalla fede (in Dio) e riconduce alla fede;
anzi, la fede «è fatta» di fiducia e, al tempo stesso, la stimola,
l’incalza e ne è stimolata e incalzata a sua volta.
Come abbiamo ricordato parlando del formatore-accompagna-
tore, chi si fida del fratello maggiore che gli è posto accanto, nella
formazione iniziale, mostra oggi di fidarsi di Dio e un domani di es­
sere disposto a lasciarsi cingere da un altro e farsi conduưe dove lui
non vonà (cf. Gv 21,18). Avere una guida spirituale vuol dire impa­
rare a dipendere in modo intelligente e fiducioso; chi non vuole 0 non
sa dipendere da nessuno, perché teme di perdere la libertà, finisce
spesso con l’essere schiavo, senza saperlo, di un’infinità di cose e
persone. Soprattutto della sua paura.
Perché, come dice A. Graf,

«chi si fida di tutti dimostra di aver poco discernimento, ma chi non si


fida di nessuno mostra di averne ancor meno».

3. Discernimento

Il cammino di accompagnamento ha un preciso punto di arrivo:


mettere il giovane in grado di scoprire il progetto di Dio e di sce­
glierlo, in libertà e responsabilità, come rivelazione della propria
identità. L’accompagnamento non è dunque in funzione dei pro­
grammi della guida-o dell’istituzione, ma mira a creare una disponi­
bilità obbedienzicile nei confronti del piano vocazionale divino.
Se questo è il punto di arrivo, il metodo, o il percorso per giun­
gervi, dovrà essere specifico, come un apprendimento progressivo ad
assumere un atteggiamento ob-audiens, tipico del pellegrino nella fe­
de che, proteso all’ascolto, porta una mano all’orecchio per fare resi­
stenza alle onde sonore e percepire meglio quella voce, quel cenno,
quel segnale che indica una direzione..., da qualsiasi parte vengano
voce, cenno, segnale.
L’obbedienza di chi disceme, come prima la fiducia, non è da
imparare e praticare solo e subito nei confronti dell’Altissimo, ma di
tutta quella realtà che in qualche modo ne media la presenza: la Chie­
sa, la regola, i superiori, la comunità, le attese dei fratelli, le necessità
di chi soffre, certi eventi imprevisti, i segni dei tempi... Proprio que­
sta capacità di discernimento è mancata ai due di Ẹmmaus: schiavi di
una certa idea del Messia non hanno saputo riconoscerne la presenza
nelle sue mediazioni, a partire da quella drammatica della sua passio­
ne e morte.
Paradossalmente potrebbe essere facile, e tutto sommato non co­
sì frequente, obbedire a Dio, soprattutto quando c’è la certezza che è
il Padreterno a fare una certa richiesta; mentre è forse più complessa
e continua la sfida che viene al giovane dalle provocazioni di ogni
giorno, spesso oscure o attraversate da tante limitazioni umane se non
provocate da debolezze teưene. Ma proprio in questo consiste
l’obbedienza che il consacrato deve imparare: obbedienza non solo
esecutiva o che pretende certezze, ma che cerca, con umiltà e intelli­
genza, e sa liberamente cogliere il mistero della volontà di Dio in
tutte le mediazioni umane attorno a sé, e ob-audire non solo a Dio,
ma anche agli uomini', in ogni caso, però, obbedendo per Dio e non
per gli uomini.
E così l’accompagnamento diviene esercizio di un’obbedienza-
che-disceme, apprendimento di una disponibilità obbedienziale che
conduce lentamente il giovane a essere sempre obbediente, non solo
in certe cừcostanze ufficiali e di fronte ai superiori, ma ob-audiens
verso ogni fratello e verso ogni realtà, per giungere a scoprire - infi­
ne - e a scegliere il piano che Dio ha su di lui.
Ma deve stare attento, colui che guida, a non sostituirsi mai a colui
che deve discemere. Nessun comandamento oggettivo, nessuna regola
esterna, nessun parere o consiglio di altre persone può dare al soggetto
la certezza che quello che deciderà di fare è quello che Dio vuole da
lui. s. Ignazio, maestro nell’arte del discemere, ripete con forza che il
giovane va preparato a non cercare fuori di sé la sicurezza che quel che
sente, al termine di un processo di discernimento, come volontà di Dio
su di lui, lo sia davvero. Così facendo, tra l’altro, non troverebbe presso
nessuno tale certezza, e scaricherebbe su altri una sua precisa responsa­
bilità, che è parte intrinseca del processo stesso decisionale. Ma va
formato a cercare lui stesso in Dio quella certezza sufficiente per fare
una buona scelta, con tutta la fatica che ciò comporta.1

1 Cf. F. R ossi De Gasperis, «La Parola di Dio scritta, orizzonte indispensabile


del discernimento spừituale», in F. R ossi DE GASPERIS - I. DE LA POTTER1E, Il di­
scernimento spirituale del cristiano, oggi, Roma 1984, 87-88.
«La decisione e quindi il discernimento personale, in concreto, devo­
no essere della persona, del soggetto che si fa “dirigere”: in funzione
di ciò, il discernimento esercitato dal direttore spirituale si concepisce
come ordinato non a sostituire o a imporsi autoritariamente, bensì a
“conduire”, a sostenere il discernimento del soggetto. In definitiva,
infatti, si tratta di personalizzale in concreto l’ubbidienza della fede: e
in questo nessuno può farsi sostituire, e nessuno può sostituirsi a co­
lui che deve prestare ubbidienza. L’aiuto a crearsi delle motivazioni
autenticamente spirituali... è aiuto a vedere che “è bene per me deci­
dere così”, e quindi addirittura è “doveroso per me”. Ma sono io che
devo riuscire a vedere tutto questo; e sono io che, avendo visto ed es­
sendone persuaso dall'interno, decido di fatto».2

Discemere, dunque, non significa disporre del futuro, quasi sa­


pendolo con certezza in anticipo. Significa piuttosto saper leggere
una direzione nel presente, che pure va oltre il presente e che si pone
in coerenza con il proprio essere credente e consacrato. Il giovane
dovrebbe poter dire:
«mi sembra cristiano che io faccia così; mi sembra chiaro che io p o s­
so fare così; è prudente che io lo faccia; dunque Dio vuole che io lo
faccia, e che, facendolo, io non trovi ìlei sapere anticipato la sicurez­
za: la trovi, invece, fidandom i e affidandomi a lui»?

Proprio per questo, lạ sicurezza nel discernimento a cui il giova­


ne va fonnato è quella della speranza e dell’affidamento: motivato e
perciò non fideistico, e nondimeno reale.

«Sono solo un uomo che cerca la tua volontà; da come la vedo, credo
di poter camminare meglio; credo di poter partire. Questo “partire” è
bene per me: in ogni caso non mi porta lontano da te, mi porta verso
di te, compiendo un disegno che, a questo punto, ancora pienamente
non conosco. In ogni caso, tu sarai con me, e io con te. Questo è il
bene supremo».4

E questo è autentica formazione e accompagnamento nel discer­


nimento.
Dunque il formatore-accompagnatore orienta, sostiene, aiuta a
purificare le motivazioni e liberare il cuore, illumina e dà sicurezza;

2 G . MOIOLI, « D is c e rn im e n to s p iritu a le e d ire z io n e s p iritu a le » , in L . SEREN-


THÀ - G. M OIOLI - R. C orti, La direzione spirituale oggi, Milano 1982, 66-67.
3 Ibidem , 64.
4 Ibidem , 70.
ma si astiene da ogni forma di autoritarismo e volontarismo e da tutto
quanto renderebbe meno autonoma e personale, e dunque anche me­
no credente, la decisione per l’obbedienza della fede.5
Quando poi ogni membro della comunità in formazione è «accom­
pagnato» con questo stile e in vista di questa capacità di discernimento,
allora la comunità stessa diviene comunione di pellegrini che assieme
cercano, pur con responsabilità diverse, «ciò che è buono, a Dio gradito e
perfetto» (Rm 12,2). In tale comunità si pratica il discernimento comuni­
tario, e non solo quando vi sono decisioni importanti da prendere, ma
come stile abituale che abilita ciascuno a dare il proprio contributo per la
ricerca comune rimanendo aperto all’apporto dell'altro, a riconoscere in
ognuno i segni del volere divino e a essere libero di aderirvi anche rinun­
ciando al proprio parere. Come raccomandava già s. Benedetto ai suoi
monaci: fratres sibi invicem oboedeantl6
Allora, quando si è davvero imparato a obbedirsi l’un l’altro tra
fratelli, diviene più facile scoprire assieme la volontà di Dio e cammi­
nare uniti; e l’accompagnamento spirituale del singolo diviene scuola
di fraternità.

4. Condivisione
Il formatore, abbiamo già ricordato, non trasmette una dottrina al
giovane che accompagna, non è maestro né semplice informatore, ma
credente e consacrato che conosce la strada e la voce e i passi di Dio
e proprio per questo può aiutare a riconoscere il Signore che viene
incontro e a rispondere a colui che chiama.
La comunicazione educativo-formativa adotta il registro della
confessio fidei, avviene da cuore a cuore, come condivisione di espe­
rienza sapienziale, che è come dữe che la formazione avviene per
contagio, per la forza di una passione che ha invaso una vita e da lì
trabocca riversandosi su un’altra esistenza.
Un buon religioso non è automaticamente un buon formatore,
primo perché non basta esser «buoni» per farsi carico della vita di un
altro, ma ci vuole un po’ di passione e anche di follia; secondo perché
oltre alla santità personale-privata è necessario avere la capacità di
condividere, di partecipare ad altri la scoperta del tesoro, di dừe la
bellezza di quel che ha avvinto il cuore, visto che è impossibile na­
scondere ciò che è bello... Fino al punto di rendere il giovane stesso

5 Sulla metodologia della formazione al discernimento cf. A. Cencini, «La


formazione al discernimento», in IDEM, Vita consacrata. Itinerario formativo lungo
la via di Emmaus, Cinisello B. 1994, 178-211.
61 fratelli si obbediscano reciprocamente.
capace della medesima operazione, libero di partecipare ad altri la
sua esperienza e di lasciarsi illuminare dal cammino spirituale del
fratello che gli vive accanto, oggi, e della persona qualsiasi, domani.
L’accompagnamento spirituale, allora, ancora una volta, diviene
esperienza formativa quando va al di là di sé e di obiettivi parziali e
momentanei, e diviene, invece, stile di vita, offrendo un’esperienza così
ricca di comunicazione e comunione che il giovane stesso non può fare
a meno di ripeterla con altri. È proprio grazie a essa che in comunità si
impara a crescere insieme, condividendo i beni spirituali, la parola di
Dio e l’illuminazione del suo Spirito, ma anche lasciandosi correggere
l’uno dall’altro e confessandosi reciprocamente le proprie debolezze
per domandarne insieme perdono al Dio ricco in misericordia.
La comunità diventa così comunione di santi e di peccatori, co­
munione vera, in cui ogni cosa è comune, non solo i beni materiali,
ma anche e soprattutto quelli spirituali, così che nessuno considera
sua proprietà quanto Dio gli ha donato e a nessuno manca quanto
serve per l’edificazione dello spirito.
In questa comunità è come se ogni fratello «accompagnasse»
r altro nel cammino di santità; con la conseguenza che nessuno in
questa fraternità si ritrova solo, mentre diventa possibile ricreare il
modello ecclesiale originario del «cuor solo e anima sola». La santità
diviene allora comunitaria e la formazione davvero permanente.
In fondo è quel che è successo nella comunità dei discepoli,
quando i due di Emmaus «partirono senz’indugio» a raccontare ai lo­
ro colleghi di aver visto il Signore e di averlo riconosciuto allo spez­
zar del pane: la debole e incerta fede degli apostoli venne così rinfor­
zata dalla testimonianza «ardente» di Cleopa e socio. La condivisiòne
con Cristo diventa condivisione coi fratelli, apre alla partecipazione
del dono, perché arda il cuore di tutti.
Come è bello vivere in una comunità in cui l’esperienza dell’uno di­
venta ricchezza dell’altro, in cui la fatica di chi è debole (e chi non lo è
ogni tanto o... sempre?) è sorretta dall’energia del gruppo, perché si
cammina insieme nell’unico pellegrinaggio della fede, alimentandosi tutti
di quello stesso pane che rende meno faticoso il cammino di ognuno.7
E la bellezza e forza della com-pagnia della fede!
Grazie a essa nessuno è più solo nel cammino verso il monte
santo, né nella formazione iniziale né in quella permanente. E non
solamente perché gode della vicinanza fisica e morale di altre perso­
ne, ma perché con loro condivide interessi, obiettivi, apostolato, addi­
rittura i sentimenti. Gli stessi sentimenti del Figlio!

7 Su questo tema cf. A. CENC1NI, «Come rugiada dell'Ennon». La vita fraterna,


comunione di santi e peccatori, Milano 1998.
Si verifica, così, un duplice e convergente movimento nella vita
del giovane religioso: da un lato un movimento di ampliamento pro­
gressivo dei suoi orizzonti psicologici e spirituali (dall’apertura alla
guida alla condivisione con tutti); dall’altro un movimento di con­
centrazione, un andare sempre più all’essenziale nella sua ricerca
personale, tutta protesa verso la scoperta della volontà di Dio e verso
l’identificazione coi sentimenti del Figlio. Un movimento garantisce
l’altro, lo suppone e apre verso di esso.
Punto ideale di arrivo: la messa in comune dell’esperienza spiri­
tuale di ognuno nel cammino di identificazione coi sentimenti di Gesù,
e la conferma di una immagine di comunità in cui il cammino di forma­
zione di ognuno diventa luogo di incontro di tutti (e viceversa),

«finché arriviamo tutti all’unità della fede


e della conoscenza del Figlio di Dio,
allo stato di uomo perfetto,
nella misura che conviene
alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13).

È quello che cerca di dire la tavola 15.


Indice
Premessa
LA FORMAZIONE, MINISTERO E MISTERO.................................. pag 9
C apitolo p rim o
LA FORMAZIONE OGGI,
TRA PROBLEMI E SPERANZE............................................................. » 11
1. Complessità dell’azione educativa....................................... » 11
2. Discorso propositivo............................................................... » 13
3. Non più ... damnatos ad pueros........................................... » 14
4. «Vidimus Dominum!»............................................................ » 15

PARTE PRIMA
IL MODELLO FORMATIVO........................................................ » 19
C apitolo secondo
LA FORMAZIONE OGGI......................................................................... » 23
Indefinitezza del m odello.................................................................. » 23
1. Ambiguità dell’obiettivo........................................................ » 24
2. Confusione nelle tappe intermedie....................................... » 24
3. Povertà di indicazioni metodologiche................................. » 25

C apitolo terzo
«ABBIATE IN VOI GLI STESSI SENTIMENTI
CHE FURONO IN CRISTO G E S Ù »...................................................... » 29
«Guardando verso il futuro»............................................................ » 29
1. Modello teologico-antropologico.............................. » 30
2. Strategie generali: legge della totalità
e della dinamica esperienziale-sapienziale.............. » 32
3. Metodo educativo: formazione alla libertà............. » 33
C apitolo sedicesim o
ALLA SCOPERTA DELL’IO ............................................................................» 169
1. «La verità vi farà liberi» (Gv 8 ,3 2 ).......................... .........» 169
2. «Dal cuore provengono
i propositi malvagi» (Mt 1 5 ,1 9 ).........................................» 170
3. «State attenti, vigilate...» (Me 13,33)..................... .........» 176
C apitolo diciassettesim o
LIBERAZIONE DELL’I O ........................................................................ .........» 1 7 9
1. Dinamismo dell’inconsistenza...........................................» 179
2. Superamento dell’inconsistenza.........................................» 182
3. La buca nella strada............................................................. » 188
C apitolo diciottesim o
L’UOMO N U O V O ...................................................................................... .........» 191
1. «Formatevi un cuore nuovo
e uno spirito nuovo» (Ez 18,31).........................................» 191
2. «Convertitevi e vivrete» (Ez 18,32)......................... .........» 192
3. «Con tutto il cuore» (Dt 6 ,5 )..................................... .........» 194
C apitolo diciannovesim o
LIBERI NEL C U O R E ................................................................................ .........» 201
1. Il concetto..................................................................... .........» 201
2. Il dinamismo..........................................................................» 203
3. Lo stile ....................................................................................» 207
4. Il paradosso............................................................................» 2 1 4
5. Le radici..................................................................................» 217
C apitolo ventesim o
MAI PIÙ DA SOLO...!............................................................................... .........» 223
1. Apertura.................. ...............................................................» 223
2. Fiducia....................................................................................» 224
3. Discernimento.............................................................. .........» 225
4. Condivisione..........................................................................» 228

INDICE......................................................................................................» 233

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