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Mark Rowlands Il Lupo e Il Filosofo
Mark Rowlands Il Lupo e Il Filosofo
Mark Rowlands Il Lupo e Il Filosofo
IL LUPO E IL FILOSOFO
Lezioni di vita dalla natura selvaggia
Ringraziamenti
A Emma
Uno. La radura
Brenin è morto qualche anno fa. Mi trovo ancora a pensare a lui tutti i
giorni. A molti questo potrà sembrare una manifestazione di affetto
eccessiva: dopotutto, era solo un animale. Ma sebbene adesso la mia vita
sia, sotto tutti i punti di vista più importanti, migliore che mai, io mi sento
più povero. È davvero difficile spiegare perché, e per molto tempo io stesso
non l'ho capito. Ora credo di avere trovato la risposta: Brenin mi ha
insegnato qualcosa che nel mio lungo percorso nelle istituzioni scolastiche
ufficiali nessuno mi aveva mai insegnato, né avrebbe potuto insegnarmi. E
si tratta di una lezione difficile da tenere a mente con il giusto grado di
chiarezza ed entusiasmo adesso che Brenin non c'è più. Il tempo guarisce,
ma lo fa attraverso la cancellazione. Questo libro è il tentativo di fissare
sulla carta quella lezione prima che svanisca per sempre.
Un mito irochese narra di una scelta che una volta quel popolo dovette
compiere. Ne esistono diverse versioni. Propongo la più semplice. Venne
convocato il consiglio delle tribù per decidere dove trasferirsi per la nuova
stagione della caccia, ma nessuno sapeva che il luogo alla fine prescelto era
abitato dai lupi. Secondo la leggenda, gli irochesi vennero ripetutamente
attaccati e via via decimati dai branchi. Si trovarono così di fronte a un
dilemma: spostarsi altrove o uccidere i lupi. Ma si resero subito conto che la
seconda opzione li avrebbe disonorati e li avrebbe resi quel tipo di persone
che non volevano essere. E così si spostarono. Per non ripetere lo stesso
errore, decisero che in occasione di tutte le successive riunioni del consiglio
si sarebbe nominato un rappresentante del lupo, il cui intervento sarebbe
stato sollecitato dalla domanda: «Chi parla per il lupo?».
Questa, naturalmente, è la versione irochese del mito. Se ci fosse una
versione «lupesca», sono sicuro che sarebbe molto diversa. Eppure, nel
racconto c'è del vero. Cercherò di dimostrare che, in generale, ciascuno di
noi ha l'anima di una scimmia. Non investirò troppo nella parola «anima».
Con «anima» non intendo necessariamente una parte di noi, immortale e
incorruttibile, che sopravvive alla morte del corpo. Può darsi che l'anima sia
questo, ma ne dubito. Oppure può darsi che l'anima sia semplicemente la
mente, e che la mente sia semplicemente il cervello. Ma dubito anche di
questo. Nell'accezione in cui uso tale termine, l'anima degli esseri umani si
rivela nelle storie che raccontano su se stessi: storie sul perché sono unici;
storie che noi uomini possiamo davvero indurci a credere, a dispetto di tutte
le prove contrarie. Ciò che ho intenzione di dimostrare è che si tratta di
storie raccontate da scimmie: storie in cui struttura, tema e contenuto sono
palesemente scimmieschi.
In questo contesto uso la scimmia come metafora di una tendenza che
esiste, in misura maggiore o minore, in ognuno di noi. In tal senso, alcuni
esseri umani sono più scimmie di altri. Anzi, alcune scimmie sono più
scimmie di altre. La scimmia è la tendenza a comprendere il mondo in
termini strumentali: il valore di ogni cosa è in funzione di ciò che quella
cosa può fare per la scimmia. La scimmia è la tendenza a vedere la vita
come un processo di valutazione delle possibilità e di calcolo delle
probabilità, per poi sfruttare i risultati di quei calcoli a proprio favore. È la
tendenza a vedere il mondo come una serie di risorse, di cose da usare per i
propri scopi. La scimmia applica questo principio tanto alle altre scimmie
quanto - se non di più - al resto del mondo naturale. La scimmia è la
tendenza ad avere non amici, ma alleati. La scimmia non guarda i suoi
simili, li tiene d'occhio. E intanto aspetta l'occasione giusta per ottenere
qualche vantaggio. Vivere, per la scimmia, è attendere di colpire. La
scimmia è la tendenza a basare i rapporti con gli altri su un unico principio,
immutabile e inesorabile: che cosa puoi fare per me, e quanto mi costerà
fartelo fare? Inevitabilmente, questa consapevolezza che anche le altre
scimmie hanno la stessa natura avrà un effetto boomerang, permeando e
infettando la visione che la scimmia ha di se stessa. E così essa pensa alla
propria felicità come a qualcosa che può essere misurato, pesato,
quantificato e calcolato.
Brenin non stava mai sdraiato o accucciato nel retro della mia jeep. Gli
piaceva sempre vedere che cosa stava arrivando. Una volta avevamo
viaggiato in auto da Tuscaloosa, in Alabama, fino a Miami - circa 1300
chilometri - e ritorno, e Brenin era rimasto in piedi per tutto il tragitto,
oscurando con la sua ingombrante mole buona parte del sole e tutto il
traffico alle nostre spalle. Ma quella volta, durante il breve viaggio fino a
Béziers, non rimase in piedi: non ce la faceva. E fu allora che capii che
ormai non c'era più niente da fare. Lo stavo portando nel luogo dove
sarebbe morto. Mi ero detto che se si fosse alzato in piedi, anche solo per
una parte del viaggio, mi sarei concesso un altro giorno: altre ventiquattr'ore
perché accadesse un miracolo. Ma adesso sapevo che era finita. Quello che
era stato il mio amico per gli ultimi undici anni se ne sarebbe andato. E io
non sapevo che tipo di persona avrebbe lasciato dietro di sé.
Il buio inverno francese non avrebbe potuto contrastare di più con quella
luminosa serata in Alabama, all'inizio di maggio, poco più di dieci anni
prima, quando avevo portato nella mia casa e nel mio mondo un Brenin di
sei settimane. Nel giro di due minuti dal suo arrivo - e non sto affatto
esagerando - aveva sfilato dalle guide le tende (di entrambe le finestre!) del
soggiorno e le aveva gettate a terra. Poi, mentre io cercavo di riappenderle,
aveva trovato la strada per arrivare in giardino e sotto la casa. Sul retro
l'edificio era rialzato da terra ed era possibile accedere allo spazio
sottostante attraverso una porta in un muro di mattoni, porta che ovviamente
avevo lasciato socchiusa.
Brenin riuscì ad andare sotto la casa e poi procedette - metodicamente,
meticolosamente e, soprattutto, rapidamente - a staccare e strappare ognuno
dei flessibili tubi rivestiti di materiale isolante che convogliavano l'aria
fredda dalle macchine del condizionatore alla casa attraverso varie
bocchette nel pavimento. Era l'atteggiamento caratteristico di Brenin - il suo
«marchio di fabbrica» - verso tutto ciò che era nuovo e sconosciuto. Gli
piaceva vedere che cosa sarebbe successo. Esplorava, valutava. E poi
distruggeva. Era mio da un'ora e mi era già costato mille dollari:
cinquecento per comprarlo e cinquecento per riparare l'impianto dell'aria
condizionata. Una cifra che, a quei tempi, era pari a circa un ventesimo del
mio stipendio lordo annuo. Questo tipo di schema si sarebbe ripetuto, in
modi spesso innovativi e fantasiosi, per tutti gli anni della nostra
convivenza. I lupi non sono economici.
Perciò, se state pensando di acquistarne uno - o anche solo un incrocio
lupo- cane -, la prima cosa che voglio dirvi è: non fatelo! Non fatelo mai,
non pensateci neppure. I lupi non sono cani. Ma se persistete scioccamente
in questa idea, allora devo avvertirvi che la vostra vita sta per cambiare per
sempre.
Era il mio primo lavoro e lo facevo da un paio d'anni: assistente di
filosofia all'università dell'Alabama, in una città che si chiama Tuscaloosa.
Tuscaloosa è un termine degli indiani choctaw che significa «Guerriero
nero» e la città è attraversata dall'imponente Black Warrior River, il «fiume
del Guerriero nero». Tuscaloosa è nota soprattutto per la sua squadra
universitaria di football, la Crimson Tide, che i membri della comunità
locale sostengono con un fervore più che religioso, anche se non ci vanno
leggeri neppure con la religione. Penso che sia giusto affermare che sono
molto più sospettosi nei confronti della filosofia, e chi può biasimarli? La
vita era piacevole. Mi divertivo fin troppo a Tuscaloosa. Ma ero cresciuto in
compagnia dei cani - perlopiù cani grossi, come gli alani - e ne sentivo la
mancanza. E così un pomeriggio mi trovai a leggere gli annunci economici
del «Tuscaloosa News».
Per buona parte della loro relativamente giovane vita, gli Stati Uniti
hanno perseguito una politica di sistematica eliminazione dei lupi: armi da
fuoco, veleno, trappole, qualsiasi mezzo venisse ritenuto necessario. Il
risultato è che non ci sono virtualmente più lupi selvatici in libertà nei
quarantotto Stati continentali. Ora che questa politica è stata abbandonata, i
lupi sono ricomparsi in alcune aree del Wyoming, del Montana, del
Minnesota e in qualche isola dei Grandi Laghi: Isle Royale, al largo della
costa settentrionale del Michigan è l'esempio più famoso, grazie soprattutto
alle pionieristiche ricerche sui lupi ivi effettuate dal naturalista David Mech.
Di recente, tra le vibranti proteste degli allevatori, sono stati reintrodotti lupi
addirittura a Yellowstone, il più famoso parco naturale americano.
Questa rinascita della popolazione dei lupi, tuttavia, non ha ancora
raggiunto l'Alabama o, in generale, gli Stati del Sud. Ci sono moltissimi
coyote. E ci sono alcuni lupi rossi nelle paludi della Louisiana e del Texas
orientale, anche se nessuno sa bene che cosa siano: potrebbero benissimo
essere il risultato di una storica ibridazione lupo- coyote. Ma i lupi delle
foreste, o lupi grigi come vengono a volte chiamati (non correttamente, dato
che possono essere anche neri, bianchi e marroni), sono un ricordo remoto
nel Sud degli Stati Uniti.
Perciò rimasi piuttosto sorpreso quando lo sguardo mi cadde su un
particolare annuncio: «Vendonsi cuccioli di lupo, 96 per cento». Dopo una
breve telefonata, saltai in auto e puntai verso Birmingham, un viaggio di
circa un'ora in direzione nordest, non sapendo bene che cosa mi aspettassi
da quella spedizione. E fu così che, poco dopo, mi ritrovai faccia a faccia e
occhi negli occhi con il lupo più grosso di cui avessi mai sentito parlare, o
che avessi mai visto. Il proprietario mi accompagnò sul retro della casa per
mostrarmi la stalla e il recinto degli animali. Quando il lupo padre, che si
chiamava Yukon, ci sentì arrivare balzò contro la porta della stalla, proprio
mentre giungevamo lì davanti, dando l'impressione di essersi materializzato
dal nulla.
Era enorme, imponente e, ritto sugli arti posteriori, un po’ più alto di me.
Dovetti alzare lo sguardo per osservarne il muso e gli strani occhi gialli. Ma
furono le sue zampe a rimanermi indelebilmente impresse nella memoria.
La gente non si rende conto - di sicuro non me ne rendevo conto io - di
quanto siano grandi le zampe dei lupi. Molto più di quelle dei cani. Furono
le zampe ad annunciare l'arrivo di Yukon e la prima cosa che vidi quando
saltò per sporgersi al di sopra della porta della stalla. E adesso pendevano
dalla sommità della porta, molto più grandi dei miei pugni, come guanti da
baseball pelosi.
C'è una domanda che la gente mi rivolge spesso, non su questo specifico
episodio - è la prima volta che ne parlo con qualcuno -, ma in generale sul
fatto di possedere un lupo: non hai mai paura di lui? La risposta,
naturalmente, è no. Mi piacerebbe pensare che rispondo così perché sono
una persona eccezionalmente coraggiosa, ma è un'ipotesi che non
reggerebbe mai di fronte alla grande quantità di prove contrarie. Prima di
salire su un aereo, per esempio, ho bisogno di farmi parecchi robusti
bicchierini. Perciò, disgraziatamente, credo che l'attribuzione di un coraggio
buono per tutte le occasioni non sia sostenibile. In presenza dei cani, però,
sono molto rilassato. E ciò si deve in gran parte alla mia educazione: sono il
prodotto disfunzionale di una famiglia piuttosto disfunzionale. Per fortuna,
e per quello che posso dire, tale disfunzionalità era limitata alle nostre
interazioni con i cani.
Quando avevo due o tre anni, facevamo un gioco con Boots, il nostro
labrador. Boots si sdraiava e io mi sedevo a cavalcioni su di lui, afferrando
il collare. A quel punto mio padre lo chiamava e Boots, che da giovane era
veloce come un fulmine, in un istante scattava in piedi e si metteva a
correre.
Il mio compito, e lo scopo del gioco, consisteva nel rimanere aggrappato
al suo collare e cavalcare sulla sua groppa. Non ci riuscivo mai. Era come se
io fossi un set di piatti, posate e bicchieri sulla tavola apparecchiata e
qualcuno mi strappasse la tovaglia da sotto. A volte la tecnica da mago
canino di Boots era così precisa che mi ritrovavo, con lo sguardo confuso,
seduto esattamente nel punto in cui lui un attimo prima se ne stava disteso.
Altre volte Boots era un po’ meno preciso e io ruzzolavo a terra. Ma in quel
gioco qualsiasi dolore fisico veniva trattato come la piccola seccatura che in
effetti era e io mi rialzavo allegramente, supplicando di poterci riprovare
ancora. Probabilmente oggi, nella nostra cultura cronicamente avversa al
rischio e nevrotica al solo pensiero di fratture infantili, un gioco del genere
non sarebbe possibile. Quasi certamente qualcuno telefonerebbe ai servizi
sociali per l'infanzia, forse alla protezione animali, o magari a entrambi. Ma
io so che detestai il giorno in cui mio padre mi disse che ero diventato
troppo grosso e pesante per continuare quel gioco con Boots.
Se guardo al mio passato, mi rendo conto che in fatto di cani la mia
famiglia, e di conseguenza io, non siamo del tutto normali. Spesso
prendevamo alani dai canili pubblici. A volte erano animali adorabili, altre
volte erano decisamente psicotici. Blue, un alano a cui con scarsa
immaginazione era stato imposto - ma non da noi - quel nome a causa del
suo colore, è un ottimo esempio a tal proposito. Blue aveva circa tre anni,
quando i miei genitori lo salvarono. E non fu difficile capire perché si
trovasse in un canile. Blue aveva un hobby: mordere in modo casuale e
indiscriminato persone e altri animali. In realtà non è del tutto esatto: i
morsi non erano affatto casuali o indiscriminati. Blue aveva - diciamo così -
diverse idiosincrasie. Una era quella di non permettere a nessuno di uscire
dalla stanza in cui si trovava lui. Se volevi andartene, doveva sempre esserci
qualcuno che distraeva Blue. Naturalmente se questo qualcuno se ne fosse
voluto andare, avrebbe avuto bisogno a propria volta di un'altra persona che
distraesse l'alano. La grande ruota della vita di Blue girava così. Se ti
dimenticavi di distrarlo adeguatamente prima di lasciare la stanza, il
risultato era una cicatrice permanente nel posteriore. Chiedete a mio fratello
Jon.
L'anomalia della mia famiglia si manifestava non solo nella disponibilità
ad accettare le idiosincrasie di Blue, invece di spedirlo dal veterinario con
un biglietto di sola andata, come avrebbe fatto qualsiasi famiglia normale,
ma anche e soprattutto nel modo in cui consideravano questo aspetto
abbastanza irritante della personalità dell'alano come fonte di grande ilarità,
anzi, come un gioco piuttosto divertente. La maggior parte della gente
probabilmente avrebbe pensato, a ragione, che Blue era un costante pericolo
per gli arti e forse per la vita e che, tutto sommato, il mondo sarebbe stato
migliore senza di lui. Ma ai miei familiari quel gioco piaceva. Credo che
tutti loro abbiano ancora le cicatrici delle idiosincrasie di Blue, e non solo
nel posteriore. Blue aveva anche altre idiosincrasie. Io fui l'unico a
sfuggirgli, ma solo perché, quando lui entrò in scena, io ero già uscito di
casa per frequentare l'università. In ogni caso le cicatrici erano viste non
come motivo di compassione o preoccupazione, ma come occasioni di
generali prese in giro e benevola derisione.
La pazzia, naturalmente, è una caratteristica di famiglia ed era forse
troppo aspettarsi che io ne fossi esente. Qualche anno fa, in un paesino
francese, mi trovai impegnato in un gioco quotidiano con una femmina di
Dogo argentino che abitava vicino a casa mia. Il dogo è un cane bianco
grande e possente, un po’ la versione sovradimensionata del pit bull, e in
Gran Bretagna è stato messo al bando dalla legge sulle razze canine
pericolose. Ogni volta che mi vedeva, la cucciola di dogo si fiondava
eccitata contro la recinzione del suo giardino e si drizzava sulle zampe
posteriori perché la accarezzassi. Crescendo, continuò a comportarsi nello
stesso modo. Ma a un certo punto evidentemente decise che, tutto sommato,
poteva essere una buona idea anche quella di mordermi. Per mia fortuna, i
dogo sono grandi e grossi, ma non veloci. E neppure particolarmente
intelligenti: potevo quasi vedere le rotelle che le giravano dentro la testa
mentre valutava le possibilità e le conseguenze di un eventuale morso. E
così tutti i giorni ripetevamo lo stesso gioco. Io passavo davanti al giardino,
lei correva alla recinzione, io le davo qualche colpetto sulla testa e lei si
godeva le coccole per alcuni secondi, annusandomi la mano e
scodinzolando allegramente. Ma poi all'improvviso irrigidiva il corpo e
contraeva la bocca. E poi scattava all'attacco. Se devo essere sincero, credo
che i suoi fossero tentativi poco convinti. Io le piacevo abbastanza, ma lei si
sentiva obbligata a mordermi a causa dei soggetti con cui mi accompagnavo
(come vedremo, aveva buone ragioni per trovare poco simpatiche le mie
frequentazioni, in particolare una di esse). Io ritraevo la mano con tempismo
perfetto, lei richiudeva le fauci a vuoto e io la salutavo con un à plus tard,
augurandole miglior fortuna per l'indomani. Non mi piace pensare che la
stavo tormentando. Era solo un gioco e io ero davvero curioso di vedere
quanto tempo ci sarebbe voluto prima che smettesse di cercare di mordermi.
Non smise mai.
Comunque sia, non ho mai avuto paura dei cani. E questa confidenza si è
estesa con naturalezza anche ai lupi. Salutai Yukon come avrei salutato un
alano mai visto prima: in modo rilassato e amichevole, ma rispettando
comunque le consuete regole. Yukon risultò non assomigliare affatto a Blue
e neppure alla mia amica dogo. Era un lupo di buon carattere, fiducioso e
amichevole. Ma i fraintendimenti possono verificarsi anche con gli animali
migliori. La ragione più tipica per cui un cane morde - e sospetto che lo
stesso valga per i lupi - è l'avere perso di vista la mano di chi gli si avvicina.
Le persone allungano la mano oltre il muso del cane per dargli un colpetto
nella zona posteriore della testa o sul collo. Perdendo di vista la mano, il
cane si innervosisce, sospetta un possibile attacco e, di conseguenza, morde.
È un morso dovuto alla paura, il tipo di morso più comune. Così permisi a
Yukon di annusarmi la mano e gli feci qualche coccola sulla parte anteriore
del collo e sul petto, finché non si abituò alla mia presenza. Andammo
subito d'amore e d'accordo.
La madre di Brenin si chiamava Sitka, come un particolare tipo di abete
rosso, credo. Era alta come Yukon, ma più slanciata e non certo così
massiccia. Con il corpo lungo e snello, aveva più l'aria del lupo, perlomeno
stando alle foto di lupi che avevo visto. Esistono numerose sottospecie di
lupi. Sitka, mi venne detto, era un lupo della tundra dell'Alaska. Yukon,
invece, era un lupo della valle del Mackenzie, nel Nordovest del Canada. Le
loro diverse caratteristiche fisiche riflettevano l'appartenenza alle rispettive
sottospecie.
Sitka era troppo occupata con i sei orsacchiotti che le scorrazzavano tra le
zampe per dedicarmi molta attenzione. «Orsacchiotti» è il termine migliore
che mi viene in mente per descrivere quelle sei creature: rotonde, morbide,
pelose e prive di spigoli. Alcuni erano grigi e altri marroni, tre erano maschi
e tre femmine. La mia intenzione originaria era quella di dare solo
un'occhiata ai cuccioli e poi tornarmene a casa e riflettere attentamente e
razionalmente sulla domanda se fossi davvero pronto ad assumermi la
responsabilità di un lupo, e così via. Ma non appena vidi i cuccioli, capii
subito che me ne sarei portato a casa uno. Quel giorno stesso. Anzi, mi
sembrò di non essere abbastanza veloce a estrarre dalla tasca il libretto degli
assegni. E quando l'allevatore mi informò che non accettava assegni, mi
sembrò di non guidare abbastanza in fretta verso il più vicino bancomat per
procurarmi i contanti.
Scegliere il cucciolo fu più facile di quanto avessi pensato. La cosa
fondamentale era che volevo un maschio. Ce n'erano tre. Il più grosso dei
maschi - in realtà il più grosso dell'intera cucciolata - era grigio e, intuivo,
sarebbe diventato la copia esatta del padre. Sapevo abbastanza di cani da
rendermi conto che sarebbe stato un animale problematico. Senza paura,
energico, dominante sui fratelli e sulle sorelle, era chiaramente destinato a
diventare il maschio alfa e avrebbe richiesto un supplemento di impegno e
di controllo. Ripensai a Blue e, visto che quello sarebbe stato il mio primo
lupo, decisi che la prudenza doveva superare il coraggio. Scelsi quindi il
secondo cucciolo più grosso. Era marrone e il suo colore mi faceva pensare
a un piccolo leone. Di conseguenza lo chiamai Brenin, che in gallese
significa «re». Senza dubbio si sarebbe sentito mortificato, se avesse saputo
che gli era stato dato un nome da felino.
Ma non aveva proprio niente del felino. Sembrava piuttosto uno di quei
cuccioli di grizzly che si vedono su Discovery Channel mentre seguono la
madre in giro per il Denali National Park in Alaska. All'età di sei settimane
Brenin era marrone con una spruzzata di nero, ma con la pancia chiara, una
pennellata color crema che partiva dalla punta della coda e arrivava fin sotto
il muso. E, come un orsacchiotto, era massiccio: grosse zampe, grossa
ossatura degli arti e grossa testa. Gli occhi erano di un giallo molto scuro,
quasi color miele, una caratteristica che non cambiò mai. Non direi che
fosse «socievole», almeno non nel senso in cui lo sono i cuccioli di cane. E
non era, neppure con uno sforzo di immaginazione, entusiasta, esuberante o
ansioso di piacere. Il suo tratto comportamentale dominante era invece il
sospetto, anche questa una caratteristica che non sarebbe mai cambiata:
tranne che nei miei confronti.
È strano. Ricordo tutti questi particolari su Brenin, Yukon e Sitka.
Ricordo di avere sollevato Brenin all'altezza del mio viso e di averlo
guardato in quei suoi occhi gialli. Ricordo la sensazione fisica che mi diede,
con la sua soffice pelliccia di cucciolo, mentre lo tenevo tra le mani. Vedo
ancora chiaramente Yukon che, ritto sugli arti posteriori, mi fissa, lasciando
dondolare le grandi zampe dalla sommità della porta della stalla. Vedo i
fratelli e le sorelle di Brenin che scorrazzano nel recinto, ruzzolano l'uno
sull'altro e si rialzano allegri. Dell'uomo che mi ha venduto Brenin, invece,
non riesco a ricordare praticamente nulla. Era già iniziato un processo che si
sarebbe accentuato con il trascorrere degli anni: stavo cominciando a far
passare in secondo piano gli esseri umani. Un lupo assume il controllo della
tua vita in un modo che un cane raramente riesce a fare. E a poco a poco la
compagnia degli uomini diventa sempre meno importante. Ricordo i dettagli
di Brenin, dei suoi genitori e dei suoi fratelli: che aspetto avevano, che
sensazione fisica davano, che cosa facevano, i versi che emettevano. Riesco
perfino a ricordare il loro odore. I minimi particolari, in tutta la loro
vivacità, complessità e ricchezza, sono ancor oggi chiari nella mia mente
come lo erano allora. Del proprietario dei lupi, invece, ricordo solo i tratti
generici, l'essenziale. Rammento la sua storia - almeno credo -, ma non
ricordo l'uomo.
Si era trasferito in Alabama dall'Alaska, portando con sé una coppia di
lupi da riproduzione. Tuttavia è contro la legge - non so bene se statale o
federale - acquistare, vendere o possedere lupi purosangue. È permesso
acquistare, vendere e possedere incroci lupo- cane e per legge la più alta
percentuale di lupo consentita, rispetto al cane, è il 96 per cento.
L'allevatore mi assicurò che a tutti gli effetti erano lupi, non incroci lupo-
cane. Dato che fino a poche ore prima non avevo neppure avuto idea di
poter possedere un lupo- cane, in realtà non me ne importava. Gli diedi i
cinquecento dollari che avevo prelevato al bancomat, in pratica quasi
svuotando il mio conto corrente, e portai Brenin a casa quel pomeriggio
stesso. Dopodiché lui e io cominciammo a definire i termini del nostro
rapporto.
Dopo l'iniziale impeto distruttivo, che durò circa quindici minuti, Brenin
cadde in una profonda depressione. Si rintanò sotto la mia scrivania e si
rifiutò di uscire e di mangiare. La cosa durò un paio di giorni. Pensai che si
sentisse distrutto dalla perdita dei fratelli e delle sorelle. Mi dispiaceva
tantissimo per lui e mi sentivo molto in colpa. Avrei voluto potergli
comprare un fratello o una sorella perché gli tenesse compagnia, ma
semplicemente non avevo i soldi. Nel giro di due o tre giorni, comunque,
l'umore di Brenin cominciò a migliorare. E fu allora che la prima regola del
nostro reciproco accordo divenne chiara, anzi molto chiara. La regola era
che Brenin non doveva mai, in nessuna circostanza e per nessuna ragione,
essere lasciato da solo in casa. Qualunque deroga a questa regola
comportava conseguenze terribili per la casa e per il suo contenuto. Il
destino toccato alle tende e ai tubi dell'aria condizionata era solo un
modesto assaggio delle reali capacità di Brenin al riguardo. Le suddette
conseguenze includevano la distruzione di tutto il mobilio e dei tappeti, per
i quali, in particolare, era prevista anche l'opzione dell'insozzamento. Ho
imparato che i lupi si annoiano molto, molto in fretta: trenta secondi da soli
in genere sono fin troppi. Quando si annoiava, Brenin masticava cose o ci
faceva la pipì sopra, oppure le masticava e poi ci faceva la pipì sopra. Molto
raramente, arrivava perfino a fare la pipì sugli oggetti per poi masticarli, ma
credo che questo succedesse perché, in preda all'eccitazione, non si
ricordava più a che punto era arrivato nella sequenza delle operazioni. In
ogni caso la conclusione era che, ovunque io andassi, Brenin doveva venire
con me.
Naturalmente la regola del «dove vai tu, vengo anch'io», quando l"«io» in
questione è un lupo, preclude quasi tutte le attività remunerative. Questa è
solo una delle tante ragioni per non diventare mai proprietari di un lupo. Io
però ero fortunato. Tanto per cominciare, facevo il professore universitario
e non dovevo comunque presentarmi al lavoro molto spesso. Inoltre Brenin
arrivò durante la pausa estiva universitaria di tre mesi, per cui in realtà al
lavoro non dovevo andarci per niente. Ebbi quindi tutto il tempo per
rendermi adeguatamente conto della grandissima passione di Brenin per la
distruzione e per prepararlo a venire al lavoro con me, visto che non potevo
in alcun modo evitarlo.
C'è chi dice che non è possibile addestrare i lupi. Non è così: è possibile
addestrare quasi qualunque animale, se si trova il sistema giusto. È questa la
cosa difficile. Con un lupo ci sono moltissimi modi per fallire, ma, per
quello che ne so, ce n'è solo uno per avere successo. Ciò, comunque, è quasi
altrettanto vero con i cani. Forse l'idea sbagliata più comune è credere che
l'addestramento abbia qualcosa a che fare con l'ego. L'addestramento viene
visto come una battaglia di volontà, nella quale il cane dev'essere costretto a
adeguarsi. L'errore in questo caso consiste nel considerare l'addestramento
come un fatto troppo personale. Il padrone interpreta qualsiasi rifiuto da
parte del cane come un affronto personale, un insulto alla propria virilità (in
genere è l'uomo a vedere l'addestramento in questi termini). E a quel punto,
naturalmente, si arrabbia. La prima regola nell'addestramento dei cani è, o
dovrebbe essere, tenere presente che non c'è nulla di personale.
L'addestramento non è una battaglia di volontà: per chi la pensa così il
risultato sarà disastroso. Se si cerca di addestrarlo in tal modo, con ogni
probabilità un grosso cane aggressivo finirà per diventare nient'affatto
simpatico.
L'errore opposto è pensare che l'obbedienza dell'animale si possa ottenere
non con il dominio, ma con le ricompense. Le ricompense possono
assumere forme diverse. Alcuni lanciano ossessivamente prelibatezze in
bocca al cane per premiarlo anche dopo il più semplice dei compiti. Il
risultato più ovvio sarà un cane grasso che si rifiuterà di obbedire al suo
padrone quando sospetterà che non ci siano bocconcini in vista, o quando
sarà distratto da qualcosa - un gatto, un altro cane, un podista - che gli
sembrerà più interessante del cibo. Più spesso, però, la ricompensa si
trasforma in una serie di insulsi complimenti che il proprietario rivolge al
cane - «Bravo cagnone», «Che cane intelligente sei!», «Bravo, così», «A
cuccia», «Che bravo cane sei!» -accompagnandoli con fastidiosi, piccoli
strappi al guinzaglio che, secondo lui, servono a rafforzare il messaggio.
Questo è esattamente il modo di non addestrare un cane e non ha alcuna
probabilità di funzionare nemmeno con un lupo. Se parlate in continuazione
al vostro cane o gli tirate blandamente il guinzaglio, lui non avrà alcun
bisogno di guardarvi. Anzi, non avrà alcun motivo di interessarsi a ciò che
state facendo. Potrà fare quello che gli pare nella certezza che voi gli farete
sapere che cosa sta succedendo... e che lui potrà, a sua scelta, agire di
conseguenza oppure infischiarsene.
Le persone convinte che l'obbedienza dei cani possa essere comprata
pensano - quante volte l'ho sentito dire! - che fondamentalmente l'animale
desideri comportarsi come il suo «padrone» vuole, desideri sempre
compiacerlo, e abbia bisogno soltanto che gli si spieghi con precisione come
farlo. Naturalmente è una sciocchezza. Il vostro cane non desidera obbedirvi
più di quanto voi desideriate obbedire a un'altra persona. Perché dovrebbe?
La chiave per addestrare il vostro cane è riuscire a convincerlo di non avere
scelta. Questo non perché l'animale debba sentirsi lo sconfitto in una
battaglia di volontà, ma perché voi dovete portare nel vostro addestramento
un atteggiamento di calma, ma inesorabile inevitabilità. In una battaglia di
volontà voi dite al lupo: tu farai quello che ti dico, non ti do altra possibilità.
L'atteggiamento con cui addestrare un lupo, invece, è: tu farai quello che la
situazione esige, la situazione non consente altre opzioni. Quello a cui
reagisci non sono io, è il mondo. Magari sarà una magra consolazione per il
lupo, ma questo approccio di sicuro contribuirà ad assegnare all'addestratore
il suo giusto ruolo: non un'autorità dominante e arbitraria i cui ordini
devono essere eseguiti a tutti i costi, ma un educatore che permette al lupo
di capire che cosa il mondo vuole da lui. Il metodo Koehler è, tra tutti i
metodi di addestramento, quello che ha elevato l'atteggiamento di cui parlo
a forma d'arte.
Quando avevo sei o sette anni, il sabato mattina andavo al cinema con i
miei amici. Mia madre mi dava dieci penny e, in compagnia degli altri
ragazzini, mi facevo tre o quattro chilometri a piedi fino in città. Spendevo
cinque penny per il biglietto del cinema e altri tre e mezzo per una lattina di
MacCola, che veniva venduta non da McDonald's, che all'epoca non era
ancora arrivato nel Galles, ma da MacFisheries, una catena di pescherie. Di
quei giorni ricordo un solo film e una sola scena di quel film. Il film è
Robinson nell'isola dei corsari e la scena è quella in cui le avances piuttosto
sgradite di una tigre vengono respinte dai due alani della famiglia. La
sequenza ovviamente mi fece una grande impressione, senza dubbio perché
ero cresciuto in compagnia di alani. La scena era stata realizzata con l'aiuto
di un addestratore di animali, William Koehler. Il mio io di sei anni non
avrebbe mai pensato - ma ne sarebbe stato senza dubbio contento - che
vent'anni dopo avrei utilizzato i sistemi di Koehler per addestrare un lupo.
Questo accadde grazie a una delle fortuite coincidenze che hanno
costellato la mia vita. Pochi mesi prima dell'arrivo di Brenin, nella
biblioteca dell'università dell'Alabama, mi ero imbattuto in un libro: Adam's
Task di Vicki Hearne. La Hearne era un'addestratrice di animali che
coniugava la sua professione con un interesse amatoriale per la filosofia.
Non ci sono molte persone del genere in giro. Va detto che valeva
sicuramente di più come addestratrice che come filosofa, in quanto la parte
filosofica del libro sembrava consistere perlopiù in una versione piuttosto
confusa della filosofia del linguaggio sviluppata dall'austriaco Ludwig
Wittgenstein. Ciononostante, trovai il testo interessante e suggestivo. Se per
quanto riguardava la filosofia del linguaggio la Hearne sembrava avere le
idee non troppo chiare, su un punto, invece, le aveva chiarissime: William
Koehler era di gran lunga il migliore addestratore di cani. Perciò, quando
Brenin entrò in scena, sapevo già dove indirizzarmi: me lo imponeva se non
altro la solidarietà tra filosofi.
Detto tra noi, Koehler era un po’ uno psicopatico. E, in alcune occasioni,
il suo metodo di addestramento comporta certi eccessi che personalmente
non adotterei mai. Per esempio, se il vostro cane continua a scavare buche
in giardino, in base alle istruzioni di Koehler bisogna riempire la buca di
acqua e quindi tuffarvi la testa dell'animale. E poi - attenzione! - ripetere
l'operazione per cinque giorni, indipendentemente dal fatto che il cane abbia
scavato altre buche oppure no. L'idea è suscitare nell'animale una forte
avversione per le buche. Il metodo si basa su solidi principi
comportamentali e quasi certamente funziona. È presumibilmente il tipo di
metodo che ad Abu Ghraib i militari americani hanno adottato per torturare
i rivoltosi e magari anche qualche sfortunato spettatore. (Nel libro di
Koehler non ho trovato alcun riferimento al waterboarding applicato ai cani,
ma sospetto che l'avrebbe approvato.)
Il consiglio di Koehler mi sarebbe stato certamente d'aiuto nella fase di
scavo delle tane di Brenin - una «fase» durata quasi quattro anni -, durante
la quale il mio giardino, e non solo il mio, venne trasformato in qualcosa di
simile alla Somme. Ma non ho mai avuto il coraggio di seguirlo: ho sempre
tenuto molto di più a Brenin che al giardino. E in ogni caso quello scenario
da guerra di trincea aveva un certo fascino, che dopo un po’ arrivai ad
apprezzare.
Tuttavia, eliminati gli eccessi, scoprirete che il metodo Koehler, in
generale, si basa su un principio molto semplice ed efficace: il vostro cane/
lupo dev'essere costretto a guardarvi. La chiave dell'addestramento di
Brenin - e sarò eternamente grato a Koehler per avere avuto ragione su
questo punto - fu di convincerlo, in modo calmo, ma inesorabile, che
doveva guardarmi. Fare in modo che l'animale guardi quello che state
facendo, e quindi capisca da voi che cosa deve fare, è la pietra angolare di
ogni regime di addestramento, che l'animale sia un lupo o un cane. Ma è
particolarmente importante nel caso di un lupo, con il quale è più difficile
riuscire nell'impresa. Per i cani è un comportamento naturale, ma i lupi
devono essere persuasi a adottarlo. Le ragioni di questa differenza stanno
nelle rispettive storie.
Negli ultimi decenni sono stati effettuati diversi studi per stabilire se sia
più intelligente il lupo o il cane, studi che, a mio avviso, convergono su
un'unica risposta: nessuno dei due. L'intelligenza dei lupi e quella dei cani
sono diverse perché sono state plasmate da ambienti diversi e sono, quindi,
la risposta a necessità ed esigenze diverse. In linea di massima, il quadro è il
seguente: i lupi se la cavano meglio dei cani in azioni legate alla soluzione
di problemi, mentre i cani se la cavano meglio dei lupi in azioni legate
all'addestramento.
Un'azione legata alla soluzione di problemi implica che l'animale si
impegni in una qualche forma di ragionamento mezzo- fine. Per esempio,
Harry Frank, professore di psicologia all'università del Michigan- Flint,
riferisce che uno dei suoi lupi aveva imparato ad aprire la porta per uscire
dal canile nel recinto esterno. La maniglia doveva essere spinta verso la
porta e poi ruotata. Frank afferma che un cane - un Alaskan Malamute - che
viveva nella stessa struttura, pur avendo osservato quell'operazione
parecchie volte al giorno per sei anni, non aveva mai imparato a farla. Un
incrocio lupo- malamute acquisì la tecnica dopo due settimane. Ma una lupa
imparò ad aprire la porta dopo averlo visto fare dall'incrocio una sola volta,
e non adottò la stessa tecnica: l'incrocio si serviva del muso, lei delle zampe.
Ciò sembrerebbe dimostrare che la lupa aveva capito la natura del problema
e quello che si doveva fare per risolverlo, e che non stava semplicemente
imitando il comportamento dell'incrocio.
I test hanno confermato che i lupi sono superiori ai cani in questo genere
di ragionamento mezzo- fine. I cani però risultano superiori ai lupi nelle
prove che richiedono istruzione o addestramento. In un test di questo tipo,
per esempio, ai cani e ai lupi veniva richiesto di effettuare una svolta a
destra ogni volta che una luce lampeggiava. I cani potevano essere
addestrati a farlo, ma i lupi evidentemente no, almeno non per la durata dei
test.
Nel caso dell'uscita dal canile il problema da risolvere è di tipo
meccanico. Il fine desiderato è uscire nel recinto e c'è un unico mezzo per
raggiungerlo: la maniglia della porta dev'essere manovrata nel modo e
nell'ordine giusto. Nel test di addestramento, invece, non c'è alcuna
relazione meccanica tra la luce lampeggiante e la svolta a destra. Perché a
destra e non a sinistra? E perché una svolta? Il collegamento tra la luce
lampeggiante e il conseguente comportamento richiesto è del tutto
arbitrario.
È facile individuare il motivo di questa differenza tra lupi e cani. I lupi
vivono in un mondo meccanico. Per esempio, se c'è un albero caduto in
equilibrio precario su un masso, il lupo riesce a capire che camminarci sotto
è una cattiva idea. Ciò succede perché, in passato, i lupi che non riuscivano
a capirlo erano di gran lunga più esposti degli altri a incidenti causati dalla
caduta di oggetti. Di conseguenza i lupi che non capivano il rapporto tra
l'albero, il masso e il possibile pericolo avevano meno probabilità di
trasmettere il loro patrimonio genetico di quelli che invece lo capivano. In
questo senso, l'ambiente del lupo seleziona in base all'intelligenza
meccanica.
Prendiamo ora in esame il mondo del cane. Il cane vive in quello che per
lui è un mondo magico, non meccanico. Quando sono in viaggio per lavoro,
telefono a casa per parlare con mia moglie, Emma. La nostra Nina, un
incrocio tra un pastore tedesco e un malamute, si eccita moltissimo quando
sente la mia voce e comincia ad abbaiare e a saltare per tutta la casa. E se
Emma le porge il ricevitore, lei lo lecca con entusiasmo. I cani si trovano a
loro agio con la magia. Chi avrebbe mai pensato che la voce del maschio
alfa del branco potesse materializzarsi dal nulla ogni volta che qualcuno
solleva quel coso dalla forma strana sulla scrivania? E chi avrebbe mai
pensato che toccare un interruttore sulla parete potesse trasformare il buio in
luce? Il mondo del cane non ha senso meccanico. E, anche se l'avesse, i
mezzi per controllarlo esulano dalle possibilità del cane, il quale non può
arrivare all'interruttore, non sa digitare un numero di telefono e non sa
inserire una chiave nella serratura.
A questo punto devo stare attento a non lasciarmi trasportare
dall'entusiasmo, altrimenti correreste il rischio di una conferenza sulla
embodied and embedded cognition, la cognizione incorporata e inclusa. In
ambito professionale la mia notorietà è forse legata al fatto che sono uno
degli artefici di una visione della mente che la considera sostanzialmente
incorporata e inclusa nel mondo che la circonda. Le attività mentali non
hanno meramente luogo nella nostra testa, non sono meri processi cerebrali,
ma coinvolgono anche le attività che svolgiamo nel mondo: in particolare la
manipolazione, la trasformazione e lo sfruttamento di strutture ambientali
pertinenti. E la conferenza a questo punto è già in pieno svolgimento.
Precursore di questa visione fu lo psicologo sovietico Lev Vygotskij che,
con il collega Anton Luria, dimostrò quanto i processi del ricordo e altre
attività mentali fossero cambiati con lo sviluppo di uno dispositivo esterno
per lo stoccaggio delle informazioni. La notevole memoria naturale delle
culture primitive si indebolisce a mano a mano che ci si affida sempre di più
alla scrittura come mezzo per conservare i propri ricordi. Nella cronologia
dell'evoluzione lo sviluppo della scrittura è ovviamente un fenomeno molto
recente, il cui effetto sulla memoria e su altre attività mentali è stato,
nondimeno, molto profondo.
Per farla breve, il cane è stato incluso in un ambiente molto diverso da
quello del lupo e di conseguenza i suoi processi psicologici e le sue capacità
si sono sviluppati in modi molto diversi. In particolare, il cane è stato
costretto a contare su di noi e, cosa ancora più importante, ha sviluppato la
capacità di usarci per risolvere i suoi problemi, cognitivi e non. Per i cani
noi siamo utili dispositivi per l'elaborazione delle informazioni. Noi uomini
siamo parte della mente estesa del cane. Che cosa fa un cane quando si
trova di fronte a un problema meccanico che non riesce a risolvere? Si
procura il nostro aiuto. Proprio mentre sto scrivendo questa frase, mi viene
offerto un esempio, semplice, ma efficace, di questo principio. Nina vuole
uscire in giardino. Non essendo capace di aprire la porta, le si piazza
davanti e mi guarda. Se non l'avessi notata, avrebbe emesso un piccolo
guaito. Ragazza intelligente! L'ambiente del lupo seleziona in base
all'intelligenza meccanica. Ma l'ambiente del cane seleziona in base alla
capacità di usare noi uomini. E per usarci i cani devono essere in grado di
leggerci. Quando un cane intelligente deve affrontare un problema
insolubile, la prima cosa che fa è guardare il volto del suo padrone:
culturalmente inserito in un mondo di magia, trova la cosa naturale. Ma a un
lupo non succede la stessa cosa. La chiave per addestrare un lupo è
convincerlo a fare qualcosa.
Naturalmente tutto ciò è una razionalizzazione a posteriori. All'epoca non
ne sapevo niente. Brenin era già un vecchio lupo, quando ho pubblicato il
mio primo libro su tali argomenti. E sto ancora cercando di affinare questa
visione. Ma è interessante notare come una teoria che avrei sviluppato solo
molti anni dopo mi abbia consentito di capire esattamente la ragione per cui
il metodo che avevo scelto per addestrare il mio lupo era stato così efficace.
E non posso fare a meno di ritenere che il processo di addestramento mi
abbia fatto pensare, a un livello inconscio, nel modo che poi mi ha
consentito di sviluppare la teoria. Se le cose stanno così, potrebbe trattarsi di
una di quelle coincidenze fortuite di cui parlavo.
Seguendo il metodo Koehler, dunque, cominciai l'addestramento di
Brenin comprando una corda di cinque metri, che adattai a guinzaglio.
Brenin e io andavamo nel grande giardino dietro casa, dove piazzavo tre
segnali ben visibili: in questo caso, lunghi paletti di legno conficcati nel
terreno. Fissavo la corda al collare a strozzo di Brenin. Non permettete a
nessuno di dirvi che i collari a strozzo sono crudeli: al contrario, sono
essenziali per un addestramento efficace perché comunicano al cane
esattamente ciò che gli viene richiesto. Il messaggio trasmesso dai collari
normali è di gran lunga meno preciso e, conseguentemente, l'addestramento
richiederebbe più tempo. Camminavo passando da un paletto all'altro, che
sceglievo a caso e decidendo di volta in volta i tempi. Lo facevo rimanendo
impassibile, senza guardare Brenin o perfino ignorandone la presenza.
Per realizzare un programma di addestramento intelligente e riuscito
dovete mettervi sempre nei panni del vostro cane. È ironico, e per me assai
divertente, che alcuni filosofi continuino a chiedersi se gli animali abbiano
una mente, se possano pensare, credere, ragionare, addirittura provare
sentimenti. Una volta o l'altra dovrebbero alzare il naso dai loro libri e
provare a addestrare un cane. Il programma di addestramento vi sorprenderà
sempre con qualcosa di inaspettato. Il vostro cane non farà ciò che si
suppone faccia e voi non riuscirete a trovare la risposta nel libro, neppure in
un testo approfondito ed esauriente come quello di Koehler. A quel punto
non vi resterà che provare a pensare come il vostro cane. E se lo farete, in
genere riuscirete a capire quello che dovete fare.
Mettetevi nei panni di Brenin. Se si lancia in una direzione, ha a
disposizione cinque metri di corda per correre a perdifiato, ma poi viene
strattonato e bloccato bruscamente. L'effetto risulta esasperato se lui scatta
nella direzione opposta a quella in cui io sto camminando. Presto, molto
presto, lui si rende conto che, se vuole evitare questa esperienza sgradevole,
deve stare attento a dove sto andando. All'inizio cerca di osservarmi dalla
distanza limite del guinzaglio. Ma questo lo espone alla possibilità che io
effettui una brusca svolta, allontanandomi da lui, cosa che poi faccio. Così
Brenin mi si avvicina. Adesso cerca di camminare poco più avanti di me,
ma abbastanza indietro da poter vedere con la coda dell'occhio che cosa sto
facendo. Questo, a quanto pare, è assolutamente tipico. Ho corretto tale
comportamento andandogli improvvisamente addosso e colpendolo nelle
costole con un ginocchio, non con cattiveria ma con impassibilità. A questo
punto Brenin comincia a camminarmi dietro: ragazzo intelligente. Ho
corretto anche questo comportamento fermandomi di colpo e camminando
all'indietro, possibilmente pestandogli le zampe. Comprensibilmente, adesso
Brenin cerca di camminare restando il più lontano possibile da me. Ma si
ritrova di nuovo alla massima estensione del guinzaglio, o quasi, e ciò lo
espone a una mia brusca svolta, che naturalmente effettuo subito. E così
siamo di nuovo al punto di partenza. Tutto questo viene eseguito in silenzio
e tranquillamente. È questo l'aspetto calmo, ma inesorabile, del metodo
Koehler. Non c'è niente di personale negli errori di un lupo e non dovete
mai arrabbiarvi con lui.
In breve Brenin esaurisce tutti i modi possibili per non collaborare con
me. Non gli resta che la collaborazione. E così finalmente cammina al mio
fianco.
Alcuni - tra cui dei possessori di lupi - mi dicevano che era impossibile
insegnare a un lupo a camminare al guinzaglio. Si trattava di quel genere di
persone che tengono il proprio lupo, o incrocio lupo- cane o cane, rinchiuso
in un recinto nel giardino dietro casa. E questo, sono convinto, è un atto
criminale per il quale sarebbe opportuna una pena detentiva (cosa che
senz'altro aiuterebbe quelle persone a mettersi nei panni del loro lupo). Io,
in realtà, impiegai non più di due minuti per convincere Brenin a
camminare al guinzaglio. Altri mi dicevano che era impossibile insegnare a
un lupo a camminare al fianco del padrone. Io ci impiegai dieci minuti.
Quando ci fummo impadroniti entrambi delle tecniche fondamentali della
passeggiata al guinzaglio, insegnare a Brenin a camminare senza fu
sorprendentemente facile, perché - cosa fondamentale - lui capiva già quello
che ci si aspettava facesse. All'inizio lavorammo con il guinzaglio ancora
attaccato al collo di Brenin, ma senza che io lo tenessi. Poi, superata con
successo tale fase, passammo all'eliminazione totale del guinzaglio. A
questo punto l'uso di un collare a scaletta è essenziale. Si tratta di una
versione più piccola del collare a strozzo, anche se io in effetti mi servii di
un collare a strozzo per cani di piccola taglia. Se Brenin si allontanava dal
mio fianco, io facevo tintinnare il collare e poi glielo scagliavo contro. Il
dolore del colpo era notevole, ma svaniva in fretta. E, ovviamente, non
provocava alcun danno permanente. Come faccio a saperlo? Perché,
essendo un po’ diffidente su questa parte del metodo Koehler, prima di
metterla in pratica chiesi a un amico di colpirmi due o tre volte con il
collare. In pochissimo tempo Brenin arrivò ad associare il tintinnio del
collare alla successiva esperienza spiacevole e non ci fu più bisogno di
colpirlo. Impiegai quattro giorni (due lezioni di trenta minuti al giorno) a
addestrarlo a camminare al mio fianco senza guinzaglio.
Insegnai a Brenin solo ciò che ritenevo avesse bisogno di sapere. Non vidi
mai motivo di insegnargli esercizi particolari. Se non aveva voglia di
distendersi a pancia in su, perché avrei dovuto imporgli di farlo? Non mi
presi neppure il disturbo di insegnargli a obbedire all'ordine di mettersi a
sedere: che stesse in piedi o seduto, per quanto mi riguardava, era una sua
decisione personale. Camminare al mio fianco divenne rapidamente il suo
comportamento standard. C'erano solo altre quattro cose che doveva sapere:
Vai pure e annusa in giro: «Go on!», vai. Rimani dove sei: «Stay!»,
fermo. Vieni da me: «Here!», qui.
E la più importante di tutte: Non toccare: «Out!», proibito.
Pronunciavo ogni comando con voce gutturale, come un ringhio. In
seguito lavorammo sugli schiocchi delle dita e sui segnali con le mani. Per
la fine dell'estate Brenin era abbastanza - non direi completamente, ma
quasi - padrone di questo basilare linguaggio verbale e non verbale.
Sono eccessivamente compiaciuto di ciò, lo so. Ma l'addestramento è
stato il più grande regalo che io abbia mai fatto a Brenin, un esempio
luminoso di una delle poche cose che ho fatto davvero bene in vita mia.
Alcuni pensano che addestrare cani - e, a maggior ragione, lupi - sia
crudele, come se si spezzasse la loro vitalità o li si costringesse a una
permanente sottomissione. Ma lungi dal sentire la propria vitalità spezzata,
quando un cane o un lupo sa con esattezza che cosa ci si aspetta e che cosa
non ci si aspetta da lui, la sua sicurezza di sé e, quindi, la sua compostezza
aumentano enormemente. È una dura verità il fatto che, come disse
Friedrich Nietzsche, coloro che non sanno darsi disciplina troveranno
qualcun altro che lo farà per loro. E, nei confronti di Brenin, avevo la
responsabilità di essere quel qualcuno. Ma il rapporto tra disciplina e libertà
è profondo e importante: lungi dall'essere il contrario della libertà, la
disciplina è ciò che rende possibili le più alte forme di libertà. Senza
disciplina non c'è autentica libertà, c'è solo licenza.
Nei dieci anni seguenti a volte, durante le nostre passeggiate, ci capitava
di incontrare persone che tenevano costantemente al guinzaglio il proprio
cane - e spesso si trattava di cani molto simili ai lupi, come gli husky o i
malamute -sostenendo che altrimenti l'animale si sarebbe allontanato di
corsa e non sarebbero più riusciti a rimettergli il guinzaglio o addirittura a
rivederlo. Può darsi che fosse vero. Ma di sicuro non doveva essere
necessariamente così. In seguito, all'epoca in cui vivevamo in Irlanda,
Brenin e io passeggiavamo tutti i giorni in campi dove pascolavano greggi
di pecore. Brenin era senza guinzaglio. Devo ammettere che la prima volta
ero un po’ nervoso, anche se forse non quanto lo erano le pecore. Per tutta
la durata della nostra convivenza non ho mai dovuto alzare la voce con
Brenin né ho mai dovuto picchiarlo. Se c'è una cosa di cui sono sicuro, è
che se un lupo può essere addestrato a ignorare totalmente la sua preda
archetipica, allora qualsiasi cane può essere addestrato a venire da voi
quando lo chiamate.
Come vedrete, Brenin avrebbe vissuto quella che, per un lupo, è quasi
certamente una vita senza precedenti. Questo perché, avendone la
possibilità, l'ho sempre portato con me ovunque andassi. Devo ammettere
che la motivazione iniziale è stata la capacità di Brenin di distruggere la
casa se l'avessi lasciato incustodito per una sola mattina mentre facevo
lezione. Ma la possibilità di vivere insieme in modo significativo - invece di
rinchiudere Brenin nel giardino sul retro e dimenticarmelo là - è stata
garantita dal fatto che il mio lupo aveva imparato un linguaggio. Tale
linguaggio ha dato alla sua vita una struttura che altrimenti non avrebbe
potuto avere e, di conseguenza, ha rivelato una serie di possibilità che
altrimenti la sua vita non avrebbe avuto. Bre-nin ha appreso un linguaggio
e, dato che avrebbe vissuto in un mondo umano, più magico che meccanico,
quel linguaggio l'ha reso libero.
Una vita senza precedenti, è ovvio, non è necessariamente una buona vita.
Talvolta mi è stato chiesto: come hai potuto fare una cosa del genere? Come
avevo potuto togliere un animale dal suo ambiente naturale e costringerlo a
vivere una vita che lui doveva trovare del tutto innaturale? Era quasi sempre
un particolare tipo di persona a rivolgermi questa domanda: un accademico
liberal della classe media, con pretese ecologiste e nessuna esperienza o
conoscenza sul possesso di cani. Ma screditare la persona che pone la
domanda, piuttosto che considerare la domanda in sé, è ciò che in filosofia
viene definita «fallacia ad hominem». La domanda in sé è interessante e
dev'essere affrontata.
Prima di tutto potrei sottolineare, penso, che Brenin era nato in cattività e
che, senza l'indispensabile addestramento da parte dei genitori, sarebbe
rapidamente morto, se fosse stato «liberato» nel suo ambiente naturale. Ma
questa risposta non mi porta molto lontano. Pagando denaro in cambio di
Brenin, io perpetuavo un sistema che vedeva allevare lupi in cattività, lupi
che venivano quindi privati della possibilità di agire come la natura aveva
inteso. Perciò la domanda è: come potevo giustificare un'azione simile?
Credo che alla base di tale interrogativo ci sia questa convinzione: un
lupo può sentirsi davvero felice o realizzato solo facendo ciò che la natura si
prefiggeva che facesse, e cioè impegnarsi nei suoi comportamenti naturali,
come cacciare e interagire con gli altri membri del branco. Tale asserzione
può sembrare vera fino all'ovvietà, ma in realtà è difficile da definire. C'è
innanzitutto l'idea piuttosto complessa di ciò che la natura si prefiggeva.
Che cosa si prefigge la natura per un lupo? O, peraltro, che cosa si prefigge
la natura per un umano? O addirittura, in che senso la natura può prefiggersi
qualcosa? Nella teoria dell'evoluzione a volte parliamo, metaforicamente, di
ciò che la natura si prefigge, ma il discorso in sostanza si riduce a questo: la
natura «si prefigge» che le creature trasmettano i loro geni. L'unico senso
concreto che può essere attribuito all'idea delle intenzioni della natura si
fonda sul concetto di successo genetico.
La caccia e la vita nel branco sono strategie usate da animali come i lupi
al fine di soddisfare questo fondamentale imperativo biologico. Perfino i
lupi, tuttavia, possono adottare strategie diverse. A un certo punto della loro
storia, per ragioni ancora poco chiare, alcuni lupi si aggregarono ai gruppi
umani e diventarono cani. Nella misura in cui la natura può avere
intenzioni, questa fu una delle sue intenzioni, né più né meno del fatto che i
lupi restassero lupi.
C'è un utile trucco che ho imparato dalla filosofia: quando qualcuno fa
un'asserzione, cerca di capire quali sono i presupposti di tale asserzione.
Perciò, se qualcuno sostiene che i lupi possono essere felici solo
impegnandosi in comportamenti naturali come cacciare e interagire con il
branco, quali sono i presupposti di questa affermazione? Io credo che, se
esaminiamo i presupposti, ciò che troviamo, almeno nella maggior parte dei
casi, sono espressioni dell'arroganza umana.
Jean- Paul Sartre tentò di definire l'idea dell'essere umano affermando che
per l'uomo, e per l'uomo soltanto, l'esistenza precede l'essenza. È questo il
principio alla base del movimento filosofico che diventò famoso come
esistenzialismo. L'essere dell'uomo, sosteneva Sartre, è essere- per- sé, a
differenza dell'essere di qualsiasi altra cosa, che è meramente essere- in- sé.
Per dirla con Sartre, l'uomo è il solo essere che possiede il proprio poter
essere. Ciò che intendeva dire è che l'uomo deve scegliere come vivere la
propria vita e non può contare su regole o principi predati - religiosi, morali,
scientifici o altro - che gli dicano come farlo. Adottare un particolare
principio, una morale o una religione, per esempio, è un'espressione di
scelta. Per cui, a prescindere da quello che fate e da come vivete, in ultima
analisi si tratterà sempre di un'espressione della vostra volontà. L'uomo,
secondo Sartre, è condannato a essere libero.
L'altra faccia della medaglia è che, per Sartre, tutto il resto non è libero.
Le altre cose, perfino altre cose viventi, possono fare solo ciò che sono state
progettate a fare. Se millenni di evoluzione hanno fatto dei lupi animali
cacciatori che vivono in branco, allora quella per loro sarà l'unica forma di
vita praticabile. Un lupo non possiede un proprio poter essere. Un lupo può
essere solo quello che è. Il presupposto implicito nella nostra domanda -
come hai potuto fare questo a Brenin? - allora è questo: per un lupo,
l'essenza precede l'esistenza.
Naturalmente non è chiaro se Sartre avesse ragione sulla libertà umana.
Ma ciò che mi interessa è quest'idea più generale di flessibilità esistenziale.
Perché l'uomo, e l'uomo soltanto, dovrebbe essere in grado di vivere la
propria vita in una miriade di modi diversi, mentre ogni altra creatura è
condannata a essere schiava del suo retaggio biologico, una mera serva della
sua storia naturale? Su che cosa può basarsi questa idea, se non su una
forma residua di arroganza umana? Un paio di anni fa, la sera prima di un
volo all'alba per Atene, me ne stavo seduto nel giardino del bar di un
albergo non lontano dall'aeroporto di Gatwick. A un certo punto mi si
avvicinò una volpe, si sedette come un cane a circa un metro da me e
aspettò paziente che le lanciassi qualche pezzetto di cibo, cosa che
naturalmente feci. La cameriera mi informò che la volpe era ormai
un'istituzione di quell'albergo e, a quanto pareva, anche di altri. Provate a
dire a quella volpe che deve impegnarsi nel suo comportamento naturale di
dare la caccia ai topi. Provate a spiegarle che la sua essenza precede la sua
esistenza e che, a differenza di me, non possiede il suo poter essere.
Sminuiamo la volpe, se pensiamo che il suo comportamento naturale si
limiti alla caccia ai topi. Sminuiamo la sua intelligenza e la sua
intraprendenza, se adottiamo una concezione così restrittiva del suo essere,
per dirla con Sar-tre. La cosa naturale per la volpe è il continuo
cambiamento di pari passo con le vicissitudini della storia e della fortuna. E,
di conseguenza, anche questo è l'essere della volpe, ciò che la volpe è.
Non possiamo, è ovvio, liquidare semplicemente i vincoli della storia
naturale. La volpe non sarebbe né felice, né realizzata, se dovesse stare
seduta giorno dopo giorno dentro una gabbia. Né lo sarebbe un lupo. Né lo
sarei io. Tutti noi abbiamo certi bisogni basilari lasciatici in eredità dalla
nostra storia. Ma sarebbe un non sequitur supporre che il lupo e la volpe
siano mere marionette biologiche i cui fili vengono manovrati dalla loro
storia. La loro essenza può vincolare la loro esistenza, ma non può fissarla o
determinarla. Questo vale per la volpe e per il lupo, così come per noi esseri
umani. Nella vita ognuno di noi gioca la mano di carte che gli è stata data.
A volte è così brutta che non possiamo utilizzarla in alcun modo. Ma a volte
non lo è e, in quel caso, possiamo giocarla bene o male. La mano toccata
alla volpe era un rapido sconfinamento urbano da quello che ci piace
pensare come il suo habitat naturale (anche se credo che sia passato molto,
molto tempo da quando questa espressione aveva un significato reale).
Penso che la mia amica volpe stesse giocando la sua mano piuttosto bene, a
giudicare dal modo in cui si spostava da un tavolo all'altro - fermandosi
però solo là dove c'era da mangiare - e si sedeva ad aspettare pazientemente
finché non riceveva l'inevitabile offerta di cibo.
Anche a Brenin è toccata una mano particolare e io credo che l'abbia
giocata molto bene. La mano, comunque, non era poi così male. Brenin
sarebbe potuto finire - come molti lupi e incroci di lupo affidati a padroni
incapaci di gestirli -in una gabbia nel cortile dietro casa. Invece ha avuto
una vita varia e, mi piace pensare, stimolante. Ho fatto in modo che potesse
fare almeno una lunga passeggiata ogni giorno, e il suo addestramento gli
ha permesso di evitare il guinzaglio. Quando le circostanze lo consentivano,
ho fatto sì che avesse la possibilità di impegnarsi in comportamenti naturali,
come cacciare e interagire con altri canidi. Ho fatto del mio meglio perché
non si annoiasse mai, nonostante dovesse assistere alle mie lezioni.
Supporre che Brenin non fosse felice solo perché non faceva quello che
fanno i lupi in natura è poco più di una banale forma di arroganza umana e
sminuisce la sua intelligenza e flessibilità.
Brenin, naturalmente, seguiva le orme dei suoi antenati di circa
quindicimila anni fa rispondendo al richiamo degli esseri civilizzati che
spinse quegli antenati a un rapporto simbiotico, e forse indistruttibile, con la
più potente e crudele delle grandi scimmie. In termini di successo genetico
basta pensare al numero di lupi oggi nel mondo rispetto al numero di cani -
approssimativamente 400.000 contro 400 milioni - per rendersi conto che si
trattò di una strategia straordinariamente efficace. E supporre che far ciò sia
innaturale per un lupo tradisce una visione abbastanza superficiale di quello
che è naturale. Se a questo si aggiungono l'aspettativa di vita piuttosto breve
dei lupi nel loro ambiente naturale - sette anni sono già tanti - e il tipo di
morte solitamente molto sgradevole che gli tocca, allora forse il richiamo
degli esseri civilizzati non è stato un disastro totale.
Credo che il metodo Koehler che ho usato per addestrare Brenin abbia in
definitiva avuto tanto successo perché rispecchia una certa visione della
natura esistenziale dei cani e dei loro fratelli selvatici, un aspetto forse
nascosto dalla mia caricaturale sottolineatura di certi suoi eccessi. Ciò che
anima il metodo Koehler è una sorta di fede. È la fede nell'idea che l'essenza
di un cane, o di un lupo, non precede la sua esistenza. È la fede nell'idea che
un cane, o un lupo, possiede il suo poter essere esattamente come un uomo.
Per questo bisogna accordare a qualsiasi cane, o lupo, un certo tipo di
rispetto e, conseguentemente, un certo tipo di diritto: un diritto morale. Per
dirlo con le parole di Koehler, è «il diritto alle conseguenze delle sue
azioni». Un lupo non è un burattino di carne che segue ciecamente i dettami
della sua eredità biologica, perlomeno non lo è più di quanto lo siano gli
esseri umani. Un lupo è adattabile, anche se non infinitamente adattabile
(ma chi o che cosa lo è?). Un lupo, non meno di un uomo, può giocare la
mano che gli è stata data. E, ciò che è più importante, voi potete aiutarlo a
giocarla. E a mano a mano che migliora nel gioco, il lupo diventa sempre
più sicuro di sé. Gli piace quello che impara e vuole imparare di più.
Diventa più forte e, di conseguenza, più felice.
Brenin era uno schiavo? Era uno schiavo perché io avevo stabilito i
parametri della sua educazione, determinando così i contorni del suo agire
futuro? Sette anni di scuola secondaria unificata, seguiti da tre anni
all'università di Manchester e da due a quella di Oxford - anni in cui i
parametri della mia educazione sono stati senza dubbio stabiliti da altri -
hanno fatto di me uno schiavo? Se Brenin è stato uno schiavo, allora lo sono
stato anch'io. Ma, se è così, che cosa significa la parola «schiavo»? Se tutti
noi siamo schiavi, chi è il padrone? E se non c'è un padrone, allora chi è lo
schiavo?
Forse questa argomentazione non è solida quanto credo. Forse il mio
giudizio è offuscato da tutto ciò che Brenin ha fatto per me. Ci sono persone
che adottano un cane e, dopo che la novità si è esaurita, sostanzialmente lo
piantano nel giardino dietro casa e se ne dimenticano. A quel punto il cane
diventa solo un noioso dovere. Bisogna dargli da mangiare e da bere e
questa è la sola interazione tra proprietario e cane: un compito tedioso,
qualcosa che il proprietario non ha voglia di fare, ma che ritiene suo dovere
fare. Alcuni pensano perfino di essere buoni padroni perché danno
regolarmente da mangiare e da bere ai loro animali. Se è così che la pensate,
perché prendersi il disturbo di avere un cane? Non ne ricaverete nulla, se
non l'irritazione quotidiana di dover fare qualcosa che in realtà non avete
voglia di fare. Quando, invece, un cane vive in casa con voi, quando si
inserisce nella vostra vita in modo così completo da diventarne parte, allora
si scopre la gioia. Quello con un cane è come un qualsiasi altro rapporto: ne
ricaverete solo ciò che sarete disposti a mettervi dentro, a lasciarvi entrare.
Lo stesso vale per un lupo. Ma poiché un lupo non è un cane - poiché un
lupo ha eccentricità che un cane non ha - dovrete impegnarvi molto più
duramente per farlo entrare nella vostra vita.
Brenin e io siamo stati inseparabili per undici anni. Cambiavano le case,
cambiava il lavoro, cambiavano i paesi e addirittura i continenti, e gli altri
miei rapporti andavano e venivano - perlopiù andavano -, ma Brenin c'era
sempre: a casa, sul lavoro, nel tempo libero. Era la prima cosa che vedevo la
mattina quando mi svegliavo, soprattutto perché era lui a svegliarmi verso
l'alba, con una grande leccata umida sulla faccia: un'incombente presenza
fatta di alito pesante e lingua ruvida, incorniciata dalla luce incerta del
primo mattino. Questo nei giorni buoni. In quelli cattivi mi svegliava
facendomi cadere in faccia il volatile che aveva catturato e ucciso in
giardino. (Prima regola della convivenza con un lupo: aspettarsi sempre
l'inaspettato.) La mattina si sdraiava sotto la scrivania mentre io scrivevo.
Passeggiava o correva con me quasi ogni giorno. Nel pomeriggio stava in
classe con me mentre facevo lezione. E la sera rimaneva seduto a tenermi
compagnia mentre bevevo il mio Jack Daniel's.
Mi faceva piacere averlo vicino, questo è certo. Ma non c'era solo questo.
Molto di ciò che ho imparato su come vivere e comportarmi l'ho imparato
durante quegli undici anni. Molto di ciò che so della vita e del suo
significato l'ho imparato da Brenin. Che cosa significa essere un uomo io
l'ho imparato da un lupo. E Brenin si è inserito in modo così totale in ogni
sfaccettatura della mia vita, le nostre vite sono diventate così saldamente
intrecciate che sono arrivato a comprendere, perfino a definire, me stesso
nei termini del mio rapporto con lui.
C'è chi sostiene che tenere un animale da compagnia sia sbagliato perché
l'animale diventa una tua proprietà. Tecnicamente suppongo che sia vero. In
un qualche senso legale si potrebbe dire che sono stato il proprietario di
Bre-nin, anche se, dato che per buona parte della sua vita non ho mai avuto
alcun tipo di documento che lo comprovasse, non si capisce come avrei
potuto dimostrarlo in un'aula di tribunale. In ogni caso tale obiezione non
mi ha mai convinto perché, in realtà, si tratta di un non sequitur. Presuppone
che, se sei il proprietario di qualcosa in senso legale, allora questo è l'unico
rapporto che potrai mai avere con quel qualcosa, o, quantomeno, la
proprietà sarà il rapporto dominante che avrai con esso. In effetti, però, ci
sono scarsi motivi per crederlo.
Fondamentalmente, Brenin non era una mia proprietà e di certo non era il
mio animale da compagnia. Era mio fratello. A volte, e sotto certi aspetti,
era il mio fratello minore. In quelle occasioni, e per quei particolari aspetti,
io ero il suo tutore e lo proteggevo da un mondo che lui non capiva e che
non si fidava di lui. In quelle occasioni dovevo decidere che cosa dovevamo
fare e imporre la mia decisione, che Brenin fosse d'accordo oppure no. A
questo punto alcuni miei amici del movimento per i diritti degli animali
cominceranno a lamentarsi degli impari rapporti di potere e del fatto che,
siccome non poteva dare il suo consenso alle mie decisioni, Brenin era di
fatto mio prigioniero. Ma anche in questo caso l'accusa non sembra molto
plausibile. Immaginate che questo mio fratello sia un uomo anziché un lupo.
Se fosse troppo giovane per capire il mondo e le conseguenze delle sue
azioni in quel mondo, non potrei semplicemente abbandonarlo a tali
conseguenze. Come abbiamo visto, Koehler sostiene il diritto del cane alle
conseguenze delle sue azioni. Sono d'accordo, ma, naturalmente, non si
tratta di un diritto assoluto. È ciò che i filosofi definiscono un «diritto prima
facie», un diritto, cioè, che può essere annullato in determinate circostanze.
Se il vostro cane stesse per finire sotto un'auto, magari per avere ignorato le
vostre istruzioni, non gli permettereste semplicemente di subire le
conseguenze delle sue azioni. Al contrario, fareste del vostro meglio per
evitargliele. Esattamente come se sotto l'auto stesse per finire il vostro
fratello più piccolo. Nei limiti imposti dal buonsenso e dalle regole generali
del vivere civile, e quando le conseguenze non fossero troppo gravi o
debilitanti, permetterei al mio fratello minore di subire le conseguenze delle
sue azioni, o di goderne, perché solo così potrebbe imparare. Ma in altre
circostanze sarei tenuto a proteggerlo nel miglior modo possibile, anche se
lui non accettasse la mia protezione. Dire che questo lo renderebbe mio
prigioniero è, a mio parere, il risultato di una determinazione
eccessivamente emotiva a ignorare la distinzione fra tutela e prigionia.
Il concetto di tutela, piuttosto che quello di proprietà, sembra offrire il
modo più plausibile di comprendere il rapporto primario tra le persone
(perlomeno quelle perbene) e i loro compagni animali. Ma, con Brenin
neppure questo concetto sembra funzionare del tutto. E ciò lo ha distinto, e
in modo deciso, da qualsiasi cane abbia mai conosciuto. Solo alcune volte, e
in determinate circostanze, Brenin è stato il mio fratello minore. Altre volte,
e in altre circostanze, è stato il mio fratello maggiore: un fratello che
ammiravo e che, soprattutto, avrei voluto emulare. Come vedremo, non è
stato un compito facile e non sono mai arrivato a realizzarne più di una
frazione. Ma è stato quel tentativo, e il conseguente sforzo, a plasmarmi. La
persona che sono diventato - di questo sono assolutamente convinto - è
migliore di quella che sarei stato senza di lui. E non si può chiedere di più a
un fratello maggiore.
Ci sono modi diversi di ricordare. Quando pensiamo alla memoria,
tendiamo a tralasciare ciò che è più importante a favore di ciò che è più
evidente. Un uccello non vola perché sbatte le ali: tale azione è solo la forza
propulsiva. I veri principi del volo vanno ricercati nella forma delle, ali e
nelle conseguenti differenze della pressione dell'aria che fluisce sulla
superficie superiore e su quella inferiore delle ali stesse. Ma nei primi
tentativi di volo umano, abbiamo tralasciato ciò che era più importante a
favore di ciò che era più evidente: abbiamo costruito macchine che
sbattevano le ali. La nostra comprensione della memoria è simile. Pensiamo
alla memoria come a esperienze coscienti grazie alle quali ricordiamo eventi
o episodi passati. Gli psicologi la definiscono «memoria episodica».
La memoria episodica, credo, è solo lo sbattere delle ali ed è sempre la
prima a tradirci. Non è particolarmente affidabile nella maggior parte dei
casi - decenni di ricerche psicologiche convergono su questa conclusione -
ed è la prima a sbiadire quando il nostro cervello inizia la sua lunga, ma
inesorabile discesa nell'indolenza, come lo sbattere delle ali di un uccello
che sfuma gradualmente in lontananza.
Ma c'è un altro modo di ricordare, più profondo e più importante: una
forma di memoria a cui nessuno ha mai neppure pensato di dare dignità con
un nome. È la memoria di un passato che si è scritto su di voi, nel vostro
carattere e nella vita con la quale quel carattere ha rapporti. Non siete,
almeno non di solito, coscienti di tali ricordi; spesso sono cose di cui non è
neppure possibile essere coscienti. Ma sono questi ricordi, più di qualsiasi
altra cosa, a rendervi ciò che siete. Si manifestano nelle decisioni che
prendete, nelle azioni che fate e quindi nella vita che vivete.
È nella nostra vita e non, fondamentalmente, nelle nostre esperienze
coscienti che troviamo i ricordi di coloro che non ci sono più. La nostra
consapevolezza è volubile e non degna del compito di ricordare. Il modo
più importante di ricordare qualcuno è essere la persona che quel qualcuno
ci ha reso, almeno in parte, e vivere la vita che quel qualcuno ha contribuito
a plasmare. A volte il qualcuno in questione non è degno di essere ricordato.
In questo caso il nostro compito esistenziale più importante è cancellarlo dal
racconto della nostra vita. Ma quando è degno di essere ricordato, allora
essere la persona che lui ha contribuito a formare e vivere la vita che lui ha
contribuito a modellare non sono solo il modo in cui lo ricordiamo: sono il
modo in cui lo onoriamo.
Io ricorderò sempre il mio fratello lupo.
Tre. Decisamente non civilizzato
Quando Brenin era un giovane lupo, il suo gioco preferito consisteva nel
rubare i cuscini del divano o della poltrona. Se io mi trovavo in un'altra
stanza, se magari stavo lavorando nello studio, Brenin compariva sulla
soglia con il cuscino in bocca, e, appena capiva che l'avevo visto, si lanciava
in una folle corsa per tutta la casa, in soggiorno, in cucina e infine in
giardino, sempre con me alle calcagna. Era un gioco d'inseguimento e
poteva continuare per un bel po'. Nel corso dell'addestramento gli avevo già
insegnato a lasciare cadere gli oggetti - era una delle funzioni del comando
«Out!» -, per cui avrei potuto ordinargli di mollare il cuscino in qualunque
momento. Ma non ne avevo il cuore e comunque il gioco era troppo
divertente. E così Brenin zigzagava sfrecciando per tutto il giardino, con le
orecchie appiattite, la coda bassa e gli occhi scintillanti di eccitazione,
mentre io gli correvo dietro, chiamandolo invano. Fino all'età di tre mesi
circa, Brenin era abbastanza facile da raggiungere e acchiappare, per cui
facevo solo finta che fosse troppo veloce per me. Ma la finzione si
trasformò gradualmente in realtà. Non passò molto tempo prima che Brenin
cominciasse a esibirsi in piccole finte: accennava ad andare in una direzione
per poi invece scattare nell'altra. Quando capii il trucco, lui passò alle
doppie finte. Con il tempo il gioco diventò un veloce, confuso susseguirsi di
finte, doppie finte e triple finte: finte annidate dentro altre finte.
Sono sicuro che, quando era in forma e nel pieno del gioco, Brenin non
avesse idea di cosa avrebbe fatto l'istante successivo. E di conseguenza non
ne avevo la più pallida idea neppure io. Naturalmente questo allenamento al
dribbling ebbe grandi effetti sulle mie abilità rugbistiche. Avevo sempre
basato il mio gioco sull'idea di travolgere l'avversario e passarci sopra
piuttosto che aggirarlo. La cosa funzionava bene in Gran Bretagna, ma non
altrettanto negli Usa, dove in genere la popolazione è molto più grande e
grossa e cresce giocando a football, sport in cui il placcaggio è feroce. Gli
americani, però, si lasciano confondere molto più facilmente e, con tutte
quelle lezioni di Brenin, diventai un asso del dribbling negli Stati Uniti
sudorientali.
Il fatto che non riuscissi più a prenderlo suscitò in Bre-nin una certa
sfrontatezza, che lui espresse in una prima variante del gioco. Dopo avermi
adeguatamente sfinito, mi si piazzava davanti e lasciava cadere il cuscino a
metà strada tra noi. «Dai!» era il messaggio. «Prendilo!». Appena mi
chinavo per afferrarlo, Brenin spiccava un balzo, azzannava il cuscino e
l'inseguimento ricominciava da capo. Per quanto fossi veloce nel chinarmi
per afferrare il cuscino, Brenin era sempre un po’ più veloce di me. La sua
era un'abilità che poteva essere utilmente impiegata per altri scopi: una volta
si esibì nello stesso gioco con un pollo appena cotto che aveva rubato in
cucina durante una mia momentanea distrazione. Avrei potuto ordinargli di
posarlo, naturalmente. Ma a quale scopo? Non avevo una gran voglia di
quel pollo dopo che Brenin se l'era tenuto in bocca, e così passammo a
giocare all'inseguimento.
Alcuni istruttori professionisti guarderebbero il nostro gioco con orrore.
Lo so perché me l'hanno detto. L'obiezione che muovevano era duplice. In
primo luogo, era probabile che il gioco, per la sua stessa natura, rendesse
Brenin più eccitabile, caratteristica che è meglio non incoraggiare in un
lupo. In secondo luogo, i miei costanti fallimenti nel raggiungerlo e
bloccarlo potevano indurlo a concludere di essermi fisicamente superiore e,
di conseguenza, spingerlo a sfidarmi per lo status di alfa. Forse erano timori
legittimi, ma con Brenin non si concretizzarono mai. E questo, ritengo,
perché i giochi si svolgevano sempre secondo un rituale ben definito, che
aveva un inizio e una fine molto precisi. Se ero in soggiorno, non
permettevo mai a Brenin di prendere i cuscini. I suoi tentativi venivano
repressi da un deciso «Out!». Questo gli comunicava che il gioco era
qualcosa che poteva essere fatto solo in determinati momenti. E il gioco
aveva sempre una conclusione chiara. Io dicevo: «Ok, adesso basta» e gli
ordinavo di portarmi il cuscino. A quel punto rientravamo in casa e gli davo
una piccola prelibatezza, cosa che rafforzava il concetto di fine del gioco e,
allo stesso tempo, gli faceva associare la fine a qualcosa di buono.
Tutto questo funzionò benissimo per un certo tempo. Ma, intorno ai nove
mesi, Brenin decise di portare il gioco a un livello più avanzato. Una
mattina, mentre stavo scrivendo nello studio, sentii una successione di tonfi
rumorosi provenire dal soggiorno. Non contento di portare in giardino i
cuscini, Brenin aveva deciso che poteva essere una buona idea portare fuori
anche la poltrona. E i tonfi erano provocati dalla poltrona che cozzava
contro il telaio della porta mentre Brenin cercava di farla passare. Fu allora
che mi resi conto che si rendeva necessario un approccio più radicale al
problema del suo intrattenimento, un approccio basato sulla premessa che,
tutto considerato, sarebbe stato meglio per tutti e due se Brenin fosse stato
costantemente esausto. E così cominciammo a correre insieme.
Cercare di tenere un lupo sotto controllo assicurandosi che sia
costantemente esausto è un approccio, ma un attimo di riflessione vi dirà
che non è molto astuto. Certo, inizialmente le nostre corse stancarono
Brenin. E anche me, ma questo aveva meno importanza, dato che non ero io
quello che cercava di trascinare i mobili in giardino. Brenin, d'altra parte,
diventava sempre più robusto e quindi sempre più in grado di provocare
disastri in casa in qualsiasi momento. In breve tempo arrivò a considerare
come blande sgambate quelle corse che all'inizio lo facevano crollare in un
sonno esausto per il resto della giornata. E così le corse divennero, per
necessità, sempre più lunghe. Ma, naturalmente, Brenin divenne sempre più
allenato, cosicché potete forse immaginare che piega stava prendendo la
situazione. La bicicletta avrebbe potuto essere un'opzione. Ma all'epoca la
gente in Alabama non apprezzava molto le biciclette, come scoprii in
occasione di un incidente che coinvolse me, la mia bicicletta e alcuni
bifolchi reazionari sbronzi, completi di mazza da baseball e pick-up, un
incidente nel quale rimasi quasi decapitato. In Alabama, a quei tempi, solo i
piscialetto sinistroidi, comunisti e hippie viaggiavano grazie
all'autopropulsione. E così l'opzione della bicicletta non era troppo allettante
per me.
Quindi continuai a correre, e Brenin continuò a correre con me. E tutti e
due diventammo più forti, più snelli e più duri. Questa pragmatica foga per
la mia recentemente scoperta forma fisica, però, si trasformò presto in
qualcos'altro. Durante le nostre corse mi resi conto di una realtà profonda
che induceva umiltà: ero in presenza di una creatura che, sotto la maggior
parte degli aspetti, era indubbiamente, palesemente, irrimediabilmente e
categoricamente superiore a me. Quello fu un momento di svolta nella mia
vita. Io sono un tipo sicuro di sé. Se la gente non pensa che sia arrogante -
ma forse lo pensa - è solo perché sono bravo a nasconderlo. Non ricordavo
di essermi mai sentito così in presenza di un essere umano. Non era
assolutamente da me. Ma adesso mi accorgevo che avrei voluto essere meno
me stesso e più Brenin.
La mia presa di coscienza fu fondamentalmente di tipo estetico. Quando
correvamo, Brenin scivolava sul terreno con un'eleganza e un'economia di
movimenti che non avevo mai visto in un cane. Quando un cane trotta, per
quanto raffinata ed efficiente sia la sua andatura, c'è sempre una piccola
componente verticale nel movimento delle zampe. Se avete un cane,
osservatelo attentamente la prossima volta che lo portate fuori. Quando le
zampe si spostano in avanti, si muovono anche in su e in giù, magari solo
leggermente. E questo movimento delle zampe si trasmette alla linea delle
spalle e del dorso: se guardate bene, li vedrete alzarsi e abbassarsi mentre
l'animale avanza. A seconda del tipo di cane, tale movimento può essere
evidente o quasi impercettibile, ma c'è sempre, se guardate con attenzione.
In Brenin non lo si vedeva affatto. Per spingersi avanti, un lupo usa le
caviglie e le grandi zampe. Ne consegue che c'è molto meno movimento
negli arti, che restano diritti e si muovono avanti e indietro, ma non in su e
giù. Perciò, quando Brenin correva, spalle e dorso restavano piatti e
orizzontali. Visto da lontano, dava l'impressione di galleggiare a qualche
centimetro da terra. Quando era particolarmente felice, o soddisfatto di sé, si
esibiva in balzi esagerati. Ma la sua andatura di default era lo
«scivolamento». Brenin ormai se n'è andato e, quando cerco di
visualizzarlo, è difficile dare al quadro i dettagli necessari perché diventi
una rappresentazione viva e concreta. Ma l'essenza di Brenin c'è ancora per
me. Posso ancora vederlo: il lupo spettrale nella foschia del primo mattino
dell'Alabama, che scivola senza sforzo sul terreno, silenzioso, fluido e
sereno.
Il contrasto con la scimmia ansimante e rumorosa che gli correva accanto
con il passo pesante non avrebbe potuto essere più pronunciato e
deprimente. Avrei voluto correre con lunghe falcate silenziose. Avrei voluto
galleggiare anch'io a qualche centimetro da terra, ma per quanto diventassi
bravo nella corsa - e diventai molto bravo - ciò non accadde mai. Aristotele
distingueva tra l'anima delle piante e quella degli animali. Le piante,
sosteneva, hanno meramente un'anima vegetativa, la cui funzione consiste
nell'assimilare, elaborare ed espellere cibo. Gli animali, invece, hanno
un'anima sensitiva, che comprende la sensibilità e il movimento. Il fatto che
Aristotele caratterizzasse l'anima degli animali in termini di movimento non
era casuale, credo. Contrariamente a quanto mi è stato insegnato da
studente, non credo che il filosofo greco volesse dire semplicemente che gli
animali si muovono e le piante no.
Una storia racconta di un lupo che viveva a Gubbio e del suo incontro con
Francesco d'Assisi. Il lupo terrorizzava da tempo gli abitanti della cittadina,
i quali chiesero a san Francesco di convincerlo a desistere. Così un giorno il
lupo e il santo si incontrarono fuori dalle mura della città e giunsero a un
accordo: un contratto debitamente ufficializzato dal notaio locale. Il lupo
promise di smettere di terrorizzare la gente e di lasciare in pace il bestiame.
Gli abitanti di Gubbio, in cambio, promisero di dargli da mangiare e di
permettergli di andarsene in giro per la città a suo piacere. Questa storia mi
diverte, perché ero arrivato, in modo del tutto indipendente, a un accordo
praticamente identico con Brenin. In specifico, la versione del contratto
stipulato con il giovane Brenin era più o meno la seguente:
Okay, Brenin, io ti porterò con me ovunque andrò: alle lezioni,
all'allenamento di rugby dopo le lezioni e alle partite durante i weekend, che
siano in casa o in trasferta. Se andrò a fare spese, potrai venire anche tu, ma
dovrai aspettarmi in auto (farò presto!). E, no, non ti lascerò in macchina
nelle ore più calde della giornata, perciò è una fortuna che abbiamo un
supermercato aperto ventiquattr'ore su ventiquattro proprio in fondo alla
strada. Mi assicurerò che tu possa fare ogni giorno una passeggiata lunga e
interessante e, se andrò a correre, potrai venire anche tu. Riceverai un buon
pasto nutriente tutti i giorni. E quando alla sera andrai a dormire, sarai
adeguatamente esausto dopo un'altra meravigliosa giornata di divertimenti e
novità. Ed eccoti un'altra informazione, di cui al momento non sono ancora
consapevole, ma che diventerà dolorosamente evidente nel corso degli anni:
ogni casa che comprerò mi costerà almeno cinquantamila dollari più di
quanto altrimenti mi sarebbe costata solo perché dovrà avere un giardino di
dimensioni sufficienti per permetterti di correre in giro. Da parte tua, tu non
dovrai distruggere quella casa. È tutto ciò che chiedo. Mi rendo conto che a
volte potrai essere irresistibilmente tentato da un «pasto dell'affamato»
lasciato imprudentemente alla tua portata. Cose che capitano. Non ho
intenzione di insistere troppo o di tormentarti per cose di questo genere.
Quello che ti chiedo davvero è di lasciare in pace la maledetta casa. Questo
significa non distruggere gli oggetti ivi contenuti. E anche se mi rendo
conto che sei un giovane lupo e che gli incidenti possono capitare,
specialmente di notte, per favore cerca di non fare la pipì sui tappeti.
Se sostituite la mia casa con la città di Gubbio e me con san Francesco, le
due storie coincidono quasi perfettamente. Ma, a differenza di san
Francesco, io non ho rispettato il contratto e ancora oggi, più di dieci anni
dopo, questo pensiero mi disturba.
L'Alabama è stata sostanzialmente una festa durata sette anni. Nella vita
sono stato fortunato sotto molti aspetti. E uno di questi è stato avere la
possibilità di vivere, in tutti gli elementi essenziali (vale a dire feste,
sbronze, sport di vario genere), la vita dello studente universitario per due
volte. La seconda volta è stata molto più divertente, forse perché avevo i
soldi. O forse perché, come la gioventù è sprecata per i giovani, così la vita
dello studente è sprecata per gli studenti. Chi lo sa?
I nostri giorni sregolati cambiarono irrevocabilmente quando Brenin
compì quattro anni e io trenta. A dire la verità, tutti e due stavamo
diventando forse un po’ troppo vecchi per quella vita. Quando avevo
accettato l'incarico in Alabama avevo ventiquattro anni. Vivere la vita dello
studente quando hai ventiquattro anni è una cosa, ma puoi continuare solo
per un certo tempo ad andare ai party studenteschi delle partite di rugby
prima che la cosa diventi dapprima un po’ triste e poi un po’ disgustosa.
Tuttavia la causa immediata del nostro trasferimento non fu il mio
invecchiamento, ma quello di mio padre. Aveva un attacco di polmonite
dopo l'altro. Avendo il sospetto, sempre più forte, che stesse per morire,
ritenevo di dovermi avvicinare a casa. Naturalmente il vecchio bastardo si
riprese completamente. A tutt'oggi è ancora in circolazione. Ma ormai era
troppo tardi: i giorni di festa a base di barilotti di birra e rugger huggers in
abiti succinti erano ormai alle mie spalle.
Fu comunque la decisione migliore che abbia mai preso, anche se
all'epoca non mi sembrò tale. Avevo una questione aperta con la filosofia.
La vita dissoluta, ma assai piacevole, che conducevo in Alabama aveva
provocato un totale inaridimento dei miei scritti e delle mie pubblicazioni.
Era ovvio che non ero abbastanza disciplinato da ignorare le evidenti
tentazioni che mi circondavano, perciò dovevo cambiare vita. Di
conseguenza, per il mio ritorno al di là dell'Atlantico, decisi di trovarmi un
posto davvero tranquillo, dove ci fosse anche un po’ di campagna per
Brenin. Ma l'elemento decisivo era che avevo bisogno di un luogo dove non
ci fosse assolutamente, tassativamente niente da fare, a parte scrivere. Per
cui ci trasferimmo in Irlanda e cominciai a lavorare come docente
all'University College Cork. Dimenticavo, ci fu un altro fattore significativo
che influenzò la mia decisione: Cork fu l'unico posto abbastanza disperato
da offrirmi effettivamente un lavoro. È questo che succede a chi trascorre
sette anni in una festa continua.
Il problema era che Brenin, per volontà del governo irlandese, doveva
passare sei mesi rinchiuso nel centro di detenzione di Lissadell a Swords,
poco a nord di Dublino. Ciò succedeva prima dell'introduzione dei
passaporti degli animali domestici e Brenin dovette andare in quarantena
per sei mesi. Era un sistema indicibilmente stupido e crudele, messo a punto
prima della scoperta del vaccino contro la rabbia. Gran Bretagna e Irlanda ci
hanno messo quasi un secolo per adeguarsi a questo «recente» sviluppo
della medicina. Brenin veniva sottoposto a vaccinazioni antirabbiche
annuali fin da cucciolo e la presenza degli anticorpi nel suo sangue era
facilmente dimostrabile. Ciononostante, come migliaia di cani nelle stesse
condizioni, dovette scontare la sua pena.
Non so per Brenin, ma per me quella fu la cosa più difficile che abbia mai
dovuto fare. E per molte notti in quei sei mesi mi addormentai piangendo. A
tutt'oggi non so se feci la cosa giusta per lui: sei mesi sono un periodo molto
lungo nella vita di un lupo. Ma se c'era una cosa che distingueva Brenin dal
canide medio era la grande sicurezza di sé. Era sempre stato così, perfino da
cucciolo. Niente lo turbava davvero. Lo avete già notato nei suoi incontri
con il pit bull Rugger. Sospetto che abbia scontato il suo periodo di
detenzione con disinvoltura. In effetti lo affrontò con notevole aplomb e
senza alcuna delle evidenti difficoltà psicologiche che segnano molti cani
trattenuti in quarantena.
In realtà il regime di Lissadell era piuttosto blando. La signora Majella, la
direttrice, si era affezionata a Brenin e la cosa era molto comprensibile, dato
che il mio era di gran lunga il «cane» più bello che avesse mai onorato
l'Irlanda con la sua presenza. All'epoca veniva fatto passare per un
malamute - questo era ciò che avevo dichiarato sul modulo d'importazione -
dato che in Irlanda lo status giuridico dei lupi è incerto. A quell'epoca i
malamute erano ancora sconosciuti in Irlanda e perfino i veterinari non
sapevano bene quale aspetto dovessero avere. La Majella accordò a Brenin
vari privilegi, in virtù della sua straordinaria bellezza e del suo
comportamento educato e piacevole. Il più importante di tali privilegi era
una corsa lungo l'intera struttura quasi tutte le mattine. Brenin, a quanto
pare, utilizzava quel tempo per imporre la propria autorità sugli altri
«detenuti», soprattutto urinando davanti alle loro gabbie. Io andavo a
trovarlo una volta alla settimana - a quei tempi, un viaggio andata- ritorno di
dieci ore su quelle assurde strade irlandesi - e passeggiavamo insieme per
qualche ora nel complesso. In seguito i privilegi di Brenin vennero ridotti a
causa di una furtiva, ma nondimeno incauta, razzolata nella borsa della
spesa della Majella con conseguente rapido furto di un pollo congelato. Ma
a quel punto stava già per essere rilasciato.
Quando mi venne restituito, feci del mio meglio per risarcirlo. Questo
significò lunghe corse quotidiane. Passammo l'estate della sua liberazione -
Brenin fu rilasciato in giugno - nel Galles occidentale, a casa dei miei
genitori. Bè, non proprio a casa: ci venne assegnata la roulotte in fondo al
giardino, dato che Brenin aveva preso subito in antipatia Bonnie e Blue, i
due alani di famiglia. In effetti, entro poche ore dal nostro arrivo, aveva
cercato di uccidere Blue in diverse occasioni. Trascorrevamo le giornate
correndo lungo le magnifiche spiagge di Freshwater West, Broadhaven
South e Barafundle, la preferita di Brenin. Nelle dune dietro Barafundle
c'erano miliardi di conigli e fu lì che Brenin cominciò a imparare qualcosa
che non avevo potuto lasciargli fare in Alabama a causa dei serpenti:
cacciare.
Alla fine dell'estate ci trasferimmo in Irlanda. Per il primo anno abitammo
a Bishopstown, un sobborgo all'estrema periferia occidentale della città di
Cork. Cercai di rendere la vita di Brenin più simile possibile a quella in
Alabama. Così andavamo a correre tutti i giorni, di solito al Lee Valley Park
e nei campi confinanti. Oppure al Powdermills Park a Ballincollig. Nei
weekend ci spostavamo: la spiaggia di Inchydoney; Glengarra Woods, oltre
Mitchelstown sulla strada per Dublino; la passeggiata sulle scogliere di
Ballycotton e molti altri posti. Più o meno a quell'epoca cominciai a fare
surf e un paio di giorni alla settimana, onde permettendo, scendevamo sulla
ventosa spiaggia di Garrettstown, dove Brenin sguazzava in acqua, mentre
io cercavo di restare in equilibrio sulla tavola. La quarantena poteva essere
stata dura, ma per Brenin l'Irlanda era un posto molto migliore dell'Alabama
e, grazie a san Patrizio, non dovevamo neppure preoccuparci dei serpenti.
Il fatto che una cosa sia inevitabile non la rende necessariamente meno
spiacevole. Io sapevo di dover riattraversare l'Atlantico per tornare a casa.
Sapevo che Brenin sarebbe dovuto andare in quarantena. Sapevo che in
Europa avrebbe avuto una vita molto migliore, in un clima e in una
campagna di gran lunga più adatti a lui. Ma non riesco ancora a liberarmi
dall'orrore di quel giorno d'inizio dicembre quando lo portai ad Atlanta per
caricarlo su un aereo. Ho ancora l'incubo ricorrente di quell'episodio e mi
sveglio di colpo, devastato. All'inizio sono triste perché nel sogno sto
tradendo Brenin. E poi mi ricordo che è morto. La storia di san Francesco e
del contratto con il lupo di Gubbio è una storia a lieto fine perché il
contratto viene rispettato. Ma c'è anche un'altra storia, molto più cupa, che
riguarda un lupo e un contratto, una storia sulle terribili conseguenze della
rottura del patto.
Fenrisulfr, il gigantesco lupo della mitologia norrena, crebbe in
circostanze familiari piuttosto infelici. Suo fratello Jòrmungandr, il serpente
di Midgard, venne inabissato sul fondo dell'oceano da Odino senza alcun
motivo, o perlomeno un motivo che potesse reggere in un tribunale. Sua
sorella Hel venne esiliata nella terra dei morti solo in base alla parola di una
megera di dubbia sanità mentale, ma di dimostrabile malignità. Così,
presumibilmente, la prima lezione sugli dèi che dovremmo imparare è
molto semplice: non ci si può fidare di loro. In realtà Fenrisulfr non aveva
mai dato agli dèi una ragione specifica per diffidare di lui. Al contrario, se si
tiene presente che era un lupo gigantesco il cui destino - si diceva - sarebbe
stato quello di inghiottire il sole nel giorno del Ragnaròk, cioè alla fine del
mondo, fino a quel momento aveva condotto una vita di assoluta
moderazione. Ma a mano a mano che diventava più grosso, gli dèi
cominciarono ad avere paura di lui e la loro soluzione, tipicamente priva di
immaginazione, consistette nell'incatenarlo e dimenticarsi di lui. Dapprima
fabbricarono una catena chiamata Loedingr, che però non riuscì a trattenerlo
a lungo. Allora fabbricarono Dromi, un'altra catena di ferro, due volte più
resistente di Loedingr, ma Fenrisulfr spezzò anche quella. A quel punto gli
dèi fecero approntare dai loro gnomi una terza catena, fatta con il rumore
del passo di un gatto, i peli della barba di una donna, le radici di una
montagna, i tendini di un orso, il respiro di un pesce e la saliva di un
uccello.
Ed ecco la seconda lezione sugli dèi che dovremmo imparare, una lezione
che, in un modo ragionevolmente diretto, spiega la prima. Gli dèi non sono
particolarmente stupidi, anche se alcuni di loro, diciamocelo, non brillano
per acume. Né sono necessariamente cattivi e maligni, anche se molti di
loro lo sono. Piuttosto, sono caratterizzati da una certa incapacità di capire
la mente degli altri. Gli dèi non hanno alcuna teoria della mente e sono
congenitamente incapaci di mettersi nei panni degli altri. Non conoscono
l'empatia. Per dirla in modo brutale, forse la definizione più sicura degli dèi
è che sono tutti sociopatici.
Pensavano davvero che Fenrisulfr ci sarebbe cascato? Non aveva mai
dato segni di essere un lupo particolarmente ottuso. Però loro lo hanno
messo alla prova con due catene, le più pesanti e robuste che siano mai state
forgiate. Queste non hanno funzionato e allora gli hanno dato qualcosa che
assomigliava a un nastro di seta. Non immaginavano che lui si sarebbe reso
conto che c'era sotto qualcosa? Sospettoso, Fenrisulfr chiese spiegazioni.
No, no, gli assicurano, non c'è nessun trucco. Te lo giuro sulla vita di mia
madre, si racconta che abbia detto Odino, forse immaginando di fare una
sottile battuta per pochi intimi (sua madre Bestia era una gigantessa di
ghiaccio), il che confermerebbe l'ampia mole di prove testuali che
suggeriscono come la sottigliezza non sia mai stata il forte di Odino.
A questo punto la versione ufficiale degli eventi è più o meno la seguente:
per dimostrare la buonafede divina, Tyr, il più audace degli dèi, si offrì di
infilare la mano tra le fauci di Fenrisulfr, e così sacrificò nobilmente la
propria estremità destra per il superiore bene comune. Ma naturalmente la
mitologia è scritta dai vincitori. Forse ho passato troppo tempo in
compagnia di un lupo, ma questa versione ufficiale della storia non mi è mai
sembrata molto convincente. Anzi, ritengo che mostri tutti i segni
caratteristici di un racconto inventato in seguito da Tyr e da lui
ostinatamente ribadito. Non si può fare a meno di sospettare che Tyr fosse
non il più audace, ma il più degenerato e crudele degli dèi. E considerando
il suo generalmente riconosciuto, ma perlopiù inspiegato, interesse per
l'educazione di Fenrisulfr, è purtroppo possibile che il lupo avesse trascorso
i primi anni di vita, da quand'era cucciolo, soffrendo, in un modo o
nell'altro, per mano di Tyr. E, se è così, Fenrisulfr doveva averlo messo al
primo posto nel suo elenco di cose da azzannare. E non si può fare a meno
di sospettare che Tyr non si fosse offerto volontario per infilare la mano
nella gigantesca bocca del lupo. Potrebbe essere stato Odino a ordinarglielo,
minacciandolo di terribili e prolungate sofferenze se si fosse rifiutato. Nel
qual caso possiamo immaginare l'espressione sulla faccia di Tyr quando
trovò il coraggio di fare quello che Odino gli aveva ordinato, o piuttosto il
coraggio di non opporsi agli altri dèi che gli cacciarono a forza la mano tra
le fauci del lupo. Fenrisulfr strizzò l'occhio a Tyr e quasi certamente il più
audace tra gli dèi se la fece addosso.
Forse valeva la pena azzannare la mano di Tyr. Forse Fen-risulfr era più
che disposto a giocare il gioco degli dèi. Non era ancora il suo momento, né
lo sarebbe stato per molti anni a venire. Narra la leggenda che quando il suo
momento arrivò, nel giorno del Ragnaròk, Fenrisulfr era diventato così
enorme che la mascella superiore toccava il cielo e quella inferiore la terra.
Ma doveva passare ancora molto tempo. E Fenrisulfr era un lupo molto
sicuro di sé. Poteva scontare la sua pena senza il minimo problema. Infatti
la scontò incatenato a una roccia, chiamata «urlo», sull'isola di Lyngvi.
Naturalmente Tyr volle vendicarsi e così, non contento di tenere incatenato
il lupo sino alla fine dei tempi, per completare trionfalmente l'opera gli
conficcò una spada tra le fauci, da cui cominciò a colare la saliva, formando
un fiume al quale venne dato il nome «speranza». E la catena che tenne
prigioniero Fenrisulfr fino al Ragnaròk venne chiamata Gleipnir,
l'ingannatore.
Naturalmente la tragedia di questa storia è che nessuno sa come si sarebbe
comportato Fenrisulfr se non fosse stato trattato in modo così tremendo. È
noto che il giorno del Ragnaròk si schierò con i giganti contro gli dèi e si
vendicò di Odino facendolo a pezzi. Ma chi può sapere con chi si sarebbe
schierato se gli dèi non avessero tradito la parola che gli avevano dato? E
dopo aver tradito la loro parola, che diritto avevano gli dèi di aspettarsi
l'appoggio di Fenrisulfr?
L'orrore di quel viaggio in auto fino ad Atlanta non era dovuto alla
consapevolezza che Brenin mi sarebbe mancato tanto. Era dovuto al fatto
che non sapevo con chi si sarebbe schierato quando l'avrei rivisto. Sarebbe
stato dalla parte degli dèi o da quella dei giganti? E che diritto avevano gli
dèi - se posso, modestamente e vi assicuro sarcasticamente, metterla così -
di aspettarsi il suo appoggio dopo il tradimento?
In alcune versioni del mito, gli dèi capiscono l'inevitabilità delle loro
azioni. Sanno che non hanno scelta nell'incatenare Fenrisulfr. Sanno che
dovranno essere sconfitti al Ragnaròk: il tempo degli dèi finirà e dovrà
essere sostituito da un'età di giganti. Sanno che tenere incatenato Fenrisulfr
e il fatto che il lupo si schiererà con i giganti sono elementi necessari per la
loro sconfitta. Sanno che ciò che fanno deve essere fatto. Ma sapere che ciò
che fai è necessario non ti libera dal peso schiacciante del farlo davvero.
Salutare Brenin quel giorno ad Atlanta mi spezzò il cuore perché non
sapevo se lui - Brenin, il mio Buffalo Boy - sarebbe stato ancora lì quando
l'avrei rivisto, o se sarebbe stato sostituito da un altro lupo che viveva
dentro la sua pelle.
Con il senno di poi, immagino che per un filosofo sia naturale, e forse
tristemente prevedibile, pensare alla formazione del nostro piccolo Stato di
due individui in termini contrattuali. Il concetto di contratto sociale ha
giocato un ruolo di primo piano nella storia del pensiero occidentale.
Nel periodo irlandese Brenin era nel fiore degli anni. Era diventato
davvero massiccio: alto novanta centimetri al garrese, pesava circa
sessantotto chili. Era alto quanto gli alani con cui ero cresciuto, ma aveva
una struttura molto più possente. Gli arti, lunghi come quelli della madre,
terminavano in zampe grandi quanto i miei pugni, ma Brenin si era anche
irrobustito e la stazza ormai era quella del padre. La testa era un largo cuneo
tra le grosse spalle. Il torace era lungo e i fianchi erano snelli. Più di
qualsiasi altra cosa, Brenin mi faceva pensare a un toro. In effetti, quando
pensavo a quanto era cambiato dai suoi giorni da cucciolo in Alabama, mi
veniva sempre alla mente la poesia di Dylan Thomas Lament, con il
racconto della trasformazione dell'uomo da giovane vitello a toro. La riga
nera che in gioventù gli scendeva sul muso era sbiadita, ma era ancora
visibile in mezzo agli stessi strani occhi dal taglio allungato. Non ho molte
fotografie di Brenin - all'epoca non ne facevo -, ma quando penso a lui e
cerco di fissare la sua immagine nella mente, vedo dei triangoli. In primo
piano, nella mia coscienza, ci sono sempre triangoli in movimento: il
triangolo della testa e del muso, i triangoli delle orecchie, il triangolo del
torace visto lateralmente, che declina dalle spalle alla coda, il triangolo del
busto visto di fronte, che si assottiglia negli arti fino alle zampe. E la linea
nera del muso e gli occhi gialli a mandorla erano il punto focale intorno al
quale erano organizzati tutti quei triangoli.
Prese l'abitudine di starsene lassù per ore, soprattutto dopo mangiato, con
Nina che saltava e guaiva inutilmente di sotto. La tregua durò solo poche
settimane - dopo un po’ Nina crebbe abbastanza da riuscire a raggiungerlo -,
ma diede comunque a Brenin il tempo di recuperare il peso che aveva perso.
Tuttavia, malgrado il tormento continuo, Brenin era molto protettivo nei
confronti di Nina e non permetteva a nessuno - cani o uomini - di
avvicinarsi a lei. E questo mi porta al secondo colpo di fortuna di quella
settimana. Una notte, pochi giorni dopo l'arrivo di Nina, verso mezzanotte
ci fu un rumore nel giardino sul retro. Il giardino era circondato su tutti i lati
da una staccionata alta due metri e mezzo, forse più, ed era impossibile
entrare per caso. Io non sentii il rumore, ma Brenin sì: scattò in piedi, corse
alla finestra e si alzò sugli arti posteriori, appoggiando le zampe anteriori
sul davanzale. Quando lo feci uscire, corse verso il terrapieno in fondo al
giardino, il posto dove aveva l'abitudine di nascondersi per sfuggire a Nina,
sparì dietro un albero e ricomparve trascinando un uomo, che poi bloccò a
terra. Esito a raccontare il seguito, dato che in effetti non ne esco molto
bene. A mia difesa, posso solo dire che avevo vissuto negli Stati Uniti così a
lungo da avere ancora una mentalità americana. Oh, mio Dio, pensai, e se
ha una pistola? Sparerà al mio lupo! Così corsi anch'io in giardino e
cominciai a prendere a calci lo sconosciuto, urlando: «Non muoverti,
bastardo!» e altri «americanismi» del genere. Ma, naturalmente, il bastardo
si muoveva: è difficile non farlo, quando ti ritrovi con un lupo alla gola e un
pazzo che ti prende a calci urlando parolacce. Poi la situazione si calmò.
Immobilizzai l'uomo - un tizio grosso, più o meno della mia età, che
avrebbe potuto verosimilmente crearmi dei problemi, se fossi stato da solo -
con una presa Nelson in piena regola: un braccio dietro la schiena, l'altro
piegato sopra la spalla. «Che cosa ci fai nel mio giardino?» gli chiesi.
«Niente...» balbettò lui. Così lo condussi fuori dalla mia proprietà e lo buttai
in strada.
All'epoca non avevo il telefono, per cui non avrei potuto chiamare la
polizia. Ma non appena la scarica di adrenalina si esaurì, cominciai a
rendermi conto che quella sarebbe stata comunque una cattiva idea.
L'enormità di quello che avevo appena fatto cominciò a farsi strada nel mio
cervello. Se fossimo stati in America e Brenin e io avessimo bloccato un
intruso in quel modo, avremmo quasi sicuramente ricevuto le
congratulazioni dei vicini di casa e anche della polizia. Ma pensavo che non
sarebbe andata così in Irlanda, dove tendono a disapprovare l'utilizzo di un
lupo per infierire sugli intrusi. Fortunatamente era una fredda notte di fine
ottobre e lo sconosciuto indossava un giaccone pesante. Ritenevo che
Brenin non fosse riuscito a procurargli gravi danni attraverso il tessuto, o
perlomeno non avevo visto sangue, quando avevo buttato fuori l'uomo.
Comunque conclusi che, tutto considerato, quello poteva non essere un
brutto momento per far levare le tende a Brenin rapidamente. Forse la mia
era una reazione esagerata, ma l'incidente dell'incrocio di lupo nel Nord mi
aveva reso più che leggermente paranoico. Così decisi di portare Brenin dai
miei genitori per qualche settimana, finché le acque non si fossero calmate.
Preparai in fretta una borsa e mi accinsi a una nottata in auto con Brenin e
Nina fino a Rosslare, dove ci saremmo imbarcati sul traghetto delle nove
del mattino per metterci al sicuro fuori dal paese prima che le guardie - la
Garda Siochana, la polizia irlandese - ci trovassero.
Poi qualcuno bussò alla porta. Le guardie erano già arrivate! Scostai la
tenda e sbirciai in direzione della porta d'ingresso, mentre nella mente mi
sfrecciavano pensieri del tipo: come ci si deve comportare esattamente in
una situazione di assedio? Anzi, come si organizza una situazione d'assedio
quando non si ha una pistola? O, se è per questo, nemmeno un ostaggio?
Risultò che non c'era bisogno di preoccuparsi: era la vicina della porta
accanto, la quale mi informò che l'uomo che Brenin e io avevamo aggredito
era suo marito, da cui era separata. La donna mi raccontò che ogni tanto - di
solito dopo essersi ubriacato - l'ex marito andava da lei per picchiarla.
Meglio ancora, almeno dal punto di vista mio e del mio lupo, mi riferì che
c'era una diffida del tribunale per cui l'uomo doveva restare a una distanza
di almeno trenta metri da casa sua (questo provvedimento non era servito a
molto, a quanto pareva). Pensai, allora, che le probabilità che l'uomo si
rivolgesse alla polizia fossero piuttosto scarse e decisi di sospendere la
nostra fuga notturna verso Rosslare.
Ancora oggi non riesco a capacitarmi della fortuna che ho avuto quella
notte. Certo, chiunque si fosse aggirato nel mio giardino a mezzanotte non
poteva avere buone intenzioni. Ma, anche così, ci avreste mai voluti come
vostri vicini di casa? «E se ci fosse stato un bambino in giardino?» avrebbe
detto la signora del negozio all'angolo. Io tendo a pensare che sarebbe
andato tutto bene. In vita sua, Brenin non ha avuto molte occasioni di
incontrare bambini, ma, quando è capitato, li ha sempre trattati con una
delicatezza e un riguardo che non mancavano mai di colpirmi. Di sicuro,
dopo quella notte, fece amicizia con il ragazzino della porta accanto e sia lui
sia la madre gli si affezionarono molto.
L'episodio, comunque, mi costrinse a rendermi conto di qualcosa che,
ripensandoci adesso, si agitava nella mia mente preconscia già da qualche
tempo. Brenin e io eravamo un po’ troppo estrosi e, di conseguenza, un po’
troppo pericolosi. Se fossimo stati cowboy, la gente ci avrebbe descritti
come due dal grilletto facile. È questo che mi viene in mente, quando
ripenso al mio comportamento di quella notte. Ero stato fin troppo veloce a
buttarmi nella mischia e i miei piedi erano stati un po’ troppo ansiosi di
aiutare i denti digrignati di Brenin. Il nostro senso di reciproca lealtà era
ormai di gran lunga superiore al nostro senso di giustizia nei confronti degli
altri. Eravamo diventati un branco, uno Stato di due individui. E di quelli
che ne stavano fuori non ci importava quanto avrebbe dovuto.
Dopo questo incidente, molti di voi potrebbero pensare che per Brenin
non ci fosse posto in una società civilizzata.
All'interno della propria bolla dorata non si prova alcuna animosità. È uno
sforzo impersonale, intellettuale. Il termine «intellettuale» può sembrare
strano in questo contesto, ma lo uso perché la boxe comporta un certo grado
di sapienza. È una sapienza propria ed esclusiva del pugilato, che non si può
acquisire in nessun altro modo. Un pugile sa esattamente per quanto tempo
il suo avversario terrà la mano fuori dopo avere sferrato un colpo, e lo sa
anche se non gli vede la mano. Sa come muove i piedi quando parte con un
diretto destro, e lo sa anche se non gli guarda i piedi. Dentro la sua bolla di
concentrazione, e ai limiti delle sue capacità fisiche ed emotive, il pugile sa
cose che altrimenti non saprebbe. Dopo il colpo, il suo avversario ha tenuto
la mano fuori per un secondo di troppo, così lui sposta la testa di lato e
risponde con un diretto sinistro all'interno del suo braccio (quelli di voi che
capiscono che cosa sto dicendo saranno in grado di dedurre da questa
descrizione che ero un mancino, almeno presumendo un avversario
regolare). Se il suo diretto va a segno e colpisce la mascella dell'avversario,
un bel colpo netto e pulito, allora il pugile prova esultanza. E non perché
odia l'avversario: al contrario, nella sua bolla di concentrazione non sente
niente, né per lui né contro di lui. Prova esultanza perché è freddamente,
serenamente terrorizzato. Combattere sul ring è conoscere non solo il
proprio avversario, ma anche la propria condizione esistenziale: è sapere
che si è in precario equilibrio sull'orlo di un precipizio e che una mossa falsa
in un senso o nell'altro provocherà il disastro.
Quando la vita è nel suo momento più viscerale, e quindi anche più vivo,
non è possibile separare l'esultanza dal terrore. La consapevolezza che il
disastro incombe su ogni mossa non solo rende possibili le forme più
potenti di esultanza, ma si fonde con quell'esultanza, ne diventa parte.
Terrore ed esultanza sono due facce della stessa medaglia: due aspetti della
stessa Gestalt. L'esultanza non è mai solo piacevole: è per forza anche
profondamente spiacevole.
Dopo circa cinque anni in Irlanda la nostra vita si era stabilizzata in una
routine prevedibile e, dal punto di vista della mia carriera, redditizia. La
mattina mi alzavo quando ne avevo voglia e andavo a correre con Brenin e
le due cagne, attraverso i campi e giù fino al mare. Dopodiché raggiungevo
Cork in auto, sbrigavo gli eventuali impegni di lavoro e andavo in palestra.
In genere rientravo a casa verso le sei di sera e cominciavo a scrivere,
continuando fin verso le due del mattino.
Dopo l'arrivo di Nina avevo deciso di lasciare Brenin a casa quando
andavo al lavoro. A quel punto la sua giovanile distruttività era
notevolmente diminuita. Devo ammettere che Nina faceva del suo meglio
per colmare la lacuna, ma, anche al suo peggio, la sua ingegnosità e il suo
potere distruttivi non erano assolutamente paragonabili a quelli di Brenin, il
quale non era affatto contento di essere lasciato a casa. E a me mancava la
sua presenza in ufficio e in aula. A volte, nel pieno di una lezione, spostavo
lo sguardo nell'angolo della sala, aspettandomi di vederlo, e avvertivo
sempre una scossa di sorpresa prima di ricordarmi che era a casa. Ma
pensavo che sarebbe stato molto ingiusto lasciare Nina da sola, giovane
com'era, specie considerando che avrebbe visto Brenin e me partire insieme
in auto. Quando arrivò Tess, tuttavia, toccò a lei restare a tenere compagnia
a Nina e rientrò in vigore la vecchia abitudine di portare Brenin con me
dappertutto.
Tess, essendo un lupo solo per metà, probabilmente era distruttiva la metà
di quanto era stato il giovane Brenin. Ma era più che sufficiente. Si mangiò
praticamente tutto quello che c'era in casa. Le preziose sedie antiche che
mia nonna mi aveva lasciato in eredità resistettero solo poche settimane alla
sua dentizione. La parete che separava la cucina dal ripostiglio era un muro
a secco, ma Tess riuscì ad aprirsi un varco a morsi in un solo pomeriggio,
forse nel tentativo, entusiasta ma vano, di raggiungere la libertà del giardino
sul retro. Aveva ereditato la passione del giovane Brenin per le tende.
Imparò rapidamente come aprire le credenze della cucina al fine di
divorarne il contenuto: che fosse commestibile o meno, per lei faceva poca
differenza. Quando installai sugli sportelli dei fermi a prova di bambino, si
mangiò anche quelli. Alla fine smise di perdere tempo e cominciò a
prendere a morsi direttamente le credenze. Persi i documenti di proprietà
della casa durante una di queste demolizioni pomeridiane: Tess se li era
mangiati. Almeno credo che sia stata Tess. Dato che a casa restavano in
due, non potevo mai attribuire le colpe con sicurezza. In ogni caso, ero
fregato. Non potevo certo portare tutti e tre a lezione con me.
Quando tornavo a casa la sera, dopo avere tristemente esaminato le
macerie dei festeggiamenti pomeridiani, cominciavo a scrivere. Tenevo
sempre a portata di mano una bottiglia di Jack, di Jim o di Paddy mentre
lavoravo e, dato che in genere scrivevo per circa otto ore, non capitava
spesso che mi ricordassi di andare a letto. Il risultato fu che dopo cinque
anni d'Irlanda, nonostante mi fossi ubriacato quasi tutte le sere, avevo scritto
sei o sette libri su argomenti che andavano dalla natura della mente e della
coscienza al valore della natura e ai diritti degli animali. E, a quanto pareva,
i libri non erano poi da buttare. Con mia sorpresa, vennero recensiti su tutte
le riviste giuste. E con mio totale stupore, quasi tutte le recensioni furono
molto positive. Istituzioni che non mi avrebbero toccato neppure con una
pertica all'epoca in cui me n'ero andato dall'Alabama, adesso cominciavano
a offrirmi incarichi.
All'inizio resistetti all'idea di trasferirmi, perché non volevo privare
Brenin e le due cagne della campagna che a loro piaceva tanto. Ma poi -
dato che passare da un estremo all'altro sembra essere un tema costante
della mia vita -pensai che avremmo potuto provare Londra per un anno e
vedere come andava. Presi un'aspettativa da Cork e accettai un'offerta del
Birkbeck College dell'università di Londra.
Ero un po’ in ansia sugli aspetti pratici del trasferimento. Dopo avere letto
le ultime due o tre pagine, mi affittereste la vostra casa? L'affittereste a uno
scrittore alcolista con tre cani selvatici e terribilmente distruttivi al seguito?
Dovreste essere pazzi. Perciò la prima regola per affittare casa a Londra,
quando si ha in programma di trasferirsi con un lupo e mezzo e un cane e
mezzo al seguito, è ovvia: fingere. «Sì, ho un cagnolino. Nessun problema,
vero?» Non è tanto una menzogna quanto il contrario di un'iperbole... è
un"«ipobole», se volete. È una minimizzazione a effetto, dove l'effetto è che
alla fine troverete qualcuno che vi affitterà una casa. E va bene, è una
menzogna. Comunque poi si prosegue con qualche domanda in tono casuale
sul domicilio del padrone: «Il padrone di casa abita da queste parti? In
Kenia? Perfetto, la prendo!».
Così, poco prima di Natale, caricai Brenin e le «ragazze» sulla jeep -
Brenin e Tess dietro e Nina davanti, dove le piaceva stare -, prendemmo il
traghetto per la Gran Bretagna, passammo il Natale con i miei genitori e poi
ripartimmo per Londra. Dopo il disgraziato episodio di Brenin con l'Irish
Ferries, ero passato alla Stena, soprattutto perché questa compagnia dispone
di grandi gabbie di legno dentro le quali sistemare i cani durante la
traversata. A Brenin, però, non piaceva per niente starsene rinchiuso durante
il viaggio e in genere manifestava il suo disappunto demolendo la gabbia.
Ogni volta che scendevo alla fine della traversata, lui stava invariabilmente
correndo indisturbato sul ponte auto, accompagnato dal coro di guaiti e
ululati delle «ragazze», che invece non erano riuscite a liberarsi. Una volta,
dopo alcuni viaggi con la Stena, al termine della traversata scesi e trovai un
riconoscente falegname che stava lavorando su alcune delle gabbie
danneggiate. Era chiaramente felice di conoscere l'uomo che gli stava
procurando tutti quegli straordinari. E, a mio avviso, riassunse con molta
precisione la situazione generale: «Non so perché non gli permettano di
salire di sopra con lei: è molto più pulito di metà dei passeggeri!». In ogni
caso, come potete immaginare, mi auguravo di non dover fare altre
traversate nell'immediato futuro. In caso contrario, sono abbastanza sicuro
che la Stena ci avrebbe comunque proibito l'accesso a bordo.
Ero andato a Londra qualche settimana prima, lasciando per un giorno
Brenin e le «ragazze» con i miei genitori, ed ero riuscito a trovare un
piccolo cottage con due camere da letto a due passi dal Wimbledon
Common. Avevo deciso che i 450 ettari di parco, o i 1600 ettari di parco, se
si contava anche l'adiacente Richmond Park - brulicanti di animaletti pelosi
il cui unico scopo nella vita era quello di essere cacciati - avrebbero
completamente soddisfatto Brenin e le due cagne. E così fu.
Dato che avevo bisogno di sfinirli prima di osare avventurarmi al lavoro,
ogni mattina presto andavamo a correre, attraverso il terreno boscoso del
parco e il London Scottish Golf Club, probabilmente l'unico campo da golf
del mondo in cui i cani hanno diritto di transito. Era un percorso di otto
chilometri circa, ma Brenin e le ragazze ne facevano tre volte tanti perché
non appena vedevano uno scoiattolo, scattavano di corsa all'inseguimento
nel bosco. Anzi, il contatto visivo non era neppure necessario: un fruscio nel
sottobosco era sufficiente a scatenarli. Per fortuna gli scoiattoli sono veloci
e Brenin cominciava a perdere un po’ del suo impeto. Quanto a Nina e a
Tess, non hanno mai raggiunto il suo grado di abilità nella caccia. Per cui il
tasso di mortalità di scoiattoli e conigli derivante dalle nostre escursioni
quotidiane fu molto basso. Nell'anno trascorso a Londra riuscirono a
uccidere un solo scoiattolo, mi pare: un danno collaterale che mi sembra
accettabile alla luce dell'immenso divertimento che diede a quei tre. Dopo
ogni caccia, correvano di nuovo da me, ansimanti e con gli occhi
scintillanti, e io dicevo: «Ehi, è questo il modo di comportarsi dei cani
dell'uomo che ha scritto Animate Like Us?».
Quando tornavamo alla jeep, erano tutti e tre distrutti, ma specialmente
Brenin, che ormai stava scivolando dolcemente dalla mezza età alla
vecchiaia. Dormiva per quasi tutto il resto della giornata. Portarlo con me
alle lezioni non era un'opzione praticabile, perché non credo che alla sua età
si sarebbe adattato facilmente ai misteri e alle vicissitudini della
metropolitana londinese. Quando lasciavo i tre a casa, davo a ognuno di loro
un grosso osso cotto che avevo comprato al negozio per animali sulla
Broadway. Era una parziale e temporanea deroga alla dieta a base di pesce,
dettata dalla superiore necessità di salvare dall'annientamento la casa in
affitto. In un anno spesi una fortuna - quelle ossa costavano circa cinque
sterline l'una -, ma probabilmente meno che se avessi dovuto acquistare una
nuova cucina al padrone di casa. Incredibilmente, nell'anno passato a
Londra, le «ragazze» non provocarono alcun danno. Quando ce ne
andammo, feci lavare i tappeti e vi giuro che nessuno avrebbe mai potuto
immaginare che là dentro avessero abitato dei cani. Non so se questo
accadde perché Nina e Tess erano maturate proprio nel momento giusto.
Forse le ossa cotte le avevano intrattenute. O forse era stato Brenin a tenerle
in riga. Comunque fosse, non mi feci domande e attribuii la cosa alla
fortuna di tutta la mia vita.
E così, grazie a Dio, non c'erano più ritorni a casa con l'abituale
constatazione di disastri e demolizioni. Una volta, però, rientrai e mi trovai
davanti una scena estremamente comica, che in seguito chiamai «la notte
dei tre cani grassi». Il titolo è impreciso, ma suona meglio della «notte dei
due cani grassi e del lupo grasso». Fu colpa mia. Al Birkbeck i corsi si
tenevano solo di sera. E quella volta, dopo la lezione, avevo (insolitamente)
accettato di incontrare qualche amico all'Ulu - il bar dell'unione studenti
dell'università di Londra - per un paio di pinte tranquille. Finii per tornare a
casa con l'ultima corsa della metropolitana e rientrai a un'ora imprecisata
dopo mezzanotte.
I tre erano riusciti ad aprire la porta della dispensa, dove conservavo le
loro provviste, e si erano mangiati un sacco da venti chili di cibo secco per
cani. Quando entrai in casa, mezzo ubriaco, tentarono di esibirsi nella
tradizionale danza di scuse e riconciliazione che eseguivano sempre quando
sapevano di aver fatto qualcosa di cui non sarei stato affatto contento. Il rito
consisteva nel trottare verso di me con le orecchie appiattite, il capo chino e
il naso praticamente sul pavimento. E poi agitavano la coda in modo così
esagerato che in realtà era tutto il corpo a scuotersi. Nina e Tess avevano
eseguito questo balletto per buona parte della loro vita, quasi
quotidianamente. E lo stesso Brenin aveva una certa familiarità con tale
procedura. Quella notte, però, lo spettacolo fu molto diverso: tutti e tre
erano semplicemente troppo gonfi per esibirsi con un minimo di credibilità.
Provarono a trottare verso di me, ma riuscirono solo a fare pochi passi
barcollanti e poco convinti. Cercarono anche di offrirmi il solito,
conciliatorio scuotimento del corpo, cosa difficile da fare quando il corpo è
tanto largo quanto lungo: non resta niente da scuotere. Così rinunciarono
subito e collassarono sul pavimento. Se fossi stato anche solo semisobrio,
naturalmente mi sarei preoccupato che non si fossero provocati danni
permanenti. Ma viste le mie condizioni, scoppiai a ridere e me ne andai a
letto.
La mattina seguente domandai: «Andiamo a fare una passeggiata?»,
l'inizio del nostro rituale quotidiano al quale di norma i tre reagivano
correndo e saltando per tutta la casa, abbaiando e, a volte, spingendomi con
il naso perché mi sbrigassi. Per la prima volta non ci fu alcuna reazione. Le
teste rimasero saldamente incollate al pavimento. Sollevarono per un attimo
lo sguardo, ma credo solo per implorarmi di non costringerli a fare niente
nelle condizioni in cui si trovavano. Penso che ciò che stavano passando
quella mattina fosse qualcosa di molto simile a un doposbornia canino.
Quando riportai Brenin dal veterinario in quello che poi chiamai il Lunedì
Nero - che seguiva il Venerdì Nero, quando si era infettata la prima
ghiandola, e il Sabato Nero, quando si era infettata anche la seconda - la
ferita chirurgica si era infettata a propria volta. A quel punto Brenin era un
lupo molto, molto malato. Il cocktail di antibiotici prescritto dal veterinario
non stava funzionando. Il venerdì Jean- Michel aveva fatto un tampone a
Brenin e l'aveva mandato a un laboratorio di analisi per scoprire di quale
tipo di infezione batterica si trattasse e, cosa più importante, a quali
antibiotici fosse sensibile. I risultati però non erano ancora arrivati. Nel
frattempo provammo un altro antibiotico, che in passato si era dimostrato
efficace contro ceppi molto resistenti. Jean- Michel dovette anche riaprire la
ferita chirurgica per eliminare l'infezione. La pulizia e le iniezioni nel sedere
di Brenin continuarono senza sosta, ogni due ore, per i due giorni
successivi. Ma adesso dovevo seguire la stessa procedura anche nello
stomaco, naturalmente con un'altra siringa.
Quando il mercoledì tornai dal veterinario, le notizie erano cattive, ma
non del tutto inaspettate. Brenin aveva contratto una forma antibiotico-
resistente di Escherichia coli, molto simile all'Mrsa, lo stafilococco aureo
resistente alla meticillina. Con ogni probabilità, il batterio era già presente
nell'intestino prima dell'intervento chirurgico e il sistema immunitario
indebolito gli aveva permesso di diffondersi senza ostacoli. La conclusione
fu che quasi sicuramente Brenin sarebbe morto.
Volendo tentare il tutto per tutto, Jean- Michel decise di provare con un
sistema della vecchia scuola, qualcosa che ormai nell'era degli antibiotici
non si faceva più. Avrete sentito parlare di persone a cui sono stati
ricostruiti un ginocchio o una spalla. Bè, al povero Brenin in pratica venne
ricostruito il sedere. Avendo constatato che il posteriore del mio lupo, pur
essendo pulitissimo, era infestato da batteri e avendo notato il rigonfiamento
nella zona sottostante le ghiandole anali, Jean- Michel decise che il
problema di Brenin consisteva nel fatto che l'evoluzione non era stata
efficientissima nei confronti delle suddette ghiandole, le quali potevano
essere molto valide per immagazzinare l'odore utile a marcare il territorio,
ma erano assai poco efficaci nell'eliminare indesiderate infezioni batteriche.
Così Jean- Michel operò di nuovo Brenin e, se le mie capacità di traduttore
non mi tradirono, spostò le ghiandole anali di due o tre centimetri più in
basso (potete immaginare la quantità di mimica, da entrambe le parti, e la
montagna di disegni, da parte del veterinario, per farmi capire quel
concetto!). I dettagli e la dinamica dell'operazione non mi erano molto
chiari, ma l'idea, mi spiegò Jean- Michel, era che adesso l'infezione poteva
defluire naturalmente, invece di restare imbottigliata dentro. Ma né lui né io
nutrivamo molte speranze.
Quella sera andai riprendere Brenin e lo portai a casa a morire. È difficile
trasmettere il senso di isolamento, di solitudine e di disperazione di quei
giorni. Il vero orrore non consisteva nella consapevolezza che stavo per
perdere Brenin. Tutte le vite giungono al termine e, a parte i sei mesi di
quarantena, ero felice dell'esistenza che il mio lupo aveva vissuto. Credo
che lo fosse anche lui. L'orrore della situazione consisteva nel fare quello
che dovevo fare per cercare di tenerlo in vita. Naturalmente le sue ferite
erano disgustose: puzzavano di decomposizione e il tanfo permeava tutta la
casa. Ma l'orrore non aveva niente a che fare neppure con questo. L'orrore
consisteva nella sofferenza che ero costretto a imporre a Brenin, una
sofferenza che dovevo infliggergli ogni due ore e che quasi certamente
sarebbe stata inutile. Al fondo di quella sofferenza, credo, c'era una sorta di
solitudine. Non la mia solitudine, che era irrilevante, ma quella del mio
lupo.
Brenin era terrorizzato e tutti i miei tentativi per confortarlo non potevano
modificare la situazione. È anche probabile che provasse molto dolore,
anche se non ne ero certo. Sono sicuro, invece, che la pulizia delle ferite,
che continuavo a fare ogni due ore, giorno e notte, gli faceva molto male. I
miei sforzi per pulirlo e curarlo erano inevitabilmente accompagnati da una
gamma di versi che andava dal debole gemito all'urlo fortissimo. Stavo
perdendo l'amore di Brenin: era questo che credevo. Era un pensiero
orribile, ma non ci portava al cuore dell'attuale situazione. Se solo Brenin
fosse migliorato, avrei accettato con gioia che mi odiasse per il resto della
sua vita. Questo è uno dei molti patti che, nella mia psicosi da mancanza di
sonno, strinsi con Dio. La merda aveva davvero colpito il ventilatore, ma il
mio cucciolo di lupo adesso era vecchio e stava morendo davanti ai miei
occhi. Il vero orrore era nell'idea che Brenin credesse di avere perso il mio
affetto. Continuavo a pensare che avrebbe ricordato i suoi ultimi giorni
come quelli in cui era stato torturato dall'uomo che si supponeva dovesse
amarlo. L'avevo tradito, abbandonato. E non ero il solo. Nina e Tess erano
spaventate dal suo grande collare di plastica: ogni volta che Brenin si
avvicinava, le «ragazze» si alzavano e si spostavano dall'altra parte della
stanza. Era una scena che mi spezzava il cuore, e credo che una piccola
parte rimarrà spezzata per sempre. La gente dice spesso - di solito quando
vuole essere melodrammatica - che tutti noi moriamo soli. Non so se sia
vero. Ma, mentre è facile antropomorfizzare questo tipo di situazioni, è
difficile evitare la conclusione che Brenin dev'essersi sentito completamente
solo, tradito, abbandonato e addirittura brutalizzato dal branco che era stato
la sua vita.
Io sono un consequenzialista riguardo alle questioni morali. Credo cioè
che un'azione possa essere giudicata giusta o sbagliata esclusivamente in
base alle conseguenze che determina. Sono una di quelle persone convinte
che la strada che porta all'inferno sia lastricata di buone intenzioni. Ho
sempre avuto una profonda sfiducia nelle intenzioni che, a mio parere, sono
spesso maschere, e maschere dentro altre maschere: simulazioni di cui ci
serviamo per travestire la sgradevole verità delle nostre motivazioni
autentiche. Mi dissi che avrei fatto a Brenin ciò che avrei voluto che
qualcuno facesse a me nelle stesse circostanze. Non l'avrei tenuto in vita a
ogni costo, perché io non avrei mai voluto essere tenuto in vita a ogni costo.
Se, però, ci fosse stata la speranza che io potessi riprendermi e tornare a
condurre una vita piena e appagante, allora avrei voluto che qualcuno
lottasse per me, anche se non avessi capito che cosa stava facendo. Perciò,
mi dissi, dovevo lottare per Brenin, anche se non lui capiva quello che stavo
facendo, anche se non voleva che lo facessi. È questo che continuavo a
ripetermi. Ma forse, in realtà, semplicemente non ero ancora pronto, non ero
ancora abbastanza forte, per immaginare una vita senza Brenin. Forse il mio
principio all'apparenza così nobile - fà a Brenin ciò che vorresti che gli altri
facessero a te - era solo una maschera per nascondere la mia indisponibilità.
Chi può sapere qual era la mia vera motivazione? Chi può sapere se esiste
qualcosa come una vera motivazione? E, francamente, a chi importa?
Costringendo Brenin a soffrire in quel modo, e con ogni probabilità a
morire in quel modo, stavo facendo una scommessa con la mia anima
consequenzialista. Stavo costringendo la figura più importante e fedele degli
ultimi dieci anni della mia vita a una morte piena di dolore e paura, una
morte in cui si sentiva abbandonato da coloro che amava. Se Brenin fosse
morto, le mie azioni sarebbero state imperdonabili. Non ci sarebbe stato
perdono per quello che avevo fatto, né avrebbe dovuto esserci. D'altra parte,
che cosa sarebbe successo, se avessi semplicemente rinunciato? Se avessi
rinunciato quando Brenin avrebbe potuto riprendersi? Ci aggrappiamo con
tanta forza alle nostre intenzioni perché le conseguenze sono implacabili. Le
conseguenze ci dannano se agiamo e spesso ci dannano se non agiamo.
Spesso è solo la fortuna, la fortuna cieca, che può salvare noi
consequenzialisti.
Brenin migliorò: incredibile, ma vero. Dopo circa un mese - non ho mai
avuto le idee molto chiare sull'esatta sequenza degli eventi - mi svegliai
dopo pochi minuti di sonno rubato e mi accorsi che in Brenin c'era qualcosa
di diverso. Non riuscivo a capire di che cosa si trattasse esattamente, ma
qualcosa era cambiato. Adesso lo so: Brenin mi stava guardando. Adesso mi
rendo conto che durante l'ultimo mese non mi aveva mai guardato, forse
perché pensava che, se avesse incontrato il mio sguardo, io mi sarei
ricordato che dovevo ricominciare a fargli male. Ma questo all'epoca non lo
sapevo. Il mio primo pensiero fu che era arrivata la fine. Avevo già visto
morire sia persone sia cani e sapevo che spesso le ore immediatamente
precedenti la morte sono caratterizzate da un apparente miglioramento: per
poche ore i malati sembrano riacquistare le forze, ma è solo il segnale che
stanno per andarsene. Brenin però non se ne andò. Il miglioramento
continuò anche nei giorni seguenti, diffondendosi in tutto il corpo come una
voce sussurrata tra la folla, una voce che lentamente, ma con sicurezza, si
trasformò davanti ai miei occhi in una promessa. Il suo appetito migliorò e a
poco a poco gli tornarono le forze. Nel giro di una settimana eravamo pronti
per la nostra prima uscita dopo più di un mese, una tranquilla passeggiata
nella riserva per andare a vedere i fenicotteri. I lavaggi e le iniezioni delle
ferite naturalmente continuarono, e sarebbero continuati per diverse
settimane. Ma l'infezione era debellata. E Brenin non si opponeva più alle
mie cure: se ne stava pazientemente disteso e aspettava che finissi di fare
quello che dovevo fare.
Quando ripenso a quei giorni, lo faccio sempre con una spiccata
sensazione di irrealtà. Per oltre un mese le esigenze delle terapie di Brenin
non mi avevano quasi permesso di dormire. Lo sfinimento a volte mi faceva
appisolare, ma credo che fosse sempre per pochi minuti soltanto. A volte,
quando mi svegliavo, non ricordavo che Brenin era malato. Ma poi sentivo
nelle narici il fetore della decomposizione e la situazione, nel suo orrore
senza speranza, si imponeva di nuovo alla mia consapevolezza. Dopo
qualche giorno di una simile routine cominciano le allucinazioni da
mancanza di sonno. Ce ne furono parecchie, ma la più frequente era quella
in cui ero morto e all'inferno, e così sarebbe stato per l'eternità.
E così, suppongo, è stato un lupo che mi ha rivelato tutto questo: lui era la
luce e io ho potuto vedere me stesso nell'ombra che proiettava. Ciò che ho
imparato, in effetti, è stata l'antitesi della religione. La religione vende
sempre speranza. Se sei cristiano o musulmano, è la speranza di essere
degno del paradiso. Se sei buddhista, è la speranza di ottenere la liberazione
dalla grande ruota della vita e della morte e raggiungere il nirvana. Nelle
religioni giudaico- cristiane la speranza è addirittura elevata al rango di
virtù primaria e ribattezzata fede.
La speranza è il venditore di auto usate dell'esistenza umana: così
amichevole, così plausibile. Ma non puoi contare su di lui. Ciò che più
importa nella vita è il te stesso che resta quando la speranza è svanita. Il
tempo alla fine ci porterà via tutto. Tutto quello che abbiamo acquisito con
il talento, l'operosità e la fortuna ci verrà sottratto. Il tempo ci porta via la
forza, i desideri, gli obiettivi, i progetti, il futuro, la felicità e perfino la
speranza. Qualunque cosa possiamo avere, qualunque cosa possediamo, il
tempo ce la porterà via. Ma ciò che il tempo non potrà mai portarci via è chi
siamo stati nei nostri momenti migliori.
C'è un quadro di Alfred von Kowalski intitolato Lupo solitario.
Rappresenta un lupo che, di notte, dalla sommità di una collinetta innevata
fissa una capanna di tronchi di legno, più in basso. Dal camino della
capanna si alza il fumo e la finestra è illuminata da una luce calda. La
capanna mi ha sempre ricordato Knockduff, quando in inverno rientravo da
una delle nostre passeggiate serali con Brenin e le «ragazze» che mi
trottavano davanti e, lasciandomi il buio del bosco alle spalle, mi dirigevo
verso la luce accogliente che avevo lasciato accesa in casa. Naturalmente il
quadro di Kowalski è allegorico: una rappresentazione dell'estraneo che
osserva da fuori il caldo e intimo comfort della vita di qualcun altro. Ma
forse la capanna mi ricordava Knockduff solo perché il lupo mi ricordava
me stesso e la vita che avevo vissuto.
Nella notte in cui ho sepolto Brenin, nel calore rosato della sua pira
funebre e nel pungente freddo notturno della Linguadoca, troviamo la
condizione umana fondamentale. Una vita vissuta nel calore rosato e nella
dolcezza della speranza è quella che ciascuno di noi sceglierebbe, se
potesse. Saremmo pazzi, se non lo facessimo. Ma la cosa più importante
quando arriva il momento - e il momento arriva sempre - è vivere la vita
con la freddezza di un lupo. Una vita del genere è troppo dura, troppo rigida
e noi potremmo solo avvizzire. Ma arrivano momenti in cui siamo in grado
di viverla. Sono questi momenti che ci rendono degni perché, in
conclusione, è solo la nostra sfida che ci redime. Se i lupi avessero una
religione - se esistesse una religione del lupo -, questo è ciò che ci direbbe.
Non potevo lasciare le ossa di Brenin a riposare tutte sole nel Sud della
Francia. Così acquistai una casa nello stesso paese. Nelle nostre passeggiate
quotidiane passavamo sempre a salutare il suo fantasma di pietra. Ma è da
Miami che sto scrivendo queste ultime frasi. Alla fine ho ceduto a uno di
quegli stipendi inverosimilmente esagerati di cui parlavo. Emma e io siamo
arrivati qui pochi mesi fa. Nina e Tess ci sono ancora e non occorre dire che
sono venute con noi. Nina continua a svegliarmi ogni mattina alle sei e, se
non ho mani o piedi esposti, si dà da fare con le lenzuola fino a scoprirmi.
Leccata, leccata: non sai che ci sono persone che dobbiamo vedere e posti in
cui dobbiamo andare? Ma sia Nina sia Tess cominciano a mostrare i segni
dell'età. Passano quasi tutto il giorno dormendo, accanto alla piscina, in
giardino o sul divano. Non posso più andare a correre con loro. Avevo
ripreso a correre dopo la morte di Brenin, con loro grande gioia. Ma adesso
dopo un paio di chilometri restano troppo indietro e quindi la cosa non ha
più senso. Forse per un po’ diventerò grasso e lento insieme alle mie due
«ragazze», esattamente come mi successe con Brenin. Comunque, quelle
due apprezzano molto le nostre tranquille passeggiate lungo Old Cutler
Road, dove trovano ancora l'energia per intimidire tutti i cani americani che
incontrano, di gran lunga troppo entusiasti ed eccitabili, troppo giovani, per
i loro gusti. Sono sicuro che sono molto felici di riuscire ancora a
terrorizzare tutti i cani locali. Cani e relativi padroni attraversano la strada
per evitarci. Ma è okay. Se conosco bene Nina e Tess, sono certo che
vogliono uscire di scena da cani di prim'ordine. Ma si stanno spegnendo,
tutte e due. Il caldo è davvero un bene per l'artrite di Nina: credetemi, so
come si sente.
A volte ho una sensazione, una sensazione stranissima. Quella di essere
stato un lupo e di essere adesso solo uno stupido labrador. Brenin è arrivato
a rappresentare una parte della mia vita che non c'è più. È una sensazione
dolceamara. Sono triste perché non sono più il lupo che ero. E sono felice
perché non sono più il lupo che ero. Ma, soprattutto, un tempo sono stato un
lupo. Io sono una creatura del tempo, ma ricordo ancora che ciò che conta
sono i momenti più alti - momenti sparsi lungo la vita come chicchi d'orzo
all'epoca del raccolto - non dove cominci e non dove finirai. Forse non si
può restare lupo per tutta la vita. Ma non è mai stato questo il punto. Un
giorno gli dèi decideranno di nuovo di non darmi speranza. Forse succederà
presto. Spero di no, ma so che succederà. Quando accadrà, farò del mio
meglio per ricordare il cucciolo di lupo afferrato per il collo e inchiodato a
terra.
Ma qui c'è la verità del branco: i nostri momenti non sono mai nostri. A
volte i miei ricordi di Brenin si colorano di un bizzarro senso di stupore. È
come se i ricordi fossero composti da due immagini parzialmente
sovrapposte: intuisci che le immagini sono collegate in un modo importante,
ma sono troppo confuse per distinguerle bene. E poi, all'improvviso, le
immagini convergono, di colpo a fuoco come quelle di un vecchio
caleidoscopio. Ricordo Brenin accanto a me, lungo le linee di touche del
campo da rugby a Tuscaloosa. Lo ricordo seduto vicino a me alle feste del
dopopartita, quando le belle ragazze dell'Alabama si avvicinavano e mi
dicevano: «Adoro il tuo cane». Lo ricordo correre con me nelle strade di
Tuscaloosa e, quando tali strade si trasformano nei sentieri della campagna
irlandese, ricordo il branco che mi correva accanto, adeguando il passo al
mio. Ricordo tutti e tre saltare come salmoni nei mari d'orzo. Ricordo
Brenin che muore tra le mie braccia sul retro della jeep quando il veterinario
gli conficca l'ago nella vena della zampa anteriore destra. E quando avviene
la convergenza delle immagini, mi domando: quello ero proprio io? Sono
stato proprio io a fare quelle cose? Quella è davvero la mia vita?
Questa percezione a volte mi colpisce come una scoperta vagamente
surreale. Non è me che ricordo lungo la linea di touche a Tuscaloosa: è il
lupo che mi camminava accanto. Non è me che ricordo alle feste: è il lupo
che mi sedeva vicino e le belle ragazze mi rivolgevano la parola grazie a lui.
Non è me che ricordo correre lungo le strade di Tuscaloosa o i sentieri di
campagna di Kinsale: sono i lupi che adeguavano il loro passo al mio. Il
ricordo di me stesso è sempre rimosso. Che addirittura io sia in quei ricordi
non è scontato: a volte è un bonus fortuito che dev'essere scoperto.
Non ricordo mai me stesso. Ricordo me stesso solo attraverso i miei
ricordi di altri. E qui ci troviamo a confrontarci in modo decisivo con la
fallacia dell'egoismo, l'errore fondamentale della scimmia. Quello che
importa non è ciò che abbiamo, ma chi siamo stati quando eravamo al
nostro meglio. E chi eravamo quando eravamo al nostro meglio ci è rivelato
solo in certi momenti, i nostri momenti più alti. Ma i nostri momenti non
sono mai del tutto nostri. Anche quando siamo davvero soli, quando il pit
bull ci tiene bloccati a terra e noi siamo solo cuccioli facili da fare a pezzi, è
il cane che ricordiamo, non noi stessi. I nostri momenti - quelli più
meravigliosi e quelli più terrificanti - diventano nostri solo attraverso i
nostri ricordi di altri, che questi altri siano buoni o cattivi. I nostri momenti
appartengono al branco ed è attraverso il branco che ricordiamo noi stessi.
Se io fossi stato un lupo invece di una scimmia, di me si sarebbe detto che
ero un solitario. A volte un lupo lascia il proprio branco e si allontana nei
boschi per non tornare mai più. Ha iniziato un viaggio e non farà più
ritorno. Nessuno sa perché alcuni lupi si comportano così. C'è chi ipotizza
un desiderio genetico di riproduzione, unito all'indisponibilità di aspettare il
proprio turno per risalire la gerarchia del branco. Alcuni sostengono che i
lupi solitari siano esemplari particolarmente asociali che, a differenza dei
lupi normali, non gradiscono la compagnia dei loro simili. Io posso
identificarmi, a modo mio, in entrambi i soggetti ipotizzati. Ma chi lo sa?
Forse certi lupi pensano semplicemente che là fuori c'è un grande, vecchio
mondo e che sarebbe un peccato non vederne la maggior parte possibile. In
realtà non ha importanza. Alcuni lupi solitari muoiono soli. Alcuni, quelli
fortunati, incontrano altri come loro e formano nuovi branchi.
E così, per una strana svolta del destino, la mia vita adesso è la migliore
che abbia mai avuto, almeno a giudicare da quanto sono felice. Mentre
scrivo queste parole, Emma è ormai pronta a entrare in travaglio. Bè, in
realtà lo è già da qualche giorno. Ci sono parecchi, chiari segnali uterini, ma
niente di abbastanza organizzato o regolare da risultare decisivo. In ogni
caso vivo nella speranza. Mi aspetto che da un momento all'altro mia
moglie mi chiami per dirmi di prendere la valigia e accompagnarla al South
Miami Hospital. Perciò devo essere breve. Dopo quarant'anni da solitario
irrequieto e senza radici, finalmente ho trovato un branco umano. Il mio
primo bambino, mio figlio, nascerà da un giorno all'altro e ho la sensazione,
un sospetto insinuante che non riesco a scrollarmi di dosso, che succederà
proprio oggi. E spero che questo non lo costringa a vivere all'altezza di
aspettative troppo alte, ma penso davvero che potrei chiamarlo Brenin.
Brenin, mi preoccupano le tue ossa, che riposano a cinquemila chilometri
di distanza in Francia. Spero che tu non ti senta troppo solo. Mi manchi e mi
manca vedere ogni mattina il tuo fantasma di pietra. Ma, se gli dèi vorranno,
presto il nostro branco sarà di nuovo lì, per l'estate senza fine della
Linguadoca. Fino ad allora dormi bene, fratello lupo. Ci incontreremo di
nuovo nei sogni.
Ringraziamenti