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Capitolo 1

«La storia di ogni uomo dev’essere una Bibbia.


Sarà una Bibbia».
Novalis

«Si sono svegliati quando le fiamme avevano già raggiunto il


soffitto». A questa frase del telegiornale mi sono svegliata.
Ero seduta sul pavimento del salotto dei miei nonni, lo
sguardo fisso su un cubo rosso di plastica posto davanti a me,
con fori di forme diverse in cui si potevano inserire piccole
figure geometriche. Alzai gli occhi, e per la prima volta nella
mia vita lasciai vagare lo sguardo consapevolmente nella stanza.
La nonna stava lavorando a maglia e il nonno guardava il
telegiornale; alla mia sinistra c’era una grande credenza a vetri,
con alcuni cassetti all’altezza delle ginocchia. Uno era legger-
mente aperto e conteneva qualche giocattolo. Se mi fossi alzata
in piedi, sarei stata abbastanza alta per vedere tutti gli oggetti
presenti nel cassetto e poterli prendere.

«… Si sono svegliati quando le fiamme avevano già


raggiunto il soffitto». La frase del conduttore del telegiornale mi
risuonava dentro, toccando con indescrivibile violenza e scon-
volgente serietà le recondite profondità della mia essenza più
intima.

A quanto pareva, avevo dormito, sognato, per poco più di due


anni.

C’era voluto tutto quel tempo perché la mia coscienza facesse


il suo ingresso nel mio corpo senza più esserne respinta? Perché
anche la coscienza stessa smettesse di opporre resistenza all’idea
di farsi intrappolare negli angusti confini di quel corpo?
Quell’incendio, che nel 1974 aveva colpito un appartamento
in qualche parte della Germania e di cui si era parlato al tele-
giornale, non è di per sé collegato al mio destino. Sono state
soltanto le parole a sprigionare un effetto fatidico, a influire sul
mio futuro. Quelle parole, così come sono state pronunciate,
unitamente all’intonazione vocale dello speaker, non sono solo
il mio primo ricordo di vita, ma anche le prime parole in assoluto
che ho recepito in piena consapevolezza, al cui suono la mia
coscienza terrena si è accesa.

Posso affermarlo con sicurezza, perché ricordo come, dopo


quel momento che aveva coinciso con il mio risveglio, mi ero
domandata con un certo stupore dove mai fossi stata prima –
ovvero in quell’arco di tempo in cui il mio corpicino esisteva già
sulla Terra, durante il quale qualcuno gli aveva messo i vestiti
che indossava, e le manine, su cui ora si posava il mio sguardo,
dovevano aver già sollevato le piccole forme colorate per poi
farle cadere di nuovo. Com’era arrivato fin lì quel corpo in cui
mi ero appena risvegliata? Chi o che cosa l’aveva fatto “funzio-
nare” fino a quel momento? E soprattutto: io dov’ero stata nel
frattempo?

Da allora quella frase del telegiornale mi si è impressa a fuoco


nella mente, ma inizialmente, e per molto tempo, non le ho
associato alcuna immagine. E comunque il suo effetto così
travolgente su di me non era dovuto al mio essermi fatta una
qualche idea delle ripercussioni di quell’incendio sugli abitanti
dell’edificio o cose simili. Le parole pronunciate dal conduttore
dopo quella frase le ho subito dimenticate, per questo non so
affatto se ci furono vittime. Non mi ero fatta nessuna idea
dell’episodio in sé, e neanche avrei potuto. Un bambino di età
compresa fra i due e i tre anni non è in grado di rappresentarsi le
vicende del mondo esterno come farebbe un adulto.
Ma forse nel mio caso questo era anche dipeso dal fatto che
quell’unica frase aveva toccato un tasto che aveva condotto la
mia coscienza brancolante verso qualcosa di totalmente diverso
dal luogo e dalle circostanze del fatto di cronaca riportato dalla
televisione: in un luogo o in una situazione associati al mio
destino.

A partire da quel preciso istante, mi era stato del tutto chiaro –


forse non a livello intellettuale, ma in compenso con un’intensità
incomparabilmente maggiore – che quelle parole erano pene-
trate nel profondo del mio cuore affinché ricordassi. Questo era
stato il messaggio di quelle parole: ricorda! Svegliati!
Avevo subito sentito che quelle parole mi avevano svegliata,
per il semplice motivo che mi avevano ricordato qualcosa di cui
ero stata a conoscenza in un altro momento. Dovevano per forza
essere in qualche modo in relazione con ciò che mi risuonava
dentro in maniera così intensa.
Ma poiché, a quanto pareva, avevo “dormito” per tutto il
tempo trascorso nel mio corpo qui sulla Terra rispetto agli eventi
terreni di quei due anni, l’eco di quel ricordo doveva riferirsi a
un altro periodo, a un mio diverso stato di esistenza. Un tempo
dovevo aver soggiornato altrove con la mia coscienza, insieme
a tutto il sapere e a tutti i ricordi da essa generati, e con ogni
evidenza questo altrove doveva trovarsi al di fuori del corpo che
ora mi ospitava.

Tuttavia, quello che maggiormente mi premeva non era il


ricordo di un evento verificatosi in un oscuro passato. Era assolu-
tamente fuori discussione: dovevo ricordarmi di me stessa.

Chi sono? Chi o che cosa sono veramente?


Se l’avessi scoperto, se fossi riuscita a riconnettermi con me
stessa, se avessi ripreso a essere “io”, allora anche tutto il resto
sarebbe riemerso dall’oceano dell’indeterminatezza in cui, a
quanto pareva, ero appena precipitata con il risveglio nel mio
corpo, dato che altrimenti tutte quelle domande non avrebbero
potuto sorgere.

Per poter essere formulate e avvertite in questo modo, la


sensazione consapevole di essermi dimenticata di me e la do-
manda su dove fossi stata presupponevano che il mio vero essere
non dipendesse dal luogo in cui si trovava in quel momento. Più
precisamente: esisteva anche quando non era dentro il corpo,
solo che con l’ingresso in questa fisicità si era verificata una vera
e propria sorta di annebbiamento, addirittura un processo di
addormentamento. Ma avevo dimenticato da dove venivo. Con
il mio risveglio mi ero addormentata, avevo perduto qualcosa.
Dunque quel risveglio nel mio corpo terreno, che mi aveva
portata a dimenticare il mio vero Sé, doveva essere il vero stato
di sonno! Forse negli anni intercorsi fra la mia nascita e quel-
l’istante non avevo davvero dormito. Evidentemente in quel
momento mi sembrava che le cose stessero così solo perché mi
ero destata nel mio corpo terreno e nei confronti del mondo degli
oggetti materiali, e non potevo più ricordarmi del periodo prece-
dente, durante il quale non avevo vissuto nel mio corpo terreno
con la coscienza in grado di percepire il mondo degli oggetti
materiali.
Una sgradevole sensazione di sospetto si insinuò in me: lo
stato in cui mi trovavo in quel momento suscitava uno strano
tipo di irritazione, non era qualcosa di cui fidarsi. Mi ingannava
rispetto a qualcosa che solo vagamente intuivo essere essenziale.

Da quel momento in poi, per me era stato evidente – in modo


del tutto “naturale” – che dovevano esserci due tipi di coscienza:
una che mi aveva fatta risvegliare nel corpo, ma che non era in
grado di sapere o ricordare chi fossi in verità e da dove venissi.
Di contro, mi serviva per essere completamente sveglia in
quel corpo terreno. In quella condizione era diventato possibile
percepire e fare l’una o l’altra cosa all’interno dello spazio
terreno in cui ero seduta in quell’istante con il mio corpo fisico,
ma non solo: potevo anche prendere coscienza degli oggetti
percepiti e delle mie azioni nel mondo sensibile e visibile.
E poi c’era l’altra coscienza, e questa sapeva chi ero e da
dove venivo. Sapeva tutto. Con quella coscienza avrei potuto
ricordare completamente, perché quella coscienza ero io stessa,
il mio intero essere, per così dire.

In quel momento mi resi conto di dover recuperare


quest’ultima coscienza, l’“autentica” coscienza di me stessa, di
doverla (ovvero di “dovermi”) riconquistare anche all’interno
dei confini del mio corpo fisico, quindi come creatura terrena,
poiché a quel primo risveglio nel mio corpo terreno mi ero in
qualche modo sentita terribilmente incompleta e privata della
mia “autenticità”, addirittura nuda. (Quando, alcuni anni dopo,
avevo sentito raccontare la storia biblica del paradiso, mi era
immediatamente tornata alla memoria la sensazione provata al
momento del mio risveglio nel corpo: la sgradevole esperienza
della loro “nudità” contraddistingue l’inizio della cacciata di
Adamo ed Eva dall’Eden e la loro caduta sulla Terra materiale.
Avendo gustato il frutto dell’albero della conoscenza, erano
divenuti coscienti del mondo terreno, ma nello stesso tempo si
erano sentiti nudi e alla sua mercé. Avevano sperimentato
l’essere strappati a un intero, al Tutto superiore, alla coscienza
onnisapiente).

Mentre concepivo questi pensieri e provavo queste sensazioni


dopo il mio risveglio nel corpo, sapevo tuttavia che senza alcun
dubbio era sostanzialmente possibile recuperare la mia piena
integrità, poiché il risveglio avvenuto alla frase dello speaker
televisivo si basava proprio sull’essere in contatto con questa
mia coscienza più sveglia, “antica” o “primigenia”. Per la mia
nuova “coscienza corporea” appena acquisita, quella frase non
aveva infatti alcun significato.
Così, con un po’ di consolazione, ero arrivata alla certezza
interiore che la coscienza con cui concepivo tutti quei pensieri
non potesse essere la stessa che aveva completamente dimen-
ticato le risposte alle mie domande. Era infatti proprio questa
nuova coscienza del corpo terreno a non sapere nulla di me, della
mia vera “me”, e pertanto era anche impossibilitata a porsi la
domanda relativa a un’altra esistenza, a un altro stato, dato che
non si aspettava affatto che potesse esserci qualcosa del genere.
Di per sé non conosceva altro stato che il proprio. – Doveva
quindi essere quell’altra coscienza, quella autentica – il mio
vero Sé – a formulare quei pensieri e a penetrare nella mia
coscienza del corpo terreno fino a rifulgere in essa. (Il “paradiso”
non era dunque irrimediabilmente perduto.)
Ma il fatto che ciononostante non disponessi ancora di tutte
le risposte alle mie domande poteva significare solo – perlomeno
questo è quanto sentivo allora – che quella “autentica” coscienza
avrebbe potuto espandersi ancor più in profondità di quanto già
non stesse facendo in quel momento, e che questa impossibilità
a farlo era stata causata con ogni evidenza dal risveglio nel corpo
terreno.

Ammetto che tutto questo possa sembrare una storia


inverosimile o perlomeno una prestazione di altissimo livello
intellettuale, quasi sovrumana, da parte di una bambina di età
compresa fra i due e i tre anni. In proposito devo aggiungere la
seguente spiegazione per ridimensionare, o meglio precisare,
quanto finora affermato: la descrizione qui presentata illustra
esattamente quello che ho vissuto nel mio intimo all’epoca dei
fatti.
Non vi ho aggiunto né abbellimenti stilistici né particolari
inventati. Ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Eppure, se
la si osserva con più attenzione, forse questa esperienza non è
poi così sensazionale. Va infatti detto che in me non erano affat-
to presenti ragionamenti puramente intellettuali, ragion per cui
posso anche assicurare che quelle associazioni mentali non
erano dovute a una plusdotazione intellettiva. Tutto quello che
qui si cerca di esprimere con parole significative per il pensiero
intellettuale, e che forse appare tremendamente complicato, non
si è svolto nelle forme concettuali note al pensiero razionale. Ciò
che qui sono costretta a rappresentare come qualcosa di com-
plesso e quindi in successione, all’epoca era stato tutto presente
nello stesso istante. Domande e risposte erano come un
“tutt’uno”, e “fulminee” dal punto di vista temporale.

Oggi penso di poter affermare che si trattava di un pensiero


non oggettuale: era quello che, a mio parere in modo molto
calzante, viene anche definito pensiero sovrasensibile. Era
rapidissimo, libero e vivace; riusciva a muoversi senza il minimo
sforzo nell’una e – contemporaneamente! – nell’altra direzione,
o perfino in svariate direzioni, e poteva quindi avere una visione
d’insieme di un’incredibile molteplicità di interrelazioni, cosa
impossibile al pensiero discorsivo. Nello stesso tempo, la mia
comprensione di allora potrebbe essere definita un pensare
assolutamente “analitico”, ma nel senso di un naturale astenersi
da qualsiasi punto di vista personale, e sotto questo aspetto
perfino astratto, ma dotato di quelle caratteristiche che di solito
non vengono attribuite al pensiero analitico: era obiettivo, ma
non “esangue”, distaccato ma nello stesso tempo non indiffe-
rente. Inoltre si svolgeva in contemporanea, o meglio, al di là
del “nostro” tempo, e dunque al di là di quel tempo in cui tutto
– ogni oggetto e perfino ogni pensiero – mi sembrava para-
lizzato. E infine, era integro, incorrotto

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