Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
I senti menti
del “ igSi®
Il cammino formativo
nella vocazione presbiterale e consacrata
ISBN 88-10-50820-3
1 Una delle due edizioni in lingua inglese reca già nel sottotitolo il riferimento a
entrambe le vocazioni (Guiding Young People in Religious and Priestly Formation,
ed è edito da Paulines Publications Africa)
esplicitamente riprese, ma nemmeno vengono lasciate prive d’un
quadro psicopedagogico di riferimento ideale. Semplicemente si ri
tiene, e questo - ci tengo a ripeterlo - soprattutto per ammissione di
quei formatori presbiterali che hanno letto il libro, che la sostanza
della proposta psicopedagogico-spứituale che emerge dal testo stesso
possa esser condivisa anche nell’ambito dell’iter formativo del sacer
dote diocesano.
La ragione? Niente di speciale o di particolarmente originale.
Forse il fatto che lo specifico di questa pubblicazione, nel suo picco
lo, è esattamente l’individuazione di alcune linee pedagogiche essen
ziali di crescita, nella vita spirituale di chi vuole rispondere con re
sponsabilità alla chiamata di Dio.
Probabilmente sempre per questo motivo il libro ha ừovato una
certa diffusione anche in contesti culturali diversi, perché proprio que
sta è l’attesa maggiormente sentita nel nostro ambito: non il semplice
chiarimento teologico-spừituale dell’identità del chiamato, ma la sco
perta del percorso metodologico che ci consenta di raggiungere quell’i
dentità nei suoi diversi lineamenti. Come abbiamo più volte constatato
in incontri con gruppi di formatori presbiterali, in Italia e all’estero.
Così, con molta semplicità, mi permetto ora di proporre il testo a
un pubblico più vasto, oltre il confine della vita consacrata.
D’altronde, in una Chiesa che sta sempre più riscoprendo la ne
cessità e la bellezza della condivisione dei carismi, niente di più natu
rale del condividere esperienze e pedagogie diverse e convergenti,
nel comune intento di costruire in noi l’immagine del Figlio, per la
pluriforme azione dello Spirito, affinché ogni creatura lo riconosca
Signore, a gloria di Dio Padre!
L’Autore
Capitolo primo
LA FORMAZIONE OGGI,
TRA PROBLEMI E SPERANZE
li
diazioni importanti sono quelle della comunità educativa, con la sua
articolazione di ruoli, e dell’ambiente adeguato, con condizioni e sti
moli che facilitino l’azione educativa. Se è Dio l’unico formatore, chi
lavora nella formazione svolge il molo del collaboratore-mediatore,
ruolo indispensabile per aiutare il giovane a lasciarsi convertire e pla
smare dalla grazia.
Rete
di mediazioni
pedagogiche
4. «Vidimus Dominum!»
3 Ibidem.
4 Chissà se si può applicare a superiori e formatori quanto certa pedagogia
odierna rileva a proposito dell’attuale generazione di genitori, i quali rappresentereb
bero l’ultima generazione di figli che hanno obbedito ai loro padri, e la prima genera
zione di padri che obbediscono ai loro figli...
5 È stato un argomento trattato nella prima relazione al Congresso stesso, cf. A.
CENCINI, Quando Dio chiama. La consacrazione: scommessa e sfida per i giovani di
oggi, Milano 1998, 22-21.
«Non bastano più né i maestri né i testimoni. Occorre l ’umile lavoro
di mediazione: mettersi accanto ai giovani, dialogare senza imporsi,
aiutarli a confrontarsi.. .».6
IL MODELLO FORMATIVO
Vogliamo, in questa prima parte, considerare il problema della
formazione dal versante istituzionale, e dunque sul piano di ciò che
l’istituzione fa per educare-formare-accompagnare il cammino di chi
desidera consacrarsi a Dio e appartenere alla famiglia religiosa. Da
questo punto di vista la formazione è dono e privilegio, sia per chi è
chiamato in prima persona a farsi carico di questi cammini, ovvero
formatori e formatrici, sia per chi è di fatto educato-formato-accom-
pagnato nel cammino stesso, ma di fatto diventa dono e privilegio solo
se vengono rispettati quei requisiti in cui abbiamo prima indicato le
condizioni per un effettivo processo propedeutico alla vita consacrata.
La prima componente di un qualsiasi progetto formativo è la de
finizione, il più possibile accurata, di un modello formativo, ovvero
di un disegno generale e altresì specifico che esprima l’obiettivo che
si vuole raggiungere, e come s’intenda raggiungerlo, o le modalità e
strategie di intervento.
Tale quadro teorico-pratico, teoiogico-antropologico di riferi
mento diventa il tessuto connettivo che dà ordine al processo evoluti
vo formativo e ragioni profonde a ogni suo elemento e componente
lungo il tempo della formazione iniziale e permanente, perché tale
formazione sia armonica e coerente.
Capitolo secondo
LA FORMAZIONE OGGI
Così nei nostri programmi c’è una sorta di «ipertrofia dei fini»,
un’ipertrofia che a volte sembra addirittura esaltarsi, divenendo ec
cessiva e ridondante, per la gioia, o la tranquillità, di chi ritiene che
per fare formazione basti dire, altissimi e vaghi, i fini, e pretende di
ignorare i mezzi, che poi vuol dire i soggetti, i contesti, i metodi.
Chiariamo subito: per metodo non intendiamo semplicemente un
insieme di tecniche, o una serie di processi messi in atto dair educa
tore, che funzionino come generici - per quanto efficaci - condizio
namenti psicologici, e neppure una prassi educativa che obbedisca ai
criteri della maturazione umana, individuale e di grappo, ma poi sia
sostanzialmente indipendente dalla maturazione cristiana, o più o
meno sganciata dalle specifiche esigenze della consacrazione a Dio.
Pensiamo invece al metodo come a una realtà intermedia tra teo
ria e pratica, e sottolineata da queste tre caratteristiche:
- è strettissimamente legata al contenuto, nel nostro caso costi
tuito dal modello teologico, e connaturale al carisma, poiché ivi
ritrova le sue radici;
- di tale modello è la logica e inevitabile conseguenza operati
va, quasi la sua scomposizione in singole tappe o in obiettivi
intermedi, in una gradualità di percorso che consente di rag
giungere in modo ordinato e progressivo l’obiettivo finale;
- ma è già in se stesso, in quanto tappa e traguardo intermedio,
parte integrante ed essenziale del disegno finale, come una
sua anticipazione che ne consente anche una progressiva degu
stazione.
Possiamo a questo punto cogliere la differenza tra tecnica e me
todo. La tecnica educativa è una serie di operazioni finalizzate al
conseguimento di un obiettivo pedagogico (normalmente di tipo atti
tudinale), ma che possono esser agevolmente sganciate da qualsiasi
ispkazione ideale, come fossero «senz’anima» (né radici), una sorta
di metodo neutro, che proprio per questo può esser applicato in con
testi diversi (indipendentemente da una scelta di fede); viene appli
1. Modello teologico-antropologico
5 A tal proposito va comunque detto che nel testo originale biblico il senso è
molto più forte e non è reso sufficientemente dalla traduzione italiana; il verbo greco
fronein indica infatti il modo profondo di sentire di una persona, non solo emozioni e
«sentimenti» passeggeri.
6 Cf. A. CENCINI, «Una istituzione al servizio della formazione», in Antro
pologia interdisciplinare e formazione, a cura di F. IMODA, Bologna 1997, 592-593.
2. Strategie generali: legge della totalità
e della dinamica esperienziale-sapienziale
10 Ibidem, 67.
metodo l’elemento debole della formazione alla vita consacrata. Non
pretenderemo qui di risolvere in poche righe il problema, ma solo fa
re riferimento alle indicazioni illuminanti che ci vengono ancora dal
documento post-sinodale. In sostanza l’uomo nuovo, esso dice, è
uomo «autenticamente libero», ed esige, dunque, di essere formato
alla libertà."
Il disegno è davvero coerente, e non solo su un piano contenuti
stico, ma anche su quello strategico del rapporto tra contenuti teolo
gici e metodologia educativa: se, infatti, fine della formazione è la
configurazione ai sentimenti del Figlio, allora il processo educativo
non può che divemre vera e propria formazione alla libertà. Se fine
della formazione fosse solo l’abilitazione a un certo tipo di apostolato
o il possesso di particolari qualità virtuose, allora la metodologia
formativa potrebbe seguire qualche altro percorso, ma se si deve for
mare il «cuore», nel senso biblico e pieno del termine, allora non può
esistere altra via al di fuori della libertà; se il modello teologico-
antropologico di riferimento è l’umanità di Gesù, come espressione al
massimo gradò di una libertà che si trascende nell’amore, allora il
metodo di formazione non ha alternative. Il cuore, infatti, non può es
ser costretto, ma può e deve essere educato a scoprire la grandezza
della chiamata e la bellezza della proposta, e reso poi capace e libero
di dare risposta come il Figlio ha risposto al Padre, donandosi total
mente. Avere gli stessi suoi sentimenti non significa tentare una sua
esteriore imitazione, ma accedere alla densità del suo mistero e in es
so scoprire anche il proprio mistero: libertà è la realizzazione di que
sta «misteriosa» identità. Vedremo più avanti gli aspetti metodologici
e pratici di questa formazione; accenniamo ora brevemente alle sue
fasi lungo il periodo iniziale.
L’articolazione che ora presentiamo non va intesa in modo rigi
do o nel senso che una escluda l ’altra. L’idea centrale è che a ogni fa
se dell’itinerario classico educativo verso la consacrazione corri
sponda in qualche maniera una certa attenzione educativa al proble
ma della libertà, che va... liberata da quanto la soffoca e inibisce (è la
fase del pre-noviziato), che va poi edificata su un fondamento solido
(il noviziato), e infine va realizzata e orientata secondo una prospet
tiva ben definita (il post-noviziato). Ma, ovviamente, senza corri
spondenze assolute e definitive, come se fosse possibile, ad es., libe
rare totalmente il giovane nella fase del prenoviziato. In certo senso
queste tre articolazioni sono sempre presenti, l’una continua nell’al
tra, ma con accentuazioni diverse lungo le stagioni corrispondenti.
Questo per quanto riguarda la sequenza dinamica.
LE MEDIAZIONI PEDAGOGICHE
Capitolo quarto
b) Formare
Non basta educare, si deve anche formare, proporre un modello
preciso, come un nuovo modo di essere o una «forma» che costitui-
3 Per una più chiara indicazione delle tappe che conducono alla conoscenza
dell’altro e della sua inconsistenza cf. più avanti cap 16, paragrafo 2.
see la nuova identità del consacrato, quel che è chiamato a essere, il
suo io ideale, forma che diventa norma e tras-forma la vita.
Gli ultimi decermi, secondo alcuni, sono stati tempi di reticenza
e ambiguità, se non di silenzio, sul contenuto di questo modello;
l’azione pedagogica, nei nostri ambienti, è stata più di natura educa
tiva che formativa, s’è come accontentata di richiamare ognuno al
compito di conoscersi per «essere se stesso», rischiando però di ap
piattasi sull’orizzonte un po’ neutro e di basso profilo dell’autorea-
lizzazione, come se il primo e unico comandamento fosse quello di
affermarsi nella vita, magari in competizione e a danno degli altri, e
senza alcuna novità per un io destinato a ripetersi all’infmito. E inve
ce solo con la proposta di un autentico modello che si imprime una
direzione nuova e precisa al giovane, che lo provoca al livello più al
to delle sue possibilità, ma pure gli dona tantissimo, lo attrae perché
fonte della sua verità mentre gli propone un liberante (e pur costoso)
cammino di conversione.4
Così, se l’educare è evocativo della verità dell’uomo, il formare
comporta una pro-vocazione dell’umano, una proposta che chiede di
dare il massimo di sé esproprio per questo, svela alla fine ciò di cui il
singolo è capace. In ogni caso un’autentica attività formativa ha effet
ti dirompenti: è novità che sorprende e a volte spaventa, crea nuove
aspettative e sollecitazioni, porta tensione e anche insoddisfazione,
chiede di cambiare le abitudini e i vecchi stili di vita, sposta in avanti
l’equilibrio della persona verso orizzonti impensati, apre una nuova
fase di vita ma sollecita pure resistenze e difese... Se educare è dis
sodare il terreno, formare è immettere in esso la vitalità del seme,
come forza prorompente e foriera di vita nuova; quel seme che cade a
terra, muore e dà frutto.
In una parola è la logica della trasformazione. Un processo di
formazione è autentico solo se conduce alla tras-formazione, a un
cambiamento radicale nel modo di pensare, di volere, di amare; alla
metanoia o alla conversione, in termini spirituali. Strano a dirsi, l’im
pressione è che molto spesso il cammino formativo si fermi prima 0
non si spinga fino a chiedere una trasformazione di mente-cuore-
volontà, un cambio, cioè, non solo di comportamenti (molti formatori
ne sarebbero già appagati), ma anche e soprattutto della sensibilità,
dei gusti, dei criteri di giudizio, di ciò che sta a cuore..., di tutto
l’uomo, insomma. Altrimenti la formazione è finzione o solo appa
renza, intellettuale o morale o sentimentale, ma sempre e solo qual
cosa che riguarda solo una parte, una dimensione delPorganismo
c) Accompagnare
Infine la terza articolazione, che rappresenta in qualche modo lo
stile pedagogico generale. L’educatore-formatore di cui abbiamo par
lato e un fratello maggiore, maggiore nell’esperienza esistenziale e
nel discepolato, che SI pone accanto a un fratello minore per condivi
dere con lui un fratto di strada e di vita, perché questi possa meglio
conoscere se stesso e il dono di Dio, e decidere di rispondervi in li
bertà e responsabilità.6 La dimensione dell’io che qui diviene oggetto
specifico di attenzione è Vio relazionale.
L’accompagnamento è lo stile di Emmaus, icona di qualsiasi ac
compagnamento nella fede. Ma è lo stile, soprattutto, dello Spirito
Santo, il «dolce ospite dell’anima», la compagnia di Dio in noi,
l’iconografo interiore che plasma con fantasia infinita il volto di cia
scuno secondo rimmagine di Gesù.
«La sua presenza è sempre accanto a ogni uomo e donna, per condur
re tutti al discernimento della propria identità di credenti e di chiama
ti, per plasmare e modellare tale identità esattamente secondo il mo
dello dell’amore divino. Questo “stampo divino” lo Spirito santifica-
L ivello
Io Attuale Io Ideale Io Relazionale
DELL’IO
COMUNITÀ EDUCATIVA
1. Elementi strutturali
4 Cf. La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Chrìsti amor», 24.
5 V. Bosco, Il ruolo educativo della comunità religiosa, Torino 1978, 5.
Ciò, evidentemente, non è in contrasto con l’idea e la prassi
dell’équipe educativa, che, anzi, rappresenta un arricchimento della
proposta e una condivisione della responsabilità, oltre a garantire una
maggiore specificità e incisività degli interventi. Quel che va impe
dito, semmai, è che l’équipe coưa il rischio di funzionare in definiti
va da alibi, ad es., per i cosiddetti «pellegrini», quelli che hanno la
tendenza ad andare ora dall’uno ora dall’altro educatore, a ognuno
dicendo qualcosa dei propri problemi, ma a nessuno consegnandosi o
con nessuno aprendosi totalmente; così come va scoperto il trucco dei
«latitanti», coloro che assicurano il responsabile di essere seguiti da
«qualcuno» (non meglio precisato), mentre in realtà si gestiscono con
discreta disinvoltura la vita in proprio, nascondendosi nel collettivo e
stando ben alla larga da ogni confronto.
È possibile avere una guida spirituale esterna alla propria comu
nità formativa (e magari anche al proprio istituto)? In teoria certamente
sì; ciò che è importante è che il giovane venga personalmente seguito,
e, d’altea parte, nessun formatore può considerarsi padrone della vita di
un altro. In pratica, però, va tenuto presente che si possono perdere in
tal modo quei vantaggi che sono legati alla condivisione di vita tra for
matore e candidato prima ricordati, esponendosi a un rischio, quello di
fraintendere o di lasciar fraintendere il significato della formazione co
me mediazione: in effetti, come abbiamo accennato, a volte il giovane
che cerca altrove questa mediazione è semplicemente il giovane dal
palato spirituale un po’ sopraffino che non può accontentarsi di «quel
che passa il convento» e cerca il padre spirituale «extra-comunitario»,
magari famoso e naturalmente più bravo di quello casalingo. Col risul
tato che la relazione diventa sempre più generica e astratta, distante
dalla vita e dai problemi reali della persona; mentre il giovane stesso si
pone sempre più fuori della logica divina e rischia così di non capire
mai qual mistero di grazia si nasconda nella debolezza umana! Un
conto è che il formatore sia competente e sia messo in condizione di
avere una certa preparazione; tutf altro discorso è la pretesa del giovane
di avere un formatore perfetto...
Diversa è la situazione quando invece per vari motivi esiste già
una relazione significativa tra padre spirituale «esterno» e giovane
(come nel caso di una conoscenza anteriore o di un intervento parti
colare contemporaneo quale quello dello psicologo); in questi casi,
normalmente, non c’è contrapposizione tra il cammino «esterno» e
quello «intemo», 0 - quanto meno - i livelli di intervento possono
rimanere distinti e complementari, nell’interesse della persona.
Tornando alla figura del formatore sarà importante che non vi
sia una sovrapposizione di ruoli sulla sua persona, né sul piano spi
rituale (che, ad es., non debba fare anche il confessore) né su quello
della gestione della comunità (che non gli tocchi di essere anche su
periore): in entrambi i casi vi sarebbe, oltre alla concentrazione su
una stessa persona di responsabilità (e pericolo di superlavoro conse
guente) e di potere (col rischio di mandare messaggi ambigui),
un’interferenza di livelli diversi di intervento, che finirebbe per di
sturbare l’azione educativa e non gioverebbe ad alcuno.
1. Coerenza
2. Bellezza
3 Cf. M.I. RUPNIK, D all’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa,
Roma 1996, 47.
po, una comunità ove sciatteria e scadimento estetico rendono grigia
e monotona l’esistenza, ripetitivi i gesti e privi di fantasia, già vecchi
i membri e povera la testimonianza e l’attrazione vocazionale (e chi
mai andrebbe dove non è bello stare?).
Ciò che sorprende e sconcerta è che ancora vi sia chi trova non
così importante e addirittura superfluo e inutile questo riferimento
alla bellezza e non coglie come la bellezza sia strettamente connessa
con la verità, come una sua emanazione,4 o chi - come dice von Balt
hasar - al sentir parlare di bellezza
3. Capacità di provocazione
L’ambiente educa e forma nella misura in cui pro-voca, ovvero,
etimologicamente, chiama ad andare oltre, a procedere sempre nel
cammino e superarsi, e impedisce di fermarsi e accontentarsi del tra
guardo raggiunto.
CM è responsabile della formazione deve sapere che - da questo
punto di vista - l’ambiente è molto influente, crea clima, quel clima
che tutti respirano e che così spesso condiziona l’agire; il formatore
deve realisticamente sapere che il suo stesso messaggio educativo
viene filtrato in qualche maniera da quel potente mediatore che è
l’ambiente, dalla mentalità che s’è lentamente creata, dalle consuetu
dini sempre più radicate, dalle comodità implicitamente giustificate,
dai meta-messaggi che circolano spesso indisturbati e arrivano sem
pre a destinazione. Insomma, esiste la pressione di gruppo, che è co
me una forza neutra, e può spingere e indirizzare sia verso l’entu
siasmo di una scelta creativa che verso l’inerzia della più squallida e
confortevole mediocrità.
4 Interessante, in tal senso, questa riflessione di Pifano: «La bellezza traluce sul
teưeno della verità; e la verità, dal punto di vista biblico, è “fedeltà” dell’uomo e del
cosmo al disegno di Dio, all’imago Dei. Ciò che è vero, secondo questa “imago" è
“bello”, anche secondo la forma. Vivere nella bellezza, allora, è vivere kat’eikòn, os
sia componendo e ricomponendo Vimago Dei, ritrovando così la nostra forma origi
naria di creature e di figli di Dio-Padre» (P. PlFA NO , Sulla bellezza, Napoli 1983, 61),
e quella forma specifica che è legata al proprio carisma religioso.
5 H .u . VON B a l t h a s a r , Gloria. I. La percezione della forma, Milano 1985,11.
Quante volte la motivazione ad agire (o, a volte, a trasgredire) è:
«fanno tutti così...!», o quante volte l’opposizione a cambiare certe
abitudini incallite o a risvegliare certe «pigrizie comunitarie» viene
solo dal fatto che «... si è sempre fatto in questo modo!?». Al tempo
stesso, non è forse vero che i più giovani, di fatto, imparano certi va
lori e stili di vita proprio da quello che vedono nei fratelli maggiori?
In effetti il gruppo è un’entità sociale che, di per sé, ovvero, se
abbandonata a se stessa, tende a funzionare a regime minimo. Regime
minimo che si attiva press’a poco così: una volta definito, in modi
non espliciti, un certo livello accessibile a tutti e non troppo eccelso,
il gruppo recepisce e provvede subito a diffondere e promuovere al
suo intemo messaggi che confermano il livellamento (in basso), men
tre tenderà a escludere quanto potrebbe modificarlo spingendolo in
alto e chiedendo un certo costo. Anche la comunità formativa è
«spinta» da questa... forza di inerzia, tanto più in una cultura del
l’analgesico e del mediocre come quella di oggi, che tende a elimina
re ciò che risulta faticoso e domanda sacrificio.
Sarà allora importante che il formatore sappia tutto ciò e abbia al
cune attenzioni. Anzitutto deve saper rilevare il tono della comunità,
per individuare, eventualmente, quello stile un po’ pagano che tende a
privilegiare gli equilibri minimali e chiede il minimo sforzo. Molte
volte questo stile opera in modi molto sottili e apparentemente corretti;
ma proprio questo è il problema: l’ideale di una comunità formativa
non è quella certa serenità fatta di assenza di tensioni o di povertà di
relazioni, né quel clima un po’ appiccicoso ove ci si sforza di piacersi
reciprocamente sotto la guida compiaciuta di un innocuo formatore e
nessuno provoca nessuno per render sempre più evangelica la risposta
al dono ricevuto. La fraternità che educa non è luogo di compiacenza,
ma di edificazione reciproca. E allora l’educatore per primo deve agire
di conseguenza, ponendo ognuno di fronte alle sue responsabilità e tutti
dinanzi a una realtà di vita consacrata che diventa bella e vivibile solo
quando è vissuta con la radicalità del dono.
Non è facile, per altro, eliminare vecchie comode abitudini per
fame partire di nuove e più impegnative, ma si sta tutti meglio, in real
tà, quando s’infonde nuovo slancio alla comunità e s’inteưompe quel
clima diabolico di inerzia che rende pigra e sonnolenta la vita, e mentre
irride i sogni dei giovani uccide pure la speranza degli anziani.
È vero che il gruppo tende a funzionare al minimo, ma quando è
debitamente pro-vocato può diventare un potente attivatore di energie
e un incredibile trascinatore, anche per quelli dal passo più pesante.
La saggezza deir educare consiste, a questo punto, nel saper fare la
giusta provocazione e all’interlocutore giusto, cioè al gruppo. Ovve
ro, anzitutto deve saper proporre quella provocazione che si pone
esattamente un gradino al di sopra del livello raggiunto dal gruppo, e
non è né troppo alta né si pone al di sotto delle possibilità del gruppo
stesso: se troppo alta non sarebbe capita o sarebbe eccessiva e7 se at
tuata, sarebbe un fuoco di paglia; se troppo bassa non avrebbe suffi
ciente capacità di frazione e non faciliterebbe una crescita. Il formato
re, da questo punto di vista, deve essere sempre un poco più avanti, a
indicare la strada e a fare il passo.
Seconda attenzione: colui che accompagna il cammino educatìvo-
formativo non può né deve accontentarsi di sollecitare il singolo, ma far
in modo che il gruppo, in qualche modo, assuma quel dinamismo e vi
vacità che lo rendano educatore di se stesso e dei suoi membri.
Allora il gruppo, in quanto entità reale e ben visibile, diventa un
potente alleato nella formazione, mentre la provocazione dell’am
biente può diveiùre ancor più efficace e vincente di quella del for
matore.
4. Senso di responsabilità
7 Ibidem, 26.
Capitolo settimo
6 PI, 50: E V W 6 2 .
7 Ibidem.
«Di conseguenza - afferma ancora il documento sulla formazione - è
affatto sconsigliato di compiere il tempo del noviziato in comunità
“inserite”», [cioè á stretto contatto con urgenze apostoliche, poiché]
«le esigenze della formazione devono prevalere su alcuni vantaggi
apostolici dell’inserimento in ambiente povero»;8
8 Ibidem.
9 Can 648 § 2: EV 8; cf. PI, 47: EV 12/57.
Questo periodo, infatti, è tempo di preparazione culturale e pa
storale, di contatti vari ed esperienze apostoliche, di apertura ai pro
blemi degli uomini e della società, e dunque anche di uno stile di vita
necessariamente meno strutturato e più libero. La casa del post
noviziato, allora, dovrebbe essere, logisticamente, vicina e anche
lontana rispetto alla comunità degli uomini, a significare la caratteri
stica centtale di questo periodo, quella della sintesi personale fra i
molteplici aspetti formativi. E se nel noviziato questa sintesi era solo
iniziale e privilegiava, quale punto di partenza, il rapporto con Dìo
vissuto nella solitudine e nel silenzio, anche isolandosi dal mondo,
ora il giovane deve imparare Iff difficile arte spirituale del cercare e
trovare Dio nell’azione, nell’apostolato, nel contatto con la gente,
nello studio, perfino nella babele delle lingue dell’uomo di oggi, spe
rimentando che non solo la preghiera è l’anima dell’apostolato, ma
pure l’apostolato lo è della preghiera.10
Lo studentato (o scolasticato) non è il noviziato, e deve progressi
vamente preparare il professo a vivere la tìpica spiritualità apostolica,
unendo il massimo della contemplazione col massimo della dedizione
apostolica. La sintesi si fa solo sui valori massimi, non combinando as
sieme livelli mediocri sul piano della maturità orante e apostolica.
È una sfida notevole per certi nostri giovani pigri e poco appas
sionati, ma è anche il complesso equilibrio di una casa di formazione
di professi temporanei, in cui - idealmente - tutto dovrebbe essere
studiato in modo da favorire la ricchezza e la convergenza, la specifi
cità e l’unità della stimolazione.
In concreto: anzitutto è necessario un ambiente specifico per questo
«periodo esplicitamente formativo»," non è buona cosa immettere imme
diatamente 1 professi temporanei in una comunità apostolica, come fanno
purtroppo molti istituti femminili e anche alcune congregazioni maschili,
magari con l’illusione che così i giovani impareranno subito a vivere da
religiosi, poiché la sintesi di cui abbiamo detto non è spontanea, né viene
automaticamente col tempo, ma ha bisogno di precise attenzioni formati
ve quali solo un contesto ambientale specifico può offrire.
Né sarà sufficiente favorire, magari indiscriminatamente, esperienze
apostoliche e contatti vari con la realtà esterna, e nemmeno percorsi sco
lastici garantiti soprattutto dalla qualità culturale della teologia insegnata;
l’elemento decisivo - ripetiamo - è la convergenza di tutto ciò, o che
tutto questo sia espressione della stessa fede ricevuta, pregata, celebrata,
sempre di nuovo scoperta, studiata, condivisa coi fratelli, trasmessa..., e
dunque tutto divenga in qualche modo mediazione formativa.
FORMAZIONE UMANA
Il terzo elemento che contraddistingue l’azione educativo-for-
mativa è costituito, come abbiamo indicato nel primo capitolo, da «li
na pluralità di dimensioni tra loro convergenti, nel senso di attenzioni
ad aree e contenuti diversi che devono esser presenti nel cammino
formativo».
Se si vuol formare alla scelta libera e responsabile di consacrarsi
a Dio, è necessario formare «tutta» la persona, o tenerne presente la
complessa globalità, cercando di convergere, in ogni atteggiamento
educativo, verso l ’unico obiettivo della maturazione dell’uomo, del
credente e del consacrato, senza divisioni e compartimenti stagni,
senza dispone il cammino in momenti rigidamente articolati e suc
cessivi tea loro.
Principio facile da ammettere sul piano teorico, ma tutt’altro che
semplice da poưe in pratica. Se è vero, infatti, che la fede e il dono di
sé a Dio portano a piena maturazione la nostra umanità, non sempre è
stato COSI nella storia di un certo tipo di consacrato, più «santo» che
uomo, o in cui una qualche pur sincera tensione di santità s’accom
pagnava con vistosi vuoti e problemi di maturità umana.
D’altro canto la consacrazione all’Eterno non è solo ecologia
intrapsichica, né igiene della mente e immunizzazione dei sensC e
neppure autorealizzazione umana tutta decisa da criteri contingenti,
ma qualcosa che suppone e poi promuove e supera radicalmente
l’umano.
Vediamo allora di capire le implicanze educative di questa con
nessione, cercando di fare un discorso non solo teorico.
Dimensione Componenti
Livello dell’io
pedagogica strutturali
Elementi
Presupposti Io Attuale Educare
architettonici
Contenuti Io Ideale Formare Elementi
Dinamismi Io Relazionale Accompagnare ermeneutici
Capitolo ottavo
LA DIMENSIONE UMANA
1. Presupposti
2. Contenuti
a) Conoscenza di sé
Anzitutto l’obiettivo-base di un cammino educativo è la cono
scenza di sé. Tale conoscenza, come ben sappiamo e spesso ripetia
mo, deve portare il giovane, come obiettivo primo, all'identificazione
del proprio problema centrale o di ciò che gli impedisce di far dono
libero e totale di sé. Ma non solo.
La conoscenza di sé è un’operazione globale di assunzione e in
tegrazione della propria vita, del proprio passato con le sue compo
nenti positive e negative, per riconoscere e apprezzare le prime, e ca
ricare di senso le seconde. Scopo, dunque, di questa lettura del vis
suto non è una semplice registrazione di dati utili per conoscere radici
e antefatti del presente o per cercare di riconciliarsi con certi eventi o
fantasmi del passato, ma il tentativo di scoprire il significato unico e
irripetibile della propria storia, o di pervenire a una conoscenza stori
ca di sé. All'inizio del cammino educativo in modo globale e generi
co, poi in modo sempre più puntuale e aderente al vissuto.
Si tratta di un significato che è nascosto in ogni evento, a volte
chiaro e subito leggibile, altre volte più difficile da cogliere, altee
volte ancora da attribmre in modo libero e responsabile a eventi che
sembrerebbero solo negativi.
Ad esempio, uno potrebbe semplicemente lamentarsi nei con
fronti della vita (o del «destino») per aver vissuto un’infanzia di
stenti e povertà, ma potrebbe anche ringraziare il cielo per avere spe
rimentato da subito certe asperità della vita che poi possono rinforza
re il carattere o educare a cogliere certi valori... Nel primo caso c’è il
rifiuto del passato, nel secondo c’è la scoperta in esso di un signifi
cato che potrebbe essere rilevante per la vita presente e futura; e an
cora, rifiutando una parte della propria storia si rifiuta una parte di sé,
accogliendola nel suo senso più profondo si accede alla conoscenza
piena dell’io.
Non è operazione semplice, ma è importante che il giovane vi
venga introdotto per capire che il senso del suo io è nascosto nella
sua storia, e che questa storia non è un dato semplicemente da suture,
fatto di episodi ormai incancellabili, o - nel migliore dei casi - dà ac
cettare, ma è mistero da scrutare e presenza da scoprire. E così la di
mensione umana si apre spontaneamente e piano piano a una dimen
sione ulteriore, mentre la vita e la storia diventano il luogo ove impa
rare a maturare un atteggiamento sempre più adulto e creativo, ancor
più contemplativo e capace di scoprire le tracce del mistero nel pro
prio passato.
In altre parole, l’obiettivo non è solo la conoscenza di sé (e dei
propri guai), ma quella conoscenza o scoperta di una storia personale
che segna l’inizio o la premessa di un rapporto del tutto nuovo con
Dio, non più solo teorico o sulla base del sentito dire, ma storico e
costruito sulla propria esperienza di vita o su una teofania assoluta-
mente personale, ancora oscura o non del tutto chiara, ma in grado di
svelare assieme il nome di Dio e dell’io.2Forse non è ancora fede ve
ra e propria, ma almeno la prima tappa di essa, con i dubbi e la fatica
che questa operazione, quando è genuina, comporta.
Ovvio che tale esercizio della memoria credente dovrà esser an
cora e sempre ripreso e approfondito nelle varie fasi educative, ma
deve in ogni caso esser considerato tìpico della dimensione umana,
perché la fede nasce autentica solo quando prende le mosse da
un’esperienza di vita e a essa ritoma; anzi, pnma di tutto è fede
nell’esistenza stessa e in ciò o in chi si nasconde in essa. Così come
anche la mistica e la capacità di contemplare, se non sono intrise di
storia personale e vissuta, sono false.
Il giovane va addestrato e deve esercitarsi a questo confronto
attento e rispettoso con la sua storia, con il «roveto ardente» della sua
esistenza, che arde di una presenza divina mai «consumata», ovvero
mai completamente riconoscibile.
La maturazione umana, da questo punto di vista, può esser con
siderata come la prima tappa della maturità credente.
2 Su questo aspetto cf. A. CENCINI, La storia personale, casa del mistero. Indi
cazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997.
Il secondo contenuto formativo della prima dimensione è costi
tuito da una proposta di maturità umana, del cuore, della mente e
della volontà, strettamente legata all’operazione storica appena av
viata. Tale proposta è conseguenza di essa e come tale va presentata,
a sottolineare quell’esigenza intrinseca di santità che sale discreta ma
ferma dall’interno della propria storia.
La maturità non è un pacchetto di buone azioni o intenzioni, ma
l’adesione inevitabile al richiamo irresistibile di quella verità, bellez
za e bontà che l’individuo ha imparato a leggere e ritto va attorno a sé
e particolarmente dentro i suoi giorni, come parte di un dono sor
prendente. Né tale maturità è decisa unicamente da una norma esterna
e oggettiva, ma dalla scoperta, semmai, che questa norma è scritta an
cor prima nel cuore e nella mente, nel vissuto e nelle esperienze. E
ovviamente va decifrata con cura, senza distorsioni percettive sog
gettive.
Sarà, allora, una maturità della mente, che impara a scoprire un
po’ per volta un misterioso disegno logico e coerente snodarsi lungo i
suoi giorni, e dentro questo disegno coglie la verità della vita e della
propria persona.
Sarà ancora una maturità del cuore, un cuore che batte attratto
dalla bellezza di questo progetto che rivela il soggetto a se stesso, e lo
fa partecipe di una bellezza che viene dall’alto.
Sarà infine una maturità della volontà che decide di far suo que
sto modello vero e bello, come un dono che rende buona la vita e la
persona stessa.
Ma ciò che è importante è la coerenza e linearità della proposta
educativa: se il giovane è stato educato a leggere nella propna storia
il progetto personale, o ha visto emergere lentamente la trama della
vocazione dal suo vissuto, è sempre lì che va educato a cogliere
l’appello della verità-bellezza-bonta della vita. E se dentro il passato
sta imparando pazientemente a riconoscere la presenza di Dio,
quell’appello si salderà sempre più spontaneamente con l’invito dello
Spirito a fare ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto. Senza bisogno
di far entrare in gioco altri elementi ascetici o di ricorrere a particolari
argomenti per convincere o forzare ad agire in un certo modo.
Nella formazione si deve esser molto logici e consequenziali at
torno a un nucleo essenziale veritativo, evitando di disperdersi in
mille sollecitazioni, che finiscono per confondere il soggetto e toglie
re forza all’azione educativa. D’altronde nulla è più convincente di
ciò che uno scopre nella sua vita come ricco di senso e fonte di verità
e di futuro per lui.
c) Il percorso della libertà
Terzo passaggio: dalla storia personale alla maturità di cuore-
mente-volontà, e da questa alla libertà, la libertà di essere quel che il
soggetto è chiamato a essere e che, a questo punto, dovrebb’essergli
abbastanza chiaro. Libertà è porsi di fronte all’evidenza storica di un
dono, percepirne la verità e l’attrazione; è decidere di prender posi
zione dinanzi a esso.
È il dono e la coscienza del dono a suscitare libertà. E quanto più
quella coscienza suscita gratitudine, com’è normale di fronte al dono,
tanto più vi sarà la libertà di donarsi o di concepire la propria vita
come «necessaria» gratuità. Dalla gratitudine alla gratuità: è il per
corso tipico della libertà.
Non ci può esser libertà al di fuori di questo percórso storico che
porta a scoprire e poi a decidere di vivere la vita come dono; né pos
sono dữsi liberi cuore-mente-volontà di chi non avverte sufficiente
mente il fascino di ciò che è vero-bello-buono. La libertà, in tal sen
so, è sensibilità educata, capacità di commuoversi dinanzi al bello e
di lasciarsi abbagliare dallo splendore della verità così come brilla
anche nel piccolo frammento della propria storia. Ed è un legame
prezioso quello che si stabilisce tra l’esperienza storica, la capacità di
lasciarsi seduưe da quel fascino e la libertà di rispondervi: e proprio
questa è la maturità piena, su un piano umano che s’apre sempre più
alla prospettiva della fede.
Ed e già anche, allora, un itinerario vocazionale e formativo,
credente e carismatico.
d) La libertà di fidarsi
Ma la libertà è comunque uri rischio, e questo spaventa oggi
molti giovani. Soprattutto diventa rischiosa quella liberta che compie
il percorso appena indicato, che sfocia nell inevitabile decisione di
fare della propria vita un dono gratuito...
Proprio qui, ancora una volta, diventa decisiva la lettura del pas
sato. Quando essa è fatta in modo non superficiale e il soggetto è
aiutato a percepire anche ciò che non appare a prima vista o sembra
addirittura negato dall’evento, dovrebbe consegnare al giovane que
sta verità e certezza:
«la vita è stata buona con me, mi ha accolto, voluto bene, curato, perdo
nato, e dato molto più di quanto avrei potuto pretendere, molto al di là
dei miei meriti... E allora, se il fatto stesso di esistere è segno che una
volontà buona mi ha preferito alla non esistenza, posso correre il rischio
di non pensare troppo a me stesso; se sono già stato amato, non ho bi
sogno di andare a cercare e conquistare segni di affetto; se ho già rice
vuto tanto, posso e devo preoccuparmi di dare; se la vita è stata buona
posso sperare che continuerà a esserlo. Mi posso fidare...»
3. Memoria biblica
C’è anche la memoria degli eventi che sono accaduti nel proprio
passato. Tale memoria, però, non è semplice registrazione di dati, ma
- almeno nella persona matura e adulta - significa un’organizzazione
di questi dati attorno a una verità capace di spiegare dati ed eventi.
Ovviamente tale verità sarà legata ai convincimenti della perso
na, al suo credo, religioso o filosofico che sia. Così, se uno crede al
destino riteưà che quel che gli è successo è dovuto semplicemente a
questa forza impersonale e indefinibile, o a quella dea bendata che è
la fortuna (e più spesso al suo contrario, alla sfortuna), o se crede
semplicemente in se stesso e nelle sue risorse attribuirà tutto a sé e ai
suoi muscoli.
Ma se crede nel Dio di Gesù Cristo, allora la vita passata assume
tutt’altro significato e i singoli avvenimenti diventano frammenti di
un disegno misterioso e pur progressivamente chiaro, ma in ogni caso
bisognoso di attenta e continua lettura. E la sua memoria diviene ce
lebrazione della continuità di tale disegno nell’oggi da essa stessa ge
nerato, alimentato e spinto ad andare oltre.
«il passato del credente è come una lampada posta all’ingresso del
l’avvenire»,5
lampada che getta una luce che abbraccia tutta la storia futura
dell’individuo, e dona dunque serenità e voglia di vivere che diviene
pure contagiosa.
Se la memoria biblica non è anche affettiva, diventa solo cultura
che non serve per la vita, o registrazione di dati che non commuovo
no; è neutra, non ispira alcuna gratitudine né dona fiducia, non fa na
scere libertà né conosce gratuità.
Ma, d’altro canto, la memoria affettiva deve confrontarsi con la
memoria biblica, altrimenti è solo emozione soggettiva e puramente
istintiva, non sempre evangelizzata e, se negativa, spesso anche senza
speranza.
Ora, nella vita passata di ciascuno di noi vi sono anche eventi
negativi (lutti, fallimenti, ingiustizie subite, peccati...), che potrebbero
aver lasciato una traccia emotiva negativa pronta a riemergere in de
terminate circostanze (così ci dice la psicologia), come una ferita ri
masta aperta o che basta molto poco per far ancora sanguinare. Il
«credente dalla buona memoria» sa che pure in queste situazioni ne
gative è nascosta una misteriosa presenza divina, sa che anche se sua
madre l’avesse dimenticato «io - dice il Signore - non ti dimentiche
rò mai» (Is 49,15), sa che anche l’esperienza della propria debolezza
può diventare esperienza di Dio, del Dio ricco di misericordia, e che
perfino il passato più sfortunato è lì a raccontare che Dio ha dise
gnato la creatura sulle palme delle sue mani (cf. Is 49,16); sa che Dio,
il Dio-vasaio, adopera a volte anche lo scalpello, e che particolari av
MATURITÀ UMANA
1 Così secondo il poeta Santayana, cit. da L.M. RULLA, Antropologia della vo
cazione cristiana, ì. Basi interdisciplinari, Bologna 1997, 129.
2. La forza nella debolezza
3. La libertà di pro-gettarsi
FORMAZIONE SPIRITUALE
La seconda dimensione che costituisce l’essere umano e che de
ve essere ben presente nella dinamica formativa è quella spirituale.
Tale dimensione riguarda in modo esplicito il credente che è in noi,
rxùra alla sua formazione e dunque anche alla maturazione delle com
ponenti spirituali dell’uomo interiore, come lo chiama Paolo, del cuo
re e degli affetti, della mente e della volontà, della libertà che si lascia
attrarre dalla verità. Se la dimensione umana rappresenta la profon
dità del mistero-uomo, ovvero le risorse di energia che egli possiede,
la dimensione spirituale indica l ’altezza cui l’uomo è chiamato, ciò
che può e deve diventare. E come l’altezza suppone la profondità, e
quanto più si protende in alto tanto più esige radici ben profonde, co
sì la dimensione spirituale non può stare senza quella umana, anzi la
realizza in pienezza, al massimo grado della sua umanità. Non vi po
trebbe essere, dunque, alcuna dimensione e maturazione spirituale
senza l’indispensabile supporto umano e senza che da essa ne venisse
una piena fioritura dell’umano.
Seguiamo lo stesso schema proposto per la dimensione umana:
elementi architettonici (dimensioni come risorse o presupposti fon
damentali) ed elementi ermeneutici (contenuti e dinamismi).
Capitolo undicesimo
LA DIMENSIONE SPIRITUALE
2. Contenuti
Se queste sono le possibilità, davvero notevoli, che s’aprono da
vanti a ogni essere umano, tocca proprio al formatore attivarle per
farle divenire realtà. Intervenendo su queste aree o contenuti.
a) Il principio religioso
Il primo contenuto formativo è costituito da quello che potrem
mo chiamare il principio religioso, da cui nasce la fede. Ovvero si
tratta di formare al «radicale riconoscimento dell’esistenza incondi
zionata dell’altro»,' per poi disporsi a vivere la fede come orienta
mento del proprio essere alla relazione con l ’Altro.
È nascosta, in questo argomentare, una precisa catechesi della
fede, come elemento caratteristico dell’uomo spirituale. Educare alla
fede vuol dire educare alla relazionalità, fin dai primi tempi dell’e
sistenza e con tutto ciò che essa implica, non solo come apertura e
capacità di rapporto, ma come accoglienza dell’assoluta unicità del-
l’altro e scoperta del suo valore, come rifiuto di ogni tentativo di
strumentalizzarlo e libertà di lasciarsi da lui toccare e condizionare.
L’attitudine credente non è semplice opzione ideologica né fuga
in un mondo distante ed estraneo aùe vicende personali relazionali,
ma è preparata da un lento apprendistato che porta l’io a usdre da se
stesso per concentrarsi sull ’altro.
È evidente, allora, che la fede si realizza nell’amore, quasi si
confonde con esso e da esso proviene. Mentre, al contrario, tutto ciò
che s’oppone all’apertura relazionale e rinchiude l’io, per quanto im
percettibilmente, in se stesso (irrigidimenti, tendenza a impoưe le
proprie idee, rifiuto della diversità dell’altro, atteggiamenti autoritari,
uso disinvolto della regola o della tradizione per prevalere e domina
re, ambizione privata di perfezione...) ostacola o indebolisce l’ade
sione credente.
È l’amore, non il quoziente intellettuale, che rende forte la fede.
\7 \7
Categorie bibliche:
Categorie psicologiche: gli eventi centrali
riappropriazione e integrazione della storia di Israele
MEMORIA
BIBLICO - AFFETTIVA
2 Circa questa teoria cf. o. KERNBERG, Teorìa della relazione oggettuale e cli
nica psicoanalitica, Torino 1970, 145.
2. Fede e vita presente
4 A tal proposito è interessante notare come fede in ebraico sia espressa col ver
bo che è presente nel nostro amen, verbo che significa «essere stabile, fondato» su
una roccia sicura (cf. G. RAVASI, «n ponte sul fiume», in Avvenire, 22 gen 1998).
Si crede con il cuore, con la mente e con la volontà a una pre
senza di Dio che s’è manifestata nella propria storia passata, che dà
significato a quella presente, anzi nasce e rinasce sempre nuova, pure
compiendosi, in essa, e che suggerisce un modo preciso di guardare il
futuro, anzi la certezza di tale presenza diventa chiave di lettura della
vita che è ancora da vivere, criterio delle scelte e speranza nelle prove
che attendono il credente.
Vediamo allora come far nascere nel cuore del giovane questa
fede-speranza che abbraccia il futuro.
È ovvio che i modelli finora presentati costituiscono già un’in
dicazione valida e fondamentale in tal senso. Ma pensiamo di poter
ancora cercare e trovare una proposta di crescita nella fede che di
sponga a guardare al futuro nel modo tipico di colui che sa che tutto è
nelle mani di Dio, e non si turba; né attende che la vita gli rotoli ad
dosso, ma le va incontro con l’ottimismo e il senso di responsabilità
di chi sa che Dio è fedele.
D ’altro canto i vari modelli che stiamo presentando stanno a dire
che dinanzi allo stesso dono dello Spirito diverse sono le possibilità
dell’uomo di lasciarsene possedere. Né è detto che il formatore debba
sceglierne una con esclusione delle altre, poiché queste diverse pos
sibilità non s’escludono tra di loro, ma possono essere usate in modo
convergente e complementare, dunque assieme.
e così è la fede.
Due cose almeno vanno sottolineate di questa originale lettura. Il
giovane va esercitato a vivere e praticare una fede che non anteponga
mai in modo rigido la sua comprensione comQconditio sine qua non
per agire, o - altrimenti detto - la sua convinzione soggettiva non può
diventare condizione assoluta per accogliere una mediazione o
un’obbedienza, o per fare una certa scelta. E questo sia perché la fede
suppone il ricorso a un’altea logica che non sia esclusivamente uma
na, a criteri non solo terreni, sia perché è l’assenso alla prospettiva
credente che ne fa comprendere la ricchezza, è solo quando uno deci
de di entrare in quell’altea logica che ne può assaporare il gusto e, an
cor più, è solo quando uno di fatto vive secondo quella logica «altra»
che ne scopre l’ampiezza di senso e di orizzonti che spalanca alla sua
persona.
La realtà della croce non è perdente, ma ricca di vita, però uno la
percepisce come tale solo dopo che l’ha abbracciata; la rinuncia per
amore non è deprimente, ma condizione per desiderare i desideri di
Dio, però questo viene colto solo in forza di un cammino spesso lun
go e per tappe progressive. Diversamente, finché il giovane sta ad
attendere o pretendere di veder tutto chiaro e convincente, non entra
mai nel suo futuro, e così diventa vecchio senza aver vissuto in pie
nezza né aver mai goduto della libertà giovane della fedeế
6 c . M olari, «Chiedere perdono per imparare dalla storia», in Rocca, 2(1998), 56.
Tav. 7: M odello evan gelico: la fe d e com e relazione con un volto, accoglien za
d e l m istero e rischio d e ll'im possibile
^tedecom ^
“Tu hai le parole
di vita eterna...” accoglienza del mistero
---------------------►
^edecom e^
“Sulla tua parola
getterò le reti...” rischio dell’impossibile
---------------------►
PARTE QUINTA
FORMAZIONE CARISMATICA
Siamo alla terza dimensione del processo formativo, quella cari
smatica.
Dovrebbe essere quella che fa da sintesi delle altre due. L’uomo
e il credente, infatti, non solo rivivono nel consacrato, ma in lui ritro
vano una possibilità sorprendente e inedita di sviluppare in pieno le
rispettive potenzialità e di affermare la propria individualità.
Nel grande disegno paolino (cf. Ef 3,18), se le dimensioni umana
e spirituale rappresentano rispettivamente la profondità e l’altezza del
mistero-uomo, la dimensione carismatica dice l'insieme del progetto,
quella bellezza che è il fratto congiunto della maturazione ai diversi
Uvelli e che rende singolare e inconfondibile, «bello» di divina bel
lezza, l’uomo stesso.
Ovvio che tale dimensione non potrebbe sussistere senza le altre;
chi si consacra a Dio è anzitutto un essere umano che conosce la sua
storia e le sue debolezze, il desiderio e la fatica di camminare nella
verità; ma è anche un credente che dentro quella storia e quella fatica
ha fatto in modo forse imprevedibile la conoscenza di Dio, scoprendo
che il suo amore «gli bastava». E se poi ha scelto di offrirsi total
mente a Dio in una famiglia religiosa, l’ha fatto perché ha capito che
quell’amore non solo gli poteva bastare, ma... gli avanzava pure, al
punto di poterne divenire trasparenza con la propria umanità per tanti
altri che ne potessero godere.
Seguiamo allora lo stesso schema già proposto per le altre due
dimensioni: prima definiamo gli elementi architettonico-portanti e poi
quelli ermeneutico-dinamici.
Capitolo tredicesimo
LA DiMENSIONE CARISMATICA
1. Presupposti
Abbiamo detto, nelle precedenti analisi, che l’uomo è capace di
trascendersi fino a cogliere l’amore di Dio e lasciarsi da lui amare,
per arrivare a voler bene addirittura come Dio entrando nel mondo
dei suoi sentimenti e desideri.
Il carisma di un istituto, in questa prospettiva,
1. è quel dono dall’alto che esprime il progetto che il Padre creatore
ha sulla creatura e attraverso il quale la creatura realizza la sua
specifica somiglianza con Dio stesso. Ogni carisma, infatti, sot
tolinea un particolare aspetto della realtà divina manifestata nel
Figlio secondo la fantasia scapigliata e pacatissima dello Spirito.
2. Contenuti
La formazione carismatica mirerà allora a evidenziare questi
«tratti nascosti», che corrispondono poi alle componenti classiche del
carisma: l’elemento mistico, ascetico e apostolico. Il tutto racchiuso
entro le due polarità tipiche del cammino di maturazione dell’io: il
senso di identità e il senso di appartenenza, il primo - in teoria - co
me punto di partenza del processo, il secondo come suo naturale
punto di arrivo, ma in pratica destinati a interagire tra loro durante
l’iter formativo, ovvero a crescere insieme nello stesso individuo e
nella comunità.
a) Senso di identità
Anzitutto è fondamentale, nella formazione, chiarire il signifi
cato funzionale del carisma. Non è saggio iniziare l’iter formativo il-
lusfrando subito tutto il contenuto del carisma di istituto, o pensare
che questa operazione sia sufficiente per avviare il processo di inter-
nalizzazione.
È stata l’illusione del dopo-concilio, quando si ritenne che sa
rebbe bastato riscoprire il cansma delle ongini di ogni istituto per
provocare un salutare rinnovamento della vita consacrata. Cosa che
poi non avvenne (o almeno non nella misura sperata) probabilmente
anche a motivo di questa dimenticanza o disattenzione: non ci
s’accorse che, prima del contenuto, andava chiarito il senso, il signi
ficatofunzionale del carisma stesso.
Per molti consacrati/e non era (o non è) abbastanza chiaro quale
sia il ruolo del carisma ai fini della propria realizzazione personale,
anzi, più di qualcuno viveva una certa confrapposizione tra le due
prospettive, come se il carisma fosse qualcosa di generico e solo spi
rituale, dato o imposto a tutti come obiettivo livellante aspirazioni e
potenzialità individuali, poco definibile e poco definito al di là dei
soliti luoghi comuni, sempre più comuni e simili tra un istituto e
l’altro (altro livellamento), e dunque, in definitiva, poco amato e an
cor meno riconosciuto come punto di riferimento della propria iden
tità. A che serve scoprire il contenuto originario carismatico se prima
o assieme non si aiuta a riscoprirne la funzione nel contesto
dell’identità? A che serve studiare radici, storia, evoluzione, tradizio
n i... del carisma se assieme non si capisce che tutto questo è anche la
propria radice e la propria storia, la propria identità e realizzazione, il
proprio presente e futuro?
La «disaffezione carismatica» è stato forse il primo grave sinto
mo, un po’ nascosto, di una certa crisi della vita consacrata ancora
non del tutto risolta e sfociante nell’ormai nota e classica «crisi di
identità» o nel singolare fenomeno della «doppia identità»: quella ca
rismatica, ufficiale e istituzionale, esibita come un bel vestito o pa
tacca che dà lustro, e quella privata e personale, tutta costruita sulla
realizzazione delle proprie doti e talenti, curata e coccolata come un
amore segreto e proibito, e difesa a volte gelosamente come un asso
luto, qualcosa di irrinunciabile. Con tutto il séguito di conflittualità,
aperta o sottile, tea queste due modalità di identificazione (o tra sin
golo e istituzione)...
Ecco perché è importante fin da subito, nella prima formazione,
presentare il carisma nella sua verità e funzione se non si vuole che
diventi finzione.
E la verità che va proposta al giovane è questa: il carisma è il
mio io, è il nome col quale Dio mi ha chiamato alla vita sognandomi
simile a lui, è il mio passato, ma anche ciò che sono chiamato a esse
re, è il senso pieno della mia storia e la condizione per sentirmi me
stesso ed essere felice, è ciò che rende definitivamente positiva la mia
identità, molto più di quanto non la potrebbero rendere le mie qualità
e abilità varie.
Non che queste ultime non siano importanti, anzi, anch’essè so
no carismi, doni che ho ricevuto da Dio per il bene degli altri; più
precisamente, sono carismi funzionali-attuali, legati all’io attuale
(quel che io sono già) e al servizio del carisma vocazionale-ideale, o
dell’io ideale (quel che devo e voglio diventare), espresso e conte
nuto nel carisma di istituto; dunque sono un mezzo, non un fine, un
mezzo per viver meglio e più efficacemente l’identità vocazionale, o
il luogo ove esprimere più pienamente la propria chiamata, e proprio
questo fine salva tali carismi dairinsignificanza narcisista provocan
doli a... funzionare al massimo.
Se sono un mezzo, ancora, non sono un assoluto, dunque la vita
può arrivare a chiedermene il «sacrificio» in vista di un bene maggiore;
certo non sarà facile lasciare un’attività per la quale mi sento tagliato o
un ambiente o un molo che mi dà modo di esprimere i miei talenti, ma
sarà possibile solo se l’identità e la sua positività «abitano» altrove, nel
dono dall’alto pensato e preparato da Dio per me.
Chissà quante crisi future si potrebbero evitare se nella prima
formazione fosse subito ben delineata la natura del carisma come
fonte di identità e rivelatore del mistero dell’io! o quanto ne guada
gnerebbero il senso di unità di vita e l’efficacia nelle attività, la tra
sparenza della testimonianza e - come conseguenza inđữetta ma rea
le - l’animazione vocazionale.
È certa una cosa: solo quando sono stati chiariti ruolo e signifi
cato psicodinamico del carisma, l’individuo è fortemente motivato a
conoscerne e viverne anche il contenuto, e non potrebbe esser diver
samente, dato che quel contenuto è anche il suo io, lo rivela a se stes
so... L’attrazione dello Spirito trova finalmente il teưeno adatto per
suscitare l’attrazione del cuore e della mente.
b) Esperienza mistica
All’inizio di un carisma c’è sempre una teofania, e una teofania
sorprendente. Dio si rivela e mostrando il volto divino svela anche
all’uomo il suo volto umano.
Non è una semplice autocomunicazione divina, che il credente
può solo accogliere e contemplare, magari avvertendo ancor più la
distanza che lo separa dall’Altissimo; bensì è un dữsi da parte di Dio
nel quale l’uomo sente parlare anche di sé, o uno svelarsi del Mistero
divino che svela e restituisce l’uomo a se stesso, perché l’uomo è
parte del Mistero di Dio e la verità di Dio è anche la sua verità, verità
sulla sua vita.
E proprio questo è l’elemento sorprendente, non solo che Dio si ri
veli, ma che in quello stesso momento e in quella stessa rivelazione egli
pronunci il nostro nome.2 Per questo il profeta può dire: «noi siamo
chiamati col tuo nome» (Ger 14,9). E così i nostri fondatori e fondatrici:
uomini e dorme oranti che nel mistero pregato, o in un particolare aspetto
della realtà divina o della vita umana del Cristo, hanno lentamente o im
provvisamente scoperto se stessi, il progetto di Dio su di loro e su altre
persone, un’identità da assumere, un’irnmagine divina da vivere nella
propria storia, una somiglianza con Dio da manifestare.
Le nostre famiglie religiose esistono perché c’è stato chi ha vissuto
intensamente questa peculiare esperienza del divino, e sono vive nella
misura in cui altri oggi, per dono di Dio, rivivono la medesima espe
rienza, dinanzi al medesimo mistero. Il consacrato nasce proprio qui,
quando inizia a scoprire il suo io entro questo rapporto con Dio e lascia
che il mistero pregato diventi la fonte della sua identità. È la spiritualità
che gli svela l’identità e i singoli tratti della sua fisionomia.
Per questo la preghiera è, per natura sua, l ’attività primordiale
del giovane consacrato, poiché l’esperienza o l’autocomunicazione di
Dio precedono necessariamente la conoscenza che l’essere umano
può avere di sé, anzi, è la teofania che illumina la conoscenza umana.
E allora questa è preghiera che trasforma: l’uomo entra progressi
vamente in sintonia con ciò che contempla, ne assume i sentimenti, se
ne lascia plasmare..., fin quando se lo ritto va dentro come parte di sé.
Ma c’è bisogno di molta costanza e pazienza, c’è bisogno di sta
re di fronte al mistero anche quando questo sembra muto e anche sor
do. Se il giovane ha la certezza che quel mistero nasconde la sua
c) Cammino ascetico
È l’espressione naturale e inevitabile dell’esperienza mistica.
L’intensa contemplazione del mistero divino, nel quale il consa
crato riconosce anche il proprio volto e il destino, determina l’esigen
za di conformarsi a esso, lasciandosene attivamente plasmare nei ge
sti e nelle parole, nei pensieri e desideri.
E questa è ascesi.
In buona sostanza, ed esemplificando notevolmente, se la mistica
è la contemplazione grata di ciò che Dio è e fa in noi, l’ascetica è il
tentativo, discreto e comunque volonteroso, di accogliere la sua
azione e rispondervi.
Se l’una autentica l’altra, è importante che siano assieme pre
sentate, nella formazione, in strettissima correlazione tra loro, perché
l’ascetica resti indissolubilmente legata alla mistica, da essa prece
duta, e il giovane intenda il proprio agire come una risposta, essen
zialmente, a quel che Dio ha già fatto in lui, risposta che è prima di
tutto rendimento di grazie, adorazione, stupore per quel che Dio con
tinua a fare, e solo dopo azione e dimostrazione di buona volontà.
Allo stesso modo pure la mistica deve sfociare naturalmente nel
progetto ascetico e in un piano ascetico giustamente impegnativo ed
esigente se non vuole diventare sterile virtuosismo o presuntuoso esi
bizionismo spirituale.
Ciò che è importante sottolineare è che quel processo di iden
tificazione dell’io iniziato con l’esperienza mistica continua neces
sariamente nel momento ascetico: il mistero dell’io diventa decifra
bile, infatti, solo a condizione che diventi anche realtà operativa e
vivente, che si compromette con scelte concrete e si realizza secon
do un particolare modo di essere. Solo agendo il giovane speri
menta il dono e il gusto di incarnarlo in modo del tutto originale
nella sua persona.
Ma sarà decisivo che il formatore proponga al giovane un chiaro
programma ascetico, come parte costitutiva e peculiare del carisma,
ovvero, quel certo modo di essere, fatto di comportamenti e atteg
giamenti, di sensibilità e aspirazioni, di qualità morali e virtù caratte
ristiche, dalla preghiera allo stile dei rapporti interpersonali, dalla
predisposizione specifica verso un certo tipo di apostolato al modo
caratteristico di vivere la stessa consacrazione e interpretare i voti e la
vita insieme.
Ogni carisma ha un proprio progetto ascetico, del tutto originale,
proprio perché legato a un’esperienza mistica altrettanto originale;
qualcosa di molto concreto che si rifa alla tradizione viva dell’istituto
e ne costituisce un po’ lo stile, così visibile da rendere subito ricono
scibile un individuo come appartenente a quell’istituto. Ma è sempre
qualcosa che, in ogni caso, significa un nuovo modo di essere, che
abbraccia ogni espressione di vita del consacrato, perché in ciascuna
di esse risplenda il dono dall’alto.
Ogni istituto deve, dunque, definire con precisione il suo proprio
programma ascetico, offrendo al giovane la proposta di una fisiono
mia tipica in cui certe virtù sono particolarmente sottolineate in vista
dell’attuazione del carisma e del senso di unità della persona. La Ra
tio formationis, torniamo a ripeterlo, non può esser generica su que
sto: l’indefinitezza di tale progetto crea disaffezione verso il carisma,
perché è difficile apprezzare e amare ciò che è privo di una sua spe
cificità, quasi fosse informe, 0 appassionarsi e innamorarsi di qualco
sa che non è ben chiaro se si possa vivere.
Si tratterà, allora, di un’ascesi mirata, non qualunquista 0 fatta
solo di rinunce e sacrifici in genere, poiché tende a liberare l’uomo da
quanto gli impedisce di scoprire la sua nuova identità, e lo aiuta posi
tivamente ad acquisire il suo vero volto; e ancora di un’ascesi appas
sionata, perché strettamente legata alla contemplazione del mistero,
mistero che attrae perché rivelatore di Dio e dell’io; e dunque sarà
un’ascesi che non intristisce chi la pratica né scoraggia chi vi s’acco
sta, ma rende al contrario lieto l’asceta,3 contagioso il suo esempio e
trasparente la sua testimonianza carismatica.
d) Ministero apostolico
Ogni famiglia religiosa è nata con un preciso ministero apostoli
co. È anch’esso frutto dell’illuminazione dello Spirito che conosce e
scruta i segreti non solo di Dio, ma anche degli uomini e i bisogni dei
tempi, l’anelito e i gemiti di ogni generazione, suscitando, in coloro
che chiama, il coraggio di rispondere in modo creativo ed efficace a
quei bisogni e a quei gemiti.
Da un lato, allora, l’opera di misericordia corporale o spirituale
che caratterizza ogni istituto è in qualche modo parte dell’esperienza
mistica, non solo perché è proprio nella preghiera che il fondatore nor
malmente ha ricevuto una certa illuminazione a servire il prossimo, ma
perché è sempre all'interno di una specifica esperienza mistica che quel
servizio ritrova le sue radici e ciò che lo mantiene giovane, la sua ispi
razione primitiva e chiave interpretativa. Sganciato da quella teofania
che l’ha originato điveưebbe gesto qualunquistico di benevolenza forse
sincera, ma debole neirintensità e labile nella tenuta.
D’altro canto la stessa esperienza mistica si esprime necessaria
mente nell’atto di amore per il prossimo, non sarebbe autentica e credi
bile senza di esso, e non solo come causa che produce un effetto, ma
come amore che per definizione in esso si prolunga e si intensifica, lo
stesso e unico amore per Dio e i fratelli. La dimensione apostolica è co
sì intimamente legata a un preciso modo di essere e di pensarsi, di pre
gare e vivere, che funziona normalmente da criterio di verifica della fe
deltà di un istituto all’originaria ispirazione carismatica.
È importante allora che nella formazione iniziale, come in quella
permanente, il consacrato sappia cogliere tale dimensione come qual
cosa di essenziale e costitutivo; egli è per vocazione un apostolo e
deve imparare a vedere tutta la sua vita in funzione del ministero apo
stolico. Se vive una certa esperienza di Dio è perché la deve annun
ciare, se segue un certo programma ascetico è perché questo lo abilita
a un certo tipo di servizio, se vuol bene ai fratelli di casa è perché
l’amore è la prima testimonianza del Vangelo da dare al mondo.
Ma non solo, non è esclusivamente l’amore che congiunge pre
ghiera e apostolato prolungandosi nel servizio al prossimo, ma nor
malmente anche il contenuto del carisma e la sua tìpica spiritualità, il
processo di ricerca e di svelamento di esso fanno da elemento connetti
e) Senso di appartenenza
Siamo al punto conclusivo, al fratto finale che in qualche modo
conclude il disegno carismatico, o alla polarità apparentemente con
frapposta a quella con cui s’è aperto il discorso, cioè il senso di identità.
In realtà senso di identità e di appartenenza rappresentano'gli
elementi strutturali e costitutivi dell’io; ogni persona si definisce a
partire da ciò che è e in cui si riconosce, come pure da ciò cui appar
tiene e cui si consegna; e ciò che ognuno è, necessariamente è legato
a ciò di cui si sente parte.
Come per ogni dimensione già trattata, anche per quella cari
smatica cerchiamo di cogliere il dinamismo particolare.
Se la dimensione umana, nella formazione, suppone e sollecita un
dinamismo di tipo storico, con l’integrazione fra le due memorie in
un’unica memoria biblico-affettiva, mentre la dimensione spirituale
cresce attraverso lè tipiche operazioni del dinamismo credente, con
l’integrazione tra i quattro modelli di fede, da quello autobiografico a
quello evangelico, dal mariano al paolino, il dinamismo peculiare della
dimensione carismatica è quello della sintesi o dell 'integrazione.
Questo dinamismo integrativo va in una triplice direzione: è
sintesi, infatti, che specifica, coordina e realizza al massimo grado
l’identità dell’uomo, del credente e del consacrato.
Come abbiamo già ricordato all’inizio del capitolo precedente, è
tipico della dimensione carismatica esprimere l’insieme del progetto-
uomo, quasi riassumendo le dimensioni umana e spirituale e ulte
riormente specificandole, proprio perché è nella natura del carisma in
quanto tale la capacità di convergenza attiva e mirata. Carisma è «do
no di Dio», infatti, e i doni di Dio si cercano e si trovano, si illumina
no e s’interpretano, si fanno spazio e si riconoscono l’uno nell’altro;
non son gelosi né invidiosi, cercano la verità nella carità, e non solo
nella vita di relazione sociale ed ecclesiale, ma anche all'interno del
soggetto e a qualsiasi dimensione appartengano. Il dono particolare
delia consacrazione possiede ed esprime in modo speciale la grazia
dell’unità, anzitutto nella vita del consacrato, più forte di ogni tenta
tivo dispersivo e di ogni tentazione centrifuga. Il carisma religioso ha
il carisma della sintesi.
Vediamo allora questo dinamismo in azione, o come possa il
giovane essere aiutato e provocato a realizzarsi secondo la dimensio
ne carismatica. In concreto proponiamo tre specifiche operazioni di
sintesi attorno al carisma da attuarsi nella formazione iniziale (e per
manente), nelle tre direzioni già indicate.
1. Sintesi delle dimensioni umana e spirituale
b) La condivisione
Una prova di questa sintesi è data dall’equilibrio con cui in co
munità ognuno vive la solitudine e la compagnia (o il silenzio e il
dialogo), elementi importanti dello sviluppo umano e spirituale solo
apparentemente confrapposti. Nella misura in cui la formazione è ca
rismatica, infatti, viene proposto un contenuto che è centrale, perché
si pone al cenerò della vita di.ogni consacrato e al cento di ogni rela
zione tra consacrati. E proprio per questo è pure capace di attivare la
giusta sintesi fra solitudine e compagnia. In che modo?
Attraverso la condivisione del medesimo dono: una convivenza
di persone diventa comunità religiosa non semplicemente perché vi
sono dei singoli impegnati in altrettanto singoli cammini spirituali,
ma quando questi cammini vengono messi in comune fino a costituir
ne idealmente uno solo. Allora e solo allora il carisma è al centro e si
può parlare di comunità consacrata, mentre l’amicizia diventa il
modo normale di relazionarsi nella com-pagnia e nella solitudine,
nella condivisione del pane del cammino e dell'intimità con Dio, nel
silenzio che apre a relazione e nel dialogo che riconduce a unità.
Allora la «casa», deirindividuo e della comunità, è costruita
sulla roccia, e può resistere a ogni intemperie. Altrimenti è fondata
sulla sabbia, o è una finta comunità di finti consacrati...
3. Sintesi tra conoscenza, esperienza e sapienza
c) Sapienza
Tocca alla dimensione spirituale-carismatica completare il di
scorso e superare l’equivoco, integrando il dato soggettivo con quello
oggettivo, l’esperienza con la sapienza.
Si fratta di cogliere nel dono della fede e del carisma non sem
plicemente Pillummazione-eccitazione di un momento, ma il mistero
della propria identità nascosta nel Figlio e ora pienamente svelata,
qualcosa di definitivo e stabile, non più soggetto alle sensazioni e a-
gli umori, ma a un dato ormai incontrovertibile e del tutto gratuito.
Sapienza è conoscenza globale dell’uomo spirituale, col cuore e
tutti i sensi, di questo dono fino a comprenderlo in profondità; è espe
rienza costante, non occasionale ma estesa alla vita intera, di una
nuova identità, in esso nascosta, più ricca e più vera, più stabile e po
sitiva; è contemplazione e memoria delle cose che restano (imemoria
amoris), gusto della bellezza e sguardo poetico, conversione e for
mazione continua, armonia di significati e di stagioni esistenziali,
umorismo e ottimismo, senso del mistero e deir eterno, sapore del di
vino e simpatia per Pumano...
Sapienza, soprattutto, è unità di vita e sintesi, vuol dừe essere arri
vati al cuore della vita, dov’è il tesoro dell’uomo e tutto si concentra e
fonde nel sogno di Dio: ritrovare in noi Pimmagine del Figlio, trasfor
mando i suoi gusti e imparando a godere d’esso, come d’un tesoro.
Uomo saggio è dunque colui che riesce a far tesoro di tutte le
esperienze, non solo di alcune (quelle più eccitanti o gratificanti o
semplici da decifrare), ma anche di quelle più difficili da leggere e
accettare; è colui che ha il cuore libero per ascoltare la vita che parla
a ogni istante, senza imporle il proprio schema interpretativo, è il
credente docibilis, che ha imparato a imparare dall’esistenza (fogni
giorno e da ogni persona, in ogni circostanza e da qualsiasi evento,
fino all’ultimo giorno della sua vita, fino a che Cristo non sia piena
mente formato in lui (cf. Gal 4,19).
DISPONIBILITÀ FORMATIVA
a) L ’io smarrito
C’è chi, nel cammino educativo, sembra aver perso i contatti col
suo io. Si dữebbe che non si conosce, o ha di sé una conoscenza solo
superficiale; forse non è neppure convinto che si debba spingere
l’analisi ai livelli più profondi, delle motivazioni e intenzioni, di ciò
che non appare subito evidente ed è forse inconscio.
È il classico tipo che confonde verità e sincerità e pensa che ba
sti la percezione soggettiva delle proprie sensazioni per conoscersi.
Di conseguenza vive lontano dall io e dalla sua verità. Non sa bene
quale sia l’area più debole della sua personalità o si accontenta di
analisi molto sommarie quando, ad esempio, deve confessarsi, col ri
schio di ripetere sempre le stesse cose, fino a non sentire neppur tanto
la necessità della confessione stessa o della direzione spirituale.
Da questo punto di vista è il tipo «mai-in-crisi». Oppure, se è
proprio costretto a scoprire i suoi dèmoni, conclude che non c’è
niente da fare e che ha sbagliato strada: in ogni caso non mostra nes
suna disponibilità effettiva a fare un cammino di conversione. Non
perché lo escluda esplicitamente, ma perché l’aver perso i contatti
con rio più vero lo priva di motivazioni («perché e cosa cambiare?»),
e dunque di energia preziosa.
A volte questo tipo dall’io smarrito ha proprio l’aspetto un po’
smarrito: inconcludente, non sa bene cosa vuole; superficiale nei rap
porti, non s’arrischia a voler bene; sembra sicuro di sé, ma è molto
fragile. È pecora smarrita che non si lascia trovare né prendere in
braccio dal pastore; per questo non si lascia coưeggere né sa essere
misericordioso.
Se l’educazione inizia con la presa di coscienza dei propri limiti,
ecco perché per questo tipo non comincia mai o sarà una finzione...
b) L ’io dis-tratto
Nel caso dell’io smarrito, viene a mancare, abbiamo detto ora, il
punto di partenza del processo formativo: qui manca o è mal definito
il punto di arrivo.
È il caso dell’«io dis-tratto» di più di qualche giovane, distratto
non per via di una qualche disattenzione, ma perche nella sua vita c’è
qualcosa che l’allontana dall’autentica attrazione, quella che dovreb
be avvertire per il suo io ideale. Più in particolare, il fine «ufficiale»
dell’identificazione con Cristo e con i suoi sentimenti non è sentito
profondamente come la propria nuova identità che soppianta l’uomo
vecchio, ma in qualche modo ci vive assieme, in una specie di doppia
identità'.2 quella ufficiale, astratta e poco coinvolgente, e un’altra se
greta e nascostamente coltivata-coccolata che assorbe energia e inte
ressi, sottraendoli a quella che dovrebbe essere la tensione centrale
della vita consacrata.
Avremo allora il giovane che è l’autentica negazione dell’essere
«giovane»: freddo e anemico, rigido e sempre più svogliato, sia che
studi 0 preghi (e di solito prega e studia poco in questi casi), medio
cre, che in tutto gioca al risparmio ed è incapace di entusiasmarsi per
ciò che è bello, imbarazzato e imbranato quando deve testimoniare la
sua fede e vocazione (e allora copia e ripete cose già dette da altri) e
lontano dall’immaginare quanta verità e libertà vi siano nella passio
ne per Cristo, Signore della vita. Sarà un giovane non libero di per
dersi e donarsi, ma interiormente costretto a inseguire un’improbabile
autorealizzazione.
2 Abbiamo già visto tale concetto quando abbiamo parlato del senso di apparte
nenza (cf. c. 12).
La conseguenza sarà una sostanziale chiusura al processo formati
vo e alla grazia di lasciarsi attrarre dalla bellezza del Figlio, perché la
formazione si gioca tutta qui, nel momento in cui verità e libertà si in
contrano lasciando scoccare la scintilla dell’attrazione per Cristo.
Ma qui non scocca proprio nulla e invece dell’attrazione avremo
la dis-trazione di una contraddittoria e lacerata identità; al posto della
libertà del lasciarsi sedurre dalla bellezza di Cristo, avremo un io
lontano dal suo centro e dalla sua verità, che cerca compulsivamente
se stesso. Senza mai trovarsi.
c) L ’io corazzato
Il contrario dell’io in relazione è l’io chiuso in se stesso, pauroso
di aprirsi e ancor più di consegnarsi a un altro.
Esperienze passate negative e ferite relazionali possono aver
creato questo timore, lasciando nel cuore l’idea che convenga difen
dersi dagli altri, Dio compreso.
Non è così raro oggi, nel clima generale di instabilità emotiva
(che rende debole anche l’esperienza familiare), trovare giovani ar
roccati sulla difensiva, che sembrano doversi proteggere non si sa be
ne da chi, e che fanno un’enorme fatica a lasciarsi accompagnare da
un altro, ad aprirsi con fiducia. Non necessariamente sono musoni e
intrattabili, a volte sembrano viver bene il rapporto, ma in realtà non
si confidano con nessuno.
Vi sono diversi modi di indossare la corazza. Ad esempio vi sono i
tranquilli, tipi solitari per Xquali va sempre tutto bene e non capiscono
che bisogno vi sia dell’accompagnamento; i perfezionisti, falsi virtuosi
disposti ad aprirsi solo con una guida perfetta (che di solito vanno a
cercare altrove); i latitanti, diffidenti un po’ mafiosi che girano alla lar
ga perché temono il confronto; i pellegrini, tipi furbetti che, al contra
rio, hanno molti confidenti cui affidano pezzi diversi della loro vita, ma
senza consegnarla intera ad alcuno; gli impenetrabili, personaggi roc
ciosi, che vengono a colloquio, visto che tocca farlo, ma non si lasciano
scavare dentro e oppongono resistenza a ogni tentativo in tal senso; gli
imperturbabili, quelli che, al contrario, sembrano fatti di gomma, si la
sciano scrutare, teoricamente sono anche di accordo sulle osservazioni
loro fatte, ma poi rimandano tutto indietro al mittente senza lasciarsi
minimamente scalfire, come avessero il cuore di plastica.
Ovvio che con questi tipi non si dà alcuna possibilità di forma
zione che, per natura sua, è fondata su un patto di fiducia reciproca.
Ma non solo: una certa barriera difensiva potrà ostacolare anche la
relazione col divino, in tali casi, rendendola povera e insignificante o
chiudendo cuore e mente del soggetto dinanzi alle provocazioni della
Parola e della vita.
Questi personaggi, infatti, non si lasciano toccare e formare dalla
realtà e dagli altri, finché quella maledetta corazza non li renderà del
tutto insensibili; come quel levita, icona della non docibilitas, che vi
de il poveraccio aggredito dai briganti e tirò dritto...
Potremmo allora concludere dicendo che il coefficiente di doci-
bilitas o di non docibilitas è dato dall’insieme degli atteggiamenti
dell’io attuale, ideale e relazionale nei confronti della provocazione
dell’educazione, della formazione e dell’accompagnamento.
Come tenta di dire in sintesi l ’immagine che proponiamo.
V erità
Educazione Io smarrito
d e l l 'I o A ttuale
L ib ertà
Formazione Io distratto
d e l l 7 o Id e a l e
A pertura
Accompagnamento Io corazzato
d e l l 7 o R e l a z io n a l e
b) Atteggiamenti
Al secondo livello di osservazione lo sguardo si fa più acuto e va
più in profondità.
Di solito si parte dall’«area di incoerenza» prima constatata, per
cercare di percepire non solo ciò che appare subito evidente, ma an
che ciò che non lo è, e pure fa parte dell’io. Gli atteggiamenti, infatti,
sono predisposizioni ad agire, come dei «programmi di azione»,
ormai memorizzati nel nostro «computer», consci e anche inconsci,
pronti per l’uso come uno schema fisso e stabilizzato, e dai quali de
rivano dei soggettivi stili operativi e criteri di scelte, modi stereotipi
di giudicare gli altri e simpatie/antipatie, attrazioni e repulsioni im
mediate, stati d’animo e nervosismi. Quell’incoerenza, come ogni in
cocrenza, ha qui le sue radici.
Uno, ad esempio, quando si sente rifiutato o percepisce difficoltà
di rapporto può aver «imparato» a reagire chiudendosi, cercando una
gratificazione di rivalsa dentro se stesso (magari attraverso la mastur
bazione) o colpevolizzando o rifiutando a sua volta l’altro, o cercan
do di attirare l’attenzione degli altri per rendersi gradevole, ma questo
(l’isolamento autogratificatorio o il rifiuto o l’accusa come reazioni
difensive o il tentativo di «seduưe» per ottenere un vantaggio affetti
vo...) potrebbe anche non essere subito visibile nella sua reale finalità
neppure al soggetto stesso, che non ama scoprire le proprie contrad
dizioni. E intanto l’atteggiamento in questione continua e si rinforza,
proprio perché non è scoperto nella sua origine.
Di qui l’importanza che il giovane impari a scrutare quest’area, e
non si accontenti di esaminarsi sui comportamenti, ma su ciò che vie
ne prima o è alla radice di essi. In tal modo egli può decifrare e giudi
care la propria mentalità e coscienza, il suo valutare o «sentire» una
cosa 0 una condotta come giusta o no, e farebbe senz’altro scoperte
«interessanti» e, a volte, non proprio gradite.
Il giudizio morale molto spesso può esser condizionato dagli at
teggiamenti che abitualmente uno assume, anzi, in certo senso lo
stesso giudizio è un atteggiamento, ovvero un modo divenuto ormai
abituale di vedere e valutare le cose.
c) Sentimenti
Il terzo passaggio viene da sé: una volta superata la barriera di
ciò che è subito visibile non dovrebbe essere difficile spingere oltre
l ’analisi, per rilevare con sincerità quel che il soggetto prova dentro
di sé o ha provato in quella precisa circostanza, quando ha ricevuto
quell’affronto o si è sentito emarginato.
Il sentimento è una risonanza affettiva con cui il giovane vive i
propri stati soggettivi nel rapporto col mondo esterno: nasce come
emozione che diviene un po’ alla volta stabile e può arrivare a essere
così intensa da diventare passione.
È in fondo una forma di conoscenza dell’oggetto o dell’evento,
valutato in riferimento alla propria persona; proprio per questo il
sentimento è profondo rivelatore dell’io e dell’eventuale eccessivo
attaccamento ad alcune realtà e rifiuto di altre.
Così, se il giovane scopre di soffrire e di soffrire troppo per esse
re stato messo in disparte da qualcuno, potrebbe essere aiutato a capi
re che ciò dipende dal bisogno esagerato contrario: quello di essere al
centro dell’attenzione. E così il sentimento svela l’egoismo che c’è
nel cuore e aiuta a capire la natura della contraddizione. In ogni caso
è il sentimento che consente di capire e scrutare le profondità della
coscienza; dunque non va penalizzato e ignorato, ma riconosciuto
d) Motivazioni
Dai sentimenti alle motivazioni, o al tentativo di identificare ciò
che realmente spinge il giovane ad agire, i bisogni che sono in lui
prevalenti, anche se inconsci.
La motivazione è il fattore dinamico-direzionale che attiva e di
rige il comportamento umano verso un obiettivo preciso, è energia
mirata, forza intenzionale, è ciò che il soggetto vuole realmente, pur -
a volte - senza intenderlo e magari in contrasto con altri obiettivi di
chiarati e... nobili. Qui il giovane deve cercare di cogliere Yorien
tamento generale della sua vita, di ciò che intende realizzare, come
emerge dalle varie motivazioni che coglie alla base del suo essere e
agke.
Non basta più, allora, la sincerità, ma occorre giungere alla ve
rità di sé. Attraverso delle domande precise: agisco in base a bisogni
egoistici o in vista di motivi trascendenti? Se soffro così tanto per'un
certo rifiuto della mia persona o per un insuccesso, che cosa c’è al
centro della mia attenzione psichica, o a che cosa è attaccato il mio
cuore? Quali sono i miei desideri e quanto mi sento libero di realiz
zarli? Come mai per fare certe cose sono disposto ad affrontare grossi
sacrifici, mentre altri impegni e doveri mi lasciano freddo? Perché
non mi sono nemmeno accorto di quella persona che aveva bisogno
di una mano, o della tristezza di quel fratello che chiedeva compren
sione? Come mai altri hanno saputo leggere come segno dei tempi
quanto io non ho neppure notato?
Queste e altre domande fanno capire lentamente alla persona che
cosa vi sia all’origine del fare o dell’omettere, del vedere o del non
accorgersi, dell’appassionarsi o del rimanere freddi. Dal coraggio
delle domande e dalla verità delle risposte dipende la possibilità di
cominciare a dare un nome preciso all’inconsistenza centrale.
e) Equivoco di fondo
Dovrebbe essere la stazione di arrivo, almeno in questa fase. Tutto
il cammino precedente ha lo scopo di giungere a identificare Vequivoco
di fondo, ovvero la componente meno matura e più infantile del proprio
progetto di vita. Air inizio di un cammino educativo-formativo la stessa
opzione vocazionale è sempre imperfetta, è inevitabilmente, attratta da
motivazioni e desideri non ancora evangelizzati, che ovviamente la in
deboliscono e rendono meno autentica. È dunque importante che il
giovane venga aiutato quanto prima a riconoscere questo equivoco di
fondo, in forza del quale - ad esempio - desidera sì offrirsi a Dio, ma al
tempo stesso è un po’ troppo preoccupato della sua affermazione, 0
vuole dedicarsi al bene degli altri, ma non disdegna - se possibile - di
essere al centro dell’attenzione, o proclama il valore della comunità, ma
per evitare di ritrovarsi solo e gratificare il proprio bisogno d’affetto.
Non è un dramma scoprire tutto ciò; sarebbe un dramma se uno potesse
andare avanti senza essere provocato prenderne coscienza. Chi non
scopre fin da subito il suo “equivoco di fondo” rischia di rendere equi
voco il suo cammino di formazione e consacrazione.
In pratica, allora, il giovane va posto dinanzi all’interrogativo
strategico di ogni percorso credente e di ricerca dell’Etemo: ma io ci
credo o no? Cerco veramente Dio o qualcos’altro assieme al divino?
Da questa domanda centrale sgorgano inteưògativi a grappoli:
LIBERAZIONE DELL’IO
1. Dinamismo dell’inconsistenza
ỉ
SQUILIBRIO
NELLA DISTRIBUZIONE DI ENERGIA
a
CONSEGUENZE
2ề Superamento dell’inconsistenza
a) Atteggiamento responsabile
Si tratta, anzitutto, da parte del giovane, di vivere con senso di
responsabilità le proprie inconsistenze. Come abbiamo già detto, il
singolo può anche non essere responsabile di quanto è avvenuto nel
suo passato; vi sono inconsistenze, cioè, che possono esser legate a
eventi e ferite per i quali il soggetto non ha alcuna colpa, anzi, ne è in
qualche modo vittima. Ma in ogni caso egli è responsabile al pre
sente dell’atteggiamento che assume di fi-onte alle sue debolezze, an
che a quelle ereditate dal suo passato.
E responsabilità vuol dire, per prima cosa, il coraggio di am
metterle con precisione e confrontarsi quotidianamente con esse. Chi
le nega finisce per subirle; chi le ignora non fa che rinforzarle. Vi so
no vari modi per negarle e ignorarle: non coglierne la gravità («non è
mica peccato dopo tutto!»), scaricarne la responsabilità sugli altri
(«non dipende da me, è lei che ha bisogno di calore umano...»), giu
stificarle pensando solo ai propri sentimenti («da quando la conosco
sono più sereno e prego anche meglio»), razionalizzarle e sublimarle
(«è un’amicizia a fin di bene: è il Signore che ci ha fatto incontrare»),
tenere la cosa nascosta senza confrontarsi con nessuno (perché «gli
altri dall’esterno non potrebbero capire»),
ma è anche molto più dannoso. Infatti chi agisce così crede di «ac
cettarsi», ma dentro è lacerato. Mentre una specie di invisibile tarlo
roditore toglie efficacia a quanto fa, nonostante la sua efficienza.
b) Rinuncia intelligente
È tipico dell’adulto essere responsabile, e infatti si tratta di
adottare un atteggiamento a d u l t o nei confronti delle proprie debolez
ze, scegliendo di rinunciare a certi comportamenti gratificatoli. Chi
vuole realmente superare le proprie inconsistenze sa bene che non
può permettersi tutte le libertà, sa che deve stare attento ad alcune
situazioni, sa che a un dato momento deve saper dire di no a certe
abitudini 0 cercare di bloccare un po’ alla volta certi automatismi.
Ognuno ha le sue debolezze e ognuno, di conseguenza, deve avere
certe attenzioni anche su cose apparentemente piccole, che a un altro
potrebbero sembrare insignificanti.
Un tempo si diceva di «fuggke le occasioni prossime di peccato»; è
un consiglio che potrebbe essere sottoscritto anche su un piano psicologi
co. Si salva dal pericolo solo chi vigila attentamente anche quando ritiene
di sentirsi sicuro (e chi mai può dirsi tale su tutto il fronte?), e sa dunque
dứsi di no, rinunciare, restare fedele a un’intelligente ascesi. L’uomo
normale è colui che ha imparato a rinunciare a qualcosa.
«Chi crede di poter leggere tutto, sentire tutto, vedere tutto; chi rifiuta
di dominare la propria immaginazione e i suoi bisogni affettivi, non
deve impegnarsi nella via della consacrazione... Dio non potrebbe re
stargli fedele, né si può esigere da Dio che stabilisca per lui una sal
vaguardia miracolosa».'
«Chi dice “è più forte di me” forse non ha ancora sperimentato quel
profondo cambiamento che inizia quando invece di attribuire la re
sponsabilità ad altri (a qualche forza indomabile) si comincia a dire:
“è colpa mia”».3
L’UOMO NUOVO
«La persona che se ne lascia afferrare, non può non abbandonare tutto
e seguirlo (cf. Me 1,16-20; 2,14; 10,21.28). Come Paolo, essa consi
dera tutto il resto “una perdita di fronte alla sublimità della conoscen
za di Cristo Gesù”, a confronto del quale non esita a ritenere ogni co
sa “come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,8). La sua
aspirazione è di immedesimarsi con lui, assumendone i sentimenti e
la forma di vita».3
b) Motivazione
Se il Cristo è alla radice e al centro della vita, si tratta ora di impa
rare progressivamente ad animare ogni gesto e scelta con la fede in lui.
La motivazione, come sappiamo, è fattore dinamico-dữettivo
poiché attiva e dirige l’essere e l’agire; se uno poi sceglie Cristo e i
suoi sentimenti come motivazione esistenziale, allora là vita è scossa
fin nelle fondamenta da un potente teưemoto. Deve saperlo il giova
ne: la formazione implica per natura sua una tras-formazione, è come
una nuova nascita, significa entrare in una logica che trasfigura cose
e persone, ove progetti e desideri assumono un senso inedito a partire
da colui che ha portato il fuoco sulla teưa (cf. Le 12,49).
Ma proprio questo è il segreto della formazione che trasforma-e-
trasfigura: mettere Cristo all’inizio e alla fine di tutto, cercarlo ovun
que e comunque. È il tipico dinamismo motivazionale cristiano che
consente al giovane di evitare il rischio, oggi così facile, di sprecare
la vita e le energie giovanili, di addormentare-addomesticare tutto, di
lasciarsi condizionare da quella cultura del calmante e del sonnifero
che, con la scusa di evitare il duro e il difficile, gli impedisce di gu
stare ciò che è bello e di essere giovane per Cristo. Non si tratta di
tornare ai tempi in cui si mitizzava il sacrificio con forme a volte
strane e isolate, perché fine a se stesse, di rinuncia,5 ma di aver la li
bertà e il coraggio, sul piano umano e spirituale, di vivere l ’ascesi
della motivazione, quell’eroismo costante, umile e discreto di motiva
re ogni azione con la passione del Signore Gesù.
a) Sentimenti
È possibile, abbiamo detto, educare i sentimenti, conoscerli per co
noscersi e dominarli, ma è possibile ancheformarli] d’altronde che senso
avrebbe una formazione che non arrivasse a una certa profondità psichi
ca, laddove il cuore sente e si risente, vibra e ama, soffre e gode...?
Il giovane ha questo incredibile orizzonte dinanzi a sé: il cuore
di Cristo. Qui non c’è legge, regola, divieti, tecniche di condiziona
mento..., qui si tratta di imparare, con pazienza, ad avere gli stessi
sentimenti del Figlio, a reagire alla vita con il suo stesso sentire, con
quella gratitudine con cui da tutta l’eternità si lascia amare dal Padre,
con quella libertà con cui decide di dare la vita per gli uomini, con
quei sentimenti di compassione, bontà, perdono, tenerezza con cui ri
sponde ai bisogni dell’uomo, con quella forza e passione con cui
s oppone al male.
Non è sufficiente fare determinate cose buone, per quanto bene
merite, non basta reagire con mitezza alla violenza, o agire da miseri
cordiosi quando si è offesi, da puri di cuore e poveri di spirito e paci
ficatori, ma è necessario essere «dentro» miti e puri e pacificatori, e
sperimentare la mitezza, la misericordia, la purezza come sentimenti
sempre più abituali, e come qualcosa non solo di doveroso e santifi
cante, ma di bello in sé e appagante, come condivisione del cuore di
Cristo, pur con tutta la fatica che ciò comporta.
Proprio questo è il vero senso delle beatitudini, e solo a questo
punto la formazione diviene trasformazione-trasfigurazione, nascita
dell’uomo nuovo, che vibra dei sentimenti di Dio! Altrimenti la for
mazione è solo sforzo che opprime e rinuncia che deprime, tanto co
stosa quanto debole, più «muscolosa» che mistica, solo iniziale e per
nulla permanente.
Luogo tipico di questa trasformazione del cuore, allora, è la pre
ghiera, lo stare in silenzio adorante dinanzi a Dio, lasciando che il
Padre, che da tutta l’eternità genera il Figlio, generi anche nel giova
ne consacrato i sentimenti del Figlio. Se i nostri giovani frettolosi
scoprissero l’efficacia misteriosamente trasformante del «tempo per
so» davanti al Padre!
d) Atteggiamenti
Se il cuore comincia a battere in modo nuovo, allora davvero la
vita cambia. Ma è necessario apprendere abitudini nuove, perché la
conversione sia reaie e stabile.
Si tratta, in concreto, di far partire nuovi dinamismi o nuovi stili
di vita, con la costanza di chi sa di avere individuato un tesoro pre
zioso, ma che ancora non gli appartiene.
Molti giovani cominciano a intmre dov’è il tesoro, ma non sono poi
costanti neU’imparare nuove strategie di vita o nuove predisposizioni a ri
spondere alle provocazioni esistenziali; così non solo nulla cambia, ma
loro stessi finiscono per dimenticarsi pure dove sia il tesoro.
L’obiettivo di questa fase non è ancora, comunque, la condotta
esterna, ma ciò che viene prima: la formazione della coscienza, una
certa sensibilità e finezza psicologica, la libertà e qualità dei desideri,
il gusto per i valori, l’intuito del vero-bello-buono..., quanto consen
te, insomma, di muoversi con sempre maggiore scioltezza e natura
lezza nel fare il bene.
Per fare un esempio, madre Teresa di Calcutta quando vedeva un
povero sentiva immediatamente denteo di sé l’impulso benevolente
che la spingeva a soccorrerlo, non poteva fare altrimenti, ma tale im
pulso era il risultato progressivo di una abitudine, divenuta stile di
vita e atteggiamento, soưetta e provocata dalla coscienza interiore
che le consentiva di vedere Gesù nel povero fissandolo e amandolo
col cuore di Dio e dalla sensibilità psicologica che la disponeva sem
pre più a farsi carico del peso altrui.
Così nascono e si convertono gli atteggiamenti, poiché nulla
succede a caso o per dono di natura, e neanche - esclusivamente - di
grazia.
e) Comportamenti
L’ultima tappa della risalita è costituita dai comportamenti.
È un po’ la prova decisiva: sentimenti, desideri, atteggiamenti
devono a un certo punto confrontarsi con la realtà nuda e cruda della
vita, e divenire gesto concreto e scelta precisa. Senza questo coinvol-
gimento con la prassi quotidiana, fatta delle piccole cose, dei soliti
ritmi di vita, delle medesime persone e delle identiche occupazioni, a
volte anche poco esaltanti, nessuna formazione-trasformazione è pos
sibile. Il mondo si rinnova, è stato detto, a partire da grandi idee e da
piccole decisioni; anche il mondo del singolo individuo e del nostro
giovane in formazione.
Anzi, da questo punto di vista non esistono piccole cose, piccole
scelte, piccole prassi esistenziali..., poiché tutto diventa significativo
e importante se espressione di un cammino di crescita che porta len
tamente alla trasformazione della vita. Attraverso un percorso scan
dito, normalmente, da tappe precise, corrispondenti a quanto abbiamo
visto nel capitolo precedente órca il dinamismo dell’inconsistenza.
Come è l’azione che rende un’attrazione particolarmente schia
vizzante, così è l’azione costante (cioè disciplinata) che rende un va
lore particolarmente familiare, consentendo di conoscerlo dall’in
terno, non per sentito dire, bensì per frequentazione assidua. Ma que
sto valore potrà attrarre il cuore solo se diviene abitudine, solo se
viene regolarmente tradotto in gesti concreti, perché solo allora apre
in modo progressivo cuore e mente alla scoperta e all’esperienza di
gusti e desideri in linea col valore stesso. A questo punto l’ideale di
venta in modo sempre più definitivo mentalità e sensibilità, criterio di
discernimento e componente strutturale della propria identità, scelta
sempre più naturale e spontanea per chi ritrova in esso la sua «for
ma». E proprio questa è la libertà del consacrato, la libertà di divenire
quel che è chiamato a essere, libertà dello e nello Spirito: «quelli che
vivono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito» e deside
rano secondo i desideri dello Spirito (Rm 8,5-6).
Ciò che conta è la linearità coerente di tale processo come si ma
nifesta nel frammento della condotta quotidiana: dall’opzione fonda-
mentale che pone Cristo alla radice di tutto alla decisione di cercare
lui in ogni cosa e di lasciarsi accendere dal suo fuoco, dal coraggio di
affrontare le situazioni coi suoi stessi sentimenti alla pazienza di crea
re nuove abitudini di vita scegliendo responsabilmente nuovi com
portamenti.
In quel frammento si concentra, allora, tutto un progetto di for
mazione trasformante. Lì nasce l’uomo nuovo, in un giorno non più
banale e feriale, ma trasfigurato nel «giorno che ha fatto il Signore»
(Sai 118,24).
Quel giorno potrebbe durare tutta la vita, in un processo di tras
formazione permanente...
l ế II concetto
2ắII dinamismo
ovvero, nella prospettiva della fede che fissa la verità di quel che
siamo e che siamo chiamati a essere.
«La nostra vita infatti non celebra se stessa, ma Colui che vale più
della vita: “Poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra di
ranno la tua lode” (Sai 63,4)».3
«La libertà non è fare ciò che si vuole, ma il diritto di fare ciò che si
deve»,4
e c’è un’unica cosa che l’uomo «deve» fare: la verità e la sua verità.
A partire da questa verità e attorno a questa verità che viene da Dio
egli può integrare tutta la sua vita e ogni suo affetto. Allora sarà libe
ro e felice.
3. Lo stile
Libertà affettiva, abbiamo detto, significa amare quel che si è e
quel che si è chiamati a essere, ma non solo, la consegna totale di sé
all’ideale della vita porta normalmente a riprodurlo in sé, vivendo e
amando nella sua logica, sotto il suo influsso, lasciandosi ispirare e
determinare da esso.
E allora poữemmo riprendere e completare il concetto di libertà
affettiva, dicendo che la libertà del cuore porta ad amare la propria
vocazione e secondo la propria vocazione,6
È un’altra sintesi preziosa, logica ed esistenziale, che unifica la
vita nel cammino di formazione iniziale e permanente. Nella persona
libera l ’oggetto dell’amore (la propria identità vocazionale) diviene
anche lo stile dell’amore stesso; ogni essere umano, infatti, è chia
mato ad amare, ma ognuno nello stile proprio del suo progetto voca
zionale, e non copiando, con esiti spesso maldestri e ridicoli, modi e
gesti che appartengono ad altri progetti di vita. Il coniugato ami da
coniugato, il fidanzato da fidanzato, il vergine da vergine. Con la
convinzione che il suo progetto vocazionale verginale gli detta un
preciso e corrispondente stile relazionale verginale: se ama quel pro
getto e ne è attratto, perché lo riconosce fonte della sua verità, dovrà
anche voler bene secondo quello stile che lo caratterizza. Allora sarà
lui stesso vero e libero.
E ritroviamo qui, su un piano pratico, il principio teorico prima
affermato. Quel vergine per il Regno che nel suo relazionarsi adotta
uno stile che non esprime abbastanza la verginità del cuore, o che è
ambiguo, perché usa in modo confuso e pasticciato parole o compor
tamenti, modi relazionali e atteggiamenti che sono tipici di un altro
stato di vita, costui non solo non è vergine, ma neppure è libero, per
ché si pone in contraddizione con se stesso e con la sua verità.
a) «Tirarsi in disparte»
Il vergine, o l’aspirante vergine, «si libera progressivamente dal
bisogno di mettersi al centro di tutto»8 e impara ad adottare,
all’interno della relazione, uno stile di discrezione, da un lato, e di
capacità, dall’altro, d’amare anche intensamente e vivere profonde
amicizie, ma facendo sempre emergere la centralità di Dio in ogni
affetto umano, quel posto che può esser riservato solo a lui, specie
nel cuore del vergine, ma in realtà nella vita di tutti, in forza di quella
verginità che è assieme dato costitutivo e obiettivo finale (identità
attuale e ideale) per ogni essere umanoế II vergine, con la sua scelta,
vuole proprio dire a ogni uomo e donna (coniugati, fidanzati, padri e
madri, amici ecc.), che laddove c’è amore lì c’è Dio9e se si vuole che
quell’amore umano rimanga fedele e diventi sempre più intenso, è
necessario che ognuno rispetti quello spazio nel cuore dell’altro che
12 Per un’analisi e descrizione dello stile affettivo e dei criteri della sana amici
zia nella vita del vergine rimandiamo ancora a C e n c i n i , Con amore, 241-271. Per
quanto riguarda le immaturità in tale campo cf ibidem, 271-294.
13 E. J e n n i n g s , citata da G. RAVASI, «Amore gentile», in Avvenire, 5 marzo 1999.
14 J. VANIER, La paura di amare, Padova 1984, 25-26 (corsivo nostro).
In una cultura molto facilona e fortemente ambigua al riguardo,
quanto sarebbe importante che i nostri giovani apprendessero questa
arte del rispetto per l’altro. Ed è quanto mai significativo che un inse
gnamento del genere venga da chi del rispetto per le ferite altrui ha
fatto una ragione di vita!
c) Testimoniare la bellezza
Infine, lo stile del vergine non mira semplicemente a conservare
o a difendere e nascondere la bella virtù, non è lo stile di che vede e
vive con sospetto la relazione interpersonale, perché pericolosa. Il
giovane deve abituarsi a sentire la verginità non come qualcosa di
strumentale per la sua perfezione personale, ma come dono per tutti,
come segnale posto nel mondo a ricordare che c’è nel cuore di ogni
creatura uno spazio che può esser riempito solo da Dio. In questo
senso ogni uomo e ogni donna sono chiamati a essere vergini. E pro
prio perché questa verità è debole, e rischia di essere soffocata e
ignorata dalla cultura odierna, c’è bisogno della presenza di vergini
che con la loro scelta tengano viva questa memoria, che con la loro
verginità testimonino la bellezza dell’amore di Dio, che sappiano dire
e confessare, la beatitudine della verginità stessa. Interpretata e vis
suta così, con questa apertura di significato, la verginità - tra l'altro -
diventa anche più praticabile e meno pesante per il celibe stesso. Ma
poi, ciò che è bello va detto e confessato, non può restare inespresso
o essere tenuto nascosto.
E così rispondiamo anche al secondo grappo di domande prima
poste: il vergine è uomo di relazione, deve sapere stabilire molte rela
zioni, deve sapere render visibile la sua scelta verginale proprio per
ché essa dice la verità dell’essere umano e ogni nostro fratello e so
rella devono potervi leggere il senso della loro stessa verginità. Ed
esattamente perché si tratta di un annuncio difficile, e da più parti av
versato e oscurato, è indispensabile che la testimonianza sia traspa
rente, limpida, inequivocabile, senza sbavature né compromessi, non
pasticciata né ambigua.
Da un lato, allora, il giovane deve apprendere a vivere una ver
ginità aperta, che si confessa o che confessa la bellezza dell’appar
tenere solo a Dio; non il celibato del consacrato-orso, del misogino,
di colui che sfugge 0 vive in modo imbarazzato il rapporto. Dall’altro
deve porre ogni attenzione perché tutto in lui esprima la bellezza di
questa scelta, in modo assolutamente trasparente.
Il giovane consacrato che, per essere moderno e apparire disini
bito, finisce per giocare coi sentimenti altrui e mandare messaggi am
bigui, forse non farà grossi peccati, ma neppure trasmetterà la bellez
za dell’appartenere a Dio solo, e in ogni caso stia pur tranquillo, non
è né moderno né disinibito, ma esprime solo la confusione che ha
dentro, figlia della mania conformista di essere come tutti (e accettato
da tutti/e), o di quella contraddizione tra progetto vocazionale e stile
di vita che inibisce ogni libertà del cuore. Tra l’altro, non so chi sia
più inibito tra questo giovane «giocattolone e appiccicoso» che si
vergogna della sua verginità e il tipo timido che invece si vergogna di
voler bene ed è anche un po’ orso.
Ma in realtà, che cosa c’è oggi di più moderno della verginità?
Di una verginità libera e limpida, detta con la trasparenza discreta e
pure forte di un agire lineare, che in ogni relazione annuncia, con co
raggio e creatività giovanili, che Dio è origine e centro e destino di
ogni amore umano? Se moderno vuol dire libero da condizionamenti,
originale e rispondente alle necessità del momento, non è forse questa
la testimonianza che il mondo di oggi, così povero di libertà, doman
da al vergine e al giovane vergine?
e) Il bacio al lebbroso
C’è infine un’altra componente dello stile del vergine, che ri
guarda in modo particolare la rinuncia e lo scopo della sua rinuncia.
Prendo lo spunto dal famoso episodio della vita di Francesco d’Assisi
che bacia e abbraccia un lebbroso. Quando Francesco compie questo
gesto, non fa semplicemente un’atto eroico, magari reprimendo una
naturale ritrosia o ... chiudendo gli occhi per non vedere, ma, in un
certo modo, si sente attratto da quel viso deforme, come l’amante
verso le labbra dell’amata. E ci fa capire il senso vero della rinuncia,
anche di quella implicita nella scelta verginale. In cui si rinuncia a
qualcosa di bello (umanamente parlando) per essere liberi di provare
attrazione per qualcosa che umanamente non è attraente; 0 in cui,
detto diversamente, si rinuncia al viso più bello per esser liberi di ab
bracciare il viso più bratto.
È il senso profondo della verginità per il Regno, come progetto
di vita entro il quale il vergine decide di allontanarsi da qualcuno/a
solo per avvicinarsi più intensamente a qualche altro o a tutti; o come
rinuncia a quell’amore umano che usa un certo tipo di criteri, elettivi-
selettivi, per amare alla maniera di Dio, che non usa quei criteri, ma
fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, e ama in modo particolare
il povero e il debole. La rinuncia, insomma, deve essere mirata e ben
finalizzata; allora diventa possibile, pur se costosa in ogni caso, poi
ché apre, dinanzi al cuore del vergine, uno spazio inedito di libertà, la
libertà di amare tutti, fino a voler bene e provare attrazione per chi
umanamente sembra meno amabile 0 addirittura repellente, o è più
tentato dalla disperazione di scoprirsi poco amato.
Nulla di straordinario, in fondo è proprio questo che significa ver
ginità per il Regno: amare Dio al di sopra di tutte le creature (= con
tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze), per voler bene con
il cuore e la libertà di Dio a ogni creatura (= senza legarsi a nessuna in
particolare, che sarebbe il matrimonio, né rifiutandone alcuna).
Ma allora contìnua e ritoma il paradosso della libertà. Se il ver
gine è espressione di libertà nel mondo di oggi, c’è un altro mito che
viene a cadere: il mito della libertà come indipendenza.
5. Le radici
Siamo al termine della riflessione che ha proposto un itinerario
di formazione alla libertà del cuore. In realtà con quest’ultimo para
grafo siamo ricondotti alle origini del percorso. Da dove viene questa
libertà? Quali sono le condizioni strutturali della libertà affettiva?
In maniera schematica diciamo che ha due tipi di radici, una spi
rituale, l’altra psicologica.
a) Mistica e libertà affettiva
A livello spirituale la libertà ha radici mistiche. Se infatti mistica
è la capacità di sentire-gustare e accogliere fin nelle fibre più profon
de dell’essere quel che Dio fa nell’anima del credente, al punto da la
sciarsi attrarre e modellare dalla sua azione, allora la libertà ha natura
e sapore mistici. La libertà, infatti, non si conquista, di per sé, ma,
16 E. Bianchi, «Il monaco, nel deserto di fronte alla città», in Avvenire, 28 lug
1995, 15.
come abbiamo specificato, significa lasciarsi conquistare, sperimenta
re una forte attrazione, contemplare lo splendore della verità, essere
illuminati dalla bellezza... Anzi, è decisamente importante che un
giovane comprenda che «la vera libertà - come afferma un maestro di
vita spirituale quale A. Dagnino - non può cominciare prima della
mistica, o prima che l’amore abbia raggiunto una certa ebollizione,
che provoca degustazione o esperienza»,17 0 sapienza del mistero.
Solo dopo si può parlare di libertà.
Detto diversamente: quanto più l’amore è allo stato mistico, ed è
attratto dal dono di Dio, tanto più la scelta del dono stesso divino sarà
autenticamente libera. Ecco perché la vocazione religiosa è chiamata
per natura sua alla libertà di un amore grande o allo stato misticoỄ
Potremmo addirittura dire che la verginità è proprio espressione
dell’aspetto mistico di tale vocazione, e che non può esser compren
sibile al di fuori di questa logica. Esattamente per questo motivo ab
biamo più sopra parlato di «cromosoma mistico» come condizione
indispensabile per un’autentica formazione alla consacrazione a Dio.
Non è forse il caso di recuperare la dimensione mistica all’inter
no della vita consacrata e della formazione a essa, togliendole quella
falsa aura celestiale che la svuota e ne snatura il senso? Per altro, «la
mistica cristiana passa attraverso l’umanità di Gesù o, comunque, si
apre verso la direzione in cui questa divina umanità può essere tro
vata. Perciò la mistica cristiana autentica nasce e vive di croci e di
oscurità»,18 proprio perché implica una conoscenza-esperienza-sa-
pienza piena, non parziale; concreta, non astratta, del mistero.
b) Due certezze
22 Ibidem, 76.
23 Ibidem, 62.
stessa: la formazione diviene efficace solo se da parte sua c’è la di
sponibilità ad aprirsi, a svelare il motivo dei suoi stati d’animo, posi
tivi e negativi, a consegnarsi nella verità del suo vissuto a chi gli è a
fianco e che proprio per questo può aiutarlo a capirsi meglio.
Il giovane deve comprendere che è egli stesso il primo responsa
bile della sua formazione, non può aspettarsi tutto dall’altro, né può
pretendere che... sia un mago e possa leggere e capire tutto della sua
storia senza che lui faccia la sua parte aprendosi senza difese o reti
cenze. Come può la guida accompagnare realmente chi non si apre
abbastanza o gli mette a disposizione solo la parte superficiale di se?
C’è, in effetti, chi va dal direttore spirituale come un dipendente
va a ricevere ordini, finché a un certo punto non ne vedrà più la ne
cessità e farà tutto per conto suo... Da questo punto di vista, allora, si
può ben dire che ognuno ha il padre spirituale che si merita.
È dunque importante che il giovane impari a scrutarsi e non ab
bia paura di riconoscere i suoi sentimenti e le reali motivazioni del
suo agire, si prepari a ogni incontro con la sua guida con un intelli
gente esame di coscienza (non di incoscienza), in cui evidenziare
problemi, difficoltà e un quadro realistico di sé, così da potergli offri
re una collaborazione reale, nell’interesse della sua crescita.
Tra l’altro, il semplice fatto di dirsi a un altro ha già una note
vole valenza educativa, sia perché «costringe» ad aprirsi a se stessi e
a cercare la propria verità, sia perché diventa un confronto salutare,
per quanto a volte imbarazzante, con chi ci vive accanto e vede
aspetti che all’interessato stesso potrebbero sfuggire. Per questo chi è
aperto nella direzione spirituale normalmente vive bene anche la pre
ghiera; chi, al contrario, non è aperto con il fratello non lo è nemme
no con il Padre.
2. Fiducia
3. Discernimento
«Sono solo un uomo che cerca la tua volontà; da come la vedo, credo
di poter camminare meglio; credo di poter partire. Questo “partire” è
bene per me: in ogni caso non mi porta lontano da te, mi porta verso
di te, compiendo un disegno che, a questo punto, ancora pienamente
non conosco. In ogni caso, tu sarai con me, e io con te. Questo è il
bene supremo».4
4. Condivisione
Il formatore, abbiamo già ricordato, non trasmette una dottrina al
giovane che accompagna, non è maestro né semplice informatore, ma
credente e consacrato che conosce la strada e la voce e i passi di Dio
e proprio per questo può aiutare a riconoscere il Signore che viene
incontro e a rispondere a colui che chiama.
La comunicazione educativo-formativa adotta il registro della
confessio fidei, avviene da cuore a cuore, come condivisione di espe
rienza sapienziale, che è come dữe che la formazione avviene per
contagio, per la forza di una passione che ha invaso una vita e da lì
trabocca riversandosi su un’altra esistenza.
Un buon religioso non è automaticamente un buon formatore,
primo perché non basta esser «buoni» per farsi carico della vita di un
altro, ma ci vuole un po’ di passione e anche di follia; secondo perché
oltre alla santità personale-privata è necessario avere la capacità di
condividere, di partecipare ad altri la scoperta del tesoro, di dừe la
bellezza di quel che ha avvinto il cuore, visto che è impossibile na
scondere ciò che è bello... Fino al punto di rendere il giovane stesso
PARTE PRIMA
IL MODELLO FORMATIVO........................................................ » 19
C apitolo secondo
LA FORMAZIONE OGGI......................................................................... » 23
Indefinitezza del m odello.................................................................. » 23
1. Ambiguità dell’obiettivo........................................................ » 24
2. Confusione nelle tappe intermedie....................................... » 24
3. Povertà di indicazioni metodologiche................................. » 25
C apitolo terzo
«ABBIATE IN VOI GLI STESSI SENTIMENTI
CHE FURONO IN CRISTO G E S Ù »...................................................... » 29
«Guardando verso il futuro»............................................................ » 29
1. Modello teologico-antropologico.............................. » 30
2. Strategie generali: legge della totalità
e della dinamica esperienziale-sapienziale.............. » 32
3. Metodo educativo: formazione alla libertà............. » 33
C apitolo sedicesim o
ALLA SCOPERTA DELL’IO ............................................................................» 169
1. «La verità vi farà liberi» (Gv 8 ,3 2 ).......................... .........» 169
2. «Dal cuore provengono
i propositi malvagi» (Mt 1 5 ,1 9 ).........................................» 170
3. «State attenti, vigilate...» (Me 13,33)..................... .........» 176
C apitolo diciassettesim o
LIBERAZIONE DELL’I O ........................................................................ .........» 1 7 9
1. Dinamismo dell’inconsistenza...........................................» 179
2. Superamento dell’inconsistenza.........................................» 182
3. La buca nella strada............................................................. » 188
C apitolo diciottesim o
L’UOMO N U O V O ...................................................................................... .........» 191
1. «Formatevi un cuore nuovo
e uno spirito nuovo» (Ez 18,31).........................................» 191
2. «Convertitevi e vivrete» (Ez 18,32)......................... .........» 192
3. «Con tutto il cuore» (Dt 6 ,5 )..................................... .........» 194
C apitolo diciannovesim o
LIBERI NEL C U O R E ................................................................................ .........» 201
1. Il concetto..................................................................... .........» 201
2. Il dinamismo..........................................................................» 203
3. Lo stile ....................................................................................» 207
4. Il paradosso............................................................................» 2 1 4
5. Le radici..................................................................................» 217
C apitolo ventesim o
MAI PIÙ DA SOLO...!............................................................................... .........» 223
1. Apertura.................. ...............................................................» 223
2. Fiducia....................................................................................» 224
3. Discernimento.............................................................. .........» 225
4. Condivisione..........................................................................» 228
INDICE......................................................................................................» 233