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AMEDEO CENCINI

I senti menti
del “ igSi®
Il cammino formativo
nella vocazione presbiterale e consacrata

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA


Prima edizione: maggio 1998
Ristampe: ottobre 1998
settembre 1999
luglio 2001
luglio 2005

@1998 Centro editoriale dehoniano


via Nosadella, 6-40123 Bologna

ISBN 88-10-50820-3

Stampa: Grafiche Dehoniane, Bologna 2005


A p. L.M. Rulla
con sentimenti di figlio
Premessa

LA FORMAZIONE, MINISTERO E MISTERO

. La vita consacrata si è sempre distinta nella Chiesa per la partico­


lare attenzione che ha dato alla formazione dei propri membri. D’alfro
canto, fin dagli inizi, è stata per tutti «maesừa di spiritualità», e tale pre­
rogativa non poteva e non può non avere un immediato risconừo anzi­
tutto al suo interno e a servizio di chi è chiamato a questa scelta.
Sappiamo tuttavia i molti problemi che ancor oggi travagliano il set­
tore, oggetto - da un lato - di molta attenzione, alle prese - dall’altro -
con interrogativi che ancora sembrano lontani da soluzione. Ma cono­
sciamo anche la speranza che anima tanti formatori e formatrici impegna­
ti in questo servizio e che è in ogni caso più grande dei problemi.
Questo libro nasce dalla consapevolezza sia dei punti di domanda
che delle attese fiduciose, vissuta dall'interno, e dal desiderio di condi­
videre un’esperienza che si protrae da tempo e che, nonostante inevita­
bili fatiche e alterne vicende, considero dono grande e immeritato.
Voglio chiarire subito che non sono, né tanto meno mi propongo
in queste pagine, come un esperto che insegna. Vorrei solo riflettere ad
alta voce su un cammino nel quale sono ancora impegnato, per cogliere
gli errori fatti, assieme a inadempienze e incertezze, ma anche per indi­
viduare la cfoezione da imprimere al cammino presente e futuro. Per­
ché, senza assolutamente enfatizzare nulla, la formazione non è mai
questione privata o qualcosa di semplicemente propedeutico o che ri­
guarda un momento particolare, giusto una stagione dell’avventura esi­
stenziale: la formazione tocca passato, presente e futuro della singola
persona, ma anche dell’istituzione; è iniziale e permanente; è metodo
pedagogico che prepara alla consacrazione a Dio e pure modo teologi­
co di pensare la stessa vita consacrata, visto che tutta la vita consacrata
è in se stessa un lungo e interminabile processo formativo.
Soprattutto la fon-nazione è ministero, servizio fraterno offerto
fin dall’inizio a chi scopre su di sé un disegno che viene dall’alto, che
non riguarda solo lui ma da condividere con altri, e anche mistero,
azione divina che il Padre porta avanti con la potenza dello Spirito
per plasmare in coloro che chiama rimmagine del Figlio.
È ministero che media il mistero.
Queste pagine sono parte di questa mediazione.
Prefazione alla 5° edizione

Questo libro è giunto alla 5a edizione, oltre a diverse traduzioni (in


lingua inglese,1 francese, spagnola, portoghese, polacca). La cosa non
può che far piacere a chi l’ha scritto, che vede nella diffusione del libro
la possibilità di proporre ciò in cui crede e di tener vivo un dialogo con
i lettori, e con lettoli particolari, in questo caso, come sono coloro che
lavorano nel delicato campo della formazione, soprattutto nel mondo
della vita consacrata. A loro, infatti, era rivolto il libro nelle 4 edizioni
passate (come indicato dal «vecchio» sottotitolo).
Ma il dialogo è andato anche oltre questa frontiera di lettori, ov­
vero a leggere il libro è stato anche il formatore del seminario dioce­
sano, 0 lo stesso seminarista. E proprio da qualcuno di loro m’è giun­
to insistente l’invito a offrire la proposta anche a chi è impegnato nel­
la formazione presbiterale.
Ecco il motivo di questa prefazione, evidente nel cambio del sot­
totitolo con un’aggiunta rispetto alPedizioni precedenti: il cammino
formativo nella vocazione presbiterale e consacrata.
Il libro ha avuto qua e là aggiunte significative (vedi, ad es, il
concetto pedagogico della trasformazione come compimento del pro­
cesso di formazione o il chiarimento della relazione tra esperienza e
sapienza), ma è rimasto sostanzialmente lo stesso, con quelle specifi­
cazioni che sono tipiche della vita consacrata (ad es. il riferimento al
noviziato, al carisma e alle sue componenti, alla centralità della co­
munità ecc); ma s’è creduto che nella sua sostanza (e nella grandis­
sima maggioranza .dei suggerimenti proposti) il libro potesse risultare
utile per entrambi i cammini formativi vocazionali. In fondo anche
gli aspetti peculiari del cammino formativo nella vita consacrata han­
no un parallelo corrispondente nell’iter formativo presbiterale (il no­
viziato e il tempo propedeutico di preparazione alla teologia; il cari­
sma religioso e la spiritualità diocesana; la centralità della comunità e
la concezione oggi sempre meno individualistica dell’identità presbi­
terale; fino all’esperienza delle comunità presbiterali...).
So bene, per altro, che le peculiarità della vocazione presbiterale
hanno un loro tipico risvolto educativo-formativo. Qui non vengono

1 Una delle due edizioni in lingua inglese reca già nel sottotitolo il riferimento a
entrambe le vocazioni (Guiding Young People in Religious and Priestly Formation,
ed è edito da Paulines Publications Africa)
esplicitamente riprese, ma nemmeno vengono lasciate prive d’un
quadro psicopedagogico di riferimento ideale. Semplicemente si ri­
tiene, e questo - ci tengo a ripeterlo - soprattutto per ammissione di
quei formatori presbiterali che hanno letto il libro, che la sostanza
della proposta psicopedagogico-spứituale che emerge dal testo stesso
possa esser condivisa anche nell’ambito dell’iter formativo del sacer­
dote diocesano.
La ragione? Niente di speciale o di particolarmente originale.
Forse il fatto che lo specifico di questa pubblicazione, nel suo picco­
lo, è esattamente l’individuazione di alcune linee pedagogiche essen­
ziali di crescita, nella vita spirituale di chi vuole rispondere con re­
sponsabilità alla chiamata di Dio.
Probabilmente sempre per questo motivo il libro ha ừovato una
certa diffusione anche in contesti culturali diversi, perché proprio que­
sta è l’attesa maggiormente sentita nel nostro ambito: non il semplice
chiarimento teologico-spừituale dell’identità del chiamato, ma la sco­
perta del percorso metodologico che ci consenta di raggiungere quell’i­
dentità nei suoi diversi lineamenti. Come abbiamo più volte constatato
in incontri con gruppi di formatori presbiterali, in Italia e all’estero.
Così, con molta semplicità, mi permetto ora di proporre il testo a
un pubblico più vasto, oltre il confine della vita consacrata.
D’altronde, in una Chiesa che sta sempre più riscoprendo la ne­
cessità e la bellezza della condivisione dei carismi, niente di più natu­
rale del condividere esperienze e pedagogie diverse e convergenti,
nel comune intento di costruire in noi l’immagine del Figlio, per la
pluriforme azione dello Spirito, affinché ogni creatura lo riconosca
Signore, a gloria di Dio Padre!
L’Autore
Capitolo primo

LA FORMAZIONE OGGI,
TRA PROBLEMI E SPERANZE

Partiamo da un presupposto: la formazione alla consacrazione a


Dio non è qualcosa di semplice né di automatico, chiede attenzione a
vari aspetti e l’intervento attivo di vari soggetti, è operazione di Dio e
dell’uomo, di chi la propone e di chi la «riceve», in un tempo dedi­
cato particolarmente a ciò e poi per tutta la vita; ci vogliono, dunque,
accortezza e sapienza per discorrere intorno a essa, assieme all'umiltà
e discrezione di chi sa di trovarsi, in ultima analisi, di fronte al miste­
ro del Dio che crea e plasma, e della creatura che liberamente e re­
sponsabilmente accetta o meno di essere da lui modellata.

1. Complessità dell’azione educativa


Può forse aiutare la nostra riflessione il chiarire subito quali sia­
no gli elementi, sul versante dell’istituzione, che contraddistinguono
Fazione educativo-formativa. Perché vi sia formazione sono indi­
spensabili quattro componenti.
a) Quadro teorico-pratico di riferimento
Alla base ci deve essere un quadro teorico-pratico, teologico-
antropologico di riferimento, entro cui siano chiaramente definiti
obiettivi finali e intermedi, metodo e sừategie di intervento; nulla,
infatti, è più pratico di una buona teoria che dia continuità e sistema­
ticità al processo temporale, specificando tappe e modalità di azione
lungo le diverse fasi della vita, perché si realizzi secondo la finalità
generale della vita consacrata in quanto tale e quella specifica della
famiglia religiosa di appartenenza.
b) Rete di mediazioni pedagogiche
Seconda componente indispensabile è una rete di mediazioni
pedagogiche, a partire dalla persona del formatore/formatrice, dalla
sua competenza e preparazione per un servizio così qualificato e dalla
sua disponibilità effettivo-affettiva, di tempo e di energie. Altre me­

li
diazioni importanti sono quelle della comunità educativa, con la sua
articolazione di ruoli, e dell’ambiente adeguato, con condizioni e sti­
moli che facilitino l’azione educativa. Se è Dio l’unico formatore, chi
lavora nella formazione svolge il molo del collaboratore-mediatore,
ruolo indispensabile per aiutare il giovane a lasciarsi convertire e pla­
smare dalla grazia.

c) Pluralità convergente di dimensioni e livelli


In un progetto educativo deve essere contemplata e articolata
una pluralità convergente di dimensioni o fasi e livelli, nel senso di
attenzioni ad aree e contenuti diversi che devono essere presenti nel
cammino formativo. Pensiamo, ad esempio, alla dimensione spiri-
tuale-carismatica (con le sue componenti mistica, ascetica e apostoli­
ca); ai passaggi dalla fase della conoscenza a quella dell’esperienza e
infine della sapienza; o alla dimensione umana, culturale, affettivo-
sessuale (con le sue componenti consce e inconsce); pensiamo ai li­
velli mentale, volitivo, emotivo («con tutta la mente, con tutte le for­
ze, con tutto il cuore»); allẹ dimensioni intrapsichica e interpersonale
(o sociale-relazionale), comunitaria ed extracomunitaria. Tali dimen­
sioni, piani o livelli non solo non possono mancare in una dinamica
formativa, né possono esser concepite in successione tea loro (prima
l’una poi l’altra), ma devono interagire reciprocamente, convergendo
verso l’unico obiettivo della maturazione dell’uomo o della donna,
del credente e del consacrato.

d) Tre dinamismi pedagogici


Infine vanno previsti tre tipi di intervento, o tre particolari di­
namismi, che possiamo leggere nel significato stesso dei tre verbi con
cui si indica il fenomeno pedagogico: educare, formare e accompa­
gnare. E-ducare vuol dire - secondo il senso etimologico - «tirar fuo­
ri» o portare a livello di consapevolezza quello che la persona è, per­
ché si realizzi al massimo delle sue potenzialità; da questo punto di
vista l’azione e-ducativa conduce alla conoscenza e alla piena realiz­
zazione dell’io. Formare vuol dire, invece, avere un preciso modello,
una forma o un modo di essere che il soggetto ancora non possiede e
che deve progressivamente acquisire, e che costituisce la sua nuova
identità. In tal senso la formazione non è tanto dinamismo di autorea­
lizzazione, quanto di autotrascendenza; non è solo conoscenza di sé,
ma anche scoperta di un nuovo e più vero io, plasmato secondo la ve-
rità-bellezza-bontà dell’ideale. Accompagnare, infine, significa non
solo esser accanto per un tratto di strada, ma farlo realmente assieme,
condividendo «il pane del cammino» della fede, dell’esperienza di
Dio, della sapienza dello spirito. In tal senso il processo globale for­
mativo non è fatto solo di nozioni da impartire o di indicazioni di un
percorso da fare (o direzione da imprimere), ma esperienza di coin­
volgimento da parte del formatore e «confessione» della sua fede.
In sintesi possiamo concentrare in questa immagine tale paragrafo.

Rete
di mediazioni
pedagogiche

Pluralità convergente di dimensioni e livelli

La possibilità e qualità della formazione sono legate alla presen­


za di questi elementi e airarmonia con cui si compongono in un dise­
gno unitario.
2ẳDiscorso propositivo
Sarebbe fin troppo facile, a questo punto, fare un confronto tra le
indicazioni teoriche, con la loro severa idealità, e la realtà pratica di
un servizio faticoso e che non sarà mai perfetto, magari per conclude­
re, in modo un po’ pessimista e disfattista, che va tutto male e che è
tutto da rifare.
Noi vogliamo porci invece in tutt’altro atteggiamento, positivo e
propositivo. Voưemmo evitare i soliti melodrammi pessimisti sulle co­
se che non vanno, per attirare l’attenzione, invece^ su quanto attende di
essere fatto e in qualche modo già s’intravede. È di questo atteggia­
mento che la vita consacrata oggi ha bisogno, in un tempo come il no­
stro di passaggio epocale o di costruzione del futuro. Conosciamo bene,
per altro, la fatica legata al servizio della formazione è il divario inevi­
tabile tra la prestazione ideale e quella effettiva; così come conosciamo
altrettanto bene la delusione del formatore di fronte a risultati inferiori
o addirittura contrari alle aspettative, frustrazione spesso aggravata da
quel senso di colpa che qualcuno dall’esterno provvede con fare mal­
destro ad alimentare...
D’alttonde vogliamo anche dữe subito che il quadro non è poi
così negativo; non si è mai investito così tanto come in questo tempo
sulla formazione, sia per quanto riguarda ỉa preparazione dei forma­
tori, che per quello che riguarda la formazione vera e propria, quella
iniziale soprattutto, (molto meno, purtroppo, quella permanente).

3. Non più ... damnatos ad pueros

Se un tempo i formatori erano considerati fra i damnatos ad pue-


ros, come ha potuto scrivere qualcuno in un latino un po’ greve, an­
che se erano scelti «tea i migliori dell’istituto» (così almeno recitava­
no un po’ pomposamente molte Costituzioni o Regole di vita), il for­
matore di oggi non si sente migliore di nessuno ma nemmeno con­
dannato a far da balia ad alcuno.
Per questo, da parte deir istituzione, nessuno è più mandato - un
po’ ingenuamente e anche un po’ crudelmente - allo sbaraglio, a
svolgere un ministero così impegnativo; non basta più, come nel pas­
sato, che chi lavora nella formazione sia buono, casto e docile nei
confronti dei superiori. Potremmo spingerci a dire che non è suffi­
ciente neppure che sia santo... per conto suo, «privatamente santo»
(se è mai possibile), ma deve essere in grado di trasmettere la passio­
ne per un ideale attraverso quelle mediazioni e dinamismi umani che
rendono contagiosa la santità e richiedono una competenza specifica.
La sua santità è anche quella competenza, o quanto meno fa sentire
una seria preparazione come dovere morale, come sapienza dall’alto,
come docilità allo Spirito, come libertà da sé che libera verso l’altro.
E lui stesso, allora, avverte il bisogno di formazione, e vive il servizio
di formazione (iniziale) come la sua personale formazione (perma­
nente), al tempo stesso educatore ed educando.
Per questo e altri motivi, credo obiettivamente di poter dire che
contenuto e modalità della formazione oggi siano di gran lunga mi­
gliorati rispetto a un tempo; certi elementi (la conoscenza del cari­
sma, un nuovo concetto di spiritualità, una più armoniosa integrazio­
ne tra aspetti antropologici e teologici...) hanno prodotto un indubbio
salto di qualità nella proposta educativa offerta ai nostri giovani.
Ma permangono problemi vecchi e nuovi, che voưemmo consi­
derare alla luce di quelle quattro componenti essenziali, costitutive di
un processo di formazione. Con lo scopo dichiarato di indicare pro­
poste praticabili di formazione alla vita consacrata, o di individuare
alternative positive alle eventuali inadempienze attuali.

4. «Vidimus Dominum!»

Ma prima di inoltrarci nel discorso, voưei premettere un’altra


considerazione, circa la attuale generazione giovanile.
Anzitutto a partire da questo dato di fatto, forse non adeguata-
mente sottolineato: credo che nessuna istituzione abbia le possibilità
e le opportunità educativo-formative che abbiamo noi. Per quanto ri­
guarda la durata del cammino, gli strumenti, i contenuti, gli stimoli, la
storia, i punti di riferimento, gli obiettivi, gli ambienti, le esperienze, i
modelli..., abbiamo tra mano un potenziale ricchissimo da mettere a
disposizione dei nostri giovani e dunque la possibilità di intervenire
in modo efficace sulla loro vita. È un privilegio e una responsabilità
che va sfrattata al massimo grado, per il bene della Chiesa, dei giova­
ni stessi, dei nostri istituti.
D’altro canto anche i giovani, nonostante quello che si possa dire
di loro oggi (le varie inchieste sul mondo giovanile non sono tanto be­
nevole con tale universo), se debitamente provocati, rispondono con
generosità ed entusiasmo. Non è vero che questa generazione sia peg­
giore di quella precedente; per lo meno un autentico formatore non può
partire da questa premessa, né deve ricoưere a questa supposizione per
spiegare e giustificare eventuali fallimenti o risultati scadenti.
Questa generazione non ha solo grandi problemi, come si suol
dire troppo spesso, ma anche grandi risorse; non conosce solamente
dubbi e incertezze, ma pure la sete di bellezza e verità; non è vero che
sia paurosa e senza idee, sta solo aspettando chi riesca a rispondere al
suo bisogno di indicazioni precise e modelli credibili; non è stanca di
vivere, semmai non ne può più dello squallore anche umano che si
ritto va attorno...
Chi dubitava di questo e diffidava di questi nostri giovani di oggi
ha avuto di che ricredersi dinanzi allo spettacolo offerto da circa 850
giovani religiosi e religiose di tutto il mondo, appartenenti a circa 700
istituti, durante il 1° congresso intemazionale dei giovani consacrati/e
che s’è tenuto a Roma nei primi giorni dell’ottobre 1997, il cui tema
era: «Vidimus Dominimi». Una settimana di convegno non dice certo la
complessità e fatica della vita di ogni giorno, ma i giovani religiosi/e
hanno comunque lanciato messaggi ben precisi, che in qualche modo ci
costringono a rivedere una certa immagine che ci siamo fatta di loro.
Vediamo brevemente alcuni di questi messaggi.
Il giovane consacrato rappresenta qualcosa di originale nel pa­
norama giovanile moderno. Le inchieste sociologiche al riguardo ap­
paiono sempre meno attendibili per descrivere il giovane chiamato
alla vita consacrata e il mistero della sua risposta. Se, ad esempio, tale
giovane è normalmente descritto come freddo e imperturbabile, al
Congresso abbiamo visto giovani accendersi di entusiasmo inconte­
nibile di fronte a certe provocazioni. Si ritiene che questo giovane
abbia seri problemi di identità, ma nel messaggio finale la costella­
zione italiana, quasi in risposta a quest’accusa, si pronuncia esplici­
tamente così:
«siamo giovani, uomini e donne, che hanno scoperto che essere con­
sacrati è una bellezza che riempie la vita. Per questo, la certezza della
nostra identità non è per noi un problema: crediamo alla nostra voca­
zione, perché riempie di felicità e di senso la nostra vita. La bellezza
che noi abbiamo visto e conosciuto, che abbiamo toccato, vogliamo
trasmetterla a tutti».1

Certo il giovane di oggi non è il contestatore degli ultimi anni ’60


e primi anni ’70, e questo è un bene per un verso e non lo è per un al­
tro, ma in ogni caso ciò che è più importante capire, per un formatore, è
che questo giovane ormai non lo possiamo più considerare figlio del
Vaticano II, per quanto questo possa non piacere a qualcuno:
«per i giovani religiosi il concilio Vaticano II conta poco 0 , almeno,
molto meno che per noi adulti».2

Non possiamo dunque continuare a dare per scontate certe intui­


zioni, sensibilità e prospettive, o a pretendere che certe cose abbiano
per loro la stessa evidenza o riscuotano il medesimo entusiasmo
dell’epoca immediatamente postconciliare.
Eppure questo giovane crede nella vita consacrata; non è tanto
interessato a dirimere la solita questione del suo ruolo entro la Chie­
sa-istituzione, ma sente una particolare congenialità tra il suo essere

' Dal messaggio finale della costellazione italiana, in F. CIARDI - T. MERLETTI,


Volare si può. Reportage dal mondo delle giovani e dei giovani religiosi, Padova
1998, 77. Questo testo è un’interessante lettura del Congresso fatta dai due moderato­
ri della «costellazione» italiana.
2 È il parere, tra gli altri, di p. Amaiz, riferito da E. BRENÁ, «Religiosi di oggi e
non del futuro», in Testimoni 18(1997), 18.
giovane e la vita consacrata stessa, che è come l ’anima perennemente
giovane della Chiesa. C’è dunque un’intuizione giovanile della vita
consacrata, che ne recupera il nucleo centrale: la vita consacrata co­
me scelta di vita libera e gioiosa, creativa e sempre inedita per Dio,
che porta l’umano alla dimensione più autentica e piena.
E qual è l’aspetto o la provocazione cui i giovani hanno partico­
larmente reagito? Non c’è dubbio, è stato il tema della fraternità. Po­
tremmo dire che è stato il vero denominatore comune, l’elemento di
maggior coagulo tra le varie sensibilità espresse.
«La comunità è essenziale alla vita religiosa apostolica e la comunione
alla missione: è un punto fermo per i giovani. Assieme a una precisa
sottolineatura a suo modo molto attuale: la diversità è una ricchezza. Se
si vuol giungere all’unità e alla comunione non è possibile insistere
sull’uniformità. Piuttosto si deve rimanere aperti all’unità nella pluri-
formità e in essa cercare la comunione».3

Per quanto riguarda la formazione, con chiarezza e franchezza i


giovani religiosi hanno parlato della necessità di avere accanto for­
matori preparati. Qualcuno ha invocato un convegno intemazionale
appositamente per loro. Qualche altro ha parlato di
«guide coraggiose che non abbiano paura di chiederci una profonda
conversione... e ben formati essi stessi per questo compito».

Non so se questo richiamo possa far pensare a una certa forma­


zione un po’ debole, scarsamente incisiva, magari di gruppo e solo di
gruppo, incapace di chiedere il massimo...4Personalmente mi ha fatto
impressione notare come i giovani abbiano recepito il concetto della
lotta religiosa, lotta con Dio e con i suoi progetti, lotta in cui vince
chi accetta di lasciarsi sconfiggere, e da distinguere dall’inutile lotta
psicologica.5
Ancora per quanto riguarda i formatori, è stata ribadita con insi­
stenza la necessità di aver accanto non dei semplici comunicatori di
dottrina, ma fratelli maggiori che vivano davvero insieme, mediando
nella vita di ogni giorno e nel contatto con l’umanità di ognuno, la
ricchezza della proposta carismatica.

3 Ibidem.
4 Chissà se si può applicare a superiori e formatori quanto certa pedagogia
odierna rileva a proposito dell’attuale generazione di genitori, i quali rappresentereb­
bero l’ultima generazione di figli che hanno obbedito ai loro padri, e la prima genera­
zione di padri che obbediscono ai loro figli...
5 È stato un argomento trattato nella prima relazione al Congresso stesso, cf. A.
CENCINI, Quando Dio chiama. La consacrazione: scommessa e sfida per i giovani di
oggi, Milano 1998, 22-21.
«Non bastano più né i maestri né i testimoni. Occorre l ’umile lavoro
di mediazione: mettersi accanto ai giovani, dialogare senza imporsi,
aiutarli a confrontarsi.. .».6

Indubbiamente c’è bisogno di nuove strategie educative, di nuo­


vi percorsi pedagogici, ed è interessante notare come anche i giovani
ne sentano la necessità.
C’è bisogno di passare dalla preoccupazione esclusivamente e-
ducativa, che rràra alla semplice autorealizzazione, alla tensione for­
mativa, che propone una forma, come novità trascendente di vita. Ma è
necessario, soprattutto, declinare la ricchezza di tanta spiritualità legata
al carisma e alla storia, in concreti itinerari pedagogici, che tengano al
tempo stesso conto delle mutate condizioni sodali-culturali e con atten­
zione nuova all’umano. C’è stato addirittura chi ha detto senza mezzi
termini che, da questo punto di vista, «manca una vera formazione».7
Oggi il punto debole è la pedagogia, non la teologia.8
L’istanza che giunge ai superiori è quella di provvedere perché
vi siano delle Ratio formationis che non siano semplici ripetizioni del
contenuto teorico del carisma, ma traduzione in linee pedagogiche
della spiritualità dell’istituto, secondo le varie fasi della formazione
iniziale e permanente.
Ancora, sempre per quanto riguarda la formazione, è stata sotto-
lineata ripetutamente l’esigenza di una formazione integrale: a livello
umano (antropologico-psicologico, affettivo-sessuale...), teologico
(biblico e spirituale), in sintonia con la missione e che abiliti a una
coscienza critica nei confronti della realtà, ma anche alla capacità di
dialogo benevolente e aperto con la cultura circostante.
Nella nostra trattazione terremo conto, per quanto possibile, di
questo scenario un po’ nuovo deir universo giovanile religioso.
Anche per questo ci rivolgiamo sia a formatori/formatrici che a
giovani nel cammino della prima formazione, ma anche a chiunque è
rimasto così giovane nello spirito da continuare per tutta la vita questo
cammino.

6 Ciardi - MERLETTI, Volare si può, 38.


7 Testimonianza di sr. Myriam, cit. da L. GALLUS, «“Vidimus Dominum". Con­
gresso internazionale dei giovani religiosi e delle giovani religiose» in Consacrazione
e servizio 11(1997), 86.
8 A conferma di questa esigenza di concreti percorsi pedagogici, senza i quali an­
che la spiritualità rischia di essere famosa e non esperienziale, c è stato chi, mente tutti
cantavano e gridavano «Abbiamo visto il Signore» nelle diverse lingue, ha pubblica­
mente ammesso con sincerità coraggiosa che lui il Signore non l’ha visto, anche se gli
piacerebbe molto, e che s’aspetta che qualcuno di quelli che l’hanno visto, cioè dei for­
matori, gli mostrasse come fare per vederlo, senza accontentarsi di raccomandarlo...
PARTE PRIMA

IL MODELLO FORMATIVO
Vogliamo, in questa prima parte, considerare il problema della
formazione dal versante istituzionale, e dunque sul piano di ciò che
l’istituzione fa per educare-formare-accompagnare il cammino di chi
desidera consacrarsi a Dio e appartenere alla famiglia religiosa. Da
questo punto di vista la formazione è dono e privilegio, sia per chi è
chiamato in prima persona a farsi carico di questi cammini, ovvero
formatori e formatrici, sia per chi è di fatto educato-formato-accom-
pagnato nel cammino stesso, ma di fatto diventa dono e privilegio solo
se vengono rispettati quei requisiti in cui abbiamo prima indicato le
condizioni per un effettivo processo propedeutico alla vita consacrata.
La prima componente di un qualsiasi progetto formativo è la de­
finizione, il più possibile accurata, di un modello formativo, ovvero
di un disegno generale e altresì specifico che esprima l’obiettivo che
si vuole raggiungere, e come s’intenda raggiungerlo, o le modalità e
strategie di intervento.
Tale quadro teorico-pratico, teoiogico-antropologico di riferi­
mento diventa il tessuto connettivo che dà ordine al processo evoluti­
vo formativo e ragioni profonde a ogni suo elemento e componente
lungo il tempo della formazione iniziale e permanente, perché tale
formazione sia armonica e coerente.
Capitolo secondo

LA FORMAZIONE OGGI

Nella lunga e ricca tradizione della vita consacrata il modello


formativo c’è, è abbastanza facilmente riconoscibile nei suoi obiettivi
di fondo e nelle strategie pedagogiche. Da un certo punto di vista,
tale modello è stato anche comune alle varie tradizioni e coưenti ca­
rismatiche, quasi al di sopra di esse. Le linee di formazione in un
certo passato erano sostanzialmente simili tra i diversi istituti.
Ma qual è la situazione oggi?
Dopo la primavera del concilio e la riflessione carismatica da es­
so provocata, si avverte sempre più l’esigenza di ridefinire in qualche
modo tale modello, ribadendone la parte essenziale e immutabile, il
cuore di questa scelta, ma al tempo stesso identificandone con mag­
gior accuratezza le implicanze concrete e metodologiche, legate al ca­
risma, ma pure alle mutate condizioni generali attuali. C’è chi dice
che il quadro teorico-pratico che fonda e riassume un progetto for­
mativo sembri, al presente, definito in modo piuttosto sommario e
generico, spesso anche in modo più teorico che pratico, più statico
che dinamico. Sembra debole e non ben precisato nella formazione
attuale soprattutto il modello teologico-antropologico di riferimento,
che pure dovrebbe esserne alla base.

Indefinitezza del modello


Spesso, infatti, è ben conosciuto e ribadito in qualche modo il
punto di arrivo teorico di un progetto formativo (la perfezione, o la
sequela), ma non sempre è altrettanto chiaro il punto di partenza, co­
stituito primariamente dall’idea di uomo e di cammino evolutivo.
Non è chiaro - in particolare - come la chiamata a una speciale con­
sacrazione faccia interagire grazia e natura, debolezze e aspirazioni,
conscio e inconscio nel singolo chiamato. Non basta più oggi dire e
ripetere che la grazia suppone la natura, ma occorre saper declinare in
termini precisi, cioè pedagogici, il senso del rapporto. A che serve,
d’altronde, un prospetto ideale finale che non lasci intravedere il per­
corso che vi conduce? Quando non è chiara una componente del mo­
dello, non è ben definito il modello nel suo insieme.
1. Ambiguità dell’obiettivo

Le conseguenze di questo stato di indefinitezza della concezione


antropologica di partenza possono esser notevoli, anzitutto sul punto
stesso di arrivo, che rischiara - nonostante l’apparenza - di essere al­
trettanto generico, non ben definito proprio in quello che dovrebbe es­
sere l’oggetto di un cammino di formazione, ovvero la «composizione»
tra divino e umano all'interno di un particolare carisma, 0 la possibilità
di vivere in pienezza la propria umanità, nella logica della croce e della
beatitudine, in un progetto di consacrazione.1 Quando tale modello è
assente, o non è abbastanza definito nelle sue implicanze, si crea un
clima non più tanto educativo di incertezza e instabilità.
Pensiamo, ad esempio, a cosa può succedere quando non è chia­
ro il concetto di libertà affettiva nella vita del vergine: tutti diciamo
che il voto deve portare a questa libertà, ma quante volte il formatore
non sa tanto bene lui stesso in che cosa consista questo ricchissimo
concetto, quale ascesi regolare implichi, o lo interpreta in maniera
piuttosto approssimativa e soggettiva?! Con esiti spesso fuorviami e
deformanti, sia quando un’eccessiva enfasi negativa e rigoristica - da
parte dell’educatore - rende il giovane-vergine troppo preoccupato
della sua virtù e un po’ orso; sia quando un’interpretazione un po’
«allegra» e ingenua della libertà di un cuore vergine, priva di ogni
difesa e controllo il giovane, che crederà tutto lecito, pur di divenire
grande amicone di tutti/e. E così per molti altri temi che andrebbero
invece ben definiti e organicamente proposti nel tempo della prima
formazione (ad es. l’autonomia decisionale, l’identità positiva, l’in­
tegrazione del male, la disciplina intelligente ecc.). L’incertezza o
ambiguità del formatore non può che creare giovani incerti e deboli.

2. Confusione nelle tappe intermedie

Altra conseguenza strettamente legata a quanto visto finora è la


sostanziale assenza del concetto di gradualità nella formazione, che
dovrebbe portare a definire una serie di obiettivi intermedi per ogni
fase educativa, in funzione della meta finale. Si ha a volte 1 impres­
sione, invece, che a ogni periodo (postulantato, noviziato ecc.) si
debba sempre fare tutto e giungere subito alla maturità piena, o - al
contrario - che si debba rimandare sempre tutto alla fase successiva,
nell’attesa che qualcosa si muova e avvenga la conversione, o che il
tempo o l’esperienza o il nuovo ambiente facciano la magia... È inve­

1 Cf. s. RECCHI, «La formazione: istanze di rinnovamento», in Consacrazione e


servizio (1995), 18-20.
ce fondamentale sapere scandire il senso progressivo della crescita, i
passi propri di ogni stagione, in rapporto con l’età, con l’esperienza
precedente, con il livello di maturità raggiunto dal singolo, con le
esigenze proprie di un cammino propedeutico che ha le sue leggi e le
sue fasi. Il risultato finale della maturità piena è attingibile solo grazie
al conseguimento di una serie di obiettivi previ, disposti secondo un
ordine logico e progressivo.2
Insomma, non si può chiedere a un postulante o a un novizio
quello che si può e si deve chiedere a un professo; e se per caso il po­
stulante o novizio si atteggia a professo dalla lunga esperienza e ma­
turità di vita, il formatore deve quanto meno dubitare dell’autenticità
dell’atteggiamento e indagare se, per caso, il giovane spiritualmente
«precoce» abbia... saltato o «dimenticato» qualcosa (che gli viene più
difficile); come - al tempo stesso - deve verificare che ogni candi­
dato abbia espletato i «compiti evolutivi» propri di ogni fase, senza
temere di far aspettare qualche «ritardatario».
Le varie scadenze coi relativi passaggi (dal postulantato al novi­
ziato, o dalla professione temporanea a quella perpetua) non vanno
calcolate in base all’anagrafe o ai corsi scolastici superati (e tìtoli
conseguiti), ma entro una valutazione più globale di un processo di
maturazione specifica in atto. Anche la vita spirituale ha le sue sta­
gioni, coi suoi frutti e le sue... intemperie climatiche: chi non ne tiene
conto rischia di non gustare mai il fratto maturo e saporito di stagio­
ne. La confusione al riguardo può solo creare cammini educativi indi­
stinti nelle loro fasi e improduttivi, mandando a vuoto ogni discorso
di formazione permanente.

3. Povertà di indicazioni metodologiche

Ma la conseguenza più grave è quella relativa al metodo. L’as­


senza di un preciso quadro concettuale di riferimento diventa, nor­
malmente, anche impossibilità di identificare un percorso pedagogico
attraverso il quale rendere accessibile un valore. È forse il punto de­
bole della formazione oggi.
È Una situazione davvero strana-e forse inedita quella in cui ci
troviamo oggi: mentre abbiamo molti modelli teologici di vita consa­
crata, non abbiamo ancora ben definito con sufficiente accuratezza
come realizzare un cammino di adesione a questi modelli. In altre pa­
role, a una certa ricchezza di modelli teologici fa riscontro una sin­
golare povertà di percorsi metodologici.

2 È il concetto latino di ardo.


C’è chi parla della

«insostenibile pesantezza della formazione. Pesante, pesantissima...


Sul suo primato non si discute. Nessuno osa farlo, tutti ne sono arci­
convinti. Ma è un primato che si veste di retorica, di “invincibile va­
ghezza”, di “toni ottativi”, e l’ottativo nella grammatica greca è il
modo delle aspirazioni. E delle velleità».3

Così nei nostri programmi c’è una sorta di «ipertrofia dei fini»,
un’ipertrofia che a volte sembra addirittura esaltarsi, divenendo ec­
cessiva e ridondante, per la gioia, o la tranquillità, di chi ritiene che
per fare formazione basti dire, altissimi e vaghi, i fini, e pretende di
ignorare i mezzi, che poi vuol dire i soggetti, i contesti, i metodi.
Chiariamo subito: per metodo non intendiamo semplicemente un
insieme di tecniche, o una serie di processi messi in atto dair educa­
tore, che funzionino come generici - per quanto efficaci - condizio­
namenti psicologici, e neppure una prassi educativa che obbedisca ai
criteri della maturazione umana, individuale e di grappo, ma poi sia
sostanzialmente indipendente dalla maturazione cristiana, o più o
meno sganciata dalle specifiche esigenze della consacrazione a Dio.
Pensiamo invece al metodo come a una realtà intermedia tra teo­
ria e pratica, e sottolineata da queste tre caratteristiche:
- è strettissimamente legata al contenuto, nel nostro caso costi­
tuito dal modello teologico, e connaturale al carisma, poiché ivi
ritrova le sue radici;
- di tale modello è la logica e inevitabile conseguenza operati­
va, quasi la sua scomposizione in singole tappe o in obiettivi
intermedi, in una gradualità di percorso che consente di rag­
giungere in modo ordinato e progressivo l’obiettivo finale;
- ma è già in se stesso, in quanto tappa e traguardo intermedio,
parte integrante ed essenziale del disegno finale, come una
sua anticipazione che ne consente anche una progressiva degu­
stazione.
Possiamo a questo punto cogliere la differenza tra tecnica e me­
todo. La tecnica educativa è una serie di operazioni finalizzate al
conseguimento di un obiettivo pedagogico (normalmente di tipo atti­
tudinale), ma che possono esser agevolmente sganciate da qualsiasi
ispkazione ideale, come fossero «senz’anima» (né radici), una sorta
di metodo neutro, che proprio per questo può esser applicato in con­
testi diversi (indipendentemente da una scelta di fede); viene appli­

3 G. A n gelin i, in u. F o len a , «Formazione, “imperativo” della pastorale», Av­


venire, 26 feb 1997, 16.
cato in modo uniforme e ripetitivo, delegando a esso la responsabilità
del risultato, che dovrebbe automaticamente e infallibilmente far sé­
guito alla sua esatta applicazione.
Il metodo educativo è, invece, un modello teorico coerentemente
e intelligentemente applicato, nella fedeltà alle sue radici immutabili
come pure alle persone e al contesto sociale mutevole, con la parteci­
pazione piena e complementare di educatore e educando, senza dele­
ghe reciproche né automatismi di sorta.
Più importante ancora è ribadire che se il metodo è in qualche
modo la declinazione naturale o la traduzione operativa del modello,
allora un autentico obiettivo educativo, definito per noi dal modello
teologico-carismatico, deve poter diventare metodo, deve saper detta­
re un cammino che conduca a esso, altrimenti non è vero obiettivo
educativo (né vera teologia all’origine). Anzi, diciamo pure che la
formazione è essenzialmente metodo, nel senso pieno del termine. E
potremmo continuare in questa linea: se una spiritualità non diventa
pedagogia, non è autentica spiritualità; se non riesce a indicare un iti­
nerario lungo il quale tutti possono fare esperienza di Dio, non è do­
no dall’alto concesso alla comunità dei credenti, ma narcisistica esi­
bizione del singolo, o velleitaria pretesa pseudomistica.
Ora, proprio questo è il problema di tanta formazione oggi: ogni
carisma è un’autentica miniera di sapienza spirituale, di mistica e
ascetica, ma quanto siamo capaci di tradurre questo prezioso deposito
in percorso pedagogico, perché il giovane ne sia formato e possa ri­
percorrere l’esperienza del fondatore o della fondatrice? Di conse­
guenza, siamo proprio sicuri che la nostra formazione abbia e segua
un metodo ben preciso, cioè «carismatico», o ci accontentiamo di ap­
plicare varie e generiche tecniche o schemi precotti (a livello di pre­
ghiera, di vita comunitaria, di maturazione intellettuale...), o di ripe­
tere pedissequamente moduli pedagogici obsoleti o di andare avanti
senza alcun preciso programma metodologico? Quanto riescono le
nostre Ratio formationis a tradurre in pedagogia spicciola tutto il ca­
pitale di sapienza spirituale contenuto nei nostri carismi?
Proprio alla Ratio toccherebbe questa preziosa funzione pedago­
gica, ma - ahimè - non sempre essa riesce nell’intento. Infatti, ab­
biamo oggi buone Regole di vita, ma non altrettante buone Ratio
fonnationis', ovvero, molti programmi formativi di molti istituti non
sono autentici piani di formazione, ma s’accontentano praticamente
di ripetere la Regola, semplicemente aggiungendo e sottolineando le
norme generali canoniche per il passaggio da una fase all’altra della
formazione iniziale. In questa maniera la Ratio non raggiunge la sua
finalità che è eminentemente pedagogica, e serve a ben poco.
È un’impressione che abbiamo maturato leggendo diversi pro­
grammi formativi, coưetti nell’espcwrre e riesporre il contenuto del ca­
risma, ma terribilmente generici e inconsistenti e ripetitivi nel deli­
neare il metodo di formazione, poveri di ispirazione (o di radici) e
altrettanto poveri di creatività cansmaticaế
Il non saper ripropoưe il proprio ideale come concretamente ac­
cessibile, perché altri vi riconoscano un cammino autentico, che por­
ta, per fasi ben articolate, all’incontro con Dio, è un fatto inquietante;
non è certamente segno di fedeltà carismatica per coloro che già
stanilo vivendo in quella istituzione, né può esser fattore di attrazione
vocazionale per coloro che li osservano e che potrebbero esser chia­
mati a vivere quel carisma.
Capitolo terzo

«ABBIATE IN VOI GLI STESSI SENTIMENTI


CHE FURONO IN CRISTO GESÙ»

L’esortazione post-sinodale Vita consecrata dedica una certa


attenzione alla formazione iniziale e permanente, e affronta sia pure
implicitamente - in paragrafi ricchi di sapienza antica e nuova' - il
problema del modello teologico-antropologico, o quanto meno offre
indicazioni molto utili per disegnare un progetto educativo globale.

«Guardando verso il futuro»


Così è intitolata nel documento la parte riguardante la formazio­
ne, a ricordare - semmai ve ne fosse bisogno - che la formazione è
per natura sua proiettata verso il futuro della vita consacrata, ne è la
condizione e ne determina la qualità. Proprio per questo è importante
che sia ben definito il senso di un progetto globale educativo, nel suo
obiettivo e nel suo metodo, nella sua composizione tra umano e divi­
no. È in questi elementi e attraverso queste componenti che è poi
possibile risalire a quel modello teologico-antropologico che è il cuo­
re pulsante dello stesso disegno formativo.
Ebbene, secondo il documento, obiettivo centrale del cammino
formativo è

«la preparazione alla totale consacrazione di sé a D io nella sequela di


Cristo, a servizio della missione»,2

mentre l’itinerario che concretamente vi conduce è quello di una


«progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre»?
Per capire l’importanza che il documento attribuisce a quest’ultima
affermazione basterà dire che in tre paragrafi torna ben 4 volte. In es­
sa e a partire da essa, infatti, possiamo enucleare ed elaborare ele­

1Cf. Vita consecrata, 65-71.


2 Ibidem, 65.
3 Ibidem.
menti significativi riguardanti sia il modello teologico-antropologico
che una generale strategia di intervento, sia un fine generale educati­
vo, col metodo corrispondente, che le sue tappe intermedie.

1. Modello teologico-antropologico

Anzitutto appare subito chiarissimo il modello biblico, teologi-


co-antropologico, che sta dietto all’affermazione in questione: si
tratta dell’icona di Cristo che si dona totalmente al Padre e ai fratelli.
Il riferimento, infatti, è alle parole che precedono l’inno della «kéno-
si» del Figlio (Fil 2,5), ed è riferimento prezioso per definire il conte­
sto naturale ed evangelico del processo formativo, la ragion d’essere
della vita consacrata, l’obiettivo cui mira.
Tutta l’azione educativa tende a creare nel giovane quella stessa
totale disponibilità o quel sentimento di amore immenso che ha
spinto il Figlio a farsi uomo, a divenire servo, umile e obbediente, li­
bero di dare la vita per amore. È una scelta precisa quella che fa il
documento, e va capita in tutta la sua ricchezza di senso e originalità.
Qui è proposto concretamente un modello di uomo e di consacrato
che solo uno sguardo superficiale potrebbe non cogliere in tutta la
sua importanza 0 dare per scontato.4
Il testo che - non dimentichiamo - è espressione di una rifles­
sione sinodale, autenticata al più alto livello ecclesiale, avrebbe po­
tuto fare altre scelte; ma di fatto non è il modello cultuale o quello
dell’abilitazione apostolica o della perfezione personale (come in un
passato non lontano e con tutti i falsi problemi di «precedenza» sulle
altre vocazioni) il quadro teologico di riferimento fatto proprio dall’e­
sortazione per un progetto di vita consacrata, ma il modello del Fi­
glio, modello di una persona vivente, dei suoi sentimenti e desideri,
del suo modo di vivere e del suo coraggio di morire. Né è proposta
una generica, per quanto classica, «sequela», ma un modo particolare
di seguứe Gesù, che è il modo della kénosi, simbolo e cifra interpre­
tativa dell’esistere e del morire per amore, del non tener gelosamente
per sé nulla, neanche l’amore ricevuto dal Padre, ma di pensarsi in
tatti i sensi come dono, fino a pensare addirittura la morte come do­
no, o a decidere di far dono della vita.
È modello teologico, questo, ma anche antropologico, poiché i
«sentimenti» esprimono forse la parte più umana dell’io, ne svelano i
sogni e le motivazioni, sovente sono istintivi e immediati, passeggeri

4 Sorprende parecchio, al riguardo, che testi e riflessioni recenti circa l’esor­


tazione apostolica non abbiano colto l’importanza strategica di questo riferimento
nell’àmbito della formazione.
e fugaci,5 ma possono anche esser evangelizzati e divenire espressio­
ne, allora, di una conversione di vita, così stabile e radicale da rag­
giungere anche le profondità psichiche del soggetto, della sua vita
istintuale ed emotiva, a livello conscio come inconscio. L’uomo o la
donna spirituale, insomma, non è chi ha soppresso istinti e pulsioni,
moti dell’animo e tendenze interiori, ina chi lascia che tutto ciò sia
illuminato dalla luce misteriosa dello Spirito. Da un lato, dunque, i
sentimenti svelano il versante debole deir uomo, ciò che spesso non
passa neppure attraverso il vaglio della riflessione; d’altro canto, e
proprio per questo, sono la fotografia o il test più attendibile di quello
che l’essere umano è, di quello che porta in cuore, del livello di pro­
fondità della sua conversione interiore. Possiamo, infatti, controllare
le parole e i gesti, ma non possiamo impedirci di provare i sentimenti,
i quali ci dicono immediatamente se e fino a che punto ci stiamo
identificando con il cuore di Cristo, con la sua passione di amore, col
suo Vangelo...
Anzi, la cosa più interessante per noi è che questo tipo di mo­
dello teologico-antropologico, tutto costruito sul mistero deir umanità
assunta dal Verbo etemoT dice proprio una possibilità prodigiosa di
rapporto tra grazia e natura, una compenetrazione reciproca; addirit­
tura l’afferma e propone come obiettivo di un itinerario formativo,
credente e consacrato, quale elemento che l’autentica. Come dire:
non è completa né evangelica quella formazione che non arriva a toc­
care e punficare, trasformare ed evangelizzare non solo i valori
espressamente proclamati o i comportamenti visibili, ma anche sen­
timenti, desideri, disposizioni interiori, progetti, simpatìe, gusti, sogni
inconfessati, attrazioni, memoria, fantasia, sensi interni ed esterni...
tutto, insomma, a immagine del Figlio che si immola per amore. Al­
meno come tensione ideale nel giovane e progettualità conseguente
del formatore.6
Con quali conseguenze sul piano delle strategie e del percorso
metodologico?

5 A tal proposito va comunque detto che nel testo originale biblico il senso è
molto più forte e non è reso sufficientemente dalla traduzione italiana; il verbo greco
fronein indica infatti il modo profondo di sentire di una persona, non solo emozioni e
«sentimenti» passeggeri.
6 Cf. A. CENCINI, «Una istituzione al servizio della formazione», in Antro­
pologia interdisciplinare e formazione, a cura di F. IMODA, Bologna 1997, 592-593.
2. Strategie generali: legge della totalità
e della dinamica esperienziale-sapienziale

Il documento è molto preciso ed esplicito:


«se questo è lo scopo della vita consacrata, il metodo che ad essa pre­
para dovrà assumere ed esprimere la caratteristica della totalità».1

Totalità anzitutto in riferimento alla persona: la formazione


«dovrà essere formazione di tutta la persona, in ogni aspetto della sua
individualità, nei comportamenti come nelle intenzioni».8

Per troppo tempo una certa formazione ha lavorato sul versante


esteriore della persona, s’è accontentata di sollecitare novità di gesti e
condotta, senza dare la necessaria attenzione all'interno, al cuore, al
sentire profondo, anche inconscio, alle motivazioni dell’agire. Per poi
ritrovarsi con giovani puntuali nell’eseguire gli ordini, o certi ordini,
ma poveri di passione e spesso inconsistenti e contraddittori.
Quindi totalità, in relazione alle varie dimensioni educative:
«la formazione, per essere totale, comprenderà tutti Xcampi della vita
cristiana e della vita consacrata. Va prevista, pertanto, una prepara­
zione umana, culturale, spirituale e pastorale, ponendo ogni attenzio­
ne perché sia favorita l ’integrazione armonica dei vari aspetti»,9

particolarmente di quello umano-psicologico con quello spirituale-


teologico. Tutti aspetti che riprenderemo più avanti.
Infine la legge della totalità significa riferimento alla vita intera
del soggetto, e dunque formazione permanente. Se si deve formare il
cuore umano perche impari ad amare come il cuore divino, è ovvio
che il processo non può che durare tutta la vita. E ancora, è interes­
sante notare che, se obiettivo educativo è l’assimilazione al «cuore»
del Figlio, la formazione non è solo - come s’intende di solito - me­
todo pedagogico (relativo poi alla sola fase iniziale), ma - come ab­
biamo accennato più sopra - modo teologico di pensare la vita consa­
crata stessa, in ogni sua fase, poiché la consacrazione è in sé forma­
zione, lenta e interminabile gestazione dell’uomo nuovo che impara
ad avere gli stessi sentimenti del Verbo Incarnato.
E ancora, se obiettivo educativo è formare nel giovane gli stessi
sentimenti del Figlio, allora la formazione non è solo ministero, ma
mistero, non è solo servizio che un fratello maggiore nella fede presta

7 Vita consecrata, 65.


8 Ibidem.
9 Ibidem.
a un altro, che deve crescere nell’adesione credente, ma ingresso di­
screto all’interno dell’azione misteriosa dello Spirito nel cuore del
giovane.
Sono tutti punti rilevanti e fors’anche relativamente nuovi, e,
comunque, dalle feconde conseguenze non solo in sede formativa, ma
pure della concezione della vita consacrata stessa.
Altea strategia generale educativa che possiamo cogliere come
strettamente connessa all’icona biblica di Fil 2,5 è la dinamica espe-
rienziale-scipienziale. Principio generale di tale strategia è questo: c’è
formazione solo laddove i valori e contenuti proposti sono speri­
mentabili e di fatto sperimentati e gustati dal soggetto in formazione,
fino al punto di costituire per lui un nuovo modo di leggere la realtà,
come una nuova regola di vita, un’originale sapienza interiore. Il ri­
schio perenne della formazione è quello di esser solo teoria («bella
teoria!», dice ironicamente qualcuno), una sorta di simposio intellet­
tuale troppo distante, e a volte smentito, dalla realtà pratica.
Se si tratta di formare nella prospettiva della kénosi di Cristo Ge­
sù si dovrà favorire la possibilità di un’esperienza concreta e propoưe
e chiedere un coinvolgimento effettivo e affettivo della persona: la
comunità, così, dovrà esser luogo ove sperimentare ed esprimere
l’amore che si fa servizio e misericordia; l’ambiente intemo educati­
vo dovrà coerentemente confermare i valori tipici della kénosi, come
l’umiltà, la povertà, l’obbedienza, perché il giovane vi possa esser
concretamente esercitato; sarà importante, ancora, che egli sperimenti
«l’intrinseca dimensione missionaria della consacrazione»,10 faccia
esperienze apostoliche proporzionate e verificate, si eserciti nella
difficile arte dell’unità di vita, scopra e gusti la nobiltà liberante di
essere servo umile e il nome nuovo che il Padre gli dà, apprenda la
sapienza della croce e insieme gusti la beatitudine di una santità
umile e contenta... Ma torneremo su queste strategie educative quan­
do parleremo della seconda e terza condizione del nòstro progetto.

3. Metodo educativo: formazione alla libertà

Se le strategie generali indicano l’orizzonte globale, il metodo


educativo segnala il tipo di intervento che dovrebbe consentire di
muoversi entro e in funzione di questo orizzonte.
Abbiamo detto che un progetto diventa formativo quando dispo­
ne di un metodo specifico, scelto di proposito in vista di un obiettivo
preciso; abbiamo anche espresso il sospetto che oggi sia proprio il

10 Ibidem, 67.
metodo l’elemento debole della formazione alla vita consacrata. Non
pretenderemo qui di risolvere in poche righe il problema, ma solo fa­
re riferimento alle indicazioni illuminanti che ci vengono ancora dal
documento post-sinodale. In sostanza l’uomo nuovo, esso dice, è
uomo «autenticamente libero», ed esige, dunque, di essere formato
alla libertà."
Il disegno è davvero coerente, e non solo su un piano contenuti­
stico, ma anche su quello strategico del rapporto tra contenuti teolo­
gici e metodologia educativa: se, infatti, fine della formazione è la
configurazione ai sentimenti del Figlio, allora il processo educativo
non può che divemre vera e propria formazione alla libertà. Se fine
della formazione fosse solo l’abilitazione a un certo tipo di apostolato
o il possesso di particolari qualità virtuose, allora la metodologia
formativa potrebbe seguire qualche altro percorso, ma se si deve for­
mare il «cuore», nel senso biblico e pieno del termine, allora non può
esistere altra via al di fuori della libertà; se il modello teologico-
antropologico di riferimento è l’umanità di Gesù, come espressione al
massimo gradò di una libertà che si trascende nell’amore, allora il
metodo di formazione non ha alternative. Il cuore, infatti, non può es­
ser costretto, ma può e deve essere educato a scoprire la grandezza
della chiamata e la bellezza della proposta, e reso poi capace e libero
di dare risposta come il Figlio ha risposto al Padre, donandosi total­
mente. Avere gli stessi suoi sentimenti non significa tentare una sua
esteriore imitazione, ma accedere alla densità del suo mistero e in es­
so scoprire anche il proprio mistero: libertà è la realizzazione di que­
sta «misteriosa» identità. Vedremo più avanti gli aspetti metodologici
e pratici di questa formazione; accenniamo ora brevemente alle sue
fasi lungo il periodo iniziale.
L’articolazione che ora presentiamo non va intesa in modo rigi­
do o nel senso che una escluda l ’altra. L’idea centrale è che a ogni fa­
se dell’itinerario classico educativo verso la consacrazione corri­
sponda in qualche maniera una certa attenzione educativa al proble­
ma della libertà, che va... liberata da quanto la soffoca e inibisce (è la
fase del pre-noviziato), che va poi edificata su un fondamento solido
(il noviziato), e infine va realizzata e orientata secondo una prospet­
tiva ben definita (il post-noviziato). Ma, ovviamente, senza corri­
spondenze assolute e definitive, come se fosse possibile, ad es., libe­
rare totalmente il giovane nella fase del prenoviziato. In certo senso
queste tre articolazioni sono sempre presenti, l’una continua nell’al­
tra, ma con accentuazioni diverse lungo le stagioni corrispondenti.
Questo per quanto riguarda la sequenza dinamica.

11 Cf. ibidem, 66.


Più importante ancora è osservare il modello su cui è costruita
questa stessa sequenza. Se modello teologico-antropologico del pro­
cesso formativo è il sentire di Cristo nella sua kénosi di donazione al
Padre, allora anche il cammino di formazione alla libertà sarà in pra­
tica costruito sul modello pasquale, scandito dalle tre fasi del triduo
pasquale: morte, discesa agli inferi, risurrezione. Lo esige la coerenza
del disegno. E quando è rispettata questa coerenza, il disegno ri­
splende in tutta la sua bellezza e armonia di forme.

a) pre-noviziato: libertà «da»


Anzitutto il giovane va aiutato a prendere coscienza dei propri
condizionamenti interni, consci ma anche inconsci. Questo processo,
per esser precisi, dovrebbe cominciare nel tempo anteriore al novi­
ziato, senza pretendere però di esaurirlo in esso o in uno spazio limi­
tato di tempo. È importante che il giovane capisca quanto prima che
la formazione inizia proprio con questo faticoso processo di cono­
scenza di sé, con l’identificazione dei propri mostri e l’accettazione
delle proprie ferite; è necessario che egli abbandoni il più presto pos­
sibile ogni presunzione órca se stesso e ogni senso di autosufficien­
za; che capisca che la formazione non è una passeggiata, ma viaggio
duro verso Gerusalemme; che si convinca che la libertà comincia con
la scoperta delle proprie schiavitù, e che l’uomo maturo è sempre an­
che uomo ferito.
C’è, dunque, una morte da affrontare: morte dei propri sogni di
perfezione, della pretesa di essere già abbastanza santi o buoni, di
queir ambizione spirituale che spesso caratterizza chi è agli inizi del
cammino, ma che se non è avvertita in tempo e combattuta tempesti­
vamente rischia di accompagnare e disturbare tutto il cammino suc­
cessivo.
È il momento cosiddetto della destrutturazione,'2 del cambio
strutturale, cioè radicale, di un certo modo di pensarsi e di agire;
momento difficile ma inevitabile; è come se il soggetto dovesse rove­
sciare lo stile precedente di vita. Non si può neppur pretendere che la
liberazione sia immediatamente successiva alla conoscenza delle
schiavitù, ma è senz’altro un buon indicatore vocazionale la disponi­
bilità e il coraggio del soggetto in questo viaggio verso il cenfro
dell’io, alla scoperta delle proprie immaturità e inconsistenze.

12 Circa l’esperienza spirituale nelle tre fasi della destrutturazione, subliminalità


e ristrutturazione cf. A. Cencini, Amerai il Signore Dio tuo. Psicologia dell'incontro
con Dio, Bologna 101997, 69-138.
Si dice normalmente che il tempo del postulantato finisca con la
verifica vocazionale reciproca e incrociata da parte del chiamato e
dell’istituzione, e con la decisione del primo, accettata dalla seconda,
di iniziare un’esperienza specifica nella famiglia religiosa scelta. Sa­
rebbe molto desiderabile che oggetto di discernimento e verifica, in
questi casi, fosse non solo la corrispondenza ideale fra valori del sin­
golo e della congregazione, ma - più realisticamente - anche tutta
quella realtà di debolezze e inconsistenze, immaturità e infantilismi
che rendono meno autentica la vocazione e meno libera la risposta a
essa. Si ha l’impressione che ci sia in giro un certo ingenuo (e forse
non del tutto disinteressato) ottimismo quando si deve decidere circa
il passaggio dalla fase del postulantato a quella del noviziato.
E non si tratta solo di un problema di discernimento vocazionale;
pensiamo quanto sarebbe più produttivo ed efficace il noviziato se
l’individuo vi entrasse già con una conoscenza discreta di sé e delle
radici dei suoi egoismi. Quanto tempo in meno si perderebbe e quante
crisi successive si eviterebbero!

b) Noviziato: libertà «in»


Una volta scoperto il falso fondamento su cui fino allora il sog­
getto ha preteso costruire la sua vita, è necessario indicare il vero
fondamento e... cominciare la ricostruzione.
È il tempo del noviziato, tempo strategico di smantellamento
delle vecchie architetture e di scoperta di un nuovo modo di essere,
più libero e più vero. Tempo prezioso, perché dovrebbe scoccare - in
questa fase - la scintilla del contatto esperienziale con Cristo Gesù
come il «mio Signore», il Maestro, colui che unico ha parole di vita e
può dirmi la verità della mia vita, colui senza il quale vivere non è
più vivere... È pure tempo di lotta, vissuta e sofferta sulla propria
pelle, stagione in cui si vive in una certa subliminalità, come la chia­
mano i maestri di spiritualità, perché l’uomo vecchio non ha allentato
la presa e l’uomo nuovo è ancora giovane e fors’anche debole e in­
certo. E allora è anche fase di dubbio e di oscurità, in cui i momenti
di sincera adesione al Cristo, Verbo della vita, s’alternano a momenti
di drammatica incertezza, di timore.
Ma in ogni caso, è tempo di profonda risonanza interiore; non
solo tempo di conoscenza, come nella precedente fase, ma di espe­
rienza, di sensazione vivissima di non poter ormai più evitare il con­
fronto con colui che chiama e apre la vita a orizzonti nuovi e impen­
sati, con colui che è mistero e senza il quale tutto è enigma. È come
una scommessa, tutta giocata sul bordo di due abissi che contempo-
rancamente e paradossalmente si aprono dinanzi allo sguardo sorpre­
so e avvinto del giovane: l’abisso ascendente dell'intimità con Dio e
quello discendente del viaggio verso gli inferi, i propri inferi.
A questo punto il noviziato diventa davvéro formativo.
È decisivo, allora, in concreto, che il giovane cominci a speri­
mentare di poter costruire «in Cristo» la sua nuova vita e la sua li­
bertà; o che inizi a far l’esperienza che essere libero non vuol dire es­
sere indipendente da tutti e da ogni vincolo, ma - al contrario - si­
gnifica dipendere in tutto da colui che si ama e si è chiamati ad ama­
re. Allora, amare Cristo Gesù vuol dire dipendere da lui nei gesti, nei
comportamenti, nelle parole, nei desideri, nei sogni, nei progetti...,
vuol dire vivere partendo e ripartendo sempre da lui. Perché è lui la
vera identità del giovane. Fino al punto di provare i suoi stessi senti­
menti... Come Paolo: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me» (Gal 2,20).
Dicevamo che solo a questo punto il noviziato raggiunge il suo
fine, ma forse dovremmo dire che questo tipo di noviziato dura tutta
la vita, è struttura portante dell’esperienza spirituale e della forma­
zione permanente. Come mi disse, ricordo molto bene, quel buon
vecchio del mio padre maestro la vigilia della prima professione:
«Ricordati che rimarrai sempre novizio»...

c) Post-noviziato: libertà «per»


Lo sguardo s’allarga, la mente coglie nuovi orizzonti, il cuore è
sempre più attratto.
C’è stata una scelta che ha cambiato la vita, ma l’ha pure com­
plicata; in ogni caso ha bisogno di essere estesa a tutta la vita e a
tutte le aree della personalità. Nella misura in cui questa scelta è
confermata dall’esistenza e dalle piccole 0 grandi decisioni di ogni
giorno la libertà diviene progressivamente ricchezza di desideri e ca­
pacità di conformarli ai desideri stessi di Dio.
Ma a questo punto aumenta pure la qualità oggettiva della
scommessa, o si fa più rischiosa e... vertiginosa: il cuore del giovane
consacrato non è solo chiamato ad amare Dio, ma alla maniera di
Dio! E questo non può avvenire senza una ristrutturazione, un lavoro
paziente e continuo di ricostruzione.
È stata preziosa l’esperienza precedente, quel contatto intimo e
intenso con Cristo, Signore della vita, ma ora l’esperienza deve di­
ventare sapienza. Non più solo sensazioni 0 emozioni, per quanto vi­
ve e profonde, ma pur sempre episodiche e parziali, bensì sapienza di
vita. Come un nuovo sistema esistenziale, con parametri e valori, ma
anche gusti e sapori, tendenze e attrazioni coưispondenti.
Entro questo sistema l’esperienza spirituale della nuova libertà
in Cristo diventa sempre più costante e totale, qualcosa che si pone al
centro deirio, accompagna stabilmente resistenza e s’estende pro­
gressivamente a tutto il vissuto, dando luogo a un nuovo modo di es­
sere e agire, di amare e soffrire. È la libertà di essere povero, casto e
obbediente; è la capacità di gustare il lusso di essere servo, di lavare i
piedi agli altri senza sentirsi umiliati; è l’aver appreso là mitezza, la
povertà di spirito, la purezza di cuore, la persecuzione... come beati­
tudine.
Questi è davvero l’uomo nuovo, colui al quale il Padre dà un
nome nuovo. Colui che, come dice ancora l’esortazione citando s.
Agostino, può e deve dire non solo che è di Cristo, ma che «è diven­
tato Cristo»!13

13 Vita consecrata, 109.


PARTE SECONDA

LE MEDIAZIONI PEDAGOGICHE
Capitolo quarto

LA MEDIAZIONE DEL FORMATORE

La seconda componente di un progetto formativo, come abbiamo


indicato nel primo capitolo, è una rete di mediazioni pedagogiche.
Non è difficile indicarle, tanto sono classiche nella storia della
formazione alla vita consacrata: anzitutto il formatore/formatrice (o
maestro dei postulanti, dei novizi o dei professi), poi la comunità
educante, con la sua articolazione di ruoli e la sua proposta fonnativa
esplicita o implicita, e infine Vambiente o gli ambienti umani (la
scuola, l’esperienza apostolica, la cultura circostante...) con quella
serie di condizioni e stimoli, anche provocanti, lungo cui passa
Fazione educativa.
Vediamo intanto, in questo capitolo, la prima di queste media­
zioni, quella del formatore o formatrice.

1. La Trinità, unico formatore

Dire mediazione vuol dire che il soggetto primo o l’autore della


formazione non è nessuno dei tre ora menzionati, ma è il Dio-Trinità:
è il Padre che plasma nel giovane l’immagine («i sentimenti») del Fi­
glio, attraverso l’azione dello spirito.
Tale intervento divino si serve della mediazione umana, per
l’appunto, secondo uno schema che è abituale nell’agire salvifico:
Dio ama giungere all’uomo attraverso un altro uomo, per vie, dun­
que, e tramite strumenti sempre deboli e limitati, inferiori allo scopo
prefissato e «inutili», come dice Gesù stesso. È la logica dell’incar­
nazione, ove una povera came mortale è chiamata a esprimere il mi­
stero divino. È la legge divina della mediazione umana.
D’altro canto Dio non fa mancare a nessuno il necessario per la
salvezza e, nel nostro caso, per la realizzazione del progetto vocazio­
nale. E importante, allora, fin dall’inizio del cammino formativo chia­
rire bene questo concetto, cioè il senso teologico della mediazione,
per aiutare a coglierne importanza e insostituibilità, da un lato, e per
riduưe certe aspettative irrealistiche e perfezionistiche al suo riguar­
do, dall’altro.
Oggi, infatti, abbiamo per un verso giovani abituati al «fai-da-
te» anche in campo spirituale, 0 che non avvertono la necessità di al­
cuna mediazione per intendere la volontà di Dio, o la rifiutano quan­
do la sentono troppo esigente, oppure così esigenti nelle loro pretese
spirituali da non potersi accontentare delle mediazioni ordinarie e
«casalinghe» 0 da esigere chissà quale perfezione e competenza in
chi li dirige (un po’ come Naaman, il sko, che restò deluso delle pro­
poste troppo normali del profeta) al punto di andare a cercarlo chissà
dove. Non si può consentire alcun equivoco al riguardo né attendere
di chiarire queste cose nel noviziato o nel post-noviziato (sarebbe tra
l’altro imbarazzante che il formatore stesso fosse costretto a dare
questo tipo di chiarificazione, dando quasi l’impressione di voler le­
gare l’altro a sé). Il giovane deve capứe molto presto, o subito, che
cosa significhi formazione ed eventualmente essere aiutato a liberarsi
da quelle pretese o aspettative.
La mediazione formativa è per natura sua imperfetta; d’altro
canto è con gli strumenti ordinari che il Signore normalmente inter­
viene; accettare questa logica significa lasciarsi formare da Dio in
ogni istante della vita. Non accettarla voưebbe dire non capire e ri­
fiutare il mistero dell’incarnazione.
Sul piano istituzionale, poi, sarà importante che anche il formato­
re/formatrice si confronti bene con questa logica, non dimentichi nep­
pure per un istante che è solo mediatore, non si carichi di responsabilità
eccessive e di pesi impossibili, e viva serenamente il suo essere servo,
che compie il suo dovere fino in fondo per poi sentirsi inutile. Un edu­
catore troppo consapevole di sé e troppo preoccupato della sua presta­
zione rischia di divenire inconcludente e insopportabile. Non è certa­
mente Atlante, che crede di dover portare tutto il mondo sulle sue
spalle, il modello o il patrono del formatore, ma semmai Giovanni Bat­
tista, colui che addita e annuncia un Altro, non attira a sé; prepara gli
animi perché sappiano riconoscere Colui che deve venire, ma senza so­
stituirsi a lui; fa di tutto per diminuire perché è Colui che viene che de­
ve crescere nel cuore dei suoi discepoli...

2. D formatore, «coltivatore diretto»

È dunque una precisa legge divina, nel senso che corrisponde a


uno stile di Dio, ma è anche esigenza oggi fortemente sottolineata
dalle scienze umane e altrettanto fortemente sentita dagli stessi gio­
vani in formazione, come è emerso al Congresso intemazionale
dell’ottobre ’97:
«non rifiutiamo la ricchezza che può venirci dalla teologia. Ogni
giorno sui banchi deir università ci vengono offerti moltissimi conte­
nuti. Quello che ci manca sono le mediazioni. Ci mancano le persone
che ci aiutino a tradurre la dottrina nel nostro vissuto esistenziale».1

Lo abbiamo già rilevato e lo rilevano quotidianamente molti


educatori: oggi i nostri giovani ricevono normalmente ottimi conte­
nuti scolastici (teologici, biblici, antropologici, filosofici...), ma
quanto di questo materiale didattico diviene mediazione formativa?
Quante volte non resta semplicemente «contenuto scolastico da stu­
diare per gli esami», o da assimilare un po’ vanitosamente per la pro­
pria cultura?
Il problema, tuttavia, non è solo didattico-scolastico, riguarda
anche la formazione in se stessa, e la persona del formatore in quanto
tale, perche è lui chiamato a portare avanti questa operazione prezio­
sa nel rapporto personale immediato con il giovane in formazione. È
lui il «coltivatore diretto» nella vigna del Signore.
Vale la pena, allora, vedere come si articola, più in concreto,
questa mediazione.
Sottolineiamo tre aspetti che riprendono i tipici dinamismi peda­
gogici cui abbiamo già fatto cenno sempre nel capitolo introduttivo:
r educare, il formare e {’accompagnare.
a) Educare
Anzitutto la mediazione del formatore deve e-ducare, nel senso
di e-ducere, tirar fuori o e-vocare la verità della persona, quello che
essa è, a livello conscio e inconscio, con la sua storia e le sue ferite, le
sue doti e le sue debolezze, perché possa conoscersi e realizzarsi al
meglio delle sue possibilità.2 È un intervento, dunque, direttamente
su]l’iệo attuale dell’individuo.
Educare, in tal senso, è tipico del Padre-creatore, che creando
educe, tira fuori le cose dal caos e le creature dal nulla, per dare ordi­
ne e trasmettere vita; oppure Dio Padre è ancora il modello di questo
processo pedagogico quando educa il suo popolo, tirandolo fuori
dalla schiavitù di Egitto cọn mano potente e braccio teso, attraendolo
a sé con legami di bontà e tenerezza, ma anche rimproverandolo e
correggendolo come un padre fa col figlio (cf. Dt 1,31; 6,21; 9,26...)
per condurlo, infine, verso la terra promessa:

1Testimonianza orale di un giovane partecipante al Congresso, cit. da CIARDI -


M e r le tti, Volare si può, 38.
2 Cf. c . Nanni, «Educazione», in Aa. Vv., Dizionario di scienze dell'educa­
zione, Roma 1997, 340.
«Egli lo trovò in teưa deserta, in una landa di ululati solitari. Lo educò,
ne ebbe cura, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila
che veglia la sua nidiata.. spiegò le sue ali e lo prese...» (Dt 32,10).

Educare, allora, significa sempre partecipazione all’azione crea­


tiva e costruttiva di Dio, è qualcosa che si distende regolarmente su
tempi lunghi, nasce da un amore forte e tenero, esige infinita pazien­
za e benevolenza, la pazienza del contadino che aspetta e rispetta i
tempi della natura, ma anche l’energia dell’uomo abituato alla fatica
dei campi, energia più forte del possibile rifiuto da parte di chi prefe­
rirebbe l’inerzia della dipendenza al coraggio di scoprire e affermare
la propria identità.
Tale mediazione comporta una serie di operazioni non del tutto
semplici e automatiche, e che anzi richiedono una particolare prepa­
razione nel formatore.

- Egli deve, anzitutto, conoscere se stesso, e in particolare le aree


meno forti e meno libere della sua personalità, per evitarne la
proiezione nell’altro e sapere poi... come se ne viene fuori.
- Ma dovrebbe pure saper điscernere nell’altro la presenza di
conflitti e immaturità. Non è sufficiente, dunque, osservare il
comportamento esteriore, come non basta aspettare che sia p altro
a tirar fuori il problema (nella maggioranza i nostri giovani igno­
rano il loro conflitto centrale), né accontentarsi di ciò che egli di­
ce di sé (la miglior sincerità non basta per esser veri). È buon
formatore chi sa percepire, oltre la condotta osservabile e le abi­
tudini della persona, i suoi atteggiamenti, ovvero le sue predi­
sposizioni ad agire o i suoi stili di vita, pronti per l’uso come uno
schema fisso (es. come reagisce quando è offeso); per poi passa­
re ai sentimenti, all’identificazione di ciò che egli prova nelle va­
rie circostanze della vita (es. non basta che egli perdoni, occorre
vedere che cosa sente denteo di sé verso l’altro); e infine giunge­
re alle motivazioni, al tentativo di capire che cosa c’è alla radice
del sentire e dell’agire, di certe decisioni o della stessa scelta
vocazionale (l’amore di Dio o altri obiettivi? l’abbandono nelle
mani di Dio o la pretesa di autogestừsi, 0 paure varie?...)- Tali
operazioni mirano a scoprire la cosiddetta inconsistenza (o im­
maturità) cenừale che, quando è inconscia, si pone al centro della
vita psichica e da lì «succhia» come un’idrovora una quantità no­
tevole di energia; è indispensabile che l’educatore la sappia rico­
noscere quanto prima, per intervenire tempestivamente su di essa
e non sprecare tempo ed energie preziose, e impedire che il pro­
blema diventi cronico e insolubile. Una buona educazione è
sempre preventiva.3
- Ma a ben poco servirebbe tutto questo se l’educatore non fosse
in grado di aiutare la persona a scoprire essa stessa la propria
immaturità, le sue radici e le sue conseguenze. Il compito del
mediatore è proprio quello di mettere l’altro sempre più in condi­
zione di «far da solo», proponendogli un metodo grazie al quale
imparare a conoscersi e a decifrare i suoi stati di animo, a non
raccontarsi bugie e a capire da dove vengono i suoi problemi.
Qui comincia la libertà della persona.
- Infine, all’educatore si chiede di saper aiutare l’altro a risolvere le
sue difficoltà. Risolvere non nel senso di cancellare una volta per
tutte ogni immaturità (non sempre, 0 quasi mai, è possibile), né
di pretendere di non avvertire più alcun richiamo o attrazione in­
consistente, ma nel senso di assumere un atteggiamento diverso
nei confronti delle proprie immaturità (o del fatto di essere im­
maturo), più cosciente e responsabile, sempre meno dipendente e
ripetitivo. Un buon educatore non impone al giovane traguardi
impossibili a livello psicologico né lo illude con promesse ambi­
gue sul piano spkituale; lo educa, semmai, a vivere la coscienza
delle sue debolezze di fronte a Dio, come strumento misterioso
attraverso cui incontra e sperimenta la misericordia divina e su­
pera e abbandona la pretesa di meritarsi l’amore divino, e impa­
rando a riconoscere e accettare la sua fragilità, capisce e accetta
anche le debolezze altrui.
Educare, allora, in questa fase, significa educare alla scoperta di sé
e all’accettazione dell’altro; è passaggio dalla sincerità alla verità, dal­
la lettura soggettiva delle proprie sensazioni alla scoperta oggettiva del­
la propria realtà interiore, dal semplice riconoscere i propri sentimenti
al coraggio di raggiungere e identificare le motivazioni. È educazione
alla preghiera «inspirito e verità» (Gv 4,24): all’orazione come luogo
ideale ove questa verità di sé risuona dinanzi alla verità di Dio, ove il
credente può ascoltare e raccontare a Dio «tutta la verità» (come
l’emorroissa quando si vide scoperta), e, vistosi accolto, può aprirsi - a
sua volta - all’accoglienza deir altro, e di tutta la sua verità.

b) Formare
Non basta educare, si deve anche formare, proporre un modello
preciso, come un nuovo modo di essere o una «forma» che costitui-

3 Per una più chiara indicazione delle tappe che conducono alla conoscenza
dell’altro e della sua inconsistenza cf. più avanti cap 16, paragrafo 2.
see la nuova identità del consacrato, quel che è chiamato a essere, il
suo io ideale, forma che diventa norma e tras-forma la vita.
Gli ultimi decermi, secondo alcuni, sono stati tempi di reticenza
e ambiguità, se non di silenzio, sul contenuto di questo modello;
l’azione pedagogica, nei nostri ambienti, è stata più di natura educa­
tiva che formativa, s’è come accontentata di richiamare ognuno al
compito di conoscersi per «essere se stesso», rischiando però di ap­
piattasi sull’orizzonte un po’ neutro e di basso profilo dell’autorea-
lizzazione, come se il primo e unico comandamento fosse quello di
affermarsi nella vita, magari in competizione e a danno degli altri, e
senza alcuna novità per un io destinato a ripetersi all’infmito. E inve­
ce solo con la proposta di un autentico modello che si imprime una
direzione nuova e precisa al giovane, che lo provoca al livello più al­
to delle sue possibilità, ma pure gli dona tantissimo, lo attrae perché
fonte della sua verità mentre gli propone un liberante (e pur costoso)
cammino di conversione.4
Così, se l’educare è evocativo della verità dell’uomo, il formare
comporta una pro-vocazione dell’umano, una proposta che chiede di
dare il massimo di sé esproprio per questo, svela alla fine ciò di cui il
singolo è capace. In ogni caso un’autentica attività formativa ha effet­
ti dirompenti: è novità che sorprende e a volte spaventa, crea nuove
aspettative e sollecitazioni, porta tensione e anche insoddisfazione,
chiede di cambiare le abitudini e i vecchi stili di vita, sposta in avanti
l’equilibrio della persona verso orizzonti impensati, apre una nuova
fase di vita ma sollecita pure resistenze e difese... Se educare è dis­
sodare il terreno, formare è immettere in esso la vitalità del seme,
come forza prorompente e foriera di vita nuova; quel seme che cade a
terra, muore e dà frutto.
In una parola è la logica della trasformazione. Un processo di
formazione è autentico solo se conduce alla tras-formazione, a un
cambiamento radicale nel modo di pensare, di volere, di amare; alla
metanoia o alla conversione, in termini spirituali. Strano a dirsi, l’im­
pressione è che molto spesso il cammino formativo si fermi prima 0
non si spinga fino a chiedere una trasformazione di mente-cuore-
volontà, un cambio, cioè, non solo di comportamenti (molti formatori
ne sarebbero già appagati), ma anche e soprattutto della sensibilità,
dei gusti, dei criteri di giudizio, di ciò che sta a cuore..., di tutto
l’uomo, insomma. Altrimenti la formazione è finzione o solo appa­
renza, intellettuale o morale o sentimentale, ma sempre e solo qual­
cosa che riguarda solo una parte, una dimensione delPorganismo

4 Cf. c . Nanni, «Formazione», in Aa. Vv., Dizionario, 432-435.


credente. E le apparenze illudono, ma prima 0 poi mostrano il vuoto
che tentavano di coprire, ovvero, tutta la loro inconsistenza.
Ancora, se l’educare spetta al Padre, il formare sembra essere at­
tività precipua del Figlio, ovviamente senza alcuna rigida ed esclusi­
va attribuzione. Il modello tipico della vita consacrata, infatti, come
abbiamo già indicato, sono «i sentimenti del Figlio», chi dunque me­
glio del Signore Gesù può portare avanti questa paziente opera di
formazione nel cuore del giovane consacrato?
E molto importante, non solo suggestivo, che i nostri giovani
sentano così il rapporto con il Cristo, il vero (padre) Maestro della lo­
ro vita, la via, la verità e la vita, l’unico che davvero può trasmettere
e «piantare» nel loro cuore il suo sentire, farli vibrare del suo amore,
render contagiosa la sua passione per il Regno... Se lui e i suoi sen­
timenti sono l’obiettivo finale della formazione, pofrà essere solo lui
il vasaio di cui parla il profeta Geremia, che lavora con infinita e te­
starda pazienza attorno alla sua creta e la lavora e cesella, la modifica
e perfeziona, la corregge e.abbellisce... fino a renderla «come ai suoi
occhi pare giusto» (Ger 18,4); «Signore..., noi siamo argilla e tu co­
lui che ci dà forma» (Is 64,7).
Se è Cristo Signore il formatore per eccellenza vediamo ora al­
cuni aspetti circa 1 intervento del formatore terreno come mediatore
dell’unico formatore divino. In sostanza esso si articola su due linee:
poggettivazione e la soggettivazione del valore stesso.
- Con Voggettivazione il formatore aiuta il giovane a cogliere la
verità-bellezza-bontà di Cristo e dei suoi «sentimenti» come va­
lore supremo di vita. Sono due le condizioni indispensabili per
questa operazione. Anzitutto che il formatore sia davvero inna­
morato di quella bellezza, e possa dire che quanto propone agli
altri è da lui stesso sperimentato come appetibile, fonte di pie­
nezza, appagante. Non può essere formatore il consumatore oc­
culto, anche se solo nel desiderio, di proposte o prodotti alterna­
tivi. Seconda condizione, che sia capace di condividere la felicità
dell’appartenere a Dio: non può essere formatore il tipo imper­
meabile alla gioia, o chi non ha fatto abbastanza l’esperienza di
beatitudine e serenità nella sua scelta di vita, anche se è indivi­
dualmente pio e asceta. Se formare è un’arte, il formatore è un
artista, sedotto dal «Logos artista»5 per diffonderne e renderne
contagiosa la bellezza.
- La soggettivazione è... il contagio in azione: significa l’azione me­
diatrice del formatore che conduce il giovane a riconoscere nel
Cristo la sua propria identità. La verità-bellezza-bontà del valore

5 G regorio di NAZIANZO, Discorso 8,8: PG XXXV, 797.


diventano allora progressivamente la verità-bellezza-bontà del
soggetto, i sentimenti di Cristo diventano sempre più i sentimenti
del giovane. È il punto nevralgico di tutto il processo pedagogico e
che chiede al formatore la capacità, davvero artigianale, di interve­
nire con tatto e sapienza sulla totalità delle forze psichiche: sul
cuore perché s’innamori di Dio, sulla mente perché lo contempli,
sulla volontà perché impari a desiderare i suoi desideri. La forma­
zione, così concepita, è, ancora una volta, soprattutto libertà: liber­
tà di lasciarsi attrarre dalla bellezza del Figlio e dei suoi sentimenti,
una libertà dunque che sconfina nella mistica, e poi libertà di la­
sciarsi plasmare dallo Spirito del Padre, e dunque libertà che di­
venta ascetica, n formatore è colui che attiva queste operazioni, ma
è mediatore o facilitatore dell'incontro nella misura in cui lui stesso
conosce da vicino quella mistica e queir ascetica. Esteta del divino
al punto da saperlo disegnare nelTumano, anche in quella realtà
così umana che sono i sentimenti.

c) Accompagnare
Infine la terza articolazione, che rappresenta in qualche modo lo
stile pedagogico generale. L’educatore-formatore di cui abbiamo par­
lato e un fratello maggiore, maggiore nell’esperienza esistenziale e
nel discepolato, che SI pone accanto a un fratello minore per condivi­
dere con lui un fratto di strada e di vita, perché questi possa meglio
conoscere se stesso e il dono di Dio, e decidere di rispondervi in li­
bertà e responsabilità.6 La dimensione dell’io che qui diviene oggetto
specifico di attenzione è Vio relazionale.
L’accompagnamento è lo stile di Emmaus, icona di qualsiasi ac­
compagnamento nella fede. Ma è lo stile, soprattutto, dello Spirito
Santo, il «dolce ospite dell’anima», la compagnia di Dio in noi,
l’iconografo interiore che plasma con fantasia infinita il volto di cia­
scuno secondo rimmagine di Gesù.
«La sua presenza è sempre accanto a ogni uomo e donna, per condur­
re tutti al discernimento della propria identità di credenti e di chiama­
ti, per plasmare e modellare tale identità esattamente secondo il mo­
dello dell’amore divino. Questo “stampo divino” lo Spirito santifica-

6 Cf. A. Cencini, Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Em-


maus, Cinisello B. 1994, 60.
tore cerca di riprodurre in ciascuno, quale paziente artefice delle ani­
me nostre e “consolatore perfetto”».7

È fondamentale, allora, che il giovane senta lo Spirito come il


suo amico fedele, come memoria di Gesù e della sua Parola, come
colui che lo conduưà al pieno svelamento della verità e alla sapienza
del cuore, come guida dallo sguardo geloso su Gesù e sui chiamati
per fame dei testimoni suoi.
La consapevolezza e il gusto della «compagnia» dello Spirito
renderanno il giovane consacrato sempre più disponibile a farsi ac­
compagnare da un fratello maggiore, senza pretendere che sia perfet­
to. Chi si affida allo Spirito si fida anche delle sue mediazioni; chi ha
imparato a consegnarsi allo Spirito non teme - oggi che è giovane -
di condividere un fratto della sua storia, affidandola alle mani di un
fratello maggiore. Domani, quando sarà più anziano, accetterà che al­
tri lo conduca dove lui non sa, che altri lo cinga... Così fiducia, ab­
bandono, consegna di sé diventano le virtù tipiche, come il frutto di
questo intervento pedagogico.
Dal punto di vista vocazionale, se l’educare implica la e-voca-
zione della verità soggettiva e il formare costituisce una pro-voca-
zione del soggetto, l’accompagnare è una con-vocazione dello stesso,
sia perché rappresenta un invito a camminare insieme per la realizza­
zione del progetto vocazionale, sia perché si fratta di un invito rivolto
alla totalità del suo essere e delle sue stratture intrapsichiche, cuore-
mente-volontà, tutte assieme con-vocate per rispondere all’appello
dello Spirito. Dal punto di vista... «agrario», dopo il dissodamento
del terreno (= educazione) e la semina del buon seme (= formazione),
l’accompagnamento implica tutte quelle attenzioni che il buon conta­
dino dedica e riserva alla pianticella che sta per crescere; concreta­
mente le sta accanto, in qualche modo la vede lentamente fiorire,
come se il suo sguardo ne favorisse la crescita, la cura e la protegge.
Le caratteristiche essenziali deir accompagnamento come meto­
do pedagogico sono tre.
- La prima è data dalla reale, fisica condivisione di vita. Per osser­
vare la condotta e risalữe da questa agli atteggiamenti, e poi ai
sentimenti e alle motivazioni è indispensabile vivere a contatto
della persona con un’attenzione intelligente. La vita quotidiana, e
la convivenza, sono la miglior fonte d’informazione per conosce­
re un individuo; il poter cogliere certe sfumature comportamenta-

7 PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni p a ­


lma nuova Europa. Documento finale de! Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e
alla vita consacrata in Europa, Roma 5-10 maggio 1997, n. 18b.
li, come reazioni, simpatie, antipatie, emozioni, depressioni, abi­
tudini, scherzi, insofferenze, dimenticanze, nervosismi, preferen­
ze, stranezze.. consente di avere un quadro relativamente com­
pleto e di poter giungere così più facilmente all’identificazione
della situazione generale e dell’inconsistenza centrale.
La seconda condizione è la competenza-preparazione dell’edu-
catore-formatore che, se davvero vuole accompagnare un fratello
lungo le vie dello Spirito, deve unire alla sapienza spirituale la
conoscenza del cuore umano 0 delle leggi dello sviluppo psico­
logico. Quanto, insomma, gli consenta di intervenire non solo
per indicare il punto di arrivo, ma pure per cogliere la verità
dell’individuo, a livello conscio e inconscio, per suggerire un
metodo di soluzione dei suoi problemi e aiutarlo a lasciarsi for­
mare dall’azione dello Spirito, superando resistenze e paure. Una
competenza come questa può esser solo frutto di un cammino re­
golare e sistematico di formazione del formatore. Nõn è la com­
petenza dello psicologo, ma dell’uomo spirituale che, proprio
perché tale, usa anche le scienze umane per disporre il cuore ad
accogliere lo Spirito.
Infine, r elemento forse più peculiare e originale del concetto di
accompagnamento. Dal latino medievale sappiamo che questo
termine deriva da ciim-pahio, che sarebbe «colui che ha il pane
in comune».8 Accompagnare un giovane verso la consacrazione
non significa semplicemente dare una direzione (spirituale) alla
sua vita o comunque offrire solo insegnamenti o stabilire una re­
lazione che va in un unico senso; ma vuol dire anche fare o cele­
brare assieme un’esperienza, che sarà sempre nuova e inedita
perché esperienza di Dio, fra due persone che hanno fatto e stan­
no facendo un cammino verso di lui. Accompagnare vuol dire
essenzialmente condividere, e condividere qualcosa di vitale co­
me «il pane del cammino», ovvero la propria fede, la memoria di
Dio, l’esperienza della lotta, della ricerca, dell’amore di lui...
Non stiamo dicendo che il formatore’debba necessariamente sve­
lare il suo intimo, come se la relazione di accompagnamento fos­
se solo di tipo amicale, ma che in ogni caso deve essere consape­
vole dell’inevitabile coinvolgimento personale del suo cammino
di credente, per accettare di essere vicino a colui che accompa­
gna e condividere con lui quanto egli stesso ha già sperimentato
come importante per incontrare Dio e lasciarsi da lui amare. Un
formatore non è mai così convincente come quando sa confessa­

8 G, D ev o to - A. Oli, N uovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Fi­


renze 1988, 679.
re la sua fede; allora non solo educa la fede del giovane, nìa entra
in qualche modo all'interno di quello stesso cammino per fare
un’esperienza nuova di Dio e lasciarsene lui stesso formare. Fra­
tello maggiore e fratello minore, entrambi accompagnati dallo
Spừito di Dio, l’unico formatore. Non è semplice amicizia, la lo­
ro, ma amicizia 0 com-pagnia nello Spirito.9
A questo punto si può dire davvero che accompagnando un gio­
vane lungo le vie dello Spirito il formatore porta avanti la sua forma­
zione permanente.
Esponiamo ora in un quadro sintetico i tre dinamismi pedagogici
nelle loro caratteristiche essenziali.

9 Cf. A. CENC1N1, «Accompagnamento», in AA. Vv., Dizionario, 22-23.


EDUCARE FORMARE ACCOMPAGNARE
Soggetto
IL PADRE IL FIGLIO LO SPIRITO
TRINITARIO

Pro-vocare verso la Con-vocare cuore-men­


E-vocare la verità del­
A ttività realizzazione di un te-volontà, «tutto» l’uo­
l’io perché si realizzi
PEDAGOGICA progetto trascendente mo, e condurre lungo un
al massimo delle sue
SPECIFICA come forma e norma cammino cognitivo-e-
potenzialità
di vita sperienziale-sapienziale

L ivello
Io Attuale Io Ideale Io Relazionale
DELL’IO

Dio Padre-Creatore La kénosi del Figlio; Lo Spirito, guida e a-


che e-vooa dal nulla 0 il Figlio che plas­ mico, che aiuta a rico­
I cona facendo esistere; 0 che ma, come il vasaio, noscere Gesù che spie­
BIBLICA e-duce Israele dall’E­ nel cuore del con­ ga le Scritture e spezza
gitto e-ducandolo nel sacrato i suoi senti­ il pane
deserto menti
P ercorso Dalla sincerità Dalla verità Dalla libertà
PEDAGOGICO alla verità alla libertà alla consegna di sé
Conoscenza e supera­ Proposta di Cristo e Condivisione di un
mento, da parte della della sua vérità-bel- tratto di strada e di vita
guida, delle proprie in­ lezza-bontà ogget­ col giovane, per condi­
M odalità
consistenze per con­ tive; per suscitare in videre soprattutto la
EDUCATIVA dirne il giovane lungo cuore-mente-volontà fede e i beni dello Spi­
lo stesso cammino di un’adesione sogget­ rito, assieme alla pro­
liberazione tiva pria competenza
Capitolo quinto

COMUNITÀ EDUCATIVA

Nella rete di mediazioni pedagogiche indispensabili in un pro­


cesso formativo abbiamo indicato anche la comunità, quale luogo e
soggetto di formazione alla vita consacrata.
Si fratta di un dato appartenente alla più autentica tradizione: è la
comunità che si fa carico del processo di maturazione del giovane
candidato, e il fratello maggiore che è responsabile di tale processo
esprime la cura e l’attenzione della famiglia religiosa per chi chiede
di farne parte; è la frate m i tas l’àmbito naturale del cammino di cre­
scita, ma essa è pure il soggetto agente della formazione, e non solo
nel periodo iniziale, ma lungo tutta la vita del religioso.
È quanto mai significativo, a tal riguardo, che nell’esortazione
apostolica sulla vita consacrata la sezione riguardante la formazione
si trovi all'interno del capitolo secondo, quello dedicato alla comu­
nità (Signum fraternitatis), a sottolineare esattamente la titolarità na­
turale educativo-formativa della comunità nei confronti dei suoi
membri.
D’altro canto, però, non è poi così scontata - sul piano prati­
co - questa dimensione educativa comunitaria: perché una fraternità
religiosa sia educante, già nel periodo iniziale, ma in qualche modo
anche poi, devono esser presenti precise condizioni, strutturali e di­
namiche.

1. Elementi strutturali

Tale comunità deve avere risorse pedagogiche interne e un age­


vole accesso a risorse formative esterne, da poter effettivamente
mettere a disposizione di tutti e di ognuno, perché sia possibile
un’esperienza personale e globale di maturazione e crescita ai vari
livelli, in conformità con il modello ccirismatico-istituzionale e in
corrispondenza con la fase di sviluppo del giovane.
Queste condizioni rappresentano le strutture di una comunità
educativa, i suoi elementi portanti.
Esemplificando, potremmo allora dire che in tale comunità risorse
inteme sono, ad es., un certo clima spirituale (nel quale confluiscono
l’animazione liturgica, i valori proposti, la coerenza fra valori e vissuto
comunitario, un certo ordine generale o sapiente disciplina comunita­
ria...), e àèi formatori adeguatamente preparati', mentre quelle esterne
sono costituite, in generale, da tutte quelle provocazioni che vengono dal
territorio, dalla realtà sociale in cui è collocata la fraternità, perché la for­
mazione non galleggi aerea sulle vicende terrene e il giovane impari pre­
sto a cercare e trovare Dio nella realtà storica, a essere consacrato nella
Chiesa e nel mondo, per la Chiesa e per il mondo.
Più in particolare risorse esterne rilevanti possono essere Studi
teologici o altri centri culturali in cui può esser curata la formazione
intellettuale, o ambienti particolari di istituto dove il giovane può fare
esperienza dell’apostolato tipico della sua congregazione, ma anche
l’àmbito stesso della parrocchia per un’esperienza di Chiesa e di ser­
vizio alla comunità credente, 0 particolari comunità religiose o gruppi
e movimenti che offrano la possibilità di fare specifiche esperienze
spirituali e di intimità con Dio, o contesti anche laici in cui poter fare
esperienza di rapporto con mentalità e culture diverse, 0 situazioni di
sofferenza ed emarginazione dove la fede e la consacrazione del gio­
vane sono seriamente confrontate. Tutte queste risorse sono una ric­
chezza per una comunità formativa. Ciò che è decisivo e strategico è
che tutte le esperienze, dalla scuola ai tirocini apostolici siano con­
vergenti e in vario modo collegate con il progetto formativo, anzi,
considerate parte di esso e scelte in modo mirato, senza che invadano
indebitamente spazio e tempo formativo né che assorbano eccessiva­
mente le energie del giovane.
Allora l’esperienza consente di superare il livello della semplice
conoscenza informativa e conduce lentamente alla sapienza del cuo­
re, a quel nuovo modo di sentire e volere che segna nascita e crescita
dell’uomo nuovo, mentre la formazione non dovrebbe più coưere il
rischio di ridursi a sola teoria o opzione soggettiva.
Infine la comunità educativa deve saper conciliare l’aspetto della
stabilità con quello della creatività, ovvero coniugare la fedeltà al
dato carismatico e al modello istituzionale con la capacità di acco­
gliere e provocare, se necessario, la naturale tensione del giovane, la
sua voglia di sognare e di tendere al massimo. È un equilibrio non
sempre facile quello fra stabilità strutturale e regolarità di osservanza,
da un lato, con dinamicità e flessibilità soggettive, dall’altro, ma è
equilibrio importante perché la casa, di formazione, con la scusa di
eliminare conflitti e tensioni e perché regni l’ordine, non giunga ad
assomigliare, come una volta mi disse un giovane professo, a «... una
casa di riposo»!
2. Elementi dinamici

Se questi sono gli elementi strutturali o portanti dell’intero edifi­


cio, è necessario cercare di definire anche gli elementi dinamici o
quei principi in base ai quali la comunità può di fatto svolgere il suo
ruolo educativo. Li concentriamo attorno a tre elementi strategici: la
titolarità pedagogica della comunità, la distinzione e la complementa­
rità dei ruoli.

a) Titolarità pedagogica della comunità


L’esortazione post-sinodale dice che la comunità è «il luogo pri­
vilegiato» della formazione,1 o,. come potremmo dire rifacendoci a
una distinzione a noi nota, è luogo per eccellenza del processo peda­
gogico dell ’educazione-formazione-accompagnamento.
Anzitutto la comunità educa, perché il vivere assieme agli altri
porta inevitabilmente a scoprire i propri aspetti meno maturi. Finché
uno vive da solo, può anche sentirsi e credersi buono, ma quando en­
tra in rapporto con altri allora comincia a conoscere una serie sor­
prendente di mostri che lo abitano: il suo egoismo e narcisismo, la
paura e diffidenza dell’altro, la pretesa di possesso e la voglia di im­
porsi, l’invidia e la gelosia. In tal senso la comunità e-duca, tira fuori
una realtà che diversamente rischierebbe di restare latente e inconscia
e di non divenire mai oggetto di educazione. Allo stesso modo è vero
anche il contrario, in certo senso: il vivere con gli altri costringe a ti­
rar fuori il meglio di sé, fors’anche a scoprire energie positive inedite,
in qualche modo evocate dalla relazione con un tu che fa prender co­
scienza dell’io. In ogni caso ciò sottopone a un’ascesi che è dura, ma
quanto mai salutare per la maturazione personale.
A un livello più teologico la comunità non solo educa, ma è luo­
go privilegiato di formazione perché è la comunità la depositaria del
carisma come forma di vita del consacrato. Al Congresso internazio­
nale dei giovani religiosi questo è stato tra i punti più sottolineati:

«la comunità è il luogo in cui lo spirito del nostro fondatore è piena­


mente vivo. È il luogo in cui il carisma e lo spirito sono concreta­
mente vissuti e diventano manifesti».2

1 Vita consecrata, 67.


2 A.M. MUKAMWEZI, «Comunità, comunione, missione: il fuoco dell’amore
vissuto e amato», in CIARDI - MERLETTI, Volare si può, 51.
Il dono dello Spirito, infatti, proprio perché viene dall’alto, è
dato alla comunità e risplende nella sua interezza e bellezza solo nella
comunità; nessuno può dirsene interprete esclusivo e solitario, così
come nessuna lettura del carisma può avvenire prescindendo dalla
storia passata e presente, dagli esempi umili e spesso nascosti di tanti
consacrati e consacrate, veri «esperti» del carisma stesso. È la comu­
nità, con l’apporto di tutti, che ne rende evidenti e attraenti i vari
aspetti: la spmtualità, l’ascesi, il servizio caritativo, lo stile di rap­
porto... È ancora solo la comunità, dunque, pur con tutti i suoi limiti e
contraddizioni, che può suggerire e propoưe questa nuova forma di
vita, e che, al tempo stesso, ha i presupposti fondamentali per attuare
un programma formativo che s’ispiri al carisma.
Ecco alcuni di questi presupposti che facilitano tale attuazione:
relazione interpersonale e rapporto affettivo, specie se purificati da
attese egoistico-infantili, sono il framite migliore per far passare age­
volmente la domanda e la risposta educativa; la coscienza di avere in
comune con gli altri addirittura l ’identità non solo forma a un forte
. senso della fraternità, ma consente di percepứe nel carisma quanto
insieme si è chiamati a essere, l’uno responsabile e bisognoso dell’al­
tro, senza abbassare la tensione né ridirne l’obiettivo secondo la mi­
sura o le paure soggettive; la regolarità-stabilità della vita comunita­
ria, con i suoi momenti di preghiera, di riflessione, di convivenza... fa
crescere lentamente ma realmente in tutti l’uomo spirituale secondo
una specifica identità, creando una naturale sintonia tra i membri;
l’uso sistematico e intelligente di strumenti di integrazione del bene
(collatio, progetto comune di vita, discernimento comunitario...) e
del male (corcezione fraterna, revisione di vita...) consente realmente
di progredire assieme verso una santità comune.3
Infine la comunità accompagna lungo tale cammino di crescita, o
consente, per meglio dke, di non fare questo cammino da soli, ma in
com-pagnia, nel senso etimologico di questo termine, ovvero condivi­
dendo con altri fratelli il «pane del cammino», la stessa fede, il mede­
simo carisma, l’identica gioia di appartenere a Dioề In tal senso la co­
munità è ed è sentita sempre più come madre, come la nuova famiglia,
come la propria casa, ove la tavola è sempre imbandita per consumare
assieme il pasto della fraternità. Fino al termine dell’esistenza.
Ovviamente tale triplice valenza è effettiva. nella misura in cui si
riesce a trasmettere l’idea della titolarità pedagogica della comunità.
Che non vuol dire solo che la comunità è comunque educativa, ma che
lo diventa nella misura in cui il giovane si assume la responsabilità di

3 Sull’uso di questi strumenti cf. A. CENCINI, «...Come rugiada dell’Ermon».


La vita fraterna, comunione di santi e di peccatori, Milano 1998.
edificare lui stesso la comunità, o di divenire costruttore, non semplice
consumatore, di comunità.4 Allora la comunità diviene il «mio» luogo
di crescita, l’occasione attuale, il dono propizio di Dio. Il giovane po­
stulante, novizio 0 professo deve capire che evadere dalla comunità, fi­
sicamente o psicològicamente, significa negarle la possibilità di avere
su di sé un influsso educatìvo-formatìvo, magari con le sue contraddi­
zioni e attese, e negarsi a sua volta la possibilità di darle il suo apporto
costruttivo, pur con le proprie insofferenze e debolezze.5

b) Distinzione dei ruoli


Altra condizione decisiva per la dinamica educativa della comu­
nità è la corretta distribuzione e interpretazione dei ruoli.
Ciò implica, anzitutto, molta chiarezza nell’attribuzione delle re­
sponsabilità educative, a partire da quella che è la prima di queste re­
sponsabilità in una comunità educativa: il ministero deir educatore-
formatore vero e proprio, del maestro/a dei novizi/ie 0 dei professi/e,
ovvero colui/colei che deve farsi carico del cammino di accompa­
gnamento personale del singolo.
Il giovane deve sapere con certezza chi è il fratello maggiore che
l’istituto affianca al suo cammino, quale mediazione dell'azione for­
matrice del Padre.
Trattandosi di un rapporto assolutamente personale, e dunque di
attenzioni, energie, tempi dedicati al singolo è raccomandabile che
queste comunità non siano numerose, e che il numero dei giovani in
formazione non superi - potremmo dire - quello della prima comu­
nità educativa della storia cristiana. Ove la comunità fosse partico­
larmente numerosa (lode a Dio!), è necessario che vi siano più fratelli
disponibili per questo accompagnamento.
Nella tradizione religiosa II maestro è sempre stato anche il re­
sponsabile del processo formativo globale, colui che vive assieme ai
giovani e definisce programma e andamento delle attività educative;
vi sono buone ragioni per continuare questa tradizione, anche sul
piano prettamente psicopedagogico, e vi abbiamo già fatto cenno (es.
la possibilità di avere un rapporto diretto e una conseguente cono­
scenza più completa del giovane, la corrispondenza tra intervento sul
singolo e sul gruppo, la coerenza del disegno educativo, una maggior
efficacia nella trasmissione dei valori, la forza trainante della testi­
monianza personale...).

4 Cf. La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Chrìsti amor», 24.
5 V. Bosco, Il ruolo educativo della comunità religiosa, Torino 1978, 5.
Ciò, evidentemente, non è in contrasto con l’idea e la prassi
dell’équipe educativa, che, anzi, rappresenta un arricchimento della
proposta e una condivisione della responsabilità, oltre a garantire una
maggiore specificità e incisività degli interventi. Quel che va impe­
dito, semmai, è che l’équipe coưa il rischio di funzionare in definiti­
va da alibi, ad es., per i cosiddetti «pellegrini», quelli che hanno la
tendenza ad andare ora dall’uno ora dall’altro educatore, a ognuno
dicendo qualcosa dei propri problemi, ma a nessuno consegnandosi o
con nessuno aprendosi totalmente; così come va scoperto il trucco dei
«latitanti», coloro che assicurano il responsabile di essere seguiti da
«qualcuno» (non meglio precisato), mentre in realtà si gestiscono con
discreta disinvoltura la vita in proprio, nascondendosi nel collettivo e
stando ben alla larga da ogni confronto.
È possibile avere una guida spirituale esterna alla propria comu­
nità formativa (e magari anche al proprio istituto)? In teoria certamente
sì; ciò che è importante è che il giovane venga personalmente seguito,
e, d’altea parte, nessun formatore può considerarsi padrone della vita di
un altro. In pratica, però, va tenuto presente che si possono perdere in
tal modo quei vantaggi che sono legati alla condivisione di vita tra for­
matore e candidato prima ricordati, esponendosi a un rischio, quello di
fraintendere o di lasciar fraintendere il significato della formazione co­
me mediazione: in effetti, come abbiamo accennato, a volte il giovane
che cerca altrove questa mediazione è semplicemente il giovane dal
palato spirituale un po’ sopraffino che non può accontentarsi di «quel
che passa il convento» e cerca il padre spirituale «extra-comunitario»,
magari famoso e naturalmente più bravo di quello casalingo. Col risul­
tato che la relazione diventa sempre più generica e astratta, distante
dalla vita e dai problemi reali della persona; mentre il giovane stesso si
pone sempre più fuori della logica divina e rischia così di non capire
mai qual mistero di grazia si nasconda nella debolezza umana! Un
conto è che il formatore sia competente e sia messo in condizione di
avere una certa preparazione; tutf altro discorso è la pretesa del giovane
di avere un formatore perfetto...
Diversa è la situazione quando invece per vari motivi esiste già
una relazione significativa tra padre spirituale «esterno» e giovane
(come nel caso di una conoscenza anteriore o di un intervento parti­
colare contemporaneo quale quello dello psicologo); in questi casi,
normalmente, non c’è contrapposizione tra il cammino «esterno» e
quello «intemo», 0 - quanto meno - i livelli di intervento possono
rimanere distinti e complementari, nell’interesse della persona.
Tornando alla figura del formatore sarà importante che non vi
sia una sovrapposizione di ruoli sulla sua persona, né sul piano spi­
rituale (che, ad es., non debba fare anche il confessore) né su quello
della gestione della comunità (che non gli tocchi di essere anche su­
periore): in entrambi i casi vi sarebbe, oltre alla concentrazione su
una stessa persona di responsabilità (e pericolo di superlavoro conse­
guente) e di potere (col rischio di mandare messaggi ambigui),
un’interferenza di livelli diversi di intervento, che finirebbe per di­
sturbare l’azione educativa e non gioverebbe ad alcuno.

c) Complementarità dei ruoli


Elemento davvero indispensabile, forse addirittura vincente in
una comunità educativa è l ’armonia all’interno - soprattutto -
dell’équipe educativa, ma anche tra i confratelli professi perpetui che
costituiscono la comunità, che possono anche avere altri incarichi
non immediatamente connessi con la formazione, o esser anziani o in
riposo. In ogni caso chi è parte di tale comunità ha comunque una
funzione educativa; è importante non dimenticarlo e assumere fino in
fondo la responsabilità che ne deriva.
La testimonianza della fraternità tra i membri di questa comunità
e di un’intesa più forte delle differenze è il primo fattore formativo,
più convincente di molte prediche e richiami. Ma è pure importante
una convergenza specifica sul modello di riferimento, sul programma
educativo, sulle strategie di intervento. Tale convergenza deve essere
esplicita, dunque visibile e operativa tra coloro che sono direttamente
coinvolti nella formazione, almeno implicita con gli altri.
Per questo è necessaria una certa attenzione, da parte dei superiori,
nella composizione di queste comunità, a garanzia di un’omogeneità di
base. Per questo, ancora, ci dovrà essere una certa condivisione
all'interno di questo gruppo, condivisione anzitutto sui valori di fondo
e sulla metodologia di base, ma condivisione anche sul cammino di
crescita dei giovani. Senza entrare nei particolari né violare alcun se­
greto, il maestro di formazione può comunicare alcuni aspetti del pro­
cesso evolutivo dei singoli, che è bene che gli altri educatori sappiano,
per adottare un comportamento che ne tenga conto e che sia coerente
nel proporre il medesimo messaggio da parte dei formatori.
Se, ad es., un giovane sta vivendo un momento un po’ difficile, di
solitudine affettiva o di insofferenza per i propri limiti, e il maestro sta
cercando di fargli sperimentare, nell’imprevisto deserto in cui si trova e
nella scoperta della sua debolezza, un’inedita presenza de] divino, sarà
bene che anche gli altri educatori tengano la medesima linea e che nes­
suno si presti a fare... l’angelo consolatore o a praticargli sconti. Quan­
do arrivano doppi messaggi viene vanificata l’azione educativa. Mentre
la coerenza e la sintonia nell’atteggiamento degli educatori rendono
inequivocabile ed efficace la provocazione educativa.
D’altro canto è pure importante l’apporto che da tutta l’équipe
educativa può venire per capire in profondità il giovane e il suo cam­
mino: ognuno dei suoi membri ne può vedere risvolti particolari che
potrebbero sfuggire all’attenzione di uno solo e che possono risultare
decisivi per capirlo meglio e intervenire efficacemente. Ciò sottolinea
l’importanza della comunicazione non solo all’interno della stessa é-
quipe educativa, ma anche tra i formatori delle diverse fasi.
Ma sottolinea soprattutto la centralità della comunità nel ministe­
ro della formazione.
Capitolo sesto

AMBIENTE EDUCATIVO INTERNO

Oltre alle mediazioni pedagogiche del formatore e della comu­


nità è necessaria e importante un’altra realtà educativa, quella
deiv ambiente. Si tratta di una realtà spesso sottovalutata o un po’
ignorata nella sua valenza educativa, e pure influente a volte anche in
modo decisivo, forse proprio perché non attentamente considerata.
Che cos’è 1’«ambiente educativo», in generale?
Per ambiente educativo intendiamo quell’insieme di caratteristi­
che e condizioni interne, anzitutto, determinate dalle persone che
compongono la comunità educativa e dalla qualità degli scambi rela­
zionali (ad es. il tono educativo, l’aria che SI respira dentro la comu­
nità, l’organizzazione interna, la trasparenza dei valori nello stile di
vita, il tipo di messaggi che circolano ecc.); ma con questo termine ci
riferiamo anche al contesto esterno, al luogo in cui è posta la comu­
nità formativa e che deve garantire precise condizioni perché ogni fa­
se del percorso formativo possa raggiungere il suo obiettivo.
Vediamo, in questo capitolo, anzitutto l’ambiente intemo.
Tenendo presente la riflessione fin qui condotta possiamo dke
che tra le condizioni interne ecologiche di una comunità di formazio­
ne, queste ci sembrano le più importanti.

1. Coerenza

Anzitutto vi dovrebbe essere una profonda coerenza generale tra


messaggi educativi espliciti o impliciti e realtà di vita concreta.
Quello che un formatore chiede 0 indica come valore e obiettivo
comunitario, diventa tanto più vincolante per il singolo quanto più è
confermato dalla vita e dalla tensione, dall’organizzazione e dalla
convinzione della comunità. Affermare un ideale nelle lezioni forma­
tive o scolastiche, nelle raccomandazioni, private o pubbliche, come
nelle omelie 0 nel progetto comunitario di inizio di anno, e poi non ti­
rare certe conseguenze operative, o non ribadire quel valore, 0 tacere
quando è trasgredito, o lasciare che la vita comunitaria proceda come
se nulla dovesse cambiare, o non sottoporlo a revisione, o non inco­
raggiare a viverlo o non sottolineare gli esempi positivi..., ebbene
tutto questo suona come una contraddizione che svuota di efficacia
educativa l’intervento verbale.
È il fenomeno dei doppi messaggi, contraddizione tutt’altro che
eventuale, senza dubbio tra le più gravi e nocive per la formazione.
L’ambiente deve confermare il modello indicato; in qualche modo
deve identificarsi con esso, quasi facendo un tutt’uno inscindibile con
i valori legati a quel modello.
Il giovane deve sentirsi rivolto lo stesso messaggio da tutte le
componenti ambientali: non solo dal formatore, ma dallo stile gene­
rale e dall’esempio di tutti (a cominciare dai più anziani), dalle abitu­
dini e dalle scelte dalla comunità, da certe attenzioni e sottolineature
solo apparentemente irrilevanti, perfino dairorarioế
È il principio psicologico della ridondanza, in forza del quale la
capacità penetrativa di uno stesso messaggio è direttamente propor­
zionale alla varietà e diversità dei modi e momenti in cui nsuona
nell’ambiente, e alla convergenza-complementarità di quelle diffe­
renti modalità; per cui più un valore è non solo detto, ma praticato e
tradotto nelle sue molte versioni pratiche, reso evidente dalla vita e
dalla testimonianza di molti, più penetra e può educare e formare
mente e cuore e volontà.
E inutile e frustrante, ad es., parlare di povertà e sobrietà quando
poi si consente, forse senza accorgersene, uno stile di vita praticamente
borghese entro cui il giovane assimila pian piano l’idea pagana di poter
e dover avere sempre quanto gli serve* In fondo è un’ulteriore applica­
zione di quel principio indicato da Guardini, secondo il quale.il primo
fattore formativo e «ciò che l’educatore è; il secondo è ciò che
l’educatore fa] solo il terzo è ciò che egli dice»,' soprattutto se è l’unico
a dirlo, o - peggio ancora - il primo poi a non farlo...

2. Bellezza

In questa coerenza generale c’è un aspetto che merita un’atten­


zione che spesso non ha: la capacità dell’ambiente di esprimere bellez­
za, la bellezza di una vita totalmente consacrata al Signore.
Se la bellezza è addirittura una chiave interpretativa della vita con­
sacrata, come esplicitamente afferma la recente esortazione apostolica,
allora la casa di formazione deve essere «bella» o sapere comunque di­
re questa bellezza, deve esserne in qualche modo «trasfigurata» (per ri­
prendere la logica del documento),2deve formare a essa.

1R. G u a r d i n i , Le età della vita, Vita e pensiero, Milano 1992,55.


2 Cf. Vita consecrata, 35.
Non si tratta di fare chissà cosa, ma di vivere i vari momenti e le
diverse situazioni della vita quotidiana in un ambiente formativo con
la consapevolezza, anzitutto, da parte del formatore, della bellezza
che è intrinseca alla vita consacrata e trasfigurante ogni attimo, come
della possibilità di sperimentarla e farla sperimentare. Se il formatore,
come abbiamo detto, è un esteta del divino capace di disegnarlo
nell’umano, egli deve saper trasmettere la passione per la bellezza di
Dio e per tutto ciò che avvicina a lui: non solo la liturgia, la cappella,
le celebrazioni, il canto, il parlare di Dio, il servữlo, lo studiarlo, ma
anche la fraternità, il lavoro manuale (specie se comunitario), lo stare
insieme, il sorridersi l’un l’altro, il faticare assieme nel nome suo,
Tesser uno servo dell’altro, il volersi bene, davvero bene... Dio è
bello e dolce è amarlo: questo il formatore deve đứe con gli occhi,
con la parola, con l’azione, con la sua sensibilità per contagiare tutto
l’ambiente e ogni alữa sensibilità.
Educare-formare-accompagnare non è solo attenzione e inter­
vento sul singolo, ma indirizzo generale impresso alla vita della co­
munità, e dunque atmosfera caratteristica che si respira al suo interno,
che consente di cantare nella verità la gioia e bellezza di stare insieme
per seguire Cristo, la Bellezza suprema! Una comunità religiosa che
non riesca a creare questa liturgia della bellezza si pone in contraddi­
zione con se stessa3 perché non abilita mai il giovane consacrato a
percepire e gustare la bellezza spirituale, a vedere le cose e ascoltare
il loro racconto, quel cantico della creazione che canta 0 parla inces­
santemente di Dio.
Dicevamo, tale formazione alla bellezza non significa nulla di
straordinario o, peggio ancora, di artefatto e stucchevole; si tratta di
educare-formare il cuore a percepire-gustare una bellezza che non è
di questo mondo, ma che può dare bellezza a ogni frammento
deir esistenza, bellezza come ordine e armonia, nobiltà e finezza di
animo nei rapporti, buon gusto e creatività nella preghiera come
nell’azione, capacità di stupirsi e commuoversi, libertà di far le cose
per amore e con passione, accoglienza dello sguardo del Padre che
vede nel segreto, condivisione di questo sguardo e scoperta - grazie a
esso - del lato nascosto delle cose e delle persone, ove abita una bel­
lezza pura e incontaminata, del tutto umana e pur capace di evocare
quella bellezza divina che l’ha generata.
Finché uno è capace di apprezzare la bellezza resta giovane, e si
vede. Come si vede subito una fraternità ove la bellezza è di casa, an­
che se l’abitazione è semplice e sobria, e si riconosce subito, purtrop­

3 Cf. M.I. RUPNIK, D all’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa,
Roma 1996, 47.
po, una comunità ove sciatteria e scadimento estetico rendono grigia
e monotona l’esistenza, ripetitivi i gesti e privi di fantasia, già vecchi
i membri e povera la testimonianza e l’attrazione vocazionale (e chi
mai andrebbe dove non è bello stare?).
Ciò che sorprende e sconcerta è che ancora vi sia chi trova non
così importante e addirittura superfluo e inutile questo riferimento
alla bellezza e non coglie come la bellezza sia strettamente connessa
con la verità, come una sua emanazione,4 o chi - come dice von Balt­
hasar - al sentir parlare di bellezza

«increspa al soưiso le labbra giudicandola come un ninnolo di un


passato borghese; di costui si può esser sicuri che - segretamente o
apertamente - non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di
amare».5

Si raccomanda, almeno, che costui non faccia il formatore...

3. Capacità di provocazione
L’ambiente educa e forma nella misura in cui pro-voca, ovvero,
etimologicamente, chiama ad andare oltre, a procedere sempre nel
cammino e superarsi, e impedisce di fermarsi e accontentarsi del tra­
guardo raggiunto.
CM è responsabile della formazione deve sapere che - da questo
punto di vista - l’ambiente è molto influente, crea clima, quel clima
che tutti respirano e che così spesso condiziona l’agire; il formatore
deve realisticamente sapere che il suo stesso messaggio educativo
viene filtrato in qualche maniera da quel potente mediatore che è
l’ambiente, dalla mentalità che s’è lentamente creata, dalle consuetu­
dini sempre più radicate, dalle comodità implicitamente giustificate,
dai meta-messaggi che circolano spesso indisturbati e arrivano sem­
pre a destinazione. Insomma, esiste la pressione di gruppo, che è co­
me una forza neutra, e può spingere e indirizzare sia verso l’entu­
siasmo di una scelta creativa che verso l’inerzia della più squallida e
confortevole mediocrità.

4 Interessante, in tal senso, questa riflessione di Pifano: «La bellezza traluce sul
teưeno della verità; e la verità, dal punto di vista biblico, è “fedeltà” dell’uomo e del
cosmo al disegno di Dio, all’imago Dei. Ciò che è vero, secondo questa “imago" è
“bello”, anche secondo la forma. Vivere nella bellezza, allora, è vivere kat’eikòn, os­
sia componendo e ricomponendo Vimago Dei, ritrovando così la nostra forma origi­
naria di creature e di figli di Dio-Padre» (P. PlFA NO , Sulla bellezza, Napoli 1983, 61),
e quella forma specifica che è legata al proprio carisma religioso.
5 H .u . VON B a l t h a s a r , Gloria. I. La percezione della forma, Milano 1985,11.
Quante volte la motivazione ad agire (o, a volte, a trasgredire) è:
«fanno tutti così...!», o quante volte l’opposizione a cambiare certe
abitudini incallite o a risvegliare certe «pigrizie comunitarie» viene
solo dal fatto che «... si è sempre fatto in questo modo!?». Al tempo
stesso, non è forse vero che i più giovani, di fatto, imparano certi va­
lori e stili di vita proprio da quello che vedono nei fratelli maggiori?
In effetti il gruppo è un’entità sociale che, di per sé, ovvero, se
abbandonata a se stessa, tende a funzionare a regime minimo. Regime
minimo che si attiva press’a poco così: una volta definito, in modi
non espliciti, un certo livello accessibile a tutti e non troppo eccelso,
il gruppo recepisce e provvede subito a diffondere e promuovere al
suo intemo messaggi che confermano il livellamento (in basso), men­
tre tenderà a escludere quanto potrebbe modificarlo spingendolo in
alto e chiedendo un certo costo. Anche la comunità formativa è
«spinta» da questa... forza di inerzia, tanto più in una cultura del­
l’analgesico e del mediocre come quella di oggi, che tende a elimina­
re ciò che risulta faticoso e domanda sacrificio.
Sarà allora importante che il formatore sappia tutto ciò e abbia al­
cune attenzioni. Anzitutto deve saper rilevare il tono della comunità,
per individuare, eventualmente, quello stile un po’ pagano che tende a
privilegiare gli equilibri minimali e chiede il minimo sforzo. Molte
volte questo stile opera in modi molto sottili e apparentemente corretti;
ma proprio questo è il problema: l’ideale di una comunità formativa
non è quella certa serenità fatta di assenza di tensioni o di povertà di
relazioni, né quel clima un po’ appiccicoso ove ci si sforza di piacersi
reciprocamente sotto la guida compiaciuta di un innocuo formatore e
nessuno provoca nessuno per render sempre più evangelica la risposta
al dono ricevuto. La fraternità che educa non è luogo di compiacenza,
ma di edificazione reciproca. E allora l’educatore per primo deve agire
di conseguenza, ponendo ognuno di fronte alle sue responsabilità e tutti
dinanzi a una realtà di vita consacrata che diventa bella e vivibile solo
quando è vissuta con la radicalità del dono.
Non è facile, per altro, eliminare vecchie comode abitudini per
fame partire di nuove e più impegnative, ma si sta tutti meglio, in real­
tà, quando s’infonde nuovo slancio alla comunità e s’inteưompe quel
clima diabolico di inerzia che rende pigra e sonnolenta la vita, e mentre
irride i sogni dei giovani uccide pure la speranza degli anziani.
È vero che il gruppo tende a funzionare al minimo, ma quando è
debitamente pro-vocato può diventare un potente attivatore di energie
e un incredibile trascinatore, anche per quelli dal passo più pesante.
La saggezza deir educare consiste, a questo punto, nel saper fare la
giusta provocazione e all’interlocutore giusto, cioè al gruppo. Ovve­
ro, anzitutto deve saper proporre quella provocazione che si pone
esattamente un gradino al di sopra del livello raggiunto dal gruppo, e
non è né troppo alta né si pone al di sotto delle possibilità del gruppo
stesso: se troppo alta non sarebbe capita o sarebbe eccessiva e7 se at­
tuata, sarebbe un fuoco di paglia; se troppo bassa non avrebbe suffi­
ciente capacità di frazione e non faciliterebbe una crescita. Il formato­
re, da questo punto di vista, deve essere sempre un poco più avanti, a
indicare la strada e a fare il passo.
Seconda attenzione: colui che accompagna il cammino educatìvo-
formativo non può né deve accontentarsi di sollecitare il singolo, ma far
in modo che il gruppo, in qualche modo, assuma quel dinamismo e vi­
vacità che lo rendano educatore di se stesso e dei suoi membri.
Allora il gruppo, in quanto entità reale e ben visibile, diventa un
potente alleato nella formazione, mentre la provocazione dell’am­
biente può diveiùre ancor più efficace e vincente di quella del for­
matore.

4. Senso di responsabilità

Infine l’ambiente è educativo solo se, in generale, riesce pro­


gressivamente a formare persone adulte e responsabili e, più in parti­
colare, se favorisce in esse il senso di responsabilità nei confronti
della comunità stessa perché sia davvero educativo-formativa.
È un punto importante e che merita attenzione, poiché spesso il
giovane entra nella casa di formazione con una serie di aspettative,
implicite e forse neppur verificate, ma date per scontate e sostenute
con forza se poi messe da qualcuno in discussione; aspettative che
ruotano attorno alla pretesa che la comunità sia perfetta o comunque
già in possesso di tutti quegli strumenti, opportunità, risorse, condi­
zioni, che l’abilitino a dare formazione, come se la fraternità fosse un
prodotto pronto per l’uso e semplicemente da consumare, mentre lui,
il giovane, sarebbe solo una sorta di soggetto passivo o semplice
utente che attende e sfrutta l’intervento altrùi.
Sappiamo a che cosa porti, a lungo andare, questa attesa. Proprio
per evitare quei fenomeni, presenti e futuri, di disimpegno, privati-
' smo, disfattismo, stile rivendicativo e perennemente accusatorio, è
necessario da subito e progressivamente trasmettere l’idea che la co­
munità di formazione sarà tale quale la faranno i suoi membri e il lo­
ro senso di responsabilitàý Poiché tutti nella comunità hanno rice­
vuto lo stesso dono, ognuno secondo la propria misura e dunque an­
che secondo un aspetto o una sottolineatura originali. La comunità è

6 Cf. Potissimum institutioni, 27.


l’insieme di questi doni o delle sfumature dell’identico dono. È for­
matrice, allora, nella misura in cui ognuno esprime responsabilmente
il suo dono e accoglie quello dell’altro.
In concreto, l’intervento educativo dovrà invitare ogni giovane a
ricordare che
- prima di servirsi della comunità, essa merita di essere servita e
amata per quello che è ed è chiamata a essere,7 per quella ric­
chezza di grazia che essa esprime e che è chiamata a vivere in
pienezza, in cui a ognuno è dato di scoprire la propria identità e
di realizzarsi secondo un preciso modello di vita;
- prima di domandare ancora e sempre alla propria comunità, quasi
esigendo in continuazione, essa va riscoperta e apprezzata dal
singolo per quanto gli ha già dato e gli sta dando, che sarà sem­
pre molto di più di quanto egli potrà dare a essa;
- prima di accusare la comunità o lamentarsi delle debolezze dei
fratelli, o delle differenze di carattere e mentalità, di origine e
sensibilità, dovrà rammentare che è attraverso e nella comunità
che lo raggiunge l ’amore del Padre, e che ciò che l’unisce ai
suoi fratelli è sempre molto più di quanto lo possa dividere.
Insomma, per concludere non solo questo paragrafo ma l’intera
riflessione sull’ambiente educativo, ribadiamo l’idea che il gruppo
educa e forma solo quando e nella misura in cui è esso stesso educato
e formato. Che è come dừe: non solo il singolo deve essere oggetto di
attenzione educativo-formativa, ma anche il gruppo in quanto tale.

7 Ibidem, 26.
Capitolo settimo

AMBIENTE EDUCATIVO ESTERNO

Non è solo l’ambiente interno che educa e forma, ma anche


quello esterno, costituito da tutte quelle condizioni e caratteristiche
che facilitano e rendono più incisivo il processo maturativo del gio­
vane professo. Non si può dire che nel passato questo tema non sia
stato oggetto di attenzione, ma oggi, grazie anche alla sollecitazione
delle scienze sociali, siamo ancor più coscienti dell’influsso dell’am­
biente circostante e avvertiamo tutta l’importanza di una riflessione
sistematica sull’argomento.
Nel precedente capitolo abbiamo descritto l’ambiente educativo
esterno come quel contesto, sociale e territoriale, in cui è posta la
comunità formativa, che dovrebbe garantire precise condizioni e of­
frire stimoli adeguati perché ogni fase del percorso formativo possa
raggiungere il suo obiettivo.
Questa descrizione-definizione esprime bene ruolo e natura
dell’ambiente esterno come parte di quella rete di mediazioni peda­
gogiche attraverso le quali passa il dinamismo educativo-formativo.
L’ambiente non è dunque titolare, ma tramite prezioso dell’azione
educativa, che deve non solo confermare, ma pure arricchire e sti­
molare ulteriormente. D’altro canto l’ambiente esterno, proprio per­
ché così legato alla dinamica formativa, non è luogo qualsiasi, ma
contesto territoriale specifico che deve offrire a ogni fase del cammi­
no un tipo particolare di sollecitazione, quella che è connessa alla
natura del periodo di formazione in questione.
Vediamo allora come l’ambiente esterno possa divenire realmente
educativo nelle tre fasi canoniche della formazione religiosa iniziale.

l ệ Pre-noviziato: «Venite e vedrete» (Gv 1,39)

Obiettivo generale del prenoviziato è la maturazione nel sog­


getto della capacità effettiva di scegliere liberamente e da credente la
vita consacrata come ideale personale. Obiettivi specifici sono
l’accertamento rispettivo e incrociato, da parte del candidato e della
congregazione, dell’autenticità della chiamata, e la maturazione nel
giovane di una nuova ed efficace disposizione di animo, in rottura
con la sua precedente condizione di vita e in sintonia con il dinami­
smo della sequela all’interno di un particolare istituto. Potremmo dừe
che è il tempo della prima esperienza, culminante con la decisione di
entrare in noviziato.
Ambiente adeguato sarà allora quello che favorisce, in con­
creto, la conoscenza, da parte del soggetto, di se stesso e
dell’istituto, delle attitudini personali e delle esigenze della congre­
gazione, del dono ricevuto dallo Spirito e dello spirito dell’istituto
(stile apostolico, aspetto mistico e ascetico...); ma tale tipo di cono­
scenza potrà esser solo sperimentale, conseguenza di un’esperienza
diretta, sul campo, tale da. poter consentire non solo al diretto inte­
ressato, ma anche all’istituto, di constatare la realtà di una chiamata
che viene dall’alto e di una adeguata capacità di risposta da parte
del giovaneỄ
È segno di matura attitudine vocazionale la disponibilità effettiva
di quest’ultimo a rompere con certe abitudini di vita precedente (rinun­
ce) e ad adottare un nuovo stile (coraggio e libertà di scelta): disponibi­
lità che può esser provocata anche dall’ambiente che r accoglie.
Per questi motivi, luogo del prenoviziato dovrà necessaria­
mente essere una casa dell’istituto ove sia possibile realizzare
quest’esperienza diretta e ove siano presenti in modo evidente e
quindi sperimentabili gli aspetti qualificanti il carisma. È così che
viene provocata la libertà di scelta. Non bastano l’assenso interiore
suscitato dalla lettura della regola, o una certa vaga attrazione emo­
tiva, a verificare l’autenticità vocazionale specifica; còme non sa­
rebbe rispettoso (né intelligente) ammettere al noviziato chi non ha
sperimentato sufficientemente e sulla sua pelle la convergenza tra
ideale personale e ideale istituzionale. Dunque la comunità di acco­
glienza e di formazione al noviziato non è, di per sé, e non dovrà
essere, di fatto, casa di preghiera o di ritiro dal mondo; tanto meno
può essere ambiente dove si tende a diminuire la tensione per la
preoccupazione di rendere tutto facile e... strappare l’assenso (que­
sti inganni diventano poi autentici danni per la persona stessa e per
l’istituto!).
D’altro lato non si potrà pretendere che l’esperienza o la condi­
visione siano totali o che il giovane sia già in grado di vivere la con­
sacrazione in tutti i suoi aspetti; l’esperienza deve essere tale da con­
sentire un giudizio prudente di idoneità già ora constatabile, ma che
dovrà ancora essere oggetto di ulteriore formazione; l’ambiente, in tal
senso, non dovrà imporre nulla, semmai favorire la libertà di scelta
attraverso, soprattutto, l’accompagnamento personale e la coerenza
della stimolazione ambientale.
Per questo la Potissimum institutioni raccomanda che i postu­
lanti siano accolti «in una comunità dell’istituto, senza tuttavia con­
dividerne tutta la vita»,1e che non si lasci loro «credere che siano di­
ventati membri dell’istituto».2 Ma raccomanda pure che questa co­
munità di accoglienza non sia la stessa comunità del noviziato, ove
diverse sono dinamica e finalità educative.

2. Noviziato: «... quel giorno stettero presso di lui» (Gv 1,39)

Il noviziato è il tempo dell’iniziazione integrale alla forma di


vita scelta dal Figlio di Dio e proposta nel carisma di istituto.3 Nei
termini dell’esortazione post-sinodale segna l ’avvio del processo di
assimilazione dei sentimenti del Figlio (Fil 2,5), punto di arrivo di
tutto il percorso formativo.4
Ciò implica una serie di ulteriori e conseguenti iniziazioni: alla
conoscenza profonda e viva di Cristo e del Padre (e alla preghiera
personale, biblica e liturgica), al mistero pasquale di Cristo (e al di­
stacco da se stessi, specie nella pratica dei voti), alla vita fraterna
evangelica, alla spiritualità e alla missione proprie dell’istituto (con
possibilità di periodi di esercitazioni apostoliche).5
Ma in ogni caso l’elemento centtale e peculiare del noviziato re­
sta la possibilità di stabilire un rapporto nuovo e inedito con la perso­
na vivente del Signore Gesù, contemplato secondo l’aspetto sottoli­
neate) dal carisma.
È chiaro che questo rapporto dovrà poi e sempre più esser vis­
suto in tutte le sue varie articolazioni e dimensioni, in tutti i momenti
della vita, nel pieno dell’attività apostolica come all’interno di tante
umane relazioni, ma proprio per questo è indispensabile che vi sia un
momento prolungato, nella vita del giovane credente, in cui la parola
del Signore sia l ’unica a risuonare mentre tutto il resto tace, un mo­
mento in cui le relazioni con gli altri e il bisogno di compagnia non
continuino a riempire la vita ma consentano al giovane di incontrare
se stesso e quel che ha in cuore, un momento in cui l’attenzione non
sia solo presa dalle cose immediate e sensibili, dagli interessi subito
fruibili e utili, dal lavoro che rende in termini di immagine e di risul­
tati, ma accetti di stare di fronte al mistero, e scopra la Bellezza e ne
sia rapita.

1Potissimwn institutioni, 44: EV 12/54.


1 Ibidem.
3 Lumen gentium, 44.46: EV 1/406.412; PI, 45.
4 Vita consecrata, 65-69.
5 PI, 47: EV 12/57.
Tutto questo è dono dello Spirito, ma come ogni dono che viene
dall’alto ha bisogno di mediazioni umane: l’ambiente esterno è una di
queste. Esso deve assolutamente garantire certe condizioni di silen­
zio, di quiete, di ordine, di solitudine:

«il tempo e il luogo del noviziato dovranno essere organizzati in


modo tale che i novizi possano trovarvi il clima propizio a un radica­
mento in profondità nella vita con Cristo».6

Dobbiamo capire che non ogni ambiente è adatto in tal senso,


così come sarebbe assurdo pretendere che il giovane sia subito capa­
ce di vivere tale relazione piena con Cristo” e vada dunque subito
immerso in modo indiscriminato nel fare e nella moltiplicazione di
relazioni umane: questo sarà obiettivo terminale della formazione, ma
se davvero lo si vuol consegmre bisogna garantire uno spazio di so­
litudine anche fisica, di tempo vacans, vuoto e inutile, che il giovane
possa imparare a scoprire come «dimora» del divinoế
L’ambiente può giocare un molo importante per consentire l’e­
sperienza della Trasfigurazione, della visione sul monte, del poter di­
re: «è bello stare qui»... Esperienza tutt’altro che semplice e facile,
che comporta la «pratica dell’orazione prolungata»,7 il coraggio di
abbandonare il mondo dei rumori e delle voci e la fatica dello stare di
fronte a Dio e a Dio solo, anche quando sembra meno bello, e forte
sarebbe la tentazione di usare il tempo in attività più... produttive ẹ
magari apostoliche, se fosse possibile.
Questo coraggio e fatica dovranno in qualche modo e il più pos­
sibile essere «incoraggiati» e facilitati dal tipo di ambiente in cui è
collocato il noviziato, e in cui tutto, dall’ambiente fisico alle condi­
zioni di vita, deve concorrere per accendere il desiderio di Dio. Se,
infatti, questa scintilla non scocca ora, sarà difficile che possa scocca­
re più avanti; vi sarà semmai il rischio che tutta la successiva forma­
zione non trovi più teưeno fertile, dissodato dalla rude aratura di una
ricerca essenziale di Dio. Come vi sono tempi e stagioni da rispettare
nella natura, così è nella maturazione psicologica e spirituale: se il
rapporto con Dio non mette radici profonde nel tempo del noviziato,
il frutto pieno dell’intimità divina non maturerà mai, e avremo consa­
crati/e perennemente acerbi e inguaribilmente freddi. Non ci sono,
forse, in giro consacrati/e che sembrano, da questo punto di vista, non
aver mai fatto il noviziato?

6 PI, 50: E V W 6 2 .
7 Ibidem.
«Di conseguenza - afferma ancora il documento sulla formazione - è
affatto sconsigliato di compiere il tempo del noviziato in comunità
“inserite”», [cioè á stretto contatto con urgenze apostoliche, poiché]
«le esigenze della formazione devono prevalere su alcuni vantaggi
apostolici dell’inserimento in ambiente povero»;8

per questo tutte le altre attività e sollecitazioni, legate all’iniziazione


integrale alla vita consacrata, devono essere rigorosamente ricondotte a
questo centro vitale, come a un cuore pulsante; per questo motivo i pe­
riodi di esercitazione apostolica da compiersi fuori della comunità del
noviziato - come raccomanda il Codice - vanno computati oltre i dodi­
ci mesi canonici.9 Non si fratta, con questo, di sottovalutare
l’importanza dell’esperienze apostoliche, ma di coglierne il senso e la
funzione nel tempo del noviziato, per imparare subito a dar la prece­
denza a Dio e disporsi a vivere anche l’apostolato come sua «dimora».

3. Post-noviziato: «prontamente Io seguirono» (Me 1,18)

Il tempo successivo alla prima professione, e precedente quella


definitiva, è tempo in cui il dinamismo della sequela avvia due pro­
cessi fondamentali nel giovane consacrato: la personalizzazione inte­
grale del carisma e l'estensione a tutte le aree della personalità della
nuova identità.
Sono in fondo le due vie per giungere ad avere in sé i sentimenti
del Figlio. La prima implica un movimento in intensità, la seconda in
estensione. Da un lato il giovane deve cogliere sempre più il carisma
come la sua propria identità, come il progetto di Dio al quale deve
conformarsi; dall’altro gli è chiesta la pratica coerente e globale, ma
anche coraggiosa e un po’ inventiva, di ciò in cui s’è impegnato per
segmre il Signore dovunque lo chiami (cf. Ap 14,4).
In altri termini, in questa fase deve avvenire una sintesi tra stabi­
lità e oggettività, da una parte, e creatività e soggettività, dall’altra.
L’ambiente dovrebbe in qualche modo riflettere questa sintesi, of­
frendo al tempo stesso sia la stabilità strutturale, la regolarità e siste­
maticità di una comunità che vive al suo interno la fedeltà al carisma
(ne abbiamo già parlato), sia la possibilità di sfruttare esperienze e
accedere a risorse educative esterne che implicano una certa autono­
mia di movimento e capacità di iniziativa.

8 Ibidem.
9 Can 648 § 2: EV 8; cf. PI, 47: EV 12/57.
Questo periodo, infatti, è tempo di preparazione culturale e pa­
storale, di contatti vari ed esperienze apostoliche, di apertura ai pro­
blemi degli uomini e della società, e dunque anche di uno stile di vita
necessariamente meno strutturato e più libero. La casa del post­
noviziato, allora, dovrebbe essere, logisticamente, vicina e anche
lontana rispetto alla comunità degli uomini, a significare la caratteri­
stica centtale di questo periodo, quella della sintesi personale fra i
molteplici aspetti formativi. E se nel noviziato questa sintesi era solo
iniziale e privilegiava, quale punto di partenza, il rapporto con Dìo
vissuto nella solitudine e nel silenzio, anche isolandosi dal mondo,
ora il giovane deve imparare Iff difficile arte spirituale del cercare e
trovare Dio nell’azione, nell’apostolato, nel contatto con la gente,
nello studio, perfino nella babele delle lingue dell’uomo di oggi, spe­
rimentando che non solo la preghiera è l’anima dell’apostolato, ma
pure l’apostolato lo è della preghiera.10
Lo studentato (o scolasticato) non è il noviziato, e deve progressi­
vamente preparare il professo a vivere la tìpica spiritualità apostolica,
unendo il massimo della contemplazione col massimo della dedizione
apostolica. La sintesi si fa solo sui valori massimi, non combinando as­
sieme livelli mediocri sul piano della maturità orante e apostolica.
È una sfida notevole per certi nostri giovani pigri e poco appas­
sionati, ma è anche il complesso equilibrio di una casa di formazione
di professi temporanei, in cui - idealmente - tutto dovrebbe essere
studiato in modo da favorire la ricchezza e la convergenza, la specifi­
cità e l’unità della stimolazione.
In concreto: anzitutto è necessario un ambiente specifico per questo
«periodo esplicitamente formativo»," non è buona cosa immettere imme­
diatamente 1 professi temporanei in una comunità apostolica, come fanno
purtroppo molti istituti femminili e anche alcune congregazioni maschili,
magari con l’illusione che così i giovani impareranno subito a vivere da
religiosi, poiché la sintesi di cui abbiamo detto non è spontanea, né viene
automaticamente col tempo, ma ha bisogno di precise attenzioni formati­
ve quali solo un contesto ambientale specifico può offrire.
Né sarà sufficiente favorire, magari indiscriminatamente, esperienze
apostoliche e contatti vari con la realtà esterna, e nemmeno percorsi sco­
lastici garantiti soprattutto dalla qualità culturale della teologia insegnata;
l’elemento decisivo - ripetiamo - è la convergenza di tutto ciò, o che
tutto questo sia espressione della stessa fede ricevuta, pregata, celebrata,
sempre di nuovo scoperta, studiata, condivisa coi fratelli, trasmessa..., e
dunque tutto divenga in qualche modo mediazione formativa.

10 Cf. Vita consecrata, 67.


11 Ibidem, 68.
Molti formatori ritengono che per questa operazione di conver­
genza si presti meglio la struttura di uno Studio teologico, magari in-
tercongregazionale, esplicitamente organizzato attorno alla finalità
educativa (in genere del futuro presbitero, ma non esclusivamente),
che non quella della pur prestigiosa università pontificia, che ha
obiettivi ben più ampi ed effetti non di rado dispersivi.
Se scopo della formazione è l’unità della persona in Cristo, an­
che l’ambiente esterno deve essere parte di questa unità.
PARTE TERZA

FORMAZIONE UMANA
Il terzo elemento che contraddistingue l’azione educativo-for-
mativa è costituito, come abbiamo indicato nel primo capitolo, da «li­
na pluralità di dimensioni tra loro convergenti, nel senso di attenzioni
ad aree e contenuti diversi che devono esser presenti nel cammino
formativo».
Se si vuol formare alla scelta libera e responsabile di consacrarsi
a Dio, è necessario formare «tutta» la persona, o tenerne presente la
complessa globalità, cercando di convergere, in ogni atteggiamento
educativo, verso l ’unico obiettivo della maturazione dell’uomo, del
credente e del consacrato, senza divisioni e compartimenti stagni,
senza dispone il cammino in momenti rigidamente articolati e suc­
cessivi tea loro.
Principio facile da ammettere sul piano teorico, ma tutt’altro che
semplice da poưe in pratica. Se è vero, infatti, che la fede e il dono di
sé a Dio portano a piena maturazione la nostra umanità, non sempre è
stato COSI nella storia di un certo tipo di consacrato, più «santo» che
uomo, o in cui una qualche pur sincera tensione di santità s’accom­
pagnava con vistosi vuoti e problemi di maturità umana.
D’altro canto la consacrazione all’Eterno non è solo ecologia
intrapsichica, né igiene della mente e immunizzazione dei sensC e
neppure autorealizzazione umana tutta decisa da criteri contingenti,
ma qualcosa che suppone e poi promuove e supera radicalmente
l’umano.
Vediamo allora di capire le implicanze educative di questa con­
nessione, cercando di fare un discorso non solo teorico.

Il mistero della formazione

Potremmo paragonare le varie componenti di un processo edu­


cativo a quanto Paolo dice dell’amore di Cristo, mistero che non può
esser definito da una sola dimensione e di cui l’apostolo invita a
contemplare l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità (cf. Ef
3,18). Se la formazione, come diremo meglio più avanti, imra alla
conoscenza di quest’amore e alla con-formazione a esso, ne dovrà in
qualche modo riprodurre anche il disegno globale con le sue... linee
architettoniche.
Per noi queste linee corrispondono ad alcuni presupposti che, a
loro volta, richiamano e sottendono precisi contenuti e dinamismi.
1. I presupposti sono anzitutto i livelli o le dimensioni dell’essere uma­
no in quanto uomo, credente e consacrato, con le potenzialità speci­
fiche che egli possiede a ognuno di questi livelli: umano, spirituale e
carismatico. Tali presupposti interni all’uomo danno origine a tre
prospettive diverse e convergenti di maturazione, cui dovrebbero
corrispondere altrettanti piani specifici e unitari di intervento.
2. I contenuti riguardano assieme le aree e le proposte formative, in
corrispondenza coi singoli livelli. Rappresentano dunque il «nu­
trimento», ciò di cui si alimenta quell’essere nuovo che dovrebbe
nascere dalla formazione e pure il luogo ove deve esercitarsi. I
contenuti sono proposti daU’estemo, ma sono capaci di portare a
piena maturazione le potenzialità dei singoli livelli. Contenuti edu­
cativi sono, ad es., la conoscenza di sé e la maturità affettiva (li­
vello umano), la conformazione ai sentimenti di Cristo (livello spi­
rituale) o le varie componenti del carisma (livello carismatico).
3. I dinamismi, infine, corrispondono ai diversi itinerari educativi
che in qualche modo saldano fra loro obiettivi e metodo, dimen­
sioni e contenuti, intervento dall’esterno e dall'interno. Il metodo
per la conoscenza di sé e per imparare a controllare le proprie
debolezze è un dinamismo tìpico del primo livello, ad esempio,
mentre l’esperienza quotidiana della centralità e circolarità
dell’atto di fede è dinamismo del secondo livello, ecc. Ognuno
può ben vedere la necessità di cogliere e proporre questi metodi
nel cammino formativo: a che serve, diversamente, conoscere e
far conoscere perfettamente il fine educativo se non si sa poi co­
me condurvi? Quando manca o non è precisato il metodo la for­
mazione rischia seriamente di divenire «frustrazione».
In realtà, è come se i presupposti, coi loro livelli e le risorse cor­
rispondenti, rimandassero all 'io attuale (ciò che la persona è già, e
che va comunque «e-ducato», tirato fuori), i contenuti all’io ideale
(ciò che deve e vuole diventare, e che va «formato»), mentre i dina­
mismi aiuterebbero a viver bene, quasi colmandola o comunque per-
coưendola ogni giorno, la distanza o la relazione tra le due strutture
con l’indicazione di una pedagogia adeguata: qui l’interlocutore è l’io
relazionale, che va «accompagnato» in questo cammino pedagogico
in due direzioni, verso la capacità di relazione intrapsichica (tra io
attuale e io ideale) e verso la capacità relazionale interpersonale (con
la figura del formatore).
Ancora, i presupposti (con le loro dimensioni e potenzialità),
corrispondono a quelli che potremmo chiamare gli elementi architet­
tonici, ovvero le strutture portanti del progetto formativo; mentre
contenuti e dinamismi rappresentano gli elementi ermeneutici, che ci
aiutano a capire e spiegare il funzionamento delle componenti, la re­
lazione dinamica tra di loro.
Presupposti e dimensioni, contenuti e dinamismi devono esser
dunque ben precisati, poiché costituiscono, per natura loro, ciò che
stimola e rende mirato, garantisce e verifica il lavoro formativo. È
proprio dall’insieme ben coordinato tra presupposti, contenuti e di­
namismi che viene fuori il cosiddetto modello antropologico educati­
vo, che ogni formatore deve aver ben definito e tener sempre presen­
te. L’assenza 0 l’indefinitezza, l’incoerenza o la disarmonica compo­
sizione interna del modello determinerebbero conseguenze molto ne­
gative nella prassi formativa, rendendola vaga o contraddittoria, sen­
za criteri né fini precisi oltre le formule copiate dai documenti e ri­
portate in una inutile Ratio formationis.
Vediamo, allora, in questi tre capitoli, la prima dimensione,
quella umana.

Tav. 3: Componenti form ali del modello pedagogico

Dimensione Componenti
Livello dell’io
pedagogica strutturali
Elementi
Presupposti Io Attuale Educare
architettonici
Contenuti Io Ideale Formare Elementi
Dinamismi Io Relazionale Accompagnare ermeneutici
Capitolo ottavo

LA DIMENSIONE UMANA

Tornando all’immagine paolina delle dimensioni del mistero, si


potrebbe dừe che quella umana rappresenta la profondità, ovvero le ri­
sorse di energia che l’uomo in quanto tale possiede, anche quando per
vari motivi tali ricchezze sono meno evidenti o sembrano dal soggetto
stesso ignorate, e vanno dunque «recuperate» in profondità. Tali morse
sono anche gli elementi architettonici della maturità umana.

1. Presupposti

La formazione parte proprio da questi presupposti e dalla presa


di coscienza, nel soggetto, del prezioso potenziale di cui dispone, e
dalle conseguenti sfide e responsabilità che gliene derivano: tali ri­
sorse costituiscono, infatti, una potenzialità che potrebbe anche non
esser messa in atto o esser impiegata in modo non costruttivo.
Questi presupposti li potremmo concentrare attorno ai seguenti
punti. La persona umana
a) è un essere cosciente e libero e chiamato a crescere sia nella co­
scienza che porta alla padronanza di sé come nella libertà che
apre a responsabilità;
b) è una realtà divisa in se stessa e attratta in direzioni opposte,1
progressive e regressive (es. virtù e peccato, amore e egoismo,
conscio e inconscio, libertà e schiavitù ecc.), e si realizza nella
misura in cui sceglie la polarità progressiva senza pretendere di
cancellare quella negativa;
c) è chiamato a vivere la relazione interpersonale come luogo della
realizzazione di sé per quel che riceve e dona agli altri;
d) è capace di trascendersi fino al punto di aprirsi al divino, sentir­
sene amato e amarlo.
Possono sembrare rilievi un po’ scontati. In realtà mi chiedo, ad
es., quanto vi sia, alla base della formazione che diamo, la consape­
volezza lucida della divisione interna all’uomo (o quante volte si dia

1Cf. Gaudium et spes, 10: EV 1/1350.


ingenuamente per scontata una certa bontà o una certa libertà); e non
sono poi così tanto sicuro che la relazione interpersonale sia ovunque
e comunque considerata luogo di realizzazione dell’io, e non di sem­
plice e facoltativa esercitazione virtuosa.
È inoltre evidente, in questo disegno, ma non sempre nella pras­
si, la progressiva e lineare apertura dell’io a se stesso, deirio al tu, fi­
no a giungere al Tu di Dio, che dunque suppone il percorso prece­
dente, con ciò che significa sul piano dei contenuti e dei dinamismi.

2. Contenuti

Passiamo ora agli elementi ermeneutici. Se i presupposti legati


alla dimensione umana sono i quattro ora visti, la formazione dovrà
fare un certo tipo di proposta.

a) Conoscenza di sé
Anzitutto l’obiettivo-base di un cammino educativo è la cono­
scenza di sé. Tale conoscenza, come ben sappiamo e spesso ripetia­
mo, deve portare il giovane, come obiettivo primo, all'identificazione
del proprio problema centrale o di ciò che gli impedisce di far dono
libero e totale di sé. Ma non solo.
La conoscenza di sé è un’operazione globale di assunzione e in­
tegrazione della propria vita, del proprio passato con le sue compo­
nenti positive e negative, per riconoscere e apprezzare le prime, e ca­
ricare di senso le seconde. Scopo, dunque, di questa lettura del vis­
suto non è una semplice registrazione di dati utili per conoscere radici
e antefatti del presente o per cercare di riconciliarsi con certi eventi o
fantasmi del passato, ma il tentativo di scoprire il significato unico e
irripetibile della propria storia, o di pervenire a una conoscenza stori­
ca di sé. All'inizio del cammino educativo in modo globale e generi­
co, poi in modo sempre più puntuale e aderente al vissuto.
Si tratta di un significato che è nascosto in ogni evento, a volte
chiaro e subito leggibile, altre volte più difficile da cogliere, altee
volte ancora da attribmre in modo libero e responsabile a eventi che
sembrerebbero solo negativi.
Ad esempio, uno potrebbe semplicemente lamentarsi nei con­
fronti della vita (o del «destino») per aver vissuto un’infanzia di
stenti e povertà, ma potrebbe anche ringraziare il cielo per avere spe­
rimentato da subito certe asperità della vita che poi possono rinforza­
re il carattere o educare a cogliere certi valori... Nel primo caso c’è il
rifiuto del passato, nel secondo c’è la scoperta in esso di un signifi­
cato che potrebbe essere rilevante per la vita presente e futura; e an­
cora, rifiutando una parte della propria storia si rifiuta una parte di sé,
accogliendola nel suo senso più profondo si accede alla conoscenza
piena dell’io.
Non è operazione semplice, ma è importante che il giovane vi
venga introdotto per capire che il senso del suo io è nascosto nella
sua storia, e che questa storia non è un dato semplicemente da suture,
fatto di episodi ormai incancellabili, o - nel migliore dei casi - dà ac­
cettare, ma è mistero da scrutare e presenza da scoprire. E così la di­
mensione umana si apre spontaneamente e piano piano a una dimen­
sione ulteriore, mentre la vita e la storia diventano il luogo ove impa­
rare a maturare un atteggiamento sempre più adulto e creativo, ancor
più contemplativo e capace di scoprire le tracce del mistero nel pro­
prio passato.
In altre parole, l’obiettivo non è solo la conoscenza di sé (e dei
propri guai), ma quella conoscenza o scoperta di una storia personale
che segna l’inizio o la premessa di un rapporto del tutto nuovo con
Dio, non più solo teorico o sulla base del sentito dire, ma storico e
costruito sulla propria esperienza di vita o su una teofania assoluta-
mente personale, ancora oscura o non del tutto chiara, ma in grado di
svelare assieme il nome di Dio e dell’io.2Forse non è ancora fede ve­
ra e propria, ma almeno la prima tappa di essa, con i dubbi e la fatica
che questa operazione, quando è genuina, comporta.
Ovvio che tale esercizio della memoria credente dovrà esser an­
cora e sempre ripreso e approfondito nelle varie fasi educative, ma
deve in ogni caso esser considerato tìpico della dimensione umana,
perché la fede nasce autentica solo quando prende le mosse da
un’esperienza di vita e a essa ritoma; anzi, pnma di tutto è fede
nell’esistenza stessa e in ciò o in chi si nasconde in essa. Così come
anche la mistica e la capacità di contemplare, se non sono intrise di
storia personale e vissuta, sono false.
Il giovane va addestrato e deve esercitarsi a questo confronto
attento e rispettoso con la sua storia, con il «roveto ardente» della sua
esistenza, che arde di una presenza divina mai «consumata», ovvero
mai completamente riconoscibile.
La maturazione umana, da questo punto di vista, può esser con­
siderata come la prima tappa della maturità credente.

2 Su questo aspetto cf. A. CENCINI, La storia personale, casa del mistero. Indi­
cazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997.
Il secondo contenuto formativo della prima dimensione è costi­
tuito da una proposta di maturità umana, del cuore, della mente e
della volontà, strettamente legata all’operazione storica appena av­
viata. Tale proposta è conseguenza di essa e come tale va presentata,
a sottolineare quell’esigenza intrinseca di santità che sale discreta ma
ferma dall’interno della propria storia.
La maturità non è un pacchetto di buone azioni o intenzioni, ma
l’adesione inevitabile al richiamo irresistibile di quella verità, bellez­
za e bontà che l’individuo ha imparato a leggere e ritto va attorno a sé
e particolarmente dentro i suoi giorni, come parte di un dono sor­
prendente. Né tale maturità è decisa unicamente da una norma esterna
e oggettiva, ma dalla scoperta, semmai, che questa norma è scritta an­
cor prima nel cuore e nella mente, nel vissuto e nelle esperienze. E
ovviamente va decifrata con cura, senza distorsioni percettive sog­
gettive.
Sarà, allora, una maturità della mente, che impara a scoprire un
po’ per volta un misterioso disegno logico e coerente snodarsi lungo i
suoi giorni, e dentro questo disegno coglie la verità della vita e della
propria persona.
Sarà ancora una maturità del cuore, un cuore che batte attratto
dalla bellezza di questo progetto che rivela il soggetto a se stesso, e lo
fa partecipe di una bellezza che viene dall’alto.
Sarà infine una maturità della volontà che decide di far suo que­
sto modello vero e bello, come un dono che rende buona la vita e la
persona stessa.
Ma ciò che è importante è la coerenza e linearità della proposta
educativa: se il giovane è stato educato a leggere nella propna storia
il progetto personale, o ha visto emergere lentamente la trama della
vocazione dal suo vissuto, è sempre lì che va educato a cogliere
l’appello della verità-bellezza-bonta della vita. E se dentro il passato
sta imparando pazientemente a riconoscere la presenza di Dio,
quell’appello si salderà sempre più spontaneamente con l’invito dello
Spirito a fare ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto. Senza bisogno
di far entrare in gioco altri elementi ascetici o di ricorrere a particolari
argomenti per convincere o forzare ad agire in un certo modo.
Nella formazione si deve esser molto logici e consequenziali at­
torno a un nucleo essenziale veritativo, evitando di disperdersi in
mille sollecitazioni, che finiscono per confondere il soggetto e toglie­
re forza all’azione educativa. D’altronde nulla è più convincente di
ciò che uno scopre nella sua vita come ricco di senso e fonte di verità
e di futuro per lui.
c) Il percorso della libertà
Terzo passaggio: dalla storia personale alla maturità di cuore-
mente-volontà, e da questa alla libertà, la libertà di essere quel che il
soggetto è chiamato a essere e che, a questo punto, dovrebb’essergli
abbastanza chiaro. Libertà è porsi di fronte all’evidenza storica di un
dono, percepirne la verità e l’attrazione; è decidere di prender posi­
zione dinanzi a esso.
È il dono e la coscienza del dono a suscitare libertà. E quanto più
quella coscienza suscita gratitudine, com’è normale di fronte al dono,
tanto più vi sarà la libertà di donarsi o di concepire la propria vita
come «necessaria» gratuità. Dalla gratitudine alla gratuità: è il per­
corso tipico della libertà.
Non ci può esser libertà al di fuori di questo percórso storico che
porta a scoprire e poi a decidere di vivere la vita come dono; né pos­
sono dữsi liberi cuore-mente-volontà di chi non avverte sufficiente­
mente il fascino di ciò che è vero-bello-buono. La libertà, in tal sen­
so, è sensibilità educata, capacità di commuoversi dinanzi al bello e
di lasciarsi abbagliare dallo splendore della verità così come brilla
anche nel piccolo frammento della propria storia. Ed è un legame
prezioso quello che si stabilisce tra l’esperienza storica, la capacità di
lasciarsi seduưe da quel fascino e la libertà di rispondervi: e proprio
questa è la maturità piena, su un piano umano che s’apre sempre più
alla prospettiva della fede.
Ed e già anche, allora, un itinerario vocazionale e formativo,
credente e carismatico.

d) La libertà di fidarsi
Ma la libertà è comunque uri rischio, e questo spaventa oggi
molti giovani. Soprattutto diventa rischiosa quella liberta che compie
il percorso appena indicato, che sfocia nell inevitabile decisione di
fare della propria vita un dono gratuito...
Proprio qui, ancora una volta, diventa decisiva la lettura del pas­
sato. Quando essa è fatta in modo non superficiale e il soggetto è
aiutato a percepire anche ciò che non appare a prima vista o sembra
addirittura negato dall’evento, dovrebbe consegnare al giovane que­
sta verità e certezza:

«la vita è stata buona con me, mi ha accolto, voluto bene, curato, perdo­
nato, e dato molto più di quanto avrei potuto pretendere, molto al di là
dei miei meriti... E allora, se il fatto stesso di esistere è segno che una
volontà buona mi ha preferito alla non esistenza, posso correre il rischio
di non pensare troppo a me stesso; se sono già stato amato, non ho bi­
sogno di andare a cercare e conquistare segni di affetto; se ho già rice­
vuto tanto, posso e devo preoccuparmi di dare; se la vita è stata buona
posso sperare che continuerà a esserlo. Mi posso fidare...»

Il formatore deve far entrare il giovane in questa logica, logica


realista, perché recupera una verità che è alla base della vita di tutti
(anche di chi ha avuto molto da soffrire nella sua storia), ma logica
anche ottimista, di speranza, di apertura al futuro.
Qualsiasi sia stato il suo passato, ogni giovane deve poter arriva­
re a possedere in modo definitivo la certezza del bene ricevuto, di un
bene più forte di ogni male e di ogni limite pure presente nel vissuto
umano.
È infatti da essa che deriva la fiducia, quella fiducia che è
espressione massima della libertà, da un lato, come un suo frutto, e -
dall’altro - è la base umana da cui nasce poi la fede, quasi la sua ma­
teria prima, il suo elemento costitutivo. Fiducia in Dio e nella sua
paternità-maternità, ma anche nei confronti della vita, del futuro, de­
gli altri, della comunità, di se stessi... Fiducia come abbandono e
consegna di sé, come superamento di paure e diffidenze, come corag­
gio di nschiare e di chiedersi il massimo...
Grazie alla fiducia, e a partire da essa, può cominciare il cammino
vero e proprio spirituale. Se, diversamente, non scatta la fiducia, la vita
del giovane non decolla mai, ma si accartoccia su di sé, chiudendosi
progressivamente a ogni apertura e superamento. Tanto meno vi potrà
essere cammino formativo che, per natura sua, è basato sulla fiducia.
Ma è necessario vedere, allora, i dinamismi capaci di attivare
questi contenuti o questo tragitto umano verso la fiducia.
Capitolo nono

LA VITA COME STORIA,


LA FEDE COME MEMORIA

Per dinamismo della formazione umana intendiamo quell’itine­


rario educativo che consente di raggiungere l’obiettivo proprio di tale
formazione, ovvero una conoscenza di sé, da parte del giovane, che
giunga alla libertà della fiducia e della consegna di sé, come abbiamo
prima illustrato.
Tale conoscenza non è una conoscenza qualsiasi, statica e limi­
tata all’oggi, ma storica e frutto di una ricognizione storica del pro­
prio vissuto, dalla quale emergano sia la parte vulnerabile della per­
sonalità, che le risorse positive, ma dal quale emerga soprattutto non
solo quello che è, o che è stato, ma - paradossalmente - anche quello
che è chiamato a essere, il suo volto ideale.
Proprio alla possibilità di operare questa ricognizione sono legati
un certo avvio dell’adesione credente, e una prima interpretazione
della maturità globale umana, sui piani affettivo, intellettuale e mo­
rale, che porti la persona a fare libero dono di sé nella fiducia e
nell’ottimismo.

1. Una storia a pezzi

Si fratta allora di imparare anzitutto a leggere la propria storia.


Cosa che è tutt’altro che semplice e scontata a giudicare dal senso
della storia che mostrano di avere persone consacrate ormai avanti
negli anni.
A volte succede di incontrare religiosi/e, magari alla ricerca di
aiuto, che... non sanno raccontare la loro storia, e non per un difetto
di capacità narrativa o di memoria, ma perché semplicemente non la
conoscono, non sono mai stati messi in condizione di fare questa ope­
razione in modo sistematico e mirato, alla luce di precisi criteri di
lettura 0 di illuminanti categorie interpretative. E così, richiesti di
esporre il loro vissuto, vengono fuori con segmenti di storia senza
continuità, quasi spezzoni di episodi che restano monchi o piccoli
quadretti di vita privi di séguito; raccontano fatti, ma non sanno far
emergere un significato che li leghi tra loro, ricordano eventi, ma
senza lasciar trasparire un nesso logico che li connetta organicamen­
te, propongono aneddoti, come schizzi che non si ricongiungono in
un disegno compiuto e magari concepito-disegnato da Dio, mettono
insieme” quasi alla rinfusa, una serie notevole di dati, sequenze di vi­
ta, incontri, realtà positive e negative..., ma come fossero dati grezzi,
su cui non ha mai lavorato un’intelligenza illuminata dalla fede.
E forse, proprio per questo, sono anche persone che non ricorda­
no neppure bene il loro passato, che rischia così di svanire nella neb­
bia di un tempo ormai trascorso e che rende tutto indistinto e senza
vita; o lo ricordano in modo selettivo (o solo il negativo o solo il po­
sitivo), o in modo estrèmamente vago, ponendo ai suoi inizi una ne­
bulosa e genericamente buona volontà di Dio, ma senza crederci un
granché.
Normalmente una vita così a brandelli, svela pure una persona
disorganizzata interiormente, con seri problemi di maturità umana,
soprattutto perché costui non sa chi è, dato che il passato non gli con­
segna alcun progetto già abbozzato che chieda di essere portato a
compimento, ma neppure gli consegna un’immagine realistica e inte­
grata di sé, con le sue luci e le sue ombre, con un io attuale e un io
ideale.
È importante e decisivo, allora, impegnare fin da subito il giova­
ne in questa ricognizione storica, non nel senso di un semplice diario
da scrivere che riassuma in sintesi il vissuto, ma come vera e propria
ri-assunzione, che ne scopra il senso profondo e in qualche modo an­
che attribuisca un significato a certi eventi; non è forse vero che al­
cuni fatti del passato ricevono senso dal futuro?
E qui entra in scena la funzione di una facoltà che normalmente
non è oggetto di particolare attenzione educativa e che non è neppure
considerata una virtù: la memoria.
Una buona memoria non è semplicemente un dono 0 un dato
della natura, ma parte della maturità generale della persona, e frutto
di una formazione della capacità non solo di ricordare, ma di «fare
memoria». Né esiste un solo modo di ricordare, come se il rammenta­
re episodi fosse pura operazione statica e meccanica. Ricordare non è
semplice rimpianto, o pedante lamentazione, né sterile conservazione,
o rischio della nostalgia, che sarebbe una malattìa, come pensavano i
greci, ma significa «nportare al cuore» il nostro passato. E questo de­
ve farlo ogni uomo, perché l’essere umano, come scriveva H. Boll, «è
nato per ricordare»
Nell’uomo esistono due memorie: quella dei fatti e quella delle
emozioni a essi legate: è la memoria affettiva. È importante dare at­
tenzione, anzitutto, a questa memoria, che rappresenta il residuo
emotivo delle esperienze esistenziali, specie delle più significative.
Noi, infatti, possiamo dimenticare gli avvenimenti, ma non le emo­
zioni da essi determinate o a essi in vario modo connesse.1
Non è sufficiente che un formatore registri accuratamente cosa è
successo nella vita del giovane, ciò che conta è l’emozione depositata
dagli eventi nella sua psiche, emozione che può esser positiva o ne­
gativa, di accettazione o di rifiuto, di paura nei confronti del futuro o
di ottimismo, di risentimento o di riconciliazione, di voglia di vendi­
carsi o di superamento della tensione...
Un giovane può aver avuto un rapporto difficile con la figura
patema; sarà importante, allora, verificare cos’è rimasto nel suo cuore
di questa esperienza, presupponendo che un qualche residuo emotivo
di essa sia senz’altro rimasto. Anzi, è probabile una qualche coưela-
zione tra questa esperienza primordiale e la vita successiva, e quella
presente. La memoria affettiva, infatti, tende a riattivare l’emozione
primitiva quando si ripresentano situazioni analoghe a quelle che
hanno originato l’emozione; così, il nostro giovane potrà reagire in
maniera sospettósa o difensiva o aggressiva nei riguardi dei superiori,
o tenderà a vedere sempre e ovunque espressioni di autoritarismo, o
potrà soffrire in modo esagerato il voto di obbedienza, o avere il pal­
lino fìsso della libertà o dell’autonomia, e questo soprattutto perché si
porta dentro un’esperienza primordiale così negativa da aspettarsi lo
stesso atteggiamento negativo da parte delle varie «figure paterne»
che egli incontrerà successivamente nella vita, o da disporsi con il
medesimo atteggiamelito conflittuale nei confronti di persone in auto­
rità o che comunque richiamano, per rassomiglianza fisica o simboli­
ca, l’immagine paterna. Oppure - tra la rivendicazione o l’identifi­
cazione con l’aggressore - tenderà lui stesso a esser autoritario o so­
gnerà di divenire superiore e aver potere...
Il tutto, naturalmente, senza la minima coscienza di questa cor­
relazione; è come fosse una memoria passiva, ma che di fatto incide
sulla vita e sulle relazioni perché di per sé scatta automaticamente.
Secondo i dati della ricerca, infatti, circa il 67% di giovani religiosi/e

1 II concetto di «memoria affettiva» è di M. Arnold: cf. M.B. A rn o ld , Emotion


and Personality, New York 1960. Per le implicanze di questo concetto nella dinamica
formativa cf. A . CENCINI, Con amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consa­
crato, Bologna 1996, 128.
in formazione stabilisce relazioni trasferenziali, ovvero vive nel rap­
porto coi superiori e con i pari età un tipo di emozioni molto simili a
quelle vissute un tempo all'interno della cerchia familiare.2
Chissà quante simpatie o antipatie hanno quest’origine, senza
che il soggetto lo sospetti minimamente! Anche il rapporto con Dio,
immagine paterna per eccellenza, potrebbe essere condizionato, in
negativo o in positivo, dalla memoria affettiva; nulla di strano!
Sarà dunque indispensabile che il formatore aiuti il giovane an­
zitutto a conoscere ed esplicitare il tipo di memoria affettiva che si
porta dentro, nel cuore e nella mente, e a verificare quanto questa
memoria incida sui rapporti interpersonali, sulla vita spirituale, sul
modo di andare incontro alla vita e di farsi aspettative órca il futuro e
il proprio molo vocazionale, drca la comunità e l’apostolato. Tale ti­
po di verifica è senz’altro il primo passo per limitarne l’incidenza,
soprattutto nei casi in cui il condizionamento è negativo.
Ma tale memoria, in ogni caso, non costituisce l’unico modo di
ricordare.

3. Memoria biblica

C’è anche la memoria degli eventi che sono accaduti nel proprio
passato. Tale memoria, però, non è semplice registrazione di dati, ma
- almeno nella persona matura e adulta - significa un’organizzazione
di questi dati attorno a una verità capace di spiegare dati ed eventi.
Ovviamente tale verità sarà legata ai convincimenti della perso­
na, al suo credo, religioso o filosofico che sia. Così, se uno crede al
destino riteưà che quel che gli è successo è dovuto semplicemente a
questa forza impersonale e indefinibile, o a quella dea bendata che è
la fortuna (e più spesso al suo contrario, alla sfortuna), o se crede
semplicemente in se stesso e nelle sue risorse attribuirà tutto a sé e ai
suoi muscoli.
Ma se crede nel Dio di Gesù Cristo, allora la vita passata assume
tutt’altro significato e i singoli avvenimenti diventano frammenti di
un disegno misterioso e pur progressivamente chiaro, ma in ogni caso
bisognoso di attenta e continua lettura. E la sua memoria diviene ce­
lebrazione della continuità di tale disegno nell’oggi da essa stessa ge­
nerato, alimentato e spinto ad andare oltre.

2 Cf. L.M. R u lla - F. IMODA - J. RIDICK, Antropologia della vocazione cri­


stiana. 2. Conferme esistenziali, Casale M. 1986, 149.
È la memoria biblica, memoria del credente che legge nella sua
storia gl’interventi di Dio che, come un tempo ha amato, protetto,
perdonato, legato a sé, sedotto, salvato... Israele, così ora fa con ogni
creatura. Questa memoria è, infatti, proprio la memoria di Israele, che
ricordava credendo e credeva ricordando.
Per questo non è semplice memoria, ma un «fare memoria», per­
ché implica non solo il conservare nella mente gli eventi vissuti, ma
anche lo scrutarne profondamente il senso, a volte anche oltre
l’apparenza, e il vederne il collegamento con altri fatti, contempora­
nei e successivi, che ne lascino emergere il significato più vero e coe­
rente non solo con la sua fede, ma anche con il séguito della vita.

«Spesso, infatti, - annota il card. Newman - ci capita di scoprire la pre­


senza di Dio nella nostra vita solo dopo, quando guardiamo indietro»,3

e scopriamo - come dice Barsotti - che

«non le occasioni straordinarie e gli avvenimenti storici, ma l’umile


vita di ogni giorno è sacramento di D io».4

È memoria attiva, questa, e creante responsabilità nel soggetto,


poiché se è vero che l’individuo può non esser responsabile del suo
passato, egli è del tutto responsabile dell’atteggiamento che al presente
assume di fronte a esso. Fare memoria riconoscendo l’agire di Dio è un
modo di esercitare questa responsabilità; insegnare al giovane in for­
mazione a leggere così la sua vita, o - meglio ancora - a scriverla, vale
più di chissà quali e quante riflessioni teoriche sulla presenza e provvi­
denza di Dio e sulla libertà e responsabilità dell’uomo.
Quel giovane che ha vissuto un rapporto negativo con la figura
patema, potrebbe semplicemente lamentarsene e cercare comprensio­
ne o sentirsi autorizzato a sfogare in qualche modo la sua aggressivi­
tà, ma potrebbe anche scoprire un modo diverso di considerare questo
evento, leggendovi magari la radice della sua debolezza centrale, ciò
che l’aiuta ora a capữe il perché di certe sue reazioni apparentemente
strane e antipatie inunotivate, ciò che dovrebbe essere oggetto del suo
cammino di conversione, la strada lungo la quale il Signore gli sta ri­
velando il suo volto paterno.
Ma come può avvenire questo cambio di prospettiva, o questa
assunzione di responsabilità nei confronti del proprio passato?

3 Cit. da G. R avasi, «L’aiuto», in Avvenire, 3 set 1996, 1.


4 Cf. D. BARSOTTI, in Feerici 12(1997), 68.
n segreto è presto detto, deve avvenire una sorta di sintesi tra le
due memorie: la memoria biblica deve diventare anche affettiva,
mentre quest’ultima deve lasciarsi toccare, forse, addirittura cambiare
e guarire dalla memoria biblica.
In concreto: il ricordare ciò che Dio ha fatto non può essere ope­
razione solo intellettuale di fronte alla quale il cuore resta sostanzial­
mente freddo, ma operazione più globale che, mentre abbraccia tutta
la vita, lascia anche una traccia emotiva intensa, e deposita nel cuòre
e nella mente del giovane la certezza che come Dio è stato padre e
madre nel passato, così continuerà a essere nel futuro. In tal senso,

«il passato del credente è come una lampada posta all’ingresso del­
l’avvenire»,5

lampada che getta una luce che abbraccia tutta la storia futura
dell’individuo, e dona dunque serenità e voglia di vivere che diviene
pure contagiosa.
Se la memoria biblica non è anche affettiva, diventa solo cultura
che non serve per la vita, o registrazione di dati che non commuovo­
no; è neutra, non ispira alcuna gratitudine né dona fiducia, non fa na­
scere libertà né conosce gratuità.
Ma, d’altro canto, la memoria affettiva deve confrontarsi con la
memoria biblica, altrimenti è solo emozione soggettiva e puramente
istintiva, non sempre evangelizzata e, se negativa, spesso anche senza
speranza.
Ora, nella vita passata di ciascuno di noi vi sono anche eventi
negativi (lutti, fallimenti, ingiustizie subite, peccati...), che potrebbero
aver lasciato una traccia emotiva negativa pronta a riemergere in de­
terminate circostanze (così ci dice la psicologia), come una ferita ri­
masta aperta o che basta molto poco per far ancora sanguinare. Il
«credente dalla buona memoria» sa che pure in queste situazioni ne­
gative è nascosta una misteriosa presenza divina, sa che anche se sua
madre l’avesse dimenticato «io - dice il Signore - non ti dimentiche­
rò mai» (Is 49,15), sa che anche l’esperienza della propria debolezza
può diventare esperienza di Dio, del Dio ricco di misericordia, e che
perfino il passato più sfortunato è lì a raccontare che Dio ha dise­
gnato la creatura sulle palme delle sue mani (cf. Is 49,16); sa che Dio,
il Dio-vasaio, adopera a volte anche lo scalpello, e che particolari av­

5 R. L a m e n n a i s , cit. in Se vuoi 4(1997), 54.


venimenti di difficile interpretazione sono la sua mano che lavora le
nostre anime e plasma in noi i sentimenti del Figlio... Lo sa non tanto
perché lo crede a occhi chiusi, ma perché tutto ciò è nascosto (e pure
evidente) nella sua storia, o perché la memoria aiuta l’intelletto, o
perché ha imparato a ricordare da credente e a credere... a occhi ben
aperti.
E allora anche l’emozione negativa legata alla memoria affettiva
può esser sanata alla radice. Lentamente e impercettibilmente, ma in
modo reale. Grazie a un accompagnamento che fin dal tempo della
prima formazione educhi a questo tipo di lettura della vita, senza
fermarsi all’obiettivo dell’accettazione di sé e del proprio passato.
Anzi, in ogni fase formativa, dal prenoviziato alla preparazione
alla professione perpetua, il giovane dovrebbe essere stimolato a fare
questa operazione psicologico-spirituale; non solo a leggere, ma pos­
sibilmente a scrivere ciò che Dio ha fatto nella sua storia, per poi tor­
narvi sopra anche successivamente nelle fasi della vita e della forma­
zione permanente, per correggere, aggiungere e approfondire con co­
noscenze ulteriori, per cogliere la coerenza del disegno e scoprire
sempre più chiaramente il progetto di Dio e il proprio nome e, assie­
me, anche ciò che s’oppone alla realizzazione di tale progetto divino
su di sé.
Forse è proprio questa operazione quanto mai salutare a costitui­
re l’oggetto materiale ma pure formale della formazione permanente,
il suo filo rosso che ne lega le fasi successive, come un compito mai
terminato, che consente al tempo stesso di appropriarsi sempre più
della vita e del proprio passato, e rinforzare così sempre più il senso
dell’io, e assieme arricchisce la personalizzazione soggettiva della
fede.
E così, più uno invecchia, più diventa capace di «ricordare», di
ricordare quel che Dio ha fatto nella sua storia, in ogni frammento di
essa, e apprende l’arte, come dice Peyretti, di «ricucire i pezzi» e di
scorgere «la bellezza e l’armonia dei brandelli».6 È grande sapienza
non gettar via alcun brandello di esistenza vissuta, ma compone e ri­
compone continuamente in un disegno nuovo quanto ci è stato dato
di vivere. È grande pedagogia insegnare a farlo presto, fin dalla prima
formazione.
Allora si sta facendo realmente formazione sul piano umano e
non solo umano, a partire dalla propria realtà, che è quella più con­
vincente e provocante. Mentre la propria storia diventa sempre più il
luogo dell’incontro con Dio e con se stessi.

6 E. PEYRETTI, cit. da G. RAVASI, «Ricucire i pezzi», in Avvenire, 12 ago 1997, 1.


Capitolo decimo

MATURITÀ UMANA

Il lavoro di riassunzione del proprio passato, indicato come me­


todologia o dinamismo tipici della dimensione umana, dovrebbe con­
durre a una nuova percezione di sé e a un nuovo modo di porsi di­
nanzi all’evento della vita e al proprio ideale anche semplicemente a
livello umano.
Potremmo dire che l’esercizio della lettura-scrittura della propria
storia dovrebbe portare la persona a rileggere e riscrivere anche la
propria identità, all’interno di una concezione diversa, più ricca e
coerente, della maturità umana. L’operazione del ricucire i pezzi non
vuol dire solo mettere assieme i cocci, come se nel passato vi fossero
solo disfatte da registrare e accettare, ma cogliere e dare un signifi­
cato che riesce a tener assieme anche lẹ contraddizioni e asimmetrie
della vita, dando coerenza e unitarietà al tutto, e rinforzando indub­
biamente anche la propria identità. È il primo e forse più sostanzioso
frutto di questa fatica.
Cerchiamo allora di entrare in questa concezione singolare e
nuova della maturità umana.
Non si tratta di stilare la solita lista di criteri di maturità umana,
ma di capire, ancor prima, cosa significhi esser uomo che realizza in
pieno la sua umanità, con le risorse e limitazioni che la contraddistin­
guono, consacrandosi a Dio.
E dunque si fratta di comprendere quali dovrebbero essere - sul
piano della propria umanità - le premesse che, nelle diverse stagioni
del cammino formativo, consentono di cogliere sempre più chiara­
mente il disegno divino su di sé e di rispondervi con animo libero e
generoso, per poi scoprire come queste premesse umane giungano a
piena maturazione grazie all’interazione con le altee dimensioni del
cammino formativo.
Non ha più tanto senso, credo, pensare alla dimensione umana
come ad alcuni elementi di sanità psichica o a un insieme di capacità
relazionali, o come a un settore di pertinenza esclusiva dello psicolo­
go staccato dagli altri settori: la dimensione umana è parte integrante
della formazione cristiana e carismatica, non è semplicemente posta
accanto a essa (prima o dopo), ma la contiene e ne è contenuta al
tempo stesso; interagisce profondamente con essa al punto non solo
di risultarne inseparabile, ma di rendere praticamente impossibile
continuare a distinguerle, almeno nell’uomo maturo.
L’uomo nuovo, di cui parla Paolo, è totalmente illuminato dalla
sapienza dello Spirito, ma la luce è riflessa e risplende nella sua uma­
nità, resa nuova, ma sempre umana, anzi, sempre più autenticamente
umana. Nel senso, dunque, più bello e ampio del termine, siamo con­
vinti che se un consacrato è davvero uomo, e una consacrata davvero
donna, riesce a rivelarsi immagine del mistero santo di Dio. La di­
mensione umana, allora, intesa in tal senso, deve essere oggetto di
attenzione esplicita da parte del formatore.
Il lavoro, inolữe, della memoria credente, memoria biblico-af-
fettiva, non è mai fatto una volta per tutte; e non solo perché è fatica,
abbiamo detto, per natura sua mai terminata, ma perché può essere
idealmente connessa con le ừe fasi classiche della formazione religio­
sa, del prenoviziato, del noviziato e del postnoviziato. Questo recupe­
ro della propria storia, infatti, potrebbe e dovrebbe offrire la motiva­
zione decisiva che porta all’opzione iniziale vocazionale, e poi alla
scelta di consacrarsi e infine alla decisione radicale di appartenere per
sempre al Dio della vita. La vita stessa, allora, diventa come un con­
tinuo scavare il senso della presenza e dell’azione di Dio in essa, ed
esattamente da questo scavare emerge un certo modo di concepire la
maturità della propria umanità.
Vediamo brevemente questo «modo», in corrispondenza con i
contenuti, già visti nel capitolo ottavo, della dimensione umana.

1. Dalla sincerità alla verità

Anzitutto l’uomo maturo conosce se stesso, e in particolare la


correlazione esistente tra quello che era e quello che è, 0 tra l’io che è
al presente e quello che potrebbe e dovrebbe essere, col positivo e
negativo che fan parte dell’avventura di ogni vivente. Ne abbiamo già
parlato.
Chiariamo però ora che non basta essere sinceri in questa opera­
zione, ma occoữe essere veri. La sincerità è soggettiva, significa la
libertà di riconoscere e dire a se stessi (e poi agli altri, se necessario)
quel che si prova dentro, quel che ognuno vede nella sua storia e pen­
sa di sé. È importante avere questa libertà, ed è chiaro che solo il di­
retto interessato può avere quel certo tipo di conoscenza che deriva
dal sentire in sé una certa vibrazione emotiva. Ma questo è solo il
primo passo. Anzi, al tempo stesso, proprio questo è ciò che rende la
sincerità debole e ambigua, paradossalmente, 0 per lo meno incoili'
pietà ai fini della conoscenza di sé; c’è chi si vanta di essere sincero e
di non aver peli sulla lingua, e non sa che la miglior sincerità non ba­
sta per essere veri, né sospetta quanto distante possa essere la sua sin­
cerità dalla verità di quel che è.
La verità, infatti, è oggettiva, è la libertà di cogliere non solo
l’emozione, che di solito è facilmente riconoscibile, ma anche ciò da
cui essa deriva, la sua radice vera, che non sempre è altrettanto evi­
dente, anzi, a volte è addứittura inconscia, e pure rappresenta qualco­
sa di reale, che condiziona la vita senza essere spesso condizionata da
alcun controllo. Ma in ogni caso è comunque rintracciabile nella pro­
pria storia, passata e presente (se Freud, infatti, diceva che i sogni so­
no la via regia per scoprire l’inconscio, noi affermiamo che è la storia
personale tale via regia).
Non basta, allora, che uno riconosca, ad esempio, la sua even­
tuale simpatia per un’altra persona o che riscontri in sé una frequente
tendenza ad allacciare relazioni, a curarle, a sentirsi cercato ecc., ma è
necessario che scopra da dove viene tutto ciò, da quale bisogno reale
(potrebbe trattarsi, in tale caso, di un sottostante e forte bisogno di es­
sere amato), e - secondo - che ritrovi l’origine e l’evoluzione di tale
bisogno nel suo vissuto. Di solito è proprio questa scoperta della ra­
dice, o questa ricerca della verità storica di sé, che aiuta a capire il
senso preciso di un certo bisogno psichico (e assieme di quegli umori
0 stati d’animo a esso legati), o quella che viene chiamata la funzione
psicodinamica di una tendenza intrapsichica: quel bisogno affettivo
in eccesso, ad es., potrebbe derivare da una povera considerazione di
sé, o dall’abitudine di essere al centro dell’attenzione, o dalla paura
della solitudine... È la corretta identificazione della radice che con­
sente di intervenire in modo adeguato, ovvero sulla radice stessa e
non solo sui comportamenti.
Sarà dunque importantissimo che il giovane possa scoprire per
tempo tutto ciò per indirizzare in modo intelligente e mirato la sua
formazione: solo allora è nella verità e può fare un cammino di verità.
Se è vero che chi non conosce il suo passato è condannato a ri­
peterlo,' lo stesso accade per chi non conosce bene la radice delle sue
inconsistenze.

1 Così secondo il poeta Santayana, cit. da L.M. RULLA, Antropologia della vo­
cazione cristiana, ì. Basi interdisciplinari, Bologna 1997, 129.
2. La forza nella debolezza

Spesso si dice che l’uomo maturo è l’uomo forte, che ha risolto


tutte le sue inconsistenze e cancellato le immaturità..., e invece non è
del tutto vero, anzi, è pericoloso dare nella formazione l’idea della
maturità come perfezione.
Finché siamo su questa teưa l’immaturità c’accompagnerà sem­
pre, poiché la perfezione non è di quaggiù. Eppure è possibile vivere
la debolezza personale in modo maturo, trovando paradossalmente in
essa la propria forza. Cosa vuol dire?
Anzitutto questo significa la capacità di riconoscere con precisio­
ne, non vagamente, ma nella verità la propria immaturità; dunque darle
un nome e, come appena detto, conoscerne la radiceế Vi sono giovani
che hanno attraversato tutte le fasi formative senza che nessuno li aiu­
tasse 0 senza lasciarsi aiutare a decifrare la propria inconsistenza e
dunque senza sapere dove lavorarsi: ovvio che in tali casi non c’è stata
alcuna formazione. Puntuale, Matti, in molti di questi casi, dopo pro­
fessione perpetua e ordinazione, è scoppiata poi la crisi, o, forse più
frequentemente, in altri casi è «scoppiata» la mediocrità.
Ma è importante soprattutto integrare la propria debolezza, ov­
vero darle un senso ancor prima di combatterla, o riconoscere in essa
o attraverso essa un elemento fondamentale della propria identità, o
un atteggiamento essenziale da assumere dinanzi alla vita. L’uomo
adulto sa che per certi aspetti è ancora bambino (anche se all’esterno
non si vede), conosce molto bene le sue contraddizioni, sa che dentro
di lui scatta a volte una forza prepotente che ha la meglio sul suo de­
siderio di bene e di fronte alla quale si sente realmente debole: saper
questo è necessario per aver un’idea esatta di sé, per non presumere
di sé, né esaltarsi, e capire che all’inizio e alla fine di un progetto di
santità c’è l’esperienza della misericordia.
Chi non ha sofferto le proprie infermità fino a sperimentare an­
che una certa impotenza non ha neppure iniziato alcun cammino di
maturità, né umana né cristiana. Esemplare, in tal senso, l’insegna­
mento di Paolo (cf. Rm 7,15-24; 2Cor 12,7-10): era partito con la
pretesa di cancellare la sua debolezza, di togliere una volta per tutte
quella umiliante «spina nella carne» o di sconfiggere «l’angelo di
Satana», e per questo aveva pregato e supplicato il Signore. E si ri­
trova invece, alla fine, a «vantarsi» della sua debolezza, per avere
scoperto, in fondo a essa, la potenza della grazia che salva...
Tale esperienza è importante anche per vivere bene il rapporto
con le debolezze degli altri, e il motivo è subito evidente: chi conosce
bene i propri abissi di egoismo e nequizia, e pure gli sforzi di miglio­
rarsi a volte senza frutto, non si scandalizza della povertà di chi gli
sta accanto, né rifiuta alcuno perché debole. Chi lo fa, con più o me­
no puzza al naso, mostra ancora una volta di essere molto lontano
dalla verità di sé, e si serve degli aldi per proiettare su di loro quanto
non accetta del suo io.
Ancora, la discesa ai propri inferi dà pure un fratto insospettato:
l ’apprendimento della preghiera. La sensazione sofferta della vulne­
rabilità e impotenza mette il credente in ginocchio dinanzi a Dio, gli
fa cercare un aiuto e una forza che non ritrova dentro di sé, gli mette
sulle labbra le parole accorate di una supplica essenziale e quanto mai
vera: «Signore pietà..., Signore salvami!., mostrami il tuo volto...».
Chi non ha mai provato quella certa disperazione non imparerà
mai a pregare, né conoscerà quella speranza che nasce in cuore pro­
prio quando s’è toccato il fondo. Lo dovrebbero capile certi giovani
perènnemente dilettanti nelle cose dello Spirito, ma: in crisi ma nep­
pure appassionati, poco credenti e ancor meno oranti; ma anche certi
formatori poco disposti ad accompagnare in questo faticoso viaggio
alle radici dell’io.
Infine, l’aver visto in faccia i propri mostri aiuta, per strano che
possa sembrare, a definire meglio il proprio ideale', l’area della pro­
pria debolezza, vogliamo dữe, non solo diventa l’area dell’impegno
di crescita ma indica anche esattamente in quale direzione il soggetto
può scoprire il mistero del proprio io ideale, ciò che ancora non sa di
sé e che pure costituisce la peculiarità della propria identità e del pro­
prio cammino di maturazione. Se, ad es., l’inconsistenza centrale è di
natura affettiva il giovane sa che solo crescendo in tale area egli si
conoscerà pienamente e sarà libero di realizzarsi e pienamente felice.
Insomma, laddove colgo e sperimento il mio male, lì si nasconde un
appello a esser migliore, o lì si nasconde la mia identità ideale.
Scoprire dunque la propria immaturità vuol dire scoprire anche
quel che si è chiamati a essere, ovvero, ancora una volta, camminare
nella verità e ritrovare la forza nella debolezza.

3. La libertà di pro-gettarsi

L’uomo è per natura sua chiamato a uscire da sé, a porsi di


fronte a un appello, a un tu che lo chiama a esser se stesso e pure a
superarsi; nessuno si conosce specchiandosi e contemplando la sua
immagine, né si realizza facendo calcoli e cercando garanzie per non
correr alcun rischio.
La logica del «fare il passo secondo la gamba» finisce spesso per
impedire la stessa autorealizzazione, che è già obiettivo piuttosto mo­
desto per l’uomo chiamato a trascendersi. Infatti, l’eccesso di pra-
denza e la pretesa di garanzie di riuscita hanno normalmente un ef­
fetto riduttivo sulle possibilità di realizzare se stessi. Chi non ha il co­
raggio di rischiare la sua faccia in imprese coraggiose, finisce per ri­
petere miseramente se stesso.
Tanto meno, a un livello superiore, seguendo tale logica qualcu­
no potrebbe consacrarsi a Dio né potrebbe mai scoprire il lato miglio­
re della sua personalità! Il futuro, infatti, non può esser semplice-
mente la proiezione del presente, perché l’io ideale - per natura sua -
aggiunge e deve sempre aggiungere all’io attuale qualcosa di nuovo e
di inedito, di misterioso e anche di rischioso, qualcosa che va al di là
di quanto la persona è sicurissima di saper fare: l’io ideale dice la ve­
rità del soggetto quando gli propone il superamento di sé o gli chiede
la tensione verso il massimo delle sue possibilità, mentre è falso, psi­
cologicamente falso, quando gli indica come punto di arrivo l’attua­
zione di quel che è già o la ripetizione all'infinito delle sue capacità.
La vita allora diveưebbe di una noia mortale e il futuro si ridurrebbe
a una stanca fotocopia del presente, mentre svanirebbe ogni parvenza
di scelta libera.
L’uomo maturo, invece, accoglie quell’aspirazione naturale che
spinge perennemente in avanti e impedisce di accontentarsi del me­
diocre o di vivere di rendita invecchiando anzitempo; accetta le pro­
vocazioni della vita come condizione per scoprire se stesso e le sue
sorprendenti (e spesso nascoste) risorse. E decide di pro-gettare la
sua vita e il suo futuro. Ovvero, come dice la radice del verbo, sceglie
di «gettarsi più avanti, oltre se stesso», oltre i calcoli paurosi e me­
schini e anche oltre le proprie doti e talenti, per disporsi a recepke
anche quell’appello misterioso che trascende l’io proiettandolo in una
dimensione ulteriore.
È solo a questo punto che il soggetto cessa di essere lo stanco ri­
petitore di se stesso e diventa artefice della propria esistenza; è stato
vero con se stesso, e, come Natanaele, vedrà e potrà realizzare cose
sempre maggiori (cf. Gv 1,47-50)!

4. La consegna della vita

Il verbo proicio (da cui deriva pro-getto) ha anche questo signi­


ficato: consegnare la propria vita.
L’essere umano deve necessariamente consegnarsi a qualcuno o
a qualcosa: a chi o a che cosa sta al singolo deciderlo, ma in ogni ca­
so deve far consegna di sé. CM non si consegna, illudendosi di ap­
partenere solo a se stesso, di fatto diventa schiavo di qualcosa che
ignora, e la sua schiavitù è tanto peggiore quanto meno se ne rende
conto. Soprattutto è una schiavitù triste e solitaria, perché chi decide
di non consegnarsi è persona che diventa sempre più sola e sospetto­
sa, non si fida di nessuno (deir amico, della comunità, del futuro, di
Dio...) e non si lascia condizionare da nessuno, finendo per perdere
ogni fiducia anche in se stesso e subire poi il condizionamento, in
realtà, di un’infinità di cose e di paure.
L’uomo maturo non è tipo che basta a se stesso, chiuso nella sua
autosufficienza; riconosce il suo bisogno degli altri e si fida di chi gli
sta accanto, fino al punto di essere disposto a mettere la sua vita nelle
mani di un Alữo e lasciarsi limitare persino dalla debolezza altrui.
È la logica della libertà che, quando nasce dalla verità, diventa
fiducia e abbandono, diventa libertà di rinunciare a se stessa.
Possiamo cogliere un esempio di questa libertà, ancora una vol­
ta, in Paolo, «il prigioniero del Signore» (Ef 4,1), che ha messo to­
talmente la propria vita nelle sue mani, e si sente di conseguenza libe­
ro, libero da tutto e da tutti, dalla legge, dalla pretesa di salvarsi coi
suoi mezzi, dal bisogno di piacere agli altri ecc., così libero da poter
rinunciare alla Slia stessa libertà per il bene dei fratelli, al punto di
non mangiar came in eterno se questo dovesse scandalizzare qualche
fratello debole nella fède (cf. ICor 8,13).
È il mistero della maturità umana come l’abbiamo ora delineata:
riconoscere quella verità oggettiva e pure storica che svela l’uomo a
se stesso, quella debolezza che infonde forza, quella libertà che rende
servi, quella fiducia che apre alla relazione e all’esperienza dell’amo­
re, e giunge alla consegna della propria vita.
E la maturità umana che si salda sempre più coil quella spirituale.
PARTE QUARTA

FORMAZIONE SPIRITUALE
La seconda dimensione che costituisce l’essere umano e che de­
ve essere ben presente nella dinamica formativa è quella spirituale.
Tale dimensione riguarda in modo esplicito il credente che è in noi,
rxùra alla sua formazione e dunque anche alla maturazione delle com­
ponenti spirituali dell’uomo interiore, come lo chiama Paolo, del cuo­
re e degli affetti, della mente e della volontà, della libertà che si lascia
attrarre dalla verità. Se la dimensione umana rappresenta la profon­
dità del mistero-uomo, ovvero le risorse di energia che egli possiede,
la dimensione spirituale indica l ’altezza cui l’uomo è chiamato, ciò
che può e deve diventare. E come l’altezza suppone la profondità, e
quanto più si protende in alto tanto più esige radici ben profonde, co­
sì la dimensione spirituale non può stare senza quella umana, anzi la
realizza in pienezza, al massimo grado della sua umanità. Non vi po­
trebbe essere, dunque, alcuna dimensione e maturazione spirituale
senza l’indispensabile supporto umano e senza che da essa ne venisse
una piena fioritura dell’umano.
Seguiamo lo stesso schema proposto per la dimensione umana:
elementi architettonici (dimensioni come risorse o presupposti fon­
damentali) ed elementi ermeneutici (contenuti e dinamismi).
Capitolo undicesimo

LA DIMENSIONE SPIRITUALE

Vediamo anzitutto di chiarire il punto di partenza, lo scheletro,


per così dữe, dell’uomo interiore o la parte architettonica deir edifi­
cio spirituale. È da questi elementi o chiavi di lettura che nascono poi
le applicazioni teorico-pratiche nella formazione; dunque è impor­
tante precisarli.
1. Presupposti
Anzitutto questi presupposti sono, strettamente collegati con
quanto detto circa la dimensione umana. Potremmo dire che partono
proprio dal punto ove quell’analisi è arrivata, o dal presupposto che
l’essere umano è capace di trascendersi fino ad aprirsi al divino, sen­
tirsene amato e amarlo. Anzi, quest’uomo
a) è l ’interlocutore di Dio, è colui che Dio ha reso suo partner, ca­
pace di ascoltare la sua voce e rispondergli;
b) proprio in questo dialogo con Dio l’uomo scopre la sua verità e
la possibilità di realizzarsi pienamente, e afferma la sua libertà,
fondata sulla libertà di quel Dio che non s’impone all’uomo, lo
lascia libero di accettare o rifiutare la sua proposta, di essere cre­
dente o non credente;
c) ma se l’uomo accetta il rischio e si fida di Dio entra misteriosa­
mente nel suo mondo, il cuore diviene partecipe dei desideri di­
vini e impara ad amare alla maniera divina;
d) tutto questo, allora, si riflette nei rapporti terreni, vissuti non più
secondo la logica solo umana, riduttiva e interessata, ma secondo
la logica evangelica della vita nella morte, della follia della cro­
ce, della beatitudine della mitezza e della misericordia, della fede
che sposta le montagne, della fiducia che sconfigge ogni paura...;
e) l’uomo spirituale, dunque, non è colui che vive lontano dalla
realtà mondana o che ha rinunciato alla sua umanità, ma è colui
che vive ogni frammento dell’esistenza con questo atteggiamento
credente. Spirituale, infatti, non vuol dire immateriale, ma capa­
cità di interpretare e gestire anche la parte istintuale dell’io e la
realtà più materiale della vita all’intemo di una prospettiva tra­
scendente e alla luce della logica evangelica.
Questo è l’uomo spirituale, o queste sono le risorse e potenzialità
di ogni uomo sul piano spirituale. E interessante notare che mentre i
parametri della dimensione umana partono dal basso per giungere
alla possibilità di stabilire un rapporto con Dio, i criteri della dimen­
sione spirituale fanno un po’ il cammino inverso; e questo dice anco­
ra una volta come le due dimensioni siano destinate a incrociarsi,
runa autenticando l’altea e in ogni fase della formazione.

2. Contenuti
Se queste sono le possibilità, davvero notevoli, che s’aprono da­
vanti a ogni essere umano, tocca proprio al formatore attivarle per
farle divenire realtà. Intervenendo su queste aree o contenuti.
a) Il principio religioso
Il primo contenuto formativo è costituito da quello che potrem­
mo chiamare il principio religioso, da cui nasce la fede. Ovvero si
tratta di formare al «radicale riconoscimento dell’esistenza incondi­
zionata dell’altro»,' per poi disporsi a vivere la fede come orienta­
mento del proprio essere alla relazione con l ’Altro.
È nascosta, in questo argomentare, una precisa catechesi della
fede, come elemento caratteristico dell’uomo spirituale. Educare alla
fede vuol dire educare alla relazionalità, fin dai primi tempi dell’e­
sistenza e con tutto ciò che essa implica, non solo come apertura e
capacità di rapporto, ma come accoglienza dell’assoluta unicità del-
l’altro e scoperta del suo valore, come rifiuto di ogni tentativo di
strumentalizzarlo e libertà di lasciarsi da lui toccare e condizionare.
L’attitudine credente non è semplice opzione ideologica né fuga
in un mondo distante ed estraneo aùe vicende personali relazionali,
ma è preparata da un lento apprendistato che porta l’io a usdre da se
stesso per concentrarsi sull ’altro.
È evidente, allora, che la fede si realizza nell’amore, quasi si
confonde con esso e da esso proviene. Mentre, al contrario, tutto ciò
che s’oppone all’apertura relazionale e rinchiude l’io, per quanto im­
percettibilmente, in se stesso (irrigidimenti, tendenza a impoưe le
proprie idee, rifiuto della diversità dell’altro, atteggiamenti autoritari,
uso disinvolto della regola o della tradizione per prevalere e domina­
re, ambizione privata di perfezione...) ostacola o indebolisce l’ade­
sione credente.
È l’amore, non il quoziente intellettuale, che rende forte la fede.

1 M . RUPNIK, D all’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa, Ro­


ma 1996,49. :
b) La debolezza dell’amore

E proprio a questo punto esplode il paradosso. Se la fede nasce


come esperienza di amore il giovane inizia a diventare credente nella
misura in cui scopre su di se l’amore di Dio, come fosse l’oggetto
unico della benevolenza divina: più forte è questo affetto, più robusto
sarà anche il suo atto credente. Di conseguenza l’esperienza dell’es­
sere amati da Dio diventa area privilegiata della formazione dell’uo­
mo interiore. Ma in cosa consiste questa esperienza?
Molti giovani aspettano chissà quale straordinaria illuminazio­
ne per acquisire tale certezza esperienziale, e forse vanno anche a
cercarla in ambienti e gruppi particolari ove - come lascia intendere
una certa propaganda - tale esperienza sembra facilmente accessi­
bile, o tentano di provocarla in un modo 0 in un altro, con la rifles­
sione intellettuale o con un certo comportamento, più o meno me­
ritorio, ma spesso senza raggiungere grandi risultati. Questo Dio,
infatti, non s’impone e non impone il suo amore, non mette nor­
malmente in atto un gesto strepitoso che «costringa» a credergli,
non ama «obbligando» l’amato a restituirgli amore7la sua benevo­
lenza non è un atto di forza, anzi, è debole, lascia addirittura l’altro
libero di accettarla come di rifiutarla, non è subito evidente, non
rende all’istante tutti gli eventi della vita immagine sua trasparente
e convincente... Non toglie minimamente il rischio della libertà im­
plicito nella fatica del credere, così come non sottrae alle cose e
agli eventi quella naturale dose di ambiguità e opacità che ne oscu­
ra, all’occhio umano, origine e destino.
Tutto questo può anche rendere difficile e complicato il credere
all’amore, perché esige, in particolare, l'attraversamento e il supera­
mento di quella zona oscura ove la ragione non può penetrare per
trovare l’evidenza della prova.
E se, invece, fosse proprio questa la prova dell’amore vero? Se
fosse proprio questo il segno che rende autentico l’affetto, consen­
tendo di sperimentarlo come rivolto a sé in tutta la sua genuinità?
L’amore è vero, in effetti, solo quando è libero e liberante, solo quan­
do non pone condizioni e lascia l’amato libero di rifiutarlo, pur con­
tinuando ad amarlo; non è autentico l’amore costrittivo e condizio­
nato, spesso degenerante in vincoli di gelosia, di accapaưamento af­
fettivo, di condizionamenti e ricatti che opprimono e tolgono libertà.
Mentre la libertà, che è una dimensione interna dell’amore, è ciò che
garantisce che l’amore sia vero, è ciò che rende l’amore non solo in­
tenso perché disinteressato, ma anche eterno, indistruttibile, capace di
sopravvivere anche al rifiuto dell’amato.
L’atto di fede, allora, è l’atto più libero che ci sia, perché è tutto
costruito non sull’evidenza schiacciante delle prove, che convincono
e «costringono» in qualche modo la mente a dare assenso, ma su un
atto di fiducia, sul credito dato a un A lto, sul coraggio di attraversare
quella zona oscura perché illuminati interiormente dalla luce di un
volto, perché chiamati da una voce. Luce e volto misteriosi e discreti,
perché il cuore sia libero di rispondere all’amore con un atto di ab­
bandono, senza pressioni. Atto ragionevole e pure superrazionale, ma
che soprattutto dice la natura del dialogo della fede: tra la libertà di
un Dio che non solo lascia l’uomo libero, ma lo rende libero di ri­
spondergli, tra l’amore di un Dio che non solo ama l’uomo, ma lo
rende capace di voler bene a sua volta. Senza imporgli nulla, ma solo
ed esclusivamente per amore.
Credo che questo sia un punto molto importante: la «debolezza»
dell’amore di Dio diventa la prova dell’amore stesso divino. Il gio­
vane va educato a percepire la logica invincibile di questo paradosso,
a scoprire come la sua libertà sia posta in atto esattamente dall’«a-
more debole» di Dio, a capire come proprio questo modo di amare da
parte di Dio sia ciò che lo rende libero e, assieme, gli fa sperimentare
di essere profondamente amato da Dio. Proprio perché è libero di ac­
cettare o rifiutare quest’amore, infatti, egli è e deve sentirsi sincera­
mente amato da Dio!

c) La follia della fede

Tale cammino è già fede, come esperienza di amore e libertà, ma


non ancora fede piena. Perché la fede per natura sua non è solo logica
lineare confermata dall’esperienza o calcolo razionale di conti che
devono per forza tornare, e in ogni caso essa implica il superamento
dell’evidenza umana e l’ingresso in un mondo in cui funzionano
un’altra logica e un’altra evidenza, come abbiamo accennato, quelle
della consegna di sé nelle mani di un Altro.
Ma tale consegna, aggiungiamo ora, può arrivare al punto da
sembrare anche folle dal punto di vista umano, anzi di per sé lo è
sempre, perché chi si consegna nella fede non ha certezze che gli
vengano da riscontri e conferme personali, anzi, non ha altre garanzie
al di fuori della parola e della promessa di Dio. E dunque fa
un’operazione che non solo non viene tanto naturale all’uomo, ma
che e rischiosa e imprudente per l’uomo portato a controllare e verifi­
care i suoi passi, perché spesso va e chiede di andare oltre Je capacità
del singolo e forse anche contro un certo buon senso... È come un
esser sospesi nel vuoto, senza sentirsi la terra sotto i piedi.
La fede è tutto ciò, e solo una fede fatta di follia può aprire il
giovane verso l’opzione di consacrazione. Potremmo addirittura dire
che la scelta di consacrarsi è parte ed espressione di questa follia. Il
formatore non deve aver paura di inoltrare il giovane per questa stra­
da, altrimenti tradisce, con la sua falsa prudenza, lo scopo della for­
mazione religiosa e lo stesso formando.
Non si fratta, intendiamoci, di compiere o far compiere cose
strane, di mandare i nostri giovani a piantare i cavoli con le radici in
su (che tanto non ci vanno...), ma di approfittare di ogni circostanza
per far comprendere che una certa logica naturale è insufficiente per
capire Xdisegni di Dio, che la vita consacrata è ben misera cosa se
non ha il coraggio di saltare la misura razionale, che la pretesa di
comprender tutto prima di decidersi ad agire e a obbedữe o la pretesa
che tutto sia chiaro e convincente è di fatto riduttiva e mortificante la
libertà umana.
Quale futuro, per altro, si offre a un giovane che non viene mai
provocato ad andare al di là del calcolo umano apparentemente pru­
dente, in realtà pauroso, mai folle e appassionato? E a che serve, in
realtà, nella Chiesa e nel mondo una vita consacrata che non sappia
esser folle per Cristo?
Quante volte, di fatto, di fronte allo zoccolo duro di una vita
consacrata che chiede oggi come non mai una rude aratura, religiosi
già allevati nel culto del giardinaggio un po’ sofisticato, o nel mito
neoilluministico della ragione quale criterio sommo di vita, pretende­
ranno poi usare la ragione stessa o il proprio punto di vista come
schema o misura entro cui tutto deve per forza rientrare: voti, vita
comunitaria, esigenze apostoliche, perfino richieste di Dio..., tutto
perfettamente in linea con il calcolo razionale e al di fuori di ogni
«follia credente»!
Prima o poi, allora, soffocati dal loro stesso perbenismo o
dall’eccesso di prudenza (o di paure), saranno costretti a scoprire po­
vertà e miseria di questo schema; e loro stessi si sentiranno deboli e
incapaci quando la vita chiederà loro di andar oltre tale misura, 0 fru­
strati e delusi quando la misera logica del calcolo renderà grigia e
monotona, piatta e mediocre la loro esistenza.
d) I sentimenti del Figlio
Scopo della formazione, come sappiamo, è l’avere in sé gli stessi
sentimenti del Figlio, anzi, nel nostro progetto questa espressione
rappresenta il nucleo centrale del modello teologico-antropologico di
un progetto di formazione.2

2 Cf. Vita consecrata, 65.


Ed è pure l’obiettivo dell’opzione credente: la fede, nella sua
espressione più matura, è scelta di conformazione, non semplice ap­
partenenza ideologica; e l’uomo spirituale è proprio quello che tende
alla totale identificazione con il Figlio, totale nell’intensità dell’amore e
nell’estensione a ogni aspetto del vissuto, fino ai sentimenti, appunto.
Appare ancora una volta evidente il legame tea fede e amore e
pure tra fede e libertà, ed è importante che nella formazione questi
raccordi siano concretamente operativi, sul piano ideale e metodolo­
gico. Anzitutto l’azione educativa deve Iĩúrare esplicitamente a
un’autentica trasformazione del cuore, nel senso biblico e dunque
pieno del termine, perché esso impari ad amare alla maniera di Cristo.
C’è formazione solo là ove avviene una tras-formàzione.
Qui la dimensione spirituale si salda con quella umana, perché la
contemplazione della parola e dell’esempio del Figlio dovrebbe pro­
gressivamente purificare e conformare ogni pensiero, motivazione,
atteggiamento, emozione, gesto... nella vita del giovane, mentre - a
sua volta - il processo psicologico di purificazione-conformazione
dovrebbe consentire di penetrare sempre più nel mistero del Figlio
che si dona per amore consegnandosi al Padre e ai fratelli.
Il cristiano, in quanto tale,

«è un uomo o una donna che immette la sua storia di persona tutta


intera nel Cristo: si riveste di lui. Vestire Cristo è entrare nella sua
esperienza, condividere la sua amicizia, vivere la sua vita, portando­
gli intera la propria, senza alcun distacco dalla concretezza della car­
ne (in senso biblico) in tutte le sue dimensioni: fisica, del tempo in
cui si vive, dello spazio che si occupa, dei sentimenti, le passioni, le
realtà in cui si è calati. È questa came totale, la persona nella sua sto­
ria e quella cui partecipa, che veste Cristo, diviene un solo corpo con
lui, Gesù di Nazaret, l’uomo Gesù».3

Se questo è il «cristiano» qualunque, tanto più è colui che è chia­


mato per vocazione a una particolarissima identificazione con il Figlio!
La formazione diventa così operazione molto specifica e anche
radicale, concreta e assieme globale, soprannaturale e pure umanis­
sima; non s’accontenta di modellare i comportamenti o i gesti esterio­
ri, ma va in profondità, tocca il cuore e ciò che c’è di più umano nel
giovane, proponendogli il massimo: i sentimenti di Gesù, i desideri di
Dio. È difficile che questo giovane non si senta provocato e attratto
da una prospettiva simile, anche un certo giovane di oggi, pur diffi­
cile da muovere denteo, da com-muovere.

3 ELIANA m onaca, «Differenze sconfitte», in Avvenire, 16 ott 1996.


Importante sarà, allora, proprio per muovere insieme tutto l’or­
ganismo interiore, mostrare il nesso tra la follia della fede e la com­
mozione del cuore, o tra la stoltezza della croce e la libertà di aver in
sé gli stessi sentimenti del Figlio: nesso non solo teologico-spirituale,
ma pure psicologico-pedagogico; è solo il folle che si commuove,
mentre il prudente calcolatore noil conosce passione; è solo lo stolto
per Cristo che non si vergogna di mostrare il suo entusiasmo per lui,
non il saggio di questo mondo che deve rispondere ai gusti e alle
preferenze del pubblico...
E allora la formazione diventa davvero anche cammino di liber­
tà, semplicemente perché... al cuore non si comanda, ma si può e si
deve indicargli una strada lungo la quale possa esprimersi al massimo
grado delle sue potenzialità.
La via della conformazione a Cristo e del provare i suoi stessi
sentimenti diventa anche la strada lungo la quale il cuore umano sco­
pre la possibilità di voler bene in maniera assolutamente impensata,
addirittura divina; o scopre la sua verità dentro la verità di Cristo, e
dunque anche la sua libertà.
Perché questo tipo di amore non ha confini.
Capitolo dodicesimo

IL DINAMISMO DELLA FEDE

L’uomo interiore o spirituale, che vive in ciascun credente, cre­


sce e matura come un organismo vivente, con un nutrimento ade­
guato e un processo di sviluppo che segue un itinerario preciso. Cre­
dere, in altee parole, è sempre processo articolato e complesso, non è
mai atto estemporaneo e improvviso, ma dinamismo che chiama in
causa tutto l’uomo che pensa e sogna, ama e soffre, s’inteưoga e du­
bita, si fida e s’affida...
E se è vero che, come lascia intendere Gesù nel Vangelo, la no­
stra fede qui su questa terra sarà sempre povera, più piccola di un
quasi invisibile granello di senapa, nondimeno è importante che im­
pariamo come farla nascere e crescere. Diventasse come quel granel­
lino, sempre secondo Gesù, sarebbe capace addirittura di spostare le
montagne, tanta è la potenza di chi crede!
Eppure, dato che le montagne sono ancora tutte ordinatamente al
loro posto, viene il dubbio che non vi sia, nella nostra formazione,
un’autentica educazione alla fede, come se questa fosse data per
scontata nei nostri giovani, che rischiano così di venire «addestrati» a
vivere poveri, casti e obbedienti senza saper bene e fino in fondo per­
ché e per chi, o diventano osservanti, ma entro una logica solo uma­
na, di basso profilo.
Di fatto sono credenti, per quella fede che hanno provvidenzial­
mente ricevuto dalla loro famiglia: fede - intendiamoci - di ottima
fattura, sana, e che però in tanti casi... non è cresciuta ulteriormente,
come non fosse mai divenuta adulta o non avesse mai affrontato crisi
e fasi di maturazione. Così, finché le cose vanno bene e non ci sono
particolari problemi tale fede «materna» può anche esser sufficiente,
ma quando insorgono difficoltà e ci sono scelte difficili da fare, e non
c’è più un certo ambiente protettivo da certe provocazioni, allora si
scopre, non senza sorpresa, quanto povera fosse la personalizzazione
dell’atto credente e poco incisiva nelle decisioni da prendere. Quante
crisi precoci di giovani consacrati, magari solo poco tempo dopo la
professione perpetua, stanno a dimostrare drammaticamente tutto ciò!
Il vero sospetto innescato da queste situazioni critiche, non di
rado culminanti in abbandoni, in particolare, è che, spesso, ciò che
viene a mancare o a non essere ben definito sia un metodo educativo
alla fede, l’indicazione di un percorso che porti all’assenso credente
o che lo rinforzi in continuazione lungo le fasi della vita.
È proprio ciò che voffemmo qui di seguito propone. Senza pre­
sunzione alcuna, visto che la fede è dono che viene dail’alto, ma
partendo dal presupposto che, se essa abbraccia tutta la vita e tutto
l’uomo, un’autentica educazione alla fede non può essere un fatto che
riguarda solo una fase o una dimensione dell’esistenza.

l ể Fede e vita passata

La fede non nasce dal nulla o da un’adesione a occhi chiusi a


una verità che ci supera o a un mistero per altro irraggiungibile, ma
da una constatazione, o da una lettura in profondità della propria sto­
ria, che va al di là del dato subito visibile per cogliere dietro a esso
una presenza che gli dà un significato, una logica di coerenza e prov­
videnza...
È il modello, che già conosciamo, storico-autobiografico.

a) Modello storico-biblico: l ’autobiografia

Così il cristiano crede nella paternità-maternità di Dio: perché


vede e verifica tale paternità-maternità nella sua propria esistenza. La
vita passata diventa allora il luogo di questa lettura illuminata dalla
fede, ma che porta anche a una maturazione nella fede stessa; po­
tremmo addirittura dire che la propria storia è la prova più convin­
cente, perché la più personale, della presenza di Dio e di un Dio non
neutro e... uguale per tutti, ma con un volto, un atteggiamento, una
parola, un gesto che il credente sente rivolti a sé, inconfondibili e ir­
ripetìbili, così come inconfondibile e irripetibile è stata ed è
l’esistenza di ogni individuo.
Questo esercizio della lettura del vissuto, come abbiamo già vi­
sto, è importante per la conoscenza che il soggetto deve avere di sé,
per l’integrazione del suo passato e di certe ferite di esso, per
l’apprendimento di quella memoria biblico-affettiva che consente di
ricordare ciò che Dio ha fatto nella storia dell’uomo attraverso tante
mediazioni umane e in ogni circostanza di vita, anche quelle più do­
lorose.
Ora è il momento di mettere a tema questa lettura credente in
modo sistematico e con l’ausilio di strumenti adeguati, strettamente
connessi con l’oggetto materiale e formale della fede cristiana.
I. Categorie bibliche
Questa lettura e rilettura della propria storia di salvezza non ha solo
un finale o centrale punto di riferimento, come potrebbe essere l’idea-
evento della salvezza, ma delle precise chiavi di lettura, che sono, in par­
ticolare, altrettanto precise categorie bibliche. Tali categorie consentono
di cogliere nella propria vita il compimento di un’autentica storia di sal­
vezza come si è articolata lungo i giorni dell’esistenza umana, nella quale
Dio ha agito, come un tempo agì con il popolo di Israele.
Categorie bibliche, infatti, sono quegli eventi centrali della vi­
cenda di Israele, la storia-madre di ogni storia di salvezza, che il cre­
dente impara progressivamente a riconoscere anche nella misura pic­
cola e limitata della sua esistenza: l’elezione, la prova, la caduta, la
schiavitù, la lotta, la liberazione, il mar Rosso, il deserto, la manna, la
terra promessa...
Leggere così la vita vuol dire riscoprire le innumerevoli sedu­
zioni e attenzioni divine di cui si è Stati oggetto.'Ma vuol dire so­
prattutto dispone di piste orientative, come delle direttrici di marcia
che, senza nulla togliere all’assoluta originalità di ogni vicenda teưe-
na, consentono di fame una lettura coerente e integrale, mirata e
provvidenziale, in cui tutto concorre a evidenziare l’ostinata volontà
di salvezza divina.
La Bibbia diventa allora lo sfondo iconico-interpretativo della
propria esistenza, come se quest’ultima fosse già contenuta e raccon­
tata dalla storia di Israele. Mentre le categorie bibliche offrono la
chiave esegetica che permette di intendere e interpretare ogni fran­
gente di vita terrena.
II. Categorie psicologiche
Ma è importante usare anche alcune categorie psicologiche in
questa lettura-scrittura del vissuto. Intendiamo, per categorie psicolo­
giche, quei parametri interpretativi che consentano di leggere e acco­
gliere in modo realistico e significativo, coerente e integrale gli
eventi del proprio vissuto.
Qui ci riferiamo in particolare alle categorie della riappropriazio­
ne e delVintegrazione. Attraverso queste chiavi di lettura il soggetto
- riconosce, anzitutto, come parte di sé e del mistero dell’io quanto
è accaduto nell’avventura esistenziale, anche se di segno negati­
vo, non lo nega né lo rimuove dalla memoria; ma neppure lo su­
bisce come un destino irreparabile;
- bensì cerca di coglierne il senso profondo, spesso non subito
comprensibile, né identificabile con il senso apparente, e comun­
que presente oggettivamente nell’evento in questione;
- fino al punto di dargli un significato originale, in modo libero e re­
sponsabile, coerente con le proprie convinzioni e con la propria fede,
e dunque anche soggettivo, intelligentemente soggettivo. E proprio
con questo atteggiamento che l’uomo manifesta la sua libertà e cre­
sce nella fede: l’uomo è libero fino al punto di dare significato al suo
passato, il quale non è mai passato del tutto, ma è lì, sempre presen­
te, che attende di ricevere un significato. La fede esprime esatta­
mente tale libertà responsabile, segno della dignità altissima dell’uo­
mo, il quale solo a questo punto, però, diventa soggetto della sua esi­
stenza, quando si riappropria del suo esistere già trascorso, comprese
le eventuali ferite, inserendolo in un contesto armonico di significati.
E questa è anche integrazione: lettura della totalità della vita
all’intemo di una totalità di significato, ovvero, porre tutta la propria
vita entro il tutto di Dio, nella «verità tutta intera», lasciandola illu­
minare da quell’unica realtà capace di spiegare ogni realtà. Anche
eventi fortemente (e oggettivamente) negativi possono assumere in
tal modo una valenza positiva, perché è il soggetto che gliela ricono­
sce e attribuisce, in conformità con i suoi valori e in coerenza con il
suo impegno di vita.
È proprio in tal senso, come dicevamo nel capitolo precedente,
che l’uomo può anche non esser responsabile del suo passato e delle
conseguenze negative di esso, ma è m ogni caso responsabile dell’at­
teggiamento che assume ora di fronte a esso, 0 del significato che li­
beramente gli attribuisce.
D’alto canto, raramente gli eventi della vita si lasciano subito in­
terpretare, appena accadono, nel loro senso più profondo, «la spiega­
zione di una vita è la storia stessa di quella vita»;1ovvero, molte volte è
il séguito degli avvenimenti successivi che dà senso e coerenza a qual­
che evento incomprensibile o difficile da interpretare e accettare.
Anche la fede non fa eccezione a questa norma: è la lezione che
ci viene da quella «pellegrina nella fede» che è stata Maria, che
c’insegna a «custodire in cuore» quanto è avvolto dal mistero, nella
certezza serena che veưà il momento della luce. In realtà questa cer­
tezza è parte di quella verità consolantissima che è come il versetto
responsoriale di quel lungo salmo personale che è la propria biogra­
fia: Dio mi è sempre stato padre e madre in ogni istante della vita, e
continuerà a esserlo...

1M. POMILIO, Il quinto evangelio, Milano 1968, 222.


È la legge della «costanza dell’oggetto»,2 secondo la psicologia,
o della fedeltà di Dio, narrata in ogni storia umana. Il giovane che
impara a leggere così il suo vissuto, cresce nella fede e apprende al
tempo stesso un metodo prezioso per esser sempre più se stesso, sog­
getto del suo esistere e oggetto dell’amore tenerissimo dell’Eterno,
sempre più credente e sempre più uomo, nell'intreccio fecondo delle
dimensioni umana e spirituale.
Cerchiamo di riassumere con un quadro grafico la ricchezza di
questo modo di leggere nella fede la propria storia.
Tav. 4: M odello storico-biblico: la memoria credente

MEMORIA AFFETTIVA MEMORIA BIBLICA

\7 \7
Categorie bibliche:
Categorie psicologiche: gli eventi centrali
riappropriazione e integrazione della storia di Israele

MEMORIA
BIBLICO - AFFETTIVA

La memoria affettiva si La memoria biblica di­


lascia toccare-curare dal­ venta anche affettiva
la memoria biblica

La vita come storia


La fede come memoria

2 Circa questa teoria cf. o. KERNBERG, Teorìa della relazione oggettuale e cli­
nica psicoanalitica, Torino 1970, 145.
2. Fede e vita presente

Ma non basta guardare al passato per alimentare la fede. Esser


credente significa affrontare ogni situazione con la certezza ili cuore
di poter contare su Dio, vuol dire investire nell’oggi il ricco patrimo­
nio della fede, con tutti i rischi che ciò comporta.
D’altro lato la fede va messa in atto in qualsiasi momento della
vita, non esiste frangente in cui possa esser posta fra parentesi e con­
siderata «vacante».
È neH’ordinarietà del quotidiano che la fede trova il suo am­
biente e pure il suo alimento naturale. In tal senso, allora, nella for­
mazione iniziale il giovane va educato a una fede che non si esprima
come tale solo o soprattutto nelle grandi circostanze della vita, quan­
do occorre fare scelte particolari, ma una fede «feriale», capace di
tessere sempre più la trama dei giorni, di unire ira loro le attività
quotidiane, come stile ordinario di vita, che le dà colore e calore.
Propongo, per questo tipo di formazione, due metodi che ho tro­
vato e trovo molto utili nella formazione (sia iniziale che permanen­
te), e di cui ho già parlato separatamente in alcune pubblicazioni.3
Qui l’aspetto relativamente originale è dato dalla scoperta e proposta
della loro complementarità.

b) Modello mariano: aspetto genetico

n primo dinamismo è quello che possiamo chiamare mariano,


poiché Maria ne è l’immagine idealeỄIndica l’aspetto genetico della fe­
de, che nasce dalla Parola e si realizza nell’evento, e dice anche il pote­
re della Parola-evento di unificare la vita e i dinamismi vitali della per­
sona. E questo potere che il giovane deve sperimentare su di sé.
In concreto ciò vorrà dire un particolare modo di vivere il rap­
porto non solo con la Parola in genere, ma in particolare con la Paro-
la-del-giomo.
Ogni giorno, infatti, ci è data una Parola, come la manna che
nutrì un tempo Israele, e che nutre oggi nella liturgia del giorno la
comunità dei credenti.
Questa Parola va attesa e desiderata, anzitutto, con la stessa an­
sia con cui le sentinelle aspettano il mattino (Sai 119,148); e poi ac­
colta e riconosciuta dal giovane, nella meditazione mattutina, quale

3 Cf. A. C en on i, N ell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consa­


crato, Bologna 1995, 160-163; IDEM, vita consacrata. Itinerario fonnativo lungo la
via di Emmaus, Cinisello B. 1994, 262-265.
rivelazione progressiva e quotidiana della propria identità, come Ma­
ria accoglie le parole dell’angelo e si riconosce in esse (cf. Le 1,29-
38); di questa manna, data «per la razione di un giorno» (Es 16,4),
egli deve nutrirsi con avidità, quasi divorandola, come il veggente
deir Apocalisse che ne sperimenta assieme dolcezza e amarezza, bel­
lezza e violenza (cf. Ap 10,8-11).
Ma la lectio non s’esaurisce nella meditazione mattutina, essa
continua lungo il giorno per il credente che impara a custodire e con­
servare come un tesoro la Parola, in tutto quel che fa, per essere a sua
volta custodito e posseduto dalla sua potenza, ancora come Maria che
conserva in cuore anche ciò che la sua mente non afferra immediata­
mente (cf. Le 2,19.51); e allora sarà importante che egli rimanga ben
piantato in essa, affinché la Parola sia la radice di ogni gesto, parola,
pensiero, progetto...; che apprenda a discernere sempre tutto, anche
l’imprevisto, alla sua luce per conoscere e imparare a desiderare i de­
sideri di Dio.
A questo punto, lentamente e sommessamente, la Parola si com­
pie nelle cose di ogni giorno, un po’ come si è compiuta nel seno di
Maria, non certo in modo automatico e subito visibile; e allora è ne­
cessario che il giovane, al termine della giornata, riprenda la Parola-
del-giorno per riconoscere e contemplare i segni della sua «incarna­
zione», per quanto piccoli e discreti, per renderne grazie al Padre, e
per scoprire, nell’esame di coscienza, quanto in sé ha impedito questo
pieno compimento della Parola stessa.
Così la giornata, la giornata qualsiasi, non solo progressivamente
s’unifica attorno alla Parola, ma diventa grembo, grembo mariano,
che accoglie e assieme partorisce una Parola sempre nuova di Dio;
mentre il giovane impara a costruire la sua unità di vita attorno alla
Parola e a una Parola ogni giorno diversa.
Così nasce e rinasce in continuazione la fede, che fa nuova la vita
e rende ogni giornata «giorno che ha fatto il Signore» (Sal 118,24).
È un esercizio lungo e paziente, a volte sembra anche infruttuo­
so, ma se il nostro giovane insiste con umiltà testarda e disponibilità
cordiale la Parola-evento si compie nella sua vita unificandola, e
rinforza la sua fede.
Rendiamo anche qui con un’immagine espressiva il senso di
questo modello mariano della crescita nella fede.
Tav. 5: M odello m ariano: la «ragnatela» d ella P arola-del-giorn o negli eventi
quotidiani

c) Modello paolino: aspetto dinamico


Il secondo dinamismo, o esercizio che contribuisce a rendere
forte la fede, lo possiamo deduưe dall’esempio di Paolo, e dal suo
stile di credente intraprendente e operoso, che vive la fede come un
fatto dinamico, come passione che investe con la sua energia ogni
azione. Tale modello esprime bene, infatti, l’aspetto dinamico della
fede, la sua forza che dà energia e sostanza al vivere umano.
Nell’opzione credente, infatti, vanno distinte due componenti:
una statica e l’altra dinamica. Quella statica è legata alla fede come
atto di adesione, soprattutto mentale, a un insieme di verità rivelate.
Tale adesione, una volta data e se non è rimessa in questione da
eventi fortemente contraddittori e domande altrettanto inquietanti,
permane nel tempo, come un sottofondo interiore che accompagna la
vita e s’identifica con la persona, quasi facesse parte della sua struttu­
ra. Non si può escludere che cresca, ma se è adesione solo mentale è
più frequente che resti identica a se stessa. Garantisce dunque una
certa tenuta, ma a livelli non eccelsi.
La componente dinamica è connessa invece a tutte quelle opera­
zioni che esprimono la fede e ne dicono la natura complessa e varie­
gata; sollecita un’adesione non solo mentale, ma estesa anche alle al­
tee componenti psichiche (affettive e volitive) e dunque pone almeno
le premesse per una fede che si lascia provocare dalla vita e cresce
con essa. Una fede «in movimento» e perciò sempre più coraggiosa e
convincente. Se la componente statica sottolinea la dimensione og­
gettiva del credere, la componente dinamica enfatizza maggiormente
quella soggettiva, con i rischi, oltre ai vantaggi, che ciò comporta. Il
punto delicato, infatti, e forse non sempre garantito sufficientemente,
di questo modo di intendere la fede è che, nella varietà e intensità
delle provocazioni, resti identico il contenuto della fede, o il nucleo
delle verità credute non subisca alterazioni accomodanti.
Il segreto per credere in modo autentico e crescere armonica-
mente nella fede è conciliare in modo puntuale e creativo le due
componenti, statica e dinamica, in una osmosi salutare, poiché en­
trambe sono indispensabili. Questa composizione costituisce pure
l’esercizio cui sottoporre la fede del giovane, che può essere squili­
brata o sul versante statico o su quello dinamico. C’è chi dice che un
tempo la fede rischiava di essere troppo statica, oggi invece il peri­
colo sarebbe quello opposto. Personalmente preferisco credere, più
che agli scarti storico-generazionali, alle differenti armonie e disar­
monie che si possono creare nella stessa persona, posta di fronte alla
decisione di credere, a qualsiasi generazione o periodo storico ap­
partenga. La fede e la fatica di credere restano sostanzialmente le
stesse lungo i tempi. L’importante è che vi sia un’intelligente propo­
sta educativo-formativa.
In concreto, crediamo che l’atto di fede si esprima, per natura
sua, e debba esser provocato a esprimersi, in alcune articolazioni,
come delle dimensioni proprie dell’atto e del dinamismo del credere,
distìnte fra loro e pure strettamente collegate. Tali articolazioni sono:
- la consapevolezza grata della fede come dono,
- la fede come preghiera e celebrazione,
- la fede vissuta e tradotta in opere,
- la fede provata e sofferta,
- la fede studiata e compresa,
- la fede condivisa coi fratelli credenti,
- la fede annunciata a tutti.
In altre parole: fede ricevuta - fede pregata - fede personalizzata
- fede combattuta - fede studiata - fede condivisa - fede annunciata.
Credere vuol dire mettere in atto tutte queste operazioni: l’una è le­
gata all’altra in un rapporto di reciprocità complementare, tutte as­
sieme iưobustiscono l’atto di fede e rendono coerente la vita ed effi­
cace la testimonianza del credente; se ne manca qualcuna l’atto di fe­
de s’indebolisce e l’organismo credente diviene monco.
Nella formazione è necessario facilitare e provocare questo rac­
cordo, stimolando il giovane a pregare-celebrare ciò che crede, a tra­
durlo in gesti concreti e originali, a lasciare che esso «provi mente e
cuore» (Sai 7,10), a cercare di capirlo con la fatica dello studio serio
e sistematico, a condividerlo in comunità, ad annunciarlo con parole
proprie e facili da capire nella catechesi.
È sempre lo stesso contenuto, allora, che non è solo creduto con
la mente ma contemplato, gustato, raccontato, scrutato, spremuto nel­
la sua ricchezza, forse anche sofferto..., qualcosa che si salda con
tutta la vita; fede come la valuta pregiata che circola liberamente
nelle diverse aree della personalità, la dracma da ritrovare in conti­
nuazione e da metter sempre più al centro dell’esistenza.
Allora, davvero la componente statica si salda progressivamente
con quella dinamica e non vi sono più squilibri di sorta. Anzi, po­
tremmo dire che in tal modo modello genetico-mariano e dinamico-
paolino s’incontrano in un disegno che riafferma con forza
l’unitarietà e la complessità del credere, e mentre rende forte la fede
rende forte anche il credente.4
La fede, di fatto, è forte e bello è credere se è «tutto» l’uomo che
crede, con il cuore, con le mani, coi piedi, con la fantasia, di giorno e
di notte, nell’abbondanza e nell’indigenza, nella vita e nella morte...
Credere così è restare ed essere sempre più «giovani»!
Traduciamo in immagine visiva anche il modello paolino, per
evidenziarne gli elementi portanti.
Tav. 6: M odello paolin o: cen tralità e circolarità d e ll'a tto d i fe d e

4 A tal proposito è interessante notare come fede in ebraico sia espressa col ver­
bo che è presente nel nostro amen, verbo che significa «essere stabile, fondato» su
una roccia sicura (cf. G. RAVASI, «n ponte sul fiume», in Avvenire, 22 gen 1998).
Si crede con il cuore, con la mente e con la volontà a una pre­
senza di Dio che s’è manifestata nella propria storia passata, che dà
significato a quella presente, anzi nasce e rinasce sempre nuova, pure
compiendosi, in essa, e che suggerisce un modo preciso di guardare il
futuro, anzi la certezza di tale presenza diventa chiave di lettura della
vita che è ancora da vivere, criterio delle scelte e speranza nelle prove
che attendono il credente.

«La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza» (Peguy).

Vediamo allora come far nascere nel cuore del giovane questa
fede-speranza che abbraccia il futuro.
È ovvio che i modelli finora presentati costituiscono già un’in­
dicazione valida e fondamentale in tal senso. Ma pensiamo di poter
ancora cercare e trovare una proposta di crescita nella fede che di­
sponga a guardare al futuro nel modo tipico di colui che sa che tutto è
nelle mani di Dio, e non si turba; né attende che la vita gli rotoli ad­
dosso, ma le va incontro con l’ottimismo e il senso di responsabilità
di chi sa che Dio è fedele.
D ’altro canto i vari modelli che stiamo presentando stanno a dire
che dinanzi allo stesso dono dello Spirito diverse sono le possibilità
dell’uomo di lasciarsene possedere. Né è detto che il formatore debba
sceglierne una con esclusione delle altre, poiché queste diverse pos­
sibilità non s’escludono tra di loro, ma possono essere usate in modo
convergente e complementare, dunque assieme.

d) Modello evangelico: la tensione cristocentrica

Cerchiamo il senso di questo modello.nel Vangelo, in brani ove i


verbi, e la prospettiva di vita, sono al futuro, e stanno a indicare come
una consegna definitiva, nella speranza, della propria realtà nelle ma­
ni e nel cuore dell’Eterno.

I. «... lo faremo e udremo» (Es 24,7)

Quando Mosè propone la Legge ai figli di Israele, nel momento


più solenne e fondante della loro storia, costoro rispondono in manie­
ra un po’ singolare, secondo l’interpretazione di Lévinas: «Quanto il
Signore ha ordinato, noi lo faremo e udremo».
Singolare è che il fare sia anteposto all’udire o alPintendere, o
che l’idea di una prassi esistenziale, che normalmente fa séguito alla
conoscenza-convinzione, sia collocata prima di essa; anzi, l’atto con
cui gli ebrei accettano la Torah non solo precede la conoscenza, ma
sembra essere mezzo e via alla vera conoscenza.
In realtà, l’ordine in apparenza rovesciato è, al contrario, fonda-
mentale per comprendere la natura della fede e indirizzare in modo
coưetto quella del giovane in formazione. Commenta Lévinas:

«L’adesione al bene per coloro che dissero: “Faremo e udremo”, non


è il risultato di una scelta tra il bene e il male, essa viene prima... La
relazione diretta col vero... - voglio dứe, l’accoglimento della Rive­
lazione - può esser unicamente relazione con una persona, con
l’altro. La Torah è data dalla luce di un viso. L’epifania dell’altro è
ipso fa cto la mia responsabilità nei suoi confronti: la visione dell’altro
è fin di ora un’obbligazione nei suoi confronti... La coscienza è
l ’urgenza di una destinazione che porta all’altro, non l ’etemo ritomo
su di sé»,5

e così è la fede.
Due cose almeno vanno sottolineate di questa originale lettura. Il
giovane va esercitato a vivere e praticare una fede che non anteponga
mai in modo rigido la sua comprensione comQconditio sine qua non
per agire, o - altrimenti detto - la sua convinzione soggettiva non può
diventare condizione assoluta per accogliere una mediazione o
un’obbedienza, o per fare una certa scelta. E questo sia perché la fede
suppone il ricorso a un’altea logica che non sia esclusivamente uma­
na, a criteri non solo terreni, sia perché è l’assenso alla prospettiva
credente che ne fa comprendere la ricchezza, è solo quando uno deci­
de di entrare in quell’altea logica che ne può assaporare il gusto e, an­
cor più, è solo quando uno di fatto vive secondo quella logica «altra»
che ne scopre l’ampiezza di senso e di orizzonti che spalanca alla sua
persona.
La realtà della croce non è perdente, ma ricca di vita, però uno la
percepisce come tale solo dopo che l’ha abbracciata; la rinuncia per
amore non è deprimente, ma condizione per desiderare i desideri di
Dio, però questo viene colto solo in forza di un cammino spesso lun­
go e per tappe progressive. Diversamente, finché il giovane sta ad
attendere o pretendere di veder tutto chiaro e convincente, non entra
mai nel suo futuro, e così diventa vecchio senza aver vissuto in pie­
nezza né aver mai goduto della libertà giovane della fedeế

5 E. L é v i n a s , Quattro letture talmudiche , Genova 1982, 67-97.


Il secondo aspetto che rende davvero interessante l’interpreta­
zione di Lévinas è l’idea della fede come «visione di un volto», «re­
lazione o destinazione che porta all’Altro», «obbligazione e respon­
sabilità nei suoi confronti»; molto più, dunque, che semplice ideolo­
gia basata sull’evidenza convincente degli argomenti.
Il nostro giovane va educato alla coscienza di questa relazione
con l’Altro che lo costituisce nell’essere, lo rende capace di risposta,
respons-abile, prima ancora che egli'possa chiedersi o capire cosa de­
ve fare, e diventa destinazione di ogni frammento di vita e del suo es­
sere. Grazie a questo rapporto l’uomó diventa se stesso e non teme
più il futuro; grazie alla visione di questo volto la fede non è più solo
idea, ma diviene relazione, palpito vitale, dialogo con una persona
viva, incontro con lo sguardo di Dio che fissa la creatura amandola,
benedizione e fiducia...

n. «... Dà chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68)


Dopo l’evento gratificante della moltiplicazione dei pani e il di­
scorso «duro» di Gesù sul pane di vita, molti dei suoi discepoli «si ti­
rarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6,66).
La vita è un continuo partire e ripartire, coi distacchi e i rischi
che ogni partenza implica ma pure coi nuovi orizzonti e speranze che
ogni andare reca con sé. Anche i discepoli di Gesù sono posti dinanzi
a questa alternativa: o continuare a seguirlo o fermarsi, e Gesù stesso
li provoca a scegliere senza per nulla sminuire o addolcire la durezza
del suo discorso («Volete andarvene anche voi?»), correndo il rischio
di ritrovarsi solo, ma facendo anche appello alla libertà umana del
credente e del chiamato, contìnuamente tesa tra il chiarore e
l’oscurità del mistero divino.
È come una sfida costantemente riproposta da Gesù che da un
lato, mentre moltìplica i pani, dà un segno subito visibile e godibile,
venendo incontro a una certa attesa, ma dall’altro indica immediata­
mente un significato ulteriore, una prospettiva che supera l’attesa
precedente aprendo la vita a un futuro nuovo; sazia la fame ma per
mostrare subito un’altea fame; appaga il desiderio perché l’uomo im­
pari a desiderare di più, molto di più. Aver fede è proprio questo,
questo eterno giuoco di continui superamenti, come un’insopprimi­
bile tensione a protendersi in avanti, a spostare sempre più in alto il
baricentro della vita, o un pensarsi e proiettarsi in una dimensione
che entra sempre più nell’orbita di Dio.
Per questo credere significa andare, lasciare qualcosa per scopri­
re qualcos’altro, anche nei confronti di Dio che ogni giorno si rivela
sempre nuovo, e continuamente chiede di aprirsi all’imprevedibile
novità dei suoi doni, senza pretendere di possederli o di possedere
lui, il datore dei doni (il Dio di ieri, infatti, può esser l’idolo di oggi).
Credere è partire per una terra senza sapere dove (cf. Eb 11,8), eppu­
re spinti dalla sensazione di non poter assolutamente fare diversa­
mente e attratti dal mistero di quella teưa.
È esemplare l’atteggiamento provocatorio di Gesù, proprio per­
ché pone la domanda-sfida giusta al momento e nel modo giusto, do­
po aver mostrato lo scarto tra il pane teưeno e quello celeste, o per­
ché sa bilanciare sapientemente l’appagamento con l’inappagamento,
il cibo che sfama con il discorso duro da intendere, quasi creando una
situazione di «frustrazione ottimale» perché il corpo sazio non appe-
santisca lo spirito, impedendogli di sentire un’altra fame, quella del
pane di vita eterna.
Questo metodo è esemplare per l’educatore della fede, che deve
essere coraggioso e tempestivo nel poưe la provocazione adeguata,
ma solo dopo aver fatto toccare con mano la differenza tra l’appaga­
mento istintuale (che si brucia all’istante e si ripete sempre uguale a
se stesso) e la tensione spirituale (sempre nuova e mai del tutto appa­
gabile). Perché ogni situazione, anche la più gratificante (un’afferma­
zione dell’io, un’amicizia, un compenso affettivo...), non determini
un ripiegamento dell’io su di sé, ma divenga simbolo e richiamo di
un desiderio superiore e misterioso, che viene da Dio e ha Dio come
termine ultimo.
Ma esemplare è anche Pietro nella sua risposta, in quel suo istinti­
vo «Da chi andremo?», come a dke: «ma dove vuoi che andiamo? Ci
sono tanti “messia” in giro, pure capaci di far cose prodigiose o di sod­
disfare le attese per ottenere l’assenso della gente, abili giocolieri che
moltiplicano pani che non sfamano, grandi parlatori che ripetono parole
già sentite e scontate, falsi profeti che svendono un futuro privo di mi­
stero...; ma nessuno di costoro ha le parole della vita come quelle che
dici tu, parole che velano e svelano, che mi dicono la verità della mia
vita e assieme mi spingono a cercare ancora, parole che appagano il
mio bisogno di sapere ma ampliano a dismisura gli orizzonti del mio
vivere, parole nondimeno distanti e inquietanti, dure da capire e ancor
più da vivere, e pure vere e belle, parole che una vita intera non basterà
per capire e proprio per questo già saporose di eterno.
No, non ti seguo per la fame che mi sazi, ma per quella fame che
la tua parola mi ha fatto nascere dentro e che resta insaziabile. Stare
con te è respirare il mistero... Dove andare lontano da te, mio Signore
e Maestro, via, verità e vita? Io non so bene perché e so che sono solo
agli inizi del cammino, ma sento che andarmene da te vorrebbe dứe
andare alla deriva, abbandonare me stesso, non aver più alcun futuro,
perdermi... Vivere senza te non è più vivere!».
III. «... sulla tua parola getterò le reti» (Le 5,5)
Simone, sempre lui, ha faticato tutta la notte senza prendere
nulla, ma obbedisce all’invito del Signore di prendere il largo e calare
ancora le reti.
Pietro sa, da buon pescatore, che l’operazione non è tanto sen­
sata, ma ha appena ascoltato il Signore ammaestrare le folle, e pro­
prio quest’ascolto gli mette ora sulle labbra una stupenda proclama­
zione di fede: «... sulla tua parola getterò le reti».
Dopo il fallimento dei propri sforzi notturni, ecco la fiducia che
nasce da una parola nuova ascoltata e che apre la vita a un giorno e a
un futuro nuovo, quasi una scommessa nella quale l’esperto pescatore
gioca, anche di fronte alla folla, la sua reputazione.
Una scommessa sulla Parola! Siamo al cuore della fede e dell’e­
sercizio della fede. Il giovane deve essere portato a questo punto de­
cisivo, lungo un percorso che dalla prudenza conduce alla follia, o
dal fallimento porta alla fiducia.
E non dovrebbe essere difficile, perché non è infrequente l’espe­
rienza amara dell’inutilità dei propri sforzi nella vita spirituale o delle
proprie fatiche nell’apostolato. Spesso tale amarezza genera sfiducia,
e invece quest’esperienza è preziosa nella formazione, consente di
vedere quanto il soggetto sappia reagire con costanza e determinazio­
ne agli insuccessi o quanto sappia andare all’essenziale, ma soprat­
tutto permette al giovane stesso, ben guidato, di scoprile il perché del
fallimento, spesso legato, specie nell’età giovanile, a un’eccessiva
pretesa o a una certa sicurezza di riuscita, che rende eccessivamente
calcolatori e paurosi di fidarsi deir Altro.
C’è chi la chiama fase sub-liminale, perché la scoperta del pro­
prio narcisismo spirituale, della sottile voglia di essere belli e «servi
utili» dinanzi a Dio, è disorientante e frustrante, crea come un senso
di vuoto, si ha l’impressione di non capữe più da che parte andare,
come si fosse improvvisamente impotenti dinanzi a un idolo che ci ha
per lungo tempo tenuti schiavi senza che ce ne potessimo render
conto; abbiamo pescato tutta notte senza prender nulla...
Eppure è proprio questo «nulla» che può divenire terra feconda
per Fazione della grazia, è nella consapevolezza del proprio niente
che la fede può crescere, maturare e purificarsi continuamente. È pa­
radossalmente proprio questo niente, finalmente liberato da ogni pre­
sunzione e invadenza dell’io, che attira l’attenzione amorevole del
Signore, che su di esso può far risuonare in tutta la sua forza quella
Parola che dal nulla, un tempo, ha fatto tutte le cose, con l’invito, ora,
a «prendere il largo e calare le reti».
E, adesso come allora, la Parola «crea». Più precisamente: come
dal nulla e sul nulla dell’uomo Dio ha pronunciato la sua Parola, così
su questa stessa Parola l’uomo decide di costruire la sua vita, e sce­
glie per questo di «andare al largo e gettare le reti»; ovvero, di fare
qualcosa che umanamente è inconcepibile e strano, di non aver altee
sicurezze al di fuori della Parola, di rischiare di buttarsi e avventurar­
si in imprese ardite e forse «impossibili», in cui più che la certezza
della propria capacità vincente c’è la sicurezza del punto di approdo,
di qualcuno che attende e attira chi si fida di lui, e gli dà di cammina­
re addirittura sulle acque verso di lui, o di raccogliere una tal quantità
di pesci da romper le reti...
E la teologia del niente diventa ki teologia dell’abbondanza, pas­
sando attraverso, per così dire, la teologia del silenzio, dell’ascolto, della
Parola, del coraggio di agire in forza esclusivamente della Parola...; tutti
«saperi teologici» che non si studiano solo a scuola, ma che il nostro gio­
vane dovrebbe comunque imparare, sperimentare, convertire in «sapore
teologico», in gusto di Dio... per divenire credente.
La fede, infatti, si trova «al largo», dove «non si tocca», ma ove
confluiscono percorsi nùrati e guidati intelligentemente: il percorso
della fede, ad esempio, come visione di un volto e incrocio di uno
sguardo che porta a fare prima ancora o senza pretendere di capire; il
percorso di una fame o di una tensione che dall’appagamento teưeno
sale sempre più in alto e diviene fame di Dio e scoperta che solo lui
ha le parole della vita; il percorso, infine, che dall’esperienza del pro­
prio niente conduce al coraggio, dopo la «notte» degli sforzi inutili,
di andare al largo e gettare le reti solo «sulla sua parola».
Crescere nella fede, allora, richiede l’abbandono progressivo di
tutti i riferimenti «esterni» o meno centrali di identità (come, ad es.,
alle proprie doti fisiche 0 psichiche), e l’acquisizione della forma per­
sonale fissata dalla fede.

«Per questo invecchiare esige la capacità di fare progressivamente a


meno di tutti i riferimenti di identificazione, per essere semplicemente
se stessi, figli di Dio».6

6 c . M olari, «Chiedere perdono per imparare dalla storia», in Rocca, 2(1998), 56.
Tav. 7: M odello evan gelico: la fe d e com e relazione con un volto, accoglien za
d e l m istero e rischio d e ll'im possibile

“Lo faremo yadecom e..


e udremo...” relazione con un volto
---------------------►

^tedecom ^
“Tu hai le parole
di vita eterna...” accoglienza del mistero
---------------------►

^edecom e^
“Sulla tua parola
getterò le reti...” rischio dell’impossibile
---------------------►
PARTE QUINTA

FORMAZIONE CARISMATICA
Siamo alla terza dimensione del processo formativo, quella cari­
smatica.
Dovrebbe essere quella che fa da sintesi delle altre due. L’uomo
e il credente, infatti, non solo rivivono nel consacrato, ma in lui ritro­
vano una possibilità sorprendente e inedita di sviluppare in pieno le
rispettive potenzialità e di affermare la propria individualità.
Nel grande disegno paolino (cf. Ef 3,18), se le dimensioni umana
e spirituale rappresentano rispettivamente la profondità e l’altezza del
mistero-uomo, la dimensione carismatica dice l'insieme del progetto,
quella bellezza che è il fratto congiunto della maturazione ai diversi
Uvelli e che rende singolare e inconfondibile, «bello» di divina bel­
lezza, l’uomo stesso.
Ovvio che tale dimensione non potrebbe sussistere senza le altre;
chi si consacra a Dio è anzitutto un essere umano che conosce la sua
storia e le sue debolezze, il desiderio e la fatica di camminare nella
verità; ma è anche un credente che dentro quella storia e quella fatica
ha fatto in modo forse imprevedibile la conoscenza di Dio, scoprendo
che il suo amore «gli bastava». E se poi ha scelto di offrirsi total­
mente a Dio in una famiglia religiosa, l’ha fatto perché ha capito che
quell’amore non solo gli poteva bastare, ma... gli avanzava pure, al
punto di poterne divenire trasparenza con la propria umanità per tanti
altri che ne potessero godere.
Seguiamo allora lo stesso schema già proposto per le altre due
dimensioni: prima definiamo gli elementi architettonico-portanti e poi
quelli ermeneutico-dinamici.
Capitolo tredicesimo

LA DiMENSIONE CARISMATICA

Si fratta, anzitutto, nella formazione, di capire il significato fon­


damentale della consacrazione in quanto evento spirituale e umano,
che modifica profondamente l’esistenza alla luce di un carisma.1
Le linee formative che definiscono un progetto di consacrazione so­
no necessariamente legate alla natura di questo evento, come alTinter-
pretazione che si attribuisce al carisma, e non solo sul piano strettamente
spirituale-religioso, ma anche su quello più intrapsichico ed esistenziale.
Se Matti formazione significa, come abbiamo ricordato più sopra, propo­
sta di una forma come norma di vita, il carisma è esattamente tale forma
specifica con cui l’individuo è chiamato a identificarsi: è la forma della
sua fede, o il suo modo di essere credente, e la forma dell’immagine di
Cristo che deve riprodurre nella sua esistenza.
Proprio per questo la dimensione carismatica non può non mo­
dificare in profondità la vita stessa dell’uomo e del credente, anzi, ne
rappresenta il compimento e la suprema espressione di bellezza.
Vediamo allora, anzitutto, i presupposti di tale dimensione, quasi
i punti di partenza da cui parte e riparte contìnuamente un’autentica e
mirata formazione carismatica.

1. Presupposti
Abbiamo detto, nelle precedenti analisi, che l’uomo è capace di
trascendersi fino a cogliere l’amore di Dio e lasciarsi da lui amare,
per arrivare a voler bene addirittura come Dio entrando nel mondo
dei suoi sentimenti e desideri.
Il carisma di un istituto, in questa prospettiva,
1. è quel dono dall’alto che esprime il progetto che il Padre creatore
ha sulla creatura e attraverso il quale la creatura realizza la sua
specifica somiglianza con Dio stesso. Ogni carisma, infatti, sot­
tolinea un particolare aspetto della realtà divina manifestata nel
Figlio secondo la fantasia scapigliata e pacatissima dello Spirito.

1 Quando parliamo di «carisma» in questo capitolo e nei successivi, intendiamo


sempre il carisma di un istituto religioso, a meno sia indicato diversamente nel testo.
2. Ma il carisma ha anche una valenza umana e psicologica: esso è
infatti la rivelazione definitiva dell’io ideale o di ciò che una per­
sona è ed è chiamata a essere, è il suo «nome»; il carisma di un
istituto non ha dunque solo un significato spirituale o istituzio­
nale, ma, svelando quella parte dell’io che attende di essere rea­
lizzata indica anche la via dell’autorealizzazione personale; non è
indicazione generica di un modo di vivere o nobile tradizione o
valore solo ascetico, ma proposta dettagliata di vita che abbraccia
tutti gli aspetti dell’esistere, dandogli un inconfondibile colore, e
sempre secondo la fantasia incontenibile e ordinata dello Spirito.
3. Tale dono dall’alto è sempre anche dono da vivere con gli altri,
con quelli che portano lo stesso «nome» o che hanno ricevuto il
medesimo dono. Si vive in comunità perché il dono dello Spirito
crea vincoli più forti di quelli della carne e del sangue, ma anche
perché quel dono va necessariamente condiviso per esser meglio
compreso e vissuto, per dame una testimonianza più visibile e
convincente nella ricchezza dell’apporto originale di ognuno.
4. Infine il dono del carisma va vissuto per gli altri, non è in fun­
zione della perfezione propria 0 dell’istituto, ma è dato a qualcu­
no perché non manchi alla Chiesa alcun dono di grazia (ICor
1,7). Più in particolare ogni carisma esprime - attraverso una
specifica azione caritativa - l’amore e la provvidenza del Padre
per gli uomini, specie per i più bisognosi; ma contiene pure una
sapienza spirituale che il consacrato non può tenere per sé, ma
deve saper tradurre e porgere agli altri, perché tutti, idealmente,
la possano capire e ne godano e ne siano beati.
La consacrazione esprime tutto questo: è dono dall’alto per la
Chiesa e il mondo. Alcuni sono titolari o destinatari immediati di
questo dono, ma destinatario finale è ogni uomo e ogni credente. CM
si consacra a Dio non lo fa mai solo per se stesso, né si santifica pen­
sando esclusivamente alla sua perfezione...
Al tempo stesso ogni consacrato ritrova se stesso nel dono che lo
consacra; ovvero, nei contenuti che definiscono il suo carisma riscopre
i lineamenti che caratterizzano la sua fisionomia, le fattezze di quel
volto che il Padre ha creato e contìnua a creare in lui, il mistero della
sua identità «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3) e destinata a svelarsi
per la santificazione di tutti, nella Chiesa, corpo mistico di Cristo.

2. Contenuti
La formazione carismatica mirerà allora a evidenziare questi
«tratti nascosti», che corrispondono poi alle componenti classiche del
carisma: l’elemento mistico, ascetico e apostolico. Il tutto racchiuso
entro le due polarità tipiche del cammino di maturazione dell’io: il
senso di identità e il senso di appartenenza, il primo - in teoria - co­
me punto di partenza del processo, il secondo come suo naturale
punto di arrivo, ma in pratica destinati a interagire tra loro durante
l’iter formativo, ovvero a crescere insieme nello stesso individuo e
nella comunità.

a) Senso di identità
Anzitutto è fondamentale, nella formazione, chiarire il signifi­
cato funzionale del carisma. Non è saggio iniziare l’iter formativo il-
lusfrando subito tutto il contenuto del carisma di istituto, o pensare
che questa operazione sia sufficiente per avviare il processo di inter-
nalizzazione.
È stata l’illusione del dopo-concilio, quando si ritenne che sa­
rebbe bastato riscoprire il cansma delle ongini di ogni istituto per
provocare un salutare rinnovamento della vita consacrata. Cosa che
poi non avvenne (o almeno non nella misura sperata) probabilmente
anche a motivo di questa dimenticanza o disattenzione: non ci
s’accorse che, prima del contenuto, andava chiarito il senso, il signi­
ficatofunzionale del carisma stesso.
Per molti consacrati/e non era (o non è) abbastanza chiaro quale
sia il ruolo del carisma ai fini della propria realizzazione personale,
anzi, più di qualcuno viveva una certa confrapposizione tra le due
prospettive, come se il carisma fosse qualcosa di generico e solo spi­
rituale, dato o imposto a tutti come obiettivo livellante aspirazioni e
potenzialità individuali, poco definibile e poco definito al di là dei
soliti luoghi comuni, sempre più comuni e simili tra un istituto e
l’altro (altro livellamento), e dunque, in definitiva, poco amato e an­
cor meno riconosciuto come punto di riferimento della propria iden­
tità. A che serve scoprire il contenuto originario carismatico se prima
o assieme non si aiuta a riscoprirne la funzione nel contesto
dell’identità? A che serve studiare radici, storia, evoluzione, tradizio­
n i... del carisma se assieme non si capisce che tutto questo è anche la
propria radice e la propria storia, la propria identità e realizzazione, il
proprio presente e futuro?
La «disaffezione carismatica» è stato forse il primo grave sinto­
mo, un po’ nascosto, di una certa crisi della vita consacrata ancora
non del tutto risolta e sfociante nell’ormai nota e classica «crisi di
identità» o nel singolare fenomeno della «doppia identità»: quella ca­
rismatica, ufficiale e istituzionale, esibita come un bel vestito o pa­
tacca che dà lustro, e quella privata e personale, tutta costruita sulla
realizzazione delle proprie doti e talenti, curata e coccolata come un
amore segreto e proibito, e difesa a volte gelosamente come un asso­
luto, qualcosa di irrinunciabile. Con tutto il séguito di conflittualità,
aperta o sottile, tea queste due modalità di identificazione (o tra sin­
golo e istituzione)...
Ecco perché è importante fin da subito, nella prima formazione,
presentare il carisma nella sua verità e funzione se non si vuole che
diventi finzione.
E la verità che va proposta al giovane è questa: il carisma è il
mio io, è il nome col quale Dio mi ha chiamato alla vita sognandomi
simile a lui, è il mio passato, ma anche ciò che sono chiamato a esse­
re, è il senso pieno della mia storia e la condizione per sentirmi me
stesso ed essere felice, è ciò che rende definitivamente positiva la mia
identità, molto più di quanto non la potrebbero rendere le mie qualità
e abilità varie.
Non che queste ultime non siano importanti, anzi, anch’essè so­
no carismi, doni che ho ricevuto da Dio per il bene degli altri; più
precisamente, sono carismi funzionali-attuali, legati all’io attuale
(quel che io sono già) e al servizio del carisma vocazionale-ideale, o
dell’io ideale (quel che devo e voglio diventare), espresso e conte­
nuto nel carisma di istituto; dunque sono un mezzo, non un fine, un
mezzo per viver meglio e più efficacemente l’identità vocazionale, o
il luogo ove esprimere più pienamente la propria chiamata, e proprio
questo fine salva tali carismi dairinsignificanza narcisista provocan­
doli a... funzionare al massimo.
Se sono un mezzo, ancora, non sono un assoluto, dunque la vita
può arrivare a chiedermene il «sacrificio» in vista di un bene maggiore;
certo non sarà facile lasciare un’attività per la quale mi sento tagliato o
un ambiente o un molo che mi dà modo di esprimere i miei talenti, ma
sarà possibile solo se l’identità e la sua positività «abitano» altrove, nel
dono dall’alto pensato e preparato da Dio per me.
Chissà quante crisi future si potrebbero evitare se nella prima
formazione fosse subito ben delineata la natura del carisma come
fonte di identità e rivelatore del mistero dell’io! o quanto ne guada­
gnerebbero il senso di unità di vita e l’efficacia nelle attività, la tra­
sparenza della testimonianza e - come conseguenza inđữetta ma rea­
le - l’animazione vocazionale.
È certa una cosa: solo quando sono stati chiariti ruolo e signifi­
cato psicodinamico del carisma, l’individuo è fortemente motivato a
conoscerne e viverne anche il contenuto, e non potrebbe esser diver­
samente, dato che quel contenuto è anche il suo io, lo rivela a se stes­
so... L’attrazione dello Spirito trova finalmente il teưeno adatto per
suscitare l’attrazione del cuore e della mente.
b) Esperienza mistica
All’inizio di un carisma c’è sempre una teofania, e una teofania
sorprendente. Dio si rivela e mostrando il volto divino svela anche
all’uomo il suo volto umano.
Non è una semplice autocomunicazione divina, che il credente
può solo accogliere e contemplare, magari avvertendo ancor più la
distanza che lo separa dall’Altissimo; bensì è un dữsi da parte di Dio
nel quale l’uomo sente parlare anche di sé, o uno svelarsi del Mistero
divino che svela e restituisce l’uomo a se stesso, perché l’uomo è
parte del Mistero di Dio e la verità di Dio è anche la sua verità, verità
sulla sua vita.
E proprio questo è l’elemento sorprendente, non solo che Dio si ri­
veli, ma che in quello stesso momento e in quella stessa rivelazione egli
pronunci il nostro nome.2 Per questo il profeta può dire: «noi siamo
chiamati col tuo nome» (Ger 14,9). E così i nostri fondatori e fondatrici:
uomini e dorme oranti che nel mistero pregato, o in un particolare aspetto
della realtà divina o della vita umana del Cristo, hanno lentamente o im­
provvisamente scoperto se stessi, il progetto di Dio su di loro e su altre
persone, un’identità da assumere, un’irnmagine divina da vivere nella
propria storia, una somiglianza con Dio da manifestare.
Le nostre famiglie religiose esistono perché c’è stato chi ha vissuto
intensamente questa peculiare esperienza del divino, e sono vive nella
misura in cui altri oggi, per dono di Dio, rivivono la medesima espe­
rienza, dinanzi al medesimo mistero. Il consacrato nasce proprio qui,
quando inizia a scoprire il suo io entro questo rapporto con Dio e lascia
che il mistero pregato diventi la fonte della sua identità. È la spiritualità
che gli svela l’identità e i singoli tratti della sua fisionomia.
Per questo la preghiera è, per natura sua, l ’attività primordiale
del giovane consacrato, poiché l’esperienza o l’autocomunicazione di
Dio precedono necessariamente la conoscenza che l’essere umano
può avere di sé, anzi, è la teofania che illumina la conoscenza umana.
E allora questa è preghiera che trasforma: l’uomo entra progressi­
vamente in sintonia con ciò che contempla, ne assume i sentimenti, se
ne lascia plasmare.