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Questo racconto autobiografico tratta delle straordinarie esperienze interiori di Judith von Halle che fra i due e i tre anni di vita, grazie a un avvenimento decisivo, si sveglia dalla propria coscienza crepuscolare e si domanda all’improvviso: dov’ero prima? Ha inizio allora la ricerca della piena coscienza perduta. Da quel giorno, la bambina vede il mondo con occhi diversi da quelli delle persone del suo ambiente.
Questo racconto autobiografico tratta delle straordinarie esperienze interiori di Judith von Halle che fra i due e i tre anni di vita, grazie a un avvenimento decisivo, si sveglia dalla propria coscienza crepuscolare e si domanda all’improvviso: dov’ero prima? Ha inizio allora la ricerca della piena coscienza perduta. Da quel giorno, la bambina vede il mondo con occhi diversi da quelli delle persone del suo ambiente.
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Attribution Non-Commercial No-Derivs (BY-NC-ND)
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Questo racconto autobiografico tratta delle straordinarie esperienze interiori di Judith von Halle che fra i due e i tre anni di vita, grazie a un avvenimento decisivo, si sveglia dalla propria coscienza crepuscolare e si domanda all’improvviso: dov’ero prima? Ha inizio allora la ricerca della piena coscienza perduta. Da quel giorno, la bambina vede il mondo con occhi diversi da quelli delle persone del suo ambiente.
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«Si sono svegliati quando le fiamme avevano già raggiunto il
soffitto». A questa frase del telegiornale mi sono svegliata. Ero seduta sul pavimento del salotto dei miei nonni, lo sguardo fisso su un cubo rosso di plastica posto davanti a me, con fori di forme diverse in cui si potevano inserire piccole figure geometriche. Alzai gli occhi, e per la prima volta nella mia vita lasciai vagare lo sguardo consapevolmente nella stanza. La nonna stava lavorando a maglia e il nonno guardava il telegiornale; alla mia sinistra c’era una grande credenza a vetri, con alcuni cassetti all’altezza delle ginocchia. Uno era legger- mente aperto e conteneva qualche giocattolo. Se mi fossi alzata in piedi, sarei stata abbastanza alta per vedere tutti gli oggetti presenti nel cassetto e poterli prendere.
«… Si sono svegliati quando le fiamme avevano già
raggiunto il soffitto». La frase del conduttore del telegiornale mi risuonava dentro, toccando con indescrivibile violenza e scon- volgente serietà le recondite profondità della mia essenza più intima.
A quanto pareva, avevo dormito, sognato, per poco più di due
anni.
C’era voluto tutto quel tempo perché la mia coscienza facesse
il suo ingresso nel mio corpo senza più esserne respinta? Perché anche la coscienza stessa smettesse di opporre resistenza all’idea di farsi intrappolare negli angusti confini di quel corpo? Quell’incendio, che nel 1974 aveva colpito un appartamento in qualche parte della Germania e di cui si era parlato al tele- giornale, non è di per sé collegato al mio destino. Sono state soltanto le parole a sprigionare un effetto fatidico, a influire sul mio futuro. Quelle parole, così come sono state pronunciate, unitamente all’intonazione vocale dello speaker, non sono solo il mio primo ricordo di vita, ma anche le prime parole in assoluto che ho recepito in piena consapevolezza, al cui suono la mia coscienza terrena si è accesa.
Posso affermarlo con sicurezza, perché ricordo come, dopo
quel momento che aveva coinciso con il mio risveglio, mi ero domandata con un certo stupore dove mai fossi stata prima – ovvero in quell’arco di tempo in cui il mio corpicino esisteva già sulla Terra, durante il quale qualcuno gli aveva messo i vestiti che indossava, e le manine, su cui ora si posava il mio sguardo, dovevano aver già sollevato le piccole forme colorate per poi farle cadere di nuovo. Com’era arrivato fin lì quel corpo in cui mi ero appena risvegliata? Chi o che cosa l’aveva fatto “funzio- nare” fino a quel momento? E soprattutto: io dov’ero stata nel frattempo?
Da allora quella frase del telegiornale mi si è impressa a fuoco
nella mente, ma inizialmente, e per molto tempo, non le ho associato alcuna immagine. E comunque il suo effetto così travolgente su di me non era dovuto al mio essermi fatta una qualche idea delle ripercussioni di quell’incendio sugli abitanti dell’edificio o cose simili. Le parole pronunciate dal conduttore dopo quella frase le ho subito dimenticate, per questo non so affatto se ci furono vittime. Non mi ero fatta nessuna idea dell’episodio in sé, e neanche avrei potuto. Un bambino di età compresa fra i due e i tre anni non è in grado di rappresentarsi le vicende del mondo esterno come farebbe un adulto. Ma forse nel mio caso questo era anche dipeso dal fatto che quell’unica frase aveva toccato un tasto che aveva condotto la mia coscienza brancolante verso qualcosa di totalmente diverso dal luogo e dalle circostanze del fatto di cronaca riportato dalla televisione: in un luogo o in una situazione associati al mio destino.
A partire da quel preciso istante, mi era stato del tutto chiaro –
forse non a livello intellettuale, ma in compenso con un’intensità incomparabilmente maggiore – che quelle parole erano pene- trate nel profondo del mio cuore affinché ricordassi. Questo era stato il messaggio di quelle parole: ricorda! Svegliati! Avevo subito sentito che quelle parole mi avevano svegliata, per il semplice motivo che mi avevano ricordato qualcosa di cui ero stata a conoscenza in un altro momento. Dovevano per forza essere in qualche modo in relazione con ciò che mi risuonava dentro in maniera così intensa. Ma poiché, a quanto pareva, avevo “dormito” per tutto il tempo trascorso nel mio corpo qui sulla Terra rispetto agli eventi terreni di quei due anni, l’eco di quel ricordo doveva riferirsi a un altro periodo, a un mio diverso stato di esistenza. Un tempo dovevo aver soggiornato altrove con la mia coscienza, insieme a tutto il sapere e a tutti i ricordi da essa generati, e con ogni evidenza questo altrove doveva trovarsi al di fuori del corpo che ora mi ospitava.
Tuttavia, quello che maggiormente mi premeva non era il
ricordo di un evento verificatosi in un oscuro passato. Era assolu- tamente fuori discussione: dovevo ricordarmi di me stessa.
Chi sono? Chi o che cosa sono veramente?
Se l’avessi scoperto, se fossi riuscita a riconnettermi con me stessa, se avessi ripreso a essere “io”, allora anche tutto il resto sarebbe riemerso dall’oceano dell’indeterminatezza in cui, a quanto pareva, ero appena precipitata con il risveglio nel mio corpo, dato che altrimenti tutte quelle domande non avrebbero potuto sorgere.
Per poter essere formulate e avvertite in questo modo, la
sensazione consapevole di essermi dimenticata di me e la do- manda su dove fossi stata presupponevano che il mio vero essere non dipendesse dal luogo in cui si trovava in quel momento. Più precisamente: esisteva anche quando non era dentro il corpo, solo che con l’ingresso in questa fisicità si era verificata una vera e propria sorta di annebbiamento, addirittura un processo di addormentamento. Ma avevo dimenticato da dove venivo. Con il mio risveglio mi ero addormentata, avevo perduto qualcosa. Dunque quel risveglio nel mio corpo terreno, che mi aveva portata a dimenticare il mio vero Sé, doveva essere il vero stato di sonno! Forse negli anni intercorsi fra la mia nascita e quel- l’istante non avevo davvero dormito. Evidentemente in quel momento mi sembrava che le cose stessero così solo perché mi ero destata nel mio corpo terreno e nei confronti del mondo degli oggetti materiali, e non potevo più ricordarmi del periodo prece- dente, durante il quale non avevo vissuto nel mio corpo terreno con la coscienza in grado di percepire il mondo degli oggetti materiali. Una sgradevole sensazione di sospetto si insinuò in me: lo stato in cui mi trovavo in quel momento suscitava uno strano tipo di irritazione, non era qualcosa di cui fidarsi. Mi ingannava rispetto a qualcosa che solo vagamente intuivo essere essenziale.
Da quel momento in poi, per me era stato evidente – in modo
del tutto “naturale” – che dovevano esserci due tipi di coscienza: una che mi aveva fatta risvegliare nel corpo, ma che non era in grado di sapere o ricordare chi fossi in verità e da dove venissi. Di contro, mi serviva per essere completamente sveglia in quel corpo terreno. In quella condizione era diventato possibile percepire e fare l’una o l’altra cosa all’interno dello spazio terreno in cui ero seduta in quell’istante con il mio corpo fisico, ma non solo: potevo anche prendere coscienza degli oggetti percepiti e delle mie azioni nel mondo sensibile e visibile. E poi c’era l’altra coscienza, e questa sapeva chi ero e da dove venivo. Sapeva tutto. Con quella coscienza avrei potuto ricordare completamente, perché quella coscienza ero io stessa, il mio intero essere, per così dire.
In quel momento mi resi conto di dover recuperare
quest’ultima coscienza, l’“autentica” coscienza di me stessa, di doverla (ovvero di “dovermi”) riconquistare anche all’interno dei confini del mio corpo fisico, quindi come creatura terrena, poiché a quel primo risveglio nel mio corpo terreno mi ero in qualche modo sentita terribilmente incompleta e privata della mia “autenticità”, addirittura nuda. (Quando, alcuni anni dopo, avevo sentito raccontare la storia biblica del paradiso, mi era immediatamente tornata alla memoria la sensazione provata al momento del mio risveglio nel corpo: la sgradevole esperienza della loro “nudità” contraddistingue l’inizio della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden e la loro caduta sulla Terra materiale. Avendo gustato il frutto dell’albero della conoscenza, erano divenuti coscienti del mondo terreno, ma nello stesso tempo si erano sentiti nudi e alla sua mercé. Avevano sperimentato l’essere strappati a un intero, al Tutto superiore, alla coscienza onnisapiente).
Mentre concepivo questi pensieri e provavo queste sensazioni
dopo il mio risveglio nel corpo, sapevo tuttavia che senza alcun dubbio era sostanzialmente possibile recuperare la mia piena integrità, poiché il risveglio avvenuto alla frase dello speaker televisivo si basava proprio sull’essere in contatto con questa mia coscienza più sveglia, “antica” o “primigenia”. Per la mia nuova “coscienza corporea” appena acquisita, quella frase non aveva infatti alcun significato. Così, con un po’ di consolazione, ero arrivata alla certezza interiore che la coscienza con cui concepivo tutti quei pensieri non potesse essere la stessa che aveva completamente dimen- ticato le risposte alle mie domande. Era infatti proprio questa nuova coscienza del corpo terreno a non sapere nulla di me, della mia vera “me”, e pertanto era anche impossibilitata a porsi la domanda relativa a un’altra esistenza, a un altro stato, dato che non si aspettava affatto che potesse esserci qualcosa del genere. Di per sé non conosceva altro stato che il proprio. – Doveva quindi essere quell’altra coscienza, quella autentica – il mio vero Sé – a formulare quei pensieri e a penetrare nella mia coscienza del corpo terreno fino a rifulgere in essa. (Il “paradiso” non era dunque irrimediabilmente perduto.) Ma il fatto che ciononostante non disponessi ancora di tutte le risposte alle mie domande poteva significare solo – perlomeno questo è quanto sentivo allora – che quella “autentica” coscienza avrebbe potuto espandersi ancor più in profondità di quanto già non stesse facendo in quel momento, e che questa impossibilità a farlo era stata causata con ogni evidenza dal risveglio nel corpo terreno.
Ammetto che tutto questo possa sembrare una storia
inverosimile o perlomeno una prestazione di altissimo livello intellettuale, quasi sovrumana, da parte di una bambina di età compresa fra i due e i tre anni. In proposito devo aggiungere la seguente spiegazione per ridimensionare, o meglio precisare, quanto finora affermato: la descrizione qui presentata illustra esattamente quello che ho vissuto nel mio intimo all’epoca dei fatti. Non vi ho aggiunto né abbellimenti stilistici né particolari inventati. Ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Eppure, se la si osserva con più attenzione, forse questa esperienza non è poi così sensazionale. Va infatti detto che in me non erano affat- to presenti ragionamenti puramente intellettuali, ragion per cui posso anche assicurare che quelle associazioni mentali non erano dovute a una plusdotazione intellettiva. Tutto quello che qui si cerca di esprimere con parole significative per il pensiero intellettuale, e che forse appare tremendamente complicato, non si è svolto nelle forme concettuali note al pensiero razionale. Ciò che qui sono costretta a rappresentare come qualcosa di com- plesso e quindi in successione, all’epoca era stato tutto presente nello stesso istante. Domande e risposte erano come un “tutt’uno”, e “fulminee” dal punto di vista temporale.
Oggi penso di poter affermare che si trattava di un pensiero
non oggettuale: era quello che, a mio parere in modo molto calzante, viene anche definito pensiero sovrasensibile. Era rapidissimo, libero e vivace; riusciva a muoversi senza il minimo sforzo nell’una e – contemporaneamente! – nell’altra direzione, o perfino in svariate direzioni, e poteva quindi avere una visione d’insieme di un’incredibile molteplicità di interrelazioni, cosa impossibile al pensiero discorsivo. Nello stesso tempo, la mia comprensione di allora potrebbe essere definita un pensare assolutamente “analitico”, ma nel senso di un naturale astenersi da qualsiasi punto di vista personale, e sotto questo aspetto perfino astratto, ma dotato di quelle caratteristiche che di solito non vengono attribuite al pensiero analitico: era obiettivo, ma non “esangue”, distaccato ma nello stesso tempo non indiffe- rente. Inoltre si svolgeva in contemporanea, o meglio, al di là del “nostro” tempo, e dunque al di là di quel tempo in cui tutto – ogni oggetto e perfino ogni pensiero – mi sembrava para- lizzato. E infine, era integro, incorrotto